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Spiando la notte
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Spiando la notte

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About this ebook

Perché un ricco antiquario decide di mettere la sua villa sotto sorveglianza, anche se non ci sono oggetti di valore da proteggere? Quale segreto si nasconde dietro il bizzarro comportamento di una ragazza bella e spigliata, ma solo in apparenza serena e sicura di sé?
Qual è la verità sull’omicidio di un giovane tossicodipendente, brutalmente sgozzato in casa sua con un vecchio rasoio? È forse un regolamento di conti tra piccoli criminali, oppure rappresenta un altro anello della catena di delitti che da qualche settimana sta insanguinando la provincia di Bologna, dietro la quale si cela la mano di un killer spietato e inafferrabile?

LanguageItaliano
Publishernoubs
Release dateMar 10, 2012
ISBN9788886885126
Spiando la notte

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    Spiando la notte - Fabrizio Di Marco

    Personaggi principali

    FRANCESCO ZANETTI: dell’agenzia di vigilanza MEDUSA

    LUIGI ZANETTI: suo fratello, contitolare dell’agenzia

    MASSIMO TIRELLI: commerciante d’arte

    LAURA MANTOVANI: figliastra di Tirelli

    GIULIO SARTORI: amico di Laura

    PAOLO GIUSTI: guardia giurata

    VALERIA CUOMO: amica di Francesco

    SONIA LONDRILLO: ispettore della Squadra Mobile di Bologna

    GIACOMO TOZZI: commissario della Squadra Mobile di Bologna

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    ****

    Prologo

    Il bar iniziava a riempirsi.

    L’appuntato Anselmi guardò l’orologio, sbuffando forte. Era da più di mezz’ora che aspettava seduto vicino alla vetrata, mezz’ora in cui aveva consumato due tramezzini, un caffè e una minerale gassata, mentre ingannava il tempo leggendo la pagina sportiva del Carlino. Aveva anche provato a chiamare Giovanna varie volte, ma il cellulare non era raggiungibile. Forse era addirittura spento: non c’era da stupirsi che lei avesse cambiato idea, che avesse deciso di mancare a quell’appuntamento chiarificatore e di rendersi irreperibile.

    In fondo doveva aspettarselo, dopo la scenata che gli aveva fatto tre sere prima, quando lo aveva colto in flagrante che inviava un sms alla sua ex. Giovanna era troppo gelosa per sopportare che lui si sentisse ancora con la sua vecchia fiamma, anche si trattava soltanto di telefonate o di messaggini sporadici, e negli ultimi giorni, incazzata com’era, non aveva risposto alle sue chiamate e si era fatta negare quando Anselmi l’aveva cercata a casa dei suoi.

    Grazie a Dio, quella mattina si era decisa finalmente a rispondergli, e aveva anche accettato di incontrarlo per chiarire le cose, in quel bar del centro, verso mezzogiorno. Anselmi era arrivato con un po’ di anticipo all’appuntamento e ne aveva approfittato per fare un salto alla gioielleria di fronte, dove aveva comprato un ciondolino d’argento da donarle come simbolo della loro riconciliazione, ciondolo che adesso custodiva in confezione regalo nella tasca dell’impermeabile. Aveva anche preparato delle frasi carine per il momento in cui gliel’avrebbe consegnato. A mezzogiorno e quaranta, però, di Giovanna non si era ancora vista l’ombra.

    Anselmi alzò per un istante lo sguardo al cielo, dove il colore grigio acciaio prometteva un altro pomeriggio di pioggia, poi tornò a fissare la Golf ferma dall’altro lato della strada. Era molto simile alla macchina di Giovanna, stesso modello, stesso colore blu scuro, perciò quando l’aveva vista arrivare, qualche minuto prima, aveva creduto che si trattasse proprio di lei. Era persino uscito dal bar per andarle incontro, chiedendosi come mai lei non si decidesse a scendere dall’auto, e aveva bussato due colpi sul finestrino: solo in quel momento si era accorto che la persona seduta al posto di guida, vestita con sciarpa, berretto e occhiali scuri, non era affatto la sua fidanzata. Non era nemmeno una donna: si trattava di un ragazzo sui vent’anni, venticinque al massimo; impossibile capirlo da lontano, imbacuccato com’era. Anselmi si era affrettato a scusarsi per la figuraccia e a rientrare nel bar, sospirando di delusione.

