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Treadstone risorge 1st Edition Robert

Ludlum Joshua Hood


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Il libro

T
readstone ha cambiato per sempre Adam Hayes, facendo di
lui un assassino infallibile e spietato, e gli ha rovinato la vita.
Ora che ne è fuori, l’ex agente vuole solamente riconquistare la
sua famiglia: Annabelle e il piccolo Jack. Ma per chi ha fatto parte
della più segreta tra le unità della CIA – affrontando addestramenti
disumani, condizionamento psicologico estremo, terapie genetiche
sperimentali e sanguinose operazioni in incognito – non è facile
lasciarsi l’inferno alle spalle. Non basta reinventarsi un’esistenza da
anonimo carpentiere tra le foreste dello Stato di Washington. Così,
quando una squadra di sicari prova a eliminarlo in un’imboscata,
Hayes ha un solo modo per scoprire chi lo vuole morto: ascoltare
quella voce nella testa che nemmeno i medicinali hanno zittito,
contattare la sua vecchia organizzazione e tornare a essere l’uomo
che era. La sua ricerca svelerà i segreti delle alte sfere governative
facendolo ripiombare nel mondo deviato che aveva cercato di
dimenticare.
Gli autori

JOSHUA HOOD è un veterano pluridecorato delle operazioni speciali


statunitensi, con all’attivo missioni in Iraq e Afghanistan, e ha
guidato una squadra di tiratori scelti per lo SWAT team di Memphis.
Attualmente lavora con l’organizzazione no profit American Warrior
Initiative, che si occupa del reinserimento dei veterani nella società. È
autore di alcuni romanzi, tra cui Linea di fuoco (Mondadori, 2018) e
Ordine d’allerta (Mondadori, 2019).

ROBERT LUDLUM (1927-2001), dopo la carriera di attore, regista e


produttore, dalla fine degli anni Sessanta si è dedicato alla scrittura,
diventando maestro indiscusso del romanzo di spionaggio. I suoi
libri, tra i quali le serie di Jason Bourne e Covert-One, hanno venduto
oltre 200 milioni di copie nel mondo e sono in gran parte disponibili
nel catalogo BUR . Gli ultimi titoli pubblicati da Rizzoli sono: La
vendetta di Bourne (2014), Ascendente Bourne (2015) e Bourne Affair
(2018).
Joshua Hood
Robert Ludlum

TREADSTONE RISORGE
Traduzione di Rosa Prencipe
Treadstone risorge
PROLOGO

Buena Vista, Venezuela

Sul retro del lercio pick-up, Nick Ford era squassato dalla febbre.
Fitte di dolore si irradiavano dal foro di proiettile nella gamba. Era
stremato, il suo corpo chiedeva a gran voce un po’ di riposo, ma ogni
volta che chiudeva gli occhi si ritrovava nella giungla.
Intrappolato al centro dello scontro, tra le mitragliatrici che
crepitavano dalle ombre, l’acre nebbia della polvere da sparo, le urla
dei suoi compagni che morivano.
Andati. Tutti quanti.
Non riusciva ancora a capacitarsene: come aveva fatto a perdere
un’intera squadra in quella che doveva essere una facile
ricognizione? C’era un’unica risposta logica.
Ci hanno venduti.
Quando il veicolo si fermò, sferragliando, Ford si tirò in piedi e
scese sulla strada fangosa. Raggiunse zoppicando il finestrino lato
guida, tirò fuori dalla tasca una mazzetta di banconote sudaticce e la
consegnò all’uomo dietro al volante.
«No, no, señor» protestò quello. «Non posso prenderli, non
dopo…»
Ford lo interruppe subito. «Prendili, José» disse, mettendo il
denaro nella mano callosa dell’uomo. «Prendili e porta via da qui la
tua famiglia.»
«Gracias, señor Ford. Vorrei…»
«Va’, prima che sia troppo tardi.»
«Vaya con Dios.» Con un cenno del capo, José mise in moto e si
allontanò in una nuvola di gas di scarico.
Fermo sulla strada, Ford ricapitolò le proprie opzioni. Gli uomini
del SEBIN – il temuto Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional –
gli stavano dando la caccia, e sapeva cosa gli avrebbero fatto una
volta trovato. Una parte di lui sperava che si sbrigassero a piantargli
un proiettile in testa, e fine della storia.
C’è tempo per quello. Ora hai un lavoro da fare, si disse.
Attraversò la strada, zoppicando. Il dolore era insopportabile,
ogni passo peggio del precedente, ma si costrinse ad avanzare.
Cammina o crepa, si ordinò. Devi solo mettere un piede davanti
all’altro.
Quando arrivò nel vicolo, che puzzava di piscio e rifiuti marci,
aveva la camicia zuppa di sudore. Si addossò al muro di pietra e tirò
fuori dalla tasca dei jeans – procuratigli da José – il flacone di
Percocet. Lo aprì. Lunedì era pieno, e adesso restavano solo due
pillole. Sufficienti a fargli superare la notte; poi, lo sapeva, non
avrebbe più avuto importanza. Fin dall’inizio, quello era stato un
viaggio di sola andata.
Si cacciò le pillole in bocca e le inghiottì senz’acqua, sentendone il
sapore amaro in fondo alla gola, quindi riprese a camminare verso la
fine del vicolo, in direzione nord, puntando al cartello bianco
sbiadito appollaiato sopra l’entrata dell’Hotel Bolívar. Il brutto
edificio che lo ospitava era simile a un bunker, con scialbi muri
intonacati cinti da floscio filo spinato. Non il tipo di albergo che si
trovi su TripAdvisor, ma Ford si fidava del proprietario, il che lo
rendeva il posto più sicuro in città.
Quando entrò barcollando nella squallida hall le pillole stavano
iniziando a fare effetto, il dolore smorzato a un sordo rimbombo.
«Señor Ford» lo salutò Miguel nel suo inglese stentato.
L’espressione sorridente si sgretolò appena notò le condizioni
dell’uomo. «Sta da schifo. Vuole che chiamo il dottore?» chiese,
apprestandosi a fare il giro del bancone.
«No.» Il viso di Ford si contrasse in una smorfia sofferente. «Solo
una stanza… e una bottiglia.» Si appoggiò al banco, pescò dalla tasca
i contanti che gli restavano e li poggiò sulla superficie graffiata. Lo
sforzo lo lasciò senza fiato.
«Certo» annuì Miguel. Recuperò una bottiglia di rum Santa Teresa
dallo scaffale e una chiave dalla bacheca, piazzando entrambe di
fronte al cliente.
«Grazie, amico» disse Ford, poi prese le scale per il primo piano.
Giunto di fronte alla porta fece scattare la serratura ed entrò.
La stanza gli ricordò il merdoso bilocale in cui era cresciuto: stesso
tavolo bruciacchiato dalle sigarette, scuri ingialliti e minifrigo che
puzzava di muffa. Si chiuse la porta alle spalle e sistemò lo zaino
tattico su una sedia.
Svitò il tappo della bottiglia e bevve un lungo sorso, a canna. Il
liquore gli bruciò in gola e gli scaldò lo stomaco. Fortificato a
sufficienza in vista del lavoro che lo aspettava, aprì lo zaino e ne
sistemò parte del contenuto sul tavolo: un laptop, due piccole
videocamere di sorveglianza, una macchina fotografica incrostata di
terra e una Claymore M 18, una mina antiuomo direzionale con
controllo remoto.
Il brontolio dello stomaco gli ricordò che non mangiava da nove
ore, quindi recuperò anche dell’ananas in scatola comprato in un
mercato alla periferia di El Nula. Tirò l’anello e rimosse con cura il
coperchio. Tre anni prima quel prodotto sarebbe costato quattro
dollari; ora, con l’economia in caduta libera e il Paese nella morsa
dell’iperinflazione, per procurarselo a Caracas bisognava sborsare
tre volte tanto.
Soldi. È tutta una questione di soldi.
Infilzò con il coltello una fetta di ananas e se la portò alla bocca,
poi prese le piccole videocamere e uscì nel corridoio. Quegli affari
risalivano al suo periodo nei Berretti Verdi: grandi quanto uno stick
di burrocacao, da una parte avevano l’obiettivo e dall’altra una
specie di coda piatta. Erano obsolete quanto a tecnologia, ed enormi
rispetto alle microcamere attualmente in commercio, ma non
l’avevano mai tradito. Inoltre potevano essere installate pressoché
ovunque.
Incastrò la prima in una crepa in fondo al corridoio, sfruttando la
terminazione piatta e angolando la lente in modo da inquadrare le
scale che salivano dalla hall. Per la seconda usò un pezzetto di nastro
adesivo, e la fissò in cima a un malfermo distributore di Coca-Cola,
puntandola verso la propria porta.
Tornato nella stanza cercò di bloccarne l’ingresso con il letto, ma
quando fece per tirarne la struttura quello rifiutò di muoversi.
Riprovò, mettendoci più forza. Inutile. A quel punto si accasciò a
controllare.
Da quando Miguel inchioda i letti al pavimento?
Aveva ben poca importanza. Si rialzò e recuperò un cuneo dallo
zaino tattico, rammentando le parole dell’uomo con cui si era
addestrato. «Devi sempre avere un piano B.»
Hayes continua a salvarmi le chiappe…
Incastrò il cuneo sotto la porta e tornò allo zaino per prendere la
Claymore e un rotolo di nastro adesivo di tipo militare. Usò
quest’ultimo per fissare la mina al poggiatesta della poltrona, si
assicurò che reggesse, poi spostò il tutto controllandone
l’angolazione; quando fu certo che non fosse visibile appena varcata
la soglia, inserì nell’ordigno i terminali del cavo d’innesco e collegò
l’altra estremità del filo al detonatore, che portò nel bagno. Lo posò
sulla tazza e aprì il rubinetto del lavandino.
Mentre si sciacquava la faccia, ripensò alla caffetteria fuori Bogotá
dove aveva visto Hayes per l’ultima volta.

«Nick, me ne vado.»
«Parti?» Ford era scoppiato a ridere. «E dove diavolo staresti andando?»
«No, lascio la Treadstone. Ho chiuso.»
«Chiuso?» aveva ripetuto lui, interdetto. «Cosa significa, “Ho chiuso”?»
«Mi chiamo fuori. Finito.»
«E puoi farlo? Voglio dire, ti lasceranno…?»
L’espressione dell’altro era cambiata all’istante: il volto si era irrigidito,
lo sguardo si era fatto duro, minaccioso. Aveva già visto quegli occhi altre
volte, e di solito la cosa finiva con qualcuno riverso a terra, sanguinante.
Suo malgrado, era arretrato.
Si erano conosciuti nei Berretti Verdi e, nel corso di diverse missioni, tra
loro si era creato un legame speciale. Erano nella stessa squadra, in
Afghanistan, quando la CIA li aveva prelevati dalla base e spediti alla
Treadstone. Il fatto che fossero rimasti uniti anche dopo il condizionamento
mentale autorizzato dal governo – che in teoria avrebbe dovuto allentare
quei legami – aveva sorpreso i medici. L’obiettivo principale del programma
era creare agenti indipendenti, e inarrestabili.
«Non ho bisogno che qualcuno mi lasci fare un beato cazzo» era sbottato
Hayes, il rinomato caratteraccio che si mostrava in tutto il suo splendore.
«Calma, fratello, non volevo stuzzicarti» l’aveva tranquillizzato Ford,
alzando le mani.
L’espressione di Hayes si era fatta più rilassata, l’ombra di un sorriso che
increspava gli angoli delle labbra.
«Tu non c’entri niente, fratello. È per me che lo faccio. In ogni caso,
penso dovresti imitarmi.»
Gli era successo qualcosa durante l’ultima missione; Ford non conosceva
tutti i dettagli, ma sapeva che era cambiato.
«Amico, io non so fare altro» aveva ribattuto lui.
«Se mai avessi bisogno di qualcosa, non hai che da chiedere» aveva detto
Hayes. Poi se n’era andato.

