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TRACCE

Collana diretta
da Paolo Iabichino

Il nostro è un tempo che apre ogni giorno nuove strade.


Nessuno sa dove portano, ma c’è una gran voglia di attraversarle tutte, per comprendere fino in
fondo la straordinaria euforia di conoscenza che pervade il contemporaneo.

Alcuni di noi percorrono queste strade prima degli altri, non hanno mappe, ma lasciano tracce.
Seguirle può aiutare a comprendere i giorni che stiamo vivendo e quelli che verranno.

Quasi sempre ogni traccia è un’impronta da leggere.


E questa collana vuol diventare un atlante del nostro tempo, scritto da pionieri ed esploratori,
letto da chi continua ad aver voglia di percorrere nuove strade.
#DATASTORIES
Alice Avallone

#DATASTORIES
Seguire le impronte
umane sul digitale

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO


Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2021
via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy)
tel. +39 02 864871 – fax +39 02 8052886
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Tutti i diritti sono riservati a norma di legge


e a norma delle convenzioni internazionali

ISBN EBOOK 978-88-203-9989-4

Progetto editoriale: Maurizio Vedovati – Servizi editoriali (info@iltrio.it)


Redazione: Susanna Pedone
Copertina e impaginazione: Sara Taglialegne
Illustrazioni: Francesca Fincato

Realizzazione digitale: Promedia, Torino


Sommario
L’autrice
Ringraziamenti
Introduzione

Capitolo 1
La bellezza degli small data

Capitolo 2
Le generazioni tra Silent e Alpha

Capitolo 3
I cinque livelli di insight culturali

Capitolo 4
Le tracce del futuro alle porte

Capitolo 5
La magia dei dati che diventano storie

Una brevissima conclusione

Informazioni sul Libro


L’autrice

Alice Avallone è ricercatrice di small data e trend in Rete. Ha dato vita a


“Be Unsocial”, studio e rivista di antropologia digitale, per mappare i
comportamenti degli esseri umani con la tecnologia e le relazioni sociali
nelle community. Intanto, alla Scuola Holden di Torino insegna digital
storytelling e travel writing. Nel 2009, infatti, ha fondato il travel magazine
“Nuok”, con il quale ha firmato tre guide di viaggio (Bur) e ha vinto
numerosi riconoscimenti; tra questi il Lovie Award e il The World Summit
Youth Award organizzato dall’ONU. In passato, ha pubblicato un manuale
sull’approccio netnografico, People Watching in Rete. Ricercare, osservare,
descrivere con l’etnografia digitale (Franco Cesati Editore, 2018). Inoltre,
ha curato il libro Come diventare scrittore di viaggio (EDT, 2018), ha
scritto Immaginari per viaggiatori. Raccontare territori, luoghi e storie al
turista (Franco Cesati Editore, 2019) e ha lanciato il suo primo podcast
Umano Digitale (Storie avvolgibili).
Ringraziamenti

Voglio dire grazie a Paolo Iabichino. E non solo per aver creduto in questo
libro, e avermi introdotta all’interno dell’accogliente casa Hoepli. Voglio
ringraziarlo soprattutto perché qualche estate fa ha detto sì a una proposta
folle, diventare uno dei Maestri della Scuola Holden. L’ha fatto a occhi
chiusi, fidandosi di una intuizione. A fine biennio, abbiamo diplomato una
prima classe speciale: Livia, Eleonora, Federica, Ilaria, Sara, Riccardo,
Chiara, Thomas, Valentina. Sono seguite tante altre classi, tutte
entusiasmanti. E così ringrazio ogni mio studente per il costante confronto
umano e digitale sugli small data che ci circondano. Per capire la nostra
società e per dare significato ai dati servono innanzitutto umanisti, scrittori,
filosofi, semiologi, comunicatori. Persone che, davanti a un foglio Excel,
sappiano intercettare la magia dei numeri che raccontano innanzitutto
storie.
A Nora,
la nuova vita che si sta
affacciando sul futuro
INTRODUZIONE

Quello che gli altri raccontavano mi sfuggiva, perché a interessarmi


non era quello che volevano dire, bensì la maniera in cui lo
dicevano, in quanto rivelatrice del loro carattere o degli aspetti
ridicoli della loro personalità. [...] Uscivo a cena, sì, ma non vedevo
i convitati, li radiografavo.
Marcel Proust

MI INCANTO SPESSO.

Deve essere buffo vedermi da fuori. Rimango imbambolata davanti ai gesti


della gente in attesa alle poste, allo sciabordio del botta e risposta di chi sta
chiacchierando al bar, al ventaglio di emozioni che affiorano sul viso dei
viaggiatori in treno. Registro informazioni e mi immagino le storie di
queste persone, fino a che non si accorgono del mio sguardo e si spezza la
magia. Probabilmente è qualcosa che faccio da quando sono piccola, ma è
difficile individuare il momento esatto in cui ho iniziato. Con più sicurezza,
posso dire che oggi è diventato il mio lavoro: osservo i comportamenti,
decodifico le estetiche, interpreto i sottotesti, non in un vagone o in una
caffetteria, ma in Rete.
Avevo dieci anni quando a metà degli anni Novanta nel piano-bar
gestito da un mio zio sono arrivati alcuni terminali di messaggeria
istantanea, una rudimentale chat telematica che collegava svariati pub e
locali italiani. Ho passato un buon numero di pomeriggi davanti a quei
monitor neri, a chattare con sconosciuti che avevano almeno il doppio dei
miei anni. Non sono mai entrata in confidenza con nessuno, sia chiaro, ma
ricordo con una certa nitidezza la mia smodata curiosità nel capire le
dinamiche di quella community di cui nel tempo ho imparato tutti i codici.
Negli anni ho frequentato IRC, ICQ, e poi MSN, fino a che gli SMS
diventarono più funzionali agli scambi. La costante era la medesima: capire
chi stava dall’altra parte dello schermo.
Ho iniziato poi a lavorare, molto giovane, come consulente di un
progetto per miei coetanei messo a punto da un ministero e da
un’organizzazione internazionale. Ero stata chiamata a spiegare le
dinamiche dell’online a ragazzi, docenti e genitori. Grazie a quell’incarico
inaspettato, ho capito che mi piaceva scrivere, ma ancora di più mi piaceva
coinvolgere le persone su Internet. Per i successivi dodici anni sono stata
consulente di digital strategy, ma a un certo punto ho sentito che dovevo
tornare alle radici. Mi sono avvicinata così all’etnografia digitale, e ho
scoperto un mondo nuovo, più affine alla mia sensibilità e al mio
background umanistico. Un approccio differente, meno superficiale e
preconfezionato, senza personas e metriche quantitative, bensì animato da
identità culturali e insight comportamentali rilevati sul campo.
A volte ci dimentichiamo di essere umani, soprattutto sul digitale.
Abbiamo iniziato a chiamare le persone utenti, e le storie contenuti. Ma la
verità è che siamo sempre gli stessi, online e offline, con le medesime
abitudini, credenze, paure, passioni, stravaganze. La Rete è un eccezionale
bacino di linguaggi, usi e costumi da osservare; le community, in
particolare, sono i territori più ricchi. Ogni nostra interazione in un
ambiente digitale produce dati minuscoli, raccolti poi dagli algoritmi e dalle
intelligenze artificiali. Queste tracce prendono il nome di small data: tanto
più sono piccole, tanto più acquistano profondità una volta mappate e
registrate. Sono indizi capaci di raccontare chi siamo e quali sono i perché
dietro alle scelte che facciamo, le emozioni che proviamo, le cause che
decidiamo di sposare.

Per diventare ricercatori di small data servono metodo, attitudine


all’ascolto, capacità di individuare equilibri e correlazioni, ma soprattutto
serve intuito. Ed è proprio dall’intuizione e dalla capacità di tracciare
percorsi che nascono i racconti più belli. Questo libro non è un manuale: è
una raccolta di storie per comprendere meglio il digitale, che chiama i
social media territori e chi li frequenta abitanti. Anziché partire per mete
esotiche alla ricerca di popolazioni sconosciute, ci toglieremo le scarpe ed
esploreremo in punta di piedi l’ambiente iperconnesso intorno a noi. Questo
libro è un cambio di prospettiva.

E, per una volta, ci incanteremo insieme.


CAPITOLO 1
LA BELLEZZA DEGLI SMALL DATA

DOVE TUTTO HA INIZIO

È mattina, suona la sveglia. Apriamo gli occhi e, ancora assonnati,


prendiamo in mano lo smartphone per spegnerla. Inevitabilmente, finiamo a
controllare le notifiche e le e-mail. Diamo poi un’occhiata a un articolo di
giornale, mettiamo un cuoricino sulla foto del nostro amico, ci ricordiamo
di cercare su Google il significato del sogno che abbiamo appena fatto. Ed
ecco che ogni giorno si ripete l’incantesimo: entriamo in Rete e,
camminando tra link e feed, iniziamo a lasciare tracce del nostro passaggio,
in modo più o meno consapevole, visibile e persistente nel tempo e nello
spazio. I click, le query di ricerca, i contenuti condivisi, i commenti e le
recensioni sono solo alcuni dei segni del nostro movimento online, orme
che non hanno la forma dei piedi, ma quella dei polpastrelli delle dita delle
mani, e che prendono il nome di small data.

Piccoli dati di un certo spessore

Gli small data sono piccoli dati digitali con due caratteristiche: sono visibili
a occhio nudo e sono capaci di raccontare storie umane. Ma non finisce qui,
perché il più delle volte diventano addirittura una chiave di lettura dei big
data; sì, proprio quell’ingente mole di numeri raccolti dalle macchine. Il
superpotere degli small data è quello di definire meglio un contesto e di
restituire un significato ai comportamenti delle persone, alle loro scelte, ai
linguaggi che utilizzano per relazionarsi online. Non stupisce dunque sapere
che a volte vengano indicati anche come “thick” data, ovvero informazioni
di un certo spessore. Osservare queste tracce umane significa riconoscere la
Rete non solo come media, ma anche come fonte per comprendere meglio
l’uomo. Ce lo ricorda il professor Richard Rogers, esperto di epistemologia
del web e docente di new media all’Università di Amsterdam, nel suo libro
Metodi digitali. Fare ricerca sociale con il web:

Internet può essere utilizzato come luogo di ricerca per studiare


molte altre cose oltre alla cultura online: il punto non è più quanta
società e cultura si ritrovino sul web, quanto piuttosto come
diagnosticare il cambiamento culturale e le condizioni sociali
attraverso Internet1.

Facciamo subito un esempio pratico. Vi siete chiesti come mai negli scaffali
dei supermercati c’è così tanta scelta di spezie? E perché prendono vita tanti
ecommerce dedicati a queste polveri? Da dove nasce tutta questa
attenzione? Sicuramente, una prima risposta possiamo darla a partire da una
crescente passione per la cucina internazionale e per la ricerca di benessere
a tavola che hanno favorito un loro riposizionamento micro-lussuoso. Ma
non è tutto.
Nel tentativo di conquistare le papille gustative dei più giovani, il più
grande network al mondo sul food, Tasty, e lo storico produttore di
condimenti McCormick & Co. hanno collaborato per produrre una nuova
gamma di spezie. Lanciate negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada,
le miscele Fiery, Zesty, Savory, Jazzy e Hearty sono state sviluppate
partendo proprio dagli small data di BuzzFeed, la media company dietro
Tasty, così da attirare soprattutto i millennial in cerca di occasioni per
sperimentarsi. Sono state analizzate le conversazioni, le chiavi di ricerca, le
fotografie scattate ai piatti etnici e condivise poi sui social media; non al
fine di sapere se preferissero un marchio piuttosto che un altro, ma per
scovare il perché consumassero le spezie. È stato scoperto così che il
legame tra giovani e nuove cucine è dovuto soprattutto all’accessibilità
economica dei viaggi nell’ultimo decennio e alle opportunità di contatti con
altre culture nate da frequentazioni di studio o lavoro. Non per niente, il
mercato di spezie e aromi in questo momento è in forte espansione, proprio
perché aiuta le persone a ricreare a casa i propri piatti internazionali
preferiti.
Come racconta bene l’esperto di branding e neuromarketing Martin
Lindstrom nell’introduzione al suo libro Small data. I piccoli indizi che
svelano i grandi trend, si tratta di andare “alla ricerca di regolarità,
parallelismi, correlazione e – non da ultimo – equilibri ed esagerazioni”2.

Gli habitat naturali degli small data

Quando pensate alla Rete dovete abbandonare l’immaginario 3D della


galassia interconnessa che ci ha tenuto compagnia dagli anni Novanta, e
preferire una rappresentazione più fisica. Visualizzatela come fosse una
grande cartina nautica, con tanto di ampie terre emerse e, qua e là, gruppi di
isole minori. Ci sono i giganti Google, Apple, Facebook, Amazon; e ci sono
portali più piccoli, i siti aziendali, e quelli personali. Ecco che, davanti a
questa mappa, sarà più semplice capire che stiamo parlando di territori veri
e propri, abitati da esseri umani in carne e ossa. Noi. Online percorriamo
distanze chilometriche in pochi secondi, raggiungiamo i nostri parenti
lontani, andiamo al cinema all’orario che preferiamo e frequentiamo la
scuola: la maggior parte della nostra vita si svolge tra una terra e l’altra.
Considerare l’online come un habitat non è cosa nuova. La media
ecology è una disciplina introdotta nel 1968 dallo studioso statunitense Neil
Postman che l’ha definita come “lo studio dei media in quanto ambienti” e
“il modo in cui i media influenzano la percezione e la conoscenza, le
emozioni e i valori umani”3. Trent’anni dopo è stata istituita la Media
Ecology Association, associazione internazionale che si occupa proprio di
portare avanti questi concetti nelle scuole. In Italia, membro di questo
gruppo è Paolo Granata, professore all’Università di Bologna, che da anni si
occupa di far superare la convinzione secondo cui i media sono semplici
mezzi o strumenti per comunicare e interagire. Al contrario, i media sono a
tutti gli effetti territori abitati, ecosistemi da valorizzare, rispettare e
preservare, proprio come facciamo con i nostri patrimoni naturali. In Rete
noi esseri umani lasciamo infinite tracce, e spesso non ci preoccupiamo di
cancellarle. Anzi, molte di queste decidiamo di archiviarle nei cloud o nelle
memorie dei nostri dispositivi. “Tanto non costa nulla”, quante volte ve lo
sarete detti, vero? Tanto non costa nulla conservare vecchi file nel nostro
hard disk e le serie di foto sfocate sul nostro smartphone; tanto non costa
nulla scrivere ogni pensiero che ci passa per la testa su Facebook,
condividere la nostra vita casalinga su Instagram; tanto non costa nulla fare
Hangout e dirette streaming.
Una recente ricerca condotta da Kaspersky Lab ha rilevato che il 30%
delle app installate rimane inutilizzato, consumando dati, e le app più
popolari possono assorbire 22 MB al giorno, anche senza interazione.
Inoltre, un terzo degli utenti elimina solo occasionalmente elementi digitali
inattivi; il 13% non lo fa mai. Senza poi parlare di quello che accade dentro
le nostre caselle e-mail. Ma davvero “non costa nulla”? Le cose non stanno
proprio così. Da una parte c’è un tema, reale e concreto, di energia: i cloud
sono nuvole che consumano e inquinano, i dati sporcano e accelerano il
riscaldamento globale. Dall’altra parte, invece, c’è un tema legato
soprattutto all’etica e al rispetto dei luoghi pubblici che condividiamo con
altre persone.

Popolazioni in Rete nomadi e stanziali

È il 1993 quando il sociologo Howard Rheingold pubblica The Virtual


Community: Homesteading on the Electronic Frontier e rende universale il
concetto di comunità virtuale. Man mano che l’uso della Rete si diffonde, le
persone non si limitano a utilizzarla per trovare o pubblicare informazioni
ma, attraverso la tastiera e dietro lo schermo, imparano a conoscersi,
comunicano tra di loro e condividono le proprie esperienze. Insomma,
imparano a stringere relazioni. A volte, non si sono mai incontrate nella vita
reale, eppure formano ugualmente gruppi online. In fondo, la prima parte
degli anni Novanta è stata un’epoca dove proprio l’ampiezza delle
connessioni si stava allargando a dismisura. E, ancora più interessante,
l’attenzione si spostava dal rapporto tra essere umano e macchina al
rapporto tra esseri umani attraverso la macchina.
Ma Rheingold non è l’unico ad aver provato a comprendere meglio le
popolazioni del digitale. Da più di trent’anni Sherry Turkle, docente di
sociologia della scienza e della tecnologia al MIT di Boston, studia la
psicologia degli uomini in relazione alle piattaforme e ai dispositivi
connessi. In particolare, nel volume Insieme ma soli, l’autrice descrive
l’impatto percettivo e sociale del mondo digitale e come ciò non sia frutto
di una metamorfosi degli ultimi anni, ma sia iniziato già agli albori della
Rete. Turkle ci ricorda, per esempio, come Arpanet, la nonna di Internet, sia
stata progettata perché gli scienziati potessero collaborare sui paper di
ricerca, ed è diventata poi in fretta un luogo per spettegolare, flirtare e
parlare dei propri figli. Un’altra prova di come, sotto sotto, i nostri bisogni
umani non cambino mai. E ancora, la tecnologa statunitense ci racconta:

Alla metà degli anni Novanta Internet ha iniziato a brulicare di


mondi sociali. C’erano chat room e bacheche (bulletin board) e
ambienti social chiamati Mud. Solo dopo sono arrivati i giochi di
ruolo online multiplayer, come Ultima II e EverQuest, i precursori
di World of Warcraft. […] Anche se il più delle volte i giochi
assumevano la forma di missioni da compiere, medievali o di altro
tipo, i luoghi virtuali erano avvincenti soprattutto perché offrivano
una vita sociale, e la possibilità di essere quello che avremmo
sempre voluto essere4.

Se da un lato sappiamo che certi territori digitali ospitano in modo stanziale


e circoscritto i cittadini di certe nazioni fisiche (i cinesi su WeChat, i russi
su VK), dall’altro lato in Occidente possiamo vedere un atteggiamento
decisamente più nomade. Le persone si spostano in gruppo da un ambiente
all’altro, per la soddisfazione di specifiche esigenze o per la tendenza del
momento. Ricordate quando qualche tempo fa i giovani hanno iniziato ad
abbandonare Facebook per migrare verso l’emergente TikTok? Succede per
moda, certo, ma succede soprattutto perché i social media più tradizionali
nel frattempo si sono popolati delle generazioni più anziane. Dunque,
spesso anche dei loro genitori. Vedremo più avanti come il capire tali
dinamiche intergenerazionali sia di grande aiuto per mettersi sulle tracce
giuste al fine di raccogliere small data e dunque storie.

LE RELAZIONI UMANE CON LA


TECNOLOGIA

È così affascinante osservare da vicino la relazione fisica che si stringe con


i territori virtuali e la tecnologia, quella che abita le nostre case e i nostri
uffici. Tra le scienze umane, c’è una disciplina relativamente giovane che se
ne occupa: l’antropologia digitale, figlia di quella culturale. Partendo
proprio dalle tracce umane in Rete, la materia indaga i comportamenti e le
relazioni dell’uomo con gli strumenti tecnologici che usa come porte di
accesso e mezzi di trasporto online. In fondo, l’iperconnessione ha
cambiato radicalmente la nostra cultura, intesa come il repertorio di pattern
che fanno parte del nostro quotidiano. Allo stesso tempo, la tecnologia che
abbiamo sulla scrivania, in tasca e al polso ha stravolto il modo in cui si
comunica, si ricorda, si dorme, si sogna e si prendono decisioni. Pensate a
piattaforme come Tripadvisor e Booking.com, che ci hanno permesso di
fare scelte più consapevoli partendo dalla condivisione di esperienze di una
community di viaggiatori.

La tradizione anglosassone

Il campo dell’antropologia digitale è fiorente e sta dando vita a una nuova


generazione di ricercatori online che studiano come le persone usano e
danno senso alle tecnologie. Il professore di antropologia dell’University
College of London Daniel Miller è riconosciuto come il padre della
disciplina. Nel 2012 ha iniziato il Social Networking and Social Sciences
Research Project, un progetto di cinque anni che ha visto nove antropologi
impegnati a esaminare l’impatto globale dei social media in diversi Paesi
del mondo, Italia compresa, con un focus sul Sud. I risultati sono stati
rilasciati gratuitamente in una serie di documenti dal titolo Why We Post,
tradotti anche in italiano. Ecco, per esempio, un interessante racconto sulle
donne italiane e la loro relazione con i social media otto anni fa:

[...] La visibilità limitata delle figure di donne negli spazi pubblici


corrisponde a una assenza di visibilità sui social media. È
estremamente insolito per le donne sposate postare foto di se stesse
su Facebook, che limitano alle occasioni speciali, come feste di
compleanno, riunioni familiari, o eventi specifici con amiche.
L’assenza di fotografie che rappresentano il loro corpo è bilanciata
dall’abbondanza di immagini di oggetti domestici, memi, fotografie
artistiche o foto dei loro figli. In questo caso, le trasformazioni nel
corso della loro vita riproducono il modo in cui cambia la loro
visibilità negli spazi offline della città. Dalle donne sposate, specie
dopo che sono diventate madri, ci si aspetta che mutino il modo in
cui appaiono negli spazi pubblici e che esaltino i loro ruoli di mogli
e madri. Di conseguenza sui social media non mostrano
apertamente immagini di se stesse, che potrebbero essere
interpretate come segni di flirt5.

Nel 2017 il professor Miller ha lanciato un secondo progetto di ricerca, The


Anthropology of Smartphones and Smart Ageing, per indagare l’impatto
degli smartphone sul modo in cui le persone di mezza età affrontano le
questioni di salute, usando così il potenziale dell’antropologia digitale per
rendere le applicazioni mobile dedicate al benessere più sensibili ai contesti
socio-culturali. L’iniziativa, ancora una volta quinquennale, viene
raccontata man mano dai ricercatori coinvolti su blogs.ucl.ac.uk/assa,
direttamente dagli undici siti monitorati: Irlanda, Italia, Camerun, Uganda,
Brasile, Cile, Trinidad, Gerusalemme Est, Singapore, Cina e Giappone.
L’intenzione di Miller e del suo team è di scrivere poi una serie di libri e
monografie ad accesso libero rivolti sia a un pubblico antropologico sia a
un pubblico più generale. Ovvero, di trasformare i dati raccolti in
narrazioni.
Oggi uno dei principali centri istituzionali dedicati all’etnografia
digitale è il Digital Ethnography Research Centre, che fa capo al Royal
Melbourne Institute of Technology nello Stato di Victoria, in Australia. Il
dipartimento si concentra sulla comprensione del mondo contemporaneo, in
cui le tecnologie digitali e mobile sono sempre più inestricabili dagli
ambienti e dalle relazioni in cui si svolge la nostra vita. Ricerca, analisi e
diffusione degli approfondimenti etnografici vengono qui prodotti non solo
per fini di studio, ma anche per comprendere meglio fenomeni di largo
consumo. Tra i loro campi di ricerca ci sono i servizi di streaming che
hanno trasformato la cultura televisiva a livello globale.
Riconoscendo il valore delle tracce umane, Netflix per esempio ha
combinato i suoi big data sulle abitudini di visualizzazione degli utenti con
veri e propri studi etnografici. Ha scoperto così come le persone si
divertissero a fare binge watching invece di sentirsi in colpa per essere state
davanti alla TV per ore. Questa conoscenza sul pubblico ha portato la
piattaforma a rilasciare intere stagioni di contenuti in una volta sola,
piuttosto che fare anteprime di episodi ogni settimana. Oggi lo diamo per
scontato, ma è frutto proprio dell’incontro tra numeri e sguardo umano sui
comportamenti.

Consiglio di lettura #1

Guardatevi attorno: anche le nostre stanze sono piene zeppe di small data che raccontano chi
siamo. In Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra (il Mulino, 2014), Daniel
Miller entra in dodici appartamenti nella stessa strada di una grande città. Osserva gli oggetti e
gli arredamenti, registra parole e gesti, e ricostruisce i piccoli mondi analogici che viviamo
quotidianamente. Uno sguardo intimo tra contenitori per il cibo e paperelle di plastica.

La netnografia secondo Kozinets

Come potete facilmente intuire dai progetti di Miller, l’antropologia digitale


offre significative chiavi di lettura per capire il mondo interconnesso che
abitiamo, le relazioni che instauriamo e i perché dietro ai modi di agire che
adottiamo. La ricerca etnografica, intesa come una serie di analisi sul
campo tese a registrare dati e informazioni su un gruppo di persone, è
decisiva. In relazione al digitale, si parla più precisamente di netnografia,
neologismo che fonde net, Rete, ed etnografia. A teorizzare per primo la
metodologia nel 1995 è Robert V. Kozinets, docente all’Università del
Southern California ed esperto studioso di marketing tribale e consumer
culture theory, considerato come una delle voci più importanti nel campo
dei social media, del marketing e dell’innovazione. La netnografia, anche
detta etnografia digitale, si basa su una ricerca qualitativa che reinterpreta le
tradizionali tecniche di immersione nella stratificazione culturale umana e,
in questo caso, anche digitale. Nella terza edizione del suo manuale
Netnography: The Essential Guide to Qualitative Social Media Research
(SAGE, 2019), Kozinets suggerisce i cinque passaggi necessari:
1. la definizione dell’oggetto da investigare;
2. l’identificazione del territorio e della community di cui osservare
l’interazione;
3. l’immersione per l’osservazione;
4. l’integrazione con altri metodi di ricerca;
5. l’interpretazione dei dati.
Per l’autore, questo percorso metodologico si deve focalizzare
sull’esperienza quotidiana in Rete delle persone e allo stesso tempo sulla
comprensione dei sistemi sociali, dei valori e dei significati condivisi. E,
tutto ciò, passa proprio dal rilevamento dei dati più piccoli, anche quando il
contesto è grande come nel caso delle società per azioni. Qui sotto troverete
alcuni degli aspetti che possono essere indagati con questo metodo.
• La percezione di un brand, perché l’idea che abbiamo di un’azienda
è influenzata da esperienze funzionali, sociali – anche legate a eventi
di stretta attualità – ed emotive che spesso condividiamo online,
facilmente leggibili attraverso l’etnografia digitale.
• La composizione delle audience, perché è possibile progettare il
proprio pubblico, andando a raggruppare le persone per aspettative,
bisogni, interessi e priorità comuni, esplorando la loro identità
culturale.
• La nascita di nuovi trend, a partire dall’osservazione di ciò che
viene condiviso. Da qui è possibile comprendere come cambiano le
nostre abitudini e i nostri rapporti, per intercettare oggi le tendenze
che verranno consolidate un domani.
Perché siamo ancora tribù

La tecnologia ha cambiato il come comunichiamo, ma non il cosa e il


perché. Oggi inviamo un breve messaggio su WhatsApp alla persona che ci
piace, magari accompagnato da un paio di emoji, ieri invece i nostri nonni
scrivevano lettere. Sono cambiate le modalità – il media, i tempi, il format –
ma restano immutati il contenuto che sentiamo di voler condividere e la
motivazione che ci spinge a farlo.
Il vero cambio di passo portato dal digitale è stata la nascita di nuove
reti sociali, che sono andate ad aggiungersi a quelle già presenti nel
quotidiano delle persone. E, infatti, la facilità e l’accessibilità delle nuove
tecnologie e della connessione hanno fatto sì che la nostra società
assumesse nuove forme tribali. Le community online sono insiemi di
persone che hanno una comune identità e analoghe caratteristiche. La
definizione di tribù data da Treccani ci fa capire come sia pertinente usare
tale termine anche nel nostro contesto online:

Parlano uno stesso linguaggio, hanno consapevolezza di costituire


un organismo sociale ben determinato e politicamente coerente, e
come tale riconosciuto dai gruppi vicini; la sua coesione ha quasi
sempre carattere territoriale oltre che linguistico e sociale, in
quanto il gruppo occupa permanentemente (se sedentario) o
percorre periodicamente (se nomade) una regione geograficamente
determinata6.

