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Fiori per un cyborg
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Fiori per un cyborg

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About this ebook

Ruben Arancibia, brillante ingegnere e giovane militante libertario in un Cile sconvolto dalle dittature, riesce a espatriare negli Stati Uniti dove porta a termine un dottorato in robotica. Ruben progetta Tom, un androide dotato di intelligenza artificiale e ricoperto di tessuti simili a quelli naturali. In uno slargo apparentemente democratico in Cile, dopo l'allontanamento dell'ultimo tiranno, rientra a Santiago con Tom, che ha ormai immagazzinato conoscenze tali da potersi camuffare tra gli umani, ma con poteri molto superiori ai loro. Ruben prosegue il lavoro su Tom in un laboratorio costruito nello scantinato della sorella Ximena. Egli ritrova Beatriz, ex fidanzata con cui riparte l'intesa amorosa, e anche quella professionale, giacché Beatriz è esperta in chirurgia plastica e può cambiare i connotati a Tom. Ruben ricostruisce il duro destino di tanti loro compagni in un paese tormentato dalla repressione, e decide di farla pagare almeno a qualcuno degli assassini rimasti impuni. Grazie a Tom, il gruppo liquida due noti torturatori della famigerata Central de Informaciones della dittatura. Durante queste avventure, Tom viene messo fuori uso da una fucilata, ma Ruben riesce a ricostruirlo, memoria compresa, e a mantenere una promessa che gli aveva fatto: dotarlo di apparato virile funzionante in modo che possa provare l'ebbrezza dei sensi. Tom infatti è andato acquisendo capacità ragionative ed emozionali che sorprendono il suo stesso creatore.
LanguageItaliano
Release dateSep 10, 2013
ISBN9788865640821
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    Fiori per un cyborg - Diego Muñoz Valenzuela

    cyborg

    Fiori per un cyborg

    Diego Muñoz Valenzuela

    Fiori per un cyborg

    titolo originale

    FLORES PARA UN CYBORG

    © 1997 Diego Muñoz Valenzuela

    © Atmosphere libri

    www.atmospherelibri.it

    traduzione dallo spagnolo di Danilo Manera

    "Obra editada en el marco del Programa de Apoyo a las Traducciones del  

    Consejo Nacional de la Cultura y las Artes de la República de Chile"

    1

    Un amico per la distanza

    Conducevo i miei studi di dottorato in elettronica all’Università di Dirtystone quando la solitudine, l’isolamento e, soprattutto, il desiderio di mettere in luce l’incompetenza dei docenti mi spinsero a costruire tomm (Talkative Organized Movable Model), acronimo che ebbe vita breve tramutandosi di lì a poco nel più comune Tom. La dittatura di turno in patria aveva deciso di triturare definitivamente le mie ossa già malconce. Si trattava senza dubbio di una splendida occasione per accettare con una certa sollecitudine l’offerta di Dirtystone, che includeva viaggio, visto e tutela diplomatica. D’altro canto non vi era alcuna speranza di un ritorno anche effimero alla democrazia per almeno cinque anni: il nuovo despota era giovane, crudele e amante della bella vita. Gli ci sarebbe voluto un po’ prima di colmare i suoi forzieri in Svizzera e ritirarsi a vivere di rendita in qualche paradiso per dittatori in pensione. L’opposizione, guidata in prevalenza da beneficiari di succulente elargizioni solidali straniere, avrebbe pazientemente atteso il suo momento per mungere le casse del fisco. Noi cittadini comuni, invece, avremmo ricevuto il trattamento standard: sospensione dal servizio, persecuzioni, torture e l’imperdibile opportunità di fare da cavie agli esperti in progetti di riabilitazione psicologica delle vittime della repressione, nell’elaborazione di scrupolose analisi statistiche del calo di livello culturale della popolazione e nella predisposizione di alternative economiche in vista della transizione democratica. Un momento eccellente per dedicarsi anima e corpo alla ricerca. E per restare vivi. Come molti sacerdoti che, all’epoca dell’Inquisizione, si erano rinchiusi tra quattro mura consacrandosi allo studio con la bocca prudentemente chiusa.

