Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Tredici giorni a Milano
Tredici giorni a Milano
Tredici giorni a Milano
Ebook422 pages3 hours

Tredici giorni a Milano

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Sylvia de Matteo è una fotografa americana di successo che si gode spensieratamente le vacanze in Italia, del tutto ignara della difficile situazione economica nel Paese, mentre la credibilità internazionale del governo tocca il suo punto più basso.

Durante un attentato di matrice politica alla Stazione Centrale di Milano, Sylvia viene presa in ostaggio e usata come scudo umano da una banda armata di terroristi, mentre il treno diretto a Parigi con a bordo la sua bambina e il suo fidanzato lascia la stazione senza di lei. Sylvia viene legata e imbavagliata, gettata in un furgone, picchiata e chiusa in una cella all’interno di un capannone di periferia.

Quando i terroristi scoprono che il padre di Sylvia è un ricco banchiere americano, decidono di chiedere un riscatto per il suo rilascio. I vertici della DIGOS milanese si trovano a condurre un’indagine che, in un crescendo di colpi di scena, stravolgerà per sempre la vita dell’ostaggio e dei suoi carcerieri.

LanguageItaliano
PublisherJack Erickson
Release dateMay 14, 2015
ISBN9781311338068
Tredici giorni a Milano
Author

Jack Erickson

Jack Erickson writes in multiple genres: international thrillers, mysteries, true crime, short mysteries, and romantic suspense.He is currently writing the Milan Thriller Series featuring the anti-terrorism police, DIGOS, at Milan's Questura (police headquarters). Book I in the series is Thirteen Days in Milan. Book 2, No One Sleeps, was published in December 2016. Book 3, Vesuvius Nights, was published in 2019. Book 4, The Lonely Assassin, was published in 2020.The models for Erickson's Milan thrillers are three popular Italian mystery series: Donna Leon's Commissario Brunetti in Venice, Andrea Camilleri's Inspector Salvo Montalbano in Sicily, and Michael Dibdin's Commissario Aurelio Zen in Rome. All three have been produced as TV series at either BBC, PBS, RAI, or Deutsche WelleErickson travels throughout Italy for research and sampling Italian contemporary life and culture. In earlier careers, he was a U.S. Senate speechwriter, Washington-based editor, and RedBrick Press publisher. He wrote and published several books on emerging craft brewing industry including the award winning Star Spangled Beer: A Guide to America's New Microbreweries and Brewpubs.Before he began writing fiction, he was a wealth manager for a national brokerage in Silicon Valley.

Related to Tredici giorni a Milano

Related ebooks

Police Procedural For You

View More

Related articles

Reviews for Tredici giorni a Milano

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Tredici giorni a Milano - Jack Erickson

    Tredici giorni a Milano

    romanzo

    Jack Erickson

    Smashwords Edition

    Copyright Jack Erickson, 2015

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9781311338068

    Opera originale:

    Thirteen Days in Milan, Jack Erickson, 2013, ISBN 9781301336371

    Traduzione italiana: Ilaria Ortolina

    Editing: Elena Ciampella

    Layout: Giuseppe Meligrana

    Copertina: 1106 Design

    www.1106design.com

    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Jack Erickson

    Copertina

    Tredici giorni a Milano

    Prologo

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Altri titoli di Jack Erickson

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia.

    Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Jack Erickson

    Jack Erickson è uno scrittore statunitense, autore di thriller internazionali, romanzi gialli e sentimentali.

    Ex-editore, ha collaborato come autore di discorsi presso il Senato americano e come giornalista free-lance per molti quotidiani e riviste, tra cui il Washington Post.

    Erickson ha inoltre scritto cinque guide sulla birra artigianale americana, tra cui il premiato Star Spangled Beer: A Guide to America’s New Microbreweries and Brewpubs, pubblicato da RedBrick Press.

    Attualmente vive in California con sua moglie.

    Il sequel di Tredici giorni a Milano sarà disponibile in estate 2015.

    www.jackerickson.com

    Contattalo:

    jacklerickson@gmail.com

    Segui Jack Erickson qui:

    Facebook - Twitter - LinkedIn - Wordpress

    Tredici giorni a Milano

    I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in buona parte frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti (escluso il prologo dedicato ad Aldo Moro) è puramente casuale. Le idee politiche riferite da alcuni personaggi del romanzo non sono quelle dell’autore. Ove si incontrino riferimenti a persone realmente esistenti, essi sono utilizzati al solo scopo narrativo.

