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Il segreto del poeta
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Il segreto del poeta

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Un manoscritto ritrovato nell'archivio della Cattedrale di Poitiers si rivela un documento unico nel suo genere: la narrazione in prima persona delle esperienze giovanili di un poeta del secolo XII, forse identificabile nel grande Chrétien de Troyes. Créstien, così si firma l'autore, lascia la città natale per un viaggio avventuroso alla ricerca dei cantori tradizionali custodi degli antichi carmi dedicati a Tristano e Artù. Il suo viaggio, un'iniziazione alla vita, alla poesia e all'amore, lo porterà prima in Bretagna, poi alla corte d'Inghilterra e infine in Cornovaglia, al cuore delle lontane e misteriose vicende di Tristano e Isotta. Quello dei due innamorati non è l'unico mistero con il quale Créstien dovrà confrontarsi. Il suo cammino incrocia, infatti quello di inquietanti personaggi che ordiscono trame che oscuramente si intrecciano con i personaggi delle leggende cantate dai bardi e con i bassorilievi di alcune chiese, che sembrano narrare episodi di una medesima storia che coinvolge Artù, Tristano e Giuseppe di Arimatea. Tutti i fili si riannoderanno in faccia all'oceano, nella rocca di Tintagel, ma un retrogusto amaro accompagnerà Créstien per tutta la vita.
P.G. Kien ci conduce in un medioevo in cui il rigore della ricostruzione storica (i personaggi principali sono realmente esistiti e molti fatti realmente accaduti) conduce senza soluzione di continuità alle radici dell'immaginario.
LanguageItaliano
PublisherP.G. Kien
Release dateJul 25, 2011
ISBN9788863690057
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    Il segreto del poeta - P.G. Kien

    Bretagna

    La partenza

    Eppure, il giorno dopo lasciai la città al levar del sole e partii alla ricerca dei racconti. Vissi così anch’io la mia avventura, mia e diversa da quelle che poi ho narrato piegando le parole come un fabbro il ferro rosso rovente.

    Mi levai di buon’ora e lasciai la casa e la bottega di mio padre, una dimora e un’attività che mi avrebbero garantito protezione e sicurezza, e ai quali già dovevo l’invidia bonaria degli amici. Gli uccelli accompagnavano i tremori dell’alba cantando a contrappunto ciascuno nella propria lingua. I colori iniziavano a sbocciare nella pianura appena ondulata che si apriva inesauribile al mio sguardo affamato di strada da percorrere, di destinazioni. Una vasta, smisurata promessa.

    Il tempo ha depositato su quell’addio frettoloso il sapore di un vago rimpianto, ma non sono certo di esserne stato toccato allora, stracolmo com’ero di smania, furioso di viaggi e di storie. Ricordo che infilai nella sacca le tavolette cerate e i pennini, salutai mia madre, mio padre e i miei fratelli e mi avviai incosciente; ma non so dire se provai davvero in quei momenti la tenerezza e la nostalgia che mi assalgono quando ripenso alla mia famiglia e cerco di strappare alla nebbia i tratti dei miei genitori. I loro volti sono maschere opache negli scaffali della memoria stracolmi di nomi. Alla mia età, quella in cui scrivo queste righe, questa è ormai una forma di dolore.

    Per contro, sono certo di rammentare tale e quale l’incantamento della voce del cantore: è sempre stato qui con me, identico e vivo, senza alterazioni, così come l’ho provato quel pomeriggio, quando li ho incontrati, quando loro mi hanno trovato: loro,

    i racconti.

