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Il parasita
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E-book239 pagine3 ore

Il parasita

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Info su questo ebook

Nell’insieme la vicenda era abbastanza chiara: un uomo di cui non si conosceva il passato aveva fatto delle promesse ad un ragazzo ingenuo e gli aveva costruito attorno un mondo di menzogne. Era la storia di un plagio. La prima menzogna era stata probabilmente James. Chi era questo James presunto figlio di quell'uomo fatto suicidare per un debito di droga? Quel castello di menzogne aveva portato l'ingenuo ragazzo in un abisso di follia … vedendo un coltello da cucina gli viene un pensiero: uccidere il suo aguzzino e poi farla finita per sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2015
ISBN9786050358513
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    Anteprima del libro

    Il parasita - Oscar Foltran

    -

    I - FRAMMENTI -

    Ricordo Evian d'agosto.

    Così aveva scritto il ragazzo sul frontespizio di un libro che stava leggendo. Segnava sempre così le impressioni forti che gli davano certe situazioni o certi paesaggi. Le sue annotazioni erano sempre molto brevi, e sempre immancabilmente su libri o quaderni di passaggio. Dovevano servirgli da tracce per temi da sviluppare in seguito. Se le avesse raccolte sarebbero forse venute fuori brevi poesie, ma lui si riservava di tornarci e pensarci su in un secondo momento. Evian era una vera esplosione di colori e vita, in totale contrasto con quello che gli stava succedendo in quel frangente della sua vita.

    Dunque, la stessa gente e le stesse ville rivierasche che aveva visto dall’altra parte del lago in ottobre. Il senso di benessere e di appagamento, i bagnanti stesi al sole in strisce di terra di pochi metri a ridosso dei parcheggi, i fiori sulle rotonde, sui marciapiedi e sulle aiuole, rossi bianchi e blu, i muri delle terme rivestiti di piastrelle verde chiaro e lucide, il loro riflesso acqueo, le cartoline in bianco e nero fuori dai negozi della rue Nationale, le fotografie degli accordi di Evian. Il casinò, l’imbarcadero, l’hotel Savoy da poco restaurato non distante dal piccolo molo, le pareti delle stanze tappezzate di carta da parati ovattata e dai colori a pastello. La stanza del ragazzo aveva le pareti di un rosa vivo, quasi rosso. Dava ad ovest e quel colore accentuava le lunghe strisce di luce e di ombra del tramonto. Era possibile vedere anche uno scorcio di lago e della città dall’altra parte. C'era un gran via vai di gente: clienti dalla pelle scura, marocchini, egiziani, famiglie con bambini, donne di servizio ed elettricisti, la ragazza bionda della reception, il locale di fianco da cui si sentiva musica jazz.

    A Evian il vecchio gli aveva scattato una foto. Sullo sfondo c'erano dei fiori rossi. Il ragazzo indossava una camicia a strisce oblique nere e fuxia, una di quelle camicie che gli aveva comprato il vecchio ma che lui non si sarebbe neanche mai sognato di comprare. La foto era venuta sfocata come tutte quelle del rullino. I tratti del volto erano sfumati ma l’espressione era perfettamente interpretabile: era l’espressione delle donne (generazioni di donne) che il ragazzo aveva cercato di descrivere nei suoi quaderni. Dopo tutto quello che era accaduto il ragazzo aveva stracciato con rabbia quella foto che pure era una bella foto. La sua esistenza fisica gli dava il senso dell'occhio del vecchio che continuava a guardarlo, gli sembrava una prigione, una gabbia istantanea in cui il vecchio era riuscito a catturare quella maledetta espressione. Non riusciva a sopportare che quello sguardo durasse nel tempo.

    Il ragazzo non conosceva il motivo di quel viaggio. Era una parentesi quasi serena. Tutta l’alta Italia, una notte a Milano per vedere gli amici del vecchio, Nogara, la Rosemberg e Monti. Poi le Alpi, i paesaggi che cercava di memorizzare con occhiate istantanee, il Frejus, la Savoia, una notte a Chambery e poi l’Alta Savoia attraverso campagne e paesini fiabeschi, una complicità che il ragazzo cercava di simulare e reggere alla meno peggio, un pranzo al McDonald, qualcosa di improvvisato quasi che fossero due ragazzini: era questo che piaceva al vecchio, che lo faceva impazzire: che si creasse un’atmosfera di cameratismo a due. E il resto del mondo tagliato fuori. Dovevano esistere solo loro due.