    Prologo

    Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro

    Roma, 16 marzo – 9 maggio 1978

    Roma. Una mattina di sole.

    Il 16 marzo 1978, poco prima delle nove, Aldo Moro, sessantun anni, cinque volte Presidente del Consiglio tra il 1963 e il 1976, uscì dal suo appartamento al quinto piano di un palazzo in Via Forte Trionfale per recarsi in Parlamento, accompagnato dalla scorta, per una seduta storica che avrebbe coronato la sua trentennale carriera politica.

    Era il giovedì prima della Domenica delle Palme. Le temperature erano salite negli ultimi giorni, e gli italiani avevano già iniziato a godersi il sole sulle spiagge. La primavera era nell’aria.

    In qualità di presidente del partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, alle dieci del mattino Moro avrebbe presentato il suo controverso piano politico, il cosiddetto Compromesso storico, per formare una coalizione di governo che avrebbe incluso il Partito Comunista.

    L’Italia sarebbe diventata la prima nazione europea a formare un’alleanza di governo con il Partito Comunista, nonostante la forte opposizione degli alleati della NATO, in primo luogo gli Stati Uniti. L’idea di Moro era di portare unità nel Paese, stretto nella morsa della crisi economica e delle ondate di terrorismo.

    Moro era il più importante statista italiano, noto per la sua abilità nel mediare le posizioni degli alleati e degli avversari politici. Come ricompensa per i lunghi anni di servizio, probabilmente sarebbe stato eletto Presidente della Repubblica nel mese di dicembre.

    Moro era anche un padre e un nonno amorevole. Lui e la moglie Eleonora, con cui era sposato da trentatré anni, avevano cresciuto quattro figli, due dei quali vivevano ancora con loro insieme al nipotino di due anni, Luca.

    Nella sua carriera trentennale, Moro aveva scalato i vertici della Democrazia Cristiana. I capelli si erano ingrigiti e il suo corpo si era curvato, ma era ancora vigoroso e sano. Ogni mattina usciva di casa con borse cariche di libri, documenti, giornali e pillole.

    Quel mattino, nel cortile di Via Forte Trionfale, Moro salì sulla Fiat 130 blu scuro con i vetri antiproiettile. Sui sedili anteriori sedevano l’autista, Domenico Ricci, e il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, guardia del corpo di Moro da quindici anni.

    Nella seconda auto della scorta, un’Alfetta color crema, c’erano altre guardie del corpo armate di Beretta M-12. Per uno di loro, il trentenne Francesco Zizzi, era il primo giorno di servizio.

    Pochi minuti dopo le nove, le due auto si avviarono per un tragitto che le avrebbe portate nel tranquillo quartiere di Via Fani, dove Moro avrebbe potuto raccogliersi in preghiera per qualche minuto nella chiesa di Santa Chiara.

    L’unico segnale di stop lungo il tragitto era all’incrocio tra Via Fani e Via Stresa.

    ***

    Un uomo a bordo di una moto Honda, con il volto coperto da un passamontagna, osservava attentamente la partenza di Moro. Il motociclista percorse Via Fani e poi curvò per avvisare i complici che l’auto di Moro sarebbe arrivata dopo qualche minuto.

    Nell’ora precedente, in Via Fani era stato messo in atto un piano mortale, organizzato con estrema precisione. Alle otto e trenta circa, una Fiat 132 blu a quattro porte aveva fatto scendere due uomini con le uniformi blu dell’Alitalia davanti alla saracinesca chiusa del Bar Olivetti. Altri due uomini con la stessa uniforme erano già sul posto, accanto alle piante fuori dal bar. I quattro uomini portavano delle borse con il logo di Alitalia.

    Nell’arco di pochi minuti, undici uomini e una donna arrivarono a bordo di tre Fiat 128, una Fiat 132 e una Mini Cooper. Parcheggiarono vicino all’incrocio tra Via Fani e Via Stresa. Tutti i veicoli erano stati rubati a Roma di recente ed erano stati equipaggiati con sirene della polizia e targhe contraffatte.

    I guidatori, i passeggeri e gli uomini che attendevano davanti al Bar Olivetti nascondevano armi automatiche. Guardavano nervosamente gli orologi e aspettavano l’auto di Moro, che impiegò quattro minuti per raggiungere Via Fani.

    Moro stava leggendo un quotidiano nel sedile posteriore quando l’autista, Ricci, si fermò allo stop. Una Fiat guidata dalla donna arretrò da dietro l’angolo e bloccò l’auto di Moro. L’autista tentò di fare manovra per schivarla, ma fu bloccato dalla Mini Cooper, che si era fermata dietro l’Alfetta con a bordo la scorta.

