Il talento degli idioti
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Il talento degli idioti - Maurizio Marino
occasionali
Passato: radiografia magnogreca mezza inventata
La sera era scesa indolente e fredda, come una macchia di nero sui resti lucenti del giorno. Me li ricordo gli uomini: il culto del posto fisso, il culo d'averlo ottenut. Poi le canotte bianche come cliché sui loro corpi avvolti da peluria scacciafreddo. No, niente eroi depilati e ubriachi. Solo padri di famiglia mentre rientravano a casa per la cena ripetendo a memoria un gesto atavico: di quando quelli di prima, quelli del passato, facevano ritorno al villaggio dopo l'agguato teso a qualche bisonte, e i ferri ai fianchi dell'animale l’avevano reso una giostra dolorante e impazzita, una spaventosa carnevalata, l'obbrobrio della cattiveria oscena ma umanaprima dell'arte della culinaria, della leccornìa.
Che ne sapevo che l'utopia era l'unico metro per misurare il futuro del reale.
Bukowski non voleva vedermi scrivere. Tanto per.
Bukowski voleva che scrivessi col sangue addosso o niente.
Per non parlare di Henry Miller: sentite qua: non ho né soldi, nè risorse, né speranze. Sono l'uomo più felice del mondo. Così diceva Henry. La letteratura gli era cascata addosso. Per salvarlo, cazzo.
Ma la mia tastiera era lenta e mi frenava il ritmo dei pensieri a mille. Pure io avevo in serbo la mia diffamazione. Contro di voi.
La mia tastiera era lenta quasi come la mia terra. In Calabria tutto era fermo e i paesini-fantasma erano un corteo verso la loro epifania. Mi serviva una carogna su cui intonare il mio canto.
Condofuri non ti dice molto se te ne stai nel tuo nord: ma Condofuri da qui era la tirannia del bianco, sai la spuma maestosa del mare di Gibran? Ecco, solo meno esotica.
A Melito le onde, dopo la burrasca, avevano abbattuto il muro che proteggeva i binari della stazione; altro che Garibaldi. E Palizzi? Lì la schiera di nubi sopravanzava e la schiena del cielo si fondeva con la pancia dello Ionio all'orizzonte.
Le granite di fichi erano ricompense quasi metafisiche.
Gli alieni, se c’erano, si godevano la scena. Assieme ai turisti estivi. Il dondolo perenne se li cullava mentre la scema del villaggio girava nuda e pazza per Bova marina e i capricci delle onde si confondevano con le risate sdentate dei ragazzi che la attorniavano. Allora lei li guardava impaurita e si metteva a correre; e loro la rincorrevano, sdentati e infoiati, correvano e ridevano. E lei era la scema del villaggio.Uno si ficcava le dita nel naso come per cacciare fuori mucillaggini di verità.
Gli albatri facevano a pugni coi sogni dei poeti. Le case erano cumuli di evoluzione incompiuta. I camini spenti erano l'invidia dell'ominide. Le macchine sfrecciavano sul ricordo di antilopi svolazzanti come foulards di Gucci. I lavoratori erano il mastice tra gli schiavi egizi schiacciati dai massi caduti dalla piramide e la libertà. Ma era un lavoro per modo di dire, era un lavoro tanto per dire. Venite in Calabria, gente. Ascoltate i nostri accenti lugubri. Cavernicoli siamo. Eccoci.
Mi ricordo che sul corso c'era sempre quel tale, solo, urtante, quello vicino al duomo, con le dita delle mani gonfie, che si avvicinava come per toccarti, e tu non sapevi mai dove scappare o come dire mi dispiace, tanto lui era lì che insisteva, e quando eri già in macchina ti bussava al finestrino, non voleva nemmeno soldi, ma scusarsi con noi tutti, noi perfetti. Tutto questo dovevo scriverlo. Ma ero un matematico. Un burocrate, pure.
I monti della Sicilia da Scilla, alle cinque e mezza della sera, erano una millefoglie sparsa a strati da una figura angelica, assopita, forse stanca di contemplare la calma edenica che barcollava ubriaca per tutto lo stretto.
