Sei sulla pagina 1di 32

L' ANNUNCIO DEL DIO DI GESU’ CRISTO OGGI

Come annunciare il Dio di Gesù Cristo nell'ambito pastorale e catechistico? cosa dire di Lui
agli uomini e donne d'oggi? Erano queste le domande basilari che hanno sollecitato
inizialmente la nostra ricerca.

Abbiamo ormai focalizzato i criteri formali ultimi che devono guidare tale annuncio
(seconda unità), e li abbiamo anche concretizzato, avvicinandoli alla loro applicazione più
immediata (unità terza e quarta). Ora si tratta di passare a tale applicazione. Prima di farlo,
però, è opportuno raccogliere sinteticamente il risultato della nostra precedente ricerca.

1. Risultato sintetico della ricerca fatta


1.1. Nell'ambito dei referenti

Abbiamo constato, nel lungo arco di storia della Chiesa (dopo il periodo iniziale), la
presenza prevalente di tre sensibilità epocali profondamente diverse tra di loro, e caratterizzate
da preoccupazioni prioritarie differenti:

• quella speculativo-essenzialista, polarizzata attorno all'obiettivo prioritario della


conoscenza oggettiva della realtà, una sensibilità oggi in recesso e presente solo a modo
di atteggiamento residuo o di riflusso in alcuni gruppi o individui;
• quella esistenziale-personalistica, concentrata attorno all'obiettivo prioritario
dell'esperienza soggettiva, largamente dittusa specialmente nelle fasce dell'umanità più
ricche e progredite dal punto di vista scientifico-tecnico;

• quella prassico-storica, segnata dall'obiettivo prioritario della trasformazione storica,


diffusa prevalentemente nelle altre zone dell'umanità, ossia nel mondo della povertà
strutturale. Il contesto planetario attuale, nel quale il mondo appare profondamente
segnato dal fossato che separa in maniera crescente due blocchi contrapposti e conflittuali,
ci sollecita a tentare la formulazione di un annuncio di Dio che non sia indifferente a tale
problematica, anzi che la prenda seriamente in considerazione.
Recentemente - non si può tralasciare quest'ulteriore dato - si è andata aprendo strada una
nuova sensibilità nell'umanità, specialmente occidentale (e dove si lascia sentire il suo
influsso). E quella che caratterizza la cosiddetta condizione postmoderna. Fino a che punto il
tentativo di annuncio che proporremo sia in grado di venirle incontro o occorra ancora
qualcosa d'altro è un problema ancora aperto ...

1.2. Nell'ambito del dato rivelato

L'essenziale delle due immagini bibliche di Dio, colte nei testi dell'Antico e del Nuovo
Testamento (che in fondo sono una sola: abbozzata imperfettamente nel primo, totalmente
esplicitata nel secondo) si può esprimere in questi termini:

70
• il Dio-JHWH, rivelatesi in maniera germinale nell'avvenimento centrale dell'esodo
dall'Egitto e poi sempre più esplicitamente lungo la storia d'Israele, appare come un Dio
che, pur essendo trascendente, interviene attivamente e tenacemente nella storia umana,
mediante la sua Parola e la sua Potenza, per far uscire il popolo di Israele dalla sua
condizione negativa e disperata verso una situazione di possibilità di vita e
di futuro;

• il Dio-Padre-Amore. manifestatesi definitivamente nell'avvenimento-chiave della Pasqua


neotestamentaria, appare come un Dio che interviene attivamente e tenacemente nel
mondo degli uomini, mediante il suo Spirito, per fare uscire Gesù di Nazaret, suo Figlio,
dalla Morte verso la pienezza definitiva della Vita, quale anticipo emblematico e
promessa per l'umanità intera.

È importante rilevare subito, anche in ordine a ciò che ci interessa, che se questo è il nucleo
impreteribile e la sostanza viva dell'immagine del Dio rivelato in Gesù Cristo, non può
mancare in nessuno dei modi di annuncio ecclesiale, sia in quello della prima
evangelizzazione sia in quelli posteriori della catechesi, della liturgia o della teologia.
Le modalità concrete potranno e dovranno cambiare, ma la sostanza non può cambiare.
Ciò vuoi dire, più concretamente, che non potrà venir annunciato nessun altro Dio che
questo, a rischio di non annunciare il Dio della fede cristiana, ma un idolo.

2. La proposta

Presenteremo ora i lineamenti essenziali di un annuncio del Dio di Gesù Cristo all'insegna
del principio della contestualizzazione, ossia tenendo presente la situazione storica mondiale
precedentemente ricordata. Si tratta di un annuncio nel quale il che è strettamente collegato
con il come, secondo quanto avremo occasione di far vedere.

2.1. Enunciato nucleare


L'enunciato che stiamo per proporre è nucleare. Esprime cioè in forma molto condensata la
"sostanza viva" (EN25) dell'annuncio del Dio di Gesù Cristo nella prospettiva scelta. Esso
verrà poi seguito:
• in un primo momento, dalle spiegazioni corrispondenti,
• e in un secondo momento, da una serie di altri enunciati che esplicheranno diversi
aspetti del suo denso contenuto.

Facciamo ancora rilevare che si tratta di un semplice saggio e che, proprio in quanto tale, è
segnato necessariamente da un carattere di provvisorietà. Esso va fatto oggetto di
verifica per accertare la sua validità. In caso di un risultato negativo di tale verifica, esso
va abbandonato per formularne un altro.

Il nostro enunciato si esprime nei seguenti termini:

71
Agli uomini e donne d'oggi va annunciato,
con i fatti anzitutto ma anche con le parole,
che
NELLA VICENDA STORICA DI GESÙ CRISTO
DIO SI È RIVELATO COME UN DIO DI VITA PER TUTTI,
A COMINCIARE DA QUELLI CHE NE HANNO DI MENO… GLI ULTIMI.

2.2. Spiegazioni
2.2.1.1 destinatari dell'annuncio

Le parole iniziali della formulazione ("agli uomini e donne d'oggi") riguardano /


destinatari o referenti dell'annuncio, e ne evidenziano due caratterizzazioni.

• Una viene data dall’attualità (si parla infatti a persone d'oggi, non a quelle di altri
tempi), e intende rispondere a quanto è stato detto riguardo al profondo cambia-
mento avvenuto nel mondo nei confronti di Dio in genere (problema religioso) e del
Dio di Gesù Cristo in particolare (problema di fede cristiana).

• L'altra viene data dal riconoscimento dell’uguaglianza in dignità fra uomini e don-
ne, e intende farsi eco delle istanze che provengono dal grande segno dei tempi costituito
dalla riappropriazione della loro dignità da parte delle donne, dopo millenni di
alienazione causata da una cultura patriarcale e maschilista. Come è risaputo, in questa
alienazione svolse anche un ruolo decisivo una certa immagine di Dio-Padre che, facendo
leva sul simbolo maschile per parlare del divino, contribuì a sancire la soggezione della
donna all'uomo.

2.2.2. Le modalità dell'annuncio

Rivisitando i dati sul Gesù storico nell'unità precedente, abbiamo rilevato che una delle
dimensioni della sua originalità all'interno di un popolo che credeva profondamente nel Dio
dell'esodo, fu quella di aver fatto dell'annunzio del Dio del regno, un annuncio-azione. Egli
disse certamente questo Dio in mezzo alla gente, ma soprattutto lo fece funzionare in un
determinato modo, convertendolo cioè in fonte di vita, di gioia, di salute e di liberazione,
specialmente per quelli che di queste cose erano più privi. Fece funzionare
questo Dio, infatti, guarendo gli ammalati, liberando gli ossessi, perdonando i peccati,
accogliendo i peccatori, dando coraggio e speranza ai poveri, restituendo dignità alle
donne, risuscitando i morti. Nel nome di questo Dio egli mise anche in crisi una società
costruita sull'emarginazione dei più deboli, intaccò la struttura giuridica del libello di
ripudio, aggredì il Tempio convertito in strumento di sfruttamento e oppressione...

I suoi discorsi su Dio erano come una spiegazione della sua prassi in ordine al regno
e, a loro volta, trovavano in essa la loro verifica. Uno dei testi più emblematici da questo
punto di vista è quello di Lc 15, nel quale egli si appella a Dio per spiegare e giustificare

72
la sua sconvolgente prassi nei riguardi dei peccatori, raccontando le tre parabole della
pecorella smarrita, della dramma perduta e del figlio! prodigo.

Qualcosa di analogo si può dire delle comunità dei suoi discepoli dopo la Pasqua. Ne
è una conferma paradigmatica la narrazione di At 3, nella quale Pietro e Giovanni sono
presentati all'opera "facendo funzionare" il Dio della Pasqua nella guarigione dello storpio del
Tempio. Ad essa segue poi il discorso di Pietro che spiega al popolo stupito quanto è successo
appellandosi al "Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri, [che] ha
glorificato il suo Servo Gesù", al "Dio che l'ha risuscitato dai morti" (vv.13.15).

Tale modo di fare resta esemplare per chiunque vuole continuare ad


annunciare il Dio di Gesù Cristo. Questo Dio va annunciato anzitutto
facendolo funzionare in un determinato modo, ossia ponendo degli atti nella
direzione di ciò che di lui viene detto.

Se non c'è questo, il resto può perdere il suo vero senso. Il che tuttavia non esclude,
anzi richiede e fonda, un annuncio-discorso. Quest'ultimo è quindi anche necessario, ma
dovrà porsi in omogeneità con l'annuncio-azione, e comporterà delle esigenze peculiari
che prenderemo ora in considerazione.

2.2.3. Una condizione fondamentale del discorso su Dio


Cominciamo col constatare che l'annuncio-discorso sul Dio di Gesù Cristo può andare oggi a
vuoto, può non arrivare a coloro a cui si rivolge. È capitato in passato e capita ancora più di
una volta nell'attività pastorale e nella catechesi al presente. I motivi sono alle volte
soggettivi, posti cioè dai suoi stessi destinatari. Questi possono, infatti, rendersene insensibili
o indifferenti o anche ostili in diversi modi. L'abbiamo già accennato, sia pur velocemente,
nella prima unità.

Ma questo annuncio-discorso può andare oggi a vuoto anche per motivi inerenti al
discorso stesso, e specialmente a causa della modalità in cui esso viene proposto da coloro che
lo fanno. Soprattutto e fondamentalmente perché costoro non sanno o non riescono a trovare
il suo adeguato punto d'innesto o, con altre parole, la sua giusta sintonia con coloro a cui esso si
rivolge. Sbagliano la porta d'ingresso. Trovare questo giusto punto d'innesto è assolutamente
indispensabile, altrimenti l'annuncio corre il rischio di restare irrimediabilmente sterile o, nel
caso di venire accolto, di venir portato addosso in maniera posticcia, come un soprappiù
insignificante o perfino come un peso.

L'enunciato che abbiamo proposto si fonda sulla convinzione che, co-


me punto d'innesto e di sintonia con i destinatari dell'annuncio del
Dio di Gesù Cristo, occorre far leva su ciò che costituisce l'esperienza
umana più radicale (perché tocca le radici stesse dell'essere umano) e

73
più universale (perché interessa tutti e ognuno degli esseri umani, senza
eccezione): l'esperienza della antitesi Vita-Morte.

Si tratta di un'esperienza che comporta due facce complementari, ma di una


complementarità peculiare, come vedremo subito.

"La prima faccia è quella del desiderio di vivere, e di vivere in pienezza, radicalmente e
attivamente presente in ogni essere umano. Tale desiderio è il più profondo tra quelli
che esperisce ogni uomo. Infatti, se lo si considera attentamente si scopre che ogni
desiderio umano, individuale o collettivo, è espressione del desiderio di vivere e di
vivere senza ritagli, in pienezza di qualità, e di durata. Parliamo perciò del desiderio di
Vita (con la maiuscola) per indicare tale pienezza. Ad appagarlo vanno indirizzati, in
ultima istanza, tutti gli sforzi umani, ad ogni livello. Ed è pure questo desiderio di Vita a
muovere ogni dinamismo umano, singolo o collettivo. L'uomo potrebbe venir definito,
da questo punto di vista, come "un essere radicalmente affamato di Vita".

