L'analfabetismo degli alfabeti. Il liceo classico tra declino e rinnovamento
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Nel capitolo 2 (La scuola classica italiana) viene presentato un breve profilo storico della nostra scuola classica nazionale: come e quando è nata, quali i suoi caratteri, che cosa, in particolare, ha significato il latino ed il greco nella scuola italiana, perché non c’è stato alcun ammodernamento in Italia a questo riguardo a differenza di quanto è accaduto in altre nazioni europee.
Nel capitolo 3 (Docenti e studenti) si presentano alcuni dei limiti più tipici del liceo classico (l’eccessiva dottrina professorale, la chiusura dei professori in una didattica basata solo sulla teoria e sulla centralità della materia, l’assenza di una formazione pedagogica moderna, l’assenza di metodologie nuove, aperte, e flessibili, l’inutile eterno lamento sulla condizione del docente, l’assenza di idee e prospettive)
Nel capitolo 4 (Oltre la tradizione) esamino tutte le nuove possibilità che, con un coraggioso cambiamento di percorso, potrebbero dischiudersi ad un “nuovo liceo classico”: l’introduzione di nuovi metodi nell’insegnamento del latino e del greco (metodo natura), le competenze nella comunicazione, il digitale per umanisti, l’accettazione delle nuove forme della cultura contemporanea
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L'analfabetismo degli alfabeti. Il liceo classico tra declino e rinnovamento - Dario Ianneci
Epilogo
Introduzione
Il liceo classico corre oggi il rischio di corrispondere effettivamente alla definizione data nel 1923 dallo storico Luigi Salvatorelli (1886-1974) il quale in un suo scritto polemico esprimeva un severo giudizio sulla mentalità della piccola borghesia umanistica italiana che proveniva dalla scuola classica caratterizzata dalla cosiddetta cultura generale
che poteva ben definirsi l’analfabetismo degli alfabeti
.
La borghesia tecnica non esisteva in Italia a causa dell’arretratezza dell’economia e la scuola italiana, da poco riformata da Gentile, impedendo lo sviluppo di una seria formazione scientifica e tecnologica, poneva al vertice del sistema dell’istruzione una cultura umanistica che era poco più di un’infarinatura storico-letteraria, condita di retorica, e che poteva considerarsi, appunto, l’analfabetismo della piccola e media borghesia italiana, conservatrice ed antiprogressista.
Una scuola, in definitiva, inutile per lo sviluppo in chiave moderna della nazione e dannosa per il culto retorico del passato, della storia e della parola che la caratterizzava.
Oggi al liceo classico torna ad essere mossa un’accusa press’a poco simile: di essere, cioè, una scuola socialmente inutile, molto lontana dalle esigenze formative di una nazione che stenta a trovare il passo della modernità, una scuola inutilmente gravosa per il difficile e poco gratificante apprendimento di nozioni quasi esclusivamente teoriche.
Nella nostra società delle competenze
(per quanto questa espressione possa essere invisa o guardata con sospetto da qualcuno), il liceo classico è, o perlomeno appare, la scuola delle incompetenze
, la scuola in cui si finge di conoscere il latino e il greco senza conoscerlo; la scuola delle conoscenze storico-letterarie sempre più superficiali per le sempre più limitate conoscenze di base possedute dai giovani delle nuove generazioni; la scuola che, in una società tutta fondata sulla matematica e sulle scienze, assicura una quasi totale ignoranza matematica e scientifica; una scuola avulsa dalla realtà economica, sociale, produttiva, culturale del mondo contemporaneo; una scuola poco utile per gli studenti che la frequentano, i quali permangono in uno stato di sostanziale analfabetismo rispetto ai saperi richiesti dal mondo attuale.
Queste accuse non provengono solo dalla gente comune, dai genitori - non più tanto sicuri, negli ultimi anni, che l’iscrizione alla scuola classica sia la scelta migliore per il futuro dei propri figli - e dai figli stessi in genere spaventati dalla fatica di uno studio giudicato inutilmente gravoso.
Anche personalità autorevoli, uomini di cultura ritengono oggi il liceo classico una scuola datata, addirittura per certi aspetti ingannevole, insufficiente ed iniqua
, come l’ha definita l’economista Andrea Ichino in uno dei tanti processi
, più o meno spettacolari, relativi al liceo classico che si sono moltiplicati in questi mesi di dibattiti e di confronti sulla questione.
Alcuni giudicano queste diffuse critiche mosse al liceo classico, e alla cultura umanistica che vi si insegna, come ingiustificati e strumentali attacchi portati dalla cultura neoliberista ad una scuola nobile e formativa, necessaria ed insostituibile nel sistema scolastico italiano.
A mio giudizio, le ragioni del declino del classico non dipendono dai supposti attacchi provenienti dal sistema neoliberista, ma sono da ricercare in una crisi storica ben più profonda e complessa, di valore epocale, che richiede un’analisi articolata.
Il punto di partenza di ogni riflessione al riguardo deve essere la considerazione della realtà storica in cui si vive.
