FARFALLE
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About this ebook
lavoro precario, inconcludente, il giovane si muove all'interno del racconto, riflettendo sul mondo del lavoro
nell'Italia di oggi, in bilico tra le incertezze per il futuro e la speranza di riuscire comunque a trovare per sé
una via di fuga e stabilità nella vita, sia economica che psichica.
Fuga da un mondo del lavoro ingiusto e senza prospettive, visto come una trappola dentro la quale il
protagonista si trova a ruotare sempre intorno a se stesso per andare inevitabilmente a finire nuovamente al
punto di partenza.
Fuga, in momenti di sconforto, dalla gente che ha attorno e fuga dal suo paese, lontano dal quale non
saprebbe vivere, ma che vivendoci dentro giorno dopo giorno sente troppo stretto per sé.
Fuga dall'uomo che è per giungere ad essere quel che vorrebbe, fuga dalle sue paure, dal peso di un'incertezza
troppo gravosa da portare sulle spalle da solo.
Via di fuga che cerca e forse trova nella sua immaginazione e nella sua capacità di riuscire ad affrontare con
uno sguardo ironico tutti gli eventi della sua vita.
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FARFALLE - Andrea Deiana
DICIANNOVE
UNO
C’è un tempo per zappare e un tempo per morire, pensai, un tempo per sfiancarsi e un tempo per morire, sospirai, un tempo per schiattare e un tempo per morire, inspirai.
Espirai a lungo affondando ancora una volta la zappa nella terra. Un secco rumore metallico vibrò nell’aria.
– C’è un tempo di merda, – sussurrai allora, – e un tempo buono per morire.
E che fossi sul punto di stirare le zampette lo credevo veramente mentre mi chinavo per levare l’ennesima pietra su cui avevo inciso un sopracciglio argentato.
Il sudore colava dalla fronte sugli occhi annebbiando la vista e da lì giù correva in rivoli sul viso, come fanno le lacrime.
– Mì che muoio! – esclamai chiudendo gli occhi, rimettendomi dritto.
– Sì – rispose, dal niente, una voce di donna.
Un brivido mi corse dall’atlante alle chiappe, facendo rizzare i sensibili peli tra una natica e l’altra. Aprii timorosamente gli occhi e, avvolta nella nebbia della mia miopia mi apparve lei, bella, in falce ed ossa. Sorrise, o almeno mi sembrò sorridesse il suo teschio.
– Preferisci un infarto o una morte dal nome gentile? – chiese.
Ecco: ora alla morte capita a tutti, prima o poi, di pensarci. C’è gente, lo so che è difficile da credere, ma è proprio così, che trascorre intere giornate ad immaginare la propria fine. Che non è che sia questo gran divertimento stare lì a scervellarsi su come si tireranno le cuoia e a che si farà da cadaveri: se un inferno sarà, un paradiso o il nulla eterno. Contenti loro però, ci si può mica far niente e costringerli ad avere altri pensieri.
Per quel che mi riguarda, la verità, alla morte ci pensavo fin troppo anche io. Non che ci passassi le ore, ma ogni tanto, impertinente come un mariachi messicano, il pensiero veniva a bussarmi alla testa. Ma mai avevo immaginato potesse avvenire in quel modo bizzarro, con la Morte vestita di nero, armata di falce, su un campo di fave. Che poi a dirla tutta, quella sarebbe stata una fantasia da horror di terza categoria, priva d’originalità e a dir poco banale. Una roba già vista milioni di volte e sognata da chissà quanta gente.
Quello però era, ahimè, ciò che mi era toccato in sorte, ci si poteva far niente, era evidente.
Con la Morte di fronte, poggiai la zappa sopra la spalla e forse perché tutto mi appariva fin troppo irreale risposi dicendole che desideravo morire lentamente. Di calvizie, le dissi, o di unghia incarnita. Speravo ridesse trovandomi divertente. Invece, cattiva come lo sarei stato io di fronte ad uno qualsiasi dei comici che infestano la televisione italiana, puntandomi l’indice contro, mi disse:
– Non fare l’idiota, un aneurisma andrà più che bene.
E fece due passi in avanti avvicinandosi a me.
Non so se fu per paura o se spinto da un coraggio incosciente, ma quello che feci sorprese anche me stesso, ché i gesti eroici mi impressionavano anche solo se visti al cinema. Impugnai con due mani la zappa e prima che riuscisse a scansarsi la colpii con violenza affondando la lama proprio al centro della sua fronte.
