Bialere - Storie da Idrasca
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“Le masche, ovvero le streghe del Piemonte. Abbondano a Idrasca. Sembrano confinate e ridicolizzate, ma sono in realtà il cuore marcio della maligna comunità. Il Paese del Male immaginato da Luigi Musolino deve tanto alla geografia del territorio quanto all’immaginario formativo importato dal New England.
Bialere – Storie da Idrasca non è neppure configurabile come un’antologia. Leggetelo come un romanzo a racconti autonomi, un capitolo per ogni faccia del Male. In modo subdolo e rabbrividente, sentirete aria di casa…” Dalla prefazione di Danilo Arona.
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Bialere - Storie da Idrasca - Luigi Musolino
BIALERE. STORIE DA IDRASCA
Di Luigi Musolino
© Luigi Musolino. Tutti i diritti riservati.
Immagine di copertina a cura di Joel Angelini (www.joelangelini.it)
Impaginazione a cura di Matteo Poropat
Prima Edizione Digitale: maggio 2012
BIALERE
STORIE DA IDRASCA
di Luigi Musolino
NON ANDATE IN QUEL PAESE
di Danilo Arona
Il villaggio maledetto. Il (relativamente) piccolo paese dove il Male ha deciso di scatenarsi. Gli abitanti strani che si conoscono tutti e guardano storto lo sfigato viandante. La tradizione viene da lontano, dalla letteratura del New England (e alla
New England) poi filtrata dal cinema e rilanciata dai moderni alfieri dell'horror. Un mitologema che annovera tra i padri spirituali il Nathaniel Hawthorne de Il velo nero del pastore, in cui il luogo infernale chiamasi Milford, o la Edith Warthon di Storie di fantasmi, dove le piccole comunità cambiano di nome, ma non di fatto, a ogni fantasma chiamato in causa. E naturalmente Lovecraft con le sue comunità immaginarie che si chiamano Salem, Arkham, Innsmouth, Kingsport e Dunwich, veri e propri portali sull'Altrove. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta certi horror di Roger Corman (che proprio a Lovecraft si ispiravano, primi fra tutti La città dei mostri e La morte dall'occhio di cristallo, diretto da Daniel Haller) e alcuni notevoli cult fantascientifici fecero proprio il tòpos, con la celeberrima Santa Mira de L'invasione degli ultracorpi (poi rivisitata in Halloween 3), la Sand Rock di Destinazione terra e la Desert Rock di Tarantula, ambedue firmati da quel genio del fantastico quotidiano ante litteram che era Jack Arnold, per arrivare alla Bogega Bay invasa dai pennuti di Alfred Hitchcock. È da questo coagulo di suggestioni che nascono le Castle Rock, Jerusalem's Lot, Derry e altro ancora del vate Stephen King, ma pure la Oxrun Station di Charles L.Grant (una saga di 10 titoli, ma solo due usciti in Italia), la Blackstone di John Saul e la Bordertown di Robert McCammon. E, per citare ancora indimenticabili ricadute mediatiche, basterà scrivere solo il nome Twin Peaks.
In Italia ci stiamo lavorando. Intanto perché siamo pochi e l'horror territoriale
da noi gode alterne fortune. Ma perché poi alla fine la nostra nazione offre sul serio scorci così intimamente gotici
che non occorre affatto inventare loca infesta o paesi terribili ex novo. Il messaggio giunge allora forte e chiaro: si tratta solo di trasfigurare
, con pochi e accorti tocchi, quel che già esiste e che di par suo appare assolutamente inquietante. Stiamo ancora vivendo di rendita dalla sublime lezione di Pupi Avati (La casa dalle finestre che ridono) che diede la stura ai sottofiloni del gotico padano. Grandi vati come Eraldo Baldini e Gianfranco Nerozzi non si spostano di un chilometro dai loro
posti. E in questo hanno ragione da vendere, perché la Romagna è come il Maine di King. Fa paura, nelle giuste mani di un grande scrittore. E su questo fronte Nicola Lombardi con i suoi Ragni Zingari offre ampio materiale da meditazione
. Poi, se ci spostiamo un po' più a nord, in direzione del Piemonte, potremmo prima transitare dalle parti di Tiziano Sclavi per valle Scuropasso. Anche qui paura da vendere.
Il Piemonte è come la Romagna. O come la piana pavese di Sclavi e Mino Milani. O come l'entroterra ligure di Elvezio Sciallis o il Salento spettrale di Oscar Dimonopoli. Funziona, funziona alla grande. Come scrisse il grande Alessandro Defilippi nella prefazione all'antologia Nero Piemonte e Valle d'Aosta (Perrone Editore, 2009), dal significativo titolo Le radici del male, la nostra è una terra naturalmente noir, una terra in cui pare di avvertire accanto a noi, se solo porgiamo l'orecchio, le voci delle masche o la presenza di uno sconosciuto che ci guarda senza apparente ragione, lungo i viali alberati delle città, così geometrici, così ordinati.
Le masche, ovvero le streghe del Piemonte. Abbondano a Idrasca. Sembrano confinate o ridicolizzate, ma sono in realtà il cuore marcio della maligna comunità. Il Paese del Male immaginato da Luigi Musolino deve tanto alla geografia del territorio quanto all'immaginario formativo importato dal New England. Un nome su tutti: ancora lui, Lovecraft, evocato e omaggiato in modo esplicito nell'ultimo racconto dell'antologia, Supplenze. Ma poi Bialere – Storie da Idrasca non è neppure configurabile come un'antologia. Leggetelo come un romanzo a racconti autonomi, un capitolo per ogni faccia del male. In modo subdolo e rabbrividente sentirete aria di casa. E, se siete nati e vivete in Piemonte, vi guarderete attorno, cercando di decifrare con occhi nuovi il vostro vecchio vicino.