Ma, accanto a questa prima faccia dell'esperienza, ce n'è un altra di portata non meno
universale ne meno radicale: è l'esperienza della Morte. Per "Morte" (anche qui con la
maiuscola) intendiamo tutto ciò che in qualunque modo contraddice il desiderio di vivere in
pienezza presente nell'uomo: ciò che non permette a questo desiderio di esprimersi, o di
esprimersi adeguatamente, ciò che lo soffoca, che lo ostacola, che lo devia.

Questo secondo aspetto trova la sua massima e più palpabile espressione nella morte
corporale o biologica, nella quale l'uomo vede venir meno ogni possibilità di soddisfare il più
radicale dei suoi desideri. Ma oltre a questo fatto-limite, ci sono altre innumerevoli
manifestazioni della Morte nell'esperienza umana: la fame non saziata, la malattia corporale o
psichica, l'insicurezza psicologica, l'angoscia, la solitudine forzata, l'incapacità di mantenere
rapporti interpersonali, la mancanza dei beni elementari della vita, l'emarginazione imposta
per motivi razziali o religiosi, la schiavitù psicologica o sociologica, la perdita del senso o del
gusto della vita, lo sfruttamento subito, la preclusione all'autodeterminazione, ecc. In una
parola, ogni forma di menomazione umana.

Questa duplice esperienza radicale umana è, come abbiamo anticipato sopra, l'esperienza
della antìtesi Vita-Morte, cioè del coesistere di queste due realtà nell'esistenza di ogni essere
umano in una coesistenza che si caratterizza per il fatto di eliminarsi a vicenda: dove c'è la
Vita e in quanto essa c'è, viene eliminata o soppressa la Morte, e viceversa.

Tale antitesi è una realtà concreta ultima nell'esperienza umana. Al di là di essa non se ne può
trovare un'altra più radicale. Perciò, essa viene a costituire (lo diciamo utilizzando categorie
mutuate da Aristotele) come un "trascendentale" concreto, presente e operante in ognuno dei
suoi "inferiori", senza però esaurirsi in nessuno di essi. Ecco, a modo di esempio, alcuni di
questi "inferiori": sazietà- fame, salute-malattia, sicurezza-insicurezza, serenità-angoscia,

74
comunione-solitudine, gioia-tristezza, senso-nonsenso della vita, benessere-povertà,
partecipazine-emarginazione, pace-guerra, libertà-schiavitù, ecc. In ognuno di questi binomi
antitetici, che si potrebbero moltiplicare all'infinito, il primo membro concretizza la Vita, il
secondo la Morte.

" In seno a questa concreta antitesi o dialettica, una e molteplice, ogni uomo è sempre alla
ricerca, conscia o inconscia, di una Vita-senza-Morte1. Tale ricerca si manifesta in molteplici
forme positive, ma anche in forme negative, come ad esempio nella paura della Morte.
Questa, che in realtà non è altro che l'altra faccia del desiderio della Vita, costituisce la
radice ultima di ogni paura umana. Anche in forza della paura della Morte vengono messi
in movimento i dinamismi dell'uomo, individuali e collettivi. Non ultimo, quello
dell'aggressività2.

Se poi si vuole dire in che cosa consista concretamente quella Vita-senza-Morte così
universalmente e radicalmente ricercata dagli uomini, si deve confessare che non lo si sa
con precisione. Appunto perché immerso nell'antitesi Vita-Morte, l'uomo non può averne
l'esperienza. La sua è un'esperienza di Vita-con-la-Morte, di una vita vissuta, come si è
detto, sotto il segno allo stesso tempo del desiderio della Vita e delle mille presenze della
Morte. Vita-senza-Morte è quindi un'espressione-limite, senza riferimento nel reale
empirico. Di essa se ne hanno soltanto dei sospetti in quei momenti in cui si esperisce in
qualche misura una situazione di pienezza, di realizzazione, di felicità... Momenti
d'altronde sempre minacciati di instabilità e di fugacità: essi non sono la Vita-senza-limiti
di qualità e di durata alla quale aspira instancabilmente l'uomo, anche quando sopprime la
sua vita biologica o quando si lascia prendere dal non-senso della sua esistenza.

• È molto importante rilevare ancora, agli effetti del annuncio del Dio di Gesù Cristo che
stiamo proponendo, che l'antitesi Vita-Morte non ha solo dei risvolti individuali, ma anche
collettivi. Quando la ricerca della Vita-senza-Morte prende in considerazione questi rivolti
collettivi, allora ha a che fare necessariamente con la storia umana. Questa, infatti, consiste
nel cammino che l'umanità va facendo nel tempo verso il futuro, un cammino in cui ogni
vittoria della Vita sulle manifestazioni collettive della Morte costituisce un passo avanti,
mentre ogni trionfo della Morte implica un blocco della marcia, se non addirittura un
passo indietro in essa vista nei suoi risvolti collettivi.

Se si analizzano i fattori che provocano la Morte collettiva nei gruppi umani e, di


conseguenza, in coloro che vi fanno parte, si trova che essi appartengono in massima parte
all'ambito delle libere decisioni degli stessi uomini, singolarmente o collettivamente presi.
Libere decisioni che si cristallizzano in strutture di diversa indole e portata: familiare,

1
Gli antichi avevano espresso questa esperienza umana universale in linguaggi mitologici (cf per esempio il racconto
dell'epopea di Gilgamesh, in J.B. PRTTCHARD [ed.], Ancient Near Eastem Texts, relating to thè Olà Testament, University
Press, New Jersey '1955).
2
Cf E.FROMM, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1976.

75
nazionale, internazionale, mondiale. Sono principalmente esse a sbilanciare la dialettica Vita-
Morte dalla parte della Morte.

Concretamente, in questo momento storico una struttura che provoca la Morte su scala
planetaria è, come abbiamo più di una volta rilevato, quella che spacca il mondo in due parti:
il mondo del benessere e il mondo della povertà. Milioni di esseri umani (la stragrande
maggioranza dell'umanità) sono vittime della Morte a causa dell'emarginazione e dello
sfruttamento di cui sono oggetto. Questi milioni di persone, che aspirano individualmente e
collettivamente alla Vita, sono in preda alla Morte sia dal punto di vista economico, poiché
mancano dei beni elementari della vita, sia da quello sociale, politico, culturale e spesso
addirittura religioso.
Questa struttura planetaria istituzionalizza un rapporto che da una parte provoca la povertà
strutturale dei poveri, e dall'altra si ripercuote sul senso della vita dei benestanti mettendolo
spesso in crisi profonda. Non sembra necessario far notare che chi soffre più crudamente e
più pesantemente gli effetti della Morte sono precisamente i poveri, anche se questa evidenza
viene non poche volte oscurata da raggiri ideologici.

Oltre a questa struttura di Morte di portata planetaria, ce ne sono altre di portata minore
all'interno dei blocchi appena accennati: quelle che producono e rafforzano l'emarginazione
razziale, religiosa, culturale, sessuale, ecc., o altre forme di ingiustizia e di mancanza di
rispetto alla dignità umana. Insomma, tutte quelle forme strutturali che menomano individui
e gruppi.

Sintetizzando, quindi, in poche parole quanto abbiamo detto, possiamo esprimerci cosi:
l'annuncio del Dio di Gesù Cristo va proposto facendo leva sulla radicale e
concretissima antitesi Vita-Morte, e in particolare sui suoi risvolti collettivi, se si
vuole che non vada a vuoto.

L'enunciato che abbiamo proposto è formulato all'insegna di questa convinzione.


Pensiamo che in questo modo, appellando cioè a quest'esperienza umana fondamentale, si
trovi il punto adeguato d'innesto per parlare di Dio mediante un discorso che sia in sintonia con
la loro aspettativa fondamentale, magari a volte inconscia, e che allo stesso tempo collabori a
metterli legittimamente in crisi.

2.2.4. Il linguaggio del discorso su Dio

Prima ancora di passare a spiegare il contenuto dell'annuncio-discorso proposto dal


nostro enunciato, è importante evidenziare la qualità del suo linguaggio. Una qualità richiesta
dalla natura stessa del discorso che si fa. dal momento che esso ha Dio come con-
tenuto. Precisamente per questo, esso ha delle caratteristiche peculiari per le quali si

76
contraddistingue da altri tipi di discorsi. Costituisce, infatti, un "gioco linguistico" parti-
colare3, quello proprio del discorso religioso.

In questo contesto occorre tener presente quanto attesta la storia circa il modo di
parlare di Dio: nell'Occidente cristiano è prevalsa una tendenza positiva (di Dio possiamo
sapere e dire ciò che è), a differenza dell'Oriente nel quale prevalse invece una tendenza
negativa (di Dio sappiamo e possiamo dire piuttosto ciò che non è). In parole più tecniche: il
discorso occidentale è segnato prevalentemente dalla tendenza catafatica, quello orientale
dalla tendenza apofatìca.

Le radici della tendenza occidentale vanno cercate molto lontano nel tempo.
Concretamente, nel tentativo fatto dal cristianesimo primitivo di calarsi nella cultura
ellenistica, fortemente segnata, come abbiamo rilevato precedentemente, dal desiderio di
"conoscere la verità". Uno dei risultati di tale inculturazione fa che i cristiani concepirono la
felicità definitiva dell'uomo come una visione beatifica, come una situazione cioè in cui egli
arriva a possedere pienamente e definitivamente - naturalmente nella misura in cui ciò è
possibile ad una creatura limitata -, la Verità in persona. Dio. La fede anticipa in qualche
modo il traguardo, squarciando già sin d'ora in qualche misura i veli che nascondono le
realtà divine, e godendo cosi anticipatamente la visione di ciò che di per sé supera ogni
possibilità umana di conoscenza.

Ma sono appunto quel "in qualche modo" e quel "in qualche misura" che impediscono
all'uomo di restare pienamente appagato. La sua brama di possedere la Verità non è
mai placata quando il possesso della Verità continua ad essere parziale. Ciò spiega lo
sforzo dei credenti per vedere, per tentar di capire sempre più profondamente i misteri
rivelati alla fede dalla Parola di Dio. All'insegna di questo desiderio nacque la teologia,
che esercitò un notevole influsso sulla predicazione e sulla catechesi. Da essa provengo-
no anche in gran parte le formule di tipo dogmatico, o di altro tipo, coniate in circostanze
spesso difficili e polemiche, sui contenuti della fede. Ad essa si deve attribuire quindi, in
gran parte, la responsabilità in positivo e in negativo del discorso su Dio.

A poco a poco, col passare dei secoli, all'interno della teologia, ma anche
conseguentemente della catechesi e della comunicazione della fede in generale, si andò
creando la convinzione che Dio fosse come a portata di mano, che lo si potesse dire con
completezza ed esattezza. Con il risultato che la modestia nei confronti del Mistero ultimo
della realtà non costituì la caratteristica più rilevante del parlare di Dio nella Chiesa. Anzi nei
trattati di teologia, nei catechismi, nelle predicazioni e nei testi liturgici si potevano cogliere
spesso segni innegabili di una certa tracotanza al riguardo.

3
Per la teoria dei giochi linguistici cf L. WTTTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967.

77
L'ateismo semantico, a cui ci siamo riferiti nella nostra prima unità, venne a porsi come un
elemento di crisi nei confronti della pretesa di un discorso su Dio troppo sicuro di
sé, che finisce per ridurre Dio ad un oggetto del quale si può disporre a piacimento. Senza
pretenderlo e anche magari contro il suo volere, tale ateismo aiutò la fede cristiana a
ricuperare quella dose di apofatismo che non le può mancare mai quando parla di Dio, dato
la realtà misteriosa di cui si occupa.

A dire il vero, se si esamina la storia del cristianesimo si constata che una tale coscienza
non è stata mai totalmente assente nei grandi credenti. Essi si sforzarono di trovare il modo
più adeguato di parlare di Dio e del suo mistero, affrontando anche lunghi
travagli per arrivare alla creazione delle categorie di pensiero e di linguaggio che
potessero dire il meno inadeguatamente le realtà che desideravano vedere nella patria
definitiva, ma allo stesso tempo mantennero viva la coscienza della distanza che esiste tra
tali categorie e le realtà espresse4.

