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2023 Niccolo Stenone Niels Steensen Una
2023 Niccolo Stenone Niels Steensen Una
Niels Steensen
una biografia a cura di
Giancarlo Mauri
MONOGRAFIE DI GCM
SCIENZIATI E LETTERATI ESPLORATORI DEL GRUPPO DELLE GRIGNE
una collana ideata e realizzata da
Giancarlo Mauri
2
Col titolo Alla ricerca del ghiaccio perduto (Introduzione di Alberto Benini) è stato
pubblicato su Vertice, Annuario della Sezione di Valmadrera del Club Alpino
Italiano, n. 25, 2010, pp. 155-177
Col titolo S’io fossi stato fermo alla spelunca - Niccolò Stenone Niels Steensen è apparso
nella collana Scienziati e Letterati Esploratori delle Grigne, n. 2, novembre 2012
Con lo stesso titolo, in edizione riveduta e corretta: MONOGRAFIE DI GCM, n. 13,
settembre 2014
Col codice ISBN 978-88-85732-66-7 è stato stampato dalla Tecnografica di Sandrigo
per conto dell’editore TGBOOK, novembre 2019
Nuova edizione riveduta e ampliata: MONOGRAFIE DI GCM, n. 130, aprile 2023
MONOGRAFIE DI GCM
Conoscere non significa ricordare,
ma sapere in quale libro andare a cercare
Beniamino Placido
(1929-2010)
questa monografia contiene
DOCUMENTAZIONE INTEGRATIVA
1. L. Magalotti, Scritti di corte e di mondo 197
2. R. McKeon, Une lettre de Melchisédech Thevenot 198
3. Opere di Francesco Redi Gentiluomo Aretino 202
4. Scelta di lettere familiari di Francesco Redi 205
5. Lettere inedite di uomini illustri 206
6. Saggio di carteggi diplomatici del conte Lorenzo Magalotti 209
7. P. Boccone, Osservazioni Naturali 210
8. Biblioteca volante di Gio: Cinelli Calvoli 213
9. T. Tozzetti, Riflessioni sulla struttura e formazione delle
Colline e dei Monti della Toscana 216
10. Continuazione della relazione del viaggio fatto dal Dottor
G. Targioni Tozzetti nella primavera dell’anno 1745 222
11. Targioni Tozzetti, Oreogenia 224
12. D.M. Manni, Vita Del Letteratissimo Monsig. Niccolò Stenone 226
13. Lettere Lariane di Giambattista Giovio 228
14. Saggi di naturali esperienze fatte nell’Accademia del Cimento 229
15. Elogio Accademico del Prof. Cav. Carlo Gemmellaro 237
16. Histoire de la botanique de la minéralogie et de la géologie
depuis les temps de plus reculés jusqu’à nos jours par F. Hoefer 240
17. T.H. Huxley, The Rise And Progress of Paleontology 241
7
DUE LIBRI DI STENONE
DISCORSO SULL’ANATOMIA DEL CERVELLO 255
PRODROMO DI UNA DISSERTAZIONE SUI CORPI SOLIDI. Tradotto dal
latino con prefazione e note a cura di Giuseppe Montalenti
- La vita e l’opera scientifica di Nicola Stenone 283
- Niccolò Stenone. Prodromo di una dissertazione sui corpi
solidi naturalmente inclusi in altri corpi solidi 295
8
introibo (1)
9
E poi le Grigne sono duplici, triplici, quadruplici e via moltiplicando.
… Moltiplicando, non addizionando perché non ci sono solo pareti e
versanti, ma anche guglie e grotte a intricare la loro geologia con la
storia dei bipedi implumi che le hanno percorse.
E per rendere il gioco più bello, complicato, affascinante, perché non
risalire ancora più indietro, perché non introdurre nuovi e affascinanti
personaggi, in grado di muoversi non solo sui dirupi, ma anche nel
bel mondo delle corti e della scienza, in giro un po’ per tutta l’Europa?
È questa la nuova avventura che GCM vi propone, sulla scorta di
ricerche che destano insieme ammirazione e invidia: un approfondito
viaggio fra gli esploratori delle Grigne, sulle tracce di manoscritti
dimenticati in polverosi archivi, che vedrà la luce in forma di libro nel
2011. E del quale le pagine che seguono costituiscono una ghiotta
anticipazione.
a.b.
10
DUE LETTERE E UN DISEGNO
1 Dizione locale per Ésino alto (di origine celtica) e per Ésino basso (romana), oggi
un solo comune: Ésino Lário.
2 Queste diverse forme del nome indicano la fama internazionale raggiunta dal
11
ristretto Club degli “Scienziati esploratori del Gruppo delle Grigne”.
L’Essere io stato il primo a dar contezza della Cristiana pietosa operazione della
Religiosissima Suor Maria Flavia del Nero in procurare in ogni maniera il
cangiamento di Fede del dottissimo NICCOLÒ STENONE, nome celebre in Europa,
e ciò in un Libretto di Notizie impresso da Pietro Gaetano Viviani dodici anni
sono,2 è servito di motivo a me stesso di raccogliere per mio diporto, e con non
poca ricerca le azioni più sorprendenti di lui, e di darle, come ora ho fatto, alla
luce, sollecitatone dagli Amici a me più cari, e parimente intendenti.
Una sola cosa doveva amareggiare la mia impazienza, quella, cioè, di sapere per
certo, che di altre notizie potevasi coronare il Libro, ed in forse io le aspettava, le
quali, o la falce del tempo le ha devastate, o comunque altramente sia, io più non
le spero, persuaso abbastanza trovandomi, che il volere a tutta forza l’ottimo, non
di rado il buono ritiene, o dannosamente il ritarda.
Pertanto le notizie presenti, qualunque sieno, mi è piaciuto distribuirle ne’ tre
12
stati, in cui questo grand’Uomo impiegò l’età sua, breve sì, ma equivalente a una
molto più lunga, di Luterano, di Cattolico Romano, di Prelato al sommo
benemerito; e siccome fornito di una mente piena di penetrazione, qual fu
dapprima nelle Scienze umane singolare, così dal mezzo del cammin di sua vita
fino alla morte preziosa, e felice, comparso distinto nella pietà ugualmente, e nella
dottrina.
Per capire cosa intendeva dire con una «sola cosa doveva amareggiare
la mia impazienza» si deve aspettare fin quasi alla fine del libro,
pagina 261:
13
Avendo a portata di mano i libri fin qui citati, mi è facile seguire le
tracce dei rimandi di questa «addizione qui opportuna». Vista la data
di stampa della Vita, tralascio il primo volume delle Lettere inedite (1)
per aprire a «cartella 49» il successivo (2), dove trovo una lettera in
latino indirizzata all’«Eminent. Cardin. Pallavicinio». Cinque pagine
dopo vi è la firma: «Eminentiss. & Reverendiss. Dignit. Vestrae Servus
infimus., & indignus Cappell. Caspar Engelbertus Schmal». Niente che
possa interessare l’ambiente delle Grigne.
Ma è l’inciso «prima d’altre lettere giovevoli» ad attirare la mia
curiosità, spingendomi a leggere l’intero volume. La sorpresa arriva a
pagina 318, dove inizia la prima di due epistole davvero «giovevoli»:
cifrata «141. Al Granduca Cosimo III», è la descrizione del Bus de la
Giazèra in Val di Gresta (3), stesa da Niccolò Stenone a beneficio di
1 Angelo FABRONI, Lettere inedite di uomini illustri, per servire d’Appendice all’Opera
Intitolata Vitae Italorum Doctrina Excellentium. In Firenze. Nella Stamperia di
Francesco Moücke, 1773.
2 Angelo FABRONI, Lettere inedite di uomini illustri. Tomo secondo. In Firenze. Nella
elevata allo stato comitale dall’Imperatore, con sovranità dal 1° giugno 1664 sui
distretti di Ala, Avio, Mori e Brentonico e con castello a monte di Pannone. Ospite
di Stenone è il conte Francesco de Castelbarco (1626-95), figlio di Scipione e di Laura
de Galvagni, sposato a Claudia Dorothea, contessa di Lodron. Il loro figlio minore,
Giuseppe Scipione, sposerà nel 1696 Costanza, figlia di Cesare Visconti, originando
il ramo milanese che porta questo cognome. - Per le vicende e la geneaologia dei
Castelbarco si veda: Rocco CATTERINA, I Signori di Castelbarco. Ricerche storiche.
Camerino, Tipografia Savini 1900.
Scrive Felice CALVI [in] Il castello Visconteo-Sforzesco nella Storia di Milano dalla sua
fondazione al dì 22 marzo 1848. Antonio Vallardi, Editore. Milano 1894 (2a ediz.), pag.
332, nota 1: «La dama in quistione era donna Teresa Serra marchesa Visconti, figlia
di Gian Francesco Serra, duca di Cassano, morta nel 1707. Fu la prima moglie di
Cesare Visconti conte di Gallarate e marchese di Cislago, colonnello, cavaliere del
Toson d’oro, il quale morì ultimo della sua famiglia nel 1716. Costanza figlia di lei,
sposando il conte Giuseppe Scipione Castelbarco tirolese, trasmise a questi nome,
titoli e ricchezze, sotto condizione trasportasse sua residenza in Milano.» Aggiunge
poi alle pp. 409-10: «Francesco III, amico e protettore di istrioni e di cantanti, vero
principe di casa d’Este in decadenza, aveva impalmato nel 1720 madamigella Aglae
Carlotta di Valois, la troppo brillante figlia del reggente Filippo d’Orleans; ma
14
Cosimo III de’ Medici. È una missiva molto importante, dove per la
prima volta un essere umano si occupa scientificamente di
meteorologia ipogea. Inoltre, nella stessa lettera, Stenone anticipa il
desiderio di poter visitare quanto prima una seconda grotta nota per
mantenere il ghiaccio nei mesi estivi: «Sento che sopra il lago di Como sia
una grotta dell’istessa natura».
Verrebbe da dire: taglia corto e lascia spazio alle due lettere pubblicate
dal Fabroni e subito riprese dal Manni, che riesce ad aggiungerle in
fase di stampa al suo libro sulla Vita del Letteratissimo Monsig. Niccolò
Stenone (1). Ma così facendo ripetererei l’errore di questi due Autori (2),
che con le loro pubblicazioni hanno tratto in inganno tutti i successivi
copiatori dai libri altrui, onorevole e prof. Cermenati incluso (3).
Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, febbraio 1899, Mario CERMENATI fornisce
della seconda lettera una versione compendiata e resa in italiano ottocentesco. Prima
di lui, queste lettere avevano subìto lo stesso trattamento da parte di Angelo
BELLANI, inserite nella seconda parte Delle riflessioni critiche intorno all’evaporazione.
[in] Giornale di Fisica, Chimica, Storia Naturale, Medicina e Arti de’ Professori Brugnatelli,
Brunacci e Configliachi, Membri del R. C. Istituto. Compilato Dal Dottore GASPARE
BRUGNATELLI. Pavia. Presso gli Eredi di Pietro Galeazzi, 1816, tomo IX, pp. 420-423.
Colpisce l’ignoranza della geografia mostrata dal cav. Bellani nel presentare la
seconda lettera stenoniana (p. 421): «Nelle succennate Lettere inedite di uomini illustri
Vol. 2. p. 318 se ne trovano due di Niccolò Stenone il quale se non è nativo Italiano
tutto però deve all’Italia, scritte al Gran Duca Cosimo III. da Milano nel 1671
ragguagliandolo di due ghiacciaje perenni nelle quali anche durante l’estate
continuava a formarsi il ghiaccio, cioè posta l’una sopra Gresta, ora detto anche
Cresta, al Nord di Chiavenna tra Splughen ed il Lago di Siglio (sic) per quanto
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Fabroni, che ha certamente avuto tra le mani gli originali, ha evitato di
dire che entrambe le missive contenevano un disegno topografico.
Anzi, ha fatto di più: eliminando tutti i rimandi ai disegni fa passare
per integrali delle lettere che tali non sono più dopo queste omissioni.
Perché l’ha fatto? Azzardo una risposta: riprodurre i disegni a stampa
richiede l’opera di un incisore, un costo non sempre sostenibile.
Un’ipotesi, la mia, confortata dalla lettura dell’epistolario intercorso
fra Roberto Dati e Ottavio Falconieri, dove il primo riferisce delle
ingenti spese sostenute per l’acquisto di un archivio di lastre di rame,
peraltro già incise (1).
almeno ho potuto rilevare sulle carte, e l’altra detta di Moncoden, che per le indagini
da me fatte, trovo che corrisponde a Montecodono, montagna denominata la Grigna
nel centro della Valle Sassina in faccia a Prima Luna, e sotto la Comune di Corte
Nuova, della quale aveva anche fatto cenno il chiarissimo Amoretti nel suo Viaggio
ai tre Laghi 4. edizione p. 211.»
Restando in tema di strafalcioni, è imbarazzante ciò che scrive l’ematologo Nevio
QUATTRIN [in] Nicola Stenone scienziato e santo (1638-1686). Nel III centenario di sua
morte. Accademia Olimpica-Vicenza, 1987, pp. 132-135: «Sempre in questo campo
vanno poi ricordate due altre opere: «La lettera sulle grotte» al granduca Cosimo III,
e l’«Indice di cose naturali». La prima espone i risultati delle esplorazioni sulle
Grotte di Moncodeno, nel gruppo delle Grigne, soprattutto in rapporto alla
formazione del ghiaccio ed alla temperatura nel loro interno. Ma a questo tipo di
ricerca geologica nell’Alpe Lombarda di Moncodeno appartiene anche la seconda
lettera del Nostro a Cosimo III, scritta poco dopo (sic) e probabilmente pure da
Milano, sempre nel 1671, che tratta delle Prealpi Trentine nella Val di Gresta, e fa
riferimento anche al viaggio di oltre 1.000 Km. (sic) che lo Stenone fece per tali
ricerche partendo e ritornando a Firenze.»
Altro autore, altri grossolani errori: nel sunto del paleontologo Augusto
AZZAROLI intitolato L’opera di N. Stenone nel campo della geologia e paleontologia, [in]
Niccolò Stenone 1638-1686. Due giornate di studio Firenze 17-18 novembre 1986. Firenze.
Leo Olschki Editore, 1988, p. 81, è scritto: «Stenone esplorò due grotte: una sopra il
paese di Gresta, non lontano dal Lago di Garda; la seconda, la grotta di Moncodeno
nel gruppo delle Grigne, nel Varesotto, (sic) situata a oltre 1600 m. d’altezza.»
1 Mi riferisco a quanto pubblicato [in] Lettere di Carlo Roberto Dati. A cura del Can.
Domenico Moreni. Firenze. Nella Stamperia Magheri, 1825, pp. 55-59, e [in] Michaelis
Mercati Samminiatensis. Metallotheca opus posthumum, auctoritate, & munificentia
Clementis undecimi pontificis maximi e tenebris in lucem eductum; opera autem, & studio
Ioannis Mariae Lancisii archiatri pontificii illustratum. Romæ: ex officina Io. Mariæ
Salvioni Romani in Archigymnasio Sapientiæ, 1717, pp. xxxiv-xxxvii, qui trascritte
16
Di fatto, oggi che è andato disperso il manoscritto di Stenone con il
disegno della grotta di Gresta, la monca relazione di Fabroni resta il
testo più antico di cui disponiamo, a cui l’Autore aggiunge una nota a
piè di pagina 318: «Questa lettera non ha data, ma sembra scritta
certamente di Milano l’anno 1671».
più avanti.
1 Lettere al Granduca Cosimo III sulle grotte sopra Gresta e di Moncódeno. Letters to the
Gran Duke Cosimo III on the grottos above Gresta and of Moncódeno. [in] Steno. Geological
papers edited by Gustav Scherz. Acta Historica Scientiarum Naturalium et
Medicinalium. Editit Bibliotheca Universitatis Hauniensis, vol. 20. Odense
University Press (Denmark), 1969, pp. 237-246, col disegno tipograficamente
rivisitato e con note esplicative alle pp. 247-248.
2 Per la prima trascrizione diplomatica e riproduzione fotografica dell’intero
manoscritto rinvio a: Giancarlo MAURI, Alla ricerca del ghiaccio perduto. [in] VERTICE.
Annuario della Sezione di Valmadrera del C.A.I., n. 25/2010 [gennaio 2011], pp. 151-
177.
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forma da un freddo concentratovi dentro per forza del caldo di fuora, ma che da
cavità più remote della montagna per una fessura manifesta esce un’aria tanto
fredda, che lo stromentino vi calò subito fino a tredici gradi, laddove nell’acqua
sopra il ghiaccio si mantenne a tredici e mezzo, e nell’aria sopra a detta acqua a
quattordici contando i gradi fino dalla palla in su, che sarebbe altrimenti a gradi
tre, tre e mezzo, e quattro non contando i primi dieci gradi. Per ritrovare la
generazione di questo vento freddo basta considerare il tempo della sua maggior
forza, che è quando il sole è più caldo, e la natura delle caverne profondissime fatte
nel cavare le miniere, dove mai nè state, nè inverno altro freddo si osserva di quel
che lor viene dal di fuori per i più bassi spiragli, sicchè vi si vuole una materia
fredda come acqua o neve nella terra, per fare che vi si produca un vento freddo
proporzionato alla freddezza della sua causa. Si può dunque con grand’apparenza
di verità affermare che le pietre infocate dal continuo sole che dà sopra tutte due
la bande della montagna, struggano la neve o il ghiaccio lasciatovi dall’inverno
passato nelle cavità comunicanti con essa grotta per mezzo della fessura, e che da
questo struggimento nascano due effetti l’uno di mandar fuora un’aria fredda,
l’altro di ghiacciare le pietre nel fondo della grotta; donde l’acqua nella grotta si
può dire ghiacciata parte dall’aria fredda che passa sopra di essa, parte dalla
freddezza delle pietre, che le servono di base.
In quanto al tempo di questo agghiacciamento sia il principio della state sia tutto
il tempo dei gran caldi, ne aspetto la determinazione dalle osservazioni, che il Sig.
Conte di Castelbarco s’è offerto di voler farvi fare di mese in mese: sicchè questa
curiosità di V.A.S. servirà per determinare finalmente la tanto famosa, e per tanti
secoli agitata disputa intorno all’antiperistasi.
Sento che sopra il Lago di Como sia una grotta dell’istessa natura, e giacchè mi
vi trovo così di vicino, e che il Sig. Buondichi m’esibisce ogni comodità possibile
per facilitarmi la di lei vista, offerendosi egli medesimo per farmi compagnia, ho
stimato bene di valermi della congiuntura con speranza di poter dare a V.A.S.
soddisfazione tanto maggiore, quanto più osservazioni avrò fatte. Detto Sig.
Buondichi mi fa giornalmente infinite cortesie, come anco il Sig. Conte
Alessandro Visconti benchè finora stato ammalato, il quale ogni dì mi manda la
sua carrozza, ed il Sig. Manfredi Settala, che fa tutto per dichiararmi la servitù
che egli professa a V.A.S. sicchè tanti favori cagionatimi dalla benignità, colla
quale V.A.S. mi protegge ed onora, mi fanno tanto maggiormente desiderare da
Iddio abilità bastante per poter servire V.A.S. conforme io sono obbligato di farlo.
Umiliss. Obbligatiss. Servitore Niccolò Stenone.
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19 Agto 1671 Serenmo P ne
La grotta di Moncoden ha passato di molto ciò, che io me n’aspettava, offerendomi
particolarità mai prima ne lette da me appresso altri, nè con altra occasione
venùtemi in pensiero, e verificando all’occhio l’opinione, che la grotta sopra
Gresta mi fece comprendere per via di ragione. Le particolarità principali
consistono nella conformazione del ghiaccio differentissima da quel che fin ora ho
visto, ed in alcuni pezzi tanto simile alla conformazione del cristallo, che non più
mi maraviglio, se molti anno tenùto il cristallo per ghiaccio indùrito, trovandovisi
somiglianza, non solamente di trasparenza, ma anco di figura; e di simili
apparenze mi lascierei facilmente tirare al medesimo sentimento, se dùe espe-
rienze non mene tenevano lontano, l’ùna negativa, del non aver io sentito essersi
trovato cristallo nel ghiaccio di qualunque di quelle grotte, delle quali si ha
notizia; l’altra affirmativa, del trovarsi cristallo anch’in quelli lùoghi dove il
ghiaccio non arriva à finir l’anno, anzi dove mai non si fa ghiaccio. Ma per
tornare alla nostra grotta, vi si trova il ghiaccio parte nel mezzo della grotta in
forma di colonne e ciò in luoghi dove cascano continùe gocciole d’acqua; parte
lùngo il masso nel lato opposto alla bocca in tanta varietà di figure, quanto sono
varie sorti d’incrostamenti, e ciò in lùoghi del masso sempre bagnati; parte nel
fondo della grotta intorno alle colonne. Del resto non vi trovai acqua nel fondo
della grotta, nè ghiaccio di soperfizie parallela all’orizonte. Gl’incrostamenti
laterali benche sottilissimi tenevano fortemente attaccati al masso fino à tanto che
il calore della mano o della fiamma gli staccava, e ve n’erano alcùni in forma di
più gocciolette lùcidissime rapprese l’ùna a canto all’altra, altri in forma di
colonnette poste l’ùna sotto l’altra per linea dritta (conforme nel primo profilo
l’ùn e l’altro si vede alle lettere, f, c, ) delle quali, quelle che io viddi erano tùtte
pùrissime senza verùna vesichetta, cosa altrimenti rara nel ghiaccio.
Le colonne di mezzo erano anch’esse quasi tùtte composte di simili colonnette,
disposte in giro intorno all’asse, si che nella soperfizie delle colonne
rappresentavano ùn grappolo d’ùva conforme si vede ne’ dùo profili ùno fatto
lungo l’asse, l’altro perpendicolare all’asse. Alcùne di esse colonne erano come se
con ùn cilindro fossero state perforate lùngo l’asse (A), altre non erano vote, che
nella parte sùperiore, lo scavamento d’ùna non formava ùn cilindro ma ùna
figùra composta quasi di più globi posti l’uno sopra l’altro (B).
La sitùazione delle colonne nel mezzo della grotta fa ùna vista bizarra, conforme
si vede nel primo e secondo profilo della grotta figùre fatte a giudizio dell’occhio
al lume d’una candela non secondo l’esatezza d’ùna giusta misùra essendo
pericùloso il caminarvi sopra quelle croste inùguali del ghiaccio.
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Non v’era vento sensibile nella Grotta, come sopra Gresta, nè accostando la
candela a quelle fissùre del masso, dove si poteva arrivare, fùvvi osservato moto
verùno dèlla fiamma, v’era non dimeno ùn freddo sensibilissimo a segno tale, che
in breve tempo mi si ghiacciavano i piedi, e la neve, ch’io stimo doversi trovare
intorno alla grotta di Gresta, si trova quì in quantità grandissima alla bocca della
grotta.
Arrivato alla grotta stracco da ùna strada piena non meno di spavento per le balze
precipitose e sotto e sopra essa strada, che di fatica per le salite difficili, e soprafatto
da tante novità non mi ricordai di fare molte osservazioni, che ora mi vengono in
mente, e che altrimenti forse v’aùrei fatte, se fosse stato lùogo più vicino
all’abitato, e non ùn päese più frequentato da caprette e camozzi, che da ùomini;
con tùtto ciò penso aver osservato tanto in queste dùe grotte di Gresta e di
Moncoden, che con fare alcùne poche esperienze intorno al ghiaccio artificiale, si
potranno determinare diversi dùbbii intorno al freddo e caldo de’ luoghi
sotterranei. Almeno dalla grotta di Moncoden per ora veggo che si cavano le
seguenti conclùsioni.
1. Che non v’è caldo dentro la grotta, quando v’è freddo fùor di essa. il che non
solamente ho dalla relazione de’ pastori prattichi del lùogo, che tùtti d’accordo
chiamano il ghiaccio della grotta ùn ghiaccio eterno, e come eglino lo spiegano,
ùn ghiaccio che v’è da che il mondo e mondo, ma in oltre lo concludo dalla neve,
laquale non vi si trovarebbe quando è caldo fùora, se quando nevica fùora, vi
dentro fosse caldo.
2. Che il ghiaccio vi si fa anco la state, e ciò parimente per dùe ragioni; la prima è
la relazione degl’istessi pastori, che per i grand caldi condùcono le pecore a queste
montagne, e mancandovi la neve fùora, vanno pigliare il ghiaccio di questa grotta,
non essendovi altr’acqua per il bisogno loro e quello delle pecore, se non quella
che cavano dal ghiaccio e dalla neve i quali asseriscono rifarsi le colonne doppo
esser state portate via . la seconda ragione mi viene cavata dagl’incrostamenti del
ghiaccio, i quali benche sottili stanno tùtta via fortemente attaccati al masso, il
che non si farebbe in ùn luogo bagnato se nell’istesso tempo non fosse nella pietra
freddo bastante per ghiacciarla.
3. Che l’acqua, che vi si ghiaccia, non vi viene copiosa, ma quasi insensibile, più
tosto portatavi dentro dall’aria, che condùttavi per le fissùre del masso: e ciò parte
per sentirvisi cadere all’intervallo di pochi minùti le gocciole, parte per vedervisi
ùn ingrossamento di colonne, che non pùo essere dall’istesse gocciole, le quali più
tosto tengono aperto lo scavo della colonna dove cascano, che non attribùiscono
all’ingrossamento di esse, per il quale vi vuole ùn ùmido che s’attacca ùgualmente
per ogni intorno della colonna.
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4. Che il freddo della grotta non viene dalla concentrazione del freddo interno per
l’accrescimento del caldo esterno, ma dalla freddezza della neve, che trovandosi
vicina alla bocca conserva le parti più interne della grotta sempre fredde . nè si
trova incrostamento di ghiaccio sopra la neve in quel lùogo, nè l’istessa neve
rassomiglia alla neve ghiacciata, anzi la di lei consistenza in ogni modo è simile
alla consistenza della neve, che si trova sulle cime dei monti la state ed in altri
lùoghi dove fondendosi a poco a poco la neve l’acqua di sotto vi trova il sùo esito;
conforme bisogna, che si facci parimente in questo lùogo scemandovisi la neve e
non trovandovisi per tùtto dove vi si pùo arrivare ne acqua, ne ghiaccio di
soperfizie orizontale, si che nell’istessa grotta, mentre che si fonde la neve vicina
alla bocca, si ghiaccia l’acqua lontana da essa bocca. A questo proposito da grand
lùme una relazione de’ pastori, che riferiscono negli anni, quando v’è meno neve,
trovarsi a canto al legno, che serve di scala, ùna caverna profondissima tra il
masso ed il ghiaccio, e che bùttatavi dentro ùna pietra si sente rùzzolare per
lùnghissimo spazio di tempo: il ghiaccio che si conosce allora fare il fundo della
grotta, è quello che chiamano ùn ghiaccio eterno, per trovarvisi egli ogni anno il
medesimo, e per essere secondo la loro opinione di grandissima quantità. Ho
sentito degl’altri dire, ch’il fiùme latte abbi parte della sùa acqua dallo
strùggimento di questa neve, ma comunque si sia di questo, certo è che dando il
sole tutto lungo il giorno eccettùate poche ore della mattina sopra il pendio di
questa montagna, non è maraviglia se la neve ed il ghiaccio vicino alla scala (k)
si fondi dal riscaldamento della pietra tra (a) e (k) nel primo profilo . il che viene
confirmato dalla facilità, colla quale si sprofonda con ùn bastone lunghissimo la
neve a canto alla scala k, il che non si farebbe se l’acqua della neve vi si ghiacciasse.
Sarèbbe d’aggiugnerci delle altre riflessioni, e l’istesse osservazioni e riflessione
sin ora addotte senza dùbbio potrebbero con più ordine e chiarezza spiegarsi, ma
essendomi nello scrivere scappato insensibilmente più tempo di quel ch’io m’era
imaginato prego V.A.Ser.ma di scùsarmi se con questo ordinario non posso nè
ordinare altrimenti ciò che già ho scritto, ne passare alla relazione della
irregolarita dell’accrescimento e scemamento dell’acqua Pliniana, e
dell’asciùgarsi nell’inverno l’amplissima grotta, donde precipitoso esce tutta la
state il fiùme latte, e di altre cùriosità del lago, delle quali spero fra poco in persona
fare la relazione a V.A.S.ma cercando di valermi della prima occasione, che misi
presenterà per Bologna. Una cosa sola non potrei tralasciare senza somma
ingratitùdine, ciò è il raccomandare a V.A.S.ma gl’ùffizii resimi dal Sig.r Francesco
Bùondichi nel viaggio del lago e per i meriti acquistati da lùi appresso i cavallieri
Padroni di quei paesi, e per la sollecitudine collaquale egli m’ha procùrato in ogni
occorrenza ogni commodità possibile assistendomi da per tùtto anco nel visitare i
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più alpestri lùoghi, con altretanta cùriosità, che cortesia. il Sig.r Canonico Settala
(1) si raccomanda alla protezzione di V.A.S.ma, ed io con ogni ùmiltà
sùpplicandola à continùarmi la medesima, ed a scùsare i mancamenti d’ùna
frettolosa scrittùra le aùgùro ogni desiderato contento e grandezza
Di V.A.Ser.ma Umil.mo Obl.mo Servitore
Niccolò Stenone
Milano. à 19 d’Agosto. 1671.
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et l’accerti della stima particolare che esso fa del di Lei merito e Virtu tanto
ammirata in milano quanto nota a tutta Europa. Io poi devo confessare a VS che
non senza ambizione haverei ritrovata volentieri l’occasione di ritrovar qua il
predetto Suo Sig:r fratello per mostrare a VS un atto reverenziale della devozione
che io le professo, con tenerlo in questa Sua Casa almeno un mese per farle vedere
quel più di remarcabile che ha in se questo stato, e milano.
Ma gia che la fortuna ha voluto il contrario, almeno facesse nascere qualche
occasione, che richiamasse qua VS come lo fu del Sig:r Stenone l’anno passato,
quando passo di Agosto a osservare l’aggiacciamento che si fu in quei giorni
bollenti nella gran Caverna della montagna di Moncoden in Valsasina, come
facilm:te VS havera inteso dal med:mo Sig:re che devotam:te reverisco pregando la di
lei bonta a farle per mia parte, con assicurarlo, che presto havera il disegno, e la
pianta della predetta Caverna, se le nevi daranno luogo; Condoni VS il fastidio di
tal digressione, et conservandomi in Sua grazia creda pure che io sarò sino
all’ultimo respiro
Di VS mio Sig:re e Prone Colmo. Devot.mo et Colenmo Serre Vero
Francesco Bondicchi
Milano li 25 Mag 1672.
23
STENONE, Lettera al granduca Cosimo III - BNCF, Gal. 286, c. 58r
24
STENONE, Lettera al granduca Cosimo III - BNCF, Gal. 286, c. 58v
25
STENONE, Lettera al granduca Cosimo III - BNCF, Gal. 286, c. 59r
26
STENONE, Lettera al granduca Cosimo III - BNCF, Gal. 286, c. 59v
27
STENONE, Lettera al granduca Cosimo III - BNCF, Gal. 286, c. 60r
28
STENONE, Lettera al granduca Cosimo III - BNCF, Gal. 286, c. 60v
29
STENONE, Lettera al granduca Cosimo III - BNCF, Gal. 286, c. 61r
30
Il disegno di Stenone così come proposto in Steno Geological Papers, Edited by Gustav
Scherz, 1969, p. 246 e in Niccolò Stenone. Opere scientifiche, Nuova Europa Editrice,
1986, vol. II, p. 253
31
BONDICCHI, Lettera a Viviani - BNCF, Gal. 164, c. 191r
32
BONDICCHI, Lettera a Viviani - BNCF, Gal. 164, c. 191v
33
Qui faccio un passo indietro e riprendo la grotta di Gresta. Nella sua
lettera a Cosimo III Stenone dichiara che «tornai ad essa grotta dopo
mandata l’ultima mia a V.A.S. e ne presi la pianta in quanto
l’irregolarità del di lei fondo si lasciava ridurre in piano, e ne feci
diversi profili, considerando insieme la conformazione della
montagna che è sopra di essa.» In Steno. Geological papers, Gustav
Scherz annota: «La mappa è andata perduta. Tuttavia, abbiamo una
nota di Viviani che menziona il disegno di una grotta nelle montagne
di Brescia da lui spedita all’assistente del Granduca il 30 giugno 1671.»
(1)
Eccone il testo, finora inedito (2), purgato di alcune annotazioni a
margine:
34
circonvicini, ai Venti et al Sole tanti di Estate che d’Inverno, e principalm:te
informarsi da qual parte tramonti il sole in questi mesi, e da qual parte
l’Inverno rispetto all’apertura di questa grotta.
Considerar la materia di che è formata la Grotta, se di sasso o di tufo, o
d’altro e pigliarne qualche porzione
Interrogar se quivi all’intorno si trovino cristalli di Monte nella med:ma
Grotta osservar che altre materie vi siano.
Informarsi se il Monte, e l’acque che ne scaturiscono tenghino di qualche minerale
Intender in quale stagione quei Cannelli o Colaticci di diaccio si dissolvino
naturalm:te et in quale poi comincino a formarsi, e per quanto tempo, e quando
siano più abbondanti
Esaminar l’umido dell’aria interna della Grotta con Istrumento simile a quello
solito usarsi dalla Gl. Ma del Ser:mo G. D. Ferdinando fatto di vetro a foggia
d’imbuto ripieno di ghiaccio notar col dondolo la quantità delle gocciole che ne
cadono
Riconoscere sopra tutto se in qualche parte superiore alla Grotta ne sia
presentemente diaccio o neve statavi nell’Inverno
35
VIVIANI, Distesa per lo staffiere Lodovico - BNCF, Gal. 269, c. 237r
36
VIVIANI, Distesa per lo staffiere Lodovico - BNCF, Gal. 269, c. 237v
37
Certo, le lettere di Stenone sopra riportate non sono di facilissima
lettura, anche a causa dei termini tecnici obsoleti. Innanzitutto lo
«stromentino» di cui parla è il cosiddetto termometro chiuso
fiorentino, un’invenzione dei membri dell’Accademia del Cimento,
studiosi cresciuti alla scuola di Galileo (1). Trovo sia interessante
apprendere come sono stati fabbricati questi primi termometri, e in
questo è d’aiuto il documento che sotto il titolo Dichiarazione di alcuni
strumenti per conoscer l’alterazione dell’aria derivanti dal caldo, e dal freddo
occupa le pagine I-XI dei Saggi redatti dal conte Lorenzo Magalotti (2),
l’ormai ex Segretario della disciolta Accademia in quanto, come scrive
Filippo Moisè, «il principe Leopoldo de’ Medici che da secolare aveala tanto
protetta, rivestito della porpora l’abbandonò!» (3)
1 «La medicina brancolava ancora nel bujo. Il cronista Donato Calvi di Bergamo,
scrivendo nella seconda metà del secolo decimo settimo, tesse una biografia del
fisico Felice Matteo Calvi suo consanguineo, tutta fiorita di grazie secentiste.
Chiamato questi per sua bella fama in Milano dal capitolo dell’Ospitale Maggiore,
fece miracoli. Fu stipendiato anche dall’Ospitale di Santa Corona, dal Castello di
porta Giovia, da moltissimi monasteri, dalle più illustri famiglie della città; anche
Genova lo desiderò a sollievo degli appestati, ma lui non si decise ad accettare il
pressante invito, in una delle sue opere stampate, De vulneri bus capitis tractatus,
discorre assai dottamente del curare empirico, simpatico, superstizioso, tessalico e
canonico, aprendo recondite vie, e arcani misteri; narrando inoltre curiosissimi fatti,
spiegando con spirito sagace «quanto faccia in tali casi la natura, quello possa il
demoni; quanto valga l’unguento armario», e cento altre cose prelibate, che non
avranno certamente mancato di procurar l’onore a’ suoi volumi di far parte delle
elette biblioteche dei molti studiosi che vantava la superba Milano.
Al di là dell’Appennino, uno spirare di aria sana aveva fugato ubbìe come quelle
ingombranti le teste lombarde. In Firenze, gli scolari di Galileo, illustrazioni
dell’accademia del Cimento, cercavano la verità per via della esperienza, provando e
riprovando!» [in] Felice CALVI, Il castello Visconteo-Sforzesco…, cit., pp. 337-338.
2 Saggi di Naturali Esperienze fatte nell’Accademia del Cimento sotto la protezione del
38
Ne trascrivo la prima parte:
39
condensarla sotto i 20. gradi del cannellino; come per lo contrario, la
massima attività de’raggi solari, eziandio nel cuor della state, non abbia
forza di rarefarla sopra gli 80. gradi. Il modo d’empierlo sarà, con
arroventar la palla, e poi subito tuffar la bocca del cannellino aperta
nell’acquarzente, si che vada a poco a poco succiandola. Ma perchè è
difficile, se non affatto impossibile, di cavar tutta l’aria per via di
rarefazione, e per ogni poca, che ve ne resti, la palla rimane scema, si potrà
finir d’empiere con un’imbuto di cristallo, che abbia il collo ridotto ad
un’estrema sottigliezza. Ciò s’otterrà, quando la palla del cristallo è
rovente, poiché allora si tira in fila sottilissime dentro accanalate, e vote,
com’è manifesto a chi di lavorare il cristallo à notizia. Con un simile
imbuto dunque si potrà finir d’empiere il Termometro, introducendo nel
cannellino il suo sottilissimo collo, e spignendovi dentro colla forza del
fiato il liquore, o risucciandone, se fosse troppo. E ancora da avvertire, che
i gradi sopra ’l cannello vengano segnati giusti; e però bisogna
scompartirlo tutto con le seste diligentemente in dieci parti uguali,
segnando le divisioni con un bottoncino di smalto bianco. Poi si
segneranno gli altri gradi di mezzo con bottoncini di vetro, o di smalto
nero, e questo scompartimento si potrà fare a occhio, essendochè
l’esercizio, studio, e industria dell’arte insegna da per se stessa a
ragguagliar gli spazi, e a ben aggiustare la divisione, e chi v’à fatto la
pratica suole sbagliar di poco. Come queste cose son fatte, e col cimento
del Sole, e del ghiaccio s’è aggiustata la dose dell’acquarzente, allora si
serra la bocca del cannello col sigillo detto volgarmente d’Ermete, cioè con
la fiamma, ed è fatto il Termometro.
L’uso di pigliare aquarzente per questi strumenti più tosto che acqua
naturale, è primieramente a cagione, ch’ell’è piu gelosa, cioè sente prima
di quella le minime alterazioni del freddo, e del caldo, e più presto per
entro se ricevendole, per la sua gran leggerezza incontinente si muove. In
secondo luogo l’acqua naturale per nobile, e pura che sia, in processo di
tempo fa sempre qualche residenza, o posatura di fecce, che a poco a poco
imbratta il cristallo, ed offusca la sua chiarezza; dove il sottilissimo spirito
del vino, o acquarzente, che dir vogliamo, si mantien sempre bella, e non
vien mai a perder quel fiore di limpidezza, conesso il qual si riserra. Anzi
per questo stesso, ch’ell’è così chiara, e cristallina, e non riesce così a prima
vista discernere il confine tra essa, e ’l collo voto dello strumento, s’è
talvolta usato di tignerla con infusione di chermisì, o di quella lagrima,
che comunemente sangue di drago si chiama: ma essendosi osservato, che
40
per leggera, e sfumata che sia la tinta, nondimeno il cristallo non acquista
niente, e in capo di qualche tempo macchiandosi viene a farsi maggiore la
confusione; quindi è, che s’è in oggi dismessa l’usanza di colorirla, non
richiedendo altro l’adoperarla così chiara, e limpida, che aguzzare un
poco più gli occhi per riguardarla. Rimarrebbe da dire di moltr’altre
operazioni, e squisitezze di lavorare alla lucerna; ma siccome in questa
materia è troppo difficile spiegarsi in carta, così è affatto impossibile
impararlo in iscritto: che però bisogna avere il Gonfia mediocremente
istrutto, essendochè l’arte colla lunga pratica da per se stessa s’affina.
Il secondo strumento non è altro che una copia del primo fatta in piccolo,
essendo tra di loro altra differenza, se non che posti nello stesso ambiente,
quello cammina alquanto più di questo. Questo è diviso in 100. gradi,
quello in 50. quello ne’ maggiori stridori del nostr’inverno si riduce a 17.
e a 16. gradi, questo ordinariamente a 12. e 11. e per somma stravaganza
un’anno è arrivato a 8. e un’altro a 6. Per lo contrario poi, dove il primo
ne’ dì più affannosi, e nelle maggiori vampe della nostra state esposto al
Sole in sul mezzo giorno non passa gli 80. gradi, questo secondo, o non
passerà, o passerà di poco i 40. La regola poi di fabbricargli in modo, che
osservino tal corrispondenza, non s’acquista altrimenti che con la pratica,
la quale insegna proporzionar talmente la palla al cannello, e ’l cannello
alla palla, ed aggiustar in modo la dose dell’acquarzente, che non isvarino
fregolatamente la loro operazione.
41
questo contributo:
Press (Denmark), 1971, pp. 175-203. Articolo poi ripreso in estratto da Natura alpina,
Rivista della Società di scienze naturali del Trentino e del Museo tridentino di
scienze naturali, 1973, n. 2, pp. 103-126, col titolo Osservazioni di Stenone sulla
formazione del ghiaccio estivo in due grotte di montagna nelle Prealpi Tridentine e Lombarde.
42
3) LA GHIACCIAIA DI MONCODENO
[...] È una cavità tipicamente a sacco d’aria e del tipo freddo per la
presenza dell’ingresso verso l’alto (G. Cappa, 1964), datto che favorisce
moltissimo il fenomeno endotermico della evaporazione, ma che ostacola
l’entrata dell’aria calda esitiva, mentre favorisce d’inverno l’uscita
dell’aria interna più calda e più leggera e l’entrata dell’aria freddissima
esterna più pesante.
Merita d’essere ricordato inoltre il fatto che l’apertura è protetta dalle
pareti dell’inghiottitoio e guarda verso NO, per cui non vi può mai
giungere il sole, mentre la forma ad imbuto della zona di ingresso
favorisce il convogliamento e quindi l’accumulo della neve all’interno
della caverna.
Il concorso di tanti motivi di raffreddamento spiega come la temperatura
interna possa rimanere sotto lo zero anche d’estate.
È probabile che l’aumento del ghiaccio nel periodo estivo sia provocato
dalla condensazione del vapore acqueo per il raggiungimento del punto
di saturazione da parte dell’umidità relativa atmosferica. [...]
CONCLUSIONI
Bisogna riconoscere che Stenone, ricco della esperienza acquisita
attraverso le osservazioni effettuate in Val di Gresta prima e a Moncodeno
poi, riuscì per la sua seria preparazione e per il sano metodo scientifico,
ad analizzare profondamente il diffuso fenomeno della formazione del
ghiaccio nelle grotte di montagna durante i mesi più caldi dell’anno,
cogliendone le cause essenziali ed esprimendole sinteticamente e
rigorosamente, tanto che a noi, a distanza di tre secoli, rimane solo la
possibilità di aggiungere qualche spunto di precisazione.
Nicolò Stenone noto generalmente come anatomista e fisiologo per lo
studio delle ghiandole e per la descrizione del «dotto stenoniano», e per
aver scoperto che il cuore è soltanto un muscolo, come mineralologo per
aver enunciato la legge della costanza dell’angolo diedro e come geologo
per aver distinto i sedimenti marini da quelli fluviali e per aver
riconosciuto l’origine organica dei fossili, con le escursioni compiute per
visitare le due grotte nelle Prealpi tridentine e lombarde e con le
descrizioni fatte e con gli schizzi eseguiti si inserisce tra i precursori
dell’alpinismo scientifico, della speleologia e della meteorologia ipogea.
Museo Tridentino di Scienze Naturali
Trento. 30 Gennaio 1970.
43
Val di Gresta
44
Val di Gresta. La cosiddetta Grotta di Stenone
45
dal Vö di Moncódeno
46
lo stesso passaggio in condizioni invernali (30 marzo 1974)
47
… stracco da una strada piena non meno di spavento …
48
… per le balze precipitose e sotto e sopra essa strada …
49
Alpe di Moncódeno
50
la Ghiacciaia di Moncódeno
51
la Ghiacciaia di Moncódeno
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Ghiacciaia di Moncódeno
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Ghiacciaia di Moncódeno
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Ghiacciaia di Moncódeno
[fotografia gentilmente concessa da Mauro LANFRANCHI]
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Ghiacciaia di Moncódeno
[fotografia gentilmente concessa da Mauro LANFRANCHI]
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Ghiacciaia di Moncódeno
[fotografia gentilmente concessa da Mauro LANFRANCHI]
58
Ghiacciaia di Moncódeno
[fotografia gentilmente concessa da Mauro LANFRANCHI]
59
60
LO SCIENZIATO
1 Manni, I, cit., p. 2.
2 Manni, I, cit., p. 3. Qui Manni sbaglia di grosso, essendo Stenone nato lunedì 1°
gennaio 1638 del calendario giuliano nel “palazzo” a due piani - andato poi distrutto
nell’incendio del 1728 - sito all’angolo tra la Købmagergade e il Klareboderne, vicolo
che rammenta l’antico convento di Santa Chiara. Al piano terra, accanto al
laboratorio d’oreficeria la famiglia di Stenone gestiva anche una mescita di vino.
«Egli nacque, come già dicemmo, il 1o gennaio st. v. [stile vecchio o cal. giuliano]
1638. Possediamo a questo proposito tre testimonianze danesi contemporanee, tra
cui l’Index tertius della Petri Joannis Resenii Bibliotheca Regiae Academiae Hafniensi
donata, Hafniae 1685, dov’è registrato: «Nicolaus Stenonius Hafniensis natus Hafniae die
1. Jan. 1638, mortuus Sverini 1686, d. 25 Nov.» [in] Sacra congregatio pro causis sanctorum
officium historicum, 38. Osnabrugen. Beatificationis et canonizationis Servi Dei NICOLAI
STENONIS Episcopi Titiopolitani († 1686). POSITIO super introductione causae et super
virtutibus ex officio concinnata. Romæ 1974, p. 9.
3 «Il padre di Stenone aveva già avuto, da un primo matrimonio contratto con
una donna non meglio identificata, un figlio, Giovanni, e una figlia, Elisabetta. Il
primo (c. 1614-1675?), dopo essersi dedicato a studi che lo portarono anche in
Olanda, divenne direttore scolastico e successivamente predicatore in Scania; la
seconda, sposata a Jørgen Carstensen, valente funzionario dell’amministrazione dei
beni della Corona, morì nel 1644.» [in] Positio, cit., p. 9.
4 «Tanto il bisnonno quanto il nonno e lo zio di Stenone erano pastori molto
stimati e ressero la parrocchia di Kviinge (nella Scania). Dello zio, Claus Pedersen,
61
alla professione di orafo, tanto abile da ammesso alla cerchia dei
fornitori della Real Casa (1). Sua madre, Anna Nielstochter (2), ha alle
spalle una famiglia con lunga tradizione di orafi-orologiai. Il neonato
riceve il battesimo nella chiesa parrocchiale di Sankt Nikolaj, la stessa
si sa delle sue origini; pare che anche lei appartenesse a una famiglia di orefici e che
suo padre fosse Niels Truidsen (sepolto a S. Nicola l’8 agosto giul. 1613). Era
comunque una donna capace che - probabilmente per conservare alla famiglia il
laboratorio di oreficeria - dopo la morte di Sten Pedersen [sepolto il 13 gennaio 1644
nella chiesa parrocchiale di S. Nicola] si sposò altre due volte: prima con l’orefice
Pietro Lesle († 1647), poi con Giovanni Stichman, maestro coniatore e capitano del
suo quartiere, un cittadino molto stimato, il quale pure la precedette nella tomba (il
29 ott. giul. 1663). Anna Nielstochter morì nel giugno del 1664 e fu sepolta a S.
Nicola. Dal matrimonio di Sten e Anna, oltre al nostro Stenone, nacque anche una
figlia, Anna, che andò poi sposa all’orefice Giacomo Kitzerow, il quale morì nel 1674.
Lei pure venne sepolta a S. Nicola nel 1703» [in] Positio, cit., p. 9.
Si ha ragione di credere che il probabile voto di castità fatto da Niccolò sia da
riportare a questa sequenza di matrimoni della madre, unioni da lui vissute in modo
traumatico: si deve tener conto che il pudore del tempo vedeva nel passaggio di un
vedovo a seconde o, peggio, a terze nozze, un eccesso di libidine; figurarsi se a
risposarsi tre volte era una donna…
62
che ospita la tomba di famiglia.
Dell’infanzia del giovane Niccolò abbiamo notizie di sua mano, che
così scrive “a carte 17” di Defensio, & plenior elucidatio Epistolae de
propria conversione, un libretto dato alle stampe nel 1680 (1) e ripreso
nella biografia del Manni (2):
63
università e creatore (1644-45) del teatro anatomico - stringendo coi
suoi due figli una relazione d’amicizia che durerà fino alla morte.
Il 27 novembre 1656 (7 dic. gregor.) Niccolò ottiene la licenza
d’ammissione all’Università e subito s’iscrive alla Facoltà di Medicina,
scegliendosi come precettore il celebre anatomico Thomas Bertelsen
Bartholin, il padre-padrone dell’istituto (1). Questo periodo scolastico
è presto interrotto dalla guerra: nell’estate del 1657 l’esercito svedese
attacca la Danimarca e nell’agosto del 1658 inizia l’assedio di
Copenhagen, per la cui difesa tutta la popolazione si stringe attorno a
Federico II. Tra i difensori vi è anche Niccolò, ma è il suo patrigno
Johann Stichmann a coprirsi di gloria e ricevere poi dal re, dopo aver
scacciato gli invasori, una delle nove catene d’oro appositamente
create per i più valorosi sul campo.
Tre anni più tardi lo studente inizia a tenere un diario (2), pagine in cui
mezzo, sotto la scritta In nomine Jesŭ, il titolo CHAOS. Nell’angolo di sinistra si legge
una data: 8 Martii 1659. Ritrovato nel 1946 tra le carte fiorentine degli accademici del
Cimento, è stato èdito col titolo A Danish Student in his Chaos-manuscript 1659. Niels
Stensen; edited by H. D. Schepelern; text with translations prepared in collaboration
with Søren Hindsholm. English translation by David Stoner; bibliographical
introduction by Poul A. Christiansen & Harald Moe. Acta historica scientiarum
naturialium et medicinalium, vol. 38. Copenhagen, University library, 1987.
Successiva edizione: Chaos. Niels Steensen’s Chaos-manuscript Copenhagen, 1659.
64
i buoni propositi etico-religiosi si alternano alle sintesi di un centinaio
di opere scientifiche ricevute in prestito per la lettura; tra queste, vi è
lo studio di Keplero sui cristalli di neve esagonali e le teorie di Galilei
e Copernico, uomini di cui apprezza l’impostazione di ricerca: il
filosofo espone, lo scienziato attua.
Bartholin (1616-80) and Niels Steensen (1638-86) Master and pupil. [in] Medical History,
65
lascia la Danimarca e dopo una sosta a Rostock, nel marzo 1660 arriva
ad Amsterdam, dove prende a frequentare i corsi universitari,
trovando alloggio presso Gerard Bläes (latino Blasius), professore di
Anatomia, carica che lo autorizza a tenere in casa propria una stanza
attrezzata per le dissezioni ad uso suo e dei suoi studenti. Ed è proprio
sul tavolo anatomico fornitogli da Bläes che il 7 aprile, a tre settimane
dal suo arrivo, sezionando la testa di una pecora acquistata al mercato,
Stenone scopre il processo di formazione della saliva necessaria per la
digestione dei cibi e il dotto che la porta dalla ghiandola parotidea fino
alla bocca. Entusiasta, scrive subito una lettera a Bartholin, facendolo
partecipe della sua «inventicula» con l’esatta descrizione di ogni
particolare (1).
Bläes, che non giustifica tutta questa euforia, dichiara che il lavoro di
Niccolò non è altro che una dissezione mal eseguita, salvo poi fare sua
questa scoperta inserendola tra le pagine di Medicina generalis (2).
Stenone non accetta lo sgarbo e inizia una polemica che si protrarrà
per anni, col risultato che il giovane studente, per smascherare le
affermazioni di Bläes, si vede “costretto” a nuove e importanti ricerche
sulle ghiandole, sui muscoli e sul cuore. L’intervento di alcuni docenti
(3) e la pubblicazione di Prodromo di un’apologia (4) - dove l’allievo
exhibens. Amsterdam, Peter van den Berge, 1661, in-12°. In seguito pubblicato col
titolo Medicina Universa, Hygieines et Therapeutices Fundamenta, &c. Amsterdam, Peter
van den Berge, 1665, in-4°.
3 In particolar modo Thomas Bartholin, Franz de Le Boë (Sylvius), Jean Pécquet e
66
evidenzia le differenze tra il dotto da lui scoperto e quello descritto da
Bläes, che Stenone non esita a definire «conosciuto soltanto dagli
abitanti della luna, oltre che, naturalmente, dallo “scopritore” stesso»
- è decisivo per mettere la parola fine alla lunga disputa. Questi non
impiegano molto a capire chi dei due dice il falso: svergognato, Bläes
riconosce l’esistenza di un “dotto di Stenone”.
Blasius tentò di appropriarsi della scoperta con la pubblicazione della sua opera:
Medicina Generalis, uscita ad Amsterdam nel 1661. Il libro, che abbondava di
osservazioni offensive nei riguardi di Stenone, provocò la lucida risposta dal titolo
Apologiae Prodromus, quo demonstrantur, judicem Blasianum et rei anatomicae imperitum
esse, et affectuum suorum servum, [Lugduni Batavorum, ora Leida, 1663]. Riedita [in]
Opera philosophica, cit., vol. I.
«Judex Blasianus» è Nicola Hoboken, che a Utrecht pubblicò l’opuscolo Novus
Ductus Salivalis Blasianus in lucem protactus, accusandovi Stenone di essersi attribuito
la scoperta del ductus salivalis, che invece sarebbe stata fatta dal Blasius. Stenone si
limitò ad esporre i fatti senza rispondere alle ingiurie rivoltegli dal professor
Blasius.» [in] Positio, cit. p. 16, n. 1.
67
NICOLAI STENONIS De Glandulis Oris
[in] Observationes anatomicae quibus varia oris, oculorum & narium vasa, pag. 20
68
NICOLAI STENONIS De Glandulis Oris
[in] Observationes anatomicae quibus varia oris, etc., tav. fra le pp. 20 e 21
69
NICOLAI STENONIS De Glandulis Oris
[in] Observationes anatomicae quibus varia oris, etc., pag. 21
70
NICOLAI STENONIS De Glandulis Oris
[in] Observationes anatomicae quibus varia oris, etc., tav. fra le pp. 40 e 41
71
NICOLAI STENONIS De Glandulis Oris
[in] Observationes anatomicae quibus varia oris, etc., pag. 41
72
Sebbene disturbato da questa polemica, Niccolò continua ad arricchire
le proprie conoscenze studiando le lingue danese, francese, inglese,
italiano, latino, olandese e tedesco - e più avanti il greco, l’ebraico e
l’arabo - e dà alle stampe Disputatio physica de Thermis, una sorta di tesi
realizzata a quattro mani col professore primario Arnold Senguerd (o
Senckward) di Amsterdam (1).
Lasciata la capitale, il 27 luglio 1662 Stenone s’iscrive all’Università di
Leida, dove passa tre anni decisivi per la sua formazione scientifica (2),
pubblicando una decina di dissertazioni anatomiche e tenendo
conferenze sull’importanza delle ghiandole, poi date alle stampe (3).
Inoltre, a Leida i corsi accademici contemplano una serie di viaggi
d’istruzione in Francia, Olanda (4) e Belgio e incontri con scienziati
Boë (latino Sylvius), il più celebre medico-chimico del suo tempo, che attirava gli
studenti per la chiarezza dell’esposizione, la fruttuosa indagine e l’insegnamento
pratico presso il letto degli ammalati; Giovanni van Horne, professore di anatomia,
chirurgia e botanica, e Jakob Golius, professore di astronomia, matematica e di
lingue orientali.» [in] Positio, cit., p. 18.
3 NICOLAI STENONIS Observationes Anatomicæ, quibus varia oris, oculorum, & narium
vasa describuntur, novique salivæ, lacrymarum & muci fonts deteguntur, et novum
Nobilissimi BILSII De lymphæ motu & usu commentum. Examinatur & rejicitur. Ludguni
Batavorum, Apud Jacobum Chouët, 1662.
4 «Dal 19 maggio fino al 7 giugno 1663, Stenone intraprese, in compagnia di Ole
Borg e altri amici, un viaggio di vacanza nel Belgio, che lo portò - per un totale di
circa 650 km. - attraverso Anversa, Mecheln, Lovanio, Bruxelles, Gand, Brugge fino
a Dunkerque; su questo viaggio possediamo le annotazioni particolareggiate di uno
del gruppo, Corfitz Braem (1639-1688), che morì come borgomastro di Helsinger.»
73
famosi, quali il matematico e fisico danese Thomas Walgenstein, co-
inventore della lanterna magica (1) e filosofi del calibro di Baruch de
Spinoza (2).
Nel tardo autunno del 1663 Niccolò apprende della morte del suo
patrigno (3) e del conseguente arresto del suo sostentamento agli studi.
Intenzionato a guadagnarsi il pane e sapendo essere vacante la
cattedra di Anatomia dell’Università di Copenhagen, l’anno dopo
pubblica - con voluta, pomposa dedica al suo re, il «Serenissimo ac
Potentissimo Principi et Domino, Domino Friderico Tertio, Daniæ,
Norwagiæ, Wandalorum, Gothorumque Regi; ecc. [...] Domino meo
clementissimo» - l’importante Saggio di osservazione sui muscoli e le
utilizzò per proiettare una sorta di diapositiva alla cerimonia per il centenario della
Compagnia di Gesù.
2 «In Olanda Stenone strinse rapporti di amicizia con diversi studiosi, i cui nomi
hanno una grande rinomanza nella storia della scienza, come: il celebre entomologo
Jan Swammerdamm (1637-1680), Reinier de Graaf (1641-1673), che riconobbe senza
invidia il contributo di Stenone alle sue ricerche sugli organi riproduttivi, e il medico
tedesco Teodoro Kerckring. Probabilmente per mezzo di questo ultimo e di altri
comuni amici, Stenone venne allora a contatto con Baruch Spinoza a Rijnsburg.
Kerckring e Spinoza erano stati ad Amsterdam allievi della scuola di latino tenuta
da Francesco van den Enden di Anversa (1602-1674), la cui figlia sposò poi lo stesso
Kerckring (1671). Quest’ultimo divenne noto per le ricerche anatomiche da lui
compiute sotto il professor Sylvius, e come medico e rappresentante toscano ad
Amburgo; fu lui che fece trasportare in Italia i resti di Stenone. Si era convertito al
cattolicesimo probabilmente già prima del suo matrimonio […] L’amicizia con
Spinoza però, fu per Stenone occasione di una crisi religiosa. La sicurezza
«geometrica» che Baruch Spinoza in nome della ragione e nello spirito del
cartesianesimo faceva valere anche per la fede, attrasse potentemente lo studente
Stenone che era entrato a far parte della cerchia del filosofo. Quando però i suoi studi
sui muscoli gli rivelarono tutta l’infondatezza delle vecchie dottrine galeniche sul
cuore e sui muscoli, alle quali Spinoza e i cartesiani erano rigidamente attaccati, egli
divenne critico anche di fronte alle asserzioni filosofiche dell’amico di Rijnsburg.»
[in] Positio, cit., pp. 18-19.
3 Giovanni Stichmann fu sepolto a San Nicola il 29 ottobre (giuliano) 1663. [in]
74
ghiandole (1). All’università, il “barone capo” Bartholin fiuta il pericolo
e si affretta ad affidare la cattedra vacante a un suo nipote, il mediocre
Mathias Jacobsen.
Il 12 giugno 1664, Stenone rimane orfano anche della madre, che gli
lascia in eredità 300 talleri. Non è una gran somma, ma è decisiva per
il futuro del giovane. Non avendo più nessun interesse a restare in
Danimarca (2), subito si mette in viaggio, andando a visitare i parenti
materni ad Amburgo e poi, via Hannover, spostarsi a Colonia per
discutere di religione con un gesuita. In seguito visita Liegi, Namur e
Cambrai per approdare, nei primi giorni di novembre, nella Parigi
illuminata dal Re Sole e qui, un mese dopo (3), lo raggiunge una buona
notizia: il 4 dicembre 1664 il Senato accademico dell’Università di
Leida, viste le opere stampate e la fama di erudito acquisita sul campo,
ha accettato la richiesta a suo tempo formulata da Stenone d’ottenere
in absentia il titolo di Doctor medicinae (4).
Con i suoi palazzi, i suoi ospedali e la Sorbona, la Parigi del Grande
Secolo offre a Stenone un ambiente stimolante per il suo lavoro.
Raccomandato da Bartholin - lo stesso che a Copenhagen gli aveva
chiuso in faccia le porte dell’Università - e presentato da alcuni suoi
vecchi amici di Leida ormai stabilitisi nella capitale francese (5),
Stenone trova ospitalità presso l’umanista, scrittore di libri di viaggio
epidemia che in pochi mesi porta alla morte 8.000 persone, un terzo della
popolazione cittadina.
3 «Il 7 novembre 1664 Stenone si trovava già a Parigi». [in] Positio, cit., p. 31.
75
e grande esperto di lingue e manoscritti orientali noto al mondo col
nome di Melchisédech Thevenot (1). La casa che questo erudito
mecenate possiede nel Marais è prossima all’Hôtel de Montmor, sede
dell’accademia scientifica succeduta a quella di Marin Mersenne
(1588-1648). Introdottovi da Thevenot, in quest’ambiente Stenone non
fatica a incontrare gran parte dei più rinomati uomini di scienza, di
lettere e di religione del suo tempo, quali «Pierre Borel, primario
dell’ospedale Hôtel-Dieu, Claude Morel, direttore dell’Amphithéatre de
Saint-Côme e chirurgo primario della Charité, così come i membri
dell’Accademia che faceva capo a Pierre Bourdelot» (2). Inoltre, a
Parigi può dedicarsi alla quotidiana pratica della dissezione sia
all’ospedale sia alla facoltà di medicina, dove il “professore invitato”
è ammirato per la precisione del suo lavoro col bisturi e per la sua
modestia. In breve tempo il suo nome è sulla bocca di tutte le persone
che contano, tant’è che anche il neonato ma già serioso Journal des
Sçavants si unisce al coro recensendo (3) il suo ultimo libro:
1 Positio, cit., p. 31: «Questi era stato in precedenza ambasciatore, e più tardi (1684)
divenne bibliotecario reale e membro dell’Académie des sciences, alla cui fondazione
stava appunto lavorando, mentre Stenone si trovava a Parigi.»
L’opuscolo intitolato Les directeurs de la Bibliothèque royale, maîtres de la Librairie,
gardes de la Bibliothèque du roi et commis à la garde de la Bibliothèque du roi 1522-1719,
Bibliothèque nationale de France 2007, pp. 15-16, indica che a partire dal 1684 è
Camille Le Tellier abbé de Louvois a ricoprire l’incarico di Bibliothécaire du Roi,
riservando a Thevenot il ruolo di «Commis à la garde de la Bibliothèque» dal 1684
al 1691.
2 Positio, cit., p. 31.
3 LE IOURNAL DES SÇAVANS. Du Lundy 23. Mars, 1665. Par le Sieur DE HEDOUVILLE.
A Paris. Chez Iean Cusson, ruë St Iacques, à l’Image de S. Iean Baptiste, pp. 139-142.
76
voyages.
La premiere partie de ses Observations regarde les muscles, au rang
desquels il soustient qu’il faut mettre le cœur ; parce que sa composition,
non plus que son action, ne differe en rien de celle des autres muscles: De
sorte qu’il ne veut pas qu’on considere le cœur, comme estant composé
d’une substance qui luy soit propre & particuliere, ny comme le principe
de la chaleur naturelle, de la sanguification, & des espirits vitaux. Cela va
à renverser ce qu’il y a de plus constant dans la Médecine. Et certainement
la solidité de la chair du cœur, la quantité de ses fibres, la grosseur de ses
vaisseaux, le nombre de ses valvules, la capacité de ses ventricules, la
situation de ses oreilles : en un mot l’irregularité de sa structure,
monstrent evidenment que le cœur est d’une substance particuliere. Et
comme on ne void point dans l’homme d’autre muscle, dont le
mouvement soit entierement involontaire, l’agitation continuelle, & la
moindre maladie mortelle: On ne conçoit pas qu’on puisse soustenir que
le cœur ne soit qu’un muscle comme les autres. Neantmoins l’Autheur de
ce livre fait voir dans la dissection qu’il fait du cœur, des choses si
extraordinaires, qu’il faut suspendre son iugement, iusqu’à ce que l’on
voye, si lors qu’il aura donné la derniere perfection à son Ouvrage, il ne
resoudra point les objections qu’on fait presentement contre son projet.
C’est encore dans le traité des Muscles, que cet Autheur monstre que la
langue n’est pas d’une substance particuliere, comme se sont persuadez
la plus part des Anatomistes ; mais un muscle qui a des fibres sensibles à
ceux qui considerent cette partie avec attention. Et non seulement il a
remarqué des fibres dans la langue, mais mesme les diverses especes qui
servent aux differends mouvements que peut avoir cette partie.
Monsieur Stenon n’à pas moins trouvé de belles choses dans les glandes,
que dans les muscles. Car il pretend avoir découvert le premier un
vaisseau, qu’il appelle Salivare exterius. Il va des parotides dans la bouche,
& il le faif voir si manifestément dans ses dissections, qu’on est obligé d’en
demeurer d’accord. Mais la difficulté est de sçavoir s’il sert à la salive,
comme il le soustient. Il monstre encore beaucoup d’autres vaisseaux &
de glandes, qu’il fait tous servir au mesme usage : le uns sont allentour
des levres, les autres sous la langue, d’autres au palais, &c.
Apres cela, il fait voir qu’il y a des vaisseaux dans les paupieres, qui ont
leur racine dans les glandes qui sont allentour de l’œil, d’où il pretend que
viennent les larmes, sans qu’il besoin de recourir au suc des nerfs, aux
serositez du cerveau, ou à une transpiration immediate des arteres. Il dit
77
aussi beaucoup de choses des vaisseaux limphatiques : & on peut dire
qu’il y a peu de nouveautez dans l’Anatomie, ausquelles il n’adjouste de
nouvelles découvertes.
Il y a à la fin de ce Livre deux Epistres du mesme Autheur ; dont la
premiere traite de l’Anatomie de la raye ; & la seconde examine de quelle
manière se nourrit le poulet estant encore dans sa coquille. Ce sçavant
Danois est presentement à Paris, où il fait tous le iours des dissections, en
presence de beaucoup de personnes curieuses ; & il en a fait dans l’Escole
de Médecine, où s’est fait admirer de tout le monde par ses nouvelles
découvertes: car il a cela de pariculier, qu’il rend la plus-part de ces choses
si sensibles, qu’on est obligé d’en demeurer convaincus, & d’admirer
qu’elles ayent pû eschapper à tous les Anatomistes qui l’ont precedé.
Tout ce qu’on dit contre Monsieur Stenon, est qu’il a dérobé des uns &
des autres toutes les nouveautez dont il se pretend l’inventeur : car des
l’année 1663. il parut à Utrecht un Livre, sous le titre de Novus ductus
Salivalis Blasianus, in lucem pertractus à Nicolao Hobochen, dans lequel on
l’accuse d’estre plagiaire, & d’avoir appris de Blasius le nouveau conduit
salivaire, de l’invention duquel il se fait Autheur. Mais Monsieur Stenon
respondit aussi tost à ce Livre, par un Prodromus, où il monstre que
Blasius est un ignorant dans la Médecine, & incapable d’y faire aucune
nouvelle découverture. Et il fait voir que le conduit salivaire que cet
Autheur pretend avoir découvert, est toute autre chose que celuy qu’il
décrit.
Oltre che a Parigi, Thevenot possiede una casa a Issy, sulla strada per
Versailles, uno dei luoghi di villeggiatura prediletti dall’aristocrazia.
In compagnia di Swammerdamm, Stenone si trasferisce in questa
proprietà circondata da giardini, terrazze e fontane, con vista su
colline ricoperte da vigneti, dove trova tutta la tranquillità necessaria
per le notomizzazioni più delicate. Ed è proprio a Issy, settembre 1665,
che dissezionando un feto deforme scopre l’anomalia cardiaca che
causa il cosiddetto morbo blu o cianosi, ora nota come tetralogia di
Fallot, dal nome del medico francese che la riscoprirà nel 1888 (1).
