Figlia della fragilità
By Poli Simona
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Figlia della fragilità - Poli Simona
SIMONA POLI
FIGLIA DELLA
FRAGILITÀ
Romanzo
Copyright © 2013 Leonardo Bruni Editore
Tutti i Diritti Riservati
Per me esiste solo il cammino lungo sentieri che hanno un cuore,
lungo qualsiasi sentiero che abbia un cuore.
Lungo questo io cammino, e la sola prova che
vale è attraversarlo in tutta la sua lunghezza.
E qui io cammino guardando,
guardando senza fiato.
(Don Juan Matus)
Prefazione
Tutti noi siamo realmente ciò che pensiamo di essere?
Quanto coraggio occorre per vivere una vita dignitosa, degna del nostro amore e della nostra dedizione?
Una forza che spesso non abbiamo o che pensiamo di non avere.
Gloria non ha mai conosciuto se stessa, non ha mai saputo chi fosse veramente.
Ha vissuto la sua vita dietro le barricate, con in mano uno scudo pronto a difenderla da tutto e che inevitabilmente l'ha allontanata dalla realtà.
Non è mai uscita allo scoperto, né con se stessa, né con gli altri.
L'amore negato di una madre assente, una figura paterna inesistente, i collegi come unica famiglia.
Poi la vita adulta, la solitudine, la realtà cruda e dura, la mancanza d'amore e di autostima.
Gloria, una ragazza che sbaglia continuamente, che muove le pedine della sua vita solo per proteggersi da tutto. E' una persona intelligente ma non abbastanza forte per rispondere alle avversità in maniera coerente e razionale. Nessuno glielo ha insegnato.
Mette al mondo tre figli di cui non sarà mai madre, ma sarà sua madre, Anna, l'unico rammarico della sua vita, l'unico suo vero amore irrealizzato.
La consapevolezza della morte vicina, tirerà fuori dal guscio le sue paure, le sue debolezze. Ma sarà troppo tardi.
Di fronte alla figlia Claudia, abbandonata da piccola e ritrovata diciassette anni dopo, sul letto di morte, si lascerà andare alle emozioni e ai ricordi, sarà capace di gettare quello scudo che le aveva impedito di vivere. Finalmente le sue lacrime troveranno un varco per scendere e la sua bocca pronuncerà parole per troppo tempo taciute. Le sue mani magre e deboli incontreranno quelle di Claudia, per la prima volta dopo quarantatré anni.
Il grande segreto di Gloria sarà svelato.
CAPITOLO I
Quando la vidi per l’ultima volta, ebbi un forte rimpianto per non averla mai vissuta prima.
L’intensità di quegli attimi finali abbracciavano la solitudine di tutta una vita, rendendola ancora più pungente.
Non avevamo più tempo, non ne aveva lei, né io per lei. Tutto lì, in quegli sguardi, in quelle lacrime che faticavano a scendere ma che rendevano i suoi occhi infinitamente tristi.
Fuori una forte pioggia, di quelle che ispirano un artista o rendono triste un bambino che non può uscire a giocare. Fissava quel cielo bianco oltre la finestra un po’ appannata, non riusciva a guardarmi negli occhi, neanche in quel momento.
Desideravo il suo sguardo su di me, lo sguardo materno che tanto avevo sognato fin da piccola, quando la pensavo cercando di disegnare il suo volto, la sua figura. L'avevo chiamata Clara, il suo nome lo avrei scoperto più tardi. Era nella mia fantasia dalla mattina alla sera e mi accompagnava mentre la mia vita scorreva nelle abitudini e negli affetti quotidiani di una famiglia che cercava solo di amarmi il più possibile come si fa per un figlio naturale.
La pioggia insisteva prepotentemente e batteva sull’asfalto fino a farlo fumare. Quel rumore incessante nascondeva in un certo modo i battiti del mio cuore che sentivo esplodermi dentro.
La guardavo e mi aspettavo qualcosa da lei, come del resto mi ero aspettata tutta una vita. Quel silenzio assoluto forse parlava da solo ma non lo comprendevo, non riuscivo a coglierne il lato più fine, più nascosto.
