Una nuova visione del TERRORE
rimo amore non si scorda mai, ed è per questo motivo che il richiamo del sangue ha riposizionato gli elementi dove gli amanti del brivido speravano si riunissero: James Wan, la, e , ci trascina in un mondo che oscilla tra la dimensione psicanalitica e quella soprannaturale. Wan, regista al centro della scena horror contemporanea, è stato spesso etichettato con la doppia G, ovvero «il guru del gore». Per chi se lo stesse chiedendo, il gore è solo un altro termine usato per identificare il sottogenere horror noto come splatter. Coniato da un illustre predecessore, George Romero, che con la parola splatter descriveva il suo capolavoro , denota un genere che negli anni si è evoluto, soprattutto grazie ai prodotti di Sam Raimi degli anni Ottanta e (e sequel vari) degli anni Duemila. La violenza è uno dei fili conduttori che lega il sadico alla nuova creatura , anche se, a conti fatti, potrebbe apparire de-cisamente più in linea con gli elementi fondanti della sottocategoria. Madison (Annabelle Wallis) è una donna sull’orlo di una crisi di nervi, divisa tra tentativi di gravidanza falliti, una presunta violenza domestica, e un quantitativo considerevole di sogni/visioni decisamente inquietanti. Madison, infatti, è spettatrice, impossibilitata a interagire, di sogni realistici in cui avvengono efferati omicidi. Questi eventi non sono solo nella fantasia della povera donna, ma accadono realmente, e la relazione tra Madison e gli omicidi ha un nome, Gabriel. Quest’ultimo, amico immaginario della Madison bambina, è tornato sulle sue tracce, disposto a tutto per non abbandonarla mai più. James Wan dimostra ancora una volta l’amore per questo genere, nonostante le incursioni adrenaliniche di e le avventure fantastiche di . Al netto di una sceneggiatura che perde colpi solo dopo lo svelamento del mistero, tutto ciò che precede il momento è un godibilissimo B-movie. D’altronde Wan ha abbondantemente dimostrato di saper padroneggiare il genere, e le tinte anni Ottanta impreziosiscono la pellicola. non ha la pretesa di maniacale coerenza narrativa, ma forse è proprio questa “leggerezza” tipica del genere, il fulcro di una struttura imbastita più per sorprendere e dare sostanza la colpo di scena, che per riflessioni post visione.
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