78
Ma il più grande avvenimento scientifico del 1665 resta il suo Discorso
sull’anatomia del cervello, ancor oggi ritenuto un classico nella storia del
sistema nervoso centrale. Sebbene nessun biografo di Stenone abbia
risolto con prove certe alla mano l’enigma del luogo dove questo
discorso è stato pronunciato, la mairie d’Issy-les-Moulineaux ha
giocato d’azzardo dedicando a Stenone un passaggio nell’area del
Parvis Corentin Celton e ponendo all’esterno di una maison de retraite
un pannello che pretende che il discorso di Stenone sia stato
pronunciato a Issy piuttosto che a Parigi (1). Indipendentemente dal
luogo, è certo che un pomeriggio di aprile (2), di fronte ad una
selezionata platea suddivisa tra sostenitori e oppositori delle teorie
cartesiane e adeguandosi all’editto di Richelieu che impone come
lingua scientifica il francese e non più il latino, il ventisettenne Stenone
inizia la sua conferenza con queste parole: «Signori, invece di
promettervi di soddisfare la vostra curiosità intorno all’anatomia del
cervello, vi faccio qui una confessione, sincera e pubblica, che io non
due secoli dopo doveva essere denominata dal nome del medico francese L. A.
Fallot.» [in] Positio, cit., pp. 31-32. - Per lo scritto di Stenone sulla cianosi: Acta medica
et philosophica Hafniensia, obs. CX, D. Nicolai Stenonis Anatomici Regis Hafniensis.
Embryo monstro affinis Parisiis dissectus, 1673, pp. 200-203.
1 Vi si legge: «Le site devient pour la première fois célèbre en 1665 quand un
PAPASOLI ne Il soggiorno parigino di Niccolò Stenone (1664-65), [in] Niccolò Stenone 1638-
1686. Due giornate di studio, cit., p. 107.
79
ne so nulla.» (1) Un esordio sconcertante, seguito da altre affermazioni
di disarmante sincerità: «La sostanza del cervello è così molle, e le fibre
così delicate che sarebbe quasi impossibile toccarle appena senza
romperle. Ragion per cui, dato che l’anatomia non è ancora giunta a
tal grado di perfezione da poter eseguire la vera dissezione del
cervello, non continuiamo ad illuderci, confessiamo purtroppo la
nostra ignoranza, per non ingannare noi per primi, e gli altri poi,
promettendo loro di darne la dimostrazione della vera
conformazione.» (2)
Se è dunque vero che con gli scarsi mezzi di cui dispone l’esplorazione
del cervello resta un problema, questo non gli impedisce di dichiarare:
«Gli Antichi sono stati talmente preoccupati dei ventricoli che hanno
preso i ventricoli anteriori per la sede del senso comune, e hanno
deputato quelli posteriori alla memoria, affinché il giudizio, a quel che
essi dicono, essendo alloggiato nel ventricolo di mezzo, potesse fare
facilmente le sue riflessioni sulle idee che gli vengono da una parte e
l’altra dei ventricoli. A questo punto non vi è altro da fare che pregare
quanti insieme agli Antichi sostengono una simile opinione di fornirci
delle ragioni che ci obblighino a crederle, perché io vi assicuro che in
tutto ciò che finora è stato presentato per rafforzare questa opinione,
non vi è nulla di convincente; e dato che questa bella cavità, a forma
di volta, del terzo ventricolo, in cui essi avevano posto la sede del
giudizio ed eretto il trono dell’anima, non vi si trova neppure, potete
ben vedere che giudizio si deve dare sul resto del loro sistema.» (3)
80
La corte dell’Hôtel de Montmor agli inizi del XX secolo
Fotografia dei fratelli Séeberger, ripresa da internet
81
Issy. L’ex residenza di Thevenot
82
Se a Issy - e non a Parigi - Stenone avrebbe tenuto il suo
Discours sur l’anatomie du cerveau in una di queste due stanze
83
Più avanti aggiunge: «La ghiandola pineale è stata in questi ultimi
tempi l’argomento delle più grandi questioni sull’anatomia del
cervello, ma prima di entrare nel merito e di risolvere la questione del
luogo in cui essa si trova, occorre che io faccia vedere innanzitutto
l’opinione del Signor des Cartes al riguardo e ciò con le sue stesse
parole.» (1) Con queste frasi Stenone introduce la sua colta platea alla
dimostrazione scientifica, frutto di ore passate al tavolo di lavoro,
dell’infondatezza della teoria cartesiana che vede nella ghiandola
pineale la sede d’incontro fra l’anima e il corpo. Un’opinione, questa,
da lui già anticipata con una lettera privata (2):
1 Ivi, p. 15.
2 De vesculis in pulmone. Anatome cunicoli praegnantis. In pulmonibus experimenta. De
lacteis mammarum. In cygno observationes, etc. [in] Thomas Bartholini Epistolarum
medicinalium cent. IV. Hafniae, 1667, pp. 348-359 e [in] Opere scientifiche, I, pp. 249-250.
84
ogni giorno di più vedo di dover fare a tale scopo.
Ma bisogna comunque aver cura di questi problemi fino a quando la disponibilità
di tempo e i mezzi non porteranno a maturazione i frutti per ora acerbi
Stia bene, Illustrissimo Signore, e continui a voler bene
al Suo devoto
Niccolò Stenone
Messo giù in fretta, Leida, 5 marzo 1663.
«Fino a tal punto ormai si spinge l’audacia che la follia umana non
lascia intatta neppure la sede stessa dell’anima.» Parole pesanti. Ormai
è chiaro che gli interessi giovanili di Stenone per le teorie di Cartesio e
Spinoza sono “naturalmente” finiti: i due filosofi traevano impulso per
le loro idee dalla lettura dei classici greci e latini - «gli Antichi» - mentre
Niccolò, senza idee preconcette, ricerca le verità nell’osservazione
acuta e profonda del reale. Questo gli aveva già permesso di
affermare, alludendo a Cartesio e citando Galeno:
Alcuni vollero indicare il cuore come sede del calore naturale, il trono
dell’anima se non addirittura l’anima stessa; salutarono il cuore come
fosse il Re, come il Sole; ma qua quando avrai esaminato attentamente la
cosa, non troverai altro che un muscolo (1).
Se questi signori, che quasi tutti i sapienti adorano, hanno ritenuto come
infallibile ciò che io (e lo potrebbe fare un ragazzo di dieci anni) ho
preparato in un’ora e la cui sola vista, senza bisogno di parole, distrugge
i loro più ingegnosi sistemi: quale assicurazione posso io avere riguardo
alle altre sottigliezze di cui si vantano? (2)
85
William Croone - e un giovane medico, Martin Lister, che entrerà nella
Society più avanti, nel 1671.
1 Positio, cit., pp. 38-39. La lettera integrale di Martin Lister, conservata presso la
Bodleian Library di Oxford, Lister MS 5, ff 224v-226, si legge [in] Gustav Scherz,
Nicolaus Steno and his Indice, Acta historica scientiarum naturalium et medicinalium.
Munksgaard, Copenhagen 1958, p. 292.
2 BNCF, Magl. VIII. 718.
3 La lettera, datata 1 aprile 1667, è conservata presso la BNCF, Gal. 158, ff. 179-180.
4 Scrive Walter BERNARDI nel capitolo 8 (che inizia col malizioso sottotitolo Arriva
una “sposa” dalla Danimarca) del suo libro Il paggio e l’anatomista. Casa Editrice Le
Lettere, Firenze, 2008, pp. 112-113: «Perché Stenone era così preoccupato? Cosa
aveva da nascondere? C’era forse qualche risvolto di natura sessuale, oltre alla
86
Verso la metà di maggio (1) a Roma Stenone incontra il biologo
Marcello Malpighi (2), dando inizio alla loro duratura amicizia. Nelle
6 o 7 settimane di permanenza romana, il Danese trova il tempo di
andare a far visita al gesuita Athanius Kircher e di farsi scrivere dal
padre Onorato Fabri e da Michel Angelo Ricci le commendatizie da
presentare al principe Leopoldo de’ Medici, già conosciuto a Pisa
quando fu gradito ospite, certo, ma di passaggio.
Attorno il 7 o l’8 luglio Stenone è certamente a Firenze. La buona
impressione lasciata nel suo passaggio a Pisa e le commendatizie di
Fabri e Ricci agevolano i suoi rapporti col granduca Ferdinando e suo
fratello il principe Leopoldo, e questi gli offrono la possibilità di
fermarsi alla loro corte in cambio di una buona pensione e assoluta
libertà di sperimentazioni anatomiche. Lui accetta.
Scriverà il Manni (3):
necessità di avere maggiore spazio per gli esperimenti, nel suo desiderio di trovare
un’altra sistemazione al riparo da sguardi indiscreti? […] Il sospetto di qualche
segreto pruriginoso si fa consistente a leggere le divertite confidenze di Magalotti a
Redi. Forse pochi lo sapevano allora a Firenze, ma lo schivo e timido Stenone aveva
fatto “voto di castità” e intendeva “inviolabilmente” mantenerlo. Probabilmente
alludeva a questo impegno il solito Magalotti quando, con la proverbiale malizia,
pregava Redi di “baciar le mani affettuosamente” all’amico Stenone, “anzi la fronte
ancora all’usanza di Francia”, perché egli era - ecco la sorpresa! - “veramente una
sposa”. Che intendeva dire lo sboccato conte fiorentino con l’ambiguo termine
“sposa”? Che il giovane danese era ancora vergine e forse disponibile a rapporti
omosessuali passivi? Oppure, ancor più maliziosamente, che Redi, anche lui scapolo
e poco sensibile alle attrattive femminili, si trovava a proprio agio con Stenone non
solo per ragioni scientifiche? Sembrerebbe proprio di sì, stando a quanto lo stesso
Magalotti confidava a Carlo Dati quando gli chiedeva come Stenone “se la pass[av]a
col Redi” e se pensava “a migliorar avvocato”: cioè - pare di capire - di trovarsi un
amico e protettore più influente.»
1 La cronologia degli anni 1666-67, cruciali “per una miglior conoscenza
87
Capitato a Pisa (altri scrive a Firenze) circa l’an. 1666. il Granduca
Ferdinando II. insieme col Principe Gio. Carlo suo fratello erano intesi di
quanto questo Oltramontano Giovane sorpassasse nelle Scienze
soprannominate molti altri, che allo studio di quelle si erano dati, e
singolarmente alla cognizione più recondita delle produzioni immense
della Natura i erano dati. Non mancava la Corte Medicea di uomini di
gran vaglia, paesani, ed esteri, onde il letteratissimo Francesco Redi ebbe
a scrivere senz’alcuna esagerazione, che ad essa Corte correvano tutti quei
grand’uomini, che co’ pellegrinaggi loro giravan cercando, e portando
merci di virtù; e che quando vi arrivavano, erano con maniere sì benigne
accolti, che nella Città nostra confessavano “esser rinati gli antichi
deliziosissimi Ori dei Feati, e ne’ Serenissimi Principi la Reale cortesissima
affabilità del Re Alcinoo”. Si fatta abbondevolezza non ostante,
Ferdinando il fermò alla sua Corte; lo fece suo Medico con provvisione da
suo pari, più, o meno, che altri abbia lasciato scritto, la qual poi gli fu
mantenuta, e confermata dal figliuolo Cosimo III. con farli esercitare una
onorevol Cattedra.
Quivi ebbe campo il GIOVANE nostro d’invigorir semprepiù le sue
studiose ricerche nelle materie divisate, nulla d’altre curando, che di farsi
onore con questi Sovrani. […]
L’attenzione pertanto, che ebbero i Sovrani nostri di dare quartiere,
comodi, e stipendio a NICCOLÒ, Luterano di Religione, potè anche avere
qualche rapporto, od origine da una lodevolissima premura, che si scorse
in loro di trarre anime alla vera nostra Fede, come era da essi stato fatto
di prima nella persona dell’Inglese Letterato Giovanni Priceo che
dall’Opere della penna sua in materie indifferenti, si trovò impiegata a
produrre Componimenti concernenti le Divine Pagine.
1La lettera qui citata si legge [in] Opere di Francesco Redi Gentiluomo Aretino. Tomo
Quinto. All’Illustrissimo Signor Antonio Vallisnieri de’ Nobili di Vallisniera, Pubblico
88
medesima abitazione, ch’era preparata per l’Archiatro Redi.
L’eruditissimo nostro Sig. Giovanni Targioni Tozzetti d’una delle molte
Esperienze dà avviso nel Tomo II. de’ suoi utilissimi Viaggi a car. 186. con
dire, che una Lamia, o Cane Carcaria di peso di tremila libbre fu presa
allora vicino a Livorno, cioè l’anno stesso 1666. il gran capo della quale (e
dipoi se ne vide somigliante figura in rame) fu fatto portare a Firenze dal
Gran Duca, e dato a notomizzare al celebre Niccolò STENONE. Quindi
nacque il bel Libro di quel titolo: Canis Carchariae dissectum capus
impresso sul principio dell’anno dopo; del quale avvenimento, che a lui
diè immediatamente occasione di viepiù scoprir cognizioni, egli poscia ne
andò fastoso, non che contento, a buona equità, imperciocchè avvenne,
come scrive il dottissimo Monsig. Giovanni Bottari, che di simil pesce
STENONE ha ragionato più accuratamente di ogni altro (1).
89
non poca fatica riescono a portarlo a terra (1). Venutone a conoscenza,
il granduca dà ordine che la testa sia portata a Firenze (2) per essere
anatomizzata da Redi e Stenone. I pescatori eseguono: tagliano la
testa, estraggono il fegato (del peso di 150 kg), buttano la carcassa a
mare.
Un anno dopo Stenone pubblica una dissertazione intitolata Elementi
sulla scienza dei muscoli, una delle sue opere maggiori (3). Alla fine del
anatomiche.
3 NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen seu musculi descriptio
geometrica. Cui accedunt Canis Carchariae dissectum caput, et Dissectus piscis ex canum
genere. Ad Serenissimum Ferdinandum II. Magnum Hetruriae Ducem. Florentiæ, ex
Typographia sub signo Stellæ, 1667.
Si legge [in] Positio, cit., pp. 54-55: «Come già detto - e si vede dal titolo stesso -,
in questa pubblicazione sono riuniti tre trattati. Il primo, cioè Elementorum myologiae
specimen, contiene le nuove scoperte di Nicolò Stenone sui muscoli ed è una
continuazione degli studi inaugurati con i trattati Nova musculorum et cordis fabrica e
De muscoli et glandulis observationum specimen. In esso l’autore volle soprattutto
«more geometrico» risolvere il quesito se il muscolo nella contrazione e nel
gonfiamento aumenti il proprio volume, come generalmente si credeva (anche
Descartes), in conseguenza all’afflusso di «spiritus vitales o animales» provenienti dal
cervello attraverso ai nervi ritenuti cavi. In conclusione, egli afferma che nella
90
libro, l’Autore inserisce i risultati di due anatomie, una delle quali -
come dice il titolo: Dissezione della testa di uno squalo - descrive i risultati
delle sue osservazioni, dando informazioni scientifiche sul sistema dei
canali della mucosa, sul condotto uditivo, sul retro dell’occhio e
scoprendo che non sempre gli animali sono guidati soltanto dai nervi
del cervello ma talvolta anche da quelli del midollo spinale.
91
NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen, 1667
92
NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen, 1667, pag. 19
93
NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen, 1667, tabula I
94
NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen, 1667, tabula II
95
NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen, 1667, tabula III
96
NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen, 1667, tabula IV
97
NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen, 1667, tabula V
98
NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen, 1667, tabula VI
99
NICOLAI STENONIS Elementorum myologiæ specimen, 1667, tabula VII
100
Ma l’interesse del Danese non si limita alla parte medica. Osservando
con attenzione, nota come i denti dello squalo siano simili alle “lingue
pietrificate” (glossopètræ) che la credulità popolare ritiene “saette
sepolte nel terreno” capaci di miracoli (1). Accostati questi denti alle
pietre “miracolose”, dopo averli misurati e sezionati il Nostro ha
certezza che le glossopetre altro non sono che i denti di antichi pesci
fossilizzati. Poi passa a spiegare com’è possibile che queste pietre si
trovino in terre lontane dal mare, smentendo l’altra diceria popolare
101
che trova una facile risposta nel fantasioso “diluvio universale” (1).
Alla fine del volumetto, alcune tavole esplicitano le argomentazioni
dell’Autore e due di queste sono tratte da lastre in rame provenienti
dalla Metalloteca vaticana, per l’occasione offerte da Carlo Dati a
Ottavio Falconieri. Si legge in Michaelis Mercati Samminiatensis.
Metallotheca opus posthumum, cit., pp. xxxiv-xxxvii:
1 G. Scherz, nel citato Niccolò Stenone Niels Steensen, pp. 60-61, scrive: «L’opera di
Steensen acquista molto più rilievo se si paragonano i suoi risultati con le idee
correnti a quei tempi. La gente comune aveva infatti idee estremamente singolari su
tante cose. Era normale la convinzione che i grandi massi di pietra nei campi fossero
lanciati da orchi e streghe per impedire la costruzione delle chiese o per protesta
contro il suono delle campane, ed erano persuasi che le sommità terrestri erano
costituite da sabbia perduta dal sacco di un orco. L’inferno si trovava, a loro parere,
nel Vesuvio o nel vulcano islandese Hekla. Per quanto riguarda le glossopetre, si
pensava quanto segue: nell’ultimo capitolo degli Atti degli Apostoli si racconta di
san Paolo che a Malta fu morso da una vipera mentre stava gettando legna sul fuoco.
Tutti pensavano che sarebbe morto, ma non successe niente, e da allora tutte le
lingue delle vipere velenose di Malta si tramutarono in glossopetre che ora si
trovano tra le rocce. Esisteva perciò molta superstizione nei confronti delle
glossopetre, che venivano per questo usate come amuleti. Ma neppure gli scienziati
potevano considerarsi immuni da strane idee. Thomas Bartholin e Ole Borch, per
esempio, erano convinti che le pietre preziose potevano essere farmaci potenti, ed
era un concetto diffuso che i fossili potessero spuntare dalla terra come piante grazie
a una forza misteriosa che veniva denominata vis plastica. In un’opera scientifica,
apparsa quasi contemporaneamente al De solido, l’autore, A. Kircher, era del parere
che l’uomo e il globo terracqueo fossero costruiti in modo parallelo, cosicchè le
montagne erano lo scheletro della terra. Inoltre credeva che i fiumi venissero formati
da grandi cisterne, che si trovavano sulle cime delle montagne ed erano riempite
dall’acqua degli oceani tramite canali sotterranei etc. Gli studi geologici di Steensen
erano - e sono tuttora - così rivoluzionari, che oggi incontestabilmente viene
considerato come il fondatore delle tre scienze suddette.»
Per altre informazioni rinvio agli APPROFONDIMENTI, alla fine di questo libro.
102
sopra osservazioni anatomiche. Tutti i curiosi sono concorsi a vederlo. E
perchè ella pure ne possa goder la vista, le mando quì incluse due copie
dell’intaglio di essa testa. Mi dirà V.S. Illustrissima, come può essere, che
in così breve tempo si sia fatto a Firenze sì bell’intaglio? Anche quà è
giunta questa cosa nuovissima; ma a lei rivelerò il mistero. Agli anni
passati io comprai la Metalloteca vaticana m.s. con tutti i suoi rami
intagliati, mirabilmente descritta da Mons. Michele Mercati, con pensiero
di farla una volta stampare, perchè veramente è Opera insigne; e ne fa
menzione onoratissima il Cardinale Baronio nel Tomo degli Annali
Ecclesiastici. Il detto Autore con occasione di trattare delle Glossopetre
dice, ch’elle sono tanto simili a’ denti del pesce Lamia, che da alcuni sono
spesse volte scambiate. E dopo averne assegnate le differenze, pone il
disegno del capo di questo pesce. Mi sovvenne di ciò, e trovando il rame,
ne ho fatti tirare num. 12. soli, per non offendere l’intaglio, che è
gentilissimo, risparmiandolo per la stampa dell’Opera. Quì mi pigliarò
sicurtà di confidare a V.S. Illustrissima un mio pensiero. Il m.s., e i rami
mi costarono dugento piastre, e promisi 12. copie a suo tempo. Ma perchè
a stampar l’Opera con ogni squisitezza, dugento doppie non bastano, e a
me sono cresciute molte spese, e a questi anni forti diminuite le rendite,
non posso assolutamente effettuare il disegno. Per essere quest’Opera
compilata sotto la protezione di Sisto V. e la Galleria eretta, e conservata
a quei tempi nel Vaticano, mi pareva obbligo, pubblicandola, di dedicarla
ad un altro Sommo Pontefice, e particolarmente al Regnante per tutte le
circostanze superiore a quel, che mai si possa desiderare. Favorisce il mio
concetto l’essere nelle stampe lasciati voti gli scudi dell’armi Pontificie, da
potervi collocare le insegne gloriose della nobilissima Casa Chigi.
Monsignor Magalotti avendo, non so come, penetrata questa mia
intenzione, aveva destinato con opportuna occasione di farla palese alla
Santità di Nostro Signore, e congiuntamente l’impossibilità di adempirla
senza un ajuto di costa proporzionato. Ma prevenuto dalla morte, non
potette farmi questo suo spontaneo favore. Se V.S. Illustrissima con
occasione di far vedere la stampa, con la sua innata gentilezza volesse
toccare qualche cosa di questo affare, farebbe a me un gran beneficio, ed
al Pubblico insieme, perchè se non si muta vento per me, il quale io non
veggo d’onde si possa spirare, io non sono in grado di fare questa grande
spesa, e mi trovo avere inchiodate 70. Doppie, senza minima speranza di
mai ricuperarne un picciolo. E quel, che più mi preme, non vedendo il
modo di far pubblica questa fatica, stata occulta più del dovere. Se io non
103
mi trovassi in Villa manderei a V.S. Illustrissima il Frontespizio, e la
veduta della Metalloteca, che sono due bellissimi rami, benchè siano assai
più belli quelli delle cose naturali, intagliati con tanta finezza, che si
lasciano addietro ogn’altro libro stampato sin’ora di sì fatte materie. Gli
mandarò la prossima. Intanto assicuro V.S. Illustrissima, che per tutti i
requisiti è Opera, che merita la Protezione, e il Nome di un tanto
Pontefice. Se mi sortisse impetrar questa grazia dalla generosità di Sua
Beatitudine, la vorrei stampare prestissimo, e venir subito a Roma a
presentarla in persona. Sig. Ottavio mio abbracci V.S. Illustrissima questo
negozio col suo solito affetto verso di me, e col suo nobil zelo di
promuovere le buone lettere, in premio del quale il Signore Iddio le
conceda tutte le felicità, che io le bramo, le quali sono infinite e per
grandezza, e per numero. E senza più mi confermo
Di Firenze 25. Ottore 1666 Di V.S. Illustrissima
Serv. Divotiss. ed Obbligatiss. di cuore
Carlo Dati
104
dove tratta del vino mirrato dato in Croce a GESU Cristo Signor Nostro.
Restarono adunque presso agli eredi il m.s. e i rami, con grandissimo
pericolo di andar male, e furono più volte in cimento di essere portati oltre i
monti. Agli anni passati avendone io qualche precedente cognizione,
procurai di veder l’uno, e gli altri, e talmente me ne invogliai, che avanti di
restituirgli, negoziai, e conclusi la compra, con qualche mio sconodo, per la
somma di 70. doppie, e num. 12. copie, quando l’Opera di fosse stampata.
Fatta diligente rassegna de’ rami finiti, abbozzati, e rifatti, che in tutto sono
130. non trovo, che vadano in opera se non 118. e forsi altri due, de’ quali
non mi assicuro. Ben’è vero, che il rame degli Armari, per i quali si
distinguono i trattati, e le materie, va replicato parecchie volte con diverso
titolo, in tal maniera, che in ogni Volume compariranno in tutto 130. figure,
o poco meno, ma fatte per eccellenza, è certo, che a farsi costarono più di
mille piastre.
La stampa sola a farne 500. solamente, cioè 400. in carta di pesto fino, e 100.
in carta reale, importerà almeno 200. doppie; e se i fogli ricrescono, non
basteranno &c.
Per essere questa Galleria stata eretta in Vaticano, e perciò Vaticana
intitolata, e spese di un Sommo Pontefice, il mio concetto era, pubblicandola,
consegnarla al nome glorioso del Regnante Pontefice Ottimo Massimo, e
riempire i vuoti delle arme Pontificie, con le insegne trionfali di Casa Chigi
&c.
Non mi resta se non un buon desiderio, e un godimento di avere assicurata
quest’Opera degnissima, perché altri, quando che sia, abbia miglior fortuna
di pubblicarla.
Questo è quanto posso significare a V.S. Illustrissima in questo proposito;
alla quale, oltre il Frontispizio, e la Veduta, invio anche il rame della
Zolfatara, che è il maggiore di tutti. Gli altri sono mezzani, e alcuni piccoletti
&c.
Di Firenze 6. Novembre 1666. Di V.S. Illustrissima
Serv. Devotiss. ed Obbligatiss.
Carlo Dati.
105
Michaelis MERCATI Metallotheca, opera postuma, 1717
Questa lastra è stata utilizzata per illustrare Canis carchariæ dissectum caput
106
È interessante notare come in quei secoli si usava collegare la “balena”
di Giona allo squalo; quindi la dissezione anatomica di questo pesce
assume un che di “teologico”, come si ravvisa nei Principj della Religion
Cristiana In Firenze Appoggiati a’ più validi Monumenti o si dica
Monumenti Appartenenti alla medesima Religione osservati da Domenico M.
Manni (1).
È da osservarsi la forma del pesce, che ingoia il Profeta non solo in questa
arca, ma in ogni altro luogo, dove s’incontra effigiata questa storia,
essendo che si rassomiglia, piuttosto che a un pesce, a un mostro favoloso,
è strano. I Rabbini al loro solito hanno sopra di ciò scritto cose
sciocchissime. Poichè trovando nel testo Ebreo, che questo pesce è
denominato con nome maschile, quando ingoia il Profeta, e poscia con
nome femminino, quando lo rigetta, dissero, che Giona fu da prima
inghiottito da un pesce maschio, dove stando agiatamente, e perciò non
ricorrendo a Dio, fu gettato nel ventre d’un pesce femmina, e quindi
trovandosi in angustie si rivolse al cielo coll’orazione compresa nel bel
Cantico, che abbiamo ancora di questo Profeta. Non occorre logorare il
tempo a confutare queste favole, tanto più che il fece già Martino Lipenio
pienamente. Gli eruditi Scrittori delle cose naturali non credono, che il
pesce, che inghiottì Giona, fosse una balena, perchè questa spezie di pesci
ha le fauci strettissime, laonde è impossibile, che possa inghiottire un
uomo anche nudo, come è rappresentato in questo marmo forse per
rendere il fatto più agevole a credersi. Havvi adunque chi ha detto, questo
essere stato quel pesce detto da’ Greci per la sua forma ζύγαινα,2
mentovato da Eliano, e da Oppiano, e che è d’una grandezza
maravigliosa, e terribile, come dice S. Basilio, e Oppiano medesimo, il
quale non dubita d’affermare non ci esser ferocia di verun leone da
agguagliarsegli:
Sphima zygaena.
107
Altri poi hanno creduto, che questo fosse il Cane marino, detto Lamia, il
quale ha la gola di un’ampiezza sterminata, al riferire sì dell’Aldrovando,
d’Odoardo Wottone, e di Conrado Gesnero, e sì di Niccolò Stenone, che
ne ha ragionato più accuratamente di ogni altro. Il Roudelezio insigne
Professore di Mompellier, venendo più al particolare, afferma aver
veduto uno di questi pesci, che poteva comodamente inghiottire un uomo
anche ben grasso; e Francesco Willugbeio narra, che a Pietro Grillio fu
raccontato in Nizza, e in Marsiglia esserglisi trovato in corpo un uomo
intiero.
108
Queste esperienze Stenone le mette su carta e nel 1669 pubblica quello
che diventerà il suo maggior successo, il de Solido (1), dove l’Autore
inizia con lo spiegare la legge fondamentale della cristallografia (2) e
hanno importanza le dimensioni delle singole facce, ma solo gli angoli che esse
formano tra loro.
Si legge [in] Icilio GUARESCHI, Domenico Guglielmini e la sua opera scientifica.
Introduzione. Brevi cenni sullo stato della scienza e particolarmente della Chimica nella
seconda metà del secolo XVIII. Storia della Chimica, X. UTET (già Ditta Pomba), Torino,
ottobre 1914, p. 77: «Quattro anni più tardi, nel 1669, Nicolaus Steno eseguì a Firenze
alcune misurazioni, notevoli se si considera la mancanza di istrumenti adatti, degli
angoli tra le facce corrispondenti di differenti campioni di cristalli di rocca (quarzo,
il diossido di silice che si trova in natura, e riguardo al quale vi sarà molto a dire in
altre parti di questo libro), provenienti da diverse località, ed egli pubblicò una
dissertazione affermando che aveva trovato questi angolo analoghi, tutti
109
prosegue anticipando princìpi di geologia e stratigrafia.
Benché questo periodo della sua vita sia ricco di onori, in Stenone è
sempre più evidente l’apertura di un nuovo fronte di ricerca, stavolta
spirituale. L’essere un “eretico” luterano a Firenze gli procura non
poche diffidenze (1) e il fanatismo religioso imperante (2) lo fa riflettere
sullo sbocco da dare al suo futuro.
Per ragioni a noi rimaste ignote, nel mese di maggio dell’anno 1667
Stenone è a Roma. Sulla strada del ritorno, fatale si rivela una sosta a
Livorno. È il 9 giugno e nella Piazza Grande di questa città Stenone,
assistendo alla processione del Corpus Domini, ha una folgorazione da
lui stesso descritta:
del 30 aprile 1676: «Hà durato [il padre Bernardo Benvenuti] ad insegnare al Ser.mo
Principe di Toscana per sei, sette anni, e adesso doppo di averlo instruito nella
Grammatica Latina, e che credeva di dovergli insegnare l’altre cose, si è visto entrare
avanti lo Stenone, il quale non è mediocre, non che eccellente, in niuna cosa, fuor che
nell’Anatomia». [in] De Rosa, cit., p. 18, n. 49.
2 Si veda anche Furio DIAZ, Il bigottismo di Cosimo III. [in] Storia d’Italia. Diretta da
Giuseppe Galasso. Volume XIII. Il Granducato di Toscana. Tomo I. UTET, 1976, pp. 493-
496.
Integrano G. F. YOUNG [in] I Medici. Vol. II. Casa Editrice Adriano Salani. Firenze,
1939, p. 398: «I ministri di Ferdinando II furono sostituiti da altri […] presi
generalmente dai chiostri […] La teologia prese il posto dell’arte di governare» e Tim
BLANNING, [in] L’Età della gloria. Storia dell’Europa dal 1648 al 1815. Editori Laterza,
2011, p. 429: «...si può citare il caso di Firenze, dove a metà del Seicento si contavano
più suore che donne sposate. Nessun altro paese cattolico raggiunse questi livelli di
saturazione.»
110
Mi ritrovava io in Livorno, dove ella si ritrova, nel tempo della Solennità
del Corpus Domini; ed al veder portata in processione con tanta pompa
quell’Ostia per la città, sentii svegliarmi nella mente quest’argomento: o
quell’Ostia è un semplice pezzo di pane, e pazzi sono costoro, che gli
fanno tanti ossequi; o quivi si contiene il vero Corpo di Cristo, e perchè
non l’onoro anch’io? A questo pensiere, che mi scosse l’animo, da un
canto da non sapevo indurmi a credere ingannata tanta parte del mondo
cristiano, qual è quella de’ Cattolici Romani, numerosa d’uomini svegliati
e dotti, dall’altro non volevo condannare la credenza, in cui ero nato ed
allevato. E pure era forza il dire l’uno o l’altro: poichè non vi era nè vi è
modo di conciliare insieme due proposizioni che si contradicono; nè di
poter reputar vera quella religione, che, in un punto tanto sostanziale
della fede cristiana andasse errata, e facesse errare i suoi seguaci. In questo
stato capitai in Firenze (1).
suo Palazzo ci è stata tramandata da Niccolò Machiavelli nelle sue Istorie Fiorentine
scritte agli inizi del XVI secolo. Quello che sappiamo di Lei è che rimasta orfana della
madre, la Contessa Orsini, morta nel darla alla luce nel 1417 e del padre, Galeotto
Malatesta, Signore di Rimini, deceduto pochi anni dopo a seguito di gravi ferite
riportate in battaglia. La piccola Annalena fu prima affidata al Conte Attilio Vieri
111
dei Medici e poi adottata, insieme al suo immenso patrimonio, dal cugino Cosimo
dei Medici che con la moglie, la Contessina dei Bardi, la accolsero come una figlia,
dandole la migliore educazione e istruzione possibile. La giovane Annalena, che si
narra esser stata di una bellezza straordinaria, si innamorò, riamata, del capitano di
ventura Baldaccio di Bicci dei Medici, figlio di Piero d’Anghiari, che sposò nel 1439,
con una cerimonia solenne nella Basilica di San Lorenzo. Cosimo dette in dote ad
Annalena il Palazzo di via Romana, dove la coppia si trasferì. Baldaccio, prode
condottiero, si fece apprezzare difendendo la Signoria di Firenze nell’epica battaglia
di Anghiari del 1440, contro l’esercito milanese, conquistando l’ammirazione della
Corte medicea. Cosimo gli rese merito con ogni onorificenza e trasformando il
Palazzo di Annalena in una delle più belle case fiorentine, arricchendola con
affreschi, dipinti e arredi magnifici. Alcune opere del Beato Angelico e Filippo Lippi
sono ancor oggi custodite alla Galleria degli Uffizi e nel Museo di San Marco. Dopo
pochi anni di felicità nel Palazzo e la nascita del loro primo e unico figlio Guido, la
bellezza di Annalena suscitò il morboso desiderio di Bartolomeo Orlandini, il quale,
non corrisposto e accecato dall’invidia, fece assassinare in Palazzo Vecchio il marito
della affascinante nobildonna, con la complicità di Cosimo dei Medici, preoccupato
della sua crescente popolarità. Sola e disperata per la dolorosa perdita anche del
figlio, Annalena trova rifugio nella preghiera come Terziaria Domenicana e
trasforma la sua dimora in un Convento, che dopo la morte, avvenuta nel 1491,
prenderà il suo nome e ospiterà giovani vedove. E ancora il Machiavelli racconta che
il Convento di Annalena fu anche rifugio per Giovanni delle Bande Nere che si
camuffò da donna per sfuggire allo zio, Lorenzo il Magnifico, intenzionato a farlo
assassinare per rivalità politiche. Dal 1530 il convento è sotto l’Ordine di San
Vincenzo di Annalena: un lungo periodo di apparente tranquillità, fino a quando nel
1808 le leggi napoleoniche sopprimono l’Ordine, che contava in quell’anno ben 107
religiosi. Successivamente, nel 1820, viene acquistato e ristrutturato dal Generale
dell’esercito francese Mac Donald e da sua moglie Carolina Buonaparte, sorella di
Napoleone e vedova del re di Napoli Murat, che ne fecero una residenza sfarzosa e
impreziosita dall’omonimo giardino, uno dei primi esempi di giardino romantico
neoclassico in Italia. Alla morte del Generale il Palazzo passa in eredità al figlio Ugo
Mac Donald che, dopo averlo svuotato di ogni oggetto prezioso, lo vende ad un
ordine religioso di Suore Francesi del Sacro Cuore, che vi fondarono nel 1880 una
Scuola-Convento per educare le signorine delle più facoltose e nobili famiglie
fiorentine. Dopo alcuni passaggi di proprietà che mescolarono il sacro con il profano,
trasformando l’ex convento, prima in una casa di gioco, poi in una casa di tolleranza
di gran lusso ed infine ricovero per giovani donne, solo nel 1919 il Palazzo di
Annalena diventa Pensione Annalena, punto di riferimento per viaggiatori e
stranieri, poeti e musicisti.»
Per completezza, riprendo le righe del paragrafo VII del Libro sesto delle Historie
di Nicolo Machiavegli cittadino, et secretario fiorentino, al santissimo et beatissimo padre
112
rimasto ignoto sacerdote del suo incontro col Danese e della di lui
conversione (1):
Al Padre …
Per obbedire a chi mi comanda, e principalmente per manifestare la gran
bontà del Signore Iddio, che in tutti i tempi sa dimostrare la sua
onnipotenza, con operare in questi nostri secoli quello che si legge aver
fatto ne’ passati di cavar l’anime dalle tenebre dell’eresia, e ridurle alla
vera fede, e da quella arrivare alla maggior perfezione, come s’è visto aver
fatto nella persona del Sig. Niccolò Stenone di Copenhagen, dirò
semplicemente alcune particolarità seguite nella di lui conversione.
L’anno 1666. il Signor Niccolò Stenone di Copenhagen venne in Firenze
ad effetto di trattenersi qui alcuni giorni per vedere le feste di San
Giovanni, dimorando in una camera locanda; e volendo comprare
manteche, e altri simili cose fu introdotto a questo Monastero d’Annalena,
ed io li vendei le dette robe, e a tal effetto ci tornò due volte. Quando intesi
che era Eretico, mi dette gran fastidio, conoscendo per quel poco che
signor nostro Clemente Settimo pontefice massimo. Stampate in Roma: per Antonio
Blado d’Asola, a di 25 di marzo 1532, dove si cita Annalena: «Questo desiderio di
messer Bartolomeo era dagli altri cittadini cognosciuto, tanto che, sanza molta fatica,
che dovesse spegnere quello gli persuasono e a un tratto sè della ingiuria vendicasse
e lo stato da uno uomo liberasse che bisognava o con pericolo nutrirlo, o licenziarlo
con danno. Fatta per tanto Bartolomeo deliberazione di ammazzarlo, rinchiuse nella
camera sua molti giovani armati, ed essendo Baldaccio venuto in Piazza, dove
ciascun giorno veniva a trattare con i magistrati della sua condotta, mandò il
Gonfaloniere per lui, il quale, sanza alcuno sospetto, ubbidì. A cui il Gonfaloniere si
fece incontro, e con seco per lo andito, lungo le camere de’ Signori, della sua condotta
ragionando, dua o tre volte passeggiò. Di poi, quando gli parve tempo, sendo
pervenuto propinquo alla camera che gli armati nascondeva, fece loro il cenno. I
quali saltorono fuora, e quello trovato solo e disarmato ammazzorono, e così morto
per la finestra che del Palagio in Dogana risponde, gittorono, e di quivi, portatolo in
Piazza, e tagliatogli il capo, per tutto il giorno a tutto il popolo spettaculo ne feciono.
Rimase di costui uno solo figliuolo, che Annalena sua donna pochi anni davanti gli
aveva partorito, il quale non molto tempo visse. E restata Annalena priva del
figliuolo e del marito, non volle più con altro uomo accompagnarsi; e fatto delle sue
case uno munistero, con molte nobili donne che con lei convennono si rinchiuse,
dove santamente morì e visse. La cui memoria, per il munistero creato e nomato da
lei, come al presente vive, così viverà sempre.»
1 Fabroni, Lettere inedite, 1775, cit., pp. 38-44.
113
aveva discorso con lui, molte buone qualità, ed in particolare una gran
modestia e sentendomi inspirata, senza pensar ad altro, li dissi, che non
professava la buona fede Cattolica, e che sarebbe andato all’Inferno. A
sentir questo non s’alterò niente, ed io più volte li replicai l’istesso; e
standomi a sentire volentieri, dicendo che in materia di fede aveva gusto
discorrere, ma non disputare, quando intesi questo pigliavo animo di dirli
qualche cosa, dicendoli che ogni giorno pregassi Iddio, che li facessi
conoscere la verità, e mi promise farlo, e (come mi riferì il Suo servitore)
lo faceva ogni sera, e da questo si vedeva, che aveva gusto d’intendere, e
applicava assai a quello sentiva. Io mi trovavo confusa conoscendo non
esser abile a tal cosa, e mi diceva, che con altri aveva renitenza
grandissima a discorrere di questo, parendoli viltà, confessando di sentir
vergogna ed erubescenza di trattare di cose della Religion Cattolica; e
m’insinuava grandemente, che io non ne parlarsi ad alcuno, ed io
vedendo il suo desiderio li dicevo qualche cosa con semplicità e
confidenza. Trovandosi quì alle grate una mattina che sonò l’Ave Maria,
li dissi che la recitassi con me, e la disse mezza fino a fructus ventris tui;
lo pregai a dirla tutta, e aveva difficoltà come quello che negava
l’intercessione della Santissima Vergine, e de’ Santi, dicendo che per lui
gli bastava recitarla fino alle parole sopradette: lo pregai ad andare a
visitare la SS. Nunziata, e v’andò dicendo far tutto per me. Quando vidi
che faceva tutto quello li dicevo, li diedi certe Orazioni della Santissima
Vergine, e le recitava ogni giorno; li dissi che s’astenessi da mangiar carne
il Venerdì e il Sabato, e ancor questo fece, come mi riferì il sopraddetto
suo Servitore. Li rappresentavo che Lutero era stato cattivo, e s’era
ribellato dalla Chiesa, e mi rispondeva che non voleva dir male di lui
essendo stato buon uomo. Io sempre li faceva istanza che venissi alla
nostra Santa Fede; mi rispondeva che sì, ma che la voleva prima ben ben
conoscere, e diceva venirò venirò, non resti di pregar per me. Una volta
gli soggiunsi; Sig. Niccolò, quando vorrete, non potrete, e li raccontai un
caso, che avevo sentito d’un Principe Eretico, che diceva voler esser
Cattolico, e a tal effetto teneva due PP. Gesuiti sempre in casa, perché
venendo a morte, voleva abiurare; e quando giunse all’improvviso a tal
termine, fatti chiamare i detti Padri, questi non si trovorno mai, e così morì
Eretico, e dopo li videro nella lor camera senza aver essi sentito niente.
Intese questo caso in modo che li penetrò al cuore, come poi mi riferì dopo
la sua conversione.
Quando si partiva da me diceva che non l’abbandonassi, e che li
114
discorressi pur sempre di questi particolari: io prendevo animo, e li
scrivevo che da miei Superiori non m’era permesso il parlarli
frequentemente, e che ne provavo grand’afflizione conoscendo non
poterli dare quegli aiuti, che si dovevano. Giacché si tratteneva in Firenze
ad istanza di queste Altezze, e desideravo li fosse fatto conoscere la verità
vedendo in lui buonissima disposizione, lo pregai di andare al Padre
Leonelli Barnabita, con il quale parlò alcune volte; e il simile fece con altre
persone, ma con tutti questi non conferì già mai cosa nessuna, come quello
che tentato dal Demonio si sentiva subito sorprendere dalla sopraddetta
erubescenza di trattare di cose spettanti alla Religione Cattolica, a segno
che questi si facevano intendere non esserci speranza alcuna di sua
conversione.
Erano scorsi due anni e più, che si facevan tali discorsi, e non si veniva
alla risoluzione, ma dimostrava buona volontà, continuando a dirmi, che
non parlassi di questi particolari con alcuno: gli soggiunsi non voler
attendere ad altro; che la mia professione non mi permetteva trattare con
Eretici; e che i miei Superiori non volevano: rispondeva abbia pazienza,
vedrà, vedrà. Intesi che andava in casa il Sig. Arnolfini Imbasciator di
Lucca; risolvetti mandare per la Signora Imbasciatrice, e le significai i
sentimenti del Signor Niccolò: lei mi disse aver conosciute le sue buone
qualità, ma a lei non convenire di trattare di queste materie; e che
l’avrebbe introdotto al Padre Savignani Gesuita suo Confessore.
Rappresentai ciò al Signor Niccolò, il quale vi andò subitamente, e ammi-
rata la bontà, e carità del Padre li manifestò apertamente il suo animo, e
frequentemente si trovavano insieme facendo lunghi discorsi. In questo
tempo fu richiamato dal suo Re alla Patria, e per corrispondere con
prontezza pensò imbarcarsi su certi legni, che già erano per partirsi dal
Porto di Livorno, per il che non avendo avuto tempo di venire al
Monastero per darmi conto di sua partenza, lasciò in casa una lettera, che
conteneva questo fatto con ordine che mi fusse subito recapitata; ma
essendo andato all’udienza del Serenissimo Cardinale Leopoldo per
licenziarsi, li fu detto dal medesimo, che non v’era più tempo, che già le
Galere eran partite. Non essendo seguita la partenza, venne quà da me, e
li dissi tutto ciò doversi attribuire alla divina misericordia, che lo voleva
salvare col ritenerlo in queste parti, infino a tanto che non l’avessi
guadagnato alla Religion Cattolica. Esso si raccomandava si facesse
orazione, ed io ne feci fare. Essendo passati molti mesi che trattava, e
conferiva con il detto Padre Savignani, il giorno 2. di Novembre 1669.
115
andò dalla Signora Imbasciatrice, che ancor lei colla sua bontà, e prudenza
l’esortava alla resoluzione di rendersi Cattolico, e li domandò quello
voleva fare: lui rispose aver pensiero d’andare dal Padre Savignani
essendo molto confuso. Subito partito il Sig. Niccolò arrivò il sopraddetto
Padre, quale inteso che ebbe dalla Signora Imbasciatrice come il detto Sig.
era partito per cercarlo, tornò in dietro, e lo raggiunse, trovandolo assai
turbato, e lo condusse seco al Collegio; e domandandoli se voleva la
chiave della libreria come era solito, li rispose il Sig. Niccolò di no; ed
andando in camera se gl’inginocchiò d’avanti, dicendoli come con l’aiuto
del Sig. era risoluto abiurare la setta di Lutero, e divenir Cattolico. Fu con
grand’allegrezza abbracciato dal Padre, ringraziando Dio in vedere ben
impiegate le sue fatiche per maggior sua gloria. E veramente la dottrina e
carità di questo Padre fu quella che li fece conoscere la verità. Dopo il Sig.
Niccolò si partì dal Padre, e tornò dalla Signora Imbasciatrice, che sentita
la desiderata risoluzione andò in Cappella a recitare il Te Deum
laudamus. Di poi venne a darne la nuova a me, e mi soggiunse solo per
esser l’ora tarda, che non dicessi niente. La mattina seguente 3. Novembre
mi mandò a chiedere certe reliquie, ed una imagine della Santissima
Nunziata, che avevo promesso darli quando fusse Cattolico, e mi mandò
50. scudi acciò facessi fare un paro di candelieri d’argento a una Vergine
miracolosa, che abbiamo in un Oratorio, alla quale s’era fatto molto
raccomandare da queste Madri. Andò, credo, l’istesso giorno con il Padre
Savignani al Padre Inquisitore a fare l’abiura, e a stabilirsi nella Santa
Fede. Subito fatto questo si riconobbe in esso mutazione, siccome fu
osservato dalla Signora Imbasciatrice e da me, vedendolo più allegro, e
con un desiderio grandissimo di perfezione; e mi significò come aveva
avuto gran contrasti interni, e che quando si partì di casa la Signora
Imbasciatrice per andare a’ Gesuiti, s’incontrò in uno che lo voleva condur
seco, ed esso si scusò con dire che non poteva dovendo andare alla posta
per negozio d’importanza, dicendomi che credeva fussi stato il Demonio
per impedirli il suo buon pensiero: mi ringraziò della pazienza che avevo
avuto per tanto tempo. Io ancora gli feci scuse, che li avevo parlato con
libertà, perchè dolevami molto, che dovesse perder l’anima sua stando
nella sua falsa opinione. Questo è quanto mi pare di ricordarmi sia
occorso; protestandomi d’aver detto il tutto semplicemente per non saper
usare i termini dovuti, mentre prego il Signore che per l’orazione di
questo suo servo (che credo sia in Cielo) voglia concedermi un vivo
desiderio di servirlo e amarlo, e usarmi la sua misericordia. Come prego
116
ancora S.R. a compatire, e correggere le mie mancanze, dichiarandomi
aver fatto questo solo per obbedire e glorificare maggiormente il Sig.
Iddio. Li trasmetto qui annessa la copia di due lettere scrittemi dal
medesimo Sig. Niccolò doppo la sua conversione, e raccomandandomi
alle sue orazioni, resto con reverirla.
Di V. Reverenza. Dal Monast. di S. Vincenzio detto
Annalena lì 14. Luglio 1688.
Devotissima Serva nel Signore
S. Maria Flavia del Nero
117
ex monastero dell’Annalena, interno
118
Vi sono non poche imprecisioni in questa lunga relazione, soprattutto
nelle date, ma queste non modificano il carattere di questa ricerca sulla
figura dello scienziato esploratore del Gruppo delle Grigne, mentre
invece ci riguarda la conversione al cattolicesimo di Stenone, se non
altro per il susseguirsi degli avvenimenti: le lettere dell’agosto 1671
con le relazione sui fenomeni nivali delle grotte di Gresta e del
Moncódeno assumono una loro primaria valenza essendo i suoi ultimi
scritti di carattere prettamente scientifico. Dopo, indossato l’abito
talare, abbandonerà ogni ricerca per dedicarsi anima e corpo ai doveri
ecclesiastici.
Seguire questo percorso è importante, se non altro per comprendere
con quale stato d’animo uno Stenone “disturbato” da decisioni già
prese in cuor suo, ma ancora difficili da realizzare, porta a termine il
suo ultimo lavoro da scienziato. Un percorso ormai in salita il suo,
come ha già dimostrato nel de Solido, l’opera che gli è valso il postumo
titolo di Geologiae fundator, sebbene macchiata dal grossolano errore
dell’aver valutato in poche migliaia di anni l’età geologica della Terra,
come voleva la “rivoluzionaria” teoria dell’arcivescovo Ussher (1).
Al di là del tempo trascorso alle griglie del convento a discutere con
suor Maria Flavia, per convincere Stenone al grande passo ci vogliono
motivazioni ben più solide che se «che non professava la buona fede
Cattolica, e che sarebbe andato all’Inferno». Come da lei raccontato,
incapace di tanto la vecchia suora lo indirizza alla nobildonna Lavinia
Felice Cenami Arnolfini, moglie del legato residente della Repubblica
di Lucca presso il granduca di Toscana Silvestro Arnolfini, donna nota
1 Nel corso del Seicento si sviluppano numerose teorie per stabilire in quale data
il Dio del popolo ebraico aveva creato la Terra. Su tutte s’impone quella avanzata
nel 1650 da James Ussher (1581-1656): «In principio creavit DEUS cœlum & Terram
(quod temporis principium, juxta nostra Chronologiam) incidit in noctis illius
initium, quæ XXIII. diem Octobris præcessit, in anno Periodi Julianæ 710.», che in una
nota equipara all’anno 4004 a.C. Aggiunge: «Septimo die (Octob. 29. fer. 7)cùm
perfecisset Deus opus suum quod fecerat, quievit ab omni opere; & diei septimo
benedicens, Sabbatum instituit & consecravit». [in] The Whole Works of the most Rev.
JAMES HUSSER, Lord Archbishop of Armagh, and Primate of all Ireland. Volume VIII.
Londini 1650. Questa datazione, stampata su ogni copia della King James Bible dal
1701 fino a tempi recenti, ha ancora un suo seguito tra i creatoristi più intransigenti.
119
a Firenze per il suo fervore religioso (1). Suor Maria Flavia non è la
prima a dare questo consiglio a Stenone: già Redi, nel 1667, aveva
promosso un primo incontro con questa lettera di raccomandazione
(2):
120
Segue tra i due un nutrito scambio di lettere (1), nelle quali Stenone
dichiara più volte di volersi convertire, ma che la sua parte razionale
reclama una risposta al quesito: per quale ragione dovrei lasciare una
religione cristiana per seguirne un’altra cristiana? Questo dilemma lo
tiene a lungo nel limbo del tentennamento, salvo poi crollare di fronte
a un ricatto psicologico: al termine di un ennesimo, inutile confronto,
la nobildonna, frustrata nel suo zelo missionario e incapace di trovare
altre soluzioni, si dichiara pronta a morire pur di salvargli l’anima.
Sebbene vibrato in perfetta buona fede, questo colpo basso sgretola
definitivamente la proverbiale razionalità dello scienziato.
Il momento decisivo arriva il 2 novembre (2), quando Lavinia
bruscamente mette l’uomo alla porta (3):
121
Firenze mons. Lorenzo Trotti, arcivescovo di Cartagine, già autore (29
novembre) di questo dispaccio (1) indirizzato al card. Decio Azzolini:
1 Archivio Vaticano, Nunz. di Firenze 50, f. 349; [in] Angelo MERCATI, Lettere di
scienziati dall’Archivio Segreto Vaticano. Commentationes, Pontificia Academia
Scientiarum, vol. 5. Tipografia Cuggiani, Roma 1941, p. 84.
2 Archivio Vaticano, Nunz. di Firenze 199, f. 70; [in] A. Mercati, cit., p. 84.
122
non lasci V.S. d’esprimere a S.A., come anco à Religiosi suddetti la lode
data da S. Beatitudine all’efficacia delle insinuazioni loro, con le quali
hanno saputo render tanto più fondata, e e stabile la risoluzione predetta.
La benedice pertanto S. Santità con il paterno suo amore, conforme al
medesimo Gentilhuomo dovrà V.S. significare, mentr’io le prego
prosperità continua.
Cinquanta lettere assai più lunghe riceverà VS. senza dubbio nel
medesimo giorno, ma non già più grate di questa mia. Furono promossi
iermattina al Cardinalato il sig. Abate Rospigliosi, e il Sig. D. Sigismondo
Chigi, e quello, che più importa, il nostro Serenissimo Leopoldo; e questa
sera alle 24. appunto è giunto il corriere, detto il Lucchese, con questo
avviso, che ha ripieno di giubbilo tutta la Corte, e la Città, come ella può
persuadersi. Il Serenissimo Gran Duca, che stava per partir domani per
Pisa, ha sospeso la sua mossa, e si congettura differita fino a Domenica
prossima. Il mio gentilissimo Sig. Niccolò Stenone; cui altro non mancava
per rendersi, per così dire, adorabile, nel giorno appunto dei morti
resuscitò col dichiararsi Cattolico; e già ha terminato tutte le sue funzioni
con allegrezza non ordinaria di questi Serenissimi, e di tutti gli amici suoi.
Il giorno poi della Concezione della Madonna, nel quale per ultimo ne
fece la conferma davanti a Monsignor Nunzio, ricevè dal suo Re una
Lettera, da lui detta vocatoria, per la quale gli viene imposto il tornarsene
quanto prima, e gli vien destinata un’annua provvisione di scudi 400. da
corrergli dal giorno di sua partenza di quà, a titolo di trattenimento, senza
alcun obbligo, e con intenzione di avanzamento maggiore. Non si moverà
già, prima di sentire se la Maestà Sua si contenti di comportarvelo in
questa mutazione di Religione: ma perchè si crede di nò, si spera, che
continueremo a godercelo. Dopo questi avvisi così lieti, e sì nuovi
contentisi, ch’io le ne ricordi un antico, siccome al Sig. Falconieri, ch’io
sono
1Delle lettere familiari del conte Lorenzo Magalotti e di altri insigni uomini a lui scritte.
Volume secondo. In Firenze l’anno 1769. Nella Stamperia di S.A.R. per Gaet.
Cambiagi, pp. 17-18.
123
Firenze 13. Dicembre 1667. Vincenzio Viviani.
Poco tempo dopo, così risponde Magalotti a una lettera del principe
Leopoldo inerente la diaspora in corso nell’Accademia del Cimento (1):
Gli avvisi de’ quali mi onora V.A. nell’umanissima sua de’ 29. Novembre
venutami a trovare all’Aia2 son tutti curiosissimi, ma fra gli altri quello
dell’onorata risoluzione di Mr Stenon è per se solo bastante a riempirme
il cuore d’una gioia infinita, essendochè oltre al motivo, che ho
rallegrarmene per il di lui vero bene, vi considero il godimento che ne
avrà ritratto lo zelo impareggiabile di V.A., e l’acquisto che mi
presuppongo sia per farne cotesta Corte per infintanto che egli avrà vita.
Veramente nella dispersione presente della nostra Accademia per la
partenza del Borelli, dell’Oliva, e del Rinaldini non poteva a mio credere
succedere cosa più desiderabile, e se gli altri due luoghi si riempissero a
questa proporzione, mi parrebbe che avessimo qualche motivo da
consolarci della perdita fatta, la quale tutta insieme bisogna confessare
che è considerabile, perché finalmente dando al Rinaldini e all’Oliva quel
che va loro per giustizia di approvazione e di stima, il Borelli era un uomo
fastidioso e presso ch’io non dissi affatto intollerabile, ma in sostanza era
un letterato da far risplendere una Corte, perché aveva sodezza e
giudizio.
124
a quelle che da tempo lo vogliono un abile ladro di idee altrui (1). Per
controbattere queste nuove dicerie, alle quotidiane esperienze
scientifiche il Nostro deve aggiungere ponderosi studi di teologia e
1 A proposito di “furti d’idee”, ecco due versioni dello stessa tema: la descrizione
dei muscoli. Nel 1780, Giovanni Targioni Tozzetti, [in] Atti e memorie inedite, cit., pp.
211 e 214-5, scrive: «Era altresì il Borelli geloso all’eccesso delle sue scoperte: Quindi
è che per mera gelosia, si nemicò Vincenzio Viviani, e Niccolò Stenone, Uomini per
altro, che ad un immenso sapere, univano una somma onoratezza […] Il P. Abate D.
Guido Grandi ci fa sapere, che la nimicizia tra il Borelli, ed il Viviani, principiata per
conto dei Libri d’Apollonio, s’inasprì, perchè il Borelli sospettò, che il Viviani avesse
stimolato Niccolò Stenone a stampare nel 1667. lo Specimen Myographiae; e pubblicare
l’idea Geometrica dei Muscoli, la quale egli pretendeva fosse stata da se, prima che
da altri, immaginata.» Settant’anni dopo, il Dizionario di erudizione storico-ecclesiatica
da S. Pietro sino ai nostri giorni specialmente intorno ai principali santi, beati, martiri, padri,
ai sommi pontefici, cardinali e più celebri scrittori ecclesiastici, ai varii gradi della gerarchia
della chiesa cattolica, alle città patriarcali, arcivescovili e vescovili, agli scismi, alle eresie, ai
concilii, alle feste più solenni, ai riti, alle cerimonie sacre, alle cappelle papali, cardinalizie e
prelatizie, agli ordini religiosi, militari, equestri ed ospitalieri, non che alla corte e curia
romana ed alla famiglia pontificia, ec. ec. ec. Compilazione del cavaliere Gaetano MORONI
romano secondo aiutante di camera di sua santità Pio IX. Vol. LII. In Venezia, dalla
Tipografia Emiliana, 1851, p. 358, rivela: «Vanta Piacenza un gran numero di uomini
illustri […] Nella medicina e chirurgia primeggiarono […] Casserio anatomico che
prima di Stenone scoprì i muscoli, cui il secondo diè il suo nome e adombrò
gl’interspinali». Notizia non nuova, del resto, perché già precedentemente
pubblicata [in] Notizie Istoriche intorno a’ Medici Scrittori Milanesi, cit., p. 51: «Così li
muscoli, che Niccolò Stenone addimandò costarum levatores, molto prima di lui
furono conosciuti da Giulio CASSERIO PIACENTINO [Morgagn. Advers. Anat. II. Animad
vers. XV.], che pure prevenne il Covupero nella cognizione de muscoli interspinali.»
Ma già alla pagina successiva lo stesso Corte suggerisce «e GIACOPO BERENGARIO DA
CARPI, che, siccome prevenne il Nuchio in iscoprire la scaturigine de’ colamenti, che
passano al dissotto de nervi ottici per le caverne dell’osso basilare all’orecchio, e
palato, [Bertin., Medic. diffes. pag. 82.] così fu forse ritrovatore non avvertito de’
condotti salivali dello Stenone». La possibile soluzione è in questa frase: la mancanza
d’una capillare informazione portava gli scienziati a ripetere le stesse esperienze
altrui e pubblicarne i risultati come fossero novità.
125
redigere libri di autodifesa (1). Commenta (lucidamente) De Rosa: (2):
126
ubbidisce. Ma il viaggio non è né diretto né veloce. Stenone chiede
garanzie religiose e nell’attesa prende tempo, utilizzando il
trasferimento per fare nuove esperienze. Da Firenze scende a Roma;
da Napoli risale a Venezia passando per Spoleto, Loreto, Rimini e
Bologna; seguono Vicenza, Verona, Trento, Innsbruck, le miniere del
Tirolo e di Salisburgo e poi Norimberga. Nell’agosto del 1669 è a
Vienna, dove inizia un giro circolare che lo porta a visitare le miniere
dei monti Tatra e della Sassonia. Tornato a Vienna, prende in direzione
di Znaim, Kuttemberg, Praga, Karlsbad, Bayreuth, Francoforte,
Colonia, Utrecht, Leida e Amsterdam, dove arriva nel febbraio 1670.
Dalla Danimarca, però, non giungono buone nuove per lui, accusato
di essersi venduto al papismo. In attesa di notizie confortanti da parte
del suo re, alla bigotta Copenhagen preferisce la più aperta Olanda.
L’8 giugno 1670, alle porte di Utrecht, dove si sta recando in visita al
filologo e docente di storia Johann George Guava (o Greffe, latino
Graevius), Stenone viene informato della grave malattia che ha colpito
Ferdinando II de’ Medici. Senza esitare, passando per Utrecht,
Colonia, Ulm, Monaco, Innsbruck, Verona e Bologna rientra a Firenze,
ma arriva troppo tardi: il granduca è già morto e sepolto, sul trono
siede il cupo e stizzoso Cosimo III. Come scrive Harold Acton (1):
Cosimo III successe a suo padre nel pieno della giovinezza, come si suol
dire. Ma che razza di giovinezza era la sua! Devoto fino a essere bigotto;
intollerante di ogni libero pensiero: la sua esistenza consisteva nel fare il
giro delle chiese e dei conventi. […] Firenze cessò di essere il convegno di
scienziati e di dotti, perché Cosimo faceva ben poco per proteggerli contro
l’Inquisizione, «sempre affaccendata a sentir puzzo di eresia nella
filosofia e nella scienza.» Il dotto Lorenzo Bellini fu tanto perseguitato che
Vincenzo Viviani, allarmato, nascose in un fienile i manoscritti del suo
maestro, Galileo. Cosimo mandò presso delle corti straniere alcuni dei
suoi sudditi più distinti e dotati: o voleva liberarsene, o loro erano partiti
in esilio volontario. Il Conte Lorenzo Magalotti fu mandato ambasciatore
a Vienna, dove il suo talento fu probabilmente apprezzato più che in
patria. Altri rimasero, poveri e trascurati, deplorando che gli elementi.
1 Gli ultimi Medici, Giulio Einaudi editore, 1962, pp. 104 e 137.
127
Per Stenone le cose vanno così: Cosimo gli concede la sua fiducia ma
gli affida un compito davvero modesto: stilare l’elenco di tutti gli
oggetti della raccolta naturalistica della Galleria dello Studio di Pisa,
collezione che il nuovo sovrano intende smembrare (1).
1 Il Testo dell’Inventario della collezione naturalistica dello Studio pisano complitato nel
1671-1672 da Niccolò Stenone si legge per intero [in] Niccolò Stenone nella Firenze e
nell’Europa del suo tempo. Mostra di documenti, manoscritti, opere nel terzo centenario della
morte. Catalogo a cura di Stefano DE ROSA. Firenze. Leo S. Olschki Editore, 1986, pp.
61-80.
2 Gli ultimi Medici, cit., p. 137.
degli accademici del Cimento. Si veda: Esperienze intorno ad alcuni effetti del caldo, del
freddo, [in] Saggi di naturali esperienze, cit., pp. CCLVI-CCLXII.
4 Per comprendere le ragioni di questa permanenza rinvio al più volte citato
128
Lettore d’Anatomia nel Teatro di Copenhagen e una pensione di 400
talleri annui. Senza un alloggio “di Stato”, Niccolò trova riparo nella
casa natale, ospite della sorellastra Anne e del cognato Jakob Kitzerow,
pure lui orefice. Dopo una lunga attesa, interrotta di tanto in tanto da
lezioni tenute in casa del cognato, Stenone può finalmente inaugurare
la sua attività universitaria con la pubblica e toccante dissezione del
corpo di una giovane donna, durata dall’8 al 18 febbraio 1673 e
raccontata nel Proemio delle lezioni anatomiche nel teatro di Copenhagen, il
trattato (1) in cui descrive i rapporti che legano l’esercizio scientifico
dell’anatomia alla fede cattolica: «La vera anatomia è la via lungo la
quale Dio per mano dell’anatomista ci porta alla conoscenza prima del
corpo animale, poi della Sua natura.» Di fronte al già puzzolente corpo
femminile che sta sezionando - consegnatogli dal boia che l’ha
impiccato - sente il dovere di rendere omaggio alla verità della natura
con queste parole: «Bello è quanto vediamo, più bello è quel che
comprendiamo, ma la cosa di gran lunga più bella è quel che la nostra
intelligenza non può capire» (2) trasformando così in bellezza
«l’orrenda immagine della morte».
Le sue condizioni di vita a Copenhagen non sono all’altezza del
pomposo titolo di “regio anatomico” affibbiatogli da Bartholin: la
conversione al cattolicesimo gli crea diffidenza, lo stipendio è misero,
la libertà di cui gode non prevede l’uscita dalla capitale, il materiale
da dissezionare sempre scarso. È tempo per lui di rientrare a Firenze
«dove vi erano concrete possibilità di riprendere i suoi studi di
geologia. Ma dal suo ritorno a Firenze in poi si ha notizia di un solo
scritto di Stenone, che non sia di carattere strettamente religioso: il
Trattato morale per l’educazione di un principe, un lavoro andato perduto,
Questo (obs. CXXXIV), e altri due scritti scientifici di Stenone (Historia musculorum
aquilae e Receptaculi sanguinis circulus per ventriculorum cordis separationem ab invicem
manifestior reddidtus), gli ultimi della sua vita, sono stati raccolti dall’allievo Holger
Jacobsen e pubblicati negli Acta medica et philosophica Hafniensia. Hafniae, 1673.
2 Pulchra sunt, quae videntur, ¦ pulchriora quae sciuntur, ¦ longe pulcherrima
quae ignorantur.
129
di cui lo Scherz indica delle tracce in alcune osservazioni
frammentarie.» (1)
Dopo una sosta ad Hannover, ospite del duca Johann Friedrich, alla
fine del 1674 è a Firenze, dove assume l’incarico di precettore del figlio
del granduca. Quasi contemporaneamente si decide ad abbandonare
ogni genere di ricerca scientifica per abbracciare lo stato ecclesiastico:
dispensato dal papa dal sostenere l’esame teologico, domenica 14
aprile 1675, giorno di Pasqua, celebra la sua prima messa all’altare
fiorentino dell’Annunziata (2).
Due anni dopo, Stenone sente la necessità d’informare suor Maria
Flavia del Nero dei cambiamenti in atto nella sua vita, inviandole
questa lettera:
130
consolazione perfetta; e ella riverisca le altre serve di Dio. Di Vostra
Riverenza in degnissimo servo in Dio.
Roma, 15. di Settembre 1667.
Niccolò Stenone.
(Titopoli) era vacante dall’8 marzo 1677, quando il precedente titolare, Ludovico da
Silva, era stato trasferito alla chiesa residenziale di Lameno, in Portogallo.
131
132
IL VESCOVO
133
Accetta l’incarico, fa sapere alla Sacra Congregazione de Propaganda
fide, ma al momento Innocenzo XI ha ben altro da fare e per un po’ lo
lascia sulle spine.
La Congregazione si riunisce il 2 agosto, mentre è datato 5 agosto 1677
il decretum di approvazione pontificio alla nomina di Stenone a vicario
apostolico e vescovo. Il Breve di nomina a vicario apostolico
(sottoposto al nunzio di Colonia) nei territori del duca Johann
Friedrich (i principati di Calenberg, Göttingen e Grubenhagen), nelle
diocesi di Brema, Glückstadt, Halberstadt e Magdeburg, nel
Mecklemburg e nelle missioni di Altona e Glückstadt porta la data del
21 agosto. Quasi un mese dopo, domenica 19 settembre, nella cappella
del Collegio de Propaganda fide Stenone riceve l’ordinazione
episcopale per mano del cardinal Gregorio Barbarigo.
Concluse le cerimonie, Stenone può rimettersi in viaggio e a cavallo,
in un solo giorno, il 27 settembre, da Roma sale a Firenze, dove il 28
prende commiato dagli amici e da Cosimo III, che per l’occasione non
manca di rifornirlo di abbondante denaro contante. Un po’ a cavallo,
un po’ su carrozze e per vie d’acqua, il 19 novembre il novello vescovo
comunica al segretario della Congregazione di essere arrivato ad
Hannover, pronto a prendersi cura delle circa 500 anime del suo
gregge (1).