Davanti a me scorrevano tutti gli attimi che ci avevano unite per un po’ senza però darci modo di nutrire il nostro rapporto. Quel passato che mi aveva continuamente tenuta per mano, adesso mi si ripresentava violento più che mai.
Non riuscivo a provare odio, non c’ero mai riuscita e mai l’avrei voluto provare. In fondo quella donna sofferente davanti a me, mi aveva regalato la vita, era mia madre, non potevo che amarla. Eppure lei non aveva mai provato, in tutti quegli anni, a entrare in contatto con me, a capire chi ero, quanto avevo sofferto. A volte si mostrava affettuosa ma bastava contraddirla per una sciocchezza che subito chiudeva tutte le sue porte al mondo, ma soprattutto, a me, come ad una sconosciuta ...
Mi guardava ogni tanto, cercando di farlo quando non me ne accorgevo. Ma con la coda dell’occhio spiavo i suoi movimenti e me ne rendevo conto. Mi faceva piacere, anche se non sapevo quali fossero i suoi pensieri; adoravo che lo facesse e immaginavo quel suo lato materno posato su di me. In quegli istanti avrei voluto fermare il tempo e vivermi la sensazione per tutte le volte che la vita me lo aveva negato.
I suoi due cani non la lasciavano mai, accovacciati sullo zerbino in fondo al letto e il suo gatto assonnato sulla sedia vicino al radiatore. Per loro lei era una vera madre. Paradossalmente li invidiavo e mi ero sempre chiesta perché loro sì ed io no.
Zeus, Shampi e Macchia. Non mi sono mai piaciuti molto, io che adoro gli animali. Non sopportavo il suo modo di stare con loro. Gli permetteva tutto, li trattava come fossero l’unico motivo per vivere. E la cosa triste era che in fondo per lei forse era davvero così.
Non ho mai invidiato la sua vita anzi, ho provato una profonda tristezza sapendola sola e intestardita, arida verso il mondo. Avrei voluto annaffiare il suo cuore ma non ho mai trovato il sentiero che mi conducesse a lei. Colpa sua, colpa mia. Chissà.
Era tardi, le parole non uscivano e forse era meglio così, forse non dovevano uscire per non rovinare la profondità di uno sguardo, l’essenza di un silenzio, per non rovinare quel che restava di quel poco che avevamo salvato nel nostro esile e sottile rapporto.
Distesa su quel letto neanche ben tenuto, dimagrita moltissimo dall’ultima volta che l’avevo vista qualche anno prima, prima che mi sbattesse il telefono in faccia per l’ennesima volta e che mi dicesse di non farmi più vedere. Non sapevo della sua malattia, nessuno mi aveva avvisata, come si fa con un’estranea. Neanche l’altro suo figlio, Matteo, uno dei due figli maschi con il quale era riuscita ad essere una madre qualche anno della sua vita, era riuscito ad informarmi. Lui l’adorava, nonostante tutto. Non l’aveva mai lasciata, neanche per dedicarsi alla sua vita, peraltro non molto diversa da quella della madre. Nonostante si fosse trasferito in un’altra città, continuava a macinare chilometri per raggiungerla ogni fine settimana e per prendersi cura di lei come lei non aveva mai fatto per lui. Matteo aveva avuto un’infanzia difficile, per certi versi inconcepibile. Senza una famiglia, dovendo entrare ed uscire dalla vita di sua madre in maniera sistematica ogni volta che si presentava la necessità. Lei non era stata una madre neanche per lui, ci aveva provato però, ottenendo risultati spesso criticabili. Ma l’amore può essere grande e gratuito e non prevedere niente in cambio. L’amore è incondizionato, infinito, leggero e a volte impercettibile. L’amore ha il suo sentiero, la sua verità. L'adorazione di Matteo per quella donna mi faceva tenerezza. Lei era il suo mondo. Lui le aveva donato tutto il suo cuore senza una vera ragione se non per il fatto che fosse sua madre. Si era abbandonato a quel legame più forte di lui e non era riuscito a distaccarsene, o non lo aveva nemmeno voluto, per cercare forse un po’ di quella psicologica autonomia di cui tutti noi, prima o poi, abbiamo anche inconsapevolmente bisogno per crescere.
