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194. Il gioco del buio


di Alessandro D'Avenia| 18 marzo 2024

«Siamo i genitori di un ragazzo di 14 anni che nel 2021 si è tolto la vita.


Frequentava per sua scelta il primo anno del liceo. In questi tre anni
siamo venuti a conoscenza di molti, troppi ragazzi che hanno compiuto
lo stesso disperato gesto. Proprio la settimana scorsa un altro dello stesso
Liceo ha deciso di farla finita. Non possiamo e non vogliamo più stare
fermi, vorremmo fare qualcosa per aiutare questi ragazzi sensibili,
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sofferenti, fragili, disarmati». Già diversi anni fa nel libro «L'arte di
essere fragili» cercavo una cura per questa emergenza: ero colpito da
questa volontà di morte giovanile, della quale i suicidi in crescita erano
l'esito estremo, ma molte altre le evidenze (ansia, disordini alimentari,
autolesionismo, dipendenze, depressioni). In quelle pagine partivo dal
fatto che una cultura è a misura della risposta che dà alla morte, perché la
cultura è il modo umano di dare vita alla vita, di mettere al mondo il
mondo. Se la morte è cercata o interiorizzata proprio dai ragazzi, che
rivolgono l'energia creativa che li caratterizza contro se stessi o contro un
mondo che non merita il loro coinvolgimento, è perché la nostra cultura
della vita è carente. Se la vita promessa non è vita buona, la
«somatizzazione» della morte non è solo sintomo ma atto politico. E in
un tempo in cui incidere politicamente (cioè sulla realtà) è quasi
impossibile, questo è per i ragazzi il modo di ribellarsi a questo mondo
per generarne uno nuovo. Sono morti rivoluzionarie. Perché?

Mi faccio guidare da una canzone scritta di recente da un mio


studente. Un rap che si intitola «Il gioco del buio» (si trova in rete
associata al nome d'arte: Namibia). Nella prima strofa dice: «Non
affronto problemi/ finché sono giganti/ mi chiedo se per crescere/ valga
la pena iniziare a causarli». Il ritmo che caratterizza questo genere
musicale è amato da questa generazione perché da un lato incarna un
rapporto con il mondo e con se stessi frammentato, concitato, arrabbiato
(«Il rap è la voce degli oppressi, un modo per dare voce a chi non ne
ha» dice un personaggio del famoso film 8 Mile con Eminem), e

