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L'altra Beatrice
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L'altra Beatrice

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About this ebook

Beatrice vive in un paesino di centocinque abitanti, S’Archittu. Ha diciassette anni ed una valigia di cartone in cui sono racchiusi sogni e matite.
I suoi occhi sono azzurri come il mare che scorge dalla sua finestra. L’Azzurro è un colore che le appartiene, da diciassette lunghissimi anni. Lo detesta. Per questo tinge tutto di Bianco. Candido come il fantasma di sua madre, puro come i suoi desideri.
Beatrice è una ragazza timida e piena di fobie. Lei non tocca le persone.
In un anno i suoi punti di riferimento svaniscono. Si ritroverà da sola divisa tra la voglia di lasciare la sua terra e la scoperta di nuovi colori: il Rosso di un rossetto e l’Arancione di un misterioso ragazzo.
Una piccola creatura le comparirà davanti. Piccola, sfacciata con lunghissimi capelli neri. Sarà amica o nemica? Beatrice lo scoprirà affrontando il vortice delle sue paure.
LanguageItaliano
Release dateAug 27, 2014
ISBN9786050318753
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    L'altra Beatrice - Sara F. Peppina

    casuale.

    Capitolo 1

    «L’azzurro è un colore che mi appartiene».

    Controvoglia aprii gli occhi, veloce mi liberai delle coperte per aprire la finestra. Un giorno nuovo tra le pieghe del cielo. Al confine tra sole ed infinito si congiungeva il mio mare. Sfumature di blu trasportavano il fragore delle onde. Talvolta scovavo tinte di verde e viola a richiamare i fichi che coraggiosamente erano cresciuti sulla roccia. Li ammiravo quei fichi d’India. Dalla mia finestra non riuscivo a scorgerne molti. Due, forse tre ceppi. Ogni mattina, da diciassette anni, rivolgevo il mio saluto a quella famiglia di fichi.

    Sedevo sul davanzale di pietra bianca in pigiama. Mordicchiavo senza sosta il labbro inferiore mentre guardavo con interesse i fusti verdi, enormi pale appiattite sopra le quali i frutti di color giallo ed arancio si protraevano a forza verso il sole. Pareva che stessero per cadere a capofitto nel mare.

    Inspirai l’odore di salsedine, inebriandomi dei profumi a me tanto familiari. La mia testa se ne andò in giro. Oltre l’azzurro, oltre il mare, al di là di quest’isola, certamente un’altra isola, cui si trovava una città.

    Una vita in movimento.

    Io ero piantata saldamente nella mia casa, sul costone che portava all’unica frazione di spiaggia della zona e come quei fichi laggiù mi protraevo verso il cielo per spiccare il volo. E, come i fichi del resto, erano diciassette anni che volavo esclusivamente attraverso le mie fantasie.

    Me ne sarei andata.

    Volevo assaporare altri profumi, scorgere altri colori. Non esisteva solo l’azzurro. Chiusi gli occhi. La tavolozza di colori non era fatta solo per toni chiari e tinte di verde. C’erano le sfumature più scure. Forti e vibranti. Non temevo le mille sfumature di grigio. Quest’ultime mi avrebbero resa libera. Un giorno avrei preso il mio diario, la mia valigia, un cappello e sarei volata verso nord, a Milano. Certamente non sarebbe stata nonna con i suoi discorsi da provinciale ad incastrarmi a S’Archittu.

    Cosa vuoi che ne sappia lei di cosa ci sia a Milano? Di certo non conosceva l’università Bocconi e le innumerevoli possibilità che mi avrebbe potuto offrire. Che ne sapeva lei di quello che c’era al di là della costa verde? Nonna, una donna di settantasei anni il cui più grande tragitto mai compiuto fu di trenta chilometri. Da S’Archittu ad Oristano.

    Ogni qualvolta accennavo al mio desiderio di studiare a Milano, iniziava a dipingermi la città come piena di violenza e depravazione. Sapeva che non le credevo. Cambiava così strategia. «Bea come pensi che starebbe tuo padre senza di te? Se te ne vai a lui cosa resta? Io non camperò per sempre».