CAPITOLO II
Davanti a lei riuscivo, nonostante tutto, a provare pietà.
Le sue mani erano appoggiate fuori dal lenzuolo. Le guardavo, le trovavo simili alle mie. Mi somigliava molto del resto e questo mi incuteva un certo timore. Le volevo bene ma ho trascorso la mia vita cercando di non essere come lei, non lo avrei sopportato. Eravamo troppo diverse io e lei, nell’animo, nelle sottigliezze della vita e nelle sue profondità. Le nostre strade non avevano avuto la stessa direzione, lei non conosceva la mia e io non conoscevo la sua. La vita ti insegna sempre qualcosa, attraverso le esperienze, attraverso ciò che ti trasmettono le persone, nel bene e nel male. A volte succede però che la solitudine sia l’unica compagna della tua esistenza e allora, ciò che nutre la tua persona sono solo le coincidenze, gli eventi, i fatti e ciò che riesci a trarne da tutto questo è compito tuo e basta. Sei tu che devi capire il bene e il male, elaborarlo e conviverci. Ecco che si forma il carattere, quel bagaglio di ogni cosa che ti porterai dietro tutta la vita.
Per me lei era quel bagaglio solitario, arido d’amore, incapace di aprirsi al mondo. Un accumulo di esperienze e prove dure a cui era stata destinata sin dalla nascita, con cui era cresciuta, giorno dopo giorno, senza nemmeno soffermarsi a pensare che poteva essere diverso, che poteva cambiare qualcosa. Viveva perché era nata ma non aveva punti di riferimento, non ne aveva mai avuti. Non era colpa sua, come potevo odiarla?
Sentivo forte la voglia di prenderle la mano e di tenerla stretta nella mia ma non ne avevo il coraggio. Per me era una sconosciuta, non avevo la confidenza necessaria e non ero sicura le facesse piacere.
Non sapevo chi fosse, non lo avevo mai capito. Ma perché mi trovavo davanti a lei in quella circostanza? Perché non mi aveva aperto la sua porta quando ancora la vita ci regalava la possibilità di conoscersi, di imparare ad amarsi? Perché non si era mai sforzata di essere paziente con me, comprensiva, docile, generosa, materna? Perché mi aveva lasciata sola ancora tante volte dopo quella terribile e definitiva durante i miei primi mesi di vita?
Mio fratello mi aveva chiamata solo due giorni prima per dirmi che nostra madre voleva vedermi. Non mi aveva accennato a nessuna malattia. Certo non lo immaginavo.
Non avevo molta voglia di assecondare questa sua richiesta, erano passati anni di silenzio non condivisi. Per l’ennesima volta mi aveva fatto soffrire molto. I suoi abbandoni mi avevano resa insofferente e delusa. Ero rimasta una bambina che subiva la tortura di non essere amata dalla madre, non ero diventata mai abbastanza adulta per staccarmi da questo sentimento di perdita. Puoi fare a meno di molte cose nella vita, ma certo non di tua madre, non dei suoi abbracci, delle sue carezze, della sua presenza e del rumore della macchina da cucire a pedali che usa per cucirti il grembiule di scuola strappato.
Stranamente però Matteo insistette, mi disse che era importante, che se non fossi andata me ne sarei pentita.
Avevo molte ferie accumulate e decisi di dedicare qualche giorno a questa visita anche se, in cuor mio, non ero sicura di fare la cosa giusta. La mia era paura di ricevere un’altra delusione, di dover soffrire di nuovo. Paura di trovare ancora il portone chiuso.
