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Un romanzo storico, ambientato nel più alto Medioevo, che vede muoversi quattro personaggi principali e diverse figure di contorno, intorno all’amore per i libri antichi, che in quel periodo andarono, per la loro maggioranza, tragicamente perduti. Due dei protagonisti sono personaggi di fantasia, come i personaggi di contorno con qualche eccezione, mentre due sono veri personaggi storici di cui molto si sa, ma non tutto.
Gli altri protagonisti, se così li possiamo chiamare, sono il mare, l’avventura, l’amore, la religione e, naturalmente, i libri.
E’ un romanzo assai particolare, nel quale ci siamo permessi ogni tipo di libertà letteraria, da quella stilistica, per i toni di ballata o di poesia vera e propria che certe volte assume la nostra prosa, a quella del Narratore Onnipotente che non si perita ad entrare con proprie osservazioni nel racconto, contraddicendo così ogni regola del buon scrivere; dal discutere con il lettore fino all’uso di una punteggiatura personalizzata.
Ma non voglio anticipare troppo, anche se mi corre l’obbligo di avvertire chi comprerà questo romanzo, che si tratta sì di una divertente avventura, ma anche di un romanzo colto, che richiede un minimo di conoscenze storiche, per essere apprezzato e gustato.
A tutti i miei lettori…Buona Lettura!
LanguageItaliano
Release dateNov 24, 2014
ISBN9786050337273
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    Libri - Giovanni Franceschi

    Postfazione

    Nota storica

    Ci ha ispirato, in questo racconto, la tesi di Henri Pirenne, lo storico belga che per primo ha tentato di cambiare i libri di Storia (quella con la maiuscola) con la sua originale tesi sulla rottura dell'unità socio economica del Mediterraneo. Egli sostiene, come è noto, che non fu la caduta di Roma a determinare un cambiamento tale da giustificare la definizione di Medio Evo come il periodo che va dalla caduta di Roma alla scoperta dell'America. In verità, la caduta di Roma non cambiò nulla nella vita della gente, della stragrande maggioranza della gente, dei contadini, intendo, degli schiavi, dei mercanti, così come non cambiò la moneta perché ancora si utilizzò a lungo quella coniata da Roma e non cambiarono le leggi che venivano applicate, quando si poteva applicarle, e non cambiarono le rotte commerciali e, diciamolo chiaramente, in molte parti dell'ex impero romano neppure si sapeva che Roma era caduta sotto la furia delle invasioni barbariche. Inoltre la differenza fra certi saggi imperatori barbari come Rotari o Teodorico non fu molta rispetto ai debosciati ultimi imperatori romani, che poi non erano neppure romani, e questo non suoni ad offesa, ma a lode di una civiltà che molto meglio di quella odierna aveva capito che si può essere grandi solo accettando la multicultura, se ebbe grandissimi imperatori nati in Spagna o in Grecia, tanto per fare un esempio.

    Pirene sostiene che l'unità culturale e socio-economica del Mediterraneo fu rotta dalla comparsa degli Arabi. Non che gli Arabi già non ci fossero, qui si intende la comparsa dell'Islam, la comparsa di pirati che aggredivano navi da trasporto portando presto alla scomparsa dei tradizionali, millenari commerci fra oriente ed occidente. Immediata conseguenza fu anche la scomparsa della moneta tradizionale che non valeva a salvar più la vita, magari pagando un riscatto, come non serviva più a comprare da chi non voleva più vendere. E non dimentichiamo che solo pochi anni dopo la morte di Maometto già tutte le coste mediterranee dell'Africa erano in mano araba e che ai primi del '700 gli Arabi passeranno Gibilterra, così chiamata da Gebel el Tarik (la montagna di Tarik) per iniziare la conquista dell’Europa.

    E’ in questi anni che la storia antica finisce ed inizia il Medio Evo, non con la caduta di Roma, almeno per il mondo del Mediterraneo. Da questo momento si perde l'ottanta per cento della produzione letteraria romana ed oltre il novantacinque per cento di quella greca. E badate bene che queste percentuali tengono conto di quanto recuperato poi nell'Umanesimo e nel Rinascimento grazie alle riscoperte di antichi manoscritti miracolosamente salvati da bravi monaci che ciecamente copiarono, spesso senza saper neppure leggere, anche cose che avrebbero distrutto, se fossero stati meno ignoranti.

    Ci è piaciuto immaginare, nella nostra storia, che qualcuno si sia reso conto, più o meno, di quanto stava accadendo e che abbia tentato di fare qualcosa per noi, uomini del 2000.

    Nota dell'autore

    Mi corre l’obbligo di preavvertire il lettore che ho usato, deliberatamente, una forma letteraria un po’ particolare sia per la grammatica che per la punteggiatura e la sintassi, ma il buon lettore ne soffrirà solo nelle prime pagine, poi capirà e si adeguerà. Almeno spero. Ho fatto questa scelta in omaggio ad un uomo, un grandissimo scrittore contemporaneo, da poco deceduto, alla cui opera sono legato da una singolare corrispondenza di sensibilità, un uomo che apprezzo moltissimo. Si tratta del portoghese Jose Saramago che è facile apprezzare, direte, perché è un grandissimo, un premio Nobel. E va bene, è facile apprezzarlo, ma apprezzare è verbo tenue, poco impegnativo, e si apprezzano tante cose e tanti scrittori e scrittrici. Io però lo amo perché lui non si perita ad entrare nelle sue storie, da Narratore Onnipotente, quasi fosse lui stesso un personaggio, perché dice le cose come vorrei essere capace di dirle io, con chiarezza, con freddezza apparente, con rispetto per i suoi personaggi, con qualche distacco o con ironia, alle volte, e con quella semplicità che, come lui stesso ci spiega, è il modo migliore per dire le cose più complesse, per esprimere i sentimenti più profondi, addirittura con una parola sola, quando la parola giusta esista, e se no, meglio niente.

