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I Love JU
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Ebook342 pages4 hours

I Love JU

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About this ebook

Ju come Juve, la squadra del cuore.

Ju come Julia, la fidanzata.

Giacomo, supertifoso juventino, e’ in bilico tra due donne: da una parte la fidanzata Julia che, alla soglia dei trent’anni, non desidera altro che sposarsi e mettere al mondo dei figli e dall’altra la travolgente Monica, sua ex compagna di classe trasformatasi in una sorta di playmate tutta curve, che lo seduce a colpi di silicone e cocaina.

Il tutto sullo sfondo delle due semifinali di Champions League tra Juventus e Real Madrid. La Juve vola in finale contro il Milan, mentre Giacomo si ritrova all’ospedale con una prognosi di amnesia totale causata da un forte attacco di stress. Sebastiano, il suo compagno di stanza, un autistico completamente dedito alle statistiche della squadra bianconera, in poco tempo stravolge il suo equilibrio interiore, facendogli nascere istinti omicidi e portandolo a odiare la sua “amata”Juve.

Il giorno della finale, mentre gioisce per la vittoria del Milan, tutto nella sua mente inizia a diventare chiaro.
LanguageItaliano
Release dateNov 4, 2014
ISBN9786050331493
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    I Love JU - Jonathan Arpetti

    Jonathan Arpetti

    I LOVE JU

    UUID: f52d160a-6396-11e4-8313-ed5308d36374

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Table of contents

    Prefazione

    0

    1

    Julia

    2

    Julia

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    Julia

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    Julia

    Epilogo

    Jonathan Arpetti

    I LOVE JU

    Una grande storia d’amore, anzi due.

    romanzo

    Prefazione

    Prefazione

    A chi non è capitato di dover saltare una partita per assecondare il volere della propria donna?

    È la cosa più assurda del mondo... tu sei al ristorante con lei e non pensi altro che alla partita, qualsiasi rumore che si alza dal tavolo vicino ti fa sobbalzare e ti fa pensare a:

    1. Ha segnato la Juve

    2. Ha preso gol

    3. Cerchi di non guardare il telefonino, perché sai che se ha segnato la Juve, ti manda un messaggio il Tato, se hanno segnato loro, arrivano i messaggi da tutti i tuoi amici interisti.

    Perché, perché, perché sei venuto al ristorante con lei? Perché non hai avuto il coraggio di dirle:

    no, scusa ma stasera c’è la 6° di campionato e sai com’è ma stasera la Juve gioca con il Catania... perché?

    Beh... la risposta la sai... solo perché non vuoi litigare... tu hai scelto di vivere una vita al fianco di una persona splendida, ma ha un difetto: quello di essere una donna che non gliene frega niente di calcio.

    PAOLO BELLI

    0

    Non so voi, ma io m’innamorai a undici anni e posso dire, con assoluta certezza, che non finirà mai. Un amore eterno. Ebbene sì, gli amori eterni esistono e io ne sarò la prova vivente.

    Fu un vero e proprio colpo di fulmine, di quelli che ti capitano una volta nella vita. Come si dice in questi casi, persi la testa completamente.

    A quell’età ci si può innamorare di tutto: della compagna di classe, di una bicicletta, di un videogame, di un animale domestico.

    Io m’innamorai dell’altra squadra della città.

    Proprio così. Dell’altra squadra.

    Quella che per mio padre, tifoso granata, era qualcosa da evitare come un cane rabbioso.

    I gobbi, li chiamava…

    Per fortuna non resistetti al desiderio di trasgressione, altrimenti avrei dovuto far richiesta al Creatore di rinascere una seconda volta, sperando che un mio padre di turno fosse bianconero; invece ora eccomi qua, a godere delle infinite gioie che la mia squadra continua a regalarmi.

    Era il 26 febbraio del 1984, il giorno del mio compleanno. Domenica.

    Avevo trascorso l’intera mattinata al parco del Valentino insieme a mia madre. Lei era seduta su una panchina di fronte a un laghetto mentre io giravo con la mia bicicletta nuova per le stradine di ghiaia che lo circondavano. Quella bici rossa con le ruote scolpite e un ammortizzatore sotto la sella era il suo regalo di compleanno. Il massimo! Come al solito aveva esaudito un mio desiderio.