    Camminavo per la via che costeggia la navata meridionale della cattedrale di Troyes, mi affrettavo senza una ragione precisa, forse temevo che le nuvole nere che avevo appena intravisto mi sorprendessero a capo scoperto. La via era ostruita da un assembramento di persone disposte, scoprii, intorno a una voce. Un uomo basso dall’accento che non sapevo identificare declamava un poema che non riconobbi. Dapprima mi incuriosì il timbro della voce: profonda, innaturale, un momento tanto rugosa da potercisi aggrappare, poi fresca come uno zampillio, di nuovo aspra, bellicosa, poi così notturna da far sorgere anzitempo la luna. Diceva:

    «Il castello di Tintagel si affaccia imponente sul mare squassato dai venti, non teme gli assedi né gli inganni diabolici dei maghi. Le mura costruite dai giganti riverberano riflessi di rosso e di azzurro. In questo luogo il re Marc Cunomor e la regina Essylt banchettano con gli uomini di Bretagna e Cornovaglia. Tutt’intorno alla reggia la terra abbonda di pascoli e foreste, di selvaggina e di acqua dolce. Là sbarca Drustan, solo, anzi no: insieme a lui i fedeli compagni dolore e disonore».

    A colpi di gomito mi feci largo tra braccia e corpi ammassati, le orecchie tese a non perdere frasi che non si preoccupavano di aspettarmi. Il cantore gesticolava, materializzava le scene e i personaggi, dava alla voce visi e paesaggi. Quando il cerchio degli spettatori si disperse e ciascuno rientrò alle proprie occupazioni io rimasi immobile.

    «La mia storia ti ha trasformato in albero?», chiese il cantore.

    In un albero no, in un altro uomo, forse. Se la saggezza degli anni trascorsi fosse stata già con me avrei risposto:

    mi ha trasformato in me stesso,

    mi ha rivelato quello che sono, la verità nascosta sulle mie origini e il mio destino.

    Immaginate di abitare un castello, di vagabondare per i corridoi e di scoprire un passaggio segreto che si apre su stanze meravigliose di cui ignoravate del tutto l’esistenza, saloni affrescati e mosaici, alte vetrate dalle quali si protendono, come le dita del buon Dio, drappi di luce verde e rosso rubino. Ecco, io ero quel castello e dentro di me c’erano luoghi meravigliosi la cui esistenza era celata dalle comode illusioni quotidiane. I racconti erano la chiave per aprirle. Ora sapevo, né potevo più fingere di non aver mai saputo. Il mio passato non mi assomigliava più, il futuro, con i suoi forse, mi era specchio ben più fedele.

    Di nuovo mi felicitai e gli chiesi da dove venisse.

    «Dalla Bretagna» rispose «dove ho appreso questa e altre storie dal mio maestro Breri».

    Nella sua occhiata fiera mi parve allora di scorgere orgoglio e mistero.

    «L’odore delle parole.» aggiunse, «Quando Breri raccontava le parole erano così vive che ne sentivi il profumo e il sapore, come di un fiore o di un frutto, di un pane caldo di forno».

    Mi sforzai di immaginarlo. Un personaggio del poema aveva detto a un altro: non sei nato finché non hai lasciato la tua casa e hai conosciuto l’avventura. Quella frase sapeva di foglie bagnate e frutti di bosco maturi, muschio e corteccia e brezze di settembre. Aveva il gusto pungente di ciò che volevo essere.

    L’odore delle parole l’ho sempre inseguito, ma solo in brevi istanti di beatitudine mi è parso di esserne sfiorato, come quando Marie …: ma ogni cosa è bene raccontarla al momento giusto.

    Il cantore rimase in città altri tre giorni e volentieri accettò che alla sua si aggiungesse una seconda ombra, un’ombra che dalla prima sera aveva perduto il sonno e masticava parole e le inghiottiva solo dopo averne assaporato il sapore, le digeriva e le ruminava come un bovino al pascolo.

    Non avevo mai visto una scogliera a picco sul mare, non ancora, eppure udivo da lontano infrangersi le onde mentre Drustan gridava: «A che mi servirà il coraggio? Cunomor mi odia, ha maledetto il giorno della mia nascita, con le sue mani desidera offrire ai corvi il mio cadavere. Ma il pensiero già corre alla regina Essylt, più forte della morte è il desiderio, più della paura. Vale la pena morire per le sue belle labbra, i suoi seni bianchi, i suoi capelli di morbida seta. Essylt, grida, tra i tuoi fianchi ho smarrito il senno!».

