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Sul Ciglio dell'Acqua
Sul Ciglio dell'Acqua
Sul Ciglio dell'Acqua
Ebook344 pages4 hours

Sul Ciglio dell'Acqua

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About this ebook

Sei storie che, come pagine di un frammentato diario, narrano altrettante giornate della vita dell’autore-protagonista, emofilico in carrozzina. È proprio Enrico Gentili che, rinunciando a ogni “diaframma letterario” tra sé e i lettori, decide di mettersi in gioco in prima persona narrando alcuni momenti significativi della propria vita. Le sei storie sono cronologicamente ordinate dalla più antica (aprile 1975) alla più recente (luglio 2007).
LanguageItaliano
Release dateApr 3, 2014
ISBN9788862599139
Sul Ciglio dell'Acqua

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    Sul Ciglio dell'Acqua - Enrico Gentili

    Sul Ciglio dell’Acqua

    Enrico Gentili

    EDIZIONI SIMPLE

    Via Weiden, 27

    62100, Macerata

    info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

    ISBN edizione digitale: 978-88-6259-913-9

    ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-154-6

    Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

    Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

    Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

    Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

    Prima edizione cartacea ottobre 2009

    Prima edizione digitale aprile 2014

    Copyright © Enrico Gentili

    Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.

    A Gianni, che ha sofferto più di quanto si possa soffrire.

    Che ha capito più di quanto si possa capire.

    Che ha dipinto più di quanto gli occhi possano vedere

    e la mente immaginare.

    Sommario

    Juanito Flores

    Polverina d’angelo

    L’abisso di Maratea

    Le Maldive sotto Capodarco

    Due finestre

    Oceani privati

    Juanito Flores

    Aprile 1975

    Sono convinto che fra un pò dormiranno tutti. Intorno a me vedo tanti volti stanchi, tanti sguardi disperati, tanti corpi pesantemente abbandonati sui sedili, in attesa di un qualsiasi spazio di tempo per dimenticare, ad occhi chiusi, sprofondati nel sonno che separa dalla Vita e dalle estreme delusioni.

    Quando siamo partiti da Fiumicino era tutta un’altra cosa, c’era un entusiasmo anche troppo esagerato; risate, battute, conversazioni da tutte le parti.

    Per me è vero il contrario.

    Sono partito spento, ad occhi chiusi, e ora torno con gli occhi spalancati, cuore e cervello che vanno a mille; più o meno come questo vecchio DC8 appena decollato, in rotta per le sue prossime diciotto ore di volo, carico al massimo della sua portata.

    All’aeroporto di Manila mi hanno lasciato tenere lo strano banjo che ho comprato a Baguio. Ha la cassa armonica della stessa forma dei nostri classici mandolini, ma la cordatura sembra fatta con una logica musicale incomprensibile, almeno per me. Se faccio piano dovrei riuscire a non disturbare nessuno. Più tardi cercherò di dargli un’accordatura in la. Ha cinque coppie di corde molto vicine l’una all’altra, mischiate con tre corde singole piazzate senza un’apparente regola, la più grossa al primo posto, la seconda al terzo e l’altra al penultimo.

    Questo rebus musicale mi farà compagnia insieme al diario, visto che sono sicuro di non dormire, neanche dieci minuti. Lo so, sarà come è stato a Dagupan e poi a Manila.

    Posso dormire solo di giorno. Il risveglio, nella stessa giornata del sonno, non può cambiare nulla, non posso perdere ciò che ho conquistato.

    Quando invece c’è di mezzo la notte e il passaggio da una data all’altra è diverso. Ad ogni giorno nuovo c’è sempre il rischio di dover ricominciare tutto da capo.

    Non ho paura di cedere al sonno, sono intimamente convinto che riuscirò a portare tutto a Roma, tutto il bagaglio che ho addosso, che mi sento dentro.

    Davanti a me il ciuffo dei capelli ispidi di Alessio spunta perentorio dalla sommità del sedile dove è sprofondato il suo corpo di dodicenne altissimo e gonfio per il cortisone. Non riesco a togliermi dagli occhi la faccia che ha fatto quando Flores ha parlato di tumore delle ossa con il padre.

