Bandits
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Dal 2005 ad oggi sono più di duecento i bastimenti assaltati dai nuovi bucanieri del XXI secolo. I villaggi costieri del Puntland, dal 1998 autoproclamatosi indipendente dalla Somalia, sono divenuti ormai la Tortuga del Corno d'Africa, dove centinaia di ex pescatori si sono convertiti al business del banditismo di mare assaltando, con sempre più frequenza ed audacia, le navi che percorrono rotte marittime fondamentali per l'economia non solo dell'Occidente, considerando che su queste autostrade del mare passa più del 20% del traffico commerciale mondiale. Ed è proprio la lotta alla pirateria lungo le coste della Somalia, che viene analizzata nel saggio dei giornalisti del Corriere della Sera, Massimo Alberizzi e Guido Olimpio, con l'apporto di Carlo Biffani, il maggior esperto di security in Italia. I tre autori affrontano con l'autorevolezza di chi del problema si è occupato in prima persona, sia le vere soluzioni al fenomeno, che spesso, però a livello politico si fa fatica a recepire, sia le sue radici più profonde, le cui origini non sono solo da ricercare nel vuoto istituzionale ed economico post Siad Barre del Paese africano, ma anche negli appoggi e connivenze delle gangs di pirati presso le leaderships politiche perfino di Paesi vicini, oltre che nelle preoccupanti "simpatie" di organizzazioni criminali internazionali attratte sempre più dai riscatti milionari che armatori e governi sono costretti a pagare per il rilascio di uomini e mezzi.
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Book preview
Bandits - Carlo Biffani
Prefazione
Apprestandomi a scrivere la prefazione a questa analisi sui nuovi pirati
, condotta da veri specialisti di settore quali sono Massimo Alberizzi, Carlo Biffani e Guido Olimpio, ho voluto prendermi la briga di scorrere le rassegne stampa di quest’ultimo periodo. I titoli certo non scarseggiano, e sono di questo tenore: Pirati somali all’arrembaggio
, Attaccate due navi italiane
, La battaglia europea contro i pirati
, Sventato da fregata turca blitz dei pirati contro un altro cargo italiano
, Non obbligateci a cambiare bandiera
, Spagna e Usa rompono il fronte del no ai vigilantes privati
, Il caso del peschereccio: a Madrid i giudici litigano
, Il diritto di autodifesa
, I vigilantes non sono la soluzione
, Navi armate o costretti a cambiare bandiera
. Mi fermo qui, essendomi limitato a scorrere solo gli ultimi dieci giorni. Potrei continuare, ma ce n’è abbastanza. Il fatto è che dopo una relativa calma che i tecnici leggono come dovuta al Ramadan, alla stagione dei monsoni e alle conseguenti cattive condizioni del mare, e invece i politici imputano al miglior coordinamento delle flotte militari recentemente questa redditizia attività ha subìto un nuovo impulso. Sembra che i risultati ottenuti dai pirati superino quelli, già alti, del primo quadrimestre di quest’anno, i quali già superavano quelli dell’intero 2008. Certo, anche le flotte militari hanno migliorato i loro risultati, ma ciò non giustifica né euforia, né ottimismo. Fatti i complimenti agli equipaggi ed agli operatori delle reti intelligence e di comando e controllo
, resta l’amaro in bocca nel constatare come l’enorme sforzo, fatto da composite, ma eterogenee marine militari, abbia dato sino ad oggi risultati assai magri. Tanto che, quando ci sono, vengono alquanto magnificati. In altre parole, il rapporto costo-efficacia tra lo sforzo globalmente prodotto oltre sessanta navi da guerra permanentemente in pattugliamento nell’area sta ad indicare che, nonostante la buona vo-
lontà, questo dispendioso dispositivo, da solo, non è adatto a conseguire lo scopo.
Le ingenti somme incassate dagli ormai numerosi riscatti devono aver consentito investimenti fruttuosi, se un pugno di pirati, prima basati a terra, usufruendo di moderne navi-madre oggi riesce a tenere in scacco
o quasi svariate decine di navi da guerra di mezzo Mondo. Se è vero che anche recentemente la presenza delle flotte, ma sopratutto degli elicotteri armati imbarcati e delle relative forze speciali, ha consentito di mandare a vuoto un certo numero di attacchi a noi piace ricordare l’intervento di nave Maestrale quelli che hanno successo, di fronte ad un simile spiegamento di forze, sembrano davvero eccessivi.