Avevo una fototessera molto vecchia che mia madre mi aveva dato il giorno in cui ci eravamo conosciute, su quel pianerottolo di quel palazzone triste, venticinque anni prima. C'eravamo noi, lei con gli occhialoni scuri a coprire gran parte del viso ed io che le stavo in braccio, avrò avuto più o meno sei mesi. Mi raccontò di averla fatta alle macchinette per strada, mentre mi portava all’orfanotrofio. Quella fotografia ritraeva il nostro addio, il nostro ultimo momento insieme. Mi disse che gli occhiali scuri servivano a nascondere le lacrime ed io ci credevo. Nessuna madre, neanche la peggiore, può dar via il proprio figlio senza provare dolore, credo sia contro natura. Quando la guardavo pensavo a lei, consapevole della sua azione, e pensavo a me, ignara che quel giorno avrebbe cambiato le mie sorti, il mio destino. Inconsapevole del dolore che sicuramente quella perdita mi avrebbe provocato. Questa è la vita.
Arrivai sotto casa sua, suonai. Quel portone stavolta era aperto e tanta fu la sorpresa nel trovarla in quelle condizioni. Quando si tiene ad una persona, non la si può immaginare malata, tanto meno morente. Soprattutto sapendo che, se te ne avessero dato modo, avresti potuto fare qualcosa.
Si muoveva appena, parlava con fatica, quasi non la capivo. Fuori pioveva incessantemente. Mi sedetti di fianco al suo letto senza che una parola riuscisse ad uscire dalla mia bocca. Chissà cosa pensava. Chissà se anche lei, come me, stava guardando il film delle nostre vite, a ritroso, senza pietà.
CAPITOLO III
Soffrivo terribilmente, avrei voluto liberarla da tanto dolore, avrei voluto abbracciarla e proporle di ricominciare da capo, ma avevamo fatto tardi e ne eravamo consapevoli; la vita stava pronunciando il suo verdetto finale. Era giunta al suo traguardo e forse voleva scaricarsi la coscienza, forse mi aveva chiamato per questo.
Mi ero sempre promessa di non giudicarla, volevo solo ed esclusivamente amarla per quello che era. Ma non l'avevo mai perdonata per non avermi amata come avrebbe potuto, per non aver cercato di capire i miei stati d’animo, le mie reazioni, la mia timidezza. Si era sempre preoccupata di se stessa e che il mondo girasse intorno a lei, come una persona egocentrica e presuntuosa. Eppure ero sua figlia, la figlia che un pomeriggio qualunque portò in un orfanotrofio vicino a casa sua perché un suo amico gli disse: come fai ad occupartene?
. Si fermò ad una cabina pubblica per scattare l’ultima foto e forse sì, pianse, ma poi ebbe la forza di bussare a quella dannata porta e salutarmi per sempre. Ebbe quel coraggio, quella determinazione.
Chi ero io per giudicare la sua vita, le sue tristezze, le sue gioie?
L’orologio scoccava le quindici, sembrava già sera tanto era scuro. Il baccano dell’acqua sul tetto, il gatto che si stirava, i cani che dormivano vicini a lei. Arrivò una sua amica, Diletta, la riconobbi a malapena, erano molti anni che non la vedevo. Mi riservò un'accoglienza strepitosa, mi abbracciò forte, tanto forte. Erano molto unite lei e mia madre, la loro era un'amicizia di quelle vere. Ricordo che Gloria mi aveva parlato di lei ma ricordo anche come la trattava male. Il suo caratteraccio lo sfoderava con tutti. Bastava contraddirla o fare qualcosa che per lei non andava fatta, ed eccola uscire, sicura e determinata a farsi detestare. Eppure Diletta le rispondeva sempre con tenerezza, si faceva maltrattare, sopportava le sue cattiverie (o chiamiamolo carattere tenace), le voleva bene incondizionatamente. Gloria lo sapeva e si sentiva tranquilla di poter esagerare a suo piacimento. Diletta l' amava e amava ciò che era suo, come anche me. Si conoscevano da quando erano bambine, il destino gli aveva fatto percorrere insieme molti anni della loro vita. Era l’unica amica che aveva, per quanto ne abbia mai saputo. Per Diletta, Gloria era stata una bellissima ragazza un po’ sfortunata, capitata nelle vite di persone sbagliate che le avevano impedito di diventare una donna migliore. Comprendeva la sua irascibilità attribuendola alle troppe delusioni accumulate ed è per questo che le subiva senza sollevare nessun tipo di contestazione e riusciva a perdonarle qualsiasi errore, a trovarle scuse plausibili, accettabili. E mia madre questa fortuna l’aveva: il bene incondizionato di un’amica vera.
