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Il terremoto particolare di Antonio M.
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Il terremoto particolare di Antonio M.

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About this ebook

La figlia di un imprenditore napoletano è la promessa sposa di un giovane di Potenza, primogenito di una coppia di impiegati postali. Ma a Lorenzo Vibonati, presidente e fondatore della Moriz, Re delle scarpe in cuoio, la faccenda sembra puzzare di truffa: per quali altri motivi, se non per il denaro e la posizione, l’aitante Maurizio Morrone ha deciso di convolare a nozze con sua figlia Silvia, così bruttina, impacciata e priva di grazia? Un contratto che leghi il ragazzo ai suoi doveri coniugali è quello che ci vuole, preceduto da un faccia a faccia tra i due padri, che si risolve in un ginepraio di accuse e di menzogne. Ma è il 23 novembre del 1980, arriva la fatale scossa di terremoto che mette in ginocchio il mezzogiorno del Paese, gli eventi precipitano, e la tragedia fa capolino anche in casa Morrone, ma è una tragedia macchiata di delitto

LanguageItaliano
Release dateOct 8, 2015
ISBN9788868151478
Il terremoto particolare di Antonio M.
Author

Giovanni Monte

Giovanni A. Monte, potentino, è nato nel 1974 a Salerno, vive da sempre a Potenza. Si laurea nel 2002, a Potenza, in Lingue e Letterature Straniere, con una tesi su John Fante. In quello stesso anno si classifica secondo al Premio “Città di Montalbano Jonico” di letteratura per l’infanzia. Nell’ottobre 2012 pubblica il romanzo L’indiziato allo specchio (Rusconi).

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    Il terremoto particolare di Antonio M. - Giovanni Monte

    Il terremoto particolare di Antonio M.

    romanzo

    Giovanni A. Monte

    Published by Meligrana Editore on smashwords.com

    Copyright Meligrana Editore, 2015

    Copyright Giovanni A. Monte, 2015

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868151478

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 - 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 - (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Giovanni A. Monte

    Copertina

    Dedica

    Antefatto

    23 novembre 1980. Lorenzo Vibonati si fa attendere

    Undici gradi Mercalli

    Il commissario Lupanari entra in scena

    Lo scherzo del commissario

    Una questione privata

    Momenti di tensione

    Pandemonio e una proficua telefonata

    Il padre, il figlio e lo spirito (maligno) del morto

    Al funerale

    La raccomandata

    Fino alla vigilia

    Altri ebook di Meligrana Editore

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

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    Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Giovanni A. Monte

    Giovanni A. Monte, potentino, è nato nel 1974 a Salerno, vive da sempre a Potenza. Si laurea nel 2002, a Potenza, in Lingue e Letterature Straniere, con una tesi su John Fante. In quello stesso anno si classifica secondo al Premio Città di Montalbano Jonico di letteratura per l’infanzia. Nell’ottobre 2012 pubblica il romanzo L’indiziato allo specchio (Rusconi).

    Contattalo:

    gam.mrwriter@hotmail.it

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    Al commissario Bordelli

    Antefatto

    Il treno arrivò alla stazione di Napoli con dieci minuti di ritardo. Tra la gente in attesa c’era un ragazzo, seduto su una panchina, da solo, le gambe unite e la schiena china per proteggersi dal vento. Con il treno in frenata, il ragazzo si mosse nella direzione opposta, trascinando la sua valigia con le rotelle verso uno dei vagoni centrali. Cercò il primo scompartimento libero ed entrò; i due posti migliori, vicini al finestrino, erano occupati da un impermeabile avvoltolato e da una borsa da uomo, ma sulla rete portabagagli c’era una sola grande valigia. Si affacciò in corridoio. Ormai il treno era un viavai di gente che si affrettava per occupare i posti migliori; il ragazzo decise di fermarsi in quello scompartimento dove ne aveva quattro a disposizione. Appena occupò il posto centrale, accanto alla borsa, entrò un anziano signore, e chiuse la porta scorrevole fissando sul ragazzo uno sguardo quasi offeso, sedendosi dove aveva lasciato l’impermeabile, che dispose con molta cura sulle cosce. Subito dopo lanciò un ultimo sguardo dal basso verso l’alto al giovane intruso e, intuendo i pensieri che dovevano turbinare in quella giovane mente, diede un’occhiata alla borsa. Controllò la valigia in alto, tossì due volte, appoggiò la testa sul vetro e chiuse gli occhi.