    Mia madre approvò la decisione di lasciare il Cile. «Hai già patito una dittatura intera con la sua razione di ossa rotte, bruciature e scosse. Non ho voglia di venire di nuovo a cercarti tra caserme di polizia, ospedali e obitori». Mi diceva tutto questo stringendo in bilico tra le labbra la sua immancabile sigaretta, dalla cui estremità pendeva a sua volta un lungo artiglio di cenere che si reggeva per miracolo, in barba alla fisica gravitazionale e alle leggi della meccanica. Parlava accennando un mezzo sorriso, un sorriso malandrino, che in realtà voleva sì dirmi quanto avesse sofferto in quei giorni, ma anche sottolineare che lo avrebbe rifatto tutte le volte che fosse stato necessario; in caso di bisogno sarebbe persino uscita dalla tomba, e sicuro che avrebbe fatto questo e molto altro ancora. Doña Bárbara, la chiamavo io, alludendo al romanzo di Rómulo Gallegos. Doña Bárbara per la sua volontà di ferro da matriarca, per il carattere di granito che l’aveva spinta al punto di prendere a pugni le porte degli sbirri – i quali più d’una volta avevano tremato dinanzi alle sue sfuriate –, così come per la sua ferma decisione di fare giustizia in quella terra di selvaggi senza speranza e senza dio. E poi per il suo immenso amore di madre, alla fin fine femmina, custode istintiva dei suoi cuccioli, tenera protettrice dagli occhi umidi, sempre pronta a dare prova del suo affetto. Rara alchimia di contraddizioni, mia madre. Non voleva rivivere quei terribili momenti. E nemmeno io, inutile girarci intorno, volevo bere di nuovo dall’amaro calice. Dopotutto avevo finito l’università con un solo semestre di ritardo rispetto al previsto, ingoiando quintali di analgesici per i dolori alle articolazioni, alla schiena, alle ossa, cercando invano di dimenticare quei giorni… o meglio quelle notti… Perché là sembrava che fosse sempre notte, sdraiato carponi nella cella appestata di miasmi, vomitando dopo la tortura, gridando a quei figli di puttana che venissero a prendermi una volta per tutte con i loro pugnali ricurvi, le loro mitragliatrici, i loro occhi di avvoltoi affamati. E la fine non arrivava mai, in quella eterna notte dove, dicono, ero sopravvissuto per tre mesi, mesi che avrebbero potuto benissimo essere millenni. Perciò avevo deciso di partire, con mia madre che mi soffocava di abbracci e non smetteva di ripetermi che mio padre era felice, raggiante di allegria per il mio viaggio, e che se ne sarebbe presa cura lei fin quando non fossi tornato, trasformato in un professorone con tutti i crismi, perché adesso il mio dovere, il mio unico obbligo era quello, come da piccolo: essere l’alunno più instancabile, il più tenace. «Quel ragazzo ha talento» aveva detto il mio vecchio. «Che se ne vada via di qua e si prepari, è la sola cosa che può fare adesso per il suo paese, che la pianti di sacrificarsi per niente, che non si metta a fare il maggiordomo ai porci di sempre». Mi sembra quasi di vederlo, seduto nella sua poltrona bergère di cuoio nero, intento a fumare una pipa di schiuma di mare che impregna la casa con il suo aroma di legno e di tabacco Half & Half, mentre ti parla guardandoti con quei suoi occhi grandi e severi da patriarca biblico. E dopo aver salutato con un lungo e affettuoso abbraccio l’amico Ricardo Bell e aver dato un bacio a mia sorella Ximena, avevo imboccato il corridoio che conduceva allo sportello della guardia di frontiera. Avevo mostrato il mio passaporto a un agente con aria da mastino idrofobo che, dopo avermi esaminato con lo stesso interesse di un entomologo dinanzi a una nuova specie di scarafaggio, aveva levato lo sguardo al cielo in attesa dell’autorizzazione divina e trapassato i miei documenti con i suoi occhi a raggi X pronti a scovare il minimo difetto capace di rispedire la mia carcassa in gattabuia. Invece non era successo niente di tutto questo e mi ero imbarcato su un Boeing 747 diretto verso il grande paese del nord dove avrei cominciato il mio dottorato.