    I dodici membri del commando che si erano radunati quel mattino passarono all’azione: alcuni estrassero le pistole automatiche dalle borse, altri saltarono fuori dalle auto e cominciarono a tempestare di proiettili le due auto di Moro e della scorta.

    La donna e il passeggero a bordo della Fiat che aveva bloccato l’auto di Moro aprirono il fuoco contro Ricci e Leonardi sui sedili anteriori.

    I quattro uomini con le uniformi blu corsero dal Bar Olivetti e raggiunsero le auto. Due di loro spararono ai tre uomini di scorta a bordo dell’Alfetta. Gli altri due aprirono la portiera posteriore della Fiat e trascinarono fuori l’onorevole Moro.

    L’agguato in Via Fani si consumò in pochi secondi. Ricci e Leonardi morirono sul colpo: i loro corpi coperti di sangue erano riversi sui sedili anteriori.

    Anche i due uomini seduti davanti sull’Alfetta morirono all’istante; uno dei due aveva la mano sulla radio della polizia. La guardia del corpo che occupava il sedile posteriore uscì dall’auto, si inginocchiò e sparò due colpi. L’uomo sulla moto Honda lo uccise con un colpo alla testa.

    In venti secondi furono sparati circa novanta proiettili in Via Fani. La strada era disseminata di vetri rotti, bossoli e pozze di sangue. I giornali di Moro sventolavano accanto alle borse dell’Alitalia che avevano trasportato le armi automatiche.

    Le quattro Fiat, la Mini Cooper e la motocicletta sfrecciarono via. Un minuto dopo, i rapitori caricarono Moro su un furgone tedesco parcheggiato in Via Massimo, che partì a tutta velocità e scomparve.

    ***

    Alle nove e venticinque, una delle stazioni radio nazionali diffuse la notizia:

    Interrompiamo le trasmissioni per una drammatica notizia che ha dell’incredibile, e che, anche se non ha trovato finora conferma ufficiale, purtroppo sembra vera. Il presidente della Democrazia Cristiana, l’onorevole Aldo Moro, è stato rapito poco fa da un commando di terroristi. [...] la scorta dell’onorevole Moro era composta da cinque agenti. Sarebbero tutti morti.

    Alle dieci, un messaggio in codice del Ministero degli Interni ordinò alla polizia di attuare il Piano Zero, un piano segreto per gestire una crisi nazionale. Ma inavvertitamente il Piano Zero non era stato comunicato ai comandanti di Polizia. Fu scritto, copiato e diramato in tutta fretta. Fu un errore grossolano, uno dei molti che avrebbero segnato le indagini su uno dei crimini più sensazionali del dopoguerra.

    Le strade in entrata e in uscita da Roma furono messe sotto sorveglianza. Gli aeroporti, le frontiere, le stazioni e i porti furono messi in stato d’allerta. Ma Moro e i suoi rapitori erano già al sicuro in un nascondiglio segreto vicino al centro di Roma. Alle dieci e quindici, i telefoni delle redazioni di Roma, Milano, Torino e Genova ricevettero un messaggio registrato:

    Questa mattina abbiamo sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro ed eliminato le sue guardie del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. – Brigate Rosse.

    ***

    Cinquemila agenti cominciarono un rastrellamento casa per casa nella zona di Via Fani. Gli inquirenti credevano che nel sequestro fossero implicati una sessantina di brigatisti, tra chi guidava le auto, chi aveva procurato le armi, chi sorvegliava il nascondiglio in cui tenevano prigioniero Moro.

    Negli archivi della polizia c’era un rapporto stilato da Leonardi, il capo della scorta, in cui si denunciavano movimenti sospetti intorno all’abitazione e all’ufficio di Aldo Moro. Il giorno prima del sequestro, il massimo funzionario di polizia aveva chiamato l’ufficio di Moro per dire che in seguito al rapporto erano state condotte delle indagini e non c’era motivo di allarme.

    ***

    Il giorno seguente, il 17 marzo, i brigatisti inviarono il loro primo comunicato alla redazione del Messaggero, quotidiano di Roma, insieme a una Polaroid che ritraeva Moro davanti alla bandiera delle Brigate Rosse.

    La fotografia aveva qualcosa di sinistro. La doppia S sopra la testa di Moro somigliava a una svastica nazista. L’immagine fu pubblicata sui quotidiani la Domenica delle Palme. A mezzogiorno Papa Paolo VI, ottantenne e sofferente, durante il suo discorso in San Pietro invitò tutti a pregare per il suo amico di lunga data.

