Antonia
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Ciarli è un geologo malinconico e misantropo che ossessivamente racconta a se stesso la storia della sua famiglia: vorrebbe capire, ricostruire episodi, ricongiungere tessere che hanno disegnato le arterie della sua vita randagia. Nulla si muove, però, in quel labirinto di solitudine e rimpianti. Ciarli è un ragno appiccicato alla sua ragnatela.
Sarà la morte del nonno, quasi centenario, a cambiare radicalmente le cose; al funerale l’uomo incontrerà, dopo tanti anni, la cugina Antonia che porterà luce in ogni dove.
Antonia, distinta da un profilo tenace e delicatissimo, saprà rammendare con grazia gli strappi del passato, svelando anche ruvide verità. Così tutto riemergerà da profondità nascoste dando nome e volto a sangue e carne, migrazioni e abbandoni, realtà e finzione.
Ciarli tornerà dunque a vivere rinunciando all’amore per Antonia, incontrando finalmente sua madre, accettando di conoscere le proprie figlie.
Storia - questa - di amori impossibili, parole mai dette, luoghi gravidi di ricordi, affetti ritrovati che portano lontano, verso un futuro che non sarà migliore, ma sincero.
Goethe intanto, attraverso le pagine di un suo libro, accompagnerà Ciarli e Antonia lungo un percorso puntellato da coraggio e costanza.
“Questo romanzo mi è parso molto bello, sia per l’ottima tenuta del linguaggio, della tensione narrativa, dell’intensità delle situazioni e degli eventi, sia per la sapienza nel fissare i personaggi e i luoghi. Straordinaria, poi, è l’idea della doppia prospettiva a giustificazione degli eventi, da due punti di vista drammatici sempre, fino alla luce conclusiva della speranza.”
Giorgio Bàrberi Squarotti
Maria Rosaria Valentini
Maria Rosaria Valentini nasce a S. Biagio Saracinisco (Frosinone) nel 1963. Si laurea in germanistica presso l’università La Sapienza di Roma. Vive in Svizzera dal 1989. Segnalata nel 2003 al premio Schiller ha all’attivo diverse pubblicazioni. Per la Gabriele Capelli Editore ha pubblicato “Quattro mele annurche” (prima edizione, 2005, seconda edizione 2010), “Di armadilli e charango...” (2008). Nel 2009 le viene attribuito il premio europeo di narrativa ““Giustino Ferri – David Herbert Lawrence”.
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Antonia - Maria Rosaria Valentini
Ciarli, i sassi, Antonia
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Non ho voglia di parlare con gli altri, ma ho sempre solo voglia di parlare con me stesso, di vomitarmi addosso quello che vedo, racimolo, ricordo.
Io mi rumino dentro.
Io sono di un genere vecchio: uno che odia le chat, gli sms; pure il telefono, quello fisso – col filo che si attorciglia – mi dà noia.
Puzzo di stantio, di sorpassato, di naftalina fin dentro alle mie idee.
Idee ossessive: ne ho alcune che si rincorrono senza sosta.
Ma puzzo anche perché non mi cambio spesso.
Sono pigro in tutto.
Sono uno senza amici, uno che preferisce di gran lunga star da solo piuttosto che con qualsiasi altra persona.
Mi piace l’odore di terra bagnata e anche quello dei cani bagnati che se ne vanno in giro senza padrone.
Le giornate mi sfuggono, comunque.
La gente mi tiene a distanza e fa bene: non ho niente da dire, niente da dare.
Tramite computer trasmetto i miei dati, il lavoro insomma, a un istituto di ricerca e tutto fila liscio perché sono meticoloso al massimo con i miei studi, con gli esperimenti, i rilevamenti.
Queste cose le faccio sul serio.
Del resto non me ne frega niente. Vivo in uno stato di trance, praticamente.
Io qui ho radicato. Non mi muovo.
Soffro di bruciori di stomaco e pressione alta, ma chi ci va dal medico? I medici mi snervano per ragioni molteplici, così preferisco le autodiagnosi.
E poi non ho tempo; ho bisogno urgente di parlarmi, di raccontarmi tutto, una volta ancora; ancora tutto daccapo fino allo stordimento, fino a trovare un surrogato di calma.