In Germania spende gran parte delle sue energie nel cercare di ricucire
i rapporti col mondo protestante, ad allacciare stretti legami col
filosofo e matematico Gottfried Wilhelm Leibniz (2), a convertire un
centinaio di persone e a prendersi cura delle famiglie più bisognose.
lavorando al suo trattato di geologia, Protogaea, per il quale si fondava sugli studi
dell’amico danese, e lo invitava a riprendere l’attività scientifica, in special modo in
quella direzione intrapresa col De solido, «fino a scoprire gli inizi del genere umano».
Ma Stenone non cercava altro che di adeguarsi alla volontà di Dio; la sua angoscia
non riguardava il prezzo che questa volontà richiedeva, ma il desiderio di essere
veramente e di operare senza dubbi secondo essa. Per il resto egli indicava in
Abramo, disposto al sacrificio del figlio suo Isacco, il prezzo dell’amore e
dell’obbedienza a Dio.» [in] Opere scelte, cit., p. 94.
134
Ovviamente, non mancano i problemi creati dai feroci attacchi
sferratigli da alcuni frati cappuccini e dalle beghe da pollaio in corso
fra benedettini e gesuiti, esempi che confortano lo scisma luterano (1).
Il 14 marzo 1678 a Stenone viene affidato anche il regno di Danimarca
e della Norvegia, portando il suo campo d’azione dalla Germania
centrale all’estremo Nord. Un territorio troppo vasto per un uomo
solo, ma sono le ragioni politiche addotte dal duca Johann Friedrich,
preoccupato che i suoi interessi fossero turbati dall’azione del vicario,
a spingerlo a chiedere d’essere sollevato dei vicariati di Brema,
Halberstadt, Magdeburg e Mecklemburg, richiesta accettata in data 15
maggio 1679. Dopo questa data il nuovo territorio affidato a Stenone
comprende i tre principati del duca, il regno di Danimarca, la città di
Amburgo, Altona e il vescovato di Osnabrück.
Il 28 dicembre 1679 muore Johann Friedrich von Braunschweig-
Lüneburg e sul trono ducale sale suo fratello Ernst August, vescovo
protestante di Osnabrück e secondo duca di Hannover. Sia il nuovo
sovrano che sua moglie, Sophie di Pfalz, dimostrano grande tolleranza
religiosa e non creano problemi al vescovo romano, persona di cui
hanno grande stima.
Tre anni sono passati dal suo arrivo ad Hannover e per Stenone è già
tempo di rifare le valigie: il nunzio di Colonia comunica al Danese che
gli interessi della chiesa romana richiedono un suo spostamento e il 23
marzo, d’accordo col nunzio, l’ammalato Serenissimo principe
vescovo Ferdinand von Fünsterberg, titolare delle diocesi di Münster
e Paderborn, invia una supplica a Roma chiedendo che Stenone
diventi il suo suffraganeo. In data 3 agosto 1680 Innocenzo XI risponde
positivamente al vescovo principe, seppure limitando il campo
operativo del suffraganeo alla sola diocesi di Münster. Per la nomina
ufficiale si deve aspettare il concistoro del 7 ottobre 1680 (2).
135
Münster. la casa parrocchiale abitata da Stenone (da internet)
136
compagni di religione, ma opposti a lui nell’intendere il ruolo di
pastore di anime (1).
Imitando Carlo Borromeo - suo punto di riferimento e di cui si è fatto
spedire «il santo tesoro», ovvero tutte le sue opere stampate -, l’ausiliare
percorre centinaia di chilometri per amministrare la cresima in quasi
200 delle 250 parrocchie, molte delle quali non vedevano il loro
vescovo da 10-12 anni e talune anche da 30, rimuovendo i parroci
ritenuti indolenti e dando alle stampe Doveri pastorali (2), un trattato
sul luogo del mio vicariato, dove se la mia vocazione fosse per goder cortesie e
commodi, non avrei occasione di dolermi, anzi di rallegrarmi; ma vedendo la
miseria delle anime non solamente acattoliche, ma cattoliche, non veggo donde
cominciare, e temo di non perdere me con esse. Mi vuole il Serenissimo con ogni
forza far accettare un regalo d’una carrozza a sei cavalli; fo quanto posso per
difendermi, accetterei più tosto all’esempio del mio S. Niccolò duo asinelli.» [in]
Epistolae, cit., pp. 369-370.
2 Hirtenpflicht; titolo originale: Parochorum hoc age seu evidens demonstratio quod
parochus teneatur omnes alias occupationes dimittere & suæ attendere perfectioni ut
cõmissas sibioves ad statum salutis æternæ ipsis à Christo præparatum perducat. Florentiæ
1684. Apud Hippolytum Navesium, pp. 82. Fatto distribuire dal granduca a tutti i
parroci toscani, è oggi ritenuto un classico della teologia pastorale. Ristampato nel
1962 da Aschendorf Verlag e riprodotto in Positio, cit., DOC. XXV, 2.
Manni, cit., pp. 315-17, si toglie un sassolino dalla scarpa riferendo: «Oltre a
questo non vuolsi da me obliare ciò, che è sfuggito agli occhi di maggior perspicacia,
per quanto il silenzio degli altri mi consigliasse qui a tacere; ed è il Libro, sul quale
mi soffermai alquanto, del titolo Parochorum hoc age. Questa importantissima Opera
per non avere in fronte il nome dell’Autore, non veggo, che alcuno l’abbia per di lui
citata. Un cenno ne ravviso in lettera degli 11. Marzo 1683, di Jacopo del Lapo
sopraddetto a Mario Fiorentini dicendo “Il Serenissimo Gran Duca fa stampare quì
in Firenze una nuova Opera di Monsig. Vescovo Stenone, ma però di Teologia
Morale; quando sarà stampata la manderò.”» E parmi strana cosa, che obbliamento
sì grande ne sia rimasto, quando da essa così bene accettata son nati considerabili
vantaggi alla Chiesa. D’uno mi giova il narrare in questo luogo, ed è, che asceso alla
Sede Vescovile d’Arezzo l’anno 1683. lo zelante Prelato Monsig. Attavanti, lodato
fra gli altri encomj da Gio. Batista Capalli Aretino, diede egli fuori un Libro in quarto,
impresso in Firenze da’ caratteri di Vincenzio Vangelisti l’anno 1685. con questo
titolo: L’obbligo de’ Parochi dimostrato con evidenza da zelante, e dotto Prelato (lo che
addita Stenone ancor nascoso) Opera utilissima fatta di nuovo dare alle stampe (e ciò in
137
che ricorda al clero gli obblighi cui è tenuto. Una intromissione,
questa, che gli procura un’ulteriore inimicizia dei cappuccini, degli
agostiniani, del vicario generale in spiritualibus per la diocesi di
Münster, Giovanni von Alpen, e del Capitolo del duomo. Ben più
arduo lavoro per lui è ribattere a tutte le accuse formulategli contro
dal decano del Capitolo del duomo, Giovanni Rotger Torck (1) e
riportare ordine e decenza nei monasteri femminili di Rosenthal (2) e
in quello delle Lorenesi, entrambi a Münster, dov’è consuetudine che
figure esterne sostino fino a sera tarda, con disinvolto utilizzo del
refettorio e consumo di alcolici (3), vi sia intimità fra alcune sorelle (4)
si crede esser d’obbligo secondo i canoni della santa Chiesa.» [in] Positio, cit., p. 412.
2 Direttive lasciate dal visitatore al convento di Rosenthal, 30 aprile 1683. [in] Epistolae,
cit., pp. 581-83. «Il convento di Rosenthal, originariamente una comunità di beghine,
aveva adottato nel XVI secolo la regola di s. Agostino. La comunità era formata da
dodici religiose.» [in] Positio, cit., p. 463. Lettere e relazioni inerenti le visite ai
monasteri si trovano nel DOC. XX.
3 «Il vizio del bere non era raro nel clero di Münster, e il Servo di Dio cercò di
decano del Capitolo suo rivale Giovanni Rotger Torck in data 31 luglio 1683, ripresa
[in] Positio, cit., DOC. XX, 8. La nota 4 alla lettera recita: «Anche secondo la
dichiarazione di Suor Maria Alessia Koch, fatta al vicario generale von Alpen, suor
Witfeld si era pentita prima della morte, della sua eccessiva intimità con suor
Wischmann; Epitolae 308/9, p. 605.». La relazione del vescovo suffraganeo viene
accolta malamente dal decano Torck e dal Capitolo, che in data 3 agosto reagisce
proibendo a Stenone la continuazione delle visite pastorali.
138
e la non virginea abitudine di passare la notte fuori dal convento (1).
Ovviamente lui deve essere sempre d’esempio e quindi si costringe
alla vita di patimenti e povertà a cui si è obbligato per voto (2).
1 Scrive Felice CALVI, cit., pp. 315-316 e 340-341: «Le femmine, qualora non si
presentasse subito un marito conveniente, vale a dire che tornasse di lustro alla
famiglia, e promettesse aumentarne la potenza col legarla in parentela a qualche
grande casata, entravano in un convento, dove la loro vita non era così severa, così
tristemente ascetica, così desolata, come divenne dopo che la società laica cominciò
a tenere il broncio alle compagnie claustrali, a scrutarne le abitudini, per comporre
poi una specie di processo che riuscisse alla condanna del monacato; condanna che
le fornisca un pretesto per osteggiare per quanto può, in nome di non so quale
libertà, la libertà, a chi ne abbia voglia, di seguire la propria vocazione. […] All’ingiro
di questi grandi personaggi agitansi abati e priori commendatarii, che non hanno
mai visto i loro monaci, ma godono beatamente le laute rendite dei monasteri; come
i titolari laici di cattedre scientifiche o letterarie, esonerati dal fare le lezioni, che non
si sono mai fatti vedere dai loro scolari, ma ne intascano l’appannaggio. In coda una
legione di monaci governati da abati o da priori effettivi, soggiornanti con larghezza
signorile e con abitudini mondane, in monasteri simili a dimore principesche:
canonici, cherici, frati, dotati di opulenti prebende: un nugolo di monachelle
rinchiuse in conventi, dai quali non sempre esala il santo profumo delle caste virtù
di vestali dedicantisi alle severe abnegazioni del chiostro. Tutta codesta sacra
falange, irta di prerogative e di diritti intangibili, con fisionomie differenti, a seconda
degli ordini religiosi a cui appartengono, formicola nelle città e nelle campagne,
formando lo sfondo del quadro sociale, che io mi sono provato di ritrarre, mentre in
prima linea si mantiene sempre la nobiltà ricca.»
2 «Per assicurare al Servo di Dio i mezzi di sostentamento, il vescovo gli assegnò
139
Racconta il Manni:
Dava il Vescovo tutto il suo a’ poveri, e quando si ridusse a non aver più
nulla, vendette il Pastorale d’argento, e l’anello Episcopale prezioso per
sollevare l’altrui povertà. [...] Siccome non dormiva mai nel letto, ma in
terra, per coperta servivasi del ferraiolo, se pur non pigliava il puro puro
necessario riposo sur una seggiola, [...] La sua guardaroba conteneva in
tutto, e per tutto senza ciò, che aveva indosso, due camicie di lino ben
grosso, e di panno da far sacchi; tre collari e sette fazzoletti con appresso
un ferraiolo molto ordinario.
140
vescovo era stato eletto senza l’intervento dello Spirito santo - di buon
mattino un addolorato Stenone lascia per sempre la città.
Questa nomina è così commentato da Fr. Melchior de Pobladura,
Relatore generale della vaticana Positio, nell’introduzione al
DOCUMENTO XX:
L’argomento qui trattato è uno dei più delicati della carriera ecclesiastica
del Servo di Dio. Per incarico del vescovo principe Ferdinando, egli aveva
iniziato varie visite pastorali, sia nelle parrocchie che nei conventi
femminili di Münster. Appena morto il vescovo, il Capitolo del duomo,
al quale spettava la giurisdizione durante la sede vacante, proibì al
suffraganeo di continuare le visite che erano ancora in corso, annullò
alcuni suoi provvedimenti e cercò di rendergli impossibile ogni ingerenza
nella scelta dei candidati agli ordini sacri. Ciò provocò la reazione del
Servo di Dio, il quale si rivolse a Roma per chiedere un giudizio
autorevole della S. Congregazione de Propaganda fide sui criteri da lui
adottati nella questione delle ordinazioni, come anche per denunciare la
condotta del Capitolo, in particolare del suo decano Giovanni Rotger
Torck.
Il conflitto tra il suffraganeo e il Capitolo si acuì ancora di più quando il
1° settembre 1683, in seguito a macchinazioni simoniache, fu eletto il
nuovo vescovo di Münster nella persona di Massimiliano Enrico di
Baviera, principe elettore di Colonia e vescovo di Liegi e di Hildesheim.
Stenone, che era al corrente di quanto era successo alla vigilia della
elezione, si allontanò dalla città la mattina stessa del 1° settembre, per non
dover cantare la messa de Spiritu Sancto in apertura dell’elezione. Si recò
a visitare i suoi vicariati. Durante il viaggio denunciò al sommo Pontefice
e al nunzio a Colonia il carattere simoniaco dell’elezione. Arrivato poi ad
Amburgo, il 2 ottobre inviò alla S. Congregazione de Propaganda fide una
esauriente relazione sulla condotta tenuta nei suoi riguardi dal Capitolo
dopo la morte del vescovo principe Ferdinando. In particolare accusò il
decano Torck, del quale più tardi scrisse che fintantoché egli fosse vicario
generale, non sarebbe stata possibile una vera riforma della diocesi.
Giovanni Rotger Torck (1628 - 5 sett. 1686), oriundo da una famiglia
equestre di Münster, aveva ricevuto la prima prebenda nel duomo di
Münster all’età di 9 anni. Nel 1650, in occasione della elezione del vescovo
Cr. B. von Galen, Torck era già canonico. Nel 1654 fu mandato dal vescovo
a Roma, e dopo il ritorno ebbe un benefizio nel duomo di Paderborn. Nel
141
1667 egli era già (almeno de iure, e nel 1674 anche de facto) decano del
Capitolo del duomo di Münster. Ebbe ancora altri tre benefizi, tra cui
quello di praepositus del duomo a Minden, per ottenere il quale egli aveva
contratto obblighi verso l’elettore protestante di Brandeburgo. Il vescovo
von Galen non si fidava del decano Torck. Anche Ferdinando von
Fürstenberg, pur essendo legato a lui da una amicizia - dovuta soprattutto
ai comuni interessi umanistici -, non si sentiva di affidargli l’ufficio di
vicario generale o di suffraganeo.
Tutti i tentativi - compresi quelli del nunzio a Colonia Ercole Visconti - di
far confermare l’elezione di Massimiliano Enrico rimasero vani.
Innocenzo XI non si lasciò sedurre nemmeno dalla promessa di aiuti, che
l’elettore avrebbe mandato per la guerra contro i Turchi. La S.
Congregazione de Propaganda fide, a sua volta, si preoccupò di rimediare
ai disordini lamentati dal Servo di Dio nell’amministrazione della diocesi,
e di far dare a lui stesso una adeguata soddisfazione.
Il suo ritorno a Münster divenne però inopportuno, per l’animosità
crescente di cui divenne oggetto quando si venne a sapere che era stato
lui a informare Roma di quanto era accaduto durante la sede vacante.
Stenone vedeva in ciò una disposizione della Provvidenza e si orientava
verso il lavoro nelle missioni settentrionali. Avrebbe accolto volentieri
anche il desiderio del granduca di Toscana che l’avrebbe voluto a Livorno
per la cura pastorale degli stranieri, ma, conformemente a un suo
precedente voto, evitò di influenzare la decisione della Santa Sede,
abbandonandosi alla volontà del Pontefice. Finalmente ai primi di maggio
1684 egli venne restituito ai suoi vicariati - dei quali tornarono a far parte
anche quelli amministrati in precedenza dal vescovo di Münster e
Paderborn -, mentre veniva esonerato dall’ufficio di suffraganeo di
Münster.
[…] Egli non ritornò a Münster dopo il 1° settembre 1683 e, una volta
restituito ai suoi vicariati, non si occupò più delle vicende di quel
vescovato, il quale rimase giuridicamente vacante fino al 20 dicembre
1688, quando fu confermata l’elezione di Federico Cristiano von
Plettenberg a vescovo di Münster.
142
incorrere in possibili travisamenti dei fatti, ricorro (ancora una volta)
all’autorevole parere espresso da Fr. Melchior de Pobladura [in]
Positio, XX, 12:
143
introducendo, massime nei paesi contigui agli Eretici, i quali, valendosi
della congiuntura, non lasciano di contribuire ogni studio per dilatare le
loro eresie, e distruggere a poco a poco in quelle parti la Religione
Cattolica. Questa notizia come ferisce la pupilla dell’occhio pastorale di S.
Santità l’è stata di sommo ramarico, e però S. Beatitudine mossa da puro
zelo scrive l’annesso Breve al Capitolo di Münster esortandolo a voler
nell’elezione del nuovo vescovo haver a cuore l’honor di Dio et il bisogno
grande, che ha quella chiesa d’esser provista d’un capo, e d’un prelato,
che possa con il suo esempio, con la sua assistenza, et applicazione
proveder agl’accennati abusi, e sopratutto ridurre il clero alla vera norma
della vita e disciplina ecclesiastica. Dovrà pertanto V.S. (quando
l’elettione di quel Vescovo non sia per anco seguita) procurar quanto
prima il ricapito del Breve della Santità Sua, accompagnandolo con le più
vive, et efficaci insinuationi, che Le suggerirà la propria prudenza...».
Prima che il nunzio ricevesse questo dispaccio e l’unito Breve per il
Capitolo, a Münster fu eletto, il 1° settembre, il nuovo vescovo nella
persona dell’elettore di Colonia Massimiliano Enrico di Baviera (1621-
1688), che era anche vescovo di Liegi e di Hildesheim.
Questo presule era arrivato alla sua elevata posizione non a motivo dei
suoi meriti, ma piuttosto in seguito alla politica della sua Casa e alle
necessità del partito cattolico. Suo zio Ferdinando era stato vescovo delle
predette tre sedi - Colonia, Liegi e Hildesheim -, e Massimilano Enrico era
divenuto suo coadiutore con futura successione, prima a Hildesheim
(all’età di 13 anni), poi a Colonia (a 21 anni di età) e infine a Liegi (9 luglio
1650), per succedergli in tutte e tre le diocesi il 13 sett. 1650. Fu ordinato
sacerdote il 24 settembre, e vescovo l’8 ottobre 1651. Nonostante le
disposizioni del Concilio di Trento che praticamente escludevano
l’accumulo di più vescovati in una sola mano, in Germania le cose si erano
sviluppate in senso contrario; la lotta contro il protestantesimo sembrava
infatti giustificare un tale accumulo, per assicurare in tal modo il potere
alle Case principesche cattoliche, soprattutto a quella di Wittelsbach. E
fino al 1683 la Santa Sede non aveva negato a questa famiglia principesca
quasi nessun breve di elegibilità. Urbano VIII anzi, col Motu proprio del 3
ott. 1637 - riconfermato col breve Alias emanarunt del 18 marzo 1638 -
aveva concesso a Massimiliano Enrico di Baviera l’indulto di assumere
addirittura «quascumque episcopales et archiepiscopales dignitates quarumvis
cathedralium et motropolitanarum».
Personalmente Massimiliano Enrico era un sacerdote fedele e pio, ma
144
aveva un debole per l’oro e il denaro e un interesse appassionato per
l’alchimia. Come sovrano era troppo debole per un’epoca politicamente
movimentata. Sotto l’influenza dei fratelli Francesco Egon e Guglielmo
Egon von Fürstenberg, il principato di Colonia passò da uno stato di
collaborazione a un vero asservimento alla Francia. Schieratosi dalla parte
dì quest’ultima nella guerra contro l’Olanda, l’elettore vide nel 1673 la sua
città residenziale, Bonn, conquistata dalle truppe tedesche e olandesi.
Dopo di ciò egli si ritirò nell’abbazia benedettina di S. Pantaleone a
Colonia, dove si dedicò totalmente a esercizi di pietà e ad esperimenti di
alchimia, allontanandosi malinconicamente dal mondo. Soltanto dieci
anni più tardi, e cioè dopo l’elezione di Münster, abbandonò questa vita
di eremita, ma per breve tempo.
L’elezione di Massimiliano Enrico a vescovo di Münster fu fatta
all’unanimità; basta però leggere il relativo atto notarile per sospettare
ch’essa fosse stata precedentemente concordata. Dopo la messa de Spiritu
Sancto, i 27 capitolari presenti, con a capo il decano Giovanni Rotger
Torck, si erano riuniti per designare i tre scrutatores compromissarii;
l’elezione infatti sarebbe stata fatta «per viam compromissi limitati sive
mixti», cioè gli scrutatori, in presenza di due notai, avrebbero chiesto il
voto a ogni singolo capitolare e, dopo aver vagliato tutti i voti, avrebbero
eletto colui, «in quem omnes, vel maior et sanior Capiluli pars consensisset».
Come primo scrutatore fu designato il vecchio decano di Hildesheim
Jodocus Edmundus von Brabeck. Questi, dopo le formalità giuridiche,
produsse il suddetto breve di Urbano VIII del 18 marzo 1638. La grazia
concessa con questo breve era, in verità, da tempo consunta, in quanto
Massimiliano Enrico aveva già tre vescovati. Tuttavia, raccolti ed
esaminati i voti, fu costatato che «omnia, ac singula (vota) nemine penitus
excepto, singulari Dei providentia in unam eamdemque personam, serenissimum
nimirum ac reverendissimum Principem, ac Dominum, D. Maximilianum
Henricum Archiepiscopum Coloniensem... directa esse, unanimique prorsus
consensu convenisse»; pertanto von Brabeck, a nome anche di altri due
scrutatori e del Capitolo, elesse Massimiliano Enrico a vescovo di
Münster. Fu subito cantato nel duomo un solenne Te Deum.
Il 5 settembre, il decano e il Capitolo informavano Innocenzo XI
dell’avvenuta elezione. Nella lettera al card. Cybo, poi, si esprimeva la
speranza che non sarebbe tardata l’approvazione pontificia; ci si
richiamava di nuovo al Breve di Urbano VIII che concedeva al duca di
poter essere eletto, «etiamsi alias plures similes ecclesias [?] possideat», e,
145
«sebbene detta clausula regolarmente verificetur in duobus, non esclude
però maggior numero, quando, come di presente, la grazia è emanata
motu proprio, che fa, che se li debba dare latissima interpretazione». Si
ricordavano inoltre i meriti della Casa di Baviera, che aveva salvato il
vescovato di Münster dalla secolarizzazione, e si chiedeva l’approvazione
dell’elezione, o almeno che la causa venisse rimessa alla S. Congregazione
Concistoriale per l’esame, «ad oggetto maggiormente di fare conoscere la
giustizia della sua [dell’Elettore] Causa, e sincerità dell’elettione che con
troppo amarezza sente venire in segreto da alcuni caluniata, come fatta
con fatti illeciti, con pregiudizio troppo notabile della sua Persona,
Dignità, e Casa».
Anche il nunzio Visconti, il 5 settembre informava Roma della
grandissima gioia suscitata dovunque dalla notizia dell’elezione del
principe elettore; aggiungeva quindi - certo non senza calcolo - che
l’elettore aveva dato una risposta favorevole all’ambasciatore imperiale
conte Rosenberg, che aveva chiesto aiuto contro i Turchi; e che il
vescovato di Münster, attorniato per lo più dagli eretici, aveva bisogno di
questo potente principe che poteva ora difendere meglio anche
Hildesheim e voleva mandare 8000 uomini contro i Turchi, se si
manteneva la pace nel suo paese. Esprimeva infine la speranza che anche
i canonici di Paderborn seguissero l’esempio di quelli di Münster,
nell’elezione che doveva aver luogo il 15 settembre.
A Roma però si faceva sentire anche l’altra campana. Il suffraganeo
Stenone credette suo dovere informare il sommo Pontefice del carattere
simoniaco dell’elezione; egli, infatti, sin dalla vigilia aveva saputo che
l’elezione era di fatto già decisa, e gli era noto con quali mezzi i capitolari
si erano accordati. Non attese quindi a Münster il momento dell’elezione,
bensì la mattina presto, lo stesso 1° settembre, lasciò la città, diretto verso
i suoi vicariati. Di passaggio dall’abbazia di Iburg, il 3 settembre inviò al
papa una prima lettera di denuncia; da Osnabrück, poi, il 5 settembre
scrisse al nunzio a Colonia. Arrivato ad Amburgo, mandò a Cosimo III
un’altra più ampia relazione per il sommo Pontefice.
Nel frattempo, il 7 settembre, il decano Giovanni Rotger Torck dovette
dare al Capitolo comunicazione di un rapporto del decano di S. Ludgero:
«che il sig. Vescovo suffraganeo stesso aveva confessato pridie electionis
che era stato richiesto dal signor decano del duomo di celebrare in ipso
electionis die il sacrum de Spirita Sancto solenniter, ma che egli stesso aveva
replicato di non voler celebrare questa messa, poiché il vescovo era già
146
stato prescelto. Perciò ipso electionis die summo mane audito tamen prius sacro
era andato fuori di città con i suoi servitori e non aveva detto dove sarebbe
andato o quando sarebbe ritornato, ma doveva compiere missionem suam
e star fuori circa sei settimane, e perciò non sarebbe stato qui circa tempus
ordinationis». Dopo di che il Capitolo decise di comunicare ciò al principe
elettore per porvi rimedio e anche per pregare il nunzio di ordinare a
Stenone, sub sancta obedientia apostolicae sedi debita, di adempiere meglio i
suoi doveri vescovili.
Il nunzio Visconti non si mostrò bene informato della situazione a
Münster alla vigilia dell’elezione, e cercò di presentare come inconsistenti
le denunce del suffraganeo Stenone al papa. Secondo il nunzio, Stenone
sarebbe stato indotto in errore da gente che voleva metterlo in contrasto
con l’elettore di Colonia, il quale comunque, anche secondo l’espressa
dichiarazione del suffraganeo, era estraneo alle macchinazioni
preelettorali. I vantaggi di questa elezione per la causa cattolica, i meriti
della Casa di Baviera e l’onore del principe elettore suggerivano, secondo
il nunzio, la conferma dell’elezione.
Il papa e il segretario di Stato non la pensavano così. Dai dispacci del card.
Cybo alla nunziatura di Colonia appare che il suffraganeo Stenone non fu
l’unico a denunciare gli abusi avvenuti a Münster: fu però il primo, e le
sue relazioni vennero in seguito confermate da «diverse parti».
Che Stenone fosse bene informato del giuoco dietro le quinte, lo
dimostrano i dispacci che l’ambasciatore danese a Münster, Marquard
Gude, regolarmente inviava al suo sovrano. Gude stesso, per incarico
della Danimarca, svolse un ruolo attivo nelle trattative che precedettero
l’elezione di Massimiliano Enrico. Nella lettera del 30 luglio
l’ambasciatore parla di una intensa attività in vista dell’elezione: il barone
von Landsberg e il governatore Nesselroth di Colonia sono stati a
Münster; si parla ora dell’indulto di Urbano VIII a Massimiliano Enrico,
ma anche della candidatura di Federico von Plettenberg, presidente della
Camera e più tardi vescovo di Münster. Il 10 agosto Gude comunica che
il partito renano sotto la guida del vecchio von Brabeck dispone di sette
voti. «Però per essere sicuri e per guadagnarsi ancora i dieci voti che
mancano si richiederà ancora non soltanto una grande abilità, ma anche
una così grossa somma di denaro, che alcuni perciò dubitano molto del
successo». Del 17 agosto abbiamo due lettere dell’ambasciatore, una al re,
l’altra al consigliere di cancelleria (Kanzleirat). Nella prima egli parla di
tre partiti: i seguaci di Galen, di Fürstenberg e di Plettenberg, che contano
147
su undici voti, e i Renani «che favoriscono il Serenissimo Principe Elettore
di Colonia, ma che ora possono contare soltanto su sette voti, e di questi
stessi alcuni sono tutt’altro che sicuri. Per consolidare e rafforzare questo
partito, ho usato insieme con il Signor Ducker la massima diligenza, e
sono stato anche oggi per questo, dietro sua richiesta, da parecchi, e
seguiterò in questo senso finché c’è qualche speranza per Sua Altezza
Serenissima il Principe Elettore. Finora però la cosa promette male, perché
si nota la tendenza a giudicare l’indultum pontifichim, sul quale Sua
Altezza Serenissima si basa, scaduto e invalido». Al Kanzleirat invece
chiede un altro po’ di denaro per poter comperare un voto per
Plettenberg, qualora con la candidatura del principe elettore di Colonia le
cose finissero male.
Il consigliere dell’elettore di Colonia e nel 1683 suo inviato presso le Corti
di Danimarca, di Münster e di Paderborn, Wilhelm Lothar Bernhard
Ducker, appare particolarmente impegnato nel comperare i voti per il suo
Signore. Tuttavia, il 24 agosto Gude non può ancora annunciare alcun
particolare progresso per Massimiliano Enrico: «L’amo d’oro con il quale
pesca il Signor Ducker, e al quale sono appesi fra l’altro grossi benefizi
ecclesiastici, grasse prebende, importanti prelature, alletta invero
stranamente gli animi che ne sono infiammati, tuttavia finora nessuno
non solo non ha voluto abboccare ma tanto meno impegnarsi in ciò». Il
partito dei Fürstenberg ha promesso, qualora non prevalesse, di cedere al
partito di Colonia dai cinque ai sei voti, per la qual cosa il signor Ducker
si è dimostrato «molto soddisfatto».
Il 31 agosto, la vigilia dell’elezione, la situazione appare completamente
chiarita: ancora al giovedì (26 agosto) Plettenberg era in testa, ma il
venerdì è comparso l’ambasciatore francese e ha vincolato i voti al
principe elettore aureis catenis, appoggiato dal vescovo di Strasburgo
Guglielmo Egon von Fürstenberg, che profonde da tutte le parti le sue
promesse. Né si pone attenzione all’inviato imperiale abate Otto von Banz
che desidera un candidato e gremio capituli. Il 3 settembre Gude descrive
lo svolgimento dell’elezione; alla sua domanda, poi, se Colonia voleva ora
prendersi anche il vescovato di Paderborn, Guglielmo Egon von
Fürstenberg avrebbe risposto che doveva prima parlare con il principe
elettore. Comunque, Gude non dubita che l’appetito venga mangiando.
Il vescovo di Strasburgo, von Fürstenberg venne a Münster il 30 agosto
per concludere una capitolazione elettorale con il Capitolo, mentre
l’ambasciatore imperiale Otto von Banz, che era stato accolto
148
solennemente il 28 agosto, si dovette accontentare di alcune belle
assicurazioni.
Nelle trattative che precedettero l’elezione, il decano del Capitolo
Giovanni Rotger Torck sembra essersi prudentemente tenuto nell’ombra.
Tanto più energicamente egli afferrò il comando, anche esteriormente,
quando si trattò di assicurarsi i frutti delle macchinazioni simoniache. A
Colonia egli trovò per questo piena comprensione, sia quando il Capitolo
del duomo il 14 settembre si lamentò dello scrupoloso vescovo
suffraganeo e volle costringerlo, per mezzo del nunzio, a riprendere le
ordinazioni, sia pure con l’istanza del 28 settembre per la formale
conferma della capitolazione della elezione e per il compenso in moneta
sonante. Il 16 e il 24 novembre il Capitolo si lagna di nuovo della lunga
assenza del suffraganeo, aggiungendo, in un poscritto, di aver appreso
che il vescovo suffraganeo non aveva di fatto ricevuto alcuna risposta
soddisfacente da Roma, ma che egli nel caso «che non potesse fare le
ordinazioni secondo la sua approvazione e il suo parere, non pretendeva
più assolutamente di ritornare qui»; Stenone aveva scritto
ingiuriosamente e negativamente sulla elezione al cardinale Cybo, e si era
espresso in locis acatholicis in modo tale che il principe elettore attraverso
i suoi agenti a Roma avrebbe dovuto prendere la cosa in considerazione.
Massimiliano Enrico il 30 novembre assicurò che sarebbe ancora una volta
intervenuto presso il nunzio per incitare Stenone a ritornare, e frattanto
avrebbe provveduto a che le ordinazioni, nel dicembre, fossero fatte dal
suo suffraganeo di Hildesheim. Quanto agli effetti di eventuali lagnanze
a Roma, che egli però finora non aveva potuto accertare, avrebbe invitato
il suo incaricato d’affari a Roma ad agire in senso contrario.
Frattanto tutti i tentativi di ottenere la conferma pontificia della elezione
rimanevano vani. In seguito alla presa di posizione della Santa Sede, il
Capitolo del duomo di Münster, con a capo il suo decano Torck, si vedeva
costretto a cercare a Roma un agente che prendesse in mano la causa: su
segnalazione di Ludolf Johann Falck, fu scelto un certo Butozzi. Passò del
tempo, ma la situazione non cambiava; cambiò invece il nunzio a Colonia:
il 30 aprile 1687, infatti, al posto di Ercole Visconti venne nominato mons.
Sebastiano Antonio Tanara, già internunzio a Bruxelles.
Il card. Cybo, nella prima lettera al nunzio Tanara, il 6 settembre 1687
scriveva: «Occorrendo a Vostra Signoria di trattare con cotesto Signor
Elettore per gli affari della Chiesa di Münster, ella deve havere una
particolare avvertenza di regolarsi in modo nel parlare, e nello scrivere,
149
che non possa mai dedursi, ch’ella approvi, o riconosca per legitima la sua
pretesa elettione in Vescovo della medesima Chiesa, dove Nostro Signore
ha ultimamente con suo Breve deputato secretamente Vicario Generale il
Decano di Plettenbergh perche havendo egli simil carica anco dal Signor
Elettore possa operare validamente nelle cose, che richiedono autorità
canonica».
Il decano Torck, infatti, era morto il 5 sett. 1686, e il Capitolo aveva eletto
come decano Federico Cristiano von Plettenberg (1644-1706), che
Massimiliano Enrico nominò anche vicario generale. Questi si mise subito
in contatto con Roma e il 20 agosto 1687 fu nominato vicario apostolico.
Massimiliano Enrico non prese mai possesso della sede di Münster, ma
da Colonia governò come electus Monasteriensis. Egli potè fare questo
perché a Münster aveva un alleato nel decano e vicario generale Torck, il
quale, ad esempio, quando l’uditore della nunziatura di Colonia si
presentò a Münster, fece seguire dalla polizia tutti i suoi movimenti e fece
prender nota delle persone con le quali era venuto a contatto, per
domandar loro conto; erano il decano di S. Ludgero, Höning, l’ex-vicario
generale von Alpen, come pure i gesuiti e i frati minori.
Nel suo ultimo anno di vita, l’elettore di Colonia cercò di regolarizzare la
questione di Münster proponendo che fosse esaminata in una consulta di
teologi; il papa però respinse la proposta. E poiché lo stato di salute di
Massimiliano Enrico destava preoccupazioni, Innocenzo XI lo fece
ripetutamente richiamare al dovere di mettere a posto la sua coscienza. Il
17 aprile 1688 il card. Cybo scriveva al nunzio Tanara: «Vostra Signoria
dovrà prendere la congiuntura per far rifleter di nuovo al Giesuita
confessore di cotesto Signor Elettore, et al Signor elettore medesimo
quanto grave pericolo habbia corso la coscienza di Sua Altezza in questa
sua ultima malattia per ritener senza alcun titolo, e contro l’espressa
mente di Nostro Signore, una Chiesa così ampia, e così bisognosa del
proprio Pastore, com’è quella di Münster; e rappresenti loro il timore, che
hà havuto et hà tuttavia S. Padre che per una usurpazione cosi ingiusta e
tanto contraria alla disciplina, et allo spirito della Chiesa, che non si
verificasse, e non si verifichi sopra di Sua Altezza quella terribil sentenza
di Giesu Christo Signor nostro: et in peccato vestro moriemini...». Il 1° e l’8
maggio il papa faceva ripetere al nunzio la stessa raccomandazione, di
servirsi cioè del confessore dell’elettore e di altre persone per fargli capire
la necessità di «provedere, mentre che gli resta tempo, alla sicurezza della
sua coscienza.... per non comparire coll’aggravio di simil partita non
150
saldata al giudizio terribile di Dio, dove non sarebbe per suffragargli il
parere di quei Teologi, che per secondare la sua brama di crescere in
potenza, et in ricchezze, gli hanno dato ad intendere, ch’egli in vigor d’un
Indulto intieramente consunto, e per tale dichiarato da S. Santità, poteva
ritenere senza scrupolo alcuno la sudetta Chiesa anco dopo, che aveva
mostrato di haver bisogno di coadiutore in cotesta di Colonia». Altre
raccomandazioni analoghe seguirono il 5 e il 12 giugno; in quest’ultima il
card. Cybo per ordine del papa scrive «che i Teologi che assicurano Sua
Altezza intorno alla ritenzione della suddetta Chiesa, sono o adulatori, o
ignoranti, e che la Teologia de medesimi non sarà per valere al tribunale
di Gesù Christo, dove l’Altezza Sua deve procurare di comparire scarica
di una usurpazione cosi ingiusta, e scandalosa... ».
Nel frattempo Massimiliano Enrico era già morto, il 3 giugno, ma soltanto
verso il 19 la notizia pervenne a Roma. Il 26 giugno il cardinal segretario
di Stato raccomandava al nunzio Tanara di far presente ai Capitoli delle
Chiese vacanti, specie a quello di Münster, di eleggere «un soggetto, il
quale con la pietà, e con il zelo possa riparare i disordini et i pregiudizi
nati da una vacanza di tant’anni». Negli atti ufficiali dell’elezione si
doveva poi evitare di enunciare la Chiesa di Münster «come vacante per
morte dell’Elettore di Colonia, ma solamente per quella dell’ultimo
Vescovo Ferdinando di Fürstenberg».
Il 29 luglio 1688 fu eletto vescovo Federico Cristiano von Plettcnberg, che
la Santa Sede confermò il 20 dicembre dello stesso anno. Egli nominò
vicario generale Johann Gottfried Höning, e dopo di lui, Giovanni
Gaspare Bordewick (Borderink), uomini entrambi che avevano goduto
della fiducia del suffraganeo Stenone.
151
eserciti e delle ricchezze di tutti i prìncipi.»(1)
)Rimasto privo di effettivi incarichi pastorali e relativi introiti (2), ad
Amburgo Stenone alloggia nella casa messagli a disposizione dal suo
vecchio amico Theodor von Kerckring (3), residente di Cosimo III, e al
granduca subito invia questa lettera (4):
1 Lettera di Stenone al papa Innocenzo XI, Amburgo, 15 sett. 1683. Arch. Vat., Vescovi
69, ff. 396-397. Anche [in] Epistolae, cit., pp. 615-19 e [in] Positio, cit., pp. 542-46.
2 Contrastando l’ordine del nuovo vescovo eletto che lo richiama a se, la Santa
152
Altezza Serenissima potrà leggere quanto io scrivo, e benché la prima
vi fosse arrivata, far questa venir alle mani di Sua Santità per quella
strada, che crede esser la più sicura.
Iddio in questi difficili tempi voglia assistere Vostra Altezza
Serenissima colla sua santa grazia, aciocche per il di lei mezzo
anch’al resto del Christianesimo si faccia misericordia, ed i flagelli
dovuti a’ nostri peccati si voltino verso gl’inimici del nome
Christiano.
Sono di V.A.S. indignissimo servo
Niccolo, Vescovo di Tiziop oli.
Hamburg, 4 di Settembre 1683.
Serenissimo Padrone.
Invitato dalla caritatevole offerta di Vostra Altezza Serenissima in una
delle sue ultime, ho di nuovo preso ducente thaleri, mentre doppo il mese
d’Agosto, ch’è l’ultimo che mi è stato pagato dall’ordinaria pensione, altro
non ho per mantenimento di me, e di quell’anime, che Dio m’ha date, fuor
di quello, che godo per la misericordia di Vostra Altezza Serenissima e
per la bontà del Signor suo Residente. E riconosco una paterna previdenza
del nostro buon Giesù, che per questo inverno m’ha preparato questo
luogo di rifugio, dove contro il rigore del freddo assai insolito, godo e la
commodità d’una buona stuffa, e la libertà di restar in casa, senza obligo
d’uscir più volte il giorno, e passar lungo tempo nel freddo, come sarei
stato obligato, se fossi restato a Munster. Pare, che Iddio mi tratti ancora
come fanciullo tenero; piacesse alla sua divina bontà, che ne cavassi quel
frutto, che bisogna, per quando verranno i tempi della croce, che
domandano vigore e forze da huomo. In tanto prego Iddio, che voglia
moltiplicar le sue benedizzioni, e temporali, ed eterne sopra l’Altezza
Vostra Serenissima per le di cui mani mi fa godere tante misericordie.
Gl’interessati di quella infelice elezzione, hauranno saputo da Roma le
mie informazioni, e mostrano risentimenti a un certo mio amico, che
hanno sospetto, come se meco fosse stato complice, benchè per la grazia
153
di Dio l’ho fatto da me stesso tutto con questa istessa precauzione, perche
nissuno de’ miei amici avesse da incontrar verun disgusto, e se vi fosse da
soffrir qualche cosa, che il tutto se ristringesse verso di me solo. Uno di
quei tali in una lettera a certa persona chiama le mie relationi, les
sanglantes relations. Piacesse a Dio, che potessero riconoscere il fatto
stesso, come sta negl’occhi di Dio e voltar verso loro stessi in penitenza
l’odio, che cominciano a concepir verso di me. Del tutto sia benedetto
Iddio, che niente permette senza l’intenzione della sua maggior gloria,
benché nella cecità della vita presente, a noi paja delle volte altrimenti. Ma
il grand giorno di Dio nel quale justificabitur in sermonibus suis, et vincet
curri judicabitur, ci farà con stupore vedere, come è stato “sanctus in
omnibus operibus suis”. Per ora mi pare, che per questo scoprimento
delle mie informazioni Iddio forse voglia rendermi inutile per quel luogo,
per tanto più facilmente dispor Sua Santità per impiegarmi altrove e
consolarmi coll’impiegar il resto de’ miei giorni per render qualche
servizio utile per l’augmento delle divine grazie, per qualche suddito di
quella Serenissima Casa, che m’ha volsuto dar per protettrice e
benefattrice già da tanti anni, anzi da che cominciò a darmi le più vicine
disposizioni per la sua santa fede. Ben è vero, che qui paja in qualche
modo necessaria la mia presenza, almeno per metter le cose in qualche
meglior forma. Ma anco qui è la protezzione di Vostra Altezza
Serenissima, che Dio mi fa godere, e se devo effettuar qualche cosa stabile,
deve farsi sotto l’autorità di Vostra Altezza Serenissima che qui viene
molto considerata. Dalla risposta di Roma alla proposizione di Vostra
Altezza Serenissima sentiremo verso dove Iddio piega la volontà di Sua
Santità, e dalla risposta della Sacra Congregazione de propaganda fide
per certo bisogno di questa missione vedrò quel che qui si potrà sperar.
Iddio disponga il tutto secondo la di lui misericordia, e non secondo i miei
peccati; ed in questi periculosissimi tempi per l’Europa e per tutta la
Christianità dia a Vostra Altezza Serenissima lume e forze per iscuoprir
ed eseguir tutto ciò, che possa ridondar al bene universale di tutta la santa
chiesa, il che di cuore le desidero.
Di V.A.S. indignissimo servo
Niccolo, Vescovo di Tiziopoli.
Hamburgo, doppo le prime vespere di S. Romualdo 1684.
154
Deposto l’abito sacerdotale (1) e privo «doppo il mese d’Agosto […]
dall’ordinaria pensione» (2), ora al sostentamento del vescovo
provvede direttamente il granduca con una donazione annua di 800
talleri, una somma che Stenone devolve all’80 percento per mantenere
le famiglie povere, privilegiando quelle più timide a mostrarsi tali.
Seguono due anni segnati dalle guerre di potere e dall’incendio che
semidistrugge Amburgo, ma in questo lasso di tempo Stenone, come
s’evince dalla lettera sopra riportata, si è attivato per ritornare
nell’amata Toscana, indicando Livorno come sede pastorale (3); dopo
non pochi rinvii, con lettera datata 16 luglio 1685 la Congregazione
concede al suo vescovo «di darle licenza di venire in Italia, il che potrà
esseguire con ogni suo commodo» (4).
Prima di scendere al Sud il nostro uomo vuole visitare un’ultima volta
il suo Paese natale. Nell’ultima settimana di agosto Stenone si mette in
viaggio per Copenhagen, dove si ferma per dieci giorni. La mano del
destino lo ferma sulla strada del ritorno: ad Amburgo lo raggiunge
una lettera del duca di Mecklemburgo-Schwerin che lo invita a metter
ordine nella piccola comunità cattolica, una ventina di famiglie, del
suo ducato, autorizzandolo, qualora lo volesse, a comperarsi una casa
in Schwerin (5).
giugno -, il segretario della Propaganda mons. Cibo comunica a Stenone che «per
darle modo di fermarsi in coteste parti hanno preso il ripiego di stabilirlo per vicario
apostolico anco ne’ luoghi gia dati in amministrazione al defunto vescovo di
Munster, con assegnarli la provisione di scudi 200 annui, che suol dare la Sacra
Congregazione ai suoi vescovi, e quella di scudi 50 ad un missionario di sua
sodisfattione […]» [in] Positio, cit., p. 633.
3 Lettera del 15 marzo 1684 al Segretario de Propaganda Fide. [in] Epistolae, cit.,
p. 668.
4 Epistolae, cit., p. 792.
155
interrotta da due porte, ha buone strade, un castello del principe, la cattedrale del
vescovato secolarizzato di Schwerin, due altre chiese luterane ed una cattolica, la
sinagoga, l’orfanatrofio, l’ospedale, la casa pe’ pevori, la scuola detta Federicianum, e
la scuola normale. È residenza d’una soprintendenza, vi è una società biblica, ed il
monte di pietà, fabbriche e manifatture. I prussiani presero questa città nel 1759,
dopo un bombardamento, ed i francesi l’occuparono nel 1806. Schwerin anticamente
appartenne alla Bassa-Sassonia, e fu chiamata anche Swerin. Il vescovato di
Mecklenburg, Megalopolis, eretto nel 1050 o nel 1060 suffraganeo di Brema, è formato
con uno smembramento d’Oldenburg, come parlando di questo dissi a Lubecca ed
a Schleswig. Rovinata la florida città di Mecklenburg, e poi ristabilita nel 1150, la
sede vescovile nel 1195 fu trasferita a Schwerin, secondo Commanville, Histoire des
eveschez, ovvero al dire di Mireo, Notitia episcopatuum, da Enrico il Leone nel 1168 il
vescovato di Mecklenburg fu traslato in questa città, ridotta quella di Mecklenburg
a villaggio presso Wismar. Il vescovo fu principe dell’impero, e signore di parte di
Schwerin, ma nel 1530 disgraziatamente essendovisi introdotto il Protestantesimo
Luterano, il duca di Mecklenburg comprese nel suo ducato il dominio temporale del
vescovo, e poi nella pace di Westfalia nel 1648 fu soppresso il vescovato, e
definitivamente compreso nel principato secolare. I cattolici di Schwerin e del
granducato di Mecklenburg-Schwerin dipendono dal vicariato apostolico delle
missioni settentrionali, come notai a Osnabruch, e nel vol. XXIX, p. 102,
descrivendone i luoghi, come il granducato di Mecklenburg-Streelitz. Nel
granducato di Mecklenburg-Schwerin obbliga la legge i maschi a seguire la religione
del padre, e le femmine quella della madre; ma non si osservò per le disposizioni
cattoliche del granduca Federico Francesco, assai favorevole al cattolicismo. Nel
secolo XVII il duca Cristiano abiurò il luteranismo alla presenza di Luigi XIV re di
Francia, e rientrò nel grembo della chiesa cattolicas; recatosi in Roma divenne
l’amico del p. Kircher gesuita dottissimo. Il granducato di Mecklenburg-Schwerin
nella Germania conta più di 520,000 abitanti: il ducato di Mecklenburg-Streelitz pure
nell’Alemagna, si compone del ducato di Streelitz, e del principato di Ratzeburgo
già sede vescovile, e contiene 100,000 abitanti. In ambedue gli stati la religione
dominante è la luterana; gli altri culti però sono tollerati; i sovrani di entrambi fanno
parte della Confederazione Germanica congiuntamente. Del 1.o è capitale Schwerin,
del 2.o Streelitz-Neu, siccome dal 1701 conta la sua esistenza politica il Mecklenburg-
Streelitz, ed Adolfo Federico II ne fu il 1.o duca, così nel 1733 fu dal figlio Adolfo
Federico III fabbricata Streelitz bella e regolare, con bellissimo castello granducale e
parco molto ameno, avendo il ginnasio Carolinum, con scelta biblioteca e gabinetto
di numismatica. Il Mecklenburgo già spettante nel circolo della Bassa Sassonia, è da
lungo tempo diviso nelle due linee di Mecklenburg Schwerin e Mecklenburg
Streelitz. Ambedue i sovrani si ressero incolumi nelle ultime lunghe guerre europee
e mantennero la loro sovranità. Nel congresso di Vienna a’ 28 giugno 1815, ebbero
ambedue i duchi il titolo di granduca, ed a quello di Streelitz fu dato pure un
156
Il sempre più ascetico e remissivo Stenone obbedisce, dandone notizia
al prefetto e al segretario della Propaganda, che autorizza il cambio di
programma. Dopo un breve intermezzo presso la piccola comunità
cattolica di lingua francese presente in Amburgo, verso la metà di
dicembre Stenone mette piede a Schwerin, con funzioni da semplice
prete: «Fo il tutto da simplice missionario, canto l’evangelio, lascio la
croce, né v’è altro esteriore di vescovo nella mia missa, che il Pax vobis,
et la benedizzione in fine della missa però a voce bassa.» (1)
Sollecitato in questo da Stenone, il 26 marzo 1686 mons. Cibo rende
partecipe il vescovo della sua nomina a vicario apostolico del ducato
di Sachsen-Lauenburg (2), titolo pomposo quanto inutile: ben presto il
Danese comprende che ci sono ben poche speranze d’ampliare il
numero dei cattolici del ducato e di Schwerin. Il 1° agosto scrive una
lettera (3) indirizzata al Santo Padre dichiarando che si sarebbe
volentieri messo subito in viaggio per l’Italia se non fosse che nel
157
frattempo l’elettore di Treviri Giovanni Ugo von Orsbeck l’avesse
richiesto come suo suffraganeo, cosa che a lui di certo non faceva
piacere, ma si rimetteva alle decisioni di Roma.
I mesi passano e Roma tace. Stenone sollecita più volte una risposta,
inutilmente. La sua ultima lettera «All’Illustrissimo Reverendissimo
Signore mio Padrone Colendissimo Monsignor Cibo Arcivescovo di
Seleucia Segretario della Sacra Congregazione de propaganda fide.
Roma» porta la data giuliana in uso nei paesi acattolici: «Sverino, 13.
di Novembre 1686» (1), il 23 novembre gregoriano.
A Schwerin, Stenone vive questi mesi d’attesa nel più completo
abbandono, con la corte vescovile ridotta all’essenziale (2).
L’improvviso sopraggiungere della mortale malattia e la cronaca dei
suoi ultimi giorni è stata raccontata da Giovanni von Rosen in una
lunga lettera3 inviata a Cosimo III tramite Kerckring. Porta la data
gregoriana «Swerin, ce 4. de december 1686.» ed è scritta nella lingua
francese di quel tempo. Ne ho la copia sotto agli occhi e da questa
estraggo alcuni passaggi significativi: domenica 21 novembre
giuliano, Stenone rende partecipe von Rosen che la notte precedente
aveva sofferto a causa del riacutizzarsi della sua vecchia malattia, la
colica renale. Questo primo attacco non gli ha comunque impedito di
celebrare la messa domenicale e cantare i vespri. Un secondo attacco,
più violento, colpisce Stenone la notte successiva ma lunedì mattina il
vescovo riesce ancora a celebrare la messa e tenere un’esortazione in
onore di santa Cecilia. Poi i dolori aumentano sempre più, ma il
vescovo rifiuta qualsiasi aiuto esterno. Da medico, ha intuito che la
fine è vicina: il suo stomaco e il suo intestino sono sotto attacco, il suo
158
ventre è teso come un pallone, un’infezione urinaria gli ha intaccato i
reni, fortissime coliche gli tolgono le forze.
Il martedì resta chiuso in casa. La notte che segue i dolori sono
lancinanti e, stando alla lettera di von Rosen, Stenone si pente di non
aver accettato il suo consiglio di ricorrere ad un aiuto esterno.
L’aiutante si precipita a cercare un medico ma i suoi servigi sono
ormai inutili. Le coliche si susseguono senza tregua martoriando un
corpo già debilitato da una vita più che austera. Intuendo vicina la
morte, mercoledì 24 novembre [4 dic.] Stenone trova la forza per
scrivere due lettere ai suoi amici più cari (1). Sono le ultime.
A Theodor Kerckring
Illustrissimo Signore mio Padrone Colendissimo.
Questa le scrivo sul letto, sa Iddio, se ne risurgo; il di lui santissimo nome sia
benedetto nella vita e nella morte! Oltre al mio solito dolore di colica pare che sia
venuto il calculo. La notte passata ho avuto dolori gravissimi in tutto l’osso sacro,
doppo un clistere passati quelli, hora li sento sotto l’osso della pube, e dalla
mattina in qua pare che crescine e quasi che vi si faccia una infiammazione; non
ne viene nemmeno una gocciola d’urina. Mi pace che la pietra tra la dupplicatura
della vesica si sia fermata ed ivi co’ suoi dolori eccitando infiammazione della
tunica della vesica voglia far mi da morte. Del tutto sia benedetto Iddio! La prego
voler mandarci, colla prima occasione servirà, il denaro della lettera del cambio
de’ 38 taleri in spezie dal Signor Tonniello e quel che, pagato le cose ricevute dal
Signor Casparo, resterà de’ cinquanta per complire il conto de’ trecento per il
Serenissimo, al quale, se Iddio si permette, forse finirò oggi o dimani una lettera
per mandarla sabato di li. Intanto preghino Iddio per me! Iddio li benedichi tutti!
Sono di Vostra Signoria Illustrissima indegnissimo servo Niccolò Stenone.
Sverino, li 24 di Novembre 1686.
L’urina ora è venuta, ma sommamente rossa e con ardore, ed intorno alla vesica
cresce l’ardore colla distensione del ventre ed impedimento della respirazione.
All’Illustrissimo Signore mio Padrone Colendissimo il Signor Residente
Kerckring, che Dio benedica.
159
Serenissimo Padrone.
Questa forse sarà l’ultima che Vostra Altezza Serenissima vedrà dalla mia mano,
essendo piaciuto a Dio mandarmi una maladia, che pare debba con dolori farmi
finir questa vita, essendo all’apparenza una pietra formatasi tra la dupplicatura
della vesica, ove pare che si faccia una infiammazione, ma pare inoltre, che
l’inflazione colica mi vuole suffocare restando l’urina affatto; del tutto sia
benedetta la divina bontà! Intanto per sodisfar alla justizia secondo la licenza
datami da Vostra Signoria Serenissima devo al Signor Kerckring ancora trecento
taleri, e se vengo a morir, spero che Vostra Altezza Serenissima per la sepultura,
che desidero alla povera, farà secondo la sua solita misericordia le spese. Intanto
raccommando caldamente per amore di Giesu Christo alla di lei misericordia tre
amici che tengo appresso di me, duo signori Rose, cavallieri Livonesi, ed uno
Signore Pilgram. Il giovane Rose m’è stato dato dal suo padre per figlio, ed il
majore suo avunculo ha già fatto et patito molto per lo studio della perfezzione,
come credo haver scritto altre volte. Il Signor Pilgram è parimente bonissima
anima. Le raccommando per amor di Dio alla sua summa carità. Della mia anima
supplico che voglia aver misericordia! Prego a Vostra Altezza Serenissima quella
benedizzione, che la faccia sanctificare e se stesso e tutta la sua casa e tutto lo
stato suo, perche resti tanto più glorificato Iddio in eterno. Di novo supplico per
quelli miei tre figliuoli spirituali il viatico per poter trasferirsi a Firenze, e ch’ai
giovane fosse dato loro di continuar li studii sotto la direzzione del suo avunculo
e precettore Pilgram sotto la direzzione de’ padri della Compagnia, e che non
venghi in corti, prima che sia fundato nella vita Christiana, perche tra li pagini e
giovani cortegiani pochi si salvano. Questa carità domando da Vostra Altezza
Serenissima in stato di moribundo, sperando dalla divina misericordia venir in
unione per pregare sempre Iddio per essa.
Di Vostra Altezza Serenissima indignissimo servo Nicolo Stenone.
1 Cosimo III de’ Medici e Niccolò Stenone ecc., cit., pp. 67 e 68.
160
Appresa la morte dell’amico, Kerckring incarica il suo cappellano
Gaspare Engelberto Schmael di recarsi a Schwerin con gli abiti
vescovili e con questi far rivestire il cadavere del già sepolto defunto.
La mancanza di rapide comunicazioni e i lunghi tempi di viaggio ci
fanno capire il perché di questa prima sepoltura sotto “poca terra” del
cadavere, come racconta von Rosen in una lunga relazione a Cosimo
III, da cui estraggo un solo brano:
1Per le 4 lettere che seguono: Epistolae, cit., pp. 966 e 974-76. La data 7 gennaio
1686 della prima epistola non è un errore: a Firenze l’anno nuovo iniziava il 25 marzo
e non il 1° gennaio.
161
il merito delle sue sublimi virtù. Nella perdita, che ha fatto la Chiesa d’un pastore
di tanto zelo, e di tanto esempio, conviene adorar non di meno gli altissimi giudizi
della somma previdenza, che, o per i peccati del mondo volle levargli il merito
d’un anima così innocente, o per farle giustizia col non differirle più il premio
delle sue apostoliche fatiche, alle quali pur diede il pregio di terminarle fra i dolori
più acerbi, perché fussero accolte in cielo come d’un vero seguace del Salvatore.
Ha Vostra Signoria fatto benissimo a mandarmi la nota del danaro
somministratoli per mio conto, che tutto approvo, et ordino che per via d’Olanda
sia provisto al suo rimborso. Dalle altre lettere ch’ella mi trasmette de’ famigliari
del defunto prelato veggo le particolarità più distinte del suo fine, e della causa
penosa, che lo produsse, di che non so consolarmi, se non nella considerazione del
divino decreto.
Vorrei che’l suo corpo già depositato venisse qua, per dargli sepoltura più decente,
e condegna al carattere ch’ei portava; però Vostra Signoria vegga di farlo
condizionare in maniera da potersi preservare, e ben aggiustato in una cassa, che
abbia figura di collo di mercanzia. Lo mandi per mare a Livorno, mentr’io
ringraziandola di tutte le amorevolezze ed attenzioni usate verso di lui, anche in
mio riguardo sì come della cordialità degli affetti ch’ella mi esprime per occasion
del santo Natale, non lascio di pregarle dal cielo ogni maggiore benedizione.
P. S. Mando a Vostra Signoria con questa l’aggiunta di cambio per il suo
rimborso delli settecento dieci talleri et le ricordo d’avertire, che la cassa, dove
sarà riposto il corpo del prelato, sia accomodata in maniera, che chi dovrà
imbarcarla non sappia di portar un cadavere, perché la maggior parte de’ Capitani
vi hanno gran repugnianza.
Quanto poi alli famigliari di esso prelato, che mi hanno scritto, con pensiero di
venir qua, considero, se fussero più utili al servizio di Dio col rimanere in codeste
parti a travagliar per la fede coll’opera, e coll’esempio; al qual’effetto sarei
contento che Vostra Signoria per una volta desse loro qualche aiuto di danaro,
tanto che avesser campo di trovare accomodamento; se poi alcun di essi vuol
portarsi in Italia, Vostra Signoria pure lo soccorra di tanta somma che basti per
il viaggio.
Serenissimo Principe,
Ho solecitato l’ordine inpostomi da Sua Altezza Serenissima, al Magistrato del
Duca di Mechlemburg, perciò questo permeta il trasporto del cadavere del defunto
Monsignor Vescovo di Ticiopoli, ma mi fu fatto grande dificultà, a segno che fui
162
necessitato scrivere a dritura in Parigi al Duca, il quale mi ha risposto con la qui
inclusa, in forma, che di già mi è pervenuto a salvo il sopradetto cadavere, il quale
lo farò con ogni risguardo e solecitudine inballare, come se questo fusse un collo
di mercantie, perciò alcuno non possi immaginare che sia un cadavere. E con
l’ocasione che si dovera partire de qui a mezo il mese prossimo di Aprile, una nave
per Livorno, gli darò il suo imbarco, col recomandar il detto collo, alla meglio mi
sarà posibile, con ogni secreteza; e per esser il sudetto Monsignor Vescovo morto
in Swerino, dove non vi fu stato gli mezi suficienti per haver potuto far
imbalsemare il cadavere, il quale presentemente si fa sentire con qualche puzzore,
che per più asicuratione, havanti che gli faci dare il suo imbarco, vedrò di operare
in forma che per mezo di più sorti de speciarie, debba svanire ogni cativo odore. Il
sudetto Monsignor Vescovo quando era ancora in vita, si è prevalso di pigliare ad
imprestito da più amici tallari 200, quali ho pigliato sopra di me al pagamento, e
prosupongo che Sua Altezza Serenissima non vedrà volentieri che il sudetto
prelato lascia dietro di se alcun debito. Nel resto ho pagato i funerali e tutte le
dipendenze, come anco sin hora mantenuto li domesdici del sudetto vescovo, così
per ordine datomi da Sua Altezza Serenissima, alla quale augurandogli dal cielo
ogni prosperità e consolatione, resto per sempre con ogni profondissimo respeto a
comandi di
Vostra Altezza Serenissima humilissimo, devotissimo e obbligatissimo servo
Hamburgo, 9/19 Marzo 1687. Kerckringio.
Serenissima Altezza.
Eseguirò gli ordini datemi da Vostra Altezza Serenissima in data delli 8 decorso,
per pagare con circa due cento tallari gli debbiti del defonto vescovo di Ticciopoli,
il cadavere del quale, doppo haverlo fatto inpachare come se fusse un grand
volume de libraria (1), l’ò fatto imbarcare sopra il vascello nominato San
Bernardo, capitan Giovan Richter, il quale a primo vento sta pronto per partire
col convoglio per Livorno, sperando per Iddio gratia fuori d’alcun pericolo possi
il sudetto esser in Livorno per il mese d’agosto, includendo qui annesso il
conossimento. Haverei prontamente imbarcato il cadavere sudetto sopra la nave
del convoglio di questa città, ma perciò non dia alcun suspetto di quanto potesse
163
esser in tal volume, l’ò fatto tacitamente con secretezza imbarcare sopra il
mentovato vascello, con non haver sparmiato fatica di sorte. Perciò il deto
cadavere non possi da se rendere alcun fettore, mi è parso bene farlo invogliere in
tella cerata; e mentre non devo tralasciare il continuamente de mie preghiere a
Sua Divina Maestà per conservatione e prosperità di Vostra Altezza Serenissima,
alla quale profondamente m’inchino, con restare ad ogni ceno qual per sempre
sono e sarò, di
Vostra Altezza Serenissima humilissimo, devotissimo e obligatissimo servo
Hamburgo, li 4/14 Maggio 1687. Kerckringio.
164
Scrive De Rosa:
1 De Rosa, Cosimo III de’ Medici e Niccolò Stenone ecc., cit., p. 68.
165
Lapide messa in occasione del II Congresso geologico int.le di Bologna, 1881
166
L’attuale sarcofago di Stenone
Un malizioso detto popolare ricorda che “ci vogliono santi in terra per
andare in paradiso”. Tra il 1940 e il 1941 è proprio l’Osservatore Romano
a pubblicare una serie di articoli sulla figura di Stenone, tutti firmati
da Antonio Neviani. Anni dopo, un crescente interesse alla vita e agli
studi del Danese, «anche per merito dei priori mitrati della basilica di
S. Lorenzo, Mons. Giovanni Rosselli e Mons. Giuseppe Capretti suo
successore» (1), porta alla decisione di scoprire la tomba per
ispezionare il contenuto, avvenimento che mons. Cioni (2) così
racconta:
167
della cripta a qualche metro di distanza dalla vera sepoltura, e si rinvenne
una cassa con ancora intatto il coperchio e con dentro una salma rivestita
di abiti ecclesiastici. Eseguiti gli opportuni rilievi, fu redatto un verbale,
in cui fra l’altro si diceva: «I presenti convengono non esservi motivi per
negar che si tratti dei resti mortali di Stenone». Si presero alcune
fotografie, e la tomba fu richiusa.
Il crescente interesse degli studiosi per la figura e l’opera di Stenone,
l’afflusso sempre maggiore di visitatori, specie dai paesi nordici, alla
tomba di lui, e soprattutto il movimento per la causa di beatificazione che
si va dilatando tra vescovi e fedeli di varie nazioni europee
determinarono il Comitato Stenoniano Italiano a dare una più degna
sistemazione alle ossa del santo Scienziato, soddisfacendo così a un
desiderio di tanti suoi ammiratori e devoti.
Fu perciò stabilito, come già notammo in principio, di trasferire quelle
ossa su nella basilica di S. Lorenzo e di collocarle dentro un sarcofago in
una cappella che d’ora in poi sarà chiamata stenoniana, stabilendo la data
della traslazione per il 25 ottobre 1953.
Ai primi di luglio di questo stesso anno fu riesumata la salma, che nel
1946 si pensò essere quella di Stenone; ma da un esame diligente delle
vesti e della cassa di legno, l’attuale priore mitrato di S. Lorenzo, Mons.
Giuseppe Capretti, così benemerito della causa stenoniana, si persuase
che non poteva esser codesta la salma di Stenone: le vesti non eran
vescovili, e la cassa era di fattura e di legno nostrali. D’altra parte, il
verbale del 1946 non dava positive prove su l’autenticità della salma.
Messosi alla ricerca di documenti, il solerte Monsignore potè scovare
nell’archivio laurenziano il sepoltuario con la pianta numerata delle
sepolture. Dietro tale guida fu agile trovar l’autentica tomba di Stenone,
situata a pochi metri di distanza dall’altra aperta nel 1946.
Che sia di lui, non c’è il minimo dubbio, perché in capo alla cassa, sotto
uno strato di erbe aromatiche disseccate si tirò fuori una targa di zinco
portante i precisi dati biografici del santo Vescovo (1).
E il corpo?
168
Sentiamo che cosa ci dice il verbale della ricognizione, firmato da Mons.
Capretti, dal Prof. Giuseppe Genna, direttore dell’Istituto di Antropologia
dell’Università di Firenze, dal Prof. Luigi Cardini e dalla Prof. Claudia
Massari: «Il corpo è ricoperto dalla pianeta, i cui ricami metallici sono
ancora distinguibili. Sul fondo della cassa, in alto, verso la regione della
testa, si raccolgono alcune laminette d’oro, il cui significato non è chiaro.
Intorno alla regione del collo si vedono i ricami delle dalmatiche e i fiocchi
di chiusura. La pianeta si estende fin poco sotto le ginocchia; la regione
delle gambe e quella dei piedi è scoperta. Sono visibili i ricami d’argento
e gli occhielli dei calzari liturgici del costume pontificale vescovile. Sul
fianco destro si trova il pastorale vescovile di legno, composto di tre pezzi.
«In quanto ai resti ossei, nessun residuo della testa si è trovato. Solo è stato
possibile raccogliere qualche piccola ciocca di capelli, di colore
nettamente biondo. Le ossa della regione toracica e addominale sono sotto
il viluppo dei vestimenti e ridotti in uno stato di friabilità estrema. Le ossa
dell’arto superiore sinistro sono irriconoscibili; dell’arto destro si vede
qualche residuo di omero, di radio e di ulna...
No, chiudo gli occhi per non vedere e non sentire più nulla delle macerie
umane. Oh, a che cosa è ridotta la mirabile macchina del corpo umano!
Chiudo gli occhi per vedere lui, Stenone, vivo e palpitante, con la faccia
irradiata dall’amore divino, con le braccia tese per invitare tutti lassù,
nella beatitudine eterna.
Ora che debbo lasciarlo, dopo averlo accompagnato nel suo cammino
terreno, mi par di lasciare un amico e di avere acquistato un altro
protettore nel cielo.
Se taluno mi domandasse che cosa mi ha fatto più impressione in lui...
