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Quale socialista ancora accetta lidea che il materialismo filosofico applicato alla vita sociale esige che si spieghi

la coscienza con lessere sociale, o crede che lessere sociale sia determinato dai rapporti di produzione, o condivide lidea della inevitabilit della trasformazione della societ capitalista in societ socialista in virt delle ferree leggi economiche che regolano il movimento della societ contemporanea? Se si tratta di riconoscere che i socialisti posti di fronte alle concezioni di Marx e di Engels le abbiano revisionate nel loro complesso dubbi non ne possono esistere. Onestamente bisogna ammettere che i socialisti sono revisionisti. Che senso ha oggi per i socialisti, dopo oltre 90 anni di revisionismo -da quello iniziale di Bebel, Kautsky, Croce, gi gi, fino a quello recente di Santiago Carrillo- proclamarsi revisionisti? Non c dubbio che ci siano ragioni di carattere immediato a spingerli ad assumere tale posizione poich, seppur la Dc si trovi -per la prima volta nella storia parlamentare del trentennio- nella impossibilit di costituire maggioranze che non siano aperte alle forze di sinistra, sono costretti a prendere atto che, a causa della preponderanza del Pci e della sua ostinazione a mantenersi legato al compromesso storico e allinternazionale comunista , il Psi non ha nessuna possibilit diversa da quella a cui lo costringe lesigua forza di cui dispone. A questa condizione negativa si deve aggiungere lesistenza della crisi economica e le conseguenze sociali deteriori provocate che consigliano di superare lattuale congiuntura con il ricorso alla solidariet di governo stabilita tra le forze politiche dellarco costituzionale. Questa situazione impone al Psi di non trasformare lattuale congiuntura in premessa alla realizzazione del compromesso storico, giudicato pericoloso per la democrazia, ma di considerarla un momento eccezionale che deve essere superato. Di qui lesigenza di non fare del Psi una forza subordinata, di provocare diaspore ideologiche e politiche tali da suscitare conflittualit con il Pci per convogliare attorno al partito un pi largo consenso necessario per creare le premesse alla realizzazione di un corretto modello istituzionale: il bipolarismo alternativo,tipicamente occidentale. N si pu ignorare che lattualit di queste posizioni legata a cause e necessit di quadro internazionale e assume valore strategico di natura, ad un tempo, nazionale ed europea. Ci premesso, come non cogliere la fragilit delle motivazioni che sono allorigine della posizione revisionista del Psi? Incongruente gi il revisionismo socialista nei confronti della crisi economica, dal momento che esso appoggia le misure che Marx suggeriva come adatte a superare la crisi capitalista: statalizzazione e controllo su tutte le principali forze economiche. Non gi che i socialisti non facciano omaggio alle leggi del mercato o non riconoscano la necessit di mantenere un sistema ad economia mista. Lomaggio e il riconoscimento esistono, ma accanto ad essi esiste anche qualcosa di diverso: lazione incessante per scongiurare che le cause che spingono leconomia a richiedere sempre nuovi e pi penetranti interventi statali non siano rimosse e affinch sia considerata lotta economica decisiva labbattimento delle ultime roccaforti del capitalismo privato. Onestamente si deve riconoscere che non facile, dati i tempi che corrono, prendere o tenere, in campo economico, delle posizioni revisioniste. Anche il pi incallito revisionista, dopo aver speso una vita ad ammorbidire, a limare, a capovolgere lintero sistema delle concezioni marxiste, si trova oggi costretto a chiedere che si adottino le misure economiche che questa dottrina aveva indicato come ineludibili. Se cos, almeno in campo economico, il revisionismo non sembra consistere nella revisione critica del marxismo ma nelladozione degli atteggiamenti rivoluzionari del marxismo contro gli aspetti dottrinari di questo. Si tratta di approfondire questa nozione. Tutte le forze politiche sono concordi nel ritenere che leconomia il fattore pi importante di destabilizzazione sociale. Non c democristiano, comunista, socialista, socialdemocratico, repubblicano, liberale che occupi una posizione di rilievo, che non si sia spremuto le meningi per analizzare e anatomizzare la crisi. Grazie a questo immenso lavorio le sue cause non sono pi ignote e i rimedi per il superamento individuati.

Le cause della crisi possono essere sintetizzate nel seguente modo: a partire dal 68, in Italia, la dinamica salariale del settore privato si accresce ad un ritmo percentuale superiore a quello dei paesi dellocse e superiore al costo della vita. Conseguenza di questa dinamica laumento degli stipendi in alcuni settori dellimpiego pubblico e, per gli anni 69-73, la compressione dei profitti dellimpresa privata e la diminuzione delle esportazioni che provocano il passivo della bilancia dei pagamenti. Per gli anni 73-77, per effetto della contrazione delle esportazioni e a causa della crisi petrolifera, lequilibrio della bilancia dei pagamenti ha dovuto essere affidato prevalentemente al contenimento dei livelli di produzione che a sua volta ha inciso negativamente sulloccupazione. I rimedi proposti possono essere riassunti nel seguente modo: 1) nel settore privato: contenimento del costo del lavoro dipendente per permettere quote di profitto alle imprese; nel settore pubblico eliminazione del principio retribuzioni diverse per un lavoro eguale (si allude alle differenze di stipendio esistenti tra i dipendenti delle diverse regioni forniti di identica qualifica professionale; 2) ristrutturazione del lavoro per rendere migliore lutilizzazione degli impianti produttivi e pi consistente il volume della produzione e dellesportazione; 3) aumento della pressione tributaria su liberi professionisti e settori commerciale e agricolo per alimentare la spesa pubblica rivolta ad accrescere investimenti produttivi e infrastrutturali; 4) dirottamento di risorse verso il sud per accrescerne lapparato produttivo e competenze tecniche e manageriali; 5) promozione di misure atte a favorire, a medio e lungo termine, lo sviluppo delloccupazione nel settore pubblico. Da parte mia non ho la pretesa di dare una spiegazione altrettanto completa delle cause che hanno determinato la crisi economica. Condivido il punto di vista secondo cui la causa della crisi deve essere individuata nella esagerata spinta salariale verificatasi nel settore privato, a partire dal 69, ed addebitata ad una errata posizione sindacale. Sono parimenti convinto che per effetto di tale spinta, quando nel 73 sopraggiunta la crisi energetica, al passivo della bilancia dei pagamenti non si potuto far fronte con un adeguato volume di esportazioni. Ma dissento dalla impostazione semplicistica e riduttiva di tale posizione per cui la spinta salariale del 69 nel settore privato e i meccanismi di indicizzazione tesi a difendere il valore delle retribuzioni degli occupati di questo settore sono la causa principale -meglio:esclusiva- della crisi. Diverse e pi profonde le cause. Esse vanno ricercate nella volont della lite politica e culturale emergente con il centro-sinistra ed egemone nel corso di questa esperienza di fare dellespansione forsennata delloccupazione terziaria -in modo particolare di quella pubblica- la base popolare di consenso per ledificazione del capitalismo monopolistico di stato. Questa volont, ricollegandosi a un complesso di azione storica gi presente prima del fascismo e consolidatasi nel corso di questo, ha accolto e ampliato la portata di tale azione e ha dato corpo in tutto il paese alla promozione clientelare di ampi estratti di classi e ceti popolari da destinarsi alloccupazione impiegatiziointellettuale ed operaia privilegiata da contrapporre alle classi e ai ceti popolari da destinarsi alloccupazione di alto contenuto attivo o alla sotto-occupazione ed emarginazione. Se questo disegno non stato eseguito con coerenza, non dipeso dalla cattiva volont della lite dirigente ma dal persistere di divergenze culturali e politiche (aspro stato lincontro-scontro tra cattolici e socialisti, ampiamente condizionato dallopposizione comunista) sul ruolo e la posizione da assegnare ai gruppi rappresentati o sotto tutela, dalla paura delle parti di trovarsi sfavorite nella ripartizione del consenso e in parte anche dalla capacit dei gruppi sociali protetti e di quelli non protetti di contestare, a diverso titolo, i ruoli loro assegnati. E anche vero che la colossale opera di ingegneria, volta a spaccare in verticale la societ, richiedeva una perizia tecnica che la classe dirigente (fortunatamente) non possedeva, cos come necessitava, per essere realizzata, di tempi pi lunghi. Da parte mia non ho la pretesa di poter esaurire le cause che sono allorigine dellattuale crisi economica. Ma in quello che ho detto c pi aderenza alla realt di quanto se ne possa cogliere nelle indicazioni fornite dallanalisi del blocco di potere. Per suffragare la veridicit di quanto affermato dovrei condurre unanalisi riguardante i decenni 60-70 e indicare -nella ipotesi che sia resa pari la produttivit degli impiegati pubblici con quella