Twitch, abitato principalmente da videogamer, ospita una tribù molto


particolare e definita: i modder, un gruppo ben determinato di appassionati
che fanno modifiche estetiche e funzionali ai videogiochi. Hanno un proprio
linguaggio, sanno di essere una community a parte rispetto alle altre, e
hanno obiettivi comuni. Nel tempo, infatti, le comunità di modding sono
state la fonte di innovazioni che hanno prodotto un enorme valore per
l’industria. Molti dei generi più popolari, come gli sparatutto, si sono
evoluti proprio grazie a queste tribù. E ancora, sempre tra i videogamer, si
sta facendo largo un’altra forma di aggregazione, tutta al femminile:
l’hashtag #girlgamers, per esempio, sta contribuendo ad aumentare la
visibilità di ragazze e donne come giocatori e creatrici.
L’antropologia digitale, benché si occupi del singolo, deve tener conto
necessariamente delle relazioni sociali che si instaurano all’interno dei
territori online. A sua volta, la netnografia, dunque, è chiamata a indagare le
tracce umane e l’individualismo connesso in una rete di contatti. In che
modo? Mettendo in dialogo i dati quantitativi con quelli qualitativi. E siamo
qui proprio per imparare a farlo.

Consiglio di lettura #2
Volete approfondire le radici dell’antropologia culturale? C’è Pensare come un antropologo
(Einaudi, 2017) di Matthew Engelke, docente alla London School of Economics and Political
Science. Non è il solito pedante libro universitario: qui l’autore racconta la disciplina dalle sue
radici ai giorni nostri, dalla Papua Nuova Guinea alle periferie delle nostre città. Ma, soprattutto,
Engelke ci offre la possibilità di imparare a pensare con un approccio più umano per
comprendere la nostra identità e quella delle società in cui viviamo.

GLI ATTREZZI PER L’IMMERSIONE E LO


SCAVO

Andare alla ricerca di small data è come intraprendere un viaggio che si


rivela essere molto più lungo di quanto avevamo inizialmente
programmato. Ciò accade perché si tratta di una ricerca di ricorrenze, e
dunque abbiamo a che fare con un equilibrio diverso dalle metriche
numeriche. Qui occorre avere il polso innanzitutto del terreno culturale in
cui si andrà a lavorare. Un indizio sull’approccio ce lo restituisce proprio la
parola cultura, che ha origine dalla parola latina colere, il cui significato è
coltivare. Ci servono attrezzi che ci aiutino a indagare non tanto gli aspetti
naturali e innati delle persone, ma quelli acquisiti. Coltivati, appunto, e
condivisi in Rete. Per metterci in viaggio è sufficiente portarci dietro
l’hardware più raffinato mai esistito, il nostro cervello, così naturalmente
capace di tradurre in dati e conoscenze ciò che ascoltiamo, vediamo e
leggiamo. E per nostra fortuna, è anche una macchina molto allenata:
traduciamo gli stimoli esterni da quando veniamo alla luce.

La paziente arte del mettersi in ascolto

Il gesto del tradurre i dati raccolti in storie è antichissimo. Erodoto, per


esempio, già nel quinto secolo avanti Cristo ha scritto dei popoli barbari a
est e a nord della penisola greca. Ha fatto quello che oggi fa un netnografo:
si è impegnato in uno studio culturale comparativo, confrontando i costumi
e le credenze di queste community con quelli di Atene. Si metteva in
ascolto, e poi ne scriveva, senza giudizio. E così, con Le Storie sono
arrivate a noi parentesi narrative molto curiose.

Ogni volta che un Babilonese ha fatto l’amore con la propria


moglie, brucia delle sostanze aromatiche e si siede accanto al fumo;
la stessa cosa, separatamente, fa anche la donna. All’alba entrambi
provvedono a lavarsi e non toccano nessun vaso se prima non si
sono lavati. […] Ed ecco la peggiore delle usanze babilonesi. Ogni
donna di quel paese deve sedere nel tempio di Afrodite una volta
nella sua vita e fare l’amore con uno straniero. […] Le donne
avvenenti e di alta statura se ne vanno rapidamente, ma quelle
brutte rimangono lì molto tempo senza poter adempiere l’usanza; e
alcune rimangono ad aspettare persino per tre o quattro anni.

Che siano le donne babilonesi nel tempio o le super-mamme pancine di


oggi su Facebook, non sta a noi ricercatori di small data valutare se siano
giusti o sbagliati gli atteggiamenti. Dobbiamo, molto più semplicemente,
limitarci a registrarli. Maestra nell’arte di ascoltare è la sociologia
Marianella Sclavi, che ha dedicato buona parte della sua attività proprio
all’ascolto attivo. Queste le sue sette regole dell’arte di ascoltare:
1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono
la parte più effimera della ricerca.
2. Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per riuscire a
vedere la tua prospettiva, devi cambiare prospettiva.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere
che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perché.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai
comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su
come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.
5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più
importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come
al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti perché
incongruenti con le proprie certezze.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e
della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per
esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei
conflitti.
7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una
metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare,
l’umorismo viene da sé.
A volte, le tracce umane in Rete possono aprire fuoripista e farci scoprire
elementi del tutto inaspettati. Basti pensare alle community intorno al K-
pop. Questo genere musicale ha una lunga tradizione in Sud Corea e da
qualche tempo è dilagante anche fuori dai confini nazionali, grazie ai social
media e al loro potere di accorciare le distanze. Laddove ci aspetteremmo di
leggere online solo conversazioni di fan in visibilio per i protagonisti delle
band del pop coreano, troviamo anche tanto altro. Già, perché la community
online di fan è vastissima e piuttosto sensibile ai temi sociali, e in
particolare all’ingiustizia del razzismo strutturale.
Durante le proteste legate al Black Lives Matter di fine maggio 2020, il
dipartimento di polizia di Dallas ha chiesto alle persone di inviare filmati di
qualsiasi attività illegale tramite l’app iWatch Dallas. In questa occasione, le
comunità di fan del K-pop sono intervenute per minare gli sforzi anti-
protesta della polizia, leggendo tale richiesta come un tentativo di
minacciare la privacy e i diritti dei manifestanti pacifici. In tutta risposta, i
ragazzi hanno capovolto la call-to-action: attingendo al loro infinito
archivio di concerti e video dei gruppi ITZY, BTS e Red Velvet, hanno
invaso il canale aperto dalla polizia, tanto da mandare in tilt l’app in poche
ore. E mentre altri dipartimenti di polizia locale – seguiti poi dall’FBI –
hanno fatto richieste simili affinché le persone fornissero filmati, gli
account Twitter dei K-popper sono diventati punti di riferimento importanti
per veicolare la ribellione, mettendo in secondo piano la musica.
Nello stesso periodo, i fan del K-pop hanno collaborato con altri giovani
su TikTok per prenotare centinaia di posti al raduno di Tulsa per la
rielezione di Donald Trump. Anche se sembra non l’abbiano mai
rivendicato direttamente, il risultato è stato un quasi tutto vuoto. Brad
Parscale, presidente della campagna, ha poi affermato che è stato fatto oltre
un milione di richieste di biglietti, ma i riscattati sono stati appena 6.200.
Anche questo secondo esempio ci dimostra come i gruppi di ragazzi che
seguono il K-pop siano potenti e in rapida crescita: siamo davanti a un
movimento a tutti gli effetti internazionale, che si sta mobilitando su
questioni politiche globali. Mettersi in ascolto di queste community online
significa andare ben oltre la passione musicale che le lega.

Il tesoro nascosto delle chiavi di ricerca

Le nostre esplorazioni non devono essere per forza condotte in solitaria: in


qualsiasi momento possiamo contare su un altro paio di orecchie, quelle di
Google Trends. Si tratta di uno strumento gratuito che ci permette di
conoscere la frequenza di una ricerca dal 2004 a oggi, gli argomenti
correlati, nonché la lingua e la geolocalizzazione dell’utente. Insomma,
ascolta e registra non solo cosa cerchiamo, ma anche come, con che lessico,
sintassi e ricorrenza.
Ecco una facile prova del nove: provate a cercare la periodicità di
“cotechino con lenticchie” negli ultimi dieci anni. Risultato? Il picco è tra
Natale e Capodanno, sempre. Scontato, certo. Ma diamo un’occhiata alla
prima query di ricerca associata: nidi di patate con lenticchie e cotechino.
Ne avevate mai sentito parlare? Probabilmente no. E allora, ecco una pista
per imbastire poi una storia: possiamo farci una prima idea su Google
Immagini, poi andare a scovare la tradizione dietro a questa prelibatezza e
raccontarla sul nostro blog di cucina.
Sono infinite le possibilità con Google Trends: possiamo mappare quali
sono le caratteristiche dei sintomi influenzali, quando gli italiani iniziano a
cercare online cosa fare a Capodanno, da quali città c’è più richiesta di un
supermercato h24, in che momento dell’anno gli europei vogliono un nuovo
paio di occhiali da sole. Possiamo addirittura vedere cosa sognano le
persone. Dal 2004 a oggi, per esempio, “sognare ragni” è in forte
incremento, con un’impennata per quelli neri. Dove? Soprattutto in
Lombardia, Puglia e Piemonte. Ecco che si apre un altro sentiero per
l’esplorazione…
Inoltre, anche attraverso il completamento automatico delle nostre
ricerche online Google effettua le previsioni di ricerca in base a fattori come
popolarità o somiglianza, incluse le cosiddette “ricerche di tendenza”, cioè
gli argomenti popolari nella nostra zona che variano nel corso della giornata
e non sono correlati alla nostra cronologia delle ricerche. Provate a digitare
“i piemontesi sono” e vi ritroverete i luoghi comuni più tipici legati ai
cittadini sabaudi: sono chiusi, antipatici, freddi, tirchi, falsi e cortesi.
Addirittura, troverete che “non sono italiani” ma “sono francesi”, forse per
via della lingua simile e della riservatezza, chissà. Può scattare anche così
l’inizio di una storia, da una scintilla.

Consiglio di lettura #3
Oltre a individui che non dichiarano la propria identità, in Rete si può rischiare di incappare nei
social bot, programmi automatizzati dietro i quali si nascondono algoritmi così sofisticati da
essere indistinguibili dalle persone in carne e ossa. Ma i social bot, utilizzati per gli scopi più
disparati, non sono tutti uguali: ci sono quelli “buoni”, che per esempio inviano in automatico un
tweet in caso di terremoto, e ci sono anche quelli meno virtuosi. Su Fake people. Storie di social
bot e bugiardi digitali (Codice Edizioni, 2020), scritto dagli studiosi Viola Bachini e Maurizio
Tesconi, si va dal bot razzista di Microsoft ai troll della campagna elettorale statunitense fino ai
finti seguaci dei politici nostrani, passando per la truffa dell’algoritmo che fece schizzare alle
stelle le azioni di un’azienda fantasma.

Un nuovo sguardo tra i pixel delle immagini

Oltre che tra le righe del testo scritto, un altro nascondiglio d’elezione degli
small data umani è in ciò che appare in secondo piano nelle foto e nei
video. Leggere i dettagli di un’immagine è una grande sfida, che ci chiede
di applicare un pensiero laterale, per citare lo psicologo maltese Edward De
Bono. Se siamo alle prese con una ricerca sui comportamenti delle madri
con i teenager di oggi, difficilmente possiamo basarci solo su hashtag
didascalici come #mammaditeenager. Una possibile soluzione? Guardare i
contenuti degli adolescenti in cui appaiono anche le mamme. TikTok è il
terreno più fertile in questo momento. A volte sono sullo sfondo, a lavorare
al computer, leggere sul divano, cucinare la cena; altre volte, invece,
vengono attivamente coinvolte in scherzi e confronti. Anche se spesso non
comprendono appieno il mondo di TikTok da cui i loro figli sembrano così
assorbiti, i genitori sono disposti a provarlo se significa passare un po’ più
tempo di qualità con loro. Giusto per avere un riferimento: secondo il Pew
Research Center, le madri ora trascorrono con i loro figli circa quattro ore
extra a settimana rispetto al 1965. E buona parte di questo tempo è dedicata
a un dispositivo tecnologico.
Oggi per alcuni genitori il desiderio di connettersi con i propri ragazzi
attraverso video su TikTok o foto su Instagram deriva in parte anche dai
timori riguardo i contenuti presenti sulle varie piattaforme. In effetti, in
passato, TikTok in particolare ha sollevato motivi di preoccupazione.
Nell’aprile 2019, la BBC ha scoperto che la piattaforma non riusciva a
disattivare gli account di chi inviava messaggi sessuali agli adolescenti, e il
“Wall Street Journal” ha scovato che lo Stato islamico stava pubblicando
video allarmanti. Dunque, a differenza delle sospettose mamme di una
volta, quelle di oggi preferiscono di gran lunga essere presenti per fare da
mentori ai figli piuttosto che dire loro cosa vedere o non vedere su Internet.
Il “New York Times” le ha ribattezzate le TikTok Moms.

1. Rogers R., Metodi digitali. Fare ricerca sociale con il web, il Mulino, Bologna 2016.
2. Martin Lindstrom, Small data. I piccoli indizi che svelano i grandi trend, Hoepli, Milano 2016.
3. Postman N., “The Reformed English Curriculum”, in Eurich A.C., a cura di, High School 1980.
The Shape of Future in American Secondary Education, Pitman, New York 1970, p. 161 (traduzione
presa da Wikipedia).
4. Turkle S., Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli
altri, Einaudi, Torino 2019.
5. Miller D. et al., Come il mondo ha cambiato i social media, Ledipublishing, Milano 2017.
6. https://www.treccani.it/enciclopedia/tribu.
CAPITOLO 2
LE GENERAZIONI TRA SILENT E ALPHA

PERCHÉ PARLARE DI GENERAZIONI

Innanzitutto, definiamo che cosa è una generazione. Una generazione è un


insieme di persone unite da una mentalità e da un contesto storico simile:
hanno attraversato le fasi più importanti della vita nello stesso momento e
hanno interiorizzato atteggiamenti, posture e ideali condivisi. Partire da
questa macro-suddivisione è molto importante per iniziare a calarsi in un
contesto culturale che è fortemente influenzato dal nucleo familiare, dalla
scuola primaria e dallo sviluppo tecnologico negli anni verso l’età adulta.
Chiarito il quadro generazionale, potremo dare il giusto peso agli small data
che rintracceremo in Rete. Dietro a un selfie di una signora di mezza età ci
sono perché molto diversi rispetto a un selfie di una teenager; così come
intravedere un tablet sulla scrivania di un giovane professionista è diverso
da intravederlo sul comodino di un ottantenne.

SILENT GENERATION

In questo momento nel mondo sono in vita ben sette generazioni, dalla
cosiddetta Greatest Generation – nata dal 1901 al 1927, testimone dei due
conflitti mondiali – alla neonata Generazione Alpha, che ha iniziato a
vedere la luce una decina di anni fa. Percorrendo la linea temporale delle
età, alla Greatest segue la Silent Generation, ed è da qui che inizieremo il
nostro racconto, per comodità e buon senso. L’origine dell’aggettivo
silenzioso è statunitense, e sottolinea una certa reticenza dell’epoca
nell’esporsi in prima persona in pubblico, andando a formare soprattutto nei
decenni successivi una “maggioranza silenziosa” durante le grandi
contestazioni per i diritti civili. Nati dal 1928 al 1945, hanno sempre
comunicato con le lettere; la tecnologia si limitava alla radio e al telefono
per i più fortunati. Oggi alcuni di questi senior sono online come fruitori,
soprattutto di video. La Rete per loro è un potente antidoto alla solitudine,
nonché un ponte per stare accanto a figli e nipoti, spesso lontani.
C’è una storia curiosa che arriva dall’Oriente e che vale la pena
raccontare. Gli anziani cinesi trascorrono tradizionalmente la pensione
guardando i nipoti e curando le relazioni con la famiglia, proprio come i
nostri anziani occidentali. Durante la politica del figlio unico in Cina, sono
state incoraggiate le famiglie “4-2-1”, con quattro nonni, una coppia e un
bambino, con ruoli di assistenza che si sono invertiti nel corso della vita.
Tuttavia, inevitabilmente, poiché le giovani generazioni si trasferiscono in
centri urbani più grandi o all’estero per lavoro, genitori e nonni passano
molto meno tempo in famiglia. Così, per colmare il vuoto e non sentirsi
soli, i senior cercano da sé la propria felicità. Al contempo, grazie
all’evoluzione digitale, le generazioni cinesi più anziane hanno più accesso
a fonti di divertimento e di apprendimento rispetto a prima.
Visitando uno qualsiasi dei parchi e spazi pubblici della Cina è facile
vedere persone di età avanzata impegnate in balli di piazza, tai chi, kung-fu.
È in questo contesto che si inserisce un gruppo sociale molto presente
online: le Chinese Damas, anziane cinesi che hanno vissuto sulla propria
pelle carestie e disordini politici e che oggi hanno iniziato a dare maggiore
priorità al proprio tempo libero, aiutate dagli smartphone.
Le Damas, dunque, stanno trovando felicità soprattutto nell’esercizio
fisico e nel contatto via mobile. Tang Dou, per esempio, è un’app dedicata
ai senior fisicamente attivi, molto usata in particolare dalle donne più
mature che danzano. E, infatti, la danza è molto popolare per questa fascia
generazionale; il settore, non per niente, vale 145 miliardi di dollari. Tre
anni fa, l’azienda ha ottenuto finanziamenti per oltre 25 milioni di dollari,
con quasi 40 milioni di utenti attivi mensili. L’app, oltre ad aiutare la ricerca
di partner di ballo, offre forum online, chat di gruppo e tutorial,
consentendo alle persone di pubblicare i propri video. Alla faccia di chi
pensa che i senior non siano digitalmente attivi.

BABY BOOMER

Archiviata la Seconda guerra mondiale, chi è nato tra il 1945 e il 1964 è


stato protagonista dell’esplosione economica e demografica di quel tempo,
nonché spettatore delle grandi rivoluzioni di Woodstock e delle proteste per
la guerra del Vietnam. Senza ombra di dubbio la televisione ha avuto un
ruolo decisivo. Ora che questi gruppi iniziano a invecchiare, si ritrovano a
non volersi conformare: per molti di loro, avere radici ribelli stimola una
maggiore empatia verso l’incertezza che colpisce le generazioni più
giovani. Inoltre, lo stereotipo che vuole anche i boomer tecnologicamente
arretrati non è mai stato meno vero. Sebbene non siano cresciuti con i social
media, sono in realtà ormai sempre più a loro agio nell’usare queste
piattaforme, con una forte predilezione per Facebook, che li aiuta a
rimanere in contatto con famiglia e amici. Non solo: si uniscono soprattutto
a community online per entrare in relazione con coetanei che hanno
interessi simili o che vivono nella stessa zona. E, infatti, via via che le
persone superano i 60 anni, iniziano a scegliere attività rilassanti e
autoindulgenti. Il giardinaggio è senza dubbio una di queste.
Oltre ad avere un buon indice di instagrammabilità, il giardinaggio
sembra essere ottimo anche per la salute. Nel Regno Unito il King’s Fund,
in collaborazione con il National Garden Scheme, ha osservato che visitare
giardini e coltivare piante è terapeutico e contribuisce al benessere delle
persone. Il giardinaggio, in particolare, coinvolge la fisicità e attiva tutti i
sensi – pensiamo alle mani nel terreno e al sole sulla schiena, al suono del
vento e degli uccelli. Tutto questo coinvolge l’attenzione delle persone, che
finiscono per concentrarsi sulle cose che stanno facendo, senza pensare ai
problemi. E così, anche i livelli degli ormoni dello stress si abbassano.
Alcune organizzazioni propongono il giardinaggio come cura di sé. Sempre
il National Garden Scheme, per esempio, finanzia un buon numero di eventi
per aiutare le persone con malattie sia mentali sia fisiche. E qui entra in
gioco il digitale.
Una gamma fiorente di risorse online consente alle persone di
progettare e pianificare i propri giardini – reali o virtuali – e di tenere
traccia delle attività durante tutto l’anno. Garden Answer, per esempio,
insegna ai suoi follower come identificare piante, malattie o infestazioni e
offre anche consigli di assistenza di esperti. iScape utilizza la realtà
aumentata per aiutare le persone a immaginare e pianificare il proprio
spazio esterno: gli utenti possono condividere i loro progetti, ordinare
prodotti e collaborare con una comunità. Con estati più lunghe e più
asciutte, che favoriscono il tempo trascorso all’aria aperta, le persone
vedono lo spazio esterno – che si tratti di un balcone, un tetto o un terrazzo
– come un’estensione del proprio soggiorno. Da poter controllare grazie alla
Rete.

GENERAZIONE X

Il crollo del muro di Berlino, l’arrivo in casa del computer, i motori di


ricerca che hanno fatto capolino: chi è nato tra il 1965 e il 1980 ha vissuto
sulla propria pelle le grandi sferzate sociali, culturali e tecnologiche. Certo,
non è nativo digitale, ma con la Rete e gli strumenti connessi, smartphone
in testa, se la cava benone. Che siano i più giovani quarantenni, oppure i più
adulti sessantenni, non importa: entrambi gli estremi sono alle prese con il
bisogno di inquadrare le proprie esigenze finanziarie, chi perché sta
iniziando a risparmiare per il proprio futuro, chi per figli e nipoti. Non è un
caso se viene chiamata anche la “generazione sandwich”, proprio perché si
trova in mezzo a due tensioni, tra la cura dei genitori anziani e la cura dei
ragazzi adolescenti. Molti X gestiscono le finanze di ben tre generazioni: la
loro, quella dei figli (soprattutto Z) e quella dei genitori (soprattutto Silent).
Di conseguenza, spesso fanno fatica a risparmiare abbastanza per la
pensione. Le donne sono particolarmente a rischio, poiché come sappiamo
spesso lo stipendio è inferiore a quello dei loro coetanei maschi, soprattutto
a causa del divario retributivo di genere.
A proposito di donne, nell’industria della bellezza c’è un tema che
spesso viene ignorato, o almeno messo un po’ in secondo piano: le necessità
profonde di chi entra in menopausa. Se ne sente parlare poco, quasi come
fosse uno degli ultimi tabù. Eppure, riguarda una fetta importante di donne
che fanno parte oggi della Generazione X e che hanno una certa autonomia
di spesa. Tradizionalmente la menopausa rappresenta un momento
importante e, con le aspettative di vita sempre più alte, può segnare
addirittura un nuovo inizio. Tutti ricordiamo la campagna di Dove “per la
vera bellezza” nel 2004 con oltre 200 milioni di persone raggiunte in tutto il
mondo. L’immagine della campagna presentava sette donne diverse, di cui
solo una potrebbe essere considerata “meno giovane”. Uno dei maggiori
errori commessi dai marchi, Dove compreso, è probabilmente quello di
collocare una persona con i capelli color argento come rappresentazione
simbolica del mercato over 40. Ma possiamo davvero basarci sul riduttivo
connubio “grigio uguale età che avanza”?
Fortunatamente, ci sono small data incoraggianti. Per esempio, le
ricerche di termini come “donne leader”, “donne forti” e “donne diverse”
sono aumentate del 168-202% su Getty Images negli ultimi tempi. E marchi
come Holland & Barrett in Gran Bretagna hanno compiuto passi
significativi per portare avanti il discorso sulla menopausa, creando la
campagna crossmediale per i trasporti londinesi Me.No.Pause, che ha
messo in luce le sfide che le donne affrontano durante questa fase,
mostrando che riaffermare la propria identità è un diritto. Anche le riviste
sono interessate da questo lento e inesorabile cambiamento. British Vogue e
L’Oréal si sono uniti per un’edizione speciale nel maggio 2019 incentrata
sulle donne over 50, con Jane Fonda come protagonista. Infine, ci sono le
influencer sui social media. Per esempio, la sessantaseienne Melissa Gilbert
ha più di 115.000 abbonati al suo canale di bellezza su YouTube, Melissa55.

MILLENNIAL

Nati dal 1981 al 1996, il loro nome ufficiale è Generazione Y, anche se


meno usato dai media. Hanno visto in televisione gli attentati dell’11
settembre e il Grande Fratello con la Bignardi, ma soprattutto sono stati
entusiasti testimoni dell’exploit dei social media e della sharing economy. È
un gruppo che ama i formati visivi ed è sensibile al gusto estetico che
oscilla tra le felpe flou di Chiara Ferragni e le palette pastello di Wes
Anderson. Anche per questo, Instagram è uno dei social media di
riferimento.
Una narrazione popolare vuole che la convivenza intergenerazionale stia
producendo una generazione di adulti pigri, fragili e immaturi. In effetti, di
fronte a problemi economici crescenti e a un senso generale di precarietà, in
parecchi stanno ritardando il matrimonio, rinunciando alla proprietà di
un’auto e, a volte, tornando anche a vivere con i genitori senza avventurarsi
nella terra promessa di una vita autonoma e di percorsi di carriera
scintillanti dopo l’università. Ma non tutti sono d’accordo. Alcuni studiosi
rifiutano l’idea che siano incapaci; l’ambiente amorevole e premuroso di
casa, anzi, potrebbe invece averli resi più stabili rispetto a chi è più isolato e
finanziariamente molto stressato.

L’innamoramento per i figli

Se è vero che gli Y sono più reticenti nei confronti delle tradizionali tappe
di vita, c’è chi ha preso coraggio e ha scelto di fare spazio a un bebè. A
differenza della generazione precedente, i millennial vivono le loro
relazioni con i figli pensando a un doppio obiettivo: essere genitori, ed
essere amici. In generale, sono genitori che si concentrano molto sul
preparare i bambini alle sfide del futuro, e così tendono a lasciarli esplorare
da soli il mondo, per assicurarsi che crescano autosufficienti. Vogliono
essere genitori migliori rispetto ai propri, che erano meno educati a
esprimere i sentimenti e la vicinanza emotiva. John Marsden, autore di The
Art of Growing Up (Macmillan Australia, 2019), concorda sul fatto che
spesso si tratta di genitori “innamorati” dei propri figli piuttosto che genitori
che li “amano”. La differenza è sottile ma il timore dello scrittore
australiano è che questo tipo di genitorialità possa rivelarsi tossica. In
effetti, quelli di oggi sono i neonati più seguiti di sempre, sottoposti a
telecamere, pannolini intelligenti, calzette che rilevano la frequenza
cardiaca e i livelli di ossigeno, nonché sensori di movimento che attivano
allarmi in caso di mancata rilevazione del respiro regolare.
Insomma: è innegabile il ruolo crescente della tecnologia nella vita
famigliare, che avvicina e coinvolge sempre di più madri e padri ai piccoli,
fino agli eccessi del sharenting (la condivisione online della prole) che si
sovrappone al parenting (l’essere genitori). E se da un lato i social sono
pieni di splendide pance in vista e piccini patinati, dall’altro lato sempre più
millennial chiedono autenticità. Succede, per esempio, intorno a ciò che
riguarda ciò che avviene nel corpo femminile dopo un parto. A tal
proposito, la ricercatrice franco-israeliana Illana Weizman ha lanciato
l’hashtag #monpostpartum per incoraggiare le donne a condividere le
proprie esperienze e combattere il body shaming che colpisce questa fase.
Un altro punto di osservazione privilegiato su argomenti estremamente
intimi e a volte dolorosi.