Ma sì, rispondo francamente, anche a patto di sentirmi arrivar su la testa
una seggiola da mani scienziate: non le sue scoperte, non il suo poderoso
ingegno, non le tante sue doti e virtù, ma tre sole parole, che me lo fanno
rivedere stretto alla croce e con le pupille rivolte al Crocifisso per invocare
una goccia del suo sangue. Queste parole sono: PATIRE SENZA
SOLLIEVO (pati sine solatio), S. Teresa aveva detto «o patire o morire» (aut
pati aut mori); S. Maria Maddalena de’ Pazzi si era elevata ancora più su
col suo «patire e non morire» (pati non mori); e Stenone spicca il volo ad
altezze inaccessibili.
Simili gridi son come sferzanti schiaffi sul volto della nostra vigliaccheria
che mugola di continuo, che si lamenta contro tutti e tutto, che si ribella
al più lieve dolore, a qualunque sacrificio, a ogni sopportabile rinuncia, in
169
questi tempi di meccanismo, di materialismo, di forsennata corsa al
piacere.
No, su lo stendere, non ingrossiamo la voce. Piuttosto, associandoci ai voti
di tanti cattolici del nord, affrettiamo con le preghiere il giorno nel quale
dalla infallibile autorità della Chiesa ci sarà dato di contemplar su gli
altari, esposto alla pubblica venerazione, l’uomo straordinario di cui
abbiam cercato, con la inadeguata penna, di tratteggiare l’eroica vita.
Se ciò, come speriamo, avverrà, ancora una volta sarà sfatata l’idiota
affermazione che la fede è nemica della scienza; saranno indotti non pochi
luterani a meditar su le proprie convinzioni religiose; e ne verrà nuova
gloria a Dio e nuovo lustro alla Chiesa cattolica.
E noi già pensiamo, con pregustata letizia, al giubilo dei cattolici nordici,
e anche di noi fiorentini, quando si potrà dire, con lo sguardo al cielo:
O SANTO STENONE, PREGA PER NOI.
170
La parte storica viene affidata al padre redentorista Gustav Scherz,
uomo che già può vantare 25 anni di ricerche su Stenone, coadiuvato
per le ricerche archivistiche dai professori Alois Schöer e Klemens
Honselmann. Il materiale da loro riportato alla luce è stampato
nell’Opera e nelle Epistole.
Sono del filologo olandese Jakob Toll (2) i versi dell’epitaffio tombale:
| DI NICOLÒ STENONE |
QUI SONO STATI COLLOCATI I RESTI MORTALI
| UOMO PIENO DI DIO | ERETICO LO GENERÒ LA
VESCOVO DI TITOPOLI
DANIMARCA | ORTODOSSO LA TOSCANA | AVENDONE PROVATO LA VIRTÙ
1Giovanni Paolo II. Omelia e Discorso in occasione della beatificazione di Niels Steensen.
Roma, 23.10.1988, Insegnamenti XI.3 (1988), pp. 1304-11 e pp. 1315-18.
2 Latino Jacobus Tollius, 1633-96. - La trascrizione è di Giorgio Zacchello.
171
| ROMA LO INSIGNÌ DELLE SACRE INFULE | LA SASSONIA INFERIORE | LO
CONOBBE FORTE PREDICATORE DEL VANGELO | INFINE LOGORATO DALLE
LUNGHE FATICHE | E DALLE SOFFERENZE PER CRISTO | SCHWERIN LO
RIMPIANSE | LA CHIESA LO COMPIANSE | FIRENZE VOLLE CHE LE FOSSERO
RESTITUITE | ALMENO LE CENERI | NELL’ANNO DEL SIGNORE 1687
172
FRANCESCO BONDICCHI
e il Banco Mediceo di Milano
173
pure lettera per il Sig. Bondicchi, il quale non so veramente, che carattere
abbia in Milano, né qual titolo se gli convenga. V.S. Ill. per l’amore di Dio
mi perdoni di tanta impertinenza. La lettera credo, che potrà includersi in
uno de’ tre esemplari, purchè l’invoglio sia diretto al Sig. Bondicchi. E
occorrendo spesa in francar detto porto, si compiaccia di darmene avviso,
e mi compatisca, e sarò fino all’ultimo spirito.
Di Villa 23. Agosto 1684.
Suo dev.mo Vincenzio da Filicaia (1)
Serenissimo Gran Duca. Tornato ieri da Milano con intera salute, prendo
opportunità di riverire V.A. S. da Piacenza, con dirle che in mano al signor
Bondichi ho colà lasciate molte rime del signor Maggi, perché egli costà
le trasmetta con sicurezza. […]
Piacenza, il dì 17 di settembre 1687. (2)
Felice Le Monnier, 1857, p. 101. L’anno seguente, 1858, lo stesso libro esce dai torchi
della Stamperia del Vaglio di Napoli col titolo Lettere del padre Paolo Segneri della
Compagnia di Gesù, le cui pp. da IV a XVI sono occupate da una vibrata contestazione
all’edizione Le Monnier, viziata, secondo i gesuiti, da una introduzione a loro poco
confacente.
3 Atto del notaio milanese Francesco Domenico Povolo, 2 ottobre 1710, ripresa da
Alessandro GIULINI, Fidejussori milanesi di Cosimo III; [in] Archivio Storico Lombardo,
volume 36, 1909, p. 506.
174
portoghese era svanita. Il mezzo rifiuto di Cosimo metteva in imbarazzo
non solo la corte imperiale, ma anche l’elettore Palatino - il cui padre era
morto il 12 settembre - in malumore. (1)
1847. Printed by Order of the Trustees 1864, p. 259: “Lettere del Signor N.N. [Pietro
Alessandro?] Bondichi, Secretario e Ministro del Gran Duca di Toscana in Milano;”
copies of Letters treating of the military and political events in Europe, written from
Milan, from February, 1685, to January, 1692. In two Volumes. At the end of the
second volume is a copy of a letter from Bondicchi to the Abbate D. Giovanni Stefano
Agosti, in Bologna; dat. Milan, 16 July, 1710. XVIIIth cent. Folio. [16, 488, 16, 489].
3 Lettres Historiques contenant ce qui se passe de plus important en Europe et les
réflexions convenable à ce sujet. Mois de Janvier, 1726. Tome LXIX. A Amsterdam, chez la
Veuve de Jaq. Desbordes. 1726. La lettera del Cavaliere di St. Georges alla
Principessa sua sposa, marzo 1726, si legge alle pp. 271-272.
175
commencement de Fevrier.» A questa data Cosimo III ha da tempo
abbandonato la sua valle di lacrime(1) e sul moribondo scranno
granducale siede il figlio Giangastone, l’ultimo de’ Medici a governare
sulla Toscana.
1 31 ottobre 1723.
176
IL BANCO MEDICEO DI MILANO
177
Nell’anno 1464 Antonio di Pietro Averlino detto Filarete porta a
termine il Trattato di Architettura, opera scritta in volgare e suddivisa
in 24 libri o capitoli, che prese a circolare nell’ambiente lombardo sotto
forma di copie manoscritte (1). In quella oggi nota come Codice
Magliabechiano vi è un liber vigesimus quintus et ultimus. Ed è proprio
questo capitolo ad essere interessante per noi, dove nella seconda metà
il Filarete ci offre una dettagliata descrizione del Banco Mediceo di
Milano, a cui aggiunge un suo disegno della facciata. Lo riporto in
estratto qui sotto, così come si legge nell’edizione stampata a Vienna
da Carl Graeser (1890) - con una sola modifica: per facilitarne la lettura
ho messo la consonante “v” laddove nell’originale è stampata “u” -,
integrato dalle annotazioni che arricchiscono l’edizione del Polifilo (2).
A questo scritto ne faccio seguire altri, proposti in ordine cronologico
di pubblicazione.
[…] Detto abbiamo assai degli hedificij fatti nella città di Firenze e di fuori, i
quali loro hanno hedificati e ristaurati e di nuovo fatti. Hora diremo della
degnia casa (3), la quale, come ò detto, lo illustrissimo Francesco Sforza,
edilizia e arte della diplomazia a Milano nel XV secolo. [in] Annali di architettura. Rivista
del Centro internazionale di Studi di Architettura A. Palladio di Vicenza, n. 15/2003,
pp. 37-57.
3 degna casa: si tratta del Banco Mediceo, già ricordato nel l. 1, oggi distrutto (il
superstite portale e alcuni medaglioni si trovano ora nel Museo Civico milanese). Il
riferimento alla degna memoria è contraddetto da riferimenti a Cosimo vivente nei ff.
186 r. e 187 v. Il palazzo mediceo era ricostruzione di un palazzo dei Bossi nella via
omonima (al n. 4, di fronte allo sbocco di via Clerici), in Milano. Donato dallo Sforza
nel 1462 a Cosimo de’ Medici, fu attribuito a Michelozzo dal Vasari, il quale,
parafrasando la descrizione del Filarete, vi interpolò il nome dell’architetto (J.
178
ducha quarto di Milano, donò per la benivolenza e segnio di gratitudine, et
anche per l’amicitia, che era tra lui e la degnia memoria del magnifico
Cosimo; e lui, come grato del dono ricevuto, l’à ristaurata e riallustrata, e
quasi come di nuovo fatta; e non con picchola spesa, ma come huomo
magnianimo l’à acresciuta e ampliata e hornata di degni hornamenti d’oro e
d’argento; e d’altri varij colori dipinta, et hornata di molti intagli di marmo
e d’altre pietre e legniami secondo li luoghi, come per hornamenti sono
accaduti, secondo li luoghi convenienti a tale materia. Né à guardato a spesa,
MORELLI, Notizie di opere di disegno della prima metà del secolo XVI, Bassano 1830; Ch.
PERKINS, Les sculpteurs italiens, Paris 1869, I, p. 198, nota 7). Anche nei rendimenti di
conti e quaderni di cassa, nei pochi documenti rimasti (Arch. di St., Firenze, Cart.
Med. avanti il Principato, filza 83 c, ff. 61-62) non appare mai il nome di Michelozzo,
ma con altri toscani quello di «Antonio da Firenze ingiegnero», che potrebbe essere
il Filarete. Sulla base di ciò C. BARONI (Il problema di Michelozzo a Milano, in «Atti del
IV Congr. di St. dell’Archit.», Milano 1939), contrariamente a H. FOLNESICS
(DerAnteil Michelozzo an der Mailänder Renaissance-Architektur, in «Repertorium für
Kunstwissenschaft», XL, 1917, pp. 129-37), contesta l’attribuzione a Michelozzo del
palazzo, il quale sarebbe stato, d’altro canto, opera di maestranze lombarde al
servizio del Filarete. M. SALMI (Antonio Averlino detto il Filarete e l’architettura
lombarda, in «Atti del I Congr. di St. dell’Archit.» cit.) lo ritiene invece opera di
Michelozzo. Per questo problema, cfr. O. MORISANI, Michelozzo architetto cit. Dal
punto di vista dei caratteri stilistici il disegno della fronte presentato nel trattato
rivela rapporti diretti con la fronte dell’antico Ospedale Maggiore e con quella della
Casa Marliani (distrutta nel 1782; cfr. «St. di Milano», VII, pp. 665-7). Ma poiché le
trifore dell’Ospedale Maggiore non sono attendibilmente attribuibili al Filarete (cfr.
Liliana GRASSI, Lo ‘spedale di poveri’ cit.), ne viene che la fronte del Banco Mediceo
sembrerebbe piuttosto opera di architetti lombardi. Si deve riconoscere che il
portale, invece, conservato oggi al Castello, presenta caratteri differenti, certo più
rispondenti all’ordine mentale e alle ricerche degli architetti toscani che operavano
in Lombardia. Si ripropone cioè un problema analogo a quello della cappella
Portinari a Milano, dove la bifora laterale della cappella stessa non sembra essere
pertinente al linguaggio di Michelozzo. A queste considerazioni stilistiche si
aggiunga il fatto che il Filarete, ben attento e pronto nel corso di tutto il trattato a
ricordare le proprie opere, qui non fa menzione di se stesso, né ricorda Michelozzo
come autore del progetto. Il problema dell’attribuzione resta pertanto aperto.
Comunque, al f. 192 r., dice di aver scambiato consigli con Pigello Portinari a
proposito delle pitture della porta. I rilievi del palazzo, prima dei restauri del 1688 e
del rifacimento del secolo scorso, furono pubblicati da L. CARAVATI, in «Arte Italiana
decorativa industriale», IV (1895), pp. 21-2, e da O. MORISANI, Michelozzo architetto
cit.; cfr. anche P. MEZZANOTTE-G. BASCAPÈ, op. cit.
179
perchè molto più, che non era, delle braccia ben trenta, l’à cresciuta; sichè,
mediante l’agiunta fatta, è in tutto braccia ottanta sette e mezzo. E così
pell’altro verso; incominciando dalla porta dinanzi et andare infino a’ pie
dell’orto, è della medesima misura. Vero è, che non va però al quadro; perché
altre cose la ‘mpediscono. El quale orto si è braccia trenta pello largho, e
lungho braccia quaranta quattro.
Ora per intendere bene, come sta, e sue misure, ci cominceremo prima dalla
facciata; la quale è della sopradetta lunghezza. L’altezza sua si è braccia
ventisei. La quale non à se none uno hordine di finestre; le quali anno tutte
uno colonnello di marmo in mezzo; et il loro hornamento si è di terra cotta
intagliata a fogliami et altri hornamenti di varij intagli fatti. El davanzale
d’esse, cioè la cornice, el fregio, che è disotto, è fatto a spiritegli et a teste et
altri varii intagli. À una cornice alla fine della sua altezza, fatta all’antica, di
legniame; sotto la quale sono varie teste di terra. E sopra, alla fine del
ornamento d’esse finestre, si è una figura, pure di terra fatta. Et alcuna gliene
armata, alcuna inuda; et così chi in uno atto e chi in uno altro stanno. Più che
uno hordine di finestre non hanno, come è detto. À tre porti; una da una
testa, e l’altra da l’altra, et una nel mezzo; la quale è degnissima di marmo
intagliata con varij intagli di figure, fogliami e spiritegli e feste (1) e l’armi
divise, con la testa dello illustrissimo Francesco Sforza e quella della
illustrissima Madonna Biancha; et altre varie figure. La detta porta è largha
braccia cinque, et alta dieci. L’entrata di questa porta si è uno transito, il quale
è largho braccia cinque e lungho tredici. Al fine d’esso si è l’apostero (2) al
modo di Milano; cioè uno uscio corrente, il quale risponde nel cortile. Il quale
cortile per uno verso si è braccia ventisei e pell’altro braccia venti. La loggia,
che è a mano manca alla entrata, si è di lunghezza braccia ventotto, e largha
braccia otto. La quale si dipignie per mano d’uno buono maestro, per nome
chiama[to] Vincenzo di Foppa (3); il quale per infino al presente à fatto il
1 feste: festoni.
2 apostero: da «a posteriori»: porta posta sul fondo.
3 Si tratta del noto pittore lombardo, già ricordato nel l. IX, che aveva dipinto il
180
simulacro di Traiano, degnissimo e ben fatto, con altre figure per
hornamento. E così l’à a dipigniere tutta questa partita a figure et inmagine
d’imperadori, le quali saranno otto, e la inmagine e simulacro dello
illustrissimo Francesco Sforza e della illustrissima sua Madonna e figliuoli.
L’altra loggia, per l’opposito a questa, cioè quella a mano diritta alla entrata,
si è braccia ventidue e due terzi; e largha braccia sette e mezzo. Insù la quale
si è prima nella testa a l’entrata uno uscio, che va in una sala terrena, dove si
mangia il verno. Poi si è uno archivolto, o vuoi dire come una porta, dove è
una scala d’andare disopra, di pietra a l’usanza nostra. È così in capo d’essa
scala un’altro uscio, fatti tutti ê due di macinghio. Poi à un’altro uscio allato
a questo, che risponde in una corticella, che v’è uno pozzo; e poi nella testa
opposita à un’altro uscio, che va in un’altra loggia, che è nell’orto. Et ancora
gli è una scala, che va disopra, e per quella si va alla cucina et a d’altri luoghi.
L’altra che seguita poi dopo questa, la quale viene a essere dirimpeto alla
entrata della porta, si è lungha braccia venticinque et uno quarto; e la
larghezza sua si è cinque. Su la quale si è uno uscio che va nella canova; et
ancora uno archivolto, il quale risponde nell’orto. Et a mano manca è uno
huscio, il quale va nello scriptoio. Questa è l’altra parte; ed è dipinta a falconi,
che tenghono uno diamante in piè; e lettere, cioè uno certo motto, che dice:
»Semper.« (1) Queste logge sono intorno a questo cortile; le quali sono in
colonne et in archivolti.
La forma dell’orto si può comprendere per la misura sopradetta. Nel quale è
una loggia, la quale è lungha braccia ventisette, e largha sei e tre quarti. Nella
quale sono dipinte l’arme ducali e la vostra (2), et il simulacro d’Ercole, e più
altri suoi gesti. Et uno bello pergholetto, seguente a questa, [va] intorno per
infino al dirimpetto d’essa loggia. Poi gli è uno pratello con rose et altre
gentilezze. La sala antedetta, dove si mangia la vernata, si è lungha braccia
vent’ uno e largha braccia sedici; una antisaletta, la quale serve a questa, è
lungha quanto questo e la sua larghezza si è braccia sei.
181
Sotto la loggia da mano mancha nella testa è uno uscio, che serve a una
camera, la quale è per uno verso braccia dodici e pel’altro tredici. À una
anticamera, che è lungha braccia tredici e largha sei; è da questa parte uno
fondaco, o vuoi dire maghazino, di lunghezza di braccia diciassette, e largho
dodici, la porta rispondente su la strada dinanzi. Seguita dirieto a quel
fondaco una corticella di braccia dodici di lunghezza e sei largha; appresso
di questo uno fondachetto di braccia sei per ogni verso.
Ancora da questa parte si è un’altro transito con certi agiamenti, largo braccia
sei per ogni verso, il quale è in questo propinquo fondacho e guarda sopra
alla detta corticella.
Dall’altra parte opposita, da man diritta a l’entrare dentro nella corte, passata
l’altra loggia, o vuoi dire portico, si è una corte, la quale è per uno verso
braccia venti e pell’altro sette. Nella corte si è uno pozzo; et altri luoghi. È
alla entrata ancora dalla strada una porta; la quale risponde su una facciata,
che à uno transito, largho braccia cinque e lungho tredici. Alla entrata di
questa porta si è una camera di braccia dodici per uno verso, e pell’altro
tredici braccia. Dirieto a questa camera si è uno luogho da legnio, di braccia
venti per lunghezza, e per larghezza braccia otto.
Dirieto a questo ancora sei altri luoghi, i quali servono alla cucina, in terreno.
E disopra, alla detta cucina, sei altri luoghi, i quali servono pure anche ad
essa; la quale è lungha braccia tredici e largha braccia dieci.
Allato all’antedetta cucina si è una saletta di braccia tredici per lunghezza; e
per larghezza braccia sei. Allato alla detta saletta sono due transiti, che
rispondono in sul cortile et ancora insù l’orto; di lunghezza di braccia tredici.
Ad uno degli detti transiti si è uno studio, lungo braccia tredici e largho dieci.
Allato ad esso studio si è una camera di braccia dieci per uno verso, e
pell’altro otto. Ancora dirieto alla detta camera è uno fondaco della
medesima ragione; il quale fondaco à una scala, che va disopra al detto
fondaco; dove si è una scala fatta a chiocciola; el quale è braccia quattro per
ogni verso.
Ancora a questo piano terreno si è una canova, la quale è lungha braccia
venti, e largha braccia tredici; come è detto, l’entrata sua [è] sotto il portico,
che è nel cortile grande dinanzi.
Le misure de’ luoghi dinanzi sono queste. Prim’a la scala principale, la quale
risponde in questo cortile, come dinanzi è detto, si è una saletta, la quale è
per uno verso braccia dodici, e pel’altro tredici. Entrati nella detta sala, a
mano manca è una camera della medesima grandezza: dall’altra mano della
detta saletta, cioè al salire della scala a mano diritta, si è uno uscio, dove
182
s’entra nella sala principale. La quale si è di lunghezza braccia quarant’ uno,
e largha tredici; la quale risponde sopra alla strada. E così la detta saletta e
camera e sala si è di bellezza più che niun’altra, che sia in Milano. Hornata
d’uno bello cielo, il quale è nella forma fatto, che è quello del palazzo di
Firenze; a quadri intagliati a modo antico, lavorati con oro et azzurro fino, in
modo che da grandissima admiratione a’ riguardanti. Ancora nella detta sala
è uno cammino in mezzo, intagliato con l’arme ducale e con divise del detto
duca, hornate d’oro e di bellissimi e finissimi colori. Ègli ancora intramesse
arme e divise del degnio e magnianimo Cosimo. Insù la detta sala vi risponde
più usci, li quali none al modo di Milano sono fatti, ma al modo, che s’usa
oggidì in Firenze, all’anticha. Dall’altra testa della detta sala si è una camera
di braccia tredici per uno verso, e pell’altro verso braccia dodici. Uscito della
detta camera si ha una guardacamera di braccia sei largha e lungha quanto
è la camera, cioè braccia tredici. Dirieto da questa guardacamera è una
loggetta, la quale risponde sopra a uno cortiletto, largha braccia otto e lungha
dieci. Et allato alla detta camera gli è un’altra camera, di braccia dieci lungha
e otto largha; la quale viene sopra al fondaco e sopra al transito disotto.
Ancora allato a questa camera è un’altra camera, di braccia undici lungha e
largha braccia otto e mezzo; la qual camera viene a essere sopra alla loggia
della corte a man manca a l’entrare della porta. La quale à due finestre, che
rispondono insù la corte. In mezzo della quale si è dipinto il ducale e divise
dell’antedetto duca Francesco Sforza. Et allato a questa glien’è un’altra della
medesima misura.
Al dirimpetto dell’entrare della porta sono camere sei, alte al piano di queste
sopradette. Le quali camere sono braccia tredici per uno verso, delle quali
gliene sono tre, che sono braccia dodici larghe; e l’altre tre sono braccia otto.
Le quali camere guardano insù l’orto, e rispondono disopra dalla cucina e
dalla saletta terrena, e così sopra a due anditi, che vanno dalla corte all’orto,
e così sopra allo studio, dove stanno a scrivere et a parare le ragioni del
banco; ancora di sopra alla camera allato allo studio, nella quale si fa fondaco
per li panni. Disopra poi a queste dette camere gli è tre granai, i quali sono
della misura delle dette camere, che verrebbono a essere qualche venti sei
braccia per uno. È ancora disopra una saletta a mano mancha, la quale è
lungha braccia ventidue e largha sette.
Et ancora allo entrare della porta, alzando gli occhi, si è una loggia in
colonnette di marmo, la quale risponde disopra a quella disotto nel cortile; è
della medesima grandezza, cioè braccia venticinque lungha e largha cinque.
La quale è dipinta in verde con la storia di Susanna. Nel parapetto dinanzi
183
vogliono dipigniere le virtù cardinali. Così disopra a queste si è un’altra
loggia, la quale viene a essere sotto il tetto, della medesima larghezza e
lunghezza della loggia detta. L’altezza non è tanto, quanto quella di sotto. E
questa n’à due da ogni canto, le quali venghono a circundare tutto il cortile
da tre parti. El parapetto dinanzi ê dicono, che vogliono dipigniere li pianeti
e segni celesti. Ègli ancora certi veroni, li quali vanno dalla sala grande alle
dette camere: uno de’ quali glien’è, che è braccia venti; e l’altro è braccia
dieci. È gliene uno, il quale viene a essere sopra alla scala, di braccia
quattordici.
Altro non accade dire; se non, che la detta casa è degnissima a Milano. Et
ancora, secondo intendo, la vogliono migliorare; et ancora assai più; perchè
vi sono case al dirimpetto della facciata, le quali molto l’occupano. E per
questo l’anno comprate, per gittarle in terra, acciò che sia più luminosa e più
bella, perché gli sono molto propinque. Chè non credo, che sia la strada
largha oltra otto braccia. Sichè non è dubbio, che ogni volta, che le dette case
saranno in terra, quella mosterrà più magnifica e molto più bella la detta
facciata. La quale, quando sarà hornata di colori, come dice volerla fare, non
è dubbio, che a Milano nonne sarà un altra simile; considerato ê molti
ornamenti, ch’ella à. Maxime le degnia porta marmorea, scolpita et intagliata
degnissimamente, come di sopra dissi. Et ancora l’entrata d’essa è
degnissima; e maggiormente, quando sarà dipinta nel modo, che già
ragionamo insieme con Piggello Portinari (1), huomo degnio e da bene. El
quale lui regge e guida tutto el traffico, che anno a Milano: col quale ebbi
ragonamento di quello, che dipigniere s’aveva. Dissi che mi pareva doverci
dipigniere nella volta del detto andito della porta le stelle fisse, e nelle
facciate da canto si può fare la cosmografia, e così da parte Tolommeo et altri
strologi. Credo, che su questa entrata sarà bello expettaculo (2).
1 Pigello Portinari era questore delle entrate ducali e gestore del Banco Mediceo.
Commise la cappella di San Pietro martire in Sant’Eustorgio a Milano, dove fu
sepolto nel 1468.
2 Manca l’explicit.
184
Antonio di Pietro AVERLINO detto FILARETE
Fronte del Banco Mediceo
Trattato di architettura, folio 192 r
185
Portale del palazzo del Banco Mediceo a Milano
ora ricomposto nelle Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco
albumina di Pompeo POZZI databile tra il 1857 e il 1865
186
Le fabbriche più cospicue di Milano pubblicate per cura di FERDINANDO CASSINA.
Presso gli editori Ferdinando Cassina contrada del Pontaccio n.o 1996, e
Domenico Pedrinelli Borgo di Porta Orientale n.o 711, Milano 1840, tavole 13
e 14.
Il Palazzo, di cui pubblichiamo la Porta, posto nella via de’ Bossi, fu donato
da Francesco SFORZA duca di Milano a Cosimo MEDICI nel 1456. Cosimo ha
il merito di averlo nobilitato e di avervi fatto la Porta in marmo. Michelozzo
MICHELOZZI fu l’architetto adoperato in questi lavori. Nulla più si scorge
d’antico, che il cortile, che non ha cambiato forma. Quivi tuttavia si vedono
teste colossali, che sporgono fuori del muro tra un arco e l’altro de’ portici,
ma furono sostituite alle antiche in cotto, ormai consumate, per opera del
signor VISMARA, che ne commise l’esecuzione allo scultor-plasticatore
GIROLA. Altresì rimane nel cortile una pittura assai logora rappresentante un
uomo di negozio seduto, che sta leggendo avanti un banco, e ciò sarebbe a
proposito di quanto dice VASARI nella vita di MICHELOZZI, che Cosimo quivi
aveva il suo banco. In alcune camere terrene si veggono tuttavia dipinte nelle
pareti e nella soffitta a quadratura in legno le imprese de’ MEDICI dell’anello
col diamante e col falcone.
La Porta in marmo è bastantemente conservata. Nelle spalle laterali verso la
strada posano due guerrieri armati di clave. Più sopra le insegne ducali degli
SFORZA sostenute al capo di un’asta da due fanciulle, alle quali serve di
soffitto una piramide di fiori, frutti ed uccelli, e sopra ciascuna di esse stà
scolpito un puttino scherzante. Nel fregio superiore alla Porta, si veggono
alle estremità i cani levrieri sotto la pianta d’alloro, impresa di Francesco
SFORZA, quindi due puttini alati, che tengono nel mezzo lo stemma de’ duchi
di Milano. Nei due vani, ove la porta si diverge in semicircolo, sono scolpiti
i ritratti di Francesco SFORZA e Bianca Maria VISCONTI sua moglie. I lati
interni della Porta, di cui uno si pubblica, sono molto pregevoli. In uno di
essi si veggono il falcone, l’anello col diamante col motto SEMPER, e la bussola
magnetica, col motto DROIT, imprese tutte de’ MEDICI. Nell’altro vi è il
pavone, impresa del duca di Milano, col motto REGARDEZ-MOI. Sotto l’arco
lungo la Porta vi è lo stemma de’ MEDICI.
187
Questo palazzo pare, che dalla casa MEDICI fosse venduto ai conti BARBÒ, da
cui passò nel 1802 al R. I. consigliere PIZZOLI. Nel 1821 ne fece acquisto il
signor Carlo VISMARA, i di cui eredi oggidì lo posseggono.
188
[Carlo] Casati Dott., Documenti sul palazzo chiamato «Il Banco Mediceo». [in] Archivio
Storico Lombardo, serie seconda, volume II, anno XII, 1885, pp. 582-588.
189
hujus nostre urbis Mediolani, quod teneri consueverat, per quondam Theodorum
et dominum Aluysium militem fratres de Bossiis, et nos propriis pecuniis
emimus, et acquisivimus, et plenissimo jure nostrum est, cura omnibus juribus,
edificiis, casamentis, et coherentiis et pertinentiis suis, quas quidem coherentias
hic pro expressis et declaratis haberi volumus. Ita et taliter quod Cosmas, ejusque
filiis et descendentis, a modo in antea, usque in perpetuum, sedimen predictum
cum suis juribus et pertinentiis ut supra possint et valeant, eisque licitum sit
habere, tenere, et possidere, et quasi eoque libere frui et gaudere, et de ipsis facere
et disponere, quiquid voluerint, pro libito sue voluntatis, tute, libere et impune,
sine nostra heredumque nostrorum contradictione, et prout nos, seu Camera
nostra, ante presentem donationem, facere poteramus et potuissemus. Dantes et
concedentes, eisdem Cosme donatario, omnia jura. omnesque actiones et rationes
utiles et directas, reales et personales, ipotecarias atque mixtas, nobis et Camere
nostre competentes et competituras in, Universitate, sub predicto sedimine
ejusque pretextu et occasione, facientesque et constituentes ipsum in eodem
sedimine ejusque occasione procuratorem in rem suam et ipsum in omnibus, et
per omnia ponentes et ponimus in nostrum et Camere nostre locum, jus et
statum, ita et taliter quod sibi liceat et licitum sit, etiam propria auctoritate
dictum sedimen apprehendere, et apprehensum retinere, sine alicujus judicis,
licentia, auctoritate, vel precepto, promittentes eam donationem nullo modo, vel
tempore, revocare, infringere, vel anullare, sed eam perpetuo ratam, gratam, et
firmam habere et tenere, et ei nullatenus contrafacere vel venere, directe vel
indirecte. Quinnymo eam defendere, et auctorizare ab omni persona, Communi,
Collegioipoteca et obligatione omnium et singulorum benorum nostrorum, et
Camere nostre presentium et futurorum ; supplentes de eadem potestate nostra
defectui cujuslibet solemnitatis et alterius, cujus vis, forme, que dici posset in
premissis, fuisse servanda. Et hec omnia non obstantibus aliquibus legibus,
statutis, decretis, ordinibus aut aliis in contrarium facientibus. Quibus in
quantum premissis obviarent de eadem potestate nostra derogamus. Mandantes
Regulatori, et Magistris Intratarum nostrarum, tara ordinariarum quam
extraordinariarum, ac ceteris officialibus, et subditis nostris ad quos special, vel
speciare possit quomodolibet in futurum : quatenus hanc nostram donationem, et
omnia et singula in ea contenta, observari faciant, et observent. Ipsumque
Cosmam, et quecumquem procuratorem seu nuncium suum quandocumque
requisiti fuerint ponant, et inducant, positumque manuteneant, tueantur, et
defendant, in et ad possessionem sediminis antedicti, secundum tenorem et
formam presentis nostre donationis. In quorum testimonium presentes fieri et
registrari jussimus, nostrique sigilli pendentis munimine roborari.
190
«Dat. Mediolani, die XX augusti. M. CCC. L quinto.
«Franciscus Sfortia Vicecomes, manupropria subscripsi.
«Chicus.»
Il duca Cosimo, a dimostrare allo Sforza quanto gli riuscisse gradito il dono,
volle che l’edificio, da lui destinato per residenza d’un Banco di cambio in
Milano, fosse ricostrutto suntuosamente, e a tal uopo mandava in Milano
l’insigne architetto e scultore firentino Michelozzo Michelozzi affinchè vi
prestasse l’opera sua, e in effetto non mancò di farvi spiccare la sua maestria
nella architettura e scultura, sopratutto nella porta principale, ora esistente
nel nostro Museo archeologico, tutta di marmo e a bassirilievi.
L’interno del palazzo era altresì decorato da pitture, che il Vasari (1) dice
eseguite da Vincenzo Foppa (erroneamente da lui chiamato Zoppa), e che
Antonio Averulino o Averlino firentino, detto grecamente Filarete, nella
descrizione che ci ha lasciata di questo palazzo, nel libro XXV ed ultimo, del
suo manoscritto esistente nella Magliabecchiana, ora biblioteca Nazionale,
intitolato: Trattato di pittura, [sic] ove dà anche il disegno a penna dell’alzato
della facciata, non nomina, ma si può credere sia il Foppa, che era tenuto il
miglior artefice di quel tempo.
I denari che Cosimo de’ Medici spese nella ricostruzione di questo palazzo,
furon pagati da Pigello Portinari, cittadino firentino, che allora governava il
Banco e la ragione di Cosimo, ed abitava in detto palazzo. Dalla Cronica del
Monastero di San Pietro e Paolo in Gessate del Padre Placido Pucinelli (2), si
raccoglie che Pigello e suo fratello Azareto eran figli di Fulco Portinari, nobile
firentino. Il duca Cosimo da prima mandò a Milano il solo Pigello ad aver
cura de’ suoi interessi, in appresso essendo egli stato creato Generale
riformatore, ossia Questore delle rendite ordinarie dello Stato di Milano, nel
quale officio fu confermato dal duca Francesco Sforza, sostituì nelle
incombenze del Banco Mediceo il fratello Azareto. La nobile prosapia dei
Portinari si spense nella persona d’un religioso della Compagnia di Gesù, ed
il casato dei Portinari fu assunto dalla nobile ed antica famiglia de’
Gherardini pure di Firenze. Il ritratto di Pigello Portinari, vedesi in un
1 VASARI, Vite de’ più eccellenti Pittori, Scultori e Architetti: vol. 4 a pag. 331, Milano,
tip. Classici Italiani. In nota evvi una descrizione particolareggiata della porta, scritta
da Venanzio de’ Pagave.
2 P. PUCINELLI, Chronicon insignis Monasterii SS. Petri et Pauli in Glaxiate.
Mediolani, 1655.
191
quadro a tavola, conservato nella cappella di S. Pietro Martire nella chiesa di
San Eustorgio, rappresentante la visione avuta da Pigello col santo martire.
Pigello vi è vestito in sfarzoso abito senatorio, e nell’estremità della tavola
sta scritto: Piigellus Portinarius Nobil. Florentinus hujus Sacelli a fondamentis
creetor anno Domini 1462.
Ripigliando le notizie intorno al palazzo dirò, che delle vestigia che
ricordavano la sua vetustà ed il dono, ora più non esiste alcuna memoria, ad
eccezione della porta che inconsultamente fa collocata, come dissi, nel nostro
Museo. Alcune poche sussistettero, a testimonianza del de Pagave, sino alla
fine del secolo XVIII, che così le descrive:
«Per quanto sia. cangiato d’aspetto questo palazzo dal 1456 in qua, vi si
conservano ancora le vestigia sicure che ne fanno conoscere il dono e il
donatore.
«La massima parte, anzi quasi tutte le pitture fattevi fare da Michelozzo
nella sua primitiva ampliazione e ristaurazione, più non esistono, o sono
andate a male per dare al palazzo ed alle stanze un essere più conforme
ai tempi posteriori.
«Ciò che non si è potuto variare sono il cortile e i portici sostenuti da
colonne ottagone che lo circondano, sotto il soffitto dei quali e nelle
quadrature, che sono di legno, vi si vede tuttavia impresso a dovizia, e
dipinto a giallo l’emblema di Cosimo del diamante, o, a meglio dire, d’un
anello che racchiude in sé un diamante.
«Lo stesso pure si è osservato in alcune stanze terrene, che in oggi servono
ad uso di rimesse e picciole stalle. Sulle pareti di esse, vi si vedono tuttavia
dipinte, a foggia di festoni, grosse catene d’anelli l’un l’altro intrecciato
coll’insegna del diamante, e rii quando in quando d’un falcone che si posa
sopra di essi e tiene in uno delli artigli la stessa insegna.
«Fra un arco e l’altro dei portici sporgon fuori dal muro varie teste
colossali di cotto, le quali per essere assai corrose dal tempo, non lasciano
luogo a decidere nè della loro struttura, nè dei loro autore. Non sarebbe
per altro mal fondata l’opinione che siano dello stesso Michelozzo.
«L’unica pittura, che tuttora esiste nel cortile, e che può riputarsi un
avanzo dei tempi di Michelozzo, ci rappresenta un uomo di negozio
seduto innanzi al suo telonio, che con le gambe incrociate sembra
occupato a leggere un registro (1). Questa pittura conferma l’assunto che
1 Questa pittura mi ricordo d’averla vista riprodotta in un’Opera, della quale non
192
Cosimo destinasse qui il suo Banco, come dice il Vasari.»
Dai Medici, il palazzo passò in appresso nella casa dei conti Barbò, ed una
lapide, che vedesi ancora sotto l’arco del portico che conduce alla gran scala,
ricorda che il Senatore conte Barnaba Barbò (1), lo ristorasse ed abbellisse di
nuovo nell’anno 1688.
rammento il titolo.
1 Nota aggiunta da G. MAURI, tratta da Il castello Visconteo-Sforzesco ecc. di Felice
CALVI, cit., pag. 387, nota 1: «Il tenente-maresciallo don Giacomo conte Carreras,
spagnolo, si faceva milanese. La figlia di lui, Maria Teresa, unico rampollo, sposò
don Barnaba Barbò patrizio milanese.»
193
Lapide marmorea Seicentesca a ricordo del Conte Senatore Barnaba Barbò,
restauratore del Palazzo di via dei Bossi n. 4 (ex numero 1756 della Contrada)
194
DOCUMENTAZIONE
INTEGRATIVA
195
196
1
197
2
Ser.mo Principe,
Ho servito V. A. S. nella distributione dell’Orazione funerale fatta dal sig.r
Abbate Strozzi (1) quale ho presentata a quei sig.ri della nota eccetto ai
Signori Bigot (2) e Séguier (3): al Sig.r Bigot l’ho ricapitata in Normandia dove
si ritrova; il sig. Séguier è in viaggio verso l’Italia per sodisfare a qualche
dispositione della Regina (4) fil. men. (5). Non è anchor uscita dichiarazione
aperta del re in favor dell’Academia neanche se gli permette il prenderne il
nome, s’è ben passato nuovamente all’elezione6 di questi quattro sogetti per
1 Abbé Luigi Strozzi, Delle lodi d’Anna Maria Maurizia d’Austria Regina di Francia,
orazione funerale dell’Abate Luigi Strozzi, Gentiluomo per gli aggari di S. M. Cristianissima
alla Corte di Toscana, recitata nelle pubbliche essequie al Serenissino Ferdinando II Grand
Duca di Toscana, e dedicata alla Sac. M. del Re di Francia, e di Navarra Luigi XIV, Florence,
1666. La préface est datée du 15 août 1666. Fils de Nicolas Strozzi (1590-1654) poète
italien, Luigi Strozzi, fut le directeur des affaires du roi Louis XIV a la Cour de
Florence.
2 Emeric Bigot, né a Rouen en 1626 et mort a Rouen le 18 décembre 1689, ne
s’occupa que de livres et de sciences. On s’assemblait chez lui, à Rouen, une fois par
semaine pour des conversations d’érudition.
3 Pierre Séguier (1588-1672), chancelier de France sous Louis XIII et Louis XIV, fut
suite de négociations.
6 Nous avons traduit le mot elezione par le mot «choix», qui semble mieux
198
la fisica (1), La Chambre (2), Perrot (3), du Clos (4) et Gayen (5) tutti quattro
professori (6) di Medicina ma Gayen più particolarmente della chirurgia e
Anatomia, del resto s’è stato sin adesso nei termini di semplici propositioni
come di mandare a Madagascar un Astronomo per osservare di là le parti
del cielo vicine del Polo al nostro opposto, far diverse altre osservazioni per
le Paralassi del sole e della lune, [e per le] longitudini di quei luoghi (7) di
erigere nella vicinanza di Pariggi una fabrica per osservazioni simili (8), non
s’è ancor nomato l’Astronomo ne dato prencipio alla fabrica ma ben sì a
qualche stromento come sestante (9). Speriamo ben che la buona fortuna delle
1 Dans une lettre du 13 octobre 1666, Henri Justel fit part à Henry Oldenburg,
secrétaire de la Royal Society de ce qu’ «On a nomné quelques personnes pour être
de l’Académie, entre autres Monsieur de la Chambre, M. Perreau, un Apoticaire
Monsieur du Clos, et Mr Gayen pour l’A[natomi]e. Avec le temps il y en aura
d’autres» (cité par H. BROWN, op. cit.., pp. 152-153, n. 21).
2 Marin Cureau de La Chambre (1596-1669), physicien de l’Académie et médecin
du Roi.
3 Claude Perrault (1613-1688), physicien de l’Académie.
6 Le mot professeur doit être pris ici dans un sens assez large.
7 En fait, le voyage projeté n’eut pas lieu. L’Académie naissante ne disposa pas
d’assez de crédits pour entreprendre toute une expédition afin de réaliser ces
observations à Madagascar. C’est pourquoi probablement, elle décida de joindre un
astronome à une expédition de la Compagnie Française des Indes Orientales pour le
Commerce. Les Français eurent beaucoup de difficultés a s’installer a Madagascar
bien que le premier voyage de la Compagnie, dirigé par Rennefort (départ oct. 1664),
ait eu beaucoup de succès et qu’on n’ait pas tardé à envoyer une grande flotte de
près de 2000 hommes en mars 1666. On attendit probablement les rapports sur cette
expédition avant d’envoyer la suivante qui devait compter cet astronome parmi ses
membres. Les directeurs de la Compagnie étaient d’autre part persuadés que
Madagascar était intenable; aussi la Compagnie des Indes Orientales renonça-t-elle
à s’y installer. Cf. Abbé A.-F. PREVOST, Histoire générale des voyages..., t. 32, Paris, 1750,
pp. 241-347.
8 La fondation de l’Observatoire de Paris fut donc l’un des premiers projets de
l’Académie.
9 Ce sextant était probablement celui de 6 pieds (2 m) de rayon - exactement divisé
en degrés et l’un des degrés en minutes - que les Académiciens utilisèrent le 2 juillet
1666 pour observer l’éclipse (Huygens, VI, p. 59). Construit en fer avec un limbe de
cuivre, il portait des alidades à pinnules (cf. P. Ch. LE MONNIER, Histoire céleste ou
recueil de toutes les observations astronomiques faites par ordre du Roy avec un discours
199
scienze non permetterà che resti inutile la grandezza dell’animo del re in
promover le scienze et la buona intenzione del Ministro (1), riscontri grandi
et non d’ogni secolo, avevo gran retizenza ad usare dell’arbitrio che mi lasciò
il Sig. Stenone (2) de metter mano nel suo esattissimo discorso dell’Anatomia
del cervello (3) ma mentre V.A. S. s’è degnata di farmene motto lo farò
stampare quanto prima con Intentione però di farlo veder all’autore prima
di pubblicarlo qual aveva agiustato nuovi lumi nell’Academie del Cimento
et con la grazia che V.A. S. s’è degnata di farli amettendolo alla Sua presenza
et conversazione. Renderò buon conto a V.A. S. delle cose dell’Academia che
se bene sin adesso non mi ci son trovato m’è stata pur fatta la grazia
dell’invito di assistervi (4).
Il Sig. Hugenio è per far stampare un trattato di Dioptrica (5) et alcune sue
considerazioni dei centri di percossa (6).
l’Assemblée, qui se fait chez Monsieur Thevenot, Paris, 1669. Le privilège du Roi fut
donné le 18 décembre 1667. Ce discours fut prononcé probablement au cours de
l’année 1665 (G. SCHERZ, cit., pp. 132-133).
4 Thevenot remplaça Carcavy, décédé, comme garde de la Bibliothèque du Roi en
1684. Ce n’est que l’année suivante, le 10 janvier 1685, qu’il devint enfin membre de
l’Académie des Sciences.
5 Huygens, XIII, fasc. 1, pp. 272-353. Sa dioptrique - Dioptrica - ne fut publiée
qu’après sa mort dans Christiani Hugenii, Zelemli, dum vivert, Toparchae Opuscula
postuma, quae continent Dioptricam, commentarios de vitris figurandis, Dissertationem de
corona et parheliis, Tractatum de motu, de vi centrifuga, Descriptionem automati planetarii,
Lugduni Batavorum, 1703.
6 Huygens, XVI, pp. 3-186. Le De motu Corporum ex percussione fut publié aussi dans
200
Pariggi, li 16 8bre 1666.
Di Vra Altezza Ser.ma.
Umilissimo et Obligatissimo
Servitor vero THEVENOT.
201
3
Al Sig. N. N.
E chi è quel saccente, che va dicendo, che tutte le azioni maravigliose, e
stupende sono avvenute ne’ tempi trapassati, ne’ quali Berta filava? A me
oggi succedono di gran casi, grandi, e tre volte grandi, e degni di esser
paragonati con quegli, che dalla favolosa antichità furono con tutta boria
descritti. Francesco Redi, quel Francesco Redi servitore di V. Sig. nella Caccia
degli Escoli si è immortalato con la presa di due Cinghiali vivi, e coll’averne
fugati valorosamente un branco di sei altri.
Questa non è favola; è storia vera, reale, massiccia, e con tutti i caratteri,
diceva quel buon uomo del Cervieri, e V. Sig. ne potrà in questa Lettera
sentire il che, il come, e il quando, e com’ell’andò, e com’ella stette.
Ieri che fu il dì 14. di Marzo essendo una bellissima giornata, fu risoluto
improvvisamente di far la Caccia negli Escoli; Tocca tromba, butta sella,
tutt’a cavallo, tutt’a cavallo, tutti in carrozza, tutti in carrozza: in poco meno
di mezz’ora vi arrivò il Sig. N.N. in caccia; al cui arrivo i Cacciatori lasciarono
i bracchi alla macchia, onde non guari andò di tempo, che a poco a poco
cominciarono a comparire nel prato molti, e molti daini bianchi, e molti cervi,
i quali perseguitati da’ levrieri fecero bellissime carriere, e parte colla fuga si
salvarono, e parte furono compassionevole preda de’ cani, e di quei
Cavalieri, che montati a cavallo si prendevano giuoco di perseguitare con le
lance quelle fiere innocenti. Mentre in cotal guisa stava tutta la Campagna
festeggiando; ecco da una folta macchia spuntare il Sig. N.N. che sovra un
velocissimo corsiere a tutta carriera se ne veniva alla volta nostra, e diede
nuova, che nel forte del bosco erano otto cignali de’ più terribili, e de’ più
grossi, che mai si fossero veduti nelle perigliose contrade di San Rossore. I
Cacciatori tutti a gara supplicarono, che fosse loro permesso d’andare
202
all’attacco di quelle fiere; ma il Sig. N.N. con generoso, e cortesissimo cenno
comandò a Monsù Stenone, ed a Francesco Redi, che soli si accingeressero
alla gloriosa impresa: ed eglino ben corredati di coraggio saliti sovra la
carretta della spingarda, la spinsero a tutta briglia alla volta d’un certo
isolotto dove la squadra nemica avea fatt’alto, e arrivati sulla riva della
laguna, messero piede a terra, ed avendo fatto giocare molte volte invano il
cannone alla volta dell’inimico, che dentro alle trinciere se ne stava intanato,
si risolverono di andare ad assalirlo fin colà dentro, onde facendo in un
istesso tempo le parti di buon cacciatori, di buon soldati, e di sottilissimi
ingegneri, fecero in un momento fabricare alcune macchine, coll’ajuto delle
quali valicate quelle profondissime acque, si gettarono di forza addosso a
quegli zannuti animali, e nel primo assalto fu la fortuna così favorevole al
loro valore, che ne fecero due prigioni, e gli altri sei abbandonando il posto
del covile, si diedero alla fuga, e per la profonda laguna si salvarono a nuoto.
Tornarono trionfanti, e passando per gli ombrosi passeggi della Pisana
Arcadia volgarmente detta la Capanna delle Vacche, consacrarono la loro
preda non già al bugiardo nume di Diana, ma bensì al genio generoso di
N.N. nè passerà molto tempo, che coronato d’alloro comparirà a Firenze
quest’umil tributo di due umilissimi loro parziali. In questo mentre durava
la caccia negli Escoli, e tra i molti animali, che erano stati uccisi, eravi una
smisurata Troja, la quali per un glorioso premio del loro valore fu donata a
Stenone, ed al Redi. Questi valorosi Eroi fattasela trionfalmente portare al
loro albergo in compagnia degli altri due prigionieri, non sazj della fatta
strage, cangiando mestiere cominciarono col coltello anatomico ad
insanguinarsi in quel morto cadavere, e trovarono, che la fierissima Troja era
pregna, e che quattro erano i porcellini, che nell’utero suo racchiudeva, già
già pronti, e vicini ad abbandonare il materno carcere. Furono bene
esaminati, e si trovò, che rinvolti al solito erano, come moltissimi altri
animali, nelle tre tuniche chiamate chorio, amnio, e allantoide, ma quel che
parve più d’ogni altra cosa considerabile, si è, che oltre queste tre tuniche, o
pannicoli, ogni porcellino era vestito di una quarta camicia sottilissima, e
bianca, la quale accostandosi bene a tutte le parti del corpo, lo vestiva, lo
calzava, e gli vestiva i diti de’ piedi, come tanti guanti, e la coda aveva
anch’essa la sua guaina. Questa camicia però con altrettanto tagli, o forami
gli lasciava libero lo squarcio della bocca, gli occhi, le narici, il bellico, e quella
parte, dove termina l’intestino retto, che in buona lingua janadattica si
chiama cucchiajo. Dentro alla tunica allantoide eravi un certo poco di liquore
giallo torbido, e grossetto come uno sterco disfatto. Nell’amnio trovatasi un
203
altro liquore bianco simile alla chiara dell’uovo, ed oltre di questo, vi erano
ancora molti, e molti come cacherelli, o stronzoletti gialli, della stessa
consistenza, dello stesso colore dello sterco, di figura come le vecce: nel corio
non vi era nè placenta, nè cotideloni, solamente vi si scorgevano certe
macchie bianche. Aperto il ventre inferiore del porcellino, si vedevano notare
le viscere tra molt’acqua: ma aperto lo stomaco si trovò pieno pienissimo non
solo di quello stesso liquido bianco, che era nell’amnio, ma ancora pieno di
quegli altri cacherello, o stronzoletti, che pure nell’amnio si erano trovati:
nelle budella ancora erano di questi stessi stronzoletti gialli, ma di un colore
più pieno, e più abbruciato degli altri. Or chi vorrà negare, che gli animali
nell’utero della madre non si nutriscano per bocca? Io per me credo, che i
cignali non solo possano farlo, e che non solo possano colà dentro succiare
la pappa smaltita, ma sto per dire, che potessero masticare, e rodere checchè
sia; imperocchè tutti questi animaletti avevano i quattro denti dinanzi di
sopra, e quattro di sotto più principali, assai grandi, pungenti, e duri, e gli
altri delle mascelle erano appena coperti da un sottilissimo tenerume, o velo
di gengia ec. \ [Manca il fine, e la data, ma 1666]
204
4
205
5
Lettere inedite di uomini illustri Per servire d’Appendice all’Opera Intitolata VITAE
ITALORUM Doctrina Excellentium. In Firenze. 1773.
Nella Stamperia di Francesco Moücke, pp. 295-298.
Gli avvisi de’ quali mi onora V.A. nell’umanissima sua de’ 29. Novembre
venutami a trovare all’Aia son tutti curiosissimi, ma fra gli altri quello
dell’onorata risoluzione di Mr Stenon 1 è per se solo bastante a riempirne il
cuore d’una gioia infinita, essendochè oltre al motivo, che di rallegrarmene
per il di lui vero bene, vi considero il godimento che ne avrà ritratto lo zelo
impareggiabile di V.A., e l’acquisto che mi presuppongo sia per farne cotesta
Corte per infintanto che egli avrà vita. Veramente nella dispersione presente
della nostra Accademia per la partenza del Borelli, dell’Oliva, e del Rinaldini
non poteva a mio credere succedere cosa più desiderabile, e se gli altri due
luoghi si riempissero a questa proporzione, mi parrebbe che avessimo
qualche motivo da consolarci della perdita fatta, la quale tutta insieme
bisogna confessare che è considerabile, perché finalmente dando al Rinaldini
e all’Oliva quel che va loro per giustizia di approvazione e stima, il Borelli
era un uomo fastidioso e presso ch’io non dissi affatto intollerabile, ma in
sostanza era un letterato da far risplendere una Corte, perché aveva solerzia
e giudizio. A Leida ho fatto un poco all’amore con un tal Francesco de la Boe
detto il Silvio stato maestro di Mr Stenon uomo intendentissimo della buona
Filosofia, bravo medico, e chimico eccellentissimo. Quest’ultima qualità me
gli fece mettere gli occhi addosso in mala maniera, sovvenendomi avere
udito dire più volte all’A. V. che un uomo tale le sarebbe stato carissimo;
diedi perciò diversi bottoni, domandandogli se ei conoscesse in queste parti
o in Francia alcuno della sua professione, perché facilmente si sarebbe
trovato riscontro per impiegarlo, ma egli stette sempre sodissimo
rispondendomi che no, senza darmi alcuno attacco immaginabile: ma ho poi
saputo che egli è trattato assai bene, ed ha avviato una bottega maravigliosa,
mandando a provvedersi de’ suoi segreti non meno che de’ suoi consigli
1Intende all’abiura fatta in Firenze l’anno 1667. Di Esso vedi Lettere Familiari del
Conte Lorenzo Magalotti &tc. Firenze 1769. Tomo I. pag. 17.
206
tutta l’Olanda e il paese circonvicino.
Io sto con una curiosità indicibile di cominciar a sentire i giudizi che darà il
mondo delle nostre esperienze, ma oramai prima che a Parigi non ne sentirò
discorrere, immaginandomi che a Bruselles V.A. non abbia corrispondenze
di letterati. Di Firenze e di Roma comincio a formar cattivo giudizio, perché
oramai debb’essere intorno a due mesi che il libro è fuora, e nessuno degli
amici miei me ne scrive né ben né male. Io scrivo a qualcuno di essi che stimo
la loro discretezza in non dirmene nulla, giacchè non se ne dee poter dir altro
che male, ma che gradirei assai più incomparabilmente la loro ingenua
libertà. Pure mi consolo che il biasimo cada sopra di me, potendo ben l’opera
essere bella, ma messa malamente insieme. A Londra sento che sia uscita una
spezie di storia sperimentale dove sono cose bellissime, ma per ancora non
sono tradotte nemmeno in latino. Quel Huk, se non erro, che fa quegli
ammirabili microscopi ha stampato ancor egli un gran libro in foglio colle
osservazioni delle cose vedute col benefizio di essi tutte intagliate
mirabilmente in rame, ma questo ancora per quel che tocca le dichiarazioni
è in Inglese, e ancora non è tradotto.
L’osservazione de’ bachi, che vivono senza capo per qualche tempo e che si
rattaccan con esso quando si riaccosta loro al busto, è bella, ma forse non
interamente nuova. Io dirò a V.A. quello che me ne fa sospettare. I Franzesi
hanno questo proverbio ils se réunissent comme des hor-verse, e l’applicano a
due amici o due amanti che ogni dì sieno alle rotte, e nondimeno si vogliano
più bene un dì che l’altro. Per intender la derivazione mi fu detto che hor-vers
sono una spezie di bachi, che si trovano particolarmente in Normandia, i
quali tagliati con un coltello in quattro o cinque pezzi per lo traverso e
separati per piccolo spazio l’un dall’altro, que’ pezzuoli tanto si scontorcono
e tanto frugano che è si raccostano insieme, e raccostati in brevissimo
riattaccano; e questa è cosa tanto manifesta, che non v’è contadino in
Normandia che non la sappia: se poi così tronchi, la parte dove rimane il
ventre inferiore seguiti ad espurgar le fecce, questo non saprei dirlo, ma
arrivato che sia in Francia procurerò d’informarmene e ne ragguaglierò V.A.
Io non so ancora come V.A. avrà disposto degli esemplari destinati per il Re
d’Inghilterra dopo ricevuta la mia lettera dell’Aia, dove le rappresentavo
l’impossibilità di passar per Londra avanti di Primavers; è ben vero che ho
preso un gran disinganno in ordine al gradimento al Re, poiché dove mi
davo ad intendere, che la protezione così efficace, che ci presta alla famosa
compagnia reale, fosse effetto se non di compiacenza almeno di stima di
questi studi, ho saputo che egli non usa di chiamar mai con altro titolo i suoi
207
Accademici che con quello di Mes Furets. Resto pieno di profondissimo
ossequio.
Di Anversa 6. Gennaio 1668
Lorenzo Magalotti.
208
6
Saggio di carteggi diplomatici del conte Lorenzo Magalotti. Dalla legazione a Vienna
(1675-79). [in] Giornale storico degli Archivi Toscani che si pubblica dalla
Soprintendenza generale agli Archivi dello Stato. Firenze, presso l’Editore G. P.
Viesseux. Anno 1861, volume V, 1, Gennaio-Marzo, p. 259.
Anche [in] Lorenzo MAGALOTTI, Scritti di corte e di mondo, a cura di Enrico
Falqui, Colombo Editore, 1945, p. 222.
209
7
OSSERVAZIONE DECIMANONA.
In ordine al Fonte Pliniano, e Fiume Torbidone, e loro natura.
210
Che il letto, che riceve l’acqua fluente sia angusto, e basso.
Che nello spazio di un quarto d’hora cresca l’acqua l’altezza di tre dita.
Che il suo decresci mento siegua in un hora, e mezza.
Che questa alternativa succeda regolarmēte di due in due hore; e che sempre
habbia osservato in questi due giorni la medesima alternativa col mezzo di
misure, e di horologgio.
In proposito della corrente opinione del volgo confinante, che questa Fonte
aumenti le sue acque due giorni avanti, che debba piovere, soggiunge
d’havere confrontato nel tempo della sua dimora, che le sue ultime
osservazioni riportarono tre dita di aumento di acque alquante hore avanti,
che seguisse la pioggia, per altro egli rimaneva satisfatto delle misure, ed
alternative regolari osservate avãti, che terminassero li due giorni primi della
sua dimora attorno la fonte medesima, si che i preludij della pioggia furono
l’aumento di sei dita d’acqua.
Se altra persona curiosa facesse più longo soggiorno, e più bilanciate
esperienze, verebbero abolite le scorrette relazioni de Paesani, e le notizie
mal fondate di alcuni Scrittori, che fidandosi dell’altrui rapporto haveranno
fatto qualche equivoco. Per adesso habbiamo di certo l’alternativa, e la
misura del crescere, e quella del decrescere, e che sia regolare il moto
dell’una, e dell’altra nel periodo di due hore.
Oltre a questa esperienza il Sig. Conte Valerio Zani, che portossi sul Lago di
Como per osservare questa scaturigine meravigliosa, mi riferiva, che
l’Eruditissimo Sig. Canonico Manfredo Settala, col Dottissimo Sig. Niccolò
Stenone, hora Vescovo, per otto giorni continui si arrestassero in quel luogo
per osservarla, e che la trovassero tutti trè in due visite separate conforme a
quella del P. Placido sopracitato.
Reputo perciò degno di registrare in questo luogo quel che scrisse nelle sue
Epistole Plinio il giovane, recitando la storia, e produzione di questo Fonte,
non meno prodigioso, che memorabile ad ogni genere di filosofanti, perche
attrasse a se fino gli occhi, e le speculazioni della scorsa antichità, e fù
osservato, e notato da Plinio Seniore il Zio, cioè: In Comensi, scrisse questi,
agro iuxta Larium Lacum Fons largus horis singulis semper intumescit, ac residet.
Riporterò dunque la medesima epistola, acciò che possa riflettersi, e darsi
qualche giudizio, per mezzo de letterati, che soglion haver domicilio
generoso appresso di Vostra Eccellenza, se dopo tanti secoli sia seguita
alcuna alterazione, e se confronti l’antica relazione colla moderna. E ella
l’vltima del quarto libro scritta a Licinio Surra in questi termini.
211
Attuli tibi ex patria mea pro munusculo quæstionem altissima ista erudizione
dignissimam. Fons oritur in Monte, per saxa decurrit, excipitur cænatiuncula manu
facta. Ibi paululum retentus in Larium Lacum decididit. Huius mira natura. Ter in
die statis auctibus, ac diminutionibus crescit, decrescitque. Cernitur id palam, &
cum summa voluptate deprehenditur. Iuxta recumbis, & vesceris: atque etiam ex
ipso fonte (nam est frigidissimus) potas interim ille certis dimensisque momētis, vel
subtrahitur, vel assurgit. Annulum, seu quid aliud ponis in sicco, alluitur, sensim,
ac nouissime operitur: detegitur cursus, paulatimque descritur. Si diutius observes,
utrumque iterum ac tertio videas. Spiritus ne aliquis occultior os fontis, & fauces
modo laxat, modo includit, prout illatus occurrit, aut decessit expulsus ? Quod in
ampullis cæterisque, generis eiusdem videmus accidere, quibus non hians, nec statim
patens exitus. Nam illa quoque, quamquam prona, & urgentia per quasdam
obluctantis animæ moras crebris quasi singultibus sistunt, quod effundunt. An quæ
Oceano natura, Fonti quoque ? quaque ille ratione, aut impellitur, aut resorbitur, ha
deferuntur, adversantibus ventis, obvioque æstu retorquentur, ita est aliquid quod
huius Fontis excursum per momenta repercutiat ? An latentibus venis certa
mensura, quæ dum colligit quod exhauserat, minor rivus est, & pigrior : cum
collegit, agilior, maiorque profertur ? An nescio, quod libramentum abditum, &
cæcum, quod cum exinanitum est suscitat, & elicit Fontem : quum repletum,
moratur & strangulat ? Scrutare tu causas, (potes enim) quæ tantum miraculum
efficiunt : Mihi abunde est si satis expressi, quod efficitur. Vale.
212
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Biblioteca volante di Gio: CINELLI CALVOLI continuata dal Dottor Dionigi Andrea
SANCASSANI edizione seconda, In miglior forma ridotta, e di varie Aggiunte, ed
Osservazioni arricchita. Tomo quarto dedicato al Reverendissimo Padre
Alessandro Chiappinj Abbate Generale dell’Ordine de Canonici Lateranensi.
In Venezia, 1747. Presso Giambattista Albrizzi q. Girolamo, pp. 268-271.
213
…… Nicolai Stenonis ad Virum eruditium, cum quo in unitate S.R.E. desiderat
æternam Amicitiam inire, Epistola detegens illorum Artes, qui suum de
Interprete Sacr. Scripturæ errorem Sanctorum Patrum testimonio confirmare
nituntur. Florentiæ ex Typographia Nicolai Navesij 1675. in 4.
…… Nicolai Stenonis ad Virum eruditium, cum quo in unitate S.R.E. desiderat
æternam amicitiam inire, Epistola exponens Methodum convincendi
Acatholicum, juxta D. Chrystostomum ex ejusd. Hom. 33. in Act. Apostol.
Florentiæ ex Typograph. Nicolai Navesii 1675. in 4.
…… Nicolai Stenonis ad Novæ Philosophiæ Reformatorem. De vera
Philosophia. Florentiæ ex Typograph. Nicolai Navesii 1675. in 4.
…… Nicolai Stenonis Scrutinium Reformatorum ad demostrandum,
Reformatore morum in Ecclesia fuisse a Deo: Reformatore Fidei non fuisse a
Deo. Florentiæ ex Typographia Nicol. Navesii 1677. in 4.
…… Nicolai Stenonis ex pluriuso ad Joannem Sylvium, Calvini dogmata
Amstelodami docentem, ante quinquennium, & quod excedit, scriptæ binæ
Epistolæ, altera de propria conversione, altera de infelici ipsius Sylvii ad
geminum ipsi propositum Sylogismum Responsio. Florentiæ ex
Typographia Joannis Gugliantini 1677. in 4. * Quale fusse, chiaro per sapere,
e bontà, Monsig. Stenoni, anche prima, che conosciuto l’errore della Religione
falsa, in cui nacque in Danimarca abbracciasse la nostra vera, e Santa in
Firenze, e come prontamente si arrendesse alle chiamate del Signore,
meriterebbe d’esser saputo per mezzo di penna erudita, che tramandasse alla
posterità la Vita di questo felice Convertito, che, con incredibile esemplarità,
fu promosso al Vescovado di Titiopoli, e fatto Vicario Apostolico in
Germania, dove, colmo di merito, passò a gli eterni riposi. Nella Bibliografia
di Cornelio a Beughen, da noi altrove ricordata, a pag. 264., si ha la serie
dell’Opere Mediche da lui, mentr’era in Firenze, composte, tutte ottime, e
degne di lode. Il dottissimo Signor Marchese Ippolito Bentivogli, di ricordanza
gloriosa, non meno grande per l’Avita Nobiltà, che per l’universalità delle
Virtù acquisite, scrivendo di Ferrara, sotto li 27. Maggio 1678., al celebre
Marcello Malphighio, fattosi a considerare l’Opera di Paolo Mini intitolata:
Medicus igne, non cultro, necessario Anatomicus, e burlandosi delle pretensioni
vane di questo, diceva Il povero Stenoni, che mi scordai fra gli Anatomisti, perché
ha sudato tanto a mostrare il moto Meccanico de’ Muscoli, se non fosse dato alla
Santità, e tolto affatto all’antico studio, si disperarebbe, nel vedere dichiarate inutili,
e vane, tante sue gloriose fatiche. Gli Opuscoli qui riferiti sono rarissimi, e il Sig.
Cinelli n’ebbe li titoli dal suo Amico eruditissimo Signor Antonio
Magliabecchi b. m., dal quale avere egli avuti quelli, che stanno registrati
214
nella Sc. XIII. è più che probabile. Come che questi furono da Monsignor
Stennoni fatti stampare in Annover, mi son’immaginato, che colàè
s’indirizzasse quando partì da Firenze, ad esercitarvi il suo Apostolico
Ministerio. Che perciò, avendone io fatto ricercare, per Lettera, il Molto
Reverendo Padre Antonio da Toffignano, Capuccino, che con altri
Correligiosi stiede qualche tempo colà, mentre quel Duca pensava a tutti i
mezzi per ristabilirvi la nostra Cattolica Romana Religione, ecco ciò, che,
sopra tal perticolare, e’ riscrive da Bertinoro, ov’è di stanza, in una età molto
avanzata, sotto li 22. Dicembre 1715. Circa poi a quello, che desidera sapere il Sig.
N. N. non so dargli altra notizia, che questa, cioè: che Monsignor Illustriss. Niccolò
Stenoni Vescovo in parti bus, ed in Annover Vicario Apostolico era un Santo Prelato,
d’ottima Vita, esemplarissimo, e nel rigore di sue penitenze, più ammirabile, che
immitabile. Veniva egli amato da tutti, massimamente da que’ Serenissimi Principi,
ed ugualmente temuto; dotto al pari di chi si sia, massimamente in Controversie.
Ultimamente fu promosso al Coaudiotorato dal Sereniss. Vescovo e Principe di
Paderbona. Dove poi, e quando e’ morisse, non lo so: perché partii di là, e me ne
ritornai in Italia, per seguitare, e servire il serenissimo Signor Duca Gio. Federico,
che così si nominava, benché non ebbi poi la fortuna di farlo, per esser’ egli morto in
Augusta, mentre se ne veniva in Italia per dimorar in Venezia qualch’anno, così
consigliato da Medici, &tc.
215
9
Riflessioni sulla struttura e formazione delle Colline, e dei Monti della Toscana. [in]
Relazione d’alcuni Viaggi Fatti in diverse Parti della Toscana, per osservare le
Produzioni Naturali, e gli Antichi Monumenti di essa dal Dottor Giovanni
TARGIONI TOZZETTI Medico del Collegio di Firenze Professor Pubblico di Bottanica
Prefetto della Biblioteca Pub. Magliabech. e Socio delle Società Bottanica e
Colombaria di Firenze e delle Accademie Imperiale de’ Curiosi della Natura ed
Etrusca di Cortona.
Tomo Primo. In Firenze 1751. Nella Stamperia Imperiale, pp. 33-39.
Qui propongo la Edizione seconda, con copiose giunte. In Firenze 1768. Nella
Stamperia Granducale. Per Gaetano Cambiagi, pp. 53-61.
216
Tra i Monti e le Pianure, è da considerare di mezzo un’altra natura di terreno,
ch’io comprenderò sotto nome di Colline. Sono dunque le Colline Monticelli
composti di strati, o suoli di Rena, o di Creta, ed alle volte di sassi immersi
in Rena, o Creta, le quali due sostanze sono, o sciolte e friabili, o legate
insieme per qualche grado di petrificazione, ed hanno dentro di se
un’immensa quantità di Corpi Marini.
