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Collana diretta
da Paolo Iabichino
Alcuni di noi percorrono queste strade prima degli altri, non hanno mappe, ma lasciano tracce.
Seguirle può aiutare a comprendere i giorni che stiamo vivendo e quelli che verranno.
#DATASTORIES
Seguire le impronte
umane sul digitale
www.hoeplieditore.it
Capitolo 1
La bellezza degli small data
Capitolo 2
Le generazioni tra Silent e Alpha
Capitolo 3
I cinque livelli di insight culturali
Capitolo 4
Le tracce del futuro alle porte
Capitolo 5
La magia dei dati che diventano storie
Voglio dire grazie a Paolo Iabichino. E non solo per aver creduto in questo
libro, e avermi introdotta all’interno dell’accogliente casa Hoepli. Voglio
ringraziarlo soprattutto perché qualche estate fa ha detto sì a una proposta
folle, diventare uno dei Maestri della Scuola Holden. L’ha fatto a occhi
chiusi, fidandosi di una intuizione. A fine biennio, abbiamo diplomato una
prima classe speciale: Livia, Eleonora, Federica, Ilaria, Sara, Riccardo,
Chiara, Thomas, Valentina. Sono seguite tante altre classi, tutte
entusiasmanti. E così ringrazio ogni mio studente per il costante confronto
umano e digitale sugli small data che ci circondano. Per capire la nostra
società e per dare significato ai dati servono innanzitutto umanisti, scrittori,
filosofi, semiologi, comunicatori. Persone che, davanti a un foglio Excel,
sappiano intercettare la magia dei numeri che raccontano innanzitutto
storie.
A Nora,
la nuova vita che si sta
affacciando sul futuro
INTRODUZIONE
MI INCANTO SPESSO.
Gli small data sono piccoli dati digitali con due caratteristiche: sono visibili
a occhio nudo e sono capaci di raccontare storie umane. Ma non finisce qui,
perché il più delle volte diventano addirittura una chiave di lettura dei big
data; sì, proprio quell’ingente mole di numeri raccolti dalle macchine. Il
superpotere degli small data è quello di definire meglio un contesto e di
restituire un significato ai comportamenti delle persone, alle loro scelte, ai
linguaggi che utilizzano per relazionarsi online. Non stupisce dunque sapere
che a volte vengano indicati anche come “thick” data, ovvero informazioni
di un certo spessore. Osservare queste tracce umane significa riconoscere la
Rete non solo come media, ma anche come fonte per comprendere meglio
l’uomo. Ce lo ricorda il professor Richard Rogers, esperto di epistemologia
del web e docente di new media all’Università di Amsterdam, nel suo libro
Metodi digitali. Fare ricerca sociale con il web:
Facciamo subito un esempio pratico. Vi siete chiesti come mai negli scaffali
dei supermercati c’è così tanta scelta di spezie? E perché prendono vita tanti
ecommerce dedicati a queste polveri? Da dove nasce tutta questa
attenzione? Sicuramente, una prima risposta possiamo darla a partire da una
crescente passione per la cucina internazionale e per la ricerca di benessere
a tavola che hanno favorito un loro riposizionamento micro-lussuoso. Ma
non è tutto.
Nel tentativo di conquistare le papille gustative dei più giovani, il più
grande network al mondo sul food, Tasty, e lo storico produttore di
condimenti McCormick & Co. hanno collaborato per produrre una nuova
gamma di spezie. Lanciate negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada,
le miscele Fiery, Zesty, Savory, Jazzy e Hearty sono state sviluppate
partendo proprio dagli small data di BuzzFeed, la media company dietro
Tasty, così da attirare soprattutto i millennial in cerca di occasioni per
sperimentarsi. Sono state analizzate le conversazioni, le chiavi di ricerca, le
fotografie scattate ai piatti etnici e condivise poi sui social media; non al
fine di sapere se preferissero un marchio piuttosto che un altro, ma per
scovare il perché consumassero le spezie. È stato scoperto così che il
legame tra giovani e nuove cucine è dovuto soprattutto all’accessibilità
economica dei viaggi nell’ultimo decennio e alle opportunità di contatti con
altre culture nate da frequentazioni di studio o lavoro. Non per niente, il
mercato di spezie e aromi in questo momento è in forte espansione, proprio
perché aiuta le persone a ricreare a casa i propri piatti internazionali
preferiti.
Come racconta bene l’esperto di branding e neuromarketing Martin
Lindstrom nell’introduzione al suo libro Small data. I piccoli indizi che
svelano i grandi trend, si tratta di andare “alla ricerca di regolarità,
parallelismi, correlazione e – non da ultimo – equilibri ed esagerazioni”2.
La tradizione anglosassone
Consiglio di lettura #1
Guardatevi attorno: anche le nostre stanze sono piene zeppe di small data che raccontano chi
siamo. In Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra (il Mulino, 2014), Daniel
Miller entra in dodici appartamenti nella stessa strada di una grande città. Osserva gli oggetti e
gli arredamenti, registra parole e gesti, e ricostruisce i piccoli mondi analogici che viviamo
quotidianamente. Uno sguardo intimo tra contenitori per il cibo e paperelle di plastica.
Consiglio di lettura #2
Volete approfondire le radici dell’antropologia culturale? C’è Pensare come un antropologo
(Einaudi, 2017) di Matthew Engelke, docente alla London School of Economics and Political
Science. Non è il solito pedante libro universitario: qui l’autore racconta la disciplina dalle sue
radici ai giorni nostri, dalla Papua Nuova Guinea alle periferie delle nostre città. Ma, soprattutto,
Engelke ci offre la possibilità di imparare a pensare con un approccio più umano per
comprendere la nostra identità e quella delle società in cui viviamo.
Consiglio di lettura #3
Oltre a individui che non dichiarano la propria identità, in Rete si può rischiare di incappare nei
social bot, programmi automatizzati dietro i quali si nascondono algoritmi così sofisticati da
essere indistinguibili dalle persone in carne e ossa. Ma i social bot, utilizzati per gli scopi più
disparati, non sono tutti uguali: ci sono quelli “buoni”, che per esempio inviano in automatico un
tweet in caso di terremoto, e ci sono anche quelli meno virtuosi. Su Fake people. Storie di social
bot e bugiardi digitali (Codice Edizioni, 2020), scritto dagli studiosi Viola Bachini e Maurizio
Tesconi, si va dal bot razzista di Microsoft ai troll della campagna elettorale statunitense fino ai
finti seguaci dei politici nostrani, passando per la truffa dell’algoritmo che fece schizzare alle
stelle le azioni di un’azienda fantasma.
Oltre che tra le righe del testo scritto, un altro nascondiglio d’elezione degli
small data umani è in ciò che appare in secondo piano nelle foto e nei
video. Leggere i dettagli di un’immagine è una grande sfida, che ci chiede
di applicare un pensiero laterale, per citare lo psicologo maltese Edward De
Bono. Se siamo alle prese con una ricerca sui comportamenti delle madri
con i teenager di oggi, difficilmente possiamo basarci solo su hashtag
didascalici come #mammaditeenager. Una possibile soluzione? Guardare i
contenuti degli adolescenti in cui appaiono anche le mamme. TikTok è il
terreno più fertile in questo momento. A volte sono sullo sfondo, a lavorare
al computer, leggere sul divano, cucinare la cena; altre volte, invece,
vengono attivamente coinvolte in scherzi e confronti. Anche se spesso non
comprendono appieno il mondo di TikTok da cui i loro figli sembrano così
assorbiti, i genitori sono disposti a provarlo se significa passare un po’ più
tempo di qualità con loro. Giusto per avere un riferimento: secondo il Pew
Research Center, le madri ora trascorrono con i loro figli circa quattro ore
extra a settimana rispetto al 1965. E buona parte di questo tempo è dedicata
a un dispositivo tecnologico.