E tanto racconto che certe volte mi gira la testa, sragiono e alla fine piango.
Io passo ore intere a toccarmi la barba, attorcigliandola, inventando delle vie di fuga lungo ciuffi di peli stropicciati, sfatti. Ho una gran fame, ma mangio poco e male: cose arrangiate, incrostate nelle pentole a forza di riscaldarle. Mi piace la carne, mi piace succhiare ossa, ma non ho voglia di cucinare perché gli odori distraggono, troppo.
Qui ci sono arrivato da solo, con le mie gambe. È stata una mia scelta, forse l’unica, forse la più sballata. Questo spicchio di Sicilia per me è come una guaina; mi ci sono infilato come una sciabola dentro al suo fodero.
Qui sono a cuccia.
Tutto il resto è un riflesso e per non lasciarmi abbagliare chiudo gli occhi e penso.
La vita è un colpo d’ascia.
Non nutro interessi per quello che verrà. Insomma, io vegeto nelle squame di un assurdo ieri.
Io penso sempre ad Antonia, mia cugina.
Sono cresciuto con lei in quell’altra vita che mi sono buttato alle spalle, che ho negato di aver vissuto.
Antonia è un bel nome: niente sdolcinature, senza il Maria davanti, senza storpiature tipo... Ninetta, Tonietta, Anto, senza ypsilon in ballo nel tentativo di rendere esotico qualcosa che è, invece, apertamente nostrano.
Antonia basta e da lì già si capisce che ti trovi davanti una con le idee chiare.
Le sue trovate erano bulbi sotterranei, le sue parole profumo di giglio.
Da bambini giocavamo spesso insieme, in un cortile enorme a forma di imbuto, circondato da un cordone di pitosfori. Ci eravamo messi in testa di contare i sassolini che segnavano il viale della villa comunale. Ma ogni volta ci toccava ricominciare da uno perché ci imbrogliavamo; calcolo dopo calcolo, mucchietto dopo mucchietto. Lei s’infuriava sempre quando io manifestavo rassegnazione e, per primo, le dicevo che ero stanco e che forse non era una bella idea quella di fare il censimento dei sassi. S’infuriava, sì, ma non piangeva, non frignava neanche per un attimo, solo mi fissava decisa a convincermi, ogni volta, a ricominciare; magari non oggi, ma domani certamente.
E io ci cascavo: se non mollava Antonia non dovevo mollare neanch’io, accidenti!
Siamo venuti grandi così – noi due – brecciolino dopo brecciolino. Un giorno ammonticchiato sull’altro.
Antonia è giudice. Io sono stato medico, però curare le persone mi faceva paura. Decisi quindi, a un certo punto, di laurearmi anche in geologia: curare la terra mi dava maggiore serenità. Per questo adesso me ne sto ai piedi dell’Etna. Beh, non solo per questo.
Nella villa comunale, noi ci raccontavamo il mondo che volevamo inventare.
Poi sono successe tante cose. Quelle cose che capovolgono gli orizzonti, si nascondono, si conoscono solo a metà, si sussurrano a mezza voce, faccende che soffiano indizi incomprensibili e castigano ogni speranza. Così ci siamo divisi anche noi due che mangiavamo pietre con assurda disinvoltura.
È stato un corto circuito e tutto è saltato in aria. Un boato senza rumore e siamo diventati schegge. L’esplosione ci ha catapultato lontano l’uno dall’altra.
È stata una deflagrazione che ha smosso le falde della nostra roccia comune facendoci scivolare a casa del diavolo.
Ad un tratto, insomma, ci è toccato il buio totale e non ci siamo più visti, ma solo sentiti, di fretta, per le feste comandate, quasi vergognandoci di noi stessi.
La vita è un colpo d’ascia.
Non so esattamente cosa sia capitato a lei.
Per quel che mi riguarda, mi sono nascosto con rapidità e agilità che normalmente non mi appartengono. Così, con un’apparente alzata di spalle, ho infilato nel silenzio il suo collo bianco, le sue mani piccole e agili, il suo occhio sinistro mezzo verde e mezzo marrone, e quelle sue risate a gargarismo che non ho mai sentito in altri. Insomma, il passato si è dissolto dentro i cerchi concentrici di un sasso lanciato, da mano ignota, nel perimetro labile del nostro stagno.