dei privati- quanto sarebbe stato inferiore il costo del lavoro pubblico. Dovrei parimenti individuare in che misura lesagerata dinamica salariale, verificatasi nel settore privato negli anni 68-77 e successivi, sia stata sollecitata dalla espansione della spesa improduttiva degli anni 60-67, connessa direttamente o indirettamente al settore pubblico. Inoltre, per gli anni 60-70, dovrei calcolare quanto reddito destinato agli investimenti e al lavoro improduttivo, o sottratto alla esagerata lievitazione retributiva degli occupati di tutti i settori economici, avrebbe potuto essere dirottato su investimenti e lavoro produttivo e quanto questa operazione avrebbe contribuito a rendere meno acuta lattuale crisi economica e a soddisfare le esigenze di occupazione e di equa generalizzata ripartizione dei redditi rispetto a quanto possa fare, a partire dal 69, la semplice compressione delle retribuzioni degli occupati nel settore privato. Sono certamente interessato a svolgere tale compito, anche se devo onestamente riconoscere che linsufficienza di conoscenza marxista mi impedisce di dargli attuazione. Ohh, se avessi prestato attenzione pi al Marx vivo che a quello morto, se avessi apprezzato lo spirito pi che la lettera del marxismo, avrei certamente avuto pi ricchezza di dati, spirito dosservazione e capacit, per procedere allo svolgimento dellassunto. Che cos il marxismo se non disciplina intellettuale, studio della realt, sforzo per comprendere le leggi del movimento del pensiero e del mondo esterno, per scoprire gli impulsi dello sviluppo o dellinvoluzione delle diverse forze operanti entro i limiti di un determinato fenomeno o allinterno di una data societ, o addirittura capacit di individuazione dellinterdipendenza e del legame che unisce tutti i possibili lati di uno o di un assieme di fenomeni con il complesso degli altri fenomeni? Cos il marxismo se non perpetuo rinnovamento di questa disciplina intellettuale in ogni momento della storia, per verificare se ci che dato continua ad essere eguale a se stesso o se invece si postula come diverso, se ha subito un salto di qualit e per quali vie vi pervenuto? Cos allora questo ostinato ripetere che il marxismo canone, norma e dottrina individuata e postulata una volta per sempre, questo bla, bla che si spande monotono, mortificante e che ritorna a rivolgersi e a rimordersi la coda? Quanto nauseante sentir ripetere pensieri e frasi che erano validi allepoca dellascesa e dellaffermazione del capitalismo spontaneo e manchesteriano e che suonano cadaverici e tombali nellepoca del capitalismo monopolistico di stato e del capitalismo di stato! Se fosse vero, illustri potenti e luminari, che nellambito di questo capitalismo, in relazione alla situazione italiana, basta comprimere i salari proletari e impiegatizi del settore privato e tassare i redditi dei professionisti, dei commercianti, dei coldiretti, per uscire dalla crisi economica -avviare la ripresa produttiva, reperire nel settore pubblico posti di lavoro per centinaia di migliaia di disoccupati- sarei il primo a sposare e a perorare la vostra causa. Ma dottrina o anche semplicemente buon senso si oppongono a tali semplicistiche posizioni. Il nodo centrale e drammatico di tutta leconomia la mancanza di ogni distinzione tra le categorie classiche di lavoro produttivo e improduttivo: lesaltazione estremistica del concetto che il lavoro comunque prodotto o fornito per decreto produttivo e che le crisi economiche sono determinate da carenza di consumo. Non da oggi che vado ripetendo che la crisi economica quella strutturale si intende- non provocata da un surplus di produzione di beni ma da eccesso di domanda. E dallepoca del congresso di Firenze -novembre 75- che in questo partito ho preso una posizione netta e non equivoca, affermando e ripetendo che lespansione forsennata dellimpiego pubblico il centro propulsore dellespansione del lavoro improduttivo e che da questo centro che, per mille vie, si produce e irradia linflazione. Lo schema classico a cui prima di Keynes faceva riferimento il pensiero economico progressista era quello marxista, secondo il quale nello scompenso tra capitale accumulato nei mezzi di produzione -eccesso di investimenti sui mezzi di produzione- e quello destinato ai consumi -difetto di domanda- che devono essere ricercate le cause delle crisi economiche. Keynes affermava che la crisi capitalista poteva essere superata, o comunque corretta, con unazione opportunamente tesa a stimolare la domanda e introdusse il ricorso allinflazione come mezzo di equilibrio o riequilibrio economico. Oggi questa tesi ha perso valore dal momento che linflazione