    Il ragazzo si dedicò per alcuni minuti allo studio dei tratti somatici e del vestiario del signore, perché in attesa della partenza non poteva ancora contemplare il panorama dal treno in corsa, come faceva di solito.

    L’uomo sembrava avere qualcosa di nobile, nelle pieghe del volto e nel contegno, incrociava con garbo le mani sull’impermeabile; sotto un pullover raffinato indossava una cravatta rossa, aveva due scarpe nere che parevano fresche di lucidatura. Il ragazzo incontrava raramente uomini di questo tipo nella sua città, e ritenne improbabile che potesse scendere nella sua stessa stazione.

    Quando l’uomo riaprì gli occhi, il treno era ancora fermo e si erano aggiunti altri due passeggeri. Uno dei quali si era già rivolto al ragazzo per avere informazioni su quella borsa che occupava abusivamente il posto-finestrino. Da quando il ragazzo aveva prima alzato le mani e poi indicato il signore con gli occhi chiusi, il nuovo arrivato, allargando le braccia e sospirando, aveva fissato in cagnesco il signore addormentato, in attesa che si destasse, per ottenere un chiarimento.

    Signore, la borsa è sua? chiese il nuovo arrivato. Dopo una breve pausa l’uomo annuì, infastidito.

    In tutta evidenza.

    Potrebbe? Scusi.

    L’uomo adagiò l’impermeabile nel posto vuoto accanto al suo, e depositò la borsa sulle cosce unite. Chiuse gli occhi per riaprirli subito dopo con un lungo sospiro e mise la borsa sul sedile a fianco, adagiandola contro la spalliera. Così il nuovo arrivato si sedette al posto-finestrino, non prima di avere chiesto al ragazzo, con un’occhiata distratta, se non fosse interessato lui a quel posto, visto che avrebbe avuto la precedenza. Ma il ragazzo era troppo timido per dire sì, come avrebbe voluto, e scosse il capo, anche perché il signore nel frattempo si era già accomodato con l’aria di chi intende restarci a lungo.

    Passò un minuto e si sentì la voce del capostazione, un lungo fischio, poi il treno ebbe un leggero sussulto. I due nuovi arrivati in carrozza rizzarono la schiena, tendendo le orecchie ai rumori esterni. Quello vicino alla porta scorrevole si allungò per socchiuderla. L’aristocratico signore della borsa e dell’impermeabile, il più assonnato del gruppo, aprì soltanto un occhio, e il suo sguardo tradì una certa angoscia.

    Santo cielo, santo! disse il signore, all’erta, accanto al ragazzo.

    Non è niente, riparte disse quello alla porta. Era solo uno scossone, questi motori fanno di questi scherzi, talvolta.

    Belli scherzi fanno. Quanto tempo è passato da Bologna?

    Saranno tre mesi. Erano i primi d’agosto.

    Sa, non mi va di essere commemorato da Pertini, preferisco il tormento dell’anonimato anche dopo la morte.

    Ci metterei la firma disse l’uomo alla porta, che adesso si era seduto, confortato dall’incedere sicuro del treno.

    Le dirò che mi tremano le vene ai polsi, ormai, quando arrivo in stazione disse l’uomo a fianco al ragazzo. Mi pare di dover saltare in aria da un momento all’altro, ma come si fa, dopotutto, io devo viaggiare, non ho alternative, non posso mica cambiare lavoro.

    Non esploderanno ordigni ogni mese, dopotutto.

    Ma sì, ma sì.

    I due uomini non si scambiarono più una sola parola, e continuarono a guardarsi attorno, a studiare, un po’ nervosamente, la gente che passava in corridoio, contenti di essersi lasciati alle spalle la stazione di Napoli, che rischiava di essere oggetto sensibile di nuovi attentati, lieti di correre verso la Basilicata, che sembrava aliena da ogni minaccia terroristica, così come era aliena dal resto del paese.

    I quattro passeggeri scesero alla stazione di Potenza Inferiore. Il ragazzo si fermò all’uscita con il manico della valigia ben stretto, abitudine che aveva contratto da quando, due anni prima, si era iscritto alla Federico II, perché a Napoli, sosteneva suo padre, rubavano. Il ragazzo non riusciva a togliere gli occhi di dosso dal signore dell’impermeabile, che si allontanava lungo via Marconi con la borsa nella mano destra, e la valigia nella sinistra. Camminava piuttosto spedito per essere un uomo di quell’età, di certo superava i settanta, forse anche i settantacinque. Di due cose però era sicuro: non era una persona cordiale e doveva essere piuttosto tirchio per viaggiare in seconda classe; da come era vestito poteva permettersi la prima. Poi il ragazzo sentì la voce dell’amico Giorgio, e vide il suo braccio sventolare dal finestrino di una macchina che non conosceva.

