La Fossa del Morto
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La Fossa del Morto - Ferdinando Francia
(2014)
UNO__ LA VITA RIPRENDE
La natura è sempre stata cattiva. Essere contadino lo faceva ricordare ogni giorno, se non veniva domata, ti strangolava, non ti permetteva di mangiare, di camminare. Non era neanche bella, perché la vegetazione si mischiava, s’intrecciava; solo quella più forte, più alta, più infestante riusciva a sopravvivere, ma anche quella fruttificava meno, si contorceva chiedendo all'uomo di essere tagliata, sistemata, alla stregua della chioma degli esseri umani.
Per Armando aver prestato ben due anni di servizio militare, aveva significato ritrovare il suo pezzo di terra simile ad una giungla in miniatura. D'altronde gli amici a cui aveva lasciato il compito di accudire il somaro e gli altri animali da cortile, tenuti alla presella lasciatagli dal nonno, non erano contadini.
Leopoldo, suo amico fraterno e suo coinquilino, prima che se ne andasse aveva la mansione di capo buttero, non aveva certo tempo di coltivare, mentre il figlio di lui, Enea, era ancora troppo piccolo. Avevano fatto del loro meglio, ma se vigna ed alberi non venivano potati ogni anno, scappavano.
La presella era un piccolo appezzamento di terra perfettamente rettangolare uguale ad altri d'intorno, ciascuno separato da una siepe di arbusti vari, piantati perfettamente sul confine e tenuti ben potati da ambo i lati, poiché ogni proprietario non si poteva permettere di perdere neanche un metro di terreno.
Le poche viti che erano d'intorno al casotto avevano alcuni dei tralci lunghi adagiati a terra e serpeggiavano nell'erba, altri che si arrampicavano sugli alberi vicini, senza far differenza di specie o grandezza, si inerpicavano tra le fronde, ben sorrette con piccoli uncini arrotolati.
Il matrimonio e la successiva discesa insieme alla neo-sposina verso la zona della mietitura, dove il marchese aveva molte staia di campi piatti strappati alla palude ed ora coltivati a grano, non gli avevano permesso di prendere capo alle cose sue; bisognava che prima guadagnasse qualche soldo, ma adesso era giunto il momento di rimettere in riga la natura di sua proprietà.
Prese, dalla capanna, la piccola panca di legno realizzata con una singola tavola di noce, alle cui estremità erano stati tassellati due fori, dentro i quali era innestato un legno a forcina. In questo modo si avevano quattro gambe regolabili in direzione, adatte per assecondare il terreno sconnesso. La mise accanto al lato della capanna che guardava la presella e appoggiando la schiena al muro si mise ad osservare.
Muoveva gli occhi lentamente, la larghezza del pezzo di terra era limitata ad una cinquantina di metri e non c'era bisogno di ruotare anche la testa, che poteva così essere appoggiata immobile al muro bitorzoluto.
Il sole di fine estate non era ancora alto in cielo e permetteva di avere una buona vista del tutto.
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Non era ancora mezzogiorno che apparve MariaElena col fagotto del mangiare, un bel pentolino con coperchio stretto in un ampio tovagliolo annodato sopra, infilato dentro un sacco di stoffa spessa, blu, con i manici, insieme ad un fiasco di vino ed uno d'acqua. Benché fosse da poco tempo in Maremma, la giovane moglie aveva già imparato a fare l'acquacotta, come le avevano insegnato le altre mietitrici nelle pur brevi nottate d'estate giù in pianura, nel periodo della raccolta del grano.
L'acquacotta: un soffritto di sedano e cipolla, con l’aggiunta di molto pomodoro che, una volta addensato, andava ricoperto d’acqua, fatta bollire fino a fare un brodo rosso. Appena omogeneo, due uova sbattute, buttate giù insieme ad un uovo a testa intero; tre minuti più e poi con un mestolo si versava il tutto su del pane raffermo posto a fette sottili su di un pentolino o vassoio. Cacio a scelta.
Da dopo la veloce luna di miele, per tutta l'estate avevano avuto sempre poco tempo per rimanere soli o perlomeno non abbastanza per quanto serviva loro. Dormire nei pagliericci di un podere nella zona della mietitura, giù a Telamonio, vicino al mare, insieme ad altre decine di persone, non era proprio la situazione di intimità più favorevole per due giovani sposi pronti a procreare.
A MariaElena però era piaciuto, per lei era stata una novità assoluta, sia dei paesaggi, sia del clima, che del tipo di lavoro, massacrante sì, ma sempre meno che portare balle di fieno su e giù per le sue montagne, irte e terrazzate. Stare tutto il giorno abbassati con la falce, a tagliare gli steli delle spighe, faceva sentire mal di vita, ma risparmiava le spalle e le gambe, rispetto alla preparazione dei castagni o al taglio dell'erba, lavori principali in quella stagione nella sua zona di origine.
Fu per l'astinenza forzata dal troppo lavoro che appena la vide, la prese, e mettendosi tra la siepe non ancora sistemata ed un albero cominciò a baciarsela. Lei dopo averne resi parecchi, vergognosa, cominciò a guardarsi intorno.
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Lui la guardò sorridendo e vedendola così imbarazzata <
Mentre Armando riprese a tagliare la siepe, MariaElena raccoglieva gli sterpi e ne faceva delle fascine che sarebbero in parte state lasciate per accendere il fuoco d'inverno ed in parte bruciate sul posto appena finito il pericolo di provocare un incendio.