Ford chiuse l’acqua e si voltò a cercare un asciugamano,


scorgendo il proprio riflesso nello specchio. Fu uno shock. I tre mesi
passati nel delta dell’Orinoco avevano lasciato il segno: l’uomo che
aveva di fronte era un trentasettenne sulla soglia dei sessanta. Snello,
tosto, lo sguardo di qualcuno con cui è meglio non scherzare. La
cicatrice a mezzaluna gli copriva metà del collo prima di sparire
nella maglietta.
Avrei dovuto dargli retta, e uscire del tutto dal giro.
Tornò al tavolo, accese il monitor collegato alle videocamere e
avviò il computer. Effettuò il login, quindi collegò il laptop al router
portatile per il WI-FI e avviò il programma che nascondeva il suo IP ,
regolando le impostazioni in modo che l’indirizzo rimbalzasse su un
server diverso ogni novanta secondi. Poi prese la fotocamera che
aveva usato per le ricognizioni, prima dell’imboscata, la collegò al
computer e, mentre aspettava che le foto si caricassero, aprì un’e-
mail. Nel campo dell’oggetto digitò: QUANDO LA LEGGERAI SARÒ GIÀ
MORTO.
Vide la prima foto comparire sullo schermo, e decise che le
immagini avrebbero parlato da sole: si sarebbe limitato a inserirle nel
corpo del messaggio. Fu allora che il monitor lampeggiò,
animandosi.
«Merda.»
Agguantò il computer, la Glock 19 e si precipitò nel bagno,
chiudendosi con forza la porta alle spalle. Posò il laptop sul
lavandino e prese in mano il detonatore, ma lo sguardo rimase fisso
sul cursore di avanzamento che girava sullo schermo.
Andiamo, andiamo…
Pregò che i file si caricassero in fretta.

A circa quindici chilometri di distanza, verso nord, due


autoarticolati lasciarono la strada. Con un sibilo dei freni pneumatici
il Peterbilt in testa rallentò e fece un’ampia svolta su una malconcia
strada asfaltata.
Felix Black scese dall’abitacolo, l’HK 416 a tracolla sul petto, carico.
Si avviò al rimorchio, avanzando nella nuvola di polvere che si era
sollevata dalla ghiaia intorno alla pista di decollo abbandonata, e
aprì il portello. L’interno era pieno di monitor lampeggianti, banchi
di processori e un impianto di uplink satellitare. Ogni sistema
costava più del doppio di motrice e rimorchio messi insieme.
«Chi l’ha individuato?» chiese Black, entrando.
Un ragazzo brufoloso, stopposi capelli marroni e una sporca
camicia a fiori, alzò la mano.
«I-io, signore.»
Felix lanciò un’occhiata al monitor, accarezzandosi il pizzetto. Il
telefono satellitare nella tasca dei pantaloni cargo prese a vibrargli
contro la gamba. L’unico a conoscere quel numero era il suo capo,
Jefferson Gray, e prima di rispondergli voleva essere certo che
avessero davvero individuato la preda.
«Sei sicuro, stavolta?»
«S-sì, signore.»
«Sarà meglio, cazzo» esclamò voltandosi verso il portellone.
All’esterno trovò il suo caposquadra, Murph; aspettava paziente,
appoggiato alla cabina del camion.
«Allora?»
«Di’ ai ragazzi di prepararsi» rispose Black, tirando fuori il
satellitare dalla tasca e rispondendo alla chiamata.
«Sì?»
«Dimmi che l’avete trovato» esordì Gray.
«Ce l’abbiamo» confermò Black.
La sua attenzione fu richiamata dallo sferragliare della rampa
dell’altro rimorchio, che colpiva il terreno alle sue spalle: i tizi delle
operazioni aeree stavano scaricando un mezzo a forma di uovo.
Lanciò un’occhiata alle lancette fluorescenti del Sangin Atlas che
aveva al polso e fece qualche calcolo a mente.
«Possiamo essere sul bersaglio tra dieci minuti.»
«Uccidetelo» ordinò Gray.
«Ricevuto.»
Infilò il telefono in tasca e si affrettò a raggiungere i due Little
Bird. La squadra d’assalto era già pronta, in attesa sui supporti
esterni degli elicotteri, gli occhi illuminati dal riverbero verde dei
visori notturni. Black si infilò sotto le pale del mezzo che avrebbe
guidato la piccola formazione, e sentì il calore delle turbine sul collo.
Prese dal sedile il casco protettivo, parecchio vissuto, se lo calcò in
testa e regolò sulle orecchie l’headset antirumore MSA Sordin. Dopo
aver agganciato il cavo di sicurezza al D-ring della sua imbragatura,
premette il comando di trasmissione – il cosiddetto push to talk, o PTT
– della ricetrasmittente MBITR – da multiband inter/intra team radio –
che teneva sul petto, e verificò il canale di comunicazione con il
pilota.
«Raven One-One da Alpha Six, controllo radio.»
«Ti sento forte e chiaro, Alpha Six.»
«Alpha Six, ricevuto. Decolliamo» ordinò Black.
Abbassò sugli occhi il PVS -15, il visore notturno binoculare
montato sul casco. La sua luce immerse il mondo in una sfumatura
verde smeraldo.
Il pilota diede potenza al rotore, e Black ne sentì i giri vibrargli
nella spina dorsale, sempre più veloci. In alto le pale tagliavano l’aria
caricandosi di energia elettrostatica, le estremità che apparivano tinte
di giallo nelle lenti della visione notturna. Il Little Bird parve
acquattarsi sui pattini d’atterraggio, e un istante dopo erano in volo.
Il pilota virò a sud, passando sopra gli alberi e spingendosi verso
il fiume.
«Piedi bagnati» annunciò. In gergo militare significava che
stavano sorvolando il corso d’acqua.
Persino con il visore notturno era difficile distinguere dei punti di
riferimento, e Black fu costretto a usare il monitor del GPS che
portava agganciato al polso per orientarsi. Percorsi otto chilometri,
lanciò l’avvertimento via radio: «Un minuto all’obiettivo». Strinse la
mano sinistra attorno al moschettone che lo assicurava al velivolo.
«Piedi asciutti» lo informò il pilota, dirigendo il Little Bird verso la
città.
Black controllò il GPS ; ormai erano vicini. Si protese nella scia
d’aria, il vento che gli faceva lacrimare gli occhi dietro al visore, e
quando avvistò l’Hotel Bolívar usò il laser infrarosso per indicare il
bersaglio al pilota.
Il Little Bird era scattante come un colibrì e l’uomo alla cloche
superò con destrezza una serie di cavi dell’alta tensione. Black sentì
lo stomaco balzargli in gola.
Fottuti cowboy.
Il pilota portò l’elicottero tre metri sopra la strada, rischiando di
centrare i tettucci delle auto parcheggiate, e seguì il laser come un
missile filoguidato.
«Trenta secondi» avvertì Black.
Pochi istanti dopo il Little Bird si trovava a circa tre metri
dall’ingresso dell’albergo. Prima ancora che i pattini toccassero terra,
Black si era già sganciato ed era balzato giù.
«Con me» ordinò ai propri uomini, attraversando il cortile.
Il secondo elicottero atterrò sul tetto e gli incursori saltarono giù
dalla pedana preparandosi a incalzare il bersaglio dall’alto. Quando
Black ebbe raggiunto l’ingresso dell’albergo i Little Bird si erano già
librati in volo, e sulla strada era tornato il silenzio.
«Pronti all’irruzione» annunciò in un bisbiglio.
Spalancò la porta e si fiondò nella hall, voltandosi di scatto a
controllarne l’ampiezza; i muri restituivano l’eco dei movimenti della
squadra sul tetto. Ruotò di nuovo verso il centro della stanza. Stava
per annunciare che era sgombra quando vide un uomo abbassarsi
sotto al bancone della reception.
Black era stato in missione in parecchi posti di merda, e aveva
imparato a distinguere chi si accingeva a impugnare una pistola da
chi invece voleva solo mettersi al riparo. L’istinto gli disse che il tizio
sarebbe riemerso facendo fuoco.
Si portò l’HK 416 all’altezza degli occhi, spostò il selettore per
disinserire la sicura e attivò il laser infrarosso del puntatore. Appena
la testa dell’uomo incrociò il raggio invisibile, lui premette il
grilletto.
Il proiettile, un 5,56 a punta cava, colpì il bersaglio sotto gli occhi e
il cervello schizzò sulla parete. Era morto prima ancora di toccare
terra, e il fucile a canna liscia che teneva in mano cadde sul
pavimento con un rumore metallico.
Idiota.
Il resto della squadra stava già correndo su per le scale quando
Black si voltò per seguirli.
«Il bersaglio è nella stanza numero 4» comunicò la voce del
tecnico sul loro canale radio.
«Ricevuto» disse Murph. «Pronti all’irruzione.»
Black raggiunse i suoi in cima alle scale; erano schierati in attesa,
quindi il team di Murph era già al lavoro.
Non c’è bisogno di piazzare altra gente nel corridoio.
Boom.
Avevano aperto una breccia. Black si sporse per controllare
l’operazione e vide entrare i primi due incursori. Un terzo stava per
seguirli quando la stanza esplose.
«Uomo a terra!» urlò Murph.
Black era già in movimento.
Quando entrò nella stanza vide due operativi riversi sul
pavimento; il loro sangue appariva nero attraverso il visore.
Sono fottuti.
«Portateli via» ordinò, piazzandosi a copertura degli uomini
incaricati di evacuare i feriti.
Non aveva ancora finito di parlare quando sentì i primi colpi di
pistola e vide lo spruzzo di intonaco provocato dai proiettili sparati
attraverso la sottile parete.
«Bagno!» gridò, mentre una pallottola gli schioccava sopra la
testa.
Un incursore buttò giù la porta con un calcio e fece fuoco.
«Nemico a terra» annunciò l’uomo alla radio.
Lui abbassò il fucile e si accertò di essere illeso.
«Control, qui Alpha Six. Abbiamo due Eagle a terra, chiediamo
immediato soccorso medico. Coordinate…»
«Break, break, break» lo interruppe Gray, indicando di fermare la
comunicazione. «Alpha Six, qui Control: avete fatto centro?»
Che figlio di puttana. Gli importava più del bersaglio che dei suoi
uomini, lo sapeva. «Resta in attesa, Control.»
Black raggiunse il bagno e vide Nick Ford riverso nella vasca, il
cervello finito a imbrattare le piastrelle. «Tutto okay?» chiese
all’incursore.
Quello sputò sul cadavere un po’ del tabacco che stava
masticando, prima di rispondere: «Affermativo, signore».
Black tirò su il visore, portò la mano alla ricetrasmittente sul petto
e premette il tasto del PTT .
«Control, qui Alpha Six, abbiamo fatto centro.»
«Ricevuto.»
«Il nostro MEDEVAC ?» chiese Black, riferendosi al soccorso medico
urgente.
Silenzio.
Fanculo. «Murph, porta i tuoi di sotto, ci pensiamo noi a sistemare
questo casino…»
«Sono morti» replicò l’altro.
Black chinò la testa. Stava per andare alla porta quando una voce
lo fermò.
«Capo, abbiamo un problema» annunciò l’incursore, uscendo dal
bagno.
Si voltò e vide che teneva in mano un laptop. «Che cazzo è
quello?»
«Ce l’aveva addosso. Ho controllato la posta inviata: lo stronzo ha
spedito un’e-mail prima che lo facessi fuori.»
Con la mano guantata, Black ripulì lo schermo dal sangue e dai
brandelli di materia grigia, quindi lesse il nome sulla barra degli
indirizzi.
Adam Hayes.
1

La Conner, Stato di Washington

Quando l’incubo arrivò, Hayes era disteso al centro del letto. Il


tremolio partì dal bordo delle labbra, un’increspatura che si deformò
in un ringhio ferino. Cominciò a sudare, le mani che straziavano le
lenzuola, gli occhi che si muovevano come palline da flipper sotto le
palpebre chiuse, la mente intrappolata negli orrori del passato.

