Glenvion :La Matrice Vol 1
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About this ebook
Cosa si cela nel sangue di Patrich Martens? Quale oscuro segreto custodisce la sua memoria? La misteriosa morte del padre, quell'emblema che alla mente torna; tutto questo lo conduce in Belgio, alla sua città natale e qui la sua incredibile avventura ha inizio. Alcuni individui lo cercano con insistenza, lo bramano per qualche oscuro motivo. Un'antico ordine invece lo segue nell'ombra, lo protegge da una minaccia di cui è egli stesso, a sua insaputa, la causa. Questi cercheranno di salvarlo e condurlo al suo destino: una realtà incredibile, una verità celata da secoli che a pochissimi eletti è concessa e di cui egli è l'ultimo custode.
Glenvion: La matrice è il primo volume dell'omonima saga.
Altre opere dell'autore
Hell Kaiser Saga Vol.1 Lorian: L'alleanza dei Caduti
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Glenvion :La Matrice Vol 1 - Alessandro Falzani
Glenvion Vol.2 La Prigione di Sefrin
Hell Kaiser Vol. 1 Lorian L’alleanza dei caduti
Hell Kaiser Vol. 2 Baal L'apocalisse di Salomone
Pactum Sigilli
Memoria (Racconto Breve)
"Chi salva una vita salva il mondo intero"
Schindler’s List, 1993
Copyright text 2014 Alessandro Falzani
Copyright cover illustration 2014 Alessandro Falzani
All rights reserved.
Glenvion Vol. 1
LA MATRICE
Alessandro Falzani
Prologo
Mechelen, Belgio. Anno 1569
Terra intrisa di sangue, brandelli di carne, una moltitudine di cadaveri. Tutti i cavalieri sono caduti, eccetto tre. Spalla a spalla fronteggiano gli ultimi nemici, le loro spade ormai pesanti si levano a fatica e li difendono con rabbia da uomini meschini e avidi di potere. Con una resistenza disperata si tengono ancora in vita, lo sforzo tuttavia è immenso, troppe le perdite e il nemico più forte del previsto. La chimera, il motivo per cui l’ordine è stato fondato, si sta ora dileguando davanti ai loro occhi. In lontananza alcuni uomini fuggono; guadano il piccolo fiume sostenendo il prezioso carico in quattro, forse cinque: questo è inerme, impassibile, incapace, forse, di opporsi al proprio fato. A poco a poco scompare alla loro vista, tuttavia il suo bagliore, la luce dorata persiste per alcuni minuti, lasciando una scia che il loro sguardo possa seguire. Quella scena si imprime nelle loro menti, ancorandosi all’amarezza del fallimento, mai la dimenticheranno. L’ultimo dei nemici ora cade sotto la lama di Carlo Quinto, mentre Filippo e Francesco Maria si abbandonano, logori dalla fatica, ripongono la fiducia nel loro compagno, alla cui forza affidano l’ultima estenuante difesa. Ormai non si ode più il sibilo delle lame che fendono l’aria, la morte ha portato il silenzio.
«Carlo, placa la tua ira, ormai è finita, l’hanno preso!» urla una voce sofferente alle sue spalle.
L’imperatore estrae la spada dal torace dell’ultimo uomo ormai a terra, le gambe instabili per la stanchezza, ansimante si volta con fatica.
«Filippo, non abbiamo perso solo quello, guardati intorno! Tutti questi giovani, le loro speranze, li abbiamo delusi e hanno pagato con la loro vita. Non doveva accadere, eravamo così vicini, potevamo finalmente riprenderlo.»
Si lascia cadere a terra, accanto a lui il corpo esanime di un ragazzo, ne accarezza il volto ormai gelido, non ne conosce il nome ma gli basta sapere che combatteva al suo fianco.
«Abbiamo sbagliato ancora, per l’ennesima volta. Possibile che il destino ci abbia voltato le spalle? Eppure per giusta causa combattiamo, per il bene comune stiamo sacrificando innumerevoli vite. Che la nostra forza non sia sufficiente? No, non oso crederlo» insinua con voce tremolante Filippo.