agisce prima che si siano create le disponibilit o le riserve di beni destinati al consumo o addirittura prima che si creino le disponibilit per investimenti produttivi. E questa situazione che provoca fenomeni da economia di guerra (ricorso alla liquidit, lievitazione dei prezzi, continua forsennata rincorsa tra lespansione della liquidit e laumento dei prezzi) e getta i popoli e le nazioni prima nella eccitazione esaltata del miraggio del continuo miglioramento, poi nella prostrazione della rovina economica. Se quanto ho affermato corrisponde al vero, allora a chi voglia uscire dalla rovina non rimane che praticare vie che si rivelino omogenee allo scopo prefisso. Se labnorme inflazione provocata e accelerata dallincontrollata espansione dellimpiego e della spesa pubblici, la prima azione che si postula come necessaria quella rivolta a correggere la distorsione. Strade praticabili e non eccessivamente traumatiche esistono. Ad esempio antidogma ha individuato in campo pensionistico una di queste possibili vie. E noto che i dipendenti pubblici godono di una normativa di favore. Ebbene se si procedesse alla unificazione della normativa pensionistica dei dipendenti pubblici con quella dei dipendenti privati si otterrebbe di certo il risultato di calmierare lentit annuale del ricorso al pensionamento e una contrazione delle spese sostenute dal tesoro. Effetti questi che sono omogenei allesigenza di attenuare linflazione. Misure capaci di calmierare linflazione quindi esistono e se non emerge la volont di individuarle e soprattutto di applicarle, questo dipende dal fatto che la classe dominante non desidera tali esercizi. Eppure tali esercizi devono interessare gli imprenditori (se ancora ne esistono), i commercianti, i coltivatori diretti, gli artigiani, gli impiegati, gli operai, i sottooccupati ,i disoccupati di tutte le estrazioni, dal momento che per alcune di queste categorie in gioco la sopravvivenza e per altre la possibilit di conseguire una pi soddisfacente o una meno drammatica posizione economico-sociale. Se al momento non esiste presso queste categorie una adeguata coscienza del problema, ci dipende dal fatto che il clerical-fascismo e il blocco politico che lo sostiene, nonch gli intellettuali di cattedra, i giornalisti, i divulgatori di stato, organizzati in fascio delle corporazioni, col ricorso alla manipolazione gesuitica delle coscienze e alla propaganda min cul pop, impediscono a questa di formarsi. Non pensabile che un problema di cos vasta portata che nega i presupposti della democrazia, compresa linformazione alla stragrande maggioranza della collettivit e ipoteca le condizioni sociali della presente e delle future generazioni, non possa essere messo al centro della riflessione di un qualsiasi gruppo politico che svolga unazione democratica. Chi in questi anni di tragedia ha rappresentato quasi da solo il riferimento sicuro ad unazione e ad un pensiero democratici se non il Pr? E come propugnatore di azione democratica, pu il Partito radicale non essere investito del problema? Ecco due interrogativi che si pongono e a cui, forse, non facile dare una risposta univoca. C chi, posto di fronte a tali quesiti, rifacendosi allorigine storica del radicalismo, quando i problemi sociali erano volutamente banditi per lasciare spazio al preminente compito di realizzazione dellunit nazionale, si ritrova dopo oltre 100 anni con analoghe pregiudiziali e paure. C' chi, rifacendosi ad una consolidata prassi radicale che stori-camente ha rappresentato lestrema sinistra del liberalismo borghese, impegnata a difendere ed estendere le libert personali e a favorire la laicizzazione della

vita civile, a combattere il militarismo, ad elevare alta e forte la critica agli abusi della pubblica amministrazione, ritiene riduttivo o non pertinente sorreggere lazione economico-sociale. Queste e altre simili posizioni sono discutibili. Se bisogna riconoscere che durante tutto l8oo -con le dovute eccezionilazione radicale era autolimitata nello spazio riservato ai diritti civili e politici, questa autolimitazione ampiamente giustificata dal carattere arretrato dello stato liberale di quel secolo, stato che, non bisogna mai dimenticare, nemmeno formalmente prevedeva che lesercizio dei fondamentali diritti, civili e politici, fosse attribuibile al popolo. Ci dipende non solo dal fatto che quello stato era retto a ordinamento monarchico che riservava al sovrano consistenti "fette di potere", ma dal suo carattere litario. Si deve qui ricordare che il diritto di voto era riservato alla nobilt e alla borghesia e che i radicai erano, in linea di principio, favorevoli al suffragio universale e impegnati in prima persona per estendere questo diritto? Ancora: necessario ricordare che le grandi masse popolari -contadini, operai- erano civilmente arretrate, meno che analfabete, dal momento che non disponevano di una lingua comune, il che rendeva problematico, se non impossibile, la loro partecipazione cosciente alla soluzione dei problemi nazionali? Se si tengono presenti questi elementi, nella loro dimensione reale, allora la tenace ostinata lotta sostenuta dai radicali per trasformare lo stato monarchico-liberale in stato democratico non stata poca cosa e la stessa insufficiente attenzione ai drammatici problemi economicosociali del momento appare compensata dagli sforzi compiuti nel campo dei diritti civili e politici rivolti a coinvolgere e a cointeressare sempre pi larghi strati di popolo, a prepararli a svolgere un'azione ordinante, da classe dirigente. Ed qui che si pone il quesito: al giorno d'oggi ha ancora senso per i radicali seguire i radicali di ieri? La domanda si pone, dal momento che nel secondo dopo-guerra l'istituto monarchico stato abbattuto, la repubblica instaurata, la Costituzione democratica varata, realizzato il suffragio universale e quindi, almeno formalmente, i fondamentali istituti e diritti per i quali lottarono i radicali del XIX secolo conquistati. N si pu affermare che le masse popolari parlino solo in dialetto e non capiscano l'italiano o che presso i giovani sia diffuso l'analfabetismo o che la cultura media non si sia grandemente estesa. Tutti questi fattori sembrano indurre ad ammettere che gran parte delle ragioni che sostenevano e giustificavano l'azione dei radicali del passato siano superate. Questo atteggiamento non condivisibile poich Iarticolo 7 della Costituzione e la funzione di guida esercitata dalla gerarchia clericale sul pi grande partito di massa posto alla direziono dello stato rendono pi urgente e pi acuto che nell'et post risorgimentale il problema della laicit dello stato, problema aggravato dal carattere complice e acquiescente assunto dai partiti di massa cosiddetti laici. Questo atteggiamento non condivisibile anche perch la Costituzione disattesa nelle sue parti fondamentali, mentre pressanti si aprono nuovi spazi alla rivendicazione di altri essenziali diritti. Le domande da porre sono, quindi, altre: possono i diritti politici e civili essere affermati senza il sostegno di una adeguata azione in campo economico-sociale? Meglio pu essere oggi svolta altrettanto positivamente di quanto lo fu ieri unazione a favore di tali diritti senza che questi trovino conforto in un'azione economico-