L'ateismo semantico ha sfidato quindi salutarmente il discorso su Dio della fede cristiana.
L'ha obbligato a ricuperare la sua intralasciabile e in qualche misura tradizionale dimensione
apofatica o negativa, a diventare più consapevolmente religioso. A riconoscere che Dio è Luce
oscura, è Realtà che ci sovrasta; che Dio, come scrisse un pensatore recente, è "il totalmente
Altro"5. Che è, come dicevano molti medievali, "sempre major" di quanto noi possiamo
pensare e dire.

Questo ateismo, tuttavia, spinse la sua affermazione fino all'esasperazione. I motivi che lo
ispirano sono di ordine filosofico. Diverse scuole di filosofia del linguaggio (Oxford, ecc.)6 si
sono mosse infatti per confutare tali motivi e le conclusioni da essi tratte, aprendo delle
serrate discussioni che hanno contribuito a gettare luce sulla problematica. Se dovessimo
stare alle conclusioni del Circolo di Vienna, saremmo costretti ad un apofatismo radicale: di
Dio e del suo Mistero non potremmo dire niente, nemmeno che esiste.

La fede cristiana è convinta invece di poter anche parlare di Dio, a se stessa e agli altri. E lo
crede perché è convinta che Dio stesso ha voluto parlare di Se agli uomini. E che l'ha fatto
(non poteva essere altrimenti) utilizzando un linguaggio umano. Ha calato la sua rivelazione
nelle parole degli uomini per poter parlare con essi in ordine alla loro salvezza. Il Concilio
Vaticano n tomo a ribadire tale convinzione. Dice infatti:

4
È il caso, per esempio, di S. Giustino che, parlando dell'invocazione del nome di Dio nel battesimo dichiarava: "Se
qualcuno crede di poter dare un nome al Dio ineffabile, è perdutamente pazzo" (Prima apologià c.61, PG 6, 419-422); più
avanti nei secoli, S. Agostino, parlando del mistero trinitario affermava: "Noi diciamo che in Dio ci sono tre persone tanto
per non stare in silenzio" (De Trinitene 5,9: PL 42,918); ma anche S. Tommaso, tacciato a volte di essere troppo "razionale",
sosteneva: "Di Dio possiamo dire quello che non è, piuttosto che quello che è" (Summa Theologica I, q.3, prol.; Contro
Genti les I, e. 30), e ancora: "II grado supremo della conoscenza umana di Dio è di sapere di non sapere che cosa sia Dio, in
quanto appunto ci si rende conto che 'ciò che Dio è' supera tulio ciò che comprendiamo di lui" (De Potentia, q.7, a. 5).
5
Cf HORKHEIMER M., La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Broscia 1972.
6
Cf ANTISERI, Semantica del linguaggio religioso 102-112.

78
"Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare Se stesso e manifestare il mistero del-
la sua volontà [...]. La verità più profonda su Dio [...] risplende a noi in Cristo, il quale
è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione" (DV1).

Il Dio di Gesù Cristo può, quindi, venir in qualche modo anche detto. Ma con
un linguaggio adeguato, il linguaggio del discorso religioso.

Ora, all'interno dell'esperienza umana il discorso religioso svolge diverse funzioni. Tra esse
ci interessa in questo momento quella detta referenziale, per la quale esso fornisce delle
informazioni riguardanti l'essere di Dio. In questa sua funzione, tale discorso si accompagna
di alcuni tratti che lo contraddistinguono da altri (per esempio, da quello scientifico o da
quello filosofico). Tra questi tratti due sembrano essere i più importanti: quello di essere un
discorso simbolico-metaforico, e quello di essere un discorso prevalentemente narrativo. Li
spieghiamo brevemente.

• Anzitutto, il discorso religioso è un discorso per natura sua simbolico-metaforico. In realtà,


come fanno rilevare i filosofi del linguaggio, ogni discorso umano, qualunque esso sia, è
sempre in qualche misura simbolico e metaforico, nel senso che non può mai pretendere
(come pensavano gli antichi e come si riteneva ancora non molto tempo fa) di ri-specchiare
(fare da specchio) pienamente la realtà, di riprodurla tale e quale nelle parole, di
"fotografarla".
Oggi si è sempre più della convinzione che qualunque discorso umano, anche
quello strettamente scientifico che aspira alla massima oggettività, può soltanto "condurre a
qualche parte a partire dalla realtà"9 di cui parla, come i gradini di una scala. Esso mette in
movimento la realtà e la fa uscire in qualche modo da se stessa verso il senso che acquista per
chi ne parla. Il percorso di questo esodo dalla realtà verso il senso è costituito appunto dalle
parole del discorso che l'uomo costruisce. E questa la ragione per la quale ogni discorso
umano è sempre, almeno parzialmente, simbolico e metaforico.
• È anzitutto simbolico. Per "simbolo", in questo contesto, intendiamo quella realtà che. per
dirla con un'immagine, ha un piede sulla staffa del mondo empiricamente controllabile e
l'altro su qualcosa che è diverso e più grande di essa; che mette insieme due mondi, uno
"visibile" e l'altro "invisibile". Si pensi, per esempio, ad un gesto d'amore (un bacio, un
abbraccio, una stretta di mano, un sorriso, uno sguardo) di una persona verso un'altra. Ogni
discorso umano partecipa di questa condizione simbolica. Ciò vuoi dire che, come si
accennava sopra, esso parte dalla realtà empirica e si muove verso qualcosa di diverso e di
debordante la realtà stessa, qualcosa che "è di più" di essa: il senso che l'uomo esprime nelle
parole e mediante le parole del suo discorso.

• Ma ogni discorso umano è anche e perciò stesso già sempre almeno parzialmente metaforico,
appunto perché conduce sempre in qualche misura "oltre", verso qualcosa di nuovo.

79
Quanto abbiamo detto del discorso umano in generale vale in maniera raddoppiata del discorso
religioso, il quale, nella sua funzione referenziale, ha a che fare con delle realtà "che non sono
di questo mondo" '°, nel senso che non sono oggetto di verificabilità empirica come le altre
con cui siamo ordinariamente a contatto. Dio e il mondo delle realtà trascendenti sono al di là
del verificabile.

Di Dio, quindi, che per definizione è "l'Altro dal mondo", non si può parlare che
con questo tipo di discorso doppiamente simbolica-metaforico. Ciò vuol dire, in
concreto, che quanto di Lui si dice in linguaggio umano è soltanto una freccia che
indica una direzione, una scala che va dalla sua realtà verso il senso che essa ha
per noi, ma senza mai possederla pienamente.

" Un'altra caratteristica propria del discorso religioso è quella di essere prevalentemente
narrativo. Infatti, più che far diretto riferimento alle cose che costituiscono il suo mondo (e Dio
è indubbiamente "la cosa" fondamentale e centrale in tale mondo), e di parlarne
argomentativamente, il discorso religioso preferisce parlarne indirettamente, all'interno del
racconto, mitico o storico a seconda dei casi, dove esse appaiono e acquistano senso7. In
questo ci fanno da maestri gli antichi, con il loro modo mitico di parlare.

Venendo ora al contenuto del nostro enunciato nucleare sull'annuncio del Dio di Gesù Cristo (e
anche di quelli che proporremo nelle sue ulteriori esplicitazioni), dobbiamo dire che esso va
preso, dal punto di vista del linguaggio in cui si esprime, secondo quanto abbiamo esposto
qui sopra, ossia come discorso religioso.

• II suo è, anzitutto, un linguaggio simbolico e metaforico.


È simbolico perché si riferisce a delle realtà "non disponibili", a delle realtà "altre", che solo in
parte possono essere umanamente formulabili. Dire che Dio si è manifestato nella vicenda di
Gesù di Nazaret come un Dio di Vita per tutti e specialmente per gli ultimi, è formulare delle
frasi che hanno certamente un aggancio con la nostra realtà e con la nostra esperienza, ma che
vanno al di là di esse, che le debordano.

È metaforico perché trasgredisce la realtà della nostra esperienza creando un senso nuovo,
inatteso; perché fa delle affermazioni che conferiscono un senso nuovo alle parole della nostra
esperienza e, per di più, come vedremo più avanti spiegando particolareggiatamente i
contenuti dell'enunciato, un senso sconvolgente, veramente "trasgressivo" e perfino
"sovversivo".

Per capire quanto stiamo dicendo occorre tener presente che la metafora, non come semplice
operazione di abbellimento stilistico, ma come autentica operazione semantica, consiste nello
7
Cf RICOEUR, Posizione e/unzione della metafora 87-101; SCHlLLEBEECKX, Gesù. La storia, 727-728; H.
WEINRICH, Teologia narrativa, in "Concilium" 9 (1973) 849-850.

80
smontare il senso ovvio di un discorso e nel crearne uno nuovo, non scontato, un senso che
dalla abituale combinazione delle parole non risulta. Consiste nell'avvicinare ciò che di per sé
è inavvicinabile, nel "trasformare una contraddizione assurda in una contraddizione piena di
senso"8. Si potrebbe dire che la metafora è sempre "un errore calcolato" : errore, perché ciò che
afferma è smentito dall'esperienza verificabile; calcolato, perché chi fa l'affermazione è
consapevole di tale smentita ma la fa ugualmente per creare un senso nuovo. Il fatto di
parlare di Dio in tale maniera, con la chiara coscienza di puntare soltanto verso una Realtà di
per sé inafferrabile e debordante (Deus semper major!), conferisce al linguaggio del nostro
enunciato una forte dose di modestia: esso è consapevole che "Ciò" di cui parla non può mai
venire "ingabbiato" da nessun discorso umano, perché lo sovrasta totalmente.
In questo senso, la nostra formulazione accoglie l'istanza della teologia apofatica o negativa,
cosi fortemente presente tra i Padri e i teologi orientali, e sempre conscia dell'inadeguatezza
del parlare umano nei confronti del Mistero grande di Dio. E accoglie anche l'istanza o anima
di verità presente nella problematica sollevata dall'ateismo semantico. Supera tuttavia
decisamente il "peccato originale" di quest'ultimo, quello cioè di ridurre ogni discorso umano
al discorso scientifico empiricamente verificabile.

• La formulazione adopera, inoltre, un linguaggio narrativo. Colloca, infatti, le sue


affermazioni all'interno della "vicenda storica di Gesù Cristo". Con questa espressione intende
riferirsi alla vicenda personale di Gesù di Nazaret che culmina nell'avvenimento pasquale,
ma anche all'intera storia precedente del popolo di Israele, che nella Pasqua di Cristo trova il
suo compimento e, più in là ancora, all'intera storia dell'umanità e della stessa creazione.
L'enunciato implica quindi che Dio venga "raccontato", rifacendosi tuttavia non a un mito,
come accadeva spesso tra i popoli antichi, ma a una storia concreta, quella che culminò con
l'attività per il regno, con la morte e la risurrezione di Gesù di Nazaret.

2.2.5. Il contenuto dell'annuncio: prima parte

Venendo ora alla spiegazione del contenuto dell'annuncio, cominciamo col dire che, nella sua
prima parte (il Dio Di Gesù Cristo è "un Dio di Vita per tutti"), esso delinea informa ancora
generica l'immagine di Dio da annunciare agli uomini e donne d'oggi. Questa prima parte
viene a dire che, nei confronti della antitesi Vita-Morte in cui è immerso ogni essere umano,
sia singolo che collettivo, il Dio che si è rivelato nella vicenda di Gesù Cristo si comporta in
un modo molto definito: mettendosi cioè sempre assolutamente, incondizionatamente,
gratuitamente, dalla parte della Vita.

In poche parole, vogliamo dire che il discorso sul Dio di Gesù Cristo è e dovrebbe essere
sempre, e quindi anche oggi: 1) un discorso modesto, consapevole che la Realtà a cui si
riferisce è sempre più grande di quanto di essa si dice; 2) un discorso simbolico-metaforico,
che crea un senso nuovo a partire dall'esperienza, ma "sconvolgendola"; 3) un discorso
8
P. RICOEUR, Posizione e funzione della metafora nel linguaggio biblico, in P. RICOEUR - E. JUNGEL, Dire Dio. Per
un'ermeneutica de! linguaggio religioso, Queriniana, Brescia 1978, 78.