Francesco Maria, il più provato tra i tre sopravvissuti abbandona il capo ormai pesante sulla spalla di un suo seguace, quasi voglia rincuorarlo e scusarsi con lui, quindi risponde alle perplessità dei compagni.
«Voi, uomini dal talento e forza straordinari, perché vi compiangete? Tu, grande Carlo Quinto, ti rendi conto di quale sia il tuo potere e quale vasto impero governi? E tu, Filippo di Borgogna, hai fondato quest’ordine e ci hai resi partecipi di un miracolo. Sappiamo di cosa sono capaci persone come noi e se facciamo uso delle nostre virtù nel giusto, nessuno e niente può fermarci, nemmeno al destino è concesso di opporsi.»
Si solleva, il suo contributo in guerra non è stato all’altezza delle aspettative e di ciò prova immensa vergogna, tuttavia del tesoro non tutto è stato perduto. Alcuni frammenti sono sparsi a terra, li osserva intensamente, guarda Filippo e con passi pesanti gli si fa incontro.
«Ascoltate, io sono il solo responsabile della disfatta, lo so. Il mio compito era di fornire armi resistenti ed efficaci, ma come abbiamo visto, i nostri avversari erano ben più corazzati di noi. Non è stato il destino a voltarci le spalle, né la natura ci è contro, dato che la nostra vita si sta protraendo oltre il volere del buon Dio. La nostra è mancanza di esperienza, per questo compito abbiamo bisogno di tempo e di prepararci meglio. Che questa sconfitta ci serva da monito.»
Francesco rovista tra i corpi, il suo sguardo cerca qualcuno in particolare che durante lo scontro gli era vicino, esamina il tappeto di corpi su cui delicatamente pone i piedi, infine si arresta, cambia direzione e lo raggiunge. Un uomo dal volto irriconoscibile giace privo di vita, una sacca al collo. Francesco si sente mozzare il fiato; il giovane la stringeva con le braccia, nemmeno dopo morto l’avrebbe lasciata ai nemici, quasi fosse il tesoro della sua vita. Con solennità e rispetto allarga le braccia del cadavere, ponendole a terra. Apre la sacca e ne estrae fogli di pergamena arrotolati, si lascia scivolare sulle gambe sedendogli accanto.
«Che sia messa agli annali anche questa nefasta giornata. La nostra è stata una grande disfatta eppure anche oggi aggiungiamo un nuovo tassello alla conoscenza di cui tanto abbiamo bisogno.»
Quindi apre i fogli disponendoli sul corpo ed inizia ad annotare qualcosa sull’unico che sembra ancora vergine di inchiostro.
Poco distante si percepisce un lamento di donna. Carlo trova la forza di sollevarsi, sebbene cerchi di analizzare le parole di Francesco, la sua mente porta l’attenzione alle sue spalle. Si dirige verso il corpo agonizzante facendo attenzione di non calpestare nessun cadavere, la raggiunge e vede che un profondo squarcio le trapassa il ventre. La donna lo cerca con lo sguardo. Soffici capelli rossi le nascondono il viso, seppur sudici le conferiscono una bellezza straordinaria. Gli occhi di un castano scuro, profondi e tristi. Carlo si inginocchia nuovamente, le lacrime si mischiano al sudore e si perdono nella folta barba, prende la mano della donna.
«Come ti chiami? Perché sei qui anche tu, chi ti ha ordinato di combattere?»
La donna raccoglie le ultime energie, aspetta che Carlo avvicini l’orecchio alla sua bocca, infine sussurra «Filippo mi ha reclutata, ma…la scelta è stata solo mia, volevo combattere. Le virtù che abbiamo non possono essere trascurate…salvare la gente dal male è quanto di più bello ci sia e l’unico motivo per cui valga la pena morire.»