    E la Lancia? chiese, avvicinatosi.

    Andata, l’ho venduta a un cugino di mio padre.

    E questa macchina? chiese il ragazzo appena arrivato da Napoli, facendo un passo indietro per guardare meglio l’automobile."

    Una Fiat. Modello nuovo. Si chiama Panda.

    Non mi pare di averne viste in giro.

    La fanno da quest’anno. Adesso monta.

    Il ragazzo lasciò la valigia nel bagagliaio e salì in macchina. Novità?

    Giorgio guardò l’amico Stefano Bolatti, con un sorrisetto. Crisi isteriche sono ormai all’ordine del giorno, a casa mia. Inizio a credere che non sia stata una bella pensata.

    Stai scherzando? Vallo a dire a tuo padre.

    Non credere, a me fa piacere, non si sputa sui soldi, soprattutto se puoi averli gratis.

    Che razza di storie. Dopo una breve pausa Stefano tirò Giorgio dalla manica. Ma tuo fratello è innamorato almeno?

    Ma che domande.

    Non so, mi spaventa persino pensarlo, ma avevo l’impressione che fosse tutta una specie di congiura di tuo padre.

    Questa volta Giorgio scoppiò a ridere. Tranquillo, amico mio. Sì, il babbo non si sarebbe lasciato scappare l’occasione, se avesse potuto, questo è poco ma sicuro, ma in questo complotto non c’ha messo becco, no, no, è tutto merito di mio fratello, che s’è preso la donna giusta... cioè, donna... per essere giusta è giusta, il resto è da vedere.

    Stefano si girò dall’altra parte, con il broncio. La tendenza di Giorgio a giudicare le donne dall’aspetto fisico lo aveva sempre disturbato, ma ormai era una tara che l’amico si sarebbe trascinato nella tomba, e bisognava farsene una ragione, perché agli amici più affezionati si perdona questo e altro.

    Su, non mettermi il muso disse Giorgio, dando una manata sulla coscia di Stefano. Per essere una donna è una donna. Diciamo che piace a mio fratello e ad altri due o tre eletti.

    Si mise a ridere, mentre l’amico scuoteva la testa. Passarono pochi istanti e Stefano fu costretto a dare libero sfogo al riso che sentiva sobbollire sotto le labbra da alcuni secondi, facendosi subito dopo rosso di vergogna.

    E che avrò detto mai?

    Ma di quanti soldi si tratta? chiese Stefano, con una mano davanti alla bocca. E siccome Giorgio, perso nei suoi calcoli mentali, non rispondeva, Stefano aggiunse, ridacchiando. Accidenti a te, accidenti. Ma quanto è ricco, poi?

    Ha un bel po’ di grana.

    E sapete come se l’è fatta?

    Santo cielo, Stefano, è quello delle Moriz.

    Le scarpe?

    È lo stramaledetto presidente! Era anche amministratore delegato, fino a poco tempo fa, ma ormai ha lasciato le redini in mano a suoi uomini di fiducia, lui vuole ritirarsi a vita privata e, fortuna delle fortune, figli maschi non ne ha, l’unica figlia, che è la persona che conosciamo bene, sarà la moglie di mio fratello, e con i parenti che gli sono rimasti ha chiuso i conti da anni... beghe familiari... brutte storie.

    Quanto sarà triste tuo padre, Giorgio.

    I soldi portano solo disgrazie disse Giorgio, facendo una boccaccia, dando un’altra manata sulla coscia dell’amico, subito dopo aver parcheggiato in via Beato Bonaventura.

    Salirono a piedi la Gradinata Manhes, scambiando poche chiacchiere di rito sulle ultime vicende napoletane di Stefano, fino a via Pretoria, cuore della città e luogo del passeggio. Se uno voleva incontrarsi bastava che dicesse ci vediamo per strada. Giorgio viveva con il fratello e i genitori nella parte più vecchia della principale via della città.