    Il Dipartimento di elettronica dell’Università di Dirtystone non era esattamente un modello di virtù. Diversi docenti di ruolo avevano scoperto i piaceri dell’anno sabbatico permanente e tra loro c’era il professor Fajardo, il mio presunto supervisore di tesi. Fajardo portava un pizzetto sormontato da due enormi mustacchi per dare l’impressione di essere un illustre cavaliere di epoca medievale. Era solito indossare abiti costosi, ma aveva un insuperabile cattivo gusto, basato su una pessima padronanza dell’arte dell’abbinamento. Quando si degnava di mettere piede in facoltà – mai più di due volte la settimana e al massimo per tre lunghe ore – sbraitava con voce tonante in modo che tutti lo sentissero. Gridava per i motivi più disparati: per farsi fare una telefonata dalla segretaria, per convocare qualcuno nel suo ufficio, per porre le domande tecniche più assurde o scontate. Così facendo riusciva a dare una sensazione di onnipresenza. Il suo arrivo era quanto di più simile a una bufera o a un tifone. La sua voce rimbombava nei corridoi rendendo impossibile la concentrazione. Le incursioni di Fajardo erano così efficaci che riusciva a instillare negli presenti la sensazione di essere rimasto lì per mesi e mesi a urlare come un maiale al macello, testardo e instancabile. Alla fine, quando se ne andava, si avvertiva un senso di sollievo generale: l’uragano era passato, la pace e il silenzio erano tornati. Ricordo che a un certo punto Fajardo era stato invitato da un’incauta università straniera a ricoprire per tre mesi la carica di docente ospite. Già mi immaginavo i poveri studenti che cercavano di sfuggire alle sue urla gettandosi dalle vetrate dell’aula magna, spintonandosi a vicenda per salvare i timpani e le menti da un castigo così crudele, suicidandosi in massa per non dover più sentire tante scemenze spacciate per scienza. I tre mesi di assenza di Fajardo avevano rappresentato per noi del campus un’epoca di straordinaria produttività; quel silenzio prolungato era stato, se non la causa diretta, almeno il germe di varie scoperte che, a detta degli accademici, si erano eccezionalmente verificate tutte nell’arco di poche settimane, confermando ancora una volta la legge dell’avanzamento a salti quantici della ricerca pura.

    Dirtystone era diretta dal professor Richard Callahan, uno scienziato di consolidato prestigio, un filantropo che durante il suo rettorato aveva accolto numerosi perseguitati politici latinoamericani. Quasi tutti i rifugiati avevano dimostrato eccellenti capacità, divenendo in breve tempo importanti ricercatori che o rientravano in patria, nei casi in cui ciò era possibile, o continuavano a sviluppare i loro progetti a Dirtystone o presso altri centri scientifici e tecnologici del paese, con l’amaro ma non infondato sospetto di contribuire alla realizzazione di un tassello parte di un progetto più ampio al servizio dell’intelligence o dello stato maggiore.

    Fajardo era sbarcato a Dirtystone in qualità di rifugiato politico, malgrado nel suo paese non dovesse aver sofferto altre persecuzioni se non quelle imputabili alla sua mediocrità. Aveva inventato – probabilmente l’unica fatica che avesse mai fatto in vita sua – una storia capace di commuovere anche un toro inferocito: le lame appuntite che si erano conficcate, trapassandola da parte a parte, nella sedia dove lui si trovava fino a pochi secondi prima; la macchina saltata in aria da cui lui, per grazia della divina provvidenza, era sceso per andare in banca a incassare un assegno; la casa divorata dalle fiamme mentre si trovava a trascorrere un fine settimana al mare; un’auto della polizia che lo avrebbe schiacciato come un insetto se non fosse stato per la sua portentosa agilità di trapezista. Se fosse stato un lettore di Poe avrebbe senz’altro raccontato che i servizi di sicurezza avevano addestrato un gorilla perché si introducesse nel suo appartamento di Rue de la Morgue a strangolarlo.

