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Secondo il Brahmajālasūtra ( 梵網経 - 大乗仏教 ) colui che prende i voti non dovrebbe compiere,

favorire o assistere ad atti di violenza, procurarsi o conservare armi né approvare l'uccisione di altri
in alcun modo ed il trasgressore subirà conseguenze karmiche gravi, specialmente se l’azione fu
“consapevole, intenzionale o dettata da ira”.
Attestando l’esistenza di “differenti modi di colpire e di uccidere”, il contenuto del sutra ( 契經 ) si
prestò a svariate speculazioni sulle conseguenze karmiche degli atti violenti privi di intenzionalità,
come ad esempio quelle generate da colpi inferti per la difesa propria o altrui, in seguito ad
un’aggressione non provocata.

Analogamente, alcuni versi del Mahāyāna Mahāparinirvāṇa Sūtra ( 大般涅槃經 ) attestano il


consenso all'uso della violenza per la difesa del Dharma ( 法, 仏教 ) e, nel corso dei secoli, le
discusioni sulle diverse circostanze delle azioni violente citate dalle sacre scritture generarono leggi
non scritte sulla maggiore o minore gravità delle conseguenze karmiche di queste azioni, validate da
alcune dottrine buddiste.
Senza quelle logiche e “leggi” sarebbe stato impossibile per il clero buddista interagire con la
popolazione, in particolar modo quella residente in zone di conflitto, né sarebbe stato possibile, per i
monaci delle scuole zen, l’assidua frequentazione degli ambienti samurai in cambio della necessaria
protezione.
Tra il 593, anno in cui il principe Shōtoku ( 聖徳太子, o Umayado, regno 593-622) avviò la
propagazione del buddismo ed il 1190, anno di fondazione della prima scuola zen giapponese
(Daruma-shū, 達磨 1190-1194), il Giappone accolse svariate dottrine buddiste, prevalentemente di
provenienza cinese.

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