Di armadilli e charango...
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Il charango è uno strumento sudamericano a corde la cui cassa armonica era costituita dalla corazza dell’armadillo. Questo ci porterebbe facilmente a pensare che i racconti contenuti siano in qualche modo legati ai paesi latinoamericani. Ma saremmo in errore. Perlomeno in parte.
I racconti sono ambientati in diverse parti del mondo: dal Ticino al sudamerica, dall’africa ai balcani, ecc.
Storie vere, storie che fanno riflettere.
Qui di seguito un estratto dalla postfazione della Professoressa Nelly Valsangiacomo dell’università di Losanna:
[...] Questi racconti-testimonianza, che si svolgono tra la quotidianità del presente e la drammaticità del passato, narrano di uno tra i più importanti fenomeni della storia contemporanea, quello dello spostamento. I flussi migratori, per motivi e in momenti diversi, hanno particolarmente segnato gli ultimi centocinquanta anni e ci parlano di stenti, violenze, fughe e incertezze, ma anche di solidarietà, speranza e rinascita che hanno numerose similitudini nello spazio e nel tempo: dalle emigrazioni economiche di fine Ottocento al rifugio e all’esilio della seconda guerra mondiale, dal Cile delle torture all’Africa dell’emergenza.
Sono narrazioni nelle quali la Storia si svolge in secondo piano, mentre l’individuo è al centro; un individuo che nella sua testimonianza racchiude quella di molti altri: dell’“infinito esercito di donne senza voce” dei “fantasmi del reale” e della loro costante necessità di “cercare la vita altrove”. Una vita che si ritrova nella solidarietà e nell’incontro con l’altro prima, nella memoria poi. Sono anche racconti-testimonianze sofferti e liberatori, in bilico tra l’urgenza dell’esprimersi e la difficoltà, a volte l’impossibilità, di ripercorrere momenti così dolorosi.
Nella riflessione attorno ai complessi legami che intersecano storia e letteratura, mi pare che siano libri come questo che chiariscono al tempo stesso come la storia alimenti la letteratura e come la letteratura sia d’appoggio alla riflessione storiografica, permettendo a volte di rischiarare le zone d’ombra dovute all’assenza di documentazione.
È però soprattutto il potere evocativo ed emozionale di questo dipanarsi di storie individuali lungo la storia collettiva che accorcia le distanze tra chi legge e l’avvenimento storico e spinge (così mi auguro) verso il desiderio di conoscenza; conoscenza che contribuisce a cancellare il giudizio affrettato nei confronti dell’altro. “Persone singole sono diverse di politica”, afferma Franka, racchiudendo in questa frase il senso di questi suggestivi racconti-testimonianza di Maria Rosaria Valentini.
Maria Rosaria Valentini
Maria Rosaria Valentini nasce a S. Biagio Saracinisco (Frosinone) nel 1963. Si laurea in germanistica presso l’università La Sapienza di Roma. Vive in Svizzera dal 1989. Segnalata nel 2003 al premio Schiller ha all’attivo diverse pubblicazioni. Per la Gabriele Capelli Editore ha pubblicato “Quattro mele annurche” (prima edizione, 2005, seconda edizione 2010), “Di armadilli e charango...” (2008). Nel 2009 le viene attribuito il premio europeo di narrativa ““Giustino Ferri – David Herbert Lawrence”.
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Di armadilli e charango... - Maria Rosaria Valentini
Premessa dell’autrice
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Io sono nata in un posto dove non c’era proprio niente da fare. La gente parlava soltanto: di sé, degli altri, dei vivi, dei morti. Un esercizio praticato per consolarsi e sopravvivere attraverso il vigore della parola; per marciare oltre la noia, oltre i difetti della memoria, oltre l’assurdo del reale.
Ho ascoltato storie infinite nell’ingenuità della mia infanzia.
E da allora ho imparato a conservare, nelle tasche del mio quotidiano, frammenti di vita altrui che inseriti in una giusta cornice rivelano sempre una straordinaria chiarezza.
Chi narra – negli intarsi preziosi dell’oralità – difende e garantisce la propria presenza, condivide con l’ascoltatore appetiti e digiuni, sprigiona sogni da sgangherati cassetti offrendoli a chi ne vuole.