    «Beatrice, scendi! Sei sveglia?!».

    La voce squillante di Sabina riuscì a sottrarmi ai miei pensieri. Voltai un’ultima volta lo sguardo verso il mio azzurro, il mare. Inspirai l’odore di un giorno nuovo e indossando gli zoccoli andai ad aprire la porta d’ingresso.

    Appena aprii la porta Sabina si precipitò in cucina strillando: «Forza dormigliona! Sono già le dieci».

    «Ma per davvero?». Non me n’ero proprio accorta. Sicuramente mio padre volutamente mi aveva spento la sveglia. Era convinto che non dormissi abbastanza.

    Mi svegliavo alle prime luci del sole e restavo ore a contemplare il mare. Puntavo, tuttavia, la sveglia per le otto e mezza. Consapevole che i miei viaggi a Milano sarebbero potuti durare anche intere giornate.

    Guardai Sabina armeggiare con la caffettiera. «Lascia stare, papà sicuramente avrà già lasciato del caffè in frigorifero»

    «Bea, oggi non mi fermo a dormire. Resto qui fino al massimo le quattro poi viene Sté a prendermi».

    Non le risposi e versai il caffè nei bicchieri della Nutella; presi qualche fico, un po’ di pane e mi sedetti per fare colazione.

    «Come fai a magiare i fichi col pane? Sei proprio un animale!»

    «Perché tu i fichi non li mangi?»

    «No. Io li do ai maiali».

    Scoppiamo entrambe a ridere.

    Sabina era la mia migliore amica. Ci conoscevamo da sempre. In realtà non c’era persona nei dintorni che non la conoscesse, essendo la figlia del direttore dell’unico ufficio postale della zona.

    Da quando nonna era rimasta vedova, mio padre aveva concordato che sarebbe stato meglio che con me, durante i mesi estivi, ci fosse qualcuno. Così Sabina passava intere giornate in mia compagnia, dormendo spesso a casa nostra.

    Negli ultimi tempi, però, il nostro rituale di spalmarci yogurt in faccia aspettando la telefonata di controllo di mio padre non veniva svolto con regolarità. Ciò era dovuto al suo fidanzamento ufficiale con Stefano.

    Sabina e Stefano stavano insieme dalla prima superiore. Oggi, dopo quattro anni di relazione clandestina, erano fidanzanti ufficialmente. I rispettivi genitori già parlavano di matrimonio. Certamente per Cuglieri la loro unione sarebbe stato l’evento dell’anno. La figlia delle poste con il figlio del miglior ristoratore sardo della zona. Insomma pareva più una questione di affari.

    Da quando si era festeggiato il loro fidanzamento, con una cena pomposa a casa della madre di Sabina, i miei amici non la smettevano di scambiarsi effusioni. Onestamente la loro ufficializzazione aveva comportato per me solo disturbo. Riuscivo a comprendere che i due cercassero costantemente intimità, ma non in casa mia. Erano disgustosi mentre si baciavano sul divano o seduti in cucina. Li rimproverai nel trovarli avvinghiati come lottatori di sumo in camera di mio padre. Tutte quelle carezze, quei contatti proprio non li capivo. Quell’estate, l’estate del 1998, grazie alle loro continue manifestazioni d’amore fu in assoluto l’estate più noiosa che mi possa ricordare. Sabina non faceva altro che parlare del suo fidanzamento e di un probabile matrimonio con il suo perfetto Stefano.

    «Ehi! A che pensi?». La domanda di Sabina mi riportò ai miei fichi sublimi.

    «Non mi dire che stai ancora pensando a quel ragazzo. Già il fatto che nessuno lo abbia mai visto fa di lui un pericoloso serial killer! Immagina se lo sapesse tuo padre?»

    «E tu non dirglielo» risposi ridendo.

    Sabina contraccambiò con una linguaccia. Prese un pezzo di pane e come era entrata uscì. Fece il giro della casa per affacciarsi dalla finestra che dava verso il mare.