    Nei dieci minuti seguenti, l’appuntato provò ancora a chiamare Giovanna, invano, poi decise di averne abbastanza e di levare le tende. Pagò il conto e tornò all’aperto, dove una folata di vento gelido lo indusse ad alzarsi sul mento il bavero dell’impermeabile. Attraversò la strada e passò davanti alla Golf blu, che stava sempre col motore acceso. Quando raggiunse il marciapiede opposto, notò che la gioielleria dov’era entrato un’ora prima, adesso era vuota e aveva le luci spente.

    Guardò di nuovo l’orologio: strano che il negozio avesse già chiuso, all’una meno dieci. Si disse che in fondo non era così tardi: Giovanna era una ritardataria fenomenale e forse aveva avuto uno dei suoi soliti contrattempi. Forse bastava aspettarla qualche altro minuto...

    Si voltò a controllare l’ingresso del bar e rimase fermo lì, indeciso se tornare indietro, finché qualcuno gli passò accanto, sfiorandogli l’impermeabile. Era un uomo alto, vestito di nero, che si allontanava rapido stringendo nella sinistra una valigetta marrone. Alcuni istanti dopo, la Golf blu si incanalò nel traffico e sfrecciò davanti ad Anselmi, che la seguì con gli occhi fin quando poté, fin quando l’auto non si perse in lontananza.

    L’appuntato si girò verso la gioielleria, incuriosito: adesso il negozio era illuminato, ma dentro non c’era nessuno. Una signora di mezza età vi stava entrando in quel momento.

    Lui rimase a fissare la vetrina. Non sapeva perché, ma l’istinto gli suggeriva che stava accadendo qualcosa di insolito.

    Non si sbagliava.

    Le urla della donna lo raggiunsero dal negozio pochi secondi più tardi.

    Cos’è successo a Mario? È stato ferito, vero?

    L’uomo alla sua destra seguitava a fissare la strada che si snodava davanti a loro, muto e immobile, con la valigetta marrone incastrata tra le caviglie e la mano destra nascosta sotto il giubbotto. Continuava a stringere la sua 38, Antonio ne era sicuro anche se non poteva vederla.

    Insomma, mi vuoi dire o no che avete combinato lì dentro?

    Sta’ zitto e pensa a guidare. Per questo ti paghiamo, non per fare domande.

    La Golf procedeva a settanta all’ora rispettando il limite di velocità, mentre si lasciavano alle spalle gli ultimi caseggiati della periferia di Ravenna. Erano quasi in aperta campagna e tra un paio di chilometri avrebbero raggiunto il punto dello scambio, dove c’erano le due macchine nuove con cui proseguire la fuga. Poi Antonio non avrebbe più visto l’uomo con la valigetta, quell’uomo di cui conosceva solo lo strano nome in codice, ma sul conto del quale aveva sentito delle cose terribili. Si diceva che avesse compiuto più di venti omicidi, e che avesse ammazzato nell’arco della stessa notte tutti e tre i fratelli Consalvo, andandoli a stanare nei loro rifugi sparsi per l’Emilia Romagna. Mario gli aveva anche raccontato che era stato quell’uomo a decimare il clan dei Mazzacervi, a ridurre ai minimi termini la più potente tra le nuove cosche indipendenti che regolavano lo spaccio di droga nella regione.

    Antonio si sentiva meglio al pensiero che non avrebbe più avuto a che fare con un tipo del genere. Prima di uscire da quella storia, però, doveva sapere tutto. Era suo diritto.

    Si schiarì la gola e disse: − Mario Caputo è un amico. È stato lui a chiamarmi per questo lavoro, ma anche se lo prendono non farà mai il mio nome. Se è stato ferito...

    S’interruppe quando, con la coda dell’occhio, percepì un leggero movimento della mano con cui l’altro impugnava il revolver. Se continuo a insistere, forse questo qui mi ammazza non appena arriviamo, pensò, forse non mi lascia nemmeno il tempo di scendere dalla macchina.

    L’altro si voltò verso di lui. − Quel fetente del gioiellerie ha voluto fare l’eroe, ha tirato fuori la pistola e il tuo amico si è beccato un proiettile in faccia. È morto subito. Ma non ti preoccupare, il fetente non ha nemmeno fatto in tempo a pentirsene. E nemmeno la ragazza si è accorta di niente...

