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Il Viale
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Il Viale

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Una ragazza in abiti succinti che danza davanti a una finestra illuminata distrae Francis Copeland dal suo mondo di libri. Francis, ormai maturo, con una moglie e un matrimonio arrivato a un punto morto, fantastica riguardo alla ragazza e trova difficile accettare quanto scopre in seguito, cioè che è Judy, ballerina in un locale pubblico. Il mondo segreto del viale si svela a Francis. Chi è Myrtle, sua moglie? (Va davvero al bingo tutti i martedì sera?) Non la conosce. Chi sono i veri genitori di Freddy, un bambino che cresce per strada? Chi era il vicino la cui automobile ha ucciso la madre di Francis quando lui aveva dodici anni? Affiorano crude verità, mentre Francis, con l’aiuto dei bambini del quartiere, a poco a poco scopre i segreti del viale.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateJan 27, 2015
ISBN9781633392656
Il Viale

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    Il Viale - James Lawless

    Chi non ha casa adesso, non l’avrà

    Chi è solo a lungo solo dovrà stare

    Leggere nelle veglie, e lunghi fogli

    Scrivere, e incerto sulle vie tornare,

    Dove nell’aria fluttuano le foglie.

    Da Giorno d’autunno di Rainer Maria Rilke

    (traduzione di Giame Pintor)

    Prefazione dell’autore

    La genesi di Il viale

    Quando avevo sei anni, la mia famiglia si trasferì dai Liberties di Dublino ai sobborghi di Walkinstown, quindi in un certo senso Il viale è la continuazione cronologica di Peeling Oranges, il mio primo romanzo, e rappresenta la mia risposta al mito dei sobborghi come una panacea per tutti i mali della società. La storia si propone essenzialmente di descrivere la degenerazione delle periferie. La mia famiglia, come moltissime altre, si trasferì nei paesini della cintura in cerca di «spazi aperti e aria fresca» (da bambino soffrivo d’asma). Tuttavia, nel trasferirci, senza nemmeno rendercene conto ci lasciammo alle spalle un mondo sicuro, con un forte senso della collettività, entrando invece in un’anonima massa umana senza regole e con relazioni sociali ridotte al minimo. Quando la tigre celtica colpì, gli spazi aperti si riempirono: la popolazione aumentò, gli emigrati tornarono, le automobili si moltiplicarono e la congestione del traffico, un tempo presente solo nel centro cittadino da cui per l’appunto la gente era fuggita, divenne un elemento essenziale della vita dei pendolari tra i sobborghi e la città. Ma non venne prestata grande attenzione ai cambiamenti sociali che ne conseguirono: gli ingorghi perenni, il rumore, la devastazione di quelle che un tempo erano le collettività per costruire superstrade che agevolassero l’afflusso dei pendolari provenienti dai sobborghi, le famiglie con entrambi i genitori che lavorano, i bambini con le chiavi di casa, i nuovi paesaggi di macerie industriali: i preservativi usati, i boccioni di sidro, le lattine di  birra e ovviamente la letale cultura della droga. L’urlo esplodeva di continuo attraverso i graffiti, sempre più numerosi, sui muri delle periferie. Ma i potenti non volevano sentire.

    Ma il romanzo non è soltanto cupezza. Sebbene, come ho detto, lo si possa leggere come un quadro della degenerazione suburbana, nonostante le calamità, a essa si affianca una storia di rigenerazione umana, soprattutto nei personaggi di Francis e Michael e persino, quasi in modo contraddittorio, in quello del padre di Francis. Avevo l’intenzione di utilizzare il viale come una rete a strascico per squarciare l’anonimato di una terra brulla. A me il viale dà la stessa percezione che un’altra persona avrebbe di un villaggio rurale: piccolo, concentrato su se stesso, con un passato occulto e dei segreti, un crocevia, se volete, dove i personaggi vivono intrappolati e di conseguenza hanno rapporti (che ne siano coscienti o no) quasi incestuosi. O, per usare l’espressione della vicina della vecchia villetta di Francis, la signora Dempsey «il viale si prendeva cura di se stesso».

