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Il leone e il

cacciatore
Temi introduttivi
Antropologia storica e filosofica
• L’antropologia filosofica storicista e il colonialismo:
1. De-costruzione delle antropologie filosofiche coloniali. Il tessuto ideologico
della produzione e delle trasformazioni del discorso antropologico coloniale
2. Ri-costruzione dell’antropologia filosofica. Identità di antropologia
filosofica e storia dell’antropologia filosofica: la storia epistemologica come
storia delle relazioni di potere-possibilità.
3. Antropologia filosofica e filosofia: la ‘custodia delle possibilità’ come
comprensione ultra-assiologica e come cura delle possibilità-in-comune.
Esempio: dualismo natura-cultura (ecologia politica); superamento
dell’identitarismo anti-identitario (I) e dell’ibridazione (II) nell’antropo-
poiesi dell’essere in-comune.
Le invenzioni dell’Africa
• 1. La periodizzazione colonialista: occupazione, presente etnografico,
indipendenze.
• L’occupazione (tardo Ottocento):
• Presupposti (tecniche: battelli a vapore, chinino; storico-politici:
indebolimento delle società africane dopo la fine della tratta e l’inizio
del commercio ‘lecito’)
• L’amministrazione coloniale: occupazione militare; imposizione di
sistemi coercitivi di tassazione; requisizioni; obbligo di fornire forza-
lavoro nei settori infrastrutturali e produttivi di interesse commerciale.
• Le ‘mappe’ territoriali artificiali.
• Il presente etnografico:
• Presente come ‘vuoto’ di storia (Hegel)
• Presente etnografico come ‘museo antropologico’
(etnologia e etnografia)
• Presente etnografico come discorso del potere coloniale
(divisioni e gerarchizzazioni funzionali: antropologia e
geografia)
• Le indipendenze:
• Un breve ingresso nella storia : i movimenti
nazionalisti
• Eredità e logiche neocoloniali
• Ingiustizie epistemiche: analisi della
modernizzazione in termini occidentali
ETNIA, TRIBU’, NAZIONE
• La distinzione fra etnia/tribù e nazione: staticità/dinamismo,
immobilismo/sviluppo, tribalismo/civilizzazione.
• Le scienze dell’altro e della diversità occidentale: etnologia, etnografia,
antropologia come scienze ‘coloniali’
• Le tre diversità ‘strutturali’:
• 1. Diversità di razza: dal fisico al ‘morale’
• 2. Diversità di organizzazione sociale e politica: la tribù come concetto
organizzativo sociale fondato sull’omogeneità di clan e discendenza; come
‘tribalismo’ politico, con ruoli ereditati e assenza di individualismo.
• 3. Diversità nell’evoluzione: le società africane fondate sull’identità etnica e sulla
tradizione contro le società evolute fondate sul contratto sociale.
IDENTIFICAZIONE ETNICA
• Il processo di identificazione etnica (di ‘immobilizzazione’ e
‘gerarchizzazione’ a fini di dominio del ‘paesaggio umano’) in età
coloniale:
• 1. definizione dei territori
• 2. redistribuzione del potere
• 3. concessione di accesso privilegiato alla risorse alle comunità
collaborative
• 4. formalizzazione attraverso classificazioni linguistiche
• 5. formalizzazione attraverso terminologie amministrative
MECCANISMI DI APPROPRIAZIONE IN
UN SISTEMA OPPRESSIVO
• Riformulazione della etnicità come «forza di primaria importanza nel
modellare e individuare le relazioni sociali e i comportamenti politici»
• La costruzione di miti storici per rivendicare posizioni di vantaggio nel
controllo delle risorse (la terra, anzitutto) e nell’accesso all’ambito
delle amministrazioni coloniali.
• La tradizione: la coerenza culturale (valori, modelli cognitivi) delle
società ‘tradizionali’ reagiscono al mutamento con integrazioni e
rielaborazioni, con discrasie variabili in ragione della collocazione
geografica e/o sociale (nel secondo caso in relazione a processi di
istruzione, di evengalizzazione, di accumulazione di ricchezze/potere)
LA SECONDA INVENZIONE DELLA
TRADIZIONE
• Dalla tradizione ai miti politici panafricani negli anni della liberazione:
• 1. Nella tradizione l’unità della cultura africana
• 2. A partire dalla tradizione l’interpretazione ‘africana’ (e
terzomondista) dell’indipendenza e della modernità
• La négritude di Senghor
• L’Ujamaa socialista di Nyerere
• La demonizzazione del tribalismo e del pluralismo
L’ORGANIZZAZIONE POLITICA
NELL’AFRICA PRECOLONIALE
• I due tipi di organizzazione politica secondo African Political Systems
(1940):
• Organizzazione a modello statuale: potere centrale, status politici
correlati a differenze di rango e ricchezza, sistemi di casta, talvolta
classi sociali (società ‘feudali’ dei Grandi Laghi: Rwanda, Burundi,
Uganda)
• Organizzazioni ‘acefale’ o ‘segmentarie’, insieme di lignaggi
apparentati dentro un vasto sistema genealogico
LE ORGANIZZAZIONI STATALI (I)
• Jan Vansina, Kingdoms of the Savannah (1966), classificazione delle
organizzazioni statali africane:

• Stati unitari con e senza funzioni ereditarie (società patrilineari a forte


sacralizzazione del potere)

• Unioni di stati con o senza istituzioni centrali (società matrilineari


come gli stati asante e lunda)
LE ORGANIZZAZIONI STATALI (II)
• Stati: autorità centralizzata (che si esercita anche su lignaggi non affiliati);
presenza di sistemi amministrativi e istituzioni che applicano una giustizia
consuetudinaria formalizzata
• Principati (chefferie – chiefdom): regnano capi su un sistema di potere
segmentario (dipendente dai sistemi di discendenza dei vari segmenti)
• Società acefale o senza stato: potere e autorità sono gestiti da sistemi di
discendenza o alleanze territoriali
• J. Vansina, Paths in the Rainforest (1990): le popolazioni della foresta
equatoriale attraversano le trasformazioni della fase della tratta e poi del
commercio lecito «mantenendo l’autonomia di una miriade di diverse
entità, riorganizzate tuttavia attorno a sistemi di coordinamento capaci di
massimizzare la produttività e l’accesso a risorse commerciali».
Dalla tratta al commercio lecito

• «L’imposizione di forme di colonialismo diretto, fino all’ultimo quarto


di secolo, quando si era verificata era stata l’eccezione, non la regola: i
governi europei non sembravano possedere né le risorse né la volontà
né tanto meno il consenso politico per intraprendere e sostenere
imprese di conquista coloniale. Dunque gli interessi commerciali e
strategici di potenze europee per lungo tempo convissero in vari gradi
di cooperazione e conflitto con il mantenimento dell’esercizio di
potere e autorità da parte di sovrani, capi e mercanti africani» (p. 47)
• Il Congresso di Berlino (1884-1885): regolare la crisi del libero
commercio sulle coste africane; controllo sulle vie fluviali; regolare le
sfere d’influenza fra le diverse società commerciali.
• Giudizio storico sullo ‘scramble’:
• 1. «Una svolta radicale nei rapporti fra potenze europee e società
africane […] segnò il passaggio da relazioni di scambio commerciali
prevalentemente con Stati costieri, che mantenevano la propria
sovranità, all’imposizione di forme di occupazione diretta e dunque
all’incorporazione dell’intero continente in sistemi di subordinazione
coloniale» (p. 48)
• 2. «La fase di perfezionamento della destrutturazione delle società
africane, causata da secolari processi di inserimento nel mercato
mondiale, prima per mezzo della tratta atlantica e successivamente ,
nel XIX secolo, con l’intensificarsi di diverse forme di sfruttamento
delle risorse produttive e commerciali» (p. 48)