L’estetica del fenicottero rosa

Se sui colori Pantone dell’anno si può discutere, sul rosa e tutte le sue
sfumature più calde non ci sono dubbi: è il colore più rappresentativo della
Generazione Y. Il “New York Times” l’ha ribattezzato Millennial Pink. Lo
hanno dimostrato le passerelle, le vetrine, gli arredamenti dei negozi, gli
stormi di fenicotteri gonfiabili in piscina e al mare. E la barbabietola rossa.
Sì, proprio lei, la rapa: piena zeppa di fibre, sali minerali, vitamine, chi
l’avrebbe mai detto che un giorno sarebbe stata associata a qualcosa di
tendenza? Anche qui, è sufficiente collezionare small data e cercare le
correlazioni. Date un’occhiata al feed “food” di Instagram, o agli scaffali
dei supermercati. Cameo, per esempio, propone una pizza surgelata con la
base hot pink di barbabietola. Perché è straordinariamente buona? Potrebbe
essere, ma soprattutto perché abbraccia la “Instagram season” che stiamo
vivendo. In realtà, da sempre dalla barbabietola si estrae il colorante
naturale rosso E162, ma mai come in questo periodo storico così attento alla
salute e alle diete vegetariane è proprio il tubero a essere messo in primo
piano. In Rete, le ricette di impasti e preparazione a base di barbabietola si
sprecano: fusilli e spaghetti rosa, hummus rosa, maionese rosa. Tutto così
rosa che sembra quasi di essere catapultati nel mondo di Barbie.
Rimaniamo a osservare le foto di Instagram. Tra le estetiche di questo
momento, la più interessante fa capo al Cottagecore. Mood pastorale,
foraging e ambientazioni rurali: il Cottagecore è uno stile di vita
caratteristico che sta conquistando parecchi giovani, soprattutto negli Stati
Uniti, grazie a una visione romantica della vita agricola. Questa sottocultura
può essere paragonata al movimento “Grandmillennial”, che vede la
Generazione Y allontanarsi da un’estetica minimale e pulita e avvicinarsi a
una più complessa, vintage e riconoscibile tra stampe, volant, lenzuola,
spille e catenine per gli occhiali. Perché accade? Perché i millennial stanno
cercando di esprimere il loro stile personale con pezzi unici, carichi di
tempo e storia, chic e con carattere, come solo gli accessori dei cassetti nei
nostri nonni hanno.
È facile capire come questa tendenza si sposi bene con un senso di
individualismo e un’esigenza di fare ritorno alla natura, sogno accelerato
anche dalla quarantena sperimentata. Chi sposa l’idea del Cottagecore
apprezza i paesaggi rurali e li percepisce innocenti e sicuri. Forse è anche
incauto definirlo “nuovo trend”, perché in realtà intercetta una tensione
latente da sempre, che ha robuste radici nella dicotomia città vs campagna.
Per chi vive in un centro urbano e si sente soffocato dal trambusto, il
fascino del Cottagecore è innegabile, perché ha una dimensione rilassante e
domestica. È aspirazionale, perché romanticizza l’idea della quotidianità
rurale, nascondendo tutti i possibili problemi legati a tale stile di vita. E
allora quello che accade è che i millennial, soprattutto, cercano di ritagliare
spazi Cottagecore anche negli appartamenti cittadini, coltivando le erbe
aromatiche sul balcone dentro vecchi vasi vintage o impastando il pane.
Concentrandosi su una vita domestica semplice e appagante, il Cottagecore
offre la possibilità di avere uno sbocco digitale per il proprio stress: lo
stesso pubblicare foto con questa estetica pare abbia un effetto calmante,
poiché aiuta a distogliere lo sguardo dalle incombenze e a immaginarsi
altrove.

Il cibo durante il lockdown

Prima della pandemia, più della metà della Generazione Y pensava che la
pianificazione dei pasti fosse troppo laboriosa. Durante l’isolamento,
invece, le abitudini sono cambiate per forza di cose: nei primi tempi era
piuttosto complicato fare scorte, sia nei supermercati cittadini sia online, e
preparare la lista della spesa mirata era piuttosto imprescindibile. La
maggior parte di noi si è ritrovata in dispensa molti più ingredienti del
solito: scatolame, conserve, lievito. Anche chi non aveva mai avuto tempo o
voglia di impastare, si è dato da fare; nel mezzo della crisi globale, il forno
è stato una fonte di gioia e di orgoglio. A suon di hashtag come
#iocucinoacasa, molte persone si sono calate nei panni di chef domestici, tra
ricette complesse e lievitazioni naturali. Il rito è continuato anche quando le
misure restrittive si sono allentate, le spese gigantesche si sono ridotte e i
negozi vicino a casa hanno recuperato il loro ruolo nella nostra quotidianità.
L’avrete intuito. Nella stragrande maggioranza dei casi, raccogliere
small data e indizi tra gli hashtag ha senso solo se possiamo mettere in
relazione il materiale con l’attualità. Con il lockdown, i millennial sono stati
costretti a fare i conti con le proprie cucine, a volte scoprendo che alla fin
fine non erano nemmeno così incapaci come pensavano. Al contempo, gli
chef, quelli veri, si sono prodigati a starci vicini con ricette e suggerimenti
“for dummies”. Dopo un buon numero di live streaming, Bruno Barbieri per
esempio a inizio maggio 2020 ha lanciato il suo corso professionale tutto
online: 14 lezioni, la prima inevitabilmente dedicata alla pasta fresca.
A proposito di tagliatelle e tortellini, nulla è più confortante di gustare
un piatto legato all’infanzia, alla nostra famiglia o a un momento della vita
particolarmente felice (e più semplice). Il blocco ha tenuto lontano molti di
noi da questi sapori, dalla lasagna della nonna alla paella dell’ultimo
viaggio, ma spesso siamo corsi ai ripari grazie alla condivisione online di
ricette. Anche molti ristoranti si sono attrezzati per recapitarci a casa i nostri
piatti del cuore, a volte già pronti, altre volte da assemblare. Il COVID-19,
stravolgendo la routine quotidiana non più legata ai ritmi serrati del lavoro
fuori casa, ha spinto molte persone a cambiare anche abitudini e orari. Per
esempio, in tanti hanno iniziato a fare per la prima volta colazioni più sane
e complete, anziché limitarsi a un caffè veloce; altri, invece, hanno fatto
proprio il momento della merenda a metà pomeriggio, come si faceva
sempre da piccoli. È una questione di più tempo a disposizione, ma anche di
più apertura verso il prendersi cura di sé, in modo auto-indulgente. Come
sappiamo tutto questo? Osservando i contenuti online.
Infine, le piattaforme tecnologiche hanno permesso alle persone di
tenere vivi, seppur a distanza, alcuni rituali come quello dell’aperitivo.
Molti brand si sono dati da fare in questo senso, facendo recapitare
rifornimenti di alcol e cocktail fai da te, come quelli monodose già mixati.
E se da una parte gli introversi hanno potuto godersi un bicchiere senza
contatto sociale, coloro che erano abituati ad andare in giro per bar e club si
sono accontentati delle versioni virtuali dei ritrovi. BrewDog, per esempio,
si è attrezzato per degustazioni di birra, quiz virtuali, nonché “serate” su
Zoom, con tanto di codice di abbigliamento e aree VIP. Nuovi spazi digitali,
insomma, per nuove rilevazioni.

Consiglio di lettura #4

L’ora di Beautiful, van Basten, Jurassic Park, le tartarughe ninja e i rangers. E ancora il
Tamagotchi, la Smemo, il walkman, Ambra di Non è la Rai, MTV. Notti magiche. Atlante
sentimentale degli anni Novanta (UTET, 2017), compilato da Errico Buonanno e Luca
Mastrantonio, racconta un’intera generazione che oggi vive di revival: si commuove se i Take
That si riuniscono, va alla ricerca dei vecchi compagni su Facebook, sceglie il Winner Taco al
bar. Se siete cresciuti con Snake sul Nokia, non potete non immergervi in questo almanacco
illustrato.

GENERAZIONE Z

La Generazione Z è arrivata tra il 1997 e il 2009, con la crisi economica da


una parte, e l’evoluzione della tecnologia dall’altra, e dopo grandi eventi
come la caduta delle Torri Gemelle, la recessione del 2008 e l’elezione di
Barack Obama. Nati con il cellulare in mano, questi ragazzi sono
soprattutto creatori di contenuti, ancora più dei loro predecessori. E lo
testimonia il successo di app come TikTok, per esempio. Tra l’altro, da non
dimenticare che gli Z sono nati in un momento storico piuttosto
competitivo, dove i loro coetanei già giovanissimi sono diventati famosi in
Rete o hanno già pubblicato svariati libri con colossi editoriali. I confini tra
online e offline, dunque, sono del tutto sfocati, se non ininfluenti. Non se ne
stanno con le mani in mano, e iniziano già adesso a prepararsi al futuro.
Anche per questa generazione, ci sono alcuni fili comuni che collegano i
ragazzi tra loro in modo trasversale.

La praticità dei messaggi vocali

Se ci guardiamo indietro, è incredibile l’abisso comportamentale che


possiamo tracciare. All’inizio degli anni 2000, i millennial nella loro prima
adolescenza stavano litigando con il modem 56k, aspettando pazientemente
il cacofonico suono dei toni digitali. Una volta connessi, IRC, ICQ e poi
MSN erano le terre di destinazione per chattare in tempo reale.
Parallelamente, cresceva l’utilizzo degli SMS, e in parte minore degli
MMS, messaggi in differita insomma, come lo sono anche le e-mail.
Con l’avvento degli smartphone, i contatti si sono fatti da un lato più
visivi (pensiamo a Skype) e dall’altro lato più intimi, sempre di più, fino ad
arrivare ai giorni nostri. E così, se i millennial hanno fatto della
messaggistica istantanea testuale il loro modo di comunicare prediletto –
prima di passare alle app focalizzate sull’immagine come Instagram e
Snapchat – gli Z hanno abbracciato da tempo l’oralità con le note vocali. In
effetti, pensiamo a quanto siano più personali dei messaggi di testo, con
tutto il carico di emozione che una voce può portare, e a quanto siano anche
più efficaci in situazioni in cui il tempo è poco. Perché perdere minuti
preziosi componendo un messaggio quando è possibile dirlo a voce?
Ma vediamo le tracce che si nascondono dietro alla scelta che porta gli
adolescenti a parlare piuttosto che a digitare. Innanzitutto, la popolarità
delle note vocali tra i giovani coincide con un più ampio apprezzamento per
le tecnologie vocali. Non c’è da meravigliarsi, perché è soprattutto una
questione di comodità: una persona media parla a una velocità di circa 150
parole al minuto e riesce a digitare solo circa 40 parole al minuto. Come
prima generazione della “voce”, gli Z stanno conducendo una vera
rivoluzione. Si stima che entro il 2023 entreranno in funzione otto miliardi
di assistenti vocali, e che a quel punto il commercio vocale avrà un valore
di 80 miliardi di dollari all’anno. Tra qualche anno ripenseremo con
nostalgia all’immagine di un vagone della metro pieno di persone che
digitano compulsivamente sui loro schermi: lo scenario che avremo sempre
più sotto gli occhi sarà quello di telefoni premuti sotto il mento per
registrare messaggi o all’orecchio per ascoltare le risposte ricevute.
La popolarità delle note vocali è innegabile. Il fatto che Amazon abbia
venduto oltre 100 milioni di dispositivi Alexa dimostra un crescente
desiderio di esperienze vocali. Anche Facebook, da sempre concentrato
sullo scambio testuale, sta tentando nuove vie con le clip vocali per gli
aggiornamenti dello stato, nel tentativo di attirare nuovamente gli utenti. Il
risparmio di tempo ed energie è sicuramente tra i primi posti delle
motivazioni che rendono così popolare l’oralità.
Anche la natura fugace delle note vocali ha il suo ruolo. L’attenzione dei
ragazzi continua a ridursi; la diffusione di esperienze video brevi come
quelle di TikTok ne è la prova. Anche se meno nel nostro Paese, negli Stati
Uniti Snapchat è altrettanto in voga, e le aziende lo sanno. Per esempio,
Warner Bros. ha collaborato con il social media per creare, grazie al
supporto della realtà aumentata, un comando vocale legato al film Shazam!.
Gli utenti dovevano semplicemente scansionare lo snapcode, dire “OK,
Shazam!”, e si ritrovavano con il costume del supereroe, completo di
fulmini e fumo.

La ricerca della giusta misura

Una cosa va detta: gli Z non hanno niente a che fare con l’approccio
tecnico-allarmista di molti boomer e X, sono solo più attenti alla propria
privacy proprio perché l’online è la loro vita, e non un’appendice. Anche se
non possiamo avere accesso ai loro account privati per tracciare small data,
indagare il perché li creano è già un ottimo punto di partenza per ampliare
la riflessione. La generazione che ha inventato i “Finstas” – gli account
Instagram privati dove pubblicare la quotidianità senza filtri – adesso sta
andando avanti a “FikFoks”, ovvero account TikTok sotto falso nome che
riducono la pressione di dover stupire e fare numeri a tutti i costi. Non a
caso è la fascia d’età che meglio ha accolto anche il mondo Instagram libero
dal conteggio pubblico dei “mi piace”, abbandonando l’ansia sociale che
invece tiene ancora in ostaggio parecchi millennial. Come veri nativi
digitali, non conoscono un mondo senza Internet, e sono andati ben oltre il
confine che divide ciò che è fisico e ciò che è virtuale. Il loro universo è
phygital, fisico e digitale. La rappresentazione più popolare dei ragazzi Z è
quella che li vede alle prese con il proprio smartphone, ma ciò che si
sottovaluta è che non sono isolati o alienati, bensì in costante connessione
con qualcuno. Anche la stessa formula “vedersi faccia a faccia” per loro
assume un significato completamente diverso e potrebbe voler
semplicemente dire avere una conversazione tramite il video di WhatsApp
o Zoom.
Il rovescio della medaglia è il fatto che non prendono in considerazione
un mondo senza collegamenti, dunque sono più soggetti alla paura di
perdersi opportunità e contatti. Ecco perché spesso avrete letto della
FOMO, acronimo di Fear of Missing Out, la paura di non essere sul pezzo.
È una generazione che, a diversi livelli, ha iniziato a preoccuparsi per le
questioni degli adulti molto prima rispetto a quella precedente. Sono
giovani pragmatici, più che sognatori. Sanno che quella dello studio
accademico non è l’unica via per aggiudicarsi un lavoro che dia
soddisfazione e che sia specchio innanzitutto dei loro valori. Non significa
che rifiutino l’istruzione: cercano semplicemente alternative online più
vicine ai propri interessi, gusti e aspettative. Sono indipendenti e interessati
alla iper-personalizzazione in ogni sfumatura. Anche politica, tanto da non
credere più di dover scegliere tra due partiti, tantomeno di dover aderire a
un unico simbolo.
Gli Z non hanno un confine netto nemmeno tra scuola o professione e
vita privata: è un tutt’uno. Cresciuti nel bel mezzo dell’instabilità
finanziaria, la loro visione e le loro prospettive future sono realistiche e
alimentate da un senso di competizione più sviluppato. Sono dunque anche
ambiziosi, e vogliono essere “proprietari” delle loro carriere. Sarà curioso
osservare e registrare, più avanti negli anni, come si relazioneranno nel
lavoro con i millennial, che saranno i loro capi.

Consiglio di lettura #5
Per approfondire il tema della Generazione Z potete fare riferimento al lavoro della studiosa Jean
M. Twenge: Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici
e del tutto impreparati a diventare adulti (Einaudi, 2018). In queste pagine, l’autrice ribattezza la
Generazione Z con il termine iGen: la i minuscola, abbreviazione della parola Internet, è un
evidente richiamo ai nomi di quei dispositivi che sono nati e cresciuti con lei. Non solo: la i
allude anche all’individualismo, che per questi ragazzi è ormai una caratteristica acquisita che fa
da substrato a un fondamentale senso di uguaglianza e a un rifiuto delle regole sociali
tradizionali.

La fluidità delle scelte personali

Il Capodanno 2020 aveva promesso a molti Z una miriade di riti di


passaggio: per i più grandi diplomi, scelte universitarie, vacanze con gli
amici; per i più giovani primi campeggi, primi baci e primi amori. Ma
l’arrivo del virus ha messo in stand-by tutto, cancellando eventi
programmati e foto di classe, e ribattezzando i teenager in quarantena come
quaranteen. La tecnologia, anche in questo caso, ha dato una mano a
recuperare il tempo perduto; negli Stati Uniti si è tenuto anche il ballo
virtuale di fine anno. L’hashtag #tiktokprom ha raccolto più di 3,1 miliardi
di visualizzazioni fino a oggi.
Anche per i ragazzi tra gli 11 e i 22 anni la pandemia ha evidenziato la
disfunzionalità di vecchi modelli e approcci. Inoltre, il momento di
emergenza li ha messi davanti a un’evidenza: le generazioni più anziane
privilegiano ancora il profitto. Oggi gli Z sono alla ricerca di ben altri valori
su cui incentrare la propria persona, come la sostenibilità, la giustizia
sociale e la sessualità.
Quello che colpisce della Generazione Z è l’uso dell’umorismo in Rete
per controbilanciare quanto seriamente prendono i problemi del mondo.
L’ambiente, la politica, la società: sono tutti elementi importanti per la loro
identità, temi che spesso vengono tradotti in meme e video leggeri, che non
vuol dire necessariamente frivoli. I loro TikTok prendono in giro il crollo
dell’economia per colpa dei boomer, scherzano sui politici e sulle loro
politiche, usano un tono giocoso per raccontare il cambiamento e, nel
periodo della quarantena, anche il distanziamento fisico.
Sono anche meno preoccupati delle etichette. I più giovani sono
decisamente più fluidi rispetto alle generazioni precedenti, anche dal punto
di vista della rappresentazione del genere in cui si riconoscono. La loro
identità è molteplice, sfaccettata, a volte solo in apparenza contraddittoria,
difficile da incasellare in “giusta” o “sbagliata”. E non sono le uniche
etichette che mal sopportano. Questa sfocatura dei contorni va in qualche
modo anche a spiegare la popolarità di TikTok, da cui possono prendere in
prestito pezzetti di ciascuna sottocultura. In questo modo, la Gen Z si sta
abbandonando a una tavolozza di identità contrastanti, e ciò rende la vita
dura ai brand che vogliono mettersi in contatto con loro, sfidandoli a
diventare più creativi, attenti e inaspettati.
GENERAZIONE ALPHA

L’ultima generazione è nata dal 2010 soprattutto da genitori millennial e si


estenderà fino al futuro 2025. Insomma, è la prima generazione che ha visto
la luce interamente nel XXI secolo. Nel 2005, il gruppo di lavoro
coordinato dal demografo Mark McCrindle ha portato avanti un’indagine
sul territorio australiano chiedendo agli intervistati quale potesse essere la
definizione più esatta da dare a questa fascia e Alpha è sembrata la scelta
più naturale. Questo perché nelle materie scientifiche – come la
meteorologia con la lunga stagione degli uragani dell’Atlantico, per
esempio – una volta esaurito l’alfabeto latino o i numeri arabi, si passa
proprio all’alfabeto greco. E così hanno scelto di agire anche i sociologi;
seguiranno la Generazione Beta, Gamma, Delta, Epsilon.
Le alternative che qualcuno, timidamente, prova a proporre sono la Gen
Tech, la Net Tech oppure la Glass Generation, in riferimento agli schermi di
vetro dei dispositivi; nomi che risultano generici, poco identificativi,
sovrapponibili alla precedente Z. Ma le differenze tra i due archi temporali,
come vedremo, sono sostanziali.

Il punto di vista dei genitori


Tutto quello che sappiamo oggi degli Alpha arriva dagli small data che
seminano i genitori in Rete. I genitori dei millennial non avevano la più
pallida idea di cosa facessero i loro figli sulle chat room di IRC; i genitori
della Generazione Z faticano a capire gli effetti di formati effimeri ed
evanescenti come quelli di Snapchat o TikTok. E i genitori della
Generazione Alpha? Non solo i confini digitali sono molto più difficili da
individuare, ma anche in questo caso il divario generazionale nella
comprensione della tecnologia fa sì che i genitori, in un certo senso, siano
sempre un passo indietro.
Qualcosa abbiamo già accennato qualche pagina fa, ma vale la pena fare
un ulteriore approfondimento. Secondo uno studio del centro di ricerca
della Commissione europea, i genitori considerano le tecnologie digitali
positive ma allo stesso tempo sfidanti. Infatti, da un lato le tecnologie
digitali aiutano gli adulti a essere genitori più presenti; dall’altro lato,
invece, l’uso dei media digitali da parte dei bambini è percepito come
qualcosa di problematico che deve essere attentamente regolato e
controllato. Sta già emergendo una marcata differenza nell’atteggiamento
dei bambini. Aumenta l’ansia, ma anche l’esposizione a contenuti violenti e
a sfondo sessuale.
Molti genitori sono diventati proattivi nel limitare l’accesso dei propri
figli alla tecnologia; ci sono anche casi eclatanti, come Bill Gates, che non
ha permesso ai suoi di avere telefoni cellulari fino al compimento di 14
anni, o come la campagna di successo statunitense Wait Until 8th. Il portale
collegato ha registrato l’interesse di oltre 10.000 genitori, che hanno
promesso di non dare al proprio bambino uno smartphone fino all’ottavo
grado (13-14 anni), nella speranza di proteggerlo da effetti negativi tra cui
insonnia, ansia, depressione, cyberbullismo e poco tempo per gli amici.
Certo, la tecnologia può essere limitata in casa, ma alla fine farà parte
della vita di una persona, soprattutto quando un domani entrerà nel mondo
del lavoro. Inoltre, anche i mestieri tradizionalmente non tecnologici, come
per esempio il magazziniere, già ora richiedono familiarità con i dispositivi
portatili per tenere traccia dell’inventario. È legittimo dunque chiedersi se
l’eliminazione o la limitazione dell’accesso ai dispositivi digitali avrà un
effetto negativo sulla futura carriera di un bambino.
In un post sul blog di Common Sense Media, Leticia Barr, fondatrice di
Tech Savvy Mama, spiega l’importanza dell’aiutare i piccoli a capire in che
modo i messaggi di testo possono differire dalla conversazione parlata per
affrontare argomenti complessi. L’autrice, inoltre, sottolinea che la buona
genitorialità ha anche a che fare con l’avere pazienza e prestare attenzione
all’esperienza tecnologica di questi bimbi, piuttosto che rifiutare del tutto il
digitale.

L’immersione nella tecnologia

La generazione Alpha ha un rapporto molto diverso con la tecnologia,


soprattutto per quello che riguarda la privacy, l’automazione, e più in
generale il contatto fisico e vocale con i dispositivi. È anche molto più
flessibile nel considerare i dispositivi come “qualcosa con cui stringere una
relazione”, ma non per questo sostitutivi a un altro essere umano, semmai
complementari. La maggior parte degli Alpha ha di fatto un innato
equilibrio tra tecnologia, gioco, collaborazione e significato di ciò che viene
fatto.
Come detto, numerosi Alpha sono anche bambini che sono stati esposti
sui social media dai genitori, che hanno pubblicato molto della loro vita, dal
primo bagnetto al primo giorno di materna. Di conseguenza, è
comprensibile che non si aspettino di avere privacy o un qualche controllo
sui loro dati ora, anche se è probabile che lo richiederanno man mano che
cresceranno. In futuro, è possibile che passino a nuove piattaforme di social
media e app di messaggistica anonime (per esempio YOLO, Tellonym o
Curious Cat) per comunicare con gli amici, lontani dallo sguardo indiscreto
dei loro genitori.
Nonostante la relazione intima con la tecnologia, questa generazione
rimane fortemente interessata all’esplorazione e al gioco collaborativo
all’aria aperta. Gli Alpha giocano ancora fuori e il 72% continua ad
arrampicarsi sugli alberi, secondo una ricerca di Beano Studio condotta per
i brand. I bambini dunque riconoscono l’importanza delle relazioni
personali e dell’interazione umana – con forza maggiore adesso dopo
l’emergenza sanitaria. Fatta tale premessa, i risvolti positivi della relazione
tra digitale e bambini sono enormi. La tecnologia ha reso più facile
l’accesso alla cultura e a punti di vista globali, consentendo anche ai
bambini delle aree più rurali di imparare qualsiasi cosa attraverso i loro
dispositivi. Possono imparare a suonare strumenti con Yousician, nuove
lingue con Duolingo e Mango, nonché a programmare usando Kodable.
Oltre a fornire ai bambini l’accesso a video e giochi educativi, i
dispositivi digitali aprono la strada per la visione di serie, programmi e clip
on demand. I contenuti multimediali realizzati per i bambini possono
supportare il loro apprendimento offrendo allo stesso tempo una
rappresentazione preziosa della realtà senza stereotipi, e insegnando loro
tratti caratteriali importanti come la gentilezza e l’empatia. Un esempio è
Steven Universe, ambientato in un mondo in cui personaggi di diverse etnie
interagiscono tra loro, senza mai essere in disaccordo per via delle diverse
origini e culture.
I contenuti “a domicilio” su YouTube stanno diventando sempre più
popolari, soprattutto quelli che stimolano le competenze STEM,
dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics.
Interessanti, per esempio, i casi esteri di Coding Critters, RosieReality e
Funexpected, meritevoli anche di aver sgretolato lo stereotipo che voleva
soprattutto i maschi interessati alle materie più tecniche e scientifiche.

L’inclusività innata

Dai racconti online dei genitori su forum e community legate ad app


mobile, possiamo mappare ulteriori dati. I bimbi di oggi sono più
egocentrici e cercano soddisfazioni immediate, ma il fatto che stiano
nascendo in un mondo affollato e iperconnesso li rende di per sé più
equipaggiati di chiunque altro per affrontare i problemi che oggi fatichiamo
a risolvere. Al tempo stesso, gli Alpha si annoiano in fretta: passano da uno
schermo all’altro con facilità, scansionano in modo rapidissimo le
informazioni che hanno davanti, consultano video con e senza audio
indistintamente. Forse è sbagliato pensare che tale atteggiamento sia dettato
da un deficit di attenzione, forse è solo un modo diverso di gestirla.
Alcuni di loro, grazie alle pubblicazioni sui profili genitoriali, sono già
micro-influencer. Hanno anche una maggior predisposizione verso la realtà
aumentata, la realtà virtuale e l’intelligenza artificiale; su tutte le tecnologie,
quella della voce – con gli assistenti vocali per esempio – e quella delle
interfacce gestuali hanno la meglio.
Online è già possibile trovare alcuni studi interessanti sulla Generazione
Alpha. Quello più citato e accreditato è stato condotto su otto Paesi – Italia
compresa – da Hotwire e Wired Consulting. Intitolato Understanding
Generation Alpha, ci racconta, per esempio, che un genitore su quattro
chiede ai propri figli piccoli la loro opinione prima di acquistare un
televisore, un computer, un tablet o uno smartphone. In generale, gli adulti
sono certi che le abilità digitali dei bambini siano superiori rispetto alle loro
una volta raggiunti gli otto anni. In Italia l’età media per il sorpasso
tecnologico percepito si alza agli over dieci. Nelle abitazioni molti bambini
vivono già con dispositivi come Amazon Echo e Google Home, e i
giocattoli connessi stanno diventando la normalità; Hello Barbie di Mattel e
gli Hatchimals ne sono esempi. L’Internet of Toys, l’internet dei giocattoli,
è già una realtà.
Gli stessi giochi stanno cambiando, diventando naturalmente molto più
inclusivi. Con lo slogan “quando tutti giocano, tutti noi vinciamo“, la
pubblicità del 2019 (realizzata per il Superbowl) che mostra il nuovo
controller Adaptive di Xbox One di Microsoft è commovente e memorabile.
Lo spot è riuscito a parlare a tutti, soprattutto ai bambini con mobilità
limitata e ai loro genitori sereni. La mossa di Microsoft nel settore del gioco
inclusivo segna un impegno concreto per incidere in modo pratico e
positivo all’interno della società. Ma non è il solo brand. Mattel ha
distribuito la prima Barbie con un arto protesico, dopo la Barbie su sedia a
rotelle. Scelte che riflettono il fatto che i genitori millennial vogliono che i
marchi amati dai loro figli rispondano a valori inclusivi. Anche Playmobil e
Lego hanno lanciato sul mercato nuovi personaggi su sedie a rotelle e
mattoncini in braille.

