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Il ragno tesse la tela solo d'inverno
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Il ragno tesse la tela solo d'inverno
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Il ragno tesse la tela solo d'inverno

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Anni settanta. Italia. Un uomo di mezz'età, alla guida di una Aston Martin vecchio modello, scorrazza liberamente per una via secondaria del raccordo autostradale Milano-Siena. E' Franco Caetano, modesto sceneggiatore cinematografico alla ribalta del cinema italiano, protagonista della prima parte del libro. E' in viaggio verso il traguardo di tutta una vita: la possibilità di assumere una posizione di rilievo nell'ambito cinematografico italiano. Milano, è la destinazione dei suoi sogni, dove lui e il maestro del cinema italiano Dario Argento avrebbero dovuto discutere in merito del suo nuovo sceneggiato.

Ma il buonumore dello sceneggiatore non è destinato a durare. Inavvertitamente, infatti, Franco perde il controllo della sua macchina, andando a sbattere violentemente contro un platano piantato lì vicino. Nessun danno fisico, per fortuna: ma la macchina risulta inutilizzabile. E' inutile: Franco Caetano prende con sé la sua valigetta ed è costretto, con la neve che gli arriva fino alle ginocchia, a vagabondare in cerca di aiuto nel cuore di quelle colline gremite di neve.

Camminerà per delle ore prima di trovare la sua unica ancora di salvezza: una vecchia, decrepita ma sontuosissima curtis medievale, strutturata a mo' di villa. Franco Caetano entra senza indugio nella villa, sicuro di trovare in aiuto. Speranza vana, vista l'accoglienza fredda, algida e sospetta che le riserverà la padrona della villa: l'enigmatica Madame Dufresne. Accolto a trovar rifugio nella villa, Madame Dufresne accoglie con piacere Franco nella sua villa, presentandolo ai vari ospiti: pervenuti ivi per via della dipartita del marito della governante: il signor Dufresne. A questo punto Franco Caetano fa la loro conoscenza: la grassa signora Molinari, ricca borghese, con suo nipote Charles; l'affarista di Chicago, il signor Alan Wetmore; il giudice Wittelcatt, losco e astuto individuo dai modi viscidi, la bella Signorina Fountaine e il di lei marito: il tenebroso e asciutto conte David Ostermayer. Fin qui nulla di particolare. Tutto, infatti, sembra dimostrarsi a Franco come il preludio di giornate noiose; passati, rinchiusi, costretti in quel castello di neve a doversi impegnare in erudite e noiose conversazioni a stampo politico/economico.

Ma il delitto di uno dei commensali, la notte stessa dell'arrivo del signor Caetano, risveglierà gli animi di tutti i commensali pervenuti alla funzione funeraria.

Chi è l’assassino? In un'atmosfera grottesca, spinta ai limiti del surreale; circoscritta da una coltre di neve che negherà la fuga al sociopatico che ha compiuto tale efferato omicidio; con personaggi che hanno tanto da dire e molto da nascondere, la caccia del gatto al topo di Franco Caetano e Giovanni Calvino sitrasformerà in un'ossessionante corsa contro il tempo.

Perché, a quel punto, l'assassino potrebbe essere chiunque.

Chiunque...

LanguageItaliano
Release dateJun 30, 2014
ISBN9786050310733
Il ragno tesse la tela solo d'inverno

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    Il ragno tesse la tela solo d'inverno - Flavio Dionigi

    ).

    Una villa per molti invitati

    1

    Nello stesso anno in cui l'America usciva dalla guerra in Vietnam e i Pink Floyd pubblicavano il loro disco di maggior successo: The Darkside of The Moon sarà classificato da molte riviste dell'epoca come < il miglior successo discografico degli anni '70 >; e a quattro anni dalla morte del re del rock'n roll e quattro mesi dopo la dipartita dell'imperatore del kung-fu Burce Lee, Franco Caetano, sceneggiatore e esperto cinematografo giallista, si vedeva il cofano della sua Aston Martin ( un giocattolino che il nostro eroe aveva acquistato alla spaventosa somma di centosessanta milioni di lire ad un'asta penitenziaria in Genova ), schiantarsi contro un platano della tangenziale in provincia di Siena.