• L’economia dello scambio prospero (1820-1850): il volume del


commercio fra i paesi europei e l’Africa nera si decuplica. Insieme,
l’Africa inizia a diventare fornitrice di materie prime agricole (olio di
palma, arachidi, cotone). Riconversione mineraria del flusso di schiavi.
FRONTIERE
• Il XIX secolo è segnato da un processo di estensione e mutamento di frontiere.
• FRONTIERE STATALI. Creazione di vasti stati che inglobano società eterogenee.
Stati islamici sudanesi; impero etiopico; stato zulu (mfecane, 1820-1840).
Strutture decentralizzate: principati azande, principati e sceiccati commerciali
arabo-swahili (Angola, Mozambico). Città-stato e re-imprenditori: riconversione
dalla tratta al commercio lecito. Africa centrale: i mercanti signori della guerra
(accumulazione di armi e schiavi, controllo delle vie commerciali).
• FRONTIERE RELIGIOSE. Espansione dell’Islam (Movimenti di rinascimento
islamico: Sahel – Sudan e Corno d’Africa)
• FRONTIERE COMMERCIALI. Reti inedite per vastità e portata.
Dottrina dell’ASSIMILAZIONE
• Teoria assimilazionista:
• 1. la differenza tra le razze può essere ridotta a forme sociali universali
• 2. questo rende ‘plasmabili’ le società
• 3. Le società indigene potevano essere trasformate (assimilate)
secondo la forma della civilisation française
• Presupposto: la civiltà francese incarna la legge naturale («un ordine
universale dell’umanità che trascende le condizioni civili e legali
specifiche a ciascuna società»
• Conseguenza:
• la Francia ha il diritto-dovere di imporre, per mezzo della
sottomissione coloniale, l’abolizione di guerre e schiavitù e le politiche
di mise en valeur, di valorizzazione delle risorse a fini commerciali,
costringendovi le popolazioni africane se necessario» (p. 206).
• «La Francia con la colonizzazione si assume la ‘tutela’ su sujets africani
per farne dei citoyens che avrebbero potuto un giorno assumersi
responsabilità di governo, sempre in seno alla repubblica francese»
Il sistema dell’indigénat
• «Il dominio si concretizzava in un sistema coloniale e gerarchico in cui
i sujets erano sttoposti al regime detto dell’indigénat […] il sistema
dava alle autorità amministrative il potere e l’autorità di comminare
sanzioni penali senza che vi fosse giudizio. Gli indigeni erano inoltre
obbligati a prestazioni in natura o lavoro per le opere considerate di
pubblica utilità»
• L’évolué e l’accesso limitato alla status di cittadini.
• «La dottrina assimilazionista non contemplava alcun ruolo ascritto,
dnque non riconosceva i capi di Stati indigeni» (p. 207)
Il colonialismo francese dopo la guerra
• 1. Individuazione dei capi legittimati dalla tradizione
• 2. Costituzione dei Conseils de notables indigenes
• 3. «L’uso di attività pubbliche per accumulare beni personali, al di
fuori della circolazione e ridistribuzione sanzionata dalle gerarchie
tradizionali, è una pratica che si diffonde con l’introduzione di privilegi
che permettono ai notabili di controllare terre, forza lavoro e di
appropriarsi dei guadagni sfruttando i propri sudditi. Il
patrimonialismo non è una patologia del tradizionale, al contrario
ha origine fuori e contro i sistemi di responsabilità reciproca e di
ridistribuzione dei vantaggi fra i membri di una comunità a seconda
delle gerarchie fra famiglie, lignaggi, classi d’età, sessi» (p. 210)
• «Tuttavia le riforme che raggruppavano i capi cantone secondo più
vaste suddivisioni geografiche favorirono un fenomeno che la
successiva storia politica non ci permette di sottovalutare: la presa di
coscienza di problemi e identità condivise e di comuni interessi
all’interno di ciascuna entità amministrativa» (p. 210)
• Dalle nuove identità etniche ai partiti politici degli anni Cinquanta.
IL SISTEMA COLONIALE BRITANNICO
• «La politica coloniale è il risultato della proiezione oltremare di certe
caratteristiche e filosofie interne di un paese e sistema» (Lord Hailey,
An Africa Survey).
• Con l’eccezione delle colonie in cui esisteva una comunità europea di
rilievo (Sud Africa, Rhodesia meridionale, Kenya), la Gran Bretagna
applicò la politica dell’indirect rule:
• «L'indirect rule derivava da una concezione del tutto opposta
all'ideale universalista; non partiva dalla premessa che fosse possibile
e si dovesse dunque operare per la necessaria e ineluttabile
evoluzione di tutte le società verso un'omogenea civilizzazione.
Metteva invece in primo piano il primato e l'esclusività della diversità
culturale, di razza, lingua e istituzioni sociali»
• Distinzione tra
• governo coloniale: problemi generali di gestione delle
risorse e azioni e programmi di "benessere"
economico e sociale

• governo indigeno: native authorities inquadrate in


native administrations, entità territoriali governate
per mezzo di autorità e istituzioni tradizionali (corti,
sistemi fiscali)
UNA RISTRUTTURAZIONE
‘FUNZIONALE’
• «La nozione di native administration contemplava una notevole
misura di libertà d'azione per le autorità indigene, riconosciute e
rimodellate secondo le suddivisioni amministrative e le funzioni che il
governo coloniale centrale e i district commissioners, i funzionari
locali, ritenevano potessero rispondere all'esigenza di massimizzare
risparmio di fondi ed efficienza amministrativa» (p. 220)
• Pertanto «compito del potere coloniale era di controllare, dirigere e
assistere la necessaria ristrutturazione funzionale delle native
administrations, rispettando e preservando la coerenza interna e la
specificità culturale di ciascuna».
• In nessun modo si considerava possibile o
augurabile che le civiltà indigene potessero
evolvere verso forme di modernizzazione
analoghe a quelle che caratterizzavano la
formazione degli Stati-nazione europei.
1. Native administrations già centralizzate
• In alcuni casi le native administrations sul piano territoriale offrivano
già una ‘consistenza’: erano «i governi di dipendenze in cui la
predominante popolazione indigena era organizzata in sistemi politici
considerati avanzati perché centralizzati e gerarchici, dotati di ruoli
burocratici con specializzazioni funzionali»
• (califfato di Sokoto, Bornu, regni della regione yoruba, Asante,
Buganda, Stati tswana, sotho, swazi degli High Commission Territories;
Stato lozi e bemba nella Rhodesia del Nord)
2. NATIVE ADMINISTRATIONS RI-
TRIBALIZZATE
• Negli altri casi, i territori coloniali presentano le società autoctone
giudicate come «prive di istituzioni di governo, al di là di forme
elementari di alleanze fra lignaggi e sistemi di parentela».
• Backward tribes (Lord Lugard, inventore delle native administrations);
• ‘Arretrate’ in quanto «società decentralizzate prive di statualità o di
distinzione fra ruoli sociali e politici, organizzate in sistemi sociali
incentrati su relazioni di parentela o su alleanze di vari segmenti in
comunità generalmente di piccole dimensioni».
• Lugard, Dual Mandate in British Tropical Africa (1926)
Il modello di amministrazione indiretta avrebbe dovuto essere adattato
e addirittura costruito ex novo «laddove il potere e l'autorità indigene
non fossero centralizzati in un sovrano e in ben individuabili istituzioni,
ma fossero diffusi fra diverse entità, lignaggi, clan, segmenti di lignaggio
e di clan, villaggi, classi d'età, associazioni»
• Azione 1: riconoscimento dell’autorità