    ***

    Fin dai turbolenti anni Sessanta l’Italia era stata sconvolta da centinaia di azioni terroristiche che avevano caratterizzato i cosiddetti Anni di Piombo: bombe, rapimenti e assassinii commessi da estremisti di destra, dalle Brigate Rosse e da gruppi minori.

    Il terrorismo era concentrato nelle zone industriali del Nord, in particolare in Lombardia e in Piemonte. Dal 1955 al 1971, quasi dieci milioni di italiani erano migrati dalle regioni povere del sud per cercare lavoro nelle fabbriche e nelle catene di montaggio di industrie come la Pirelli a Milano e la Fiat a Torino.

    I flussi migratori causarono una grave crisi abitativa e igienica in molti quartieri. Gli operai, per lo più giovani contadini privi di istruzione, erano costretti a vivere in soffitte, cantine, baracche e in blocchi di cemento privi di elettricità e di acqua corrente che presero il nome di coree. Le squallide abitazioni, le paghe basse e le condizioni di lavoro spesso pericolose portarono a un’ondata di proteste, rivolte, rapimenti e sabotaggi a opera sia di lavoratori, sia di studenti di inclinazione rivoluzionaria.

    Il 1969 fu un anno particolarmente sanguinoso. Ci furono 145 bombe, molte delle quali esplosero in luoghi pubblici come l’Università di Padova, la fiera di Milano e i treni. Il 12 dicembre a Milano, sedici persone rimasero uccise in Piazza Fontana per una bomba esplosa alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. L’ondata di violenza portò molti italiani a temere che il paese fosse sull’orlo di una rivoluzione che avrebbe rovesciato il governo.

    Molte azioni terroristiche furono intraprese dalle Brigate Rosse, un gruppo di estrema sinistra fondato da due sociologi, Margherita Cagol e Renato Curcio, all’Università di Trento. Cagol e Curcio si sposarono e si trasferirono a Milano per mobilitare la protesta e diffondere la loro ideologia di stampo marxista-leninista, secondo la quale il capitalismo era nato dalla violenza e sarebbe stato sovvertito con la violenza.

    Nel corso degli anni Settanta i brigatisti rossi rapinarono banche, sequestrarono giudici e industriali, e contrabbandarono armi e droghe per finanziare le loro operazioni. Il movimento crebbe e diverse cellule delle BR si formarono anche a Roma, Genova e Venezia.

    Curcio fu arrestato nel settembre 1974 per il sequestro di un dirigente e fu condannato a diciotto anni di carcere. Ma Cagol e una banda di brigatisti riuscirono a farlo evadere nel febbraio 1975. Continuarono a operare in clandestinità e cominciarono a scrivere un documento strategico in cui accusarono la Democrazia Cristiana di essere nemica dello Stato.

    Tre settimane dopo Cagol rimase uccisa in uno scontro a fuoco con i Carabinieri durante un’incursione in un casolare in cui era tenuto prigioniero un industriale rapito. Dopo la morte di Cagol, le BR assassinarono Carabinieri, giudici e persino avvocati nominati per la difesa di alcuni brigatisti.

    Curcio fu arrestato nuovamente nel gennaio 1976 insieme ad altri quattro membri delle BR. Con la morte di Cagol e l’arresto di Curcio, ad assumere la direzione delle BR fu Mario Moretti, animatore di un collettivo politico ed ex studente all’Università Cattolica di Milano. La sua prima azione, dopo aver aderito alle BR nel 1971, era stata una rapina condotta insieme a Curcio. Nel 1976 Moretti si trasferì a Roma e divenne la mente del sequestro di Moro.

    Quando Moro fu rapito, Curcio e quindici membri delle Brigate Rosse erano in attesa di giudizio a Torino. Quattro giorni dopo il rapimento Curcio e i suoi compagni furono condotti in manette in tribunale per l’inizio del processo. Dalla gabbia di sicurezza, Curcio chiese di leggere una dichiarazione. Al rifiuto del giudice, i brigatisti cominciarono a urlare e in aula esplose il caos. Curcio gridò: Moro è nelle nostre mani!

    ***

    Dieci giorni dopo il sequestro di Moro, il sabato prima di Pasqua, le BR diffusero un secondo comunicato. Conteneva una serie di rimostranze contro la Democrazia Cristiana e una frase inquietante: è in corso l’interrogatorio ad Aldo Moro.

