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Diario di un patto d'amore
Diario di un patto d'amore
Diario di un patto d'amore
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Diario di un patto d'amore

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About this ebook

Silvia, all’età di diciannove anni, incontra Piero, tra i due nasce subito un tenero amore che giorno dopo giorno si rivela forte e determinato.
Non è ancora trascorso un mese dal loro primo incontro quando Piero comunica ai genitori della ragazza quanto le sue intenzione siano serie; questo li mette in allarme, incapaci di comprendere la ragione di tanta fretta e di una simile sicurezza. 
Ne scaturisce una serie di contrasti e di ostacoli che culmina, pochi mesi dopo, quando alcune indagini mediche rilevano che il giovane è gravemente malato.

Il verdetto degli specialisti è terribile: un tumore gli concede solo sei mesi di vita.

Silvia disperata cerca conforto nei famigliari, ma da loro ottiene solo il consiglio di lasciare Piero al proprio destino. Alla figlia suggeriscono di pensare al futuro, convinti che diciannove anni siano troppo pochi per sacrificare la vita ad un amore sbocciato solo alcuni mesi prima.
Lei non prende neppure in considerazione questa possibilità, cercherà invece consolazione nelle parole del suo confessore che la aiuteranno a comprendere il significato di ciò che le sta accadendo: attraverso quel profondo dolore scoprirà il senso della sua vita.
Con tutta la fede di cui è capace, inginocchiata ai piedi di un Cristo crocifisso e pietoso, lo scongiura di prendere metà della vita che a lei rimane da vivere per donarla a Piero. Un patto che nessuno potrebbe comprendere, o forse credere possibile e che a nessuno, Silvia, confesserà mai.

I mesi si susseguono, difficili e dolorosi tra lunghi ricoveri, cure devastanti e speranze negate, nessun segno di quella guarigione che la giovane, contro ogni ragionevole previsione, continua comunque a credere possibile, sola contro tutti e tutto.
LanguageItaliano
PublisherDaniela Cardo
Release dateMay 9, 2014
ISBN9786050303643
Diario di un patto d'amore

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    Diario di un patto d'amore - Daniela Cardo

    GIUSTE

    PER CASO UNA DOMENICA

    Per quel che mi riguarda puoi anche andare al diavolo! E non farti più sentire!

    Chiuse così, senza troppi convenevoli né rimpianti, la telefonata ed una breve storia d’amore.

    Era troppo orgogliosa e sicura di meritare qualcosa di più, Silvia, 19 anni appena compiuti, un lavoro da impiegata, una famiglia come tutte le famiglie degli anni 70, in una città di provincia, tanta voglia di vivere, tanta fretta di scoprire se da qualche parte del mondo esistesse davvero la sua anima gemella.

    Aveva conosciuto verso la fine dell’estate quel ragazzo e non aveva potuto fare a meno di rimanerne incantata. Elegante, gentile, raffinato com’era, non passava di certo inosservato, quasi una sfida per lei.

    Lei, non altrettanto appariscente, sapeva con qualche maliziosa attenzione mettere in risalto i suoi punti di forza: i lunghi capelli morbidi, di un castano dorato le incorniciavano delicatamente il viso a volte nascondendo un po’ gli occhi scuri, truccati con garbo che spiccavano su una carnagione chiarissima.

    Esile nel fisico, era sempre attenta a vestirsi con cura ed eleganza, pur cedendo di tanto in tanto alla tentazione di seguire le follie che la moda dell’epoca suggeriva.

    Amava la musica, il ballo, il cinema e le passeggiate in centro con le amiche, spesso con loro trascorreva la domenica pomeriggio in quelle che oggi chiameremmo discoteche ma che allora erano ancora soltanto sale da ballo, troppo poco rumorose, eccessivamente tranquille e non sufficientemente affollate per godere di quell’appellativo. I genitori acconsentivano di buon grado che le loro figlie le frequentassero: potevano essere occasione d’incontro per qualche buon partito.

    Proprio un buon partito era sembrato anche alla madre di Silvia il bellimbusto che da qualche settimana la veniva a prendere e riaccompagnava, ogni domenica, non dimenticandosi mai di salutare educatamente tutti i componenti della famiglia ed arrivando persino a portare un mazzo di fiori alla mamma, sì alla mamma, non alla figlia.