Le differenze più notabili che passano tralle Colline ed i Monti, sono tre; la
prima, cioè, che le Colline, quantunque si sollevino dalla pianura ad una
notabile altezza, tuttavia non giungono mai colla loro sommità ad uguagliare
quelle dei Monti anche mediocri, i quali fanno ben distinguere le loro cime
molto svelte, al di sopra di quelle delle Colline. La seconda, che le sommità
maggiori delle varie branche dei Monti, sono di diversa altezza; per lo
contrario quelle più alte delle Colline, sono tutte al medesimo livello, come
persuade l’oculare ispezione, meglio di qualunque discorso; poichè stando
sopra d’una di queste sommità maggiori di Colline, tutte quante l’altre
tornano alla medesima linea, e presentano all’occhio l’immagine d’una
vastissima pianura circoscritta dai Monti. In terzo luogo i filoni o di pietre, o
di terre, che compongono i Monti, sono come poco sopra dissi, tutti quanti
inclinati per qualche verso, e quei pochi che sembrano orizzontali, se si
esamineranno più accuratamente, si troveranno avere ancora loro qualche
pendìo. Gli Strati che compongono le Colline, sono indispensabilmente quasi
orizzontali, e paralleli alla pianura: si distinguono facilmente l’uno dall’altro,
per la varietà delle sostanze che gli compongono, o se sono di sostanza
uniforme, si distinguono per un certo rigo, o linea che costantemente si
osserva tra l’uno e l’altro, e ne indica i confini. La qualità altresì delle
sostanze degli Strati o suoli delle Colline, potrebbero fissare la quarta
differenza dai Monti. Poichè sebbene può darsi qualche Monte composto di
soli filoni di Creta, o di Rena; tuttavia avrà qualche notabile diversità, sì nella
configurazione delle zolle di Creta, che compongono i filoni, sì nella grana e
mescolanza di esse. Plinio chiamò elegantemente Coria terrae gli strati, o
panconi che s’incontravano nel cavar i pozzi (1). Io procurerò di servirmi
costantemente della parola Filone, per indicare i tavolati o palchi differenti di
pietre, e terre che compongono i Monti primarj, e della parola Strato per quelli
compongono l’ammasso orizzontale delle Colline.
I confini di queste Colline sono, da una parte le pendici dell’Alpi, dall’altra il
Lido del Mare. Esse sono divise in catene tortuosissime di Poggi più o meno
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alti, più o meno scoscesi, per le rosure e divisioni dei quali si fanno strada i
Torrenti, e Fiumi, che continuamente, ed orribilmente le rodono, e fanno
diminuire di mole, traendone torbe densissime, le quali in poco tempo
lasciano Colmate immense. Le Cime più alte di esse Colline, sono più accoste
ai Monti, le più basse poi, e le pendici loro più inclinate, e che insensibilmente
degenerano in pianura, sono quelle più vicine al Mare, ed ai Fiumi.
Le parti della Toscana, che per quanto io so di sicuro, restano occupate dalle
Colline, sono dalla parte destra dell’Arno, la Valle inferiore dell’Arno, quella
della Nievole, e gran parte di quella del Serchio dov’è Lucca. Dalla sinistra,
gran parte della Valle della Pesa, quelle, e quasi intiere, dell’Elsa, dell’Era, della
Cecina, e della Fine. Nello Stato di Siena sono Colline immense, come quelle di
Val di Mersa, e di Val d’Ombrone; ma siccome non ne so le particolarità, così
non le considero. Da Montelupo infino all’Alpi, cioè nella Toscana superiore,
ne sono porzioni grandissime, vale a dire tutta la Valle superiore dell’Arno, e
tutta la Valle della Chiana, ma perchè queste sono di struttura in qualche parte
differente, ed anche forse di origine, e non hanno, perlomeno quella
dell’Arno, dentro di loro Corpi Marini, tralascio di ragionarne, riserbandomi
a farlo in altra occasione. Avvertirò di passaggio, che in altre parti ancora in
Europa, sono simili strutture di Terreno, e ce ne danno la descrizione di
Bruckmanno nella sua Episola 7. Itineraria; Bernardino Ramazzini nel suo
bellissimo Trattato de Fontium Mutinensium admiranda scaturigine, e quasi
tutti gli Scrittori che trattano dei Monti Conchiferi, o descrivono i luoghi
dove si trovano Testacei Fossili.
Quì solo mi piace rammentare, che nello Strato di Siena s’incontrano vaste
Colline di Creta, descritte con somma diligenza dal Signor Dottore Giuseppe
Baldassarri Professore Pubblico d’Istoria Naturale nell’Università di Siena,
nelle sue utilissime Osservazioni sopra il Sale di Creta, pubblicate nel 1750.
Altre Colline che in alto sono di Tufo ed Agliaia, in fondo di Creta, egli
descrive nel Territorio di Chianciano (1). Vastissimi tratti ne sono nella
Campagna di Roma, ed in Roma medesima (2), mescolate però con eruttazioni
di antichissimi Vulcani ora estinti (3). Molti più ne sono nello Stato di Venezia,
massime nel Bassanese, Trevigiano, Vicentino, e Veronese, e nel Friuli, descritti
egregiamente dal Signor Avvocato Giuseppe Antonio Costantini, nella sua
218
Verità del Diluvio Universale vindicata dai dubbi &c. Par. 1., Sezz. 3. a car. 90. e
seg. Immense Colline nella Germania, sono descritte da Gio. Dan. Geyero, nel
suo Schediasma de Montibus Conchiferis; e infine altre che sono nella Svevia,
furono registrate da Gio. Baldassar Erhart, nel Vol. 8. degli Atti dell’Accademia
Imp. dei Curiosi della Natura, Obs. 115. pag. 411. Anche nell’Affrica sono vaste
Colline di Tufo fra il Cairo, e Suez, come ricavo dal Viaggio manoscritto di
Moisè Cafsuto. Molte sono nell’isola di Zeilan, piene di Testacei creduti dai
paesani vestigj di Mare, al riferire del P. Gio. Pietro Maffei Hist. Indic. Lib. 5.
pag. 130. e per fino nella Pensilvania, ed in altre parti dell’America
Settentrionale, ne osservò immensi tratti, e gli descrisse ultimamente nel suo
Viaggio il Sig. Pietro Kalm. Non và tralasciato che le Colline del Territorio
Pisano, sono rammentate, ed anche in parte descritte dal Celebre Antonio
Vallisnieri (1), e verisimilmente alle Colline si adatta il nome di Monticellus, che
s’incontra in alcuni Scrittori dei tempi di mezzo (2).
Per dare dunque un’idea generale dell’origine di queste Colline della Toscana
inferiore, che sono state il soggetto principale del mio viaggio, conviene ch’io
rappresenti ai Lettori quel tanto, che nel corso di molti giorni mi parve di
aver motivo di congetturare. Elleno adunque sembrano essere state, in tempi
remotissimi, tutte quante una sola e continuata pianura, formata da
moltissime deposizioni, o colmate orizzontali successive di non so quali
acque torbe, che abbiano abbandonato, e lasciato piombare nelle concavità
formate dalle diramazioni e pendici de’ Monti, quelle sostanze, che da essi, o
da altri Monti avevano raso; in quella guisa appunto che farebbe un Fiume,
il quale fosse obbligato per molti secoli a terminare il suo corso in una Valle
circondata da saldi Monti, che gl’impedissero l’esito. La sezione, o superficie
più alta di questa pianura, sembra essere stata quella, che passava per le più
alte cime delle Colline. La ragione poi, per la quale questi paesi di pianura
sono diventati poggi tortuosi e dirupati, parmi che sia stata l’abbassamento
smisurato della superficie del Mare, seguito in qualche tempo a noi ignoto;
di maniera tale che queste pianure sieno rimaste per molte canne superiori
al Mare, ed in conseguenza tanti dorsi di Monte. Supposto tal caso, l’acque
piovute sopra quelle sublimi pianure, incamminandosi, e precipitando verso
il Mare, potrebbero avere nel tratto di molti secoli roso questo terreno, e
ridottolo tale quale è di presente. Se si facesse un taglio in quella catena di
Monti, che a car. 39. supponemmo servire d’argine a quel Fiume, ed
219
obbligarlo a impaludare, depositando la belletta che seco portava, sicchè per
quell’apertura potesse d’allora in poi sgravarsi nel piano sottoposto; ognuno
vede che ben presto egli affonderebbe il suo letto, finattantochè l’avesse
ridotto al pari col piano, e che i dossi orizzontali formati dalla sua belletta,
quando era imprigionato, sarebbero rosi e da lui, e dai Torrenti che vi si
formerebbero coll’acque piovane: in poche parole, la colmata piana di prima
fatta dal Fiume, della natura medesima del terreno dell’Egitto dono del Nilo,
si ridurrebbe ben presto simile, per cagion d’esempio, alle Colline di Volterra.
Questo è veramente il sistema del celebre Niccolò Stenone sulla formazione
delle Colline, di cui generali teoremi egli ha pubblicato nel Prodromo alla
Dissertazione de Solido intra Solidum naturaliter contento. Colle replicate
osservazioni, ho conosciuto che lo Stenone ha colto nel segno, e che quei pochi
suoi teoremi sono sicuri, e fecondi, a luogo a luogo noterò le riprove.
Ritornando doppo tale necessaria digressione al racconto del Viaggio: partito
che fui dalla Real Villa dell’Ambrogiana, per giungere la sera al Pontadera,
volli prima osservare la struttura della Collina, sopra della quale è situato il
Castello di Capraia, già sede principale de’ suoi Conti, adesso Marchesato dei
Signori Frescobaldi.
Questa Collina resta dalla parte destra dell’Arno, dirimpetto, ed al pari di
Montelupo. Ella è una diramazione di Collina, che si stacca dal Monte
d’Artimino, e si propaga per lungo tratto rasente l’Arno.
Ecco accennato il principio delle Colline per questa parte; poichè la Rena, la
Sabbia, e la Creta che le compongono, sono depositate addosso alle pendici
del Monte d’Artimino; dalla sinistra poi dell’Arno, su quelle del Monte di
Malmantile. Da questi due estremi lembi, fino in vicinanza del Mare, sono o
poco, o assai continuate, e da questi due punti con tortuoso lunghissimo giro,
crederei possibile il giungere alla Marina, sempre per cime di Colline.
Quella di Capraia è per la parte di Mezzogiorno talmente rosa dall’Arno, che
vi si è formato uno spaventoso dirupo perpendicolare, alto forse 60. braccia
Fiorentine. Questo dirupo manifesta tre principali strati orizzontali, che lo
compongono. Il più alto, sul quale è posta parte del Castello, è di Tufo, o
vogliamo dire Rena, mescolata con del fior di Terra, di color della belletta
ordinaria de’ Fiumi, alto circ’ad 11. braccia. Il secondo, cioè quello che gli
rimane sotto, è alto circa a 22. braccia: nella parte superiore è di Creta, o
Argilla di color di cenere pendente al celeste, che volgarmente dicesi
Mattaione; nell’inferiore è di Tufo, con molta Ghiaia mediocremente grossa,
simile alla Ghiaia de’ Fiumi, immersa ed ammozzolata nel Tufo. Il terzo alto
circ’a 27. braccia, è di solo Tufo con Ghiaia, come nel secondo, e termina nel
220
letto dell’Arno. Io non voglio asserire, che gli strati componenti questa
Collina sieno tre soli; ma tali mi parvero dalla Riva opposta dell’Arno, nella
quale io era.
Nel proseguimento mi servirò sempre del nome volgare di Tufo, per
significare una qualità di Terreno frequentissima per le Colline, la quale altro
non è che Rena, simicissima a quella, che si trova alla spiaggia del Mare. Se
ne danno molte differenze, le quali anderò notando a suo luogo, e presenterò
ai Lettori una più chiara idea della natura di quel terreno, il quale a cagion
del nome, non va confuso col Travertino, ed altre pietre, che i Latini
chiamarono Tophi. Creta poi, o Argilla, o Terra Gilia, o Mattaione, chiamerò
un’altra qualità del terreno delle Colline, che è simile al loto, o sedimento, o
fanghiglia dei Paduli prosciugata; e di essa pure caderà in acconcio parlarne
a lungo.
221
10
Continuazione della relazione del viaggio fatto dal Dottor Giovanni Targioni
Tozzetti nella Primavera dell’Anno 1745. Discorso sopra lo stato antico e moderno
del Valdarno di sopra. [in] Relazione d’alcuni Viaggi fatti in diverse Parti della
Toscana, per osservare le Produzioni Naturali, e gli Antichi Monumenti di essa al
Dottor Giovanni TARGIONI TOZZETTI Medico del Collegio di Firenze Professor
Pubblico di Bottanica Prefetto della Biblioteca Pub. Magliabech. e Socio delle Società
Bottanica e Colombaria di Firenze e delle Accademie Imperiale de’ Curiosi della
Natura ed Etrusca di Cortona. Tomo Quarto. In Firenze 1752.
Nella Stamperia Imperiale, pp. 292-293.
222
veduta neppure una scheda appartenente a Istoria Naturale. Pochi anni sono
avendo io fatta premurosa ricerca di questo Danese, per meglio esaminare
quei manoscritti, non mi è stato possibile l’averne notizia alcuna, e l’ho
voluto quì avvertire a bella posta, affinchè se qualcheduno sapesse dove egli
sia morto, come dubito, o dove ei viva, possa far diligenze per mettere in
sicuro quei manoscritti dello Stenone, de’ quali essendo io nel 1732. scolare
principiante di Medicina, non ne seppi formare una giusta stima, e chi sa che
nel gran fascio di essi, non vi fossero anche gli sbozzi della importantissima
Dissertazione de solido intra solidum naturaliter contento? Dappoichè lo Stenone
abbandonò gli studj fisici, e si consagrò a’ più sublimi studj di Teologia, è
verisimile che abbondonasse il pensiero di questa Dissertazione, e quando
egli andò Missionario e Vicario Apostolico in Danimarca, senza dubbio non
avrà portato seco le bozze che aveva distese; ma le avrà lasciate insieme con
tutti gli altri fogli a questo suo nipote di sorella, il quale se mal non mi
ricordo, mi disse che era già in Firenze quando lo Zio tornò in Danimarca e
vi morì.
223
11
Oreogenia, cioè Speculazioni sulla maniera colla quale sono formati i Monti, che a
noi sembrano Primitivi della Terra, e specialmente della Toscana. [in] Prodromo
della Corografia e della Topografia Fisica della Toscana. Opere del Dottor Giovanni
TARGIONI TOZZETTI Medico del Collegio di Firenze Professor Pubblico di Bottanica
e Prefetto della Biblioteca Pubblica Magliabechiana. In Firenze 1754.
Nella Stamperia Imperiale, pp. 13-15.
Sezione III.
224
altri corpi Solidi; laonde il Problema si rende sempre più inestricabile.
Per Monti Primitivi intendo quelli, che definii a c. 33. del Tomo I. ed a c. 286.
del II. dei miei Viaggi, non già quelli, che chiamò Primarj il Sig. Ant. Lazzaro
Moro a c. 262. della sua ingegnosa Opera de’ Crostacei, e degli altri Marini Corpi,
che si truovano su’ Monti. Esaminerò ancora se sia vero, che i materiali dei
Monti quantopiù si profondano, vadano intenerendo, e che nelle massime
profondità non vi sieno sennonchè materiali d’una morbidezza estrema, e
senza alcuna consistenza, e forse fangacci immensi, le fermentazioni dei
quali cagionino tutti i vapori, e le agitazioni, che si fanno sentire sopra la
crosta superficiale che le veste? Quindi farò vedere che la Teoria dei
materiali, e della struttura dei Monti Primitivi, repugna al sistema del Signor
Barros, e con esso non si può spiegare; siccome neppure si può spiegare con
quello del Signor Anton Lazzaro Moro.
225
12
Noi già accennammo le principali epoche, ed i tratti più luminosi, che ornano
la vita letteraria del celebre Stenone nelle nostre Efemeridi dello scorso anno
(Num. XXIX. pag. 228.), quando riferimmo la V. Decade delle Vite degl’illustri
Italiani dell’erudito Monsig. Fabroni, ove appunto la Vita di Stenone occupa
il quarto luogo. Interessa per i fatti letterari, che si sappia questa seconda Vita
Italiana, stesa dall’istancabile penna dell’ottuagenario Sig. Manni, noto già
per tante altre stampe antiquarie di mezza età, e per altre Vite di alcuni suoi
curiosi Uomini Fiorentini. Volendo noi evitare di ripetere le cose già dette
altra volta, soggiugneremo solo che questa edizione è dedicata al ch.
Monsignor Stefano Borgia Segretario della S. Congregazione di Propaganda
con una lettera breve, e semplice, che esprime una candida stima del suo
merito letterario, ed evita tutte le esagerazioni. Nell’Avviso al Lettore
manifesta il Sig. Manni la divisione dell’Opera, che egli ha adottata, e che
corrisponde ai tre stati del suo Eroe, di Luterano cioè, di Cattolico Romano,
e di Prelato. Il N. A. usa più le parole di altri Scrittori, che l’hanno preceduto
in parlare di questo Personaggio, che le sue proprie. Il Tomo II. delle Lettere
inedite d’uomini illustri, da noi già annunciato, e l’indicata Decade V. delle
Vite latine (due Opere, che dobbiamo alle letterarie occupazioni del lodato
Monsig. Fabroni), e che nuove notizie a lui incognite esponevano riguardo
allo Stenone, l’hanno impegnato ad una Addizione, onde formasi il Libro IV.
di questa Vita. Noi qui ora riferiremo un’Opera di Teologia morale intitolata
Parochorum hoc age, stampata l’anno 1683. a spese del Gran Duca Cosimo III.;
la quale per essere anonima non era stata per l’avanti registrata fra le Opere
di Stenone, come ora coi lumi risultanti da biglietti originali convince il Sig.
Manni. Piacerà agli studiosi della Greca erudizione, e dell’Opere de’ Padri la
226
lettura di una dottissima lettera inedita del celebre Francesco Redi (p. 175., e
segg.) scritta forse a richiesta del Vescovo Stenone, sulla vera interpretazione
d’un luogo di S. Gio. Grisostomo nell’Omelia terza sopra gli Atti degli
Apostoli. Ivi le note versioni esprimono la voce non initiatus, che il Redi
piuttosto vuol tradurre non institutus. Altre simili notizie di pregio, delle
quali si può molte volte dire non erat hic locus, si possono vedere in
quest’Opera da chi non venga sgomentato dal poc’ordine, dalla poca critica,
e da quella negligenza di stile, che regna nella medesima. È troppo buono, e
modesto il Signor Manni per non farci delitto di nostra sincerità, e di una
eccezione, che gli diamo unitamente a quella lode, che non gli vorremo mai
defraudata.
227
13
Lettera VIII.
Dello Stenone, e dello Spallanzani, e de’ Cavargnoni.
1Poi corretto in Titopoli a p. 157 delle Lettere Lariane. Stesso libro, si veda anche
la Nota 2 a pag. 141. (Nota di G. Mauri)
228
14
[pp 80-84] Ora mi resta a parlare di due Accademici i quali riserbai in ultimo,
non già perchè di merito inferiore ai citati, ma perchè giovanissimi,
appariscono appunto nel mondo scientifico che di loro serberà eterna e
gloriosa memoria, all’epoca della nuova accademica istituzione. Parlo di
Lorenzo Magalotti e di Francesco Redi, nomi cari alle scienze, alle lettere,
all’umanità; i quali insieme coi monumenti di vasta e solida dottrina, ci
lasciarono testimonianza sicura del nobile, ingenuo e gentile animo loro. Il
Magalotti, nato in Roma da cospicua famiglia fiorentina l’anno 1637, ebbe il
corpo e la mente atti a qualunque esercizio fisico e morale; Antonio Oliva a
noi ben noto, il gesuita Onorato Fabbri che ritroveremo più tardi, e Antonio
Lanci canonico regolare di cui lo stesso Magalotti loda a cielo l’acume
intellettuale, gettarono i primi germi delle più utili discipline nel felice
ingegno del giovinetto; ed io quanto più leggo le opere del Magalotti, tanto
più mi confermo che Dante e Galileo fossero i suoi veri maestri; tutte le arti
cavalieresche nelle quali divenne eccellente, educarono il di lui fisico. L’anno
diciottesimo dell’età sua venne in Toscana, ove attese con stupenda facilità e
prontezza agli studj matematici, filosofici ed anatomici, e nella università di
Pisa, cosa mirabile a dirsi, fece in sole sedici settimane tutto il corso, o
com’egli stesso ci narra, la carriera, anzi il precipizio dei suoi studj legali. Tante
doti di persona e di mente lo fecero subito noto e desiderato a tutti; ed io lo
trovo, che che ne dicano il Targioni ed il Nelli, fino dal primo anno della sua
fondazione, nominato e citato nel registro dei lavori dell’Accademia del
Cimento; ed aveva allora appena venti anni. Il Magalotti sebbene non ci
abbia lasciate trascritte le sue particolari proposte, pure suggerì utili
avvertenze negli esperimenti che si andavano di mano in mano facendo; e
229
sembra che si occupasse più particolarmente di riscontrare le reazioni
chimiche derivanti dal miscuglio di varie soluzioni acide e saline, e
dell’aumento o diminuzione di calore prodotto da queste reazioni
medesime. Nominato Segretario dell’Accademia, il veloce e lucido suo
intelletto parve infondere nuova vita alla benemerita istituzione.
In Arezzo, cuna di svegliati ingegni, nasceva il 18 febbraio 1626 Francesco
Redi, il quale, fatti gli studj in Firenze e in Pisa, e nelle greche e latine lettere
presto avanzato, andò lettore di queste in Roma presso il cardinale Colonna.
Là conobbe Raffaello Magiotti, e con esso parlò di Galileo, dell’Anatomia,
della Medicina; e forse destò il Magiotti nel Redi il primo concetto di quella
Medicina di cui fu padre e che poi si disse toscana. Ripatriato, fortificò la
propria erudizione in Pisa sotto Paganino Gaudenzio Professore di molto
strepito perchè maraviglioso parlatore improvviso, uomo però la cui
dottrina non rispose sempre al criterio. Si diede alla Notomia, alla Medicina
ed alla Storia naturale; a quest’ultimo studio particolarmente incitato da
Tommaso Bellucci, che allora professava quella scienza colla Botanica. Onora
poi la mente del Redi l’avere da sè stesso scelto a direttore e maestro nella
difficile arte salutare Famiano Michelini, che deriso e negletto dai più, fu
scintilla al privilegiato intelletto del nostro Aretino, destinato a deviare dalla
mediocrità, ed a portare nella medicina una insolita luce. Famiano Michelini
raccomandando al Redi le opere del Santorio, rese lo stesso servizio alla
Medicina, che avea reso alle scienze tutte Ostilio Ricci da Fermo, regalando
al Galileo le opere di Archimede. Nocquero al Michelini le novità che voleva
introdurre in Medicina, e le controversie sorte nella di lui Religione, per le
quali avea lasciato l’abito del Calasanzio. Delle cause di queste non è mio
scopo parlare, e ne godo; però non debbo tacere che all’innocente
Matematico fruttò quel passo, comunque ragionato, sinistra impressione
nell’animo del Granduca, e non senza fondamento si vuole che per ciò gli
fosse tolta la gloria di appartenere all’Accademia del Cimento. La mente del
Redi destinata allo studio della natura, non poteva nascere in età più
propizia nè in terra più confacente a fecondare i germi delle sue naturali
inclinazioni; nel Redi giovarono alle Scienze l’ingegno e l’uomo. Primo frutto
degli studj giovanili di lui, fu un Trattato sui Tumori che a noi giunse assai
mutilato. Nell’Accademia del Cimento, si occupò particolarmente col
Principe Leopoldo del modo di estrarre i sali dai vegetabili, dell’esperienze
sulla digestione degli animali, di alcune osservazioni microscopiche.
Nell’epoca della durata dell’Accademia, ed anche in alcune tornate di essa,
fece l’esperienze sul veleno della vipera ad insinuazione del Granduca
230
Ferdinando, che ritrovandosi casualmente presso la fonderia quando vi
pervennero, inviati da Napoli, molti di quegli animali, per far la triaca,
ragionando dell’opinione degli antichi sul loro veleno, e come Galeno e
Plinio lo credessero risedere nel fegato, volle il Granduca che si facessero
delle esperienze per rintracciare la verità; e quel pensiero dette origine alla
prima opera del Redi, colla quale pose il fondamento della sua gloria futura;
ritrovò la vera sede del veleno di quell’animale, insegnò quando può esser
nocivo, quale il rimedio più efficace. Noi ritroveremo il Redi e il Magalotti
più tardi.
Questi erano gli Accademici operatori; i corrispondenti poi furono, fra
gl’Italiani, il Ricci, il Cassini, il Montanari, il Rossetti, il Falconieri; fra gli
esteri, lo Stenone, il Tevenot ed il Fabbri.
Il Ricci che lasciai in Roma scolare del Torricelli, quando questi si fece
toscano, continuò con ardore gli studj matematici, e si pose in comunicazione
con tutta la scuola Galileiana; fu dei primi e più costanti corrispondenti del
Principe Leopoldo; pubblicò nel 1666 la sua Esercitazione Geometrica in cui
prende a determinare, colla pura Geometria, le tangenti, i massimi e i minimi
delle curve; quel lavoro piacque in quell’età e fu ristampato in Inghilterra;
altre ricerche sull’antica e moderna analisi prometteva in futuro, ma volto
agli studj sacri, non attenne le sue promesse. Egli giovò ad estendere la
corrispondenza del principe Leopoldo; dei lavori dell’Accademia fu primo
propagatore in Francia, ebbe parte negli acquisti di MSS. [manoscritti] e di
opere di che fu avido il principe Leopoldo; l’Armonico del Vieta fu per le cure
di lui acquistato, e si conserva nella Magliabechiana; richiesero e valutarono
sempre il parere del Ricci sui privati loro lavori, come su quelli del loro
Consesso, gli Accademici tutti. In quell’età non si stampò scrittura
d’argomento scientifico o letterario, che non fosse già stata letta e rivista dal
nostro corrispondente; il Dati, il Viviani, il Magalotti, lo creavano giudice
dell’opere loro; il Principe Leopoldo volle che rivedesse il Libro dei Saggi
dell’Accademia, e le di lui avvertenze apparvero soverchiamente sottili e
impazientirono il Segretario. Vasta dottrina e giusto criterio lo crearon
giudice della contemporanea sapienza. In Roma teneva il primo seggio, e
ricercato e noto all’estero, quanti stranieri visitarono quella gran Capitale, lo
conobbero e lo ammirarono. Pare che ponesse certa ambizione nel mostrarsi
conscio di tutto; a questa e alla di lui attività si debbe la istituzione tra noi di
un nuovo genere di opere, che la prima volta apparve in quel secolo, e del
quale se non può veramente dirsi che l’Italia abbia dato all’altre nazioni
l’esempio, fu però delle prime a riconoscere l’utilità e ad introdurlo; parlo
231
dei Giornali. Istituzione richiesta dall’indole di quell’età, in cui gli uomini,
usciti dal giogo dell’autorità, sentivano il bisogno di conoscersi, d’intendersi,
d’estendere le loro relazioni; utilissima alle lettere, alle scienze, alla società,
se retta da menti illuminate, imparziali, incorruttibili; ad operare il bene di
tutta l’umana famiglia forse la più efficace e potente, ove a quel santo scopo,
non a sfogo di private passioni, dirigessero le loro mire gli uomini concordi
e sinceri; ma della quale siccome d’ogni ottima istituzione si è abusato e si
abusa. La lettura dei giornali, fatta ai nostri giorni scienza universale e cibo
quotidiano ed unico dei più, travasa e mesce da una nazione nell’altra i
costumi, le opinioni, le credenze, le inclinazioni; le più potenti in quel giro vi
guadagnano, le deboli e passive vi perdono anco quell’indole propria, quel
carattere nazionale col quale volle natura stessa contrassegnare i vari popoli
della terra, secondo dove li pose. Non sulle opere fondamentali e profonde,
nè sui trattati, ma nei giornali che non sono che il veicolo del sapere, prende
a studiare le lettere e le scienze quest’età frettolosa ed impaziente; singolare
speculazione in cui più si apprezzano i mezzi di trasporto che le mercanzie.
Cosi pare che le scienze e le lettere si propaghino e si dilatino, ma quello che
guadagnano in superficie lo perdono in profondità; che troppo piace ai miei
giorni quella facile sapienza e quell’effimera gloria che vien da un articolo di
giornale, e si legge e si scrive come si fabbrica con poca spesa e per breve
durata. Checchè ne sia, codesta benemerita istituzione mostrò subito in Italia
quella incontrastabile utilità che le sarebbe durata in ogni tempo, limitandosi
a propagare le dottrine più vere, più positive e più utili.
Il Ricci si adoperò perchè l’abate Nazzario, dotto Bergamasco, pubblicasse in
Roma, siccome fece, il primo Giornale Italiano, il quale ebbe principio, col
titolo di Giornale dei Letterati, l’anno 1668, e durò in reputazione fino
all’anno 1675. I primi volumi di esso parlarono dell’Accademia del Cimento,
e resero conto delle opere di varji Accademici.
***
232
Viviani, si manifestò, uso le parole del Viviani medesimo (1), ammirato
dell’affezione del Granduca per le Scienze, e sospirò la comodità che vi era
di ottenere «ad un cenno dell’A. S. i mezzi onde fare le osservazioni ed
esperienze in ogni genere, in specie in Anatomia, con la sezione di varj
animali, principalmente sopra cadaveri di questo spedale; addusse le ragioni
per le quali simili occasioni non si trovano nè si possono altrove godere, con
tutte le circostanze che qui le rendono tanto stimabili, ed aggiunse ancora di
aver accennato al Granduca che per aprirsi la strada a qualche cognizione di
utilità, oltre alla perquisizione della varia struttura delle parti, si richiedeva
a parer suo un diligente esame del feto, della natura de’ fluidi e del sangue,
chiamandovi in aiuto qualche curiosa operazione della Chimica». Questo
desiderio che è pur desiderio dei nostri moderni Anatomici e Medici,
manifestava lo Stenone due secoli fa. Ferdinando lo fissò al suo servizio,
correndo l’anno 1666. Lo Stenone proseguì allora le sue ricerche Anatomiche
nel Regio Spedale di S. Maria Nuova in compagnia del Finchio e del
Lorenzini; fece molte osservazioni e varie scoperte zootomiche
importantissime, e varie esperienze istituì, a richiesta del Granduca
Ferdinando (2), e tra le molte, quella principalissima con cui dimostrò come
l’uovo contenesse tutto ciò che fa di mestieri all’alimento del pulcino,
quando vi è chiuso dentro, e le altre sul cuore e sul sistema dei vasi
sanguigni, sì dell’aquila come del cane, dalle quali emerse la solenne verità
colla pressione, colla puntura, e col fiato o calore può rimanersi il moto del
cuore, e questo moto non in tutta la sostanza del cuore, ma nelle singole fibre.
Nel 1668 i suoi Elementi di Miologia che vennero in luce nell’anno dopo, e
nei quali si fa a spiegare la natura dei muscoli, le parti e la loro struttura, più
da Geometra che da Anatomico: già sulle fibre del cuore umano avea fatte
acutissime osservazioni, nè vi era stato prima di lui chi avesse mostrato tanta
eccellenza e destrezza nel presentare l’anatomica sezione di quel viscere;
come intorno alla notomia del cervello ed alla struttura delle fibre non eravi
chi avesse tanto addentro veduto, quanto il nostro Anatomico, riguardato a
ragione come il precursore dell’Haller. In questi Elementi di Miologia si
accinge a dimostrare, come si possono colle regole matematiche spiegare
agevolmente e la figura del muscolo e la di lui azione, ed afferma non esser
possibile nominare distintamente le differenti parti dei muscoli, indicarne la
figura e definirne il moto, senza il soccorso delle Matematiche: la gran scuola
233
del Borelli destò certo nello Stenone il pensiero di applicare alla Meccanica
le sue ricerche sulla struttura delle fibre. Quel Saggio nel quale apparisce
l’impronta dell’ingegno inventivo dello Stenone, non piacque al Borelli, che,
occupandosi sempre della sua opera sul Moto degli Animali, credeva che
s’invadesse il suo campo, e di mal occhio vide lo Stenone in Toscana per
gelosia di mestiere; esempio frequentissimo pur troppo, ed a diradare il
quale pare che il progresso dei lumi non giovi: difatto nella prima pagina
della sua opera attacca e confuta la dottrina, non senza mende, dello Stenone
sulla forma e sul modo di agire dei muscoli. Alla fine del suo Trattato, mostra
lo Stenone quanto ancora rimanga a farsi per completare la Storia dei
Muscoli, prospetto certamente utile al progresso della Scienza: in fine di quel
Trattato pubblicò le sue osservazioni Zootomiche fatte in occasione che dal
Granduca gli fu inviato a tagliare la testa di un gran pesce cane, e queste
osservazioni furono di tale importanza che restarono sempre preziose e care
alla Scienza, comunque ai nostri giorni sì splendida.
Ma l’opera che al pari delle scoperte Anatomiche onora lo Stenone, e che,
attesa la novità e la imponenza dell’argomento, più a noi lo raccomanda e
ravvicina, ella si è quella De Solido intra Solidum naturaliter contento, la quale
fu pure da esso composta e pubblicata in Firenze, e della quale fu come
argomento o teatro la nostra Toscana medesima nella sua costituzione
geologica. I tanti fossili di che va ricca questa nostra Provincia dettero
occasione a quell’opera originale e stupenda, che onora grandemente e lo
Stenone e la nostra patria, e quell’età benemerita in cui le antiche scienze si
rinnovarono e le moderne tutte ebber vita. Stabilite alcune proposizioni colle
quali viene ad ammettere che un corpo solido tragga origine e accrescimento
dal fluido, che due corpi in tutto simili sieno anco prodotti nell’istesso modo,
e di due corpi contigui quello siasi prima indurito nella cui superficie si veda
espressa la superficie dell’altro; e conchiude che dato il corpo e il luogo dove
è, si possa facilmente pronunziare qualche cosa di certo del luogo della sua
produzione, e questa è la considerazione ch’egli fa sopra i corpi chiusi dentro
altri corpi; passa poi, quasi ad esempio delle cose ammesse, a considerare la
struttura di alcuni corpi in particolare, riferendo sopra ciascuno quello che
crede potersi dire di sicuro circa alla materia, al luogo, al modo della sua
produzione. Riferisce ai depositi del fluido quelli strati che si veggono nella
terra, l’uno sopra l’altro, di differente materia, la quale, siccome osserva, non
si poteva ridurre a quella forma se non essendo mischiata con qualche fluido,
e senza che, tirata giù dal proprio peso, fosse stata spianata dal moto del
fluido medesimo soprapposto. Nota ancora tra le altre particolarità che ogni
234
strato, salvo il più basso, resta compreso tra due piani paralleli all’orizzonte,
e vuole che così fossero un giorno anco quelli che ora perpendicolari o
inclinati al medesimo orizzonte si vedono; e la mutazione di questi
attribuisce, o ad uno scuotimento violento cagionato dalle accensioni dei va-
pori sotterranei, o alla caduta e rovina degli strati superiori ai quali sia
mancato di sotto la materia che gli sosteneva. Da questa mutazione degli
strati crede dipendere l’origine dei monti. Quanto alle conchiglie fossili dice
che basta la sola considerazione del guscio per mostrare che sono parti di
animali vissute nel fluido, e così pensa rispetto alle altre parti di animali che
si trovano sotterra, come denti e cranj e altre ossa. Finalmente dagli strati e
dalle ineguaglianze osservate nello stato presente della Toscana ne inferisce
sei mutazioni diverse, cioè ch’ella sia stata due volte coperta dalle acque, due
piana e secca e due aspra e montuosa.
I moderni in Francia, in Inghilterra ed in Germania, e vorrei poter dire anco
in Italia, riguardano lo Stenone come il padre insieme della recente
Cristallografia e della Geologia; perchè, sebbene le forme regolari di molti
corpi, ed in specie dei sali, fossero state osservate, e riconosciuto che disciolti
costantemente la loro forma riprendono, pure l’applicazione di codesto fatto
non era stata generalizzata, nè riguardata sotto un punto di vista scientifico
e giusto, nè esso fatto considerato siccome germe di più fecondo e vasto
concetto. Le idee felici che si presentarono alla mente dello Stenone,
contemplando la costituzione fisica della nostra Toscana, derivaron da un
colpo d’occhio sì giusto e sì acuto, da sì esatte e sagaci osservazioni, e guidate
furono da tanta luce di ragione, che noi le sentiamo ai nostri giorni ripetere
ed ammirare, in tanto ardore di studj geologici, siccome prime basi di quella
vastissima Scienza che tutti in sè comprende i fenomeni dell’Universo.
Melchisedecco Tevenot parigino, raccoglitore indefesso d’opere manoscritte,
vide quasi tutta l’Europa e l’Oriente, visitò due volte l’Italia bramoso di
frugar Biblioteche e conoscere Sapienti, avido di riunire notizie, soprattutto
di Geografia e Viaggi, tornato in patria, tenne col Montmort, e poi le continuò
solo, quelle private conversazioni di cui feci parola, nelle quali si trattarono
argomenti Matematici e Naturali, e che dettero in seguito origine alla Reale
Accademia delle Scienze. Carteggiava col Ricci, col Viviani e col Borelli fino
all’anno 1643, che avea insieme con altri nostri Accademici conosciuti in
Italia; diè contezza al Borelli di quella conversazione e gli annunziò, come
nuove, due esperienze fatte in essa, e che per la Toscana erano vecchie, quelle
sui capillari e sulle lagrime o perette bataviche, e mostrò desiderio di entrare
in corrispondenza coll’Accademia del Cimento; fu la di lui domanda accolta
235
però freddamente e non senza riserva per timore, riporto le parole del Borelli
medesimo al principe Leopoldo «che delle invenzioni e speculazioni dei
nostri maestri e di quelle che abbiamo trovate noi, se ne abbiano, secondo
l’usanza vecchia, a far autori e ritrovatori gli stranieri.» (1) Però quando nel
1660 il Principe Leopoldo fece comunicare al Tevenot per mezzo del Ricci le
osservazioni fatte nella sua Accademia sulla leggerezza positiva, queste
furono ricevute in Francia con gran giubbilo, con gran dimostrazione di
stima e di affetto per l’Accademia Toscana e con speranza che il bramato
commercio si dovesse tra le due istituzioni avvivare; ora quella esultanza che
si volle da tutto il Consesso francese con apposita lettera di ringraziamento
al Principe Leopoldo apertamente manifestare, mi dà garanzia di buona
fede.
VINCENZIO ANTINORI
236
15
Elogio Accademico del Prof. Cav. Carlo GEMMELLARO letto all’Accademia Gioenia
di Scienze Naturali nella seduta straordinaria del di’ 2 dicembre 1868 dal Dott.
Andrea Aradas ecc. Catania, Stabilimento tipografico Galatola.
Nel R. Ospizio di Benefecinza, 1869, pp. 51-53.
237
quella del fuoco centrale, insufficiente a render ragione della formazione
della terra e di tutti i fenomeni geogenici, questi sforzi, ripeto, son la misura
precisa della forza del suo ingegno e dell’altezza della sua mente, tanto è
forte e convincente la sua dialettica. Ma qualsiasi argomento cadere deve a
fronte del potente linguaggio dei fatti e della natura. Però ligio ai suoi
principii, cerca di abbattere la teorica dei sollevamenti, che il celebre Elie de
Beaumont pose in vista e con ogni maniera di osservazioni, di fatti e di
argomenti si sforzò dimostrare. Di questa teorica, oggi, come si disse,
modificata, se ne trovano i primi elementi nelle opere degli italiani Spada,
Moro, Arduino, Fortis, e principalmente in quella dello Stenone. Il
chiarissimo Pilla estrasse da quest’opera talune proposizioni, che mostrano
come quel sommo sia andato all’idea dei sollevamenti secondo il concetto
dei moderni geologi, ne fece una scelta, e la pubblicò in Firenze nel 1842 (E
Dissertatione Nicolai Stenonis - de solido intra salidum [sic!] naturaliter
contento - excerpta, in quibus doctrinas geologicas quae hodie sunt in honore
facile est reperire - Curante Leopoldo Pilla - Florentiae ex typ. Galileiana
1842). Ma il Maravigna in una memoria letta nella seduta del 29 Giugno e 10
Luglio 1847 (Commento a due passi di Stenone sulle cause che hanno
sconvolto il parallelismo all’orizzonte degli strati dei terreni di sedimento -
Atti Gioenii - ser. 2a, vol. IV, pag. 1.), facendosi ad interpretare alcuni passi
del citato Stenone, crede scorgervi tutt’altro di quello che accennar possa alla
teorica dei sollevamenti del Beaumont, ed invece ciò che può condurre a
tutt’altra probabilità, e tale che convenga alle sue vedute. Così spesso accade,
che interpretando secondo idee preconcepite diversamente i detti degli
autori antichi, quando in ispecialità non siano molto chiari, tali detti rendano
sensi diversi, e qualche fiata acora opposti e contrari. Però, è a dire, che le
proposizioni dello Stenone, come il Pilla fece il primo osservare, meglio assai
convengano alla teorica dei sollevamenti di quanto a qualsiasi altra. Il
Maravigna ritenne che il sommo geologo antico colle parole, incendium
halituum subterraneorum (incendio dei vapori sotterranei) intenda dire dei
vulcani, e colle altre - violenta aeris elisio (sprigionamento impetuoso di aere)
dei tremuoti. Qualunque intanto siano i sensi dei passi dello Stenone, che a
noi non sembrano in verità molto chiari, e che alla fin fine non potrebbero
costituire che una opinione di più, non un principio dimostrato ed
inconcusso, e d’uopo qui riferire, che il Maravigna, invocandoli in appoggio
alle sue idee, niega i sollevamenti prodotti da una forza della roccia
plutonica, che innalzandosi dalle viscere della terra nello stato di mollezza,
obblighi il suolo sovrapposto a sollevarsi, rompersi e cadere sui lati con vari
238
gradi di inclinazione; egli ammette il tutto esser prodotto dalle eruzioni
vulcaniche, dagli slocamenti degli strati causati dai tremuoti, ai quali le
eruzioni metton cagione, e dalla corrosione della base dei terreni prodotta
dalle acque.
239
16
240
17
241
there are entire orders of animals of the existence of which we should know
nothing except for the evidence afforded by fossil remains. With all this it
may be safely assumed that, at the present moment, we are not acquainted
with a tithe of the fossils which will sooner or later be discovered. If we may
judge by the profusion yielded within the last few years by the Tertiary
formations of North America, there seems to be no limit to the multitude of
mammalian remains to be expected from that continent, and analogy leads
us to expect similar riches in Eastern Asia whenever the Tertiary formations
of that region are as carefully explored. Again, we have as yet almost
everything to learn respecting the terrestrial population of the Mesozoic
epoch and it seems as if the Western Territories of the United States were
about to prove as instructive in regard to this point as they have in respect
of Tertiary life. My friend Professor Marsh informs me that, within two
years, remains of more than one hundred and sixty distinct individuals of
mammals, belonging to twenty species and nine genera, have been found in
a space not larger than the floor of a good-sized room; while beds of the same
age have yielded three hundred reptiles, varying in size from a length of
sixty or eighty feet to the dimensions of a rabbit.
The task which I have set myself to-night is to endeavor to lay before you, as
briefly as possible, a sketch of the successive steps by which our present
knowledge of the facts of paleontology and of those conclusions from them
which are indisputable has been attained; and I beg leave to remind you at
the outset that, in attempting to sketch the progress of a branch of knowledge
to which innumerable labors have contributed, my business is rather with
generalizations than with details. It is my object to mark the epochs of
paleontology, not to recount all the events of its history.
That which I just now called the fundamental problem of paleontology, the
question which has to be settled before any other can be profitably discussed,
is this: What is the nature of fossils? Are they, as the healthy common-sense
of the ancient Greeks appears to have led them to assume without hesitation,
the remains of animals and plants? Or are they, as was so generally
maintained in the fifteenth, sixteenth, and seventeenth centuries, mere
figured stones, portions of mineral matter which have assumed the forms of
leaves and shells and bones, just as those portions of mineral matter which
we call crystals take on the form of regular geometrical solids? Or, again, are
they, as others thought, the products of the germs of animals and of the seeds
of plants which have lost their way, as it were, in the bowels of the earth, and
have achieved only an imperfect and abortive development? It is easy to
242
sneer at our ancestors for being disposed to reject the first in favor of one or
other of the last two hypotheses; but it is much more profitable to try to
discover why they, who were really not one whit less sensible persons than
our excellent selves, should have been led to entertain views which strike us
as absurd. The belief in what is erroneously called spontaneous generation
that is to say, in the development of living matter out of mineral matter, apart
from the agency of pre-existing living matter, as an ordinary occurrence at
the present day which is still held by some of us, was universally accepted
as an obvious truth by them. They could point to the arborescent forms
assumed by hoar-frost and by sundry metallic minerals as evidence of the
existence in nature of a “plastic force” competent to enable inorganic matter
to assume the form of organized bodies. Then, as every one who is familiar
with fossils knows, they present innumerable gradations, from shells and
bones which exactly resemble the recent objects, to masses of mere stone
which, however accurately they repeat the outward form of the organic
body, have nothing else in common with it; and, thence, to mere traces and
faint impressions in the continuous substance of the rock. What we now
know to be the results of the chemical changes which take place in the course
of fossilization, by which mineral is substituted for organic substance, might,
in the absence of such knowledge, be fairly interpreted as the expression of
a process of development in the opposite direction from the mineral to the
organic. Moreover, in an age when it would have seemed the most absurd of
paradoxes to suggest that the general level of the sea is constant, while that
of the solid land fluctuates up and down through thousands of feet in a
secular ground-swell, it may well have appeared far less hazardous to
conceive that fossils are sports of Nature than to accept the necessary
alternative, that all the inland regions and highlands, in the rocks of which
marine shells had been found, had once been covered by the ocean. It is not
so surprising, therefore, as it may at first seem, that, although such men as
Leonardo da Vinci and Bernard Palissy took just views of the nature of
fossils, the opinion of the majority of their contemporaries set strongly the
other way; nor even that error maintained itself long after the scientific
grounds of the true interpretation of fossils had been stated, in a manner that
left nothing to be desired, in the latter half of the seventeenth century. The
person who rendered this good service to paleontology was Nicholas Steno,
professor of anatomy in Florence, though a Dane by birth. Collectors of
fossils at that day were familiar with certain bodies termed “glossopetrae,”
and speculation was rife as to their nature. In the first half of the seventeenth
243
century, Fabio Colonna had tried to convince his colleagues of the famous
Accademia dei Lincei that the glossopetrae were merely fossil sharks’ teeth,
but his arguments made no impression. Fifty years later Steno reopened the
question, and, by dissecting the head of a shark and pointing out the very
exact correspondence of its teeth with the glossopetrae, left no rational doubt
as to the origin of the latter. Thus far, the work of Steno went little further
than that of Colonna, but it fortunately occurred to him to think out the
whole subject of the interpretation of fossils, and the result of his meditations
was the publication, in 1669, of a little treatise with the very quaint title of
“De Solido intra Solidum naturaliter contento.” The general course of Steno’s
argument may be stated in a few words. Fossils are solid bodies which by
some natural process have come to be contained within other solid bodies
namely, the rocks in which they are imbedded; and the fundamental
problem of paleontology, stated generally, is this: “Given a body endowed
with a certain shape and produced in accordance with natural laws, to find
in that body itself the evidence of the place and manner of its production.”
The only way of solving this problem is by the application of the axiom that
“like effects imply like causes,” or as Steno puts it, in reference to this
particular case, that “bodies which are altogether similar have been
produced in the same way.” Hence, since the glossopetrae are altogether
similar to sharks’ teeth, they must have been produced by shark-like fishes;
and since many fossil shells correspond, down to the minutest details of
structure, with the shells of existing marine or freshwater animals, they must
have been produced by similar animals; and the like reasoning is applied by
Steno to the fossil bones of vertebrated animals, whether aquatic or
terrestrial. To the obvious objection that many fossils are not altogether
similar to their living analogues, differing in substance while agreeing in
form, or being mere hollows or impressions, the surfaces of which are
figured in the same way as those of animal or vegetable organisms, Steno
replies by pointing out the changes which take place in organic remains
imbedded in the earth, and how their solid substance may be dissolved away
entirely, or replaced by mineral matter, until nothing is left of the original
but a cast, an impression, or a mere trace of its contours. The principles of
investigation thus excellently stated and illustrated by Steno in 1669, are
those which have, consciously or unconsciously, guided the researches of
paleontologists ever since. Even that feat of paleontology which has so
powerfully impressed the popular imagination, the reconstruction of an
extinct animal from a tooth or a bone, is based upon the simplest imaginable
244
application of the logic of Steno. A moment’s consideration will show, in fact,
that Steno’s conclusion that the glossopetrae are sharks’ teeth implies the
reconstruction of an animal from its tooth. It is equivalent to the assertion
that the animal of which the glossopetrae are relics, had the form and
organization of a shark; that it had a skull, a vertebral column, and limbs
similar to those which are characteristic of this group of fishes; that its heart,
gills, and intestines presented the peculiarities which those of all sharks
exhibit; nay, even that any hard parts which its integument contained were
of a totally different character from the scales of ordinary fishes. These
conclusions are as certain as any based upon probable reasonings can be.
And they are so, simply because a very large experience justifies us in
believing that teeth of this particular form and structure are invariably
associated with the peculiar organization of sharks, and are never found in
connection with other organisms. Why this should be we are not at present
in a position even to imagine; we must take the fact as an empirical law of
animal morphology, the reason of which may possibly be one day found in
the history of the evolution of the shark tribe, but for which it is hopeless to
seek for an explanation in ordinary physiological reasonings. Every one
practically acquainted with paleontology is aware that it is not every tooth
nor every bone which enables us to form a judgment of the character of the
animal to which it belonged, and that it is possible to possess many teeth,
and even a large portion of the skeleton of an extinct animal, and yet be
unable to reconstruct its skull or its limbs. It is only when the tooth or bone
presents peculiarities which Ave know by previous experience to be
characteristic of a certain group that we can safely predict that the fossil
belonged to an animal of the same group. Any one who finds a cow’s grinder
may be perfectly sure that it belonged to an animal which had two complete
toes on each foot, and ruminated; any one who finds a horse’s grinder may
be as sure that it had one complete toe on each foot and did not ruminate;
but, if ruminants and horses were extinct animals of which nothing but the
grinders had ever been discovered, no amount of physiological reasoning
could have enabled us to reconstruct either animal, still less to have divined
the wide differences between the two. Cuvier, in the “Discours sur les
Revolutions de la Surface du Globe,” strangely credits himself, and has ever
since been credited by others, with the invention of a new method of
paleontological research. But if you will turn to the “Recherches sur les
Ossemens Fossiles,” and watch Cuvier, not speculating but working, you
will find that his method is neither more nor less than that of Steno. If he was
245
able to make his famous prophecy from the jaw which lay upon the surface
of a block of stone to the pelvis of the same animal which lay hidden in it, it
was not because either he, or anybody else, knew, or knows, why a certain
form of jaw is, as a rule, constantly accompanied by the presence of
marsupial bones but simply because experience has shown that these two
structures are co-ordinated.
The settlement of the nature of fossils led at once to the next advance of
paleontology viz., its application to the deciphering of the history of the
earth. When it was admitted that fossils are remains of animals and plants,
it followed that, in so far as they resemble terrestrial or fresh-water animals
and plants, they are evidences of the existence of land or fresh water, and, in
so far as they resemble marine organisms, they are evidences of the existence
of the sea at the time at which they were parts of actually living animals and
plants. Moreover, in the absence of evidence to the contrary, it must be
admitted that the terrestrial or the marine organisms implied the existence
of land or sea at the place in which they were found while they were yet
living. In fact, such conclusions were immediately drawn by everybody,
from the time of Xenophanes downward, who believed that fossils were
really organic remains. Steno discusses their value as evidence of repeated
alteration of marine and terrestrial conditions upon the soil of Tuscany in a
manner worthy of a modern geologist. The speculations of De Maillet in the
beginning of the eighteenth century turn upon fossils, and Buffon follows
him very closely in those two remarkable works, the “Theorie de la Terre”
and the “Epoques de la Nature,” with which he commenced and ended his
career as a naturalist.
The opening sentences of the “Epoques de la Nature” show us how fully
Buffon recognized the analogy of geological with archaeological inquiries.
“As in civil history we consult deeds, seek for coins, or decipher antique
inscriptions in order to determine the epochs of human revolutions and fix
the date of moral events, so, in natural history, we must search the archives
of the world, recover old monuments from the bowels of the earth, collect
their fragmentary remains, and gather into one body of evidence all the signs
of physical change which may enable us to look back upon the different ages
of nature. It is our only means of fixing some points in the immensity of
space, and of setting a certain number of way-marks along the eternal path
of time.”
Buffon enumerates five classes of these monuments of the past history of the
earth, and they are all facts of paleontology. In the first place, he says, shells
246
and other marine productions are found all over the surface and in the
interior of the dry land; and all calcareous rocks are made up of their
remains. Secondly, a great many of these shells which are found in Europe
are not now to be met with in the adjacent seas; and, in the slates and other
deep-seated deposits, there are remains of fishes and of plants of which no
species now exist in our latitudes, and which are either extinct or exist only
in more northern climates. Thirdly, in Siberia and in other northern regions
of Europe and of Asia, bones and teeth of elephants, rhinoceroses, and
hippopotamuses occur in such numbers that these animals must once have
lived and multiplied in those regions, although at the present day they are
confined to southern climates. The deposits in which these remains are found
are superficial, while those which contain shells and other marine remains
lie much deeper. Fourthly, tusks and bones of elephants and
hippopotamuses are found not only in the northern regions of the Old
World, but also in those of the New World, although, at present, neither
elephants nor hippopotamuses occur in America. Fifthly, in the middle of
the continents, in regions most remote from the sea, we find an infinite
number of shells, of which the most part belong to animals of those kinds
which still exist in southern seas, but of which many others have no living
analogues; so that these species appear to be lost, destroyed by some
unknown cause. It is needless to inquire how far these statements are strictly
accurate; they are sufficiently so to justify Buffon’s conclusions that the dry
land was once beneath the sea; that the formation of the fossiliferous rocks
must have occupied a vastly greater lapse of time than that traditionally
ascribed to the age of the earth; that fossil remains indicate different climatal
conditions to have obtained in former times, and especially that the polar
regions were once warmer; that many species of animals and plants have
become extinct; and that geological change has had something to do with
geographical distribution.
But these propositions almost constitute the framework of paleontology. In
order to complete it but one addition was needed, and that was made, in the
last years of the eighteenth century, by William Smith, whose work comes so
near our own times that many living men may have been personally
acquainted with him. This modest land-surveyor, whose business took him
into many parts of England, profited by the peculiarly favorable conditions
offered by the arrangement of our secondary strata to make a careful
examination and comparison of their fossil contents at different points of the
large area over which they extend. The result of his accurate and widely
247
extended observations was to establish the important truth that each stratum
contained certain fossils which are peculiar to it; and that the order in which
the strata, characterized by these fossils, are superimposed one upon the
other is always the same. This most important generalization was rapidly
verified and extended to all parts of the world accessible to geologists; and
now it rests upon such an immense mass of observations as to be one of the
best established truths of natural science. To the geologist this discovery was
of infinite importance, as it enabled him to identify rocks of the same relative
age, however their continuity might be interrupted or their composition
altered. But to the biologist it had a still deeper meaning, for it demonstrated
that, throughout the prodigious duration of time registered by the
fossiliferous rocks, the living population of the earth had undergone
continual changes, not merely by the extinction of a certain number of the
species which at first existed, but by the continual generation of new species,
and the no less constant extinction of old ones.
Thus, the broad outlines of paleontology, in so far as it is the common
property of both the geologist and the biologist, were marked out at the close
of the last century. In tracing its subsequent progress I must confine myself
to the province of biology, and indeed to the influence of paleontology upon
zoological morphology. And I accept this limitation the more willingly as the
no less important topic of the bearing of geology and of paleontology upon
distribution has been luminously treated in the address of the President of
the Geographical Section.
The succession of the species of animals and plants in time being established,
the first question which the zoologist or the botanist had to ask himself was,
“What is the relation of these successive species one to another?” And it is a
curious circumstance that the most important event in the history of
paleontology which immediately succeeded William Smith’s generalization
was a discovery which, could it have been rightly appreciated at the time,
would have gone far toward suggesting the answer, which was in fact
delayed for more than half a century. I refer to Cuvier’s investigation of the
mammalian fossils yielded by the quarries in the older Tertiary rocks of
Montmartre, among the chief results of which was the bringing to light of
two genera of extinct hoofed quadrupeds, the Anoplotherium and the
Palceotherium. The rich materials at Cuvier’s disposition enabled him to
obtain a full knowledge of the osteology and of the dentition of these two
forms, and consequently to compare their structure critically with that of
existing hoofed animals. The effect of this comparison was to prove that the
248
Anoplotherium, though it presented many points of resemblance with the
pigs on the one hand, and with the ruminants on the other, differed from
both to such an extent that it could find a place in neither group. In fact, it
held, in some respects, an intermediate position, tending to bridge over the
interval between these two groups, which in the existing fauna are so
distinct. In the same way, the Palceotherium tended to connect forms so
different as the tapir, the rhinoceros, and the horse. Subsequent
investigations have brought to light a variety of facts of the same order, the
most curious and striking of which are those which prove the existence, in
the Mesozoic epoch, of a series of forms intermediate between birds and
reptiles two classes of vertebrate animals which at present appear to be more
widely separated than any others. Yet the interval between them is
completely filled, in the mesozoic fauna, by birds which have reptilian
characters on the one side, and reptiles which have ornithic characters on the
other. So, again, while the group of fishes termed ganoids is at the present
time so distinct from that of the dipnoi or mud-fishes that they have been
reckoned as distinct orders, the Devonian strata present us with forms of
which it is impossible to say with certainty whether they are dipnoi or
whether they are ganoids.
Agassiz’s long and elaborate researches upon fossil fishes, published
between 1833 and 1842, led him to suggest the existence of another kind of
relation between ancient and modern forms of life. He observed that the
oldest fishes presented many characters which recall the embryonic
conditions of existing fishes; and that, not only among fishes, but in several
groups of the invertebrata which have a long paleontological history, the
latest forms are more modified, more specialized, than the earlier. The fact
that the dentition of the older tertiary ungulate and carnivorous mammals is
always complete, noticed by Professor Owen, illustrated the same
generalization.
Another no less suggestive observation was made by Mr. Darwin, whose
personal investigations during the voyage of the Beagle led him to remark
upon the singular fact that the fauna which immediately precedes that at
present existing in any geographical province of distribution presents the
same peculiarities as its successor. Thus, in South America and in Australia,
the later tertiary or quaternary fossils show that the fauna which
immediately preceded that of the present day was, in the one case, as much
characterized by edentates and in the other by marsupials as it is now,
although the species of the older are largely different from those of the newer
249
fauna.
However clearly these indications might point in one direction, the question
of the exact relation of the successive forms of animal and vegetable life
could be satisfactorily settled only in one way namely, by comparing, stage
by stage, the series of forms presented by one and the same type throughout
a long space of time. Within the last few years this has been done fully in the
case of the horse, less completely in the case of the other principal types of
the ungulata and of the carnivora, and all these investigations tend to one
general result namely, that in any given series the successive members of
that series present a gradually increasing specialization of structure. That is
to say, if any such mammal at present existing has specially modified and
reduced limbs or dentition and complicated brain, its predecessors in time
show less and less modification and reduction in limbs and teeth and a less
highly developed brain. The labors of Gaudry, Maish, and Cope furnish
abundant illustrations of this law from the marvelous fossil wealth of
Pikermi, and the vast uninterrupted series of tertiary rocks in the Territories
of North America.
I will now sum up the results of this sketch of the rise and progress of
paleontology. The whole fabric of paleontology is based upon two
propositions: the first is, that fossils are the remains of animals and plants;
and the second is, that the stratified rocks in which they are found are
sedimentary deposits; and each of these propositions is founded upon the
same axiom that like effects imply like causes. If there is any cause competent
to produce a fossil stem, or shell, or bone, except a living being, then
paleontology has no foundation; if the stratification of the rocks is not the
effect of such causes as at present produce stratification, we have no means
of judging of the duration of past time, or of the order in which the forms of
life have succeeded one another. But, if these two propositions are granted,
there is no escape, as it appears to me, from three very important
conclusions. The first is, that living matter has existed upon the earth for a
vast length of time, certainly for millions of years. The second is that, during
this lapse of time, the forms of living matter have undergone repeated
changes, the effect of which has been that the animal and vegetable
population at any period of the earth’s history contains some species which
did not exist at some antecedent period, and others which ceased to exist at
some subsequent period. The third is that, in the case of many groups of
mammals and some of reptiles, in which one type can be followed through
a considerable extent of geological time, the series of different forms by
250
which the type is represented at successive intervals of this time is exactly
such as it would be if they had been produced by the gradual modification
of the earliest form of the series. These are facts of the history of the earth
guaranteed by as good evidence as any facts in civil history.
Hitherto I have kept carefully clear of all the hypotheses to which men have
at various times endeavored to fit the facts of paleontology, or by which they
have endeavored to connect as many of these facts as they happened to be
acquainted with. I do not think it would be a profitable employment of our
time to discuss conceptions which doubtless have had their justification and
even their use, but which are now obviously incompatible with the well-
ascertained truths of paleontology. At present these truths leave room for
only two hypotheses. The first is that, in the course of the history of the earth,
innumerable species of animals and plants have come into existence,
independently of one another, innumerable times. This, of course, implies
either that spontaneous generation on the most astounding scale, and of
animals such as horses and elephants, has been going on, as a natural
process, through all the time recorded by the fossiliferous rocks; or it
necessitates the belief in innumerable acts of creation repeated innumerable
times. The other hypothesis is, that the successive species of animals and
plants have arisen, the later by the gradual modification of the earlier. This
is the hypothesis of evolution; and the paleontological discoveries of the last
decade are so completely in accordance with the requirements of this
hypothesis that, if it had not existed, the paleontologist would have had to
invent it.
I have always had a certain horror of presuming to set a limit upon the
possibilities of things. Therefore, I will not venture to say that it is impossible
that the multitudinous species of animals and plants may have been
produced one separately from the other by spontaneous generation, nor that
it is impossible that they should have been independently originated by an
endless succession of miraculous creative acts. But I must confess that both
these hypotheses strike me as so astoundingly improbable, so devoid of a
shred of either scientific or traditional support, that even if there were no
other evidence than that of paleontology in its favor, I should feel compelled
to adopt the hypothesis of evolution. Happily, the future of paleontology is
independent of all hypothetical considerations. Fifty years hence, whoever
undertakes to record the progress of paleontology will note the present time
as the epoch in which the law of succession of the forms of the higher animals
was determined by the observation of paleontological facts. He will point
251
out that, just as Steno and as Cuvier were enabled from their knowledge of
the empirical laws of coexistence of the parts of animals to conclude from a
part to the whole, so the knowledge of the law of succession of forms
empowered their successors to conclude, from one or two terms of such a
succession, to the whole series, and thus to divine the existence of forms of
life, of which, perhaps, no trace remains, at epochs of inconceivable
remoteness in the past.
252
DUE LIBRI
DI STENONE
253
254
DISCORSO SULL’ANATOMIA DEL CERVELLO.
Ai Signori dell’Assemblea riunita presso il Signor Thevenot
SIGNORI.
Invece di promettervi di soddisfare la vostra curiosità intorno all’Anatomia
del Cervello, io vi faccio qui una confessione, sincera e pubblica, che non ne
so nulla. Mi augurerei di tutto cuore di essere il solo che fosse costretto a
parlare in questo modo, perchè potrei col tempo approfittare della
conoscenza che ne hanno gli altri, e sarebbe una grande fortuna per il genere
umano se questa parte, che è la più delicata di tutte, e che è soggetta a
malattie molto frequenti e molto pericolose, fosse conosciuta così bene come
se la immaginano molti Filosofi e Anatomisti. Ve ne sono pochi che imitino
il candore del Signor Sylvius (1), il quale non ne parla altro che in termini
dubitativi, sebbene egli vi si sia affaticato intorno più di chiunque altro che
io conosca. Il numero di coloro per i quali nulla è difficile è indubbiamente
più grande. È tutta gente che ha l’affermativa così pronta, vi daranno la
descrizione del cervello e la disposizione delle sue parti con la medesima
sicurezza come se fossero stati presenti alla costruzione di questa
meravigliosa macchina, e fossero penetrati a fondo in tutti i disegni del suo
grande Architetto. Anche se il numero di questi assertori è grande e io non
devo rispondere di quel che pensano gli altri, rimango per parte mia ben
convinto che coloro, i quali sono alla ricerca di una scienza solida, non
troveranno niente che li possa soddisfare in tutto quello che si è scritto sul
cervello. È ben certo che esso è l’organo principale della nostra anima, e lo
strumento con cui essa compie opere mirabili. L’anima crede di aver
talmente penetrato tutto quanto è fuori di essa che non vi è al mondo nulla
che possa limitare la sua conoscenza, tuttavia, quando è rientrata nella sua
propria casa, non è in grado di descriverla e non vi si ritrova più essa stessa.
Basta vedere la dissezione della grande massa di materia che compone il
cervello per avere motivo di deplorare questa ignoranza. Voi vedete sulla
superficie delle diversità che meritano ammirazione, ma quando vi accingete
a penetrare fino all’interno non vi vedete nulla. Tutto quello che potete dire
255
al riguardo è che vi sono due sostanze differenti, una grigia, l’altra bianca;
che la bianca è continua ai nervi che si distribuiscono in tutto il corpo, che la
grigia serve in talune parti come da corteccia per la sostanza bianca e che in
altra separa i filamenti bianchi gli uni dagli altri.
Se ci si chiede, Signori, che cosa siano queste sostanze, in che modo i nervi si
congiungano alla sostanza bianca, fin dove si inoltrano le estremità dei nervi,
ci si ritrova allora a dover confessare la propria ignoranza, se non si vuole
accrescere il numero di coloro che preferiscono l’ammirazione del pubblico
alla buona fede. Poiché il dire che la sostanza bianca non è che un corpo
uniforme, come sarebbe la cera, in cui non vi è nessun artificio nascosto,
sarebbe come avere una concezione troppo bassa del più bel capolavoro
della natura. Noi siamo certi che dovunque vi siano fibre nel corpo esse
osservano fra di loro una determinata condotta, più o meno composta
secondo le operazioni alle quali sono destinate. Se la sostanza è dovunque
fibrosa, come infatti appare in più parti, bisogna che voi mi concediate che
la disposizione di queste fibre deve essere ordinata con grande arte, perchè
è da qui che deriva la diversità dei nostri sentimenti e dei nostri movimenti.
Noi ammiriamo l’artificio delle fibre in ogni muscolo, quanto più dobbiamo
ammirarlo nel cervello, dove queste fibre, racchiuse in un così piccolo spazio,
compiono ciascuna la propria operazione senza confusione e senza
disordine.
I ventricoli, ossia le cavità del cervello, non sono meno sconosciuti della
sostanza. Coloro che vi collocano gli spiriti credono di avere tanta ragione
quanto coloro che li deputano a ricevere le escrezioni: ma gli uni e gli altri si
trovano assai a disagio quando si tratta di stabilire la sorgente di questi spiriti
o di queste escrezioni. Essi possono derivare tanto dai vasi che si vedono in
queste cavità come dalla sostanza stessa del cervello, e non è per nulla più
facile distinguere qual’è la loro via d’uscita.
Fra coloro che mettono gli spiriti nelle cavità dei ventricoli del cervello, gli
uni li fanno passare dai ventricoli anteriori verso i posteriori per trovarvi le
entrate dei nervi, gli altri credono che le estremità dei nervi si trovino nelle
cavità anteriori. Taluni reputano che le escrezioni del cervello sono in questi
ventricoli, per il fatto che vi vedono qualcosa di rassomigliante; questi stessi
trovano che nel cervello vi è tanta inclinazione per farli scendere nel midollo,
quanta ve n’è per condurli nell’imbuto detto infundibulum. Ma mettiamo che
tutto vada nell’imbuto, voi li potete fare uscire da lì nelle sinuosità della dura
madre, e vi è motivo di credere che trovino dei passaggi che li conducono
direttamente negli occhi, nelle narici e nella bocca.