    Sicuramente dorme, altrimenti starebbe girato verso di me a raccontarmi della sua Pallacanestro. Mi ha fatto una piccola smorfia prima di allacciarsi la cintura, nient’altro.

    Un decollo ben eseguito, lineare, senza strappi o esitazioni. La sensazione di essere in aria mi fa sentire ancora più leggero; come se non bastasse, per questo, tutto ciò che ha già fatto Juanito.

    Ho ancora sete, questi sono stati quindici giorni di sete aspra e continua. Per fortuna sono riuscito a bere soltanto acqua, se mi fossi riempito di bibite dolci e gassate sarebbe stato molto peggio, e poi non potevo mica bagnarmi la faccia con la coca cola o con l’aranciata!

    Qui dentro l’aria condizionata è fin troppo forte, non avrò certo bisogno di rinfrescarmi e forse anche la sete calerà.

    Manila-Bangkok, Bangkok-Karachi, Karachi-Roma, Roma-Montegiorgio.

    Se terminerò il diario di queste due settimane qui in aereo tornerò a casa più tranquillo, in fondo si tratta soltanto di raccontare un paio di dozzine di giorni e poco più.

    Sì, poco più di questo.

    Non è vero.

    Come mi sembra lontana quella trasmissione alla radio, Chiamate Roma 3131, la voce di Corrado Guerzoni è molto suggestiva, la sento ancora nella testa; la misura e l’acutezza della sua intelligenza sono state fondamentali per la mia decisione di partire. Se avesse trattato l’argomento in modo diverso probabilmente adesso non mi troverei dentro questo aereo.

    Lui, il Dott. Forte di Milano e Roberto, il liutaio di Bologna, sono stati i miei maestri di saggezza per questa folle avventura. Nessuno di loro ha mai parlato di miracoli, né di poteri paranormali.

    Questo diario sarà probabilmente l’unico luogo, l’unica occasione, per raccontare la mia verità, quella verità che speravo di incontrare e che in effetti ho trovato. Agli altri, a tutti gli altri, compresi i miei genitori, dovrò concedere una recita paziente, una finzione necessaria, partecipando alle discussioni su muscoli, equilibrio, ematomielia e quant’altro.

    Dovrò essere fermo e tenace nel mantenermi sempre vicino alla mia verità, sarò circondato da sguardi e pensieri di tutti i tipi, che però non dovranno contaminarmi.

    Né la pietà, né il cinismo, e nemmeno l’entusiasmo isterico potranno toccarmi.

    Se la dimenticanza porrà la sua minaccia sopra la mia testa, potrò rileggere le pagine che sto per scrivere.

    Tiziana è sull’altra fila di fianco alla mia, la guardo con la coda dell’occhio per evitare che si accorga di me, ha gli occhi fissi, attoniti. Sono quasi due giorni che non parla a nessuno, non risponde nemmeno al saluto.

    La sua figura, alta e massiccia, male si armonizza con quei capelli così corti su di una testa tanto piccola; sembrano un addobbo posticcio.

    Ha gli occhi di un cane abbandonato, sembrano sempre implorare. Si vede subito dov’è il suo male. Flores le ha sempre messo le mani sulla testa, soltanto sulla testa, ma non è un tumore al cervello, e nemmeno epilessia, ne sono convinto.

    Io e lei siamo stati gli unici a non voler far visite con altri guaritori.

    Roberto mi disse che è meglio non mischiare certe energie, ma Roberto mi ha detto tante altre cose. Devo assolutamente ricordarle tutte, scriverle con chiarezza, come si fa con un lavoro scolastico, come facevo con le relazioni che mi chiedeva di scrivere il Professor Luzi al Liceo.

    Anche Renzo e Attilio non si sentono più. All’andata scandalizzarono le hostess giocando chiassosamente a carte sopra i sedili reclinati. Il dialetto romano del primo e la calata anconetana del secondo si mischiavano al sibilo dei reattori, in fondo mi aiutavano a ricordare la terra sotto ai piedi che non c’era più da diverse ore.