    «Ti muovi con quel caffè! Io voglio andare in spiaggia!». Scappò via.

    Continuai a sorseggiare lentamente il caffè freddo perdendomi nei miei pensieri.

    Capitolo 2

    Giacevo supina sul mio candido asciugamano di spugna. Sul mio viso enormi occhiali da sole. Le mie labbra protette dal burro di cacao. Il rumore delle onde che si infrangeva sulla spiaggia era disturbato dal chiacchiericcio lontano di qualche ragazzo.

    I turisti erano arrivati puntuali ad inizio agosto, creando quell’effetto novità che svaniva col trascorrere delle settimane. Gli anziani trascorrevano le torride giornate affacciati ai davanzali o seduti davanti a casa. Si divertivano a commentare i villeggianti. Piantonavano le vie del centro mentre li osservavano come se fossero alieni venuti da chissà quale pianeta. Eccitazione massima se tra i turisti c’era anche qualche straniero.

    La sabbia si era infilata tra le dita dei miei piedi. Piano li picchiettai l’uno contro l’altro. Il vento faceva svolazzare il cordino del mio bracciale di stoffa. Il bracciale dell’amicizia. Regalo dell’estate scorsa da parte di Sabina che, attenta amica come sempre, si era accorta della mia gelosia nei confronti di Stefano. Non ero invidiosa del fatto che avesse un ragazzo. Vero, non avevo particolare simpatia nei suoi confronti, ma mi dispiaceva che il nostro tempo si fosse ridotto a dei miseri «Ci vediamo dopo».

    Nonostante fosse pieno agosto la costa era tutt’altro che affollata, complice la presenza massiccia di rocce che dava poco spazio a spiagge bianche. La nostra costa non era molto turistica, il lavoro scarseggiava ed ogni famiglia si arrangiava come poteva. Papà era diventato aiutante cuoco di un residence camping a pochi chilometri di distanza e per arrotondare faceva anche servizio serale come cameriere del bar della spiaggia. Questo significava due cose: l’assenza totale di papà durante i mesi estivi e la telefonata di controllo.

    Salvo la settimana di ferragosto, la spiaggia era sempre poco frequentata. La cosa non mi dispiaceva affatto. Non amavo i turisti ed il loro modo di impossessarsi di ogni centimetro quadrato di sabbia. La maniera in cui correvano verso l’acqua mi ricordava quegli animali della Savana che dopo settimane di cammino si gettavano a capofitto in una misera pozza di acqua. «I forestieri puzzano e sporcano», diceva nonna. Non era poi tanto sbagliato.

    «Balene spiaggiate! È arrivata la pizza», urlò Stefano in cima alla strada. Subito Sabina si alzò. Tutta eccitata cominciò a mandargli baci.

    Certe volte proprio non la capivo, mi appariva veramente stupida e priva di senno. Dietro a Stefano vidi una testolina riccioluta che trasportava un frigorifero da spiaggia. Da quella distanza non riuscii a vedere bene chi fosse, ma solo una persona possedeva così tanti ricci in una testa tanto minuscola.

    «Cosa ci fa qui Gabriele?»

    «Non sei contenta? Così non ti lagni che sei da sola».

    Avrei voluto risponderle che in loro compagnia non avrei dovuto sentirmi in quel modo. Sopratutto se qualcuno si fosse mai preso la briga di parlare con me, invece che continuare reciprocamente a scambiare la propria saliva. Evitai. Un po’ scocciata, inforcai il mio enorme cappello di paglia e andai anch’io incontro ai ragazzi.

    «Pizza e birra per tutti». Stefano mi guardò e ridendo aggiunse: «Tranquilla Bea per te succo Ace ghiacciato».