    Antonio sentì la nausea afferrarlo allo stomaco. Altro che gioco da ragazzi, come gli aveva garantito Mario. Era successo un massacro, dentro quel negozio, il suo amico ci aveva lasciato la pelle e adesso lui stava diventando complice di un assassino, aiutandolo a fuggire. Poi si rese conto che le parole dell’uomo contenevano più di quanto lui avesse afferrato finora, che contenevano più di quanto lui fosse disposto ad accettare.

    E NEMMENO LA RAGAZZA SI È ACCORTA DI NIENTE.

    Vuoi... vuoi dire che hai ammazzato anche la commessa? − balbettò.

    Be’, ormai c’era scappato il morto − si limitò a spiegargli l’altro.

    Il povero Mario gli aveva detto la verità: quell’uomo non era soltanto un rapinatore, ma un killer di professione. Un macellaio. Aveva ucciso una commessa che non sarebbe mai stata in grado di riconoscerlo: se Scorpio (quello era il nome in codice del killer) avesse immaginato che Antonio era stato visto, che durante la rapina un passante si era avvicinato alla Golf, gli aveva bussato sul finestrino e lo aveva guardato bene in faccia, chissà cosa gli avrebbe fatto.

    Mentre imboccavano lo sterrato per raggiungere il posto di scambio, Antonio continuava a ripetersi che in fondo non aveva nulla temere: anche se la polizia avesse avuto il suo identikit, lui era incensurato, non era mai stato schedato e gli sbirri non avrebbero potuto risalire a lui.

    La ragazza si svegliò di soprassalto al suono del cellulare. Era stato soltanto un beep, l’avviso che era arrivato un sms, ma bastò per farla sussultare forte, lasciandola con gli occhi sbarrati.

    Fece scivolare una mano fuori dal piumino e iniziò ad annaspare nell’oscurità alla ricerca del telefonino. Doveva essere giorno fatto, ma non aveva idea di che ora fosse: da quando erano ricominciati i disturbi del sonno, quei maledetti disturbi che la costringevano a passare notti intere in bianco, approfittava di ogni occasione in cui sentiva che la stanchezza stava per vincerla, per sbarrare porta e finestra della sua camera e ficcarsi nel letto.

    Quando trovò il cellulare e portò il display davanti agli occhi, scoprì che erano le tredici e venti. Scoprì pure che il messaggio le era stato mandato da lui.

    Si aprono le danze. Mi raccomando, da questo momento tieni gli occhi bene aperti.

    Conciso ed efficace come al solito. E anche superfluo, in un certo senso.

    Fece per alzarsi, poi decise di restarsene al calduccio per qualche altro minuto, a dispetto del tono di urgenza contenuto nel messaggio. Non c’era ancora tanta fretta.

    Si domandò quando lo avrebbe rivisto. All’inizio della loro relazione, trovavano il modo di incontrarsi per fare l’amore quasi tutti i giorni. Adesso era già trascorsa una settimana dall’ultima volta in cui era successo.

    Lui le mancava, certo, le mancavano le sue mani e la sua pelle. Eppure, ora che le danze si erano aperte, per la prima volta dopo tanti mesi si sorprese a pensare al suo uomo con una punta di paura.

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    ****

    Capitolo 1

    Mercoledì 11 febbraio

    Nemmeno quella notte faceva molto freddo, pensava Francesco scendendo dalla macchina. Con la temperatura gli stava andando bene, febbraio è uno dei mesi peggiori dell’anno e il meteo prevedeva l’arrivo di una perturbazione solo a partire dal venerdì successivo. Dicevano che il maltempo si sarebbe protratto, ma quello della settimana seguente non era un problema suo, perché sarebbe toccato a Luigi, suo fratello, montare di guardia. Ci si gela il culo una settimana a testa, recitava la norma per i turni invernali dell’agenzia, ed era una norma d’oro, consolidata da oltre cinque anni di pratica.

    Si incamminò tra il magazzino che doveva controllare e la recinzione della casa a fianco, proiettando il raggio della torcia elettrica ora su una ora sull’altra delle saracinesche. In fondo, un basso muro di mattoni chiudeva la strada, rendendone buio l’ultimo tratto, e una volta finita l’ispezione Francesco si fermò proprio in quel punto, per approfittare dell’oscurità. Spense la torcia e alzò lo sguardo al cielo, che era quasi completamente nascosto dai tetti dei palazzi: solo al di sopra del muro di mattoni c’era uno squarcio di nero, ma la luna non si vedeva e nemmeno le stelle. Non si vedono mai le stelle a Bologna, pensò tornando indietro, tranne qualche volta, l’estate, sui colli, dove le luci del centro sono lontane e il cielo è più limpido.