    Amici di magrezza e di colorito, quello del cancro, amici di malattia e di speranza. Ora tacciono anche loro.

    Durante la prima settimana non c’era serata che non organizzassero una spaghettata all’italiana, avevano riempito due valige con spaghetti e passata di pomodoro.

    Quando li hanno finiti hanno girato tutto Baguio fino a che si sono imbattuti nel classico, immancabile, ristorante italiano di un campano di Aversa. A spaghetti e pomodoro aggiunsero olive, parmigiano e vino rosso.

    Poi hanno smesso, gli ultimi giorni non si parlavano neanche tra di loro. Attilio diceva che si sentiva peggio di quando era partito. Renzo faceva le visite dai tre o quattro guaritori che aveva contattato nella zona, spostandosi con una enorme Ford Mercury a pagamento, poi si chiudeva in camera per tutto il resto della giornata.

    Mi viene da pensare che questo gran giro di visite possa essere stato eccessivo, ma chi poteva ritenersi veramente esperto di queste faccende?

    Io lo ero, lo sono? Su quali verità si fondano le mie opinioni in materia? Ho seguito ciò che mi ha detto il cuore o ciò che mi ha suggerito la mente?

    Roberto ha una bellissima villetta sulle colline sopra Bologna, tutta a piano terra, con grandi stanze pavimentate in cotto scuro, arredate con pochissimi mobili e tanti grandi cuscini appoggiati ovunque.

    Lui è stato nove mesi a casa di Juanito Flores, lavorava il giunco e costruiva flauti per tutto il villaggio, così ha salvato la sua gamba rotta in dodici parti per un incidente con la moto. Quella gamba in Italia volevano tagliarla.

    La moglie con i capelli ricci e rossi preparò un thè con la cannella mentre io suonavo una delle sue chitarre: «Juanito è l’ultimo rimasto dell’antica tradizione dei guaritori, non si è fatto corrompere dal grande giro di denaro che vortica intorno ai cosiddetti viaggi della speranza per le Filippine. Io ti consiglio di andare da lui, solo da lui. È insolitamente alto rispetto alla media dei filippini, ed è un grande fumatore di sigarette alla menta!»

    Due giorni dopo l’arrivo a Manila abbiamo organizzato quella specie di primo pellegrinaggio sgangherato, a bordo di un pullman degli anni Sessanta che portava sopra al tetto un paio di grosse gomme di scorta legate con una corda.

    Al ritorno abbiamo preso un taxi insieme con Alessio e il padre. Abbiamo detto, quasi in coro, «mai più con la corriera!» Il fatto di essere marchigiani ci ha spinto a socializzare quasi obbligatoriamente. Per la verità Guido, il padre di Alessio, non mi è molto simpatico.

    Dopo quella volta anche gli altri componenti del gruppo hanno optato per i taxi, cercando di riempirli e dividere le spese, sempre molto alte, a causa dei tassisti approfittatori, saldamente coalizzati tra di loro.

    Noi italiani eravamo una quindicina, poi c’era un gruppo di signore americane e alcuni tedeschi. L’itinerario prevedeva la prima visita al villaggio di Flores, un gruppo di capanne appoggiate a sottili e alte palafitte, nella zona tra Mangaidan e San Jacinto. Nel pomeriggio ci saremmo stabiliti nell’Hotel sul mare davanti a Dagupan. È cominciato tutto così.

    Dei primi due giorni nella capitale porto il ricordo di un lungo sonno in una bella stanza di un lussuoso Hotel del centro, e di un interminabile giro a bordo di un taxi arancione pagato con molti pesos.

    Le strade erano piene di vecchie jeep americane modificate in tutti i modi: da corsa, con enormi ruote e pistoni esposti sopra al cofano; da piccoli furgoni, con le pareti in lamiera di tutti i tipi, attaccata qua e la alla meno peggio; da mini pullman, con il piano posteriore aperto e prolungato. In questo caso la quantità di persone imbarcate, appoggiate su ogni centimetro libero, era sempre fenomenale. Erano pitturate con ogni colore e ogni fantasia immaginabile: madonne, fiori, ritratti di persone e animali.