Aspettava nell’ombra, gli occhi chiusi, le orecchie tese a captare ogni


suono della preda in arrivo. Ammazzarli tutti, quello era l’ordine. Lui era
solo uno strumento, e l’avevano condizionato a uccidere senza esitazione. La
mano si era chiusa attorno all’impugnatura del coltello, assicurato sulla
schiena. Aveva avvertito il freddo del metallo attraverso il guanto. La lama
era uscita dal fodero con un sibilo, l’acciaio che scorreva nel cuoio, e lui
aveva aperto gli occhi. Il volto della sentinella appariva verde nel visore
notturno.
Adesso, gli aveva detto la voce. E lui aveva colpito.

La mano di Hayes strisciò sotto al cuscino, le dita si serrarono


attorno al rassicurante acciaio della sua 9 millimetri, una Springfield
EMP . Rotolò giù dal letto e si acquattò, il legno freddo come un
cadavere contro le ginocchia nude. La memoria muscolare aveva
preso il sopravvento, le mani si muovevano senza bisogno di
pensarci. Fu naturale puntare l’arma sul bersaglio e far scattare la
sicura.
Solo quando l’indice si piegò attorno al grilletto comprimendo la
molla – tanto che sarebbe bastata una pressione leggerissima a fare
fuoco – Hayes prese coscienza di quanto stava accadendo.
Poi l’incubo si dissolse.
Sbatté le palpebre per mettere a fuoco il mondo e il suo sguardo si
posò sulla pistola tesa, il mirino puntato sulla camicia appesa alla
porta.
Gesù Cristo.
Tolse il dito dal grilletto e rimise la sicura. L’essere arrivato a un
soffio dallo sparare un 9 millimetri a punta cava contro la porta gli
diede la nausea.
Erano le 5:05 del mattino. E gli incubi stavano peggiorando.
Quando fu certo che le gambe l’avrebbero retto, Hayes svuotò i
polmoni con un verso gutturale, posò la pistola sul comodino e
percorse il parquet fino al bagno. A tentoni raggiunse l’interruttore e
le luci sul soffitto presero vita, rivelando le cicatrici che gli
attraversavano il torace nudo come linee di una cartina topografica.
Si fermò davanti al lavandino, prese un flacone arancione
dall’armadietto dei medicinali – aperto – e ne svitò il tappo,
facendosi cadere una pillola oblunga sul palmo calloso. Quella vista
gli ricordò l’ultimo appuntamento con l’analista di Tacoma.
«E gli incubi?» gli aveva chiesto sopra al fruscio della penna sulla
carta.
«Non ne ho uno da mesi.»
«Adam, sta facendo grandi progressi» aveva detto lei, strappando
il foglio dal blocchetto delle ricette. «Ma…»
C’è sempre un «ma».
«Ma ci saranno ricadute.»
Ricadute.
Sentì la rabbia rimestargli lo stomaco, come un lupo che si desti
nella tana. Tre incubi in una settimana non erano una ricaduta: erano
un fottuto crollo. Era incazzato. Furioso per averle dato retta, per
essersi illuso di aver fatto progressi. Di poter essere normale.
«No» disse ad alta voce. «Io non sono più questo.»
Prese un respiro, si mise la pillola in bocca e chiuse piano la porta.
Bevve un sorso d’acqua dal rubinetto e, quando alzò lo sguardo, i
suoi occhi si posarono sul cartoncino colorato attaccato al vetro con il
nastro adesivo. Una famiglia stilizzata si teneva per mano sotto un
g p
sole giallo limone. Sfiorò con le dita le parole scritte a pastello, AMO
IL MIO PAPÀ , e un sorriso triste si allargò sulla sua faccia.
Entrò nella doccia, aprì l’acqua fredda al massimo e si infilò sotto
il getto ghiacciato. L’acqua gelata gli sferzò la carne come un colpo di
frusta. La sua mente si ritrasse, i muscoli guizzarono come cime
sotto la pelle, spingendo l’aria fuori dai polmoni, ma lui restò
dov’era, in attesa della domanda che lo accoglieva ogni mattina da
diciotto mesi a quella parte.
Come sono arrivato qui?
La prima volta che aveva sentito parlare della Treadstone si
trovava in Afghanistan. La missione doveva durare sei mesi, e in
appena tre aveva già perso due uomini. Era stato allora che le cose
avevano preso a degenerare. Confini un tempo netti, bianco o nero,
di colpo erano parsi di un grigio sfumato. Lui non dormiva più, ma
aveva ancora la situazione sotto controllo. O così si ripeteva. Poi era
stato convocato nell’ufficio da campo del colonnello Patten. Aveva
trovato il suo superiore seduto alla scrivania di compensato, la pelle
grigiastra, gli occhi arrossati dalla sabbia afghana che si insinuava in
ogni fessura.
«Si accomodi, capitano Hayes.»
Lui si era seduto, ascoltando l’eco degli elicotteri che arrivavano
dalla valle. Era la sua terza missione laggiù e ormai li distingueva
dal suono. Riconobbe un Chinook: il rumore dei rotori era
inconfondibile.
Impossibile che siano i rifornimenti: è troppo pericoloso far girare gli
elicotteri per la valle.
«La mando a Bagram» aveva annunciato Patten, indovinando i
suoi pensieri.
«Per quale ragione, signore?»
Il colonnello aveva sputato un filo di tabacco nella tazza di
polistirolo macchiato che teneva sulla scrivania e si era messo
comodo. «Gli uomini cominciano a parlare.»
«È quello che fanno i soldati.»
«Il capo è preoccupato, Adam. Lo siamo tutti. Stanno mandando
qualcuno dagli Stati Uniti a darle un’occhiata. Una specie di
dottore.»
«Una valutazione psicologica? Sul serio?»
«Ascolti, la cosa non piace neanche a me, ma sono ordini che
arrivano dall’alto. Quindi monti sull’elicottero e vada a rispondere
alle domande del dottore. La prenda come una pausa: quel tizio la
rimetterà in sesto, e domani sarà di nuovo qui.»
Era una palla, ma all’epoca Hayes non ne aveva idea.
Uscì dalla doccia, si asciugò e indossò un paio di lisi pantaloni
della Carhartt e una camicia di lana sopra a una t-shirt nera; calzò ai
piedi degli stivaletti in pelle della Ariat, dall’aspetto vissuto, si infilò
alla cinta la fondina con la Springfield e andò in cucina. Per
colazione si preparò due uova fritte e due fette di pane tostato, e finì
quanto restava della bistecca cotta la sera prima, per cena; poi uscì
sul terrazzo con il caffè. La maggior parte delle barche da pesca era
già al largo, e le prime luci dell’alba rischiaravano l’orizzonte
dandogli la sfumatura di un livido fresco.
La Treadstone era una lama a doppio taglio; una lama che –
pensava – gli avrebbe consentito di fare la differenza. Non gli
importava del dolore legato al condizionamento comportamentale e
alla riprogrammazione genetica: poteva gestirlo. Avrebbe gestito
ogni cosa gli avessero riversato addosso.
Solo che non era stato in grado di gestire quel che era venuto poi.
Ecco perché lui viveva nello Stato di Washington e sua moglie
Annabelle si era trasferita dall’altra parte del Paese assieme al loro
bambino, Jack.
Adam… prometti che non proverai a trovarci.
Lo squillo di un telefono lo riscosse dai ricordi. Era la linea del
lavoro. Hayes gettò i fondi del caffè oltre il terrazzo e seguì il suono
fino alla rimessa rossa dietro la villetta.
Chi diavolo chiama a quest’ora?
Tempo di sbloccare la serratura a combinazione digitando il
codice d’accesso, aprire la porta e accendere le luci, era ormai partita
la segreteria.
«Risponde la Sterling Construction, lasciate un messaggio dopo il
bip.»
«Adam, sono Sally Colvin… Ho bisogno che mi richiami…»
y g
Hayes agguantò il ricevitore e premette il tasto per interrompere
la registrazione.
«Sally, eccomi.»
«Adam, ciao. Io…»
Sally Colvin era l’agente immobiliare che aveva assunto per
vendere Casa Smith. Quel progetto lo aveva tenuto sano di mente
durante i diciotto mesi di esilio autoimposto, inoltre rappresentava il
suo capitale futuro. L’ultima possibilità di dimostrare ad Annabelle
che sapeva anche costruire, oltre che distruggere. Il denaro ricavato
dalla vendita gli avrebbe permesso di smetterla di ristrutturare case
altrui, per dedicarsi a rimettere insieme i pezzi del proprio
matrimonio.
Qualcosa, nella voce della donna, lo insospettì. Si domandò che
stesse succedendo, poi decise di chiederlo a lei. «Sally, tutto a
posto?»
«Sì. Ehm… Io… Ho un acquirente interessato alla casa.»
Un’altra esitazione… «Be’, è fantastico, no?»
«Ecco, gli ho detto che è praticamente pronta. Chiavi in mano.»
«Che problema c’è?» ribatté Hayes. «Resta solo da pavimentare la
cucina.» Non comprendeva il perché di quella nota di panico nella
voce della donna.
«È che ha appena chiamato dall’aereo: verrà a vederla oggi, a
mezzogiorno.»
Grandioso.
Hayes abbassò lo sguardo sulla valigia posata a terra, il biglietto
per la Florida che spuntava dalla tasca laterale. Annabelle aveva
acconsentito a fargli vedere Jack, quel weekend. Certo, ancora non si
fidava a lasciarlo solo con il figlio, quindi ci sarebbe stato qualcuno a
controllare, ma lui era pronto a cogliere ogni occasione gli venisse
offerta.
«Sally, non posso. Sto partendo per…»
«Adam, hai lavorato tanto per arrivare a questo» lo interruppe lei,
con un impeto che lo lasciò spiazzato. «I ragazzi del parquet hanno
promesso di essere lì alle dieci e un quarto. Mi serve solo che tu posi
il sottofondo.»
Scoccò un’occhiata colma di nostalgia al borsone, poi scrutò
l’orologio alla parete. Erano le sei meno un quarto: se fosse uscito
subito e ci avesse dato dentro poteva ancora farcela.
«Posso farcela.»
Caricò il compressore e il resto degli attrezzi sul retro della Chevy
Suburban del ’66, premette il pulsante per far aprire il garage e uscì
sul vialetto di ghiaia.
Svoltò sulla strada lungo la costa, la seguì scendendo dalla collina
e prese il ponte sospeso che collegava la terraferma a Cliffside Island,
proseguendo fino a trovarsi di fronte Cliffside Manor, incorniciata
da due enormi pini. La proprietà nasceva dall’intraprendenza di
Amy Harris, ereditiera locale che aveva messo le mani sull’isola per
trasformarla in un’enclave per nuovi ricchi. Hayes poteva entrarvi
solo perché aveva comprato Casa Smith a prezzo di occasione: il
precedente proprietario aveva bisogno di incassare, quindi aveva
venduto l’immobile a un valore inferiore a quello del mutuo.
Giunto al cancello, rallentò. Lo stridio dei freni della Suburban e il
sorrisetto divertito della guardia che uscì dal gabbiotto gli
ricordarono quanto fosse fuori posto, lì.
«Pensavo avessi il giorno libero» disse l’uomo controllando un
portablocco.
«Mi ha chiamato Sally: ha un acquirente interessato a Casa Smith,
e il tizio sta venendo qui a dare un’occhiata.»
«Nessuno mi ha detto niente.»
«Quindi che dovrei fare?»
«Va’ pure: ci penso io a sistemare la cosa» disse la guardia.
Hayes annuì e varcò il cancello, prendendo la prima svolta a
sinistra per immettersi su Eyrie Drive. Le maestose abitazioni, con
prati verde smeraldo e steccati di un bianco abbagliante, gli
ricordavano la scena di un film di John Hughes. Persino i due tizi
con tutta l’aria dei testimoni di Geova che parlavano alla coppia
davanti ai campi da tennis sembravano azzeccati. Seguì la strada
oltre una curva e appollaiata in cima alla scogliera apparve Casa
Smith.
La prima volta che l’aveva vista, l’abitazione a due piani in stile
Cape Cod stava per essere dichiarata inagibile. C’erano infiltrazioni
p p g
dal tetto, le gronde avevano ceduto e il legno del rivestimento
esterno era marcio. Per non parlare dei problemi all’interno. Quando
aveva incontrato l’agente immobiliare che vendeva la proprietà, lei
l’aveva guardato come fosse pazzo. «Per trasparenza, devo
informarla che non c’è un solo appaltatore nella zona interessato a
questo progetto. Ne è sicuro?»
Hayes non si era mai occupato di una casa intera, e sapeva bene
che l’impresa era ardua, ma qualcosa in quell’abitazione l’aveva
catturato.
«Sicurissimo» aveva risposto.
Risalì il vialetto in retromarcia e parcheggiò accanto al bancale di
compensato e ai rotoli di telo in plastica. Prese gli attrezzi dall’auto,
aprì il cancello della villetta con un colpo d’anca e seguì il sentiero di
mattoni fino alla porta scorrevole sul retro della casa. L’anta in vetro
si aprì con un cigolio.
Devo oliarla, pensò entrando e sistemando gli attrezzi sulla spoglia
soletta di cemento, poi tornò fuori a recuperare i teli di plastica e la
carta catramata da usare come impermeabilizzante. Rientrato,
poggiò la Springfield sul banco accanto al lavello, inserì la spina
della radio e si mise al lavoro, sigillando le porte interne con la
plastica per evitare che la polvere sporcasse il resto della casa. Coprì
quindi il pavimento con uno strato di Visqueen – un apposito telo in
polietilene – e carta catramata, accese il compressore e uscì di nuovo
a prendere il compensato.
Piazzò il primo foglio partendo da un angolo, e assicurandosi che
aderisse alla parete prima di fissarlo con i chiodi da cemento. C’era
qualcosa di terapeutico nel lavoro manuale: fatica e attenzione ai
dettagli gli permettevano di spegnere la mente e dimenticare i
problemi. Vi si immerse con tutto se stesso.
Aveva già sistemato metà del sottofondo quando sentì qualcuno
bussare alla porta d’ingresso. Lasciò a terra la chiodatrice
pneumatica, sperando che fossero i ragazzi del parquet arrivati in
anticipo.
«Un momento» disse, alzandosi in piedi.
Tum, tum, tum.
Si pulì le mani sui pantaloni e scostò un angolo del telo di
plastica. La porta d’ingresso era proprio di fronte alla cucina, e
Hayes poté vedere che non si trattava degli operai: lì davanti, oltre il
vetro, c’era uno dei testimoni di Geova che aveva scorto per strada.
L’uomo sorrise e lo salutò con la mano.
«Aspetta, spengo la radio» disse lui rientrando in cucina. Non
notò il secondo uomo che sgattaiolava oltre la finestra, con in braccio
un MP 7 della Heckler & Koch silenziato e pronto a sparare.
Tum, tum, tum.
«Dannazione, amico, voialtri non dovreste coltivare la virtù della
pazienza?» brontolò Hayes.
Era appena uscito dalla cucina quando il cigolio della porta sul
retro fece scattare il suo istinto.
Giù, gli ordinò la voce nella testa.
Si gettò a terra, e l’istante successivo sentì dietro di sé il crepitio di
un mitra con il silenziatore montato.
2