    Autunno. Il momento per spogliarsi. Gli americani lo chiamano fall, caduta, ma per la maggior parte le foglie, seppure rossastre e di un bel colore dorato, sono ancora sugli alberi. Il viale trattiene gli avanzi dell’estate, con i bambini che giocano sino a tardi, i vicini che tosano i prati o assorbono l’ultima luce del sole sulla porta delle loro verande; ancora non si gela.

    Mi allontano dalla finestra dello studio ed entro in camera, dove continuo a leggere Il nome della rosa di Umberto Eco. Adso ha incontrato la bella e terribile fanciulla ma, dopo averla conosciuta, ha compreso l’abisso. So esattamente a che cosa fa riferimento Adso. Leggo molto. Ho sempre letto, da quando mia madre è morta, parecchio tempo fa. Mi porto sempre dietro una storia dentro la testa: mi dà un universo che posso controllare, che posso far cessare in qualsiasi momento chiudendo di colpo la copertina. È stata lei a iniziarmi quando ero piccolo e le stavo in braccio, mostrandomi le figure dei libri illustrati, mettendo parole dove non c’erano parole, e poi chiedendomi di dirle che cosa vedevo nella figura per creare una storia. Io inventavo racconti di cavalieri e principi con l’armatura che difendevano damigelle in pericolo. E avevo la consolazione di sapere che, alla fine, lei era sempre lì, per quanto difficile o spaventosa fosse stata l’avventura.

    Ma c’è un’altra ragione per cui mi rifugio di frequente nel mio studio. Riguarda Myrtle, mia moglie, che mi tiranneggia sempre (e talvolta va anche oltre). Quindi ogni volta che posso mi levo di torno, mi installo dietro alla copertina di un libro e vivo, anche se provvisoriamente, tutti i ghiribizzi della vita senza le sue manchevolezze. Il libro è la mia unica affermazione nel mondo, a differenza di Myrtle e della sua amica Ida, che si alimentano a vicenda e danno per scontata l’affermazione reciproca mentre fanno a pezzi il nemico comune con la sciabola delle loro lingue. Inutile specificare che il nemico sono io, almeno in parte, poiché per loro è un nemico chiunque abbia un’appendice penzolante tra le gambe.

    Sogno a occhi aperti, più come un adolescente disorientato che come un uomo del tutto adulto.

    Chiudere la porta dello studio funziona come un dolby per attutire gli ordini stentorei impartiti da Myrtle di mettere fuori la spazzatura o portare dentro i panni, o ancora guardare lo stato di questo e lo stato di quello. Myrtle raccoglie proclami e commenti come una faretra di frecce, e li scocca in rapida successione prima di sbattere la porta di ingresso, come fa immancabilmente, e andare da Ida, con cui trascorre la maggior parte delle serate.

    La finestra dello studio dà sul giardino, sul retro della casa. Sta scendendo il crepuscolo, e le foglie hanno un aspetto dolente. Nonostante il giardino sia piuttosto piccolo, ci sono molti cespugli e alcuni alberi, soprattutto decidui. Sotto il ligustro accanto al capanno c’è un pallone di plastica seminascosto (lo scorgo appena). Spira una brezza che fa fremere appena le foglie, tentando di provocarne la caduta precoce.

    Un tempo curavo il giardino, ma ora mi interessa poco, dopo quello che è capitato al mio ginocchio. Non posso più inginocchiarmi. Papà diceva (nei suoi momenti di lucidità) che il giardinaggio è come la preghiera, non si può fare per bene senza inginocchiarsi. E ripeteva spesso con discreta freddezza: «Un giardiniere che non può inginocchiarsi è come un cavallo che non può correre. O gli spari o lo mandi a pascolare». Ecco quel che diceva mio padre, e io mi chiedevo che cosa intendesse con il verbo pascolare, ma tutto sommato doveva saperlo, dopo avere lavorato per tutta la vita a curare i prati. Bene, a me ormai è proibito calpestare l’erba, se così si può dire. Non mi manca, intendo il lavoro. Mi piace ancora guardare le piante e gli alberi, ma quando Myrtle si lamenta per le aiuole scompigliate o le erbacce che soffocano le piante annue, ho la risposta pronta. Diserbare è di certo una delle attività più futili che esistano: rimuovi qualcosa dalla terra, e torna a tormentarti a capriccio del cielo, perché ogniqualvolta decide di mandare qualche raggio di sole o un po’ di pioggia l’erbaccia che pensavi di avere strangolato rialza subito la testa. «E guarda mio padre» ho detto a Myrtle. «Ha curato giardini per tutta la vita, e a che pro?». Ma poi mi sento in colpa per aver usato mio padre al semplice scopo di difendere le mie posizioni.