81
narrativo, che racconti ciò che Egli stesso ha voluto dire di Sé nella storia, e soprattutto
nella storia di Gesù di Nazaret.

II Nuovo Testamento esprime questa convinzione nella sua forma più alta mediante la frase
"Dio è amore" (1Gv 4,8.16). Per coglierne la portata bisogna ricordare che tale affermazione
non ha, nell'intenzione del suo autore, un carattere filosofico. Non è la conclusione logica di
un processo razionale che, muovendo dall'amore presente nelle creature, arrivi all'essenza di
Dio mediante l'affermazione dell'esistenza di tale perfezione in grado infinito nel loro
Creatore. È piuttosto la gioiosa confessione di fede scaturita dalla contemplazione dell'intera
vicenda di Gesù di Nazaret, e soprattutto del suo momento culminante, la risurrezione. Essa
proclama che Dio si è ivi rivelato, ossia come totale e gratuita donazione di sé agli uomini per
la loro Vita.

Un tale modo di confessare Dio è agli antipodi di quello di tante mitologie antiche,
nelle quali le divinità apparivano come gelose della loro condizione di viventi e per niente
disposte a far partecipi gli uomini di essa. Tanto l'esodo dell'Antico Testamento quanto
e ancora più chiaramente l'agire storico di Gesù di Nazaret e l'avvenimento pasquale,
rivelano invece un Dio totalmente intento ad un preciso scopo, quello di far possibile
all'uomo, ad ogni singolo uomo e all'umanità intera, il raggiungimento della pienezza della
Vita, quello di associarlo alla sua condizione di Vivente.

Negli scritti neotestamentari ciò è così evidente, che il Cristo glorificato, che è proposto alla
fede e alla speranza come il "Primogenito" degli uomini (Col 1,18) e come "le primizie"
dell'umanità matura (7Cw 15,20.23), viene presentato come "il Vivente per i secoli dei secoli"
(Ap 1,18).

In questo senso si può anche dire con ragione che il Dio di Gesù Cristo è un Dio in-
condizionatamente filantropo, nel senso biblico della parola, ossia un Dio che vuole la Vita
dell'uomo, di ogni uomo, antecedentemente e indipendentemente da ciò che esso
concretamente sia o faccia: un Dio gratuito.

Si fonda anche qui il carattere di evangelo che deve caratterizzare l'annuncio di questo
Dio. Al riguardo si deve dire che purtroppo non raramente, invece, questo annuncio è sentito
dagli uomini che lo ascoltano come un peso. Quando, per esempio, lo si strumentalizza per
giustificare o addirittura per sacralizzare situazioni di Morte quali la schiavitù,
l'emarginazione razziale, religiosa, sessuale, politica, ecc. Più di una volta esso non significa
di fatto una "buona notizia" ma, viceversa, una notizia funesta. Non per niente sono sorti i
"maestri del sospetto" che hanno sferrato la loro critica alla religione, dando origine alle forme
svariate di ateismo oggi diffuse nel mondo. Se proclama veramente il Dio di Gesù Cristo,
l'annuncio non può non essere portatore della gioiosa notizia che caratterizzò in modo del
tutto particolare quello fatto dallo stesso Gesù di Nazaret, un annuncio che colpi
profondamente coloro i quali si decisero di seguirlo accettando la sua proposta di vita e di
azione (Me 2,14 par.; 3,13-15 par.; Gv 1,35-51; ecc.).

82
D'altra parte, l'annuncio di un Dio che vuole assolutamente e incondizionatamente la Vita
degli uomini, si converte in una forma di critica radicale nei confronti di altre concezioni di
Dio.

• Anzitutto, nei confronti di una sua concezione cosmico-paganeggiante secondo la


quale Dio è tale a spese dell'uomo, in modo tale che solo annientando l'uomo Dio
può autoaffermarsi; oppure pensa Dio come qualcuno che bisogna conquistarsi
mediante atti cultuali o virtuosi17.

• Ma costituisce una critica radicale anche, e con non minore forza, nei confronti di
certe concezioni pseudo-cristiane, secondo le quali Dio diventa una specie di anestesia nei
riguardi della Morte nelle sue concrete manifestazioni, individuali e collettive. Tali
concezioni, invece di annunciare un Dio che suscita una decisa ribellione contro la Morte
in quanto negatività e menomazione per l'uomo, annunciano un dio che ne giustifica la
presenza nel mondo. Davanti al Dio rivelato in Gesù Cristo esse restano totalmente
sconfessate.

2.2.6. Il contenuto dell'enunciato: seconda parte

La seconda parte del nostro enunciato ("a cominciare da coloro che ne hanno di meno")
viene a dar maggiore specificità e maggiore concretezza a quanto è stato detto genericamente
nella prima9.

Sulla base ancora di quanto racconta la Bibbia, sia nell'Antico sia soprattutto nel Nuovo
Testamento, in questa seconda pane si tiene conto del fatto che, nella sua assoluta e
incondizionata volontà di Vita per gli uomini, Dio non ha a che fare semplicemente con degli
esseri umani che portano in sé l'insaziabile anelito di vivere in pienezza (ciò sarebbe ancora
astratto), ma con degli esseri umani che esperiscono tale desiderio in mezzo alle mille forme
della concreta antitesi Vita-Morte. Perciò, che la volontà di Vita di Dio per gli uomini diventa,
di fatto, volontà di risurrezione, ossia di trionfo della Vita sulla Morte, in tutte le sue espressioni
e manifestazioni.

Ciò significa diverse cose:

1) Significa, in primo luogo, che nei confronti della antitesi Vita-Morte, sia nei suo;
risvolti individuali sia in quelli collettivi, questo Dio di Gesù Cristo si schiera sempre contro la
Morte in quanto tale, ossia in quanto essa implica menomazione dell'uomo e ostacolo alla sua
pienezza.

9
L'espressione riecheggia quella di Mt 20,8: "a cominciare dagli ultimi" (parabola dei vignaioli).

83
• Questo primo aspetto mette in crisi un certo modo, molto diffuso anche tra i cristiani, di
capire "la volontà di Dio". Spesso, infatti, quest'espressione fa da copertura ideologica a delle
realtà (naturali o effetto della libertà umana), che non hanno niente a che vedere con ciò che
una genuina comprensione dei dati rivelati lascia intendere.
Se è vero quanto è detto precedentemente, nulla di ciò che si oppone alla Vita degli uomini
può essere considerato volontà del Dio di Gesù Cristo. La stessa morte di Gesù di Nazaret in
croce potrebbe svolgere un ruolo ideologizzante e giustificatore della Morte se non si coglie il
suo vero senso. Essa non può essere volontà d Dio in quanto Morte, ma solo in quanto
cammino fecondo di Vita per lui stesso e per gli altri. Ciò che la spoglia del suo carattere di
"maledizione" (Gai 3,13), è precisamente il fatto che mediante essa Gesù aprì il cammino verso
la Vita, perché fu espressione della sua donazione totale alla causa del regno di Dio.

• Ma l'affermazione secondo la quale la volontà di Dio per gli uomini è la Vita, sembra essere
smentita dalla dura e diffusa presenza della Morte nel mondo: se Dio è dalla parte della Vita,
come possono esistere situazioni in cui il trionfo della Morte è così evidente?

È soprattutto il problema del dolore, e in particolare del dolore innocente, a sollevare queste
domande. Si tratta di un problema antico, del quale si hanno anche chiare e ripetute tracce
nell'Antico Testamento (Giobbe, Tobia, Salmi, ecc.). Esso non è assente neanche nel Nuovo,
specialmente per via della morte ingiusta di Gesù10, e ha continuato a porsi acutamente lungo
la storia in termini perentori: "O Dio è onnipotente e può evitare il male - scriveva un autore
dei primi secoli del cristianesimo -, ma non lo vuole, e allora è cattivo; o lo vuole, ma non lo
può, e allora non è onnipotente, cioè non è Dio"11. B problema acquista speciale urgenza in
questo momento storico, in cui la sofferenza incolpevole è il retaggio di milioni e milioni di
esseri umani tenuti in condizioni inumane mediante strutture ingiuste di dimensioni
planetarie.

Una risposta razionale a una questione cosi incalzante come questa non sembra si possa dare.
Ha tentato in molti modi di elaborarla la teodicea12. Per noi, una risposta non può essere data
(nella logica di quanto stiamo dicendo finora) al di fuori di quanto questo Dio ha voluto
rivelare di sé nella vicenda Gesù di Nazaret. In essa appaiono inseparabilmente presenti le due
cose: la volontà assoluta di Dio per la Vita da una parte, e dall'altra il suo non intervenire
empiricamente per strappare Gesù dalla Morte alla quale la cattiveria degli uomini lo
condanna. La risurrezione però, ossia la sua vittoria piena e definitiva sulla Morte in Cristo, è
l'espressione suprema del suo modo di rapportarsi con gli uomini.

10
Cf SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia 290-300.
11
È la classica obiezione proposta da Epicuro, nell'antichità (cf cit. in LATTANZIO, De ira Dei, in PL 7,121).
12
Si veda al riguardo l'interessante saggio di P.RICOEUR, II male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana,
Broscia 1993.

84
Due cose sembra si possano ricavare dalla considerazione di questi dati di fede: la prima è
che se l'uomo soffre, Dio soffre insieme con lui13; e la seconda, che Egli invita gli uomini ad
impegnarsi nello sforzo di smuovere le cause reali di tale sofferenza.

La prima parte di quest'affermazione ("Dio soffre con l'uomo") non è molto di casa
nell'ambito delle religioni, e neanche nella coscienza cristiana, ma sembra avere un reale
fondamento nella rivelazione di Dio in Gesù di Nazaret. Uno dei motivi principali della
difficoltà che incontra questa maniera di pensare le cose deriva dall'identificazione che spesso
viene fatta tra perfezione ed incapacità oggettiva di sofferenza: se Dio è l'essere perfetto, si
pensa, non può soffrire; se soffre, non è più Dio. La caratteristica decisiva di questo Dio, allora
tutto cambia. Il soffrire, infatti, lungi dall'essere una imperfezione, è segno di perfezione in
chi veramente ama, che è tutto concentrato sulla pienezza di Vita di colui che è oggetto del
suo amore.

•La seconda parte dell'affermazione ("Dio invita gli uomini ad impegnarsi nello sforzo di
smuovere le causi reali di tale sofferenza"), è mirata a provocare una prassi di vita. Essa vede
la sofferenza, soprattutto quella ingiusta, più come un problema etico che come un problema
metafisico14: sollecita a farsi carico responsabilmente delle cause concrete (storiche, non
metafisiche) che la provocano, e ad impegnarsi per farle scomparire. E il modo concreto di
cooperare con il Dio della Vita a far trionfare la Vita sulla Morte.

2) Che il Dio della Vita abbia una volontà di risurrezione nei confronti dell'uomo significa,
in secondo luogo, che appunto in ragione di questa sua volontà Egli si rivolge con attenzione e
sollecitudine preferenziale a quelli che sono i più colpiti dalla Morte, ai più "moribondi". A quelli
cioè che la libertà individuale o collettiva degli altri uomini lascia "lungo la strada semivivi"
(Le 10,30).

Ciò vuoi dire che i piccoli di questo mondo, i poveri, i deboli, gli esclusi, gli oppressi,
gli sfruttati, quelli che al mondo non contano, gli ultimi, sono i primi e privilegiati destinatari
della sua preoccupazione.

È quanto appare da un'analisi dell'avvenimento veterotestamentario centrale dell'esodo e


dalla vicenda di Gesù Cristo. Nella storia dell'esodo, infatti, JHWH si prende cura speciale del
piccolo e oppresso gruppo degli ebrei; Gesù, da parte sua, nella sua attività per il regno
privilegia i più piccoli e deboli della società del suo tempo15 e, dopo la sua morte, viene egli
stesso strappato da Dio dalla situazione di estrema esclusione e di totale povertà e impotenza
(la massima "ultimità") a cui lo avevano ridotto i potenti del suo popolo.