    Le stesse fiamme che consumavano il corpo e il cuore di Drustan, non altre, mi scottavano la pelle. Nel sonno le mie dita cercavano

    i misteri della bionda Essylt.

    Non c’era donna che non le somigliasse in un particolare del viso, dell’abito, dell’incedere, ma nessuna ne eguagliava la fascinazione impura.

    C’era una ragazza che mi piaceva e che forse si stava innamorando di me. Ci eravamo scambiavamo baci in una viuzza così stretta che i muri sembravano mascelle pronti a inghiottirci,

    ma non come le sue gambe quando la mia mano goffa cercava un varco,

    non come il mio cuore mentre la Senna mugugnava.

    Essylt la scacciò, poverina. Mi mancò il coraggio di salutarla. Ripensai a lei solo molti mesi dopo, ritto davanti all’oceano, i piedi scalzi graffiati dalla scogliera, le caviglie schiaffeggiate dalla frusta delle onde. L’oceano mi suggerì le parole che le avrei detto se mi fosse stato consentito rivivere quell’ora di tramonto e primavera:

    «Su, nell’aria ti condurrò, mia regina, nella sala che è tutta di vetro ed è bella e spaziosa; galleggia sull’aria e s’appoggia sulle nubi, mai oscilla né è scossa dai venti. E c’è una camera di cristallo e di marmo; quando al mattino il sole si leva il suo splendore l’inonda e la colma di luce».

    Quella ragazza, confessai a un mare sordo come il Dio che assiste a una battaglia, quella ragazza andrà in sposa al figlio di un tessitore o di un beccaio e nessuno reciterà per lei un dolce poema.

    Questo le avevo dunque tolto, l’illusione effimera di valere più del destino che l’attendeva.

    Quale paradossale esordio il mio: le prime parole d’amore di un poeta il cui nome è oggi noto nelle corti grazie a poemi che esplorano le forme e le sfumature dell’amore, furono parole mute, taciute, silenti, omesse, non dette, sdette, dissolte, condannate alla maledizione del vuoto e del nulla, sconfitte, informi, per ciò dunque insensate.

    Dopo l’addio del cantore ero caduto in uno stato d’animo simile al lutto. Senza i racconti la città dov’ero nato e vissuto non era più la mia patria, ma una selva di rovi e malinconia. Servì a poco l’astensione dal formaggio e dagli altri cibi freddi e secchi che causano sbalzi di umore in animi predisposti al predominio della bile nera: durante il giorno, derubato di me stesso, attendevo che mi abbracciasse la quiete del sonno, ma la notte subito smaniavo la consolazione dell’aurora.

    Partii, non mi vergogno a dirlo, al seguito di un manipolo di musicisti e teatranti grazie ai quali, mi auguravo, avrei avuto accesso sia alle corti che alle taverne.

    La felicità si risolse in una forma di ubriachezza: la strada costeggiava boschi di querce dal cui fitto si udivano i grugniti dei maiali, di tanto in tanto accostavamo le anse di un canale, alberi di mele e ragazzini che pescavano gamberi. E tutto, tutto mi sembrava, anzi era, sovrabbondante di sostanza e luminosità.

    Quando mi voltai per l’ultima volta, l’orizzonte inghiottiva il profilo della città di Troyes. Se era bastato così poco per mutare la famigliarità in esilio, significava che dovevo essere stato già prima fuori posto, lontano da me stesso, che io e il luogo in cui fino quel momento avevo vissuto non ci appartenevamo.

