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Diari dal sottosuolo
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Diari dal sottosuolo

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L'agghiacciante nenia di una sirena assetata di sangue. Una giovane strega desiderosa di vendetta che invoca demoni oscuri. Un uomo disposto a tutto pur di ricordare il suo passato. Città immaginarie, portali che separano il quotidiano dall'incubo. Echi provenienti dall'abisso dell'animo umano e che affiorano minacciosi come ombre. Tra le pagine di questi racconti, tutto può accadere. Una straordinaria antologia che coglie con un unico sguardo il mondo del sovrannaturale. Diari dal Sottosuolo ci inizia al perturbante confronto con un universo dalle tinte cupe e dai labili confini, quello dello Urban Fantasy, nel quale risuonano le voci di dieci talentuosi autori italiani che credono nella suggestione del diverso e nel fascino dell'orrore.

Gli autori presenti nell'antologia:

Stefania Auci – La mamma fantasma

Sabrina Grappeggia Bernard – Gercai e le catene della libertà

Giacomo Bernini – Pandora

Romina Casagrande – Sirene

Gisella Laterza – Sogni perduti e birra scura

Laura MacLem – Parcheggio Riservato

Giulia Marengo – Artù

Loredana La Puma – La Notte del Destino

Eugenio Saguatti – Nati nel buio

Federica Soprani – Dancing with Roger
LanguageItaliano
PublisherLuca Tarenzi
Release dateApr 22, 2014
ISBN9786050301564
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    Book preview

    Diari dal sottosuolo - Luca Tarenzi

    Prefazione

    Gabriel Garcia Marquez ha scritto che «la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda per raccontarla». Ed è proprio la poetica del ricordo che emerge solida e prorompente in quest’antologia di racconti Diari dal sottosuolo . Per i dieci autori la reminiscenza rappresenta lo scrigno del tempo, la preservazione dell’umana esperienza declinata nelle sue forme più svariate. Vestigia dell’anima che raccontano di giorni passati, con sguardo malinconico, perché la nostalgia in fin dei conti è il segno dell’umano, di ciò che si è perduto vivendo.

    Il lettore seguirà le tracce di una narrazione che vive a ridosso delle emozioni di chi scrive. Sarà travolto, quindi, dalla disperazione della perdita e dal terrore dell’oblio; amare percezioni presenti ne La mamma fantasma, novella che apre la raccolta, nella quale la memoria è non solo qualcosa di personale, intimo e suggestivo, ma è l’ultima disperata opportunità per non essere ingoiati dal limbo della dimenticanza, perché in sostanza essere è esistere.

    Sarà attratto come una falena dalla luce, dalla prosa adrenalinica ed estenuante di Gercai e le catene della libertà, dove la rimembranza viene inserita in un contesto apocalittico e distopico e assume una veste passiva, quasi contemplativa, fino al colpo di scena finale, dal sapore proustiano, in cui il ricordo riemerge dal passato a causa di una sensazione improvvisa.

    Si sentirà tradito, probabilmente, dal comportamento egoista e cinico di Tommy, protagonista di Sirene, disposto a sacrificare tutto pur di non scordare il viso della donna amata e del suo caldo abbraccio.

    Indugerà meravigliato di fronte alla squisita e raffinata bucolica quotidianità di Artù, nel quale si assiste a una classica rievocazione dei sapori della fanciullezza, incantevoli e maliosi proprio perché lontani dall’io narrante. D’altronde riuscire a rammentare rappresenta quasi un’urgenza per l’uomo. Non è attraverso il ricordo che le esperienze precedenti si tingono di un fascino ingannevole? A cosa serve rivivere i momenti sopiti dalla nostra coscienza, se non a dare significato a un presente spesso misero e privo di senso?

    Lo sa bene il personaggio raffigurato in La Notte del Destino: Lara profondamente delusa dalla vita e determinata – in tal senso antinomia di Tommy – a cancellare il suo trascorso. La memoria assume in questo contesto una valenza positiva solo se può essere distrutta o distorta.