    Di fatto, per Francesco la notte rappresentava il momento ideale per osservare pianeti e galassie, piuttosto che per sorvegliare fabbriche e depositi: lui, che da quando si era laureato in Astronomia con lode, due anni prima, aveva sempre considerato il suo lavoro in agenzia come qualcosa di provvisorio, che gli desse da vivere nell’attesa di intraprendere una professione più consona alla sua indole, alle sue passioni e alla sua cultura. Adesso che quell’opportunità era arrivata, il giovane sorvegliante aveva iniziato a detestare l’attuale mestiere con tutte le sue forze; la sua insofferenza era ormai tale che, qualche ora prima, durante la cena, stava addirittura per mentire a Luigi, stava per dirgli che non si sentiva bene e che non ce la faceva a uscire per la ronda. Ma poi aveva deciso di stringere i denti e di tenere duro ancora un po’, almeno fino al momento fatidico in cui gli avrebbe raccontato tutto.

    Doveva dare un’occhiata anche all’altro lato e al retro dell’edificio, per cui passò davanti all’ingresso e girò seguendo l’isolato, dove non c’era bisogno della torcia elettrica perché la strada era bene illuminata.

    Attaccò un bigliettino di controllo sull’ingresso e tornò verso la macchina pensando che, una volta in centro, avrebbe potuto fermarsi per bere un caffè. Non si sentiva affatto stanco, ma il caffè era un piacere al quale non sapeva rinunciare durante il suo girovagare notturno.

    Tutto d’un tratto un brusio basso e prolungato gli giunse dall’interno del magazzino, in corrispondenza del vicolo senza uscita. Era stata solo un’impressione; però non si sa mai, si disse, meglio controllare. D’altronde il suo lavoro era proprio quello: controllare. Almeno per qualche altra settimana.

    Senza accendere la torcia, Francesco ripercorse il viottolo e arrivò in fondo, al muro di mattoni. Rimase un po’ nell’ombra a fissare le finestre e ad ascoltare i suoni della notte, finché non lo sentì di nuovo, stavolta un po’ più forte: era stato un fruscio leggero e spezzato, come se un oggetto venisse trascinato o fatto strisciare sul pavimento.

    Tutte le entrate a pianterreno erano rimaste inviolate, Francesco lo aveva appena verificato, restavano però quelle del primo piano, che davano sul tetto di un vasto garage condominiale collegato col deposito. La scaletta esterna si trovava dall’altro lato dell’edificio e lui impiegò un minuto buono per raggiungerla.

    Il tetto del garage era ampio e immerso nell’oscurità. Francesco si avvicinò al magazzino, accese la torcia elettrica e iniziò a controllarne le finestre, tutte munite di robuste sbarre: i vetri erano a posto, dentro c’era buio completo.

    Più in là incontrò una porta di metallo. Era soltanto socchiusa, e il battente era tutto graffiato e deformato attorno alla serratura.

    Francesco portò l’altra mano sulla fondina, d’istinto, senza estrarre la pistola. Aprì un poco la porta e sbirciò dentro, ma il chiarore proveniente dalla strada non bastava se non a illuminare pochi metri di pavimento. Si allontanò e spense la torcia, poi prese il telefonino e chiamò suo fratello.

    – Che succede? – domandò la voce assonnata di Luigi.

    – Qualcuno è entrato nella Cosmopell. Ho sentito dei rumori venire dall’interno, e la porta del piano di sopra è stata forzata. Non dico l’uscita di sicurezza, ma la porticina di servizio che dà sul tetto del garage, hai presente?

    – Ho presente − il tono di Luigi s’era fatto sveglio. − Esco, arrivo subito. Ci penso io a chiamare la polizia. Tu dove sei esattamente?

    – Ancora sul tetto del garage, sto tenendo quella porta sotto controllo. Forse la useranno anche per andarsene.

    – Va bene, però non entrare, potrebbe essere pericoloso. Aspetta lì finché non arriviamo.

    Francesco ripose il telefonino e tirò fuori la Beretta. Tolse la sicura e rimase in attesa. Le lancette fosforescenti dell’orologio gli indicarono l’una e trentasette. Si accorse che i battiti del suo cuore erano aumentati: in tanti anni di vigilanza privata non era ancora riuscito a dominare l’adrenalina durante le emergenze, anche se la maggior parte delle volte si trattava solo di avvertire le forze dell’ordine e di aspettare.