    Il Ragazzo cercava di distrarsi, di ingannare l’angoscia che provava, cercando di far parlare il vecchio della sua famiglia, dei Chisaraghi di Venezia di cui andava tanto fiero. Sentiva storie sul conto di suo nonno Giacomo. Quest’uomo era ebreo per parte di madre e impazziva per tutte donne tranne le ebree per le quali aveva invece una repulsione viscerale. In treno da Parigi a Venezia aveva messo gli occhi addosso a una signora molto elegante che viaggiava nella stessa carrozza; era riuscito a sedurla, si era dimenticato di Venezia ma a Vienna, al momento di consumare in una stanza d’albergo aveva sentito uno stano odore nella biancheria di lei. Allora le aveva chiesto «Madame, est-ce que par azard vous etes Juive?» A sentirsi rispondere di sì, si era ricomposto e senza più aggiungere altro aveva lasciato la stanza d’albergo. Sentiva raccontare altre storie, domestiche e più intime: il nonno tradiva la moglie con la cognata che viveva in casa loro. E nonostante tutto la nonna voleva lo stesso bene alla sorella: dalla sua bocca non era mai uscita una parola di risentimento; per tutta una vita aveva retto il peso di questa umiliazione. Marisa e i suoi quattordici bagagli in giro per i Palaces di Las Vegas, una vera signora. Dei Chisaraghi diceva che erano uno strano miscuglio di genialità, talento, rari esempi di erudizione e follia. Qualcosa a metà strada tra i fratelli Marx e i fratelli Karamazov.

    Da piccolo il vecchio trascorreva le estati a Vevey in un collegio per ricchi da dove lo mandavano a Evian per la cura delle acque. Nello stesso collegio c’era anche l’erede al trono d’Italia. Il futuro re era arrogante e pretendeva di farsi chiamare Maestà dagli altri ragazzi con l’unico risultato di farsi pestare da tutti. Naturalmente il capo banda di questi pestaggi era lui, il ragazzino semicieco di Venezia.

    ***

    Il ragazzo prese il battello per Ouchy, comprò un paio di chip della swisscom mobile, poi prese il treno per Chillon. Doveva visitare il castello col cellulare in mano, gli faceva da guida il vecchio. Doveva chiamarlo a tutte le ore all’albergo di Evian per informarlo di ogni suo movimento, di tutto ciò che vedeva.

    ***

    Di ritorno lo vide seduto curvo davanti al televisore nella piccola stanza dell’Ibis di Corso Buenos Aires. La massa del suo corpo formava il profilo di una campana. Lo schermo mostrava una delle due torri gemelle di New York in fiamme, l’altra era già crollata. Telefonava esultante a Nogara. Hai visto? Lo presagivo! Lo sapevo! Sto per dirti un’atrocità, ma gli sta bene a quella razza infame! Come amavo l’America, come mi sono prodigato per loro e alla fine cosa mi hanno fatto? Loro e i loro padroni ebrei … si, si, si, gli Stati Uniti sono proprietà di Israele, e adesso pagano, pagano …

    La strada di ritorno verso Carmo fu facilitata da una marea di notiziari alla radio. Il vecchio era impegnatissimo, la raffica di notiziari lo distoglieva dal suo ragazzo tutto-fare, telefonò a tutti per tutto il viaggio. Poi di nuovo la complicità e lo spirito di cameratismo dentro gli autogrill per consumare un pasto improvvisato, quasi furtivo, un panino, una coca cola … Questo conferiva al viaggio un che di ragazzesco.

    ***

    A Carmo riprese il lavoro frenetico dei cd. Di nuovo il grafico a cui il vecchio aveva detto che il ragazzo tutto fare era suo figlio. Il grafico doveva reinventare le copertine delle vecchie produzioni come richiestogli, cioè secondo lo stile di Benetton o di Mondriant. Ore interminabili per trasferire le registrazioni del Petit Journal dai dat ai cd. Le nuove copie non andavano mai bene, neanche le copertine. Quattordici ore al giorno a fare e disfare, per il vecchio era un’estasi, il jazz era la sua vita. Il ragazzo ricordava come due anni prima gli avesse mostrato alcuni articoli di giornale degli anni cinquanta. Gli articoli parlavano delle sue performance col clarinetto in qualche platea a Montebano o a Carmo. Altri articoli di alcuni anni dopo dicevano che i concerti ora era lui ad organizzarli ed era un qualcosa di scioccante: nessuno aveva mai pensato di far suonare del jazz in quei paesi fuori dal mondo. Era stato lui il primo.