La Conner, Stato di Washington

I proiettili squarciarono il telo di plastica e colpirono la parete,


schizzando addosso a Hayes pezzi di cartongesso e polvere di
laterizi. Era stato sorpreso allo scoperto e stava strisciando verso il
soggiorno quando il primo «testimone di Geova» buttò giù con un
calcio la porta d’ingresso. Hayes si tuffò in avanti e fece per estrarre
la pistola dalla cintola, ma anziché stringersi sul rassicurante acciaio
della 9 millimetri la sua mano si chiuse attorno al nulla.
Il bancone.
«Bang in arrivo» urlò l’uomo in spagnolo.
Hayes si stava affannando a raggiungere il centro della stanza, ma
il candelotto nero che rimbalzò contro la parete della sala da pranzo
gli impedì di proseguire nel suo piano: fu costretto a gettarsi di
nuovo a terra. Una frazione di secondo più tardi, la flashbang colpì il
pavimento davanti a lui. Ebbe appena il tempo di chiudere gli occhi
e aprire la bocca, per evitare che lo scompenso di pressione gli
fracassasse i timpani, poi la granata stordente esplose in un
accecante lampo di magnesio.
L’urto lo investì come un treno merci e il calore gli ustionò la
pelle, riempiendo la stanza del nauseante odore di peli bruciati.
Tentò di rialzarsi, ma l’esplosione gli aveva compromesso l’equilibrio
e si ritrovò a vacillare come un marinaio ubriaco in licenza per il
weekend. Allungò le braccia davanti a sé, trovò a tentoni la parete e
si sforzò di seguirla fino a uscire dalla stanza. I proiettili sibilavano
attorno a lui come uno sciame di calabroni infuriati. Entrò
barcollando nello studiolo, sbatté gli stinchi contro il tavolino da
caffè che l’arredatore aveva piazzato lì in mezzo e cadde a terra.
p
La vista fu la prima a tornare, seguita dall’udito; il sordo
rimbombo nelle orecchie fu pian piano sostituito da un fischio acuto.
Abbassò lo sguardo, l’attenzione richiamata dalla puzza di fumo, e si
accorse che la sua camicia stava andando a fuoco, quindi si gettò sul
pavimento. Stava rotolando per spegnere le fiamme quando un
proiettile mandò in frantumi lo specchio sopra la sua testa.
Trova un’arma. Una cosa qualsiasi.
«Sono deluso, Adam Hayes» lo schernì il tizio dalla cucina. «Mi
avevano detto che eri una macchina da guerra.»
Come fa a conoscermi?
Il balenare del laser verde dell’aggressore, reso visibile dal fumo,
gli disse che non era quello il momento di cercare risposte a
domande simili. Il raggio colpì la parete di fondo e si mosse in
cerchio, guidato dall’assaltatore. Si trattava di un segnale per il
compagno, Hayes lo sapeva bene: significava che aveva bloccato la
preda nel lato destro della stanza. Di solito si impiegavano gli
infrarossi per indicazioni simili, e il fatto che stesse usando il laser
verde era indicativo.
È troppo sicuro di sé. Crede sia già spacciato.
«È solo un altro pendejo, proprio come Ford» commentò
l’aggressore.
Ford?
Sentir nominare l’amico fu come ricevere un ceffone in piena
faccia, ma non ebbe tempo di ragionare sulla cosa, richiamato alla
realtà dalla voce del tizio.
«Ricarico.»
Hayes sapeva di doversi concentrare, se voleva arrivare a fine
giornata con lo stesso numero di buchi con cui si era svegliato.
Devi entrare in partita.
Il fatto che i due assaltatori si fossero coordinati in un’irruzione
simultanea, prendendo il controllo della casa e inchiodandolo nello
studio in meno di sessanta secondi, era più che sufficiente per fare
un bilancio: si trattava di professionisti, membri d’élite delle forze
speciali. Gente del genere non lavorava a buon mercato, Hayes lo
sapeva per esperienza. Chiunque fosse a volerlo morto, aveva i
mezzi e le conoscenze per assicurarsi che l’operazione venisse
p p
condotta a regola d’arte. Ma i due, anziché finire in fretta il lavoro,
avevano pensato di giocare un po’ con lui. E Hayes era deciso a
fargli pagare cara quella leggerezza.
Raccolse una scheggia di vetro dal pavimento e agguantò dal
tavolino una ciotola decorativa in metallo. Addossandosi alla parete,
sfruttò il frammento di specchio per deviare la traiettoria del laser,
facendolo rimbalzare sul muro opposto. Il secondo assaltatore
rispose al messaggio con due brevi flash verdi.
«Mi muovo» annunciò in spagnolo.
Mentre angolava la scheggia e spediva il laser verso il pavimento,
Hayes fu colto dall’improvvisa consapevolezza di quanto fosse
disperata la situazione. La flashbang l’aveva reso mezzo sordo, e
stava per affrontare un killer professionista con una ciotola
decorativa che aveva comprato da Pier 1 per dieci dollari.
Pessima idea.
Rivolse una veloce preghiera a san Giuda Taddeo, patrono delle
cause perse, poi rimase in attesa, consapevole di quante cose
potessero andare storte. Centinaia.
Il sicario fece irruzione con la sicurezza di chi ha migliaia di ore di
esperienza alle spalle. Certo che il compagno avesse sgombrato il
lato destro della stanza, tenendolo sotto tiro, si voltò a sinistra e fissò
lo sguardo su un bel niente.
Hayes gli fu addosso in un lampo. Sbatté con violenza la ciotola
sulla nuca dell’aggressore; un colpo che l’avrebbe messo al tappeto,
se quel dozzinale soprammobile non gli si fosse accartocciato sul
cranio. L’uomo barcollò in avanti; era stordito, ma non fuori
combattimento. Quando cercò di voltarsi, Hayes lo afferrò per i
capelli e gli sbatté la fronte contro il cartongesso.
«Emilio, tutto bene?» chiese la voce dall’altra stanza.
Hayes calò il piede sul ginocchio del tizio, portando una mano
alla sua bocca per soffocarne il grido. Sentì l’articolazione spezzarsi.
Stava per prenderne l’MP 7 quando il secondo aggressore apparve
sulla soglia. Ebbe appena il tempo di sollevare davanti a sé il ferito,
mentre l’altro apriva il fuoco.
«Cazzo!» urlò lo scudo umano, e una raffica di sei proiettili gli si
conficcò nel petto.
Hayes sentì il tonfo del suo mitra che colpiva il pavimento.
Provare a recuperarlo era fuori discussione: la sua unica speranza
era accorciare la distanza e mettere le mani sul secondo uomo. Si
lanciò dunque contro l’aggressore, incalzandolo verso la cucina, i
muscoli che gemevano nello sforzo di tenere il cadavere davanti a sé.
Quando fu a una trentina di centimetri dall’avversario, però, rischiò
di inciampare nelle gambe del morto e cadere, quindi spinse il corpo
in avanti. L’altro si scansò e passò all’attacco.
Gli si fece sotto, rapido e deciso, ma a quel punto era troppo
vicino per puntargli contro l’MP 7, che usò invece per colpirlo in testa.
Hayes finì sulle ginocchia. Stava ancora cercando di riprendersi
quando il tizio provò a sferrargli un calcio in faccia. Vide il colpo
arrivare, ed ebbe appena il tempo di scansare la faccia. La violenza
dell’impatto lo scaraventò all’indietro.
Costretto a difendersi, sferrò a sua volta un calcio puntando
all’inguine dell’uomo; lo centrò anche, eppure quello non batté
ciglio. Quindi si affannò a rialzarsi, schivò un cazzotto e fece un
passo in avanti per entrare nella guardia dell’avversario. Lo scontro
era ormai corpo a corpo, un mulinare di gomiti e ginocchia. Hayes,
però, doveva a ogni costo tenere sotto controllo l’MP 7, così lo
agguantò per il silenziatore. Il metallo rovente gli ustionò le dita, il
puzzo di carne bruciata riempì la stanza.
Sopporta il dolore.
Spinse la canna del mitra verso il pavimento, fece un passo in
avanti e sferrò una testata al naso dell’aggressore. La cartilagine
cedette con lo schiocco di un gambo di sedano, schizzi di sangue
caldo gli bagnarono la faccia, ma l’altro continuò a lottare. Unico
segno del fatto che era stato colpito, si lasciò sfuggire un grugnito
rabbioso e gutturale.
Se non ti sbrighi a chiudere la partita, ti farà a pezzi.
L’uomo abbassò la spalla e, usando l’MP 7 come un ariete, spinse
Hayes contro l’isola della cucina. Adam cadde all’indietro, oltre il
piano cottura, e atterrò proprio di fronte a un estintore. Lo afferrò
strappandolo dal supporto, ruppe il sigillo e si alzò in piedi,
piazzando l’ugello dritto in faccia all’avversario. Quando fece forza
sull’impugnatura, il serbatoio si svuotò in un sibilo di ritardante
bianco. Il tizio barcollò, e lui ne approfittò per scavalcare in un balzo
i fornelli e colpirlo allo stomaco con l’estintore. L’altro si piegò in due
con un gemito, mentre l’urlo dell’allarme antincendio riempiva
l’abitazione.
Prima che Hayes potesse strappargli dalle mani l’MP 7, però,
l’uomo riuscì ad alzare la canna e a fare fuoco. Il calore ustionante
del colpo costrinse Adam a una smorfia, poi sentì l’arma cadere a
terra. Mollò l’estintore e si chinò a recuperarla, ma le sue dita non si
erano ancora chiuse attorno all’impugnatura che l’aggressore aveva
già estratto un coltello dal fodero alla cintura. Menò un fendente
indirizzato al volto; Hayes vide la lama brillare sotto le luci del
soffitto, contrasse gli addominali e si spinse all’indietro un istante
prima che il freddo acciaio gli affettasse il torace.
Sferrò quindi una gomitata al volto del tizio, sentendo lo stridere
dei denti rotti, poi lo afferrò per un polso nel tentativo di sottrargli
l’arma. Quello rispose assestandogli un calcio; il colpo lo centrò
dritto sul nervo femorale, con uno schiocco simile a quello di un
colpo d’ascia, e la gamba di Hayes cedette. Seguì un potente
rovescio, che gli girò la testa verso destra. Il sangue schizzò la parete
dipinta di fresco. L’uomo lo schiacciò a terra, la lama a pochi
centimetri dal collo.
Hayes si dibatté chiamando a raccolta la forza che gli restava, ma
il coltello continuava la sua discesa verso la giugulare. Sopra di sé
poteva vedere il collo teso dell’avversario, le vene che spiccavano
dallo strato di ritardante bianco. In quell’istante, Adam realizzò che
nulla avrebbe più avuto importanza se fosse morto; né le promesse
fatte in passato né i progetti per il futuro. Per rivedere la sua famiglia
aveva una sola strada.
Uccidilo.
Girò la testa e, alla sua destra, sul pavimento, scorse la chiodatrice
pneumatica. Inarcò i fianchi fino a infilare un ginocchio tra sé e
l’avversario, allontanandolo abbastanza da guadagnare un altro
secondo. L’uomo gli sorrise dall’alto.
«Muori, figlio di puttana» lo schernì.
Hayes afferrò la chiodatrice e la portò alla tempia dell’uomo.
«Prima tu» disse, premendo il comando a grilletto.
3