sociale? E' su queste domande che sorgono dubbi e incertezze, in forza della constatazione che mentre ieri, in modo esagerato e romantico o graduale e timido, esistevano delle forze sinceramente interessate a tutelare, fuori dal parlamento e contro il governo, gli interessi delle classi subalterne, oggi tali forze, quasi, non esistono. Mentre i radicali di ieri avevano coscienza che non solo loro stessi ma anche alla loro sinistra esistevano gruppi di intellettuali che si assumevano con sacrificio il compito ingrato di difendere gli interessi economico-sociali delle classi subalterne, oggi si deve constatare che, tranne l'opposizione laica e civile, esistono forze di governo che incalzano altre forze di governo. Partiti, sindacati, fazioni, furbi di destra e di sinistra, nascono gi destinati al sacerdozio ministeriale, ad occupare, ad ingombrare cattedre e poltrone foderate di velluto, stanze con bottoni di comando, magari con braccia e braccioli imbottiti di morbido burro e marmellata. Qui si postula il quesito: in questa situazione sufficiente un'azione di opposizione che si appoggia solo sulla tutela, e lo sviluppo dei diritti politici e civili o essa non rappresenta un adeguato deterrente? Questa domanda ne porta sottintesa un'altra, se cio senza una "definita" posizione sulla questione sociale e sull'emergere di un blocco di classe consenziente e disposto a sostenerla, possa decollare un progetto di opposizione politica e i "diritti civili" trovare adeguato sbocco istituzionale e capacit di rinnovamento sociale. La mia risposta, in tutti questi anni di militanza nel partito radicale, sempre stata chiara. Dal 1972, dal congresso di Torino, non ho fatto che ripetere che era necessario puntare non solo sui diritti civili ma anche sulla questione sociale. Se dovessi dire quando si formata questa convinzione devo affermare che essa si maturata negli anni '68-70 quando come osservatore, pi che come militante di qualche gruppuscolo della sinistra extra parlamentare, mi interessavo al movimento operaio-studentesco. Gi in quegli anni mi appariva chiaro che il movimento operaio spontaneo fortemente antisindacale, con la punta pi cosciente organizzata nei CUB (comitati unitari di base) che si ostinava a rifiutare "sbocchi grettamente contrattuali" e che in nome di una visione totalizzante dei rapporti fra capitale e lavoro indicava nello scontro generalizzato e frontale fra le classi l'arma mitica per la conquista del potere, non potesse essere abbandonato. Anche se non tutto in questo movimento era condivisibile, la sua ampiezza, l'atteggiamento di rigetto nei confronti dei partiti tradizionali, la pretesa di organizzare, partendo dalle istanze della fabbrica e dal basso, il rovesciamento dell'intero sistema sociale, erano elementi sufficienti a farmi ritenere che fosse incanalabile in funzione di un ampio rinnovamento sociale e che sbagliato fosse lasciarlo strumentalizzare a meri fini di rinnovamento sindacale e ingabbiare in rivendicazioni di classe. Sempre in quegli anni mi appariva evidente che esisteva una forte contraddizione fra gli interessi operai e quelli studenteschi, dal momento che i primi erano in grado di precisare le loro utopiche aspirazioni, di incarnarle in concrete istanze -egualitarismo salariale-, mentre i secondi non erano nemmeno in grado di definire una posizione che non fosse quella agitatoria di istanze ideologiche, troppo spesso vaghe e menzognere. Brevemente: bench in quegli anni avessi un'idea confusa di quali rivendicazioni concrete a carattere generale la classe operaia dovesse farsi carico per determinare meno iniqui rapporti sociali, l'idea che fosse necessario sottrarre consistenti strati di classe e di popolo all'egemonia dei partiti tradizionali, per veicolare tale

disegno rimase un fatto acquisito. Parimenti, bench non avessi chiara coscienza della funzione da attribuire agli studenti, l'idea che fossero vittime di un ordinamento sociale ingiusto, strumentalizzati dai governi e dall'opposizione al fine di destabilizzare e favorire il formarsi di solide basi di massa per un nuovo capitalismo, rimase un fatto acquisito. Fu cos che quando mi trovai militante nel Pr, pur approvando tutte le lotte e le modalit con le quali queste erano condotte dal partito, le sentii sempre insufficienti a realizzare un disegno d'alternativa. Come si pu rimanere muti davanti a una crisi economica che persiste da oltre un quindicennio e che diventa ogni giorno pi dura e drammatica, alla. mancanza di volont del parlamento, del governo, dei partiti, dei sindacati di porre mano, con risolutezza, a delle misure atte a fronteggiarla, dal momento che queste forze vogliono gestire le conseguenze deteriori che provoca? Come si pu indicare in una formula politica -"l'alternativa di sinistra"- la risoluzione dei mali, senza prepararsi ad affrontare uno dei pi difficili e complessi compiti che la moderna gestione del potere comporta: la produzione, la distribuzione, la ripartizione dei beni e dei servizi in modo non troppo irrazionale e ingiusto! Come si pu sostenere questa formula senza fare i conti con la struttura che compone la sinistra, sondare se essa un assemblaggio di strati e di classi destinato a sfaldarsi nell'assunzione non clientelare e parassitaria della gestione pubblica o se invece essa sufficientemente coesa, capace di durare almeno una legislatura e assolvere con onore questo impegno. E sulla base di simili ragionamenti che ho cercato di stimolare i ristretti quadri dirigenti del partito a prendere in considerazione l'opportunit di condurre accanto alle lotte civili una (ripeto: una) lotta a carattere economicosociale. Gi nel '75 sentivo che sarebbe presto arrivato il momento di una colossale crisi degli istituti pensionistici, sentivo che i rapporti di sfruttamento non potevano pi prescindere dalla giungla normativa che regola le pensioni degli impiegati e degli occupati dei settori produttivi e dei servizi. Il marasma esistente in questo campo incredibile. Basti pensare che un impiegato o un operaio appartenenti al settore privato maturano il diritto di andare in pensione a qualunque et se hanno compiuto 35 anni di lavoro; per contro i dipendenti civili e militari dello stato possono andare in pensione a qualunque et se uomini al compimento del 20 anno, se donne, sposate o con figli, al compimento del 15 anno di lavoro. Se si passa dal tempo di lavoro alle altre norme che vincolano i lavoratori dipendenti all'istituto pensionistico, si constata che i contributi che gravano sulle retribuzioni annuali degli impiegati e degli operai del settore privato ammontano al 22,5%, mentre quelle che gravano sulle retribuzioni degli impiegati dello stato ammontano al 5,6%. Le prestazioni pensionistiche che maturano gli operai e gli impiegati al compimento del 35 anno di lavoro ammontano al 70% della retribuzione media annua delle migliori tre retribuzioni scelte fra quelle percepite negli ultimi 10 anni migliorate del 2% per ogni successivo anno di lavoro fino al tetto dell'80%; per contro i benefici pensionistici maturati dai dipendenti dello stato al compimento del 15 o del 20 anno di lavoro ammontano al 62% della retribuzione percepita all'ultimo mese di attivit migliorata dell'1,4% per ogni ulteriore anno di lavoro fino al tetto del 90%. Questa arida elencazione di normativa, noiosa certamente da ascoltare se propinata da un oratore dall'alto di un altoparlante, rappresenta una storia di massacro di ogni elementare senso di giustizia e costituisce una piramide di

