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Atene, futuro remoto

“MERCI MADAME. Je vous souhaite une bonne visite, au revoir”, mi dice con un sorriso la signora al deposito passeggini ai piedi dell’Acropoli mentre chiude la porta dietro di sé. La saluto e ringrazio anche io in francese, nonostante l’ultima volta che lo abbia parlato sia stato sui banchi di scuola una vita fa, precisamente in terza media. Ma la memoria, si sa, viene in aiuto quando meno te l’aspetti. Una donna old school, non solo perché appartiene a quella generazione che imparava il francese anziché l’inglese, ma anche perché ancora legge. Dalla finestra, infatti, la osservo sedersi su una poltroncina imbottita, sistemarsi i capelli e prendere in mano un libro. Scena che potrebbe vedersi in un qualsiasi caffè parigino, se non fosse per il sole che spacca le pietre – anche in inverno – e per il sito archeologico più incredibile della storia alle mie spalle.

Così torno di botto alla realtà, sono ad Atene. La fila alla biglietteria è, contro ogni mia aspettativa, scorrevole. Gente di qualsiasi nazionalità che viene qui da ogni parte del mondo per ammirare di persona il tempio più famoso di sempre. Prendo i biglietti, raggiungo la mia famiglia e insieme arriviamo ai tornelli di ingresso. Un punto di passaggio comune che però qui segna una sorta di confine: da un lato il presente, dall’altro il passato, la Storia con le sue rovine. Inizia per eccellenza, culla indiscussa della civiltà occidentale.

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