    Echi dal sottosuolo che affiorano prepotenti dai meandri dell’animo umano. Ogni scrittore si racconta e per farlo discende nell’antro nel quale albergano le pulsioni più oscure, i desideri inconfessati, le paure generate dalla tenebra. L’odio rabbioso e la vendetta in Parcheggio Riservato, l’angoscia che un incubo possa diventare realtà in Sogni perduti e birra scura, il timore di ferire chi si ama in Pandora, la strana inquietudine che si prova nel cedere a un dissoluto piacere in Dancing with Roger e, infine, la più recondita delle fobie: il tormento di non avere un posto nel mondo in Nati nel buio.

    Nell’abisso l’individualità di ciascun prosatore si annulla e ogni storia diviene il prezioso tassello di un’unica voce narrante. Poco importa se tali sentimenti si dipanino sull’orlo di un universo futuristico, sovrannaturale o fantasy; oppure che i soggetti appartenenti a questo cosmo siano vampiri, faeries, streghe, demoni o fantasmi.

    Diari dal sottosuolo è un viaggio nell’inconscio più profondo, dove la memoria diviene un’illusione granitica e indistruttibile, uno spazio inviolabile e privo di limiti, nel quale il tempo non conta, non vi è inizio né fine, e palpabile si respira l’urto incessante tra la tensione dell’uomo verso l’infinito e il breve respiro delle nostre esistenze.

    Valeria David

    La mamma fantasma

    di Stefania Auci

    Era stato un colpo. Uno solo, secco, improvviso, che l’aveva sballottata su e giù nell’abitacolo dell’auto strappandole un urlo.

    Colpa sua, si disse arrancando su per le scale: troppe cose per la testa, con Ennio che non l’aiutava mai a casa e con Giorgio e Sara che le davano il tormento. Non aveva visto il mezzo che le stava venendo addosso perché era presa dal pensiero dei bambini, che quel pomeriggio avrebbero avuto una festa di compleanno. Aveva giusto preso un regalo per il loro amichetto.

    Scadenze da rispettare, impegni da portare a termine e il cervello che schizzava a mille.

    E adesso?

    Arrivò sino alla porta di casa. Entrò. Immaginò la faccia di Ennio e sospirò pesantemente. Di certo le avrebbe fatto una scenata, i danni all’auto erano parecchi. E i bambini?

    Mamma, e la festa? Uffa, mamma, come ci vado a calcetto?

    L’emicrania si trasformò in una morsa che le strinse la testa. Si portò la mano alla fronte, ma la ritrasse subito dopo, infastidita dalla sensazione collosa del sangue sul palmo. Giusto, si disse. Mi sono fatta male. Devo disinfettarmi.

    Soprabito e borsa le scivolarono di dosso quasi senza che lei, Samantha, se ne accorgesse. Cercò il proprio riflesso nello specchio. Capelli incollati al viso, la pelle sudata, un profondo taglio tra la tempia e lo zigomo.

    Dio santo, che male.

    Sarebbe dovuta andare in ospedale. Il taglio era profondo, e le avrebbero dato dei punti. Sfiorò con le dita la camicetta: era sporca, una larga macchia scura che le arrivava quasi fino allo stomaco. Non si era resa conto di aver perso tanto sangue. In verità, non sapeva bene nemmeno come fosse arrivata a casa, visto che l’auto era sfasciata. Era sotto choc, tremava ancora: aveva visto la morte in faccia e ne era rimasta terrorizzata.

    Ritornò a fissare la macchia. Chissà, forse sarebbe venuta via con un po’ di candeggina. Sarebbe stato un peccato dover rinunciare a quella blusa, era una delle sue preferite.

    E poi.

    La cucina.

    Guardò le mani. Avrebbe dovuto preparare il pranzo. Sì, ma cosa?

    Si portò di nuovo le mani alle tempie e chiuse gli occhi, cercando conforto nel buio. Il dolore si era fatto di nuovo lancinante.