    La verità vera è che potrei ancora fare uno sforzo, intendo per occuparmi delle piante, ma che senso ha coltivare un giardino se si è lontanissimi dall’Eden? Quindi uso il ginocchio come scusa. È una questione legata alla slealtà delle rose. È quello che ho detto a papà quando, trovandomi sdraiato in una pozza di sangue sul pavimento del soggiorno, mi ha chiesto che cosa fosse successo. Non ho voluto aggiungere altro. Soltanto un incidente, ho detto quando ha insistito.

    Talvolta penso al sonno come all’anestesia, e questo mi fa paura. È il motivo per cui tengo sempre un bicchiere d’acqua accanto al letto. È come se avessi paura di qualcosa che sta per togliermi il respiro. Dipende dal mio ginocchio. Non ho mai voluto ammettere che era stata Myrtle, in realtà non è una cosa virile da ammettere, credo, intendo una donna che picchia un uomo. Ma lo ha fatto, eccome. Era nei primi tempi, mi ricordo che stavo portando la mia tazza e il mio piatto nel lavandino. Lei era di cattivo umore: aveva litigato con Ida. In quel momento aveva il tavolo da stiro aperto, occupava tutta la cucina, e arretrando mi ha scontrato (era sempre più tonda) facendo cadere dal piatto la tazza che si è rotta sul pavimento. «Raccoglila» ha detto. «Raccoglila tu» ho ribattuto io. Non era la prima volta che le resistevo. Cominciavo a conoscere i suoi modi di fare. Ma quella volta era livida. Quindi sono andato in soggiorno per lasciare che le sbollisse la furia, mi sono seduto sul divano e ho cominciato a leggere un libro. Lei mi ha seguito con il ferro. Non avevo mai visto prima una donna infuriata. Schiumava dalla bocca, mi ha colpito il ginocchio destro con il ferro e ha continuato a percuoterlo finché la rotula non era a pezzettini.

    Dopo l’anestesia mi sono svegliato troppo presto. Una sensazione terribile. La nausea. Sapevo soltanto che dovevo uscire di lì, prendere aria. Mi sono ricordato di quando avevo quattro o cinque anni e mi diedero il gas per togliermi le tonsille. All’epoca avevo l’asma. Mi ripetevano sempre di chiudere la bocca. Mia madre e i maestri mi dicevano che stare con la bocca aperta era da imbecilli, ma io non riuscivo a immaginare la connessione tra la bocca e il cervello. Cioè, pensate agli occhi aperti, alle mani aperte, alle orecchie aperte; non c’era alcun tabù associato a essi, soltanto alla bocca. Forse è per questo che non riuscivo a respirare dalla bocca, quando era importante. Quando mi misero la mascherina sulla faccia nessuno mi disse di respirare dalla bocca. Mi battei contro l’etere come se stessi lottando per la vita, mentre lo inalavo dalle narici, l’odore soverchiante si insediò permanentemente da qualche parte dentro al mio naso, ed emerge ogni volta che mi avvicino a un ospedale.

    È per questo motivo, credo, che dopo l’operazione al ginocchio persi la testa e dovetti uscire. Diedi a un ragazzo la bottiglia di Lucozade di Myrtle perché mi allacciasse le scarpe... oh, sì, Myrtle mi aveva portato il Lucozade e della grossa uva nera. Il ragazzo mi aiutò ad appoggiarmi alla stampella, e io mi trascinai fino alla porta a spinta; non c’era nessuno per fermarmi, ricordo che la nausea era peggio del dolore e sentire sulla faccia il freddo della notte mi fece piacere. Ma finii in un vicolo cieco dove c’era una vecchia con uno scialle seduta in una pozzanghera di acqua piovana con la sua bottiglia di porter, e compresi che l’unica cosa che potessi fare era tornare indietro.