Gli sbuffi del vento, come un Leviatano bianco, su quella pozzanghera di mare duravano tre giorni e mezzo. Poi lasciavano spazio soltanto a bizzeffe di nuvole a forma d’animali stilizzati, di mostri barocchi, che sostavano su corridoi d’ossigeno, come passamano per scale di elio a sfidare rimasugli di attrito sparsi per Vitulia, nome antico di Calabria: bianche, pompose, le amanti assonnate si posavano per farsi scopare da quella terra ispida, maschia e rugosa: le montagne rizzavano al cielo per un contatto con quelle minne bianche. I solchi profondi migliaia di burroni s’intestardivano a cercare la zona infuocata degli inferi: lì, due fontane, Lete e Mnemosine, una per dimenticare, l’altra per ricordare, pisciavano i loro atomi di idrogeno e di ossigeno.
A fine estate gli ombrelloni erano coni d'ombre gotiche come guglie nordiche che s'arrampicavano nell'aria silente, per la spiaggia scillese, col tramonto oltre le isole Eolie, oltre Vulcano e Stromboli, gravidi di leggende, con quei crateri nudi imperticati fino al cielo. I bigliardini a settembre erano stadi a porte chiuse.
I bocciati riparavano; era un verbo che incolpava.
L'adolescenza era la speranza di crescere, una sospensione del tempo umano, un limbo scavato tra le risate senza ganasce e l'accrescimento della parola io per soffocare sul nascere il gendarme del dolore. Scoprire l'evidenza di un’inferiorità era escogitarsi uomo.
Nella notte - refrain per inferni mistici - il telescopio di un acaro avvistava pianeti nuovi e buchi neri e galassie e vie simili a quella Lattea: una testa si girava sul cuscino! Essere sognatori non significava essere addormentati.
Infine lo Ionio sputava – come ogni volta – la sua alba, nocciolo bollente e zaffata di speranza, ed ecco, ora era di nuovo giorno, ancora una volta. I professori andavano diritti alle aule con la loro scacciacani per spaventare il pensierino libero: la noia ci scioglieva, ma noi eravamo clown. Al posto della scuola volevamo trampolini elastici e guerre di bergamotti, e il dolore spariva come il pennacchio di fumo d’una nave all’orizzonte di Comfortably numb.
Quello che abitavo da piccolo era davvero un posto strambo. Il mio mondo era strambo e strano. Era un mondo abitato dagli dèi degli ultimi: nell’olimpo vicino casa piovevano lance di povertà, con la folgore luccicante a squarciare i vicoli e le case ammassate dentro al rione, come una lampada che a intermittenza accendeva speranza e speranza spegneva.
I bergamotteti profumavano acri. La sera scendeva sulle nostre teste a zonzo, mezze secche di stanchezza, di gioco. Sentivo il giorno trascorrere troppo in fretta, e l’asfalto nero s’arrendeva di tanto in tanto all’arancione dei campanari disegnati a macchie lungo il ritorno dei bambini, a saltelli su una gamba, col mattone rosso, e rotto, portato a talismano fino a casa.
Leonardo rimbombava strano: era un nome troppo ingombrante. Era un nome per sbaglio, approntato all’ultimo momento, come un memento discere.
Il nome Mimmo invece suonava bene, suonava veloce. Il tempo di nominarlo e già era finito. Sembrava un nome fatto apposta per rubare: e infatti lui obbediva e scavalcava ogni sera il muretto e spariva per minuti inghiottito dal giallo delle limonare. Poi riappariva scaltro e rapido, sul bordo del muro, col coltello in una mano e il sale nell’altra. Balzo e a terra. Mangiavamo limoni le sere di quell’estate, e tutto era incanto.
Quell’estate era piena di urla azzurre per il mondo. La coppa era nostra. L’onore svettava alto. Ci sentivamo importanti a essere italiani. Il nostro mantra era Zoff Gentile Cabrini Oriali Collovati Scirea Conti Tardelli Rossi Antognoni e Graziani. Il traguardo degli eroi era un tappeto rosso srotolato nell’afa di Spagna; la Germania col cazzo che vinceva. Le ginocchia dei ragazzini imitatori erano nere, e la sporcizia il misuratore del divertimento. Più erano nere più era stato divertente. Pablito Rossi lo sapevo io chi era: il passepartout per inventare storie e far scoppiare stermìni di felicità nel cielo ingombro di ricordi assiepati a gregge. Le sedie arredavano le piazze, le auto merce rara.