• «Preoccupazione principale del governo coloniale nello stabilire un


sistema di native administrations doveva essere comunque sempre di
individuare e di assicurarsi la collaborazione dei capi legittimi, e solo
quando non fosse possibile stabilirne la legittimità il governo coloniale
doveva farsi mallevatore dell'individuazione di uomini eminenti, che
avrebbero potuto esercitare la prerogativa di autorità indigene.
Ciascuna autorità indigena e l'apparato delle native administrations
(corti, finanze) avrebbero dovuto esercitare l'autorità secondo leggi
consuetudinarie in territori definiti, sotto giurisdizione coloniale» (p.
222)
• Azione 2: definizione territoriale
• Il criterio di definizione territoriale della giurisdizione delle native
administrations presentava notevoli problemi. Gli Stati centralizzati
africani esercitavano un potere e un'autorità mai omogenei, né
uniformi su diversi territori, clan, lignaggi e aristocrazie. Varie
comunità erano emigrate e vivevano all'interno di un territorio sotto
la giurisdizione di un capo, ma potevano continuare a dipendere
tradizionalmente dal capo della loro area d'origine. Le terre di
famiglie, clan, lignaggi erano generalmente sparse e divise fra territori
anche molto lontani, sia nelle comunità agricole e a maggior ragione
in quelle pastorali del Sahel, del Corno e dell' Africa centrale e
orientale
• «Il sistema delle native authorities si fondava invece su ambiti
territoriali fissi entro i quali riconoscere le principali autorità indigene
a cui demandare il controllo delle risorse e la gestione della legge
consuetudinaria. Le comunità non riconosciute perché vinte, deboli o
disperse, dovevano essere assorbite sotto l'egemonia delle maggiori o
privilegiate, oppure integrate in entità territoriali più funzionali alle
esigenze amministrative e finanziarie della gestione coloniale. Le
"tribù" senza capi o riuscivano a inventarseli e su territori ben
circoscritti, oppure rischiavano la perdita della loro autonomia e
identità»
• Già dunque nella sua concezione il sistema contemplava la creazione
di ambiti territoriali e di autorità del tutto o in parte artificiali. La
costruzione o il rimodellamento delle autorità e istituzioni indigene si
perfezionò con l'introduzione di gerarchie che conferirono la dignità di
Paramount Chiefs, capi superiori, secondo concezioni di gestione di
potere territoriale e di autorità centralizzata che in larga parte non
corrispondevano né alla realtà storica, né alla concezione che
ciascuna società aveva di sé in rapporto alle altre.
• Il sistema di indirect rule con la costruzione di
amministrazioni indigene così concepite si fondava
non sulla salvaguardia della legittimità tradizionale,
ma su una sua semplificazione o razionalizzazione
secondo codici culturali coloniali in ambiti
territoriali, con un controllo di risorse, con
competenze e gerarchie in larga parte inventate
(p.223).
LE CONSEGUENZE SULLA
DECOLONIZZAZIONE
• MUTAMENTI NEGLI EQUILIBRI POLITICI E TERRITORIALI
• Con la decolonizzazione fu evidente che le forme di organizzazione, di
espressione e di lotta delle entità etniche si modellarono sulle riforme della
amministrazione coloniale. Il sistema delle native authorities - che pur
pretendeva di fondarsi sulla legittimità dei capi e dei Consigli tradizionali - in
quanto sistema artificiale e dipendente, aveva operato un mutamento
fondamentale dei sistemi di potere di autorità, e del loro contenuto culturale
e politico. Alcuni sistemi indigeni ottennero la possibilità di predominio ed
espansione oltre che privilegi nel controllo di terra, produzione, lavoro, quindi
possibilità di arricchimento; altri invece videro la loro etnicità storica negata
con conseguente perdita del controllo di risorse non solo culturali, ma anche e
soprattutto economiche.
• MUTAMENTI NELLA STRUTTURA DEL POTERE
• La comunità etnica o politica era riconosciuta solo o prevalentemente
nella figura del capo, con penalizzazione dei gruppi acefali o
decentralizzati, molti dei quali si risolsero a mutare i propri sistemi
tradizionali in funzione del riconoscimento coloniale.
• Il potere dei capi così reificato tese a assumere prerogative che
precedentemente non aveva, poiché gestiva poteri che non
derivavano dalla legittimazione e dal controllo tradizionali, ma dalla
sanzione coloniale.
LA RIFORMA DEL 1947
• Rappresentanti eletti a livello locale.
• Ma: «la concezione delle società africane non era scalfita: società
essenzialmente tribali, divise in entità autoescludentesi, anche nelle
forme politiche moderne, continuavano a essere determinate da
lealtà familiari, etnico-tribali. Quindi l'apertura a elementi non
appartenenti alle aristocrazie tradizionali si intendeva come
cooptazione all'interno di quella concezione» (p. 224).
• La riforma in senso elettorale del 1947 non fu solo una
modernizzazione limitata e selettiva, ma soprattutto funzionale al
progetto di retribalizzazione delle società africane. Gli uomini ‘nuovi’
dipendevano per la loro elezione dal gioco politico locale e prima di
tutto dal consenso delle autorità tradizionali.
• L'emergere di movimenti e partiti politici nazionalisti di massa con
basi nazionali, cioè multietniche e rappresentanti gli interessi di
diversi gruppi sociali, fu l'eccezione, non la regola.
FILOSOFIA DELL’IMPOSTA
COLONIALE
• Il modo di produzione coloniale costrinse e indusse a produrre non
più in funzione dei bisogni della famiglia o della comunità, ma in
funzione del pagamento dell'imposta.