256
Minor sicurezza ancora si vede sull’argomento degli spiriti animali. Si tratta
del sangue? sarebbe forse una sostanza particolare, separata dal chilo nelle
ghiandole del mesentere? le sierosità non ne sarebbero le sorgenti? Vi sono
alcuni che li paragonano allo spirito divino; e si può dubitare se non sarebbe
la materia stessa della luce. Infine, le dissezioni, di cui di solito ci serviamo,
non possono illuminarci la mente su nessuno di questi dubbi.
Se la sostanza del cervello ci è poco nota, come ora ho detto, non è affatto
meglio noto il modo di sezionarla. Non mi riferisco al modo che ci taglia il
cervello; da tempo si sa ormai che esso non porta grandi chiarimenti
all’Anatomia. L’altro modo di dissezionare, che si fa svolgendo le ripiegature
è un poco più Artistico, ma esso non mostra che il difuori di quello che
vogliamo conoscere, e ciò anche in maniera imperfetta.
Il terzo modo, che aggiunge allo svolgimento delle ripiegature una
separazione dei corpi grigi dalla sostanza bianca, va un poco più oltre,
tuttavia esso non penetra più avanti della superficie del midollo.
Si fanno varie mescolanze di questi tre modi di dissezione, e si potrebbero
aggiungere anche diversi modi di eseguire profili per il lungo e di traverso.
A mio giudizio, penso che la vera dissezione dovrebbe consistere nel seguire
i filetti nervosi attraverso la sostanza del cervello, per vedere dove passano
e dove finiscono. È pur vero che questo modo è pieno di tali difficoltà che io
non so se si potrebbe mai sperare di venirne a capo, senza preparazioni molto
particolari. La sostanza del cervello è così molle, e le fibre così delicate che
sarebbe quasi impossibile toccarle appena senza romperle. Ragion per cui,
dato che l’Anatomia non è ancora giunta a tal grado di perfezione da poter
eseguire la vera dissezione del cervello, non continuiamo a illuderci,
confessiamo piuttosto la nostra ignoranza, per non ingannare noi per primi,
e gli altri poi, promettendo loro di darne la dimostrazione della vera
conformazione.
Sarebbe troppo noioso stare a specificare qui tutte le opinioni e tutte le
dispute che vengono fatte sull’argomento del cervello, ne sono fin troppo
pieni i libri, io riferirò solamente i principali errori che ancora sussistono
nella mentalità di numerosi Anatomisti, e che comunque possono essere
convinti di falsità mediante l’Anatomia. Si riducono a questi capi. Fra coloro
che fanno professione di conoscerla bene, gli uni nel cervello vi fanno
apparire, separate, parti che non sono che una stessa sostanza continuata, gli
altri ci vogliono convincere con le dimostrazioni Anatomiche che le parti si
toccano senza alcun attacco, sebbene siano visibilmente congiunte insieme
per mezzo di filetti o di vasi. Vi sono di quelli che danno alle parti la
257
posizione che reputano necessaria al sistema che si sono immaginati; e tutto
questo senza considerare che la natura le ha disposte in una maniera
completamente opposta. Voi ne troverete che vi dimostreranno la pia madre
dove essa non si trova, e che non conoscono per niente la dura madre in
qualche parte, in cui essa si trova con molta evidenza.
Costoro, eventualmente, faranno anche passare la sostanza del cervello per
una membrana. Personalmente, ho troppa buona opinione degli uomini di
studio in generale per credere che essi si propongano di ingannare gli altri; i
principi che essi si sono stabiliti, e il modo di dissezionare al quale si
assoggettano, non permettono loro di fare diversamente. Gli Anatomisti
mostrerebbero le parti in un medesimo modo se si servissero tutti del
medesimo metodo. Non bisogna dunque stupirsi se i loro sistemi si reggono
così male.
Gli antichi sono stati talmente preoccupati dei ventricoli che hanno preso i
ventricoli anteriori per la sede del senso comune, e hanno deputato quelli
posteriori alla memoria, affinchè il giudizio, a quel che essi dicono, essendo
alloggiato nel ventricolo di mezzo, potesse fare facilmente le sue riflessioni
sulle idee che gli vengono da una parte e l’altra dei ventricoli. A questo punto
non vi è altro da fare che pregare quanti insieme agli Antichi sostengono una
simile opinione di fornirci delle ragioni che ci obblighino a crederle, perchè
io vi assicuro che in tutto ciò che finora è stato presentato per rafforzare
questa opinione, non vi è nulla di convincente; e dato che questa bella cavità,
a forma di volta, del terzo ventricolo, in cui essi avevano posto la sede del
giudizio ed eretto il trono dell’anima, non vi si trova neppure, potete ben
vedere che giudizio si deve dare sul resto del loro sistema.
Il Signor Willis (1) ci da un sistema del tutto particolare. Egli pone il senso
comune nel corpus striatum, o corpo raggiato; l’immaginazione nel corpus
callosum, e la memoria nella corteccia, ossia nella sostanza grigia che avvolge
la bianca. Ma vi sarebbero molte cose da dire se si dovessero esaminare
dettagliatamente tutte le sue ipotesi. Egli ci descrive il corpo raggiato come
1 Cerebri anatomie: cui accessit nervorum descriptio et usus. Studio Thomæ Willis…,
Londini, 1664, cap. XII, p. 146.
Thomas Willis (1621-1675) nacque in Inghilterra, a Great Bedwin. Studiò teologia
e poi medicina. Nel 1660 fu chiamato alla cattedra di filosofia naturale di Oxford, nel
medesimo anno ottenne la laurea in medicina. Ritiratosi dall’insegnamento si dedicò
alla professione medica e a ricerche sull’anatomia e la fisiologia del cervello. Il
poligono anteriore alla base dell’encefalo porta ancora il suo nome.
258
se vi fossero due tipi di raggi, dei quali gli uni salgono e gli altri discendono;
e tuttavia, se voi fate una separazione del corpo grigio dalla sostanza bianca,
voi vedrete che questi raggi sono tutti unicamente di una medesima natura;
che è come dire, fanno parte della sostanza bianca del corpo calloso che va
verso il midollo spinale, separata in diverse lamelle per l’interposizione della
sostanza grigia.
Che certezza può dunque esserci per farci credere che queste tre operazioni
si congiungono nei tre corpi che egli destina loro? Chi può dirci se le fibre
nervose comincino nel corpo raggiato, oppure se esse passino piuttosto
attraverso il corpo calloso fino alla corteccia o alla sostanza grigia? Certo il
corpo calloso è talmente sconosciuto che, per poca fantasia che uno abbia,
può dirne tutto quello che vuole.
Quanto al Signor des Cartes (1) egli conosceva troppo bene i difetti della
descrizione che noi abbiamo dell’uomo, per accingersi a spiegarne la vera
composizione. Né egli si accinge a farlo nel suo Trattato sull’uomo, ma si
accinge invece a spiegarci una macchina che faccia tutte le azioni di cui gli
uomini sono capaci. Alcuni dei suoi amici si spiegano in proposito un po’
diversamente da lui; si vede in ogni modo, all’inizio della sua opera, che egli
intendeva così, e in tal senso si può dire con ragione che il Signor des Cartes
ha sorpassato gli altri Filosofi in questo Trattato cui ho fatto riferimento.
Nessuno come lui ha spiegato meccanicamente tutte le azioni dell’uomo, e
soprattutto quelle del cervello. Gli altri ci descrivono l’uomo stesso, il Signor
des Cartes non ci parla che di una macchina che pure ci mostra l’insufficienza
di quello che gli altri ci insegnano, e ci fa imparare un metodo di ricerca delle
funzioni delle altre parti del corpo umano con la stessa evidenza con la quale
ci dimostra le parti della macchina del suo uomo; cosa che nessuno ha fatto
prima di lui.
Non vi è bisogno dunque di condannare il Signor des Cartes se il suo sistema
del cervello non si trova interamente conforme all’esperienza. L’eccellenza
del suo spirito, che appare in modo particolare nel suo Trattato sull’uomo,
copre gli errori delle sue ipotesi. Noi vediamo che Anatomisti di grandi
259
capacità, come Vesalio (1) e altri, non hanno potuto evitarne di simili.
E se sono stati perdonati gli errori a questi grandi uomini, che hanno
trascorso la miglior parte della loro vita nelle dissezioni, perchè vorreste
essere meno indulgenti nei confronti del Signor des Cartes, il quale ha
impiegato molto felicemente il suo tempo in altre speculazioni? Il rispetto
che io credo di dovere, insieme a tutti, agli spiriti di questa levatura mi
avrebbe trattenuto dal parlare dei difetti di questo Trattato. Mi sarei
accontentato di ammirarlo con alcuni come la descrizione di una bella
macchina, completamente di sua invenzione, se non avessi incontrato molte
persone che lo prendono sotto tutto un altro aspetto e che vogliono farlo
passare per un’esposizione fedele di quanto vi è di più nascosto negli
ingranaggi del corpo umano. Dato che queste persone non si arrendono alle
dimostrazioni molto chiare del Signor Sylvius, che spesso ha fatto vedere che
la descrizione del Signor des Cartes non si accorda con la dissezione dei corpi
che descrive, è necessario che, senza riportare qui tutto il suo sistema, ne
sottolinei loro alcuni punti, dove sono certo che egli non chiederà loro che di
veder chiaro e di riconoscere una grande differenza fra la macchina che il
Signor des Cartes si è immaginata e quella che noi vediamo quando
pratichiamo l’Anatomia dei corpi umani. La ghiandola pineale è stata in
questi ultimi tempi l’argomento delle più grandi questioni sull’Anatomia del
cervello, ma prima di entrare nel merito e di risolvere la questione del luogo
in cui essa si trova, occorre che io faccia vedere innanzitutto l’opinione del
Signor des Cartes al riguardo e ciò con le sue stesse parole. Ecco diversi passi
dove ne parla e che sono confermati da altri luoghi del suo Trattato che si
possono vedere alla fine di questo discorso.
La superficie della ghiandola ha un rapporto con la superficie interna del cervello. Q.
Nelle cavità del cervello i pori sono opposti direttamente a quelli della piccola
ghiandola. F.
Gli spiriti colano da tutti i lati della ghiandola nelle cavità del cervello. D.
La ghiandola può servire alle azioni nonostante che essa penda ora da una parte ora
dall’altra. L.
I piccoli tubi della superficie delle cavità sono rivolti sempre verso la ghiandola, e si
possono facilmente girare verso i diversi punti di questa ghiandola. E.
Così non si può dubitare che egli non abbia creduto che la ghiandola pineale
fosse interamente nelle cavità del cervello.
1 A Vesalii De humani corporis fabrica libri septem, liber VII, cap. I, pp. 622-623.
260
Non bisogna fermarsi su quello che il Signor des Cartes dice in alcuni punti,
cioè che essa è collocata all’entrata delle cavità. Perchè questo non è affatto
contrario a quello che dice altrove; infatti, data la sua dimensione, essa può,
secondo la sua opinione, occupare lo spazio che è verso l’ingresso delle
cavità, o qualche altro punto delle stesse, ed essere sempre all’interno, come
egli dice in tutti gli altri passi.
Vediamo ora se questa opinione si trova conforme all’esperienza.
È vero che la base della ghiandola è immediatamente contigua al passaggio
dal terzo al quarto ventricolo, come lo vedete rilevato nella figura. Ma la
parte posteriore della ghiandola, che è come dire la sua metà, è talmente fuori
delle cavità che è molto facile soddisfare gli spettatori su questo punto.
Perciò non vi è altro da fare che estrarre il cervelletto ed una delle eminenze
di uno dei tubercoli del terzo paio, o tutte due, se volete, senza toccare i
ventricoli, perchè, se la cosa è stata fatta con destrezza, vedrete la parte
posteriore della ghiandola tutta scoperta senza che vi appaia alcun passaggio
attraverso cui l’aria o qualche liquido possa entrare nei ventricoli.
Ora, per venire in chiaro riguardo alla situazione della sua parte interna, e
per far vedere che essa non è nelle cavità laterali, non si ha che da
considerarle dopo averle aperte, sia che aprendole ci si sia serviti del metodo
del Signor Sylvius che di quello degli Antichi; perchè si vedrà sempre la
consistenza della sostanza del cervello fra la ghiandola e le concavità laterali.
Si può anche dimostrare questa verità senza tagliare la sostanza del cervello,
separandone dalla sua base la parte che contiene le concavità oggetto della
questione, perchè così facendo troverete la ghiandola talmente fuori da
queste concavità che essa stessa non può riguardarle in nessun modo,
essendone impedita dai legamenti che uniscono questa parte del cervello alla
sua base. Gli antichi sapevano che la parte del cervello comunemente
chiamata volta, o fornice, non è continua con la base del cervello, ma ne
sostiene la sostanza ripiegata, e in tal modo essa forma al di sotto una terza
cavità. È vero che spingendo con forza dell’aria nell’apertura del canale dei
tubercoli del secondo paio, l’aria, sollevando la volta, spezza i filetti che la
congiungono con la base e fa apparire una cavità assai grande. Da ciò deriva
che si è immaginato che quando gli spiriti gonfiano le cavità, la volta si eleva,
e che la superficie della ghiandola guarda da tutti i lati la superficie delle
cavità.
Io dico che se lo è immaginato, perchè anche nel caso che la volta si sollevi
nel modo che ho detto non vi è che la superficie anteriore della ghiandola
che possa guardare verso le cavità laterali. Per il resto si facciano pure le
261
preparazioni che si vogliono, non si faranno mai tali che la parte posteriore
della ghiandola guardi i ventricoli posteriori. Ma se voi non forzate il cervello
rompendone il cranio e facendovi entrare dell’aria a forza fra le sue parti, o
usandogli qualsiasi altra violenza, non troverete cosa alcuna in questo terzo
ventricolo, il cui centro è molto stretto e occupato soltanto dalla grande vena
che forma il quarto seno e dai corpi ghiandolari che accompagnano questa
grande vena.
Riconosco che dietro questa fessura, e precisamente al di sotto del suo foro
posteriore, si trova una cavità che è come tappezzata, davanti e di lato, dalla
parte del plesso coroide che sale verso il quarto seno, e di dietro è chiusa
dalla ghiandola pineale, la cui parte anteriore è interamente continuata, e
quando si è levato il fornice, o volta, questa cavità resta completamente sotto
la prima e assomiglia in qualche modo a un corno rovesciato.
Riguardo a quel che dice il Signor des Cartes, che la ghiandola può regolare
le azioni perchè inclina ora da un lato ora dall’altro, l’esperienza ci assicura
che essa ne è del tutto incapace, perchè ci fa vedere che è talmente bloccata
fra tutte le parti del cervello e talmente congiunta da tutti i lati con queste
stesse parti, che non potreste darle il minimo movimento senza forzarla e
senza rompere i vincoli che la tengono legata. Per quanto riguarda la sua
posizione è facile mostrare il contrario di quanto sostiene il Signor des
Cartes, perchè essa non è a piombo sul cervello, non è girata sul davanti come
la credono molti fra i più esperti, ma la sua punta guarda sempre il
cervelletto e con la base forma un angolo che si avvicina al semirette. La
connessione della ghiandola col cervello mediante le arterie non è per niente
più vera, perchè la circonferenza della base della ghiandola è attigua alla
sostanza del cervello, o, per meglio dire, la sostanza della ghiandola è
continua col cervello, ciò che è completamente il contrario di quanto egli dice
nell’articolo H.
L’ipotesi delle arterie raccolte intorno alla ghiandola e che salgono verso il
grande Euripe non è di poca conseguenza per il sistema del Signor des
Cartes, perchè da ciò dipende la separazione degli spiriti e il loro movimento.
Tuttavia, se credete ai vostri occhi, troverete che questo non è che un insieme
di vene che vengono dal corpo calloso, dalla sostanza bianca interna del
cervello, dal plesso coroide, da diversi punti della base del cervello e dalla
stessa ghiandola; che sono vene e non arterie, e che esse riportano il sangue
verso il cuore, mentre le arterie lo portano dal cuore verso il cervello. Alcuni
hanno creduto che il Signor des Cartes volesse continuare i nervi fino alla
ghiandola, ma questa non è stata affatto la sua opinione.
262
Gli amici del Signor des Cartes, i quali prendono il suo Uomo per una
macchina, avranno senza dubbio per me la bontà di credere che qui non
parlo affatto contro la sua macchina, di cui ammiro l’artificio, ma per quelli
che cercano di dimostrare che l’uomo del Signor des Cartes è fatto come gli
altri uomini; l’esperienza dell’Anatomia dimostrerà loro che questo loro
proposito non avrà successo. Mi si dirà che essi si credono pure fondati
sull’esperienza e sull’Anatomia. A ciò rispondo che non vi è niente di più
abituale che fare errori senza accorgersene, quando si disseziona il cervello.
È quanto si vedrà chiaramente nel corso di questo discorso. Avrei avuto
l’intenzione di riferire gli altri sistemi del cervello, mediante i quali si son
volute spiegare le azioni animali, l’origine e le parti delle sierosità del
cervello, ma ho considerato poi che questa sarebbe un’impresa che
richiederebbe più applicazione e più tempo disponibile di quanto me ne lasci
il progetto del mio viaggio.
Le dissezioni, o le preparazioni, essendo soggette a tanti errori, ed essendo
stati gli Anatomisti fino ai giorni nostri assai portati a farsi dei sistemi, e ad
adattarvi la mollezza di queste parti, non c’è da meravigliarsi se le figure che
se ne fanno non sono esatte. Ma gli errori della dissezione non sono la sola
causa di quello che manca alla loro esattezza; il disegnatore vi mescola
talvolta l’ignoranza della propria arte; la difficoltà che s’incontra a dare nel
disegno il rilievo e la profondità a queste parti, e quello di farne ben
intendere quello che c’è da osservare in esse con maggior cura, gli servono
spesso di scusa. Le migliori figure del cervello che noi abbiamo avuto finora
sono quelle che ci ha dato il Signor Willis. Gli sono tuttavia scappati dentro
degli errori qua e là che importa rimarcare, e vi sarebbero da aggiungere
molte cose per renderle perfette. Nella terza figura egli rappresenta la
ghiandola superiore, in altri termini la ghiandola pineale, come una palla
rotonda; se essa fosse senza punta come la sua figura la rappresenta, non si
potrebbe dire che la sua punta guarda più il davanti che il dietro. Neppure
vi vedete alcunchè della sostanza del cervello che è davanti alla base della
ghiandola e che passa oltre, da un lato all’altro del Cervello e, secondo la
figura, voi pensereste che non vi fosse nulla davanti. Dietro la ghiandola
appare uno spazio fra i corpi del terzo paio di tubercoli che si incontra nella
base del cervello, spazio che è completamente diverso da come si vede al
naturale. L’esigua espansione della sostanza bianca del cervello, che si
continua col centro del cervelletto, e che in questo punto è molto spessa, non
vi si trova affatto, né vi si trova la vera origine dei nervi sensori che escono
da questa stessa espansione. Fa pure apparire separati i corpi del secondo
263
paio di tubercoli, anche se in genere essi stanno insieme. Il di sotto della volta
vi appare tutto di una stessa sostanza, tuttavia vi si trovano delle
ineguaglianze e una struttura molto elegante. Il corpo striato, o raggiato, fa
apparire, in verità, dei raggi, quando lo si seziona trasversalmente; ma essi
sono assai diversi da quelli che ci sono rappresentati dalla fig. 8 del Signor
Willis. Voi vi immaginereste, vedendola, che questi raggi bianchi si
continuano con la parte anteriore del medesimo corpo striato, o raggiato;
mentre la parte anteriore di questo corpo è di una sostanza grigia, che
passando fra i raggi bianchi fa sì che con questo modo di dissezionare essa
non sembra nè tendere nè essere congiunta ad alcun altro corpo.
Nella terza figura, l’infundibulum, o imbuto, non ha niente che lo avvicini al
naturale: i nervi che fanno muovere gli occhi hanno posizione diritta, invece
essi dovrebbero essere girati; non vi vedete la vera origine dei filetti che
escono dalla base del cervello per comporre questi stessi nervi. Il ponte di
Varolio avrebbe potuto essere rappresentato meglio e più distintamente;
come pure le basi anteriori della volta, che vedete nella settima e nell’ottava
figura, non sono separate come queste figure le fanno sembrare, ma esse si
toccano in alto, dove formano un angolo acuto.
La linea segnata GGG nella settima figura sembra una linea continua, anche
se ciò che è rappresentato fra le basi della volta non ha nessuna connessione
con le estremità. Nella medesima figura la ghiandola pineale è connessa alla
sostanza bianca del cervello mediante due cordoncini. Non parlerò delle
figure di Vesalio, Casserio (1), ecc.; perchè dopo che le ultime e le più esatte
sono così lontane dalla perfezione che potevano avere, è facilmente intuibile
come si debbano giudicare le altre.
Non ho visto che tre figure di Varolio (2) che rappresentano molto male i più
bei rilievi che mai ci siano stati dati del cervello. Io non so se le figure della
prima edizione, che è quella di Padova del 1573, sono migliori di quelle che
ho visto, che sono di Francoforte del 1591, e che si trovano anche
1 Julii Casserii Placentini… Tabulæ anatomicæ LXXIX, omnes novæ nec ante hac visæ.
Daniel Bucretius… XX, quæ deerant supplevit et omnium explicationes addidit, Venetiis,
1627, lib. X, pp. 85 sgg.
2 Constanti Varolii… De nervis opticis, multisque aliis præter communem opinionem in
264
nell’Anatomia di Bahuin (1). Fra quelle del Signor Bartholin (2) ve ne sono tre
che rappresentano le sezioni secondo il modo di sezionare il cervello dato da
Sylvius, in cui l’autore stesso avverte il lettore di alcuni errori. Ma senza
soffermarmi su molti altri errori, che generalmente si trovano in questi
disegni, dirò soltanto che non esiste alcun disegno in cui si trovi la vera
posizione della ghiandola, nè il vero condotto del terzo ventricolo. In egual
modo, non ne abbiamo che rappresentino bene il plesso o la rete coroidea,
nè che ci rappresenti la ramificazione delle vene contenute nelle concavità
laterali, la distribuzione delle arterie, la conversione di molte vene che
formano il quarto seno, nè i corpi ghiandolari che vi si trovano in notevole
quantità.
Vedete dunque, Signori, in che modo si è fatta fino a oggi la dissezione del
cervello, la poca luce che se ne è ricavata, e come le figure rappresentino poco
fedelmente le parti che dovevano presentare. Da questo giudicate che fede si
debba prestare a spiegazioni fatte sopra così cattivi fondamenti. È anche
accaduto che quelli che si sono messi a dare queste spiegazioni, per non so
quale mentalità che si riscontra nella maggior parte di coloro che hanno
scritto sull’arte, hanno fatto ricorso a termini molto oscuri e a comparazioni
così poco appropriate che esse creano imbarazzo quasi in egual misura allo
spirito di coloro che s’intendono della materia e di coloro che se ne vogliono
istruire. D’altra parte, la maggior parte di questi termini sono così bassi e così
indegni della più nobile parte materiale dell’uomo che mi meraviglio tanto
della sregolatezza di chi li ha adoperati per primo, quanto della pazienza di
tutti gli altri, che, dopo così lungo tempo, continuano a servirsene. Che
bisogno vi era di adoperare le parole nates, testes, anus, vulva, penis, dal
momento che esse hanno così poca relazione con le parti che indicano
nell’Anatomia del cervello? In effetti esse rassomigliano così poco a tali parti
che quello che uno denomina nates, un altro lo chiama testes, ecc.
Il terzo ventricolo è un termine assai equivoco. Gli antichi hanno chiamato
in tal modo una cavità sotto la fornix, o volta, che essi credono separata dalla
base del cervello, e l’hanno rappresentata come posta su tre piedi per
sostenere il corpo del cervello che vi si appoggia sopra.
265
Il Signor Sylvius prende per il terzo ventricolo un Canale che si trova nella
sostanza della base del cervello, fra l’imbuto e il passaggio che va sotto le
due paia posteriori dei tubercoli del cervello verso il quarto ventricolo.
Taluni, quando eseguono le sezioni, separano i corpi del secondo paio dei
tubercoli e prendono per il terzo ventricolo lo spazio intero che si trova fra
questi due corpi, quello che essi hanno determinato separandoli, di modo
che il terzo ventricolo viene ad essere ora la fessura al di sopra, ora il Canale
di sotto; e gli altri vogliono che sia lo spazio fra il Canale e la fessura,
determinato dalla rottura dei corpi di cui ora ho parlato. Ecco dunque tre tipi
di terzo ventricolo molto differenti di cui soltanto il secondo è vero nel
naturale. In quanto che il primo e il terzo sono completamente una
conseguenza della preparazione.
Si potrebbe aggiungere un quarto significato se si volesse prendere la piccola
fessura che è sotto la volta per un passaggio dei due ventricoli anteriori nel
quarto ventricolo. Ma essa è molto piccola, e talmente piena dei vasi e dei
corpi ghiandolari della rete coroidea che dubito molto vi sia lì qualche
comunicazione fra i ventricoli anteriori ed i posteriori, dato che il terzo
ventricolo secondo la definizione del Signor Sylvius è abbastanza grande per
questo. Anche la posizione di questo Canale del Signor Sylvius è talmente
propria a quest’uso che, se voi volete che qualche cosa vada dai ventricoli
laterali al quarto ventricolo nulla vi può andare prima che l’imbuto e questo
Canale ne siano stati riempiti.
Nel cervello noi contiamo due ghiandole, sebbene non sappiamo se l’una o
l’altra abbia, oltre la figura, qualche cosa in comune con le ghiandole; la quale
figura, se la si esamina bene, non la si troverà per nulla conforme a quella
delle ghiandole.
La ghiandola superiore, o pineale, non assomiglia affatto alla pina, nè in tutti
gli animali, nè nell’uomo stesso.
La ghiandola inferiore viene chiamata pituitaria, sebbene non si abbia la
minima sicurezza che eserciti la sua azione sulla pituita.
Il Plesso Coroide rappresenta una Rete di vasi; tuttavia voi vi vedete
facilmente le vene distinte dalle arterie e potete con la stessa facilità seguire
la distribuzione delle une e delle altre separatamente. Il nome di volta vi fa
pensare ad una cavità fatta a volta, la quale però non vi si trova quando voi
la cercate come si deve. Il Corpo calloso, secondo l’uso comune, significa la
sostanza bianca del Cervello che si vede quando si separano le due parti
laterali; ma la verità è che questa parte è completamente simile al resto della
sostanza bianca del Cervello, e così non v’è motivo di dare un nome
266
particolare a una parte di questa sostanza.
Non vi sono che due vie per giungere alla conoscenza di una macchina: l’una,
che il costruttore ce ne riveli l’artificio, l’altra, di smontare fino i più piccoli
ingranaggi e di esaminarli tutti, separatamente e insieme.
Questo è il vero modo per conoscere l’artificio di una macchina, e tuttavia i
più hanno creduto che l’avrebbero indovinata meglio di quanto non fosse
facile vederla esaminandola da vicino mediante i sensi. Si sono accontentati
di osservare i suoi movimenti, e soltanto sopra queste osservazioni hanno
fondato dei sistemi che hanno dato per verità, quando hanno creduto che in
tal modo potevano spiegare tutti gli effetti che erano venuti a loro
conoscenza. Non hanno considerato che una medesima cosa può essere
spiegata in maniera diversa, e che non vi sono soltanto i sensi che possono
assicurarci che l’idea che noi ce ne siamo formata è conforme alla natura. Ora
il cervello, essendo una macchina, non è il caso che noi speriamo di trovarne
l’artificio attraverso altre vie da quelle di cui ci si serve per trovare l’artificio
delle altre macchine. Non ci resta da fare altro che quello che si farebbe in
altra macchina, cioè smontare pezzo per pezzo tutti i suoi ingranaggi e
considerare quello che possono fare separatamente e insieme. È in questa
ricerca che si può dire con ragione che ben piccolo è il numero di coloro che
al riguardo hanno dimostrato l’ardore di una vera curiosità. La Chimica ha
avuto in tutti i secoli dei privati e dei Principi che le hanno fatto costruire dei
laboratori, ma pochi si sono applicati con altrettanto ardore all’Anatomia.
Non è che ciò sia dipeso dai principi; se ne sono incontrati molti che hanno
avuto dell’interesse per una conoscenza così importante, e che hanno fatto
costruire dei magnifici teatri destinati alle dissezioni, che essi stessi hanno
talvolta anche onorato della loro presenza. Ma quelli che fanno le dissezioni
hanno sempre voluto apparire consumati in questa scienza, non uno di loro
ha voluto confessare quante cose restassero da imparare, e per nascondere la
loro ignoranza, essi si sono accontentati di fare le dimostrazioni di quello che
gli Antichi hanno scritto.
Gli Anatomisti avrebbero motivo di lamentarsi di me, se non mi spiegassi di
più per far vedere che essi non hanno tutto il torto di cui sembra che li accuso,
quando dico che essi non si applicano abbastanza alle ricerche Anatomiche.
Quelli che vi si dedicano sono di solito Medici o Chirurghi; gli uni e gli altri
sono obbligati a vedere i loro malati e, dato che hanno acquisito qualche
conoscenza e qualche reputazione, non possono più dedicare il tempo
necessario alla ricerca. Ma costoro non dovrebbero mettersi a cercar di
guarire un corpo di cui non conoscono la struttura, che è come dire, non
267
dovrebbero azzardarsi a rimontare una macchina di cui non conoscono i
congegni.
Gli altri che non vedono per nulla i malati, e che non hanno altra occupazione
che la professione dell’Anatomia nelle Scuole, non si ritengono obbligati a
fare delle ricerche più di quante non ne facciano i Medici e i Chirurghi.
Poichè il fine della loro professione è di insegnare a quelli che vogliono
praticare la Medicina o la Chirurgia la descrizione che gli Antichi ci hanno
lasciato del corpo umano; e quando si è dimostrato chiaramente quello che
c’è nei loro scritti, e gli altri lo hanno imparato bene, gli uni e gli altri pensano
di aver fatto il proprio dovere. Si sono così male indicati i confini di queste
due professioni che la conoscenza reale della macchina del corpo umano, che
era la più necessaria, è stata trascurata come se non fosse del dipartimento
dell’Anatomista, nè del Medico, nè del Chirurgo. La cura di fare delle
ricerche che ci insegnano la verità richiede un uomo nella sua totalità, che
non abbia altra cosa da fare che questa. Lo stesso che fa professione
d’Anatomia non è già più al suo posto; egli è obbligato a fare dimostrazioni
in pubblico che gli impediscono di dedicarsi a questa attività per ragioni che
ho già detto e per altre che mi appresto ad esporvi.
1. Ogni parte, per essere bene esaminata, richiede tanto tempo e una tale
applicazione d’intelletto che bisogna lasciare ogni altra attività e ogni altro
pensiero per attendervi; è proprio ciò che la pratica non permette ai Medici
nè ai Chirurghi, nè più lo permettono le dimostrazioni Anatomiche a quelli
che ne fanno professione. Talvolta occorrono anni interi per scoprire quello
che in seguito può essere dimostrato agli altri nello spazio di un’ora. Io non
dubito che il Signor Pecquet non abbia impiegato assai tempo prima di
condurre il Chilo dal Mesentere fino nella succlavia, e forse non sarei creduto
se parlassi della pena che ho avuto prima di poter mostrare la vera inserzione
di questo stesso condotto del Signor Pecquet, di cui de Bils ci aveva già dato
la figura, mentre ora basta mezz’ora, o un’ora, per preparare e dimostrare
l’uno e l’altro insieme.
2. Per quanto gli Anatomisti aprano mille corpi nelle loro Scuole, è solo un
caso se riescono a scoprirvi qualche cosa; essi sono costretti a dimostrare
seguendo gli Antichi e occorre anche per questo che essi si attengano a un
certo metodo. Le ricerche invece non ammettono alcun metodo, ma vogliono
essere saggiate in tutti i modi possibili.
Bisogna tagliare tutto il resto per dimostrare ciò che loro si domanda; al
contrario, le ricerche richiedono che non si tagli la minima parte senza averla
prima esaminata. Se nelle Scuole si praticasse questo metodo gli Spettatori
268
prenderebbero il dissettore per un ignorante. Avrebbero ragione di
lamentarsi del tempo che farebbe lor perdere, per il fatto che spesso, dopo
aver cercato a lungo, egli non troverebbe ciò che si era proposto di
dimostrare. Da tutto questo vedete bene che coloro che hanno professato
l’Anatomia fino ad oggi non sono stati obbligati alla ricerca e che anche
avrebbero potuto non riuscirvi, di modo che non è colpa loro se l’Anatomia
non ha fatto più progressi dopo tanti secoli.
Questa scienza, parlando in generale, è stata dunque praticata con poco
successo, e le ricerche sul cervello, in particolare, sono ancor meno riuscite,
non essendo state intraprese con tutta la diligenza necessaria, a causa delle
difficoltà congiunte alla dissezione di questa parte. Vediamo tuttavia in che
cosa essa consiste, e se alcuni di coloro che vi si sono esercitati vi si sono
impegnati come la cosa merita.
Il Signor Bils si è applicato all’Anatomia senza studiare quello che ne hanno
scritto gli Antichi, ma io non dubito che egli ne avrebbe spinto più lontano
la conoscenza che ne ha se, dopo aver visto quello che gli Antichi avevano
fatto di buono, avesse impiegato il suo tempo e il suo ardore a fare nuove
ricerche. Bisogna ammettere che si vedono così belle esperienze negli scritti
di coloro che ci hanno preceduto che noi avremmo corso gran rischio di
ignorarle se essi non ce ne avessero avvertiti. È pure accaduto talvolta che
essi ci hanno detto delle verità che i nostri contemporanei non hanno
riconosciuto, per non averle esaminate con sufficiente applicazione. È vero,
d’altronde, che quello che gli Antichi e i moderni ci hanno insegnato
riguardo al cervello è talmente pieno di dispute che quanti sono i libri di
Anatomia, relativi a questa parte, altrettanti sono gli scogli di dispute, di
dubbi e di controversie. Ma tutto questo non impedisce che non si possa
trarre molto profitto dal loro lavoro, e allo stesso tempo ricavare grandi
vantaggi dai loro errori. Parlo degli Autori che hanno essi stessi lavorato.
Perchè, in quanto agli altri, che non hanno lavorato che sui lavori altrui non
si possono leggere che per diletto, e non sempre è inutile il farlo, ma
avrebbero avuto ben più meriti e i loro studi ben più grande conforto
avrebbero arrecato a quelli che lavorano, se avessero fatto una relazione
esatta di quello che gli Anatomisti hanno scritto sul cervello o se avessero
esposto, secondo le leggi dell’Analisi, tutti i modi di spiegare
meccanicamente le azioni animali, o se si fossero preoccupati di fare un
catalogo esatto di tutte le proposizioni che vi hanno trovato, fra le quali
sarebbe stato necessario distinguere accuratamente quelle che sono fondate
sul fatto e sull’esperienza dalle altre che non sono che ragionamenti. Ma non
269
vi è stato nessuno fino ad oggi che lo abbia fatto, per cui non bisogna fermarsi
se non su quelli che hanno avuto esperienza diretta di lavoro.
La prima cosa che si deve prendere in considerazione è la descrizione delle
parti, in cui è necessario stabilire ciò che è vero e certo per poterlo distinguere
dalle proposizioni che sono false o incerte. E non è sufficiente darne
chiarezza a se stessi, bisogna che l’evidenza della dimostrazione costringa
tutti gli altri a trovarsi d’accordo, altrimenti il numero delle controversie
aumenterà anzichè diminuire. Ogni Anatomista che si è occupato della
dissezione del cervello dimostra con l’esperimento quello che ne dice; la
mollezza della sostanza gli è talmente obbediente che senza neanche
pensarci, le mani formano le parti a seconda che la mente se le è prima
immaginate, e lo spettatore vedendo spesso due esperimenti in contrasto,
compiuti su una medesima parte, si trova molto a disagio, non sapendo
quale prendere per vera e, alla fine, talvolta nega l’una e l’altra per togliersi
dall’imbarazzo. È per questo che al fine di prevenire tale inconveniente è
assolutamente necessario, come ho già detto, cercare nelle dissezioni una
certezza convincente. Confesso che è difficile, ma so anche che non è affatto
impossibile. Non crediate, Signori, circa quello che ho detto, che io ritenga
che non vi è niente di sicuro nell’Anatomia, e che tutti quelli che la esercitano
ci presentino impunemente le parti formate a loro piacimento senza che il
fatto possa esser loro imputato. Voi potrete certamente avere dei dubbi, se le
parti che vi mostrano separate non sono state prima congiunte, ma sarebbe
impossibile farvele vedere congiunte le une alle altre se non lo fossero state
naturalmente. Per uscire nettamente da questo dubbio e per assicurarsi che
le parti che vi mostrano non sono state congiunte insieme, non c’è altro da
fare che esaminarle nello stato in cui si trovano naturalmente, senza forzarle
in alcun modo; ma lasciar fare a quelli che si vogliono convincere di tutto
quanto è loro possibile per mostrarle congiunte. Si può giungere alla
medesima certezza nelle altre circostanze, e particolarmente, allorchè si
tratta della posizione delle parti, a patto che non si tocchi niente senza averlo
prima esaminato e anche che, ogni momento, si dica quello che si tocca. Per
questo effetto occorre non solo essere attenti alla parte di cui ci si occupa, ma
occorre altresì riflettere su tutte le operazioni fatte prima di giungervi, le
quali possono aver determinato qualche cambiamento in questa stessa parte.
Perchè, maneggiando le parti esterne, voi spesso cambiate le interne, senza
accorgervene, e quando voi arrivate a scoprirle credete che sono tali quali vi
appaiono, e non vi accorgete che avete voi stessi cambiato la loro posizione,
e il loro collegamento con le altre parti. Ve ne riferirò qui. un esempio,
270
relativo a una questione Anatomica che è la più famosa del secolo. Coloro
che negano la continuazione della ghiandola pineale con la sostanza del
cervello, e l’attaccamento della volta con la base del cervello, non
parlerebbero di una verità di fatto con tanta sicurezza se non credessero di
esserne pervenuti alla piena conoscenza mediante prove eseguite con tutta
l’attenzione necessaria. Occorre che nelle loro esperienze essi non abbiano
considerato i cambiamenti che accadono quando se ne è tolto il di fuori, e
che, per farlo, si strappano i legamenti che congiungono il cranio alla dura
madre. Personalmente ho visto, levando la parte superiore del cranio, che la
parte centrale della dura madre era ancora attaccata, nonostante che io
l’avessi già aperta abbastanza per far passare tre dita fra le parti separate del
cranio. Come potrebbe essere prodotto questo sollevamento della dura
madre senza che le parti interne che vi sono attaccate soffrissero per questa
violenza? La ghiandola pineale aderisce al quarto sinus, che è attaccato al
sinus falcis, di modo che non potreste sollevare neppure di poco la dura
madre in questo punto senza forzare la ghiandola pineale. Il medesimo sinus
della falce riceve tutte le vene che passano tra la volta e la base del cervello e
tengono queste due parti congiunte insieme. Vi è una connessione assai
solida fra la parte superiore del cervello e la dura madre, e quando voi
sollevate la dura madre, la sostanza superiore del cervello che vi è attaccata
obbedisce simultaneamente; e il quarto sinus, essendo tirato in alto, fa sì che
la connessione che è tra la volta e la base si rompe. All’inizio, io mi ci sono
ingannato più volte, e non potevo comprendere perchè queste adesioni non
erano sempre sensibili. Ma vedendo poi, nei Cavalli, nei montoni, nei Gatti,
dove la parte della dura madre che separa il cervelletto dal cervello è indurita
in osso, che io danneggiavo molto le parti anteriori nel fare l’asportazione di
questa parte ossea, cominciai a riconoscere la causa di questo errore, e mi resi
conto che non era affatto una operazione di poche conseguenze il fare una
buona separazione del cranio. Si fa sempre una sezione circolare nel cranio
umano, per levarne il segmento superiore, ma se si facesse un’altra sezione
in questo segmento, perpendicolare alla prima, lo si leverebbe con più
facilità, senza forzare molto il cervello. Perchè bisogna confessare che le
forbici, la sega, le tenaglie, non si lasciano mai maneggiare senza forza e
senza scuotimento o strappamento. Si potrebbe far fare una piccola sega,
completamente circolare, che non produrrebbe un grande strappamento,
soprattutto se la si facesse girare su un asse preparato in un certo modo, e
posto fra due colonne acuminate. Questa stessa sega potrebbe servire per
eseguire diverse altre operazioni che possono maturare nella separazione del
271
cranio, ma se si avesse qualche liquido che potesse disciogliere le ossa in
poco tempo, o ammorbidirle, non ci si potrebbe augurare niente di più utile,
e questo sarebbe il modo migliore di separare il cranio.
Non è sufficiente avere ad ogni istante la massima attenzione, bisogna
aggiungervi il cambiamento dei modi di dissezione che sono come tante
prove della verità della vostra operazione, e che possono in pari tempo
accontentare voi stessi e convincere gli altri.
Questo sembrerà ben strano a coloro che credono che vi sono delle Leggi
fisse, secondo le quali si deve fare la dissezione di ciascuna parte, e che
ritengono che i modi di fare Anatomia dati dagli Antichi devono essere
rispettati alla lettera, senza che vi sia nulla da cambiare, né da aggiungere.
Ammetterò apertamente che gli Antichi ci avrebbero potuto dare delle regole
inviolabili della dissezione se essi ne avessero avuto una conoscenza
perfetta, ma dal momento che ne sono poco informati come i nostri
contemporanei, e su diversi particolari, ancora meno di noi, essi sono stati
incapaci quanto noi di prescrivere il vero metodo di dissezionare, su cui non
vi sia nulla di costante, né di fissato, fino a quando si siano fatte nuove
scoperte. Occorrerà pure, mi si dirà, servirsi di qualche metodo, per
dissezionare le parti, secondo la conoscenza che fino a questo momento ne
abbiamo. Sono d’accordo, è bene servirsi del metodo degli Antichi in
mancanza di uno migliore, ma non però come di una cosa perfetta. La causa
principale che ha tenuto molti Anatomisti nei loro errori, e che impedisce
loro di andare più lontano degli Antichi nelle loro dissezioni, è stato il fatto
che essi hanno creduto che tutto fosse stato ormai così ben rilevato che non
restava più niente da fare per i moderni nel campo della ricerca, e dato che
hanno preso le antiche regole della dissezione per leggi inviolabili, in tutta
la loro vita non hanno fatto altro che la dimostrazione delle stesse parti, con
uno stesso metodo, mentre invece l’Anatomia non deve assoggettarsi a
nessuna regola, e deve cambiare ogni volta che da inizio a una dissezione.
Da ciò essa ricava questo vantaggio, che se non sempre scopre qualcosa di
nuovo, essa riconosce almeno se si è ingannata in quello che ha visto prima,
soprattutto nel caso di dispute; perchè essa deve allora lasciare agli spettatori
la libertà di stabilire le regole della dissezione.
È vero che questo modo di dissezionare non è spettacolare e che non si può
fare il sapiente al tempo stesso in cui si confessa la propria ignoranza. Per
quel che mi riguarda io preferisco confessare la mia ignoranza piuttosto che
spacciare con autorità opinioni la cui falsità sarà dimostrata qualche tempo
dopo da altri. Noi abbiamo visto dei grandi Anatomisti che sono caduti in
272
questo inconveniente e ne vediamo altri ancora che s’immaginano che il
mondo avrà più fiducia nella loro ostinazione che nei propri occhi. Lascio
questo amor proprio a chi se ne compiace; io cerco di seguire le leggi della
filosofia che ci insegnano a cercare la verità dubitando della sua certezza, e a
non accontentarsi prima di essere stati convinti dall’evidenza della
dimostrazione. Non posso darvi prove più evidenti della necessità di
cambiare le dissezioni che le due che seguono. È un’esperienza ben provata
che quando uno ha insufflato nell’inizio della fessura che si trova sotto la
volta, trova la volta separata dalla base, e una cavità assai considerevole fra
le due; allo stesso modo che si fa quando si toglie con forza il cranio, come
ho detto sopra. Si tratta di una cosa talmente evidente che quelli che lavorano
e quelli che assistono a questa operazione credono che non si possa fare nulla
di più certo; se si comincia a dubitarne, non vi è altro mezzo per liberarsi da
questo dubbio che cercare di dare la dimostrazione di questa cavità
attraverso altre vie. Perchè se essa vi si trova naturalmente, la troverete
sempre comunque, in qualsiasi modo la cerchiate, ma se mediante qualche
altro modo di sezionare troverete che non vi è, e che le parti fra le quali
questa cavità si dovrebbe incontrare sono attaccate insieme, senza spazio fra
di loro, voi dovete conseguentemente convincervi dell’errore della prima
dimostrazione, e vedrete chiaramente che la forza dell’aria che vi era stata
insufflata vi aveva causato questa apparenza.
Se si fa la dissezione del cervello umano alla maniera di Varolio e di Willis,
dopo averlo levato dal cranio, vedrete ordinariamente i corpi del secondo
paio dei tubercoli separati fra la sostanza bianca che è davanti alla ghiandola
e che sarà il più spesso rotta.
Quando si fa la medesima dissezione lasciando il cervello nel cranio, si
vedono l’uno e l’altro tutti interi, ed è facile notare allora, facendo una
comparazione fra queste due dissezioni, che la causa del primo errore era
stata la pesantezza delle parti laterali, che rompono quelle di mezzo.
Dopo che sarà stato fatto un piano veritiero e molto esatto delle parti del
cervello, scoperti gli errori con le loro cause, e fissato il vero modo di
dimostrare queste parti, usando tutte le precauzioni necessarie, occorrerà
ancora cercare di esporre quello che si sarà conosciuto mediante figure giuste
e fedeli; perchè sarebbe meglio non averne per niente, che averne di false o
di imperfette. Ci si serve del ritratto, quando l’originale è lontano, per
conservarne in tal modo la memoria; vi sono pure persone che non vedono
mai queste parti se non in disegno; l’avversione che hanno per il sangue
impedisce loro di soddisfare la loro curiosità mediante l’ispezione dei
273
soggetti e del naturale, a tal punto che, se le figure non sono quelle che
devono essere, esse danno false idee a coloro che se ne servono per imparare
l’Anatomia, e mettono nell’imbarazzo gli altri che se ne servono per aiutare
la propria memoria.
È per questo che bisogna impiegare tutti i mezzi possibili per averne di
esatte, a tal fine un buon disegnatore è necessario quanto un buon
Anatomista. Occorrono altresì un’applicazione e uno studio tutto particolari
per prendere come si deve le proprie misure e vedere in che modo si deve
fare la dissezione e come ordinare le parti al fine di esporre distintamente
tutto quello che vi è da vedere nel cervello. In esso si incontra una difficoltà,
che è particolare a queste sue parti, quando si vuoi fare il disegno, per il fatto
che le altre parti basta prepararle una volta sola per portare a compimento la
figura. Il cervello invece, dopo che è stato preparato, si accascia prima che se
ne sia fatto il disegno, ragion per cui bisogna disegnare da più cervelli per
portare a compimento una sola figura. Se questo non viene tenuto presente,
potrebbe essere sicuramente causa del perchè in Anatomia non vi sono
figure più imperfette di quelle del cervello.
Fin qui non ho detto nulla riguardo alle funzioni delle parti, né delle azioni
che vengono definite animali, perchè è impossibile spiegare i movimenti
eseguiti da una macchina se non si conosce l’artificio delle sue parti. Le
persone ragionevoli devono trovare questi Anatomisti affermativi molto
divertenti, allorchè dopo aver parlato della funzione delle parti, di cui non
conoscono la struttura, essi come ragione delle funzioni che loro
attribuiscono portano in campo il fatto che Dio e la natura non fanno nulla
senza uno scopo. Ma essi si sbagliano nell’applicazione che qui fanno di
questa massima generale, e quello che Dio, secondo la temerarietà del loro
giudizio, ha destinato a uno scopo, si trova poi che è stato fatto per un altro
scopo. È meglio dunque anche qui confessare la propria ignoranza, essere
più ritenuti nel decidere, e non mettersi con tanta leggerezza a spiegare con
delle semplici congetture una cosa tanto difficile.
Quello che io ho detto fino a questo momento non è ancora che la metà di
quanto credo si debba fare per avere qualche conoscenza del cervello; perchè
bisognerebbe per questo dissezionare e esaminare tante teste quante sono le
diverse specie di animali, e quante sono le diverse condizioni di ciascuna
specie. Nei feti degli animali si vede come si forma il cervello, e quello che
non si sarebbe potuto vedere nel cervello sano e nella sua interezza, lo si
vedrà nei cervelli che sono stati modificati da qualche malattia.
274
Negli animali vivi vi sono da considerare tutte le cose che possono causare
qualche alterazione alle attività del cervello, sia che esse provengano dal di
fuori, come i liquidi, le ferite, i medicamenti, sia che le cause siano interne,
come le malattie di cui la medicina conta un grande numero. Vi è ancora
questo motivo per lavorare sul cervello degli animali, il fatto che noi
possiamo trattarli come ci piace. Vi si fa la trapanazione e tutte le altre
operazioni della chirurgia, per apprendervi i modi di farle. Perchè non fare
queste stesse operazioni per vedere se il cervello ha qualche movimento, e se
applicando certe droghe alla dura madre, alla sostanza del cervello o ai
ventricoli, non si potesse apprendere qualche effetto particolare?
Si potrebbero fare anche diversi saggi, senza aprire il cranio; applicare sopra,
all’esterno, diverse droghe, mescolarne altre agli alimenti, fare delle iniezioni
nei vasi, e apprendere in tal modo ciò che può turbare le azioni animali e ciò
che è più adatto a ristabilirle quando sono turbate.
Il cervello è diverso nelle diverse specie di animali, è questo un altro motivo
per esaminarle tutte. Il cervello degli uccelli e dei pesci è molto diverso da
quello dell’uomo; e negli animali che lo hanno più simile al nostro, io non ne
ho visto neppure uno in cui non abbia trovato qualche differenza molto
evidente.
Ora questa differenza, quale che possa essere, da tuttavia qualche luce alle
ricerche e ci può far capire quello che è assolutamente necessario. Vi sono
degli animali nei quali le fibre si vedono più facilmente che nell’uomo; le
parti che nell’uomo sono mescolate e congiunte insieme, si trovano talvolta
distinte e separate negli altri animali; in altri ancora si trova la sostanza più
o meno solida, la dimensione ineguale e diversa la posizione.
Non mi dilungherò ancora, perchè sono convinto che tutti ammetteranno
senza difficoltà che noi dobbiamo alla dissezione degli animali quasi tutte le
nuove scoperte di questo secolo, e che vi sono delle parti che nel cervello
dell’uomo non sarebbero mai state riconosciute se non fossero state osservate
in quello degli animali.
Ciò che abbiamo visto finora, Signori, riguardo all’insufficienza dei sistemi
del cervello, dei difetti del metodo che è stato seguito per la dissezione e per
conoscerlo, dell’infinità delle ricerche che bisognerebbe fare sugli uomini,
sugli animali (e questo in tutte le condizioni in cui bisognerebbe esaminarli),
la poca luce che noi troviamo negli scritti di coloro che ci hanno preceduti e
tutti questi riguardi che bisogna avere quando si lavora su pezzi così delicati,
devono bene disingannare coloro che rimangono fermi a ciò che trovano nei
libri degli Antichi. Resteremo sempre in una miserabile ignoranza se ci
275
accontentiamo di quel poco di luce che essi ci hanno lasciato, e se gli uomini
più adatti a fare queste ricerche non riuniranno i loro sforzi, la loro
industriosità e i loro studi, per giungere a qualche conoscenza della verità,
che deve essere il fine principale di quelli che ragionano e che studiano in
buona fede.
276
Discour sur l’Anatomie du Cerveau, Tavola I
277
Discour sur l’Anatomie du Cerveau, Tavola II
278
Discour sur l’Anatomie du Cerveau, Tavola III
279
Discour sur l’Anatomie du Cerveau, Tavola IV
280
281
282
NICOLA STENONE. PRODROMO DI UNA DISSERTAZIONE SUI CORPI
SOLIDI NATURALMENTE INCLUSI IN ALTRI CORPI SOLIDI
Tradotto dal latino da Giuseppe Montalenti
283
personale del granduca, ed ebbe con grande larghezza materiale e possibilità
di studio: gli anni da lui trascorsi in Firenze furono fra i più felici della sua
vita. Quivi conobbe Vincenzo Viviani, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti,
Marcello Malpighi, e molti altri insigni studiosi. In Firenze la sua già scossa
fede nel protestantesimo ebbe il tracollo definitivo, e alla fine del 1667, egli
si convertì al cattolicismo. Frattanto il re di Danimarca Federico II lo
richiamava a Copenhangen, offrendogli un posto in quella università. Egli
temporeggiò alquanto, e preparò nel frattempo il Prodromus, che fu stampato
nel 1669. Partì poi da Firenze, e, per Innsbruck (1669) e Praga, giunse ad
Amsterdam (1670). Qui apprese che il re era morto, e ricevette un richiamo
dalla corte fiorentina, dove il granduca era gravemente infermo. Tornò a
Firenze: Ferdinando era morto e gli era successo Cosimo III dal quale Stenone
ebbe cordialissima accoglienza, e fu incaricato di riordinare la collezione di
minerali di Palazzo Pitti.
284
considerare un precursore di queste scienze; Studiò pure l’embriologia
nell’uovo di pollo, e vide la connessione del sacco del tuorlo con l’intestino;
vide anche la placenta dei Selaci, già conosciuta da Aristotele, la cui esistenza
fu definitivamente riconosciuta da Johannes Müller nel 1840. Sui Selaci
compì infatti importanti ricerche anatomiche, e da questo studio fu per
incidenza condotto alle investigazioni che formano oggetto della presente
opera, che si può considerare l’ultima della sua produzione scientifica, e che
è certamente il suo capolavoro.
È impossibile accennare, anche brevemente, alla quantità di acuto o precise
osservazioni di giuste induzioni, di chiare argomentazioni, che egli espone
nelle sue opere anatomiche. Egli apparteneva a quella razza di studiosi, di
cui abbiamo tanti chiari esempi, specie in Italia, nel ‘600, che, osservando e
sperimentando con mente sgombra di preconcetti, senza lasciarsi distrarre
dal vano filosofare, e procedendo con metodo rigorosamente induttivo, tanti
e tanto considerevoli contributi portò alla scienza. Noi troviamo nelle opere
di Stenone, e specialmente nel «Prodromus», quella stessa forma mentis, che
ritroviamo nei nostri sommi scienziati del sei e del settecento: da Redi a
Malpighi, a Morgagni, a Spallanzani, da Galileo a Torricelli, a Borelli, a Volta.
Lo stesso spirito di osservatore sagace, che, dall’insieme dei fatti constatati,
induce con logica acuta e dialettica stringente, senza discostarsi dai fatti, ove
non sia necessario creare un’ipotesi. Per questo noi amiamo considerare
italiana quest’opera dello scienziato danese: perchè compiuta in Italia, nata
nella corte ospitale di Firenze, tenuta a battesimo da due grandi scienziati
italiani, e condotta col metodo che caratterizza la scienza italiana di
quell’epoca, col metodo che solo ha permesso il più rigoglioso sviluppo della
scienza, in ogni tempo e in ogni paese.
Il punto di partenza degli studi che Stenone espone in questo suo scritto fu
la questione delle glossopetrae melitenses, che egli aveva già abbordato nello
studiare l’anatomia del capo degli squali, nel suo lavoro pubblicato pochi
anni prima a Firenze (Canis carchariae dissectum caput. Florentiae 1667). Erano
queste «lingue di pietra» cavate in grande abbondanza a Malta (donde il
nome di melitenses), e la loro vera natura era tuttora assai discussa, benchè
già Fabio Colonna (1626) le avesse ritenute denti di pescicani (Dissertatio de
Glossopetris. Stampata a Roma nel 1747). Stenone aveva già affermato nel
1667, sebbene in forma alquanto dubitativa, che esse dovevano interpretarsi
come denti di squali, e a meglio confortare la sua asserzione, si diede a
studiare i fossili che si cavavano dalla terra, sulla cui provenienza i pareri
285
erano, come vedremo, tutt’altro che concordi. Riconosciutane la vera natura,
potè nella presente opera, sostenere con maggior sicurezza l’origine delle
glossopetrae. Nel corso di queste ricerche fu condotto a generalizzare il
problema, e a studiare la natura e il modo di formazione dei vari corpi che si
trovano inclusi nella terra e gli strati in cui la terra appare divisa. Egli
comprese quindi nei suoi studi tutta quella che si potrebbe chiamare in senso
largo geologia: la pateontologia, la geologia s. s., la mineralogia. Si
proponeva di scrivere su questo argomento una ampia Dissertatio, il cui
contenuto è esposto a p. 31 della presente edizione, ma, richiamato come
abbiamo visto da Federico III re di Danimarca, non ne ebbe il tempo, e
volendo sdebitarsi verso il Granduca della ospitalità offertagli, temendo di
non poter scrivere neanche in futuro l’opera per esteso, per le sopravvenienti
occupazioni, compose questo Prodromus in cui riassunse in forma schematica
i principali reperti che si proponeva di esporre ampiamente nella
Dissertazione. Questa infatti non vide mai la luce: nè saprei dire se
veramente abbiamo a dolerci di ciò, poichè, sebbene Stenone non fosse molto
prolisso, come era abitudine di molti scienziati del suo tempo, penso che la
forma schematica, quasi lapidaria, in cui egli dovette redigere il Prodromus,
non sia una delle ultime cause che ancora oggi lo fanno gustare, e porre ad
esempio di chiara e concisa esposizione scientifica.
286
si limitano a considerare i fossili come lusus naturae (Olivi) e altri invece
ricorrevano a più complicate spiegazioni, come influsso degli astri (Mercati),
fermentazioni o moti vorticosi delle esalazioni terrestri (Falloppio), rocce
capaci di gestazione e di parto, e via dicendo. Citerò a caso, fra i più grandi,
alcuni dei sostenitori di questo genere di opinioni: Cardano, Agricola,
Mattioli, Imperati, Mercati, Falloppio, Aldrovandi, Kircher, Lister, Tomaso
Bartholin, Baglivi, Tournefort.
Accanto a coloro che credevano all’azione di queste ipotetiche forze naturali
e ammettevano la natura inorganica dei fossili, vi erano quelli che
riconoscevano bensì i fossili come resti di animali o di piante, ma cercavano
di spiegare la presenza di esseri marini sulle montagne e nei luoghi distanti
dal mare, con il racconto biblico del diluvio universale. E non erano pochi,
nè di poco valore: fra essi si noverano alcuni paleontologi di vaglia, come lo
spagnuolo Torrubia, lo Zeno, Knor e Walch, Scilla, Scheuchzer. Il
«diluvianismo» ebbe il suo periodo di massimo splendore nel ‘700, specie in
Inghilterra, cioè molti anni dopo la pubblicazione dell’opera di Stenone.
Pochi erano quelli che sapevano tenersi lontani da speculazioni di simil
genere, e che, con lo studio diretto dei fossili e della terra in cui sono
contenuti, seppero interpretarne la vera natura e l’origine, attenendosi a più
modeste e più vere illazioni. Abbiamo già accennato ad alcuni italiani del
Rinascimento, ad essi aggiungeremo il Cesalpino (1519-1603), che pensò ad
un lontano soggiorno del mare sui continenti, come già avevano ammesso i
Greci, e Simeone Maioli (1597), che credette invece che i fossili fossero stati
lanciati sulla terra da grandi eruzioni di vulcani sottomarini. Concetti
ambedue della massima importanza. Nel sec. XVI ancora, l’umile vasaio
Bernardo Palissy (1475-1580), riaffermò la teoria nettunistica, estendendola a
molti fenomeni geologici, e intravide la possibilità che i fossili
rappresentassero delle specie estinte. Poco dopo, il Descartes, che Stenone
cita a varie riprese, stabilì una concezione essenzialmente plutonica della
geogenia, che ancora oggi è ammessa nelle sue linee fondamentali. Cinque
anni dopo uscì l’opera di Stenone, che superò di gran lunga quella dei
contemporanei e di molti dei suoi successori.
Non ne esporremo dettagliatamente il contenuto, perchè esso emerge chiaro
da una rapida scorsa all’opera stessa: ci limiteremo ad accennare brevemente
alle parti di maggiore importanza.
Dopo avere succintamente esposto il contenuto e la ripartizione della materia
della dissertazione che egli si proponeva di comporre, e aver trattato alcuni
importanti problemi generali sulla differenza fra i liquidi e i solidi, sulla loro
287
divisione in particelle insensibili e sulla mobilità di queste, Stenone pone tre
fondamentali proposizioni: 1) sulla età relativa di due corpi solidi l’un l’altro
contigui, 2) sul luogo e 3) sul modo della formazione dei solidi. Osserva cioè
che un cristallo incluso in una roccia si è formato prima della pietra che lo
circonda, mentre uno cresciuto su una pietra si è formato dopo di questa;
che, se due solidi si rassomigliano non solo esternamente, ma anche per
l’ordinamento interno delle particelle, il luogo e il modo della loro
formazione devono essere stati simili; che ogni solido si forma in natura da
un fluido. Come ognun vede sono tre importanti e fondamentali concetti di
indole generale, che costituiscono veramente le basi della geologia (1).
Stabiliti questi, Stenone prende in esame più da vicino alcuni dei più
importanti fenomeni geologici. Tratta delle incrostazioni, degli strati della
terra, della formazione dei monti, a proposito della quale si mostra fautore
del nettunismo, come è naturale in chi esamina il terreno di Toscana, in cui i
fenomeni nettunici hanno avuto una parte predominante. Tratta
minutamente dell’erosione delle acque esterne e interne, ma non disconosce
l’importanza dei fenomeni vulcanici per la formazione delle montagne.
Dopo alcuni paragrafi di indole più specialmente mineralogica, sui quali
torneremo in seguito, egli prende in esame i fossili, riconoscendone in modo
indubbio la natura organica. Tratta prima delle conchiglie, con molte acute
osservazioni, poi delle altre parti di animali, sempre con la stessa felicità di
osservazioni e di induzioni (tranne in qualche punto, come l’interpretazione
di alcuni fossili toscani quali resti di animali dell’armata di Annibale), e delle
piante fossili. Il capitolo «sulle varie modificazioni che si riscontrano in
Toscana» che chiude il trattato, è assai importante in quanto che in esso si
gettano le basi della stratigrafia, sebbene una importanza eccessiva sia data
all’azione dell’acqua. In fine di questo capitolo, e come conclusione di tutta
l’opera, egli cerca di porre in evidenza la concordanza dei dati scientifici da
lui esposti con le parole della Sacra Scrittura sulla creazione.
Come si vede, in quest’opera sono fondati alcuni rami principali della
geologia, quali la tettonica e la paleontologia (che più tardi dovevano
contrarre così intimi rapporti) non solo per i concetti generali che lor servono
1 A proposito della formazione dei solidi da fluidi, Stenone fa poi una interessante
digressione nel campo fisiologico, dimostrando anche qui la verità di questa
affermazione. Distingue poi l’accrescimento per apposizione, proprio sopratutto
delle sostanze inorganiche, da quello per intussuscepzione, caratteristico dei corpi
organici. Ed è questo un importantissimo concetto acquisito alla scienza da Stenone.
288
di base, ma anche in quanto a indirizzo di ricerca.
L’opera di Stenone non trovò eco fra i dotti del suo tempo, come avrebbe
meritato, e rimase pressochè completamente dimenticata, finchè Elia de
Beaumont non la rimise in onore, troppo tardi purtroppo perchè essa potesse
influire sullo sviluppo della scienza secondo il suo valore. Se i
contemporanei l’avessero capita ed apprezzata le scienze geologiche
avrebbero avanzato con cent’anni di anticipo. I tempi erano tuttavia maturi
per ricerche di tal genere, e mentre il Leibniz, rifacendosi alle teorie
cartesiane, e tenendo conto dei risultati delle ricerche di Stenone, con cui era
stato in relazione, sviluppava su basi teoriche il concetto plutonico del
Descartes (sfortunatamente soltanto nel 1749 fu pubblicata per esteso la
teoria già ideata nel 1680), per opera di Ramazzini (1696), Vallisneri (1721),
Arduino (1724-1795) e Lazzaro Moro (1740) in Italia, di Werner (1750-1817) e
di v. Buch in Germania, di Hutton (1726-1797) e di Smith (1795) in
Inghilterra, lo studio della geologia proseguì sulla diritta via già segnata da
Stenone. E, dopo aver poco a poco riconquistato quanto già aveva scoperto
il Danese, proseguì, con la schiera dei geologi e dei paleontologi dei primi
dell’800 (Buckland, Mantil, Sowerby, in Inghilterra, Bronn, Goldfuss in
Germania, Brogniart, Lamarck, D’Orbigny, Cuvier in Francia, Volta, Brocchi,
in Italia) e giunse, coll’attualismo di Lyell, e avendo trovato nuovo vigore nel
connubio con la biologia attraverso la teoria dell’evoluzione, fino alle
conquiste d’oggi.
289
acqua congelata, ed aveva esposto alcune giudiziose considerazioni sulla
forma e la composizione dei minerali, riconoscendo nella omogeneità della
lor struttura un carattere differenziale fra essi e gli esseri organizzati. Già
Wentzel, Jannitzer (1568) e Johann Kepler (1571-1630) avevano ripreso lo
studio delle forme geometriche fondamentali già note ai Greci: tetraedro,
cubo, ottaedro, dodecaedro e icosaedro, e ne avevano ricavato,
combinandole in vario modo e tagliando spigoli e angoli, varie forme
derivate. Mancava ancora tuttavia la conoscenza delle fondamentali leggi
cristallografiche e della formazione dei minerali, perchè si potesse avere una
trattazione organica della scienza dei minerali. Importantissime osservazioni
a questo riguardo furono fatte da due contemporanei di Stenone, e
pubblicate poco dopo il Prodromus. Il conterraneo di Stenone Erasmo
Bartholin (1625-1698) pubblicò nel 1679 le sue ricerche sullo spato d’Islanda,
in cui aveva scoperto la doppia rifrazione, e di cui aveva misurato con una
certa esattezza l’angolo solido e l’angolo del vertice del romboedro. Le sue
ricerche furono proseguite da Christian Huygens (1629-1695), che corresse le
misure di Bartholin, ed emise l’ipotesi che i cristalli fossero formati da
particelle regolari di forma diversa a seconda delle sostanze di cui erano
formati. Gli studi in questo senso furono ancora continuati dal Newton
(1642-1726) sull’ottica, e dal Leeuwenhoek (1695), che, con l’aiuto del suo
microscopio, studiò i cristallini del gesso dei muratori e ne misurò gli angoli
con una certa precisione. Alcuni anni dopo la pubblicazione del Prodromus,
anche il Boyle (1673) pubblicò degli studi sulle gemme, di cui esaminò la
sfaldatura, e credette, come Stenone, che fossero depositate da fluidi. Egli
studiò anche la forma geometrica dei cristalli, e applicò l’esame del peso
specifico per la identificazione dei minerali.
290
riconobbe le facce del prisma e dei due romboedri (la cui combinazione egli
naturalmente interpretò come piramide) e non accennò mai a quelle del
trapezoedro e della bipiramide trigonale, che pure dovevano essere visibili
nel materiale da lui studiato. Disegnò i contorni dei cristalli, probabilmente
senza misurarne gli angoli, e riconobbe la legge della costanza degli angoli
diedri, fondamento della cristallografia, che però esprime soltanto, quasi di
sfuggita, nella spiegazione delle figure. Notevolissime sono le sue
osservazioni sulla formazione dei cristalli da sostanze fluide e sul loro
accrescimento, sebbene talora alcune induzioni non siano del tutto esatte,
come verrà dichiarato nelle note. Ugualmente importanti sono le
osservazioni sull’ematite - dei cui cristalli da delle figure svolgendone le
facce in un piano - sul diamante e sulla pirite.
Anche la cristallografia, con la scoperta della legge della costanza degli
angoli, ha dunque avuto in Stenone il suo fondatore, e lo stesso può dirsi per
lo studio della genesi dei minerali, che ebbe da lui il primo, veramente
importante contributo teorico.
Indipendentemente da Stenone, il Guglielmini (1688) riconobbe la costanza
degli angoli diedri, e affermò che i cristalli sono aggregati di minutissime
particelle regolari.
Frattanto, per l’opera di molti naturalisti e viaggiatori, come Scheuchzer
(1672-1733), Cappeller (1685-1769) Bourgnet (1678-1742), de la Hire (1710), le
conoscenze sui minerali si andavano estendendo, e si rendevano così
possibili più ampie generalizzazioni dei fatti già noti, e scoperte di nuove
leggi.
Romé de L’Isle (1772) Bergmann (1773), Werner (1774), scoprirono poi gli
stretti rapporti che legano le varie facce di uno stesso cristallo aprendo la
strada alla grande scoperta di Haüy (1784), della legge della razionalità degli
indici.