    Sospirò, più per la frustrazione di trovarsi di nuovo in quel genere di situazione che per la tensione, mentre sussurrava a denti stretti: lavoro di merda. Da qualche giorno quelle tre parole tornavano sempre più spesso ad affiorargli sulle labbra; per essere precisi dalla mattina in cui aveva letto il proprio nome e cognome accanto a un’altra parolina magica, ammesso, dentro una bacheca dell’università affissa in via Zamboni. Ma dopo l’entusiasmo iniziale per aver superato il concorso, il giovane era caduto vittima dell’ansia, come ogni volta che si trovava davanti alla prospettiva di un grande cambiamento. Un cambiamento che stavolta avrebbe coinvolto non soltanto la sua vita, ma anche quella di chi lavorava con lui, Luigi prima di tutti: proprio per questo motivo non aveva avuto ancora il coraggio di parlarne a suo fratello.

    Di colpo sentì una vettura avvicinarsi al retro del magazzino e frenare, poi i passi di qualcuno che andava ad aprire la saracinesca del garage. Francesco si avvicinò rapido a quel lato del tetto e si sporse giusto in tempo per vedere un Ducato sparire sotto di lui. Sentì la saracinesca richiudersi e rimase piegato in avanti a fissare il vuoto per più di un minuto, il tempo necessario per rendersi conto che chi guidava il furgone non sarebbe uscito dal garage. Non subito, almeno. A quel punto decise di passare all’azione, fregandosene delle raccomandazioni di Luigi.

    Si voltò verso la porta di metallo, che per un momento gli sembrò una grossa bocca aperta sulla notte, la varcò e si incamminò nella penombra dell’edificio, silenzioso ma con passo spedito. Arrivò sul pianerottolo e scese le scale. Adesso sentiva distintamente i rumori provenire dal basso: movimenti di persone indaffarate, passi frettolosi e impacciati.

    Raggiunto il deposito, avanzò con cautela tra manichini e carrelli, finché non vide stagliarsi la porta aperta che dava sul garage. La luce che proveniva dall’altra parte illuminava un cumulo di pellicce ammucchiate per terra.

    – Ce ne sono rimaste una dozzina – esclamò un uomo.

    – Allora sbrigatevi – disse un altro, e qualcuno replicò con un grugnito e con delle parole che Francesco non riuscì a capire. Erano in tre, come minimo.

    Lui ne vide due, uno alto e moro, dalle fattezze tipicamente magrebine, l’altro tarchiato e con la barba, entrare nel magazzino e chinarsi a raccogliere le pellicce. L’orologio gli indicò che erano già trascorsi dieci minuti da quando aveva parlato con Luigi, e anche se da casa sua ci voleva solo un quarto d’ora per arrivare alla Cosmopell, lui non poteva più aspettare, quelli stavano per tagliare la corda: i due uomini avevano attraversato la porta ed erano ormai fuori dalla sua visuale. Rimase ad ascoltarli, immobile, mentre si allontanavano con la refurtiva e poi mentre la caricavano, ma nel momento in cui spensero la luce Francesco scattò.

    Superò rapido l’uscio di metallo e intravide il furgone che si allontanava tra le auto parcheggiate. In fondo al garage il magrebino stava spalancando la saracinesca, illuminato dagli abbaglianti del Ducato.

    – Fermo lì! Non ti muovere! – intimò il giovane correndo verso di lui, ma l’altro finì di aprire con un solo strattone, pronto a saltare sul furgone, che lo aveva quasi raggiunto.

    Francesco ripose l’arma nella fondina e si avventò sul ladro quando questi stava già con un gamba dentro l’abitacolo, gli si aggrappò con tutte e due le mani alla cintura dei pantaloni e lo trascinò a terra. Il Ducato riprese la fuga con la portiera destra ancora aperta, mentre il magrebino si divincolava forsennatamente, scartando a destra e a sinistra, finché non riuscì a staccarsi dalla presa e ad alzarsi in piedi.

    Francesco si lanciò in avanti per afferrarlo di nuovo, ma annaspò nel vuoto. Mentre lo fronteggiava, notò che l’altro era più alto di lui di una decina di centimetri, e ben piazzato. Meglio non correre rischi, pensò portando la mano alla fondina che era rimasta aperta, ma scoprì che l’arma non c’era più, che doveva essergli scivolata via durante la lotta.