    Non bevevo alcolici. Trovavo inopportuno che loro non rispettassero la mia regola e non tanto perché minorenni, ma per via dei trentadue gradi. Sospirai. Uno dei tanti discorsi che non avrei potuto affrontare apertamente. Cercai quanto meno di non rimanere sotto il sole che picchiava a consumare il pranzo. Timidamente proposi: «Andiamo sulle rocce, lì c’è un poco d’ombra»

    «Se tuo padre sapesse quanto sei noiosa non avrebbe così tanta paura a lasciarti in casa da sola», la risposta piccata di Stefano. Fortunatamente Sabina mi diede ragione. «Ragazzi! Tutti alle rocce che stiamo al fresco»

    «Oddio fresco! Bella la vita, tanto il peso lo portiamo noi»

    «Dai Sabina dagli una mano, mentre io raccolgo le nostre cose».

    Sabina aveva giusto una borsa di vimini con orrendi fiori arancioni ed il suo telo mare. Ero io quella che aveva traslocato. Il mio grande cappello di paglia per coprirmi dal sole. Due asciugamani, uno per sdraiarmi e l’altro appallottolato come cuscino. Il mio zaino Eastpak bianco, le mie Reebok ed il mio beauty case. Più altre cianfrusaglie tra cui un’agenda che mi aveva regalato nonna. Non avevo mai avuto un diario. Quell’estate però, complice la noia, avevo cominciato ad appuntare qua e là frasi senza senso.

    Una volta seduti sulle rocce cominciammo il nostro rituale di tagliare la pizza a spicchi per permettere a chiunque di mangiarla senza imbrattarsi. Questo valeva per tutti tranne che per Gabriele, il quale possedeva una capacità innata per far cadere pezzi di pomodoro dappertutto.

    Cercai di non badare al pezzetto di mozzarella sulla peluria del ginocchio del mio amico. Presi l’unico paio di posate che era stato portato e lo utilizzai per mangiare con calma la mia porzione. Con la coda dell’occhio osservai Gabriele recuperare il formaggio e con naturalezza riporlo nella sua bocca vorace. Storsi il naso schifata.

    «Non dovresti lavorare?».

    Con la bocca imbrattata di sugo, assunse il suo consueto atteggiamento di chi si appresta a spiegare qualcosa di ovvio ad un bambino tonto. «Cara la mia Beatrice se non te ne sei accorta oggi ci sono trentadue gradi. Pensi che il capo cantiere ci lasci morire mentre finiamo il tetto?»

    «Bastava un semplice no» dissi un po’ seccata.

    Come sempre Gabriele cambiò marcia. «Abbiamo iniziato questa mattina presto. Ricominciamo al calare del sole, verso le quattro. E così eccomi qui tutto per te». Si sporse verso di me con le labbra sporche di peperone.

    «Non ti avvicinare, non prima di…», non riuscii a concludere la frase. Stefano mi ruttò volutamente dentro l’orecchio. Odiavo i ragazzi. Il loro modo di prendersi gioco di me. Sapevo che non era cattiveria la loro. Avevo comunque spiegato molte volte che non trovavo divertente essere al centro dei loro esperimenti sociologici. Non sarei cambiata.

    «Se la Contessina ha finito con la sua pizza e mi fornisce il cartone vado a buttarli», fece Sabina, con gesto di inchino. Per tutti ero la ragazza venuta da un altro mondo, come se non fossi nata e cresciuta in una sperduta frazione della costa occidentale sarda.

    A volte mi chiamavano «La Contessina», solo per la mia attitudine per l’ordine, il bianco e sì, va bene, l’igiene. Certo non mi potevo considerare una di loro; ma eravamo pur sempre compagni di classe e amici da tantissimo tempo.

    Senza dubbio, la cosa che più li scioccava era il bianco. Vestivo sempre di bianco, anche di inverno. Ero perfino riuscita a convincere papà all’acquisto di un costosissimo giaccone di piuma d’oca, rigorosamente bianco. Ero certa che a Milano le donne indossassero tutte camice bianche con gonna nera. Il bianco mi ricordava mia madre. Era il mio modo di portarla sempre con me. L’unica fotografia che ci ritraeva assieme la vedeva seduta con un bellissimo abito di cotone bianco, con me in braccio. All’epoca ero poco più di un bebè ed anche io indossavo una tutina bianca, in testa un cappellino con merletti rossi. Per un periodo l’avevo sognata come un fantasma correre sulla spiaggia mentre trascinava con sé un aquilone rosso. Altre fotografie di mamma che amavo particolarmente erano quelle del suo matrimonio. Il bianco restituiva all’occhio una bellissima principessa. Tra i capelli raccolti aveva un nastro blu del quale nonna aveva detto: «Il blu è il colore del cielo e del mare, con le sue sfumature si legano i sogni, la saggezza e la serenità». Nonna non poteva immaginare che la sua unica nipote decidesse di abbandonare il mare più blu del mondo per andare a vivere nella città grigia, come aspramente aveva soprannominato Milano.

