Età Privata
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Età Privata - Fabrizio Spadini
ETÀ
PRIVATA
Fabrizio Spadini
Copertina e progetto grafico dell’autore.
Ogni riferimento a fatti, cose, persone, è puramente casuale.
http://etaprivataromanzo.wordpress.com/
© 2014 Fabrizio Spadini
fabrospadini@gmail.com
Prima edizione digitale: luglio 2014
a mia sorella
...
Giovedì ore 23.45
Francesca guida coi finestrini abbassati. La Citroën DS Squalo
taglia la notte coi grandi fanali gialli ingoiando nuvole di insetti nei fanoni del radiatore.
L’incontro con Marco è stato formale e sbrigativo. Le ragazze erano felici di partire in vacanza col padre, e andava bene così.
Senza il navigatore si è persa un paio di volte in mezzo a quelle strade che sembrano tutte uguali, finché a forza di inversioni e colpi di coda è comparso dal buio un rettangolo bianco col toponimo che cercava: Finale Veneto.
Legge dal messaggio del fratello le istruzioni per raggiungere il luogo che le ha indicato via sms. Tempo fa l’aveva ricontattata e dopo diverse mail si erano sentiti per telefono: voleva solo recapitarle un pacco. Le era sembrata curiosa la scelta di quella zona come luogo della consegna, ma le figlie sarebbero partite da Venezia per la vacanza con l’ex marito e lei, che doveva accompagnarle, aveva accettato.
Al ponte svolta a dx, passa il fiume e costeggia l’argine fino alla stazione di servizio.
Di quei posti ha ricordi confusi. Da bambini ci avevano anche trascorso le vacanze estive e sapeva di avere dei parenti da quelle parti, cugini di terzo o quarto grado, il cui ricordo si limita a un paio di foto ingiallite. Non si sente particolarmente legata a quei luoghi, li considera appartenenti a vite, scelte, decisioni sbagliate prese da una parte dei suoi antenati, niente di più.
Ecco il ponte, ecco il benzinaio. In fondo alla strada vede l’insegna della trattoria-ristorante-bar Nostromo. Ci sono poche auto parcheggiate e altrettanti clienti all’interno. Il locale sta per chiudere. Francesca entra, si dirige al bancone dove una ragazza sta preparando dei caffè.
«Buonasera.» Il saluto ha la tipica inflessione da Europa dell’est di quasi tutte le bariste della zona.
«Salve.» Non sa come cominciare. «Sono venuta a ritirare un pacco… devono aver lasciato qualcosa per me. Per Francesca.»
Poco dopo è di nuovo in macchina. Chiude lo sportello e si lascia abbracciare dalla rassicurante ergonomia di quei sedili bassi, da salotto, progettati a suo tempo per lunghi viaggi di piacere. Assapora il gusto dell’ottimo caffè che le ha servito la ragazza.
«Brava Lyudmila.»
Ha scambiato due parole con lei: è venuta a lavorare per la stagione estiva, avrebbe preferito un impiego a Riccione ma è finita lì in mezzo al nulla e alle zanzare. Comunque le ha dato il pacco senza fare domande e le ha offerto un limoncello.
È tornata in auto perché non ha voluto aprirlo lì sul bancone, ma soprattutto perché non poteva farlo senza accendersi una sigaretta. Si gira tra le mani la busta di carta: una di quelle imbottite, con uno strato di bolle di plastica all’interno. Ne apre un lembo e non resiste a farne scoppiare un paio, come faceva da bambina.
Cosa può contenere? Un dvd, un libro, una VHS? Rompe l’involucro di carta: c’è una cassetta, una vecchia musicassetta BASF. Non pensava ne circolassero ancora.
«Oh mamma, Davide...»
L’autoradio della Squalo non legge gli mp3 ma ha un buon mangiacassette. PLAY, fruscio, musica... una vecchia canzone, roba italiana dei primi anni ‘80.
Francesca ride. Nell’involucro c’è una busta con delle polaroid, vecchie foto di loro al mare con mamma e papà. Poi un collage di pezzi di carta, involucri di gelati, ritagli di giornale, pagine di fumetti...
«Oddio, Davide!»
Un giornaletto di Braccio di Ferro, un biglietto con una calligrafia da bambina: così non ne vedeva dai tempi delle scuole medie. Poi un plico di fogli sottili molto vecchi, fogli di quaderno scritti a mano con disegni a china. Hanno un odore pungente di muffa che le entra nei polmoni e la fa tossire.
Spegne quel che rimane della sigaretta nel posacenere del cruscotto con un gesto metodico, come a voler avvitare il mozziccone in un punto preciso assieme ad altri infilati in una montagnetta di cenere, come aghi in un cuscino portaspilli.
Un cuscino.
Sua nonna ne teneva uno di raso rosso nella scatola del cucito. Lei, da bambina, passava il tempo a riordinare gli spilli in base al colore delle piccole teste colorate.
Il fumo che impregna l’abitacolo della macchina sembra ondeggiare al ritmo di una canzone un po’ stucchevole. Francesca chiude gli occhi, la musica va avanti e lei torna indietro...