Idrasca, ovvio, non esiste. Però Gigi afferma di esserci nato. L'intenzionale confusione credo faccia riferimento al nome primitivo dell'attuale Airasca, in zona Pinerolo, che all'origine significa luogo ricco di acque affioranti
. Inutile ricordare che l'acqua, sotterranea o in superficie, è legata alla magia e all'energia corrente e che in certi posti gli stregoni, apprendisti e di lungo corso, abbondano.
In verità anch'io sostengo di essere nato a Bassavilla. Ma non sono affatto in grado di dimostrarlo.
Danilo Arona, aprile 2012
IL LIBRO DI MALANINA
L’orrore è mutevole. Assume forme complesse, si rintana negli angoli bui delle cascine e nei fienili di campagna, fluttua nelle strade vuote delle città, quando l’ora è tarda e la foschia si alza dal terreno come un vapore venefico, che fa male ai polmoni.
L’orrore è una telefonata nel cuore della notte, quando stai dormendo un sonno pesante e gli incubi sono le tue lenzuola, e cerchi di difenderti da cose troppo vaghe per poter essere descritte. Colossali aberrazioni che fanno dell’oscurità il loro covo e camminano con passo pesante e idiota nei sogni degli uomini. Che non è mai il sonno dei giusti, e quell’augurio pronunciato quando ci si corica, buonanotte, è una fandonia, perché nel pieno della Nox anche lo squillo del telefono può farti morire di crepacuore.
In quella ventosa nottata di novembre, quando il cordless mi trascinò fuori da un sonno ostinato, pensai subito a mia madre. Era anziana, affetta da una brutta forma di enfisema: sembrava l’opzione più logica. Tirai su la cornetta. Sbagliavo.
«Pronto?» dissi. Dall’altra parte un debole singhiozzo. «Chi è?»
«Gigi… sono Sara». Parole spezzate da respiri affannosi, un suono liquido di lacrime e catarro. Sara, la moglie del mio migliore amico, Piero Scola; un omone di cinquant’anni che portava cravatte vistose, adorava Cesare Pavese e aveva fatto dell’antropologia il fulcro della sua vita. Insegnava presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università di Torino, ed era uno dei migliori. Fino a quella notte, quando intraprese il definitivo salto nel buio.
«Sara, che è successo?»
«Vieni subito, Gì. Sono alle Molinette. Piero... è caduto, io non so. Non so come ha fatto». Era sconvolta. Scoppiò in un pianto disperato che mi parve più terribile di tutto ciò che poteva essere accaduto. «Aveva… aveva le ossa delle gambe di fuori!»
«Stai calma, Sara. Che cazzo è successo?»
«È… è caduto dal balcone. Non so come abbia fatto, un’ora fa. Io dormivo, o Cristo, e ho sentito una botta. Come un sacco. Vieni».
«Arrivo. Stai tranquilla».
Piero abitava al quarto piano di un vecchio palazzone di Torino, a cinquecento metri dalla Mole Antonelliana. C’era poco da star tranquilli.
Posai il cordless sul comodino e sgusciai fuori dalle coperte, il torace pesante come una lastra di acciaio.
Non vedevo il mio amico da almeno tre mesi; era impegnato in una delle sue consuete ricerche e stava girando per il Piemonte raccogliendo informazioni, scrivendo, intervistando. L’avevo sentito un mese prima e mi era parso allegro, in forma; aveva trascorso una settimana tra le verdi colline delle Langhe e doveva tornare a Torino entro breve.
«Ho delle notizie!» aveva detto, e mi era sembrato di vederlo sorridere. «Ricordi quando eravamo piccoli e i nostri nonni raccontavano delle masche? Sto raccogliendo materiale per un saggio, era una vita che volevo lavorare a questo progetto. Ho intervistato un mucchio di vecchietti che abitano in campagna, tra le Langhe, il Roero, la pianura sotto Pinerolo, dove si parla ancora di quelle megere. Mi hanno riempito di informazioni; ho già buttato giù un centinaio di pagine di testimonianze dirette. Domani sono a Idrasca, quaranta chilometri da Torino. È lì che spero di trovare qualcosa di definitivo. Ti racconto tutto quando ci vediamo!»
Fu l’ultima volta che udii la sua voce.
Mi vestii in fretta e bevvi un sorso di caffè gelido direttamente dalla moka. Arrivai al pronto soccorso mezz’ora dopo; la prima cosa che vidi fu Sara che gridava come una pazza, e il suo viso non lo dimenticherò mai. Non era più lei. Due infermiere le tenevano le braccia e il trittico di donne che si strattonava nel corridoio era una perfetta rappresentazione del grottesco. Sara mi vide, si lasciò cadere a terra.
«È morto, Gigi! È morto». Lo ripeté una decina di volte, in un’assurda opera di autoconvincimento. Deglutii a vuoto, non poteva essere. Eravamo cresciuti insieme in un ridente paesino della pianura, Lasco, a quindici minuti da Pinerolo;