Il caso MARIA TALARICO

«Maria non si è sentita bene, forse un colpo di freddo o un calo di pressione. Ora riposa» – disse la nonna sull’uscio. Fu allora che la madre la raggiunse in camera litaniando i favori d’una santa. D’improvviso la giovane aprì gli occhi. «Maria, come ti senti? Che cos’è successo? ».
Si beccò un’occhiata stridula e la rispostaccia: «Voi non siete mia madre, siete la padrona di questa casa. Mia madre è alle Baracche e si chiama Caterina».

«Maria, ma cosa stai dicendo?» – implorò la donna spezzata da quella voce di maschio.
«Io sono Pepé, andate e dite che venga subito a vedere il suo figlio disgraziato». Era il 5 gennaio 1939, il XVII anno dell’Era fascista, il giorno della possessione. Fu la nonna a rendicontare i fatti. Quella mattina, dopo aver lasciato la mamma bidella alla Scuola Agraria di Catanzaro, le due donne – Maria e l’anziana – stavano tornando in paese a piedi, in località Siano. Verso le 11, sul viadotto del torrente Musofalo, a ottocento metri da casa, la nipote aveva accostato il parapetto e, guardando sotto la campana, era caduta a terra svenuta. Fu portata a casa grazie al soccorso di un paesano e la mamma fu mandata a chiamare. Presa la porta della camera, la genitrice se l’era trovata sul lettone a parlare come Pepé.
«Oh, Gesù!
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