    I colleghi di Fajardo non se la cavavano molto meglio. Il professor Johnson era un imbecille di prima categoria che non ne imbroccava una ogni volta che doveva spiegare un teorema. Dava degli stupidi e degli ignoranti agli allievi quando protestavano per qualcuna delle sue dimostrazioni abborracciate. Con il passare del tempo aveva assunto tutta una serie di tic che lo scuotevano da capo a piedi, mandando grottescamente in cortocircuito il suo ingarbugliato e sensibile sistema nervoso. Non riusciva a pronunciare una frase senza storcere il collo e sembrava sempre che la camicia stesse cercando di strozzarlo brutalmente. Si aveva l’impressione che un marionettista sadico manovrasse dei fili invisibili per cercare di strappare quella testa vuota tirandola in senso opposto ai fremiti spasmodici del suo corpo. Per questo era soprannominato il Rettile. Faceva lezione servendosi di lucidi che non rimanevano mai sulla lavagna luminosa il tempo necessario; un’ottima tecnica per scansare eventuali domande che avrebbero potuto metterlo in difficoltà. Sua moglie, un essere dall’aria angelicale, era una specie di fatina bianca e immacolata che viveva fuori dal mondo, estranea a tutto quanto le accadeva attorno. Dava l’idea che gli anni avessero eretto tra lei e la realtà un muro invalicabile: niente poteva turbarla o attraversare la campana di vetro nella quale viveva, lontana dal caos mondano. Così mi era sembrata nelle riunioni sociali del nostro dipartimento che si tenevano in occasione del Natale, di anniversari accademici o festeggiamenti: lontana, dolce, estranea alla trivialità. Si concedeva soltanto qualche breve tregua nella quale si dedicava a riprendere i figli, due mostriciattoli assetati e malefici come T-Rex, sempre pronti a distruggere, picchiare e insultare. Evidentemente da piccolo Johnson era una vipera perfida come loro, mossa dagli scatti egocentrici e omicidi del suo cervello rettiliano. Come avesse fatto quella fata dal sorriso benevolo e perfetto a cadere nelle grinfie di Johnson per me era un mistero. Una volta il mio amico brasiliano Gerardo mi aveva detto: «Possivelmente una volta era un ser bom, un idealistapreoccupato dal futuro do mundo, un poveraccio desesperado e perdido…»

    Io gli avevo risposto con una frase tipica di mia madre che lo aveva costretto a riflettere per diversi minuti: «La vita mi ha insegnato che i buoni non diventano cattivi dall’oggi al domani e che i cattivi non si trasformano in buoni con un colpo di bacchetta magica». Dopo essere riemerso dalle sue meditazioni, lui aveva ammesso, un po’ costernato: «Sei un tipo sabio, depois de tudo, Rubén».

    E io avevo pensato che sì, era possibile che avessi un pizzico di saggezza, anche se presa in prestito.

    Fajardo e Johnson lavoravano anche fuori dall’università, ricoprendo incarichi dirigenziali perfetti per le loro doti di ciarlatani, bravi a dire agli altri cosa fare anche quando si trattava di ovvietà, ma incapaci di muovere un dito. Una qualità molto apprezzata nella società postmoderna. Artisti delle pubbliche relazioni, simpatici all’occorrenza, tremendi nell’esigere, spietati nel punire.

    Con simili personaggi all’interno del corpo accademico non c’erano possibilità di realizzare alcunché di straordinario. Mi conquistai il loro favore scrivendo un capolavoro di ambiguità come progetto di tesi. Un argomento sufficientemente insulso da non metterli in agitazione, ma abbastanza ampio da fornirmi la libertà e le risorse fisiche ed economiche di cui avevo bisogno per costruire Tom. Appena arrivato a Dirtystone, avevo proposto al Consiglio di dipartimento di costruire un androide e avevo ricevuto una lezione indimenticabile. L’unico risultato che ero riuscito a ottenere era stato che i docenti si avventassero come iene furibonde sul mio progetto per farlo a pezzi, dimostrandone l’assoluta impraticabilità oltre che la palese mancanza di applicazioni nella produzione industriale. Non avevo mai visto persone così smaniose di demolire un’idea che non andava loro a genio. Erano stati invece attratti come api sul miele dalla proposta di progettare servomeccanismi automatici intelligenti in grado di risolvere certi problemini che io ben sapevo esistere nelle aziende per le quali lavoravano Fajardo e Johnson. Tutt’a un tratto la musica era cambiata. Ero riuscito a leggere nelle loro pupille le cifre dei succulenti guadagni che l’applicazione del progetto avrebbe portato in breve nelle loro tasche. «Come poteva non piacergli? Caveranno le castagne dal fuoco con la zampa del gatto» avrebbe detto mia madre. Così avevano approvato il nuovo progetto senza protestare e io avevo potuto dedicarmi anima e corpo all’ideazione e alla realizzazione di Tom, riservando qualche ora per realizzare gli sviluppi necessari alla costruzione dei servomeccanismi intelligenti.