• 1.«Gli amministratori coloniali con le imposte, di capanna, poi di


capitazione, in natura e in denaro, svolgevano il loro compito di
"civilizzatori" introducendo la costrizione a seguire l'etica del
mercato. Con l'imposta i coltivatori africani dovevano imparare il
"gusto per il lavoro", cioè a produrre non solo per la famiglia o per un
ristretto mercato locale, ma per il mercato coloniale» (p. 295)
• 2. «L'imposta era un obbligo che riguardava tutta la popolazione
maschile e poi anche la femminile e, se evasa, giustificava il
reclutamento forzato per la costruzione di infrastrutture, per
piantagioni, miniere, imprese» (p. 296)

• 3. «Imposta, reclutamento di forza lavoro al costo più basso


possibile, alienazione dei terreni più adatti alle coltivazioni furono i
sistemi che in diversa combinazione fra di loro vennero usati per
attrarre investimenti, che altrimenti si sarebbero rivolti ad aree più
competitive nel mettere a disposizione risorse» (p. 296)
• 4. «Gli Stati coloniali quindi dipendevano tutti dallo sviluppo di forme
produttive e di scambio indigene, come base della loro riproduzione e
in modo specifico dai capi locali, agenti del pagamento delle tasse e di
reclutamento della forza lavoro necessaria ai lavori pubblici o da
redistribuire fra imprese minerarie e agricole» (p. 296)
SISTEMI DI SFRUTTAMENTO
• «Lo Stato coloniale fu il mallevatore dell'estensione a tutta l'Africa del
capitalismo sotto la forma di produzioni agricole e minerarie commerciali la
cui redditività si fondava sulla reperibilità e l'uso di risorse, terre e lavoro, a
costi tenuti bassi per mezzo dell'uso di norme coercitive extraeconomiche
[…] La priorità dei governi coloniali era la "valorizzazione" dei territori,
intesa come strutturazione di fiscalità e di produzioni a vantaggio del
bilancio coloniale e dell'esportazione di risorse verso la metropoli.» (p.303).
• «Per raggiungere questo obiettivo si fece spesso ricorso alla cosiddetta
"pacificazione […] che significava l'organizzazione di spedizioni punitive e il
ricorso sistematico alla repressione per fronteggiare qualsiasi opposizione
delle popolazioni locali»
• 1. «Perno su cui si reggeva la finanza coloniale - le dipendenze
secondo una formula comune dovevano bastare a se stesse - erano le
imposte elevate sia in modo diretto che indiretto. La tassa di capanna,
poi perfezionata in tassa ad personam che tutti i sudditi coloniali
dovevano pagare, anche per mezzo di prestazioni di lavoro forzato,
servì non solo a fondare le finanze coloniali, ma soprattutto a
costringere le popolazioni a lavorare per le produzioni commerciali»
• 2. Fu in rapporto alla diffusione del mercato che mutò radicalmente la
divisione sessuale del lavoro, poiché le produzioni agricole alimentari
per la famiglia restarono progressivamente interamente a carico delle
donne, dei bambini e degli anziani. Gli effetti cumulativi di politiche e
processi di riduzione dell'agricoltura alimentare, da un sistema "
aperto" all'ambito limitato e "chiuso" della semplice sopravvivenza
della famiglia, si fecero sentire con più evidenza nelle regioni di
massiccia emigrazione di forza lavoro prevalentemente maschile verso
aree minerarie o di agricoltura commerciale.
• 3. «Il restringersi e deteriorarsi dell'agricoltura familiare hanno poi reso i
sistemi di sicurezza alimentare delle società così colpite ancor più fragili
davanti a calamità naturali, come siccità o malattie delle piante e degli
animali. Deterioramento ambientale e agricolo, dei sistemi di solidarietà
familiare e comunitaria, sono tutti aspetti della storia dell'impatto violento
dell'introduzione di sistemi di sfruttamento intensivo di risorse, lasciate poi
senza difese ad affrontare le conseguenze economiche e sociali della
modernizzazione economica»
• 4. «Le tasse indirette - diritti di dogana e tasse al consumo - colpivano di
preferenza le importazioni, sicché erano gli abitanti delle colonie che
subivano il peso maggiore di una fiscalità applicata soprattutto ai beni di
consumo più richiesti come i tessuti.»
• 5. «Le amministrazioni coloniali intensificarono poi i mezzi
amministrativi e legali per promuovere nuove e più efficienti
produzioni al più basso prezzo possibile e per farlo, centrali alle
strategie economiche, furono le legislazioni che regolavano il
controllo dei terreni o del loro uso, e il reclutamento della forza
lavoro. In tutte le colonie furono messi in atto schemi di requisizione
ed espropriazione delle terre, progetti di coltivazioni obbligatorie,
incentivazione per mezzo della tassazione e del mercato di
espansione delle produzioni contadine commerciali» (p. 304).
• ESEMPIO:

• Nel 1913 la Native Land Law del governo sudafricano proclamava


che la quasi totalità del territorio (87%) era per l'insediamento e le
imprese bianche, mentre gli africani avevano diritti di coltivazione
solo in riserve, terre già povere che, con la crescita demografica e
l'impossibilità di estendere le coltivazioni altrove, divennero
rapidamente affollate e sempre più improduttive.
• Un maggiore uso di misure extraeconomiche coercitive caratterizza la
storia dello sviluppo produttivo delle colonie in cui furono messe in
atto vaste espropriazioni di terre a favore di produzioni di piantagione
(Angola, Mozambico, Congo), oppure ove fu fatto largo uso delle
coltivazioni obbligatorie (Ciad, Niger, Mali, Mozambico, Angola,
Congo).
IL COTONE «MADRE DELLA FAME»
• Fu in particolare la coltivazione del cotone, osteggiata a causa dell'intensità di
lavoro che richiedeva non compensata da adeguati prezzi al produttore, in
Ciad, Mozambico, Mali per esempio, a provocare resistenza e opposizione
sotto varie forme: fughe, boicottaggi delle coltivazioni, aperte ribellioni.
"Basta capi, tasse e cotone" era il popolare slogan del primo partito del Ciad
negli anni Cinquanta. E il cotone era: "la madre della fame e della morte", per
i contadini di Nampula, Cabo Delgado, Niassa, le tre regioni di principale
produzione cotoniera in Mozambico.
• L'obbligo di coltivarlo aveva fatto deteriorare la qualità delle terre e costretto
a diminuire il tempo dedicato alla produzione alimentare familiare, sicché
quando la siccità aveva colpito, non esistendo riserve o aiuto, era arrivata
anche la morte.
• In tutte le regioni in cui esistevano produzioni di coloni (Rhodesia,
Kenya, Mozambico, Angola, Congo), questi si mossero per ottenere
dai governi coloniali leggi che impedissero ai coltivatori africani di
competere nelle produzioni commerciali, oppure ebbero assicurate,
dalla stessa legislazione, sovvenzioni, tariffe speciali per il trasporto
delle derrate, facilitazioni finanziarie e commerciali. Tutti vantaggi che
erano riservati ai coloni bianchi e che fino agli anni Cinquanta e oltre
non furono estesi agli agricoltori africani (p. 306)
ECONOMIA ESTRATTIVA
• 1. Lo sviluppo dell'industria mineraria era iniziato sulla base di piccole, medie
e grandi concessioni che rapidamente vennero monopolizzate dalle
Compagnie più forti. Nel primo stadio si ebbe dunque una massiccia e
indiscriminata mobilitazione di lavoro, sia con metodi coercitivi sia con
incentivi, sempre con l'appoggio di una legislazione che "liberava" forza lavoro
per mezzo di restrizioni all' accesso alla terra e alle coltivazioni commerciali
delle popolazioni.
• 2. La costituzione di riserve, in Sud Africa e nelle Rhodesie, costrinse gli
africani soprattutto giovani che dovevano pagare l'imposta e procurarsi i
mezzi per ottemperare agli obblighi sociali per sposarsi, ovvero pagare la dote
o prezzo della sposa, a cercare lavoro nelle regioni minerarie o in piantagioni e
imprese agricole colone.
• 3. In una seconda fase e nei settori minerari più avanzati e redditizi
(Sud Africa, Copperbelt, Katanga) gli investimenti tecnologici
permisero di ridurre la forza lavoro nelle miniere e richiesero un
numero crescente di specializzati. Alle politiche di promozione di
emigrazione di lavoratori, forza lavoro instabile e mal pagata, vennero
gradualmente sostituite politiche di controllo e selezione con l'aiuto
dei capi indigeni, sia nelle aree di provenienza sia in quelle d'arrivo. Le
riserve mutarono di ruolo: da riserve di forza lavoro diventarono aree
rurali entro le quali, con la collaborazione dei capi, si controllavano i
flussi della manodopera (p. 307)
• 4. Da un'emigrazione prevalentemente stagionale, dunque
temporanea, di contadini "prestati" ai settori di produzione di
impresa, si passò necessariamente a forme di stabilizzazione di una
forza lavoro semispecializzata, e solo i braccianti generici, che
facevano i lavori più duri e pericolosi, rimasero migranti stagionali.
• 5. Le città minerarie si strutturarono secondo gerarchie razziali e di
classe: le zone residenziali bianche erano separate da quelle operaie
bianche, e queste lontane dalle africane dei lavoratori stabili, mentre
la popolazioni dei migranti si divideva fra i compounds e abitazioni
precarie in bidonville.
• 6. I lavoratori immigrati, stabili, temporanei, specializzati e non, si
associarono nei quartieri in affiliazioni etniche e regionali, oppure per
confessione religiosa. Si crearono nuove identità che intersecavano
l'origine etnico-regionale con la posizione sociale e l'affiliazione
religiosa. Queste nuove identità saranno alla base delle organizzazioni