    Mia madre era tutto per me e se avessi avuto l’opportunità di scegliere, avrei passato ogni attimo del mio tempo insieme a lei.

    Purtroppo il pomeriggio era il turno di mio padre.

    Dopo il divorzio aveva il permesso di vedermi solo un giorno la settimana, di solito la domenica, a causa del lavoro che svolgeva: era impiegato presso un’azienda che si occupava di pubblicità, o di qualcosa del genere, che lo faceva viaggiare in tutta Italia.

    Lui, come regalo di compleanno, mi portò allo stadio.

    Ricordo ancora che durante il tragitto mi chiese se mi piaceva il calcio e senza aspettare la mia risposta, iniziò a raccontarmi la storia del grande Torino. Di Valentino Mazzola e Gabetto e del resto della squadra e di come il destino se li portò via.

    Mi disse che era la squadra più forte di tutti i tempi, capace di vincere cinque scudetti consecutivi oltre a una Coppa Italia, una squadra piena di campioni che facevano parte della nazionale italiana e diventata leggendaria dopo la tragica scomparsa nell’incidente aereo di Superga.

    Mentre parlava avrei voluto dirgli che il calcio non m’interessava, ma non lo feci. Forse per non deluderlo o forse per qualche altra ragione, ma avevo già chiaro in mente che, se mai fossi diventato un tifoso di quello sport, la squadra per cui teneva mio padre non sarebbe stata la mia. Mai e poi mai.

    Sentivo sulla pelle qualcosa che respingeva quel colore. Avevo i brividi al contrario.

    Per lui quel club significava molto, il cuore granata andava oltre ogni ostacolo. Io invece avrei voluto che non avesse lasciato me, mia sorella e mia madre per andare a vivere con una donna molto più giovane di lui.

    Prima di entrare allo stadio mi fece imparare la formazione a memoria, abbinando i numeri a ogni giocatore, così che avrei potuto riconoscerli e incitarli in ogni momento della gara. Per un attimo lo illusi, poi dimenticai tutto.

    M’insegnò anche un inno che avrei dovuto urlare insieme al resto dei tifosi: "I granata sono qua, i granata sono qua, non importa dove il Toro giocherà, forza Toro alè, sempre insieme a te…". Piuttosto avrei preferito andare dal dentista e farmi togliere un dente.

    Non appena misi piede all’interno dello stadio, restai folgorato. Dai tifosi dell’altra squadra.

    Tutti quelli che erano in curva indossavano una maglia bianconera e sventolavano bandierine degli stessi colori, inoltre avevano appeso alla base della gradinata un enorme striscione con scritto: La leggenda del calcio siamo noi.

    Fu amore a prima vista.

    Ci fossero stati diecimila tifosi che mostravano il sedere, la mia reazione sarebbe stata la stessa.

    Qualsiasi altra tifoseria si fosse trovata in quel momento, in quella curva contro il Toro, l’avrei amata per sempre. Sarei potuto diventare tifoso della Fiorentina, del Milan, dell’Inter…

    Ogni volta che ci penso mi sento gelare il sangue.

    Ma quel giorno, per fortuna, c’erano quelli dell’altra squadra.

    A volte il destino è davvero un grande.

    Durante quel derby avrei voluto scappare nell’altro settore, cantare gli altri inni, incitare gli altri giocatori, ma naturalmente non lo feci, limitandomi ad applaudire le belle azioni del Torino per non far insospettire mio padre.

    Alla fine la Juventus vinse due a uno, con doppietta di un giocatore francese di nome Platini, che secondo me era stato il migliore in campo.

    Non smetterò mai di ringraziarlo.

    Mio padre accusò l’arbitro di aver favorito gli avversari e, per consolarmi, mi disse che comunque avevamo giocato molto meglio di loro.

    Chissà come avrebbe reagito se avesse saputo che il suo unico figlio maschio era uno di loro, un traditore, un gobbo.

    Purtroppo, o per fortuna, non lo seppe mai.