illegittimit elevata sulla Costituzione e sulla legge. Non immaginabile in questa sede svolgere un commento articolato e illustrato su ci che essa essenzialmente rappresenta e mi accontenter, pertanto, di svolgere qualche considerazione marginale. La normativa che vincola i dipendenti dello stato ingiusta nei confronti degli stessi statali dal momento che, per ogni anno di lavoro, il valore della pensione si accresce solo in rapporto alla retribuzione base, mentre l'indennit di contingenza della pensione si acquisisce in cifra fissa, indipendentemente dalla quantit degli anni di lavoro prestati. Ancora: tale normativa, dal momento che premia il personale che si mette in quiescenza al raggiungimento degli anni di servizio minimi necessari al pensionamento e penalizza coloro che vi ricorrono negli anni successivi, in misura crescente, a mano a mano che si avvicinano al massimo della carriera lavorativa, costituisce un' ingiustizia nei confronti di questi ultimi e si rivela, parimenti, un formidabile disincentivo al proseguimento del lavoro. Questa situazione destinata in avvenire ad aggravarsi, sotto l'effetto dell'accrescersi annualmente progressivo dell'indennit di contingenza sulla retribuzione base. E' utile ricordare come tale normativa produca degli effetti disastrosi sul mercato del lavoro privato, dal momento che riversa su questo una quantit considerevole di manodopera in grado di vincere su quella meno forte -costituita da sottooccupati e disoccupati- priva di reddito fisso e quindi soccombente nella gara imposta dalle dure leggi della concorrenza. La normativa pensionistica degli statali, se messa in rapporto a quella che vincola i dipendenti privati, costituisce per questi ultimi una beffa. Li beffa una prima volta dal momento che essi, a parit di retribuzione, in forma diretta e indiretta, contribuiscono 4 volte in pi; una seconda dal momento che per mettersi in pensione, in presenza di qualsiasi et, devono lavorare, a seconda se donne o uomini, 20 o 15 anni in pi; una terza quando al momento del computo pensionistico si vedono, a parit di retribuzione, attribuita una pensione notevolmente inferiore; una quarta quando stabiliscono un rapporto fra contributi o tempo di lavoro e pensione; una quinta nel caso di licenziamento, dopo 15 o 20 anni di lavoro, non potendo in stato di bisogno far ricorso alla scorciatoia del pensionamento anticipato. Effetti altrettanto beffardi, anche se con caratteristiche diverse, si ottengono se si mette a confronto il sistema pensionistico dei pubblici dipendenti con quello che vincola i lavoratori autonomi delle gestioni speciali facenti capo all'inps. Che la normativa pensionistica sia un attentato alla Costituzione evidente dal momento che questa carta agli articoli 1. 2, 3, recita: "L'Italia una Repubblica democratica fondata sul lavoro", "La Repubblica richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidariet politica, economica e sociale", "Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge", mentre tale normativa: 1) favorisce e premia l'ozio; 2) istiga all'inosservanza dei doveri inderogabili di solidariet; 3) rende diseguali i cittadini di fronte alla legge. Che sia un attentato alla legge palese dal momento che la normativa pensionistica legge ordinaria e che questa non si appoggia sullo svolgimento dei presupposti costituzionali ma li viola in modo fraudolento. Che lo stato di cose a cui ho accennato sia fonte di ingiustizie e di ribalderie colossali evidente e che sia parimenti causa del deficit in cui versano gli istituti previdenziali sicuro. Se un ordinamento legislativo baro disciplina un

organo economico,cosa pu provocare se non caos finanziario e amministrativo? Bisogna avere il coraggio di dirlo forte e chiaro: il deficit accumulato dagli istituti previdenziali ha una causa, questa consiste nel voler mantenere in una situazione di privilegio gli impiegati del settore pubblico e altri, pochi, tipi di impiego quali quelli che trovano conforto assicurativo presso l'inpdai o I*inpigi. Questo stato tenuto nascosto all'opinione pubblica. Cosa si capito in questi due anni di campagna pensionistica? Si capito che l'inps, che sono le gestioni speciali che fanno capo a questo ente che provocano deficit. Si avuta un'informazione su tutti gli aspetti "distorti" che caratterizzano i meccanismi inps: l'eccesso dei pensionati di invalidit rispetto a quelli di vecchiaia, i contributi versati dagli artigiani, dai commercianti, dai coldiretti inferiori a quanto versano i lavoratori privati e a quanto ricevono in prestazioni. Ma si sono guardati bene dallevidenziare che il buco pensionistico, quello enorme, non provocato dall'inps ma dal tesoro. Non hanno detto che, nonostante abbia milioni (ripeto milioni) di pensionati di invalidit fasulli, l*inps provoca un deficit che sei volte inferiore a quello provocato dal tesoro. Non hanno detto che il buco provocato dalle gestioni speciali dellinps, seppur enorme, inferiore di quasi due volte a quello del tesoro. Hanno nascosto che se si somma il deficit dell'inps con quello delle gestioni speciali, questo deficit inferiore di tre volte a quello provocato dal tesoro. Se tutte queste notizie le hanno tenute nascoste ci sono delle ragioni. La prima che devono occultare che il disastro proviene dal settore pubblico e che da questo settore che si irradia negli altri settori economici; la seconda che esiste il proposito di colpire a morte l'economia privata e di spingere all'esaurimento e alla disperazione le forze umane occupate in questo settore; la terza che si propongono di sviluppare il dissesto pubblico fino a provocare lo sfacelo definitivo delleconomia e spingere al parossismo lo sfruttamento del popolo esercitato sul popolo. Voglio essere chiaro: io non nego che Iinps, le gestioni speciali, le altre casse e cassette minori non debbano essere riformate. Quello che nego che sia possibile risanare il sistema pensionistico riformando l'inps e le gestioni speciali e tenendo fuori dalla riforma il sistema pensionistico pubblico. Se il sistema pensionistico pubblico che attualmente provoca il maggiore deficit, se questo sistema che destinato, soprattutto in futuro, ad alimentare e a incrementare il dissesto, allora affermo che la riforma pensionistica deve incominciare in questo settore e sono impossibili scorciatoie. E' noto che le cose si sono svolte in modo del tutto contrario a quanto auspicato. La proposta di riforma portata avanti dal governo, dal sindacato, dalla confindustria, -complici tutte le altre forze di vertice organizzate pessima. A questi signori che pur si sono arrogati il vanto di una "riforma generale" del sistema pensionistico mancato persino il coraggio di definire su quali basi un tale sistema debba appoggiarsi dal momento che si sono comportati in modo da avvalorare la legittimit della presenza contemporanea di un sistema assistenziale con uno a ripartizione, lasciando per altri 100 anni a una parte sociale di usufruire del sistema vantaggioso. Posti di fronte a questa situazione, si deve denunciare che la riforma del sistema pensionistico si appoggia su nessun criterio di razionalit e legittimit ma solo sull'inganno e assume un carattere settoriale e limitato che rende ancora pi urgente un'azione riformatrice.