Consiglio di lettura #6
Genitori ed educatori di Alpha? Una completa interpretazione del mondo digitale dal punto di
vista di bambini e preadolescenti la offre Figli virtuali. Percorso educativo alla tutela e alla
complicità nella famiglia digitale (Centro Studi Erikson, 2018). Gli autori, i giornalisti Annalisa
D’Errico e Michele Zizza, raccontano senza allarmismi come tamponare la “digital illiteracy”,
ovvero l’analfabetismo digitale, e trasmettere un uso corretto e consapevole di web, social, app e
chat. Due le indicazioni fondamentali: no a divieti intransigenti e no a cattivi esempi.
QUESTIONI INTERGENERAZIONALI

Fino a qui abbiamo visto come la suddivisione generazionale possa aiutarci


a restituire un contesto alla nostra ricerca di small data. Ci sono invece
tematiche che toccano in modo trasversale le diverse età. Alcune le
abbiamo incontrate con il nostro racconto tra i Silent e gli Alpha: la
solitudine, le relazioni affettive, la politica, la religione. Esistono poi
argomenti che più di altri sono fortemente influenzati dall’evoluzione
digitale in atto. Ne abbiamo scelti tre: il nostro rapporto con l’accumulo di
ricordi, la necessità di privacy rispetto all’esposizione social e la neutralità
dei corpi. Tre temi che emergono proprio dalle tracce online.

La memoria digitale

La crescita di iniziative di digitalizzazione in tutto il mondo, l’accessibilità


all’archiviazione digitale gratuita e i dispositivi digitali come smartphone,
fotocamere digitali ecc. aumentano la possibilità di darla vinta alla propria
inclinazione ad accumulare inconsapevolmente. Sono quattro le identità
culturali degli accumulatori digitali, che non rispondono a un’unica fascia
generazionale, ma a una serie di comportamenti precisi che hanno più a che
vedere con le attitudini caratteriali:
• Il collezionista: molto organizzato e sistematico, ama collezionare
file digitali, ma è cosciente di cosa sta accumulando, dove lo sta
accumulando e del singolo utilizzo.
• L’istruito: archivia i file perché gli viene chiesto di farlo, ma non ne
è particolarmente infastidito; lo fa soprattutto per ragioni legate allo
studio e all’archiviazione di dati.
• L’accidentale: lascia che le cose si accumulino passivamente, con un
certo grado di disorganizzazione; anche in questo caso, non ne è
disturbato, è consapevole.
• L’angosciato: è preso dal panico per via della quantità di dati e file
digitali che ha e non sa cosa farne; procrastina il momento in cui
dovrebbe mettersi a fare pulizia.
Tra il diffuso disturbo da accumulo digitale e la costante distrazione di app,
smartphone e tablet, sono sempre di più le persone che cercano di capire in
che modo un uso più consapevole della tecnologia possa aiutare a
preservare il benessere mentale e aumentare la produttività. Grazie alla guru
del riordino Marie Kondo, la ricerca di ordine è molto in voga negli ultimi
anni. Tuttavia, il metodo KonMari è strettamente legato al mondo fisico: le
nostre case, le aree di lavoro e gli oggetti al loro interno. Ma che dire invece
della sfera digitale, in cui passiamo una parte significativa della nostra vita?
È proprio qui, nel territorio dell’immateriale, che lottiamo contro un uso
compulsivo di dispositivi e app che ci impedisce di raggiungere il livello di
concentrazione richiesto per raggiungere obiettivi più ambiziosi (e finisce
per farci procrastinare le cose importanti). Nel 2018, il rapporto annuale
sulle tendenze di Internet pubblicato da Mary Meeker, partner di Kleiner
Perkins, ha rilevato che l’adulto medio ha passato quasi sei ore al giorno sui
media digitali, più del doppio del tempo medio giornaliero trascorso dieci
anni prima.
All’estremità opposta del minimalismo digitale c’è il disordine digitale.
Questo problema ha un chiaro parallelo fisico nell’accaparramento, un
problema riconosciuto anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Un risultato chiave della ricerca dell’OMS è che sembra essere più efficace
cercare di prevenire l’accumulo piuttosto che cercare di convincere le
persone a scartare i propri beni. Tuttavia, prevenire l’accumulo di disordine
digitale può essere complicato quando si ha a che fare con più dispositivi,
contenuti multimediali onnipresenti, app e iscrizioni ai social media.

La riservatezza online

Quel momento arriva per tutti, boomer o teenager: siamo saturi dei social e
decidiamo di fare pulizia di contatti, privatizzare o, nei casi più estremi,
chiudere i nostri profili. Le ragioni sono molteplici, alle quali si somma
anche il fatto che la fiducia degli utenti nei giganti dei social media è
crollata a seguito degli scandali sulla privacy dei dati e della nascita delle
fake news. Di conseguenza, in molti preferiscono connettersi con persone
affini in micro-spazi più riservati, che credono possano offrire una migliore
sicurezza e un senso più reale di comunità.
Lo scandalo Cambridge Analytica e l’indagine del “New York Times”
hanno rivelato come le principali società tecnologiche abbiano avuto ampio
accesso a informazioni personali, facendo leva proprio sulla fiducia degli
utenti. Che poi, in verità, la fiducia delle persone nei social media è in calo
da tempo. Già nel 2014, il 91% degli americani “era d’accordo” o
“fortemente d’accordo” sul fatto che le persone avessero perso il controllo
sul modo in cui le informazioni personali venivano raccolte e utilizzate
dalle aziende.
È ben documentato che la sovraesposizione ai social media può avere
effetti negativi. Un rapporto del 2015 del Danish Happiness Research
Institute ha concluso che gli utenti di Facebook avevano il 55% in più di
probabilità di sentirsi stressati e che per effetto dei confronti sociali avevano
il 39% in più di probabilità di sentirsi meno felici dei loro amici non
presenti sui social. Benché sia possibile evitare tutte le piattaforme per
migliorare il proprio benessere mentale, alcuni potrebbero prendere in
considerazione una vasta gamma di alternative. Come una rete più piccola
di contatti, e più specializzata.
Per le madri Y e Z, per esempio, una di queste alternative è Peanut. La
fondatrice Michelle Kennedy aveva gestito un progetto di dating di
successo quando si rese conto che, come neomamma, aveva bisogno di
creare qualcosa di nuovo, che permettesse di confrontarsi con altre donne su
problemi riguardanti la femminilità e la maternità. Così, nel 2018, ha
lanciato il suo progetto, una sorta di Tinder per mamme. Oggi è una
piattaforma in cui si possono porre domande a tutta la comunità su
un’ampia varietà di argomenti, dal lavoro al fare sesso, con tanto di gruppi,
sia su base locale che di interessi di nicchia.
C’è un altro aspetto interessante. Per garantire sicurezza e privacy in
uno spazio in cui le donne devono sentirsi libere dal giudizio, Peanut ha un
rigoroso processo di accesso che richiede agli utenti di verificare il proprio
genere e incoraggia la comunità in generale a segnalare tutto ciò che appare
sbagliato. I moderatori indagano e rispondono alle varie preoccupazioni
espresse entro 24 ore dalla segnalazione ricevuta. Inoltre, il business non è
basato sulla pubblicità.
Nel tentativo di combattere il modello capitalistico di sorveglianza
utilizzato da molte piattaforme social, l’imprenditore e attivista britannico
Pete Lawrence ha lanciato invece un sito privo di algoritmi, big data e
pubblicità. Campfire Convention si basa infatti su utenti che si uniscono per
creare una comunità che faccia del bene comune, incoraggiando eventi
reali, faccia a faccia. L’insight dietro al progetto in questo caso è la sfiducia
delle persone nei confronti delle grandi aziende tecnologiche, e dimostra
come il potere delle comunità rimanga forte soprattutto per la creazione di
movimenti di attivisti per il cambiamento sociale, culturale o climatico.

La neutralità dei corpi

Insegnare a essere positivi rispetto al proprio corpo aiuta le persone a


sentirsi bene con se stesse a prescindere dalla propria dimensione,
attenuando l’idea che il grasso sia per forza un indicatore di cattiva salute.
Nonostante le buone intenzioni all’insegna dell’inclusività, online il tema
però via via è diventato dominio di donne formose, attraenti e troppo spesso
con la carnagione chiara, escludendo così d’ufficio tutta una serie di
minoranze. Le stesse influencer della “body positivity” in realtà hanno
spesso semplicemente tutte le curve al posto giusto. Di conseguenza, chi
non è armoniosamente sinuoso può avere non poche difficoltà a sentirsi
accettato. Basta dare un’occhiata a cosa appare su Google Immagini
cercando la parola “curvy”.
Non sono argomenti semplici, perché per tanto tempo abbiamo
interiorizzato che il nostro valore deriva in prima battuta dal nostro aspetto.
Inoltre, lo sappiamo: la maggior parte delle persone non è del tutto
soddisfatta dell’aspetto del proprio corpo, e un buon numero di queste è
disposto a fare qualsiasi cosa per ottenere il corpo perfetto. In un simile
contesto, però, si sta facendo largo sui social media la “body neutrality”, un
modo di accettare il proprio corpo e quello degli altri eliminando il giudizio,
davanti allo specchio e alla Rete.
La comunità I Weigh dell’attrice Jameela Jamil ha contribuito a portare
la neutralità verso i corpi agli occhi del grande pubblico. Tutto ha avuto
inizio da un post, per poi trasformarsi in un flusso social dove le persone
potevano pubblicare immagini ed elencare i valori che andavano oltre al
peso o all’aspetto, come l’essere un buon amico. Con oltre un milione di
follower e quasi 50.000 post con hashtag #iweigh, la community si è ora
ampliata con un podcast, una newsletter, un club del libro su Goodreads e
un account Twitter. Si attinge al femminismo, includendo donne anziane,
queer e persone con disabilità in grado di identificarsi con il proprio corpo
senza giudizio.
Le persone non nascono odiando i loro corpi, ma a un certo punto il
confronto con gli altri le porta a darne una valutazione. Uno studio condotto
da ricercatori dell’Università del Minnesota rivela che l’insoddisfazione
corporea inizia prima dell’adolescenza e rimane costante almeno fino all’età
di 30 anni. Anche le fondazioni fanno la loro parte, soprattutto per i più
giovani. In Australia, per esempio, la Butterfly Foundation ha dato vita alla
campagna #TheWholeMe nel 2019, per supportare l’uso positivo dei social
media e aiutare gli adolescenti a superare i giudizi che nascono dai
confronti sociali. Ed è qui che è estremamente interessante osservare, grazie
alle condivisioni e agli interventi, l’evoluzione di una sensibilità condivisa
che non conosce confini socio-demografici.
CAPITOLO 3
I CINQUE LIVELLI DI INSIGHT
CULTURALI

ANCORA UNA VOLTA, PARTIAMO DA UNA DEFINIZIONE: un


insight è una singola conoscenza che abbiamo su una o più persone che ci
permette di stringere una relazione e di iniziare un dialogo. Ed è ciò che
permette a un brand, per esempio, di diventare rilevante agli occhi del
proprio pubblico, coinvolgendolo emotivamente. Funziona come nella vita
reale: più cose so del mio interlocutore, più ho possibilità di instaurare un
rapporto profondo, andando oltre alle chiacchiere da ascensore sul tempo-
che-fa. Se so che la mia vicina di casa vive da sola e fatica a camminare,
potrò offrirmi di farle la spesa di tanto in tanto. Al contempo, se sono un
produttore di porte blindate, dovrei senz’altro informarmi quanto più
possibile sui perché che spingono le persone a cercare un certo livello di
sicurezza. Solo in questo modo possiamo dare vita a oggetti narrativi meno
generici e più pertinenti.
Ci sono diversi livelli di conoscenza, dunque di spessore degli small
data: qui proponiamo un modello che ne prevede cinque, e li andremo a
raccontare dal più superficiale al più profondo.

IL PRIMO LIVELLO DI INSIGHT: I GESTI

Il primo livello ha a che fare con la nostra fisicità, con i gesti del nostro
corpo, delle nostre mani. Sia offline sia online.
In molte campagne pubblicitarie le aziende hanno giocato sulle piccole
conoscenze che avevano del proprio pubblico. Ricordate il claim di
Fonzies? Sì, “se non ti lecchi le dita godi solo a metà”. Perché queste dieci
parole ci hanno parlato per così tanti anni, segnando la storia della
pubblicità in modo indelebile? Perché partivano da un insight estremamente
superficiale, ma altrettanto potente: quando un cibo ci piace molto, siamo
disposti anche a leccarci le dita pur di continuare ad assaporarlo. Nel
linguaggio comune, infatti, il “leccarsi le dita” (con la sua variante
mascolina o gattofila, “i baffi”) simboleggia proprio un qualcosa di molto
appetitoso, squisito, e per estensione il sintagma viene usato anche per altre
cose, non commestibili, che sono di nostro pieno gradimento. Il gesto del
leccarsi le dita, dunque, appartiene ai più golosi, e alzi la mano chi,
istintivamente, non l’ha mai fatto dopo aver mangiato una manciata di
patatine.

Le dita delle mani

Più in generale, le nostre dita sono soprattutto le chiavi di accesso della


quotidianità digitale. Pensiamo a quante cose può fare il nostro pollice
opponibile, per esempio: sblocchiamo lo smartphone, sfogliamo le storie
del collega, digitiamo i nostri malesseri di stagione sul motore di ricerca.
Guardatevi il pollice della mano che usate di più, e poi anche il vicino
indice: quelle due dita lì, esatto. Due dita che con un tap ci permettono di
mettere un like sotto un post di Gianni Morandi su Facebook, con uno zoom
di ingrandire un’infografica su Pinterest, con uno scroll di leggere la
bibliografia di Roberto Bolaño su Wikipedia, e con uno swipe di passare da
una storia all’altra su Instagram. Secondo una ricerca di Change Sciences,
lo scroll è il movimento più utilizzato di tutti, con il 94% delle persone che
lo fa oltre tre volte in dieci minuti online. Lo swipe occupa il secondo posto
di questa classifica (77%), seguito dal tocco (72%). Nel tentativo di rendere
la progettazione dell’interfaccia utente più intuitiva e fluida, i brand stanno
incorporando questi gesti umani in diverse azioni digitali.

Il ruolo di Tinder
Tinder ha avuto un ruolo fondamentale nel far salire in classifica lo swipe,
anche se non tutte le app hanno avuto la stessa fortuna, se pensiamo a
Instagram che nel 2018 ha testato lo scorrimento orizzontale per sostituire
quello verticale provocando parecchi malcontenti. Perché dunque Tinder sì,
e Instagram no? Una ragione potrebbe essere funzionale: l’applicazione di
incontri è fondamentalmente un catalogo di persone in carne e ossa che si
può sfogliare fino a che non si arriva alla pagina che interessa. E più
sfogliamo, più ci viene voglia di sfogliare, perché siamo irrimediabilmente
curiosi e perché pensiamo che, profilo dopo profilo, potremmo incrociare lo
sguardo seducente della nostra anima gemella. Lo swipe diventa così,
lentamente, un automatismo che, a volte, può trasformarsi anche in
un’ossessione compulsiva. In fondo, parliamoci chiaro, l’obiettivo di Tinder
non è trovarci l’uomo o la donna dei sogni, ma è quello di farci rimanere tra
le sue pagine più tempo possibile, per spingerci poi verso i servizi premium,
che accelerano l’esperienza mobile.

Come cambiano le inserzioni online e gli ecommerce

Gli stessi blocchi pubblicitari stanno cambiando volto tenendo in


considerazione questi insight fisici. Basti pensare al rilascio dello scorso
giugno di Swirl, un formato di annuncio display digitale di Google che
consente alle persone di ruotare e interagire con i prodotti online come se
fossero effettivamente nelle loro mani. A differenza degli annunci statici
che mostrano solo una facciata di un prodotto, gli annunci 3D offrono alle
persone una comprensione più approfondita dei prodotti prima di
acquistarli. Sebbene questa innovazione offuschi ulteriormente i confini tra
il mondo online e quello offline, è interessante capire come tale
presentazione online possa influenzare davvero la nostra percezione.
Anche gli ecommerce sono attenti a captare i comportamenti delle
persone. La maggior parte di noi integra lo shopping nei negozi sul
territorio con quello online, ma cosa sappiamo delle differenze
comportamentali tra le due modalità? Sappiamo, per esempio, che ci sono
ricerche che riguardano la presentazione dei prodotti sugli scaffali che
evidenziano come il nostro occhio sia coinvolto quasi sempre dalle
posizioni centrali. Purtroppo, invece, esiste una lacuna di ricerche sulla
presentazione online dei prodotti, anche se qualche piccolo dato possiamo
tracciarlo. Prendiamo un paio di scarpe del brand Camper come esempio.
Sul sito le vediamo rappresentate come appaiono agli altri una volta
indossate, da destra, da sinistra o dall’alto; solo le ultime due foto mostrano
immagini più tecniche, di suola e di profilo. Tale scelta è collegata al fatto
che, inconsciamente, siamo interessati innanzitutto a come possiamo
influenzare le percezioni delle persone che ce le vedono addosso. E ancora:
ci sono poi prodotti rappresentati sempre in verticale, come le bottiglie di
vino (al massimo fronte e retro, per valorizzare il contenuto dell’etichetta),
che invece non ha senso inclinare in altre maniere. Eccole, le conoscenze
superficiali che ci aiutano a migliorare la comunicazione.
Inoltre, sappiamo che lo shopping nei punti vendita rispetto allo
shopping online ha come vantaggio il grado di intimità che offre alle
persone. Vedere, toccare, sentire e provare articoli sono i motivi principali
per cui le persone scelgono di fare acquisti nei negozi fisici. Offrendo modi
più “vivi” di sperimentare un prodotto online, per esempio proponendolo da
diverse angolazioni, i brand possono avvicinarsi molto di più alle
aspettative delle persone.
E ancora, sappiamo che è più probabile che le persone scorrano verso
sinistra se un prodotto è orientato a sinistra e viceversa. Ovvio, forse, ma
importante da ricordare. La letteratura psicologica lo chiama stimulus-
response compatibility, calcola la compatibilità tra la percezione del mondo
da parte di una persona e l’azione richiesta. Le interazioni “di pancia” sono
fortemente influenzate dall’orientamento, che ha un impatto sul subconscio.
Un meccanismo simile è legato all’Effetto Stroop, un esercizio per cui le
persone hanno davanti diverse parole e devono indicare il colore di quella
parola, e non ciò che c’è scritto, il più rapidamente possibile. Per esempio,
se davanti abbiamo la parola YELLOW scritta in rosso, la risposta corretta
da dare è proprio rosso e non giallo.
Quando sbagliamo, e a un certo punto succede, accade che via via
iniziamo a essere più consapevoli di cosa dobbiamo fare. Lo stesso errore /
auto-correzione si verifica anche quando le persone guardano prodotti con
orientamenti diversi. Dunque, se vedono un prodotto orientato a sinistra,
sono già predisposte a scorrere verso sinistra. Lo stesso vale se vedono
qualcosa che è rivolto a destra: sono predisposte a scorrere verso destra.
Consiglio di lettura #7
Non pensiate che l’individuazione di insight valga solo per le realtà B2C. La bipartizione tra il
business to business e il business to consumer è superata: siamo sempre e solo esseri umani che
si rivolgono ad altri esseri umani. Bryan Kramer in There is No B2B or B2C: It’s Human to
Human #H2H (Substantium, 2017) esplora le molteplici sfaccettature del perché e di come la
comunicazione oggi debba essere adattata per stare al passo con il nostro mondo sociale e
digitale in continua evoluzione e in rapido movimento. Attraverso aneddoti delle proprie
esperienze come presidente di una società di marketing della Silicon Valley, restituisce anche
strumenti pratici per pensare come umani. Solo in inglese.

IL SECONDO LIVELLO DI INSIGHT: LE


ESPERIENZE QUOTIDIANE E LE ABITUDINI

Il secondo livello di insight ha a che fare con la vita di tutti i giorni. A


entrare in gioco qui ci sono le cose di cui facciamo esperienza
quotidianamente, ma anche le nostre abitudini. Dunque, da un lato c’è il
bagaglio di conoscenze che abbiamo messo da parte negli anni: se saliamo
su un treno senza biglietto, il controllore ci multa; se abbiamo mal di
schiena, eviteremo di alzare dei pesi. Dall’altro lato, invece, c’è la
consuetudine di determinati comportamenti, che spesso fanno parte di
retaggi famigliari, attitudini caratteriali o scelte personali: non facciamo il
bagno in mare dopo aver mangiato la focaccia; preferiamo fare la doccia
prima di andare a dormire oppure dopo esserci svegliati.
Secondo uno studio pubblicato sul “British Journal of General
Practice”, le abitudini durature impiegano in media 66 giorni per formarsi e
per rimanere impresse nel nostro stile di vita, anche quando spariscono le
premesse che le hanno fatte nascere. Per via del COVID-19, per esempio, la
quasi totalità delle persone ha fatto proprie nuove consuetudini: entrare nei
negozi e sui mezzi di trasporto con la mascherina, lavarsi bene le mani,
cercare la giusta distanza per strada.
Ma non è solo l’emergenza sanitaria ad aver introdotto nuovi
comportamenti. I servizi di streaming hanno influenzano il nostro
comportamento con il cibo, per esempio, trasformando i nostri divani in
secondi tavoli. E ancora prima, le cucine open space nella nostra cultura
occidentale avevano già cambiato le regole del gioco, dando il permesso
alla televisione di stare vicino ai fornelli. Parallelamente, sono cresciute la
popolarità della consegna del cibo a domicilio e la pigrizia delle persone nel
preparare il cibo, che viene dunque esternalizzato.
E poi, abbiamo l’influenza dei social. Forse il fenomeno #food-porn di
Instagram è il miglior esempio moderno del modo di dire “mangiare con gli
occhi”. E che dire dei programmi su cuochi e cucine, come Masterchef o 4
ristoranti? Vedere il cibo ci fa venire più fame. Guardare un qualsiasi
schermo con un flusso video ci porta a mangiare in modo meno regolato; lo
stesso contenuto influenza il nostro comportamento: i film d’azione, per
esempio, ci portano a mangiare a un ritmo più rapido. Provare per credere.

La stagionalità occasionale

Rimaniamo sul tema del cibo per esplorare alcune abitudini che rispondono
al secondo insight. Vi siete mai chiesti perché cerchiamo alimenti specifici
in determinati periodi dell’anno? Che si tratti di panettone a Natale, zucche
ad Halloween o uova di cioccolato a Pasqua, ci sono alcuni cibi che sono
legati alle occasioni festive in modo indissolubile. Perché, per esempio,
difficilmente prenderemo in considerazione di preparare il cotechino con
lenticchie a inizio novembre? Abbiamo già visto come Google Trends ci
confermi che le persone cercano “cotechino” solo nel periodo delle festività
natalizie. Lo stesso vale per la parola “zucca”, che vede il suo picco solo a
fine ottobre; e così via per il pandoro, la colomba, la pastiera. Ora proviamo
ad aggiungere un nuovo tassello alla nostra ricerca, e indaghiamo insieme
gli insight, partendo da una case history che arriva dagli Stati Uniti.
Nel lontanissimo 2003, Starbucks creò una nuova bevanda stagionale
per l’autunno, in seguito al successo dell’introduzione di bevande destinate
al Natale come la moka alla menta e il latte allo zabaione. Tuttavia, anche
se i sapori di cioccolato e caramel-lo si dimostrarono i più popolari nei test
gustativi, l’azienda alla fine optò per il lancio del Pumpkin Spice Latte. Da
allora la bevanda è diventata un must a livello globale; Starbucks ha
dichiarato che il Pumpkin Spice Latte è il suo prodotto stagionale più
venduto, con oltre 200 milioni di vendite negli ultimi quindici anni. La
consistenza della zucca, lo zucchero sul pandoro, le spezie del vin brulé:
sono tutti gusti collegati a periodi specifici dell’anno, ma quanto conta la
stagione? Con i ristoranti di fascia alta e gli chef-celebrità che spingono il
concetto di “ingredienti di stagione”, certi cibi sono solo un’estensione di
un fenomeno già esistente? La risposta è assolutamente sì: la stagionalità
oggi ha significati diversi a seconda del contesto. C’è una “stagionalità
quotidiana”, che ci insegna che le arance sono un frutto invernale; e c’è una
“stagionalità occasionale” che celebra invece piatti e bevande specifiche.
I social media e la loro estetica hanno un ruolo decisivo. L‘abbiamo
visto per la barbabietola rossa, ma vale anche per il rabarbaro, che è
diventato popolare per la tonalità rosea, o per l’avocado e il suo verde
brillante.
Per via del fatto che gli alimenti stagionali oggi sono disponibili in
quasi ogni momento dell’anno, i prodotti che si concentrano in occasioni
speciali possono beneficiare del clamore che un tempo circondava gli
ingredienti appena raccolti. Inoltre, i cibi e le bevande a tema stagionale
piacciono per via della risposta emotiva che scatenano, segnando l’inizio
delle vacanze e le tradizioni annuali delle persone.
L’attesa poi aumenta il piacere. In fondo, ce l’hanno insegnato per la
prima volta da bambini: niente dessert fino a quando non abbiamo finito la
cena. Questo i brand lo sanno, e cercano sempre nuovi modi per stimolare
(e vendere) quel genere di feedback emotivo. Che si ami o odi il Natale, è
difficile spostare le tradizioni associate al cibo perché ciò che mangiamo ha
una risonanza emotiva assai forte. Le nostre emozioni sono un insight molto
più profondo delle abitudini, e le esploreremo quando scenderemo al quarto
livello.
Tornando alla bevanda alla zucca di Starbucks, nonostante sia
disponibile dall’ultima settimana di agosto, che è ancora “estate” in molte
parti del mondo, capitalizza l’attesa per Halloween e la stagione autunnale
nel suo insieme. I marchi celebrano le stagioni da anni, con regolari uscite
primaverili ed estive: per citare ancora Starbucks, si pensi al Violet Drink
nel 2018 e al popolare Unicorno Frappuccino dell’anno precedente.
Quest’ultimo, che rifletteva i colori e le temperature della primavera,
nonché il boom degli unicorni come trend anche in altre categorie
merceologiche, è stato definito come una delle migliori trovate di
Starbucks.
L’importanza del contesto culturale

Ancora una volta, non dimentichiamo di considerare il contesto culturale in


cui ci muoviamo. Nel film della Disney del 1994 Il Re Leone, a un certo
punto il piccolo suricata Timon e il facocero Pumbaa mostrano a Simba la
loro dieta: larve, blatte, formiche. Nella scena il leoncino, ovviamente,
alzava la testa al cielo poco convinto, trovando solidarietà tra noi spettatori.
Una condivisa contrarietà dovuta al fatto che, da bambini occidentali, ci
viene insegnato che gli insetti non si mangiano. Non fa parte della nostra
cultura.
Il regime che prevede l’alimentazione con insetti si chiama
entomofagia, ma una resistenza intrinseca fa sì che fatichi a diventare una
parte integrante nelle diete in tutto il mondo. Certo, soprattutto nella nostra
culla della dieta mediterranea sembra ancora fantascienza, o comunque
qualcosa da relegare alle esperienze da reality show, ma la pratica di
mangiare insetti ha profonde radici storiche. Nei paesi dai climi caldi e
tropicali come Asia, Centro e Sud America, Australia e Nuova Zelanda, la
gente sgranocchia gli insetti da migliaia di anni, con tanto di termiti fritte e
tacos di formiche tra le tante prelibatezze regionali. Basta fare una ricerca
su Instagram partendo dall’hashtag #entomophagy per rendersi conto della
portata del fenomeno che ci fa storcere il naso.
Le ricerche suggeriscono che le pressioni ambientali sul sistema
alimentare mondiale aumenteranno fino al 90% entro il 2050, e gli
scienziati stanno esortando le persone ad adottare diete a base vegetale, o a
prendere in considerazione gli insetti, che possono sostituire la carne rossa
per fornire le stesse proteine, ma con un basso impatto. Grilli, formiche e
altre creature stanno già spuntando in snack salati, polveri proteiche e
barrette di muesli. Online i prodotti a base di insetti riproducono spesso
questi ultimi sulla confezione, come quelli di Seek e di Thailandia Unique:
ci sono i lecca-lecca con gli scorpioni, la polvere di cavallette, i cioccolatini
ripieni di grilli. La tensione tra la necessità (futura) di mangiare insetti e la
novità di commercializzazione sta creando confusione nei consumatori. A
differenza del consumo di lumache o del sushi, i piatti a base di insetti
mancano di una storia culinaria e culturale in Occidente, che
incoraggerebbe le persone ad avvicinarsi a loro come un’esperienza esotica
e prelibata. Qualcuno ci prova: Joseph Bug Chef a Brooklyn, per esempio,
incorpora gli insetti nei suoi piatti gourmet. Insomma, è una questione di
abitudine. Ma non solo.