    Sabina non tornò dalla sua spedizione verso il cestino. Gli corse, infatti, subito dietro il suo amato Stefano. «Ah! L’amore», mi confermò Gabriele mentre si sdraiava vicino a me. Lo imitai. Lui prese una ciocca dei miei capelli e cominciò a legarsela al dito.

    «Hai dei capelli lunghissimi»

    «Dovrei tagliarli»

    «A me piacciono così». Chiusi gli occhi e sorrisi. Gabriele era sempre carino con me, anche se talvolta cadeva nella cattiva abitudine di trattarmi come una povera scema. Lo sopportavo senza particolari problemi solo perché custodiva il mio segreto.

    «Ho sentito che c’è un ragazzo nuovo».

    A quelle parole mi irrigidii. Sapevo già cosa voleva sapere e chi gli avesse insinuato il tarlo. Mi voltai piano, trovando il suo volto molto vicino al mio. Un viso così bianco, per essere un muratore, pieno di rughe e ricci. Due labbra minuscole contornate da graziose fossette. Gli picchiettai con le dita il naso.

    «Sono cose da ragazze»

    «Le rosse sono cose da ragazze. Due anfibi neri no».

    Era troppo! Sabina gli aveva anche fornito il dettaglio più bizzarro di tutta la faccenda. Mi alzai di scatto. Ogni qualvolta ero in difficoltà scappavo. Ero una ragazza che parlava poco e non amava mettersi in mostra. Sabina era la mia confidente per le questioni urgenti e da ragazze. Gabriele il mio angelo che possedeva le chiavi di molti dei miei disagi. Le due sfere non dovevano incontrarsi. Non senza il mio consenso. Corsi veloce verso il mare.

    «E dai, Bea! Sono solo curioso».

    Scossi la testa e continuai a camminare. Dall’imbarazzo mi ero anche dimenticata di indossare il cappello di paglia. I miei lunghissimi capelli danzarono al ritmo delle onde.

    «Giuro che resta un segreto tra me e te». Mi voltai. Gabriele inginocchiato con una mano sul cuore, un sorriso a cui non sapevo resistere. Mi rassegnai.

    «Va bene. Però...»

    «Lo giuro».

    Aspettai che mi raggiungesse. Insieme camminammo verso l’acqua. Tutto quello di più importante che possedevo e che mi accadeva succedeva sempre davanti a lui, il mio blu. Azzurro è il cielo, azzurro il mare e forse un giorno qualcuno con due grandi occhi azzurri mi avrebbe portato via da lì.

    Tesa per quanto avrei dovuto raccontare, non mi accorsi minimamente che Gabriele mi prese in braccio per correre a rotta di collo verso le onde. Strillai un timido: «No!». Fu troppo tardi. Finimmo entrambi in acqua. Gabriele con agilità mi tolse il prendisole bianco lanciandolo in direzione della spiaggia. Con la sola forza di una mano mi immerse sott’acqua. Sapeva che non amavo particolarmente quel gesto, dato che da bambina mio nonno per insegnarmi a nuotare mi teneva sott’acqua per interminabili secondi. Grazie al cielo mi tirò fuori dall’acqua per prendermi nuovamente in braccio.

    «Contessina, ma tu oltre alle pizze di Sté cosa mangi? Non pesi niente», per dimostrarmelo mi lanciò tra le onde. Tra le braccia del mio personalissimo blu. Il cielo ed il mare si confusero in un pomeriggio di fine estate.