    PREMESSA

    Se la nostra storia cominciasse così, C'era una volta un marinaio di nome Tito, siamo certi che in molti chiuderebbero subito il libro. Pazienza, poco male, potremmo dire, abbiamo eliminato subito chi non è curioso, chi non ha tempo da sprecare, chi giudica troppo in fretta, per esempio, e sono tanti, forse anche gli indifferenti, perché sappiamo con certezza, per esperienza personale acquisita fin dagli anni della più tenera infanzia, come si suol dire, che tante storie bellissime iniziano con questo C'era una volta. Comunque, se vogliamo esser sinceri, anche noi, con il sopravvenire dell'adolescenza, abbiamo cominciato ad essere poco soddisfatti di questo C'era una volta, tanto che sovente ci siamo chiesti, Ma questa volta quando era, Una volta, Ma quale, Quella, e poi, per sfuggire a quell'indeterminatezza non più affascinante come quando si conosce poco poco di un mondo tanto grande, cominciano le indagini, la scrupolosa raccolta degli indizi utili ad una ragionevole collocazione temporale della vicenda, e Cenerentola, tanto per fare un esempio, quando era. Di sicuro sappiamo che visse in un tempo in cui i padri, vedovi o divorziati, che questo non è dato sapere, già usavano sposarsi in seconde nozze con donne belle e malvagie, di solito ricche e forse anche nobili, poco curandosi della sorte delle creature avute dalla moglie precedente. Il primo serio indizio viene dal linguaggio che, usato presumibilmente da un narratore originario, viene tutt'oggi rigorosamente conservato da padri, madri, nonne, nonni, zii, zie, balie, amici di famiglia, baby sitter, custodi, maestre d'asilo, pedofili e narratori occasionali e che è caratterizzato dall'uso di vocaboli tipici di un Italiano un po' poetico dell'Ottocento, ma forse qui confondiamo con Biancaneve, come Brame, della matrigna, o Reame, dove tutti vivevano. Ma appena ci si illude, perché pare di avere individuato la Volta, e qui siamo tornati a Cenerentola, ecco subito ci assale il dubbio atroce di una storia ambientata nel futuro, a causa di perfette manipolazioni genetiche di una zucca che diventa carrozza o di topolini, che diventano destrieri, ed infine, a gettarci nella più angosciante indeterminatezza temporale, le scarpette. Sì, quelle di cristallo, quelle con cui la fanciulla ha danzato leggera fino a mezzanotte, senza avvertire il minimo dolore ai piedi, neanche fossero Valleverde, quelle scarpette col tacco alto che non si rompe mai, e non ditemi che avevate immaginato delle pianelle, perché in ogni caso non vi sarebbe stato ciabattino in grado di risuolarle, neppure se fossero state di plexiglas.

    Insomma avete capito che anche noi qualche dubbio ce l'abbiamo su questo C'era una volta, e poco male sarebbe avessimo solo dei dubbi, il fatto è che, come narratore, abbiamo anche delle responsabilità: potremmo, per esempio, generare delle aspettative improbabili destinate ad esser deluse dal seguito della narrazione, oppure, ancor peggio, in soggetti particolarmente predisposti, potremmo provocare delle vere e proprie crisi di panico, di cui non vogliamo essere incolpati, a causa del vuoto, dell'indeterminatezza del tempo e conseguentemente, come spesso accade, anche dello spazio.

    E allora non inizieremo così, col C'era una volta, ma ve lo diremo subito quando era quella Volta, accettandone le conseguenze, di non poco conto, davvero, ma preferiamo, e sia quel che sia.

    Era nientemeno che il 644 d.C. e, dato che ci siam messi a precisare, diciamo subito che questo Tito non era un semplice marinaio, ma il comandante di una nave.

    Il suo nome, anche se noi, come i suoi compagni della storia, lo chiameremo Tito, era Titus, ma lo sfortunato viveva in un periodo di corruzione linguistica, senza soffrire, tuttavia, della storpiatura. Quanto poi al fatto che quello fosse un periodo di degrado della lingua latina, e non di evoluzione, è questione che lasciamo volentieri a filologi, glottologi o quanti altri. Per noi tanto basti.

    La nave che Tito comandava, perché la storia inizia su una nave, era da carico e trasportava merci e passeggeri, né ci stupisca la mescolanza, che non sempre, a quel tempo, ed altrettanto adesso, le vite umane valevano più delle merci. Era un'oneraria, una nave costruita per portare molto peso, come indica il sostantivo latino, di genere neutro, da cui prende nome, solida, ma non veloce, di solito.

    Ma quante

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