    Era partito da Firenze quella mattina, sicuro che i 413 cavalli di cui la sua Aston Martin era dotata sarebbero riusciti nell'intento di farlo arrivare all'hotel Duomo di Milano ( il luogo precedentemente stabilito da lui e dal maestro del thrilling Dario Argento ove i due avrebbero concluso – almeno così Franco sperava – le trattative per una nuova pellicola cinematografica ), per la mattina del giorno successivo. Speranza vana, visto e considerato quello che gli era appena successo. Non che Franco non si fosse aspettato contrattempi lungo il tragitto. Era ovvio. E lo era specialmente per uno come lui. Cresciuto sotto il monopolio di una madre troppo attenta alla sfiga napoletana; a Borgo Canicassè Casale, una piccola frazione in provincia di Caltanissetta, per non credere che qualcosa, lungo la strada, lo avrebbe costretto a rallentare. Ma benché avesse dato sfogo alle sue più sfrenate fantasie da scribacchino da quattro soldi ( ingorghi di dodici chilometri lungo la 113 per via di un incidente, un violento nubifragio e persino l'invasione dei marziani ), mai Franco avrebbe pensato che Dio gli avrebbe lanciato un tiro tanto storto.

    Inizialmente, il che vale a dire quando Franco aveva compreso di aver perso totalmente il controllo della sua macchina, aveva cercato di prenderla con filosofia. Adesso mi lancio contro lo spartitraffico si era detto in quei folli, diabolici secondi prima del dramma ammacco la fiancata, striscio la mia ragazza come si deve e poi...

    Non aveva nemmeno fatto in tempo a formulare altro che quel platano – quel maledettissimo platano figliodibuonadonna – gli si era parato davanti.

    A nulla era servita la sua disperata manovra di salvataggio: Franco aveva girato il volante della macchina con entrambe le mani sperando di evitare l'albero. Ma la strada era ghiacciata. Scivolosa. E così, invece di evitare il disastro, Franco – con quella sua manovra alla Bonny & Clayd – non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Era piombato contro il fusto di quel gigante di legno frontalmente, accartocciando il muso della sua macchina come la pancia di una fisarmonica.

    E benché non si fosse mai inteso molto di motori – una cosa a proposito della quale sua moglie Francesca aveva sempre avuto da ridire – Franco era consapevole che, messa in quelle condizioni, la macchina non sarebbe partita per lo stesso motivo per il quale una lavatrice non parte se non ha la spinta inserita. Perché non può farlo.

    Lo sapeva per lo stesso motivo che, in alcune occasioni, non c'è bisogno di un medico per decretare se una persona è morta o meno. Certo. Vi sono mali e medicine che possono far scambiare un catatonico per un morto e viceversa e che quindi, senza l'ausilio di un personale medico specializzato, si sarebbero potute scambiare per vive come che per morte. Ma non era quello il caso della sua macchina.

    Metaforicamente, tanto per rendere l'idea dal punto di vista di un occhio meccanico, le condizioni di salute della sua Austin erano paragonabili a quelle di un uomo con le viscere attorcigliate come spaghetti che gli fuoruscivano dalla pancia e la testa fracassata in due come un'anguria.

    Si ritenne fortunato di essere ancora vivo. Illeso, benché l'airbag gli fosse esploso in faccia facendogli letteralmente volar via due denti e procurandogli un taglio lungo ma superficiale alla tempia. Certo, a vedersi, non un bello spettacolo. Ma quello era sempre meglio che starsene a boccheggiare moribondo nel bel mezzo della strada.

    E ora che lo choc iniziale era passato e Franco si sentiva capace di riporre nelle sue gambe abbastanza fiducia per tenerlo in piedi, meditò che avrebbe dovuto chiamare aiuto. Il carro-attrezzi. L'ambulanza. Magari persino la polizia. Avrebbe dovuto informare la reception del Duomo che sarebbe arrivato in ritardo ( nemmeno nelle sue fantasie più oscure Franco pensava che non sarebbe arrivato affatto ). Informare Dario del suo contrattempo. Spostare l'appuntamento con il maestro dell'horror – cose che non gli piaceva affatto – e disdire il pernottamento, supplicando il responsabile dei suoi alloggi di non ricadere in qualche oscura sanzione di stampo amministrativo – cose che gli piaceva ancora meno -.