    La domenica di Pasqua, Moro scrisse una lettera a sua moglie, in cui diceva che stava abbastanza bene e che veniva nutrito e trattato con gentilezza. Concluse la lettera Vi benedico, invio tante cose care a tutti e un forte abbraccio.

    ***

    Nelle settimane seguenti, dalla prigione del popolo continuarono a essere diffusi clandestinamente i comunicati delle BR e le lettere di Moro alla famiglia, agli amici e ai colleghi della Democrazia Cristiana. Le lettere e i comunicati alimentarono i dibattiti in Parlamento e vennero pubblicati in prima pagina da tutti i quotidiani. Furono analizzati dai colleghi di Moro, dal Vaticano, da psicologi e giornalisti, oltre che da un consulente americano inviato da Washington, Steve Pieczenik, assistente del Sottosegretario di Stato ed esperto nella lotta al terrorismo. Alcuni, leggendo tra le righe, credevano che Moro fosse drogato, torturato e privato di cibo, sonno e cure mediche.

    Fin dall’inizio la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista adottarono la linea della fermezza rifiutando qualunque trattativa per il rilascio di Moro. La decisione fu sostenuta da buona parte dei mezzi d’informazione, che nel rifiuto di trattare videro una dimostrazione di forza da parte dello Stato.

    Alla metà di aprile, dato il prolungarsi della prigionia di Moro, su vari fronti si presero iniziative per rompere la linea dura dei politici. Tra questi vi furono tentativi del figlio di Moro, Giovanni, dei Boy Scout, di Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista, del Vaticano, del Segretario Generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim e di Amnesty International.

    Il 18 aprile, il settimo comunicato riportava la scioccante notizia della morte di Aldo Moro per suicidio, e informava che il suo corpo si trovava nel fondale limaccioso del Lago della Duchessa, in una remota località di montagna. Il documento si rivelò falso, ma solo dopo che duemila agenti e alpinisti muniti di scarponi da neve perlustrarono la zona e gli elicotteri Chinook calarono dei sommozzatori per perlustrare il lago ghiacciato in cerca del corpo di Moro.

    Due giorni dopo, fu recapitato il vero comunicato numero sette che smentiva il precedente. Al comunicato era acclusa una seconda Polaroid, in cui Moro teneva in mano l’edizione della Repubblica uscita il giorno prima con il titolo Moro assassinato?

    Il Messaggero uscì in una speciale edizione pomeridiana su cui campeggiava il titolo Moro è vivo.

    ***

    Nel mondo politico e nei mezzi di comunicazione si scatenò un dibattito animato sull’opportunità di negoziare il rilascio di un prigioniero per salvare Moro dall’agonia del sequestro. Molti credevano che il destino di Moro fosse già segnato a causa delle liti, delle indecisioni e dalle trame politiche dei suoi amici e nemici della DC e del PCI.

    In verità, il destino di Moro era segnato fin dal mattino in cui fu rapito in Via Fani.

    ***

    La mattina del 9 maggio, Aldo Moro poté fare una doccia o un bagno ma non si rase. Non fece colazione e indossò gli stessi abiti con cui era stato rapito: calzini blu scuro e una camicia bianca a righe blu con le sue iniziali sul taschino. Mise i gemelli, annodò la cravatta blu e bianca e indossò il completo blu scuro con le bretelle. Infine, calzò i mocassini. Inavvertitamente, mise i calzini alla rovescia.

    Il portafoglio, l’orologio da polso e il braccialetto furono messi in un sacchetto di plastica. Quattro membri delle BR lo accompagnarono in un garage dov’era parcheggiata una Renault 4 rossa. Gli ordinarono di infilarsi nel portabagagli. Moro rannicchiò il suo corpo alto quasi un metro e ottanta su una coperta beige.

    Moro fu ucciso con una raffica di undici colpi al petto sparati da una pistola calibro .32 con il silenziatore. Sette proiettili perforarono il polmone sinistro ma non colpirono il cuore. Moro morì per emorragia interna.

    ***

    Pochi minuti dopo mezzogiorno, un uomo entrò in una cabina telefonica alla Stazione Termini di Roma e infilò due gettoni nella fessura.

    La stazione era piena di turisti e uomini d’affari che viaggiavano come ogni giorno. La Polizia e i Carabinieri perlustravano la stazione, adocchiando sospettosi i senzatetto, i borseggiatori, i venditori di sigarette di contrabbando che tenevano i pacchetti in una scatola legata al collo, gli eroinomani che vagavano come zombie chiedendo spiccioli ai passanti e i trufffatori napoletani che invitavano i passanti a giocare al gioco delle tre carte.