    Silvia invece l’accompagnava al cinema. Appassionato di film western, le fece vedere in tre mesi più duelli, assalti al treno, inseguimenti di indiani, di quanti potesse sopportarne, lei che avrebbe volentieri visto film come Love Story o Anonimo Veneziano, lei che sognava ad occhi aperti che quell’improbabile principe azzurro avesse un cuore romantico quanto il suo.

    Non ci volle molto per accorgersi di come stessero le cose: il fascino era solo apparenza, bellezza senza sentimento, né passione, mancava qualcosa perché fosse Amore.

    Ne aveva parlato anche con la madre, che più volte aveva elogiato le molte qualità di quel giovane di buona famiglia, educato, rispettoso, ricco, qualità che sui genitori fa sempre molta presa.

    Cosa vuoi di più da un uomo, ti tratta come una principessa! Cos’avete nella testa voi ragazze?

    Già, cosa avevano nella testa le ragazze degli anni 70?

    Momento difficile quello. In piena contestazione contro le istituzioni, la scuola, la famiglia, nessuno aveva ancora dimenticato il ’68 e le sue battaglie, il femminismo, la voglia di libertà da un passato che reprimeva ogni possibilità di espressione femminile. Basti pensare che nelle chiese gli spazi riservati alle donne erano opposti a quelli che potevano occupare gli uomini.

    E Silvia era figlia di quel tempo e come tale rivendicava le sue scelte, il suo diritto alla felicità, all’amore.

    Aveva tentato, qualche volta, di far notare al suo giovane spasimante che di film western era ormai sazia. Un po’ di musica, una passeggiata in riva al mare, o un caffè in piazza, tutto le sarebbe sembrato più romantico dell’ennesimo assalto alla diligenza.

    No, lui certamente non aveva un animo molto poetico.

    Provò a convincersi che sua madre potesse avere ragione, ma quando quella domenica lui le telefonò alle quattro del pomeriggio per dirle che un impegno di lavoro lo costringeva a rimandare alla settimana successiva l’ennesima visione di film western, Silvia non riuscì a trattenere il suo pensiero e glielo espose assai poco pacatamente.

    Fine! Finalmente.

    Sedette sul divano credendo di doversi sentire triste, provò a cercare dentro di se un briciolo di commozione, di nostalgia, di amarezza, ma in nessuna piega della sua anima trovò niente che rispondesse alla ricerca: si sentiva proprio bene ed aveva voglia di festeggiare, di ridere, di ballare!

    65847, era da tanto che non componeva il numero della sua amica del cuore, Raffaella, ma era sicura che lei le avrebbe risposto.

    Pronto! Squillante come sempre, la voce all’altro capo del telefono sembrò riportare Silvia ad un’allegria che stava quasi per dimenticare.

    Ciao Raffaella, che si fa oggi? Si va a ballare?

    Si io sto aspettando Lucia, dovrebbe venire con suo padre a prendermi, venite anche voi?

    No! Vengo io! Passate a prendere anche me?

    Ma... come solo tu? E lui?

    La domanda di Raffaella esigeva una breve ma esauriente spiegazione.

    Lui, l’ho mandato al diavolo, con i suoi film, i suoi impegni di lavoro e i fiori che porta a mia madre.

    Sei grande! Urlò Raffaella che già sapeva sarebbe finta così.Fatti bella che fra mezz’ora siamo lì.

    Silvia era radiosa. Si sentiva come chi, liberatosi della zavorra, finalmente riesce a spiccare il volo.

    E davvero volava scendendo le scale. Abbracciò le amiche che l’aspettavano sul portone del vecchio palazzo, salì in macchina salutando e ringraziando il papà di Lucia, che spesso si prestava a fare da autista, occupazione che gli consentiva di controllare gli spostamenti della figlia, senza costringerlo ad indiscreti pedinamenti. Era un simpaticissimo signore di mezza età, di origine calabrese, molto legato alle tradizioni e più di altri genitori faticava ad adeguarsi all’emancipazione della figlia che, a suo dire, indossava gonne troppo corte, magliette troppo strette e tacchi troppo alti.

    Ridevano spensierate come bambine, entrando nella discoteca.

    Le luci colorate si riflettevano su una grande palla sfaccettata che lanciava bagliori tra i divani poco illuminati, dove qualche coppietta cercava un po’ di improbabile intimità.

    Sulla pista, presunti ballerini dondolavano stretti, cullati dalla voce di Baglioni che graffiava: "sabato pian piano se ne va…".

    Silvia e le sue amiche trovarono posto su un divanetto ma non fecero a lungo tappezzeria, due ragazzini si avvicinarono con aria spavalda e, senza alcuna intonazione, proferirono la parola magica:

    Balli?