    La testa che gli girava, le gambe deboli e la vista annebbiata, Franco si guardò attorno.

    La valle a lui circostante era affondata nel silenzio più assoluto. La neve della sera precedente aveva ricoperto le sparute chiome di platani e betulle che costeggiavano la tangenziale trasformandola, laddove la notte aveva lasciato il suo bacio ghiacciato, in spietati strati di ghiaccio bianco. Il resto della collina era punteggiata da colli gentili imbacuccati in piumoni bianchissimi. Rare rocce e sterpi affioravano come cadaveri di una tomba mal ricoperta – isole di sterilità - da quel mare di gelo.

    Attorno a lui, così come lungo le corsie della tangenziale, non si scorgeva anima viva.

    Franco non si scoraggiò. Chiuse la portiera della sua auto – chissà poi perché lo fece? - andando a prendere la sua ventiquattrore che stava nel bagagliaio. La aprì. Al suo interno, legati in una pila da più giri di tre diversi tipi di elastico, stava un plico di documenti.

    IL SOLE A MEZZANOTTE

    una sceneggiatura di FRANCO CAETANEO

    Recitava il titolo di quella che, almeno a suo avviso, sarebbe diventata la sua più fortunata e famosa sceneggiatura. D'altro canto, non è cosa da tutti i giorni ricevere l'incarico di scrivere la storia di un film del grande Dario Argento. Franco lo sapeva. Ecco perché aveva sistemato quei fogli con tre giri di spago, all'interno di una ventiquattrore avvolta in una coperta di pail e dentro il bagagliaio della sua amata auto... pardon: ex amata auto.

    Assicuratosi che l'incidente non avesse in alcun modo danneggiato le sue tre settimane precedenti di lavoro, Franco richiuse il bagagliaio dell'Aston Martin avviandosi, la ventiquattrore accuratamente stretta sotto l'ascella destra, nella campagna deserta e innevata al suo fianco. Sapeva che prima o poi avrebbe trovato qualcuno a cui chiedere aiuto. Qualcuno che, pietoso di quella che era la sua attuale condizione, avrebbe trovato il modo di soccorrerlo nel migliore dei modi.

    E quando vide quel ridente bagliore di luce a nord illuminare la notte, e vi si diresse – fiducioso che il peggio fosse ormai passato – non sapeva ancora che il peggio, invero, doveva ancora venire.

    2

    Mentre i suoi passi erano guidati dalla luce che ora si trovava innanzi a lui – a quanto lui credeva, la luce della salvezza - Franco ebbe modo di studiare in maniera più approfondita la forma della struttura che l'avrebbe di lì a poco ospitato.

    Soltanto dopo un tempo apocalittico si rese conto che all'esterno la struttura era circondata da un alto muro di chiara costruzione artificiale. E benché la sua ottima vista ( al contrario di molti suoi amici intellettuali Franco non aveva mai portato occhiali o lenti a contatto), il sangue che gli sgorgava dalla tempia gli impedì di riconoscere nelle forme, nell'altezza e nell'imponenza di quella struttura stagliata all'orizzonte, una vera e propria curtis medioevale.

    La riconobbe soltanto quando fu a meno di quattrocento metri da essa; la luce della pallida luna appesa sopra di lui che ne illuminava la facciata principale. Una curtis appartenuta a chissà quali tempi antichi, con un ampio cortile nel qual centro sbucava un pozzo difficilmente ancora funzionante; assediata da mura robuste che, in altri tempi, avevano sicuramente ospitato minacciose guardie strette nell'abbraccio di armature e nella sicurezza di armi che, di quei tempi moderni, si potevano soltanto trovare in bella mostra nei musei.

    Dovette raggiungere i piedi della struttura per accorgersi che il fossato un tempo usato per tenere alla larga i nemici del magnate ora era stato debitamente riempito di terra. Fiori dalle forme curiose e al tempo stesso inquietanti – benché non fosse mai stato un esperto di giardinaggio oltreché di motori, Franco riconobbe rose e oleandri in gran quantità – vi crescevano, mentre un'edera ( che fosse velenosa? ), s'aggrappava alla mura esterne della curtis, arrampicandosene.