Il tempo in cui oggi siamo immersi è un tempo di rapide, profonde, irreversibili mutazioni in ogni campo della vita dell’uomo.
Davanti a questi cambiamenti si levano tante voci perplesse, si sviluppano paure, prendono corpo remore a volte irrazionali, timori di perdere
irrimediabilmente qualcosa che ci appartiene. In passato, di fronte alle novità di norma si manifestava entusiasmo, fiducia per la storia che evolveva, dischiudendo nuovi orizzonti, nuove possibilità, rendendo disponibili per un numero sempre maggiore di individui nuove risorse e nuove opportunità. Oggi, al contrario, perlopiù si guarda ai cambiamenti in atto con un senso di timore che a volte si fa apprensione quasi angosciosa. Bisogna certo guardarsi dalla retorica del progresso. Ma ugualmente pericolosa è la retorica del passato, il mito del buon tempo andato, in cui tutto era bello, umano, ed ogni cosa nel mondo occupava un posto definito e riconoscibile. La retorica della decadenza e della perdita è tipica delle società che l’antropologia culturale chiama società fredde
, società che non vogliono allontanarsi da un modello archetipo presunto perfetto.
Dietro i rapidi cambiamenti in atto, storicamente irreversibili, sembra ad alcuni di intravedere un potere
, variamente definito, che trasformando il volto del mondo minaccia di tagliare le radici stesse della nostra familiare dimensione di uomini occidentali.
Alcuni vedono accamparsi oscure minacce alla libertà e all’indipendenza degli individui. Altri intravedono insidie alle libertà politiche e sindacali. Altri paventano la riduzione della dignità dei lavoratori salariati e la loro involuzione verso una condizione semiservile. Altri temono la cancellazione della tradizione culturale dell’Occidente invaso da altre culture, con le quali non è sempre agevole rapportarsi, oppure temono la cancellazione della cultura
tout court, con i suoi libri, le sue scuole, la sua arte plurisecolare, le sue strutture educative e la sua organizzazione sistemica. Altri temono tutte queste cose insieme.
Conservare
, mantenere
, preservare
, difendere
diventano allora le parole d’ordine di un gruppo non esiguo di uomini di cultura, professori, intellettuali, scrittori; sono questi i termini più ricorrenti utilizzati contro la mutazione, contro l’idea stessa di mutazione, della metabolé, per dirla con termine greco, che tutto coinvolge, assimila, modifica, scompone, cancella, rinnova, senza che questo processo – che altro non è che la storia - possa essere arrestato dalla volontà politica dell’uomo.
Tre le molte significative novità, in questo momento storico di trasformazione epocale, c’è il fatto che la nostra civiltà contemporanea richiede in misura assolutamente straordinaria, mai conosciuta prima in passato, competenze specialistiche, in ogni suo settore. Richiede, al contempo, che questi saperi, queste competenze iperspecialistiche si trasformino in servizi, prodotti, strumenti, organizzazioni logistiche o ordinamenti e procedure amministrative che possano essere utilizzate dal maggior numero possibile di persone.
Una richiesta democraticamente corretta.
Nel nostro mondo attuale ogni cosa, per essere apprezzata e riconosciuta come sensata, valida, degna di essere socialmente sostenuta e perseguita, essere deve avere un fine riconoscibile, una sua utilità reale, una sua usabilità concreta, individuale o collettiva che sia.
Dobbiamo condannare questa pretesa utilitaristica che caratterizza oggi tutte le società avanzate? Si deve necessariamente pensare che questa richiesta, più o meno esplicita, di una utile ricaduta sociale di ciò che si studia, si scopre, si inventa, si crea, sia il portato di menti diaboliche che vogliano asservire il mondo ai loro meccanismi di produzione? Oppure è possibile pensare che essa possa essere anche la manifestazione di una più ampia ed ormai universale pretesa di compartecipazione e di uso
di tutti i prodotti della cultura e della tecnica, pretesa che si è venuta progressivamente consolidando nel corso del tempo, nella trasformazione delle idee politiche, economiche e sociali del mondo contemporaneo?
Magari alla gente comune potrà non interessare il come
ed il perché
, le ragioni e le cause, di una certa scoperta o di una certa tecnologia; si potranno ignorare le cause ed i principi teorici che sono alla base; possono essere ignorate le ragioni scientifiche di una creazione, ma la gente attribuisce un valore alle idee, alle scoperte, alle novità quando esse cambiano, organizzano, strutturano la vita degli individui, entrano nella loro vita reale, recano beneficio ai singoli, circolano come fatti materiali dai quali nessuno, neppure i misoneisti più radicali, riescono poi a prescindere.
Gli stessi detrattori delle tecnologie digitali di comunicazione, ad esempio, utilizzano comunque queste stesse tecnologie per diffondere le loro idee; un po’ come Platone, il quale per negare il valore della scrittura e del libro come sistemi validi per la conoscenza autentica era costretto ad affidare queste sue idee proprio alla scrittura e ai libri. Non poteva fare diversamente.