    Ora che appartenevo all’esilio, ora che ad esso mi arrendevo, finalmente ero al posto giusto, nella mia patria senza suolo. Però, aggiungevo: sono davvero poco i racconti? Sono poco le voci che hanno preceduto la penna e l’inchiostro, voci senza volto di cantori e ascoltatori, voci riflesse in una galleria di specchi vuoti?

    Avventura, ad ventura, era l’andare verso le cosa a venire, ovvero verso l’ignoto, ma anche verso il passato, che è la terra da dove proviene ogni conoscenza. Il passato, pensai, è il regno dei morti, dunque uno sconfinato e inesplorabile labirinto. Per un attimo insostenibile il presente mi apparve come un grandioso limpidissimo e immobile silenzio schiacciato tra due misteri insondabili.

    La mia prima notte da esule mi addormentai in una stalla. Il calore delle vacche compensava il tanfo dello sterco. Al risveglio, quando una donna ci urlò qualcosa che interpretammo come un invito a toglierci dai piedi, compresi il valore dei riti del mattino: lavarsi il viso, svestirsi della camicia da notte e indossare gli abiti del lavoro. La mente correva incontro al futuro, ma al corpo un poco mancavano le abitudini.

    Il grigio e denso congedo del buio svaporava toccato dal calore del sole; al posto dell’oscurità gocce di rugiada scintillavano sulle foglie. Mi scortavano brezze e risate, le rane nei fossi e pensieri disordinati. L’arte, congetturavo, era un adulterio, la riproduzione imperfetta della natura, eppure nello scarto tra il vero e la sua rappresentazione c’era uno spazio dove far vivere ciò che fino a poco prima non esisteva.

    L’astro mattutino pennellava di giallo e di verde i campi e le messi.

    Prima scorgemmo i salici, poi la Loira.

    Nella città di Orléans

    A Orléans c’era una casa con ghirlande di fiori che drappeggiavano un balcone. Evitai di scostarle e permisi, lieto, che mi sfiorassero i capelli e le narici. Questo è il profumo del rosso, pensai, e quest’altro, sì, è il giallo, e quello più fresco deve essere il verde. Blu era il manto del pomeriggio. Grigio il mio passato, porpora l’avvenire.

    A Orléans c’era una chiesa dalla facciata bianca che non svettava oltre i tetti con superbia, come un signore che domina sui sudditi, ma si allungava appena al di sopra dei camini, li superava di poche braccia, con discrezione, più simile alla mano di una madre che sta per accarezzare il proprio figlio. Mi piacque, forse non per quello che era quanto perché io ne feci lo specchio dei miei pensieri, nei quali, ma l’ho capito solo ripercorrendo a ritroso gli anni, riverberava un segreto bisogno di protezione ridotto al silenzio dalla spavalderia giovanile.

    Il contrasto con l’invettiva che m’investì appena spinto il portale non poteva dunque apparirmi più stridente. Sul pulpito si agitava e sbracciava un monaco stridulo dal musino di sorcio inferocito.

    «I semi putridi dell’eresia» gridava, «hanno attecchito nella regione: confusi tra le pecore del gregge di Cristo, invisibili come l’arrivo della pestilenza, i seguaci dei servi del demonio Pietro di Bruys e del suo successore Enrico predicano sottovoce contro le verità della Santa Madre Chiesa. Questa gentaglia putrida, peggio di morti viventi, pubblicamente si fingono di costumi irreprensibili, per meglio ingannare gli ingenui, ma in privato si abbandonano all’orgia. Il loro fiato repellente puzza del tanfo dello zolfo infernale, ma le loro parole sono suadenti e tentatrici: la Chiesa, il santo padre e vescovi, dicono, sono invenzioni dell’Anticristo, e le conseguenze del peccato originale non ricadono sulle generazioni successive perché le colpe non si possono tramandare. Che schifo! Che orrore!».

    Il predicatore era magro, segnato dalle penitenze. Sul volto scavato, quasi un teschio dipinto, si agitavano due occhi infiammati, incapaci di sosta, che dardeggiavano spietati sull’assemblea.