Tutta la mia famiglia quell’anno i mondiali se li era persi. Se li era persi perché erano morti tutti qualche mese prima. Ogni famiglia era vero che era infelice a modo proprio. Ero rimasto solo.
I lampioni noi ragazzi li prendevamo a fiondate, per scherzo, fino al buio solenne, quello senza rimedio e senza l’odore delle leggi, quando i colori finivano inghiottiti dentro a una nube di silenzio, ingigantito dall’urlo ingiusto delle madri che decretavano la fine del divertimento: erano loro le custodi del tempio del giorno; a loro spettava chiudere la saracinesca per imprigionare il sole, e i giochi, e la spensieratezza: per volontà materna tutti quegli animaletti erano obbligati adesso al sicuro nelle tane profumate di pane, coi padri arresi a cadavere sul pouf scassato a ginocchiate, con l’ahi ahi dolorante delle schiene in trazione verso la messa a fuoco del canale del televisore, le canotte bianche, a coste strette abbinate ai pantaloni di flanella larghi, grigi, con le pinces per contenere meglio il gghiombero, peso provocato dal trofismo della vaddera, nome comune locale per ernia inguinale.
Dopo la chiamata definitiva, quelle stesse madri vestite tutte a fiori facevano combriccola attorno alle balconate più che potevano, e i panni appesi il vento se li faceva maschera appena incocciava i volti dei bambini nascosti dietro qualche lenzuolo-fantasma in bilico prima del knockout onirico, e le donne se lo pigliavano ancora quel mezzo minuto d’aria, e di luce ormai a precipizio, prima dell’apnea della notte.
I mariti rieccoli indaffarati a centrare il canale: con la mano del braccio allungato tastavano la manopola e con l’altra s’appoggiavano sul cubo magico, sul Tiresia telematico. Cercavano uno sguardo d’intesa con qualcuno: è sintonizzato?
chiedevano, e nessuno rispondeva mai un sì convinto, perché sintonizzare era una voce verbale del futuro, e loro erano lenti, avvolti in un passato che rievocava la guerra, e la fame, e la povertà.
Piano piano erano arrivati i soldi grazie al lavoro in ferrovia e le case cominciavano a pullulare di tv a colori, e la stanza deputata ad accogliere quella felicità nuova era la camera da letto: i televisori a colori stavano in camera da letto, perché in cucina rimanevano quelli vecchi, quelli del telegiornale, e i telecomandi si posavano con cura sui comò, guai a mollarli in mezzo al letto: non si gioca con le armi, e con i telecomandi.
Stavamo coi piedi impantanati nelle pozzanghere sparpagliate per il campetto dopo la pioggia a diluvio oppure nelle strade sterrate e polverose, per ore, con un pallone sgonfio, a dribblare: chi imitava Bruno Conti e chi rifaceva l’urlo di Tardelli, chi si stancava troppo e allora reclamava sempre il ruolo del portiere o dell’attaccante per sbaglio, e chiedeva la maglia numero nove, a imitazione di Paolo Rossi, e non tornava mai a dare una mano al centrocampo, come Paolo Rossi. Il mantra mnemonico era sempre lo stesso: Zoff Gentile Cabrini Oriali Collovati Scirea Conti Tardelli Rossi Antognoni Graziani.
I telegiornali erano antichi e tristi con quelle immagini dalla guerra o dal parlamento, e non capivo come facessero gli adulti a guardarli: se ne stavano in silenzio, assorti in quella noia della cucina. E appena un bambino si metteva a parlare a voce alta, a frignare, a sbraitare, a sputare pastina, a vomitare, a lamentare mal di pancia, appena un bambino esisteva, ecco che i padri si facevano più seri e tristi di prima, e i figli non avevano diritto di parola, pena il ceffone, la testa a scatafascio dentro quel cazzo di piatto, con le lacrime che rovinavano il finale, o qualche bestemmia che smuoveva l’aria sacrosanta della notte. Ero rimasto solo e dovevo provvedere a tutto: la salvezza mi sembrava più