    Era una calda giornata di primavera. Ma col passare delle ore una nube scura si sarebbe addensata sulla capitale, man mano che gli eventi la rendevano una delle giornate più tragiche nella storia millenaria di Roma.

    Alle 12:10 il professor Franco Tritto, amico e collega di Moro all’Università, rispose al telefono.

    Pronto, è il professor Franco Tritto?, chiese l’uomo alla Stazione Termini.

    Chi parla?

    Il dottor Nicolai.

    Chi Nicolai?

    È lei il professor Franco Tritto?

    [...]

    Sì, ma voglio sapere chi parla.

    Brigate Rosse... Ha capito?

    Sì. Il professor Tritto fu raggelato. Era la telefonata che non avrebbe mai voluto ricevere.

    Ecco, non posso stare molto al telefono. Quindi dovrebbe dire questa cosa alla famiglia. Dovrebbe andare personalmente, anche se il telefono ce l’ha sotto controllo non fa niente. Dovrebbe andare personalmente e dire questo. Adempiamo alle ultime volontà del Presidente, comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro.

    Ma che cosa dovrei fare?

    Mi sente?

    No, se può ripetere, per cortesia.

    No, non posso ripetere, guardi. Allora, lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in Via Caetani, che è la seconda traversa a destra di Via delle Botteghe Oscure.

    Via?

    Via Caetani. Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di targa sono N5.

    Il dottor Nicolai riagganciò e si confuse tra la folla della stazione Termini mentre le pantere della polizia, allertate dall’intercettazione telefonica, sfrecciavano verso la stazione. Ma le auto della polizia rimasero intrappolate nel traffico e quando arrivarono alla stazione Termini l’autore della telefonata si era già dileguato.

    Dopo qualche minuto, i dirigenti della DC e del PCI furono informati della telefonata. Quel mattino avevano discusso di un possibile scambio di prigionieri per liberare Moro.

    ***

    Poco prima dell’una, le strade intorno a Via Caetani pullulavano di poliziotti e carabinieri. Esponenti della DC e del PC uscirono dalle sedi dei partiti e corsero verso Via Caetani. Con raccapricciante precisione, la Renault era parcheggiata a metà strada tra la sede della DC in Piazza del Gesù e la sede del PCI in Via delle Botteghe Oscure. Lasciare il corpo di Moro in un luogo così simbolico era un macabro rimbrotto ai politici che avevano discusso per settimane se salvare il loro amico e collega.

    Il Ministro degli Interni Francesco Cossiga e il suo omologo del governo ombra, il comunista Ugo Pecchioli, ebbero il permesso di superare la zona di rispetto e recarsi con la polizia fino alla Renault.

    Quando la polizia guardò nel bagagliaio, vide un corpo coperto da un soprabito da cui sporgeva un ciuffo di capelli grigi. Il bagagliaio fu aperto e qualcuno sollevò il soprabito.

    Sotto c’era il corpo di Moro avvolto in una coperta beige. Le gambe erano piegate, il braccio sinistro posato sul petto, la schiena appoggiata a delle catene da neve. Gli occhi erano socchiusi.

    Un gesuita della chiesa di Piazza del Gesù, che conosceva Moro, attraversò il cordone della polizia e celebrò l’estrema unzione.

    ***

    L’autopsia rivelò che Moro non era stato torturato né legato, né gli erano state somministrate delle droghe. In una lettera a sua moglie, aveva affermato di non volere funerali di Stato. Moro fu sepolto il 10 maggio alla presenza dei familiari e di pochi amici intimi, al cimitero di San Tommaso Apostolo a Torrita Tiberina, un comune a nord di Roma dove la famiglia Moro aveva comprato una casa di campagna negli anni Cinquanta. Nelle sue mani stringeva un rosario di Papa Paolo VI, che era stato donato a Eleonora da un emissario del Vaticano.

    Capitolo Uno

    Milano, luglio 2011

    Per chi lo conosceva, Fabio Cecconi era un giovane dal futuro brillante. Era il tipo di persona di cui un giorno si sarebbe detto: Lo conoscevo quand’era giovane, prima che diventasse famoso e importante. Per me rappresenta l’Italia migliore.

    Fabio era intelligente, colto, garbato e attraente. Le persone lo stimavano e chiedevano sempre i suoi consigli. Quando parlava, tutti lo ascoltavano. Non faceva mai discorsi stupidi o inutili. Le ragazze se ne innamoravano, volevano sposarlo e sognavano di avere insieme a lui bellissimi bambini dalle maniere impeccabili.