    «Chi sostiene queste tesi immonde» urlò al culmine del fervore «non va ascoltato, ma bastonato e denunciato. Se qualcuno vi dice che i bambini che muoiono prima dell’età della ragione si salvano anche se non battezzati e che il battesimo va amministrato solo agli adulti capaci di libera scelta, rispondete che la vostra fede vi impone di credere al peccato originale di Adamo ed Eva, che disobbedirono al Signore nel giardino, e al battesimo che lo redime. Se qualcuno vi invita a rifiutare la santa eucaristia dalle mani di un sacerdote sospetto di corruzione e giunge ad affermare che è sufficiente confessarsi l’un l’altro per riappacificarsi con Dio rispondete» alzò entrambe le braccia al cielo con goffa solennità «che la grazia divina, che agisce nel sacramento, viene da Dio, non dagli uomini».

    Quell’omelia confusa, che mescolava eresie diverse come se fossero state una sola, rimase ben impressa nella mia mente. Presto li avrei incontrati, gli eretici, e con loro la doppia tentazione della purezza e della perdizione.

    Il frate, che si chiamava Ademaro, annunciò che l’indomani avrebbe ripreso la predicazione itinerante lungo la valle della Loira verso Tours e Angers e avrebbe combattuto la pestilenza dell’eresia con la medicina del Vangelo. Ebbi l’impressione che il peccato di orgoglio gli apparisse, almeno relativamente a se stesso, perdonabile. Soprattutto, mi resi conto che mi si presentava un’occasione per mettermi subito in viaggio verso la Bretagna: la compagnia sarebbe stata tetra, temevo, ma la strada più sicura. Avrei dovuto essere prudente, misurare le parole. Il predicatore certo sapeva che il nome che portavo era spesso attribuito ai figli degli ebrei convertiti. Mi sarei preparato una risposta. A un tipo tanto facile a infiammarsi e a promettere al prossimo le fiamme era meglio non rivelare che la mia cara madre era davvero una giudea battezzata.

    All’ite missa est lo avvicinai e mi offrii di partecipare alla sua missione con l’incombenza di affidare alla scrittura, quindi alla storia, i successi della santità contro l’eresia. Il suo fiato non annunciava gli aromi del paradiso, piuttosto la famigliarità con cipolle e porri. La prospettiva di un biografo che registrasse le sue imprese contro il maligno – chissà, forse, un giorno, la santità – lo allettò abbastanza da accettarmi. Il peccato di vanità era un fardello minore.

    Fuori, dei ragazzini si facevano beffe di un mendicante. Un canonico li rimproverò.

    «Andatevene», gridò, «lasciate in pace questo pover’uomo».

    Mise un pane vecchio nel palmo della mano tesa e si rivolse al miserabile.

    «Ora vattene anche tu» disse sottovoce.

    Il poveraccio indossava stracci e brandelli di stoffa. La sua puzza feriva le narici e, un poco, la coscienza. M’incamminai senza altra meta dei racconti che mi assediavano. Al bisbiglio lascivo di una prostituta risposi con un diniego educato, anzi, se la parola esistesse, educasto. Nella mia immaginazione il pezzente era già diventato un cavaliere caduto in disgrazia, un nobile sventurato travestito da poveraccio per sfuggire a una sorte ingiusta oppure, perché no?, per meglio avvicinare il suo amore proibito. Di nuovo udii risuonare le parole del cantore che, lo ammetto, non avrei più saputo dire se fossero veramente sue o se invece mi appartenessero e dell’altro avessero indossato il travestimento autorevole.

    «Il matto cencioso varca la soglia del castello. Dei ragazzini lo scorgono e subito accorrono e ululano tutt’intorno come se fosse entrato un lupo: Ecco il matto! Ecco il matto! Hu! Hu! Hu! Hu!

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