    Raffaella e Lucia, senza rispondere, li seguirono mentre Silvia restò ad ascoltare quella musica che mai, prima di allora, le era sembrata tanto bella.

    Serena, guardava le amiche ballare e si godeva quel momento di pace, rifiutò un paio di inviti, per restare lì a coccolarsi, orgogliosa della sua ritrovata libertà.

    Ma non rimase indifferente ad un ragazzo che in piedi davanti a lei si piegò quasi in un inchino, chiedendole di ballare, investendo qualche parola in più in quell’invito. Era curioso che si riponesse tanto impegno in qualcosa che normalmente non richiedeva più di due monosillabi.

    Silvia lasciò il divano per seguirlo nella pista, "A place in the san" di Stevie Wonder fu la loro prima canzone.

    Piero, e tu?

    Silvia.

    Il brano finì presto e tornarono a sedersi, lui andò a prendere qualcosa da bere e glielo porse con garbo. Si vedeva che non era un frequentatore di quei locali, voleva parlare, chiedere qualcosa alla ragazza, ma il volume della musica glielo rendeva difficile, propose di uscire a fare due passi.

    Lei fu felice di seguirlo, faceva molto caldo nel locale e c’era troppo fumo. Fuori era già buio e una nebbia sottile nascondeva i contorni al paesaggio.

    Camminarono lungo il viale alberato raccontandosi.

    Cosa fai, quanti anni hai…

    Curiosi l’uno dell’altro quasi ci fosse troppo poco tempo per dirsi tutto ciò che avrebbero voluto.

    E il tempo, infatti, passò in fretta. Uno sguardo all’orologio:

    È tardi! Devo tornare a casa!

    Sapeva quanto i suoi genitori fossero intransigenti in fatto di orario: cena alle otto e tutti dovevano essere a casa per quell’ora.

    Ti accompagno io! Ho la macchina. Precisazione non peregrina per quegli anni.

    Ma ci sono anche le mie amiche…

    Accompagno anche loro, non è un problema. Le rispose sorridendo.

    Tornarono nella confusione della sala da ballo da cui, per fortuna, la maggior parte dei giovani cominciava ad uscire, non fecero fatica a ritrovare le ragazze. Una veloce presentazione, due strette di mano:

    Ci accompagna a casa. Disse Silvia.

    In pochi minuti si ritrovarono tutti a bordo di una fiammante Fiat 127.

    Lucia e Raffaella abitavano nella stessa zona della città, mentre la casa di Silvia si trovava giusto sulla strada di ritorno per Piero, quindi non fu nemmeno necessario inventare una scusa per poter rimanere solo con lei: accompagnate le amiche attraversarono la città riprendendo a raccontarsi l’un l’altra.

    Siamo arrivati, disse Silvia indicando il vecchio palazzo, grazie per il passaggio.

    Piero tolse dalla tasca della giacca un piccolo biglietto da visita:

    Piero L.- Art design e un numero di telefono.

    è curioso come in pochi centimetri di carta si possa riassumere un essere umano.

    Posso avere il tuo numero di telefono?

    Chiese porgendole il suo. Silvia lo scrisse su un foglietto, si salutarono con una stretta di mano ed un sorriso.

    Lei salì i tre piani di scale in un attimo, il padre che già stava sulla porta, ispezionò attentamente il suo sguardo troppo radioso, troppo sorridente… troppo! Per chi è in ritardo di dieci minuti.

    Si lo so, sono le otto e dieci ma abbiamo dovuto accompagnare a casa Raffaella e Lucia.

    Abbiamo? Dalla cucina la voce della mamma non ammetteva risposte parziali: voleva sapere chi, dove, come…

    Aveva infatti già capito che non si stesse parlando del bellimbusto, lui sarebbe salito a salutare tutti augurando una Buona Serata e comunque non con dieci minuti di ritardo, lui.

    Chi era dunque questo che si permetteva di accompagnare a casa Silvia e le sue amiche?

    Lei mostrò con un ingenuo impeto d’orgoglio il biglietto da visita che stringeva in mano:

    Ecco!

    Art Design? Che roba è?

    Lavora per un’agenzia di pubblicità. Spiegò Silvia alla madre che faticava a comprendere. Pubblicità? Un’altra novità, che mestiere è?