Tuttavia, quando Antonia è diventata solo un ricordo, ho continuato a proiettare la nostra storia dentro di me, come un film privato da vedere all’infinito.
Per la facciata, per l’assurdo quieto vivere ho finto di voltare pagina, di ravvisare giustificazioni per entrambi, di capire.
In realtà non ho capito niente.
Certo ci si abitua a tutto, anche alle assenze.
Il mio presente è un’abitudine.
Un tempo soffrivo di solitudine.
Ora la solitudine è bambagia: la coltivo a maggese seminandovi il coraggio – poco e smilzo – che ho. I giorni miei si consumano tutti nelle nicchie di ieri.
Il futuro, invece, mi cattura, inevitabilmente, nelle ansie del domani e così lo tengo a distanza, lo imbroglio, fingo di non sentirlo ansimare alle mie spalle, lo imbavaglio.
Praticamente mi muovo senza entusiasmi e m’illumino soltanto dinanzi a un desiderio inesaudibile: vorrei tornare bambino.
Vorrei, se potessi, ricominciare tutto aggrappandomi alla circolarità di uno zero.
Vorrei, se potessi, trovarmi in braccio a mia nonna che mi difende da una pioggerella e in un orecchio mi bisbiglia: accucciati, accucciati!
Vorrei, se potessi, arrotolarmi come una serpe innocente attorno al suo collo per sentirla respirare tra i miei capelli.
Non tornerei indietro per cancellare gli errori – sarebbe troppo comodo! – ma per difendere con le unghie e con i denti gli affetti che ho perduto, svenduto, frantumato, maltrattato, rinnegato, candeggiato.
Eppure il corso delle cose non si cambia.
Mai.
Ogni singola storia rotola, marcia, segue un ritmo inarrestabile, va come deve andare e tu che ci sei dentro spesso annaspi.
Certe volte penso di essere matto. E di sicuro qualche disturbo della personalità, nel mio caso, ci sarà.
La vita è un colpo d’ascia.
Ieri è morto il nonno.
A comunicarmelo è stata proprio Antonia. Non la sentivo da un pezzo.
Il suo pronto? mi ha detto tutto, subito. Io non ho chiesto come né quando. La voce di Antonia mi è colata addosso e mi sono accorto, di nuovo, di essere vivo.
Cristo! Il silenzio non è oblio.
Antonia è in ogni tasca del mio presente.
Io sono il prestigiatore di me stesso, abile nel far sparire persone e cose, capace di estraniarmi, creare distanze; eppure su ogni mazzo di carte che riaffiora dalle mie profondità c’è sempre un’immagine di Antonia: primi piani, profili, ritagli, sfondi.
Antonia è il mio asso, in sostanza, ma è segregato dentro maniche strette di sofferenza e pudore.
Forse dovrei giocarmelo, adesso. Forse dovrei buttarlo sul tavolo e scommettere il tutto per tutto.
Forse, ma non ne sono capace, non ne ho il coraggio.
Sì, ieri è morto il nonno.
Avevo creduto che fosse immortale.
La solita energia di Antonia, immutata nel tempo, mi ha invitato a reagire.
«Dai, Ciarli, smettila di balbettare! Butta lo stretto necessario in valigia e parti. Respira lentamente e stai sereno. Dai, che finalmente ci ritroviamo. In fondo questo è l’aspetto positivo dei funerali, no?»
Lo so che è importante vedere il morto prima che la cassa si chiuda, ma io non me la sono sentita di sbattere quattro cose in valigia per correre all’aeroporto. Ho scelto, dunque, di tornare in macchina. Ho bisogno di starmene da solo, di fare il viaggio senza sorridere alle hostess, senza snack da scartocciare accanto a un compagno di volo mai visto prima con il quale simulare un cin cin con il succo d’arancia e, soprattutto, non ho voglia di spiare la terra da una cornice a tenuta stagna. Io voglio vedere la strada e il mare e ancora la strada prima di arrivare dal nonno. Mi diranno che sono il solito egoista egocentrico... far aspettare tutti con questa calura! Ma io torno per il nonno e lui saprà comprendere.
Forse dovrei lavarla, questa jeep, piena di polvere, sia dentro che fuori, ma sono già partito quando ci penso.
Intanto Antonia