Diletta passava da lei ogni giorno, durante la pausa pranzo e, se riusciva, anche dopo il lavoro. Non abitava distante, prendeva l’autobus e scendeva proprio vicino al portone di casa. Si preoccupava di tutto ciò che era necessario, dalle cose pratiche all'assistenza medica e psicologica. Portava fuori regolarmente i cani, gli dava da mangiare, come anche al gatto, puliva quel che riusciva, visto che in quella casa disordinata era difficile trovare anche il modo di farlo. Negli ultimi tempi Gloria aveva espresso il desiderio di disfarsi di molte cose che secondo lei non aveva più senso conservare, cose alle quali era stata legata una vita intera. Aveva deciso di creare quel distacco necessario a non farle pesare troppo lo scorrere del tempo e l’avvicinarsi della fine. La sua era una tremenda paura di lasciare la vita anche se non aveva mai dato l'impressione di amarla troppo. Solo in quei giorni ebbi la sensazione che non se ne volesse staccare.
Inconsciamente ho sempre sperato di vederla lottare per la sua vita e la sua dignità. Quello che ho visto negli anni, è stata una donna estranea in un mondo che non gli apparteneva. Non solo verso di me. Quel suo gelo però prima o poi doveva sciogliersi e lentamente fluire via, verso un luogo lontano da dove mai più tornare. Non è mai troppo tardi, era difficile da dire e da pensare. In quei momenti lo era davvero.
Diletta aveva portato a casa molte scatole vuote, anche lei aveva sempre esortato Gloria a fare ordine e ora faceva di tutto per farlo prima possibile. Sotto le sue direttive, a volte poco convinte, inscatolava anche ciò di cui Gloria non si accorgeva. Una ad una, giorno dopo giorno, era riuscita a liberare parte della sua anima offuscata. La osservavo e osservavo attentamente tutto ciò che reperiva da ogni dove. A volte riaffioravano cose che non credevo potesse aver conservato, non la credevo una persona attaccata a oggetti piccoli e apparentemente insignificanti. Ma anche tanti libri, tenuti in un grande armadio, bambole di pezza vecchie e malandate, cartoline collezionate da posti visitati in gioventù.
Io che amavo fotografare, mi ero sempre domandata come mai avesse pochissime fotografie e un giorno, quando glielo chiesi, mi disse che le aveva tutte buttate via. Mi faceva rabbia. Come si poteva gettare i ricordi di una vita? Non ne sarei mai stata capace. E allora la immaginavo in un momento dei suoi, freddo e noncurante, dove, pensando a sua madre, toglieva foto dagli album per scaraventarle nel nulla.
CAPITOLO IV
Pensava a sua madre Gloria, sempre.
Parlava solo di lei Gloria.
Questa era la sua grande tristezza, il suo rammarico, il suo sogno infranto, la sua rabbia, la sua ombra, la causa del suo atteggiamento ostile verso il mondo. L'aveva amata da morire pur avendole sempre dato la colpa di tutto ed io invece ho sempre detestato che lo facesse. Detestavo che nella sua vita si dovesse parlare solo di quella donna e della madre sbagliata che era stata mentre invece, nel suo profondo inconscio, aveva dedicato la sua intera vita a cercarla, a chiederle pietosamente che l'amasse. Lei invece aveva percorso la sua strada senza mai preoccuparsi dell'esistenza di una figlia la quale invece le chiedeva in ogni modo attenzioni, a sua volta negandole a chi, come me, ne aveva bisogno.
Questi pensieri mi agitavano, non riuscivo neanche a guardarla certe volte.
La pioggia aveva deciso di dare una tregua e così pensai di uscire di casa a prendere un po’ d’aria. Avvertii Matteo che nel frattempo si stava preoccupando della cena; era un bravo cuoco,