    Non si era ancora ripreso dalla sorpresa, quando percepì l’immagine del magrebino che ruotava di slancio su una gamba, piroettando con l’altra. Il piede dell’uomo gli si abbatté sulla faccia sbalzandolo all’indietro e mandandolo a finire con la testa contro lo specchietto di un Range Rover. Le vertebre cervicali di Francesco crocchiarono nell’impatto, la vista gli si offuscò per un istante. Si accorse che perdeva sangue dal naso, mentre udiva i passi del magrebino allontanarsi verso l’esterno. Sentì il suono delle sirene e, un attimo dopo, lo intravide tornare indietro di corsa e sparire oltre la porta di metallo.

    Francesco rimase immobile per un po’, aprì e chiuse gli occhi, si massaggiò la nuca. Nulla di grave, pensò. Si alzò e raccolse la Beretta, ma non riuscì a iniziare subito l’inseguimento, la testa gli girava. Si passò il dorso della mano sul naso per asciugare il sangue e oltrepassò a sua volta la porta di metallo. In quel momento un bagliore intermittente lo investì.

    L’illuminazione si stabilizzò quasi subito e, mentre i suoi occhi si abituavano alla nuova condizione, capì che qualcuno aveva acceso gli interruttori.

    Entrò. Il fuggitivo era fermo, quasi immobile dall’altro lato del magazzino, tenuto a bada da un uomo in divisa che gli puntava una semiautomatica contro il petto e che adesso lo stava facendo mettere in ginocchio. Francesco tirò un sospiro di sollievo, mentre suo fratello faceva scattare le manette attorno ai polsi del prigioniero.

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    ****

    Capitolo 2

    Uscì dall’Ospedale Maggiore che erano le quattro e mezzo. Attraverso le vetrate della porta scorrevole scorse la massiccia sagoma di Luigi, intento a fumare l’ennesima sigaretta. Appena gli fece un cenno, suo fratello buttò via il mozzicone e gli andò incontro.

    – Allora?

    – Allora sto bene. Il mal di testa è la conseguenza della botta contro lo specchietto, ma il collo non ha niente e i lividi se ne andranno quasi subito. Tre giorni di riposo e torno come nuovo, ha detto il medico.

    Si incamminarono verso la macchina, con Luigi che teneva a freno la solita andatura marziale per aspettare Francesco.

    Luigi era alto quasi un metro e novanta, aveva la vita sottile e le spalle robuste; vederlo in divisa, come in quel momento, dava la sensazione di trovarsi di fronte un colosso. Aveva gli occhi scuri e le sopracciglia folte; il mento un po’ sporgente e le labbra sottili conferivano al suo viso, qui e lì attraversato da una leggera forma di acne, un’espressione involontariamente dura. Un cappellino calato sulla fronte lasciava intravedere qualche ciuffo della sua zazzera bionda.

    Francesco lo sapeva bene: la reazione del fratello era ciò che lo spaventava di più, tra le conseguenze della sua decisione di cambiare lavoro.

    Oh, di certo Luigi non avrebbe disapprovato quella decisione, anche se si trattava di abbandonare un posto sicuro per tentare una carriera molto più difficile e piena di incognite. Anche se si trattava di abbandonare l’attività di famiglia, l’attività su cui i due fratelli avevano investito quasi tutto il loro capitale e tutte le loro energie da quando mamma e papà erano morti in quel maledetto incidente sull’A14, con tutti i rischi e gli oneri che una decisione del genere comportava, compresa l’eventualità di assumere un esterno che sostituisse Francesco. No, non si trattava di questo: Luigi non avrebbe detto nemmeno una parola per tentare di fargli cambiare idea, anzi, si sarebbe mostrato contento che Francesco avesse finalmente trovato la sua strada.

    Il punto era un altro.

    Il punto era che Luigi si sarebbe sentito tradito da lui. Poco ma sicuro.

    Non che Francesco avesse mai fatto alcunché per nascondere all’altro la sua passione: da quando si era laureato, non aveva mai abbandonato i suoi studi di Astronomia, a cui dedicava quasi tutti i pomeriggi liberi, e questo Luigi lo sapeva bene. Ma Francesco gli aveva spiegato che quegli studi consistevano nella continuazione del lavoro di tesi, portati avanti allo scopo di riuscire, un giorno o l’altro, a pubblicare un articolo col suo vecchio professore, e questa era soltanto una parte della verità. In realtà Francesco aveva studiato tanti mesi anche allo scopo di provare i

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