Sorpresa dall’aggressione la Morte cadde all’indietro e io, incapace di frenare il mio slancio, finii su di lei. Un lamento e un rumore di ossa che vanno a scontrarsi fra loro risuonò nell’aria.
La Morte immobile sotto di me.
Feci forza per conficcare più a fondo la lama nel cranio e nell’istante in cui con la zappa cercavo d’ammazzare la Morte mi tornò in mente di quando mio nonno, ormai novantenne, aveva tentato di far fuori un cinghiale con la mia stessa arma.
È strano il cervello dell’uomo e capita spesso di fare delle associazioni di idee nei momenti meno opportuni in cui la logica vorrebbe si stesse attenti a ciò che si fa.
Ad ogni modo, ormai che ci sono lo racconto anche a voi. Fra nonno e il cinghiale era andata così: uva matura, si avvicinava il tempo della vendemmia. Nonno in quel periodo adorava passeggiare tra le viti, soppesare i grappoli e assaggiare alcuni acini pensando al sapore del vino che sarebbe venuto fuori quell’anno. E così aveva intenzione di fare anche quella mattina. Dal paese aveva camminato fino all’orto, aveva innaffiato le piante assetate e subito dopo aveva iniziato la solita passeggiata, che sognava rilassante, tra i filari e l’uva.
Quel che vide fu l’orrore di piante scosciate e di buche profonde. Sono certo ripensò alle trincee della guerra e ai crateri lasciati dalle bombe che gli erano cadute vicino, rendendolo sordo, durante il macello della prima guerra.
Metà della vigna era andata distrutta e attorno agli avanzi dell’uva sventrata ronzavano vespe e verdi mosconi affamati.
Fu la rabbia che lo spinse a cercare, nella baracca, fil di ferro e un cavo d’acciaio con cui preparò una sorta di cappio, e a farlo muovere lungo i confini del suo terreno alla ricerca del punto esatto in cui il cinghiale aveva superato la recinzione. Lo trovò e, invece di riparare quel danno, dove la rete era stata divelta dall’animale preparò una specie di forca che assicurò ad un albero e ad un palo vicino.
Costruire la trappola un po’ lo calmò e quando arrivò l’ora di pranzo, tranquillo rientrò in paese. Mangiò, dormì, poi le carte coi compari, un vino giù al bar, le solite chiacchiere, infine la cena e a letto all’ora di sempre.
L’orgoglio gli impedì di parlare con gli altri del cinghiale.
Quella notte, ne sono sicuro, non dormì e il mattino seguente tornò alla vigna. Non trovò nuove tracce di scasso tra le viti. Controllò la trappola, ma il cinghiale non vi era rimasto impiccato come sperava. Imprecò, è sicuro anche questo, accendendo una sigaretta e fumandola col fuoco in bocca, come avevano imparato a fare in tanti in trincea per non venire colpiti dai cecchini nemici o dai compagni ubriachi. Tornò a casa per pranzo e la giornata proseguì identica alle altre dei suoi ultimi anni.
Neppure quella notte riposò e il mattino seguente uscì di casa più presto del solito. Si sentiva nervoso nonno. Niente segni di cinghiale nella vigna constatò sollevato, quindi si incamminò verso il cappio di ferro e d’acciaio. Il terreno lì attorno era smosso, come se l’avessero arato: col collo e una zampa intrappolati nel cavo stava il cinghiale sfinito dalla fatica di una notte passata a tentare invano di liberarsi e fuggirsene via, lontano da lì.
Nonno guardò l’animale, sorrise e sputò, poi si mise seduto a fumare una Nazionale Esportazione.
Dentro di sé sereno, si alzò, cercò una zappa dal manico lungo e ritornò là. Armato e pronto a colpire si avvicinò all’animale, ma prima che riuscisse a fare alcunché il cinghiale si scagliò contro di lui. Sorpreso, nonno, fece due passi indietro e cadde goffamente per terra.
Fu il cavo d’acciaio a bloccare l’attacco e salvargli la pelle.
Si sputò sulle mani, lanciando un’occhiata di sfida all’animale, prima di rimettersi in piedi. Non si fece cogliere impreparato una seconda volta, così quando il cinghiale si lanciò contro di lui, nonno con tutta la forza da novantenne che aveva in corpo lo colpì con la zappa sul fianco. Il rinculo del colpo spinse l’animale per terra e costrinse il vecchio a fare diversi passi di lato per non perdere l’equilibrio e finire giù anche lui. Il cinghiale infuriato attaccò per l’ennesima volta e poi ancora e ancora, mentre nonno con la zappa tentava di centrarlo fallendo tristemente ogni colpo.