    Un'angoscia opprimente anelava in quel luogo. Forte. Persistente, racchiudeva quell'antro così come il cielo aveva per ere ed ere racchiuso la terra. Franco la udì quell'angoscia. La percepì sulla sua pelle così come si può percepire un alito di vento d'inverno che s'intrufola dalla porta di casa tua, spalancandola. Qualcosa che c'è. Che esiste.

    Tuttavia, almeno in quell'occasione, a Franco non passò minimamente dall'anticamera del cervello di lasciarsene impaurire.

    Era troppo infreddolito, stanco e scosso per lasciarsi impaurire da quegli infondati timori alla Poe. Perlopiù aveva fame. Una fame che gli mordeva le viscere come una qualche strana, assurda bestia. Che gli scavava da dentro. Fiaccandolo. Svuotandolo di qualsivoglia forza ed energia.

    Aveva lasciato l'hotel presso il quale alloggiava in centro Siena verso le undici quella mattina, troppo tardi per la colazione e troppo presto per il pranzo, Franco non se l'era sentita di scomodare l'inserviente della cucina per chiedergli di preparargli qualcosa da mangiare. Né aveva considerato l'idea di fermarsi lungo la strada per mangiare un boccone. Voleva arrivare a Milano nel più breve tempo possibile.

    E se per farlo avrebbe dovuto combattere i morsi della fame, ebbene lo avrebbe fatto.

    Idea che gli sembrò più assurda che mai in quel momento. Gli occhi resi ciechi dal sangue che usciva dalla ferita alla fronte; la bocca riempita da un sapore metallico, preso com'era a non incespicare nella neve davanti e attorno a lui.

    Aveva affogato l'intera campagna, la neve. Rivestendo le chiome degli ora radi alberi e ghiacciando la superficie di quei piccoli laghi e torrenti che come lentiggini butteravano il volto della terra.

    D'improvviso Franco si vide camminare in quell'eternità di fame, freddo e dolore per il resto dei suoi giorni, Si vide incedere senza meta alcuna, con la neve fino alle caviglie – proprio come in quel momento – sferzato da un vento che gli scompigliava i capelli in volto.

    Poi scavalcò le assi cigolanti di quello che in passato doveva essere stato un ponte levatoio, gli oleandri e le rose rosse e gialle al suo fianco, e quei timori già di per sé infondati si dissolsero completamente.

    Passato che ebbe il cortile principale ( una grande fontana ritraente chissà quale lotta tra eroi greci: oltreché di motori e giardinaggio, Franco non aveva mai trovato interessante dedicarsi allo studio dei miti greci e latini ), i suoi passi lo portarono all'ingresso vero e proprio della magione.

    Una Fiat di piccola cilindrata grigio metallizzato era parcheggiata davanti al vialetto d'ingresso alla villa. Franco dovette girarvi attorno, in quell'angusto spazio che stava tra il retro della macchina e il muretto di pietra arenaria che dava ingresso al vialetto, prima di riuscire a passare.

    A quel punto ficcò gli occhi davanti a sé.

    La prima cosa che notò fu la luce che l'aveva guidato fino a quel punto.

    Derivava da quello che lui stesso identificò essere l'atrio della villa. Traspariva da due grossi finestroni di vetro grezzo che sostenevano l'entrata principale – una robusta porta in noce – come colonne sorreggono il tetto d'un tempio. Avrebbe certamente proseguito lungo il vialetto senza ulteriore indugio, placando così il freddo e la fame che lo tormentava, non fosse stato per un quasi impercettibile movimento di ombre dietro alle strette e alte vetrate che circondavano la porta.

    Franco ridusse gli occhi a due fessure nella speranza di scorgere chi fosse velato dietro di essa. Dapprincipio lo fece senza particolare interesse. Quasi sovrappensiero, senza che gli passasse nemmeno per l'anticamera del cervello che – vedendolo da fuori – lo si sarebbe facilmente potuto scambiare per un guardone. Ma poi, con l'incedere dei suoi passi verso l'entrata alla villa e il progressivo aumentare di quel suono ( un suono di due voci in evidente contrasto ), la cosa lo interessò a tal punto che si ritrovò a fissare, la bocca spalancata in una O di sincero stupore, oltre il vetro di quella finestra con crescente e viscerale interesse.