    Non che fossi un fifone, a scuola mi era fatto rispettare dai bulletti. No, solo che quello era territorio inesplorato. Grazie a mia madre veneravo le donne. Il modo di agire di Myrtle non rientrava nel mio copione. Non avrei mai potuto metterle le mani addosso, non per paura, ma per rispetto del suo sesso. E Myrtle ne era consapevole. Non sapevo come reagire, ecco tutto.

    Quindi tutto quello che riuscivo a fare era fissarla impotente mentre chiacchierava, come se se non mi fosse successo niente, come se tutto andasse bene, e lei chiacchierava con l’infermiera e gli altri pazienti, diceva che era una brutta caduta ruzzolare giù per la collina e finire su una pietra appuntita come mi era capitato, e poi mi lisciava i guanciali da brava mogliettina.

    È martedì sera e Myrtle mi grida che sta andando da Ida. Ida Hourigan, nubile, con i suoi fianchi da ragazzino e il petto piatto; fuma i sigari e cammina spedita ed eretta nei jeans attillati, senza il lungo passo ondeggiante caratteristico della maggior parte delle donne. Sua madre era di Londra. Lei ha sposato un imprenditore edile di Dublino e sono venuti qui per sfuggire al blitz. Ricordo mio padre, che durante la guerra è stato in Inghilterra per un breve periodo, parlare di lei e dei suoi racconti sui bombardamenti. C’era stato anche qualche accenno a una sorella a Liverpool. Ida è una delle tipe più toste del viale. Quando Myrtle è nei paraggi non la passo liscia se dico qualcosa di negativo su di lei. Martedì sera è la sera del bingo, Myrtle e Ida non saltano mai una settimana, o almeno lo sostengono. Cioè, non ci ho mai pensato prima. Presumo semplicemente che sia lì che vanno. Vedi le donne con indosso il cappotto, il foulard e la borsetta che camminano per il viale ogni martedì sera a venti alle otto. Saint Anthony’s Hall, che nome per una sala da bingo, come se il santo potesse trovare i soldi per loro. Chiama i numeri, invoca il santo e bingo! Non che io veda mai le vincite di Myrtle, intendiamoci. Queste cose le tiene per sé, ma uno sa sempre che ha fatto un colpo grosso quando se ne va in giro sfoggiando una nuova tenuta. È buffo, per qualsiasi cosa riguardi Myrtle non riesco proprio a immaginarmi Ida nel suo ambiente. Troppo compassato per lei. Non abbastanza rognoso. Le piacciono le rogne, le piace  provocare, a Ida.

    Dalla finestra dello studio vedo calare la notte. Nel cielo sono comparse alcune stelle vespertine e una mezza luna. Mi alzo dalla mia scrivania e sto per tirare le tende quando in una finestra dell’ultimo piano della casa di fronte si accende la luce. Non li conosco, quelli che stanno lì. A parte le tipe, la maggior parte di noi conosce poche persone fuori dal nostro viale, o addirittura, come nel mio caso, sul nostro viale. Almeno suppongo che sia così. Ma non conoscere è interessante, e lascia lo spazio per le speculazioni, credo. Vedere le persone da lontano le mitizza nei nostri piccoli sogni. È un po’ come quando abbassi il volume della tv e crei tu il tuo dialogo per gli attori che gesticolano sullo schermo. Io lo faccio un sacco, soprattutto con certe soap di Hollywood i cui dialoghi sembrano sempre sciocchi e troppo urlati. Myrtle mi intima di spegnere la tv dicendo che la rovino, usandola così. Oppure mi dice di alzare il volume. A Myrtle le soap piacciono: guarda vecchie puntate ritrasmesse di Dallas. «Lo so che per te non è vita vera» ha detto una volta, quando le ho chiesto della serie. «Immagina se jr vivesse sul viale, sarebbe da ridere. Lo guardo solo per la moda, per vedere gli stili e gli abiti.» Ma non lo guarda solo per la moda e gli abiti. Io lo so. L’ho sentita parlare a lungo e affascinata con Ida delle relazioni extraconiugali di jr.

    La stanza di fronte è illuminata come se aspettasse qualcuno. Riesco a distinguere un letto e un armadio color avorio e quello che sembra il retro di uno specchio posato accanto alla finestra.