    Un’aspirina. Doveva prendere una pillola e stendersi un po’, riposare sul divano. Magari quel giorno si sarebbero arrangiati con dei panini. E se Ennio avesse protestato perché voleva un piatto di pasta… be’, poteva anche cucinarlo da solo.

    Si ritrovò sul divano, la testa sul bracciolo, il braccio sulla fronte. Gli occhi fissi sulla foto in alto, sulla credenza. Lei ed Ennio il giorno del loro matrimonio. Erano stati felici fino a che, un giorno di alcuni anni prima, si erano ritrovati catapultati nella vita reale.

    Quel giorno aveva un nome. Sara. Sua figlia. Quando lei era nata, avevano smesso di essere una coppia per diventare faticosamente una famiglia. C’erano voluti tempo, rabbia e lacrime, e poi ancora sorrisi e pazienza, ma ce l’avevano fatta. Giorgio, poi, li aveva divisi di nuovo. Lui, con quel carattere scorbutico e ombroso. Aveva preso il peggio di entrambi. E il meglio.

    Fu allora che udì la voce di Ennio.

    Stava singhiozzando.

    «No, no» ripeteva. Era addolorato. No, era qualcosa di più. Che avesse già saputo dell’incidente e fosse affranto per la macchina? Possibile che stesse piangendo a quel modo per i danni dell’auto? Doveva trattarsi di qualcosa di più. Il dolore di cui la voce era intrisa la colpì dritta al cuore e la riempì di un’angoscia amara.

    Sentì le chiavi penetrare a fatica nella toppa, il peso della borsa da lavoro di suo marito scagliato via.

    Il rumore di un corpo che rovinava a terra la costrinse ad alzarsi, a correre verso l’ingresso.

    «Ehi, amore» chiamò, spaventata. «Cosa c’è? Che hai?»

    Idee terribili si riversarono nella mente, simili a cascate di acqua gelida. Era successo qualcosa. Suo marito non piangeva mai, e quello non era un pianto, era un mosaico di urli straziati.

    Ennio batteva i pugni sul pavimento, incurante della porta rimasta spalancata. Non è vero. Ripeteva la frase come un mantra. La sua disperazione era palpabile, dolorosa come uno schizzo di acido. «Samantha» la chiamò, disperato. «SAMANTHA!»

    Lei gli corse accanto. «Sono qui, amore mio.» Allungò la mano per aiutarlo a risollevarsi. Avrebbero affrontato tutto insieme, come sempre. Loro erano forti, potevano superare qualunque cosa. Purché non si trattasse dei bambini, perché se era così…

    Samantha si fissò le dita. La sua mano era quella di sempre: grassoccia, con la pelle screpolata e la fede nuziale all’anulare. Una cicatrice, ricordo di una brutta caduta in bicicletta, le deturpava l’attaccatura del polso.

    Ma allora… perché non riusciva a toccare suo marito?

    Ennio si contorceva. Gridava. Gridava il suo nome frammisto a parole senza senso e piangeva come se non riuscisse a vederla.

    Doveva toccarlo, doveva fargli sentire che era lì, che era…

    Le dita sfiorarono il cappotto di suo marito. I polpastrelli affondarono attraverso gli strati di stoffa, si fecero largo tra le cuciture, fino alla pelle. Riuscì a sentire persino il calore della spalla.

    Era lui a non sentire nulla. Più nulla.

    Trasalì. Qualcosa, o forse qualcuno, dentro di lei – non avrebbe saputo dire chi o cosa – le suggerì di alzarsi e andare allo specchio dell’ingresso. Di guardarsi.

    Tremando, Samantha si avvicinò allo specchio, un piccolo rettangolo a poca distanza dall’attaccapanni. Si voltò. Non c’era traccia né del soprabito, né della borsa. Eppure era sicurissima di averli lasciati al loro posto. Era lì che li riponeva.

    Lo faccio sempre quando rientro a casa.