Oggi per alcuni genitori il desiderio di connettersi con i propri ragazzi
attraverso video su TikTok o foto su Instagram deriva in parte anche dai
timori riguardo i contenuti presenti sulle varie piattaforme. In effetti, in
passato, TikTok in particolare ha sollevato motivi di preoccupazione.
Nell’aprile 2019, la BBC ha scoperto che la piattaforma non riusciva a
disattivare gli account di chi inviava messaggi sessuali agli adolescenti, e il
“Wall Street Journal” ha scovato che lo Stato islamico stava pubblicando
video allarmanti. Dunque, a differenza delle sospettose mamme di una
volta, quelle di oggi preferiscono di gran lunga essere presenti per fare da
mentori ai figli piuttosto che dire loro cosa vedere o non vedere su Internet.
Il “New York Times” le ha ribattezzate le TikTok Moms.
1. Rogers R., Metodi digitali. Fare ricerca sociale con il web, il Mulino, Bologna 2016.
2. Martin Lindstrom, Small data. I piccoli indizi che svelano i grandi trend, Hoepli, Milano 2016.
3. Postman N., “The Reformed English Curriculum”, in Eurich A.C., a cura di, High School 1980.
The Shape of Future in American Secondary Education, Pitman, New York 1970, p. 161 (traduzione
presa da Wikipedia).
4. Turkle S., Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli
altri, Einaudi, Torino 2019.
5. Miller D. et al., Come il mondo ha cambiato i social media, Ledipublishing, Milano 2017.
6. https://www.treccani.it/enciclopedia/tribu.
CAPITOLO 2
LE GENERAZIONI TRA SILENT E ALPHA
SILENT GENERATION
In questo momento nel mondo sono in vita ben sette generazioni, dalla
cosiddetta Greatest Generation – nata dal 1901 al 1927, testimone dei due
conflitti mondiali – alla neonata Generazione Alpha, che ha iniziato a
vedere la luce una decina di anni fa. Percorrendo la linea temporale delle
età, alla Greatest segue la Silent Generation, ed è da qui che inizieremo il
nostro racconto, per comodità e buon senso. L’origine dell’aggettivo
silenzioso è statunitense, e sottolinea una certa reticenza dell’epoca
nell’esporsi in prima persona in pubblico, andando a formare soprattutto nei
decenni successivi una “maggioranza silenziosa” durante le grandi
contestazioni per i diritti civili. Nati dal 1928 al 1945, hanno sempre
comunicato con le lettere; la tecnologia si limitava alla radio e al telefono
per i più fortunati. Oggi alcuni di questi senior sono online come fruitori,
soprattutto di video. La Rete per loro è un potente antidoto alla solitudine,
nonché un ponte per stare accanto a figli e nipoti, spesso lontani.
C’è una storia curiosa che arriva dall’Oriente e che vale la pena
raccontare. Gli anziani cinesi trascorrono tradizionalmente la pensione
guardando i nipoti e curando le relazioni con la famiglia, proprio come i
nostri anziani occidentali. Durante la politica del figlio unico in Cina, sono
state incoraggiate le famiglie “4-2-1”, con quattro nonni, una coppia e un
bambino, con ruoli di assistenza che si sono invertiti nel corso della vita.
Tuttavia, inevitabilmente, poiché le giovani generazioni si trasferiscono in
centri urbani più grandi o all’estero per lavoro, genitori e nonni passano
molto meno tempo in famiglia. Così, per colmare il vuoto e non sentirsi
soli, i senior cercano da sé la propria felicità. Al contempo, grazie
all’evoluzione digitale, le generazioni cinesi più anziane hanno più accesso
a fonti di divertimento e di apprendimento rispetto a prima.
Visitando uno qualsiasi dei parchi e spazi pubblici della Cina è facile
vedere persone di età avanzata impegnate in balli di piazza, tai chi, kung-fu.
È in questo contesto che si inserisce un gruppo sociale molto presente
online: le Chinese Damas, anziane cinesi che hanno vissuto sulla propria
pelle carestie e disordini politici e che oggi hanno iniziato a dare maggiore
priorità al proprio tempo libero, aiutate dagli smartphone.
Le Damas, dunque, stanno trovando felicità soprattutto nell’esercizio
fisico e nel contatto via mobile. Tang Dou, per esempio, è un’app dedicata
ai senior fisicamente attivi, molto usata in particolare dalle donne più
mature che danzano. E, infatti, la danza è molto popolare per questa fascia
generazionale; il settore, non per niente, vale 145 miliardi di dollari. Tre
anni fa, l’azienda ha ottenuto finanziamenti per oltre 25 milioni di dollari,
con quasi 40 milioni di utenti attivi mensili. L’app, oltre ad aiutare la ricerca
di partner di ballo, offre forum online, chat di gruppo e tutorial,
consentendo alle persone di pubblicare i propri video. Alla faccia di chi
pensa che i senior non siano digitalmente attivi.
BABY BOOMER
GENERAZIONE X
MILLENNIAL
Se è vero che gli Y sono più reticenti nei confronti delle tradizionali tappe
di vita, c’è chi ha preso coraggio e ha scelto di fare spazio a un bebè. A
differenza della generazione precedente, i millennial vivono le loro
relazioni con i figli pensando a un doppio obiettivo: essere genitori, ed
essere amici. In generale, sono genitori che si concentrano molto sul
preparare i bambini alle sfide del futuro, e così tendono a lasciarli esplorare
da soli il mondo, per assicurarsi che crescano autosufficienti. Vogliono
essere genitori migliori rispetto ai propri, che erano meno educati a
esprimere i sentimenti e la vicinanza emotiva. John Marsden, autore di The
Art of Growing Up (Macmillan Australia, 2019), concorda sul fatto che
spesso si tratta di genitori “innamorati” dei propri figli piuttosto che genitori
che li “amano”. La differenza è sottile ma il timore dello scrittore
australiano è che questo tipo di genitorialità possa rivelarsi tossica. In
effetti, quelli di oggi sono i neonati più seguiti di sempre, sottoposti a
telecamere, pannolini intelligenti, calzette che rilevano la frequenza
cardiaca e i livelli di ossigeno, nonché sensori di movimento che attivano
allarmi in caso di mancata rilevazione del respiro regolare.
Insomma: è innegabile il ruolo crescente della tecnologia nella vita
famigliare, che avvicina e coinvolge sempre di più madri e padri ai piccoli,
fino agli eccessi del sharenting (la condivisione online della prole) che si
sovrappone al parenting (l’essere genitori). E se da un lato i social sono
pieni di splendide pance in vista e piccini patinati, dall’altro lato sempre più
millennial chiedono autenticità. Succede, per esempio, intorno a ciò che
riguarda ciò che avviene nel corpo femminile dopo un parto. A tal
proposito, la ricercatrice franco-israeliana Illana Weizman ha lanciato
l’hashtag #monpostpartum per incoraggiare le donne a condividere le
proprie esperienze e combattere il body shaming che colpisce questa fase.
Un altro punto di osservazione privilegiato su argomenti estremamente
intimi e a volte dolorosi.