13
Cf J.GALOT, Il mistero della sofferenza di Dio, Cittadella, Assisi 195; J.MOLTMANN, Trinità e Regno di Dio,
Queriniana, Brescia 1983, 30-71.

14
Cf L. BOFF, Passione di Cristo, passione del mondo: il/atto, le interpretazioni e il significato ieri e oggi. Cittadella, Assisi
1978, specialmente p.155.

15
Cf BLANK, Gesù 59-67.

85
In questo senso si può parlare di una autentica parzialità di Dio16, parzialità che non
annulla l'universalità della sua volontà di Vita e di risurrezione, bensì la specifica
segnalandone l'angolazione. Egli vuole certamente la Vita per tutti senza eccezione, ma a
cominciare da quelli che ne hanno di meno.

3) Una terza cosa significa ancora questa volontà concreta di risurrezione di Dio per
gli uomini: il suo desolidarizzarsi da tutto ciò e da tutti coloro che provocano la Morte
tra gli uomini, e specialmente la Morte dei più piccoli e poveri.

Tornando ancora una volta all'esodo si può facilmente cogliere in esso quanto sia palese
ciò che stiamo affermando, se si considera il modo in cui si rivela l'intervento di
JHWH: il Faraone e i suoi non hanno il suo appoggio; anzi, finiscono in un totale falli-
mento storico (a prescindere della loro salvezza definitiva). Altrettanto si vede nel caso
di Gesù: in ogni situazione conflittuale che gli tocca affrontare, egli si mette decisamente
dalla parte dei maggiormente perdenti. Sia che si tratti del conflitto tra "giusti" e "peccatori", o
degli altri conflitti esistenti nella società in cui agisce (quelli precedentemente ricordati tra i
giusti e i peccatori, tra i ricchi e potenti e i poveri, tra gli uomini e le donne), è facile cogliere
per chi prenda partito e da chi si desolidarizzarsi. La sua risurrezione poi è, tra l'altro, il
momento supremo in cui appare la solidarietà di Dio con lui, povero ed escluso, e il Suo
conseguente desolidarizzarsi da coloro che lo misero in croce.
4) Una quarta e ultima implicanza di quanto è stato enunciato su questo Dio dalla volontà
di Vita e di risurrezione, è che Egli convoca gli stessi uomini ad un ribaltamento di
tutto ciò che produce la Morte tra di loro, e specialmente tra quelli che di questa Morte
soffrono più acutamente le conseguenze.

Sono ancora gli orientamenti biblici a dare fondamento a quest'affermazione. Nell'Antico


Testamento (per es. Dt 21-23) e specialmente nella tradizione profetica (per es. Is 1,10-17) la
dimensione etica dell'alleanza con JHWH trova concretizzazione nell'impegno per la difesa
"dello straniero, dell'orfano e della vedova", trinomio emblematico della situazione di povertà
e ultimità a quei tempi. E nel Nuovo Testamento la conversione alla quale Gesù sollecita
quale programma dell'intera sua proposta del regno (Me 1,14-15), mira appunto a un
profondo e generale ribaltamento in ordine alla Vita.

Così, il Dio di Gesù Cristo appare come il grande Convocatore degli uomini in ordine a
una sola grande impresa: quella di far trionfare concretamente la Vita sulla Morte,
specialmente in quelli che sono i più "moribondi".

Inoltre, questo Dio che si prende cura particolare dei più piccoli, poveri ed esclusi, diventa
una denuncia radicale di tutte le manipolazioni che trasformano Dio in strumento di dominio e
di sfruttamento o emarginazione. Chi si appellasse quindi a Dio per creare, imporre o
16
Ne parlano soprattutto i teologi latinoamericani della liberazione (cfL.BOFF, La fé en la periferia del mundo, 100-
228; J.SOBRINO, Cristologia desde America Latina. Esbolo a partir del seguimiento deUesùs histórico, CRT, México
'1977, 143; ecc.).

86
riaffermare le situazioni (anche strutturali) che fanno morire i più deboli e poveri, si
appellerebbe e renderebbe culto ad un feticcio e non al Dio di Gesù Cristo.

2.3. Ulteriori esplicitazioni

L'estrema laconicità e densità dell'enunciato nucleare sopra proposto richiede ulteriori


esplicitazioni. Le esponiamo ora mettendo in evidenza alcuni dei principali aspetti già
implicitamente contenuti in esso.

2.3.1. Prima esplicitazione

IL DIO DELLA VITA


È UN DIO UNO E TRINO

La fede cristiana sostiene che il Dio della Vita, rivelatesi definitivamente nella vicenda di
Gesù Cristo, è un Dio Uno e Trino. Abbiamo già accennato precedentemente di passaggio alle
circostanze che portarono la Chiesa a chiarirsi le idee al riguardo. Furono soprattutto le eresie,
e in particolare quella ariana (subordinazionismo), che per motivi estranei alla fede negava
l'identità di Gesù (confessato, all'insegna di Gv 1,14) con Dio, quelle che portarono e in certo
qual modo costrinsero la comunità ecclesiale dei primi secoli a definire il dogma trinitario17.
Ciò pone una doppia questione di non poca importanza: se questo tratto trinitario del Dio di
Gesù Cristo deva venir annunciato agli uomini e donne d'oggi e, in caso di risposta
affermativa, come deva venir detto.

Riguardo alla prima questione non ci sono dubbi se si sta alla logica della fede. Se la
Chiesa ha ritenuto così importante quest'affermazione da farla oggetto di una definizione
dogmatica, non la si può lasciar cadere. Costituirebbe un'infedeltà al messaggio rivelato.
È uno dei casi in cui appellarsi alla sola fonte biblica è insufficiente, dal momento che in
essa il dogma trinitario in quanto tale non c'è. Il N. Testamento, infatti, parla sempre in
chiave trinitaria "economica", narrando cioè la storia della salvezza, e al suo interno delle
tre "figure" che ne sono i grandi Protagonisti: Dio, Gesù Cristo, lo Spirito. Non parla invece in
chiave trinitaria "immanente". In altre parole, dice ciò che Dio fa, e non ciò che Dio è. Ma pone
anche le basi per fondare una progressiva intelligenza della rivelazione da parte della
comunità dei discepoli accompagnata dall'assistenza dello Spirito (Gv 16,13).

Il problema riguarda quindi piuttosto il modo in cui questo tratto trinitario del Dio
della Vita possa venir annunciato oggi. Indubbiamente esso è stata formulato in sintonia
con un determinato contesto culturale, quello cristiano-ellenistico in cui sorsero anche le

17
Cf L.SCHEFFCZYK, Dichiarazioni dei Magistero e storia del dogma della Trinità, in FEINER - LÓHRER, Mysierium
salutis III 187-278.

87
prime eresie. Quel contesto oggi non esiste più. Occorre perciò cercare di ricomprendere
questo dato della fede e di annunciarlo in altro modo, pur senza intaccare le formule
elaborate dalla Chiesa, che restano come punto perenne di riferimento.

È necessario cioè restituire fecondità vivificante all'affermazione circa l'essere trinitario del
Dio della Vita. Bisogna fare che essa non sia più, come è stato nel passato per molti cristiani e
forse lo è ancora per non pochi, un puro "mistero logico" o una verità arida e lontana, ma che
costituisca invece un annuncio gioioso ed efficace di salvezza18. Occorre fare della confessione del
Dio Uno e Trino una forza che contribuisca a far trionfare la Vita sulla Morte nella realtà
concreta della storia.

Crediamo opportuno prendere lo spunto, a questo scopo, da ciò che fu enunciato dal
Concilio Fiorentino, e che costituisce uno dei punti più alti della formulazione (e riformu-
lazione) del dogma trinitario. Dopo aver affermato che in Dio c'è una sola sostanza e tré
Persone, detto Concilio formula questo asserto: in questo Dio Uno e Trino "tutto è una sola
cosa, eccetto dove interviene una relazione di opposizione"19.

1) Prendendo in considerazione la prima parte di tale asserto ("in Dio tutto è una sola cosa")
occorre chiarire, come prima cosa, che quel "tutto", a cui si riferisce la formula, è l'essere
divino che, in una sensibilità culturale tipica del momento in cui fu proclamata
(1442), venne espresso con le categorie di "essenza", "natura", "sostanza". Noi invece, con
termini più vicini alla Bibbia e allo stesso tempo più consoni alla sensibilità dell'uomo d'oggi,
lo possiamo esprimere come pienezza di Vita.

Le parole "è una sola cosa" significano che quel "tutto", ossia "la pienezza della Vita", non è
posseduto come proprio ed esclusivo da nessuno dei Tre. Significano, quindi, più in concreto
che il Padre, il Figlio e lo Spirito sono allo stesso tempo soggetto collettivo della stessa ed
unica pienezza di Vita , e che ognuno dei Tre lo è totalmente per parte sua, in modo tale che
ognuno di Essi può dire, come Gesù nel Vangelo di Giovanni: "Tutto ciò che è mio è tuo, e
tutto ciò che è tuo è mio" (Gv 17,10; cf Gv 16,15). Detto in altre parole, tra i Tre c'è una totale e
perfetta comunione. Appunto per questo la Realtà Divina, pur essendo in Se stessa Tre, è una
sola.

Questa affermazione sul modo di essere del Dio della Vita, che in altri tempi costituì
l'oggetto di altissime speculazioni e anche di profonde contemplazioni come di accese
discussioni, si può convenire in una forza vivificante se la si prende come immagine
conduttrice per l'edificazione di una convivenza umana positiva e vivificante20. Ciò significa

18
CfK.RAHNER, Metodo e struttura del trattato "De Dio Trino", ibid. 404-408.
19
DS 1330.
20
"Immagine conduttrice" è un'espressione utilizzata da P.Evdokimov nella proposta che egli fa, in ambito
ecumenico, per costruire l'unità tra le Chiese (cf Quali sono i desideri fondamentali rivolti dalla Chiesa ortodossa alla
Chiesa cattolica, in Concilium 2,2 [1966] 85-96). Noi la estendiamo all'ambito della costruzione dell'umanità in
quanto tale.

88
dire agli uomini e donne d'oggi che, se l'umanità vuole essere vivente, vuole cioè far sfociare
la antitesi Vita-Morte nella Vita per tutti e per ognuno, deve cioè cercar di spezzare
la logica dell'accaparramento, al quale porta a volere tutto per sé soli e crea necessariamente di
conseguenza delle divisioni mortificanti e delle esclusioni emarginatrici, e deve impegnarsi a
far funzionare invece la logica della condivisione. E ciò non solo nell'ambito dei rapporti tra i
singoli individui, ma anche in quello sociale e perfino in quello planetario.

Più in concreto, questo significa, ad esempio, instaurare una prassi che miri a fare in modo
che la struttura economica mondiale che spacca il mondo in due venga sostituita da un'altra,
nella quale la possibilità di partecipare ai beni naturali e prodotti sia data a tutti, senza
distinzione. Le concretizzazioni in questa direzione sono innumerevoli.

2) La seconda parte del succitato asserto del Concilio Fiorentino ("eccetto dove interviene
una relazione di opposizione") contiene dei termini che suonano strani agli orecchi attuali.
Essi vogliono affermare la distinzione esistente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito all'interno
dell'unità sostanziale della Vita divina. Ognuno di Essi - intende dire l'asserto - è Se stesso in
una irreperibile singolarità, singolarità che resta intatta nel seno della più totale unità.
Quest'ultima, infatti, non elimina la distinzione, così come la distinzione non elimina l'unità.

Noi possiamo esprimere mediante le parole "originalità" o "alterità" ciò che il Concilio,
data la sensibilità culturale in cui si muoveva, cercò di dire adoperando la mediazione della
categoria, forse troppo lontana dalla nostra mentalità attuale, di "relazione di opposizione"21.