1
Le cose prima
Finiti gli esami di quinta elementare, l’estate aveva rallentato di colpo e il tempo si era appisolato dietro alle persiane chiuse del pomeriggio. Francesca passava le giornate estive con Davide a casa dei nonni paterni mentre i genitori erano al lavoro.
Vicino a loro abitavano altri bambini. Erano tutti più piccoli di lei: avevano per lo più sei anni, come suo fratello. La corte era il loro spazio per giocare, un grande rettangolo di case. Alcune erano vuote perché disabitate, e sotto quelle finestre ci si poteva fermare senza essere rimproverati da nessuno.
Non potevano fare molte cose: era proibito giocare a palla, ad esempio, per non rompere i vetri e per non sciupare la ghiaia che alcuni residenti avevano fatto portare davanti alla propria abitazione perché non si formassero le pozzanghere quando pioveva. Una signora invece bagnava la terra col tubo dell’acqua per non far sollevare la polvere, aveva molti fiori e lucidava le foglie dell’alloro piantato in grandi vasi di cemento.
Alcuni parcheggiavano le auto molto vicine alla propria porta, qualcuno teneva un cane alla catena: gli adulti si ingegnavano per arginare le attività dei bambini in attesa che diventassero grandi e cominciassero a dare problemi ognuno alle rispettive famiglie.
Le sue compagne di scuola trascorrevano le giornate al centro estivo dell’oratorio, ma a lei piaceva stare lì anche se non c’erano coetanei con cui scherzare. Che poi di amiche non ne aveva molte: ce n’era una che aveva la sua stessa età e si chiamava Giuliana, detta Giù
perché veniva dal sud. Ma lei non lo sapeva e credeva fosse una semplice abbreviazione del proprio nome. La famiglia della Giù era numerosa, aveva anche un cane e dei gatti. Quella di Francesca, invece, era una famiglia normale, e di animali che davano da fare e sporcavano tra i fiori non ne avevano.
Giuliana spesso restava a casa da sola: sua madre sbrigava le faccende presso alcune famiglie benestanti del paese e all’occorrenza le portavano le camicie da stirare direttamente a domicilio.
Suo padre, invece, manovrava le gru altissime dei cantieri in città. Non era quasi mai a casa: quando c’era doveva dormire, e allora bisognava giocare fuori, ma in silenzio.
Giuliana era partita subito dopo la fine della scuola, con la mamma e i fratellini, mentre il padre era rimasto a lavorare sulla gru. Era scesa col treno per trascorrere l’estate dai nonni giù in terònia
.
Il cortile era un luogo sicuro, diceva nonna Adele, che si raccomandava sempre che non uscissero da soli perché c’erano in giro i mambrük. Francesca non chiedeva chi fossero, ma capiva dal nome che erano pericolosi e da evitare. La nonna raccontava che in tempo di guerra andava a lavorare a Milano e se ne incontravano tanti. I soldati tedeschi erano mambrük ma anche, in tempi recenti, i venditori di tappeti che capitavano in cortile, carichi come cammelli sotto montagne di stoffe e tovaglie. Alla nonna quelle cose non servivano: di tovaglie ne conservava di nuove ancora confezionate negli armadi e un giorno sarebbero passate alla nipote come dote.
«Ti nascondono lì sotto, ti portano via e poi sei rovinata per sempre» le aveva detto.
Lei non capiva cosa potesse esserci di rovinoso sotto quei tappeti, forse un caldo pieno di insetti e una puzza di chiuso che ti entrava nella pelle e ti restava addosso sempre.
Le sembrava che alcune cose, alla nonna e ai grandi in generale, non potessero essere chieste. Era una bambina e non doveva fare domande, solo stare attenta a non mettersi nei guai.
A casa dei nonni materni però era diverso: lì ci trascorrevano solitamente la domenica. Abitavano in una cascina fuori città.
La nonna Enza aveva tantissimi nipoti che spesso venivano a trovarla. La tavola era sempre apparecchiata per tutti. I pranzi erano lunghi, abbondanti di vino e di chiacchiere, e mentre i grandi si dilungavano attorno alla tavola i bambini giocavano tra gli orti, nei campi, sull’aia, tra i vecchi trattori arrugginiti, o nelle vecchie case rurali abbandonate.
Francesca aveva un cugino di nome Matteo che veniva spesso a trovare la nonna in cascina. Viveva in città. A lui venivano idee brillanti sui giochi da fare, quelli per cui dopo li sgridavano dando per lo più la colpa a lui, che era più grande.
«Oggi giochiamo agli esploratori di case abbandonate» aveva detto Matteo, un pomeriggio, mentre gli altri bambini lo ascoltavano in cerchio.
«Però serve un capo e il capo lo faccio io perché, oltre ad essere il più grande, a Milano ne ho già esplorate tante di case abbandonate e voi non sapete le regole di come si fa.»
Dopo di lui venivano gli altri bambini e uno saliva al rango di vice a seconda dei meriti acquisiti in base alle prove che riusciva a superare, o ai segreti che poteva scovare tra i vecchi muri delle stanze piene di polvere e ragnatele.
Una regola del Segreto club di esploratori di case abbandonate
diceva che, essendo state lasciate dagli adulti, quelle case potevano interessare solo ai bambini.
Altre norme se le inventava di volta in volta, ma a parte questo Francesca si