    Eppure Fabio era una persona modesta, in gran parte grazie a sua madre che, rimasta vedova, aveva faticato per crescere lui e suo fratello maggiore, Luca, svolgendo i lavori più umili. Aveva lavato i bagni di altre famiglie, sfregato i loro pavimenti, cambiato i pannolini dei loro figli e pulito la sporcizia dei loro animali domestici. Sua madre gli aveva insegnato a essere giudizioso e a rispettare le leggi. Fabio non era mai finito nei guai, né era mai stato fermato dalla polizia e capitava di rado che prendesse una multa. Era un guidatore prudente, non superava i limiti di velocità e, nel tragitto dal suo piccolo appartamento milanese all’Università Statale, manteneva la calma anche nel traffico più caotico.

    Quando si era laureato con lode alla Statale di Milano, sua madre aveva versato lacrime di gioia. I professori e i compagni di studi gli avevano stretto la mano e battuto pacche sulla spalla, annunciandogli un futuro brillante come politico, docente o saggista. Avrebbe avuto successo in qualunque carriera avesse scelto.

    Lavorando alla Statale come assistente alla Facoltà di Scienze Politiche, Fabio aveva incontrato personaggi autorevoli: parlamentari, giornalisti, scrittori e dirigenti sindacali. Immaginava che un giorno sarebbe diventato un docente universitario, avrebbe scritto libri, tenuto conferenze, rilasciato interviste alla televisione e alla fine sarebbe stato eletto alla Camera dei Deputati. Credeva che il governo dovesse offrire ai cittadini una buona istruzione e una buona assistenza sanitaria, disporre norme di sicurezza sul lavoro e garantire a tutti una pensione decorosa. Era un uomo di sinistra. Voleva aiutare la gente. A che serviva la vita se non ad aiutare la gente?

    Il mondo di Fabio crollò il giorno in cui perse il posto di ricercatore universitario, nel maggio 2011. Era così abbattuto che cadde in depressione. Non aveva mai avuto inclinazioni spirituali, ma ora si sentiva ferito nell’anima.

    Per giorni, Fabio non fece altro che camminare per le strade di Milano, sorseggiare cappuccini nei caffè, passeggiare nel Parco Sempione, visitare la Pinacoteca di Brera e guardare film al cinema.

    Vagava da solo, distrutto dal licenziamento, incerto riguardo al proprio futuro e troppo imbarazzato per rivelare a qualcuno di essere disoccupato. Doveva inventarsi una vita nuova.

    Con tutto quel tempo libero, Fabio rimaneva sveglio fino a tardi e rileggeva libri di storia e politologia, o navigava in internet alla ricerca di informazioni sulla crisi politica ed economica che aveva colpito l’Europa dopo il 2008, quando le economie mondiali avevano sfiorato il collasso. Dopo qualche settimana, cominciò a rintracciare i suoi contatti importanti, dicendo loro che sarebbe diventato giornalista e avrebbe scritto articoli sulla politica e sulla crisi finanziaria del Paese. Li intervistava, prendeva appunti e discuteva i gravi problemi del momento.

    Parlando con Fabio, gli esperti del settore confessavano che le prospettive dell’economia italiana erano deprimenti, se non disperate. L’Italia era paralizzata. Non c’era una leadership finanziaria o politica; solo confusione e caos. Era un frangente rischioso, il momento più pericoloso dalla fine della Seconda guerra mondiale. I conflitti sociali erano dietro l’angolo.

    Dopo due mesi di letture, interviste e lunghe ore di solitudine, Fabio cominciò a decidere cosa fare del suo futuro. Le decisioni che prese erano molto più che audaci: erano radicali, implicavano scelte che non aveva mai preso in considerazione.

    Fabio riteneva che l’Italia fosse matura per un drastico cambiamento. Avendo studiato per anni le rivoluzioni di Francia, Russia, America, Cina e Cuba, sapeva che le insurrezioni erano guidate da visionari decisi a infrangere il sistema politico esistente per innescare mutamenti radicali. A mali estremi, estremi rimedi. La storia apparteneva a chi aveva il coraggio di operare cambiamenti risolutivi, anche a rischio di sacrificare la propria vita.