    Morì un anno dopo, in un incidente stradale causato da un furgone che sbandò e ci venne addosso, mentre stava riaccompagnando a casa me, mia madre e mia sorella dopo essere stati a far visita a una zia ricoverata all’ospedale.

    Io fui l’unico superstite.

    Aveva lasciato la donna con cui si era messo e stava tentando di ritornare insieme a mia madre.

    Per mio padre io sono un grande tifoso del Toro, colui che insegnerà ai suoi nipoti quello che lui aveva iniziato a insegnare a me: amare i colori granata.

    Spero mi perdoni.

    A questo punto dobbiamo fare un salto in avanti nel tempo.

    1

    Non so se le cose capitano per caso, o se tutto è già scritto

    Fondata nel 1897 come Sport Club Juventus da un gruppo di studenti liceali torinesi, è il terzo club calcistico italiano per anzianità tra quelli tuttora attivi dopo Genoa, 1893 e Udinese, 1896.

    Giovedì 30 aprile 2003

    Anche se ero arrivato al teatro sperimentale don Bosco con venti minuti di ritardo, le prove non erano terminate e lei ancora non era pronta per uscire.

    Ah, scusate. Per lei intendo, Julia, la mia fidanzata storica.

    Ho attraversato un passaggio inclinato che portava a un corridoio su cui si affacciava una serie di porte. Ne ho aperta una. Era un palco laterale a poca distanza dal palcoscenico. Mi sono seduto. Sono rimasto lì ad aspettare, con la spiacevole sensazione che ancora ne avessero per un bel po’.

    Da una parte guardavo i movimenti frenetici dei macchinisti e dei tecnici che cercavano di sistemare nel modo migliore i cavi elettrici, i fari colorati, gli amplificatori, dall’altra quelli del regista e dello scenografo impegnati a discutere su qualche dettaglio riguardante l’ambientazione.

    Era un insieme di tensioni che rientravano in una tensione collettiva, alimentata e percorsa da impulsi di intensità diverse.

    Sembrava un mondo fuori dagli schemi, governato da regole in continua evoluzione, che procedevano su un filo sospeso sopra un precipizio.

    A un certo punto l’orchestra ha iniziato a suonare, facendomi sussultare. Non me ne ero accorto, ma da qualche parte dovevano esserci pure loro.

    Erano onde sonore in continua variazione, insistenti e rapide, minacciose e leggere, dove a momenti alterni spiccavano ora gli archi, ora le percussioni, ora gli strumenti a fiato, guidati ad arte dal direttore, con gesti fatti di slanci improvvisi delle braccia e scosse laterali, impennate e ricadute armoniche.

    Se fossi stato un amante di quel genere di musica, avrei apprezzato l’onda calda delle sensazioni che mi venivano incontro. Ma non lo ero e nel frattempo si stava facendo tardi.

    Ancora una volta ero caduto nella sua trappola. Voleva a tutti i costi che assistessi alle prove e, ricevendo ogni volta il mio rifiuto, si vendicava dandomi appuntamenti in anticipo anche di un paio d’ore.

    Forse era giunto il momento di far valere le mie ragioni.

    Quali erano le mie ragioni?

    Lei mi aveva chiesto di starle vicino durante la sua avventura teatrale e io non avevo saputo fare di meglio che scherzarci sopra.

    Perché mi stavo comportando in quel modo?

    Forse non credevo nelle sue capacità artistiche?

    Non la ritenevo all’altezza di recitare di fronte a un pubblico di cinquecento persone?

    Stava perdendo del tempo con attività poco importanti?

    O forse c’era dell’altro?

    Non ero molto bravo a psicanalizzarmi e di solito non lo facevo, ma in quel momento mi sentivo crescere dentro una forza che mi spingeva ad andare avanti. Era un primo passo. Mi stavo aprendo a me stesso e se continuavo a scavare, forse sarei riuscito a trovare la soluzione.

    La soluzione di cosa?

    Non ero mica il tenente Colombo che doveva scoprire chi fosse l’assassino. Per fortuna non c’era nessun cadavere e nessun caso da risolvere.

    Mi stavo perdendo.

    Ho fatto retromarcia. In realtà lo scenario era molto più piatto e semplice.