IL TERZO LIVELLO DI INSIGHT: LE


CREDENZE E I PREGIUDIZI

Se da un lato la questione degli insetti come cibo ha a che fare con la


mancanza di tradizione, dall’altro lato è altrettanto vero che può essere
legata a un insight ancora più profondo e difficile da scardinare: pensiamo
che scorpioni e cavallette abbiano un sapore disgustoso. Ecco allora che il
terzo livello di conoscenza ha a che fare con i pregiudizi, i luoghi comuni,
le credenze, le fedi, i tabù, le superstizioni. Sono elementi difficili da
mettere in discussione, poiché radicati nelle nostre convinzioni e, come è
facile prevedere, occorrono ben più di 66 giorni per cambiare sguardo.
Nel diciannovesimo secolo, le narrazioni delle pubblicità per i
“massaggiatori personali” avevano come protagoniste donne che
stringevano oggetti robusti e che sorridevano serene con la promessa di un
benessere a tutto tondo, dal sollievo dal mal di testa alla ritrovata luminosità
del viso. Non erano presenti riferimenti sessuali espliciti, ma quasi tutti
sapevano a cosa servissero davvero quei gadget. Ancora oggi si fatica, in
certi contesti, a parlare di masturbazione femminile. Per fortuna, rispetto al
passato, gli atteggiamenti nei confronti della donna e del suo corpo hanno
fatto molta strada, soprattutto grazie alla tecnologia e alla Rete che hanno
dato un’esposizione mainstream a temi che spesso sono stati oggetto di
stigmatizzazione, dall’esercizio del pavimento pelvico al controllo delle
vampate di calore, fino ad arrivare all’auto-stimolazione per raggiungere
l’orgasmo.
La cosiddetta female technology, abbreviata in FemTech, è un mercato
in forte espansione nel mondo e riguarda tutto il comparto tecnologico che
ha come focus la salute femminile, compresa quella legata al sesso e alla
sessualità. Ma non solo: la FemTech nasce e si sviluppa in un momento
storico di una più ampia campagna sull’emancipazione delle donne.
Secondo alcune stime, i recenti movimenti a difesa dei diritti di autonomia
femminile fisica e psicologica come il #MeToo, il #LeanIn e il The
Women’s March hanno coinvolto 4,2 milioni di persone in tutto il mondo.
L’espansione di tale settore e l’esigenza di rompere i tabù sul corpo
femminile hanno iniziato ad andare di pari passo, aprendo un dialogo
sociale autentico su questo tema. Negli ultimi anni, infatti, la tecnologia ha
iniziato ad aiutare le donne a risolvere problematiche e vulnerabilità che da
tempo venivano messe da parte, come nel caso delle app mobile dedicate al
tracciamento del ciclo e della temperatura basale come metodo
contraccettivo o per la ricerca di una gravidanza.
I recenti movimenti femministi hanno portato alla nascita anche di
piattaforme per il consenso sul sesso, come legalfling.io, basata su un
contratto tra le parti e una “stretta di mano digitale” prima di un rapporto
intimo. Si tratta dunque di un modo per certificare il consenso tra i due
partner, che ha come speranza quella di arginare l’epidemia di aggressioni
sessuali, soprattutto all’interno dei campus universitari. Un segnale che da
un lato ci parla della necessità di risoluzione di un problema sociale molto
ampio, e dall’altro lato è prova di come le donne stiano affrontando tale
problema proprio con la tecnologia.

Le fedi religiose

Cambia lentamente il modo di vivere il benessere sessuale, e cambiano


lentamente anche altri grandi temi secolari. Guardiamo l’India. Mentre la
vita di tutti i giorni diventa sempre più frenetica, molti indiani si ritrovano
senza il tempo di visitare templi lontani per adempiere ai loro doveri
religiosi. È da questo insight legato al rispetto delle credenze che nasce
ePuja, un portale che consente di esternalizzare tali impegni ordinando le
cerimonie di culto online e facendole fare al posto proprio direttamente al
tempio. Si tratta di un’app mobile che consente a una popolazione sempre
più in mobilità di mantenere una connessione con la propria fede, ma non
solo, perché non è limitata agli indù: circa il 20% delle cerimonie è
richiesto da non credenti, come ha svelato tempo fa The Atlantic. Uno dei
più gettonati? Il “dosha-clearing”, la pulizia degli effetti dannosi del cattivo
allineamento stellare. La piattaforma Shubhpuja propone persino di
coordinare pandit (sacerdoti) per eseguire puja nelle case della gente
nell’area di Delhi oppure via Skype: una sorta di Uber per la religione,
insomma.
C’è anche un altro caso curioso che interessa il continente indiano e che
desacralizza una delle cerimonie più sacre. JoinMyWedding è una startup
che cavalca l’interesse di chi è a caccia di esperienze unconventional e
vuole vivere a contatto con le culture locali, dando ragione a chi dice che
nella nazione il mercato dei matrimoni porta incassi. Il progetto
imprenditoriale nasce da un’idea di una giovane donna, Orsi Parkanyi, che
ha lanciato l’attività nel luglio del 2016. Funziona così: le coppie
pubblicizzano le loro nozze sull’omonimo sito, condividendo la propria
storia (per esempio, su come si sono incontrati), il prezzo dell’invito per
una o più giornate, e gli extra inclusi, di solito cibo, alloggio e una guida
bilingue che racconti ogni rituale; i turisti ne acquistano i biglietti, per un
costo medio di circa 150 dollari a persona. È curioso come l’iniziativa
incroci un secondo insight di terzo livello: se non si vive una destinazione
immersi negli usi e costumi locali, allora si perde il sapore dell’esperienza
lontano da casa, finendo per essere etichettati come turisti anziché come
viaggiatori.

Religioni e cultura pop

Anche l’estetica social gioca il suo ruolo nel cambio di paradigma


dell’approccio della religione ai fedeli. La casa editrice Alabaster, per
esempio, non ha semplicemente riproposto le Scritture, ma ha reinventato la
Bibbia per abbracciare il linguaggio visivo di Instagram. Grazie all’ars
combinatoria tra creatività e fede, e tra fotografia meditativa e citazioni
epiche, il lavoro che sta conducendo questo editore solletica l’appetito delle
generazioni Y e Z, per promuovere una sorta di auto-cura spirituale.
Alabaster offre infatti innanzitutto un approccio estetico alla fede,
dimostrando di aver capito che chi oggi ha tra i 20 e i 40 anni più che la
preghiera e la spiritualità cerca belle immagini sui feed dei social media e
oggetti di design per la casa che dicano qualcosa sulla propria identità.
Il linguaggio visivo trova la sua espressione qui anche attraverso i
meme, ed è interessante osservare come questo formato stia giocando un
ruolo nella vita religiosa dei più giovani: i meme stanno permettendo ai
cristiani di (ri)presentare la propria identità religiosa. Prendiamo Reddit
come territorio di osservazione: la sottocategoria /dankchristianmemes
dedicata ai meme sui cristiani e per i cristiani conta più di 500.000 iscritti.
Si tratta di uno spazio ludico che spesso vede i creatori prendere in giro se
stessi, rimanendo però sempre intrinsecamente fedeli ai temi religiosi. Il
meme aiuta a sdrammatizzare la fede, e i giovani fedeli non hanno alcun
problema a utilizzare il tono e l’irriverenza caratteristico di alcune aree
della Rete. In fondo, chi ha detto che la cultura pop non possa sposarsi con
la religione?
Il digitale non sta cambiando solo induismo e cristianesimo.
Storicamente, l’ebraismo ha fatto affidamento sul suo corpus interno per far
rispettare le norme sociali e perpetuare le tradizioni. Ma via via che la
tecnologia diventa sempre più pervasiva, cambia anche il modo di
rapportarsi con il proprio credo. Pensiamo alle abitazioni. Gli ebrei
ortodossi che aderiscono all’halakhah non possono far funzionare
l’elettronica durante lo Shabbat, che dura dal tramonto di venerdì fino al
tramonto di sabato, ma sono le nuove case intelligenti a dare una mano:
quando si avvicina l’imbrunire, i sensori di movimento si disattivano, tutti
gli apparati elettronici passano in modalità “no-touch” e le luci si spengono
in base a timer pre-programmati. E questo è solo un esempio tra i tanti.
I tempi cambiano, e gli effetti si vedono anche e soprattutto nelle nuove
generazioni. L’osservanza decrescente tra i giovani ebrei progressisti pone
degli interrogativi su come facilitare il re-impegno: in molti sperano che le
iniziative tecnologiche creative, come le app di meditazione per lo Shabbat
e le campagne sui social media, riportino l’attenzione all’ovile. Sebbene il
mondo ortodosso sia vario, l’atteggiamento prevalente nei confronti della
tecnologia è piuttosto uniforme: non la allontanano del tutto ma, al
contrario, la impiegano in un modo straordinariamente sofisticato. Per
esempio, le piastre riscaldanti di TechYidCo rimangono a 170 gradi per
mantenere caldo il cibo quando è vietata la cottura e caldaie ad acqua di
grandi dimensioni assicurano che si possa fare il caffè in ogni momento.
Non solo: i produttori di elettrodomestici tradizionali offrono frigoriferi e
lavastoviglie con “modalità Shabbat”, che disabilitano luci e allarmi.
Osservare gli small data tra le recensioni ci restituisce uno spaccato davvero
interessante.
Infine, i social media hanno anche contribuito a far crescere le imprese
chassidiche a guida femminile, sfumando il pregiudizio che siano questioni
da uomini. Le aziende di abbigliamento di modest fashion gestite da donne
chassidiche come The Frock NYC e Mimu Maxi veicolano gran parte della
loro promozione su Instagram, dove devono trovare un delicato equilibrio
tra “coprire” e apparire alla moda. Poiché il mondo ortodosso cerca un certo
grado di omogeneità, molti ebrei convertiti si sentono emarginati e si
rivolgono spesso a micro-comunità online per conoscere persone affini.
Artisti e scrittori si riversano per esempio su Hevria, un hub online per ebrei
creativi. Nel gruppo Facebook God Save Us From Your Opinion (che conta
quasi 20.000 membri), ebrei ortodossi si riuniscono contro la
discriminazione e il razzismo; su Torah Trumps Hate, qualche migliaio di
ebrei ortodossi di sinistra si oppone al sostegno di parte della loro comunità
a Donald Trump.

IL QUARTO LIVELLO DI INSIGHT: LE


EMOZIONI E LE PERCEZIONI

Più scendiamo in profondità tra le conoscenze che possiamo raccogliere


sulle persone in Rete, più scopriamo che gli small data fanno sì che gli
insight siano spesso concatenati. Il quarto livello è l’ultimo che ha a che
fare con la sfera individuale e tocca corde ancestrali: le emozioni.
Saper riconoscere le sfumature delle sensazioni che si possono provare
ci aiuta a raffinare la sensibilità di ricercatori di small data, perché entriamo
in contatto con la parte più viscerale delle persone. Per esempio, a pochi
giorni dalla fine della fase 1 dell’emergenza sanitaria della primavera 2020
in Italia, l’autore Davide Coppo, su un pezzo di “Rivista Studio”,
descriveva così una nuova emozione che stava riguardando tante persone:

È un desiderio taciuto e poco razionale che riguarda,


probabilmente, chi è riuscito a vivere la quarantena in solitaria,
scoprendo un nuovo equilibrio, riuscendo ad adattarcisi e a
trovarcisi inaspettatamente comodo. Non ha per forza di cose a che
fare con l’introversione, questa volontà di non dover uscire subito:
anzi, il lockdown come paradiso degli introversi è stata un’Arcadia
presto smentita dai suonatori di piatti delle 12, dagli aperitivi su
Facetime, dalle riunioni su Zoom ancora più frequenti di quelle già
mitraglianti in carne e ossa del mondo prima.
Rompere la quarantena, mi sembra, è come dover uscire da una
vasca da bagno quando l’acqua è ancora piacevolmente calda.
Come dover finire in fretta e furia un piatto che era appena stato
servito1.

Il motivo principale dietro alle diverse reazioni è la differenza sul modo in


cui estroversi e introversi prendono la loro energia. In generale, i primi si
sentono energizzati dagli ambienti; i secondi, invece, trascorrendo del
tempo da soli o in piccoli gruppi di persone che già conoscono. Tutto ciò ci
suggerisce che, mentre gli introversi hanno il desiderio di socializzare e
prendere parte ad attività ricreative e di intrattenimento, i desideri e bisogni
differiscono drasticamente per chi preferisce una vita nella propria comfort
zone. Per fortuna, ci sono l’ironia (e l’autoironia): basta dare un’occhiata ad
account Instagram come @introvertstruggles e @introvertdoodles, che
hanno saputo creare un senso di comunità online condividendo contenuti
sulle difficoltà di essere un introverso in un mondo (apparentemente) pieno
di estroversi. Alcuni brand avevano già intercettato questo insight profondo.
Uber offre agli utenti la possibilità di selezionare la modalità silenziosa per i
loro viaggi, che avvisa i conducenti che il passeggero non ha voglia di
chiacchierare; la catena ICHIRAN, che ha ristoranti di ramen in Giappone e
negli Stati Uniti, offre cabine da pranzo individuali per eliminare il rumore
e concentrarsi sul cibo. È dunque possibile che, a prescindere dal COVID-
19, aumentino anche i servizi su misura per la pace e la tranquillità delle
persone, e non solo per una questione di distanziamento fisico. Pensiamo al
sollievo di non dover più firmare all’arrivo di un pacco, alla consegna della
spesa sul pianerottolo, alla facilità con cui si può fare l’asporto in locali che
prima non prevedevano questa opzione. Offrire la possibilità di non
interagire potrebbe quindi andare incontro proprio a questa nuova necessità
di rispetto dei propri tempi, spazi e tratti caratteriali.
Gli introversi sono abituati a ritirarsi in uno spazio domestico per
salvaguardare la propria indipendenza e la propria routine e, per via della
fatica con le interazioni sociali di persona, sono ricettivi ai brand che
possono fornire loro modi di interagire diversi: comunicazione scritta, e-
mail, chat su un sito web per il servizio clienti anziché il numero di telefono
da chiamare sono i touchpoint preferiti.

Consiglio di lettura #8
Paura, rabbia, tristezza, gioia, sorpresa, disprezzo e disgusto, ma non solo. L’Atlante delle
emozioni (UTET, 2015) della storica culturale Tiffany Watt Smith ne elenca ben 156, dalla
basoressia, il fortissimo impulso che si prova quando si vuole baciare qualcuno, al kaukokaipuu,
l’inspiegabile nostalgia per un posto dove non siamo mai stati, fino alla cybercondria,
l’attaccamento ai nostri strumenti digitali. Mescolando storia, antropologia, scienza, arte,
letteratura e musica, l’autrice fa emergere tutte le espressioni più curiose e inedite con cui le
culture di tutto il mondo hanno imparato a definire le proprie emozioni.

Il sentirsi brutti

Rimaniamo sul tema dell’introversione e del disagio. Entriamo nel territorio


digitale del Forum dei Brutti, una nutrita community con una storia di
tormenti e scissioni che dura ormai da 13 anni. I numeri sono importanti:
813.856 messaggi, 42.936 discussioni, 14.032 utenti, 5.522.894 visite totali,
73.293 visite mensili. Alla base, c’è il movimento incel, abbreviazione di
“involuntary celibacy”, un gruppo di uomini che non riescono a trovare una
compagna indipendentemente dalla loro volontà. Su ilredpillatore.org sono
raccolti alcuni punti che raccontano meglio il pensiero della maggior parte
degli incel:

Uomini e donne sono biologicamente differenti, non solo


fisicamente ma anche psicologicamente.
Sia uomini che donne sono accomunati da due motivazioni
principali: sopravvivere e riprodursi.
Il valore di mercato di una donna è dato principalmente dalla
sua bellezza (riproduzione), mentre il valore di mercato di un uomo
è dato dalla sua bellezza (riproduzione) e dal suo status
socioeconomico (sopravvivenza).
La bellezza, contrariamente a quanto si pensa, non è soggettiva
ma è oggettiva.
Le donne sono più selettive degli uomini perché nel rapporto
sessuale corrono il rischio della gravidanza.
Il sesso è uno degli impulsi più forti della natura umana quindi
avere un elevato valore di mercato attribuisce un potere a chi lo
possiede.

Attraverso l’osservazione degli small data sul forum, è possibile


approcciare l’argomento in modo ancora più profondo, andando alla ricerca
degli insight profondi ed emozionali che tengono insieme online queste
persone.
Per esempio, il primo insight che colpisce è che non è possibile
derubricare tutti i contenuti sotto l’ombrello dell’odio. L’emancipazione
femminile e i più recenti movimenti legati al #MeToo hanno smosso effetti
significativi per molti appartenenti al genere maschile, a cui
improvvisamente è mancato potere sulla donna. Questo meccanismo, che va
in parte a smantellare la dipendenza della donna dall’uomo, ha fatto sì che
una delle reazioni fosse proprio quella della paura del confronto con le
donne. Ancora di più se sono “bellissime”, andando a risvegliare la
venustrafobia, la paura delle donne belle. Scrive un utente:

Essere brutti significa vedersi precluse esperienze che ti segnano


per il resto della vita. Le chiacchiere degli psicologi o i farmaci
degli psichiatri non alterano la realtà o cancellano il vissuto. La
bruttezza non è un handicap (magari verrebbe riconosciuta come
tale), è una colpa. Per rendersene conto basta vedere come le donne
trattano i brutti.

Il confronto è sincero e autocritico.


Anche io ho questa paura. Direi sia dovuto alla fusione tra la voglia
di conoscere quella ragazza e/o di fare bella figura e la perenne
concezione di noi stessi come esseri inferiori ed indegni. Si crea
incompatibilità: da un lato una bella donna circondata da diversi
contendenti delle alte sfere (rispetto a te), che può definirsi santa
solo per il fatto di non sputarci in faccia (ne avrebbe tutto il diritto)
e dall’altra un misero uomo, la cui vita è retta da illusioni. Poi
questo dipende da persona a persona: nel mio caso la mia pochezza
sociale non è dovuta così tanto all’aspetto, bensì ad una serie di
complessi mentali e paure.

Il sentirsi a disagio per la propria presunta bruttezza può essere moderato da


un uso patinato e calcolato dei social media, in particolar modo su
Instagram. Qualcuno scrive:

Se lo usi bene e fai foto fighe, oltre ad avere una vita sociale decente
(anche solo uscite con amici eh niente di assurdo) e fai belle storie,
puoi rimorchiare senza essere un figo assurdo… in più come è già
stato ripetuto più e più volte in questo forum, Instagram ormai è il
“curriculum sociale” di una persona. Quindi se non ce l’hai o
comunque hai due foto di te in bagno o in cucina e quattro follower,
purtroppo non vieni cagato. Ormai è una delle prime cose che
chiedono le tipe quando si fa conoscenza (con questo non sto
dicendo che condivido ciò che sono diventati i social oggi, sono solo
obiettivo).

Il giudizio più semplicistico e sbrigativo che si potrebbe dare potrebbe


essere “ok, hanno problemi psicologici, perché non hanno relazioni”, ma
non è così. La sensazione che si ha con l’osservazione etnografica
restituisce un quadro molto più complesso che affonda le radici in problemi
comuni a buona parte degli adolescenti (che evidentemente qui si
protraggono anche in età più avanzata), come per esempio i complessi
rapporti con i propri genitori. A pesare di più, il giudizio esplicitato o meno
di quest’ultimi.
Quasi ogni giorno mia madre mi ricorda che sono un fallito. Mio
padre ha un atteggiamento passivo e a volte litigano perché lei è
troppo dura con me. Quindi pessimo rapporto con mia madre,
normale con mio padre.

In alcuni post, è ricorrente anche il tema della diffidenza, del non potersi
fidare di nessuno.

Rapporto inesistente e ridotto al minimo per mia volontà; non c’è


da fidarsi degli amici e né tanto meno dei parenti; loro si fanno i
cazzi propri e io mi faccio i miei.

E ancora:

Una volta mia madre si era talmente incazzata perché io ho


l’abitudine a chiudermi al bagno e a stare al cesso mentre magari
sto sul forum oppure sto a leggere che mi disse “che all’età mia i
ragazzi scopano come luridi” (parole testuali).

Infine, emerge un ultimo dato interessante sul proprio corpo. Le


preoccupazioni più ricorrenti per questi ragazzi sono il non essere
abbastanza alti e l’avere una voce troppo poco virile. Riguardo il primo
timore, troviamo conferma anche in tante bio maschili di Tinder, dove
quello dell’altezza è un parametro messo spesso in primo piano; riguardo
alla seconda paura, invece, possiamo recuperare e collegare small data tra le
segnalazioni e recensioni dell’app Voice Analyzer, che codifica quanto il
tono di voce sia più o meno maschile. Si parla tanto di disagio e non-
accettazione della donna, ma non sono queste forse tracce che potrebbero
portare i brand a prendere in considerazione anche la fragilità dell’uomo?
IL QUINTO LIVELLO DI INSIGHT: LE
TENSIONI CULTURALI

Se gesti, esperienze quotidiane, credenze ed emozioni fanno parte del


singolo, c’è un ultimo livello che ha a che fare invece con una dimensione
collettiva: le tensioni che riguardano la società in cui viviamo. Per la fisica,
la tensione è uno stato che vede all’opera più forze di trazione e che
sollecita ciò che sta in mezzo, tra i due poli: una corda di violino, una fune,
un tema sociale. Ora, con una similitudine metereologica, dovete
immaginarle come delle perturbazioni che passano sui vari territori digitali:
a volte sono innocui cumuli di nubi, altre volte, invece, sono tempeste
prossime a scoppiare. Possono interessare la popolazione di un solo
ambiente online, oppure influenzare trasversalmente tutti. Ci sono delle
tensioni che rimangono sospese nell’aria, come la lotta per la parità di
genere, e poi ciclicamente con una scintilla scuotono la società rimettendo
in circolo la discussione; altre invece sono di relativa nuova formazione,
come la sensibilità verso l’uso incontrollato della plastica usa e getta.
Una volta chi si occupava di marketing sapeva che era il sesso a
vendere; oggi il nuovo mantra vuole la sostenibilità in cima alle armi di
coinvolgimento del pubblico. Un pubblico che non è così ridotto, tra l’altro:
secondo uno studio Nielsen, l’81% delle persone in tutto il mondo ritiene
fortemente che le aziende dovrebbero contribuire a migliorare l’ambiente.
Grandi brand come Levi Strauss stanno portando avanti da tempo
questa visione con azioni concrete; l’azienda ha annunciato, per esempio, il
suo obiettivo di utilizzare il 100% di energia rinnovabile per la produzione e
di avere una riduzione del 90% delle emissioni di gas a effetto serra entro il
2025, dribblando le accuse di “greenwashing” che invece colpiscono altri
marchi meno preparati (e più furbetti).
Ma c’è un secondo insight che entra in gioco e si intreccia al primo. In
un importante studio pubblicato sul “Journal of Consumer Research”, i
ricercatori hanno scoperto che i comportamenti ecocompatibili hanno
maggiori probabilità di essere percepiti come troppo femminili. Risultato?
Le donne prendono maggiormente in considerazione prodotti amici
dell’ambiente rispetto agli uomini. Dunque, c’è da chiedersi quali siano le
condizioni che hanno creato la correlazione “verde è femminile” e in che
modo i brand possano spostare la percezione pubblica. Sembra che questo
divario di genere sia stato attribuito alle differenze di personalità tra coloro
che si identificano saldamente come maschi e quelli le cui identità sono
fortemente “femminili”. Insomma, come se essere sostenibili minacci la
mascolinità. È plausibile pensare che la maggioranza delle donne sia più
coinvolta emotivamente nella sostenibilità perché immagina gli effetti del
cambiamento climatico e dell’inquinamento da plastica sugli animali e sulle
generazioni future?
Fare di tutta l’erba un fascio è sempre sbagliato. Tanti uomini (e tante
persone che si identificano nel genere maschile) sono altrettanto sensibili
all’ecologia, riciclano e si comportano in modo ecocompatibile, ma il
rapporto statistico è sbilanciato proprio perché entra in gioco il fattore
virilità. Quel che ne consegue è che, per far sì che la sostenibilità sia
davvero un affare di tutti, occorre scardinare innanzitutto la mascolinità
tossica. Ci stanno lavorando in parecchi. Lanciata nel 2018, la collezione di
trucco per uomo di Chanel ha suggerito un cambiamento nell’accettazione
dell’essere uomo. Gillette ha dato seguito a una campagna molto dibattuta
con un annuncio fatto insieme all’attivista transgender Samson
Bonkeabantu Brown, raffigurato mentre suo padre gli insegnava a radersi. E
così, creando oggetti narrativi che ripensano gli attributi della mascolinità, i
brand stanno – consapevolmente o meno – spianando la strada alla
sostenibilità.
Un altro modo per i brand di coltivare vere radici sostenibili negli
uomini è quello di creare campagne e packaging che parlino di pregiudizi
maschili. Per esempio, il brand Patagonia non solo afferma la mascolinità
con lessico e immaginario robusto, attivo e avventuroso, ma collabora solo
con aziende che condividono i suoi valori eco-sostenibili e dona una
percentuale delle vendite a enti di beneficenza etici e incentrati sul nostro
pianeta. Forse la soluzione è tutta qui: ammorbidire lo stereotipo dell’uomo
invincibile, e allargare quello del “verde femminile” a entrambi i generi.
Abbiamo visto qualche pagina indietro, entrando nel Forum dei Brutti,
quanto sia urgente il tema.