    C'erano due ombre di fianco alla porta. Da distante si sarebbero certamente potute scambiare per un paio di quelle piante ornamentali che ammobiliano le vecchie ville di campagna; il vetro grezzo dei finestroni non lasciava che intravedere le sagome di ciò che stava dietro di esso. Tuttavia, il movimento che Franco aveva dapprima percepito lo obbligo a ricredersi. Gli ci volle qualche minuto – e non certo un indifferente capacità deduttiva – per rivedere in quelle due sagome scure una coppia di persone messe di fianco. Se ne stavano lì impalate come giunchi di fianco all'uscio della porta. Quella a sinistra saliva sulla destra di una ventina di centimetri, cosa che obbligava conseguentemente quella di destra ad alzare un globo di oscurità che Franco identificò come la testa, verso di lui. Lui poiché anche se le due figure parlavano con un tono di voce estremamente basso e febbricitante, Franco fu certo dal modo in cui la figura di destra si muoveva, dal modo in cui la sua voce aveva di gravare pesantemente nell'aria circostante, che altri non potesse essere appartenuta ad un uomo.

    Contrariamente, la figura di sinistra – per altezza, movenze e toni – altro non poteva essere che di una donna. Franco sforzò il suo udito più che poté pur di captare estratti della loro conversazione.

    Ma non ce la fece. I due, benché Franco avrebbe anche potuto sbagliarsi, parlavano entrambi in francese. Riconobbe soltanto uno strascicato " Se préparer. Nous devons agir maintenant!"; prima di perdere completamente il filo del discorso. Fu a quel punto che Franco mise un piede in fallo.

    S'era sporto verso la porta in noce talmente preso dall'importanza che quel dialogo aveva per lui assunto ( un dialogo talmente circospetto, Franco Caetano ne era consapevole, che persino Hitchcock se ne sarebbe lasciato stregare ), che non s'era nemmeno accorto di essersi accostato con l'orecchio alla porta d'entrata alla villa. Una momentanea perdita d'equilibrio ed ecco che tutte le sue astute congetture e le sue macchinazioni per non essere scoperto si sbriciolarono sotto i suoi piedi.

    Dall'interno vi fu un parlare alto e conciato. Poi un'ombra adombrò la luce che veniva dall'ingresso dell'atrio della villa. Un rumore di una chiave che gira nel buco della serratura. Quello di un catenaccio che viene tolto. L'uscio della porta che si apre.

    Una donna si materializzò improvvisamente davanti a lui, gli occhi resi minacciosi da una strana luce omicida racchiusa dentro di essi, la mano pronta a sbattere in faccia la porta a quello sconosciuto, guardò Franco con tutto il dubbio e la diffidenza che gli riuscì.

    Era sulla sessantina. Le spalle larghe, le braccia lunghe e flessuose e la postura della schiena rigida e accademica la facevano pensare a una qualche ex diva della danza classica. Cosa intensificata anche dallo sguardo austero, dalle rughe rade ma pronunciate sulla sua fronte. Una persona che nella sua vita aveva dovuto abituarsi a piegarsi a determinare regole, imparare a convivere con esse e a modellare la sua vita in funzione di esse. Lo dimostrava lo sguardo deciso, le labbra serrate e stirate in quello che sarebbe dovuto apparire come un sorriso di benvenuto.

    La donna, chiaramente la figura che precedentemente era stata a sinistra della porta, era poi racchiusa in un farsetto di pizzo ottocentesco.

    Una collana di perle bianche come il sorriso di un nero le impiccava il collo alto ed elegante come quello di un cigno.

    < Buon Dieu! >, esclamò la donna portandosi pittorescamente una mano alla gola, evidentemente preoccupata. < che le è successo per essere ridotto in quello stato? >. domandò, < Qualcuno l'ha picchiata per caso? >. Ma poi di nuovo quella luce omicida negli occhi. Sospettosa. Accusatoria. La donna lo guardò dall'alto verso il basso. E benché fosse meno alta di Franco di qualche centimetro, riuscì comunque a farlo. < e poi... >, mise le mani sui fianchi. < si può sapere chi è lei? >.

    Un rumore di passi. Qualcuno che accorreva alla porta.