Mentre antidogma prende atto che sono falliti gli sforzi fatti negli anni passati per perorare presso i vertici delle grandi forze politiche, sindacali e della grande stampa, un approccio meno velleitario e suicida e una informazione obiettiva nei confronti del problema pensionistico, riconferma che lazione che sul terreno economico-sociale si postula come prioritaria la riforma delle pensioni e la creazione di condizioni che permettano ai dipendenti del settore privato, nonch agli occupati dei settori commerciale, artigiano, agricolo di beneficiare di un trattamento analogo a quello dei dipendenti pubblici. Antidogma si appella agli impiegati, agli operai, ai commercianti, agli artigiani, alle lavoratrici domestiche, ai contadini, ai cittadini di dare vita ovunque -negli uffici, nei reparti, nei magazzini, nelle botteghe, nei villaggi, nei quartieri di paese e di citt- a dei comitati con lo scopo di indire azioni e manifestazioni nonviolente, che richiedano per tutti la fruizione del trattamento pensionistico riservato ai dipendenti pubblici. Agli operai e impiegati che sono pi esposti all'azione condizionante del sindacato rivolto linvito di non farsi fuorviare da "un piatto di lenticchie", di non respingere la proposta minimalista delle 38 ore, ma di ricordare che gli occupati del settore pubblico godono da decenni delle 36 ore e della possibilit, qualora lo desiderino, di andare in pensione dopo 15, 20, 25 anni di servizio e che quindi, in attesa che le 36 ore siano concesse nell'85, il diritto di poter andare in pensione, a chi lo desideri, deve essere subito riconosciuto, anche solo come regime transitorio, fino a quando tale diritto sar garantito agli impiegati pubblici. Di ricordare al sindacato che se il problema quello di ottenere nuovi sbocchi occupazionali per i giovani, il ricorso all'abbassamento delle ore di lavoro di esito incerto, mentre pi sicura e di immediata realizzazione la ricetta dei 15 o dei 20 anni minimi necessari per potersi mettersi in quiescenza. Non compete di certo al partito farsi carico di azioni sperimentali che possano, dati i caratteri di rischio e di incertezza che implicano, rivelarsi riduttive o dispersive. Ma compete al partito approntare quelle condizioni ordinanti -sia di carattere conoscitivo che giuridico- che sono in grado, sia a livello extra parlamentare che a livello parlamentare, di fornire allazione economico-sociale un indirizzo di sintesi e degli sbocchi legislativi. E giunto il momento di nuove responsabilit. La maggioranza della societ non si aspetta belle parole sulla bont dell'aspirazione cristiana che sottost all'azione della democrazia cristiana e del partito socialista; n crede che la lotta contro Ia evasione fiscale sia la "battaglia decisiva" tanto dal punto di vista finanziario quanto dal punto di vista morale. Essa sa che la battaglia fiscale, quando condotta contro i redditi alti creati dalla libera attivit, uno strumento di giustizia solo se non costituisce un atto di vendetta e se non utilizzata per accrescere la rendita e le posizioni di privilegio burocratiche. Non si pu semplicemente affermare "tassiamo", senza stabilire se i soldi delle tasse finiranno per aumentare le retribuzioni di Andreotti o di Bobbio o se invece finiranno nelle tasche dello scugnizzo napoletano che, in attesa che le acque del golfo ritornino chiare e pure come nell800, ha il diritto a un chilo di pasta e a un etto di pommarola da mettere sotto i denti. Non certo solo lo scugnizzo napoletano, ma tutto il meridione, che si attende non solo parole sulla "mobilitazione di risorse finanziarie e tecniche", sullo "sforzo di concentrazione di nuove iniziative", sul "risanamento delle condizioni ambientali", sulla "lotta

alle degenerazioni che si manifestano in modo grave", ma dimostrazioni concrete e fatti. Quale opportunit migliore per la dimostrazione concreta della "degenerazione" esisteva se non la riforma delle pensioni? Se invece di urlare allo scandalo delle pensioni di invalidit in eccedenza su quelle di vecchiaia in tutto il meridione, i grandi santuari della ricerca e della informazione avessero individuato e detto chi sono i beneficiari delle prime, avrebbero fatto opera necessaria e meritoria. Sarebbe stato bene chiarire su 100 pensioni di invalidit esistenti sotto Napoli e nelle isole quanti sono che ne fruiscono, se donne o uomini, sopra i 55 o i 60 anni e quanti sotto a tali et e in quali fasce di et; che professione facevano prima di ricevere la pensione, di quale reddito personale o familiare godevano; quanti pensionati hanno ricevuto la pensione di invalidit per cause imputabili alla scarsit di posti di lavoro e/o alla precariet di stabili rapporti di lavoro che rendono impossibile o intensa l'evasione degli obblighi previdenziali; quante sono le pensioni ottenute con I*aiuto di san gennaro, o del cardinale, o dell'assessore, o del prefetto. Accanto a queste indicazioni le altre; quanti ex figli di braccianti e di piccolo-borghesi stipati nei comuni, nelle province, nelle regioni, nelle aziende autonome, nello stato, si mettono in quiescenza e con quali pensioni. Nel meridione esistono certamente scugnizzi disoccupati e romantici che sognano acqua pulita e cieli limpidi ma ne esistono altri che, figli di braccianti, di artigiani, di bottegai, pur apprezzando tali elementi, non si spiegano perch il fratello, lo zio, il cugino, il cumpari, legalmente pensionato a 35, a 40, a 45, a 50 anni con 250, 300, 350, 400 o 500 mila lire al mese, mentre loro dopo 30, 35, 40 anni di lavoro gramo e stentato, giunti sui 55 o i 60 anni, devono inventare di essere storpi o deficienti per tentare, se gli va bene, di ottenere illegalmente la pensione unica da 100 mila lire al mese. Sono queste situazioni che infettano e incancreniscono il meridione, che lo rendono corte di miracoli, che lo tengono lontano dalla fiducia nella convivenza civile, nella giustizia, nella legge e inceppano ogni gi di per se difficile decollo economico. Nei confronti di queste condizioni non basta appellarsi alla solidariet europea e prevedere quali tipi di aiuti possono provenire da una proiezione continentale del problema. Giova rivoltarsi le maniche, ripulire l'assistenza inutile e gratuita risparmiare su questo tipo di assistenza, individuare le necessit e i bisogni dell'assistenza autentica e ripartire il pi equamente possibile quello che si risparmiato. La tassazione deve avvenire quando si posto mano a questo tipo di pulizia, quando si incomincia ad essere sicuri che essa non serve per creare ex novo altri 50 o 100 mila Andreotti o Bobbio ai quali contrapporre un altro milione di affamati di cui magari il 70% con il diploma o la laurea. La tassazione deve avvenire certo anche per lenire la fame degli affamati, ma guai se essa ha solo questa funzione e non indirizzata, a riconvertire il sistema produttivo, a dare nuovo impulso a questo settore, a far s che esso fornisca posti di lavoro produttivi e a prosciugare il fabbisogno dell'assistenza generalizzata. Compagni, porre in questo congresso, con tanta insistenza, questi problemi, pu gi chiarire il contributo che voglio portare. Se ho affermato che in tutti questi anni ho condiviso incondizionatamente le lotte condotte dal partito, devo anche riconoscere che non ho mai creduto che il ricorso al referendum fosse il solo strumento capace di unire le masse popolari in un