Las Mangas, Venezuela

Jefferson Gray, fermo vicino alla Chevy Suburban impolverata,


giocherellava oziosamente con lo stuzzicadenti infilato all’angolo
della bocca. Faceva caldo in cima a quella collina piatta e bassa, e
sulla schiena la maglietta era ormai fradicia di sudore, al pari della
fascia interna del suo cappello da cowboy in paglia. Si asciugò la
faccia con il braccio, accostò il binocolo agli occhi e scrutò il
paesaggio.
A est il vento soffiava sui llanos, le pianure erbose del Venezuela
sudorientale; gli ricordavano casa sua, nel Texas occidentale, e
quanta strada avesse fatto da quando era entrato nella CIA dieci anni
prima. Fino a quel momento, dell’Agenzia aveva saputo solo quanto
visto in tv o letto nei romanzi di spionaggio; ma una volta diventato
agente operativo aveva scoperto la verità: la Central Intelligence
Agency era un enorme apparato burocratico terribilmente avverso al
rischio. Ecco perché la sua ascesa da fresca recluta a capo del Critical
Action Program era stata a dir poco straordinaria.
Al momento, comunque, la cosa non aveva importanza. Ripensò
invece al computer insanguinato che Black aveva riportato indietro
dalla missione, insieme ai corpi dei suoi uomini.

«Ecco» aveva esclamato il contractor lanciandolo sulla sua scrivania.


L’espressione era dura, i muscoli della mascella guizzavano sottopelle.
Gray aveva aperto il laptop, aggrottando la fronte nel vedere la macchia
secca, color ruggine, sullo schermo.
«Non si poteva pulirlo?» aveva chiesto, prendendo un Kleenex dalla
scatola sulla scrivania.
«Ero impegnato. Sai, a mettere nei sacchi Marty e K.P.»
«Hmm. Hai idea di cos’abbia inviato?» si era limitato a chiedere lui,
sfregando sul monitor.
«Hai sentito cosa ho detto?»
«Sì, ti ho sentito.» Gray aveva alzato lo sguardo sull’uomo di fronte a sé.
«Sono morti. Ecco perché lo sto chiedendo a te, e non a loro.» Era rimasto a
osservare la rabbia che esplodeva negli occhi del militare a contratto, la sua
mano che si serrava a pugno.
«Ha cancellato i file» aveva risposto Black, a denti stretti.
Gray aveva avuto a che fare con parecchio materiale riservato in vita sua,
abbastanza da sapere che se il soggetto non distrugge fisicamente il drive, i
dati restano nel computer. Tutto ciò che doveva fare era trovarli. Aveva
impiegato un’ora, ma alla fine era riuscito a recuperarli. Si trattava di
quattro fotografie.
Le prime tre erano sgranate e innocue. La panoramica di una pista
d’atterraggio sterrata, incorniciata da un rugginoso hangar e un vecchio
DC 3. Alcuni uomini intenti a trasferire dei bancali dall’aereo al retro di un
furgone. La terza fotografia era a malapena a fuoco, e ci aveva messo un po’
a capire che si trattava dello stesso furgone di prima; solo che stavolta
veniva scaricato. Niente di cui preoccuparsi, fin lì: le foto potevano essere
state scattate ovunque, e non c’era niente che le collegasse a lui.
Poi, sul monitor era apparsa l’ultima, e Gray si era reso conto di avere
un problema. Merda…
Ford si era impegnato per quello scatto: luce e fuoco erano perfetti, e i due
uomini al centro dell’inquadratura si distinguevano benissimo. Si trattava
di Gray e del colonnello Vega, il responsabile dell’intelligence nazionale
venezuelana; proprio l’uomo che il suo capo gli aveva ordinato di evitare.
In uno scatto d’ira, aveva sbattuto il pugno sulla scrivania.
«Cazzo!»
Tre anni di lavoro messi a rischio da una fottuta e-mail.

La radio sul cruscotto dell’auto crepitò, riportandolo al presente.


«Contatto visivo» annunciò Murph. Si era piazzato a fare il
cecchino tra un cumulo di rocce, a una certa distanza. «Un elicottero,
in avvicinamento da ovest.»
«Era ora, dannazione» commentò uno degli uomini sul retro
dell’auto, accarezzando con delicatezza il fucile d’assalto poggiato
tra le gambe.
Gray puntò il binocolo alla propria sinistra, strizzando gli occhi
per l’accecante riverbero del sole al tramonto; regolò la messa a fuoco
fino a distinguere un puntino verde all’orizzonte, che di lì a poco si
trasformò in un Huey con contrassegni venezuelani.
«Mitragliere sul fianco destro» li avvertì Murph.
«Se la cosa degenera» rispose Black, «usa quel Barrett per
trasformare Vega in nebbiolina rosa.»
Gray abbassò il binocolo e lanciò un’occhiata nel SUV . Black lo
stava fissando da dietro gli occhiali scuri. Impossibile non cogliere la
sfida insita nelle sue parole: voleva costringerlo a prendere posizione
di fronte all’intera squadra. Con chi stava, con il team o con Vega?
Non era certo il primo rodeo, per Gray, e non aveva nessuna
intenzione di piegarsi a simili giochetti; evitò il confronto aggirando
la questione.
«Andrà tutto liscio come l’olio» disse, mentre l’elicottero li
sorvolava per poi descrivere uno stretto arco.
«Lo vedremo» replicò Black, prima di rivolgere la propria
attenzione agli uomini sul retro. «Sicura disinserita finché la
situazione non è sotto controllo» ordinò.
«Ricevuto» risposero i tre all’unisono. Barbe lunghe ed
espressione da duri, indossavano impolverati giubbotti tattici cui
erano assicurati gli attrezzi del mestiere: caricatori extra per gli
HK 416 a tracolla, lacci emostatici e granate a frammentazione M 67.
Dopo un secondo passaggio, il pilota dell’elicottero riprese quota
e si assestò sopra di loro su una placida rotta circolare.
«Convoglio in arrivo» comunicò Murph.
Gray si allontanò dallo sportello e osservò la nuvola di polvere
che annunciava l’arrivo di Vega. Il primo pick-up, un Ford F -150
verde, apparve alla vista con il pianale carico di uomini armati.
«Vuoi il giubbotto?» gli chiese Black.
«Non è nel mio stile» rifiutò Gray, levandosi il cappello da
cowboy e passandosi la mano tra i capelli biondi.
Il giubbotto antiproiettile lo faceva sempre pensare a Mike
Vickers, un suo compagno di corso. Avevano affrontato insieme la
Farm, il programma di addestramento degli operativi che la CIA
portava avanti nella base dell’esercito a Camp Peary, in Virginia.
Anni dopo, Mike era stato spedito in Iraq. Stava dando la caccia a un
bersaglio importante quando il mezzo su cui viaggiava era saltato in
aria a causa di un improvised explosive device, o IED : un ordigno
esplosivo improvvisato. Gray era andato a trovarlo all’ospedale
Walter Reed, e per poco non aveva dato di matto. L’amico collegato a
tutti quei macchinari, la figlia che piangeva su ciò che ne restava…
Fanculo quella merda.
Quando fosse arrivato il suo momento, Gray voleva una morte
pulita.
Tra schizzi di terra, l’F -150 si fiondò su per il leggero pendio e fece
un rapido giro attorno alla cima della collina, sollevando un muro di
polvere, poi inchiodò. Gli uomini che trasportava, i volti coperti da
passamontagna neri, si misero in posizione prima che la nube si
fosse posata, controllando il perimetro dell’area.
Tutto liscio come l’olio…
Gray rivolse lo sguardo al SUV nero in attesa ai piedi dell’altura;
l’auto – un modello della Mercedes – si mosse solo dopo che uno
degli uomini lì attorno ebbe dato l’okay via radio. Si fermò proprio
davanti all’americano, e ne scese un militare snello, baffi sottili e
uniforme impeccabile.
«Buenas noches» salutò Vega, lasciando cadere un borsone ai piedi
di Gray.
La cerniera era aperta, e l’impatto scostò i due lembi di stoffa quel
tanto che bastava perché lui vedesse il denaro al suo interno,
suddiviso in mazzette.
«Per il lavoro al Bolívar» disse il colonnello.
Gray fece cenno a Black di recuperare il borsone, poi lui e Vega si
spostarono verso il ciglio della collina, dove nessuno poteva sentirli.
«Mi par di capire che abbiamo un problema» esordì l’alto ufficiale.
Il sorriso sul suo volto era svanito con la stessa velocità con cui era
apparso. «Qualcosa riguardo un’e-mail e alcune fotografie.»
Merda, come fa a saperlo?
Quasi gli avesse letto nella mente, l’uomo proseguì: «Andiamo,
signor Gray: non sarei granché in questo lavoro, se non sapessi ciò
che accade nel mio Paese. Dico bene?».
«Me ne sto occupando.»
«Ed è certo che sarà tutto risolto prima che la spedizione sia
pronta, fra tre giorni?» Gli occhi di Vega si erano fatti freddi come
quelli di un crotalo pronto a mordere.
«Le ho detto…» scattò Gray, perdendo per un istante la calma.
L’altro alzò le mani, lo sguardo di nuovo caloroso. «Amico mio,
non c’è bisogno di stizzirsi. Di qui a tre giorni lei sarà molto ricco.
Avrà abbastanza soldi da dare un taglio a questa vita, per sempre.»
Accompagnò quelle parole con un ampio gesto del braccio, come a
indicare l’intera collina. «Ma se la sua Agenzia venisse a sapere…»
«Stia attento, colonnello» lo interruppe Gray, sibilando. «Non
reagisco bene alle minacce.»
«Allora veda di sistemare questo Adam Hayes, e in fretta.»
4

La Conner, Stato di Washington

I cinque centimetri di chiodo da cemento sfondarono il cranio


dell’aggressore e si conficcarono al suo interno, troncando ogni
funzione cerebrale.
La morte fu istantanea.
Hayes spinse via il cadavere dal proprio petto. La lotta non era
durata neanche cinque minuti, ma lui era comunque in debito
d’ossigeno; respirava a fatica e il cuore batteva all’impazzata, come
un AK in modalità di fuoco automatico.
Una parte di lui avrebbe voluto restare sul pavimento, riprendere
fiato e capire cosa diavolo fosse appena successo, ma non riusciva a
riflettere con l’ululato dell’allarme antincendio nelle orecchie. Si tirò
in piedi, staccò dal muro l’intera scatola del dispositivo e la
scaraventò dall’altro lato della stanza.
Il silenzio che seguì fu assordante.
Riprenditi, ordinò la voce.
Ritrovarsi a essere quasi uno spettatore all’interno del proprio
corpo era uno degli aspetti del protocollo Treadstone cui non si era
mai abituato. Il lavoro effettuato dai medici a livello genetico, per
rendere più forti e veloci i suoi muscoli, era qualcosa di cui poteva
servirsi, da «attivare» o «disattivare» a seconda del bisogno. Ma il
condizionamento comportamentale era una bestia completamente
diversa. Stando al medico della Treadstone, l’aspetto scientifico era
semplice.
«Il corpo ha risposte istintive a condizioni specifiche. Quando ha bisogno
di energia, ti dice che hai fame; se gli serve riposo ti dice che hai sonno.
L’hardware c’è già, noi ci limitiamo a rifare i collegamenti.»
«Rifare i collegamenti?» aveva chiesto Hayes.
«Vedila così: un’auto ha acceleratore e freno, giusto?»
Hayes aveva annuito.
«Bene, adesso tu hai due acceleratori.»