    Non volevo perdere tempo con cose che non mi interessavano. Punto e basta. Ero stufo marcio di aspettarla su una stupida poltrona come uno che non ha niente da fare nella vita.

    Se lei voleva spendere il suo tempo libero recitando in una compagnia di quartiere, benissimo, poteva farlo, non avevo nulla in contrario, ma non doveva coinvolgermi. Io avevo ben altro a cui pensare.

    Mi sono alzato in piedi e, mentre me ne stavo andando, lei è apparsa sulla scena iniziando a recitare la sua parte.

    Mi sono bloccato e per un attimo mi sono lasciato trasportare. Dopo tutto era la mia ragazza e dovevo essere orgoglioso di lei.

    Lo ero o non lo ero?

    Ma poi l’attimo è svanito.

    Avrei dovuto ascoltarla con il fiato sospeso.

    Perché non era così?

    Le sue battute s’intrecciavano con i miei pensieri in una corrente oscillatoria che mi trascinava all’indietro nel tempo fino agli inizi della nostra storia, quando ci sembrava di avere tutte le sensazioni del mondo convogliate sulla pelle e in avanti nel futuro, fino a scenari e situazioni monodimensionali che non riuscivo a decifrare.

    Mi sono venuti in mente tutti i nostri momenti più intensi e, trasportato da uno slancio d’amore, ho cercato di far sparire un flusso altrettanto intenso di sentimenti negativi.

    Da dove venivano questi sentimenti negativi?

    Perché erano comparsi?

    Non capivo.

    Io amavo Julia e uno dei miei desideri più grandi era quello di continuare a condividere la vita con lei.

    Perché questi pensieri contraddittori come uno che cerca di sfuggire a un abisso e allo stesso tempo ne è inconsciamente attratto?

    Che cosa significava?

    Non ne avevo idea.

    Venti minuti più tardi eravamo seduti in auto e stavamo percorrendo corso Regina Margherita in direzione est.

    L’auto in questione era una Punto del ’93 con più di trecentomila chilometri sul groppone. Carburava con fatica, aveva i freni consumati e le sospensioni da rifare, mentre in curva sembrava di guidare una barca a vela, in quanto il volante rispondeva con la stessa prontezza di un timone. Sapevo che un giorno o l’altro mi avrebbe mollato in mezzo a una strada, ma cercavo di non pensarci perché in quel momento non potevo permettermene una nuova.

    Stranamente c’era ancora poco traffico e io guidavo quasi al centro della carreggiata senza pensare ai miei gesti.

    Guardavo il grigio dell’asfalto scivolare via e mi sembrava di essere incapace di pensieri compiuti, di far evolvere le idee ed esportarle nel territorio delle parole. Il cervello continuava a occuparsi, imperterrito, di riflessioni meccaniche, che si sovrapponevano senza nessun criterio logico.

    Mi sono voltato un attimo verso di lei e le ho dato una rapida occhiata, poi ho premuto un tasto dello stereo.

    Era impegnata a sfogliare il copione e dal modo frenetico in cui lo faceva, sembrava che stesse cercando qualcosa in particolare. Forse una delle sue battute o qualcos’altro.

    Nel momento esatto in cui hanno iniziato a diffondersi le note di una canzone simbolo di Renato Zero, il suo cellulare ha suonato, nella tasca interna della giacca di pelle sul sedile posteriore. Lei ha allungato una mano e lo ha tirato fuori quando ormai sembrava troppo tardi. Ha schiacciato il tasto avvio e ha iniziato a parlare, sovrapponendosi a Renato.

    Era il suo regista e da come continuava ad aggrottare le sopracciglia e a stringere gli occhi, le stava dicendo qualcosa d’importante. Ma cosa?

    Ho abbassato il volume della musica, cercando di ricostruire un ipotetico discorso dalle sue mezze frasi e affermazioni di consenso, ma non ci sono riuscito.

    Appena chiusa la comunicazione, senza attendere neanche un secondo, le ho chiesto cosa fosse successo. Il suo sguardo indeciso che si perdeva nel vuoto non mi piaceva.

    Lei, senza voltarsi, mi ha farfugliato contro qualcosa.