Da questo momento il progresso della mineralogia, costituitasi ormai in
scienza autonoma, avviene con celere ritmo. La cristallografia avanza
rapidamente per opera di Bernhardi (1807), Weiss (1815), Mohs (1820)
Naumann (1820) e si stabilisce l’attuale sistema cristallografico. La chimica,
di cui già si era servito nello studio dei minerali il Wallerius (1768) offre un
prezioso mezzo per la determinazione dei minerali, per lo studio della loro
composizione e formazione, e, con lo studio ottico dei cristalli, si giunge fino
alle recenti ricerche coi raggi X, che si riallacciano alle più ardite concezioni
della fisica moderna sulla costituzione della materia.
291
Abbiamo cercato di porre in luce i più importanti risultati esposti da Stenone
nell’opera che segue, e di inquadrarli nel complesso delle conoscenze
dell’epoca. Dobbiamo aggiungere che l’influenza, che il Prodromus ebbe sullo
sviluppo della scienza non fu così profonda come avrebbe dovuto. Molti
anni dovettero trascorrere, e molte faticose ricerche essere compiute, per
riconquistare quando già Stenone aveva conosciuto, specie per quanto
riguarda la paleontologia e la geologia, talchè egli può, sotto un certo aspetto,
considerarsi come un precursore. Tuttavia [nel mondo degli scienziati le sue
ricerche non rimasero totalmente sconosciute, e le troviamo non di rado
citate ed apprezzate dai suoi immediati successori. Ma certamente
l’importanza delle generalizzazioni cui egli assurse non fu esattamente
compresa dai suoi contemporanei e successori, benchè il Prodromus abbia
avuto parecchie edizioni e traduzioni.
Dieci anni dopo l’edizione fiorentina, che porta questo titolo:
292
più facile la lettura, tanta è la densità dei concetti e la concisione, che risente
un poco della fretta con cui l’opera fu scritta. Il testo seguito fu quello
dell’edizione originale di Firenze del 1669, furono però tenute presenti le
varianti delle altre edizioni, tutte accuratamente riferite dal Maar, nella sua
splendida edizione, sopra citata, delle opere di Stenone.
Al Prodromo seguono due lettere di Stenone al Granduca Cosimo III, che per
l’argomento di cui trattano si possono riallacciare ad esso. Si riferiscono ad
alcune osservazioni fatte nella grotta sopra Gresta e in quella di Moncódeno.
Furono pubblicate la prima volta in: A. Fabroni, Lettere inedite di uomini
Illustri, Firenze 1773-1775, vol. II, N. 141 e 142. Ambedue furono ristampate
dal Manni, (op. cit. p. 292-305). La seconda fu pure pubblicata, non
integralmente, da Mario Cermenati, La ghiacciaia di Moncodeno. Riv. mens. d.
Club Alpino It. Torino, vol. XVIII (1899) p. 55. Ambedue poi sono pubblicate
dal Maar nell’opera già citata. Al Prof. Vilhelm Maar, dell’Università di
Copenhagen, che mi consentì di valermi delle sue note, alcune delle quali ho
quasi integralmente riportato, segnandole con la sigla [M.], e al Prof. Aldo
Mieli della R. Università di Roma, che mi consigliò di compiere questa
traduzione, e mi fu prodigo di consiglio e di aiuto, vadano i miei
ringraziamenti.
G. M.
293
294
NICCOLÒ STENONE
PRODROMO DI UNA DISSERTAZIONE SUI CORPI SOLIDI
NATURALMENTE INCLUSI IN ALTRI CORPI SOLIDI
Serenissimo Granduca,
295
concluso che quelle terre erano sedimento di un mare torbido, e che si poteva
stabilire nei singoli luoghi quante volte il mare era stato torbido, non solo ne
ricavavo assai precipitosamente, la convinzione che tutta la ricerca
richiedesse pochissimo tempo, ma per giunta assicuravo di ciò francamente
altre persone. E quando poi più attentamente esamino i singoli luoghi e i
corpi, mi nascono giornalmente dei dubbi che l’un l’altro si succedono con
indissolubile connessione, tanto che spesso mi veggo quasi ridotto in vincoli,
quando già mi credevo prossimo alla meta. Io direi che quei dubbi sono
simili alle teste dell’Idra Lernea, perchè per uno di essi estinto ne rinascono
innumerevoli altri; o almeno mi par d’errare in un labirinto, dove quanto più
ci si avvicina all’uscita, tanto maggiori sono i giri che si incontrano.
Non mi soffermo a scusare questo mio ritardo, perchè ti consta pienamente,
per lunga esperienza, quanto sia intricata una questione avviluppata dal
legame degli esperimenti; ma poichè, compiuta gran parte di questo lavoro,
io domando il permesso di ritornare in patria, interrompendo ogni cosa, per
studiare qualche argomento anatomico, ciò abbisognerebbe pure di una
scusa, se non sapessi che non ti dispiace, nei sudditi di un altro principe,
quella obbedienza che in simile occasione ti sarebbe grata nei tuoi. Questa
mia speranza nella tua amabilità fu fatta più sicura da quella benevolenza
per cui, assegnando un liberale sussidio per lo svolgersi dei miei studi, mi
volesti lasciata completa libertà di partire ogni volta che le circostanze
l’avessero richiesto. Poichè dunque io non oserei più oltre attendere la
dilazione necessaria per condurre a termine i lavori iniziati, io farò, nel
mantenere le mie promesse, ciò che frequentemente si stabilisce per quelli
che sono impegnati da altrui denaro: essi, per non esser costretti a fallire, e
non avendo di che solvere, pagano quanto possono; così io, non potendo
eseguire tutto ciò che ti dovrei presentare, ti presenterò le cose più
importanti di quanto ho fatto, per non sembrare di averti ingannato.
Dilazionerei tutto volentieri finchè, tornato in patria, mi fosse possibile
completare i dettagli, se non mi aspettassi la stessa sorte che finora ho
dovunque incontrato, cioè di aver sempre nuovi lavori che ostacolano la fine
dei primi. L’intenzione di enumerare le glandole di tutto il corpo mi veniva
distratta dall’esame della meravigliosa fabbrica del cuore; la morte dei miei
interrompeva poi i tentativi cominciati sul cuore. Perchè non mi
approfondissi nella minuta descrizione dei muscoli, i tuoi mari ci
conosciute.
296
apportarono un Cane di prodigiose dimensioni (1), e quando già ero tutto
dedito ai presenti esperimenti ad altro mi invita una persona (2), l’obbedire
alla cui volontà è comandato dalla legge di Natura e consigliato dai grandi
benefici verso me ed i miei. Non voglio ansiosamente ricercare a qual fine
tutto ciò avvenga, e attribuire a me ciò che forse è dovuto a cause superiori.
Se a scoperte non mie con una lunga meditazione aggiungessi in certo modo
qualche cosa di mio, e certamente se mi arrestassi più lungamente a coltivare
una sola scoperta, io mi precluderei la via ad altre ricerche. Non sapendo
dunque quali altri esperimenti e studi mi rimangono in altro luogo, ho
pensato di esporre qui circa i solidi naturalmente inclusi in altri solidi, ciò che
sarà pegno del mio grato animo verso di te, pei benefici ricevuti, e darà
occasione ad altri che ne abbiano possibilità e desiderio, di coltivare con
maggior frutto gli studi di Fisica e di Geografia.
Per quanto riguarda i solidi naturalmente inclusi in altri io delineerò
dapprima brevemente il metodo della Dissertazione, poi esporrò
succintamente quanto di più singolare vi si incontra.
Dividerò la dissertazione in quattro parti, di cui la prima, che tien luogo di
proemio, dimostra che la questione di oggetti marini trovati lontano dal
mare è antica, piacevole ed utile, ma la sua soluzione fu nei primi tempi
meno dubbia, e nei secoli recenti ritornò incerta. Poi, esposte le ragioni per
le quali i moderni si sono allontanati dalle opinioni degli antichi, e perchè da
nessuno è stata finora completamente decisa la controversia, benchè si
possano leggere molti begli scritti fatti da varie persone, tornato infine a te,
dimostro che, dopo molte altre cose, che sotto i tuoi auspici furono in parte
scoperte e in parte sgombrate dagli antichi dubbi, ancora a te si deve la
speranza di poter presto porre l’ultima mano a questa questione.
Nella seconda parte si risolve il problema universale, da cui dipende la
spiegazione delle difficoltà particolari, cioè: dato un corpo provvisto di una
certa, figura, e prodotto secondo le leggi di Natura, trovare nel corpo stesso gli
argomenti che dichiarono il luogo e il modo della sua produzione. Qui, prima di
iniziare la risoluzione del problema, cerco di spiegare ogni sua parola in
1Le ricerche cui si accenna furono pubblicate nel 1667 a Firenze in un opuscoletto
dedicato pure al Granduca Ferdinando II, che porta il titolo: Elementorum Myologiae
Specimen; seu Musculi descriptio geometrica. Cui accidunt Canis Carchariae dissectum
caput, et dissectus piscia ex Ccmum genere.
2 Come è detto nella introduzione, Stenone fu richiamato a Copenhagen da
297
modo che a nessuna setta di filosofi rimanga in esse alcunchè di dubbio o
controverso.
La terza parte è destinata all’esame dei singoli solidi incinsi in solidi, secondo
le leggi trovate nella risoluzione del problema.
La quarta parte dimostra i diversi aspetti della Toscana che non sono stati
trattati dagli storici e dagli scrittori naturalisti, ed espone il modo del diluvio
universale, che non ripugna alle leggi dei moti naturali.
Io avevo anche cominciato a stendere questo scritto in italiano, sia perchè
capivo che ciò ti sarebbe piaciuto, sia per mostrare alla illustre Accademia
(1), che mi iscrisse fra i suoi, che, quanto poco io ero degno di tale onore, tanto
più ero desideroso di dimostrare lo sforzo con cui cerco di giungere a
qualche conoscenza della lingua toscana. Non malvolentieri mi vedo
imposta la necessità di cambiare questa scrittura; come infatti il viaggio
imminente mi promette una maggior quantità di cognizioni di fatti che
servono ad illustrare la questione, così la dilazione del tempo mi promette
ulteriori progressi nello studio della lingua.
Per quanto riguarda i fatti stessi, esposti nel modo suddetto, lungo sarebbe
trascrivere tutte le osservazioni con le conclusioni da esse dedotte: riferirò
perciò ora le conclusioni, ora le osservazioni secondo che mi parrà più
indicato per accennare ai fatti più importanti brevemente, e, per quanto
possibile, chiaramente.
Il perchè poi nella risoluzione delle questioni naturali non solo rimangano
molti dubbi indecisi, ma per di più, aumentino coll’aumentar del numero
degli scrittori, mi pare dipenda essenzialmente da due cause.
La prima è che pochi si assumono il lavoro di scuotere tutte quelle difficoltà,
senza la cui risoluzione la soluzione della questione stessa vien lasciata
mutila ed imperfetta. Un evidente esempio di tal fatto è la presente
questione; una sola difficoltà infatti agitava gli antichi: cioè come oggetti
marini fossero stati abbandonati in luoghi lontani dal mare, nè mai si volgeva
nella domanda se simili corpi fossero mai nati all’infuori del mare. Nei secoli
più vicini, la difficoltà degli antichi urgeva meno, essendo quasi tutti
occupati ad indagare sulla formazione dei predetti corpi; quelli che li
ascrivevano al mare tanto facevano da dimostrare che corpi di tal genere non
potevano esser prodotti, altrove; quelli che li attribuivano alla terra
negavano che il mare avesse potuto coprire quei luoghi, e tutti erano a lodare
le poco note forze della Natura, atte a produrre ogni sorta di cose; e benchè
298
una terza opinione sia abbastanza accettata, per cui parte dei detti corpi
sarebbero contenuti nel mare, parte nella terra, tuttavia quasi dappertutto vi
è un alto silenzio riguardo al dubbio degli Antichi, se non che qualcuno
invoca inondazioni e non so quale immemorabile serie di anni, ma soltanto
incidentalmente, e quasi occupandosi d’altro. Cosicchè, soddisfacendo
secondo le mie forze alle leggi della analisi, tante volte io ebbi a tessere e
ritessere la tela di questa ricerca, e ad esaminare ogni singola parte di essa,
finchè nè nella lettura degli Autori, nè nelle obbiezioni degli amici, nè nella
ispezione dei luoghi, non vidi più alcuna difficoltà che o non avessi risolto,
o almeno avessi determinato quanto mi permettevano di risolvere i fatti
finora a me noti. La prima questione era se le Glossopetre Melitensi (1)
fossero state una volta denti di cani marini. Essa si dimostrò senz’altro essere
la stessa cosa della questione generale se i corpi simili a corpi marini che si
trovano lontano dal mare siano stati una volta prodotti nel mare; trovandosi
però nella terra altri corpi simili a quelli che crescono nelle acque dolci,
nell’aria, e negli altri fluidi, se diamo alla terra la capacità di produrre questi
corpi non possiamo privarla della facoltà di generare gli altri; fu dunque
necessario estendere la questione a tutti quei corpi che, estratti dalla terra, si
trovano simili a quei corpi che vediamo talvolta crescere in un fluido; ma nei
sassi se ne trovano anche molti altri, che, se si dicessero prodotti dalla vis del
luogo, sarebbe necessario ammettere prodotti dalla stessa forza tutti gli altri;
giunsi così finalmente alla conclusione che qualsiasi solido naturalmente
incluso in un altro solido doveva essere esaminato per vedere se fosse stato
prodotto nel luogo in cui fu trovato, cioè che doveva studiarsi la natura sia
del luogo in cui lo si trova, che del luogo in cui fu prodotto; non facilmente
però si determinerebbe il luogo di origine da chi ignori il modo della
produzione, e riguardo a questo vana è ogni discussione se non abbiamo una
certa qual cognizione della natura della materia. Da ciò si vede quante
questioni bisogna risolvere perchè una sola sia soddisfacentemente risolta.
La seconda causa generatrice di dubbi, mi pare esser questa, che nell’esame
degli oggetti naturali non si distinguono quelle cose che certamente non
299
possono essere determinate da quelle che certamente lo possono: ond’è che
le sètte dei filosofi si ascrivono a due classi principali: quelli che si
riconducono alla religione, adoprano la fede anche per le stesse
dimostrazioni, persuasi che non vi è in esse quell’errore che sovente
scoprirono nelle altre asserzioni; altri invece in nessun modo mostrerebbero
di restringersi a ritener vero quello solo cui nessun uomo di mente e di sensi
sani potrebbe negar fede, e pensano che è vero tutto ciò che a lor parve bello
ed ingegnoso. Anzi gli stessi sostenitori della esperienza raramente
mantennero quella moderazione, perchè o rigettavano tutti, anche i più certi
principi della Natura, o ritenevano dimostrati i principi da loro scoperti.
Cosicchè per evitare questo scoglio, io giudico che si debba applicare
attivamente tra i fisici ciò che spesso Seneca ripete riguardo ai precetti del
costume: egli dice esser ottimi precetti dei costumi quelli che sono comuni,
che son pubblici, che da ogni scuola proclamano i Peripatetici, gli
Accademici, gli Stoici, i Cinici; e in realtà non potranno non essere ottimi quei
principii di Natura che sono comuni, che son pubblici, che tutti gli studiosi
di ogni scuola, ammettono, siano essi avidi di novità in ogni cosa, o studiosi
dei prischi dogmi.
Non voglio dunque determinare se le particelle di un corpo naturale possano
o non possano mutare in quanto a figura, se lascino o no piccoli spazi vuoti,
se vi sia in queste particelle, all’infuori dell’estensione e della durezza
qualche altra proprietà a noi ignota; le opinioni in proposito non sono infatti
comuni, e sarebbe d’altra parte un debole argomento il negare la presenza di
qualche cosa in un certo oggetto, perchè non la si può osservare.
Affermo però senza esitazione che:
1) un corpo naturale è un complesso di particelle impercettibili, accessibili
alle influenze che emanano dal magnete, dal fuoco, e talora anche dalla luce,
in qualsiasi modo si trovino dei meati aperti, sia fra le particelle, sia in esse
stesse, sia in ambedue i luoghi.
2) un solido differisce da un fluido in quanto nel fluido le particelle
impercettibili sono in perpetuo moto, e si allontanano l’una dall’altra, mentre
nel solido, benchè le particelle insensibili si muovano talvolta senza
difficoltà, tuttavia mai si allontanano l’una dall’altra, finchè il solido rimane
solido ed integro.
3) quando si origina un corpo solido, le sue particelle si muovono da luogo
in luogo.
4) finora nulla ci è noto sulla natura della materia, con l’aiuto della quale si
spiegherebbe il principio del moto e la percezione del movimento. La
300
determinazione però dei moti naturali può esser mutata da tre cause:
1° dal moto del fluido che permea ogni corpo (1): e le mutazioni che si
producono in questo modo diciamo naturalmente prodotte,
2° dal movimento degli animali: e le molte che son fatte in questo modo
dall’uomo si dicono animali.
3° dalla prima ed ignota causa del movimento: e in quelle che così avvengono
gli stessi pagani credettero esservi qualche cosa di divino. Certamente il
negare la forza di questa causa che produce effetti contrarii al solito corso
della Natura è lo stesso che negare l’azione dell’uomo nel mutare il corso dei
fiumi, nel lottare colle vele contro i venti, nell’accendere il fuoco in luoghi
dove senza di lui non si accenderebbe mai, nell’estinguere un lume che
altrimenti non cesserebbe se non per mancanza di materia, nel trapiantare
un innesto di una pianta nel ramo di un’altra, nel produrre nei mesi di mezzo
inverno frutti d’estate, nel produrre ghiaccio durante gli stessi calori estivi, e
in mille altre azioni repugnanti alle solite leggi della Natura. Se infatti noi
stessi, che ignoriamo la fabbrica del nostro e degli altri corpi, mutiamo ogni
giorno la determinazione dei movimenti naturali, perchè non potrebbe
mutarla colui che non solo conosce la fabbrica del nostro e di ogni altro
corpo, ma l’ha creata! Il voler invece ammirare nelle cose artefatte l’ingegno
dell’uomo che agisce liberamente, e negare nelle cose prodotte da Natura il
Motore libero, mi parrebbe gran semplicità nella sottigliezza, perchè l’uomo,
quando abbia prodotto qualche cosa estremamente artificiosa, non vede se
non nebulosamente nè che cosa abbia fatto, nè di quale suo organo si sia
valso, nè qual sia la causa movente quell’organo.
Questi argomenti io espongo più diffusamente nella dissertazione,
dimostrandoli con esperimenti e con ragionamenti, in modo che ne risulta
che non vi può esser nessun filosofo che non affermi ciò, seppure non sempre
con le stesse parole, o se dice cose diverse, non ammetta tuttavia delle
proposizioni da cui questa necessariamente segue. Le mie osservazioni sulla
materia, infatti hanno sempre valore, sia che si ritengano per materia gli
atomi (2), sia particelle mutabili in mille modi, sia i quattro elementi, o i
principi chimici vari quanto si voglia per la varietà dei chimici; ed anche
quanto proposi per la determinazione del moto si conviene ad ogni movente,
1 Questo fluido sottile permeante ogni corpo è qualche cosa di simile all’etere
della fisica moderna.
2 Atomi, secondo l’antica concezione, erano le particelle ultime indivisibili e
immutabili, di essi gli atomi della chimica moderna non hanno che il nome.
301
sia il movente detto forma o qualità emananti dalla forma, o Idea, o materia
sottile comune, o materia sottile propria, o anima particolare, o anima del
Mondo, o immediato concorso di Dio.
Secondo ciò io spiego i vari modi di dire accettati dall’uso comune, coi quali
spieghiamo diversamente la diversa produzione dei diversi - e talvolta degli
stessi - corpi; ogni cosa infatti che concorre in qualche modo alla produzione
di un qualche corpo, agisce o come luogo, o come materia, o come movente;
quindi quando un essere produce un simile a sè, gli fornisce il luogo, la
materia e il movimento della produzione, come una piantina inclusa nel
seme di qualche pianta ha avuto da un’altra pianta e la materia in cui fu
prodotta, e la materia da cui fu prodotta e il moto delle particelle per cui fu
formata, il che avviene certamente anche per gli animali inclusi in un seme
di animali simili.
Quando la forma particolare, o l’anima, produce qualche cosa, il moto delle
particelle nella produzione di quel corpo è determinato da un certo movente
particolare, sia esso stato movente di un altro corpo simile, o qualche altra
cosa simile a questo movente.
Ciò che è detto prodotto dal Sole, ha dai raggi del Sole il moto delle sue
particelle, in pari modo anche ciò che viene attribuito alle influenze degli
astri, potè avere dagli astri il movimento delle sue particelle; ed essendo certo
che i nostri occhi possono esser mossi dalla luce delle stelle, è fuori di
discussione che altra parte della materia possa egualmente da essi esser
mossa. Ciò che è prodotto dalla terra altro non ha da essa che il luogo in cui
si origina, e la materia somministrata per i pori del luogo stesso.
Ciò che è prodotto dalla Natura ha il movimento delle sue particelle dal
fluido penetrante, venga questo fluido dal sole, o dal fuoco contenuto nella
materia terrestre, o da qualsiasi altra causa a noi ignota, come da un
istrumento dell’anima etc.
Chi dunque attribuisce alla Natura la produzione di qualche cosa, invoca il
movente generale che occorre in ogni produzione; chi chiama in giuoco il
Sole, determina alquanto meglio il movente stesso; chi invoca l’anima o la
forma particolare porta una causa anche più determinata delle altre; ma a chi
pesi diligentemente le risposte di ognuno, nulla di non ignoto vi si presenta,
poichè la Natura, i raggi del Sole, l’anima e la forma particolare sono cose
note solo pel nome. Quando però nella produzione dei corpi, oltre al
movente, si debbano considerare anche la materia e il luogo, si vede non solo
che la risposta è più ignota del quesito stesso, ma che è del tutto imperfetta;
così quando si dicono prodotte dalla Natura le conchiglie trovate in terra,
302
mentre anche quelle che si sviluppano nel mare sono opera della Natura; la
Natura produce dunque ogni cosa, poichè il fluido penetrante agisce nella
produzione di tutte le cose, ma con diritto si potrebbe anche dire che la
Natura non produce nulla in quanto quel fluido di per sè non produce nulla,
poichè aspetta dalla materia il movente e la determinazione del luogo; ne è
esempio l’uomo: se vi è tutto il necessario egli eseguisce qualunque cosa, ma
mancando quello, egli non fece mai nulla.
Se si attribuisce alla terra la produzione di qualche oggetto, si nomina anche
il luogo, ma poichè a tutte le cose terrestri la terra fornisce il luogo almeno in
parte, il solo luogo non addiviene alla produzione del corpo, e si può dire
della terra quel che si dice della Natura, tutto esser prodotto dalla terra e, di
ciò che si origina in terra, nulla esser prodotto dalla terra.
Quel poco che è stato esposto basta a risolvere tutti i dubbi della questione
proposta, che volli qui comprendere nelle tre seguenti proposizioni.
I.
1 Questo passo è di difficile interpretazione. Ecco il testo latino: «Si corpus solidus
alio corpore solido undique ambitur, illud ex iis primus induruit, quod in mutuo
contactu sua superficie alterius superficiei proprietates exprimit». Sembra a tutta
prima che il corpo che si indurisce per primo acquisti sulla sua superficie le proprietà
della superficie di quello che si indurisce successivamente. E ciò è contrario a quanto
Stenone afferma nei capoversi che immediatamente seguono. Tuttavia così
interpreta il Mieleitner, che traduce: «Wenn ein fester Körper von einem anderen
festen Körper allseits umschlossen wird, so ist derjenige von ihnen zuerst hart
geworden, welcher bei der gegenseitigen Berührung auf seiner Oberfläche die
Eigenschaften der Oberfläche des anderen Körpers ansdrückt», e annota «Der Sinn
ist.,..: Die Oberfläche der zuerst vorhandenen Körpers zeigt die physikalischen
Eigenschaften des später gebildeten Körpers; wenn z. B. auf einen älteren harten
Körper ein weicherer niederschlagen wird, erscheint die Oberfläche des harten
Körpers ebenfalls weich, nicht umgekehrt, so dass immer der älter auf seiner
Oberfläche die Eigenschaften des jtingeren ausdrückt». Più esatto e più in accordo
con le frasi che seguono nel testo pare invece il dare all’«exprimit» un significato
attivo, quasi di «produce» o «plasma» come è reso dalla traduzione danese del Maar,
che, in tedesco, suona presso a poco così «...so ist derjenige, zuerst fest geworden,
welcher durch gegenseitige Berührung den anderen nach seiner Oberfläche geformt
303
1) in quelle terre o sassi che da ogni parte circondano e contengono cristalli,
seleniti, marcasiti (1), piante e lor parti, ossa e gusci di animali e altri corpi di
quel genere provvisti di superficie liscia, quei corpi si sono induriti nel tempo
in cui la materia delle terre e dei sassi che li contengono era ancora fluida; e
tanto è lontano dal vero, che quelle terre o sassi abbiano prodotto i corpi in
essi contenuti, che nessuno di essi era presente nel tempo in cui quei corpi
furono prodotti.
2) se un cristallo è in parte incluso in un cristallo, una selenite in una selenite,
una marcasite in una marcasite, quei corpi contenuti indurirono quando una
parte del corpo che li contiene era ancor fluida.
3) in quelle terre e sassi in cui sono contenuti pezzi cristallini e lapidei, vene
di marmo, di lapislazzuli, di argento, di mercurio, di antimonio, di cinabro,
di rame e di altri minerali di quel genere, i corpi che li contengono si
indurirono quando la materia dei corpi contenuti era ancora fluida. Dunque
le marcasiti furono le prime prodotte, poi le pietre in cui si includono le
marcasiti (2), e infine le vene minerali che riempiono le fessure delle pietre.
quando dice «crystallus». Cristallo nel senso moderno è detto «corpus angulatum»
che abbiamo tradotto, a seconda dei casi con «corpo cristallizzato» o «corpo
angolato». Selenite è la calcite, marcasite è la pirite.
2 Stenone si riferisce evidentemente alle piriti e calcopiriti toscane (Boccheggiano)
304
II.
assai importante nella petrografia moderna, e questi primi accenni di Stenone sono
di grande valore.
305
parte l’acqua dell’amnio ad esso contigua, in parte i continui vasi umbilicali
diffusi pel corion.
III.
306
superficie dell’arteria aspra (1), che viene toccata dall’aria per mezzo della
respirazione, tutta la superficie della via dell’alimento, col qual nome
intendo la bocca, l’esofago, il ventricolo e gli intestini, tutta la superficie della
vescica e dell’uretra, tutta la superficie che comunica coll’utero, almeno negli
anni della pubertà, tutta la superficie di tutti i vasi escretori, dai capillari fino
agli ostii che secernono lor contenuto nelle orecchie, nelle palpebre, nelle
narici, negli occhi, nel canale degli alimenti, nella vescica, nell’uretra
nell’utero e nella pelle, e di cui una particolare descrizione di mostrerebbe
che molti che comunemente sono giudicati intrinseci in realtà sono estrinseci.
Da ciò segue:
1) i vermi e i calcoli generati nel nostro corpo sono per la massima parte
prodotti nel fluido esterno.
2) molte parti sono necessario a quegli animali perchè esse sono colà, e non
perchè senza di esse non potrebbe esistere l’animale.
Il fluido che tocca queste superficie lo chiamo esterno, perchè comunica col
fluido ambiente per mezzo di canali e senza l’intermediario di vasi capillari,
cioè senza cribrazione, onde avviene che benchè talvolta le cavità che
contengono tali fluidi siano chiuse, quando vengono aperte secernono ogni
parte del fluido contenuto, senza distinzione.
Chiamo poi fluido interno quello che non comunica col fluido esterno se non
per mezzo dei cribri dei vasi e che perciò mai effonde naturalmente
all’esterno tutte le sue parti senza distinzioni.
È fluido interno comune quello che è contenuto nelle vene, nelle arterie e nei
vasi linfatici, almeno in quelli che si trovano fra le glandole e le vene. Chiamo
questo fluido comune perchè è distribuito in ogni parte del corpo. Nulla dirò
dell’altro fluido comune, che è contenuto nella sostanza nervosa, perchè
meno conosciuto.
Il fluido interno proprio è quello che circonda i vasi capillari del fluido
comune, ed è diverso a seconda dei luoghi altro infatti è nei parenchimi
sanguigni, altro nei parenchimi non sanguigni, altro intorno alle fibre
motrici, altro nella capsula dell’uovo, altro nella sostanza dell’utero, altro
negli altri luoghi; e non risponde infatti ne’ alla ragione ne’ all’esperienza
quell’opinione secondo cui si suoi credere che le estremità delle vene e delle
arterie terminino in ogni minima particella del corpo per distribuirvi calore
e nutrimento; esse si aprono invece dovunque vi sono cavità, nelle quali le
parti secrete dal sangue si mescolano al fluido di questo luogo e si
307
appongono alle parti solide; parimenti nelle stesse cavità ricadono dalle parti
solide le particelle logorate, che devono essere nuovamente restituite al
sangue, perchè, per sua opera, siano riportate al fluido esterno; il fluido di
queste cavità è per molti caratteri consono alla dottrina de flatibus del grande
Ippocrate. Benchè io non possa stabilire perchè in luoghi diversi sieno secreti
diversi fluidi dallo stesso sangue (1), spero tuttavia che poco manchi a ciò
stabilire essendo certo che ciò non dipende dal sangue, ma dai luoghi stessi.
La trattazione di ciò è racchiusa nelle seguenti tre proposizioni:
1) nella considerazione dei vasi capillari dei fluidi interni comuni, di cui
soltanto si occupano coloro che attribuiscono tutto alla sola filtrazione per
diversi pori, del cui numero io stesso fui per qualche tempo.
2) nella considerazione del fluido interno proprio, che soltanto riguardano
coloro che attribuiscono ad ogni parte un peculiare fermento; la quale
opinione potrebbe essere parzialmente vera, benchè il nome «fermento» si
fondi su di un paragone desunto da un fatto troppo particolare.
3) nella considerazione delle singole parti del solido, a cui specialmente si
mostrano attaccati quelli che, attribuendo ad ogni parte una sua propria
forma, mostrano di riconoscere colà alcunchè di proprio alla parte, che è però
a noi ignoto; ciò che, secondo l’attuale conoscenza della materia, non può
esser altro che la superficie porosa di questo solido e il fluido sottile
permeante quei pori. Troppo divagherei si applicassi quanto dissi a spiegare
ciò che giornalmente avviene nel nostro corpo e che non si può spiegare
altrimenti: basterà accennare a questo: che dal fluido esterno le particelle che
si separano in vari modi, sono coll’intermedio della filtrazione, portate nel
fluido interno, dove poi, secrete in vari modi, e trasmesse nei fluidi interni
proprî per un’altra filtrazione, si appongono alle parti solide, secondo il
modo delle fibre o dei parenchimi, secondo che furono determinate dalla
incognita proprietà di ogni parte, da noi racchiusa nella considerazione dei
tre punti predetti.
Se poi si vogliono ricondurre con metodo in certe classi i predetti solidi
1 Tutto questo paragrafo III è di singolare interesse, sia per la parte mineralogica
riguardante la formazione e l’accrescimento dei minerali, sia per questa digressione
fisiologica, che culmina nell’accenno alla specificità dei «fluidi interni propri» degli
organi e al loro originarsi «dallo stesso sangue». La fisiologia moderna, che ha messo
in luce questo fatto accennato da Stenone, non è molto più avanti di lui nella
conoscenza del «perchè in luoghi diversi siano secreti diversi fluidi dallo stesso
sangue».
308
naturalmente inclusi in altri solidi, si vedrà che alcuni di essi sono prodotti
per apposizione da un fluido esterno. Essi si riferiscono: o ai sedimenti, come
gli strati della terra, o alle incrostazioni, come le agate, gli onici, il calcedonio,
le etiti, la pietra bezoar (1) etc. o ai fili, come l’amianto, l’allume piumoso e
vari generi di fili che trovai nelle fessure delle pietre; o ai rami, come quelle
figure di piante che si vedono nelle fenditure delle pietre, e che non sono se
non superficiali, e certe ramificazioni viste da me in un’agata, i cui tronchi
poggiavano sulla superficie della lamella esterna, mentre i rami si
diffondevano per la sostanza della lamella interna; o ai corpi cristallini, come
i cristalli di rocca, i corpi cristallini di ferro e di rame, i cubi di marcasite, i
diamanti, le ametiste etc. o ai riempimenti, come tutti i generi di marmi
variegati, i graniti, i dendroitidi, le conchiglie lapidee, le cristalline, le piante
metalliche, e molti corpi di quel genere, che riempiono lo spazio di corpi
consumati (2).
Altri prodotti si originano per apposizione dal fluido interno, ed essi si
riferiscono, o a semplici riempimenti, come la pinguedine, il callo che unisce
le ossa rotte, la sostanza cartilaginea che connette i tendini tagliati, le
affusioni che sopratutto costituiscono la sostanza dei visceri, il midollo, sia
delle piante che degli animali; o agli organi fibrosi, come sono le parti fibrose
delle piante, e negli animali le fibre nervose e le fibre motrici, che sono tutti
corpi solidi, e che nella maggioranza dei casi sono inclusi in corpi solidi.
Se poi ogni solido è accresciuto pure da sostanza fluida, se corpi che si
rassomigliano in tutto l’un l’altro sono prodotti anche nello stesso modo, se
di due solidi l’un l’altro contigui primo si indurì quello che rappresenta colla
propria superficie le proprietà della superficie dell’altro, sarà facile, dato il
quello di una specie di nutrizione per sostanza assorbita dalla matrice, è qui per la
prima volta chiaramente accennato.
309
solido e il luogo in cui è, dire qualche cosa sul luogo della sua produzione. E
questa è la considerazione generale dello scritto di un solido contenuto in un
altro solido.
Passo ad esaminare più specialmente quei solidi cavati dalla terra, che
diedero occasione a molte controversie, e sopratutto le incrostazioni, i
sedimenti, i corpi cristallini, i gusci di animali marini, le forme di conchiglie
e di piante. Alle incrostazioni appartengono le pietre di ogni genere
composte di lamelle in cui vi sono due superficie parallele, ma non estese
nello stesso piano. Il luogo in cui si formano le incrostazioni è il confine di
un fluido e di un solido, per cui la conformazione delle lamelle o delle croste,
corrisponde alla conformazione del luogo, e facilmente si può stabilire quale
di essi si sia concretata la prima, e quale da ultimo; se infatti il luogo era
concavo, prime si sono formate le croste esterne, se era convesso, le interne;
se il luogo era ineguale per diverse prominenze notevoli, le lamelle
riempirono dapprima gli spazi più angusti, poi negli spazi più larghi si
produssero nuove lamelle; con ciò è facile spiegare tutte le varietà di
configurazione che si vedono nelle sezioni di simili pietre, sia che, sezionate
trasversalmente, rappresentino vene rotonde di un albero, sia che imitino le
pieghe sinuose di un serpente, o siano piegate in altro modo senza legge. E
non è da meravigliarsi che l’agata ed altre specie di incrostazioni sembrino,
in quanto a superficie esterna, ruvide come pietra vile, perchè la superficie
esterna della lamella esterna imita le asperità del luogo; nei torrenti poi si
trovano spesso incrostazioni di tal genere fuori del luogo di produzione
perchè la materia del luogo è stata disgiunta per la rottura degli strati.
Riguardo al modo con cui le particelle delle croste che devono essere apposte
ad un solido sono scerete da un fluido, almeno questo è certo:
1) non vi ha alcun gioco la pesantezza o la leggerezza.
2) tali particelle si appongono ad ogni genere di superficie, poichè si trovano
ricoperte di croste superficie liscie, ruvide, piane, incurvate, o composte da
più piani variamenti inclinati.
3) il movimento del fluido non è di nessun impedimento ad esse.
Se poi l’altra sostanza che fluisce dal solido sia da considerarsi diversa da
quella sostanza che muove le parti del fluido, e se qualche altra cosa sia da
investigarsi, io lascio indiscusso.
Si potrà comprendere le varietà delle lamelle nello stesso luogo, o pensando
alla diversità delle particelle, che successivamente si separano dal fluido,
man mano che esso sempre più si risolve, o alla diversità dei fluidi colà
portati in diversi tempi: donde segue che lo stesso ordine di lamelle talvolta
310
si ripete nello stesso luogo, e spesso esistono manifesti vestigi che indicano
l’ingresso di nuova materia. Infatti ogni materia delle lamelle appare essere
una più sottile sostanza esalante dalle pietre, come in molti casi chiaramente
si vede.
311
nella qual maniera anche Cartesio (1) lo spiega la produzione degli strati della
terra.
2) se in un certo strato si trovano frammenti di un altro strato, o parti di
animali o di piante, è certo che quello strato non deve essere noverato fra
quelli che si sedimentarono dal primo fluido al tempo della creazione.
3) se in uno strato noi osserviamo indizii di sal marino, spoglie di animali
marini, tavole di navi, e sostanze simili al fondo del mare, è certo che in quel
luogo esistette una volta il mare, pervenutovi o per propria inondazione, o
per sollevamento di montagne.
4) se scopriamo in uno strato abbondanza di giunchi, erba, coni di pino, rami,
tronchi, e simili, possiamo a buon diritto pensare che quelle sostanze siano
state colà portate dall’inondazione di un fiume, o dalla irruzione di un
torrente.
5) se in uno strato esistono carboni, ceneri, pomici, bitumi e corpi calcinati, è
certo che nelle vicinanze del fluido vi fu un incendio, e ciò tanto più se lo
strato si compone di sola cenere e carbone: come si vede fuori di Roma là
dove si scava il materiale per i laterizi.
6) se in uno stesso luogo vi è la stessa materia per tutti gli strati, è certo che
quel fluido non ha ricevuto fluidi di diversa natura confluenti da diversi
luoghi in tempi diversi.
7) se nello stesso luogo vi è diversa materia degli strati, o dovettero colà
confluire fluidi di diverso genere, da vari luoghi, in tempi diversi, (sia entrata
in giuoco o la varietà dei venti, o la più impetuosa caduta di pioggia in certi
luoghi) oppure nello stesso sedimento vi fu materia di diverso peso, di modo
che prima sono andate al fondo le parti più pesanti, poi le più leggere; a
questa varietà potette dare occasione la vicissitudine delle tempeste, specie
nei luoghi dove si vede simile ineguaglianza dei suoli.
8) se fra strati di terra si trovano strati petrosi, è certo che o esistettero nelle
vicinanze di questo luogo fonti di acque pietrificanti, o avvennero talvolta
delle eruzioni di aliti sotterranei, o che il fluido, ritiratosi dal sedimento
deposto - in cui la crosta superiore si indurì pel calor del Sole - vi è
nuovamente tornato.
Riguardo alla località degli strati posson dirsi certi i seguenti dati:
1) nel tempo in cui un qualsiasi strato si formava, vi era sotto allo strato un
altro corpo che impediva l’ulteriore discesa della materia pulverulenta e
1Cfr. Renati Des Cartes Principia Philosophiae... Amstelodami 1644. Pars IV § XXXII
segg., p. 205 segg. [M.]
312
quindi nel tempo in cui si formava il più basso degli strati, vi era sotto ad
esso o un altro corpo solido, o, se colà esisteva qualche fluido, esso era o di
diversa natura dal fluido superiore, o più pesante del sedimento solido del
fluido superiore.
2) nel tempo in cui si formava uno degli strati superiori, lo stato inferiore
aveva già acquistato una consistenza solida.
3) nel tempo in cui un qualsiasi strato si formava, o era cinto ai lati da un
altro corpo solido, oppure esso coperse tutto il globo terrestre. Donde segue
che, o si vedono in qualche luogo i margini nudi degli strati, o si deve
ricercare la continuazione degli strati stessi, o si deve trovare un altro corpo
solido che abbia impedito la diffusione della materia degli strati.
4) nel tempo in cui un qualsiasi strato si formava, la materia che gli
sovrastava era tutta fluida, e quindi, quando si formava il più basso degli
strati, non esisteva nessuno degli strati superiori.
Per quel che riguarda la configurazione, è certo che quando si formava un
qualunque strato, la sua superficie inferiore e anche i lati di questa superficie
corrispondevano alle superficie del corpo inferiore e dei corpi laterali,
mentre la superficie superiore era, per quanto possibile, parallela
all’orizzonte, e quindi tutti gli strati, tranne l’ultimo, sono delimitati da due
piani paralleli all’orizzonte. Da ciò deriva che gli strati perpendicolari
all’orizzonte, o inclinati rispetto ad essi, in altri tempi furono ad esso
paralleli.
E questa mutata posizione degli strati e i loro margini nudi come oggi si
vedono in molti luoghi non sono contrari a quanto fu detto, poichè nei luoghi
vicini vi sono manifesti indizii di fuoco e di acque. Infatti, l’acqua
dissolvendo la materia terrosa la porta nei luoghi inclinati, ora sulla
superficie, ora nelle cavità della terra; così il fuoco sciogliendo ogni corpo
solido che incontri, non solo asporta le più leggere particelle di esso, ma
spinge fuori talvolta anche pesi ingentissimi, per cui si formano sulla
superficie della terra precipizii, canali ed alvei, e nelle viscere della terra
meati sotterranei e caverne, per la cui formazione gli strati della terra
possono mutare posizione in due modi.
La prima maniera è la violenta spinta degli strati in alto, sia essa prodotta da
un repentino incendio degli aliti sotterranei, sia da una violenta
compressione dell’aria per altre ingenti rovine che avvengono nei pressi.
A questa spinta degli strati segue una dispersione in polvere della materia
terrosa, e una frattura in lapilli e scorie della materia petrosa.
L’altra maniera è la caduta o la rovina spontanea degli strati superiori,
313
quando, sottratta la materia inferiore o il fondamento, le parti superiori
cominciano a fendersi; da cui, per la varietà delle cavità e delle fessure segue
una varia posizione degli strati rotti, in modo che alcuni rimangono paralleli
all’orizzonte, altri divengono perpendicolari, molti formano con esso angoli
obliqui, alcuni si piegano ad arco se la lor sostanza è tenace, Questa
mutazione può avvenire o in tutti gli strati che sovrastano una cavità, o in
alcuni strati inferiori, rimanendo intatti i superiori.
Così il cambiamento di posizione degli strati rende facile la spiegazione di
vari fatti difficili.
Ci si può così rendere ragione di quelle ineguaglianze che danno occasione
a molte controversie, come i monti, le valli, i serbatoi di acqua elevati, le
pianure nei luoghi elevati o nei depressi; ma, per tacer del resto, accennerò a
qualche cosa sui monti.
Che la mutata posizione degli strati sia la principale origine dei monti, è
chiaro da ciò che in ogni serie di monti si vedono:
1) grandi pianure sulla vetta di alcuni.
2) molti strati paralleli all’orizzonte.
3) varii strati diversamente inclinati sull’orizzonte, che si dipartono dai lati
dei precedenti.
4) nei lati opposti dei monti, strati rotti, che dimostrano una totale
concordanza di materia e di conformazione.
5) nudi orli di strati.
6) alla base dei monti stessi mucchi di frammenti degli strati spezzati, parto
ammassati in collinette, parte dispersi pei campi vicini.
7) evidentissimi indizii di fuoco sotterraneo, o negli stessi monti sassosi, o
nei lor pressi, come presso ai colli composti di strati terrosi si trovano
abbondanti acque. E si deve qui incidentalmente notare che i colli che son
composti di strati terrosi, hanno per lo più come fondamento i più grossi
frammenti degli strati petrosi che in molti luoghi proteggono gli strati terrosi
ad essi sovrapposti dalle distruzioni delle alluvioni dei fiumi e dei torrenti
vicini; spesso essi difendono intere regioni dalle tempeste dell’oceano, come
dimostrano la distesa spiaggia del Brasile (1) e i dovunque diffusi litorali
pietrosi.
314
I monti possono essere prodotti altrimenti, come dalla eruzione di fuochi,
che eruttano ceneri, sassi con zolfo e bitume; nonchè dall’impeto di piogge e
di torrenti, per cui gli strati lapidei, già fessi per le alternanze del calore e del
freddo, diroccano, mentre gli strati terrosi fendendosi per i grandi calori, si
spaccano in varie parti: ond’è chiaro che due sono le principali specie di
monti e di colli; la prima di quelli che sono composti di strati: essi possono
essere di due specie: abbondando negli uni gli strati lapidei negli altri i
terrosi; la seconda di quei monti che si originano confusamente e con nessun
ordine da frammenti di strati e di parti staccate. Facilmente si può da ciò
dimostrare che:
1) tutti i monti oggi esistenti non esistettero fin dal principio delle cose.
2) non vi è alcun accrescimento organico (vegetatio) di monti.
3) i sassi dei monti non hanno nulla di comune fuorchè la somiglianza della
durezza, non concordando nè per la materia, nè per la produzione, nè per la
conformazione nè per l’uso; se pur su fatti tanto poco noti come l’uso delle
cose si possa affermare alcunchè.
4) le corone di monti o catene, come alcuni amano dire, dirette secondo certe
plaghe sulla terra, non rispondono nè alla ragione nè all’esperienza (1).
5) le montagne possono esser demolite, terreni esser trasportati da una parte
all’altra nel bel mezzo di una pubblica strada; le vette dei monti essere
elevate ed abbassate; la terra può aprirsi e nuovamente richiudersi, e si
possono credere altre cose di simil fatta, che coloro che vogliono evitare la
fama di creduloni, ritengono favolose, nel leggere le storie.
La stessa mutata posizione degli strati, da adito alle sostanze effluenti dalla
terra, come:
1) le acque che scaturiscono dai monti, che si separano dall’aria nelle caverne
delle montagne, vengano esse da acque sotterranee, o siano spinte
nell’interno in quel luogo acque condensate, come io soventissimo ebbi a
credere vedendo molte caverne che stillavano abbondante acqua sopra e
dentro ogni corpo solido.
1 Stenone si riferisce qui alla dottrina esposta dal P. Kircher (1602-1680), il dotto
gesuita noto anche per la eccessiva ingenuità di molte delle sue teorie, nel suo
Mundus subterraneus... Amstelodami 1665 (T. I e. IX, p. 68 segg.). Egli affermava che
le catene di montagne si continuano sotto l’acqua, quando giungono al mare, poichè
esse formano una sorta di armatura della terra. [M.]
315
2) i venti che erompono dai monti, siano essi aria dilatata dal calore, o siano
generati dal mutuo concorrer di diversi fluidi aerei scaldati.
3) le esalazioni fetide, le calde ebullizioni del fuoco, o le fredde etc. Nè vi è
alcuna difficoltà in ciò che luoghi freddi e secchi, ogni volta che vi sia effusa
dell’acqua possono bollire senza alcun calore; che a lato di una freddissima
fonte sgorghi una fonte calda, che una fonte calda sia cambiata in fredda pel
moto della terra e i fiumi mutino di corso; che valli d’ogni parte chiuse
spingano l’acqua fluviale ricevuta in luoghi più bassi, che i numi inoltratisi
sotto terra ritornino altrove all’aria, che gli architetti talvolta, nel gettare le
fondamenta invano si affatichino quando abbiano trovato la così detta arena
viva, come la chiamano; che in certi luoghi, quando si scavano pozzi,
dapprima si trovino acque presso la superficie della terra, poi, dopo aver
scavato per la profondità di più braccia, si trovi nuovamente dell’acqua, che,
datole adito, zampilla più alto che la prima trovata; che campi intatti, con
alberi e edifici, lentamente si abbassino, o, d’improvviso vengano inghiottiti,
e così siano ora grandi laghi dove già esistettero città; che la pianura
costituisca per gli abitanti un pericolo per tal genere di crollamenti se essi
non sono sicuri che esiste un fondamento petroso; che ogni tanto si aprano
delle voragini esalanti un’aria pestifera e che esse si richiudano sopra corpi
qualsiasi inghiottiti.
1Cfr. Athan. Kircher, China monumentis qua sacris qua profanis etc. Amstelodami
1667 p. 135, e De christiana expeditione apud Sinas suscepta ab Societate Jesu, ex P.
Matfhaei Micci... commentarijs... Auctore P. Nicolao Trigautio... Augustae Vindelicorum
316
2) la maggior parte dei minerali intorno a cui s’affaticano gli uomini, non
sono esistiti dall’origine delle cose.
3) dall’esame dei sassi si possono scoprire molte cose che invano si tentano
coll’esame dei minerali stessi; poichè è più che probabile che tutti quei
minerali che riempiono gli spazi e le fessure o le dilatazioni di rocce, abbiano
avuto origine da vapore espulso dai sassi stessi (1), sia ciò accaduto prima
che gli strati mutassero di posto, ciò che crederei essere avvenuto nei monti
peruviani (2), o quando già gli strati avevano cambiato di posto; e può
dovunque in un luogo in cui un metallo sia finito, riformarsi nuovo metallo.
E ciò gli elbani credono avvenire nelle miniere di ferro, dove tuttavia gli
strumenti di minatori e gli idoli che si trovano non sono coperti di ferro ma
di terra.
Questo pensai doversi studiare attentamente circa gli strati della terra, sia
perchè questi strati sono solidi naturalmente inclusi in altri solidi, sia perchè
in essi sono contenuti quasi tutti quei corpi che diedero occasione alla
questione proposta.
Del cristallo.
Per quanto riguarda la produzione del cristallo, io non oso stabilire in qual
modo si compia la sua delineazione; è almeno fuori di discussione, per
quanto ne fu dato leggere su questo argomento in altri autori, che non
entrano in giuoco nè le irradiazioni, nè la forma delle particelle simili alla
forma del tutto, nè la perfezione della figura esagonale, e la confluenza delle
parti verso il centro di questa; nè altro di tal genere risponde all’esperienza,
come sarà chiaro da varie proposizioni che riporterò, altrove confermate da
evidentissimi esperimenti. Per non dar luogo a confusioni, è bene spiegare
innanzi tutto i termini che userò nel nominare le parti dei cristalli.
Il cristallo si compone di due piramidi esagono, e di una colonna intermedia
pure esagona (3), in cui chiamo angoli solidi estremi quelli che costituiscono i
costituiti dal prisma esagono di I ord. [211] e da due romboedri diretto e inverso
[100] o [22l], che simulano una bipiramide esagonale. Angoli solidi significa angoli
317
vertici della piramide, ed angoli solidi intermedi quelli che sono costituiti
dall’unione delle piramidi con la colonna, e nello stesso modo chiamo piani
estremi i piani delle piramidi, e piani intermedi quelli della colonna; base dei
piani è la sezione perpendicolare ad ogni piano intermedio, e asse dei piani è
la sezione in cui giace l’asse del cristallo, che è composto dagli assi della
piramide e dall’asse della colonna.
Riguardo al luogo in cui comincia la prima concrezione del cristallo, si può
dubitare se esso sia stato fra un fluido e un altro fluido, o fra un solido e un
solido, o nel fluido stesso: invece il luogo in cui cresce il cristallo già formato,
è solido in quella parte su cui poggia il cristallo, sia essa sasso, o altro cristallo
preesistente, e il rimanente è fluido, se ne togli gli ostacoli che vi possono
essere, formati dalle ineguaglianze del sasso, o da altri cristalli già formati.
Non oso stabilire se il fluido ambiente sia acqueo: e a ciò credere non obbliga
ciò che si asserisce sull’acqua inclusa in cristalli, poichè è certo che in un con
l’acqua è colà contenuta dall’aria, e che vi sono molti cristalli che includono
aria sola: ma se il cristallo si fosse formato in un fluido acqueo tutti gli spazii
dovrebbero essere dovunque pieni di acqua, poichè è osservazione costante
che l’acqua in tal modo contenuta non può svaporarsi per nessuna serie di
secoli.
Danno il luogo ai cristalli le cavità dei sassi, prodotte in vari modi, come dissi
sopra, e non è contrario a questo che interi colli constino di materia terrosa
ricchissima di cristalli, poichè nella vicinanza di quei colli si trovano monti
petrosi atti a produrre i cristalli; e in quegli stessi colli si traggono più grossi
sassi sepolti nella materia terrosa, asportati dai monti vicini, alcuni dei quali
mostrano delle fessure piene di materia marmorea; in ugual modo sono
riempite le fessure degli strati negli stessi monti sassosi: e la stessa causa che
ammucchiò in colli frammenti di strati asportati dai monti vicini, potette
egualmente aver disseminato pei colli stessi cristalli staccati dalle cavità degli
stessi strati. Dichiarerò nelle seguenti proposizioni ciò che si può stabilire
riguardo al luogo di un cristallo cui venga apposta nuova materia cristallina:
I) Un cristallo cresce quando si apponga nuova materia ai suoi piani esterni
già delineati; e non trovo dunque alcun fondamento all’opinione di coloro
che credono che i cristalli crescano vegetando e che traggano nutrimento da
quella parte per cui aderiscono alla materia, e che quindi le particelle prese
dal fluido del sasso e trasmesse nel fluido del cristallo siano apposte
internamente alle particelle del cristallo.
diedri.
318
II) Questa nuova materia cristallina non si appone a tutti i piani, ma, per lo
più, ai soli piani dell’apice, cioè ai piani estremi. Donde: 1) i piani intermedi
cioè i piani quadrilateri, son prodotti dalle basi dei piani estremi e perciò essi
piani intermedi sotto in certi cristalli maggiori, in altri minori, e in alcuni
mancano del tutto, 2) i piani intermedi sono quasi sempre striati, mentre i
piani estremi conservano indizio della materia che vi si è apposta.
III) Ma la materia cristallina non si appone ai piani estremi nè nello stesso
tempo nè nella stessa quantità, e perciò: 1) l’asse delle piramidi non sempre
costituisce una stessa retta con l’asse delle colonne, 2) i piani estremi sono
raramente eguali fra sè, donde segue una ineguaglianza dei piani intermedi,
3) i piani estremi non sono sempre triangolari, così come non sempre sono
quadrilateri tutti i piani intermedii, 4) l’angolo solido estremo si risolve in
più angoli solidi ciò che capita sovente anche agli angoli solidi intermedi (1).
IV) Non sempre tutto il piano viene coperto dalla materia cristallina ma spazi
vuoti rimangono ora verso gli angoli, ora verso i lati, ora nel piano medio.
Da ciò segue: l) lo stesso così detto piano non ha le sue parti poste tutte nello
stesso piano, ma in piani diversi, che sono diversamente posti su di esso, 2)
un cosidetto piano si vede in molti luoghi non piano ma gobbo, 3) nei piani
intermedi nascono delle ineguaglianze simili ai gradini di una scala.
La materia cristallina apposta ai piani viene stesa dall’ambiente fluido sugli
stessi piani e indurisce lentamente: e da ciò segue: 1) la superficie del cristallo
è tanto più liscia quanto più tardivamente si è indurita la materia ad esso
apposta, mentre rimangono dappertutto delle asperità se tal materia
indurisce prima di essere sufficientemente estesa;
2) si può riconoscere il modo con cui la materia cristallina si appone ad un
cristallo, poichè se si è subito consolidata esso mostra la superficie piena di
piccoli tubercoli come variole, nello stesso modo in cui minute gocce di un
fluido oleoso sogliono galleggiare su un fluido acqueo, e presenta delle
piramidi trilatere e depresse se invece si è indurita alquanto più tardi. I
margini tortuosi della materia defluente indicano ora il luogo cui sovrastava
la materia fluida, ora l’ordine della materia apposta, cioè qual prima, quale
per ultima giunse. E in questo modo sempre si formano certe ineguaglianze
nei cristalli di rocca, nè mai vidi un cristallo le cui superficie integre siano
più lisce di quanto mostrino i lati rotti del cristallo stesso, benchè molto si
diffondano i naturalisti nel celebrare la lisciezza del cristallo cavato sui
monti; 3) ogni vicino corpo solido si è collegato al cristallo, come se vi fosse
319
stato invischiato da qualche glutine, se ha toccato la superficie non ancor
consolidata del cristallo; 4) la materia del cristallo talvolta sembra aver
defluito sui piani vicini; 5) in quei piani in cui rimase qualche luogo senza
materia cristallina appostavi, qualora giunga nuova materia cristallina e
venga stesa sui luoghi stessi, essa forma delle cavità, o produce talvolta varie
lamelle, e talora include parte del fluido esterno, che può essere aria pura, o
aria con acqua.
Il fluido esterno riceve la materia cristallina dagli strati più duri. Ciò fa sì: 1)
che sassi di diversa natura esalanti fluidi di diversa natura, producano
cristalli di colori diversi, 2) che nello stesso luogo i primi o gli ultimi cristalli
siano più oscuri, 3) che anche nello stesso cristallo le parti prima
consolidatesi, o quelle consolidatesi per ultime siano talvolta più oscure, 3)
che, consumatisi nella terra gusci e conchiglie e altri corpi, i loro spazi vuoti
siano riempiti da cristalli.
Il movimento della materia cristallina per cui si determinano i piani verso il
cristallo già formato, non nasce da un moto comune per qualche causa nel
fluido ambiente, ma si cambia in ogni cristallo, cosicchè dipende in realtà dal
movimento del fluido sottile effluente dal cristallo già formato. Da ciò deriva:
1) che nello stesso luogo, si appone la materia cristallina a piani che guardano
l’orizzonte in diverse posizioni, 2) che nello stesso fluido si formano cristalli
di forma diversa. Se detto fluido sia quello per la cui azione avviene la
rifrazione, o se vi sia qualche fluido da esso diverso, io lascio esaminare a
persone più acute. Certo il fluido penetrante ha una grande efficacia, che
vince la lunghezza dei fili che sorgono dalla limatura di ferro intorno ai poli
di un magnete, non solo quando la limatura si trova prossima al magnete,
ma anche quando una carta interposta la divide da esso; perciò, a seconda
che il magnete sia mosso sotto la carta, i fili di tal genere sopra la carta, ora
rimanendo fermi con una estremità percorrono con l’altra tutti gli archi che
si possono inscrivere sull’emisfero del globo, ora si avanzano tutti da luogo
a luogo come soldati astati, ora incurvandosi per la vicinanza di un altro
magnete, imitano un arco, come se le singole parti della limatura,
agglutinandosi a vicenda, fossero concresciute in un corpo solido.
In pari modo io crederei che siano coerenti fra sè per opera di un fluido
permeante quelle piccole gocce che, formatesi in un recipiente dalla materia
espulsa dalla storta, dapprima aderiscono intimamente alla parte superiore
del recipiente, e poi quando contemporaneamente se ne siano toccate molte
fra sè nello stesso arco del recipiente, ne scivolano via formando vari fili
globulosi che talvolta sono congiunti con altri fili. Fili di tal genere, che
320
talvolta osservai nell’umor acqueo dell’occhio, crederei formati da globuli
composti formati in egual modo, nè riterrei altrimenti formati i fili e i rami
prodotti in un fluido per apposizione estrinseca. Ma come che sia di ciò,
nell’accrescimento dei cristalli è da considerarsi un doppio movimento: uno
per cui avviene che in certi luoghi del cristallo, e non in altri si apponga la
materia cristallina, moto che io suppongo doversi attribuire al fluido sottile
permeante, e illustrare con il riferito esempio del magnete; l’altro per cui la
nuova materia cristallina apposta al cristallo si stende in piano, ed esso
deriva dal fluido ambiente, così come sopra al magnete si rizzano i fili ferrei
per il movimento dell’aria che esce da uno e raggiunge l’altro. A questo
movimento dell’ambiente attribuirei il fatto che, non solo nel cristallo, ma
anche in altri corpi multiangolati, qualsisiano piani opposti sono
rispettivamente paralleli.
Da quanto fu finora riportato si potrebbe dimostrare che non l’intenso freddo
è la causa efficiente del cristallo (1), che non sono soltanto le ceneri bruciate
dalla forza del fuoco che si trasformano in vetro, che non la sola forza del
fuoco è la produttrice del vetro, che non tutti i cristalli si sono prodotti
dall’inizio delle cose, ma che anche oggi se ne producono, che non è impresa
superiore alle forze umane scoprire la produzione del vetro senza la forza
del fuoco, purchè si faccia una accurata analisi dei sassi nelle cui cavità si
formano i migliori cristalli. È certo infatti che, come il cristallo si è formato
da un fluido, così esso può risciogliersi in un fluido, purchè si possa imitare
la vera miscela naturale: nè è in contraddizione il fatto che certi solidi,
quando lor sia stato tolto una volta il fluido solvente o la loro miscela, non
possono ulteriormente sciogliersi nello stesso o in un simile solvente; ciò
avviene infatti in quei corpi da cui tutta la miscela viene sciolta col fuoco,
invece il cristallo e tutti i corpi angolati che si formano in mezzo ad un fluido
solvente o alla miscela, non ne escono quasi mai puri, perchè alcune
particelle della miscela rimangono fra le particelle dal corpo angolato: da ciò
dipende la principale causa della diversità del cristallo dal vetro, sia nella
refrazione che nelle altre operazioni, perchè nel vetro non vi è alcuna parte
del fluido solvente, essendone stato scacciato dalla forza del fuoco; infatti il
fluido in cui concresce un cristallo si comporta rispetto al cristallo come
l’acqua comune rispetto ai sali; e ciò si può facilmente provare con l’esame
1 Gli antichi credevano che il quarzo fosse ghiaccio reso stabile da intensissimo
freddo, donde il nome di cristallo. Nei periodi seguenti Stenone mostra di non far
distinzione fra il quarzo e il vetro.
321
di quanto ha in comune la concrezione dei sali con quella del cristallo; ma,
per non digredire troppo da quanto mi son proposto, riferirò un solo
esperimento che mi parve bellissimo. Nella stessa pietra, in vari luoghi, le
sue lamelle che a vicenda si ritiravano, erano piene di cristalli, di cui alcuni
erano acquei, altri lucidissimi, altri bianchi, molti ametistini, mescolati l’uno
con l’altro senza alcuna confusione di colori, assolutamente nello stesso
modo con cui il vetriolo e l’allume sciolti nella stessa acqua, dopo che una
parte dell’acqua è consumata, concrescono ciascuno separatamente, senza
nessuna miscela delle parti, come dimostrano esperimenti fatti a tal uopo coi
sali.
3) per il luogo donde viene la materia ferrea, poichè essa sembra effluire dai
pori di un corpo più solido.
1 La ematite o ferro oligisto (Fe2 O3), cui si riferisce Stenone, si presenta infatti in
natura o sotto forma di lamelle in cui il grande sviluppo della base [111] rende quasi
irriconoscibili le facce dei romboedri (primo tipo) oppure in una combinazione di
due romboedri, il diretto fondamentale [100] e il diretto ottuso [211] (secondo tipo)
e oppure con un terzo aspetto dato dalla combinazione della forma anzidetta con la
bipiramide esagona di II ord. [311]. La forma a sei facce derivante dal secondo tipo è
il semplice romboedro [100]. I due ultimi tipi sono frequentissimi nelle ematiti
elbane, il primo è più frequente in località, alpine o vulcaniche.
322
4) per il modo con cui la materia stessa si determina verso il solido per opera
del fluido permeante, e si stende in un piano e si leviga per azione del fluido
ambiente.
Differiscono la materia e la forma, perchè la materia del cristallo è inclusa in
diciotto piani, di cui i dodici estremi sono politi, e i sei intermedi striati:
invece nella seconda specie di ferro si noverano dodici piani di cui i sei
estremi sono pure striati e gli altri sei intermedi sono politi, e nella terza
specie si contano ventiquattro piani, di cui i sei estremi striati, e i diciotto
intermedi politi, e talvolta fra i sei piani striati si intromettono altri sei piani
lucenti, che mostrano i lati troncati di piramidi triangolari (1).
Mi parve degno di considerazione il fatto che con un cubo troncato si può
rappresentare perfettamente tutto il numero di piani della terza specie di
corpi angolati del ferro, vi sono infatti qui sei piani di cinque lati, che
coincidono con i piani del cubo, e con quattro angoli dimezzano i singoli lati
dei piani del cubo; tutti gli altri piani si ritrovano in certo modo negli angoli
troncati del cubo (2).
Vi è anche altro non meno degno di considerazione negli stessi corpi angolati
del ferro: nel secondo genere di questi i piani estremi, che sono striati e di
cinque lati, coll’andar del tempo si mutano in trilateri, mentre i piani
intermedi, che sono trilateri e politi, diventano di cinque lati avendo due
angoli rettangoli l’un l’altro prossimi, e fra i singoli due piani quinquelateri,
dove i loro angoli rettangoli si toccano, si formano due triangoli o due piani
trilateri egualmente politi, le cui basi coincidono col lato perpendicolare dei
quinquelateri, cosicchè il secondo genere di ferro si muta nel terzo; e che in
questo modo da un corpo di dodici piani si formi un corpo di ventiquattro
piani, mi persuade: 1) che nella stessa drusa (congeries) di corpi ferrei quasi
tutti i più sottili hanno solo dodici piani e i più spessi ventiquattro, 2) che in
ogni corpo di dodici piani appaiono i principi di piani triangolari accessori,
e che, continuati formano un corpo di ventiquattro.
Nei piani triangolari dunque io osservai talvolta una perfetta politezza, tanto
che nessuna, se non minima ineguaglianza si mostrava agli occhi, quale non
mi capitò mai di vedere in nessun cristallo; in altri vidi piani circolari minori
sovrastanti a maggiori, di cui i più alti, per lo più, erano prossimi al vertice
del triangolo, tanto che si può dubitare se non siano piani quinquelateri
composti dalle basi dei piani triangolari, poichè esistono vestigia di striature
323
a quelli parallele.
Nei minerali di rame si formano dei corpi cristallizzati nello stesso modo
come si disse per il cristallo e pel ferro, e ciò si ricava dai frammenti di quel
rame, che tu conservi fra altre rarità di Natura; ma, poichè ogni spazio è
riempito da abbondante materia, è difficile studiare l’intera forma del corpo.
E non avviene altrimenti pei corpi cristallizzati d’argento a te mandati dalla
Germania.
Del diamante.
Delle marcasiti.
Poichè potrei fare varie osservazioni sui cubi di marcasite, sia riguardo ad
essi, sia sui luoghi dove si trovano, parlerò solo di quelli. La loro produzione
differisce da quella del cristallo:
324
1) per il tempo; poichè i cubi di marcasite si sono prodotti prima della
formazione degli strati in cui sono contenuti, mentre i cristalli si sono
concrezionati dopo la formazione degli strati.
2) per il luogo di produzione; infatti il cristallo man mano che cresceva, si
attaccava ad un corpo solido, così che era contenuto in un luogo parte solido
e parte fluido, mentre i cubi di marcasite sembrano essere cresciuti fra due
fluidi poichè neanche nei più grandi cubi vi sono vestigia di coesione con un
altro corpo, sebbene spesso si trovino cubi piccini che, crescendo, aderirono
fra sè alla superficie del fluido. Le validissime dimostrazioni del grande
Galileo (1) ci insegnano che tal genere di corpi pesanti possono stare alla
superficie di un fluido quando una delle loro superficie è toccata
immediatamente dal fluido soprastante di diversa natura e più leggero; che
da questo fluido se ne sia formato un’altro più acquoso lo dimostra la materia
dello strato, che si sedimentò dallo stesso fluido.
3) per il modo e il luogo dell’apposizione; poichè a tutti i cubi piani la materia
della marcasite si appone come dicemmo avvenire nei cristalli, ciò che è
evidentemente dimostrato dalla uniformità di tutte le superficie nei cubi che
io stesso cavai dai sassi, di cui tutti i piani avevano strie parallele a due lati,
così che in piani opposti le strie hanno la stessa direzione, mentre i piani
vicini mostrano una direzione diversa delle strie (2). Dalla direzione delle
striature si ricava che l’ambiente fluido intorno ad ogni cubo era mosso da
un triplice movimento: uno perpendicolare all’orizzonte, gli altri due ad esso
paralleli ma perpendicolari l’uno all’altro; e non è difficile spiegare la
maniera in cui si è prodotto questo triplice movimento: quando infatti il
fluido tenta di ritirarsi dal centro della terra, quel movimento rettilineo è
1 Si riferisce al Discorso... intorno alle cose che stanno in su l’acqua e che in quella si
muovono, Firenze 1621, in cui Galileo studia il galleggiamento dei corpi più pesanti
del liquido su cui stanno. Oggi, com’è noto, questi fenomeni si spiegano invocando
la tensione superficiale, che forma come una pellicola elastica sulla superficie del
liquido. Galileo giunge alla conclusione che un corpo solido può galleggiare su un
fluido più leggero quando una delle superficie del corpo sia toccata da un fluido
sovrastante più leggero del primo. Questa, che può sembrare una semplice
constatazione di fatti banali, è invece una chiara, per quanto vaga intuizione del
fenomeno della tensione superficiale.