Qualcuno avrà sentito gli spari, presto arriveranno dei poliziotti. Fa’ in
fretta. Controlla il corpo.
Si osservò avvicinarsi al cadavere, inginocchiarsi e frugare nelle
tasche dell’uomo. La voce nella sua testa catalogò quanto trovava.
Cellulare, del tipo usa e getta. Scattò una foto al volto del tizio, poi lo
mise faccia in giù per cercare il portafogli, che non trovò. Guardò
l’orologio, per un check sulle tempistiche.
Trenta secondi. Datti una mossa.
Si alzò, pronto a occuparsi del secondo sicario, ma qualcosa attirò
la sua attenzione sulla camicia dell’uomo.
Cos’è? Pensa, dannazione.
Le pillole…
Le pillole erano un’idea della strizzacervelli. Lui si era opposto
fino all’ultimo.

«È un farmaco recente, ma in Europa sta già dando ottimi risultati nella


cura dei sintomi del PTSD .» Post-traumatic stress disorder, ovvero
disturbo da stress post traumatico.
«Non sono un grande fan delle pillole» aveva ribattuto Hayes.
Lei aveva staccato la ricetta dal blocco, tenendola tra le dita. «E degli
incubi, invece? Quelli le piacciono?»
Un punto per lei. Aveva preso il foglietto.
«Adam: si tratta di una soluzione tampone. Terranno sotto controllo i
sintomi, ma non possono curare lei.»

Il mal di testa partì dalla nuca: un lampo di dolore accecante che


fece schizzare la pressione sanguigna alle stelle. Gli tremavano le
mani, primo segnale dell’attacco di panico partito dalle viscere.
Cercò di passare oltre, di superare la cosa, ma ormai era troppo
tardi. Il sangue pulsava così forte contro il nervo ottico che la vista
passava ritmicamente da sfocata a nitida.
Si prese la testa tra le mani, sforzandosi di rievocare gli esercizi
che gli aveva insegnato l’analista per radicarsi nel presente. Immagina
un luogo sicuro, in cui hai il pieno controllo della situazione. Chiuse gli
occhi e cercò di visualizzarlo, ma la consapevolezza che lì vicino
giacevano i corpi privi di vita di due assalitori rendeva l’operazione
impossibile.
Diciotto mesi di lavoro andati in fumo in un batter d’occhio.
Il dolore tornò, l’immagine prese a distorcersi, deformata e
frastagliata ai bordi. I palmi premuti contro le tempie, spalancò la
bocca in un urlo.
«Non adesso!»
Si lasciò cadere sulle ginocchia, sentì il freddo del cemento
attraverso i pantaloni.
Ho tutto sotto controllo.
Era una balla, come confermavano la polvere da sparo nell’aria e i
cadaveri sul pavimento. E la sete. Quell’implacabile arsura ricordava
a Hayes che non aveva il controllo di un bel niente.
Quando aveva firmato per il progetto Treadstone nessuno aveva
menzionato gli effetti collaterali del trattamento. Avevano parlato di
lavoro, di un nuovo modo di servire il Paese… Solo dopo la prima
missione – durante il debriefing nella stanza con le piastrelle
biancastre e le istituzionali pareti grigie – Hayes aveva iniziato a
capire davvero cosa avesse accettato.
I ricordi tornarono prepotenti, concreti e viscerali. Riusciva quasi
a sentire il freddo acciaio inossidabile della sedia contro la pelle
nuda; poteva quasi vedere la bottiglia d’acqua sul tavolo davanti a
sé.

Le goccioline di condensa scorrevano sulla plastica come grosse lacrime.


Non aveva mai avuto così tanta sete in vita sua; ogni fibra del suo essere gli
urlava di agguantare quella bottiglia, strappare via il tappo e vuotarla in un
sorso solo.
Invece si era concentrato sul riflesso dello specchio a due vie montato
sulla parete più distante. La faccia che lo scrutava di rimando era una
spigolosa caricatura della sua: zigomi affilati, che sembravano sul punto di
perforare la pelle abbronzata; corti capelli marroni spruzzati di un grigio
che prima non c’era. Ma erano gli occhi ad attirare la sua attenzione:
azzurri e freddi come il ghiaccio artico.
Cosa diavolo mi hanno fatto?
La porta si era aperta ed era entrato l’uomo in camice, con un’infermiera.
Il primo si era avvicinato al tavolo e aveva iniziato ad annotare i parametri
vitali di Hayes in un fascicolo blu fiordaliso.
«Frequenza cardiaca?»
«Ottantanove battiti al minuto.»
«Pressione arteriosa?»
«Centoventi su ottanta.»
Hayes aveva studiato l’uomo come un predatore che valuti una
potenziale preda. Doveva essere vicino ai cinquanta; occhi azzurri,
sopracciglia cespugliose, capelli corvini fin troppo ribelli, persino per un
ufficiale.
«Abbiamo quasi finito, dottore» aveva comunicato l’infermiera, estraendo
l’ago e facendo pressione con un batuffolo di cotone. «Lo tenga così finché
non smette di sanguinare» gli aveva detto. Poi aveva recuperato le tre
provette di sangue ed era uscita dalla stanza.
«Sigaretta?» aveva chiesto l’uomo, allungando verso di lui il pacchetto di
Winston che aveva tirato fuori dal camice.
«Non fumo» aveva risposto lui, osservando il sangue macchiare il
batuffolo di cotone.
Il dottore aveva acceso un cerino, e l’odore di zolfo aveva riportato Hayes
alla missione. Era lo stesso della pistola dopo aver fatto fuoco.
«Signor Hayes, questo è un debriefing di routine. Le porrò una serie di
domande, e voglio che lei risponda sinceramente. Ha compreso le
istruzioni?»
«Sì.»
«Ogni tentativo di alterare o nascondere la verità sarà segnalato dallo
strumento» aveva proseguito il dottore, poggiando la sigaretta sul monitor
nell’angolo. «Comprende?»
«Sì.»
«Bene. Cominciamo.» Aveva spento la sigaretta nel posacenere e
abbassato lo sguardo sul foglio.
Guardando il falso specchio all’altro lato della stanza, Hayes aveva scorto
il bagliore di una luce rossa che si accendeva. Sapeva che registravano i
colloqui, ma si era sempre chiesto chi ci fosse là dietro a osservarlo.
«Inizieremo con alcune domande di controllo. Che giorno è oggi?»
«Lunedì.»
L’uomo si era voltato verso lo schermo. Niente picchi. Era tornato al
foglio.
«In quale Paese si trova?»
«Stati Uniti.»
«In che città?»
«Alexandria.»
Test. Amavano i test, in quel posto. Le domande di controllo servivano a
tarare lo strumento: si registravano le sue reazioni al dire la verità. Risolta
la pratica, era il momento di fare sul serio.
«Dove si trovava martedì scorso?» aveva chiesto l’uomo.
«Seattle.» Una menzogna.
L’altro aveva scrutato il monitor, una leggera piega agli angoli delle
labbra.
«Adam Hayes è il suo vero nome?»
«Sì.»
Un’altra menzogna, e nemmeno questa era stata segnalata. La piega delle
labbra si era accentuata.
«Cos’è la Treadstone?»
«Mai sentita nominare.»
La porta si era aperta, un tecnico era entrato nella stanza. Aveva
raggiunto lo strumento e controllato la regolazione, per poi voltare lo
sguardo sull’uomo con il camice bianco.
«È al massimo» aveva dichiarato, facendo spallucce.
«Problemi?» aveva chiesto Hayes con aria innocente.
«No. Mi parli della missione.»
«L’ordine di eliminazione è stato trasmesso al solito modo: un nome e un
indirizzo. Il bersaglio si chiamava John Li. Stando ai controlli preliminari
faceva l’allibratore al Golden Buddha. Stronzate.»
«Come, scusi?» aveva chiesto il dottore.
«Le informazioni raccolte» aveva spiegato Hayes fissando lo specchio.
«Tutte stronzate. Li era dell’MSS , l’agenzia d’intelligence nazionale cinese.
Le guardie che ho fatto fuori, alla porta sul retro, avevano pistole 9
millimetri della Norinco.»
«Lo annoterò nei miei appunti» aveva detto il dottore.
«Li è crollato subito.»
«Ha detto niente?»
«Ha supplicato, offerto soldi… Le solite cose.» Hayes si era stretto nelle
spalle.
«E lei cos’ha fatto?»
«Gli ho piantato nell’occhio una calibro .22 subsonica.»
«E cos’ha provato quando l’ha ucciso?»
«Provato?» aveva chiesto Hayes, confuso. Non comprendeva la
domanda.
«Sì.»
«Rinculo» aveva risposto, in tutta onestà.
«Rinculo?» L’uomo aveva sorriso.
«Sì, ha presente?» Aveva alzato la mano, fingendo di avere una pistola in
pugno. «Boom.» Aveva mimato la pressione sul grilletto e il sollevarsi della
canna dovuto allo sparo.
«Effetti collaterali? Mal di testa, difficoltà a dormire…?»
«La sete.»
«Assolutamente normale» aveva commentato l’uomo, annotando la
risposta sul fascicolo prima di lanciargli la bottiglia d’acqua.