Se sui colori Pantone dell’anno si può discutere, sul rosa e tutte le sue
sfumature più calde non ci sono dubbi: è il colore più rappresentativo della
Generazione Y. Il “New York Times” l’ha ribattezzato Millennial Pink. Lo
hanno dimostrato le passerelle, le vetrine, gli arredamenti dei negozi, gli
stormi di fenicotteri gonfiabili in piscina e al mare. E la barbabietola rossa.
Sì, proprio lei, la rapa: piena zeppa di fibre, sali minerali, vitamine, chi
l’avrebbe mai detto che un giorno sarebbe stata associata a qualcosa di
tendenza? Anche qui, è sufficiente collezionare small data e cercare le
correlazioni. Date un’occhiata al feed “food” di Instagram, o agli scaffali
dei supermercati. Cameo, per esempio, propone una pizza surgelata con la
base hot pink di barbabietola. Perché è straordinariamente buona? Potrebbe
essere, ma soprattutto perché abbraccia la “Instagram season” che stiamo
vivendo. In realtà, da sempre dalla barbabietola si estrae il colorante
naturale rosso E162, ma mai come in questo periodo storico così attento alla
salute e alle diete vegetariane è proprio il tubero a essere messo in primo
piano. In Rete, le ricette di impasti e preparazione a base di barbabietola si
sprecano: fusilli e spaghetti rosa, hummus rosa, maionese rosa. Tutto così
rosa che sembra quasi di essere catapultati nel mondo di Barbie.
Rimaniamo a osservare le foto di Instagram. Tra le estetiche di questo
momento, la più interessante fa capo al Cottagecore. Mood pastorale,
foraging e ambientazioni rurali: il Cottagecore è uno stile di vita
caratteristico che sta conquistando parecchi giovani, soprattutto negli Stati
Uniti, grazie a una visione romantica della vita agricola. Questa sottocultura
può essere paragonata al movimento “Grandmillennial”, che vede la
Generazione Y allontanarsi da un’estetica minimale e pulita e avvicinarsi a
una più complessa, vintage e riconoscibile tra stampe, volant, lenzuola,
spille e catenine per gli occhiali. Perché accade? Perché i millennial stanno
cercando di esprimere il loro stile personale con pezzi unici, carichi di
tempo e storia, chic e con carattere, come solo gli accessori dei cassetti nei
nostri nonni hanno.
È facile capire come questa tendenza si sposi bene con un senso di
individualismo e un’esigenza di fare ritorno alla natura, sogno accelerato
anche dalla quarantena sperimentata. Chi sposa l’idea del Cottagecore
apprezza i paesaggi rurali e li percepisce innocenti e sicuri. Forse è anche
incauto definirlo “nuovo trend”, perché in realtà intercetta una tensione
latente da sempre, che ha robuste radici nella dicotomia città vs campagna.
Per chi vive in un centro urbano e si sente soffocato dal trambusto, il
fascino del Cottagecore è innegabile, perché ha una dimensione rilassante e
domestica. È aspirazionale, perché romanticizza l’idea della quotidianità
rurale, nascondendo tutti i possibili problemi legati a tale stile di vita. E
allora quello che accade è che i millennial, soprattutto, cercano di ritagliare
spazi Cottagecore anche negli appartamenti cittadini, coltivando le erbe
aromatiche sul balcone dentro vecchi vasi vintage o impastando il pane.
Concentrandosi su una vita domestica semplice e appagante, il Cottagecore
offre la possibilità di avere uno sbocco digitale per il proprio stress: lo
stesso pubblicare foto con questa estetica pare abbia un effetto calmante,
poiché aiuta a distogliere lo sguardo dalle incombenze e a immaginarsi
altrove.
Prima della pandemia, più della metà della Generazione Y pensava che la
pianificazione dei pasti fosse troppo laboriosa. Durante l’isolamento,
invece, le abitudini sono cambiate per forza di cose: nei primi tempi era
piuttosto complicato fare scorte, sia nei supermercati cittadini sia online, e
preparare la lista della spesa mirata era piuttosto imprescindibile. La
maggior parte di noi si è ritrovata in dispensa molti più ingredienti del
solito: scatolame, conserve, lievito. Anche chi non aveva mai avuto tempo o
voglia di impastare, si è dato da fare; nel mezzo della crisi globale, il forno
è stato una fonte di gioia e di orgoglio. A suon di hashtag come
#iocucinoacasa, molte persone si sono calate nei panni di chef domestici, tra
ricette complesse e lievitazioni naturali. Il rito è continuato anche quando le
misure restrittive si sono allentate, le spese gigantesche si sono ridotte e i
negozi vicino a casa hanno recuperato il loro ruolo nella nostra quotidianità.
L’avrete intuito. Nella stragrande maggioranza dei casi, raccogliere
small data e indizi tra gli hashtag ha senso solo se possiamo mettere in
relazione il materiale con l’attualità. Con il lockdown, i millennial sono stati
costretti a fare i conti con le proprie cucine, a volte scoprendo che alla fin
fine non erano nemmeno così incapaci come pensavano. Al contempo, gli
chef, quelli veri, si sono prodigati a starci vicini con ricette e suggerimenti
“for dummies”. Dopo un buon numero di live streaming, Bruno Barbieri per
esempio a inizio maggio 2020 ha lanciato il suo corso professionale tutto
online: 14 lezioni, la prima inevitabilmente dedicata alla pasta fresca.
A proposito di tagliatelle e tortellini, nulla è più confortante di gustare
un piatto legato all’infanzia, alla nostra famiglia o a un momento della vita
particolarmente felice (e più semplice). Il blocco ha tenuto lontano molti di
noi da questi sapori, dalla lasagna della nonna alla paella dell’ultimo
viaggio, ma spesso siamo corsi ai ripari grazie alla condivisione online di
ricette. Anche molti ristoranti si sono attrezzati per recapitarci a casa i nostri
piatti del cuore, a volte già pronti, altre volte da assemblare. Il COVID-19,
stravolgendo la routine quotidiana non più legata ai ritmi serrati del lavoro
fuori casa, ha spinto molte persone a cambiare anche abitudini e orari. Per
esempio, in tanti hanno iniziato a fare per la prima volta colazioni più sane
e complete, anziché limitarsi a un caffè veloce; altri, invece, hanno fatto
proprio il momento della merenda a metà pomeriggio, come si faceva
sempre da piccoli. È una questione di più tempo a disposizione, ma anche di
più apertura verso il prendersi cura di sé, in modo auto-indulgente. Come
sappiamo tutto questo? Osservando i contenuti online.
Infine, le piattaforme tecnologiche hanno permesso alle persone di
tenere vivi, seppur a distanza, alcuni rituali come quello dell’aperitivo.
Molti brand si sono dati da fare in questo senso, facendo recapitare
rifornimenti di alcol e cocktail fai da te, come quelli monodose già mixati.
E se da una parte gli introversi hanno potuto godersi un bicchiere senza
contatto sociale, coloro che erano abituati ad andare in giro per bar e club si
sono accontentati delle versioni virtuali dei ritrovi. BrewDog, per esempio,
si è attrezzato per degustazioni di birra, quiz virtuali, nonché “serate” su
Zoom, con tanto di codice di abbigliamento e aree VIP. Nuovi spazi digitali,
insomma, per nuove rilevazioni.
Consiglio di lettura #4
L’ora di Beautiful, van Basten, Jurassic Park, le tartarughe ninja e i rangers. E ancora il
Tamagotchi, la Smemo, il walkman, Ambra di Non è la Rai, MTV. Notti magiche. Atlante
sentimentale degli anni Novanta (UTET, 2017), compilato da Errico Buonanno e Luca
Mastrantonio, racconta un’intera generazione che oggi vive di revival: si commuove se i Take
That si riuniscono, va alla ricerca dei vecchi compagni su Facebook, sceglie il Winner Taco al
bar. Se siete cresciuti con Snake sul Nokia, non potete non immergervi in questo almanacco
illustrato.