    Ci hanno fatto anche l’onore di portarci lungo gli unici 30 km di autostrada del paese. Il manto stradale era fatto con piastre di cemento lunghe una decina di metri ognuna, con profondi solchi di separazione tra una e l’altra che ci facevano sobbalzare ogni volta.

    Tiziana mi ha voluto riferire, con aria misteriosa e compiaciuta, che Lucia aveva vomitato. Sembrava contenta del fatto di non essere lei la sola a fare figuracce.

    Il traffico era caotico, apparentemente senza regole. Carretti tirati da piccoli cavallini si incrociavano con Jeep stracolme di gente e BMW potentissime; tutti dappertutto e in tutte le direzioni.

    Mi dispiace un pò che la signora Lucia con suo marito stiano lontani dal mio sedile, con quella sua parlata toscana così accattivante ha sempre una parola carina e un sorriso per tutti.

    Lei accompagna lui, anche in questo caso si capisce dal colorito, oltre che dallo sguardo: «Signor Enrico, che bel giovane, ma che ci fa lei in mezzo a questa squadra di vecchie ciabatte?»

    Tiziana me lo ha detto il giorno dopo la prima visita, con il suo accento romanesco un pò arrogante e perfido: «Io e te siamo gli unici curabbili, ma che ci vengono a fare dal guaritore se stanno in ste condizioni! Non hanno capito niente di come funzionano certe cose!»

    Io non ho risposto, mi è sembrata una cattiveria; Tiziana non sa trovare la misura giusta, secondo me soffre di disturbo bipolare ed è per questo che si trova qui. Comunque mi piace; sulla spiaggia dell’hotel abbiamo messo in continuazione un pezzo dei Led Zeppelin: Stairway to Heaven. Ad un certo punto il Juke-Box non prendeva più la programmazione: L-7.

    La scala per le stelle, chissà che non sia questa. Qui, dentro questo enorme tubo di dentifricio con le ali, a un passo dal vuoto cosmico.

    A proposito del capolavoro dei Led Zeppelin lei, davanti al mare, sosteneva una tesi satanica che non ho capito molto bene; pare che il testo della canzone, cantato all’incontrario, riveli una specie di messaggio d’amore luciferino. Le ho detto che secondo me sono sciocchezze, scatenando in lei un’interminabile polemica che sono riuscito a placare solo con una battuta: «Va bene Tiziana, non ti agitare, se anche fosse vero ciò che dici, io credo che alla fine dei discorsi anche il demonio è in fondo soltanto un povero diavolo!»

    Ha sorriso e si è un pò calmata.

    Disturbo bipolare, o psicosi maniaco-depressiva, non sono sicuro se c’è e quale sia eventualmente la differenza. Forse un giorno trasformerò la mia dilettantesca passione per la psicologia in qualcosa di più serio. Nella valigia avevo riposto tre libri sulla materia, ma non ho avuto voglia di leggerli: Il Potere Personale di Karl Rogers, Manuale Critico Di Psichiatria di Jervis e Psicocibernetica di Maxell Maltz.

    Ho letto soltanto la raccolta di fantascienza di Philip Dick.

    Pagine stralunate che assomigliano tanto a questi giorni stralunati.

    Non conosco il nome e la provenienza di tutti i componenti del gruppo italiano, me ne mancano quattro o cinque. Per esempio non so nulla di quel distinto signore che ci fece quella sorprendente offerta il giorno dopo la prima visita.

    È sicuramente un lombardo, dovrebbe essere anche molto facoltoso. Per due settimane non ha fatto altro che indossare completi diversi, tutti di lino; uno celeste, un altro panna e un altro ancora nocciola. Spesso li accompagnava con un panama chiaro, portato con molta classe.

    La stessa classe con la quale indossa la sua malattia, che comunque l’eleganza e il portamento così nobili non riescono a nascondere: «Se mi permettete volevo dirvi che mi offro volentieri per sostenere le spese di un vostro soggiorno molto più prolungato, non c’è problema, lo faccio molto volentieri. Ho visto che il vostro ragazzo ha già avuto grossi risultati, forse vi conviene restare più a lungo».