    Entrarono insieme nella prima porta di legno, a pochi metri dall’imbocco della scalinata, dove si diffuse un silenzio sacrale. Trascinandosi sulle scale, Stefano soppesava le parole da adoperare nel consueto scambio a quattr’occhi con il padre, quando, dopo il pranzo, avrebbe dovuto trovare una giustificazione a quegli ultimi voti non conformi alle aspettative. Così saliva con passo stanco, implorando all’amico parole di sostegno, ma Giorgio aveva già la testa altrove e si limitò a un cenno di saluto, entrando nell’appartamento al primo piano, all’interno del quale non ritrovò l’ambiente che aveva lasciato mezz’ora prima. Una strana elettricità sembrava percorrere l’aria, una tensione densa come la nebbia che suo padre stava espellendo dalla sigaretta. Dietro la coltre fumosa che usciva dalla cucina, dove suo padre si era rifugiato lanciando insulti a denti stretti, Giorgio vide sua madre, seduta sul divanetto del soggiorno con le ginocchia unite, il mento appoggiato su una mano. Alzò gli occhi sul figlio solo quando il ragazzo si fermò a un metro da lei.

    E allora?

    La donna si alzò di colpo. Io non ne voglio sapere niente di questa storia. Detto questo, entrò a grandi passi in cucina, sventolando le braccia, e spalancò la finestra. Entrò e uscì girando attorno al lato sinistro del tavolo, perché a destra si era impiantato suo marito, occupando la zona, con un pacco di sigarette in mano e un portacenere pieno di mozziconi sul fornello dietro di lui. L’uomo sedeva a capo chino, sfiorando il tavolo con la fronte. Cominciò a battere la punta del piede sul pavimento quando, girandosi, vide Giorgio. Fece una smorfia di saluto, muovendo due volte la testa in senso verticale, poi appoggiò la testa sul tavolo.

    Allora?

    Cosa? fece il padre.

    Cosa è successo negli ultimi trenta minuti?

    Vieni qua disse suo padre, facendo una torsione per spegnere l’ultima cicca. Lo fece serrando le labbra, mettendoci una forza esagerata che faceva ballare il posacenere sul fornello. Alzandosi, ripeté. Vieni qua. Dimmi una cosa, tu ne hai parlato con tuo fratello, ti ha detto qualcosa? Appoggiò le mani sulle spalle del figlio, stringendo e mollando la presa, causandogli leggere trafitture, ma avrebbe voluto afferrarlo dal bavero e scuoterlo con più energia.

    Ma cosa doveva dirmi?

    Ah, cosa?

    Giorgio ebbe un accesso di tosse, perché non si poteva parlare in quella cucina senza aspirare fumo, si liberò della presa e andò ad affacciarsi alla finestra che dava sulla Gradinata Manhes.

    Tuo fratello è stato convocato a casa... non a casa, ma nella camera del Grande Albergo... voglio dire nell’albergo dove dorme Lorenzo Vibonati, dove alloggerà per non so quanto, è sceso da Napoli.

    Maurizio?

    Quanti fratelli hai?

    Cosa è sceso a fare Vibonati?

    Ah, cosa è sceso a fare, Vibonati? disse il padre tra sé, dando le spalle al figlio, uscendo e rientrando in cucina. Giorgio, tu devi dirmi se quel pezzente di tuo fratello ti ha mai parlato di questa Silvia, la donna che dovrà sposare.

    Certo che sì.

    L’uomo si riavvicinò al ragazzo, con gli occhi sgranati, scostando una sedia con rabbia. Sì, e allora?

    Allora niente, me ne ha parlato come se ne parla a un fratello, per sommi capi, mi ha detto dove si sono conosciuti, poche altre cose.

    E allora dove si sono conosciuti?

    A Napoli.

    Non facciamo gli spiritosi, non facciamo gli spiritosi!

    Giorgio ebbe uno scatto di nervi. Be’, senti, basta così. Uscì dalla cucina, a braccia larghe. Insomma, cosa sta succedendo? Non si sposa più? Che mistero è questo? Si girò, inchiodato sul posto dallo sguardo affranto del padre.

    E chi lo sa se si sposa più.

    Come, come?

    Il padre di Giorgio tornò a sedersi davanti al fornello. Io volevo sapere, Giorgio, volevo cercare di capire se tuo fratello è davvero innamorato della ragazza, perché se così non fosse, non voglia il cielo che va a finire tutto in malora dopo gli sforzi che abbiamo fatto, perché ho l’impressione che il vecchio certe cose le capisca al volo, un uomo con quell’esperienza, che da solo ha costruito un impero, vuoi che non sappia fare la radiografia a un giovanotto di provincia come tuo fratello?