Anche questo modo di essere del Dio della Vita diventa una proposta per la costruzione di
una convivenza umana positiva e vivificante. Si può formulare così: se l'umanità vuole far
trionfare la Vita sulla Morte, deve spezzare la logica della omologazione dell'altro, che porta alla
sua morte come altro e quindi anche all'impoverimento di tutti, e deve invece far funzionare la
logica dell'accoglienza e del rispetto dell'alterità. A tutti i livelli.
Concretamente, ciò significa dare spazio ad una prassi che miri ad eliminare dal seno
della società mondiale la "colonizzazione ideologica" del blocco di quelli che hanno, sanno e
possono decidere, nei confronti delle maggioranze che non hanno, non sanno e non
hanno potere decisionale; a fare che nella famiglia i figli vengano accettati come diversi
dai genitori e incoraggiati ad esserlo, nella scuola gli studenti vengano animati nella loro
capacità di novità nei riguardi dei loro insegnanti, nella società politica non siano gli adulti ad
imporre i loro modelli di pensiero e di vita ai giovani, ne gli uomini alle donne, ne i
bianchi ai negri, ne i padroni agli operai; a ottenere che nella Chiesa del Dio Uni-trino i laici
abbiano riconosciuto il loro posto e la loro originale responsabilità; ecc.
3) Oltre a dire che nel Dio della Vita si da la perfetta unità nel rispetto più assoluto
dell'alterità, la fede trinitaria dice anche che questa unità e quest'alterità si verificano

21
Esiste una relazione di opposizione tra due realtà che sono in rapporto tra di loro, quando il ruolo di soggetto e
di termine di tale relazione non è interscambiabile. Così, per es., nella relazione di paternità tra un genitore e il
suo figlio, o nella relazione tra un autore e la sua opera ...

89
concretamente fra Tre, i quali, seguendo la rivelazione biblica, sono chiamati il Padre, il Figlio
e lo Spirito.

Già l'alterità di cui abbiamo parlato poco sopra spezzava il cerchio chiuso
dell'omologazione dell'altro. Ora l'affermazione dell'esistenza di tré, e non solo di due, nel
seno dell'infinita pienezza di Vita di Dio, offre lo spunto per una proposta feconda in ordine
alla convivenza umana, ad ogni livello. La formuliamo in questi termini: se l'umanità d'oggi
vuole camminare verso la Vita e superare la Morte, deve spezzare la logica della solidarietà
chiusa, e far funzionare la logica della solidarietà aperta, ad ogni livello.

In concreto questo significa agire in ordine alla creazione di un mondo in cui non ci siano
dei gruppi che condividono intensamente ciò che hanno e ciò che sono solo al loro interno,
ma cercano di aprirsi anche agli altri. Un'azione di questo tipo diventa tanto più urgente
quanto più si prende coscienza della dimensione planetaria dei problemi che minacciano la
stessa sopravvivenza dell'umanità.

2.3.2. Seconda esplicitazione

IL DIO DELLA VITA E’ UN DIO STORICO, OSSIA:


1) UN DIO CHE NON SI IDENTIFICA CON LA NATURA
2) UN DIO CHE SI COINVOLGE NELLA STORIA UMANA

Questa prima esplicitazione mette in rilievo un aspetto molto caratteristico del Dio Uno e
Trino della rivelazione cristiana, e ne contestualizza due delle sue principali implicanze.

2.3.2.1. D Dio della Vita non si identifica con la natura

Raccogliamo e riformuliamo in questa prima parte della proposizione un dato sottolineato


sin dall'inizio dalla Bibbia: in contrasto con le religioni cosmiche dei popoli circondanti, che
identificavano la natura con il divino, la religione biblica pensa il Dio Vivente come creatore
(Gen 1-2). Ciò significa, anzitutto, che per essa la natura non è Dio ne divina, ma "altro da
Dio". Ma permette, inoltre, di affermare, come l'ha fatto con insistenza in sintonia con la
sensibilità odierna la GS (n.36 b), che questo Dio pone in esistenza la natura conferendole
densità e consistenza proprie, e perciò fondando la sua autonomia nell'essere e nell'agire. Di
conseguenza, che essa agisce in forza dei suoi propri dinamismi, senza bisogno di un
intervento immediato o diretto da parte di Dio.

90
Questo Dio Vivente è, perciò stesso, la fonte della dedivinizzazione della natura, come lo
si vede già nelle appena citate pagine del libro della Genesi nelle quali il sole, la luna e gli altri
astri, molto spesso divinizzati dai popoli antichi, sono intenzionalmente presentati come
semplici creature di JHWH.

In questo modo agli esseri umani, che si muovono all'interno della antitesi Vita-Morte,
viene aperta la strada per un nuovo tipo di rapporto con la natura. Infatti, la natura è senz'altro
per essi una fonte di Vita in molteplici forme, a cominciare dall'aria che respirano. Essa
fornisce loro innumerevoli beni per la loro esistenza. Non di rado tuttavia, diventa per loro
anche fonte di Morte. Le malattie e i non infrequenti cataclismi naturali di diversa indole lo
stanno a dimostrare.

Ora, la concezione della natura come divina porta gli essere umani ad un atteggiamento di
sottomissione passiva e rassegnata, quando non addirittura fatalista, verso di essa. Non
permette loro di reagire nei suoi confronti per modificare i suoi effetti negativi. Li rende
quindi suoi schiavi.
Il Dio della rivelazione biblica, invece, per il fatto di togliere alla natura e ai suoi fenomeni
il carattere divino, e di fondare così la loro autonomia, apre agli esseri umani la possibilità di
agire su di essi per orientarli responsabilmente verso la Vita. Apre loro uno spazio di libertà per
la Vita. In questo senso Egli è, per il semplice fatto di essere creatore, anche Vivificante.

• La strada però che questo Dio creatore apre agli uomini, appunto perché è Dio
della Vita, non è quella di un dominio dispotico della natura, ma quella di una
progressiva padronanza di essa e una sua gestione vivificante, che non faccia violenza alla
natura stessa, ma la orienti amichevolmente ai fini vivificanti per i quali è stata creata22.
Una gestione violenta della natura, come quella che si è andata affermando in forma
crescente nell'umanità da quando è iniziato l'accelerato processo scientifico-tecnico in
corso, non può trovare un alleato nel Dio rivelato in Gesù Cristo. Anzi, Egli si pone
come denuncia critica nei suoi confronti. Appunto perché, come dimostra palesemente
l'esperienza attuale, una gestione di questo tipo sta producendo frutti amari di Morte:
inquinamento delle acque, desertificazione delle foreste, contaminazione dell'aria, ecc.
Tutti fenomeni che si ripercuotono negativamente sugli esseri umani stessi.
In questo senso, le antiche religioni cosmiche e le grandi religioni orientali hanno
una parola da dire alle religioni del mondo cosiddetto sviluppato, non escluso al
cristianesimo storico.

• C'è ancora un altro aspetto collegato con l'immagine di questo Dio creatore, ed è
quello della destinazione universale dei beni di questa natura non-divina e autonoma.
Perché Dio ha creato il mondo per la Vita in pienezza degli uomini, ha creato
tali beni per tutti senza eccezione, e non solo per alcuni di essi23. Quindi, ogni forma di
22
Cf J.MOLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986.

23
Cf al riguardo GS69 e l'insistente richiamo di Giovanni Paolo D in SRS nn. 1.9.10.21.22.28.39.

91
accaparramento dei medesimi, individuale o collettiva, si converte in una
fonte di schiavitù e di Morte per gli uomini, come lo conferma ancora la situazione
attuale dell'umanità. Fonte di Morte per tutti, senza eccezione: per coloro che ne
sono privati, anzitutto, ma anche di rimbalzo per gli stessi accaparratori.

2.3.2.2. Il Dio della Vita si coinvolge nella storia umana

Prendiamo in considerazione, in questa seconda parte della seconda esplicitazione, un


altro dato tanto o più sottolineato del precedente nella Bibbia: fin dall'Antico Testamento
essa ha una sua concezione del tempo, che le è propria e peculiare. Sono stati soprattutto
i Profeti quelli che hanno contribuito all'affermarsi in Israele di una concezione del tempo
che si contrappone a quella dei popoli circondanti e anche (almeno in parte) a quella greca.
Mentre, infatti, questi altri popoli concepivano il tempo in maniera ciclica, come
l'eterno girare del cosmo su se stesso a immagine del "tempo degli dèi", il popolo
d'Israele lo concepì invece escatologicamente, ossia in forma lineare e in tensione verso un
futuro di pienezza24. In tale modo questo popolo contribuì singolarmente a creare
nell'umanità il senso storico.

A monte di queste differenti concezioni del tempo c'è anche una diversa esperienza di
vita e insieme una diversa concezione del divino. La diversità di esperienza la si ritrova
nel fatto che Israele sia stato, nelle sue origini, un gruppo seminomade. Mentre i popoli
sedentari antichi erano più legati al ciclo iterativo delle stagioni, i Padri di Israele, non
avendo terra propria, erano costretti ad arrotolare spesso le loro tende e partire verso
nuovi pascoli per i loro greggi.

In stretto rapporto con questa differente esperienza si trova la diversa concezione del
divino: per i popoli sedentari gli dèi erano in fondo la divinizzazione delle forze della natura
con cui si trovavano a contatto. Di conseguenza, è facilmente riscontrabile tra essi il
fenomeno della sedentarizzazione del divino, che trovava una sua chiara espressione nella
costruzione di templi fissi. D che contribuiva a sua volta a tenerli ancorati al presente e al
passato, a guardare nostalgicamente alle origini come al tempo ideale del "paradiso terrestre".
Israele, invece, già nelle sue più remote origini, sembra aver venerato un Dio-da-tenda, che
non aveva dimora fissa ma accompagnava i Patriarchi dovunque andassero.
Ciò si accentuò e si approfondì mediante l'esperienza dell'esodo. Infatti, JHWH, il Dio
che strappa gli ebrei dalla schiavitù dell'Egitto, è un Dio che si muove con loro aprendo
una strada verso il suo futuro.

È vero che anche il popolo della Bibbia conobbe poi un processo di sedentarizzazione, e
che questo processo ebbe i suoi effetti anche sulla sua concezione di Dio; ma, soprattutto
grazie all'opera dei Profeti, l'immagine originaria rimase sostanzialmente viva in esso25.
24
Cf G.VonRAD, Teologia dell'Antico Testamento, Paideia, Brescia 1977, II 124-139.

25
Si vedano al riguardo la polemica attorno alla costruzione del Tempio, di cui si trovano le tracce m 2 Sam 7,1-7, e
l'azione del profeta Elia contro la tendenza alla baalizzazione di JHWH specialmente in 1 Rè 18,20-40.

92
JHWH restò sempre, nella fede d'Israele, come Colui che lo sradica dal presente
in vista di un futuro di maggior pienezza.

Nel Nuovo Testamento questa concezione rimase sostanzialmente inalterata, e venne


ancora ulteriormente approfondita specialmente all'interno del tema centrale del regno
escatologico di Dio, un regno che ha il suo inizio nel presente, ma che è interamente proteso
verso la sua realizzazione finale. E interessante, a questo riguardo, constatare
che negli scritti neotestamentari resta anche presente, benché a volte solo implicitamente,
il tema del "Dio-da-tenda". Così, per esempio, nel prologo del vangelo di Giovanni, dove
l'incarnazione del Verbo viene espressa in termini di "attendamento" (Gv 1,14), ma soprattutto
nell’Apocalisse, dove Dio è Colui che, nel Cristo e mediante Lui, raggiunge la sua mèta, che
consiste nel piantare definitivamente "la tenda di Dio con gli uomini" (Ap 21,3).

Il Dio rivelatesi in Cristo è, dunque, un Dio che, malgrado sia al di fuori della antitesi
Vita-Morte perché è il Santo, il Trascendente, il "totalmente Altro" dal mondo, per pro-
pria decisione e in forza della sua assoluta volontà di Vita per gli uomini si coinvolge in
essa. Ciò significa, concretamente, che Egli entra nella storia umana per far sì che essa
vada verso la risurrezione totale, verso la risoluzione della antitesi dalla parte della Vita.