    Ma Fabio non poteva cambiare le cose da solo. Aveva bisogno di un gruppo di persone fidate che si unissero a lui. Avrebbe iniziato con una piccola cellula. Poteva ampliarla con l’andare del tempo, man mano che i suoi membri avessero rivelato la loro esistenza con azioni eclatanti: bombe strategiche, un omicidio politico e la presa di ostaggi. Quelle azioni avrebbero catturato l’attenzione del mondo intero. Gli italiani avrebbero capito che non dovevano più tollerare gli antichi mali della politica – corruzione, incompetenza e scandali – che avevano condannato a una vita miserevole milioni di persone: i giovani, i disoccupati, i poveri, i disabili e ora anche gli immigrati.

    Quando Fabio fu pronto a condividere il suo piano con persone fidate, il primo che contattò fu suo fratello maggiore, Luca, titolare di un’impresa edile un tempo prospera che era fallita dopo il 2008. Ora Luca era praticamente in bancarotta, ed era molto arrabbiato.

    Fabio riallacciò i rapporti con una sua ex fidanzata, Vera Pulvirenti, una modella siciliana che in passato era stata famosa. L’aveva conosciuta una sera in un bar, quand’era collassata tra le sue braccia per un miscuglio quasi letale di alcol e droghe. L’aveva portata a casa sua, le aveva preparato un caffè, le aveva fatto vomitare la mistura tossica e l’aveva tenuta sveglia fino a quando fu fuori pericolo.

    Era cominciata così una relazione appassionata di quattro anni in cui Vera, grazie a Fabio, aveva imparato molte cose sulla politica. Fabio, a sua volta, aveva imparato molte cose sul mondo della moda milanese, un mondo scintillante ma pieno di insidie, in cui ragazze vulnerabili cadevano preda di uomini rapaci, a cominciare da consulenti e manager senza scrupoli. Vera aveva chiuso la carriera di modella a ventidue anni, quando un terribile incidente in moto le aveva deturpato il viso.

    Negli ultimi tempi, al bar in cui aveva lavorato per integrare il magro stipendio da ricercatore, Fabio aveva incontrato Alfredo Gori, un esperto di demolizioni. Alfredo era un altro disoccupato pieno di rabbia, uno dei molti che Fabio conosceva.

    Con Luca, Vera e Alfredo, Fabio piantò i semi di un movimento estremista. Espose ai compagni le proprie opinioni sulla tremenda situazione economica e finanziaria e sul senso di disperazione dilagante. La disoccupazione tra i giovani laureati italiani sfiorava ormai il trenta per cento. Molti erano costretti a vivere con i genitori mentre cercavano invano un impiego. Migliaia di piccole imprese erano state costrette a chiudere e, quando il governo aveva smesso di onorare i contratti, diversi imprenditori si erano tolti la vita.

    Fabio aveva parlato prima con Luca, poi con Vera e infine con Alfredo, e aveva posto a ciascuno di loro una domanda: Ti uniresti a un gruppo che cambierà radicalmente la politica del Paese, anche se implicasse il ricorso alla violenza?

    Luca aveva alzato una mazza e aveva spaccato un blocco di cemento, che si era frantumato scagliando pezzi di pietra e calcestruzzo in tutto il cortile del suo magazzino. Ecco cosa farei a questo governo! fu la risposta di Luca.

    Quando Fabio l’aveva chiesto a Vera, lei aveva atteggiato le dita a simulare una pistola per puntarla contro il televisore, dove un conduttore stava intervistando un parlamentare coinvolto in uno scandalo. Gli sparerei in mezzo agli occhi e starei a guardarlo mentre se ne sta lì a terra a sanguinare e a contorcersi come un serpente, finché schiatta.

    Alla domanda di Fabio, Alfredo aveva sorriso dicendo: Ti ho mai parlato delle armi e degli esplosivi che ho rubato all’esercito prima che mi facessero fuori? Ero sottufficiale in Albania, facevo parte di un’unità di rilevazione di esplosivi e mine da terra.

    ***

    Fabio non vedeva suo zio Gino dal mese di marzo, quando era andato a trovarlo per il suo sessantaquattresimo compleanno nella casa di cura che lo ospitava, qualche decina di chilometri a nord di Milano. Gino aveva militato nelle Brigate Rosse e, dopo l’assassinio di Moro nel 1978, era stato arrestato e incarcerato.

    Una domenica di luglio, in un caldo pomeriggio, Fabio prese in prestito l’auto di suo fratello e si diresse verso Cesano Maderno per andare trovare lo zio Gino. Fuori da Cesano Maderno, Fabio percorse una stretta strada asfaltata in una zona rurale punteggiata da campi arati e fattorie. Arrivato a un boschetto di cipressi, svoltò in un ombroso vialetto di ghiaia e attraversò un tratto di campagna in cui il vento caldo agitava le fronde

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1