    Una ragazza alta e bionda con un giubbotto di cuoio nero e dei jeans entra nella stanza. Deve avere diciotto-diciannove anni. Si toglie il giubbotto e la maglietta che porta sotto, quindi si sfila i jeans, restando in quello che sembra un bikini rosa. Spengo la luce nello studio e la esamino nell’oscurità. Sento una vampata di calore sul volto.

    Non si può fare a meno di chiedersi se la ragazza sia consapevole che il suo avvolgibile non è abbassato. Ha in mente qualcosa? È un’esibizionista? Fa presa sul lato voyeuristico degli uomini, delle persone? Nelle periferie di Dublino le ragazze non vanno in giro sfilandosi gli indumenti davanti a finestre illuminate. Non sono educate a fare così. Tra le persone di altra nazionalità sono note per il loro contegno. O forse si tratta di un’opinione antiquata, Myrtle e Ida sono senz’altro eccezioni a questa regola. E poi potrebbe essere di un’altra nazionalità. I sobborghi stanno diventando multietnici, con Ida che è di origine inglese, i due studenti neri e i rifugiati bosniaci che vivono all’altra estremità del viale sta diventando ancora più difficile generalizzare.

    Si mette a ballare, presumibilmente con un qualche accompagnamento musicale, a giudicare dal modo in cui dondola le braccia, ruota i fianchi e inclina, gira e scuote la lunga criniera.

    Io la fisso attraverso il mio schermo rettangolare buio e cerco di costruire un personaggio per quella muta ballerina. Di darle un nome. Chiamarla Sandra. Le ragazze che si chiamano Sandra le immagino bionde. Una bambina bionda del viale con una bambola bionda in carrozzina mi ha detto di salutare Sandra, di stringerle la mano, e ha cavato uno squittio dalla bambola piegandole il dorso finché non ha toccato le gambe.

    «Sono a casa!» grida Myrtle.

    Ho forte desiderio di parlare a qualcuno di quello che ho visto, ma Myrtle non è quel qualcuno. Mi darebbe soltanto del pervertito. Magari potrei chiederle se conosce la gente dell’edificio proprio dietro a noi, ma non voglio che la mia Sandra sia infangata dai pettegolezzi di Myrtle. Mi sento eccitato come un bambino con un segreto.

    A letto, accanto a Myrtle, penso a Sandra nella sua stanza, a un tiro di schioppo da qui. Sento un rumore alla porta accanto. Il rumore diventa un urlo e il cane di Browne comincia a guaire.

    A volte, se le ho portato qualcosa da mangiare come una tavoletta di cioccolata, Myrtle lascia che le tenga il polso, la parte più sottile di lei; questo mi ricorda i tempi in cui non era affatto così voluminosa, e in quella posizione potrei assopirmi, ma se tento qualsiasi cosa di più lei chiede: «Dove vorresti arrivare, a quest’ora della notte?»

    La sera dopo, prima di andare a letto e forse senza rendermi conto che sto parlando a voce alta, dico: «Devo verificare nello studio».

    Myrtle alza lo sguardo dalla sua rivista, «Hello». «Che cosa intendi dire con verificare nello studio

    «È così che ho detto?»

    «Sei proprio Frank lo svitato.»

    «Ah, eccolo qui» dico, prendendo un libro dal cassetto del comodino. Era uno che avevo già letto, ma per quella sera ho deciso di farmelo bastare.

    Sandra sta infiltrandosi in qualche regione del limbo tra il mio sogno e i mondi reali. È come Eva, mi tenta. Forse avrei dovuto chiamarla Eva, ma allora non avrei nessuno con cui paragonarla. In più Eva me la sono sempre immaginata bruna. Mentre penso a martedì sera comincio a vedere un modello che si forma. Intendo dire, tutte le altre sere l’avvolgibile di fronte è abbassato. Soltanto il martedì sera l’avvolgibile e alzato e compare Sandra per fare la sua esibizione. Ed è solo il martedì sera che Myrtle esce. È un crociato che si avventura nella Terra Santa del Bingo e questa ragazza è stata mandata per tentarmi. Ma Myrtle

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