Ciò conferisce densità e spessore divini alla storia umana. Questa non è il semplice
gioco delle libertà umane (soprattutto collettive), ma è anche, pur rimanendo intatta nella
sua densità e autonomia umane (GS 36b), luogo dove Dio e la sua volontà di Vita per
l'uomo si rendono presenti e dove camminano verso la loro realizzazione piena26.

In questo contesto il Dio di Gesù Cristo si presenta come il grande Pro-vocatore della
storia27, come Colui che non lascia mai tranquillo l'uomo nella sua conquista di Vita
del presente, ma lo sollecita costantemente a sottoporre a critica ogni presente in quanto
esso non è ancora il Futuro (con la maiuscola), dal momento che racchiude ancora in sé
la presenza della Morte. Questo Dio è, per dirla in altre parole, "l'anti-statu-quo" dell'umanità,
tanto a livello personale quanto a livello collettivo.

Occorre tuttavia constatare che, lungo la storia, questo Dio è stato invece spesso
strumentalizzato per mantenere in vigore delle situazioni altamente antiumane. Anche le
Chiese cristiane si sono più di una volta appellate a Dio per impedire ribaltamenti collettivi
che cercavano di smuovere strutture ingiuste. Come attesta la storia, esse (in quanto
istituzioni salde e ben stabilite) hanno avuto quasi sempre paure delle "rivoluzioni", hanno
preferito tutt'al più dei riformismi. Forse non hanno creduto sempre sufficientemente nel Dio

26
Cf GS 1 la, dove quest'idea è alla base dell'affermazione sul bisogno di discernimento da parte del popolo di
Dio.

27
È questa l'idea centrale fa da sottofondo all'opera di J.MOLTMANN, Teologia della speranza. Ricerche sui
fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1970.

93
che, come dice il Cantico di Maria, "disperde i superbi nei pensieri del loro cuore, depone i
potenti dai troni ed esalta gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimandi i
ricchi a mani vuote" (Le 1,51-53).

2.3.3. Terza esplicitazione

IL DIO DELLA VITA


È UN DIO CHE SUSCITA RESPONSABILITÀ
E IMPEGNO

È l'affermazione della paternità divina quella che prendiamo ora in considerazione. Si


tratta, di un dato che ha i suoi solidi antecedenti nell'Antico Testamento28, ma che costituisce
soprattutto uno dei tratti salienti e più caratteristici della concezione del Dio vissuto e
annunciato da Gesù di Nazaret e dalle comunità neotestamentarie. Tale paternità ha
il suo correlativo nella figliolanza. Gesù, infatti, è Figlio di Dio, e l'uomo a sua volta può
diventare tale (Gv 1,18).

Di questa paternità e della correlativa figliolanza si possono avere diverse comprensioni, a


seconda della sensibilità culturale all'interno delle quali ci si muove.

• Una prima comprensione, tipica della sensibilità speculativa, considera Dio come Padre in
quanto Egli rende l'uomo partecipe della sua natura divina. Intendendo questa "natura" in
una prospettiva ontico-sostanzialista. L'uomo ne risulta così innalzato, per pura grazia divina,
alla sfera dell'essere divino, ed è figlio in quanto è della stessa natura divina di Dio. I trattati
teologici classici sulla grazia, e la predicazione e la catechesi che se ne fecero eco, hanno
esplicitato il denso contenuto di queste elementari nozioni ricordate.

Una seconda comprensione, propria della più recente sensibilità esistenziale-personalistica,


interpreta paternità e figliolanza da una prospettiva relazionale. Secondo essa il rapporto di
comunione interpersonale con Dio produce una trasformazione nell'essere relazionale
dell'uomo, e lo fa in tale modo diventare figlio. Il fatto che questa trasformazione non possa
avvenire se non per una libera iniziativa del Dio Vivente, che apre la sua intimità personale
all'uomo, conferisce a detta trasformazione il suo carattere di grazia, poiché l'uomo non
potrebbe mai arrivare da sé ad una simile relazione intersoggettiva con Dio, il Tu infinito29.

• Una terza comprensione, fatta a partire dalla sensibilità prassico-storica, interpreta il binomio
patemità-figliolanza dal punto di vista della prassi: Dio Padre associa l'uomo alla sua opera di
vivificazione e di risurrezione dei morti (Gv 5,17-21); anzi, mette nelle sue mani la

28
Cf R- SCHULTE, La preparazione della rivelazione trinitario, in FEINER - LÓHRER, Mysterium salutis 111 78-81.

29
Cf H.U. von BALTHASAR, L'accesso alla realtà di Dio, in FEINER - LÓHRER, Mysterium salutis, nn. 19-21.

94
realizzazione di quest'opera; l'uomo è figlio di Dio, allora, nella misura in cui si lascia
associare attivamente a quest'opera divina. Qui la grazia diventa decisamente compito nel
mondo.

Viste in quest'ultima prospettiva, che per coerenza con quanto siamo venuti dicendo
facciamo nostra, la paternità di Dio e la correlativa figliolanza, lungi dal favorire un
atteggiamento di infantilismo irresponsabile nei confronti della realtà storica (obiezione
dell'ateismo sociologico marxista), o la reazione edipica della rivolta contro il padre visto
come principale ostacolo al proprio desiderio narcisista (obiezione dell'ateismo psicologico
freudiano), costituiscono una fonte di responsabilità e impegno.

Questo Dio-Padre, che manifesta una estrema preoccupazione nei confronti degli uomini,
quella di portarli al superamento della Morte, si rivela, attraverso Gesù di Nazaret,
come un Dio che vuole associare ogni uomo e ogni gruppo umano, piccolo o grande, in
tale preoccupazione. La figliolanza diventa, perciò stesso, come si vede chiaramente in Gesù,
una condizione umana a carattere prassico. L'uomo, singolo e collettivo, può diventare ad
ogni passo, con le sue libere decisioni, vivificante, e allora anche figlio di Dio, oppure
mortificante, e allora anche non-figlio di Dio.

Naturalmente, questa concezione prioritariamente prassica della figliolanza non elimina la


dimensione esperienziale messa in forte rilievo dall'orizzonte precedente. Lo sta a confermare
ancora l'esempio di Gesù stesso: egli è Figlio nella realizzazione della volontà di Vita del
Padre per gli uomini, ma a partire da una intensissima relazione interpersonale con Lui, come
lascia capire l'appellativo "Abbà" con il quale si rivolge singolarmente a Lui. Il suo rapporto
interpersonale è però chiaramente orientato all'impegno nella realizzazione del regno.

Ancora un aspetto va tenuto presente in questo contesto: se si tiene conto di quanto si è


detto precedentemente sulla parzialità di questo Dio-Padre verso i più poveri e piccoli, i più
deboli, emarginati e oppressi, si può allora capire il realismo storico che tale figliolanza
comporta. Realismo che la sottrae ad un'interpretazione puramente intimistica o addirittura
narcisistica: non potrà, quindi, avere veramente Dio come Padre, chi non ha attivamente e
responsabilmente questi piccoli del mondo come fratelli.

2.3.4. Quarta esplicitazione

EL DIO DELLA VITA


È UN DIO CHE SOSTIENE LA TENSIONE
VERSO IL FUTURO

95
Lo spunto viene qui offerto dal tema biblico della promessa, che permea l'intera storia del
popolo d'Israele, e anche dal tema, con esso intimamente collegato, della fedeltà di JHWH e
del Padre-del-signore-nostro-Gesù-Cristo.

Nell'Antico Testamento la storia d'Israele si apre con una parola di promessa rivolta
al suo capostipite. Abramo. Quest'uomo, segnato dalla Morte (Eb 11,12) per via della
mancanza di discendenza, dell'insicurezza (proveniente dal fatto di non avere terra pro-
pria), e del pericolo dei nemici, viene messo in cammino verso un futuro diverso in forza
di una parola che gli promette una possibilità di Vita straripante: fecondità straordinaria,
possesso di una terra ferace, sicurezza contro i nemici (Gen 12,1-7).

Se poi più tardi il gruppo umano dei suoi discendenti, schiavo in Egitto, si mette in
movimento verso la sua libertà e il suo destino di popolo, ed è capace di continuare la
strada intrapresa nonostante le molteplici difficoltà incontrate in essa, ciò si deve alla certezza
viva che possiede di aver ricevuto una promessa dal suo Dio JHWH. Una certezza confermata
d'altronde dall'esperienza molte volte ripetuta della sua fedeltà irremovibile. E se questo
popolo si mantiene sempre in tensione lungo la sua storia, e costantemente disposto a
rimettersi in situazione di esodo, si deve al fatto di appoggiarsi sull'esperienza di
questa fedeltà del suo Dio alla promessa fatta. In questo senso, il suo passato si converte in
una spinta verso il suo futuro.

A poco a poco Israele arrivò anche a capire che la promessa divina non era solo rivolta a
lui, ma anche all'intera umanità. In questo contesto si può intendere il senso universalistico
già presente nella promessa ad Abramo (Gen 12,3b) e, ancora prima, nel cosiddetto
"protovangelo" (Gen 3,15).

Israele scoprì pure, nella sua esperienza storica, che la volontà di Vita del suo Dio per
gli uomini, per tutti gli uomini, era indefettìbile. La metafora della roccia, tante volte ripresa
nella Bibbia, ne è una chiara conferma. Una controprova di tutto ciò si ritrova nel
fatto che, ogni qualvolta il popolo dubitò della fedeltà del suo Dio e di conseguenza si rivolse
ad altri dèi, si allentò la sua tensione verso il futuro e il popolo finì per istallarsi nel
suo presente.

Nel Nuovo Testamento il tema della promessa e della fedeltà di Dio comporta due
aspetti complementari. Anzitutto, le prime comunità cristiane affermano con enfasi di
aver fatto l'esperienza della suprema fedeltà di Dio nell'avvenimento della Pasqua. La
risurrezione di Gesù è, infatti, per esse, il "si" di Dio (2Cor 1,22), giacché in essa vedono
verificato il trionfo pieno e definitivo della Vita sulla Morte in uno dell'umanità. D'altronde,
ritengono che la donazione dello Spirito alla comunità costituisca la caparra
dell'adempimento di tale trionfo pieno e definitivo per tutta l'umanità (Ef, 1, 14; 2Cor 1,22).

Ma, oltre a ciò, è proprio in base a questa esperienza pasquale che le comunità credenti in
Cristo sono capaci di vivere in stato di avvento, in una accentuata tensione escatologica, e di

96
credere indefessamente alla realizzazione piena della Promessa a livello non solo personale,
ma anche collettivo. L'esperienza della fedeltà del Dio-Padre-del-Signore-nostro-Gesù-Cristo
sostiene e nutre questa loro speranza, aiutandole a superare gli ostacoli e le difficoltà che
sorgono nel loro cammino storico. Ora, venendo all'esperienza umana, un dato indiscutibile
nei suoi riguardi è che l'impegno per il trionfo della Vita è costantemente minacciato dallo
scoraggiamento. La cruda realtà della Morte, nelle sue molteplici manifestazioni e vittorie sulla
Vita, costituisce una dura prova per la speranza. La morte cosiddetta "naturale", quella cioè
che è conseguenza dei determinismi della natura, è una delle cause di tale scoraggiamento.
Ma lo è anche, e ancora maggiormente, la morte violenta, provocata dalla libera decisione
individuale o collettiva degli uomini e dalle strutture da essi create. In questo caso si ha a
che fare con il male, che spesso nella storia personale e collettiva sembra avere la meglio,
nonostante tutti gli sforzi positivi fatti per superarlo, il che crea un senso di impotenza e
dell'inutilità di tali sforzi.

I piccoli e i poveri, quelli che nel mondo attuale sentono più pesantemente la presenza di
queste forme di Morte, possono essere tentati (e più di una volta lo sono) di lasciar
cader le braccia e non continuare a lottare. Ma anche coloro che, senza essere nella loro
condizione, cercano di farsene corresponsabilmente carico possono subire gli effetti dello
scoramento. In tale contesto appare evidente la carica stimolante dell'affermazione biblica
sulla fedeltà irremovibile del Dio rivelato pienamente in Gesù Cristo. L'uomo, singolo e
collettivo, può trovare in essa la certezza di non essere solo nella sua speranza di Vita e
di risurrezione. Anzi, grazie ad essa ha la certezza (sempre nella fede, s'intende) che la
volontà di Dio per la Vita degli uomini è indefettibile, e che va oltre la cruda realtà attuale
della Morte, come è avvenuto nel caso di Gesù. Questi, infatti, caduto "nei lacci della
Morte" (Atti 2,26), venne strappato per sempre da essi dalla potenza risuscitante del Dio
Vivente.