    Mio padre e mia madre risposero grazie all’unisono, ma ognuno di noi tre, in realtà, non vedeva l’ora di tornare a casa. Certe cose devi farle per non lasciare niente di intentato e non avere rimpianti, ma prima finiscono meglio è.

    Meglio era.

    Allora, all’inizio del viaggio. Ora è diverso.

    Lui si alza spesso dal suo posto e cammina lungo il corridoio dell’aereo come se avesse sempre qualcosa di importante da fare. Quando passa lascia dietro di sè una piacevole essenza di lavanda. Sembra accorgersi di tutto e non l’ho mai visto portare gli occhiali da sole, nemmeno quando la luce prossima al Tropico era accecante.

    Si è accorto di quando sono sceso dal taxi al ritorno dalla prima visita, e forse si è accorto anche di quando la madre di Juanito si è avvicinata a me all’entrata del villaggio. Felipe, la guida dell’ambasciata Italiana a Manila che ci ha gentilmente accompagnato, traduceva quelle parole appena sussurrate in una lingua-dialetto che mi sembrava di aver già sentito altre volte. Forse il signore lombardo ha sentito anche quella strana conversazione.

    «La signora è madre di Juanito Flores, dice di aver fede guarigione perché suo figlio, come dire, bravo trattare casi come suo. Dice che, insomma, specializzato per problemi così».

    La vecchietta, piccola piccola, magra e con le rughe del volto talmente profonde da nascondere quasi del tutto il minuscolo naso, gli occhi e gli altri tratti del volto, mi ha poi preso per mano per accompagnarmi dentro la capanna che fungeva da chiesa e da ambulatorio.

    Ha chiamato il figlio con voce improvvisamente stridula: «Uinito!» Detto così sembrava un altro nome. Voleva che fosse lui a spingere la mia carrozzina.

    La fila dei pellegrini d’occidente si è così fermata a lungo, in attesa che la volontà dell’anziana si realizzasse. Io mi vergognavo perché sembrava che il guaritore fosse, già al primo incontro, incline a fare preferenze.

    Sentivo che tutti, dietro di me, avrebbero desiderato lo stesso trattamento.

    «Uinito, Uinito!»

    Il signore col panama mi stava proprio di fianco.

    Vorrei che mi parlasse ancora, vorrei che si fermasse un attimo vicino al mio sedile per farmi qualche domanda, o per dirmi una qualsiasi cosa.

    Vorrei che tutto il gruppo mi parlasse, vorrei tanto non essere l’unico che torna a casa veramente vivo.

    All’imbarazzo si è presto sostituita la paura.

    Quel giovane allampanato, con le sue lunghe mani sottili, mi stava portando dentro una specie di stalla, vicino all’entrata razzolavano diversi piccoli maiali completamente neri, e alcune galline.

    Quante e quali cose possono accadere dentro una capanna, dentro una stalla? Era ormai chiaro che sarei stato la prima visita della giornata.

    Le Hostess della KLM non sono poi tanto belle, e nemmeno tanto gentili, o forse è il mito delle signorine d’aereo ad essere esagerato. Hanno spento tutte le luci. Sul quadrante anomalo e veloce del tempo che va a 800 km all’ora, è il momento di attraversare un breve riposo. Andiamo ad ovest, il risveglio sarà vicino a ieri.

    Io ho ancora la luce accesa sopra a queste pagine, così la bionda alta mi ha raccomandato, in uno stentato italiano, di non disturbare. Dovrò scrivere usando soltanto il faretto direzionale.

    In questo momento non c’è più sofferenza dentro l’aereo, il sonno lascia libere le cellule malate di corrodere la Vita, senza più il tormento del pensiero e delle emozioni che piangono, si oppongono oppure si arrendono.

    Posso raccontarmi la prima cura?

    Uinito assomiglia al giovane Fabrizio De André, quindi non può farmi del male.