    La bioelettronica del cervello binario di Tom richiese diversi mesi di fatiche, per quanto si trattasse di un’idea maturata nel corso degli anni e nata all’epoca della mia permanenza in carcere. Allora pensare in modo disciplinato mi aveva salvato dalla follia che permeava quel luogo senza tempo, in cui l’unica differenza percettibile era quella scandita dai periodi di tortura e dai periodi di attesa della tortura. La maggior parte del lavoro di progettazione l’avevo svolto lì. Quasi tutti i chip che mi servivano erano disponibili sul mercato, altri potevano essere rimpiazzati assemblando elementi semplici equivalenti; solo alcuni biochip dovevano essere costruiti a partire dalle scarse nozioni reperibili in articoli e libri del settore. Potei contare sull’aiuto segreto di un futuro dottore in ingegneria biomedica pazzoide e invasato quanto me, Gerardo do Santos, un luminare oggi noto a livello mondiale, quando a nessuno importa delle bruciature di sigaretta nascoste sotto le sue camicie di sartoria e le cravatte scelte con una cura che contraddice lo stereotipo einsteniano dello scienziato sciatto e trasandato, verosimilmente molto più appropriato a un genio del suo calibro. A Gerardo è sempre piaciuto vestirsi bene: sacrificava cibo, bere, alloggio, tutto pur di essere elegante. Diceva: «Anche se uno sta affogando nella merda, e guarda che sei o que estou falando, non deve fare pena, Rubén, você não acha?»

    Quando venne il momento di dare a Tom delle sembianze umane, Gerardo si rivelò un aiuto insostituibile, rivestendolo con un materiale sintetico di origine organica di sua creazione. All’epoca il mio amico non intuiva la fama che quell’invenzione gli avrebbe procurato: un facsimile di tessuto umano in grado di respirare attraverso dei pori, di autorigenerarsi e autoalimentarsi con il minimo dispendio di energia. Il recupero di pazienti ustionati è diventato un gioco da ragazzi grazie alla scoperta di Gerardo, che oggi si dedica a riprodurre tessuti più complessi: cuore, rene, fegato, cistifellea. Lavora per dare all’uomo l’immortalità, e la cosa lo rende felice. O almeno questo è ciò che vuole credere, anche se è una di quelle bugie che servono per continuare a insistere sui temi che ci fanno piacere, per cercare di dimenticare che il mondo sembra fatto piuttosto su misura per le canaglie, per gli arraffoni che non esitano un istante pur di raggiungere i propri scopi, specialmente quando questo significa calpestare i più deboli o portargli via quel poco che hanno.

    Non fu facile. Lavorai senza sosta, con la dedizione di uno schiavo. Inoltre, come se non bastasse, dovevo riservare un po’ di tempo per produrre qualcosa che mi consentisse di superare le verifiche periodiche della commissione incaricata di valutarmi. A volte, la sera, passavo in laboratorio a chiamare Gerardo per uscire in cerca di qualche birra e un po’ di svago. C’erano sempre un paio di laureande nordamericane bendisposte a ricevere le attenzioni di due latin lover che facessero loro dimenticare l’inesperienza dei compatrioti. Data la sporadicità delle nostre pause e i ritmi di lavoro serrati, ci guadagnammo una certa fama tra le ragazze. Dopo giorni e giorni di isolamento, quando uscivamo dai rispettivi laboratori eravamo autentiche bestie in calore: lerci, con la barba incolta, i capelli scarmigliati, ma spietati e instancabili nelle pratiche amorose. Quando mettemmo mano ai biochip dormimmo in laboratorio per due settimane di seguito. Non uscimmo senza prima aver raggiunto il nostro obiettivo. Poi scoprimmo che i ricercatori della Silicon Valley facevano altrettanto: macchina dei gelati, Coca-Cola, pasticcini, roast beef… Tutto quel che volete, ma o tirate fuori il fottuto laser antirussi o qui dentro ci marcite forever, guys. Noi non avevamo la macchinetta dei gelati ma una che faceva caffè e cioccolata, e un chiosco di tramezzini lì vicino. Così bevevamo coke and coffee e mangiavamo tramezzini al prosciutto e formaggio, oppure hamburger. Uscimmo da quelle due settimane di clausura trasformati in predatori infoiati. Due psicopatici in delirio. Le ragazze imploravano pietà

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