2.3.5. Quinta esplicitazione

IL DIO DELLA VITA


È UN DIO CHE LIBERA DAI FALSI ASSOLUTI

Dio è Signore. È questa un'affermazione che si ritrova in ogni pagina della Bibbia,
sia dell'Antico quanto del Nuovo Testamento. Essa evidenzia certamente il suo rapporto
con la natura come creatore, e con la storia come redentore. Ma c'è un altro aspetto connotato
in essa, quello del Dio geloso che non ammette rivali. Sarà quest'ultimo l'aspetto che ora
prenderemo in considerazione, avendo già anteriormente affrontato gli altri due.

Di per sé, questo tratto del Dio biblico sembrerebbe accennare a qualcosa di
eminentemente teocentrico, ossia qualcosa che riguarda direttamente Dio e che mette in
evidenza la sua centralità nell'insieme della realtà, e allo stesso tempo la sua assoluta
97
superiorità nei suoi confronti. A rinforzare tale percezione vengono quelle numerose
espressioni,
specialmente veterotestamentarie, che sottolineano appunto la gelosia di Dio 48, come anche le
diverse legislazioni che si riferiscono, per esempio, ai matrimoni misti nel popolo
di Israele (Es 10, ecc.).

Se si esaminano invece le cose con più attenzione, si scopre un filone molto ricco e
stimolante in questo tratto del Dio della Vita. Si tratta di questo: nella ricerca della Vita-
senza-Morte gli uomini e i gruppi umani possono sbagliare la strada, e di fatto spesso la
sbagliano. Credono cioè di trovarla in certe realtà che, a corto o lungo termine, finiscono
per atrofizzare la loro umanità e per dimostrarsi non solo non-vivificanti, ma addirittura
altamente mortificanti. Tali sono, per esempio, le attuali forme di organizzazione della
convivenza sociale fondate sull'avere, sull'accaparrare e non sul condividere; certi tipi attuali
di rapporto tra le persone che creano degli steccati invalicabili in ragione dell'ideologia, del
sesso, della razza, ecc. Esso sono, in realtà, dei veri idoli, perché sono dei relativi eretti ad
assoluti.

Perfino Dio stesso (non certo in sé, ma nell'immagine che gli uomini se ne fanno) può
venire trasformato in idolo morto e mortificante, quando il modo di pensarlo, e soprattutto di
viverlo, non coincide con la sua vera immagine. È il caso di una religiosità presieduta da
divinità che hanno bisogno della menomazione o del sacrificio dell'uomo per
essere tali, o anche di un cristianesimo frammischiato sincretisticamente con la religiosità
magica di tipo cosmico, o convertito in strumento di dominio o di sfruttamento.

In tale contesto, non puramente immaginario ma molto reale, l'affermazione della signoria
di Dio acquista un vero senso liberatore e vivificante. Essa incita a sradicare dal mondo quei falsi
assoluti che sbilanciano la dialettica Vita-Morte dal lato della Morte. È una forza
antiidolatrica, e perciò stesso una forza che libera dalla Morte. Chi accetta il Dio rivelato in
Gesù Cristo deve necessariamente respingere tutti gli altri falsi assoluti creati dagli uomini: il
potere, la legge, le ideologie politiche, la ricchezza, ecc. n "nessuno può servire due signori"
(Le 16,13) è, quindi, un proclama di liberazione umana, nonostante le apparenze della
formulazione. Servire Dio implica, infatti, mettersi con Lui dalla parte della "Vita più piena
degli uomini e contro la Morte e i suoi concreti fautori.

Si percepisce ancora più acutamente questa forza ribaltatrice della signoria del Dio
della Vita, se si tiene presente che le vittime principali di queste idolatrie sono sempre i
più piccoli e deboli dell'umanità. Sono essi a venir offerti in sacrificio cruento sull'altare
di questi idoli. Affinché, come è volontà di questo Dio, i piccoli e poveri possano avere la
Vita, è indispensabile far scomparire tali idoli. Solo se il Dio della Vita regna ed è Signore
storicamente gli ultimi del mondo possono essere strappati dai "lacci della Morte".

2.3.6. Conclusione

98
Tutto quanto è stato finora detto nelle esplicitazioni precedenti si può riassumere in
questa affermazione apparentemente paradossale:

IL DIO DELIA VITA


È UN DIO "ANTROPOCENTRICO"

Un simile enunciato può sembrare addirittura riduzionistico, poiché pare sbilanciare


completamente la concezione di Dio nella direzione della sua immanenza nel mondo e
trascurare la sua trascendenza. Eppure, a questa conclusione porta il fatto di prendere sul
serio ciò che afferma la fede biblica. Il Dio da essa confessato e proclamato non è solo
"l'Altro", il Trascendente; è anche e soprattutto Colui che ha deciso liberamente di spostare il
suo centro da Se stesso per riporlo nell'uomo. In questo uomo, singolo e collettivo, che vive
immerso nell'antitesi Vita-Morte. Egli è, perciò, un Dio "ec-centrico" (7Gv4,8.16).

È appunto in base ad una constatazione storica, fatta nella fede, che si può dire con
S.Ireneo: "La gloria di Dio è l'uomo vivente"30. Frase che si potrebbe tradurre cosi: il Dio di
Gesù Cristo non ha altro onore che l'uomo pieno di Vita31.

Si trova pure in questa concezione di Dio il superamento radicale della tensione tra
teocentrismo e antropocentrismo, e della proposizione alternativa "o Dio o l'uomo". Poiché
alla luce di questa immagine di Dio si può veramente affermare che "quanto più l'uomo sarà
uomo, tanto più Dio avrà l'opportunità di essere Dio"32.

Infine, si ha anche qui un criterio radicale per valutare ogni religione e ogni fede: un
rapporto con Dio che non sia vivificante è un falso rapporto e deve venir rimosso, ovunque
esso si trovi.

3. Verifica della validità della proposta

Secondo quanto abbiamo anticipato all'inizio di quest'unità, il nostro enunciato è solo


un saggio, e in quanto tale va verificato nella sua validità. Ora affrontiamo brevemente
questo aspetto della tematica.

3.1. Senso della verifica

30
Adversus haereses IV, XX, 7, in PG 7, 1037.

31
Con ancora maggior concretezza diceva Mons.Romero, l'arcivescovo di S.Salvador assassinato a causa della
sua dedizione alla causa dei poveri del suo popolo: "La gloria di Dio è il povero vivente" (O.A.ROMERO, La
dimensión politica de la fé desde la opción por los pobres [relazione in occasione della sua laurea "honoris causa" a
Lovanio], in "Servir" [Messico] 87 [1980] 443).
32
M.D.CHENU, Morale la'ique et foi chrétienne, in ED., L'Église dans le temps. Ceri, Parigi 1964, 330.

99
In certi periodi della storia della Chiesa in cui prevaleva la sensibilità speculativa, la
preoccupazione principale per ciò che riguarda l'annuncio del messaggio cristiano si
concentrava sulla sua dimensione veritatìva: l'attenzione si fissava prioritariamente sui
contenuti e sulla loro ortodossia; la significatività dell'annuncio per coloro a cui veniva fatto
interessava di meno. O si tendeva ad identificare significatività con verità. Si pensava che ciò
che era vero era anche automaticamente significativo, e quindi valido, per chi lo ascoltava.

La verifica della validità dei contenuti dell'annuncio andava perciò piuttosto all'indietro. Si
doveva controllare la sua coerenza con le fonti della fede: Scrittura, Tradizione della Chiesa,
Magistero. Se un annuncio si dimostrava omogeneo con esse, era dichiarato valido e lo si
considerava anche automaticamente significativo; se viceversa risultava eterogeneo a quelle
fonti, era dichiarato falso e quindi anche non valido per la fede. Tutto si giocava quindi
principalmente attorno alla verità contenutistica dell'annuncio intesa in quel preciso modo.

Come abbiamo visto nella seconda unità, la EN ha stabilito invece due criteri di verifica per
la validità dei contenuti dell'annuncio: la fedeltà al messaggio rivelato e la fedeltà
ai suoi referenti. Essa propone quindi una verifica a due punte: all'indietro e in avanti.
Quanto è avvenuto posteriormente l'Esortazione Apostolica, ossia la presa di coscienza
della necessità di muoversi all'insegna del principio della contestualizzazione, ha rinforzato
ancora quest'esigenza.

Ciò si confà molto bene con quanto abbiamo detto sopra sulla necessità di fare un
annuncio del Dio di Gesù Cristo anzitutto con i fatti, ossia facendolo "funzionare" nella
realtà. Dire infatti che questo Dio è il Dio della Vita per gli uomini, e specialmente per i più
piccoli e poveri, è vero all'indietro, poiché tale discorso, come abbiamo visto, è fedele a quanto
asseriscono le fonti della rivelazione; ma affinché sia vero in avanti, ci vuole l'azione storica
che lo "verifichi", ossia che lo "renda vero".

Solo se nel nome di questo Dio si fa veramente trionfare la Vita sulla Morte, solo se
nel suo nome ci si impegna per smuovere la condizione di povertà estrema e umiliante in cui
si trova la stragrande maggioranza dell'umanità, nel far si che coloro che sono emarginati in
ragione della razza, della religione, dell'ideologia, del sesso siano liberati dalla loro
emarginazione, solo allora l'annuncio fatto avrà la sua verifica in avanti. Il nostro enunciato
intende quindi riallacciarsi ad una azione storica concreta, quella che mira a fare che gli
uomini e le donne "abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10).

In questo modo viene di nuovo messa in evidenza l'unità inscindibile tra il che e il come
dire il Dio di Gesù Cristo oggi, almeno nel suo aspetto sostanziale.

3.2. Una verifica in atto

Occorre constatare che ciò che abbiamo enunciato come criterio di verifica, è oggi un
fatto. Ed è un fatto precisamente e principalmente nel mondo dei poveri.

100
Anzitutto, il Dio di Gesù Cristo viene effettivamente oggi annunciato ai poveri del mondo
come Dio della Vita per tutti, a cominciare dagli ultimi. In molti posti infatti non è più
presentata ad essi un'immagine di Dio oggettivizzante e lontana, e nemmeno privatizzante e
intimista; viene invece proposta l'immagine di un Dio che è con loro per aiutarli a cambiare la
loro situazione33, di un Dio che, lungi dal benedire e canonizzare la loro condizione di povertà
e ingiustizia, la condanna e la denuncia.

Ma forse il fatto più nuovo e sconvolgente è che gli stessi poveri del mondo si stanno
convertendo in soggetti di tale annuncio. Essi si sono "riappropriati" dell'annuncio
evangelico34, perché stanno trovando in esso la risposta alle loro attese di vita e di dignità, e
si sono dati a "verificarlo" nella prassi storica. Oggi, più che in tanti momenti della storia
i poveri si sono convertititi in evangelizzatori del Dio della Vita.

33
A livello teologico si possono vedere le seguenti opere: ARAYA, El Dios de los pobre,' G.GUTIÉRREZ, El Dios de
la vida, CEP, Lima 1981; ID., Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell'innocente. Una riflessione sul libro di Giobbe,
Queriniana, Broscia 1986; ED., Bere al proprio pozzo. L'itinerario spirituale di un popolo, Quermiana, Brescia '1984;
J.SOBRINO, L'apparizione del Dio della vita in Gesù di Nazaret, in ED., Gesù in america latina 152-201; ED.,
Resurreccion 143-176.
34
Cf GUTIÉRREZ, La forza storica 263-267. Vedere anche C.MESTERS, Flor sem defesa. Una explicaqao da Bibita a
partir do povo, Vozes, Petropolis 1983; ID., Il popolo interpreta la Bibbia. Cittadella, Assisi 1978.

101

Potrebbero piacerti anche