Continuarono per tutto il pomeriggio nella parziale ripulitura del campo, quindi attaccarono il somaro al barroccio e se ne tornarono a casa. Glielo aveva promesso, una volta dentro l'avrebbe riempita di nuovo di baci, ma la fame era tanta che prima mangiarono, pane con un bel tocco di formaggio e poi, senza pensare minimamente ad andare in piazza a chiacchiera, la trascinò al letto, addirittura senza farle lavare i piatti. Cosa banale, che però a MariaElena lasciava una piccola angoscia dentro; era stata abituata a tenere sempre la casa in perfetto ordine dalla sorella maggiore, con la quale conviveva prima di sposarsi.
La pudicizia non le permetteva di gemere a dovere, ma piccoli mugolii, si associavano a forti strette della schiena di lui. Si addormentarono subito dopo, così com'erano: sfiniti e contenti.
In quei giorni a Saturano c'era piuttosto fermento, anche se la stagione estiva stava finendo. Il marchese aveva fatto un nuovo acquisto, o meglio si vociferava di un baratto con un altro latifondista, tra una piccola area fertile in pianura di sua proprietà e un'ampia zona boscosa e sassosa al confine nord ovest, ora di proprietà dell'altro. I confini di entrambi rimanevano così in continuità cambiando solo la loro geometria.
La discussione alla taverna era improntata su chi avesse fatto l'affare e chi fosse rimasto buggerato. Si quantificava il valore degli stai di grano in confronto agli ettari di bosco e di pascolo, ed ognuno dei due partiti che si erano creati, arrivava a conclusioni diverse. C'era anche chi, con veemenza, sosteneva che nella nuova porzione di latifondo si sarebbero potute anche piantare delle vigne, mentre farlo verso il mare sarebbe stato sconveniente ed avrebbe dato un vino poco buono: questi erano i più beoni.
L'unica cosa certa era che, facendo quasi tutti i braccianti per il marchese, durante l'inverno bisognava andare a lavorare più lontano del solito, il che significava partire prima e tornare a casa tardi.
Gli esperimenti sugli incroci tra le due specie di vacche, intraprese qualche anno prima, stavano procedendo e sembravano dare buoni frutti, generando vitelli dalla carne più morbida. Pertanto le malelingue in paese dicevano che il marchese, per quanto fosse padrone di tutto ciò che si vedeva a vista d'occhio, avesse terminato quella esperienza e ora si annoiasse, cercando quindi nuovi stimoli. In fin dei conti il proverbio popolare diceva che la prima generazione costruisce, la seconda mantiene e la terza distrugge; quella attuale per il nobile era la seconda, quindi toccava a lui mantenere e per farlo aveva bisogno di una certa dinamicità, questi scambi permettevano di non perdere valore, ora che l'Italia unita dava nuove garanzie.
Fu il fattore di Saturano ad interpellare Armando per un sopralluogo preliminare alla nuova proprietà del marchese.
Anche se tra i due c'era una forte differenza di età e avevano ruoli completamente differenti all'interno della società, tra di loro c'era una reciproca conoscenza e stima, dovuta forse alla comune amicizia con Leopoldo, ma tanto era che si trovavano a meraviglia. Quest’ultimo non era più tra loro, ma aveva lasciato nel fattore solo buoni sentimenti e in questo momento di organizzazione dei lavori agricoli, egli sicuramente vedeva in Armando il gran faticatore del suo vecchio mandriano.
Benché il Biondi avesse molta esperienza in tutti i campi della lavorazione agricola e dell'allevamento, non seguiva mai le cose in prima persona. Dopo aver ottemperato all'organizzazione, individuava delle persone di fiducia in ogni campo e quindi provvedeva a responsabilizzarle, dando loro poteri di comando; per sé si lasciava il ruolo di tramite tra il padrone e i capisquadra.
Con l'acquisto dei nuovi territori da parte del marchese, era questo ciò che il fattore aveva pensato per Armando, al fine di sistemare e far produrre al meglio quelle terre.
Il neo sposo non aveva mai voluto ripercorrere il ruolo di buttero presente nella sua famiglia ed avendo avuto da subito la passione per l'agricoltura, aveva imparato sia le tecniche di potatura di viti, olivi e alberi da frutto, sia le modalità di semina e raccolta del frumento.
Il fattore si presentò personalmente a casa di Armando una sera all'imbrunire. Lo trovò a capotavola, nella sedia che guardava la porta, nel medesimo posto che era stato del burbero nonno, dal quale aveva ereditato sia la casa che il terreno ora da sistemare. Entrando gli venne subito un’immagine del passato e si fece scappare un sorrisino compiaciuto.
Il giovane era in attesa che la moglie servisse il pasto, composto da una succulenta panzanella di verdure fresche e tanto olio; appena vide il comandante affacciarsi alla porta a vetri leggermente socchiusa si alzò in piedi e fece cenno di entrare avvicinandosi deciso all'uscio.
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MariaElena accogliendo l'ospite con un sorriso, aprì subito lo sportello dei bicchieri sopra l'acquaio e ne prese uno, appoggiandolo sul tavolo e mettendo da parte il vassoio della panzanella.
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