GENERAZIONE Z
Una cosa va detta: gli Z non hanno niente a che fare con l’approccio
tecnico-allarmista di molti boomer e X, sono solo più attenti alla propria
privacy proprio perché l’online è la loro vita, e non un’appendice. Anche se
non possiamo avere accesso ai loro account privati per tracciare small data,
indagare il perché li creano è già un ottimo punto di partenza per ampliare
la riflessione. La generazione che ha inventato i “Finstas” – gli account
Instagram privati dove pubblicare la quotidianità senza filtri – adesso sta
andando avanti a “FikFoks”, ovvero account TikTok sotto falso nome che
riducono la pressione di dover stupire e fare numeri a tutti i costi. Non a
caso è la fascia d’età che meglio ha accolto anche il mondo Instagram libero
dal conteggio pubblico dei “mi piace”, abbandonando l’ansia sociale che
invece tiene ancora in ostaggio parecchi millennial. Come veri nativi
digitali, non conoscono un mondo senza Internet, e sono andati ben oltre il
confine che divide ciò che è fisico e ciò che è virtuale. Il loro universo è
phygital, fisico e digitale. La rappresentazione più popolare dei ragazzi Z è
quella che li vede alle prese con il proprio smartphone, ma ciò che si
sottovaluta è che non sono isolati o alienati, bensì in costante connessione
con qualcuno. Anche la stessa formula “vedersi faccia a faccia” per loro
assume un significato completamente diverso e potrebbe voler
semplicemente dire avere una conversazione tramite il video di WhatsApp
o Zoom.
Il rovescio della medaglia è il fatto che non prendono in considerazione
un mondo senza collegamenti, dunque sono più soggetti alla paura di
perdersi opportunità e contatti. Ecco perché spesso avrete letto della
FOMO, acronimo di Fear of Missing Out, la paura di non essere sul pezzo.
È una generazione che, a diversi livelli, ha iniziato a preoccuparsi per le
questioni degli adulti molto prima rispetto a quella precedente. Sono
giovani pragmatici, più che sognatori. Sanno che quella dello studio
accademico non è l’unica via per aggiudicarsi un lavoro che dia
soddisfazione e che sia specchio innanzitutto dei loro valori. Non significa
che rifiutino l’istruzione: cercano semplicemente alternative online più
vicine ai propri interessi, gusti e aspettative. Sono indipendenti e interessati
alla iper-personalizzazione in ogni sfumatura. Anche politica, tanto da non
credere più di dover scegliere tra due partiti, tantomeno di dover aderire a
un unico simbolo.
Gli Z non hanno un confine netto nemmeno tra scuola o professione e
vita privata: è un tutt’uno. Cresciuti nel bel mezzo dell’instabilità
finanziaria, la loro visione e le loro prospettive future sono realistiche e
alimentate da un senso di competizione più sviluppato. Sono dunque anche
ambiziosi, e vogliono essere “proprietari” delle loro carriere. Sarà curioso
osservare e registrare, più avanti negli anni, come si relazioneranno nel
lavoro con i millennial, che saranno i loro capi.
Consiglio di lettura #5
Per approfondire il tema della Generazione Z potete fare riferimento al lavoro della studiosa Jean
M. Twenge: Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici
e del tutto impreparati a diventare adulti (Einaudi, 2018). In queste pagine, l’autrice ribattezza la
Generazione Z con il termine iGen: la i minuscola, abbreviazione della parola Internet, è un
evidente richiamo ai nomi di quei dispositivi che sono nati e cresciuti con lei. Non solo: la i
allude anche all’individualismo, che per questi ragazzi è ormai una caratteristica acquisita che fa
da substrato a un fondamentale senso di uguaglianza e a un rifiuto delle regole sociali
tradizionali.
L’inclusività innata
Consiglio di lettura #6
Genitori ed educatori di Alpha? Una completa interpretazione del mondo digitale dal punto di
vista di bambini e preadolescenti la offre Figli virtuali. Percorso educativo alla tutela e alla
complicità nella famiglia digitale (Centro Studi Erikson, 2018). Gli autori, i giornalisti Annalisa
D’Errico e Michele Zizza, raccontano senza allarmismi come tamponare la “digital illiteracy”,
ovvero l’analfabetismo digitale, e trasmettere un uso corretto e consapevole di web, social, app e
chat. Due le indicazioni fondamentali: no a divieti intransigenti e no a cattivi esempi.
QUESTIONI INTERGENERAZIONALI
La memoria digitale
La riservatezza online
Quel momento arriva per tutti, boomer o teenager: siamo saturi dei social e
decidiamo di fare pulizia di contatti, privatizzare o, nei casi più estremi,
chiudere i nostri profili. Le ragioni sono molteplici, alle quali si somma
anche il fatto che la fiducia degli utenti nei giganti dei social media è
crollata a seguito degli scandali sulla privacy dei dati e della nascita delle
fake news. Di conseguenza, in molti preferiscono connettersi con persone
affini in micro-spazi più riservati, che credono possano offrire una migliore
sicurezza e un senso più reale di comunità.
Lo scandalo Cambridge Analytica e l’indagine del “New York Times”
hanno rivelato come le principali società tecnologiche abbiano avuto ampio
accesso a informazioni personali, facendo leva proprio sulla fiducia degli
utenti. Che poi, in verità, la fiducia delle persone nei social media è in calo
da tempo. Già nel 2014, il 91% degli americani “era d’accordo” o
“fortemente d’accordo” sul fatto che le persone avessero perso il controllo
sul modo in cui le informazioni personali venivano raccolte e utilizzate
dalle aziende.
È ben documentato che la sovraesposizione ai social media può avere
effetti negativi. Un rapporto del 2015 del Danish Happiness Research
Institute ha concluso che gli utenti di Facebook avevano il 55% in più di
probabilità di sentirsi stressati e che per effetto dei confronti sociali avevano
il 39% in più di probabilità di sentirsi meno felici dei loro amici non
presenti sui social. Benché sia possibile evitare tutte le piattaforme per
migliorare il proprio benessere mentale, alcuni potrebbero prendere in
considerazione una vasta gamma di alternative. Come una rete più piccola
di contatti, e più specializzata.
Per le madri Y e Z, per esempio, una di queste alternative è Peanut. La
fondatrice Michelle Kennedy aveva gestito un progetto di dating di
successo quando si rese conto che, come neomamma, aveva bisogno di
creare qualcosa di nuovo, che permettesse di confrontarsi con altre donne su
problemi riguardanti la femminilità e la maternità. Così, nel 2018, ha
lanciato il suo progetto, una sorta di Tinder per mamme. Oggi è una
piattaforma in cui si possono porre domande a tutta la comunità su
un’ampia varietà di argomenti, dal lavoro al fare sesso, con tanto di gruppi,
sia su base locale che di interessi di nicchia.
C’è un altro aspetto interessante. Per garantire sicurezza e privacy in
uno spazio in cui le donne devono sentirsi libere dal giudizio, Peanut ha un
rigoroso processo di accesso che richiede agli utenti di verificare il proprio
genere e incoraggia la comunità in generale a segnalare tutto ciò che appare
sbagliato. I moderatori indagano e rispondono alle varie preoccupazioni
espresse entro 24 ore dalla segnalazione ricevuta. Inoltre, il business non è
basato sulla pubblicità.