    Con l’aiuto di Gabriele e con il fiato corto, mi sistemai sulla battigia. Guardai l’infinito e cominciai a raccontare di un curioso episodio che si ripeteva ormai da tre lunghissime settimane.

    Capitolo 3

    Era l’ultima settimana di luglio, la giornata giungeva al termine ed il caldo lasciava spazio alla vana speranza di un rivolo di vento. Da lì a poco papà mi avrebbe chiamato dal residence per il suo controllo serale e per augurarmi la buona notte. Per essere un’adolescente a casa da sola senza scuola, non guardavo la televisione. Per vincere la noia, sovente, mi addormentavo con la finestra aperta sul blu e con la fantasia fuggivo a Milano. Mi vedevo indossare una longuette bianca perfettamente aderente alla mia figura, sopra un top dello stesso colore. Avrei avuto una di quelle acconciature che si vedono nelle riviste. I miei capelli sarebbero stati vaporosi e raccolti da una fascia azzurra. Certamente sarei stata in grado di portare delle Open Toe di Miu Miu con un tacco vertiginoso.

    Mi immaginavo, bellissima e sicura di me, salire su di un tram. Poi, all’improvviso, Lui mi avrebbe visto. In doppiopetto grigio, con capelli neri e occhi chiari. Mi avrebbe sussurrato all’orecchio: «Scusi signorina». Io mi sarei voltata, piano come succedeva nei film. Lui avrebbe capito che il suo posto sarebbe stato con me.

    Sospirai.

    Ero seduta, come sempre, sul davanzale della finestra della mia cameretta. Indossavo un paio di calzoncini bianchi ed una t-shirt di mio padre. Le ginocchia raccolte, il mento appoggiato su di esse. Con un velo di tristezza mi martoriavo le dita dei piedi. Quelle non erano solo fantasticherie. Ci sarei riuscita. Una volta diplomata sarei andata a Milano e lì avrei conosciuto un uomo più grande che papà non avrebbe approvato. Lui sarebbe stato un grande lavoratore e mi avrebbe portato a scoprire le diverse facce della città grigia.

    Inspirai l’odore del mare e mi concentrai sui rumori della strada. Niente. Nella mia via c’erano solo tre case, di cui una in costruzione. La strada principale si trovava a nord rispetto a casa mia, ed era tutt’altro che lunga. In pochi metri terminava per congiungersi alla statale nord. Talvolta eravamo immersi nel buio. La statale non era illuminata, il lampione davanti alla Chiesa funzionava di rado. Solo qualche luce accesa da qualche vecchia riusciva a darti la sensazione che non fosse un paese deserto.

    Ero certa che a Milano ogni sera si svolgesse una festa. Ci sarebbero state donne con abiti firmati accompagnate da uomini in giacca e cravatta. Lì si che sarei riuscita a cogliere rumori. Il tintinnio dei calici, seducenti risate ed il ticchettio dei tacchi. Vero. A Milano non c’era il mare, ma che importanza vuoi che possa avere quando avrei posseduto tutto il resto?

    Allungai il collo per osservare ciò che già conoscevo. La scogliera di S’Archittu era un susseguirsi di promontori e cale, come quella sotto la mia finestra con una piccola spiaggia lunga e stretta. Era un paesaggio rado e calcareo che sembrava quasi lunare per i suoi riflessi. I turisti venivano per ammirare un maestoso arco roccioso sul mare, vestigia di un’antica grotta crollata sotto l’azione incessante dell’acqua. Per arrivare alle spiagge, quelle belle da cartolina, bisognava andare oltre. Verso la costa verde, verso il residence dove lavorava mio padre. Quando con i miei amici decidevamo di andare in spiaggia per davvero andavamo nel paese accanto.