I racconti che compongono questa raccolta hanno bussato alla mia porta: li ho riuniti senza un criterio prestabilito, rispondendo unicamente al loro richiamo.
La successione di eventi, che spazia dall’epoca del brigantaggio alle vicende del Ruanda, non intende interpretare fatti né giudicare persone.
I confini ristretti di queste pagine non intrecciano documenti, ma semplicemente accolgono episodi dell’umana esistenza: spicchi di antiche sofferenze, tarli che replicano nel presente smarrimento e sgomento.
Nulla di nuovo, dunque.
Si tratta – qui – di storie comuni
, simili a molte altre, finite nel mio inchiostro quasi per caso.
Scriverle, seguendo il flusso della loro corrente, mi è parso tuttavia necessario.
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C’è una paura che le cose muoiano
che nel tempo che è detta la parola s’estingua che l’urlo rimanga senza eco.¹
Alessandro Parronchi, Replay
Breve biografia di un pioppo
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Un pioppo è un pioppo. Niente da aggiungere. È un albero con il suo tronco e le radici e le foglie e certi strani frutti a forma di capsula.
Ce n’è uno piantato in un fosso, sotto il balcone di casa. È talmente grande da coprire la vista della valle. Il torrente che gli scorre accanto offre l’umidità e la frescura di cui ha bisogno.
Certe volte vorrei convincere gli altri inquilini a segarlo, abbatterlo, deporlo a terra. Così mi si aprirebbe l’orizzonte, vedrei giù giù fino all’ultimo villaggio e a sera il panorama sarebbe uno spettacolo: tutto illuminato come un presepe a Natale.
Sì, insomma, ho considerato molte volte che far fuori il pioppo potrebbe essere un’idea niente male. Ma tutte quelle volte che ci ho pensato ho fatto dietrofront subito dopo. Mi dispiace per Galeazzo. È un vecchio oramai e neanche tanto in forma. Ogni volta che mi vede mi blocca per raccontare, come se stesse per rivelarmi l’ultima novità, che quel pioppo fu lui a piantarlo. Era quasi un ragazzo nel 1946. Il paese distrutto, le case sbriciolate come pane secco, le strade sventrate, gli orti abbandonati, i forni mesti, le donne in nero, i bambini con il moccio al naso e le teste rasate, gli anziani annegati nella rabbia.
Lui, Galeazzo, ne aveva viste di tutti i colori.
Un giorno camminava lungo il ciglio di un viottolo spiando i suoi passi nella speranza di raccattare da terra qualcosa di interessante, magari riciclabile, trasformabile o perfino commestibile. Ma non c’era proprio niente in giro, neanche un ragno da torturare un po’, neanche una lucertola frettolosa cui mozzare la coda con una pietra appuntita e tagliente.
Niente di niente.
Ma chi aveva ordinato quella carestia?
Poi, a un tratto, davanti ai suoi piedi si presentò un ramoscello flebile e magro con un paio di peduncoli filamentosi, ecco dunque la trovata! Provare a piantare quel ramo non costava granché e valeva la pena tentare, forse di lì a poco avrebbe dato dei frutti: mele o pere, o pesche o forse solo prugne; ma, insomma, qualcosa avrebbe pur fatto quel ramo!
Si mise così a scavare con le mani, a casaccio, vicino a un fosso. Più andava in profondità più le mani diventavano umide e la terra si rivelava odorosa; l’erba sapeva ancora di erba e la terra di terra.
Si sentiva nervoso, agitato, gli sembrava di mettere in atto un progetto pericoloso e segreto.
Sudava. Strattonò la piantina nella buca e la seppellì con la mano destra, veloce e prepotente, mentre con la sinistra sosteneva, deciso, l’esile fusto; poi, con uno zeppo e qualche pietra, completò l’operazione.
E si allontanò di corsa, sperando di non essere stato visto da nessuno, sentendosi addosso quasi un senso di colpa, pensando di aver fatto qualcosa di inopportuno, se non addirittura di proibito.