    Mamma! gridò Giorgio. Non si mangia niente? Io alle tre lavoro. Non si mangia più? Senti, papà, se non riesci a essere un po’ più preciso io non riesco a seguirti. Partì con un guizzo verso i fornelli, deciso a dimenticare quella folle discussione; si piegò, aprì un’anta e gridò. E le pentole dove sono? Tutte in lavastoviglie?

    La ama, vero? mormorò l’uomo seduto.

    Giorgio si chinò verso il padre, implorante. Ma perché, perché ti fai queste domande?

    Il padre si girò verso il ragazzo, tirando due volte su col naso, si grattò la testa a occhi chiusi; quando li riaprì, sembrò aver ritrovato il lume della ragione, una mutazione improvvisa che turbò il ragazzo.

    Ti senti bene?

    Vibonati è arrivato a Potenza stamattina, da Napoli, con un atto notarile che ci tiene appesi a una corda, e la strettezza del cappio dipenderà dall’onestà dei sentimenti di tuo fratello. Vibonati si impegna a concedere la mano della figlia a tuo fratello Maurizio, che avrà così un ruolo di primo piano nell’azienda, ma solo alla morte del vecchio, che voleva farsi da parte ma pare ci abbia ripensato. Vibonati ha quasi ottant’anni e, anche se si dimostra arzillo, ha i suoi bei problemi di cuore, quindi Maurizio dovrebbe diventare a breve un pezzo grosso della Moriz, e fino a qui più o meno ci siamo. I problemi iniziano adesso. Vibonati pretende non solo che Maurizio si leghi alla befana per sempre, ma che le dia un figlio, perché soltanto la nascita di una creatura formalizzerà l’amore di tuo fratello, e questa bella notizia doveva darcela a un mese dal matrimonio. Si alzò, avviandosi stancamente verso la porta. Tu ce lo vedi Maurizio a ingravidare quell’abominio della natura? Io no, è mio figlio!

    Giorgio si prese il tempo necessario a riorganizzare le idee, perché il drammatico assolo paterno sembrava scritto da un modesto autore di feuilleton del secolo passato.

    Ma certo che sì, Maurizio non avrà problemi a metterla incinta.

    Tu dici?

    Perché la ama, è così.

    Ne sei sicuro?

    Papà, questo è fuori discussione.

    Potresti giurarlo?

    Santo cielo. Mi sembra una follia. Se la sposa, papà, se la sposa è perché la vuole.

    Ah, ecco, se non fossi figlio mio giurerei che sei un idiota!

    Mi pare che qualcuno voglia crearsi un problema che non esiste. Maurizio sposerà Silvia Vibonati. Avranno un figlio, forse due, e tu passerai una splendida vecchiaia, il problema dov’è?

    Ma la tua testa dov’è, dov’è? disse il padre, che adesso si era alzato e picchiava le cinque dita a becco della mano destra sulla fronte del ragazzo. Non sei un Morrone pure tu, non c’è il sangue mio qua dentro? Vuoi venirmi a dire che Maurizio s’è davvero invaghito della befanaccia napoletana, che non va dietro ai soldi del babbo?

    Giorgio fece due passi indietro perché le dita lo colpivano con forza crescente. A Maurizio non è mai importato niente, lo sai.

    Cosa?

    Non gli sono mai interessate le belle donne, papà, non lo scopriamo mica oggi. Silvia avrà mille altre doti che a lui interessano, lui ci avrà visto... lui ci avrà visto... cosa posso saperne io cosa ci ha visto, te l’ho detto, me ne ha parlato per sommi capi.

    Ho capito, allora devo pensare che mio figlio è cretino.

    Libero di pensare quello che vuoi, dovremmo pensare al pranzo, adesso.

    Sì, mio figlio il minore è cretino, non ci sono più dubbi. E così tuo fratello si sposerebbe per amore? Per la miseria! Nessuno, oggi nessuno più ha voglia di sposarsi! Fammi il nome di un tuo coetaneo, insomma, che...

    Ah, potrei anche fartelo il nome, papà. Che idea di Paese ti sei fatto? La trovo stravagante...

    "Un Paese in cui s’è combattuto per ottenere il divorzio, e da un paio d’anni è lecito abortire. Io non credo per niente che Maurizio lo

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