    A Santa Caterina il fiume limpido si gettava a mare restituendo una grande spiaggia. Il comune aveva posto una serie infinita di divieti solo perché era la foce di un fiume; un rivolo d’acqua per lo più secco e di pochi chilometri, ma per il sindaco di vitale importanza. Era stato deciso che da quelle parti non si potesse fare surf, giocare a palla o banchettare. Niente di niente. In rare occasioni il comune autorizzava falò e feste paesane. Sembrava che quel lembo di terra fosse il solo modo per dimostrare il suo potere che, in un piccolo paese come Santa Caterina, non gli dava particolari prerogative. Per dispetto i ragazzi del paese costruivano un capanno di canne di bambù («il postaccio», come lo appellava nonna) che veniva regolarmente rimosso e ricostruito. Nonna era l’ammiraglio della costa. La camera da letto di casa sua si affacciava proprio in prossimità del litorale con una prospettiva perfetta sul capanno.

    Stavo ripensando a nonna con le mani sui fianchi mentre mi diceva: «Principessa, tu guarda quelli lì», quando udii distintamente l’abbaiare di un cane. Mi misi allerta, in ascolto. Sentii anche il rumore di scarpe correre sulla roccia. Un salto. Poi silenzio. Ancora abbaiare di cane. Silenzio. Il rumore delle onde in sottofondo.

    Guardai l’ora, le sette e un quarto.

    Turisti ancora non ce n’erano e di certo i miei compaesani non portavano il cane su una spiaggia deserta non illuminata, quando potevano tranquillamente lasciarlo scorrazzare in giardino. Tralasciando poi il fatto che in tutto il paese di cani ce n’erano soltanto due. Uno era del proprietario del CRAI ed era il cane più addormentato del mondo. L’unica volta che lo avevo visto abbaiare era a causa di una bambina straniera che continuava a lanciargli pezzetti di salsiccia. L’altro cane era un piccolo bastardino cieco che aveva più anni di nonna.

    Non era mia intenzione cercare guai, soprattutto sapendo che papà avrebbe telefonato a momenti. Qualcosa dentro di me si agitò. Fui morsa dalla curiosità. Cauta scesi dalla finestra di camera mia. Davanti avevo un muretto da cui avrei visto l’intero lembo di terra. Portai con me la torcia. Osservai il lampione spento. «Cosa lo hanno messo a fare se non lo accendono mai!». Puntai la torcia verso il mare. Vedevo poco e niente. Ma lì qualcuno c’era. «Dannata foschia!» imprecai. Quel giorno era stata una giornata molto calda, eppure il cielo era privo di stelle e della luna non c’era traccia.

    Un altro abbaio. Questa volta scorsi un cane. Pareva un lupo, o forse era solo la mia immaginazione. Poi lo vidi. Luce o non luce, lo vidi. Ne fui certa. Un ragazzo. Alto con spalle larghe. Capelli spettinati. Un bastone in mano. Correva veloce verso il mare. Mi sporsi più che potevo sul muretto, attenta a non cadere di sotto, quando il telefono in casa cominciò a squillare. Per un attimo la mia mano finì nel vuoto.

    «E da quel giorno tutti i giorni alla stessa ora quel ragazzo porta il cane a mare», conclusi.

    «Cosa ci sarebbe di tanto fantastico?» replicò un poco deluso Gabriele.

    Lui non poteva capire.

    Il giorno seguente ero sempre sul davanzale. Una luna enorme illuminava la costa. Udii il cane poco prima che comparisse sulla spiaggia. Con una strana agitazione nel cuore, saltai dalla finestra. Mi appoggiai al muretto e scorsi altri dettagli. Il ragazzo pareva nervoso. Lanciava il bastone verso il cane come se volesse colpirlo; ma ciò non accadeva mai. In risposta il cane scodinzolava felice. La cosa andava avanti un paio di volte, fino a quando il ragazzo non si accasciava sulla sabbia. Pareva svuotato. Restava così inerte, i pugni serrati a terra. Cosa facesse dopo o dove andasse non lo sapevo. Puntuale la telefonata di controllo di papà mi riportava in casa.

    «Ha ragione Sab! È un serial killer», disse Gabriele trattenendo a stento le risate.

    Comprendevo perfettamente che il mio racconto pareva uscito da qualche libro giallo mal scritto, eppure quel ragazzo mi incuriosiva e al contempo mi

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