    Per il ragazzo era un semplice adeguarsi alla situazione, riusciva ad annullare il senso del tempo che scorre, della stagione e dell’appartenenza al mondo. Fuori sulla piazza di Carmo come ad ogni inizio di autunno, durante i fine settimana, c'erano le giostre coi bambini, improvvisate gallerie d’arte all’aperto allestite dagli artisti locali, bancarelle, dolciumi, gente a passeggio, il piacevole mormorio della fiumana che scorreva sotto la finestra dello studio. La folla si formava e si disperdeva. Loro due non partecipavano mai a questa vita esterna. Rimanevano chiusi nell’appartamento dediti al loro lavoro. Alla fine avevano forse una quarantina di cd, otto copie per cinque dischi, tre con le copertine in stile Benetton e due antologiche: era il famoso traghettare il jazz da un secolo all’altro. Per natale dalle parti di Treviso ci sarebbe stato un concerto spettacolare organizzato col patrocinio di Benetton, ci sarebbe stato anche Hyppolite, sarebbe stato l’evento destinato ad iniziare il trapasso. Dovevano portare con loro i cd. Il ragazzo non conosceva la meta di quest’ultimo viaggio ma ne intuiva lo scopo, convincere gente a partecipare alla produzione, cioè a tirare fuori soldi.

    Finalmente riuscirono a partire. Dovevano farlo sempre l’indomani, per giorni e giorni l’indomani. Il motivo della dilazione era l’enorme bagaglio, due valigie del vecchio, le borse delle scarpe, una valigia del ragazzo, una borsa col computer, una per la stampante, la borsa coi quaranta cd, una valigia con un impianto stereo per nuove registrazioni, fare e disfare sempre, e non partire mai. Attraverso il ragazzo il vecchio sistemava in un incastro perfetto ogni oggetto dell’enorme carovana. Anche il ragazzo aveva viaggiato, ma le sue cose le aveva sempre sistemate in modo approssimativo, le sue valigie erano disordinate. Il vecchio no, lui era diverso. La dignità viene anche dall’ordine che riusciamo a creare attorno a noi, così come lo squallore che circonda la maggior parte degli individui non è che il riflesso dello squallore che hanno dentro. Partirono in una mattina piovosa di fine settembre. La prima tappa fu il solito Ibis del Corso Buenos Aires. Tra qualche settimana il ragazzo se ne sarebbe andato, lo avrebbe lasciato per rifarsi una sua vita. Sarebbe stato un distacco difficile perché aveva perso la sensazione di essere un qualcosa a sé, aveva dovuto adeguare alla situazione la sua percezione del tempo, dello spazio e delle relazioni umane. Era diventato un'estensione del vecchio.

    ***

    IL ragazzo entrò nell’appartamento. L’aria era dolciastra, sulfurea, forse a causa delle medicine. L’occhio lo inquadrò.

    Chi ti ha portato qui?

    Mio fratello

    Bene, vedo che cominciamo pian piano a riassaporare il tepore familiare, sarai contento? Portami quelle tredici pagine, le correggiamo e le firmiamo tutti e due.

    C’era voluta un’estate intera per scrivere, leggere, correggere e riscrivere una sola lettera a Marisa. Quando Il vecchio si metteva a scrivere una delle sue requisitorie quanto ci mettevano a scriverla non dipendeva dalla lunghezza o dal grado di difficoltà dell'argomento, dipendeva solo da come lui voleva eseguire il suo esercizio di scrittura. Più che altro era un passatempo.

    L’aria era sempre più irrespirabile. Il ragazzo pensò spesso a quell’odore. Una giorno, si sarebbe avvicinato a suo padre infermo e febbricitante e avrebbe percepito quello stesso odore: l’odore della febbre mescolato a quello della vecchiaia. Gli disse che non avrebbe firmato nulla.

    Che cosa?! Vuoi dire che mi hai preso in giro per ventitre ore, dicendo sempre di sì per quieto vivere e adesso ti rifiuti di firmare?

    Mi dispiace, ho riflettuto molto!

    No mio caro, tu non hai affatto riflettuto, tu ti sei fatto convincere da tua madre!

    Sai bene in che condizioni ero, non facevo che piangere! Ora sono più lucido.

    Bene, non firmare, non firmare …

    No, non firmo! Avevo un debito e l’ho assolto. Mesi e mesi con te, come un’ombra

    Tu mi hai preso in giro, credi che io non abbia registrato quelle ore in cui io dettavo e tu scrivevi? E scrivevi di tua spontanea volontà!

    Fece il gesto di tirare fuori qualcosa dal sacco zaino che portava sempre con sé ma non tirò fuori niente.

    II - SAIO -

    Luca stava facendo il servizio civile in uno dei due ospedali di Montebano. Qualche tempo prima gli era arrivata