Stremato si allontanò, mentre l’animale ferito, correndo in tutte le direzioni, cercava di liberarsi dalla trappola e, ad armi pari, poter fare a tana di grillo il culo canuto dell’uomo.
Nonno pensò qualcosa sull’orgoglio e sul fatto che quella era ormai una questione privata fra lui e l’animale. Asciugò il sudore che gli inumidiva la punta del naso e tentò un ultimo affondo. Colpì il cavo, ma per sua fortuna non lo tranciò.
Maledisse se stesso e il cinghiale. Si ripeté ancora una volta che quella era una questione fra loro due, ma ciò che di buono hanno gli uomini è che, se qualcosa non torna, cambiano subito idea. E così fece nonno. Mise da parte l’orgoglio e inconsapevolmente tutte quelle robe simboliche sulla lotta tra uomo e natura.
Tanto per citarne uno, credo che Hemingway si sarebbe sparato vedendo nonno voltare le spalle al cinghiale e con passo lento incamminarsi verso il paese.
– Torna indietro vigliacco! – gli avrebbe gridato. – Ammazzalo a morsi il porco bastardo. – E giù a bere whisky e imprecare, è sicuro, vedendo nonno andare comunque lontano perché per fortuna era sordo e per quanto forte Hemingway avesse gridato non l’avrebbe di certo sentito.
In paese cercò mio zio e insieme tornarono giù alla vigna armati di fucile.
– Sparagli tu – disse a nonno, forse intuendo l’importanza simbolica che aveva quel gesto.
Lui sputò, disse Oh oh al figlio e voltandogli le spalle si allontanò per non vedere morire il suo ultimo rivale.
Nei due giorni seguenti, tutti in famiglia, e pur’io che ero stato svezzato da poco, mangiammo cinghiale.
Ripensai tutto questo crollando di fianco a un’immobile Morte al termine della nostra battaglia sul campo di fave.
Con la zappa ben piantata in fronte, che brillava quasi fosse la stella polare, la carogna non dava segni di vita.
Per non venire accecato dal sole chiusi gli occhi e, dentro di me pazzo di gioia, iniziai a ridere forte. Ora, se volete anche solo intuire in che stato di grazia mi trovassi in quell’istante, sdraiato per terra, certo d’aver ammazzato la Morte, provate a immaginare d’avere un orgasmo di quelli potenti da pornostar di terzo livello che terminano con voi che ridete felici. E se riuscite a immaginare l’orgasmo potrete di certo capire la temperatura siderale che raggiunse il mio sangue quando rediviva la Morte parlò.
Non so come feci a non morire di infarto, veramente.
– Era convinto d’uccidere me – disse levandosi la zappa dalla fronte, poggiandola a terra tra di noi.
Mi sarebbe piaciuto avere un bell’attacco di nervi, urlare disperato, strapparmi le vesti e poi con foga i peli bastardi del petto, invece rimasi immobile, muto, ché mica è facile se si è persa la speranza trovare da dire qualcosa di più intelligente di un merda mormorato a mezza voce. Neppure a piangere riuscii. Sudavo soltanto, respiravo e nient’altro.
In petto il battere d’ali di mille farfalle.
Mal sopportando il mio silenzio fu la Morte a parlare. Mi raccontò di come nonno fosse convinto che uccidendo il cinghiale avrebbe ucciso la Morte.
– Un po’ come te – disse.
Nonostante la gola completamente asciutta parlai chiedendo perché alla fine nonno avesse deciso di non uccidere lui l’animale, se avesse avuto paura, se si fosse convinto che a novant’anni era giusto accettare serenamente la fine di una vita lunga, in alcuni momenti tragica e triste, in altri felice: un po’, a ben vedere, come alla fine è la vita di tutti, mica crediate il contrario.
Mi guardò come si guarda un bambino che domanda se per caso l’asino vola, poi mi disse che no, non aveva avuto paura né era pronto a morire.
– Semplicemente – disse seria – aveva capito che quel suo pensiero era sciocco: il cinghiale era un cinghiale non la Morte vestita in maschera per carnevale.
Si sedette, fece come un sospiro, poi aiutandosi con la falce s’alzò. La guardai, mi guardò. Mi tese la mano.
– Andiamo? – le chiesi rassegnato.
– Se hai fretta – rispose.
E io che, nonostante odiassi farlo, avrei preferito di certo restare a zappare dissi di sì prendendo per mano la Morte e tirandomi su.
Lasciandoci alle spalle l’orto iniziammo a camminare mano nella mano, che, a pensarci, una roba