    < Madame Dufresne! >, sbraitò una voce dietro la donna. Agitata. Conciata. Sembrava la voce di chi aveva appena visto un fantasma. < Sto arrivando, Madame Dufresne! Arrivo... >.

    Piantata nel punto in cui si trovava la donna in abito ottocentesco, capriolò all'improvviso quella che, così come testimoniavano i suoi abiti ordinari e catogorici, doveva appartenere alla servitù della villa. Una cuffia bianca le racchiudeva i capelli in un nido di ramoscelli castani, mentre il corpo tutto ( il quale rasentava la soglia dell'anoressia ) era coperto da una larga e semplice vestaglia d'ordinanza. Era sulla ventina. Dalla piega del naso si sarebbe di origine belga o francese. Dopotutto, meditò Franco, una bella figliuola.

    < Madame Dufresne! >, fece questa rivolgendosi alla donna che gli aveva aperto la porta della villa. Gli occhi tenuti bassi, le mani raccolte in grembo e il pallore del suo volto e i suoi modi servili incorniciava al meglio quella che era la sua classe di appartenenza.

    < l'ho udita parlare e sono accorsa non appena ho... >, iniziò a spiegare la serva a quella che, date le circostanze, doveva essere la padrona di casa. Poi alzò lo sguardo. Vide Franco con il volto inchiostrato di sangue. Il volto stravolto per il freddo e lo choc postumo all'incidente che aveva avuto. La serva boccheggiò cercando l'aria. La trovò, prendendo a guardarlo come se innanzi a lei stesse ora una qualche bestia rara e minacciosa, piuttosto che uno sceneggiatore alla ribalta del cinema thrilling italiano.

    < … chi è costui, madame? > domandò la serva non staccando gli occhi da quelli di lui, rivolgendosi alla sua padrona. < un amico suo? >.

    < êtes-vous fou? >, abbaiò la governante squadrandola da capo a piedi con crescente disprezzo. La serva si accartocciò su sé stessa, chissà rimproverandosi di quale mancanza. Poi, riacquisto un po' di controllo, madame Dufresne le prese il viso tra le mani. < come potrei mai avere degli amici del genere, Laura? >.

    La ragazza si fece coraggio. < il funerale >, spiegò. < pensavo che magari questo fosse uno degli invi... >.

    La mano alta sopra di lei, madame Dufresne intimò il silenzio.

    Lo ottenne.

    Nel frattempo, Franco Caetano continuava ad osservare la scena con crescente interesso.

    Aveva fame. Freddo. Aveva bisogno di usare un telefono. Quel giochetto tra serva e padrona stava cominciando a dargli sui nervi.

    Fu per questo che, sicuro della sua spigliatezza in campo cinematografico, decise di presentarsi da sé.

    < Se l'ho spaventata le chiedo scusa >, disse Franco ficcando i suoi occhi in quegli abissi di malachite di madame Dufresne, cercando di assumere il tono più dispiaciuto che gli riuscì. La governante gli concesse la sua attenzione. < per quanto riguarda invece il mio attuale stato fisico voglio rassicurarla confidandole che nessuno mi ha – e, vorrei precisare, in-nessun-modo -, picchiato. Mi sono scontrato con la mia auto contro un platano sul fianco della strada. Sulla tangenziale per Milano sud. Ho proceduto alla cieca per queste colline fino a quando non ho visto la vostra villa. Fino a quando... beh...>.

    < … fino a quando non è giunto qui da noi, évident. >, finì per lui Madame Dufresne. Il sorriso tirato a galleggiarle in volto.

    < E' proprio come ha detto lei >, confermò lui con un cenno del capo. < ora, se posso presentarmi...>. Franco allungò una mano verso Madame Dufresne. La quale, dopo averla osservata con evidentemente cipiglio e per un tempo che a lui parve immensamente lungo, la afferrò con poca convinzione. < sono Franco Caetano >, si presentò. < di Caltanissetta. Opero nel mondo della cinematografia italiana del thrilling. Stavo per l'appunto andare ad un'importantissima – e sottolineo: importantissima - riunione a Milano prima dell'incidente. Motivo per cui...>.