    «79° minuto. Nakata con un gran tiro accorcia le distanze per la Roma. Al 91° un altro gran tiro del giapponese dal limite che Van Der Saar non trattiene e Montella, come un falco, mette in rete portando la Roma sul 2-2… un gol che tiene a distanza la Juve in classifica e vale lo scudetto per i giallorossi».

    Juvenus – Roma 6 maggio 2001

    D’istinto ho iniziato a stringere il volante con sempre maggiore energia e dentro di me a maledire tutto e tutti, poi ho cercato di rallentare il respiro per prendere tempo. Dovevo chiarire subito quell’equivoco, ma non sapevo cosa dire. Se non volevo far precipitare la situazione, avrei dovuto usare le parole con il bilancino del farmacista, ma in quel momento mi sentivo uno scaricatore di porto bulgaro.

    Il suo spettacolo teatrale, che doveva andare in scena venerdì 8 maggio, era stato anticipato a mercoledì 6.

    Non era giusto. Qualsiasi altro giorno, ma non mercoledì 6. Non quello. Invece aveva nominato proprio la data che non era possibile nominare. Perché? Perché fra le tante possibilità avevano scelto proprio l’unica che non dovevano scegliere? Qualcuno dall’alto stava complottando contro di me?

    Il regista aveva avuto un improvviso contrattempo, così il responsabile della compagnia aveva deciso di anticipare la rappresentazione, anche se era già in cartellone da diversi mesi.

    Ha detto proprio così, che lo spettacolo sarebbe stato anticipato a mercoledì 6 maggio, non un altro giorno qualsiasi, ma quel mercoledì; perché quello era l’unico giorno cui potevano usufruire del teatro sperimentale a titolo gratuito e, visto il poco tempo a disposizione, era stato un vero e proprio colpo di fortuna trovare una data libera.

    Lei, nel frattempo, era ritornata con gli occhi sul copione, come se non fosse successo nulla di catastrofico. Come se quel mercoledì fosse un giorno come gli altri.

    Io mi sforzavo per trattenere le lacrime.

    All’improvviso ha chiuso la cartellina che stringeva tra le mani e ha fatto un lungo respiro, poi ha piegato un po’ le labbra e si è messa a lisciarsi i capelli e a sistemarli dietro le orecchie. Non capivo.

    Guardavo la strada e guardavo lei.

    Ha iniziato a recitare ad alta voce alcune battute del personaggio che doveva interpretare nello spettacolo.

    Il suo fidanzato era in coma e lei, seduta al suo capezzale, gli stava confessando di averlo tradito col suo migliore amico.

    Alcuni minuti dopo, terminata l’esercitazione, mi ha fatto notare che era la prima volta che le veniva assegnato un ruolo di coprotagonista e se le cose non fossero andate nel modo migliore, sarebbe potuta essere anche l’ultima. Aveva bisogno di me, del mio calore, del mio sostegno, dei miei applausi, insomma della mia presenza.

    Mi sentivo accerchiato, senza via di scampo.

    Glielo avevo promesso.

    Ma io le avevo promesso che sarei andato ad assistere alla sua esibizione venerdì 8 maggio, non si era parlato di mercoledì 6, altrimenti non mi sarei esposto in nessun caso promettendole la mia presenza.

    Il ritornello mi cresceva dentro a un ritmo esponenziale ma avrei dovuto sputarlo fuori e convincere lei, invece di me stesso.

    Lei che non si degnava neanche di chiedermi se per me andava bene accompagnarla mercoledì invece della data prefissata, come se fossi un suo personalissimo oggetto da sfoggiare nelle migliori occasioni, invece del suo fidanzato con tanto di appuntamenti di lavoro da rispettare, (ogni tanto poteva anche accadere) commissioni da sbrigare (a volte accadeva anche questo) e tutto il resto. Pensavo soprattutto a tutto il resto.

    Non poteva farmi questo. Non era nei patti, quindi non dovevo sentirmi in obbligo in nessun caso. Forse avrei dovuto dirglielo, farle capire che non ero un burattino, che anch’io avevo le mie esigenze.

    Lei aveva bisogno della mia presenza.

    Glielo avevo promesso e non potevo tirarmi indietro.