Il dolore svanì di colpo, così com’era cominciato, e Hayes si alzò


in piedi. Era di nuovo in cucina. Sentiva la bocca secca, quasi fosse
foderata di carta abrasiva. Raggiunse il lavandino barcollando, le
gambe che tremavano. Aprì il rubinetto, spalancò la bocca sotto al
getto d’acqua e ce la tenne finché non restò senz’aria, poi si fermò a
riprendere fiato.
Stava per chinarsi a bere ancora quando udì le sirene. Era ora di
andare.
5

La Conner, Stato di Washington

Hayes si ficcò la 9 millimetri nella cintola, attraversò la stanza e


spalancò la porta, poi lanciò un ultimo sguardo alle proprie spalle.
Quando si voltò, pronto a uscire, si ritrovò a fissare la canna di una
Glock 17.
«Faccia a terra, stronzo!» ordinò il vicesceriffo dietro l’arma.
Hayes aveva perso il conto delle pistole che gli avevano puntato
in faccia, e nemmeno quella lo scompose. Ma il dito tremante che
l’uomo teneva sul grilletto era tutt’altra storia.
Ipotizzò che il vice – il cui grado era quello più basso tra gli
uomini dello sceriffo della contea di Skagit – avesse da poco
superato la trentina. Difficile esserne sicuri, visto il suo stato: il
sudore gli imperlava la testa rasata; i muscoli della mascella
pulsavano come branchie; le pupille erano dilatate nemmeno si fosse
tirato tre grammi di coca. Una cosa era certa: era su di giri.
Uccidilo, lo incalzò la voce.
«Non uccido gli innocenti.»
«C-cosa?» balbettò l’altro, la pistola che sobbalzava nella mano
tremante.
Dannazione.
«Vice Powell…» iniziò a dire Hayes, leggendo il nome
sull’identificativo in ottone appuntato alla camicia.
«Faccia a terra, ora» ordinò l’altro, avvicinandosi, «o ti faccio
saltare le cervella.»
Hayes tornò a concentrarsi sulla Glock. La patina lucida del
lubrificante sul carrello gli disse quel che aveva bisogno di sapere:
era nuova di zecca, appena messa in servizio. Proprio come l’agente
che la impugnava.
«Ho detto a terra, cazzo.»
«Calma» lo esortò Hayes, calandosi sulle ginocchia.
Nel frattempo arrivò una volante, i lampeggianti blu accesi, e un
secondo vice balzò fuori estraendo la pistola dalla fondina.
«Baker 120 sulla scena» comunicò via radio.
«Mettiti faccia a terra» insisté Powell, premendo l’arma contro la
testa di Hayes.
Il bacio della canna sul suo cranio fece scattare la scintilla: sentì il
corpo percorso da una scossa, i muscoli si contrassero e la voce nella
mente gli urlò: Uccidilo. Ma lui aveva una regola, un codice che
seguiva da quando aveva memoria.
Non uccido i poliziotti.
«Controllo l’interno» annunciò il secondo agente, entrando in casa
con la pistola spianata. Qualche istante dopo si sentì
un’imprecazione, seguita da conati di vomito.
Ha trovato i corpi.
«Tu resta dove sei» ordinò Powell rivolto a Adam, per poi
spostarsi un po’ a sinistra e scrutare oltre la soglia. «Ronny… tutto
bene?»
Hayes girò la testa di lato. Doveva prendere il controllo della
situazione, ma non sapeva come.
In quel momento un terzo veicolo sopraggiunse sulla scena.
L’assenza di lampeggianti sul tettuccio della Ford Crown Vic gli
disse che sull’auto c’era un sovrintendente. E quando vide l’uomo
scendere dal veicolo e calcarsi lo Stetson sbiadito sui folti capelli
biondi, prima di avviarsi lungo il vialetto, tirò un sospiro di sollievo.
Il tenente Sidney Blair incarnava in tutto e per tutto il classico
tutore della legge: alto, slanciato, occhi che non stavano fermi un
istante. Era uno dei primi uomini che Adam aveva incontrato
quando si era trasferito nella contea di Skagit, e il suo arrivo sulla
scena fu come una ventata fresca in un giorno afoso.
«Powell, quante volte abbiamo parlato del tenere il dito sul
grilletto?» chiese Blair con il suo marcato accento texano.
«M-mi scusi, signore» rispose il vice.
g p
Hayes sentì il secondo poliziotto uscire sulle gambe malferme, poi
arrivarono il rumore di cespugli smossi e un forte puzzo di vomito.
«Gesù, Giuseppe e Maria… Ronny, questa è la scena di un
crimine!»
«Mi dispiace, tenente, ma…»
«Va’ a darti una ripulita» lo interruppe il superiore prima di
rivolgersi a Powell. «E tu, vai a prendere il nastro per delimitare
l’area. Fa’ almeno finta che uno di voi due abbia un po’ di
dannatissimo sale in zucca.» Quando i vice non furono più a portata
di orecchi, Blair scoccò a Hayes un sorriso smagliante. «Alza il culo.»
Un istante dopo, però, il sorriso era scomparso, e Hayes ne capì il
perché quando si vide riflesso negli occhiali a specchio del poliziotto.
Aveva la faccia rossa e gonfia per la lotta, ma era lo sguardo
minaccioso che ancora aleggiava sul suo volto ad aver impensierito
Blair.
«Ehi, andiamo» disse quest’ultimo, posandogli una mano sulla
spalla e guidandolo in casa, «Powell non aveva cattive intenzioni. Lo
sai anche tu, vero?»
«È solo per questo che respira ancora.»
Se l’affermazione lo aveva spiazzato, il poliziotto non lo diede a
vedere, e i due restarono per qualche istante in silenzio. Fin dalla
prima volta in cui l’aveva incontrato, Hayes aveva sentito una certa
affinità con il tenente, e sapeva che la cosa era reciproca.
Condividevano gli stessi valori, e avevano rispetto del silenzio. Non
sentivano il bisogno di dire qualcosa solo per riempire i momenti
morti di una conversazione. Inoltre seguivano entrambi l’antico
codice dell’Ovest: il passato di un uomo era affar suo… almeno
finché non lo era più. Hayes non aveva mai chiesto a Blair come mai
un figlio del Texas fosse finito sulla costa occidentale, e il tenente
aveva restituito il favore. Ma le cose stavano per cambiare, e Adam
lo sapeva bene.
L’attenzione del tenente si spostò sul cadavere dell’aggressore;
emise un lungo fischio e si spinse lo Stetson indietro sulla testa.
«L’hai fottuto per bene, questo è certo.»
Hayes lo vide tirare fuori una penna dalla tasca e usarla per
spostare il corpo: voltò la testa, osservò meglio il foro e poi lanciò
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the meat, and gave some of it to her husband; he kicked it away.
She gave him some wûdjûk (weed like mustard), to eat; he tasted of
it, spat it out, and threw the rest in the fire.

She said: “The people were kind to me to-day; they gave me the
fawn and asked me to come to-morrow,” and she began to pound
seed and get ready to go. [119]

The next day when the woman and her brother-in-law were starting
off, Gáhga said: “I know what kind of stuff you are feeding me! I
know you are making sport of me. You don’t fool me. You can do
what you like; I don’t care for you any longer, but I will make you feel
sorry.” They didn’t answer, didn’t say a word to him.

That day Gáhga’s sister came to see her little nephew. Gáhga said:
“I want you to get me a straw plate.”

“Why do you want a straw plate?” asked his sister.

“Get it for me, I want it.”

She wouldn’t get him the plate till he told her what he was going to
do with it, and he wouldn’t tell. She was afraid of him; she knew he
was mad about something.

After a while old man Kāhkaas came; he was kin of Gáhga. Gáhga
asked him for the plate and he gave it to him, and said: “Your brother
is stealing your wife. All the people at the deer hunt say so. But you
must keep quiet; you mustn’t get mad. You are old and blind; your
brother is young, and your wife is nice-looking.”

Gáhga screamed, he was so mad. He called his sister and said:


“Lead me to the hunt!”
She was so scared that she had to do as he told her. He took the
straw plate, and the three started. When they got to the place, his
sister said: “Sit down here, away from the snares; then you will be
safe.”

“No,” said Gáhga, “I am going where my wife is.”

“Don’t be a fool,” said his sister. “She doesn’t want you; she has
another man.”

Gáhga took the plate from under his arm, and sat down on it.

About midnight his sister asked: “What are you doing? Why don’t
you lie down and go to sleep? Why are you sitting on that plate and
keeping awake all night?”

“Keep still and let me alone,” said Gáhga. “Stay here by me; I am
going to punish those people.” Then he got up and began to dance
on the plate and to call out: “Ho! ho! ho!”

Right away rain came down, but Gáhga didn’t get wet. [120]He kept
shaking himself and calling: “Ho! ho! ho!” Each time that he called, it
rained harder. There was deep water everywhere, but the plate was
dry and the ground around it was dry. The people got as wet as
though they had been swimming.

Gáhga’s sister said: “You shouldn’t get mad and act in this way; you
will kill everybody.”

He didn’t listen to what she said; he called, “Ho! ho! ho!” and danced
faster and faster. The people were almost drowned; the water was
up to their arms. Still Gáhga kept shaking himself and dancing and
calling: “Ho! ho! ho!”
When the people saw that Gáhga and his sister were dry, they said
to his brother: “You have done this. You have made Gáhga mad. You
have taken your brother’s wife,” and they threatened to kill him.

He said: “I don’t want her. I am going to die; I am freezing.”

The people caught hold of the woman, dragged her along in the
water, and threw her down in front of her husband. He stopped
dancing, and right away it stopped raining.

The people said: “You shouldn’t be mad at us. We didn’t do this. We


don’t want to die; we want to go home. You should feel sorry for us
and dry up the water.”

Gáhga was sorry for them. He danced on the plate, but he didn’t call:
“Ho! ho! ho!” The water began to go away, and soon the ground was
as dry as it had been before the rain, and every one went home
except Gáhga and his wife and his brother.

Gáhga sat on his plate; he wouldn’t get up or he wouldn’t speak. His


wife got mad. She pushed him, and asked: “Why don’t you get ready
to go home?” He didn’t answer: then she took hold of his arm, jerked
him up, threw him on top of the load of meat on her back, and went
home.

His brother went off on the mountains; he was afraid of Gáhga, and
afraid of the people; for they hated him, and the woman didn’t care
for him any longer.

Gáhga was so jealous and cross that he drove his wife away. His
sister took the little boy, and Gáhga stayed alone. Maybe [121]he is
dead and maybe he is living. Doctors who have him for their
medicine can make rain whenever they want to. It is a good
medicine. When any one has it, they can look through a man’s body
just as we look through a window. [122]
[Contents]
OLD MAN LULUS-DEWIEAS OR EARTHQUAKE
OLD MAN

CHARACTER

Lulus- A Sweet Root; Dewieas means a Great Eater, a


Dewieas Glutton

Old man Lulus-Dewieas and his son and daughter-in-law lived in the
country where the lava beds are now. They ate a great deal of sweet
lulus; it was the old man’s medicine. Always when the son went to
hunt for deer, he told his wife to take good care of his father, and be
sure to give him food before she ate herself, or gave any food to the
children. If she didn’t, she would bring misfortune on herself and the
children. The woman remembered what her husband said, and she
always gave the old man food first; he was glad and fed his
grandchildren.

One day, early in winter, the son said to his wife: “There is plenty of
game now. I want to kill a good many deer before deep snow comes.
While I am gone, you mustn’t forget to feed my father before any one
else.” The old man was white as snow; he was very old and was
almost blind.

The next morning, when the young man was starting off, he said: “I
had a bad dream last night. I don’t want to go, but the children are
always crying for fat meat. I dreamed that I came home and found
only a deep hole where our house is now. You must keep the
children away from their grandfather. Don’t let them bother him; he
might get mad. As long as you treat him well, he won’t harm them.”

When the young man got to the top of the mountain, he looked back;
he could see his house, but somehow he felt lonesome and scared.
He kept listening, as if he expected to hear something. It was the first
time that he had felt that way. He found a deer and drove it on to a
hill, and shot at it. [123]Right where it stood, it disappeared. Then he
knew that something was going to happen to him. He said: “This is
the first time I have lost a deer after shooting it.” When he got tired of
looking for the deer, he sat down to rest.

After her husband was gone, the young woman got a heavy stone
and began to pound seeds. While she was pounding, she made up
her mind to find out what her father-in-law would do if she put the
seed away without giving him any. When the seed was fine enough,
she put up the mortar without saying a word. When the old man saw
her do that, he crept out and sat down on the south side of the
house. As he sat there, he began to swell up. He took black paint
and painted himself in stripes. Right away he began to turn and turn,
and to throw up dirt. His hair grew as red as fire, and when the hole
he made was large enough, he sank into it.

When the little girl saw her grandfather going down in the ground she
screamed: “Oh, grandfather, come back!”

The woman heard the child cry, and she ran out to see what the
matter was. When she saw what had happened, she called: “Oh,
father, come back. I’ll give you lots of seeds to eat! Come back!”

But the old man had gone too far, and was too mad; the house, the
woman, and the children all sank into the hole.
The old man went on, boring as he went. Everywhere he broke and
threw out the earth. Once in a while he raised himself up a little. At
such places the earth would be level for a short distance, then it
would sink down in a deep hole and leave a wide opening in the
ground.

The son heard a terrible roar and he knew that his wife had made his
father mad. People living a long way off heard the roar. They knew
what kind of an old man that was; they stayed in their houses and
fastened up their doors. As the old man traveled, he kept calling his
own name: “Lulus-Dewieas, Lulus-Dewieas!” When the young man
came to where his house had been, he found only a wide gap in the
earth. He followed the sound of his father’s traveling and called to
him; but the old man didn’t hear him.