    Mamma Adriana, quasi 50 anni, figlia di un ferroviere, nata in un piccolo paese della campagna romana, non aveva una gran cultura e quando qualcosa non le era familiare si metteva subito sulle difensive, per contro le si doveva riconoscere uno spiccato senso dell’umorismo ed una forza d’animo che nella vita l’avevano aiutata a superare momenti estremamente difficili che ne avevano pesantemente provato il fisico.

    Papà Enrico invece era nato e vissuto a Padova. Solo per alcuni anni si era trasferito con la famiglia a Milano, un periodo triste della sua vita, di cui nessuno più voleva parlare. In gioventù era stato un bravo meccanico di macchine per cucire, ne era diventato rappresentante negli anni del boom economico, quando un numero incredibile di aziende iniziava a costruire quello che poi sarebbe diventato il mito del Nord Est. Nell’ambiente gli si riconosceva un’estrema professionalità per competenza e rara correttezza, la stessa che pretendeva dai suoi figli: Giulio, il primogenito cui rimproverava spesso una certa incoscienza e la mancanza di responsabilità, ma come si può essere responsabili a 22 anni? E Silvia per la quale, ad essere onesti, aveva un occhio di riguardo, anche se riusciva a nasconderlo molto bene.

    A tavola!

    Tagliò corto Enrico, che prima di pronunciare giudizi affrettati, come faceva spesso la moglie, preferiva ascoltare per raccogliere più informazioni, valutare, ponderare: era un buon calcolatore.

    La cena si trasformò ben presto in un interrogatorio a metà tra il serio e il faceto.

    Giulio, da quel burlone che era, non perse neppure un’occasione per mettere in ridicolo qualunque cosa dicesse Silvia.

    Ma dove abita? Domandò la mamma.

    In un paesino sulle colline, appena fuori città.

    E i suoi genitori cosa fanno?

    Mi ha detto che la madre gestisce un supermercato, il papà è morto due anni fa.

    Alla parola supermercato Adriana sembrò più rassicurata.

    È figlio unico? Chiese il padre. La domanda a Silvia suonò curiosa.

    Non lo so, abbiamo chiacchierato un po’ non gli ho fatto il terzo grado, io!

    Perché non gli hai chiesto lo stato di famiglia e una copia della denuncia dei redditi? Scherzò il fratello,

    E quanti anni ha?

    Ventiquattro.

    Non è un po’ troppo vecchio per te?

    Mamma! Ti ho detto che mi ha accompagnata a casa, mica che ci sposiamo!

    L’avevano proprio sfinita con queste ed altre mille domande, andò a dormire stanca ma raggiante.

    Aveva conosciuto una persona dai modi gentili ed era stato piacevole parlare con lui.

    Non sapeva spiegarsi però, come quell’incontro avesse potuto suscitare in lei tanta emozione.

    In fondo non era particolarmente affascinante quel ragazzo.

    Non fu facile addormentarsi con tanti pensieri che le rimuginavano in testa. Rivedeva i gesti di Piero, le sembrava di sentire la sua voce, cercava di ricordarne il viso e come in un identikit ricomponeva pian piano gli elementi, i capelli castani leggermente lunghi, gli occhi scuri dietro un vistoso paio di occhiali, la barba rada.

    Un pensiero rimase a metà mentre il sonno le offuscava le idee:

    Che strano tipo. Non è proprio una bellezza, ma…

    Era il 19 novembre 1972

    ERA TUTTO PREVISTO

    La giornata in ufficio era stata lunga e pesante. Tra pacchi di fatture da registrare e movimenti bancari da controllare, il tempo sembrava non passare mai.

    Per fortuna le colleghe di lavoro, tra una registrazione di partita doppia e l’altra, trovavano sempre il tempo per una battuta o un commento spiritoso, giusto per alleviare la noia di un lavoro che non si poteva definire entusiasmante.

    Alle diciannove, puntuali come orologi svizzeri, tutte fuori dal portone a salutarsi allegramente.

    Silvia, Elisa e Stella si incamminarono verso il viale che porta alla fermata dell’autobus, sul lato opposto della strada c’era Piero ad aspettare. Silvia ne fu stupita, non erano ancora trascorse 24 ore da quando si erano salutati. Sì, gli aveva parlato del suo lavoro, ma non era stata poi così precisa, come aveva fatto a trovarla?

    Le piacevano le sorprese.

    Salutate le amiche, gli andò incontro. Lui la prese sotto braccio, passeggiarono raccontandosi quel che avevano fatto da quando si erano lasciati la sera precedente. Faceva freddo.

    Saliti in macchina si avviarono verso casa, la cronaca

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