Consiglio di lettura #9
Lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Stanghellini su Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro
(Feltrinelli, 2020) ci parla del selfie e di come sia sintomo di un’epoca in cui omologazione
culturale, sociale, identitaria e corporea vanno di pari passo. Al motto “sono visto dunque sono”,
accertiamo la nostra identità solo attraverso lo sguardo degli altri, soprattutto in Rete. Troverete
nel volume un’approfondita analisi sul rapporto con il nostro corpo e con l’immagine che
abbiamo (e diamo) di noi stessi.

La sostenibilità dei viaggi

In un momento storico e culturale che vede sempre più persone prendere


consapevolezza riguardo l’impatto delle loro decisioni quotidiane
sull’ambiente, fanno capolino modi alternativi per godersi anche il tempo
libero. È per questo motivo che molti europei, ancora prima della pandemia,
hanno iniziato ad abbracciare la filosofia dello slow travel, il viaggio lento
ed ecocompatibile che permette, soprattutto con i treni, di scoprire posti che
si vedevano dal finestrino di un aereo. A contribuire a questo cambio di
passo ci sono anche gli upgrade a classi superiori, che propongono viaggi
più lussuosi, mitigando l’inconveniente dei lunghi tempi di percorrenza e
rendendo lo spostamento stesso una parte piacevole dell’esperienza di
vacanza.
Preferire i treni agli aerei, e più in generale esperienze di viaggio eco-
friendly, non è solo una moda del momento: i dati sembrano confermare
questa tesi. Secondo Nielsen, a livello globale otto persone su dieci pensano
che le imprese abbiano la responsabilità di migliorare la situazione
ambientale. E a proposito di small data, su Pinterest lo scorso anno le
ricerche della query “zero waste travel” sono cresciute del 74%.
Booking.com ha mappato che ben il 68% dei viaggiatori ha pianificato nel
2018 di soggiornare in una struttura ecosostenibile.
Al contempo, per contrapporsi all’hype del viaggio in aereo, si è fatto
largo un recente movimento: il flygskam, che pone l’attenzione sul
cambiamento climatico e sprona le persone a evitare di prendere voli.
Grazie ai social media e al sostegno di attivisti come Greta Thunberg, il
flygskam si è diffuso dalla Svezia ai Paesi Bassi (con il nome di
vliegschaamte), Germania (Flugscham) e Gran Bretagna (flight shame). Si
tratta della vergogna di prendere un aereo, e allo stesso tempo dell’orgoglio
di prendersi del tempo per sé e la gioia di ridurre la propria impronta di
carbonio. E poiché il trasporto aereo rappresenta oggi il 2% delle emissioni
globali di gas serra, dato che lo collocherebbe tra i primi dieci emettitori del
mondo se fosse una nazione, è comprensibile il motivo per cui l’industria
sia diventata un bersaglio collettivo.
I viaggi in treno della Thunberg in tutta Europa di qualche anno fa hanno
tracciato un modello per chi cerca di seguire il suo stile di vita, anche grazie
al racconto veicolato sui social media. Ivar Karlsson, la cui agenzia di
viaggi su rotaia ha organizzato il primo viaggio di Greta, ha dichiarato al
“Guardian” che gli affari sono raddoppiati in meno di un anno, a riprova
della crescente influenza del flygskam sulle scelte dei consumatori.
Il fenomeno non interessa solo la Svezia, dove tutto ha avuto inizio. Si
sta investendo nel Regno Unito, con il Caledonian Sleeper tra Londra e
Scozia e le sue flotte di nuovi vagoni di lusso, veri e propri alberghi su
binari; in Francia, con la SNCF che ha lanciato il programma sostenibile a
premi per i viaggiatori OuiGreen, che consente alle persone di utilizzare le
miglia del treno sui veicoli elettrici in città (e ha annunciato la volontà di
reintrodurre anche il treno originale Orient Express); in Svizzera ÖBB sta
prendendo in considerazione il rilancio delle rotte notturne verso Germania
e Italia.
Se da una parte l’investimento in nuove linee ferroviarie a lunga
distanza consente alle persone di attraversare il continente senza stress e
impatto ambientale, dall’altra parte pianificare un percorso via terra a volte
può essere difficile. Tuttavia, ci sono alcune piattaforme digitali dedicate
proprio ad aiutare i viaggiatori a organizzarsi. Guardando all’estero, il
gruppo Facebook di Tågsemester, per esempio, vanta oltre 90.000 membri
che condividono consigli sui viaggi in treno, mentre Seat61 è stato
progettato appositamente per aiutare le persone a mappare i percorsi in tutto
il mondo con facilità.
Il flygskam e lo slow travel stanno cambiando la percezione di cosa
significhi viaggiare, ma anche del valore della parola lusso. Una parola che
non è solo legata ai brand, ma sempre di più al privilegio di rimettersi in
contatto con la terra, respirare aria pulita, apprezzare le cose semplici della
vita. E lo stanno capendo molte realtà. Il programma di Tripadvisor
GreenLeaders propone un approccio alternativo presentando le migliori
strutture ecologiche. La società di energia rinnovabile Neste ha lanciato una
destinazione per le vacanze “senza rifiuti”, coadiuvata da Luxury Trains
Club. Il brand di Amburgo Sleeperoo va oltre e fornisce tende pop-up
sostenibili dedicate alle persone che vogliono immergersi in ambienti
mozzafiato.
Questa apertura aiuta anche il viaggiatore a scoprire nuove mete. È il
caso della Slovenia, una delle nazioni europee ad aver visto il boom del
turismo alla ricerca di sostenibilità. Il suo piano Green Scheme of Slovenian
Tourism, riconosciuto a livello internazionale, valuta le varie strutture del
Paese in base a diversi criteri, con le conseguenti etichette Gold, Silver e
Bronze che servono a rafforzare il loro appeal. Parecchie altre destinazioni
ne stanno seguendo l’esempio. La mitica Isola di Wight, per esempio, ha
lanciato una guida turistica slow.
Un’ultima considerazione va fatta in particolare sulla Generazione Z,
fortemente influenzata da Facebook e Instagram, due piattaforme che
fomentano il movimento contrario al prendere un aereo. L’hashtag
#jagstannarpåmarken (con il suo corrispettivo inglese #StayOnTheGround)
appare sempre più spesso sotto foto di vacanze per evidenziarne il costo
ambientale. Non solo: account come @HowNotToTravelLikeABasicBitch,
@thegirlgonegreen e @greensuitcasetravel stanno incoraggiando un
approccio più consapevole e rispettoso al turismo. Forse anche Instagram
sta facendo la sua parte, e post più ecocompatibili potranno davvero tradursi
in importanti cambiamenti culturali per le nuove generazioni.
1. Coppo D., Lo strano desiderio di voler restare a casa, “Rivista Studio”,
https://www.rivistastudio.com/fine-lockdown.
CAPITOLO 4
LE TRACCE DEL FUTURO ALLE PORTE

IMMAGINARE IL DOMANI

In questo capitolo daremo una lettura a cinque diverse evoluzioni in corso


della nostra sensibilità collettiva rispetto a temi molto importanti.
Scopriremo così attraverso piccole tracce online come il digitale, ancora
una volta, sia intrinsecamente coinvolto nel diffondere a macchia d’olio
nuove narrazioni. Più inclusive, più umane. Inoltre, vedremo in che modo i
brand stanno reagendo ai primi segnali deboli nell’etere.
Gli indizi fondamentali li abbiamo già collezionati, in fondo. Sappiamo
quali sono il contesto culturale e il territorio in cui ci muoviamo, chi sono le
persone osservate, le tematiche più ricorrenti nelle loro conversazioni, come
si comportano e che relazioni stringono. Sappiamo addirittura perché
prendono certe decisioni o provano certi sentimenti. Per capire se ciò che
abbiamo mappato sia una moda passeggera o un insieme di indicatori di un
orientamento duraturo, vanno valutati alcuni fattori:
• l’attualità, ovvero da quanto si protrae il fenomeno osservato;
• la rilevanza, ovvero quanto è rilevante tale fenomeno rispetto alla
consuetudine;
• la singolarità, ovvero quanto è inaspettato tale fenomeno rispetto alla
popolazione;
• la geografia, ovvero quanto conta la diffusione in altre nazioni;
• il contesto, ovvero quanto incide, infine, il territorio digitale.
Ma qual è la ricetta per prevedere ciò che sarà? L’Imagination Design
Coach Maurizio Goetz, che si occupa proprio di processi di anticipazione
per addestrare le capacità immaginative, parla così del futuro in
un’intervista su “Be Unsocial”:

Il futuro è per definizione sempre immaginato; come ogni artefatto


dell’immaginazione non può nascere dal nulla, ma viene fuori
dall’emergere di desideri, intenzioni e tensioni o paure, dalla
connessione tra vecchie e nuove idee e dalla loro combinazione in
forma nuova, che dà vita a una pluralità di futuri possibili.
I diversi futuri immaginati, influenzati dagli immaginari, dalle
tecnologie, dalle pratiche emergenti, dalle nuove culture, dalle
nuove conoscenze, dai nuovi valori, creano una cultura del futuro,
che si alimenta di immagini, parole, aspettative, nuove conoscenze e
narrazioni che spostano al di là la percezione di ciò che viene
ritenuto possibile. Possiamo vedere questa cultura come un insieme
di realtà alternative possibili, plausibili e desiderabili che
potrebbero aprirsi sulla base delle decisioni che vengono prese
oggi, in un contesto evolutivo in profondo cambiamento e in cui
diversi attori interagiscono in modo interdipendente, influenzandosi
reciprocamente. Immaginare il futuro ha la duplice funzione di
interrogarsi sulle possibili evoluzioni e sulle migliori modalità per
generarlo, imprimendogli una direzione1.

Nessuna palla di cristallo dunque per intercettare i trend: serve avere naso,
una buona dose di immaginazione e, ancora una volta, la capacità di mettere
in correlazione gli small data.

La rappresentazione delle diversità

A che punto siamo in Italia? Media e brand stanno soddisfando le


aspettative sempre più crescenti del pubblico riguardo alle diversità? La
sensazione è che, benché la rappresentazione delle minoranze etniche sia
migliorata nell’ultimo mezzo secolo rispetto al passato, non si faccia ancora
abbastanza. Basti vedere quanto è stata effimera la copertura mediatica nel
nostro Paese rispetto alle proteste antirazziste, ridotta ai soli fatti americani,
e che non ha davvero ripreso il discorso dello ius soli, per esempio. Con
queste premesse, vale la pena dare un’occhiata a cosa accade intorno a noi.
Le conversazioni sul digitale mostrano come per molte persone il
COVID-19 abbia messo a nudo disuguaglianze profonde ma, insieme
all’ondata di attivismo globale per i diritti civili, tutto ciò potrebbe offrire
l’opportunità di migliorare la rappresentazione della società sui media. Già
prima della pandemia, studi e buoni propositi dei marchi ci raccontavano
come le persone volessero sentire i brand più vicini e autentici: nessuno
avrebbe potuto prevedere quanto questo sarebbe diventato importante
successivamente. Ogni settore sta affrontando un momento di resa dei conti,
confrontandosi con le aspettative delle persone sull’inclusività.
Un primo problema urgente è da ricondurre alla mancanza di diversità
nei ruoli decisionali, con posizioni più alte che continuano a essere
inaccessibili. Questo tema, tra l’altro, non può prescindere dallo stato
stagnante di mobilità sociale, anche se, tuttavia, ci sono stati alcuni piccoli
passi nella giusta direzione. L’anno scorso la BBC ha dichiarato di avere la
percentuale più alta di personale BAME (acronimo di Black, Asian and
Minority Ethnic) nella sua storia al 15,2% e di aver notevolmente
migliorato il reclutamento di persone con disabilità e individui LGBTQ.
Restando nel Regno Unito, il “Daily Mail” ha lanciato invece una borsa di
studio attraverso la quale i candidati BAME sono pagati per studiare alla
News Associates o la City University prima di unirsi al giornale con un
programma di tirocinio. Iniziative concrete, e con un impatto.
Il cambiamento di ritmo tra i giganti dell’editoria può essere da
pachiderma, certo. In Rete le cose, come sempre, si muovono con altre
velocità. È il caso della new media company Gal-dem, per esempio, che
mostra le questioni dell’attualità da altre prospettive, ben più ampie rispetto
alla norma: una consapevolezza di cosa è considerato “altro” non
indifferente, che è spesso la forza trainante di queste pubblicazioni. La
fotografa Amanda De Cadenet, frustrata per la scarsa rappresentanza
femminile nel suo settore, ha creato la rete Network Girlgaze per connettere
i brand e talenti creativi womxn (termine in voga soprattutto all’interno del
movimento femminista intersezionale).
Il ruolo dei social media

I social media sono diventati un potente strumento per livellare il campo di


gioco, perché sono un habitat che dà completa libertà di parola e di
interazione. Inoltre, grazie agli algoritmi e alla possibilità di seguire
specifici hashtag, è più semplice rintracciare i filoni di interesse e aprire
nuovi dialoghi, rispetto alle loro controparti dei media tradizionali.
In questo scenario, le aziende tecnologiche stanno cercando di
intercettare e soddisfare le aspettative dei più giovani. Per esempio, nel
gennaio 2020, TikTok ha lanciato la sua campagna #AllTheDifference,
attraverso la quale persone e marchi sono stati incoraggiati a caricare post
che mostravano come gettare via le etichette e aiutare a rendere il mondo un
posto più tollerante. O ancora: l’anno precedente Apple ha lanciato un
aggiornamento iOS che includeva emoji per rappresentare persone neutrali
dal punto di vista del genere, una gamma di coppie e famiglie interrazziali e
persone con disabilità, con piani per aggiungere icone più inclusive in
futuro.
Se da un lato le sfide sui social media e l’introduzione di nuovi emoji
possono aiutare ad ampliare la conversazione sull’inclusività, le piattaforme
digitali presentano un rischio maggiore di alimentare l’odio e limitare
l’accettazione, proprio perché offrono una tela bianca su cui le persone
possono scrivere ciò che vogliono. Twitter, per esempio, ha riconosciuto il
potere delle relazioni online e ha lanciato account per mettere in primo
piano alcuni gruppi sottorappresentati nella sua comunità, come
@TwitterAble e @TwitterAlas. Con quest’ultimo ha seguito eventi a New
York e San Francisco insieme alla no profit Techqueria per imparare dai
leader latini (o meglio, latinx) e fare rete con loro. Iniziative che sostengono
utenti e dipendenti appartenenti alle minoranze, garantendo così
conversazioni autentiche sulle diversità.
Più in generale, l’osservazione degli small data ci indica come i brand
dovrebbero prendere in considerazione le esigenze delle comunità meno
centrali e portare avanti strategie di inclusività a lungo termine, mostrando
di avere davvero a cuore la sensibilità delle persone e andando oltre la
tensione culturale del momento. Purtroppo, il semplice aumento della
diversità visiva sui media e in Rete potrebbe non bastare e non migliorare di
per sé l’esposizione correlata alle problematiche pertinenti ai diversi gruppi.

Le responsabilità dei marchi

Non si tratta solo di riconfigurare i contenuti, dunque. I marchi devono


lavorare per cambiare la struttura organizzativa e dare una diversità interna
all’azienda, nonché spazio a una cultura inclusiva con gruppi di minoranza
rappresentati in modo equo nel processo decisionale. Alcune aziende hanno
cercato di educare attivamente i dipendenti sulle questioni relative alla
diversità e all’inclusione, per esempio inviando letture raccomandate in
risposta alle proteste di Black Lives Matter. EW Group ha lanciato un
podcast intitolato reWorked, che guida gli ascoltatori attraverso argomenti
come il pregiudizio inconscio e il reclutamento più inclusivo. Serve, come
spesso accade, un capovolgimento di prospettiva. La diversità è la
soluzione, non il problema.
Man mano che il pubblico diventa più consapevole del divario tra
problemi della collettività e azione aziendale riemerge il tema della
necessità di comunicare o meno il proprio posizionamento riguardo le
grandi cause. La vera sfida per molti brand è superare lo scetticismo dei
consumatori. In particolare, sappiamo che gli Z sono particolarmente
diffidenti nei confronti del marketing basato sulle cause sociali. Altrettanto
interessante è lo scarto tra i valori che i giovani ritengono prioritari e i
valori che i brand intercettano. Dunque, che fare?
Le strategie di comunicazione e marketing affondano le radici nella
responsabilità sociale delle imprese, la cosiddetta RSI. In termini generali,
gli sforzi della RSI si concentrano sull’elevazione del ruolo delle imprese
nella società, con la copertura di aspetti economici, legali, etici e
filantropici. In soldoni, avere responsabilità sociale significa essere proattivi
con buone prestazioni per la collettività (oltre a non fare danni,
ovviamente). Negli ultimi decenni la RSI è cresciuta in modo notevole, fino
a essere integrata nelle stesse dichiarazioni di mission e di pensiero
strategico dalla maggior parte delle imprese – andando ben oltre il semplice
“rispetto dell’ambiente” con il cestino per la raccolta di carta in ufficio e il
disclaimer di non stampare per salvare le foreste riportato al fondo di ogni
e-mail.
Le aziende ora sembrano capire che avere responsabilità significa
innanzitutto pensare al benessere dei propri dipendenti e alla qualità dei
prodotti e dei servizi che possono migliorare il quotidiano delle persone.
Molto di queste aspettative che oggi si specchiano online ha a che fare
con gli anni Sessanta, quando le preoccupazioni del pubblico si
consolidarono su importanti movimenti sociali: diritti civili, ambiente e
femminismo. Queste tensioni erano fortemente interconnesse, e le persone
facevano pressioni proprio sulle imprese. Negli anni Settanta, quando si
iniziò a parlare di RSI, queste richieste pubbliche iniziarono a evolversi in
requisiti legali. Una delle più recenti evoluzioni della responsabilità sociale
delle imprese è il “cause branding”, un impegno a lungo termine rispetto al
marketing basato proprie sulle cause e collegato direttamente alla linea di
business di un’azienda – dunque un’affiliazione permanente tra una causa e
un brand.

Consiglio di lettura #10


Disparità di reddito, malattie, degrado ambientale, razzismo, inquinamento, mancanza di
istruzione. Come si passa dai semplici slogan che intercettano queste tensioni nell’aria alla
realtà? Brand activism. Dal purpose all’azione (Hoepli, 2020), scritto da Philip Kotler e da
Christian Sarkar, racconta come le aziende debbano imparare a prendersi finalmente
responsabilità sociali e debbano iniziare a raccontare storie credibili e rilevanti. Come scrivono
gli autori, “i tempi sono cambiati. In un mondo fortemente polarizzato, essere neutrali non basta
più”.

La mascolinità tossica

Per via del forte attacco alle strutture patriarcali, grazie anche a movimenti
come #MeToo e #TimesUp, le donne hanno fatto sentire la propria voce e i
brand hanno rapidamente cambiato storytelling, dalle campagne
sull’autostima di Dove al lancio della versione girl-power del Monopoly.
Per gli uomini, la storia è ben diversa. Un sondaggio del Center for the
Study of Men and Masculinity ha rivelato che appena il 7% degli uomini in
tutto il mondo si sente affine al modello di mascolinità rappresentata dai
media.
Con il confronto in Rete, le idee sulla mascolinità stanno cambiando
perché gli uomini non (si) attribuiscono più i tratti tradizionali come la
forza fisica e lo stoicismo emotivo. È come se la rappresentazione
mediatica degli uomini fosse in ritardo. E così, gli uomini sentono la
pressione di conformarsi a un modello di virilità che non sentono più
rilevante: il mito secondo cui esiste un solo modo giusto per essere un uomo
è obsoleto e dannoso. Il rapporto sulla mascolinità realizzato dal marchio di
rasoi Harry in collaborazione con l’University College di Londra ha
scoperto che l’uomo americano di oggi, alla domanda sulle caratteristiche
personali che vorrebbe avere, risponde con i valori che mettono i bisogni
degli altri al di sopra dei propri: onestà, affidabilità e lealtà. Solo in fondo
alla lista c’è “un corpo perfetto”.
L’anno scorso il marchio di abbigliamento Bonobos ha lanciato la sua
campagna online #EvolveTheDefinition, presentando un ampio spettro di
uomini che leggevano le definizioni del dizionario di “mascolinità” prima
di condividere la propria opinione. E ancora, Schick, un altro brand di rasoi,
ha lanciato The Man I Am per celebrare i diversi tipi di uomini che usano i
suoi prodotti. Questa tendenza di comunicazione verso l’inclusività e
l’individualità sta diventando sempre più popolare.

L’influenza della comunicazione

Ma facciamo un passo indietro: quali sono le radici della mascolinità


tossica? Sebbene gran parte della pressione provenga da amici, familiari e
ambienti sociali circostanti, l’influenza della comunicazione è notevole. Per
molti, la lotta per riconciliare chi si è con ciò che la società vorrebbe che si
fosse può essere dura. Molto ha a che fare con la mancanza di connessioni
sociali autentiche: non possono essere se stessi con gli altri, non possono
dire alla gente cosa provano realmente. La pubblicità potrebbe davvero fare
la differenza e normalizzare l’essere uomo oggi, con tutte le vulnerabilità
umane del caso.
Uno dei primi marchi a rinnovare il proprio marketing è stato Axe, che
sta sfidando l’iper-mascolinità che in precedenza era caratteristica della sua
pubblicità. Basato su ricerche reali su Google, la campagna Is it ok for
guys… affronta le lotte contro la mascolinità tossica e le ansie causate dalle
norme sociali. L’annuncio fa parte della più ampia campagna Find Your
Magic, con organizzazioni no profit come partner che lavorano per
affrontare i problemi che gli uomini sperimentano a causa delle pressioni
della società per soddisfare gli ideali maschili.
Seppur lentamente e con fatica, la mascolinità moderna cerca di
promuovere anche l’uguaglianza di genere e il ruolo mute-vole che gli
uomini svolgono in famiglia, anche come genitori. Nel 2016, il 7% dei
padri erano casalinghi, rispetto al 4% quasi tre decenni prima. Secondo una
ricerca di Pew, i papà nel 2016 riferivano di dedicare in media otto ore alla
settimana alla cura dei figli, circa tre volte di più rispetto ai padri nel 1965.
Nonostante questi cambiamenti, i brand sembrano non fare abbastanza
per allontanarsi dagli stereotipi di genere tradizionali. Due anni fa, le
Nazioni Unite hanno lanciato l’Unstereotype Alliance, sostenuta da
Unilever, Procter & Gamble, WPP, Diageo, Google e Facebook, per sfidare
su scala globale gli stereotipi di genere nella pubblicità. Da allora, per
esempio, Unilever si è impegnata a rimuovere stereotipi dannosi dalla sua
pubblicità. Mentre gran parte dei riflettori è stata posta sulle
rappresentazioni dei ruoli delle donne, sarà interessante vedere come questi
impegni e regolamenti influenzeranno anche il modo in cui gli uomini
saranno raccontati.

Gli insight più radicati

Ancora oggi molti uomini fanno fatica a parlare con gli altri di come
stanno, sia fisicamente sia mentalmente. In fondo, è radicato nella nostra
cultura il detto “i veri uomini non piangono“. Le idee consolidate sulla
mascolinità hanno visto molti uomini trascurare la propria salute mentale e
fisica per evitare di apparire “deboli” o “femminili“.
Negli Stati Uniti, per fare un esempio, i tassi di suicidi sono in aumento
costante, ma coinvolgono soprattutto i giovani maschi. Mentre molte donne
possono contare sul proprio ginecologo per discutere dei problemi di salute
più intimi, gli uomini hanno spesso allontanato l’idea di alcuni problemi,
rifiutandosi di vedere un medico. In effetti, il 65% degli uomini intervistati
nell’ambito della campagna MENtion It della Cleveland Clinic ha dichiarato
di evitare di consultare un medico il più a lungo possibile.
Inoltre, il 37% di loro afferma di aver nascosto informazioni al proprio
medico perché non pronti ad affrontare la potenziale diagnosi. C’è ancora
molta strada da fare quando si parla di uomini e salute, benché i media
abbiano iniziato a parlare di mascolinità tossica, cercando di abbattere gli
stereotipi.
Realtà come Movember, evento annuale dove gli uomini che aderiscono
si fanno crescere dei baffi per raccogliere fondi e diffondere consapevolezza
sul carcinoma della prostata, stanno davvero facendo luce sulla salute degli
uomini. Uno dei messaggi chiave riguarda il valore del dialogo, e infatti
viene continuamente ricordato che parlare è la soluzione. I più giovani
questo lo sanno e comprendono il potere della parola, l’essere vulnerabili e
l’aprirsi. Ammettere la vulnerabilità è una sfida per se stessi. Anche i
contesti analogici dove si fa sensibilizzazione sono davvero importanti.
Tra gli studi più interessanti sull’argomento, quelli della dottoressa
Liberty Barnes, sociologa medica ed etnografa che studia come le credenze
culturali popolari modellano la medicina americana. Il suo primo libro,
Conceiving Masculinity (Temple University Press, 2014), ha ricevuto elogi
dalla critica e una copertura mediatica internazionale. Anche secondo
Barnes, gli uomini non solo hanno meno probabilità di andare dal medico
regolarmente, ma nemmeno adottano le stesse misure preventive delle
donne quando si tratta della loro salute. Le donne sono socialmente
condizionate ad andare dal dottore regolarmente, fin da giovani. Se un
uomo di 40 o 50 anni scopre di avere un problema di salute sessuale o
riproduttiva, probabilmente non sa nemmeno che tipo di medico
coinvolgere. Per non parlare poi della salute mentale.
È importante chiarire che andare da uno psicologo, per esempio, non ha
alcun impatto sulla mascolinità o sull’identità personale. Avere traumi o
nodi irrisolti non significa essere deboli. Per fortuna, con Internet e la
crescita della comunicazione digitale, oggi ci sono molte più chat room e
gruppi di supporto online per gli uomini. La Rete, infatti, offre un livello di
anonimato e uno spazio sicuro in cui gli uomini possono parlare più
liberamente. Al contempo, altri stereotipi si sgretolano. Prendiamo l’area
pesi delle palestre, dominio di uomini che potevano ostentare testosterone,
mascolinità e muscoli. Oggi c’è un numero sempre più crescente di giovani
donne che in realtà si allenano con i pesi, per consolidare la loro forza fisica
e mentale, sfidando gli ideali antiquati legati all’essere femmine. Sollevare
pesi, spesso, è sinonimo di forza e indipendenza.
Non è un caso se su Instagram si possono trovare oltre 29 milioni di
post taggati con #girlswholift. Un nuovo trend, dunque, alimentato dalla
consapevolezza riguardo i benefici dell’allenamento della forza, come per
esempio la perdita di grasso, l’aumento del dispendio calorico e il
rimodellamento della figura. Le #girlswholift sono sia principianti – donne
che non hanno mai messo piede in palestra prima – sia professioniste e
concorrenti esperte di bodybuilding. Tra queste ci sono personal trainer,
come la webstar istruttrice Alice Liveing, e influencer, come Carys Gray e
Grace Fit UK. Stanno cambiando il modo in cui le donne si confrontano
con il fitness, aiutandole a trasformare la loro percezione di come dovrebbe
essere il corpo femminile.