Quel momento, le parole e lo sguardo compassionevole e non corroso dall’odio, si imprimono in maniera indelebile nell’animo di Carlo.
«Il tuo nome, donna, devo saperlo» chiede ancora l’altro.
«Il mio nome è Glenn Teodor… grande imperatore.»
La mano della donna lentamente allenta la presa. Prima che questa possa abbandonarlo la fissa negli occhi.
«Glenn… Teodor, io ti prometto che il tuo sacrificio non sarà vano. Non ho mai visto una donna combattere e morire con questi ideali, non posso e non voglio dimenticarti, così come ricorderò ciascuno di questi cavalieri morti con le tue e le mie stesse convinzioni. Dammi la forza Glenn, dammi la forza per continuare, perché non morirò, nemmeno tra cento anni, io non morirò se il tuo volere, il nostro destino non sarà compiuto. È la mia promessa, Glenn Teodor, la promessa dell’imperatore Carlo Quinto.»
La donna risponde, sostiene il suo sguardo sino a che gli occhi le si chiudono, un leggero sorriso le si ferma sul volto, il dorso della candida mano accarezza la terra.
Capitolo Uno
Il suono della sveglia era insopportabile, assopito nel tepore delle coperte non aveva proprio voglia di alzarsi. Aprì a fatica una palpebra, mise a fuoco e lesse l’ora: sei e trenta. Sapeva di non poter tardare neanche un attimo, il capo lo aspettava solo un’ora più tardi pronto e lucido. Puntuale come la sveglia arrivava la chiamata della madre: «Patrich! Dai!»
Ripensò per un attimo a quante volte aveva sentito quella frase da quando aveva iniziato a lavorare, erano trascorsi esattamente due anni e quattro mesi. Ora sorrideva all’idea ma le prime settimane non riusciva proprio a reggere quei ritmi. In fondo andava compreso, sino a poco prima la vita da studente era tutt’altra cosa e l’idea di alzarsi così di buon ora non lo avrebbe nemmeno sfiorato, ma dopo la disgrazia tutto era diverso, aveva cambiato vita, si era rimboccato le maniche per aiutare la madre, ora tutto era mutato.
«Mamma non salire, ti ho sentito, scendo, scendo!»
Era l’unica frase che poteva arrestare l’arrivo di Teresa. Fece un sospiro, scansò le coperte e di scatto poggiò i piedi a terra. Un lieve brivido di freddo lo percorse, subito la sua attenzione si diresse verso la finestra, l’orecchio si concentrò sui rumori provenienti dall’esterno, si udiva un leggero crepitio.
«Cazzo! Piove anche oggi!» scosse la testa e si diresse all’armadio di fronte, scelse un paio di pantaloni pesanti rinforzati sulle ginocchia e una maglietta di cotone a maniche lunghe; abiti ingombranti gli rendevano difficile muoversi in cantiere ma portare un giubbotto imbottito aiutava quando il freddo era troppo penetrante. Prese gli scarponi che si trovavano appena fuori dalla stanza e li allacciò saldamente.
«Patrich, la colazione!» urlò Teresa che iniziava a spazientirsi.
Questa volta il ragazzo non rispose, uscì in fretta dal bagno, uno sguardo a quella maledetta sveglia, le sette meno cinque minuti. Prese il giubbotto, prima di uscire osservò alcuni secondi la foto appesa alla parete sulla testiera del letto «Buona giornata anche a te, papà.» Scese in fretta le scale, ad aspettarlo c’era lei, sempre, ogni giorno alla stessa ora. Il grembiule bianco candido ben stretto in vita a risaltarne la silhouette, i lunghi capelli raccolti in una semplice coda, una mano sul fianco destro in segno di attesa, con la sinistra spostò la sedia, sul tavolo una tazzina di caffè fumante e un pacco di biscotti al cioccolato, i preferiti di Patrich.