di sindacati e partiti in cui l'identità etnica originaria non era il solo, né
sempre il prevalente, criterio di identità.
LA DICOTOMIA DELLA «MESSA A
VALORE»
• In ogni regione e territorio, con lo svilupparsi delle produzioni per
l'esportazione, si approfondì il divario fra aree "valorizzate" e aree che
rimasero o diventarono marginali. Un importante indice di questo
sviluppo squilibrato sono i trasporti. Basta guardare una carta
dell'Africa per constatare come le vie di comunicazione, strade e
ferrovie, lo sviluppo di reti di trasporto moderno quindi, si siano
concentrate nelle aree "produttive". Il sistema di trasporti di gran
lunga più complesso e articolato si trova in Sud Africa. Quindi
investimenti in infrastrutture, servizi, scuole, posti di salute si
concentrarono nelle aree produttive, mentre le periferie vennero
lasciate nell'arretratezza.
• La dicotomia che si produce come conseguenza dello
sviluppo coloniale non è dunque semplicisticamente
fra paesi relativamente più ricchi e paesi poveri, fra "
città" e " campagna", ma è più complessa ed è in
primo luogo fra aree "messe a valore" e le altre (p.
309).
L’AFRICA INDIPENDENTE
• I nuovi Stati indipendenti rivendicavano tutti come quadro di
integrazione e costruzione nazionale i confini dello Stato coloniale.
Unità e centralizzazione, all'alba delle indipendenze africane,
sembrano le condizioni indispensabili sia al rafforzamento del potere
e dell'autorità delle nuove leadership sia alla promozione di un più
rapido processo di integrazione nazionale e di sviluppo.
• La forma di Stato più diffusa all'indipendenza era quella unitaria,
mentre forme federali furono adottate o imposte solo in alcuni paesi
(Nigeria, Uganda, Camerun), laddove i negoziati che portarono alla
devoluzione del potere vollero tentare di garantirne la spartizione fra
regioni con forte radicamento storico in istituzioni tradizionali così
come erano state preservate o consolidate nel periodo di
dominazione oppure, come nel caso del Camerun, sì riunivano in un
solo Stato territori di diversa dominazione coloniale.
• All'indipendenza, dunque, la tendenza di tutti i sistemi politici africani,
quale che fosse l'origine, la composizione e l'opzione ideologica, fu di
privilegiare la forma partito unico, tale perché considerato partito
aperto di tutto il popolo. I partiti unici divennero l'istanza egemonica a
cui dovevano subordinarsi tutte le altre organizzazioni a carattere
sociale: sindacati, organizzazioni dei giovani e delle donne.
• Già dai primi anni Sessanta si constatava che le istituzioni, pur
esercitando una funzione importante dal punto di vista ideologico,
avevano un limitato ruolo politico poiché in concreto le vere
istituzioni di potere e autorità al di là delle forme giuridiche divennero
il presidente e i suoi principali consiglieri, il partito unico o dominante,
l'apparato burocratico e - a livello regionale e locale - le diverse reti di
alleanze fra potere e interessi tradizionali e moderni e fra settori
economici e sociali.
IL PARTITO UNICO
• Le organizzazioni politiche di lotta contro il colonialismo avevano
tentato di creare dalle diversità regionali, etniche, religiose e di classe,
unità di intenti e quindi sistemi di coordinamento. I movimenti politici
anticoloniali a carattere etnico o regionale si erano infatti dimostrati
inefficaci perché facile preda di strumentalizzazioni che favorivano il
mantenimento del controllo coloniale. Fronti, congressi, partiti che
univano le varie popolazioni, regioni, classi diventarono, in embrione
e non solo ideologicamente, le prime forme di nazione e il partito
espressione di un'unica comunità morale subito dopo l'indipendenza
venne concepito e rappresentato come guida indispensabile a
costruire unità nazionale e sviluppo.
IL ‘TRIBALISMO’ NEMICO
• Alla mediazione fra le diverse istanze regionali e locali caratteristica
della fase delle indipendenze […] si sostituirono ovunque politiche e
metodi dirigistici che in larga parte sembravano modellati sulla
tradizione coloniale di imposizione della legge del più forte […] in
nome del primato della politica, intesa come unità nazionale ideale
promotrice di sviluppo, si condannò ogni espressione di pluralismo
come tribalismo, a cui si diede la connotazione negativa di
comportamento oscurantista, quindi contrario alla modernizzazione e
allo sviluppo, e di tattica divisiva demonizzata come collaboratrice di
forze interne reazionarie e internazionali (l'imperialismo) nel disegno
di far fallire lo Stato-nazione
IDEOLOGIA DEL PARTITO UNICO
• 1. Il partito unico esprime e concretizza l'unità nazionale