disegno di "piena" attuazione costituzionale e la sola misura sufficiente e vincente per realizzare l'alternativa di sinistra. La convinzione che i referendum avessero tali qualit presuppone entusiasmo e ottimismo circa la possibilit di realizzare un'alleanza con la sinistra democratica e quella comunista, al fine di ottenere un impegno comune per la difesa e lo sviluppo della democrazia. Chi come me convinto che la sinistra democratica e comunista, non per origini e storia, ma per latteggiamento costantemente mantenuto rispetto ai grandi problemi attuali del laicismo e al carattere che devono assumere lo stato e la societ, sia ancora troppo intrisa di massimalismo e di stalinismo, non pu credere che essa sia in grado di assolvere tali compiti. Sono questi sinteticamente e schematicamente i motivi per i quali non ho condiviso il ruolo politico-strategico assegnato dal partito ai referendum. I referendum sono stati nella situazione storica data gli unici strumenti costituzionali che avevano a disposizione le lite, l'opinione pubblica, le masse progressiste, per ostacolare la definitiva chiusura della democrazia partitica, per aprire speranze e offrire sbocchi minimi e autentici di liberalismo, per porre le premesse ad un'azione democratica che potr svolgersi anche in modo consistente e generalizzato. Molti di noi ricordano come al congresso di Milano del novembre 74, nel tentativo di dare una pi stringente funzione alla linea politica espressa dal partito negli anni precedenti, si giunse ad ipotizzare come imminente, o riservata a un "non lontano futuro", "un'alternativa politica e programmatica di governo da perseguire con l'urgente creazione di una forza socialista in grado di riequilibrare la sinistra italiana". Sappiamo che il richiamo a tale formula implicava una rettifica delle modalit da adottare nella realizzazione dell'alternativa di sinistra ma anche che essa non mutava il giudizio che il Pr aveva sul referendum quale strumento di piena attuazione costituzionale, n il giudizio espresso sulla sinistra democratica e sul partito comunista. Quello che successo dopo tale congresso quasi cronaca: arresto di Gianfranco Spadaccia come corresponsabile della clinica degli aborti di Firenze; frantumazione del pacchetto dei referendum e raccolta delle firme necessarie per indire il solo referendum abrogativo degli articoli del codice penale attinenti al reato d'aborto; reiterati inviti da parte del Pr e della Lega XIII Maggio al Psi per stabilire -previo accordo sull'abrogazione dei Patti Lateranensi e sulla raccolta di firme sui referendum "tecnicamente necessari per la piena attuazione della Costituzione"- la presentazione di liste comuni alle prossime elezioni politiche. Elezioni politiche del 20 giugno '76 che, pur permettendo al partito di superare l'ostacolo del quorum e l'ingresso di 4 deputati radicali alla camera, bocciava la catalizzazione dei voti attorno al polo socialista-libertario e premiava il Pci che volava letteralmente verso il 35% della rappresentanza parlamentare; lancio del pacchetto referendario per annullare le strutture portanti del regime clerico-fascista (concordato, codice Rocco, legge Reale, commissione inquirente, ecc); inizio, della raccolta firme; nella primavera '77; tentativo del governo e del Pci di sospendere in tutta Italia l'esercizio del diritto popolare al referendum; raccolta di firme nell'estate dello stesso anno sufficiente per l'indizione dei referendum e scatenamento della forza comunista per annullarne l'iter. Appoggio sostanziale della componente democratica di sinistra all'azione comunista, massacro della Costituzione, 1978 chiusura del partito, indizione di due referendum, aggravamento delle illegalit, sconfitta dei referendum. Questa la incalzante sequenza degli avvenimenti degli ultimi tre anni, con risultati essenziali e positivi ma che indubbiamente segnano il naufragio delle

speranze politiche poste gi prima degli anni '60 e che sottostanno, quale piedistallo granitico, alle varie iniziative portate avanti dal partito dal momento della sua rifondazione del '62 fino alla sua chiusura. Chiusura che, inutile nascondercelo, per i motivi e le circostanze per le quali avvenuta, drammatica e pone alla coscienza di tutti i radicali il compito di impegnarsi per dare un contributo positivo al suo superamento. Gi meditando sui fatti che hanno condotto il Pr a chiudere la sua attivit, non si pu prescindere dalle posizioni assunte dai partiti del cosiddetto "arco costituzionale" di voler esercitare a tutti i costi il monopolio dell'attivit politica e quindi Io esclusivo controllo del voto popolare. Questa posizione tanto cieca, quanto antidemocratica, credo rappresenti il nodo sul quale riflettere dal momento che essa si presenta come pregiudiziale a qualsiasi azione politica presente e futura. Se uno riflette sul perch i partiti dellarco costituzionale si ostinano a voler mantenere, a tutti i costi, il monopolio politico, evidentemente scopre che sono spinti dal desiderio di garantire la tutela di interessi economici e politici costituiti di un assieme variegato di ceti e di classi, ma anche e soprattutto dalla volont di mantenere una altrettanto grande parte lontana dalla possibilit di soddisfare legittimi interessi e aspirazioni. E questa posizione che spinge tali partiti all'accaparramento di tutte le fonti di informazione, alla intimidazione, alla soppressione di ogni voce alternativa, ben sapendo che questa sistematica repressione deve avvenire nell'ambito dei diritti civili perch solo in questo ambito possibile la tutela collettiva dei fondamentali diritti liberali e democratici attinenti ai singoli e il formarsi della coscienza di interessi sociali e politici alternativi a quelli che pretendono tutelare. Nei confronti di questa situazione soluzioni facili e miracolistiche non esistono. Esiste semmai il compito di riconoscere se l'aggregazione politica attorno ai grandi partiti di massa sia legittima o sia in gran parte figlia della frode e dell'inganno. Se, come credo, la risposta a un simile quesito sar a favore della seconda tesi, allora si pone la necessit di scorporare da tali partiti quella parte che stata aggirata nelle aspettative e nei bisogni. Di qui la necessit di impegnarsi in una nuova proposta la quale postuli che necessario soddisfare le aspettative legittime di quella parte di popolo frodata dai partiti tradizionali per renderla autonoma e in grado di scegliere, scientemente, nei confronti della vita sociale e politica. Questo disegno richiede, da parte del partito, l'ampliamento delle tradizionali lotte civili e il coraggio di affrontare il problema sociale. Si tratta di riconoscere come legittime le esigenze che le maggioranze popolari hanno di rappresentare sotto forma di pensiero, di parola, di informazione, i loro bisogni sociali, di sapersi fare interpreti e concreti tutelatori delle loro aspettative economiche. E' su questo terreno che si misura e matura il revisionismo. E su questo terreno che al revisionismo neostalinista e neomassimalista bisogna saper contrapporre un programma minimo marxista e tutelare e sviluppare ci che irrinunciabile e necessario del programma laico, liberale e democratico. Non certo con cattiva disposizione di spirito verso il ruolo che compete alla sinistra democratica o con la volont di misconoscere le ragioni che sottostanno al revisionismo socialista che si possono affrontare tali responsabilit, n tali compiti sono veicolabili contro le esigenze di impegno civile, democratico, di crescita politica -quantitativa e qualitativa- di questo partito. Al partito socialista deve essere riconosciuto che a ragione la sua polemica condotta contro le posizioni di compromesso e i troppi ritardi del Pci