Per il primo quadrimestre 2009, le statistiche parlano di rapporto di uno a quattro tra successi e tentativi di cattura falliti. In effetti, reagisce solo chi ha il coraggio di farlo, i soliti americani e i francesi, e chi ha avuto la determinazione di portarsi a bordo delle squadre armate di sorveglianza. Nulla di diverso di quanto fanno le banche, che spesso riescono a scongiurare furti e rapine proprio in virtù della presenza di guardie giurate, o le compagnie petrolifere anche italiane nei campi di estrazione. L’alternativa, per chi non vuole problemi, ma desidera comunque dimostrare che qualcosa sta facendo, è continuare a pattugliare
, fare presenza
, non potendo fare altro non tanto perché la norma non lo consenta, ma per direttiva ricevuta di mantenersi in ogni caso nel politicamente corretto. In effetti, le regole sul diritto del mare codificate nella Convenzione di Ginevra del 1958 e quelle stabilite dalla Convenzione del 1982, ora rinforzate, come si è visto, da alcune risoluzioni dell’Onu, a chi osa
consentirebbero un’ampia serie di opzioni. Ma allora, se le regole del diritto del mare già consentono di prendere misure incisive, compreso l’uso della forza quando l’imbarcazione pirata non risponda all’alt e risultino vani i tentativi di arrestarla, con tutte queste forze in campo, quale è il problema? Evidentemente, ci sono difficoltà di ordine pratico. E’ persino abbastanza chiara la giurisdizione penale, che, come hanno già fatto i francesi con la cattura di dodici pirati, oppure l’Italia e la Spagna in eventi più recenti, già oggi consente esplicitamente l’azione penale da parte dello Stato cui appartiene la nave che ha effettuato la cattura. Certo, avere i pirati catturati a bordo è una grana
che può divenire un problema politico oltre che pratico vedi gli accordi con il Kenya o le prese di posizione del fantasioso giudice Garzon, per cui sembra che l’orientamento attuale e forse anche l’ordine sia quello di evitare di prendere prigionieri a bordo. Se poi ci dovesse essere azione a fuoco da parte dei pirati, il principio dell’esercizio di un’autodifesa proporzionale non è mai stato negato, come non viene negato al normale cittadino aggredito in casa propria, al gioielliere o al gestore del supermercato. In effetti, va riconosciuto che quando la nave commerciale presa di mira aveva a bordo una scorta armata è proprio il caso di una nave passeggeri italiana e di alcune navi straniere in quest’ultimo periodo l’attacco dei pirati è fallito.
Che fare, allora, se non si può sparare? Innanzi tutto sarebbe necessario dare stabilità alla regione. Ma è una frase vuota, un’utopia senza significato pratico. Allora occorrerebbe almeno distruggere le basi a terra o le navi-madre, cosa fattibile, ma a un prezzo così elevato di morti e feriti per danni collaterali
, tale da volgere in un battibaleno a favore dei pirati l’iridata opinione pubblica mondiale. E allora? Gli attacchi, a meno di misure drastiche nei confronti delle navimadre o a terra, non cesseranno fino a che il rischio per i pirati continuerà ad essere accettabile ed i loro introiti sostanziosi e protetti. Ci siamo messi in un cul-de-sac
. Come in Afghanistan, e prima ancora in Iraq. Non si può vincere, se non c’è la determinazione a farlo. Si deve riconoscere, allora, che ci si trova di fronte a una nuova mutazione della guerra asimmetrica, ma questa volta sul mare, e i pirati hanno imparato la lezione. Non sono talebani, e forse non sono nemmeno qaedisti, ma potrebbero presto diventarlo. Per ora, si contentano di usare gli stessi metodi, basandosi, però su un sistema intelligence moderno, avanzato, ben gestito e, certamente, anche costoso. Sanno che mezzo
Mondo si ribellerebbe se venissero presi a cannonate, e sotto questo profilo si sentono ben garantiti. Viene allora il sospetto che, se di asimmetria si tratta, le navi da guerra non siano i mezzi più adatti per dar loro la caccia. Certo, ci devono