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Arte preistorica
L’arte preistorica è diffusa in tutte le parti del
mondo e sotto varie forme, dalle statuette alle
pitture rupestri ai monumenti megalitici. Il
termine preistorico indica che la cultura che ha
prodotto l’opera d’arte è priva di linguaggio
scritto
Nonostante questo, le testimonianze che ci sono
giunte dalla preistoria sono spesso sorprendenti
da molti punti di vista, non ultimo quello
tecnologico. Esempi notevoli sono i monumenti
megalitici di Stonehenge, le linee di Nazca in Perù
e le pitture rupestri di Lascaux, in Francia
Il periodo di riferimento è suddiviso come segue:
• Paleolitico medio e inferiore: 750.000-40.000 BP
• Paleolitico superiore: 40.000-10.000 BP
• Mesolitico: 8.000-6.000 BP
• Neolitico: 6.500-1.500 BP
L’inizio dell’uso del colore
Per individuare l’inizio della storia del colore dobbiamo presumibilmente
fare un salto indietro di almeno 400.000 anni. A tanto potrebbe infatti
risalire il primo uso culturale del colore: la decorazione del corpo. I popoli
di Neanderthal e di Cro-Magnon usarono l’ocra rossa per riti funebri o di
fertilità. Probabilmente questa sostanza rappresentava il sangue e quindi
l’inizio e la fine della vita. Il componente base dell’ocra rossa, l’ematite
(Fe2O3), deve il suo nome alla parola greca hema che significa appunto
sangue
Per sottolineare l’importanza di questa
sostanza nelle culture paleolitiche, basta
considerare il fatto che in ogni località in
cui furono scoperti siti preistorici, è
possibile tracciare rotte commerciali
verso depositi di ematite
L’uso dei pigmenti per la decorazione del
corpo è ancora vivo al giorno d’oggi, per
esempio presso gli Aborigeni, uno dei
popoli più antichi della terra
400.000 anni fa…
È chiaro che per fissare una data di inizio ci si può basare soltanto sulle
evidenze archeologiche, sfruttando i sistemi di datazione disponibili. Non
possono esistere sorgenti di informazione scritta, a differenza di quanto
avviene per gli studi sull’epoca Romana o medievale. I più recenti studi
archeologici suggeriscono che esseri umani appartenenti all’Età della
Pietra media abbiano impiegato pigmenti a scopo rituale almeno 400.000
anni fa: è quanto risulta dagli scavi del Prof. L. Barham dell’Università di
Liverpool, che nel corso di campagne effettuate alla fine degli anni ’90
presso le caverne di Twin Rivers, nello Zambia (Africa centrale), ha
rinvenuto centinaia di frammenti
di pigmenti dai vari colori, con
evidenze di raccolta sistematica e
lavorazione del materiale roccioso
Le fasi mineralogiche identificate
sono state principalmente ossidi e
idrossidi di ferro (ematite,
specularite - sx - limonite,
arenaria ferruginosa) e diossido di
manganese
Il primo pigmento: ocra rossa
Se i ritrovamenti di Twin Rivers sono forse i più antichi, nel seguito dell’Età della
Pietra sono numerosissime le evidenze dell’uso del colore da parte degli uomini
preistorici; emerge però tra tutti l’impiego dell’ocra rossa. Esempi di ritrovamenti
di ocra rossa si hanno in siti paleolitici di tutti i continenti, a dimostrazione che il
suo impiego per rituali funebri era diffuso in tutto il mondo. Il motivo è
probabilmente legato alla grande disponibilità e stabilità del composto
Elemento Fe Al Si Ca Mn
caput mortuum 91.9 0.4 3.0 0.2 0.02
ematite 92.3 0.2 0.8 0.3 0.5
ocra rossa 24.9 16.7 54.9 1.0 0
limonite 90.5 0.02 6.9 0.2 0.01
ocra gialla 32.7 29.0 32.5 0.4 0
terra di Siena naturale 65.9 2.7 25.9 0.2 0.2
terra di Siena bruciata 89.6 0.06 3.9 0.07 0.2
terra d’ombra naturale 51.4 6.1 22.9 3.9 7.7
terra d’ombra bruciata 36.4 4.7 15.7 11.2 6.9
Nonostante le differenze di colore dei vari pigmenti citati, che possono
andare dal giallo al marrone scuro fin quasi al nero, è importante
sottolineare che il meccanismo di formazione del colore è il medesimo in
tutti: si tratta del trasferimento di carica dai leganti O2- o OH- allo ione
Fe3+. Per questo motivo gli spettri di riflettanza dei vari pigmenti sono
simili, caratterizzati da un punto di flesso che varia a seconda della tinta
e da un tailing positivo nella regione del rosso
80
70
60
50 ocra rossa
R%
40 ematite
30 ocra gialla
20
10
0
400 450 500 550 600 650 700
nm
Composto Concentrazione
SiO2 12 %
Al2O3 35 %
Fe2O3 40 %
CaO 0.5 %
MgO tracce
TiO2 tracce
LOI* 12 %
* loss on ignition, ciò che resta
Il contenuto di ossido di ferro (II dopo riscaldamento a 550 °C
o III) può variare dal 20 al 70% (per lo più sostanze organiche)
Nella foto a sx pani di
ocra rossa messi a
seccare dopo lavaggio
per rimuovere le
impurezze
Questa sequenza identifica anche una probabile cronologia cromatica, con il rosso
in posizione più remota e il bianco in quella più recente. Solo successivamente sono
stati introdotti i verdi, i blu, i porpora. Occasionalmente sono state notate tinte
rosso-violetto e malva, ma potrebbero trattarsi più probabilmente di prodotti di
degradazione
I neri di carbone
I pigmenti a base di carbone formano un gruppo di materiali pittorici tra i più usati
nel corso della storia dell’arte. Il colore di questi pigmenti varia tra il nero e il
marrone scuro, passando per il grigio
Il termine neri di carbone in realtà costituisce un cappello sotto il quale sono
presenti numerose forme accomunate dalla prevalente natura carboniosa. Le
principali sono le seguenti:
• nero di vite e altri neri vegetali: probabilmente i primi ad essere impiegati
dall’uomo, provengono dall’arrostimento di materiali vegetali, come tralci di vite o
legno di altra origine
• grafite, noto anche come nero piombo: è un materiale cristallino con struttura
planare, ottenuto dal minerale omonimo o per via sintetica riscaldando carbone
amorfo a 3000°C; si impiega come pigmento ceramico almeno dal V millennio a.C.