LA RICERCA DELLA BELLEZZA

La Rete pullula di gruppi estremamente interessanti. Possono essere uniti da


background comuni (stessa città, stessa scuola), da esperienze simili
(divorzio, malattie, maternità), da necessità pratiche (informazione,
risparmio). Oppure, e sono le community più numerose, da interessi
condivisi: la squadra di calcio, la collezione di orologi.
E sì, anche la pelle.
Sanno tutto della lista di ingredienti di qualsiasi prodotto per la sua cura,
BHA e AHA per loro non sono esclamazioni scritte male, apprezzano la
bava di lumache ed evitano come la peste qualsiasi elemento
potenzialmente aggressivo: sono gli skintellectual, gli intellettuali della
pelle. E no, non sono semplicemente appassionati di cosmesi: sono persone
realmente istruite sulla materia. Inevitabilmente, con gli skinintellectual,
sono nate anche nuove figure di influencer: gli skinfluencer, che sanno di
tutto, dal giusto peso molecolare dell’acido ialuronico alle capacità
esfolianti dell’acido lattico. Come nasce questo recente fenomeno e da che
premesse si muove il comportamento di chi ne prende parte?
Lo skin-intellettualismo risale al 2011, quando la ritualità coreana della
bellezza, conosciuta come K-beauty, ha conquistato per la prima volta il
mercato occidentale della cura della pelle, grazie alla distribuzione di big
brand come Urban Outfitters, Sephora e CVS. L’enfasi del movimento sulla
prevenzione piuttosto che sulla cura rispecchia gli atteggiamenti tradizionali
asiatici che privilegiano la cosiddetta bellezza olistica.
La principale fonte di fascino del concetto di bellezza asiatica, e nello
specifico coreana, è nel modo in cui favorisce un processo in più fasi, così
esteso da richiedere il giusto tempo. La routine di cura della pelle coreana
media, infatti, contiene non meno di dieci passaggi. E anziché essere
percepita come qualcosa di noioso, molti hanno associato a questa routine
risvolti sorprendentemente meditativi.
Chel Cortes, fondatrice della linea di prodotti per la cura della pelle
Holy Snails, ha creato un prodotto di culto: la Shark Sauce. Nota come “il
siero da 30 dollari che ossessiona Reddit”, la Shark Sauce è nata dalle
ricerche etnografiche di Cortes nel subreddit Asian Beauty, dove gli utenti
di tutto il mondo scambiano recensioni di prodotti, analizzano gli elenchi
degli ingredienti e persino formulano meticolosi fogli di calcolo pieni di
articoli classificati in base al valore PH.
Nella comunicazione della linea, è stato fatto un gran lavoro sul gergo
del settore e parole come “niacinamide” e “retinoidi” sono state tradotte in
un linguaggio comprensibile e accessibile anche al lettore più laico. Quando
nel 2016 Cortes ha sviluppato il proprio siero illuminante per la pelle, ha
deciso di condividerne la ricetta sul suo blog di bellezza.
E sebbene la formula sia stata progettata per essere piuttosto semplice
da replicare a casa, ha scoperto con piacere che le persone erano più che
disposte a pagare per una bottiglietta già pronta. Quando la Shark Sauce fu
lanciata ufficialmente, la scorta si esaurì in pochi secondi e la risposta
internazionale fu così schiacciante che Cortes lasciò il suo vecchio lavoro in
laboratorio per seguire il brand Holy Snails a tempo pieno.
La maggior parte dei marchi preferiti del movimento degli intellettuali
della pelle è basata su ricerche scientifiche, e spiegano meticolosamente gli
ingredienti. E le richieste di attendibilità scientifica non sono solo un
prerequisito per coloro che vendono i propri brand agli intellettuali, ma
anche per gli skinfluencer. A partire dal canale Instagram Beauty by the
Geeks, sta emergendo tutta una serie di resoconti supportati
scientificamente: Chemist Confessions, per esempio, è un team di scienziati
la cui missione è aiutare gli acquirenti a decodificare l’elenco degli
ingredienti di ogni nuovo prodotto. E ancora: la dermatologa Dr Dray su
YouTube parla di tutti i tipi di trattamenti per la cura della pelle; il medico
Sam Bunting su Instagram esamina le soluzioni casalinghe e i prodotti che
hanno prezzi accessibili.
Un dato interessante ci svela un indizio sul contesto del fenomeno: dopo
le elezioni americane del 2016, le ricerche su Google per “cura di sé” sono
state le più alte degli ultimi cinque anni. Che l’intellettualismo della pelle
sia frutto (anche) di una ricerca interiore più ampia, in un mondo sempre
più confuso e tumultuoso?

Il cambiamento nella percezione della chirurgia estetica

A proposito di bellezza, come tanti altri settori, anche la chirurgia estetica


sta entrando in una nuova fase, laddove le persone cercano di avere una
maggiore consapevolezza del proprio corpo. Alimentato dall’apertura delle
star per quanto riguarda i loro trattamenti, il dialogo sul tema sta girando
intorno sia a procedure invasive sia a quelle non invasive, ma che in
entrambi i casi possono rendere le persone più vicine all’estetica dettata dai
social media.
Negli anni Novanta, le conversazioni sulla chirurgia estetica spesso
prendevano vita dal gossip. I titoli di “Novella2000” e di “Chi” recitavano
domande tipo “ma sono sue o no?”, con tanto di prove del prima e del dopo.
Inoltre, i prezzi alti lasciavano tali operazioni – in gran parte riservate a
pochi – avvolte nel mistero. Più di 25 anni dopo, le cose sono decisamente
cambiate. Solo nel 2018, negli Stati Uniti sono stati effettuate circa 17,7
milioni di procedure di chirurgia estetica, anche minimamente invasive, e la
spesa totale per iniettabili e protesi al silicone ammontava a 2 miliardi di
dollari. Ma l’insight più interessante è che questa richiesta arriva in un
momento in cui le persone stanno abbracciando la “vera bellezza”.
Dal progetto Body Hair del brand Billie, che sfida l’idea che le donne
abbiano bisogno di rimuovere i propri peli dal corpo, al marchio di cura
della pelle Babor che rifiuta di ritoccare le immagini degli annunci, si sta
diffondendo sempre di più una narrazione inclusiva nel panorama della
bellezza. Nonostante questo, mentre tali posizioni potrebbero sembrare
incongrue con l’idea di alterare il proprio aspetto con un intervento
chirurgico, i brand di cosmetici stanno abbracciando la “realtà”. È il caso
per esempio della campagna #OwnYourLook, che ha incoraggiato le
persone a essere orgogliose delle proprie scelte estetiche. Più in generale,
gli atteggiamenti e i giudizi negativi verso le procedure di chirurgia estetica
si sono ammorbiditi. Prendiamo la modella Chrissy Teigen, che ha
affermato che “tutto in me è falso tranne le guance” o l’attrice Kaley Cuoco
che ha ammesso che “anni fa mi sono rifatta il naso. E le tette. La cosa
migliore che abbia mai fatto”. Oppure il caso di Kylie Jenner, che ha
coinvolto il suo chirurgo facciale in una storia di Instagram. Ancora,
pensiamo a Carly Cardellino, la direttrice della sezione bellezza di
“Cosmopolitan”, che lo scorso maggio ha pubblicato un post su Instagram
che esaltava gli aspetti positivi del botox, incoraggiando le persone a
partecipare a un concorso per avere la possibilità di vincere le dosi
iniettabili.
L’interesse per la chirurgia estetica è aumentato anche e soprattutto per
la maggiore accessibilità e per la gamma di trattamenti disponibili, che
vanno dai più tradizionali aumenti del seno e rinoplastica fino alle
procedure meno invasive come l’uso di botox e filler. L’ascesa del
#tweakment (ovvero del filler e lifting non chirurgici) parte dall’idea che si
parli di modalità più semplici e rapide, con tempi di recupero
significativamente più bassi. Proprio perché percepite come meno invasive
e più naturali rispetto alla chirurgia plastica, tali modifiche consentono un
maggiore controllo e flessibilità, a differenza delle inalterabili procedure
chirurgiche di una volta. Come detto, anche i prezzi più bassi
contribuiscono a rendere tali procedure più interessanti: mentre il lifting
medio può costare fino a 7.000 dollari, un trattamento con il botox ne costa
circa 400. E così, c’è più spazio per gioco e sperimentazione.
Parlando di social media occorre anche affrontare poi il problema da
“dismorfia di Instagram”, di cui il più delle volte le vittime sono i
millennial. Se una volta i pazienti portavano immagini di celebrità come
benchmark (come dal parrucchiere), oggi portano foto di se stesse,
modificate sulle app con i filtri. Tale passaggio dal fotoritocco alla realtà
aumentata viene preso in considerazione dall’industria della bellezza. Il
marchio Too Faced ha creato il gloss rimpolpante Lip Injection Extreme,
mentre la maschera per la rimozione dei punti neri Vassoul è diventata un
best seller di Amazon per rimuovere non solo i punti neri, ma anche alcuni
dei peli più chiari dal viso, lasciando gli utenti con una pelle più liscia.
Inoltre, alcune aziende offrono trattamenti non chirurgici per far sì che i
clienti siano “pronti per i selfie”. FaceGym, per esempio, afferma di
lavorare in modo non invasivo sui 40 muscoli “dimenticati” sul viso, con il
risultato di avere un “sollevamento” immediato, e una nuova tonicità del
viso non sconvolgente e a rischio zero. Man mano che le persone si
interessano alla bellezza “reale”, le procedure basate sulla chirurgia che
ottimizzano gli aspetti naturali e possono essere effettuate a casa trovano il
loro spazio. Per esempio, le maschere luminose a LED, che sono diventate
popolari per rassodare la pelle e migliorare l’acne, si comprano per una
trentina di dollari. È verosimile che nei prossimi anni i chirurghi estetici
saranno mandati in pensione.

Consiglio di lettura #11


Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo (NR edizioni, 2020) di Jia
Tolentino è un libro sugli stimoli che ci modellano e su quanto sia difficile vedere chiaramente
noi stessi attraverso una cultura che ruota attorno all’io. “Siamo in trappola. Più Internet
peggiora, più sembriamo bramarlo, e più acquista il potere di manipolare i nostri istinti e
desideri”, scrive l’autrice. La delusione può essere dietro l’angolo. Si parla di social media,
reality, ecstasy, religione, truffe online, matrimoni, mito della bellezza e di tutti quei meccanismi
che ci influenzano.

Il nuovo inizio degli influencer

I blog prima, e YouTube, Twitter e Instagram poi, hanno trasformato


persone normali in vere e proprie webstar, che commercializzano
innanzitutto se stesse, prima ancora di prodotti, libri, partnership
pubblicitarie e programmi televisivi. Ma in questo contesto, le fake news e
la proliferazione di post sponsorizzati sui social media mettono in costante
dubbio l’affidabilità e l’autenticità degli influencer online. Ricordate il
clamoroso #fishgate? Quando tempo fa una paladina del veganesimo di
nome Rawvana è stata pizzicata a mangiare pesce, il contraccolpo che ha
dovuto affrontare è stato considerevole, e nessuno l’avrebbe potuto
prevedere. Avendo accumulato più di tre milioni di follower su Instagram
che si rivolgevano a lei per consigli dietetici vegani, l’influencer ha avuto
non poche criticità da affrontare. In seguito, ha pubblicato un video in cui
spiegava che aveva dovuto modificare la sua dieta per motivi di salute, ma
ciò non ha fatto che peggiorare la situazione. Il furore che è scoppiato è
stato un campanello d’allarme per gli influencer, considerati da tempo
l’ultimo asso nella manica di chi si occupa di marketing: stavano iniziando
a perdere il loro potere.

Le conseguenze della pandemia

Il COVID-19 ha accelerato il processo, aprendo una stagione nera per gli


influencer tradizionali. Solo chi si propone attraverso contenuti autentici e
con basi solide ce la sta facendo: pensiamo a medici, scienziati e
nutrizionisti certificati, che hanno visto un notevole aumento della
popolarità. Il progetto Seed University, per esempio, sta rovesciando il
modello degli influencer così come l’abbiamo conosciuto fino a questo
momento. Anziché inviare campioni gratuiti per reclutare testimonial sui
social media, la società di probiotici Seed ha messo in piedi un corso per
diventare esperti riguardo i suoi prodotti. È un inizio. Le persone che si
iscriveranno saranno istruite sul lato scientifico dei prodotti e su come
commercializzarli in modo trasparente e accurato. I candidati devono
firmare un “accountable influence manifesto”, iscriversi a un corso di sei
moduli, che si svolge interamente via Instagram Stories, e superare un
esame finale. Con il lancio di questo programma “universitario”, Seed spera
di dare al marchio un plus tangibile, che consentirà loro di guadagnare
fiducia e differenziarsi dai marchi che usano gli influencer tradizionali.
Ma non è l’unico effetto del COVID-19. Se da un lato la pandemia ha
aumentato le nostre aspettative nei confronti degli influencer, dall’altro lato
le celebrità hanno abbassato le barriere che di solito le portavano a essere
percepite come inaccessibili; pensiamo a quanti concerti e letture abbiamo
ascoltato nelle settimane del lockdown sui social in Italia da cantanti e attori
famosi. Anche all’estero è andata allo stesso modo, con star come Justin
Bieber e Millie Bobby Brown che hanno utilizzato TikTok per lanciare sfide
di danza, giochi e scherzi così da intrattenere se stessi e il proprio pubblico.
La sensazione è quella di essere stati invitati nelle case dei personaggi
famosi: abbiamo ascoltato i loro consigli di cucina, fatto allenamento sul
tappetino, letto con loro un libro sul divano. Insomma, l’isolamento ha
demistificato l’hype dei volti più o meno noti in Rete, portandoli tutti sullo
stesso piano. Abbiamo così scoperto che loro sono come noi: Anthony
Hopkins suona il piano con il suo gatto, Patrick Stewart legge Shakespeare.
Momenti così non hanno solo creato intimità con il pubblico, ma hanno
anche dato la possibilità di conoscere altre sfaccettature delle personalità
amate.
E non è stata solo una questione di intrattenimento online: hanno
assunto importanza soprattutto i valori etici. Le celebrità che hanno fatto
veramente del bene e che hanno usato il loro peso per dare alle comunità un
aiuto concreto hanno agito facendo notizia. È il caso nostrano di Chiara
Ferragni e Fedez, con la donazione personale al San Raffaele e al
successivo crowd-funding, ma c’è anche Lady Gaga che ha donato 35
milioni di dollari all’OMS in collaborazione con Global Citizen,
un’organizzazione benefica per la povertà (e ha raccolto poi altri 127
milioni di dollari con il concerto One World: Together at Home). Queste
mosse hanno trasformato i personaggi pubblici in attivisti e animatori di
iniziative di raccolta fondi che a volte hanno fatto vergognare aziende e
governi.
Altrettanto interessante anche l’iniziativa su Instagram Save With
Stories, che ha coinvolto attori del calibro di Natalie Port-man in letture di
storie della buona notte, incoraggiando le donazioni a Save the Children e
No Kid Hungry. Fabio Volo, con il suo improvvisato format Orchite Show
su YouTube, si è collegato con gli infermieri degli ospedali per portare un
momento di leggerezza.
C’è da pensare che la maggiore vicinanza digitale creata durante la
pandemia spingerà a un nuovo tipo di interazione. TikTok, per esempio, sta
emergendo come una piattaforma chiave attraverso cui raggiungere i più
giovani, consentendo collaborazioni più influenti e creative. Ad aprire la
strada è stata e.l.f. Cosmetics, che ha lanciato una sfida hashtag
sponsorizzata: #eyeslipsface. Il brand ha creato e diffuso una clip di 15
secondi con una canzone originale che ne menzionava il nome completo,
inserendo segnali sonori bizzarri. Questo espediente ha portato gli
influencer a creare i propri remix, promuovendo il marchio e facendo sì
che, nel giro di una settimana, la campagna raccogliesse oltre 1,6 miliardi di
visualizzazioni.

Consiglio di lettura #12


Paolo Landi, advisor di marketing e comunicazione per grandi aziende, dedica un capitolo della
sua raccolta di micro-osservazioni Instagram al tramonto (La Nave di Teseo, 2019) proprio agli
influencer. Indaga le meccaniche dietro alla loro ascesa nel tempo, sistemi poco ortodossi
compresi. Gli influencer qui sono raccontati come una nuova élite: hanno “capito le potenzialità
del mezzo e ci sguazzano, perfettamente a loro agio nella superficialità, venditori del nulla, eroi
di uno stile di vita che somiglia a un gioco che azzera meriti fatiche e conquiste, che celebra la
vita, più che nella sua velocità, nella sua istantaneità”.

La rivalutazione del passato

Nel 1911 ha fatto la storia della pubblicità sulle riviste statunitensi il claim
“Una pelle che ami toccare”, che accompagnava immagini di uomini e
donne in abbracci intimi: ancora oggi è considerato il primo annuncio in
assoluto ad aver usato riferimenti sessuali come strumento di marketing.
Certo, secondo i nostri standard lo spot appare piuttosto ingenuo e
sorpassato, ma il prodotto resiste ancora oggi: il sapone solido.
Le barre di sapone hanno una lunga tradizione alle spalle, ed è indubbio
che stanno vivendo una seconda primavera nei nostri bagni grazie
all’estetica Instagram e alla ricerca di prodotti che rispondano a valori
ecologici. Basta dare un’occhiata all’hashtag #barsoap. Ma cosa c’è dietro
al successo della saponetta che torna nei carrelli della spesa? E perché le
vendite di sapone liquido, che ha guadagnato popolarità negli anni ’90
come alternativa igienica al sapone solido, sono diminuite?
Una spiegazione potrebbe avere radici nel bisogno delle persone di
tornare ai modi più tradizionali di lavarsi le mani e fare il bagno. Usare
saponette vecchio stile funziona perché ci rimanda a una vecchia usanza –
magari portando alla memoria ricordi legati ai nonni – e strizza l’occhio
all’ambiente con packaging sostenibili. Dopo esser caduta nel dimenticatoio
negli anni Novanta, la semplice saponetta si è evoluta parecchio,
diventando un oggetto più costoso di prima e curato nelle diverse
formulazioni, più delicate sulla pelle di quanto i consumatori si aspettassero
in precedenza. Non solo: i brand stanno offrendo soprattutto alternative più
sostenibili. Lo scorso ottobre, Dove ha annunciato che le sue iconiche
saponette non sarebbero più state avvolte nella plastica, nell’ambito di
un’iniziativa volta a ridurre la quantità di plastica vergine utilizzata dal
marchio. Entro il 2025, la sua società madre, Unilever, mira a ridurre il suo
uso complessivo di plastica di circa il 14%.
Il tema della plastica e la tensione culturale correlata hanno un certo
peso nella faccenda. Documentari come The Blue Planet di David
Attenborough hanno contribuito a far riflettere molte persone sull’impatto
di questo materiale, e tra i diversi contraccolpi c’è anche la diminuzione
delle salviette per la cura della pelle, per esempio, perché non sempre
biodegradabili. Da qui, la preferenza dell’uso del sapone. Nel 2018, Lush è
riuscita a vendere 12.000 unità delle sue shampoo-bar in soli due giorni,
grazie a un video virale che spiega i benefici ambientali dell’abbandono
della bottiglia. Al contempo, l’anno successivo Selfridges ha lanciato un
negozio di bellezza pop-up che mirava a educare su come ridurre il
consumo di plastica in tutto il loro bagno, scegliendo saponi avvolti nella
carta e trucchi senza plastica. Qualche mese dopo è stato poi annunciato il
divieto di vendita o di utilizzo in negozio di tutte le salviette di bellezza
monouso. Sempre lo scorso giugno e sempre nel Regno Unito, la catena di
negozi di alimenti naturali Holland & Barrett ha annunciato che avrebbe
iniziato a rifornirsi da Ethique, brand di bellezza che crea shampoo, scrub
viso e deodorante tutto in formato bar – e segue le orme di Lush, che si è
intestata l’invenzione delle shampoo-bar negli anni ’80.
Gli acquisti per il benessere e l’igiene stanno dando la possibilità alle
persone di mettere sottilmente in luce i propri valori personali. Tale tensione
fa sì che i brand lancino nuovi prodotti da bagno ecologici a prezzi di fascia
media. Qualche esempio: negli Stati Uniti, Blueland vende pastiglie di
sapone che vengono attivate dall’acqua; nel Regno Unito, KanKan vende
ricariche di sapone liquido confezionate in lattine di alluminio, un materiale
che è riciclabile infinite volte. E ancora, OWA Haircare ha lanciato sul
mercato uno shampoo privo di acqua, disponibile in polvere. Prodotti questi
che non sono solo invenzioni intelligenti, ma sono anche ben confezionati,
facendo l’occhiolino al gusto estetico dei millennial. L’elevazione percettiva
di status di un prodotto così quotidiano sta anche rendendo più probabile
che i giovani acquistino sapone da marchi di lusso con brand di moda di un
certo rilievo (come Chanel) che lanciano saponi a meno di 30 euro.
Una delle maggiori sfide quando si tratta di commercializzare saponette
è convincere le persone a spostare le proprie percezioni. I saponi solidi, tra
l’altro, sono stati a lungo considerati un paradiso per i batteri, facendo così
preferire la versione liquida percepita come più igienica. Ma le cose non
stanno proprio così, perché le barre non sono solo igieniche, ma possono
essere anche più convenienti dei loro equivalenti liquidi e prodotti con
ingredienti di migliore qualità.
A cambiare è soprattutto il significato dell’essere puliti. Dalle diete
disintossicanti al sonno monitorato con i braccialetti fino alla cura della
pelle con prodotti antinquinamento, essere “puliti” ha assunto un significato
che va oltre a farsi uno scrub. I prodotti di K-beauty e quelli di ispirazione
vegana sono diventati elementi essenziali del carrello di molte persone. Ma
nella nostra quotidianità così complessa, frenetica e di corsa, il bagno è in
gran parte associato a un momento del tempo libero, quasi a un lusso, più
che a un metodo di pulizia. Non c’è tempo, insomma. Un sondaggio di
qualche anni fa su duemila americani fa eco a questo sentimento: nove su
dieci di loro hanno detto di preferire la doccia al bagno, e se la prima è
generalmente considerata più comoda e rispettosa dell’ambiente, gli
intervistati hanno dichiarato anche di non amare l’idea di immergersi nella
propria acqua. Questi insight riflettono quello che è stato il passato declino
delle saponette.
Anche il benessere emotivo sta dando forma al futuro del sapone.
Balmyard Beauty, per esempio, offre un bagno nel bush ispirato ai Caraibi
con tisane di provenienza locale che hanno proprietà anti-infiammatorie; il
brand vegano Nourish Skincare ha invece introdotto un detergente liquido e
strutturato che cambia colore quando viene applicato. Le sfumature verdi
indicano che i principi attivi stanno funzionando.
Con i suoi molteplici vantaggi, dalla pulizia alla super idratazione fino
al miglioramento dell’umore, il sapone solido sta iniziando a raccontare una
storia emozionante, soprattutto quando si tratta di brand nati in Rete e che
proprio online coltivano community interessanti. Il marchio newyorkese
Binu Binu, per esempio, sceglie di raccontare una storia di unione, legando
le generazioni attraverso rituali di balneazione coreani. Il marchio trasmette
anche narrazioni di femminilità, con uno dei suoi prodotti che prende il
nome dalle Haenyeo, donne pescatrici che si immergono nell’isola
vulcanica sud-coreana di Jeju.
I brand di saponi stanno anche utilizzando la narrazione per supportare
missioni di beneficenza. La campagna emozionale di Lifebuoy Future Child
ne è un esempio, con una bimba che ringrazia sua madre per averle sempre
ricordato di lavarsi le mani con il sapone, permettendole di vivere una vita
sana. Una pubblicità insolitamente emotiva, ma capace di dimostrare come
le grandi marche di saponi possano apportare cambiamenti positivi anche
nei mercati in via di sviluppo.
1. http://www.beunsocial.it/progettare-e-raccontare-il-futuro-parola-a-maurizio-goetz.
CAPITOLO 5
LA MAGIA DEI DATI CHE DIVENTANO
STORIE

MAPPARE SMALL DATA, COLLEGARE


INSIGHT

Chiudete gli occhi e provate a giocare con l’immaginazione. È una notte


incantevole, il cielo è sfavillante. Siete coricati sull’erba, la città è lontana:
c’è solo buio e una miriade di luci. Osservate con attenzione questo
spettacolo. Alcune stelle sono più luminose di altre, così le mappate con lo
sguardo, e via via ecco che iniziano a prendere una forma: dalla Stella
Polare riuscite a ricostruire l’Orsa Minore, poi più in basso fa capolino
l’Orsa Maggiore. Alcuni di voi hanno individuato anche tre punti molto
luminosi, uno dietro l’altro, circondati da altre stelle meno luminose, tutte
azzurre. È la Cintura di Orione, che raffigura appunto la cintura
dell’omonimo gigante. Non tanto lontano da lì luccica il Cane Maggiore,
con la stella Sirio, omaggio al cane del cacciatore, la più lucente
dell’Emisfero Boreale. Da qui, si intrecciano miti, racconti e leggende che
vengono tramandati dagli antichi Egizi ai giorni nostri.
La metafora è chiara: il cielo è la Rete, le stelle sono i big data, i punti
più luminosi gli small data, la forma delle costellazioni gli insight. Davanti
a una moltitudine di dati, sta al nostro occhio dunque selezionare i più
visibili, collegarli intuitivamente per poi darne un significato. È da questi
punti chiave, gli insight, che possono prendere vita le storie. Ma come si
arriva a una vera e propria narrazione? Unendo i puntini con una linea
immaginaria, da percorrere con le parole insieme al lettore.
Qui di seguito ci sono cinque diversi formati di storie: un report
netnografico; un post per un blog; un articolo a paragrafi; un case study; un
saggio breve. Per ciascuno, sono specificati i territori digitali di ricerca, la
tipologia di small data e l’insight principale che è emerso. Il fil rouge è
l’approccio umanistico che abbiamo imparato a conoscere nei capitoli
precedenti. Buona lettura.