    Ha gli occhi molto grandi e distanziati, ma li tiene quasi sempre socchiusi, spesso ride in risposta a ciò che gli viene detto e aggiunge: «okay!»

    Come posso spiegargli in poche parole la mia Emofilia?

    Vorticosamente le opinioni degli esperti si accavallano nella mia coscienza, mentre mi aiuta a distendermi sul tavolaccio che la madre ha liberato, con mossa rapida, dalla coperta utilizzata per le funzioni religiose.

    Sarà una specie di seduta fisioterapica, o kiropratica, sarà un’esperienza di pranoterapia, o soltanto teatro povero, prestidigitazione in buona fede, oppure consapevole e colpevole raggiro?

    Sarà un incontro con lo Sciamano, o peggio con lo stregone? Mi permetterà di tenere calzoncini e canottiera?

    «My blood do not stop! My blood do not stop!»

    Sul piano arrangiato, in legno, di una specie di altare orientale, sta per compiersi l’assurdo sacrificio di un giovane che si rovinerà nel tentativo di migliorarsi.

    «Ah okay, okay, trankilo!»

    Massaggi forti, potenti, con le mani e le dita sprofondate dentro i percorsi dei muscoli e dei tendini, mobilizzazioni degli arti portate ai livelli estremi di funzionamento delle articolazioni, con lentezza esasperata, unita a una stretta ferrea. Rimescolamenti e posture mai conosciute prima, che il mio corpo assorbiva ed assumeva guidato dalle sue braccia nervose, piene di vene molto evidenti.

    Pressioni in ogni zona corporea del mio essere, ossa che scricchiolavano o addirittura sembravano quasi esplodere per lo sforzo al quale erano sottoposte.

    Nulla di tutto questo era però doloroso. Si trattava di una intensità inaudita, preoccupante, perché così vicina al trauma, al punto di rottura tanto delicato e pericoloso, soprattutto per i lontani discendenti dei Romanov, ma non superato, mai portato oltre il limite di un buon senso e di una conoscenza naturali, tanto difficili da rilevare per me, in quei frangenti, ma comunque presenti e determinanti.

    «Giugiuba, giugiuba oil».

    Adesso che vorrà fare?

    Così mi ha unto gli arti; spalmato, impastato con quell’olio ambrato pieno di semi, contenuto dentro una bottiglia di vetro chiaro che lasciava intravvedere la grande quantità di piante al suo interno.

    L’odore era forte ma piacevole, lo respiravo ad occhi chiusi arrendendomi a una stanchezza profonda e pacifica che cominciava a impossessarsi di tutte le mie membra.

    Pensavo il male; che avrei sanguinato da ogni parte, che avrei dovuto prendere con urgenza un aereo che mi permettesse di atterrare vicino a Venezia, per poter raggiungere velocemente il centro Ematologico, oppure pensavo che sarei morto nelle Filippine.

    Pensavo il male, ma non potevo fare a meno di sorridere, di ridere, anche guardando la platea di spettatori internazionali che aveva assistito allo spettacolo del mio corpo in mano a Uinito.

    Un’ironia forse amara, ma leggera: «Guarda tu che sto facendo!»

    La capanna si era riempita ma, con sguardi stravolti, molti preferirono uscire. Il signore col panama era invece in prima fila, vicino ai miei che tacevano perplessi.

    Uinito mi batte la mano sul petto mentre fuma una sigaretta alla menta, ride, con gli occhi grandi, dietro a quelle strette fessure delle palpebre. La madre mi fascia con delle bende bianchissime gomiti e ginocchia, dopo aver messo a contatto della pelle alcune bacche scure, anch’esse molto aromatiche; le ferma abilmente con la fasciatura, poi fa un cenno alla nostra guida.

    Felipe si avvicina prontamente e comincia a tradurre le sue raccomandazioni.

    Mi daranno una scorta di quelle bacche nere da portare a casa, dovrò metterle a contatto con le principali articolazioni tutte le sere, tutto questo dovrebbe servire per ridurre l’insopportabile spasticità della muscolatura.