    Si guardò. Chiuse gli occhi e osservò di nuovo il proprio riflesso incredulo.

    Ricordò.

    Lo schianto, il finestrino che andava in frantumi, la testa che sbatteva contro il parabrezza. Il vuoto, il buio, il silenzio più intenso che potesse immaginare. E poi… casa. Senza le chiavi, senza nulla che le appartenesse davvero.

    Si portò le mani alla bocca per impedirsi di gridare, ma fu inutile.

    L’urlo che le proruppe dalle labbra fu straziante. E rimase inascoltato.

    Se Ennio non fosse stato sconvolto dal dolore per la notizia che aveva appena ricevuto, avrebbe udito un sibilo sottile, simile a un soffio di vento che s’insinua attraverso le porte. Invece rimase a singhiozzare riverso a terra, prosciugato da un dolore che – lo sapeva – lo avrebbe cambiato per sempre.

    Rimase sordo. Non riuscì a sentire che sua moglie era ancora accanto a lui.

    Sua moglie Samantha, deceduta in un incidente stradale poco meno di un’ora prima.

    Una settimana dopo

    Samantha era seduta sul bordo del letto che le era appartenuto fino a pochi giorni prima.

    Era l’alba, faceva freddo. Del resto era gennaio e, si sa, in quel periodo vien sempre a nevicare.

    Si voltò verso Ennio. Dormiva, finalmente, dopo aver trascorso la notte a osservare i bambini nei loro letti.

    Ciò che lui ignorava era che, non appena era andato via, Giorgio aveva chiesto a Sara di dormire con lei e di essere abbracciato. Senza dire una parola, la sorella maggiore aveva sollevato il lembo della coperta e gli aveva fatto posto.

    Il piccolo aveva nascosto la testa nell’incavo del collo della bambina. Proprio come fa con me quando si infila nel lettone, pensò Samantha.

    Il ricordo del calore del corpo di Giorgio contro il suo si irradiò dal centro del suo petto fino alle membra, eco labile di una sensazione fisica che non avrebbe provato mai più.

    Sentì di nuovo le lacrime pungerle gli occhi. Niente più parole sussurrate sotto le coperte, niente più bronci e musi lunghi da consolare, niente più capricci da ignorare, o mani da stringere.

    Non avrebbe più potuto toccare né lui, né Sara, né Ennio. Non avrebbe più potuto abbracciare i suoi bambini, non avrebbe mai più sentito il tepore dei loro corpi che si fondevano con il suo.

    Chiuse gli occhi. A quanto pareva, nella sua condizione non le era consentito piangere. Così dovette limitarsi a stringere le palpebre, e ingoiare a vuoto quell’emozione dolorosa, talmente fisica da farle provare una stretta alla gola.

    Così aveva affrontato i giorni precedenti. Il suo funerale. La sepoltura.

    Non aveva voluto vedere il suo corpo. Immaginava non fosse dissimile dall’immagine pallida e stravolta che lo specchio le restituiva. Una donna in gonna beige e blusa di cotone sporca di sangue, con i capelli in disordine e un taglio sulla testa. Quella ferita, unico simbolo evidente del trauma cranico che l’aveva uccisa quando un tir aveva sbagliato manovra e aveva sfondato la fiancata della sua utilitaria.

    Per tutta la settimana era rimasta accanto a Ennio e ai suoi bambini, sfiorandoli, cercando di far sentire che era ancor con loro, che non li aveva lasciati e mai lo avrebbe fatto, perché li amava.

    Ma c’era qualcosa che la respingeva. Era un muro, una parete di gomma che le impediva di raggiungerli. E allora si aggrappava alla quotidianità, a ciò che le apparteneva, che era stato parte della sua vita. Ma anche quello era fuori portata, ormai.

    Le sue mani penetravano senza sforzo le ante dei mobili della cucina e tentavano invano di stringersi attorno alle tazze per la colazione e apparecchiare la tavola. Altre mani, ben più umane, lo facevano al suo posto, privandola di ciò che per lei era più importante: prendersi cura della famiglia.