La sera rimase taciturno e scontroso. Di notte, raggomitolato sulla rete gracchiante del letto, calciò contro i piedi di suo fratello, quasi a volergli trasmettere quel peso che aveva sullo stomaco, ma suo fratello russava e si impossessava della logora coperta che toccava loro spartirsi.
Quando arrivò il mattino fu una liberazione. Galeazzo schizzò sotto il naso di sua madre per tornarsene al fosso. La pianta non era morta, anzi pareva stesse meglio, ancora un po’ ciondolante, ma sembrava avesse energia. Fu così che si innescò il rito delle visite mattutine per controllare lo stato della pianticella che, ben presto, si tenne in piedi, rifiutando qualsiasi stampella, ritta e fiera.
Galeazzo non credeva ai suoi occhi ed era orgoglioso di avere un futuro albero di sua proprietà, che gli avrebbe dato della frutta che più tardi avrebbe potuto vendere incassando, finalmente, qualche soldo.
Il tempo fece i suoi giri, ma il pioppo, alto e forzuto, non portò altro se non quelle capsule fibrose che non facevano gola neppure ai maiali, maledizione! L’albero ricevette tutte le bestemmie che Galeazzo sapeva, messe in fila l’una dietro l’altra, in processione. Ma un pioppo è un pioppo.
Galeazzo lo capì solo col passare degli anni trasformando quel profondo risentimento in rispetto e devozione. Il pioppo divenne totem. I rami e le radici e il tronco raccolsero tutti i pensieri del ragazzo che si faceva uomo.
E Galeazzo non si è stufato, fa tuttora visita all’albero che è un gigante ormai; si accomoda ai suoi piedi, sulla terra umida per goderne la frescura carezzando piano la corteccia grigiastra, giocherellando con le foglie verdi e gialle, tremule, cuoriformi. Se ne sta lì per ore: medita, prega, parte... certe volte si rannicchia portandosi la testa fra le gambe, sembra una enorme palla che respira. Nessuno gli parla, nessuno lo disturba quando fa la palla.
Ciascuno sa.
Galeazzo è capace di restare lì – solo e immobile – ma se per caso annusa la mia presenza, allora molla tutto e viene da me ricominciando, per filo e per segno, con la storia del pioppo e, quando ha finito con quella, continua a parlarmi dei tempi di guerra, della paura, della gente che ha visto morire quando era un bambino. E intanto gli tremano le mani e sussulta a ogni rumore inconsueto.
Io ascolto impotente.
Ecco allora apparire dal nulla la zia di Galeazzo: a brandelli, su una carriola, riportata ai suoi familiari come avanzo, resto; le gambe da una parte, il tronco dall’altra.
Ecco le marce da sfollati per cercare rifugio dove rifugio non poteva essere. Ecco i tedeschi, ora privi di ogni pietà e ora poveri cristi allo sbando. Ecco la madre di Galeazzo scomparire in un urlo ancora nitido nell’onda di un’eco che rimbalza contro ogni ostacolo.
E poi... tornano le imprecazioni di un uomo che sa di morire di una morte lenta. Il sangue non si ferma, il braccio a metà, il ventre bucato. Non un cencio di medico. L’aiuto di chi gli è capitato accanto non basta e allora la gente si fa pubblico e assiste alla sua agonia mentre il ferito se la prende con Dio, con la Madonna, con i Santi del Paradiso. Galeazzo è un bambino e sta lì, anche lui attonito, incredulo.
Ma i racconti di Galeazzo non sono un’eccezione.
Qui tutti parlano ancora di guerra.
Qui i vecchi ciccano sangue, migrazioni, fughe, umiliazioni, lutti.
In mezzo ai monti, davanti al mio balcone, al di là delle fronde del pioppo, ci sono le tane dove si nascondevano i tedeschi. È un’area non bonificata; chi ci va si assume i propri rischi.
Lì tutto è arrugginito, ma tutto è presente.
Su una lamina di latta, fissata nella cavità di un masso, una mano incerta, forse aiutatasi con un arnese tagliente, tuttora dice: «Maria, bitte, hilf mir.»
Questo è un giugno potente: fa venire sete.
Dalla finestra aperta di un appartamento vicino, la voce televisiva di una presentatrice, ad alto volume, annuncia – disinvolta – un reality-show.