    Il dottor Forte mi aveva assicurato proprio questo: «Per quanto riguarda il problema degli spasmi può esser certo di ottenere un miglioramento deciso. Per tutto il resto non posso dire altrettanto».

    Avevo letto che a Milano lui era ritenuto uno specialista delle medicine alternative e primitive, ma questa qualifica fu da lui stesso subito rifiutata: «Non esistono medicine alternative e medicine ufficiali, esistono solo cure che funzionano e non, in diverso grado e per diversi motivi, che dobbiamo conoscere sempre meglio».

    Quando ha cominciato a parlarmi Juanito, mi sembrava di capirlo senza bisogno di ascoltare la traduzione di Felipe, la sua voce profonda aveva sfumature allegre.

    A giorni alterni dovrò cercare di farmi massaggiare e muovere in un modo simile al suo, a casa mia, con comodo, una volta tornato in Italia: «Bela Italy! Okay, okay Ericu!»

    L’Italia? Dov’è l’Italia?

    Dov’era la casa da dove eravamo partiti, in quei momenti, dentro quella capanna? Tutto sembrava perso e irrimediabilmente lontano, tanto diverso e inimmaginabile da rendere impossibile un vero ritorno.

    Sono venuto a morire qui, in questo arcipelago che può diventare un paradiso solo per i Naturalisti o gli Archeologi. Ecco la verità, la verità di questo viaggio.

    «Flores dice lei muovere in continuazione, non più stare letto come fatto ultimi anni».

    Come fa a sapere queste cose, chi gliele ha potute dire, come si permette di parlarmi così?

    «Dice che lei trovare moglie e avere figli, tanti figli, e lavorare, anche lavorare».

    Ma che razza di deficiente! Nemmeno un povero prete di campagna mi farebbe una predica così stupida!

    «Sì, sì, va bene, va bene, grazie grazie, ma adesso gli dica di farmi scendere da questo banco di macelleria, per favore, glielo dica!»

    Non è nemmeno cominciata la traduzione delle mie parole, che mi arriva una dolorosa stretta sul braccio.

    Uinito mi afferra e mi guarda dritto negli occhi, a un palmo dalla mia faccia; adesso alza la voce e sembra arrabbiato, ripete per tre o quattro volte la stessa frase, poi fa un cenno brusco alla guida invitandolo a tradurre con sollecitudine.

    «Deve credere, credere, dice che deve credere!»

    Adesso suono il campanello così chiedo quanto manca per il primo scalo a Bangkok e mi faccio portare qualcosa da bere, la sete non è affatto calata.

    "Mi ha mortificato, mi ha offeso, mi ha ferito, non voglio guardarlo negli occhi, voglio solo scendere da questo lurido tavolaccio prima che per me sia troppo tardi.

    Che vergogna, davanti a tutte queste persone, ma che mi è venuto in mente, che razza di follia, e quanti soldi ho fatto buttare via a mio padre!"

    Sento un braccio che si infila sotto le mie ascelle passando dietro alla schiena, un altro contatto mi prende sotto le ginocchia. Flores mi sta sollevando per portarmi via, non so dove; grido un no forte e arrabbiato, intravvedo mia madre che si alza di scatto dalla panca in prima fila.

    Mi ripete un’altra frase, complessa, diverse volte, con voce calma e profonda, so che non si tratta nemmeno di una vera lingua; è una specie di idioma quasi incomprensibile, difficile anche per Felipe che, tra l’altro, è rimasto nella capanna. Stiamo uscendo.

    La madre è rimasta a tener buoni i pellegrini, lui mi porta via come si farebbe con un figlio ferito, o per gioco, o con la sposa da far entrare nella nuova casa.

    La vergogna sconfinata cede all’arrendevolezza: «Lascia che tutto accada Enrico, lascia pure che tutto accada».

    Entriamo nella prima stanza di una piccola abitazione, forse la stessa dalla quale l’ho visto uscire quando siamo arrivati, oramai un secolo fa.

    Mi depone delicatamente sopra a una vecchia poltrona sbrindellata, arricchita con due sottili cuscini a fiori sbiaditi; continua a ripetere quella

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