e che indubbiamente gli compete il ruolo di leader nel disegno di rinnovamento, di unit, d'alternativa della sinistra. Ma fatti tali riconoscimenti, sarebbe insensato aspettare che il- partito socialista si disincagli dalle posizioni di governo per iniziare ad assolvere il ruolo assegnato e riconosciuto. Spetta quindi al Pr, forza non compromessa e appesantita dalla necessit di estenuanti mediazioni interclassiste, svolgere un ruolo che sia in grado di sopperire alla paralisi dell'azione riformista. E in queste tensioni e contraddizioni che deve essere ricercato e posto il revisionismo marxista, non settario e ideologico ma aperturista, popolare, empirico e prammatico. E impensabile che il partito di Giuseppe Garibaldi, Agostino Bertani, Felice Cavallotti, Gaetano Salvemini, Piero Gobetti, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, che ha saputo nelle diverse situazioni ed epoche storiche rappresentare gli interessi della democrazia, si lasci emarginare e non sappia individuare una proposta che faccia fronte all'attuale situazione. Se il popolo incapsulato in partiti di massa dai professionisti della politica che gli consentono di agire in ambiti assegnati a priori e circoscritti, non antagonisti, allora si tratta di disorganizzare tale modello, di aprire a tutti i livelli gli antagonismi, battere il consociativismo, riaffermare il pluralismo sociale, prima ancora di realizzare quello politico dialettico, duale, alternativo e democratico. Colgo l'occasione che mi offre questa tribuna per rivolgermi con rinnovata energia agli operai, impiegati, artigiani, lavoratrici domestiche, commercianti, mezzadri, coloni, cittadini e cittadine, attivi e pensionati, di auto-organizzarsi e di dare ovunque vita a manifestazioni pacifiche per chiedere di usufruire dei benefici offerti dalla normativa pensionistica del pubblico impiego. Ai dipendenti pubblici, agli assicurati di casse e cassette privilegiate, rivolgo l'invito a unirsi con atti di autentica solidariet cristiana, comunista, socialista, liberale, democratica, laica alla indicata rivendicazione. A tutti gli studenti, a tutti i giovani, occupati o disoccupati, rivolgo pressante l'invito a bandire la prospettiva della violenza cieca e inconcludente, omicida e mistificante, funzionale al regime e a auto-organizzare, in forme che solo la fantasia giovanile consente, azioni nonviolente al fine di ottenere per tutti i disoccupati un sussidio mensile, in cifra da stabilirsi ma adeguata al sostentamento quotidiano e al vestiario. Ai compagni presenti rivolgo l'invito a pronunciarsi sulle mie indicazioni e cio se esse possono essere considerate concreti spunti di dibattito congressuale e post congressuale e se siano o no organiche alle finalit del sorgere di partiti regionali autonomi, suscitatori e promotori di lotte radicali non riassorbibili dal regime e dai suoi equilibri politici. Visto che sussistono difficolt nella individuazione di lotte politiche che abbiano la stessa portata dirompente che hanno avuto il divorzio, l'aborto, i referendum, rivolgo un invito al prossimo congresso nazionale di prendere in considerazione se un impegno del partito in tema pensionistico o pi in generale sul terreno previdenziale-assistenziale non costituisca adeguato deterrente e non rappresenti continuit di impegno ideale e pratico con la tradizione del partito. Da parte mia pur nella pochezza delle capacit (Paolo Chicco: ecco perch il contributo, in questo partito, sempre stato meno che modesto. Devo poi ricordarti che non sono un politico, che non ho mai avuto e continuo a non

avere simpatia per la politica e che mi sono sobbarcato mansioni e compiti piccoli e umili solo per non apparire, in momenti scellerati, codardo a me stesso e agli altri!) continuer a battermi sul piano della sensibilizzazione culturale a favore delle indicazioni esposte, non certo insensibile, sussistendo determinate condizioni, agli impegni "concreti". Quello che deve essere certo che se esister da parte mia un impegno pi concreto questo lo condurr al di fuori del partito. Io stimo Angelo Pezzana e fra quello che apprezzo del suo insegnamento la fiducia che egli ha avuto nell'autonomia dell'azione del Fuori, la pretesa di non far carico al partito di ci che appartiene in primo luogo allo "orgoglio omosessuale", di dotare questo orgoglio di capacit autosufficiente, di pensare e camminare con la propria testa e le proprie gambe.Se richiamo all'attenzione l'atteggiamento di Angelo Pezzana e del Fuori perch non mi sfugge che esso si appoggia sullo statuto del partito, che richiede ed esige che il partito sia il partito delle associazioni, che postula che vi siano organizzazioni autonome, ricche di patrimonio culturale, teorico, pratico, che si muovono da questa loro posizione verso la creazione di unit pi vaste, unit che danno vita alla realt del partito associato e federato. E' questo patrimonio dello statuto che mi interessa ricordare, perch se vero che diffusa, in molti di noi, l'esigenza di dare vita al partito dello statuto, anche vero che, per cause obiettive, il partito regionale al quale ci accingiamo a dare nuova vita rischia di essere ancora una proiezione del partito romano e quindi di rappresentare la specificazione regionale della pi vecchia associazione storica. Quindi, solo se il partito radicale del Piemonte rinasce consapevole -convinto- che il patrimonio pi consistente che lo caratterizza quello di essere stato interprete ed esecutore di un patrimonio e di una esperienza elaborati in altri luoghi -si noti bene- : esperienza e ruolo preziosi da preservare nella loro integrit e da sviluppare- pur anche vero che si impone il compito di ricercare e realizzare la propria autonomia, con piena coscienza che questa strada ancora quasi interamente da esplorare e da percorrere. E con questo auspicio che voglio concludere, Iintervento anche se devo richiamare all'attenzione un ultimo argomento. L'altro ieri ho letto "il documento precongressuale del Consiglio Federativo" e voglio soffermarmi brevemente sulla posizione che ha espresso in merito al finanziamento pubblico. Devo dire che sono preoccupato, per la poca chiarezza che lo caratterizza. Infatti se in questo documento da un lato si dichiara che il finanziamento pubblico non deve essere utilizzato ai fini della organizzazione diretta o indiretta del partito, dall'altro si ammette che possa essere utilizzato in tale direzione attraverso il ricorso a vie indirette. Credo che occorra far chiarezza e che a tale scopo- valga, senza sotterfugi di sorta, scegliere se il finanziamento debba o non debba essere utilizzato a fini di partito. Se la risposta dovesse essere a favore della non utilizzazione, allora si aprirebbe la strada alla definizione degli ambiti in cui si pu utilizzare il finanziamento pubblico del partito. Credo che la utilizzazione del finanziamento pubblico per fini non di partito possa essere individuata in: 1) finanziamento di iniziative volte ad attivare gli istituti che la Costituzione riserva all'esercizio della sovranit popolare: referendum, petizione popolare; 2) finanziamento di iniziative di studio che abbiano come oggetto discipline giuridiche, sociali, economiche chiaramente volte alla comprensione o allattuazione di principi giuridici di rilevanza costituzionale; 3) finanziamento di campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica su problemi costituzionali di obiettiva

preminente rilevanza civile, sociale, economica da realizzare con mezzi di informazione non di partito. Ammetto che esistono altri campi in cui pu avvenire l'utilizzazione del finanziamento pubblico per fini non di partito, ma occorre individuarli e definirli con rigore. Mi dichiaro contrario alla utilizzazione del finanziamento pubblico per fini di partito anche se ammetto una deroga nel solo caso degli investimenti elettorali nazionali qualora sia provato, o con fondamento temuto, che le liste presentate dal partito non sarebbero in grado di raggiungere il quorum necessario ad assicurarne la presenza in parlamento.

Ottobre 1978

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