«Allora dormiglione vuoi che il tuo capo venga a prenderti a casa anche stamattina? Guarda che non invento più cavolate per pararti il sedere, la mattina devi scattare!»
«Buongiorno anche a te mamma! Sai che stai davvero bene con quel grembiulino!»
«Guarda che non funziona e adesso siediti, fai colazione e oggi compra qualcosa da mangiare, se scopro che fai digiuno ti prendo a calci!» sbottò la madre, cedendo ad un lieve sorriso durante il richiamo.
Patrich bevve il caffè e prese un solo biscotto, a quel punto sapeva che la madre avrebbe taciuto; la confezione doveva bastare almeno una settimana e non potevano comprarne altri. Si alzò dal tavolo, le stampò un bacio sulla guancia e uscì, socchiudendo lentamente la porta. Prese la bici ma prima di immettersi sulla strada tornò indietro e sbirciò dalla finestra; la madre era seduta al tavolo con il viso tra le mani. Distolse lo sguardo serrando le labbra e iniziò a pedalare, aveva solo quindici minuti.
«Ciao moccioso!» fece una voce forte proveniente dall’ufficio.
Appoggiò la bici vicino al cancello, la legò con catena e lucchetto quindi entrò.
«Ciao capo! Dove si va oggi?»
Il volto di Roberto si fece stranamente serio, si alzò dal tavolo dirigendosi verso il giovane, gli diede una pacca sulla spalla e disse semplicemente «Ragazzino, purtroppo abbiamo poche commesse e credo te ne sarai accorto, Lucio finirà un lavoro da poco in centro; si tratta di allacciare un grosso serbatoio d’acqua di riserva per un condominio, mi ha detto che può fare da solo e che non gli servi, quindi. . . ecco. . . non posso farlo stare a casa, ha moglie e un figlio e per i prossimi mesi non ci sono grossi programmi di lavoro…»
«Vuoi licenziarmi? È questo che mi stai dicendo?»
«Credimi Patrich, sei davvero un tipo sveglio e diventerai un idraulico in gamba, ma al momento non posso permettermi due operai, ho anch’io famiglia e sono in difficoltà! Però. . . se dovessi di nuovo aver bisogno…»
«Lascia stare Roberto, non serve che dici altro, anche io ho notato che il lavoro è diminuito e che c’è poco da fare, ma non immaginavo che mi avresti licenziato. Però va bene uguale, tranquillo.»
Si voltò verso l’uscio, la pioggia si era attenuata parecchio, fissò lo sguardo su un punto del pavimento, il pensiero rivolto alla madre. Cosa poteva dirle? La loro situazione economica era grave, lui era l’unico ad avere un lavoro mentre i suoi nonni non potevano aiutarli; vivere a Modena non era semplice, tutto costava caro e la loro pensione era misera, in fondo facevano già troppo: condividere la casa senza chiedere nulla in cambio era una fortuna ma uno stipendio era indispensabile, per di più lui era il solo che in famiglia poteva lavorare.
«Comunque ragazzo, passa domani per l’ultimo stipendio, so bene in che situazione è la tua famiglia e di certo non voglio peggiorarla.»
Patrich osservava l’uomo e lo vedeva sinceramente addolorato, davvero non vi era altra scelta, il licenziamento, sofferto e meditato, per questo non riusciva ad odiarlo. Gli rivolse un sorriso forzato ma gli occhi erano veri, tranquilli, senza risentimento: «Ok, allora ci vediamo domani.»
Impugnò il manubrio della bici, si accomodò sul sellino, tolse catena e lucchetto mentre Roberto gli si avvicinò sotto la leggera pioggia, incurante di bagnarsi «Sei davvero un bravo ragazzo, vedrai, farai grandi cose. La tua gentilezza e premura verso gli altri sono la tua forza, in bocca al lupo, Patrich!»
Il ragazzo accennò un flebile sorriso, si voltò, iniziando a pedalare lentamente sotto la pioggia.
Capitolo due
«Teresa, per cortesia non riesco più a vederti così. Ti prego, riprenditi!»