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dall'altro cerca un radicamento alla terra e agli altri, un rito tribale che
permette di abitare la rabbia e il mondo («Il rap è una famiglia» dice un
altro nel film citato). Le rime ossessive di un parlato di strada sono un
colpo «di grazia» da infliggere ma anche una grazia «di colpo»,
un'inattesa armonia in mezzo al frastuono. Le parole di Namibia narrano
la paura di entrare in questa vita: vale la pena crescere qui? È la vita
che abbiamo creato a essere in discussione. È una vita buona? La nostra
cultura risponde alla paura della morte con la tecnica e l'accumulo, ai
dispositivi e al consumo chiediamo il senso dell'esserci, la nostra
assoluzione e redenzione. Ma questo comporta che la produzione
aumenti e acceleri e che noi diventiamo parte del meccanismo, come
Charlie Chaplin malmenato dalla macchina che lo nutre automaticamente
in Tempi moderni. Siamo su un treno che corre a velocità sempre più
sostenuta, vogliamo tutto e subito infrangendo i limiti della fisicità, ma i
corpi non reggono alla pressione: re-pressi, esplodono, de-pressi,
implodono. Il rapporto con il mondo è desincronizzato, cioè non
riusciamo più ad andare a tempo con le cose e le persone, che non ci
toccano mai e diventano mute, fredde, nemiche. La mancanza di
sincrono e di sintonia con il mondo, che il rap mima meglio di altre
forme musicali, è alienante: essere qui è solo ansia e fatica. Spesso
sento dire: «Voglio scendere!», espressione che tradisce la percezione
della vita come corsa senza senso, e non come cammino fatto sì di fatica
ma anche di gioia e scoperta. La distanza da sé, dalle cose e dalle
persone paralizza le energie creative prima ancora di averle evocate:
«loro non vedono ciò che sento/ e infatti scrivere è un mio bisogno/ ti
parlo di gente che non conosco/ spesso mi trovi fuori contesto/
praticamente in qualsiasi posto/ forse per questo mi sento perso», parole
che da un lato descrivono l'alienazione, il sentirsi sempre fuori posto e
fuori tempo, dall'altro cercano una via: «ho cercato il buio/ l’ho trovato e
gli ho dato anche un nome e una forma/ sto imparando a conviverci/
nascondo ciò che mi fa bene nell’ombra/ chiedi “cosa puoi farci?”/
Finirò per odiarmi». Il senso di colpa e di vergogna per una vita di cui
non ci si sente mai «all'altezza» (come se la vita fosse uno standard da
raggiungere e non quello che è già in noi proprio all'altezza che abbiamo)
diventano così forti che molti iniziano a «odiarsi» o «odiare», e l'odio è
l'energia creativa della vocazione all'unicità che muove tutto e tutti, che
non trovando esiti vitali viene rivolta (è una rivolta!) contro se stessi e il
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mondo. Continua Namibia: «io non parlo di ciò che non vivo/ perché so
quanto pesa la verità/ non ho scritto le regole e/ credimi mi hanno
segnato/ racconto le cose che vedo/ finché nei polmoni/ non trovo più
fiato./ Non so che cos’ho./ Ma con ogni mio passo/ salgo/ per cadere più
in basso./ Non so che cos’ho./ Non so che cos’ho». Un passo che sale per
cadere, come il Sisifo che Camus nel 1942 aveva scelto a emblema
dell'uomo che non smette di trasportare il masso della vita anche se
dovrà poi ricominciare sempre come il famoso eroe mitico. Oggi però
Sisifo è esaurito, sta male e non sa perché. La canzone si chiude così:
«parlo di meno da un tot/ mentre elimino ciò che mi salva/ non ho manco
le briciole in tasca/ questa cazzo di vita mi stanca/ seguo orari e pensieri
che affronto/ coi lividi in faccia e voragini in pancia/ per capire con
calma che cosa mi manca». Questa vita sfinisce, perché la cultura della
perfezione e del risultato è estenuante. Ma si invoca «calma» per capire
che cosa «manca». Questo è ciò che cercano i ragazzi, relazioni con il
mondo e gli altri non basate sulla velocità, sulla produzione di se
stessi, sulla auto-promozione narcisistica, sul consumo, perché la
realtà torni a essere casa. Manca «casa»: Namibia non ha le briciole in
tasca per tornarci, è un Pollicino senza speranza. Ma che cosa è casa?
L'essere umano non è «fatto», non è «prodotto», ma è «generato». Ciò
che abbiamo in comune tutti, proprio tutti, è essere «figli». Questa
generazione («generazione» appunto, non «produzione») chiede di
riappassionarsi alla vita a partire dalla filiazione distrutta
dall'individualismo auto-produttivo (diventa ciò che vuoi anziché diventa
ciò che sei) e consumista (pien-essere anziché ben-essere), vuole
appartenere al mondo e agli altri (essere da), per avere una vita da dare
(essere per). I luoghi della possibile ri-generazione (a ri-generare sono le
relazioni che ci rendono più figli, cioè soggetti capaci di ereditare il
mondo e arricchirlo) sono la famiglia, la scuola, l'amicizia, il lavoro, la
politica, la natura, l'arte, lo sport e la religione, ma spesso sono
sottomessi alla performance, alla fretta, al consumismo e quindi svuotati
del loro potenziale di gioia e di risveglio. Quanto mi sento «figlio» in
questi luoghi? Dalla risposta dipende quanto sono a casa nel mondo,
quanta gioia di vivere ho e quindi quanto ho voglia di crescere: perché
dovrei voler vivere se un amore non mi desidera esistente? Questa è la
rivoluzione che i ragazzi stanno incarnando. Con i loro corpi.

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