Nel tentativo di combattere il modello capitalistico di sorveglianza
utilizzato da molte piattaforme social, l’imprenditore e attivista britannico
Pete Lawrence ha lanciato invece un sito privo di algoritmi, big data e
pubblicità. Campfire Convention si basa infatti su utenti che si uniscono per
creare una comunità che faccia del bene comune, incoraggiando eventi
reali, faccia a faccia. L’insight dietro al progetto in questo caso è la sfiducia
delle persone nei confronti delle grandi aziende tecnologiche, e dimostra
come il potere delle comunità rimanga forte soprattutto per la creazione di
movimenti di attivisti per il cambiamento sociale, culturale o climatico.
Il primo livello ha a che fare con la nostra fisicità, con i gesti del nostro
corpo, delle nostre mani. Sia offline sia online.
In molte campagne pubblicitarie le aziende hanno giocato sulle piccole
conoscenze che avevano del proprio pubblico. Ricordate il claim di
Fonzies? Sì, “se non ti lecchi le dita godi solo a metà”. Perché queste dieci
parole ci hanno parlato per così tanti anni, segnando la storia della
pubblicità in modo indelebile? Perché partivano da un insight estremamente
superficiale, ma altrettanto potente: quando un cibo ci piace molto, siamo
disposti anche a leccarci le dita pur di continuare ad assaporarlo. Nel
linguaggio comune, infatti, il “leccarsi le dita” (con la sua variante
mascolina o gattofila, “i baffi”) simboleggia proprio un qualcosa di molto
appetitoso, squisito, e per estensione il sintagma viene usato anche per altre
cose, non commestibili, che sono di nostro pieno gradimento. Il gesto del
leccarsi le dita, dunque, appartiene ai più golosi, e alzi la mano chi,
istintivamente, non l’ha mai fatto dopo aver mangiato una manciata di
patatine.
Il ruolo di Tinder
Tinder ha avuto un ruolo fondamentale nel far salire in classifica lo swipe,
anche se non tutte le app hanno avuto la stessa fortuna, se pensiamo a
Instagram che nel 2018 ha testato lo scorrimento orizzontale per sostituire
quello verticale provocando parecchi malcontenti. Perché dunque Tinder sì,
e Instagram no? Una ragione potrebbe essere funzionale: l’applicazione di
incontri è fondamentalmente un catalogo di persone in carne e ossa che si
può sfogliare fino a che non si arriva alla pagina che interessa. E più
sfogliamo, più ci viene voglia di sfogliare, perché siamo irrimediabilmente
curiosi e perché pensiamo che, profilo dopo profilo, potremmo incrociare lo
sguardo seducente della nostra anima gemella. Lo swipe diventa così,
lentamente, un automatismo che, a volte, può trasformarsi anche in
un’ossessione compulsiva. In fondo, parliamoci chiaro, l’obiettivo di Tinder
non è trovarci l’uomo o la donna dei sogni, ma è quello di farci rimanere tra
le sue pagine più tempo possibile, per spingerci poi verso i servizi premium,
che accelerano l’esperienza mobile.
La stagionalità occasionale
Rimaniamo sul tema del cibo per esplorare alcune abitudini che rispondono
al secondo insight. Vi siete mai chiesti perché cerchiamo alimenti specifici
in determinati periodi dell’anno? Che si tratti di panettone a Natale, zucche
ad Halloween o uova di cioccolato a Pasqua, ci sono alcuni cibi che sono
legati alle occasioni festive in modo indissolubile. Perché, per esempio,
difficilmente prenderemo in considerazione di preparare il cotechino con
lenticchie a inizio novembre? Abbiamo già visto come Google Trends ci
confermi che le persone cercano “cotechino” solo nel periodo delle festività
natalizie. Lo stesso vale per la parola “zucca”, che vede il suo picco solo a
fine ottobre; e così via per il pandoro, la colomba, la pastiera. Ora proviamo
ad aggiungere un nuovo tassello alla nostra ricerca, e indaghiamo insieme
gli insight, partendo da una case history che arriva dagli Stati Uniti.
Nel lontanissimo 2003, Starbucks creò una nuova bevanda stagionale
per l’autunno, in seguito al successo dell’introduzione di bevande destinate
al Natale come la moka alla menta e il latte allo zabaione. Tuttavia, anche
se i sapori di cioccolato e caramel-lo si dimostrarono i più popolari nei test
gustativi, l’azienda alla fine optò per il lancio del Pumpkin Spice Latte. Da
allora la bevanda è diventata un must a livello globale; Starbucks ha
dichiarato che il Pumpkin Spice Latte è il suo prodotto stagionale più
venduto, con oltre 200 milioni di vendite negli ultimi quindici anni. La
consistenza della zucca, lo zucchero sul pandoro, le spezie del vin brulé:
sono tutti gusti collegati a periodi specifici dell’anno, ma quanto conta la
stagione? Con i ristoranti di fascia alta e gli chef-celebrità che spingono il
concetto di “ingredienti di stagione”, certi cibi sono solo un’estensione di
un fenomeno già esistente? La risposta è assolutamente sì: la stagionalità
oggi ha significati diversi a seconda del contesto. C’è una “stagionalità
quotidiana”, che ci insegna che le arance sono un frutto invernale; e c’è una
“stagionalità occasionale” che celebra invece piatti e bevande specifiche.
I social media e la loro estetica hanno un ruolo decisivo. L‘abbiamo
visto per la barbabietola rossa, ma vale anche per il rabarbaro, che è
diventato popolare per la tonalità rosea, o per l’avocado e il suo verde
brillante.
Per via del fatto che gli alimenti stagionali oggi sono disponibili in
quasi ogni momento dell’anno, i prodotti che si concentrano in occasioni
speciali possono beneficiare del clamore che un tempo circondava gli
ingredienti appena raccolti. Inoltre, i cibi e le bevande a tema stagionale
piacciono per via della risposta emotiva che scatenano, segnando l’inizio
delle vacanze e le tradizioni annuali delle persone.
L’attesa poi aumenta il piacere. In fondo, ce l’hanno insegnato per la
prima volta da bambini: niente dessert fino a quando non abbiamo finito la
cena. Questo i brand lo sanno, e cercano sempre nuovi modi per stimolare
(e vendere) quel genere di feedback emotivo. Che si ami o odi il Natale, è
difficile spostare le tradizioni associate al cibo perché ciò che mangiamo ha
una risonanza emotiva assai forte. Le nostre emozioni sono un insight molto
più profondo delle abitudini, e le esploreremo quando scenderemo al quarto
livello.
Tornando alla bevanda alla zucca di Starbucks, nonostante sia
disponibile dall’ultima settimana di agosto, che è ancora “estate” in molte
parti del mondo, capitalizza l’attesa per Halloween e la stagione autunnale
nel suo insieme. I marchi celebrano le stagioni da anni, con regolari uscite
primaverili ed estive: per citare ancora Starbucks, si pensi al Violet Drink
nel 2018 e al popolare Unicorno Frappuccino dell’anno precedente.
Quest’ultimo, che rifletteva i colori e le temperature della primavera,
nonché il boom degli unicorni come trend anche in altre categorie
merceologiche, è stato definito come una delle migliori trovate di
Starbucks.