He traveled under the ground till he got beyond Mount [124]Shasta


and came to where there was water. He stopped there, but stayed
under ground. The son stood above the place and spoke to his
father.

The old man said: “You must not feel badly; my spirit belongs to this
earth. You must go away from me; you must not try to follow me. I
shall live forever under the earth.”

Lulus-Dewieas could hardly speak when he said this. The son left
him, and ever after wandered around in the world. He felt sorry and
lonesome. [125]
[Contents]
MÁIDIKDAK’S DAUGHTERS

CHARACTERS

Máidikdak Snowbird
Wus Fox

Máidikdak and her two daughters lived in the south. The old woman
knew that five chiefs lived in the north, with their father, who was a
chief, too. She wanted her daughters to marry those five brothers, so
she made them ready for the road. To one daughter she gave a
basket of food; to the other beads, nice shells, and porcupine quills.

When the girls were ready to start, she said: “If you see a man
coming from the east, you will know he is Wus. Don’t stop to talk to
him. He is a powerful man; he can do any thing he likes. If he gets
mad, he will turn you into an animal or a bird. Don’t go on the west
side of the lake. Follow the trail on the east side.”

When the girls came to the lake, the west side looked nicer, the trail
was brighter. The elder sister wanted to follow it, but the younger
sister said: “Our mother told us not to go on that side.”

The elder sister said: “You can follow the other trail if you want to. I
am going on this trail; it is nicer.”

The younger girl didn’t want to be alone, so she went with her sister.
When they passed Wus’ house she was frightened. She said: “I feel
as if somebody were looking at me.”
“I feel that way too,” said the elder sister. Presently they saw a young
man coming toward them.

“What nice girls those are,” thought Wus. When he came up to them,
the younger sister said to the elder: “Don’t stop. Go right on. This is
the man our mother told us about. Don’t speak to him.” [126]

But the elder girl stopped. Wus made her stop. The younger went on
a little way, then she turned back; she was afraid to go on alone.

“Where are you going?” asked Wus.

“To the chief’s house,” said the elder sister.

“What chief is there out this way? I am the only chief here. I am the
chief of this world.”

“You are not the chief we are going to. That chief never travels
around. Our mother told us there was a bad man on this side of the
lake. His name is Wus; he doesn’t smell good.”

“I know that man,” said Wus. “He is not bad. He has power and can
do anything he wants to.”

“We are not going to stop here,” said the elder sister. “We are going
to the chief who lives in the north, and has five sons.”

“Go on, if you want to,” said Wus.

When the girls started, Wus watched them till they went out of sight;
he was saying things in his mind. As they traveled, they became old
women, with humps on their backs; their bodies shriveled up, there
was no flesh on their bones, they could scarcely move; their hair
turned white, and their teeth fell out. Their beautiful clothes turned to
dirty straw; their strings of beads were twisted bark; their baskets
looked old and broken and the roots in them turned to moldy skins;
the shells and porcupine quills were bits of bark.

The younger sister said: “We didn’t go the way our mother told us to.
That man was Wus; he has done this. If we had gone on the east
side of the lake, we shouldn’t have met him. We should have done
as our mother told us; she is old, and she knows more than we do.”
After a long time, they got to the chief’s house. The five brothers
were out hunting. The chief didn’t know what to give the women to
eat; he thought they were too old to eat roasted liver (old people’s
food). When he gave them some, they pushed it away. They lay
down to sleep, and while they were sleeping the five brothers came.
They knew Máidikdak’s daughters and knew who had made them
old. [127]

The youngest brother asked: “Did you give these women anything to
eat?”

“I gave them liver,” said the old man, “but they couldn’t eat it; they
haven’t any teeth.”

The young man was glad they had come; he sat down and watched
them. About midnight they turned to beautiful girls. In the morning,
when they woke up, they were old women again.

The chief said to himself: “What kind of a man is my son? Why does
he stay by those dirty old women?”

The young women heard his thoughts and they felt badly. At last
they crawled up and went out to wash in the river. The elder sister
said: “If we swim, maybe it will make us young again.”

They took off their dirty, ragged clothes and old torn moccasins and
began to swim. Right away they turned to beautiful girls; their long
hair floated on the top of the water. As they swam, they talked and
laughed, for they were glad to be young again. They made sport of
their father-in-law, and said: “That big chief thought we were old
women; he fed us liver!”

The young man heard this and said to his father: “You fed those girls
dirty liver. Did you think they were old women?”

The girls kept diving down in the water and coming up, and soon
they began to change. They became green-headed ducks, and
floated off toward home. The young man felt badly; he didn’t want
them to go.

Old Máidikdak heard them coming, and when they were near the
house, she said: “My daughters, you didn’t do as I told you. I told you
about that bad man. If I hadn’t this would be my fault; now it is
yours.” She tried to catch them, but couldn’t. At last she went under
the water and caught hold of their legs. She pulled off their feathers
and they were girls again.

The next morning the young man said to his father: “I am going to
carry my wives’ clothes and beads and porcupine quills to their
mother.” [128]

When he got to Máidikdak’s house the two sisters were off gathering
wood. The old woman saw him sitting on top of the house and she
asked: “Who are you?”

“I am one of the five brothers who live in the north.”

“Are you the youngest?”

“Yes, I have brought back your shells and porcupine quills. Wus
changed your daughters to ducks.”
“Come in, son-in-law, my daughters have gone for wood.”

The young man was glad. When the girls came, he said: “I have left
my father and brothers. I will live here now.” Ningádaniak. 1 [129]

1 The edge or rim; meaning the end of the story. ↑


[Contents]
WUS KUMUSH AND TSMUK

CHARACTERS

Kaiutois Wolf Wus Kumush


Nátcaktcókaskĭt Wuswelékgăs Wus’ Old Woman
Tsmuk Darkness

Old man Tsmuk and his wife had three sons and one daughter. The
daughter was always thinking about Wus and singing about him.

Wus heard her, but he didn’t know how to get to her, for everywhere
around Tsmuk’s place it was dark. He tried in all directions, but
couldn’t get there. He listened to the girl’s song. At last he thought: “I
can do anything I want to; I am Wus. I will make a place where that
girl will come, and I can see her.” He burned over ground and made
it ready for ges. 1 Then he thought of ges, and it grew there right
away.

One day, when the three sons of old man Tsmuk were starting off to
hunt deer, they asked their sister: “What will you eat while we are
gone?”

“I have nothing to eat,” said the girl.

“Not far from here,” said the brothers, “there is ges growing; you can
dig that.” And they told her where the place was.

Wus saw her digging roots and singing, and he thought: “How can I
get near her without frightening her?” He turned himself into an old
woman, put his bow and arrows and quiver into a basket, tied bark
around his legs and head, just as an old woman does, and went to
the girl. He talked like a woman, spoke kindly, asked her who she
was, and where her home was.

The girl was tired; she complained because she had to come so far
for roots.

“Are you very far from home?” asked Wus. [130]

“I have to camp one night on the way back,” said the girl. When she
started for home, Wus hurried the sun down, made night come
quickly, then he said: “Let us sit down and sing songs.”

While they were singing, Wus wished her to sleep. She went to sleep
right away. Then he built a brush house over her; he worked all
night, and in the morning the house was finished. When the girl woke
up, she was in a bright, many-colored house, and she wondered
where she was. When she remembered, and looked around for the
old woman, she saw a handsome young man; his clothes were
covered with beads.

The next day Tsmuk’s daughter had a child. It was like any child,
except that it had fox ears. The mother cried.

“Why do you cry?” asked Wus. “Are you sorry to be here? For a long
time I have listened to you. When I have been out hunting, I have
heard you singing about me. If you don’t like me, why did you sing
that song?”

“I am not crying about you, I am crying about my baby; I think my


father or brothers will kill it.”

“They will not kill the baby. I have power; I can do anything; I am
Wus,” said the young man.
Wus pushed the sun and made it go down quickly. As soon as the
woman was asleep, he fixed the baby’s ears, made them like the
ears of a person. He did this by thinking hard and wishing them to be
that way.

Old Tsmuk and his wife were looking for their daughter. They knew
that Wus had been trying to find her and they thought he had caught
her. They called to her, and listened for her song, but didn’t hear it.

Tsmuk’s daughter wanted to go home; she wanted to see her father


and mother. Wus knew her thoughts, and he asked: “Why do you
think of such things? What I wish for will be. To-morrow you will go
home.”

The next morning Wus wrapped up the baby and tied it on a board.
The child was bright and beautiful. It looked like a rainbow.

Old man Tsmuk sent his youngest son to hunt for his sister. When
the young man saw her coming, he didn’t know her, she [131]was so
beautiful; she was different from what she had been before. He ran
into the house, and said: “There is a beautiful woman coming.” When
the second brother saw her, he said: “That is our sister.” The woman
was alone, except for the baby on her back. When she went into the
house, her father asked: “What man have you found? If Wus is your
husband, you can’t stay here!”

Wus was a long way off, but he heard what the old man said and he
was angry. He thought: “I will find out if old Tsmuk is mad at his
daughter.” Then he wished the baby to turn to a little fox. When the
young woman took the baby off her back, it was like a baby fox. It
was covered with hair.

“That child smells like a fox!” cried the old man. He snatched it and
threw it out of the house. The mother screamed. Wus heard her, and
said: “Now I will torment Tsmuk.” That moment Wus’ wife was an old
woman. Her youngest brother was so frightened that he lay down
and cried. The baby was crying itself to death, but the mother
couldn’t do anything; she was bent over and helpless, too old to go
out of the house.

Wus thought: “Bring in that child!” That minute the young man got
up, went out, and brought in the baby and put it by its mother. He
said to his sister: “Lie down, and I will cover you up.”

Wus thought: “My brother-in-law is going to like me,” and he was


glad. He gave his own feelings to the young man.

The brother watched his sister, and after a while he saw that she
was getting younger; then he said: “Go to the river and swim. Maybe
you will be young again. I don’t care if you are old, I love you just the
same; but I am sorry for the baby.” He kept the child covered, and it
went to sleep. He went to sleep himself, and slept till the middle of
the night, then he woke up, but he slept again, and when he woke up
the second time it was almost morning. He looked at the baby; it was
like a person. He didn’t go to sleep again; he was afraid to; he
thought if he did the child would turn into a fox.

“Do you know what Wus can do?” asked his sister. “He [132]can do
anything. He can make people old in a minute; he can turn them to
anything; he can move a house or tear it down by wishing. When I
saw Wus, he looked as I do; he was a woman and carried a basket
on his back. While I was asleep, he turned to a man and built a
house. The house is so bright and has so many colors that it hurts
my eyes to look at it. If anything happens to Wus’ child, I think we
shall die. When it was thrown out, I got old; now that it is in the
house, I am growing young again.”
“What are you talking about?” asked Tsmuk. “Old Wus is listening to
everything. He listens while he catches mice to eat.”

When the brother and sister started to go to Wus’ house, they didn’t
tell their father where they were going. Soon they heard Wus blowing
on reeds, making music. It was nice and it sounded far off. They
followed the music till they came to the house. The brother stood
outside; he was afraid to go in.

Wus said to the woman: “Why do you let your brother stand outside?
Tell him to come and sit here by me.”

When the young man went into the house, he couldn’t see, it
glittered so; the light was so bright that it hurt his eyes; he had to
hold his head down. Wus said: “I know that you like me,” and he
called the young man brother-in-law. “Take off your clothes and put
on these I give you; then you can look around.”

The sister asked: “When do you want to go back to our father and
mother?”

“In two days I will go,” said the brother.

“Will you take blankets and beads with you?”

“No,” said the young man, “I shall come back; I don’t like to stay
there.”

Wus wanted to go to Tsmuk’s house. His brother-in-law said: “I will


show you the way; you will get there if I am with you.”

They all started; when near the house the young man went ahead.
Old Tsmuk spoke cross to him; asked: “Have you been in Wus’
house?” and he called Wus bad names. [133]

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