«Oh, mamma, ben svegliata. No, non preoccuparti, non è nulla. Sai come sono fatta e poi è questo tempo che mi mette un po’ di malinconia, qui da voi piove quasi sempre!»
«Mah, per quel che ricordo in Belgio non è molto diverso!»
L’anziana donna lentamente si accomodava al tavolo iniziando a sgranocchiare un biscotto. Teresa sorrise, sua madre era dotata di una straordinaria capacità di metterla di buon umore, seppur il tono dei suoi discorsi era sempre molto serio.
«Si, mamma. Hai ragione, scusami. Cerca di non farci caso, io…io non riesco a dimenticarlo, proprio non ci riesco.»
«Lo so figlia mia, lo so. Non ti sto chiedendo di dimenticarlo, sarebbe come morire una seconda volta, ma hai un figlio che ha bisogno di te e tu di lui, Patrich non sopporta di vederti angosciata, soffre per Marc come te. Tutti noi sentiamo la sua mancanza. La vita va avanti, deve essere così. Ma non è la sua morte a turbarti, vero? Tu non sei ancora convinta che si sia suicidato, non è così?»
Il volto di Teresa si contrasse, fissò lo sguardo in quello della madre che più di ogni altra persona ne sapeva leggere i pensieri e scosse la testa ripetutamente, quindi dando sfogo alla sua frustrazione alzò il tono di voce, incurante del padre che ancora dormiva «No, mamma, no e ancora no! Sono sicura che è stato ucciso ma per quanto cerchi un motivo, una seppur minima spiegazione logica non riesco a trovarla. Era soltanto un professore universitario con una grande passione per la medicina, amava me e Patrich in modo smisurato e sognava per il figlio un futuro come il suo, anche migliore e invece… invece si ritrova a fare l’operaio, in una città che non è la sua, in una casa che non è sua e in un paese non suo! Il padre è morto e non sa perché. Io invece sento che l’hanno ammazzato. Tu non c’eri ma io l’ho visto, non si spara in testa un uomo con quello sguardo negli occhi. Lui era consapevole, quasi guardasse qualcuno, lo stava aspettando!»
«Smettila Teresa, non urlare, non serve a nulla» la richiamò la madre tenendola forte per mano. «Tu non credi al suicidio per via di quelle analisi che avete fatto fare a Patrich, è inutile che ci giriamo intorno, da allora non ti ho chiesto più niente ma ora diamine, dimmi come stanno le cose!»
«Si, si, è così e allora? Non ci vedo nulla di strano.» Teresa si alzò dal tavolo, le fece cenno di attenderla seduta e salì al piano superiore; entrò nella sua stanza e sotto il materasso prese una grossa busta che all’apparenza doveva contenere parecchi fogli, quindi scese in fretta le scale e tornò a sedersi, ma questa volta la presenza di un uomo anziano la sorprese.
Egli la fissava. Riccardo non aveva l’aspetto di una persona che si fosse appena svegliata, si voltò verso il tavolo e si sedette accanto alla moglie, le appoggiò delicatamente le labbra sulla guancia e sussurrò «Buon dì Matilde», per poi sorriderle.
«Buon dì Riccardino» rispose lei con lo stesso sorriso.
Teresa li guardò con aria innamorata, dopo quarantatré anni di matrimonio si cercavano come il primo giorno, si rispettavano. Tuttavia con lei era sempre stato duro, nonostante fosse figlia unica la sua educazione era stata molto rigida e il padre esigeva ancora oggi rispetto. Per tali ragioni tra loro si ergeva una barriera di incomprensioni, difficile da abbattere, ma dopo due anni e mezzo di convivenza la situazione sembrava essersi attenuata. Nonostante ciò vi era una cosa sola che Riccardo non tollerava, ovvero che si alzasse la voce in casa, soprattutto se era una figlia a farlo.
«Buon. . . dì. . . papà.»
«Buondì,