L’importanza del contesto culturale
Le fedi religiose
Consiglio di lettura #8
Paura, rabbia, tristezza, gioia, sorpresa, disprezzo e disgusto, ma non solo. L’Atlante delle
emozioni (UTET, 2015) della storica culturale Tiffany Watt Smith ne elenca ben 156, dalla
basoressia, il fortissimo impulso che si prova quando si vuole baciare qualcuno, al kaukokaipuu,
l’inspiegabile nostalgia per un posto dove non siamo mai stati, fino alla cybercondria,
l’attaccamento ai nostri strumenti digitali. Mescolando storia, antropologia, scienza, arte,
letteratura e musica, l’autrice fa emergere tutte le espressioni più curiose e inedite con cui le
culture di tutto il mondo hanno imparato a definire le proprie emozioni.
Il sentirsi brutti
Se lo usi bene e fai foto fighe, oltre ad avere una vita sociale decente
(anche solo uscite con amici eh niente di assurdo) e fai belle storie,
puoi rimorchiare senza essere un figo assurdo… in più come è già
stato ripetuto più e più volte in questo forum, Instagram ormai è il
“curriculum sociale” di una persona. Quindi se non ce l’hai o
comunque hai due foto di te in bagno o in cucina e quattro follower,
purtroppo non vieni cagato. Ormai è una delle prime cose che
chiedono le tipe quando si fa conoscenza (con questo non sto
dicendo che condivido ciò che sono diventati i social oggi, sono solo
obiettivo).
In alcuni post, è ricorrente anche il tema della diffidenza, del non potersi
fidare di nessuno.
E ancora:
Consiglio di lettura #9
Lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Stanghellini su Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro
(Feltrinelli, 2020) ci parla del selfie e di come sia sintomo di un’epoca in cui omologazione
culturale, sociale, identitaria e corporea vanno di pari passo. Al motto “sono visto dunque sono”,
accertiamo la nostra identità solo attraverso lo sguardo degli altri, soprattutto in Rete. Troverete
nel volume un’approfondita analisi sul rapporto con il nostro corpo e con l’immagine che
abbiamo (e diamo) di noi stessi.
IMMAGINARE IL DOMANI
Nessuna palla di cristallo dunque per intercettare i trend: serve avere naso,
una buona dose di immaginazione e, ancora una volta, la capacità di mettere
in correlazione gli small data.
La mascolinità tossica
Per via del forte attacco alle strutture patriarcali, grazie anche a movimenti
come #MeToo e #TimesUp, le donne hanno fatto sentire la propria voce e i
brand hanno rapidamente cambiato storytelling, dalle campagne
sull’autostima di Dove al lancio della versione girl-power del Monopoly.
Per gli uomini, la storia è ben diversa. Un sondaggio del Center for the
Study of Men and Masculinity ha rivelato che appena il 7% degli uomini in
tutto il mondo si sente affine al modello di mascolinità rappresentata dai
media.
Con il confronto in Rete, le idee sulla mascolinità stanno cambiando
perché gli uomini non (si) attribuiscono più i tratti tradizionali come la
forza fisica e lo stoicismo emotivo. È come se la rappresentazione
mediatica degli uomini fosse in ritardo. E così, gli uomini sentono la
pressione di conformarsi a un modello di virilità che non sentono più
rilevante: il mito secondo cui esiste un solo modo giusto per essere un uomo
è obsoleto e dannoso. Il rapporto sulla mascolinità realizzato dal marchio di
rasoi Harry in collaborazione con l’University College di Londra ha
scoperto che l’uomo americano di oggi, alla domanda sulle caratteristiche
personali che vorrebbe avere, risponde con i valori che mettono i bisogni
degli altri al di sopra dei propri: onestà, affidabilità e lealtà. Solo in fondo
alla lista c’è “un corpo perfetto”.
L’anno scorso il marchio di abbigliamento Bonobos ha lanciato la sua
campagna online #EvolveTheDefinition, presentando un ampio spettro di
uomini che leggevano le definizioni del dizionario di “mascolinità” prima
di condividere la propria opinione. E ancora, Schick, un altro brand di rasoi,
ha lanciato The Man I Am per celebrare i diversi tipi di uomini che usano i
suoi prodotti. Questa tendenza di comunicazione verso l’inclusività e
l’individualità sta diventando sempre più popolare.
Ancora oggi molti uomini fanno fatica a parlare con gli altri di come
stanno, sia fisicamente sia mentalmente. In fondo, è radicato nella nostra
cultura il detto “i veri uomini non piangono“. Le idee consolidate sulla
mascolinità hanno visto molti uomini trascurare la propria salute mentale e
fisica per evitare di apparire “deboli” o “femminili“.
Negli Stati Uniti, per fare un esempio, i tassi di suicidi sono in aumento
costante, ma coinvolgono soprattutto i giovani maschi. Mentre molte donne
possono contare sul proprio ginecologo per discutere dei problemi di salute
più intimi, gli uomini hanno spesso allontanato l’idea di alcuni problemi,
rifiutandosi di vedere un medico. In effetti, il 65% degli uomini intervistati
nell’ambito della campagna MENtion It della Cleveland Clinic ha dichiarato
di evitare di consultare un medico il più a lungo possibile.
Inoltre, il 37% di loro afferma di aver nascosto informazioni al proprio
medico perché non pronti ad affrontare la potenziale diagnosi. C’è ancora
molta strada da fare quando si parla di uomini e salute, benché i media
abbiano iniziato a parlare di mascolinità tossica, cercando di abbattere gli
stereotipi.
Realtà come Movember, evento annuale dove gli uomini che aderiscono
si fanno crescere dei baffi per raccogliere fondi e diffondere consapevolezza
sul carcinoma della prostata, stanno davvero facendo luce sulla salute degli
uomini. Uno dei messaggi chiave riguarda il valore del dialogo, e infatti
viene continuamente ricordato che parlare è la soluzione. I più giovani
questo lo sanno e comprendono il potere della parola, l’essere vulnerabili e
l’aprirsi. Ammettere la vulnerabilità è una sfida per se stessi. Anche i
contesti analogici dove si fa sensibilizzazione sono davvero importanti.
Tra gli studi più interessanti sull’argomento, quelli della dottoressa
Liberty Barnes, sociologa medica ed etnografa che studia come le credenze
culturali popolari modellano la medicina americana. Il suo primo libro,
Conceiving Masculinity (Temple University Press, 2014), ha ricevuto elogi
dalla critica e una copertura mediatica internazionale. Anche secondo
Barnes, gli uomini non solo hanno meno probabilità di andare dal medico
regolarmente, ma nemmeno adottano le stesse misure preventive delle
donne quando si tratta della loro salute. Le donne sono socialmente
condizionate ad andare dal dottore regolarmente, fin da giovani. Se un
uomo di 40 o 50 anni scopre di avere un problema di salute sessuale o
riproduttiva, probabilmente non sa nemmeno che tipo di medico
coinvolgere. Per non parlare poi della salute mentale.
È importante chiarire che andare da uno psicologo, per esempio, non ha
alcun impatto sulla mascolinità o sull’identità personale. Avere traumi o
nodi irrisolti non significa essere deboli. Per fortuna, con Internet e la
crescita della comunicazione digitale, oggi ci sono molte più chat room e
gruppi di supporto online per gli uomini. La Rete, infatti, offre un livello di
anonimato e uno spazio sicuro in cui gli uomini possono parlare più
liberamente. Al contempo, altri stereotipi si sgretolano. Prendiamo l’area
pesi delle palestre, dominio di uomini che potevano ostentare testosterone,
mascolinità e muscoli. Oggi c’è un numero sempre più crescente di giovani
donne che in realtà si allenano con i pesi, per consolidare la loro forza fisica
e mentale, sfidando gli ideali antiquati legati all’essere femmine. Sollevare
pesi, spesso, è sinonimo di forza e indipendenza.