    Gli occhi di Madame Dufresene si spalancarono. < c'est magnifique! >. esclamò: ridente, con le mani che battevano con una velocità che Franco non avrebbe saputo attribuirle: parve una bambina viziata che aveva appena scoperto che il di lei padre le aveva appena regalato il tanto atteso pony da cavalcare. < non avevo mai incontrato un regista prima! >, continuò Madame Dufresne, gli occhi brillanti. < Oh, ma cosa aspettava a dircelo? Un regista nella mia villa! Aspettate che lo racconti al sign...>.

    A quel punto la governante si bloccò. La bocca spalancata in un urlo sottotitolato, il volto contratto in un luogo che soltanto lei poteva vedere. Stette in quella posizione per qualche istante. Poi, senza nessun preavviso, si mise le mani tra i capelli.

    Pianse così. Con la schiena ritta, le spalle marzialmente e rigidamente larghe: cipresso sottile bagnato da un violento nubifragio, impiantato in quella posizione per via delle radici dalle quali è cresciuto.

    Laura, la serva della governante, le mise amichevolmente una mano sulla spalla, trascinandola in un abbraccio appassionato e rotto soltanto dai singhiozzi di Madame.

    Franco era esterrefatto. Non soltanto per la reazione della governante alle sue stesse parole. Ma anche per come e con quale sveltezza l'espressione del volto di Madame era mutato. Specialmente per la velocità e la naturalezza con la quale l'aveva fatto.

    A mente lucida, non avrebbe mai saputo attribuire ad una gentildonna della risma di Madame Dufresne una reazione tale.

    Laura, la testa imbacuccata tra le spalle magre e rachitiche della sua padrona, lo scrutava con occhio vigile e attento.

    < dovete perdonarla >, gli spiegò. < Madame ha appena perso il marito: il signor Dufresne è morto d'infarto...>.

    Franco inarcò un sopracciglio. Non era mai stato un tipo da sentimentalismi. Tuttavia, quella volta e in quell'occasione, si sentì in dovere di manifestare il suo dispiacere.

    < Le mie più sentite condoglianze >, sussurrò < non avevo idea di quanto accaduto. Sapendolo, non avrei certamente...>.

    < Non è colpa sua >, si sbrigò a spiegare la governante. < il fatto è che mio marito è morto l'altra notte, signor Franco... e benché avrei volentieri fatto a meno di propinarle tutta questa scenata, non ne ho davvero potuto fare a meno. D'altronde, com'è che dite voi italiani in questo genere di casi? >.

    < … al cuor non si comanda? >, fece Franco.

    < exactament! >, esordì soddisfatta Madame Dufresne. < proprio così, signor Franco. Al cuor non si comanda. E io non ho certamente saputo comandare il mio... abbisognava del telefono vero? >.

    Franco assentì vigorosamente con il capo.

    < lo immaginavo. Certamente vorrà fare le sue telefonate all'hotel dove aveva prenotato. Disdire l'appuntamento con la persona interessata. Chiamare un caro-attrezzi che possa provvedere alla riparazione della sua auto... prego, non sia timido. Entri. Venga dentro! … ci saranno certamente delle persone che saranno entusiaste all'idea di conoscere un regista della sua fama... >.

    E benché l'ultima cosa di cui Franco aveva voglia era vedere, sorridere, dialogare e avere a che fare con altre persone, accettò la cosa di buon grado. Almeno, si disse, avrebbe in quel modo passato più velocemente il tempo. Perché per quanto presto avesse chiamato il carro-attrezzi ( non si preoccupava minimamente del fatto di dover spostare l'incontro con Dario Argento, Franco, lo sapeva, lo avrebbe capito ), Franco dubitava che, date le condizioni meteorologiche – minacciava bufera – la cosa sarebbe finita tanto presto. Un paio di giorni, tre al massimo. Ma non prima.

    Di colpo si sentì uno stupido. Aver lasciato la macchina semi-devastata com'era contro quel platano, al lato della strada e con il rischio che qualcuno potesse finire per uscire di strada per colpa sua, lo fece sentire più in colpa che mai. Ma alla sola idea di ritornarsene alla tangenziale, incespicando per la campagna innevata, infreddolito e affamato com'era, Franco si sentì venir meno.

    Accettò di buon grado l'invito della governante quando questa gli propose di entrare, precipitandosi letteralmente all'interno della villa.

    Impronte di neve e fango furono lasciate sulla moquette

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