La medicina, l’ingegneria, l’informatica, la biologia sono discipline iperspecilizzate. I loro prodotti
sono universalmente apprezzati e presenti a tutti i livelli degli interessi umani: dalle medicine alle apparecchiature diagnostiche, dalle vie comunicazione alla telematica, dall’agricoltura alla pesca, dai ponti alle carrozze ferroviarie, dai prodotti per la bellezza agli alimenti.
Il prodotto, invece, di quello che usiamo chiamare cultura umanistica
non può vantare una simile universale approvazione nel sentire comune della gente. Il fine ed il frutto di quello che definiamo generalmente il sapere umanistico
non è immediatamente individuabile. Questo sapere non riscuoterà lo stesso successo degli altri perché oggi sembra non essere in grado di riguardare effettivamente un gran numero di persone. E non riscuoterà mai la stessa approvazione se esso non verrà percepito e sentito dagli uomini come elemento positivo di crescita reale, di miglioramento dell’anima degli individui e della società nel suo complesso.
Se il sapere umanistico non sarà percepito come strumento utile alla crescita personale e all’ordinato vivere civile delle comunità, non potrà più tanto facilmente essere socialmente preservato e coltivato e sarà destinato a soccombere.
La cultura umanistica praticata oggi nelle facoltà di lettere delle università italiane e nella scuola classica nazionale mostra una marcata tendenza a chiudersi in una dimensione autistica.
Le discipline classiche sono diventate statiche e autoreferenziali.
I docenti titolari di cattedre accademiche umanistiche, di filologia, trovano del tutto naturale pretendere di essere remunerati per il solo fatto che studiano
, con competenza, la loro disciplina (alla quale ammettono quei pochi che essi ritengono, a torto o a ragione, dotati della loro stessa competenza). Ma questo diritto ad essere remunerati in ogni caso, solo perché si è competenti in una data disciplina, non sembra essere più tanto scontato nei paesi a capitalismo avanzato.
Si tende piuttosto a giudicare inutilmente dispendiosa per la società la presenza di tanti studiosi di discipline che vivono solo per se stesse.
Nel sentire comune, non si riesce più a vedere alcun rapporto utile tra il sapere umanistico, il culto e la preservazione del passato, così come attualmente coltivato nelle nostre università e nelle scuole classiche, e la vita delle persone comuni in questo nostro mondo contemporaneo dilatato, plurilinguistico, multietnico, produttivo ed efficientista.
Né basta rispondere genericamente che tale rapporto non deve neppure essere richiesto perché gli studi umanistici hanno da sempre, di per sé, un carattere disinteressato
. Anche la matematica e l’astrofisica, infatti, sono studi disinteressati
, ma sono generalmente da tutti riconosciuti socialmente validi e necessari perché più produttivi, nel breve e nel lungo periodo, rispetto agli studi letterari e umanistici in generale. Nessuno pensa, infatti, di proporre l’abolizione dello studio della fisica, della matematica o dell’astrofisica dal sistema dei saperi.
Eppure, nonostante tutto, l’interesse per l’umanesimo, per la riflessione su ciò che riguarda l’uomo, la sua storia, la sua natura, la sua essenza, non manca neppure in questa nostra società a dominio scientifico e tecnologico.
Le forme, però, di questo interesse sono molto mutate. In primo luogo non è più la scuola la sede deputata per coltivare l’interesse e la conoscenza per il sapere umano e per l’umanesimo; e, a mio avviso, non lo sarà mai più.
Le fonti del sapere, come pure i modelli paideutici, non sono più nella scuola, ma altrove. Da questo punto di vista la scuola ha esaurito la sua tradizionale funzione di sistema di istruzione. Ecco che vengono richieste ad essa attività diverse ed eterogenee, che in passato non sono mai state nel suo campo di attività: prevenzione sanitaria sotto forma di educazione alla salute, prevenzione del crimine sotto forma di educazione alla legalità, prevenzione dei comportamenti devianti e violenti sotto forma di educazione alla socialità, prevenzione del degrado ambientale sotto forma di educazione all’ecologia, ecc.
La conoscenza oggi è dappertutto a causa della pervasività dei mezzi di comunicazione. I promotori di discorsi umanistici non sono più i professori, ma coloro che sono in grado di comunicare e parlare efficacemente alle grandi masse; sono i grandi comunicatori pubblici inseriti nei grandi sistemi di comunicazione collettiva.
Per avere un’efficace lezione di umanesimo che abbia respiro, che riesca a coinvolgere e suscitare interesse, ci si rivolge ad un comunicatore efficace, capace di insegnare, di emozionare, di far riflettere un gran numero di persone.
Le aule del liceo classico, invece, restano luoghi in cui il processo di apprendimento si arena in una stanca ripetizione di dati, spesso priva di entusiasmo, di coinvolgimento, di curiosità.
La comunità o società educante è uno degli elementi antropologicamente nuovi della società contemporanea.
Roberto Benigni si esibisce in piazza o in televisione recitando e spiegando la Divina Commedia, col suo sterminato universo di filosofia, poesia,