Non è un caso se su Instagram si possono trovare oltre 29 milioni di
post taggati con #girlswholift. Un nuovo trend, dunque, alimentato dalla
consapevolezza riguardo i benefici dell’allenamento della forza, come per
esempio la perdita di grasso, l’aumento del dispendio calorico e il
rimodellamento della figura. Le #girlswholift sono sia principianti – donne
che non hanno mai messo piede in palestra prima – sia professioniste e
concorrenti esperte di bodybuilding. Tra queste ci sono personal trainer,
come la webstar istruttrice Alice Liveing, e influencer, come Carys Gray e
Grace Fit UK. Stanno cambiando il modo in cui le donne si confrontano
con il fitness, aiutandole a trasformare la loro percezione di come dovrebbe
essere il corpo femminile.
Nel 1911 ha fatto la storia della pubblicità sulle riviste statunitensi il claim
“Una pelle che ami toccare”, che accompagnava immagini di uomini e
donne in abbracci intimi: ancora oggi è considerato il primo annuncio in
assoluto ad aver usato riferimenti sessuali come strumento di marketing.
Certo, secondo i nostri standard lo spot appare piuttosto ingenuo e
sorpassato, ma il prodotto resiste ancora oggi: il sapone solido.
Le barre di sapone hanno una lunga tradizione alle spalle, ed è indubbio
che stanno vivendo una seconda primavera nei nostri bagni grazie
all’estetica Instagram e alla ricerca di prodotti che rispondano a valori
ecologici. Basta dare un’occhiata all’hashtag #barsoap. Ma cosa c’è dietro
al successo della saponetta che torna nei carrelli della spesa? E perché le
vendite di sapone liquido, che ha guadagnato popolarità negli anni ’90
come alternativa igienica al sapone solido, sono diminuite?
Una spiegazione potrebbe avere radici nel bisogno delle persone di
tornare ai modi più tradizionali di lavarsi le mani e fare il bagno. Usare
saponette vecchio stile funziona perché ci rimanda a una vecchia usanza –
magari portando alla memoria ricordi legati ai nonni – e strizza l’occhio
all’ambiente con packaging sostenibili. Dopo esser caduta nel dimenticatoio
negli anni Novanta, la semplice saponetta si è evoluta parecchio,
diventando un oggetto più costoso di prima e curato nelle diverse
formulazioni, più delicate sulla pelle di quanto i consumatori si aspettassero
in precedenza. Non solo: i brand stanno offrendo soprattutto alternative più
sostenibili. Lo scorso ottobre, Dove ha annunciato che le sue iconiche
saponette non sarebbero più state avvolte nella plastica, nell’ambito di
un’iniziativa volta a ridurre la quantità di plastica vergine utilizzata dal
marchio. Entro il 2025, la sua società madre, Unilever, mira a ridurre il suo
uso complessivo di plastica di circa il 14%.
Il tema della plastica e la tensione culturale correlata hanno un certo
peso nella faccenda. Documentari come The Blue Planet di David
Attenborough hanno contribuito a far riflettere molte persone sull’impatto
di questo materiale, e tra i diversi contraccolpi c’è anche la diminuzione
delle salviette per la cura della pelle, per esempio, perché non sempre
biodegradabili. Da qui, la preferenza dell’uso del sapone. Nel 2018, Lush è
riuscita a vendere 12.000 unità delle sue shampoo-bar in soli due giorni,
grazie a un video virale che spiega i benefici ambientali dell’abbandono
della bottiglia. Al contempo, l’anno successivo Selfridges ha lanciato un
negozio di bellezza pop-up che mirava a educare su come ridurre il
consumo di plastica in tutto il loro bagno, scegliendo saponi avvolti nella
carta e trucchi senza plastica. Qualche mese dopo è stato poi annunciato il
divieto di vendita o di utilizzo in negozio di tutte le salviette di bellezza
monouso. Sempre lo scorso giugno e sempre nel Regno Unito, la catena di
negozi di alimenti naturali Holland & Barrett ha annunciato che avrebbe
iniziato a rifornirsi da Ethique, brand di bellezza che crea shampoo, scrub
viso e deodorante tutto in formato bar – e segue le orme di Lush, che si è
intestata l’invenzione delle shampoo-bar negli anni ’80.
Gli acquisti per il benessere e l’igiene stanno dando la possibilità alle
persone di mettere sottilmente in luce i propri valori personali. Tale tensione
fa sì che i brand lancino nuovi prodotti da bagno ecologici a prezzi di fascia
media. Qualche esempio: negli Stati Uniti, Blueland vende pastiglie di
sapone che vengono attivate dall’acqua; nel Regno Unito, KanKan vende
ricariche di sapone liquido confezionate in lattine di alluminio, un materiale
che è riciclabile infinite volte. E ancora, OWA Haircare ha lanciato sul
mercato uno shampoo privo di acqua, disponibile in polvere. Prodotti questi
che non sono solo invenzioni intelligenti, ma sono anche ben confezionati,
facendo l’occhiolino al gusto estetico dei millennial. L’elevazione percettiva
di status di un prodotto così quotidiano sta anche rendendo più probabile
che i giovani acquistino sapone da marchi di lusso con brand di moda di un
certo rilievo (come Chanel) che lanciano saponi a meno di 30 euro.
Una delle maggiori sfide quando si tratta di commercializzare saponette
è convincere le persone a spostare le proprie percezioni. I saponi solidi, tra
l’altro, sono stati a lungo considerati un paradiso per i batteri, facendo così
preferire la versione liquida percepita come più igienica. Ma le cose non
stanno proprio così, perché le barre non sono solo igieniche, ma possono
essere anche più convenienti dei loro equivalenti liquidi e prodotti con
ingredienti di migliore qualità.
A cambiare è soprattutto il significato dell’essere puliti. Dalle diete
disintossicanti al sonno monitorato con i braccialetti fino alla cura della
pelle con prodotti antinquinamento, essere “puliti” ha assunto un significato
che va oltre a farsi uno scrub. I prodotti di K-beauty e quelli di ispirazione
vegana sono diventati elementi essenziali del carrello di molte persone. Ma
nella nostra quotidianità così complessa, frenetica e di corsa, il bagno è in
gran parte associato a un momento del tempo libero, quasi a un lusso, più
che a un metodo di pulizia. Non c’è tempo, insomma. Un sondaggio di
qualche anni fa su duemila americani fa eco a questo sentimento: nove su
dieci di loro hanno detto di preferire la doccia al bagno, e se la prima è
generalmente considerata più comoda e rispettosa dell’ambiente, gli
intervistati hanno dichiarato anche di non amare l’idea di immergersi nella
propria acqua. Questi insight riflettono quello che è stato il passato declino
delle saponette.
Anche il benessere emotivo sta dando forma al futuro del sapone.
Balmyard Beauty, per esempio, offre un bagno nel bush ispirato ai Caraibi
con tisane di provenienza locale che hanno proprietà anti-infiammatorie; il
brand vegano Nourish Skincare ha invece introdotto un detergente liquido e
strutturato che cambia colore quando viene applicato. Le sfumature verdi
indicano che i principi attivi stanno funzionando.
Con i suoi molteplici vantaggi, dalla pulizia alla super idratazione fino
al miglioramento dell’umore, il sapone solido sta iniziando a raccontare una
storia emozionante, soprattutto quando si tratta di brand nati in Rete e che
proprio online coltivano community interessanti. Il marchio newyorkese
Binu Binu, per esempio, sceglie di raccontare una storia di unione, legando
le generazioni attraverso rituali di balneazione coreani. Il marchio trasmette
anche narrazioni di femminilità, con uno dei suoi prodotti che prende il
nome dalle Haenyeo, donne pescatrici che si immergono nell’isola
vulcanica sud-coreana di Jeju.