• nerofumo o fuliggine: si tratta del materiale carbonioso volatile che si deposita
su una superficie fredda in seguito ad arrostimento su fiamma di sostanze
organiche; usato almeno dal III millennio a.C. Il bistro è una versione ricca di
sostanze bituminose, in seguito ad arrostimento incompleto
• nero d’ossa e nero d’avorio: sono di origine animale, caratterizzati dalla presenza
di fosfati essendo il materiale di partenza un’apatite, Ca5(PO4)3(OH,F) si
ottengono anche essi per arrostimento. L’uso potrebbe risalire al III o II
millennio a.C.
L’arrostimento del materiale vegetale o animale causa
in entrambi i casi la degradazione di macromolecole
organiche a carbone secondo la reazione seguente:
D
CxHyOz C + nH2O
D
CaSO4·2H2O CaSO4·½H2O + 3/2H2O
D
2a-FeOOH a-Fe2O3 + H2O
Questa reazione era nota ai Romani, descritta in una
ricetta per preparare un pigmento rosso. Tuttavia,
evidenze archeologiche in alcuni siti, come
l’associazione tra ossidi di ferro e tracce di
combustione, suggeriscono che questo cambiamento di
colore (giallo rosso) fosse conosciuto già nel
Paleolitico, il che farebbe presumere una certa abilità
dei nostri antenati preistorici nel reperire risorse
naturali, selezionando quelle più opportune allo scopo, e
nel trattarle fisicamente
Le evidenze archeologiche sono state supportate da analisi effettuate con le
tecniche XRD, SEM e TEM, mediante le quali si è verificato sperimentalmente che
pigmenti rossi rinvenuti nelle grotte di Troubat (Francia sudoccidentale), risalenti
ad 8.000-10.000 anni fa, potevano derivare sia da ematite naturale, sia da ematite
ottenuta per riscaldamento di goethite. Una questione di difficile risoluzione è se
il riscaldamento sia stato intenzionale oppure no: nel sito paleolitico di Troubat,
sono stati individuati strati di ematite corrispondenti ad entrambe le tipologie
descritte. Un'ipotesi plausibile è che l'ematite ottenuta per riscaldamento avesse
impieghi particolari, per esempio rituali o magici
Peraltro la conversione potrebbe avvenire anche senza combustione in condizioni
climatiche estreme, come si ipotizza sia avvenuto su certe pitture rupestri
australiane esposte a clima caldo e secco
Ci sono evidenze analitiche di trattamenti simili anche su ossidi di manganese neri:
si può supporre che l’arrostimento facilitasse la macinazione del minerale,
analogamente alla selce, permettendo di ottenere una polvere più semplice da
usare. Non bisogna poi sottovalutare l’aspetto rituale e simbolico del fuoco
Applicazione dei pigmenti
Le analisi effettuate sui pigmenti mostrano che questi potevano
essere miscelati a sostanze varie, come argilla, calcite, quarzo,
resti di ossa, talco, feldspato potassico, che avevano lo scopo di
migliorare la stesura del pigmento. Come si è detto in precedenza,
è inoltre ipotizzabile che alcuni pigmenti fossero soggetti a
trattamenti preliminari per migliorarne la lavorabilità e l’adesione
alle superfici
Analogamente alle tecniche pittoriche posteriori, i pigmenti
dovevano essere dispersi in un opportuno mezzo legante. Il
legante più semplice e comune era probabilmente l’acqua, ma ci
sono evidenze dell’uso di oli o succhi vegetali, saliva, urina, grassi
animali, midollo osseo, sangue e albume. I pigmenti aderivano alla
parete in parte rimanendo intrappolati alle porosità della
superficie, in parte perchè il legante, seccando, ne permetteva
l’adesione
Pennelli paleolitici
Gli storici ipotizzano che i pigmenti fossero applicati in vari modi:
spennellando, spalmando, tamponando o spruzzando. Il metodo più
semplice prevede l’uso delle dita o del palmo della mano, e ci sono
numerosissime evidenze di ciò. Pennelli preistorici potevano
essere ottenuti da crini di cavallo. Cuscinetti di licheni o muschi
potevano essere adatti a
spargere pigmento su zone
ampie. L’applicazione a spruzzo
è ipotizzabile con ossa cave o
tubicini vegetali, oppure
sputando direttamente dalla
bocca come fanno tutt’oggi gli
Aborigeni australiani
Alcuni esempi di pitture
Disegno riproducente le pitture del pannello noto come Black Frieze, nella
grotta di Peche-Merle (Lot, Francia sudoccidentale) nelle pitture
rupestri. Le analisi Raman e XRD, eseguita su campioni prelevati nei punti
indicati, forniscono l’identificazione sia di ossidi di manganese (hollandite
e romanechite) che di nerofumo nei tratti pigmentati in nero