fondamentale, non riconosce né ammette divisioni etniche, tribali,
regionali o di classe.
• 2. Qualsiasi opposizione al partito unico è considerata illegittima
perché retaggio delle politiche coloniali di divide et impera e quindi da
ricondursi al tribalismo a sua volta fomentato da cospirazioni
oscurantiste oggettivamente alleate e complici di trame imperialiste.
• 3. Il partito unico è democratico poiché in esso è rappresen tato tutto
il popolo ed è lo strumento per mobilitarlo al fine di realizzare
integrazione nazionale e sviluppo economico.
DEMOCRAZIA E TRADIZIONE
• Il concetto di democrazia che venne elaborato per giustificare il
partito unico partiva dall'idealizzazione delle società tradizionali,
considerate società egalitarie, solidali, quindi intrinsecamente
democratiche.
• Il colonialismo aveva distrutto le democrazie tradizionali, compito del
partito unico era dunque di costruire la comunità allargata della
nazione per mezzo di una rivoluzione politica (l'indipendenza) e
morale: l'asserzione della volontà unitaria di un popolo come sola
fonte legittima di potere politico.
UNITA’ E SOCIALISMO SENZA CLASSI
• Il primato dell'unità e uniformità delle società africane è parte integrante
anche delle ideologie socialiste africane: la lotta di classe esisterebbe solo fra
società africane, tutte in egual misura sfruttate, e colonialismo e
imperialismo.
• Per Nkrumah, Touré, Nyerere e tutti i socialisti della prima generazione il
socialismo non era una meta da raggiungere, bensì una realtà africana:
l'assenza di una classe capitalista interna esigeva che il potere del governo
emanasse dal popolo e si esercitasse a favore di tutti. Dunque, diversamente
dai socialismi cosiddetti "realizzati" dell'Unione Sovietica, dei paesi dell'Est
europeo e della Cina, i socialismi africani si concepivano non come dittatura
del proletariato, bensì come dittatura della volontà generale su popoli non
divisi da antagonismi di classe.
• Le divisioni etniche, tribali, regionali erano considerate
prevalentemente retaggi di atavismo oscurantista fomentato dalla
dominazione coloniale, da reprimere e sopprimere, da cui la diffusa
ostilità verso le autorità tradizionali. In questo senso i leader socialisti
erano perfettamente inseriti nella logica della modernizzazione in
versione coloniale, poiché ogni espressione di particolarismo non era
considerata o analizzata nella sua concretezza, ma condannata senza
appello come blocco, ostacolo al processo di evoluzione verso
l'affermazione di una società migliore, più avanzata e egalitaria.
• IL PARTITO-MASSA
• Negata l'esistenza delle classi e quindi della lotta di classe, il partito
unico non era concepito come rappresentante l'egemonia di coalizioni
di interessi, ma era inteso come affermazione della solidarietà
comunitaria idealizzata che diventa nazione. Tutti i partiti unici di
questa generazione, quale che fosse l'opzione ideologica, si definirono
partiti di massa, in quanto rappresentavano idealmente tutto il
popolo, tutte le diverse istanze e interessi uniti in progetti comuni di
emancipazione (p. 351)
I SOCIALISMI DI SECONDA
GENERAZIONE
• 1. La distinzione fra socialismi africani della prima generazione e
socialismi marxisti-leninisti o "scientifici", quali furono concretizzati
nell'ideologia e nelle politiche di una seconda generazione di colpi di
Stato degli anni Settanta e di indipendenze per mezzo delle lotte di
liberazione nazionali, è soprattutto legata al dibattito ideologico
dell'epoca, a sua volta conseguente i fallimenti e le delusioni delle
prime indipendenze africane.
• 2. Ideologie che rifiutavano la definizione di "africane", ma si
richiamavano alla "scientificità" del marxismo cominciarono a
esprimersi in progetti politici e di presa del potere nella seconda metà
degli anni Settanta con le lotte di liberazione nazionali in armi.
• 3. I socialismi di questa seconda generazione, alle origini sempre
ideologie di riscatto sociale e politico, concepivano la lotta contro il
colonialismo come una rivoluzione che doveva abbattere tutte le
strutture economiche e sociali su cui si reggeva lo Stato neocoloniale.
• 4. I governi degli Stati che erano stati liberati dopo lunghi anni di guerra
si ponevano dunque come priorità lo smantellamento di ogni struttura
ereditata dal colonialismo e mettevano al centro del loro progetto
rivoluzionario e modernista il riscatto delle popolazioni contadine, che
rappresentavano la maggioranza in ogni territorio e inoltre erano la
spina dorsale delle produzioni per la sussistenza e per lo sviluppo.

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