    Così assisteva desolata ai gesti della suocera che preparava i pasti per i bambini e per suo marito, o guardava impotente i suoi cuccioli che stavano seduti sui letti con le ginocchia premute contro il petto, in silenzio.

    Avrebbe voluto suggerire a Ennio di parlare con loro, o di farsi aiutare da qualcuno. La psicologa della scuola, per esempio, che tanto l’aveva aiutata con Giorgio, quando il bambino aveva avuto delle crisi di aggressività in classe. Sorrise amaramente tra sé: Ennio non sapeva nulla di tutto questo o più probabilmente lo aveva dimenticato.

    Si voltò verso il marito addormentato. Una ruga gli segnava la fronte, gli occhi erano gonfi. Solo lei sapeva che aveva pianto, quella notte.

    Gli accarezzò la spalla. Non si era mai resa conto di amarlo tanto fino a che non aveva compreso di non poterglielo più dire.

    Dalla stanza di Sara giunse un lieve tramestio. A Samantha fu sufficiente immaginare di essere accanto alla figlia per ritrovarsi con lei. Non aveva ben capito come accadesse, ma era una delle prime cose che aveva imparato: nel suo stato il pensiero equivaleva all’azione. Non poteva superare le barriere fisiche – altro che Paranormal Activity –, ma poteva restare accanto ai suoi cari.

    Sara si stava alzando. Il suo corpo non mostrava ancora i segni dell’adolescenza, ma Samantha sapeva che ormai non mancava molto, che presto le sarebbero spuntati i seni e che poi avrebbe fatto i conti con… altro. Aveva dieci anni, era grande ormai.

    E lei non sarebbe stata lì per spiegarlo, per confortarla e aiutarla quando il suo corpo avrebbe iniziato a cambiare e a prendere una forma che non conosceva.

    Vide la bimba restare seduta sul letto mentre Giorgio continuava a dormire, rannicchiato contro il cuscino.

    Sara si morse il labbro. Stava per piangere, ma non voleva farlo, forse per timore di svegliare il fratellino. «Mamma.» Una parola sola, detta con voce accorata e infinitamente triste.

    Samantha si sedette accanto a lei, le cinse le spalle con un braccio e le baciò la fronte più volte. Era inutile, lo sapeva benissimo, poiché non poteva sentirla. Ma se da una parte questo la faceva sentire impotente e piena di rabbia, dall’altra le offriva una consolazione.

    «Sono qui, bimba mia» le sussurrò. La strinse e le sue dita affondarono nella carne tenera fino a sentire lo scorrere del sangue, vivo e caldo.

    Lacrime silenziose scorrevano sulle guance di Sara.

    «Perché, mamma?»

    Vorrei saperlo anche io, cucciola.

    Sara si strofinò il naso. Mise i piedi a terra e cercò le pantofole, poi si alzò. Rimboccò le coperte al fratellino e guardò l’orologio. Le sei. L’ora in cui Samantha era solita alzarsi. Il momento adatto per sbrigare un paio di faccende prima che la casa si riempisse di voci, che poi si fa tardi e i bambini devono essere in classe alle otto.

    Sara si chinò a controllare lo zaino, poi si recò nella stanza del fratello e fece altrettanto. Gli preparò i vestiti, riassettò il letto. Quello sarebbe stato il primo giorno a scuola dopo l’incidente. I parenti erano andati via e adesso avrebbero dovuto ricominciare a vivere, loro tre da soli, come un orologio cui mancava un pezzo ma che continuava, seppur a fatica, a funzionare.

    Sara andò in bagno. Samantha la seguiva, passo dopo passo, stupita. Quando aveva imparato a fare quelle cose? Era la sua routine, quella. E adesso Sara stava cercando di replicarla.

    Ma non era giusto. Aveva solo dieci anni, sarebbe dovuta restare a

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