I brand di saponi stanno anche utilizzando la narrazione per supportare
missioni di beneficenza. La campagna emozionale di Lifebuoy Future Child
ne è un esempio, con una bimba che ringrazia sua madre per averle sempre
ricordato di lavarsi le mani con il sapone, permettendole di vivere una vita
sana. Una pubblicità insolitamente emotiva, ma capace di dimostrare come
le grandi marche di saponi possano apportare cambiamenti positivi anche
nei mercati in via di sviluppo.
1. http://www.beunsocial.it/progettare-e-raccontare-il-futuro-parola-a-maurizio-goetz.
CAPITOLO 5
LA MAGIA DEI DATI CHE DIVENTANO
STORIE
Perché alcune immagini diventano famose e altre no? Perché ci catturano, stupiscono,
ipnotizzano, come funzionano? È da questi interrogativi che parte Riccardo Falcinelli con il suo
voluminoso saggio illustrato Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a
Instagram (Einaudi, 2020). L’autore entra nell’ingranaggio dei contenuti visivi, li tratta non come
simboli da decifrare, bensì come meccanismi da smontare, ci spiega come sono state progettati e
costruiti, e perché. Un valido aiuto, insomma, anche per noi netnografi.
Benché i gatti sul web siano le vere mascotte perennemente sulla cresta
dell’onda, i cani stanno rivendicando il loro momento. Con due milioni di
membri da tutto il mondo, Dogspotting è un gruppo su Facebook dove
chiunque può condividere le immagini degli incontri casuali che fanno con i
quattro zampe. Tra le regole di accesso a questa sorta di attività sportiva,
“don’t post your own dog or a dog you know! Dogspotting is a game, sport
and lifestyle of spotting random dogs you encounter” e “no spots of dogs in
locations you’d expect to see them, such as dog parks or beaches, vets, pet
stores, dog parades, et cetera”; dunque solo cani sconosciuti e foto in luoghi
inaspettati.
Se una volta coprire i difetti era un gesto insidioso per cui la toppa era
peggio del problema, oggi non è più così e questo lo dobbiamo, senza
ombra di dubbio, proprio al digitale. Il brand di skincare Starface ha
lanciato una collezione di cerottini per brufoli a forma di stella, le Hydro-
Stars, portando sul nostro viso reale l’estetica degli emoji. Come novelli
Narciso, per i teenager avere l’acne non è mai stato così divertente e
fotogenico. Nato dall’ex direttrice di bellezza di Elle Julie Schott e da Brian
Bordainick nel 2019, Starface è un trattamento mirato per l’acne che marca
una svolta decisiva. A differenza dei cerotti tradizionali, progettati per
essere il meno appariscenti possibile, questi adesivi gialli a forma di stella
vogliono invece attirare l’attenzione sul viso.
Avere l’acne, soprattutto da adolescenti, può causare un disagio
psicologico duraturo. Starface, anziché usare termini come “segno” o
“imperfezione”, vuole normalizzare i brufoli. Gli Hydro-Stars sono
progettati per essere indossati per un minimo di sei ore: quando diventano
opachi, hanno fatto il loro lavoro e possono essere rimossi. Una giovane
consumatrice scrive in una recensione: “Il packaging è così carino che non
vedi l’ora di trovarti un brufoletto”. Ma qual è il segreto dietro a questa
reazione? Starface sta attingendo a un momento digitale in cui i ragazzi
stanno abbracciando le loro insicurezze e non hanno paura di pubblicare i
propri “difetti” online. Gli Z, in particolare, sono incredibilmente aperti
quando si tratta di bellezza e accettazione. Negli Stati Uniti e nel Regno
Unito, il #freethepimplemovement mira a de-stigmatizzare l’acne, con oltre
6.000 post su Instagram di persone che condividono con orgoglio i propri
problemi di pelle.
Incoraggiando le persone a condividere selfie di se stesse con addosso le
stelle adesive, Starface promuove anche un senso di solidarietà online tra
giovani. Funziona perché colpisce il punto debole dell’essere sempre
instagrammabili – pensiamo ai filtri di bellezza su Instagram, come quelli
per esempio che rendono la pelle più morbida. Trasformando il discorso
sull’acne da un tabù vergognoso in qualcosa di divertente e spensierato, il
brand intercetta una tensione culturale importante.
Qualcosa di analogo accade su TikTok. Al motto di “a roulette of body
mods”, un movimento sfida i più giovani a partecipare alla
#piercingchallenge: ci si inquadra e si accetta di veder proiettato sul proprio
volto un piercing, estratto in modo random. L’ingrediente di questa
meccanica vincente capace di influenzare la propria percezione di sé, come
potrete intuire, è proprio la giocosità. L’hashtag a inizio marzo aveva oltre
110.000 visualizzazioni, un indicatore mica indifferente per comprendere la
vanità di chi tra dieci anni occuperà i posti di lavoro e inizierà a mettere su
famiglia.
I dati possono trasformarsi non solo in storie testuali, ma anche in immagini. Ce lo dimostra
Osserva, raccogli, disegna! Un diario visivo. Scopri i pattern nella tua vita quotidiana (Corraini,
2018) ideato, illustrato e firmato da Giorgia Lupi e Stefanie Posavec. Si tratta di un libro tutto da
compilare, disegnare e colorare per conoscere meglio noi stessi, aiutandoci anche a capire come
la visualizzazione dei dati possa essere uno strumento, una lente per scoprire il nostro lato più
umano. Ci sono parecchi esercizi di osservazione e registrazione di micro-dati: dal classificare le
foto contenute nel rullino del nostro smartphone all’analisi delle e-mail ricevute nell’arco di una
giornata.
Il primo pesca a strascico: getta una rete e la trascina sul fondo del mare.
Tira su velocemente pesci grandi e piccoli, ma anche coralli, alghe,
posidonie. Insomma, porta in superficie tutto quello che trova, senza fare
alcuna selezione, come gli algoritmi e le intelligenze artificiali. Il secondo,
invece, è più paziente e rispettoso. La sua è una piccola pesca artigianale,
come quelle di una volta. Usa attrezzi specifici a seconda del pesce che sta
cercando e delle abitudini locali.
Volumi pubblicati
Chiara Sottocorona, #A.I. Challenge. Amica o nemica? Come l’Intelligenza Artificiale cambia la
nostra vita
Caro Lettore,
ormai da qualche tempo uno dei nostri desideri più grandi è quello di
consentire l’interazione tra i nostri autori e chi, come te, ha scelto un libro
Hoepli per la sua formazione, professione o semplice curiosità.
Lo diceva anche il protagonista de Il giovane Holden : “Quelli che mi
lasciano proprio senza fiato sono quei libri che quando li hai finiti di
leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la
pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”
Perché, dunque, non dare a tutti la possibilità di poter interagire con chi
scrive?
La nostra risposta a questa domanda si chiama Comm, la prima
community dove autori e lettori si incontrano. Una piazza di cultura digitale
in cui poter vivere un’esperienza di lettura interattiva, in un continuo e
diretto confronto con gli autori.
Vienici a trovare su www.community.hoeplieditore.it, il sito dove
troverai approfondimenti, podcast, talk, articoli sui trend del digital
marketing, rubriche extra.
Il luogo dove potrai raccontarci cosa pensi di questo libro che hai tra le
mani.
E di tutti quelli che leggerai in futuro.
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