    Invece potevo. E se davvero lo spettacolo fosse andato in scena mercoledì 6 maggio, glielo avrei dimostrato senza pensarci un attimo.

    Ho fatto un guizzo per reagire, poi ho respirato al massimo cercando di allontanare quei dubbi tentacolari che mi stavano soffocando.

    Dovevo dirglielo. Non avevo paura, il fatto era che non riuscivo a pensare a un modo per farlo.

    All’improvviso una Mercedes nera ha inchiodato davanti a delle strisce pedonali per far attraversare la strada a due anziani che si erano buttati avanti senza preoccuparsi del traffico. Ho bloccato la mia Punto a un paio di centimetri dal paraurti dell’ammiraglia tedesca, lasciando nella frenata almeno mezzo copertone spalmato sull’asfalto.

    Lei mi ha lanciato uno sguardo tagliente dai mille significati, poi si è voltata verso la sua parte di finestrino, mettendo su il suo tipico broncio.

    Julia

    "C-o-p-r-o-t-a-g-o-n-i-s-t-a. Io, Julia.

    È arrivato il momento. Il mio momento. Salirò su quel palco e comincerò a parlare, a dire le cose come stanno, sul copione, certo, ma anche come stanno secondo me. Non dirò di certo che sono brava, che posso farcela, che ce l’ho la marcia in più, no, però si capirà, io lo farò capire.

    E tutti saranno lì ad ascoltarmi, il registra, gli altri attori, il pubblico, il tecnico delle luci e Giacomo. Giacomo sarà seduto nelle prime file e guarderà come mi muovo, dal basso, e amerà i miei gesti e le parole che dirò e, anche se mi capiterà di sbagliare, di dimenticare la battuta, a lui non importerà e neanche a tutti gli altri, perché sbagliano anche i migliori, il regista ce lo dice sempre".

    2

    Ci sono momenti che sembrano senza inizio e senza fine

    Nel 1903 la Juventus abbandonò la maglia rosa e adottò la maglia a strisce bianche e nere come simbolo di «semplicità, austerità, aggressività e, soprattutto, potere».

    Qualche anno prima

    Io: Ciao, come ti chiami?

    Lei: Julia.

    Io: Bello! Come Ju…ventus….

    Lei: Cosa???

    Io: Sei italiana?

    Lei: No, sono di origine inglese. I miei genitori vengono da Nottingham, sono nata in quella città poi, quando avevo tre anni, ci siamo trasferiti qui a Torino.

    Io: Ti va di bere qualcosa?

    Lei: Ok, va bene.

    Io: Che cosa fai di bello nella vita?

    Lei: Sono iscritta al primo anno di Scienze della comunicazione.

    Io: Ti piacerebbe andare allo stadio a vedere la Juve?

    Lei: No. Il calcio non m’interessa.

    Io: Qual è il tuo film preferito?

    Lei: Io amo il teatro. Adoro le Intellettuali di Moliere.

    Io: Qual è il tuo desiderio più grande?

    Lei: Recitare.

    Io: Cos’è che ti fa più paura?

    Lei: La solitudine.

    Io: Qual è la cosa più strana che tu abbia mai fatto?

    Lei: Non amo fare cose strane.

    Io: Quando è stata l’ultima volta che hai pianto?

    Lei: Quando è morta mia nonna, quattro anni fa.

    Io: Credi agli extraterrestri?

    Lei: Non lo so. Vorrei vederne uno prima di pronunciarmi.

    Io: Qual è stato il luogo più bello che hai visto?

    Lei: Il più bello non saprei, quello che mi ha affascinato di più, Stonehenge.

    Io: Mi ami?

    Lei: Ti amo così tanto da perderci la ragione.

    Julia

    "Tra la prima e l’ultima domanda è passato un periodo di circa tre mesi.

    Per quanto riguarda lui ci siamo messi insieme tra

    Ciao, come ti chiami? e Bello!. Per quanto riguarda me, invece, tra Quando è stata l’ultima volta che hai pianto? e Qual è stato il luogo più bello che hai visto?.

    Sono sempre stata io quella più riflessiva tra i due e, dopo nove anni,

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