#SOUVENIR #MAGNETI #FRIGO

TERRITORIO DIGITALE: Instagram

TIPOLOGIA DI SMALL DATA: contenuti relativi a hashtag predefiniti

RICORRENZA MAPPATA: magneti sul frigorifero in cucina

INSIGHT PRINCIPALE: nostalgia per i viaggi passati

FORMAT DELLA STORIA: report netnografico


Su Instagram ci sono dieci milioni di contenuti accompagnati dall’hashtag
#souvenir. Il significato letterale di questa parola francese è ricordo, ma il
termine è usato soprattutto per indicare l’oggettino che possiamo acquistare
quando visitiamo un luogo di interesse turistico, del quale vogliamo
conservare la memoria. La necessità di portare a casa un souvenir da un
luogo lontano è sempre esistita, ma è nel XVIII secolo, quando i viaggi per
il mondo videro un notevole incremento, che si iniziò a sfruttare
commercialmente la propensione dei viaggiatori ad acquistare piccoli
oggetti. Dalla Tour Eiffel in miniatura ai portachiavi con i testicoli di
canguro, dai ditali con la regina d’Inghilterra alle calamite a forma di
sardina portoghese, oggi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Quali trend e
comportamenti possiamo scoprire grazie all’osservazione degli oggetti? E
qual è dunque l’immaginario che un turista ha riguardo una nazione? Qui è
stato scelto di usare il metodo dell’etnografia digitale e sono state analizzate
solo le foto più recenti che effettivamente rappresentavano un oggetto-
ricordo riconducibile a una determinata località. Inoltre, è stato scelto un
oggetto-ricordo specifico: le calamite, collezionate soprattutto sui
frigoriferi.

In tutto il mondo. Il primo dato da registrare è che i magneti


turistici non sono un fenomeno solo italiano, ma coinvolgono anche
altri Paesi nel mondo. La ricorrenza di frigoriferi decorati in Europa
e negli Stati Uniti è notevole.
La disposizione. Salta all’occhio anche un certo ordine nella
disposizione. Ci sono tre approcci: l’ordine di viaggio, dal più
vecchio in alto al più recente in basso; l’ordine di destinazione, per
continente o per tipologia (Paesi, città, simboli specifici); e infine il
più gettonato, l’ordine di forme.
L’oggetto iconico. In un’epoca dove tutto si muove sul digitale
e sull’immateriale, la calamita si porta dietro un fascino d’altri
tempi. È qualcosa di piccolo, maneggevole, che può finire nel nostro
bagaglio a mano senza occupare spazio. E spesso le più gettonate
sono proprio quelle che hanno più soggetti insieme, così da
racchiudere in un unico oggetto tutto il mondo narrativo di un luogo.
Il lato kitsch. Il magnete non deve essere bello per forza, anzi.
Parte delle persone che li collezionano sembra scegliere il più
vistoso, eccentrico e kitsch proprio perché squisitamente turistico.
Non è raro trovare oggigiorno anche riprodotte su calamite intere
cartoline dei decenni pre-digitali.
Un pizzico di humor. Ci sono poi mete che un immaginario di
viaggio non ce l’hanno, ma sopperiscono con elementi grafici più
generici (sole, fiori, bamboline) oppure con battute di spirito o modi
di dire locali.
Qualcosa di più raffinato. È una minima parte, ma alcuni
scelgono oggetti più ricercati, che raramente però appaiono poi sui
frigoriferi affollati di calamite.
Confusione. In molte foto che riguardano le esposizioni dei
negozi di souvenir, c’è parecchia confusione, soprattutto in quelli
italiani. A Milano si vendono anche maschere di Venezia e torri di
Pisa; a Siena si trovano anche riproduzioni di vini francesi, forse
perché la città fa parte del circuito degli amanti del buon vino.
I supporti. Non si trovano solo su frigo, freezer e cappe della
cucina: i collezionatori più accaniti fanno uso di lavagne e lastre
metalliche extra, spesso appese in camera da letto. La composizione
più gettonata è a puzzle, andando man mano a riempire gli spazi
vuoti.
L’auto-rappresentazione. È come un selfie: le calamite raccolte
restituiscono l’immagine che vogliamo dare di noi alle persone che
vengono a farci visita, a casa o sul nostro canale Instagram.
Un tocco di colore. Uno degli insight che portano le persone a
collezionare magneti per il proprio frigo sembra avere a che fare con
un tema di arredamento. Secondo queste persone, le calamite
turistiche aggiungono del colore, rendono più piacevoli gli ambienti
domestici, e più personalizzati gli elettrodomestici.
Questione di ritualità. Non c’è viaggio se non c’è souvenir da
portare via. Il momento preferito per l’acquisto di calamite? Il
giorno prima di tornare a casa oppure direttamente in aeroporto.
Solo simboli. Ci sono poi trend di acquisto con elementi che
rappresentano una terra o una città che non viene palesata con il
nome. È il caso, in Italia, dei peperoncini calabresi, dei limoni
amalfitani, delle arance siciliane. Ciascun magnete, a suo modo,
richiama un immaginario di viaggio. “Un luogo comune”,
letteralmente.
L’orgoglio. Mostrare una collezione di calamite cela anche un
moto di orgoglio e soddisfazione personale. Il sottotesto è:
“Guardate quanto ho viaggiato, ne ho le prove”. Le unicità. Benché
certe associazioni non siano immediate per un turista vengono
comunque riprodotte sulle calamite, in modo tale da costruire il
mondo narrativo di una città minore. È una modalità di city
branding a tutti gli effetti, e l’osservazione online può aiutarci a
vedere come si stanno muovendo in tal senso alcuni territori.
Possibilità e combinazioni. In quanti modi può essere
rappresentata una città come Milano? Infiniti. Con farfalle, cornici
di fiori di girasole, cucchiai, vigili urbani, cavalli, motorini anni ʼ60,
pellicole e addirittura conchiglie. Le crociere. Numerose le calamite
che arrivano dalle crociere che rappresentano la nave di viaggio.
Dunque, fermiamo la memoria non solo di una città visitata, ma
anche di un mezzo di trasporto sul quale abbiamo vissuto
un’esperienza talmente forte al punto di volerla ricordare con un
souvenir. È un trend molto popolare tra i croceristi.
La fiction. E, infine, a volte elementi iconici del reale si
mescolano con quelli della finzione, al punto di registrare calamite
di Gomorra a Napoli, di Suburra a Roma e di Montalbano a
Ragusa. Anche questo significa portarsi a casa un pezzo di universo
narrativo collettivo su una località turistica.

Consiglio di lettura #13


Abbiamo detto in precedenza come l’osservazione possa limitarsi anche solo al testo e al suo
sottotesto. Ville e tenute. Etnologia della casa di campagna (Elèuthera, 1994) è il diario di bordo
del celebre etnologo francese Marc Augé alla ricerca di small data tra gli annunci immobiliari dei
quotidiani cartacei. Combinando sociologia, psicologia e storia, l’autore analizza il lessico
utilizzato e l’immaginario che quest’ultimo riesce a creare nella mente del lettore. Un ottimo
spunto, in effetti, per ricerche di tracce analoghe sul digitale.
PERCHÉ SCATTIAMO FOTO NEI MUSEI?

TERRITORI DIGITALI: Instagram; Facebook

TIPOLOGIA DEGLI SMALL DATA: contenuti visivi, principalmente fotografie

RICORRENZA MAPPATA: persone che scattano foto alle opere d’arte

INSIGHT PRINCIPALE: tracce del bisogno di conservare la memoria

FORMAT DELLA STORIA: post per un blog

Fotografiamo nei musei per tanti motivi, e ciascuno ha il suo. Per


testimoniare il nostro passaggio; per conservare la memoria di quello che
abbiamo visto; per riguardarci con calma gli scatti a casa; per condividere le
immagini con chi siamo in contatto via mobile; per dare prova di avere una
sensibilità artistica; per sentirci parte di una élite culturale. Secondo uno
studio condotto da Linda A. Henkel della Fairfield University of
Connecticut, scattare troppe foto non fa bene alla memoria, quasi come se
fermare immagini di oggetti, luoghi o persone autorizzasse il nostro
cervello a dimenticare. Se non fotografiamo, perché il nostro cellulare ha la
batteria scarica o perché ci viene vietato, sentiamo di non aver vissuto
davvero quell’esperienza. Perché non c’è traccia. L’ideatrice del blog
Didatticarte Emanuela Pulvirenti scrive su questo tema:

Non è detto che quest’opportunità migliori il nostro rapporto con le


opere d’arte… poterle fotografare a piacimento, difatti, potrebbe
paradossalmente portare ad osservarle con meno attenzione,
delegando ai pixel il ruolo di archivio della nostra memoria visiva.
Di contro la macchina fotografica può rivelare i segreti che l’occhio
nudo o la mente non colgono, come sostiene la scrittrice Isabel
Allende1.

Dunque, quali sono i comportamenti più ricorrenti dei visitatori armati di


smartphone o fotocamera? Quali sono gli insight che li spingono a entrare
in una sala e a scattare, prima ancora di godere dell’opera d’arte? Perché
vengono conservate foto con tagli, colori e luce discutibili, e perché non
basta far tesoro di quelle ufficiali che si trovano online? Come mai quando
viene vietato di fare foto in una galleria o in una mostra speciale molte
persone sono deluse e amareggiate? Perché abbiamo bisogno di
testimoniare il nostro passaggio in un luogo. Ecco alcune evidenze
interessanti che emergono da un’osservazione degli scatti condivisi.
1. Se la macchina fotografica è spesso al collo, a colpire è come la
maggioranza delle persone tenga lo smartphone sempre in mano,
quasi fosse un’arma di caccia, pronta a entrare in azione. A volte,
ancora prima di scattare con la camera, alcuni partono con il
cellulare, in una sorta di prova meno impegnativa. Se poi la prova
convince, si passa ai mezzi pesanti.
2. È curioso rilevare come le persone, accedendo alle diverse sale, non
si avvicinino all’opera per osservarla, ma per immortalarla. Solo
dopo essersi assicurate lo scatto, iniziano a guardarla senza il filtro di
una lente, come se potesse sparire da un momento all’altro, e
andarsene via per sempre. Sembra di avvertire in loro quasi
un’urgenza di cogliere l’attimo.
3. Se gli altri visitatori già posizionati davanti all’opera hanno il
cellulare con orientamento verticale, allora chi si accoda dopo seguirà
questo posizionamento. E viceversa per il taglio orizzontale. È
proprio vero che noi essere umani imitiamo, sempre.
4. La maggior parte delle persone che vuole scattare una foto si
assembla intorno ai quadri dichiarati più famosi. Non vi è quasi
nessun interesse di cercare uno scatto non convenzionale, fuori dai
binari turistici e dalla brochure del museo stesso.
5. Non si fa una foto sola a un’opera d’arte, ma svariate. A volte decine
e decine. C’è da chiedersi se poi a casa venga fatta una cernita, o
vengano conservate a prescindere.
6. L’emulazione senza consapevolezza è evidente: se ci sono dieci
persone davanti a un quadro, se ne aggiungeranno altre
inevitabilmente. Poco importa se c’è un Caravaggio o un da Vinci. Si
scatta la foto, e poi si va a verificare di che cosa si tratta.
7. Infine, i selfie non sembrano popolari per i quadri, ma per le statue.
Consiglio di lettura #14

Perché alcune immagini diventano famose e altre no? Perché ci catturano, stupiscono,
ipnotizzano, come funzionano? È da questi interrogativi che parte Riccardo Falcinelli con il suo
voluminoso saggio illustrato Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a
Instagram (Einaudi, 2020). L’autore entra nell’ingranaggio dei contenuti visivi, li tratta non come
simboli da decifrare, bensì come meccanismi da smontare, ci spiega come sono state progettati e
costruiti, e perché. Un valido aiuto, insomma, anche per noi netnografi.

TRE INDIZI SUL NOSTRO RAPPORTO CON


GLI ANIMALI

TERRITORI DIGITALI: community online; Instagram; gruppi Face-book

TIPOLOGIA DEGLI SMALL DATA: recensioni, profili e conversazioni

RICORRENZA MAPPATA: animali vezzeggiati come persone

INSIGHT PRINCIPALE: forte affettività nei confronti di cani e gatti

FORMAT DELLA STORIA: articolo a paragrafi

The Honest Kitchen: cibi per animali quasi per umani

Siamo sempre più attenti ai processi di produzione degli alimenti, anche


quando si tratta di animali domestici. I social ne sono testimoni: la nuova
generazione di padroni – anzi, genitori! – ha iniziato a proiettare valori
tipicamente umani sulla salute e il benessere dei propri quattro zampe. Ci
sono aziende che hanno intercettato questa tensione culturale: The Honest
Kitchen ne è un esempio, con cibo buono che nulla ha da invidiare a quello
per le persone, con una selezione di pasti e dolcetti per cani e gatti, tra cui
cozze blu e verdi, bevande al latte di zucca speziata e pranzetti senza cereali
ma con patate, spinaci, mele, banane e alghe. Ma questo cambio culturale
interessa anche le multinazionali come Nestlé, per esempio, che in India
spinge con il suo ottimo marchio di alimenti per cani Supercoat; o come
ButternutBox, un servizio britannico di cibo cucinato in casa in
abbonamento.

Quando gli influencer sui social media sono dei cani

Oggi anche i petinfluncer hanno il loro spazio e pubblico. Ad aprire la


strada, nel 2015, la piccola bulldog francese Chloe, che ben presto si è resa
conto che avrebbe avuto la necessità di avere una qualche realtà che la
rappresentasse. Le cifre diventano importanti. Solo per darvi un parametro
economico, qualche tempo fa il Guardian ha parlato di post da 3.000 a
15.000 dollari. Star internazionali sono la piccola Tuna Melts My Heart (da
due milioni di follower), il collettivo Harlow and Sage, il bassotto Crusoe
the Celebrity Dachshund. Della Dog Agency fanno parte per esempio un
blog, PetInsider, e due canali Instagram più generalisti: Dogs of Instagram e
Cats of Instagram. Questi touchpoint amplificano così tutta l’attività della
scuderia delle celebrità dei quattro zampe.

Dogspotting: il gruppo degli avvistatori di cani

Benché i gatti sul web siano le vere mascotte perennemente sulla cresta
dell’onda, i cani stanno rivendicando il loro momento. Con due milioni di
membri da tutto il mondo, Dogspotting è un gruppo su Facebook dove
chiunque può condividere le immagini degli incontri casuali che fanno con i
quattro zampe. Tra le regole di accesso a questa sorta di attività sportiva,
“don’t post your own dog or a dog you know! Dogspotting is a game, sport
and lifestyle of spotting random dogs you encounter” e “no spots of dogs in
locations you’d expect to see them, such as dog parks or beaches, vets, pet
stores, dog parades, et cetera”; dunque solo cani sconosciuti e foto in luoghi
inaspettati.

STARFACE: L’ORGOGLIO PER LE


IMPERFEZIONI
TERRITORI DIGITALI: touchpoint Starface, TikTok

TIPOLOGIA DEGLI SMALL DATA: contenuti collegati al brand Star-face

RICORRENZA MAPPATA: selfie con patch antibrufoli in vista

INSIGHT PRINCIPALE: accettazione dell’imperfezione

FORMAT DELLA STORIA: case study

Se una volta coprire i difetti era un gesto insidioso per cui la toppa era
peggio del problema, oggi non è più così e questo lo dobbiamo, senza
ombra di dubbio, proprio al digitale. Il brand di skincare Starface ha
lanciato una collezione di cerottini per brufoli a forma di stella, le Hydro-
Stars, portando sul nostro viso reale l’estetica degli emoji. Come novelli
Narciso, per i teenager avere l’acne non è mai stato così divertente e
fotogenico. Nato dall’ex direttrice di bellezza di Elle Julie Schott e da Brian
Bordainick nel 2019, Starface è un trattamento mirato per l’acne che marca
una svolta decisiva. A differenza dei cerotti tradizionali, progettati per
essere il meno appariscenti possibile, questi adesivi gialli a forma di stella
vogliono invece attirare l’attenzione sul viso.
Avere l’acne, soprattutto da adolescenti, può causare un disagio
psicologico duraturo. Starface, anziché usare termini come “segno” o
“imperfezione”, vuole normalizzare i brufoli. Gli Hydro-Stars sono
progettati per essere indossati per un minimo di sei ore: quando diventano
opachi, hanno fatto il loro lavoro e possono essere rimossi. Una giovane
consumatrice scrive in una recensione: “Il packaging è così carino che non
vedi l’ora di trovarti un brufoletto”. Ma qual è il segreto dietro a questa
reazione? Starface sta attingendo a un momento digitale in cui i ragazzi
stanno abbracciando le loro insicurezze e non hanno paura di pubblicare i
propri “difetti” online. Gli Z, in particolare, sono incredibilmente aperti
quando si tratta di bellezza e accettazione. Negli Stati Uniti e nel Regno
Unito, il #freethepimplemovement mira a de-stigmatizzare l’acne, con oltre
6.000 post su Instagram di persone che condividono con orgoglio i propri
problemi di pelle.
Incoraggiando le persone a condividere selfie di se stesse con addosso le
stelle adesive, Starface promuove anche un senso di solidarietà online tra
giovani. Funziona perché colpisce il punto debole dell’essere sempre
instagrammabili – pensiamo ai filtri di bellezza su Instagram, come quelli
per esempio che rendono la pelle più morbida. Trasformando il discorso
sull’acne da un tabù vergognoso in qualcosa di divertente e spensierato, il
brand intercetta una tensione culturale importante.
Qualcosa di analogo accade su TikTok. Al motto di “a roulette of body
mods”, un movimento sfida i più giovani a partecipare alla
#piercingchallenge: ci si inquadra e si accetta di veder proiettato sul proprio
volto un piercing, estratto in modo random. L’ingrediente di questa
meccanica vincente capace di influenzare la propria percezione di sé, come
potrete intuire, è proprio la giocosità. L’hashtag a inizio marzo aveva oltre
110.000 visualizzazioni, un indicatore mica indifferente per comprendere la
vanità di chi tra dieci anni occuperà i posti di lavoro e inizierà a mettere su
famiglia.

Consiglio di lettura #15

I dati possono trasformarsi non solo in storie testuali, ma anche in immagini. Ce lo dimostra
Osserva, raccogli, disegna! Un diario visivo. Scopri i pattern nella tua vita quotidiana (Corraini,
2018) ideato, illustrato e firmato da Giorgia Lupi e Stefanie Posavec. Si tratta di un libro tutto da
compilare, disegnare e colorare per conoscere meglio noi stessi, aiutandoci anche a capire come
la visualizzazione dei dati possa essere uno strumento, una lente per scoprire il nostro lato più
umano. Ci sono parecchi esercizi di osservazione e registrazione di micro-dati: dal classificare le
foto contenute nel rullino del nostro smartphone all’analisi delle e-mail ricevute nell’arco di una
giornata.

IL SUCCESSO DEI TEST DEL DNA

TERRITORI DIGITALI: gruppi Facebook; Google Trends; YouTube

TIPOLOGIA DEGLI SMALL DATA: conversazioni, query di ricerca, video

RICORRENZA MAPPATA: rappresentazione delle origini

INSIGHT PRINCIPALE: tracce di ricerca della propria identità

FORMAT DELLA STORIA: breve saggio


“Scopri le tue radici, non è mai stato così facile con il nostro kit a
domicilio!” Quanti di questi annunci sono apparsi sulle nostre bacheche
social negli ultimi anni. Grazie ad aziende statunitensi come Ancestry.com
e 23andMe, i test del DNA oggi si fanno a casa e permettono di esplorare il
proprio patrimonio genetico risparmiando tempo e denaro.
La ricerca di identità individuale all’interno di una cultura e di una
società sempre più fratturate è un argomento molto interessante, proprio
perché ora è più semplice e a portata di tutti. Basta un click. Secondo una
ricerca pubblicata dalla “MIT Technology Review”, oltre 26 milioni di
persone, principalmente cittadini statunitensi, hanno effettuato un test del
DNA a domicilio dal 2012.
Scoprire di più sul proprio passato, rintracciare i parenti negli angoli
remoti della terra, trovare modi per ottimizzare salute e prestazioni fisiche:
sono tante le ragioni che portano le persone a ordinare un kit, nonostante
l’impatto negativo dei kit domestici sia ben documentato, con incidenze di
violazioni dei dati sul DNA e storie di consumatori che hanno scoperto
informazioni indesiderate. Detto questo, il desiderio di analizzare il proprio
genoma non mostra segni di declino.
In generale, ricercare le radici biologiche non è un’attività così insolita,
se ci pensiamo: redigere alberi genealogici e individuare gli antenati è una
cosa comune. Negli Stati Uniti, per esempio, è il secondo hobby più
importante del Paese, dopo il giardinaggio. Ma l’interesse per i test del
DNA fai-da-te ha catalizzato un fenomeno culturale inaspettato:
l’affermazione pubblica dell’identità razziale. E infatti, non è insolito
imbattersi su YouTube in video dove le persone raccontano le proprie
radici. Oltreoceano il terreno di partenza, in fondo, è fertile. Tra temi di
razzismo, immigrazione e nazionalismo, il clima sociale favorisce la ricerca
di un’identità genealogica. Eppure, mentre alcuni stanno facendo test del
DNA per affermare le proprie convinzioni sulla loro discendenza, altri sono
desiderosi di esplorare il reticolato dei loro antenati.
Oltre a stabilire una storia biologica, i test genetici possono essere anche
un veicolo di successo per far incontrare le persone. L’app di appuntamenti
Pheramor ha proprio il DNA al centro della sua offerta. Gli utenti, infatti,
inviano un tampone e scienziati specializzati sequenziano i geni
responsabili dell’attrazione. Successivamente, l’algoritmo dell’app abbina
le persone più compatibili in base a segnali chimici e alle informazioni del
profilo personale.
I consumatori online raccontano che parte del fascino dei kit del DNA a
casa sta nella semplicità, con test che richiedono solo pochi minuti per
essere completati. Pensiamo ad AncestryDNA, per esempio, che per 59
dollari chiede alle persone di riempire una piccola fiala con la propria
saliva, scuoterla e quindi inviarla ai laboratori dell’azienda per un periodo
di elaborazione dalle sei alle otto settimane. I risultati vengono
successivamente caricati su un portale online. C’è una magia in tutto questo
esperimento fisico: i consumatori forniscono il loro materiale genetico e lo
vedono trasformato in fatti profondamente personali sul digitale.
C’è anche un altro tema. Sempre più persone cercano indicazioni su
eventuali esposizioni a malattie e problemi di salute o, più banalmente,
suggerimenti personalizzati per le scelte di stile di vita. Questo interesse va
di pari passo con l’emergere del biohacking, che vede le persone provare a
quantificare e ottimizzare le prestazioni fisiche e mentali.
Chronomics migliora l’esperienza del test del DNA utilizzando
l’epigenetica, fornendo dunque ai clienti informazioni sui fattori dello stile
di vita che influenzano i loro geni, nonché idee e abitudini per migliorare la
salute. Oppure, nel settore della bellezza, SkinGenie combina l’analisi del
DNA con l’imaging tridimensionale e l’intelligenza artificiale per creare
prodotti per la cura della pelle iper-personalizzati e su ordinazione,
mostrando come i marchi al di fuori del settore sanitario possono utilizzare
le informazioni genetiche per creare su misura beni e servizi.
Ai marchi che trattano dati del DNA le persone chiedono online,
soprattutto, trasparenza. Per esempio, EncrypGen e Nebula Genomics
stanno usando la tecnologia blockchain per offrire ai tester un maggiore
controllo. Sotto la filosofia di una maggiore connessione, inclusione e
apertura, il test del DNA offre ai brand l’opportunità di esprimere i propri
valori.
Per esempio, la campagna The DNA Journey del sito di ricerca di viaggi
Momondo ha utilizzato i dati genealogici per trovare legami familiari tra 67
persone provenienti da tutto il mondo, evidenziando che i legami genetici
vanno ben oltre il nostro luogo di nascita. Al contempo, Airbnb ha
collaborato con 23andMe per testare la composizione degli antenati delle
persone e raccomandare destinazioni e attività per riportarle alle radici.
1. https://www.didatticarte.it/Blog/?p=4406.
Una brevissima conclusione

Ci sono due tipi di pescatori.

Il primo pesca a strascico: getta una rete e la trascina sul fondo del mare.
Tira su velocemente pesci grandi e piccoli, ma anche coralli, alghe,
posidonie. Insomma, porta in superficie tutto quello che trova, senza fare
alcuna selezione, come gli algoritmi e le intelligenze artificiali. Il secondo,
invece, è più paziente e rispettoso. La sua è una piccola pesca artigianale,
come quelle di una volta. Usa attrezzi specifici a seconda del pesce che sta
cercando e delle abitudini locali.

Chi si occupa di small data è un po’ come il nostro secondo pescatore:


selettivo nella ricerca, meticoloso nella scelta dell’attrezzatura, attento al
territorio in cui si sta muovendo. Certo, serve molto più tempo, e a volte si
rischia di tornare a casa a mani vuote. Ma la qualità ha un sapore più buono
della quantità. Vale la pena provarci.
TRACCE
Collana diretta
da Paolo Iabichino

Volumi pubblicati

Nicolò Andreula, #Phygital. Il nuovo marketing, tra fisico e digitale

Gea Scancarello, #Addicted. Viaggio dentro le manipolazioni della tecnologia

Martina Vazzoler, #Homodigitalis. Verso un nuovo paradigma umano nell’era digitale

Giulio Xhaët, #Contaminati. Connessioni tra discipline, saperi e culture

Chiara Sottocorona, #A.I. Challenge. Amica o nemica? Come l’Intelligenza Artificiale cambia la
nostra vita

Massimo Chiriatti, #Humanless. L’algoritmo egoista

Carola Frediani, #Cybercrime. Attacchi globali, conseguenze locali

Monica Bormetti, #Egophonia. Gli smartphone fra noi e la vita

Beniamino Pagliaro, #Attenzione! Capire l’economia digitale ti può cambiare la vita

Mafe De Baggis, #Luminol. La realtà rivelata dai media digitali


comm | HOEPLI

Caro Lettore,
ormai da qualche tempo uno dei nostri desideri più grandi è quello di
consentire l’interazione tra i nostri autori e chi, come te, ha scelto un libro
Hoepli per la sua formazione, professione o semplice curiosità.
Lo diceva anche il protagonista de Il giovane Holden : “Quelli che mi
lasciano proprio senza fiato sono quei libri che quando li hai finiti di
leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la
pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”
Perché, dunque, non dare a tutti la possibilità di poter interagire con chi
scrive?
La nostra risposta a questa domanda si chiama Comm, la prima
community dove autori e lettori si incontrano. Una piazza di cultura digitale
in cui poter vivere un’esperienza di lettura interattiva, in un continuo e
diretto confronto con gli autori.
Vienici a trovare su www.community.hoeplieditore.it, il sito dove
troverai approfondimenti, podcast, talk, articoli sui trend del digital
marketing, rubriche extra.
Il luogo dove potrai raccontarci cosa pensi di questo libro che hai tra le
mani.
E di tutti quelli che leggerai in futuro.
Informazioni sul Libro

Collana diretta da Paolo Iabichino

Ci sono tracce che non hanno la forma della pianta


dei piedi, ma quella dei polpastrelli delle mani.
Sono le impronte che lasciamo ogni giorno sui nostri dispositivi, quando
digitiamo chiavi di ricerca sul web, mandiamo cuoricini sui social e
facciamo swipe sulle app. Dati minuscoli, che contengono tanto di noi
esseri umani e che possono rivelare il perché dietro a comportamenti, scelte
di consumo, codici linguistici, tensioni culturali. C’è una materia che si
occupa di mappare proprio questi small data in Rete: si chiama etnografia
digitale. L’obiettivo? Capire meglio il nostro presente iperconnesso,
migliorare le strategie di comunicazione dei brand e intercettare i segnali
deboli del futuro all’orizzonte. In fondo, i territori online non sono abitati
da utenti anonimi, ma da persone in carne e ossa con necessità, paure,
sogni. Questo libro racconta dove si raccolgono i dati più sottili e in che
modo si trasformano in storie che vale la pena raccontare.

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