2 È la striatura triglifa delle facce dei cubi di pirite, che è indice del più basso grado
si simmetria fisica che ha il cubo di pirite rispetto al cubo regolare. La striatura delle
facce del prisma dei cristalli di quarzo, cui si fa cenno a pag. 67 è in realtà prodotta
da facce di romboedri vicinali al prisma.
325
ostacolato dalla base del cubo, e ciò fa sì che il fluido si ritorce verso i lati più
stretti, poichè l’impeto del fluido ascendente per i lati più ampi è più forte e
non consente quindi alcun adito da quella parte, e in tal modo le due paia di
piani sono segnate dai vestigi delle strie; il terzo paio di piani prende le sue
strie da quella parte del fluido che passa fra il cubo e il fluido che si ritira
dalla base del cubo.
4) per la perfezione delle figure; infatti difficilmente si trovano dei cristalli, o
non ne, trova neppure uno, nella cui figura non vi sia alcunchè di deficiente,
mentre nei cubi delle marcasiti raramente fa difetto qualche cosa; e la
semplice ragione di ciò è che poichè nel cristallo tutti gli angoli solidi, tranne
quello estremo, sono ottusi e ai singoli piani di essi la materia cristallina si
appone separatamente, tanto meno qualsiasi piano è evidente rispetto a
quelli vicini che cambiano di figura quanta più materia si è deposta su di
esso; invece nei cubi di marcasite, essendo retti tutti gli angoli solidi, anche
se ad un sol piano si aggiunge nuova materia, quel piano conserva sempre
la stessa grandezza mentre i piani vicini non cambiano forma.
Vari altri fatti si osservano nei cubi di marcasite, come cubi inclusi in cubi,
una materia trasparente rivestita di materia di marcasite che include altra
marcasite, e altro di questo genere, che riservo alla Dissertazione. Vi sono
anche corpi angolati che si risolvono in lamelle, come le seleniti romboidali
(1) sono corpi romboidi che si risolvono in altri corpi romboidi; e altri corpi
vari che benchè differiscano per molte cose dal cristallo, tuttavia concordano
tutti fra se in questo che crebbero in un fluido e da un fluido E questo è del
pari vero per la più famosa delle materie chimiche, il talco, così che non
errano affatto coloro che credono che il corpo solido del talco (2) si possa
risolvere in un corpo fluido, poichè è fuori di discussione che esso si è
formato da un fluido; non è dubbio invece che si allontanano molto dal vero
quelli che cercano di aver ragione di lui con la tortura del fuoco; infatti il
talco, solito ad avere dalla natura più miti trattamenti, si sdegna di tanta
crudeltà negli amatori della bellezza, e per vendicarsi cede a Vulcano quella
parte di ciò che lo scioglie, che conserva inclusa in sè.
Se si fa un accurato esame dei corpi angolati, sia per quello che riguarda la
composizione, che per la soluzione, in breve si acquista una certa cognizione
della varietà del movimento da cui sono agitate le particelle del fluido sottile
mediante il riscaldamento.
326
e di quello ambiente; questa parte della Fisica e toccata da pochi, ma è assai
necessaria a tutti per la vera spiegazione delle operazioni naturali.
Gusci di conchiglie.
Fra i solidi naturalmente inclusi in altri solidi nessuno è più frequente nè più
dubbio che i gusci di conchiglie, perciò discuterò un po’ più lungamente
intorno ad essi, considerando prima i gusci tolti dal mare e poi quelli che si
cavano dai monti.
I gusci di ogni genere che hanno avuto in se racchiuso qualche animale,
hanno ai nostri sensi le seguenti proprietà.
1) i gusci intieri si risolvono in piccoli gusci, e questi in fili che si riconducono
a due generi differenti per colore, sostanza e luogo (1).
2) nei singoli guscetti la superficie superiore ed inferiore non sono altro che
le estremità di fili, mentre le superficie dei margini sono i lati di quei fili che
son posti sul margine del guscetto.
3) nello stesso guscio la superficie interna e la stessa cosa della superficie
interna del guscetto più grande, cioè dell’interno, mentre la superficie
esterna è composta, dalla superficie esterna del guscetto più piccolo, e dalla
superficie di tutti i margini dei guscetti intermedi.
Circa il modo con cui si producono i gusci negli animali, si possono
dimostrare evidentemente i seguenti fatti:
1) la materia dei fili è simile al sudore degli animali, in ciò che essa è un
umore escreto per la superficie esterna dell’animale.
2) la forma dei fili può prodursi in due modi, o negli stessi pori animali pei
quali essi sono secreti, oppure quando la superficie dell’animale che cresce,
divenuta maggiore della superficie del guscetto prima secreto, si ritira da
questa, e in parte riduce così in fili l’umore glutinoso contenuto fra ambedue
le superficie (ciò che è comune negli umori vischiosi) e in parte aumenta per
l’escrezione di nuovo umore, così che nessun’altra materia può penetrare fra
le due superficie.
1 I gusci della maggior parte dei molluschi che ne sono provvisti constano di una
cuticola esterna, di sostanza organica, di uno strato prismatico, formato di prismetti
poligonali disposti in senso perpendicolare alla superficie del guscio e addossati
l’uno all’altro, e di uno strato madreperlaceo formato di tante lamelle parallele alla
superficie: questi due ultimi strati sono costituiti essenzialmente di carbonato di
calcio misto a poca sostanza organica. Tutti sono secreti dal mantello. Nel § 3 Stenone
accenna ai due ultimi strati, e nel § 4 ammette l’esistenza della cuticola.
327
3) la diversità dei fili dipende dalla diversità dei pori da cui è perforata la
superficie degli animali, e dalla diversità della materia che è secreta per
questi pori; gli animali di tal genere hanno infatti due sostanze nella lor
superficie, di cui una dura, l’altra più molle, e ambedue sono fibrose. Una
più accurata indagine di queste sostanze porta non poca luce allo studio delle
ossa.
4) tutti i guscetti, tranne il più esterno o il più piccolo, sono prodotti fra la
conchiglia esterna e il corpo stesso dell’animale, e non hanno quindi preso la
forma da sè stessi, ma dal luogo; ciò fa sì che il movimento dell’animale e la
quantità della materia produce spesso una certa varietà nella forma delle
ostriche. Riguardo al guscetto esterno si può dubitare se la superficie esterna
abbia toccato il fluido ambiente, o se essa sia stata coperta da qualche
membrana, crederei però che soltanto l’ultima opinione sia vera: 1) perchè
tutti i fili degli altri guscetti, quando crebbero, non furon toccati dal fluido
ambiente, 2) perchè nella chama irsuta si osserva alcunchè di simile ad una
membrana o ad un corio che riveste l’esterno dei gusci. Ma ciò riguarda
soltanto ciò che cade sotto i nostri sensi, e si potrebbe dire che i primi fili dei
guscetti sono induriti già dentro all’uovo, poichè consta per esperienza che
le ostriche e gli altri testacei nascono da uova e non dalla putredine.
Da quanto si è detto si spiega facilmente: 1) tutta quella varietà di colori e di
aculei che, nei gusci nostrani o peregrini, formano l’ammirazione di molte
persone; essa non deriva da altro che dal margine dell’animale racchiuso nel
guscio. Infatti questo margine, crescendo poco a poco, da piccolo che era, e
ingrandendosi, lascia la sua imagine sull’apertura di ognuno dei guscetti;
infatti tali aperture o si formano dall’umore che essuda dal margine
dell’animale, o sono i margini stessi dell’animale, che, come i denti dei cani
marini, forse si accrescono di nuovo nel luogo del margine primitivo, e
similmente ai denti stessi, si curvano a poco a poco verso l’esterno, 2) la
produzione di perle, sia di quelle che essendo aderenti al guscio non hanno
forma completamente rotonda, sia di quelle che, ostruiti gli ostii dei pori
della superficie dell’animale, acquistano forma rotonda negli stessi pori:
infatti fra la crosta delle perle e i guscetti delle conchiglie perlifere vi è
soltanto questa differenza che i fili dei guscetti sono posti quasi nello stesso
piano, mentre le croste delle perle hanno i fili disposti secondo la superficie
sferica. Un elegante esempio di questo fatto lo offre una fra le perle da me
rotte per tuo volere, che, bianca all’esterno, racchiudeva internamente un
corpo nero simile a un grano di pepe per colore e per grandezza, nel quale
era evidentissima la posizione dei fili che con una estremità guardavano al
328
centro, e si potevano riconoscere gli ordini o le sfere di questi fili (1). Nella
stessa occasione vidi: 1) che le perle disuguali per varie tuberosità non sono
altro che diverse piccole perle racchiuse dalle stesse croste comuni, 2) che
molte perle flavescenti sono tinte di colore giallo non solo nella superficie
della sfera più esterna, ma in tutte le sfere interne, per cui non si può più
oltre dubitare che quel colore sia dovuto a cambiamento di umori
dell’animale, e che colui che cerca di asportare questo colore vuol lavare un
Etiope, a meno che questo colore non sia o’ acquistato, per essersi formato
nel collo dell’animale che portava queste perle, o si trovi nella sfera più
esterna, se gli umori dell’animale non erano gli stessi quando si formavano
le sfere interne; onde è chiaro l’errore di quelli che senza conoscere la natura
delle perle ne fanno imitazioni artificiali, poichè difficilmente qualcuno
avrebbe ciò intrapreso, se, come un secondo Lucullo (2), avesse riempito i
vivai di conchiglie perlifere, e avesse ricercato negli animali stessi il modo di
moltiplicare il lavoro della natura, e avesse imparato la difficoltà di imitarlo.
Non voglio negare che si possano artificialmente fabbricare dei globuli
composti di varie croste, ma ritengo in realtà difficilissimo formare queste
croste da una serie di fili apposti a vicenda, da cui dipende lo splendore
proprio delle perle.
I gusci che si nascondono coperti dalla terra si possono raggruppare in tre
generi:
Il primo genere è di quelli che sono simili a quelli descritti come uovo a uovo:
anche questi gusci infatti si risolvono in guscetti, e i guscetti in fili e vi è la
stessa varietà e posizione di fili. L’esame di questi gusci dimostra che essi
furono una volta parti di animali viventi in un fluido anche se non furono
mai ritenuti testacei marini; ciò si ricava anche dall’esempio delle conchiglie
bivalvi.
Quando si formarono le conchiglie bivalvi, la materia contenuta fra le
conchiglie:
1) aveva la superficie liscia e perforata da innumerevoli pori, e una duplice
varietà di pori.
2) aveva sostanza flessibile e men dura del guscio.
presso Napoli, fra cui ad uno stagno per i pesci. Non accenna però a culture di
ostriche perlifere, nè si sa a che Autore si riferisca Stenone. [M.]
329
3) da una parte comunicava con la materia ambiente, dall’altra parte non
aveva alcuna relazione con essa.
4) lentamente essa retrocedette da quella parte in cui non aveva relazione
con la materia esterna, verso quella parte in cui aveva relazione con essa.
5) poteva di tempo in tempo aprirsi secondo l’ampiezza di quell’angolo che
ammettono i cardini del guscio.
6) crebbe da piccolo a grosso individuo.
7) emise attraverso la sua sostanza quella materia di cui sono formati i
guscetti.
La materia esterna circondante le conchiglie, 1) se non era del tutto fluida,
aveva almeno minor forza di resistere che non fosse la forza di dilatazione
della materia contenuta fra le conchiglie, 2) conteneva una sostanza fluida
atta a fabbricare i fili dei guscetti; le condizioni di ogni luogo esterno ed
interno dimostrate nella Dissertazione con argomenti e figure, convincono,
che fra le conchiglie vi fu un animale, e fuori di esse un fluido.
Il secondo genere di questi gusci è di quelli che sono in tutto simili ai sopra
descritti, e ne differiscono soltanto per il colore e per il peso; se ne trovano
alcuni più leggeri del normale, altri più pesanti, perchè hanno quei pori
ripieni di succo che si è aggiunto, mentre i pori stessi si sono allargati per
l’espulsione delle parti più leggere. Intorno a queste non mi dilungherò più
oltre, perchè non sono se non gusci di animali, o petrefatti o calcinati.
Il terzo genere è di quelli che sono simili soltanto per la forma ai gusci ora
descritti, ma pel resto ne differiscono del tutto; in essi infatti non si osservano
nè guscetti, nè fili e nemmeno diversità di fili. Di questi alcuni sono aerei,
altri lapidei, di color nero o flavo, altri marmorei altri cristallini, altri di altre
sostanze: la loro produzione spiego nel modo seguente (1).
330
quella bellissima specie di marmo che si chiama Nefiri (1) e che non è altro
che un sedimento di un mare pieno di gusci di ogni genere, in cui,
consumatasi la sostanza dei gusci, subentrò la sostanza lapidea.
Non è compatibile con la brevità che mi è imposta che io riporti la descrizione
di tutti quei fatti degni di nota che osservai nei singoli generi di gusci cavati
dalla terra, per cui, tralasciate altre cose, riferito soltanto le seguenti:
1) una conchiglia perlifera trovata in Toscana, con una perla ad essa
aderente.
2) parte di una pinna marina maggiore, in cui, consumato il bisso (2), rimase
il colore del bisso in quella materia terrosa che aveva riempito la conchiglia.
3) gusci di ostriche di mirabile grandezza, in cui si trovano varie cavità
oblunghe corrose dai vermi, in tutto simili a quelle che nella pietra
anconitana, napoletana e siciliana sono abitate da un certo genere di
conchiglie; tali cavità delle pietre, se non sono state formate con fango da
insetti che fabbricavano nidi (ciò che difficilmente io crederei, perchè quella
sostanza che sta in mezzo alla pietra, dove non si trovano cavità, è la stessa
che quella delle cavità che si trovano su tutte le superficie), furono corrose
da vermi, poichè anche la superficie della cavità persuade di ciò, e un corpo
trovato in molte cavità, intessuto di più spessi filamenti, che corrisponde per
grandezza e forma alla cavità stessa, ne convince. Certamente non sono
formate nè dalle conchiglie nè intorno alle conchiglie, poichè tal genere di
testacei sono privi di organi adatti a corrodere, e nessuna di quelle cavità
corrisponde alla forma delle conchiglie (3). E non è da meravigliarsi che i sassi
esposti al mare diano ricetto in queste cavità alle uova di conchiglie espulse
dal mare, poichè finora non ne vidi nessuna sprovvista di evidente apertura.
1 Non è chiaro che cosa Stenone intenda per Nefiri. Forse si tratta di un errore per
«marmo nefritico». [M.]
2 Il bisso è una secrezione sericea di ghiandole speciali, costituita da numerosi fili
(utilizzati un tempo anche come materia tessile) con cui i molluschi che ne sono
provvisti si fissano ai pali o alle rocce.
3 Si tratta probabilmente di cavità scavate dalle Foladi, molluschi con conchiglia
rugosa e aspra come una lima, che serve loro per corrodere la roccia.
331
marmorea coperta di vari balani (1) suppliva alla mancanza della sostanza
corrosa: così che se ne può certamente concludere che quel guscio fu dal
mare lasciato sulla terra, poi nuovamente ripreso e infine abbandonato.
5) uova minutissime e turbini difficilmente visibili se non con occhi armati
di microscopio.
6) pettini, turbini e conchiglie bivalvi non coperte di cristallo, ma cristalline
in tutta la sostanza.
7) vari tubi di vermi marini.
Ciò che si è detto dei gusci si può dire delle altre parti di animali e degli
animali stessi sepolti in terra - nel numero dei quali vi sono i denti di cani
marini, i denti di pesce aquila, le vertebre di pesci, i pesci interi di ogni
genere, crani, corna, denti, femori e altre ossa di animali terrestri - poichè
tutte queste sono o in tutto simili a vere parti di animali, o ne differiscono
soltanto per il peso e pel colore, oppure, tranne la sola figura esterna, non
hanno nulla di comune con esse.
Grave difficoltà produce quell’enorme numero di denti che ogni anno si
esportano dall’isola di Malta; e difficilmente approda colà una nave che non
riporti seco qualche indizio del miracolo. Ma a questa difficoltà non trovo
altra risposta che questa: 1) che ogni cane ha seicento e più denti, e sembra
che per tutto il tempo che vive gli crescano nuovamente, 2) che il mare
agitato dai venti suole respingere i corpi che trova verso un sol luogo, ed
accumularceli, 3) che i cani marini procedono a schiere, e così in un sol luogo
potettero essere lasciati i denti di molti cani, 4) che nelle zolle melitensi qui
portate si trovano oltre a denti di diversi cani, anche varie conchiglie, così
che se il numero dei denti induce a credere che la lor produzione sia dovuta
alla terra, tuttavia la conformazione di questi denti e la loro abbondanza nei
singoli animali, la somiglianza della terra col fondo del mare, e gli altri corpi
marini presenti in quel luogo, appoggiano l’opinione contraria.
Altri trovano difficoltà nella grandezza dei femori, dei crani, dei denti e delle
altre ossa che si cavano dalla terra, ma questa obbiezione non è da tanto che
la quantità maggiore della solita debba fare ammettere un processo
superiore alle forze della Natura. Poichè: 1) nel nostro secolo si videro corpi
332
di uomini di fattezze assai grandi, 2) è certo che un tempo esistettero
uomini di mostruosa grandezza, 3) spesso si ritengono ossa umane quelle
che sono ossa di altri animali, 4) l’attribuire alla Natura la produzione di
ossa veramente fibrose è lo stesso che dire che la Natura può produrre
una mano d’uomo, senza produrre l’uomo.
Vi sono autori cui pare che lunghezza del tempo possa far cadere la forza
degli altri argomenti, perchè non si ha memoria di alcun secolo in cui le
inondazioni siano ascese dove oggi si trovano molti corpi marini, se ne
togli il diluvio universale, da cui si noverano all’incirca più di
quattromila anni fino ai nostri tempi, nè sembra ragionevole che una parte
del corpo di un animale abbia potuto resistere all’ingiuria di tanti anni,
poichè vediamo spesso che quei corpi si distruggono totalmente nello
spazio di pochi anni. Ma a questo dubbio facilmente si risponde,
dipendendo tutto ciò dalla varietà del suolo; vidi infatti degli strati di
una certa specie di argilla che, per la tenuità del succo, avevano sciolto
tutti i corpi inclusi; e osservai molti altri strati arenacei che avevano
conservato intero tutto ciò che era stato loro affidato. Dal quale
esperimento si potrebbe venire a conoscenza di quel succo che scioglie i
corpi solidi; e ad accertare che la produzione delle molte conchiglie che oggi
troviamo coincide coi tempi del diluvio universale, basta il seguente
argomento.
È certo che prima che fossero gettate le fondamenta di Roma, esisteva,
già potente, la città di Volterra; ma in quei grandissimi sassi che colà si
trovano in qualunque luogo (vestigia di antichissime mura) si trovano
conchiglie di ogni genere, e non molto tempo fa in mezzo al foro si tagliò
un sasso ricchissimo di conchiglie striate; sicchè è certo che le conchiglie
trovate oggi in quei sassi esistevano già al tempo in cui i volterrani
costruivano le mura. E non si dica che soltanto le conchiglie
trasformate in pietre o incluse nella pietra non hanno sofferto alcun
danno dall’edacità del tempo; tutto quel colle su cui era costruita la
più antica delle città etrusche consta di sedimenti marini sovrapposti
l’uno all’altro e paralleli, in cui vi sono molti strati non lapidei che
abbondano di vere conchiglie che non hanno subito alcuna modificazione;
così che si può affermare con sicurezza che quelle conchiglie intatte che
noi oggi estraggiamo di là, sono state prodotte tremila e più anni or sono.
Dalla fondazione di Roma fino ai nostri tempi noi contiamo fino a mille
quattrocento e venti anni e più, e chi non consentirà che parecchi secoli
dovevano esser trascorsi da quando i primi uomini si trasportarono a
333
Volterra, fino a quando essa acquistò quella grandezza in cui era al tempo
della fondazione di Roma? E se noi aggiungiamo questi secoli a quel
tempo che intercedette fra la deposizione del primo sedimento del colle
volterrano e il ritirarsi del mare e dei suoi confluenti estranei, dal colle
stesso, facilmente giungeremo ai tempi del diluvio universale.
La stessa autorità della storia vieta di dubitare che quelle grandissime
ossa che si scavano dalle terre aretine non abbiano resistito all’ingiuria
di mille novecento anni; è infatti certo: 1) che i crani di giumenti che colà si
trovano non sono di animali di quei paesi, e neppure quei grossi femori e
quelle lunghissime scapole che si trovano nello stesso luogo, 2) che di là passò
Annibale prima che venisse a conflitto coi Romani sul lago Trasimeno, 3) che
nel suo esercito vi erano giumenti africani e elefanti torrigeri di enorme
grandezza, 4) che mentre discendeva dai monti fiesolani gran parte degli
animali destinati a portare i bagagli perì in quei luoghi paludosi per una
grande inondazione, 5) che il luogo donde si cavano quelle ossa è formato di
vari strati, che sono pieni di sassi trasportati dai monti circonvicini
dall’impeto dei torrenti; così che chi consideri insieme la natura della
località e delle ossa e la storia, non può non vedere chiaramente una
completa concordanza in ogni cosa (1).
Piante.
Ciò che si è detto degli animali e delle loro parti, conviene egualmente alle
piante e alle parti delle piante, sia che si cavino dagli strati della terra, sia
che si nascondano nella sostanza petrosa; infatti o sono in tutto simili alle
vere piante a o parti di piante, e tali raramente si trovano, oppure ne
differiscono soltanto per il colore e per il peso, come si trovano più
frequentemente, o sono bruciate in carbone, o impregnate di succo
lapidescente; oppure corrispondono ad esse soltanto per la forma, e di
queste ve n’è gran quantità in vari luoghi.
Per i primi due generi non si può dubitare che siano state anticamente
vere piante, e ne persuade la fabbrica del lor corpo, e non ripugna la natura
del luogo da cui si cavano. Coloro che obbiettano che la terra trasportata in
un edifizio diventa legno coll’andar del tempo, non possono asserire ciò altro
1Le ossa che si cavano nelle terre aretine sono certamente resti fossili di grandi
mammiferi che dovettero abitare quelle contrade, e la credenza che esse fossero resti
degli elefanti di Annibale è sicuramente smentita dalla loro stessa natura.
334
che per la superficie della terra che contiene del legno, e, caduta in polvere,
scopre il legno che include; e non obbligano i fili metallici trovati nello stesso
legno, poichè io stesso estrassi dalla terra un tronco che si poteva affermare
essere una pianta pei nodi dei rami e per la corteccia, le cui fessure erano
piene di materia minerale. La dottrina dei minerali potrà portare anche qui
non poca luce se si investigherà nel legno e nelle località del legno, che cosa
abbia potuto concorrere a quella produzione di minerali.
Vanno sotto il nome di bitume molte sostanze che non sono che carbone,
come dimostrano la direzione delle fibre e le ceneri.
Maggior difficoltà offre il terzo genere di piante, cioè le forme di
piante impresse nelle pietre, poichè si osserva tal genere di figure
nella brina, nell’albero mercuriale (1), in vari sali volatili, nella
sostanza bianca solubile in acqua che nei vasi di vetro non solo si
accumula internamente sui lor lati, ma talvolta dal fondo si inalza fino
all’aria. Ma a chi pesi bene ogni argomento, non occore nulla di contrario
alle opinioni riferite. Infatti quanto alle figure di piante impresse sui
sassi: alcune si trovano soltanto sulla superficie delle fessure, e concederò
facilmente che esse si siano prodotte senza alcuna pianta, ma non senza
alcun fluido; le altre si trovano non soltanto alla superficie delle
fessure, ma diffondono i lor ramoscelli per ogni verso nella sostanza
stessa della pietra; donde si ricava che nel tempo in cui quella pianta
si formava, sia nel modo proprio alle altre piante, sia nel modo proprio
della pianta mercuriale, la sostanza della pietra non aveva ancora
deposto la natura di fluido; ciò che è confermato ampiamente non
soltanto da quella più molle consistenza della pietra, ma anche dalla
frequenza nel dentroitide dell’Elba di corpi angolati, che non si
formano che in un fluido libero. Ma che necessità vi è di altri argomenti,
quando parla l’esperienza stessa? Io perlustrai vari luoghi umidi sia
aprichi che sotterranei, in cui la pietra che si accresceva dall’acqua
corrente, col muschio e le altre piante, veniva ricoperta da nuovo
muschio di vario genere.
335
Varie mutazioni che si incontrano in Toscana.
Come lo stato presente di una cosa qualsiasi possa rivelare lo stato passato
della cosa stessa, dimostra fra l’altro evidentemente col suo esempio la
Toscana, in cui le ineguaglianze che si incontrano nel suo aspetto odierno,
contengono manifesti indizi diversi di mutazioni che passerò in rassegna in
ordine inverso, retrocedendo dall’ultima alla prima.
1) Una volta il piano inclinato A era nello stesso piano del piano orizzontale
più alto B, e i margini così elevati del piano A, come anche i margini del
piano orizzontale più alto C, erano ulteriormente continuati, sia che il piano
orizzontale inferiore D fosse nello stesso piano con i piani orizzontali più alti
B e C, sia che colà esistesse un altro corpo solido che sostenesse i lati nudi dei
piani più alti: o, ciò che è lo stesso, nel luogo in cui oggi si vedono fiumi,
paludi, pianure basse, precipizi, e piani inclinati fra i colli arenacei,
esistettero una volta tutti piani, e in quel tempo tutte le acque delle piogge e
delle fonti, o inondavano quella pianura, o si erano aperte sotto alla pianura
dei canali sotterranei; o almeno sotto agli strati superiori vi erano delle
cavità.
Nel tempo in cui si formava il piano A B C e gli altri piani a lui sottostanti,
tutto il piano A B C era coperto dalle acque; o, ciò che è lo stesso, sopra i colli
arenacei, per quanto alti, vi fu una volta il mare.
Prima che fosse formato il piano B A C, i piani F G I avevano la stessa
posizione che ora occupano, o, ciò che è lo stesso, prima che si formassero gli
strati dei colli arenacei, in quei luoghi esistettero delle profonde valli.
Un tempo il piano inclinato I era in un sol piano con i piani orizzontali F e G,
e i lati nudi dei piani I e G, o erano ulteriormente continuati, oppure esisteva
colà un altro solido che sosteneva quei lati scoperti quando si formavano i
detti piani; oppure, ciò che è lo stesso, nel luogo in cui oggi si vedono delle
valli fra le cime piane dei più alti monti, vi era un tempo una sola continua
pianura sotto la quale erano scavate delle grandi cavità, prima della caduta
degli strati superiori.
5) Quando si formava il piano F G, gli sovrastava un fluido acquoso; oppure,
ciò che è lo stesso, le vette piane dei più alti monti furono un tempo coperte
d’acqua.
Noi conosciamo dunque sei aspetti della Toscana, poichè fu due volte fluida,
due volte piana e secca, due volte montuosa; e ciò, come lo dimostro per la
Toscana con lo studio di molti luoghi ispezionati, così confermo per tutta la
terra dalle descrizioni di vari luoghi riferite da diversi autori. E perchè
336
alcuno non tema un pericolo della novità, esporrò in poche parole l’accordo
della datura con la Scrittura, esaminando le principali difficoltà che si
potrebbero muovere riguardo ai singoli aspetti della terra.
Riguardo al primo aspetto della terra, la Scrittura e la Natura concordano in
ciò che ogni cosa è stata coperta dalle acque; ma la Natura non dice in qual
modo ciò sia avvenuto, e quando sia cominciato, e per quanto tempo sia
durato, mentre la Scrittura lo dice. Che però vi sia stato un fluido acquoso
quando non si trovavano ancora nè animali nè piante, lo dimostrano gli strati
dei monti più alti, privi di ogni corpo eterogeneo, la cui conformazione
attesta la presenza di un fluido e la cui materia attesta l’assenza di corpi
eterogenei; la somiglianza poi della materia e della conformazione fra gli
strati di monti diversi e lontani, dimostra che quel fluido era universale. Che
se qualcuno dicesse che i corpi solidi di diversa natura contenuti in quegli
strati si sono consumati coll’andar del tempo, non potrebbe però negare che
si può osservare una grande diversità fra la materia degli strati e la materia
infiltratasi per i pori dello strato, e che riempie gli spazi di corpi consumati.
Che se poi sopra gli strati del primo fluido si trovano in qualche luogo altri
strati provvisti di altri corpi, altro non se ne ricava se non che sopra gli strati
del primo fluido furono deposti da un altro fluido altri strati, la cui materia
potè così riempire le rovine degli strati lasciati dal primo fluido; così che si
deve sempre ritornare al tempo in cui si formavano quegli strati di semplice
materia, che si incontrano in tutti i monti, e gli altri strati non esistevano
ancora ma ogni cosa era coperta di fluido privo di piante, di animali e di altri
solidi; e poichè questi strati sono del genere di quelli che nessuno può negare
che poterono essere creati immediatamente dal Primo Motore, ne
riconosciamo una chiara concordanza della Scrittura con la Natura.
Anche del secondo aspetto della terra che fu piano e secco, e quando e in
qual modo esso sia cominciato, la Natura tace, e la Scrittura dice; inoltre la
Scrittura conferma l’asserzione della Natura, che quell’aspetto sia un tempo
esistito; ed insegna che le acque scaturite da una sola fonte hanno irrigato
tutta la terra.
Nè la Scrittura nè la Natura stabiliscono quando sia cominciato il terzo
aspetto della terra, che viene definito montuoso; la Natura dimostra che
quella inegualità fu grande, e la Scrittura fa menzione di monti al tempo del
diluvio; quanto al resto, nè la Natura nè la Scrittura stabiliscono quando
siano stati prodotti quei monti che la Scrittura ricorda, se essi siano gli stessi
dei monti odierni, se vi sia stato all’inizio del diluvio quella profondità di
valli che vi è oggi, oppure se altre rotture di strati abbiano aperto nuove
337
voragini ad abbassare la superficie delle acque crescenti.
Il quarto aspetto, quando tutto era mare, sembra necessitare maggior studio,
sebbene in verità non si trovi nulla di difficile nella sua interpretazione. La
produzione di colli da sedimento del mare attesta l’esistenza di un mare più
alto di quanto ora non sia; e ciò non soltanto in Toscana, ma in vari luoghi
abbastanza distanti dal mare, donde le acque scorrono verso il mare
mediterraneo, ed anche in quei luoghi donde le acque si gettano nell’Oceano.
Riguardo all’altezza del mare, la Natura non discorda con la Scrittura che la
determina, poichè: 1) esistono certi vestigi del mare in luoghi elevati di più
di cento piedi sul livello del mare, 2) non si potrebbe negare che come tutte
le parti solide della terra furono coperte da un fluido acquoso all’inizio delle
cose, così poterono nuovamente essere ricoperte da un fluido acquoso,
poichè la mutazione delle cose naturali è continua, mentre non vi è nessun
naturale annientamento. Chi infatti ha perscrutato la conformazione dei
penetrali della terra così da osar negare che vi possono esistere grandi spazi
pieni di fluido acquoso o aereo? 3) è del tutto incerto qual fosse la profondità
delle valli all’inizio del diluvio; ma la ragione persuade che nei primi secoli
del mondo dall’acqua e dal fuoco furono scavate cavità più piccole, così che
ne seguirono meno profonde rovine degli strati; e i monti altissimi che
ricorda la Scrittura erano i più alti fra i monti che si trovavano a quel tempo,
ma non di quelli che oggi vediamo, 4) se il movimento animale può fare tanto
da rendere a volontà asciutti luoghi coperti dalle acque o ricoprirli con altre
acque, a che cosa concederemo noi la stessa facoltà e le stesse forze se non al
Primo Motore di ogni cosa? La storia profana non discorda con la Storia
Sacra, a chi minutamente ne esamini ogni cosa, al riguardo del tempo del
diluvio universale. Le antiche città della Toscana pongono i loro natali più
di tremila anni or sono e di esse alcune sono costruite sui colli prodotti dal
mare, nella Lydia poi giungiamo più vicino ai quattromila anni, sì che se ne
può dedurre che il tempo in cui la terra fu abbandonata dal mare concorda
col tempo ricordato dalla Scrittura. Per quel che riguarda i modi con cui
crescono le acque, potremo riferirne diversi concordanti colle leggi della
Natura. Se qualcuno afferma che nella terra il centro di gravita non è sempre
lo stesso che il centro della figura, ma che si allontana or dall’una or dall’altra
parte di esso, a seconda che crescono le cavità sotterranee dei vari luoghi, si
può facilmente trovare la ragione del perchè il fluido che all’inizio delle cose
ricopriva tutto lasciò asciutti certi luoghi, e nuovamente tornò ad occuparli.
Con la stessa facilità si spiega il diluvio universale, se intorno al fuoco, nel
centro della terra, si costituì una sfera d’acqua, o almeno grandi ricettacoli;
338
donde, senza movimento del centro, si può dedurre l’effusione dell’acqua
inclusa. Ma anche semplice mi sembra il modo seguente, per cui si trova
minor profondità delle valli e sufficiente quantità d’acqua, senza che entri in
giuoco il centro di figura o di gravita. Se infatti ammettiamo: 1) che dai
frammenti caduti di alcuni strati siano stati otturati i meati per cui il mare
penetrante nelle cavità della terra, manda acqua alle scaturigini delle fonti,
2) che l’acqua racchiusa nelle viscere della terra, della cui esistenza nessuno
dubita, sia stata in parte condotta verso le fonti dalla forza a tutti nota del
fuoco sotterraneo, e in parte sia stata spinta nell’aria per i pori della terra non
ancor coperta d’acqua, e che quell’acqua che o è sempre commista all’aria, o
le si andava mescolando nel modo or detto, sia caduta sotto forma di pioggia,
3) che il fondo si del mare si sia elevato per la dilatazione delle caverne
sotterranee, 4) che le rimanenti cavità della superficie della terra siano state
riempite con materia terrestre trascinata dai luoghi più alti per la continua
caduta della pioggia, 5) che la stessa superficie della terra sia stata meno
ineguale, in quanto più vicina all’origine - se ammettiamo tutto questo, non
crederemo nulla di contrario nè alla Scrittura, nè alla ragione, nè
all’esperienza quotidiana. Nè la Scrittura nè la Natura spiegano che cosa sia
avvenuto sulla superficie della (erra quando essa era coperta dalle acque;
soltanto potremo all’ormare dall’esame della Natura, che profondo valli
furono a quel tempo prodotte: 1) perchè le cavità, rese più ampie dalla forza
dei fuochi sotterranei, hanno dato luogo a maggiori rovine, 2) perchè doveva
aprirsi il varco pel ritorno delle acque nel profondo della terra, 3) perchè oggi
nei luoghi lontani dal mare si vedono delle profonde valli piene di molti
sedimenti marini.
Il quinto aspetto mostrava grandi pianure, mentre la terra era tornata
asciutta: la Natura dimostra che sono esistite quelle pianure, e la Scrittura
non le si oppone; quanto al resto, se cioè il mare si sia subito ritirato
completamente o se con l’andar dei secoli nuove voragini aperte abbiano
dato occasione allo scoprimento di nuove regioni, poichè la Scrittura tace in
proposito, e la storia delle genti riguardo ai primi secoli dopo il diluvio è
dubbia alle genti stesse e ritenuta piena di favole, non si può stabilire nulla
di certo. Questo è però certo, che una grande quantità di terra è portata ogni
anno al mare (come è facilmente comprensibile a chi consideri l’ampiezza
dei fiumi, e i lunghi percorsi per le regioni mediterranee e il grandissimo
numero dei torrenti, in poche parole, tutti i declivi della terra) e le terre così
trasportate dai fiumi, e aggiunte alle spiagge, lasciano ogni giorno nuove
terre adatte a nuove abitazioni; e ciò e confermato dall’opinione degli Antichi
339
che chiamavano intere regioni doni dei fiumi (1), come anche dalla tradizione
dei Greci che dicono che gli uomini discesero a poco a poco dai monti e
colonizzarono i luoghi marittimi, sterili per troppa umidità e divenuti
fecondi coll’andar del tempo (2).
Il sesto aspetto della terra è palese là dove quelle pianure sì trasformarono
in vari canali, valli e precipizi, soprattutto per l’erosione delle acque e per
l’azione dei fuochi; e non è da meravigliarsi che presso gli storici non si legga
in che tempo avvenne una qualsiasi mutazione. Infatti la storia dei primi
secoli dopo il diluvio è confusa e dubbia per i profani, e, col volger dei secoli
gli storici si curarono di celebrare le gesta degli uomini illustri e non i
miracoli della Natura. Noi manchiamo tuttavia delle opere, citate dagli
Scrittori, di quelli che descrissero la storia delle mutazioni avvenute nei vari
luoghi; e poichè gli altri autori i cui scritti sono conservati riferiscono quasi
ogni anno fra i portenti il terremoto, fuochi erompenti dalla terra,
inondazioni di mari e di fiumi, facilmente si capisce che in quattromila anni
avvennero molte e varie mutazioni. Così che errano di molto coloro che
accusano molti errori negli scritti degli antichi perchè vi trovano molto cose
discordi dalla Geografia. Io non vorrei attribuire facilmente fede alle favolose
narrazioni degli antichi, ma in esse vi sono anche molte cose cui non la
negherei. Fra le cose di tal genere osservo molti fatti di cui mi pare più dubbia
la falsità che la verità, così la separazione del mare mediterraneo dall’Oceano
occidentale; la comunicazione fra il mare mediterraneo e il mar Rosso, la
sommersione di isole nell’Atlantide (3), e le descrizioni di vari luoghi nei
viaggi di Bacco, di Triptolemo, di Ulisse e di Enea e di altri, che io ritengo
vere benchè non corrispondano a quanto oggi si trova. Porterò nella
Dissertazione le dimostrazioni evidenti di molte mutazioni che avvennero in
Toscana in tutto lo spazio compreso fra l’Arno e il Tevere, e benchè non si
possa assegnare a ciascuna il tempo in cui avvenne, trarrò tuttavia tali
argomenti dalla Storia d’Italia, che non rimarrà alcun dubbio.
È questa una succinta, per non dire disordinata esposizione dei principali
fatti che ho deciso di esporre più partitamente e più ampiamente, nella
Dissertazione, aggiungendovi la descrizione dei luoghi in cui osservai ogni
fatto.
340
SPIEGAZIONE DELLE FIGURE
341
De solido intra solido, figurarum, 1669
342
Le figg. 17, 18 e 19 servono a spiegare quei corpi angolati del ferro che sono
compresi in 30 piani, e la fig. 17 mostra tutti quei 30 piani spiegati in un
piano: di essi sei sono pentagonali e politi, 12 triangolari pure politi, 6
triangolari e striati, 6 quadrilateri oblunghi e politi. La fig. 18 è il piano della
base, e la fig. 19 il piano dell’asse dello stesso corpo (1).
Le sei ultime figure, mentre indicano in che modo dall’aspetto presente
ricaviamo sei aspetti differenti della Toscana, nel tempo stesso servono a più
facilmente capire ciò che dicemmo sugli strati della terra. Le linee segnate
con punti rappresentano gli strati arenacei della terra, così chiamati a potiori,
benchè ad essi siano mescolati vari strati lapidei ed argillacei; le altre linee
rappresentano gli strati lapidei, anch’essi così detti a potiori, essendo talvolta
posti fra quelli altri strati di sostanza più molle. Nella Dissertazione spiegai le
lettere delle figure e l’ordine in cui le figure si seguono e qui esporrò
brevemente l’ordine delle mutazioni. La fig. 25 mostra infatti il piano
perpendicolare della Toscana, al tempo in cui gli strati lapidei erano ancora
interi e paralleli all’orizzonte. La fig. 24 mostra ingenti cavità corrose dalla
forza del fuoco o dell’acqua, rimanendo intatti gli strati superiori. La fig. 23
mostra valli e monti sorti dalla caduta degli strati superiori. La fig. 22 nuovi
strati fatti dal mare nelle dette valli. La fig. 21 la consunzione della parte
inferiore dei nuovi strati, mentre i superiori rimangono intatti. La fig. 20 la
caduta degli strati arenacei superiori, e la formazione di colli e valli.
1 I pentagoni politi sono facce di [100], i triangoli striati quelle di [211], i triangoli
politi sono facce della bipiramide esagona di II ord. [311] e i piccoli quadrilateri
oblunghi e politi facce del romboedro ottuso [332], inverso di [211].
343
344
LETTERE DI NICOLA STENONE
A
LAVINIA FELICE CENAMI ARNOLFINI
345
346
Eugenio LAZZARESCHI. Lettere di Nicola Stenone a Lavinia Felice Cenami
Arnolfini. [in] Bollettino Storico Lucchese, Periodico Quadrimestrale, Anno
VII, Num. 3, 1935 (XIV.). Scuola Tip. Artigianelli, Lucca 1936, pp. 157-185.
Fra le scritture gentilizie della famiglia Arnolfini, delle quali la Direzione del
R. Archivio di Stato in Lucca ha pubblicato l’inventario analitico (1) si
conservano otto lettere autografe che il celebre anatomico e naturalista Nils
Steensen di Copenhagen, più noto in Italia col nome di Stenone, diresse alla
gentildonna lucchese Lavinia Felice Cenami Arnolfini, come a quella ch’ebbe
parte notevolissima nella sua conversione dalla religione luterana alla fede
cattolica. Queste lettere non erano ignote agli studiosi della vita e dell’opera
dello scienziato danese (2), avendole pubblicate uno dei più grandi eruditi
del Settecento, Domenico Maria Manni, nelle sue “Azioni illustri di Niccolò
Stenone” edite a Firenze nel 1775. Ma il Manni, tutto compreso dal desiderio
di esaltare e diffondere l’esempio ammirevole della conversione dello
Stenone, tradusse quelle lettere scritte in francese “tutte in toscano per
opere di scrittori stranieri: W. PLENKERS S. J. Der Däne Nils Steensen. Freiburg, 1884.
J. JÖRGENSEN, Nils Steensen. Copenhagen, 1884. W. MAAR, To undgivne arbejder of
Nicolaus Steno fra Biblioteca Laurenziana. Copenhagen, 1910. P. METZLER S. I., Nikolaus
Steno in “Pastor bonus” XXIII, Trier, 1911.
In Italia, dopo le prime biografie e raccolte epistolari dello Stenone, fatte nel sec.
XVIII da D. M. Manni e da Mons. Angelo Fabroni, ritroviamo esaltato il nome del
grande precursore della scienza anatomica nelle pubblicazioni edite a Firenze nel
1883 per la inaugurazione del busto allo Stenone in S. Lorenzo, dove la salma fu
traslatata da Schwerin nel 1687, l’anno dopo la morte, avvenuta il 25 novembre 1686.
Il più recente scritto, a noi noto, è Nicola Stenone, di ALBERTO VEDRANI, articolo
scientifico, edito nella Illustrazione Medica Italiana (marzo, 1920) nella quale lo stesso
Autore, con grande competenza, pubblicò successivamente un altro studio Sul
discorso di Stenone dell’anatomia del cervello. La edizione principe, in due volumi, delle
opere scientifiche è la seguente: Nicolai Stenonis Opera Philosophica edited by Wilhelm
Maar at the expense of the Carlsbergfond. Copenhagen, Tryde, 1910.
347
servire ai men pratichi”, concedendosi licenze di libera traduzione, non
senza lacune nel testo. Per la quale ragione è sembrato utile pubblicare
integralmente, e nella lezione originale le otto lettere dello Stenone alla dama
lucchese, accompagnandole con alcune notizie illustrative, atte a meglio
intendere quel breve, ma eloquente carteggio.
***
Nicola Stenone non ancora trentenne nel 1667, poiché nacque a Copenhagen
il 20 gennaio 1638, ma già salutato in Europa da Teodoro Aldes col titolo
“anatomicorum coryphaeus”, desiderò recarsi a Lucca da Pisa, dove nella
primavera di quell’anno era tornato presso la Corte Medicea, che là soleva
trascorrere il tepido inverno.
Non ancora elevato all’onore di aulico archiatra, nè all’ufficio di maestro di
filosofia morale del principe Ferdinando, figlio del futuro Granduca Cosimo
III, aveva nell’anno decorso - il primo della sua venuta in Italia - liberamente
viaggiato sino a Roma per imparare osservando, e meglio apprendere dalla
parola, e dalla consuetudine degli uomini più dotti del tempo.
A ragione dunque l’amicizia già contratta negli esperimenti scientifici con
Francesco Redi - anch’esso medico di Corte - fece dirigere lo Stenone in Lucca
ad un altro illustre cultore delle discipline sanitarie, e più della critica storica,
Francesco Maria Fiorentini.
“Il Sig. Niccolò Stenone, il più famoso degli anatomici del nostro tempo,
viene a Lucca per vedere cotesta gentile città. Dico male: il sig. Niccolò viene
a Lucca per vedere, e per conoscere il sig. Francesco Maria Fiorentini. Io non
saprei dunque a chi meglio raccomandarmelo che allo stesso sig. Fiorentini,
sicuro che troverà in lui la solita sua virtuosa amorevolezza.
V. S. Ill.ma dunque lo accolga volentieri, che conoscerà un uomo degno
d’esser conosciuto; e si accerti che di tutti i favori, che al sig. Stenone farà, io
ne sarò il debitore. E le fo devotissima reverenza.„
“Da Pisa, 11 aprile 1667. FRANCESCO REDI” (1)
348
Come nel suo soggiorno in Firenze, per le feste di S. Giovanni del 1666, il
pellegrino danese aveva preferito alloggiare “in una camera locanda” -
conforme a quanto riferì suor Maria Flavia (1) - così a Lucca, dove era andato
per assistere alla festa della libertà (2), non volle accettare il cortese invito di
essere ospite del Fiorentini in quella vecchia casa dei Penitesi, che s’era
aperta nel 1581 a ricevere signorilmente Michele de Montaigne.
“Il sig. Niccolò Stenone era così degno dell’ossequio di tutti, che io non ho
acquistato merito alcuno con V. S. Ill.ma - scriveva il 17 aprile 1667 il
Fiorentini al Redi - servendolo quanto hanno comportato le mie continue
distrazioni, e la mia poca abilità. Mi si è rappresentato qual già me l’avevano
dipinto l’opere sue stampate e la fama precorsane, et io rendo a V. S. Ill.ma
quelle più devote grazie ch’io possa della cognizione più particolare che si è
degnata comunicarmi di questo soggetto virtuosissimo e gentilissimo.
Volentieri l’averei servito in casa propria, s’egli avesse voluto
compiacersene, ma non lo violentai perchè molti amano la libertà, di cui egli
era venuto a veder a Lucca la festa, ecc.” (3).
1 Suor Maria Flavia del monastero di Annalena in Firenze, al secolo Settimia del
senatore Alessandro del Nero, religiosa fin dal 1631, per ciò “di età provetta” quando
conobbe lo Stenone nella spezieria claustrale, influì anch’essa non poco sulla
conversione di lui, come ampiamente riferisce nella sua relazione, edita da D. M.
Manni, nella citata vita dello stesso Stenone.
2 La festa della libertà fu istituita in Lucca il 28 marzo 1370 per commemorare nella
domenica in Albis la liberazione di Lucca dal dominio pisano, ottenuta il 6 aprile del
1369 per grazia, non disinteressata, dell’imperatore Carlo IV. Cfr. CARLO MINUTOLI,
Frammenti di storia lucchese, I. La Domenica della libertà, Lucca, Cheli, 1878.
3 Edita da GIOVANNI SFORZA in F. M. Fiorentini ed i suoi contemporanei lucchesi.
Firenze, Menozzi, 1879, pag. 756; e in Atti della R. Accademia Lucchese, vol. XXI,
XXII, XXIV, Lucca, Giusti, 1882-86.
4 In. pag. 757 e 764. In questa lettera e nelle seguenti il Fiorentini dice della già
349
Ma il Redi, non solo aveva pensato di presentare lo straniero ad un uomo di
scienza, bensì ad una dama eletta di quell’antica aristocrazia lucchese,
elevatasi dai floridi traffici alle supreme magistrature della Repubblica, alle
dignità della Chiesa ed agli uffici militari e civili presso le Corti d’Italia e
d’Europa.
annunziata cura delle acque del Bagno di Corsena, che desiderava colà fare la Gran
Duchessa Vittoria della Rovere, consorte di Ferdinando II dei Medici. Arrivò a Lucca
il 21 agosto 1669 con il figlio principe Francesco Maria, con il suo medico Redi e ben
duecentocinquantotto persone di seguito. Sostò la notte nella villa di Saltocchio,
allora di. Lorenzo Cenami, e soggiornò ai Bagni di Lucca fino al 17 settembre.
L’autore del famoso ditirambo Bacco in Toscana alternò là le esperienze sulle acque
del bagno alla Villa con “grandi ed affettuosi brindisi” alla salute del Fiorentini,
propinando con gli eccellenti vini che dalla sua villa di Moriano gli regalava quel
buono e bravo amico lucchese.
1 F. REDI, op. cit. T. III pag. 237.
350
Era nato da Attilio Arnolfini e da Caterina Sbarra nel 1604, e nella sua
giovinezza s’era educato alle armi in Francia, presso i congiunti che a Parigi,
fin dal secolo innanzi, avevano preso dimora, adunando sostanze col cambio
e il commercio, nonché con gli uffici civili ed i gradi militari. Egli preferì
seguire l’esempio di Bartolomeo Arnolfini, morto a Posen nel 1593, dopo
aver combattuto “in Belgio contro hereticos, in Pannonia contra Turcas” come si
legge nella epigrafe alla sua memoria nella chiesa di S. Romano; poi di
Giorgio, di Carlo e di altri familiari, ricordati nelle memorie domestiche,
quali prodi soldati in Fiandra, in Ungheria e in Italia (1). Militando egli pure
per la Francia nelle guerre di Fiandra, seppe acquistarsi per il suo animo
valoroso il favore del Cardinale Mazzarino, che gli affidò il comando del
Terzo della Fanteria Italiana. Raggiunta ferma età e quiete di temili più
sereni, pensò di accasarsi, conforme al buon costume dei lucchesi all’estero,
con una sua concittadina, della illustre famiglia dei Cenami, anch’essi da
tempo dimoranti a Parigi, col titolo di Signori di Lusarches (2). Ma la giovane
donna prescelta trapassò precocemente a raccogliere negli eterni giardini
quella felicità che la sorella Lavinia aveva sospirato negli anni della sua
prima educazione nel monastero di S. Teresa in Camaiore, ove era nata da
Girolamo Cenami e da Felice Saminiati, il giorno 11 maggio del 1631. Il
desiderio dei parenti di stringere egualmente quel nodo, che la morte aveva
disciolto, fece dunque unire in Lucca nel 1650 Silvestro Arnolfini con la
giovane diciannovenne, a lui minore di quasi trenta anni (3).
Questa grave differenza di età, sebbene allietata dalla nascita di due figlie e
di due figli, Attilio Francesco e Girolamo, dei quali il secondo lasciò fama di
santità nella Compagnia di Gesù (4), fu la ragione forse - sfuggita al biografo
1 Inventario dell’Archivio Arnolfini, op. cit. e CESARE SARDI, I capitani lucchesi del
sec. XVI. In Atti della R. Accademia Lucchese, T. 32, Lucca, Giusti, 1904.
2 Cfr. LEON MIROT, Les Cename in Etudes Lucquoises. Revue d’Erudition della
Lavinia Cenami, con otto milia scudi di dote, et sei mila di donatico fattile tre milia
dall’Abbate [Paolo Cenami] et altri tre milia dal sig Vincenzo suoi zii, come
apparisce per contratto rogato da ser Jacopo Motroni, a dì 19 aprile 1651”. Dalla
“Nota delle cose più importanti seguite a me Silvestro Arnolfini dopo il mio ritorno
di Francia che fu l’anno 1650” in Archivio Arnolfini, reg. 23, c. 46. Cfr. nel reg. 11, cc.
139-153 il contratto di dote con l’inventario del copioso e ricco corredo.
4 Di Girolamo Arnolfini, fattosi religioso il 17 giugno 1677, come resulta dalle
citate memorie del padre (c. 59) scrisse Tommaso Tognini nella vita del P. Filippo
351
(1) - per cui l’amore materno, e le oneste lusinghe della vita, confortata nella
piena giovinezza dal fasto del censo e dalla “pubblicità del grado di
ambasciatrice” non concessero il godimento della pace domestica, neppure
la fuggevole gioia dell’oblio del dolore a quella santa, ma povera donna,
intristita, dopo la morte dell’ottuagenario consorte, in pietosa vedovanza, e
fra le astinenze ed i cilizi, fino al proprio ultimo giorno, il 14 dicembre 1710.
Ma nella sua infelicità terrena ella ebbe la suprema letizia della carità verso i
derelitti dei beni spirituali, più preziosi delle sostanze; ebbe forse la intima
compiacenza di avere guidato sulla diritta via, che a Dio conduce, anime
grandi ma smarrite nella titubanza del dubbio.
Non fra gli improvvisi convertiti, dei quali ogni secolo ha veduto affollata
quella via di Damasco, sulla quale Paolo di Tarso cavalcava tutto solo, può
confondersi Nicola Stenone: chè non fu illuminato dalla repentina ed
abbacinante folgore divina, ma da un lento e penoso avanzamento del suo
raziocinio scientifico dalla fredda aridità della religione protestante
all’ardente carità che infiamma la fede cattolica (2). Questo trapasso non
Poggi, lucchese. Le sorelle Camilla Teresa e Caterina si fecero monache nello stesso
convento di S. Domenico in Lucca.
1 “Sarebbe un portar vasi a Samo e civette ad Atene - scrisse il Manni - il
rappresentare chi fu sul bel primo del secolo presente il P. Abate Lateranense Don
Cesare Nicolao Bambacari di S. Fridiano di Lucca, scrittore laudatissimo etc.” ma
che sarebbe oggi del tutto in oblio se non avesse raccomandato il suo nome alla
“Descrizione delle azioni e virtù dell’illustrissima signora Lavinia Felice Cenami
Arnolfini” edita a Lucca, nella stamperia di Pellegrino Frediani, il 1715. Precede
l’effigie della signora Lavinia, incisa in rame da Francesco Panelli.
2 “Religionis examen mihi nondum permittebat rerum naturalium studium, cui totum
352
subitaneo ebbe combattuta elaborazione, poi felice compimento in Firenze,
contribuendo molto più dell’argomentazioni dottrinarie la parola semplice,
diretta al cuore, rivoltagli da suor Maria Flavia nella spezieria del monastero
dove egli, lo Stenone, andava a comprare manteche, ed i suggerimenti
suasivi e commossi di Lavinia Arnolfini, alla quale la pia monaca, ben
sapendo - come dice - che lo straniero ne frequentava la casa in Firenze, svelò
i reposti sentimenti dell’agitata coscienza.
L’inviato residente della Repubblica lucchese presso il Granduca di Toscana,
resistendo alla lusinga delle Nymphae mediterranei maris che lo invitavano a
ripetere l’iter maritimum in Gallias - conforme all’epigramma fiammingo a lui
dedicato da Van den Broecke - aveva fino dal novembre del 1665 preso
comodo e sontuoso alloggio in via dei Bardi, oltr’Arno, donde poteva
scoprire dalla selvosa collina l’arridente profilo della città, distesa lungo il
suo fiume luminoso e sereno. Ma non essendo qui luogo di seguirne la
laboriosa opera diplomatica, svolta in nove anni col fine di confermare le
ormai pacifiche relazioni tra Lucca e Firenze, vediamo l’ambasciatrice,
dimenticare le “norme di etichetta” suggeritele dai cerimonieri della sua
Repubblica (1) per ascendere sempre più - sulla fede del biografo che ne fu lo
spirituale direttore - verso la perfezione dell’anima, attraverso eccessive ed
allora ignorate sofferenze, e constrizioni dei sensi e della volontà, quasi per
meritare d’essere eletta a divino strumento della grazia d’una celebre
conversione.
“….. Senza fuggire i conviti, era solita mortificarne il gusto col premettere
disinvoltamente o assenzio o altro, che ne amareggiasse il sapore. Al
passeggio de’ giardini o con spine o con ortiche furtivamente toccate, sotto
pretesto di cogliere i fiori, trasformava le delizie in penitenze; ne’ festini
medesimi a cui la necessitava ad intervenire l’obbligazione del suo grado,
cingendosi con pungenti catenelle i fianchi, e ponendosi piccole pietre sotto
le piante de’ piedi, facea de’ balli, che sogliono essere attrattive d’un
pericoloso passatempo, utile tormento d’un ingegnoso martirio” (2).
signor Niccolò è veramente un angiolo di costumi, oltre essere quel gran filosofo e
quel gran anatomista e gran matematico che egli si è”. Op. cit., III, p. 5. Frattanto, il
Redi tratteneva piacevolmente a cena lo Stenone e, sempre in carattere, faceva
solennissimi brindisi!
1 Queste “norme di etichetta e di cerimoniale” sono conservate nel reg. 101, fasc.
353
Ritornato dunque a Firenze lo Stenone, ed informata da suor Maria Flavia
della deferenza ch’egli dimostrava verso la fede cattolica “principiò, contro
il suo costume, ad avere con lui qualche più condescendente parzialità di
tratto... l’ammesse a qualche frequenza di visite, ove i discorsi della virtù
morale, molto grati all’indole dello Stenone, s’avanzarono a poco a poco a
rimostrargli l’obbligazione della fede; sul qual punto trasportata ella
dagl’impeti della Carità, e da un tenero fervore di zelo, sospirando gli disse:
Ah! che io darei quanto sangue ho nelle vene a fin che V. S. intendesse
l’importanza della fede cattolica!” (1).
L’ardente impeto di queste parole commosse talmente il già predisposto alla
grazia che, come confessò più tardi al suo maestro di medicina Giovanni
Silvio (2), fu trasportato all’amore divino dall’insolito, e non mai altrimenti
sentito generoso spirito di sacrifizio. Cosicché, a ragione il Bambacari diceva
“che gli eretici più si convertono con la carità che con la scienza” ed a
comprova riferiva la testimonianza dello stesso Stenone, il quale affermava
“di poi molte volte che dove non l’avrebbero convinto gli argomenti, lo
convinse la Carità; più potè nel di lui cuore il fervore dello zelo che non
avrebbe potuto la forza delle ragioni”.
Inutili, e forse di effetto contrario, sarebbero state di fatto le argomentazioni
salutari del P. Emilio Savignani della Compagnia di Gesù - alla cui Casa di
probazione in Borgo Pinti l’Arnolfini diresse lo Stenone - se “alle sue fatiche
non avessero dato calore le orazioni di lei”. La quale di nuovo accolse l’ospite
titubante, e in quel memorabile giorno dei Morti del 1667, “vedendolo ancora
irresoluto, ispirata da Dio a dargli l’ultimo crollo con un certo che di santo
sdegno: - Signore - gli disse - le visite e i discorsi a cui contro il mio stile
l’ammetto, non hanno altro fine che lo zelo della vostra eterna salute; e sono
354
un puro sforzo della Carità che vorrebbe acquistarvi alla Fede; e perciò se voi
non volete arrendervi alla cognizione del vero, non devo io gettare
inutilmente il tempo. Non venite più dunque da me, se non siete risoluto ad
esser cattolico” (1).
Lo stesso giorno 2 novembre lo Stenone dichiarava al P. Savignani di volere
abiurare la fede luterana per farsi cattolico; recitava il Te Deum laudamus!
nella cappella dell’ambasciatrice lucchese in Firenze; e all’indomani - come
riferì suor Maria Flavia nella ricordata relazione - sciolto il suo voto segreto
ad un’immagine della Vergine, fece la sua abiura dinanzi al P. Inquisitore M.
Girolamo Baroni da Lugo, minore conventuale.
***
Che lo Stenone fosse vinto, non avviato alla sua risoluzione dalla fraterna
carità della dama lucchese, è comprova il suo carteggio con la medesima, del
quale non sono superstiti nell’originale che le otto lettere, già ricordate;
perchè - come informa il Bambacari e ripete il Manni - “l’Arnolfini per tener
lontana la propria gloria donò alle fiamme [quelle lettere] comecché
racchiudevano qualche fatto, sul timore che dopo sua morte si vedesse, e
soltanto rattenne la mano dall’incendiare alcune poche scrittele dal nostro
Convertito etc.” (2).
Tuttavia è da credere che altre lettere dello Stenone alla sua amica spirituale
fossero salvate dal fuoco, facendone fede la lunghissima epistola, senza data,
scrittale in Firenze, quand’ella ritrovavasi in Livorno con la Corte Medicea,
per “spiegarle in carta le ragioni - scrive il neofita - che mi avevano persuaso
ad abbandonare la credenza luterana, di cui io ero stato tenacissimo, e ad
abbracciare la fede cattolica Romana da me per l’addietro aborrita”.
Di questa celebre lettera ch’è un profondo studio psicologico ed insieme
un’esegesi acuta del sacramento Eucaristico - per cui è da dubitare che la
lettera stessa, per la elevatezza del suo contenuto, sia stata dall’autore
trasmessa alla destinataria, ovvero riserbata alla stampa - merita di rileggere
il passo seguente, per la migliore intelligenza della conversione, non davvero
improvvisa, dello scienziato danese.
“Mi ritrovava io in Livorno, dove ella si ritrova, nel tempo della solennità del
Corpus Domini; ed al veder portare in processione con tanta pompa
355
quell’Ostia per la città, sentii svegliarmisi nella mente quest’argomento: o
quest’Ostia è un semplice pezzo di pane, e pazzi son costoro che le fanno
tanti ossequi; o quivi si contiene il vero Corpo di Cristo; e perché non l’onoro
ancor io? A questo pensiero, che mi scosse l’animo, da un canto non sapevo
indurmi a credere ingannata tanta parte del mondo cristiano qual’è quella
de’ Cattolici Romani, numerosa d’uomini svegliati e dotti; dall’altro non
volevo condannare la credenza, in cui ero nato ed allevato.
E pure era forza il dire o l’uno o l’altro: poiché non vi era, nè vi è modo di
conciliare insieme due proposizioni che si contradicono, nè poter reputare
vera quella Religione, che in un punto tanto sostanziale della fede cristiana
andasse errata, e facesse errare i suoi seguaci.” (1).
1 Poiché lo Stenone, seguitando, dice che dopo essere stato a Livorno si recò a
Firenze “a cagione della lingua italiana che qui si parla con fama di pulizia” e che là
“per sodisfare all’incertezza dell’animo agitato nell’accennato mistero
dell’Eucarestia adoperò ogni possibile diligenza nel cercare la verità etc.” la data
dell’avvenimento che lo fece proseguire sulla via della conversione è l’anno 1666, e
precisamente il 24 giugno, giorno della festa del Corpus Domini di quell’anno stesso,
in cui la Pasqua cadde il 25 aprile.
2 ANGELO FABRONI, Lettere inedite di uomini illustri, Vol. II, pag. 24.
3 Questo piccolo e umile sigillo di Mons. Stenone, del quale il Manni riprodusse
il disegno (op. cit. pag. 173), porta nel campo dell’arma, coronata dall’insegna del
cappello episcopale, un cuore sormontato dalla croce, con evidente allusione alla
divina carità che operò il prodigio della sua conversione. Come arguisce il Manni,
quella “interiore impresa è molto somigliante al simbolo del Cuor di Gesù, che per
opera di quella venerabil Madre Suor Maria Margherita [Alacocque] venne diffuso
poco innanzi a quel tempo per l’Europa”.
4 Il Manni, in segno di gratitudine, inviò al Bernardi una copia della già citata sua
“Vita del letteratissimo Mons. Niccolò Stenone di Danimarca, vescovo di Titopoli e Vicario
356
dello Stenone, della cui esistenza potè aver notizia dalla vita di Lavinia Felice
scritta dal Bambacari, il quale ne riprodusse alcuni brevi passi.
La prima, in ordine di data, è del 19 marzo 1683, scritta da Münster, cioè
sedici anni dopo la conversione; quando il mittente, consacrato sacerdote fin
dal 1675, e fatto vescovo in partibus di Titopoli nella Grecia, spiegava quale
Vicario Apostolico un fervido ed efficace apostolato nei paesi del
settentrione d’Europa, in ubbidienza all’istruzioni del pontefice Innocenzo
XI. Scrive all’Arnolfini confermandole la propria riconoscenza per la sua
rinascita nella vera Chiesa, e facendo salutari considerazioni; rammarica la
perdita dei presuli ch’ebbero la dignità vescovile contemporaneamente alla
sua consacrazione episcopale, e quasi invidiando il figlio di lei, il P. Girolamo
Arnolfini che si era fatto religioso, lamenta le difficoltà che incontra
nell’adempimento dei suoi doveri pastorali, pur essendo confortato dalla
grazia di ottenere salutari conversioni (1).
Madame,
l’obéissance que je vous doive, comme fils spirituel à une personne qui a tant fait
pour me faire avoir la naissance de Dieu et de sa sainte Eglise, me fait escrire ce que
Dieu me fera la grâce de me faire venir en pensée, pour respondre et à vous en
particulier, et à la relation italienne en considération de la nouvelle convertie. Soit
bénite la miséricorde de Dieu, qui tousjours augmente son Eglise avec des nouvelles
plantes. Dieu ait, comme j’espère dans sa gloire nostre bon ami Mons. Strozzi; mais,
Madame, que sera de moy ? Dieu a desjà reçu chez soy ces deux mes Pères spirituels
Sfondrati et Strozzi, qu’environ en même temps eurent le character d’Evesque, un
peu avant moy, et qui seuls estoient dignes de servir long temps à son Eglise, (2) et
Apostolico” edita a Firenze nel 1775. Questo esemplare è quello stesso posseduto oggi
dalla Biblioteca Governativa di Lucca, alla quale pervenne dalla libreria Bernardi.
Innanzi al frontespizio ha questo autografo del suo primo possessore: “Di me
Tommaso Francesco Bernardi ex munere Auctoris die prima Augusti 1775”.
1 Le otto lettere di Nicola Stenone, ora edite integralmente, sono conservate nel
fasc. 16 del reg. 97 del fondo Arnolfini nel R. Archivio di Stato in Lucca. Furono
trascritte dall’originale per cura della Dott. Raffaella Bocconi, diligente e colta
funzionaria dello stesso Archivio. Nella riproduzione del testo francese scritto da
uno straniero, per ciò denso di barbarismi, la correzione fu limitata a lievi ritocchi
ortografici, agli accenti ed alla interpunzione, per agevolare e chiarire la lettura.
2 Carlo Filippo Sfondrati di Milano, della stessa famiglia di Gregorio XIV e dei
357
moy qui devrois dès l’impression du caractère estre ôté de la vigne de Dieu, pour u’y
pas laisser venir tant de dégast, je vive encore et encore tous les jours par mes
ignorances, négligences et tiédeurs nuisse aux brebis achetées par le précieux sang
de Dieu. Ah que le feu Mons. Sfondrati, que sans doute est dans une grand gloire, à
raison me donna pour premiere leçon, quand je luy dis ma vocation pour le Vicariate
Apostolique, que je fusse très soigneux pour l’imposition des mains. J’ay desjà
imposé les mains sur une très grande quantité dans ce vaste diocèse, et pour ma
confusion j’en trouve à cette heure plusieurs, qui n’en furent point dignes, et que je
pouvois avoir découvert et esclu, si j’eusse été vigilant selon mon devoir et selon la
dignité de l’affaire. Pour amour de Dieu priez et faites prier Dieu, qu’il ne me dâne
pas pour leurs péchés et pour les miens. La nécessité spirituelle de ces lieux est plus
grande que je ne vous la sçauray jamais descrire. Dieu ait pitié de nous. Voyant que
Dieu m’a ôté ces deux Evesques, les prières desquels étoient pour moy si efficaces, et
considerant qu’Il m’a aussi ôté ces deux amis, qui vinrent avec moy d’Italie je
commencerois à espérer, qu’Il songera aussi à me faire miséricordie aussy à moy,
pour me tirer des dangers de l’offenser dans une vocation, où selon les corruptèles de
l’éducation et de la vie aussi bien des réguliers de certains ordres que des séculiers
quasiment universelles, il est très difficile de ne se point rendre partécipant des
péchez d’autruy, ou en admettant aux ordres [ceux] qui ne le sont pas dignes, ou en
ne tâchant à découvrir ce que l’on pouvoit, et à advertir chaqun selon l’obligation de
la correction fraternelle et par mille autres voyes. Heureux vostre fils qui se rendist
sous l’obéissance d’une sainte ordre! (1) qui sçait, si je n’ay pas manqué à une pareille
vocation, et que pour châtier mon orgueil, Dieu m’a laissé venir à des honneurs et à
une autorité, qui sera mon précipice. Priez Dieu, si c’est que je luy pourois mieux
servir sous l’habit religieux, qu’Il me donne la force de rompre tout, pour finir ma
vie sous l’obéissance, et expier toutes mes négligences, ignorances et tiédeurs dans
cette vocation dangereuse, devant que de comparoistre devant son tribunal. Pour ce
qui regarde le Cavailler converti, il continue encore à l’inconnue à fréquenter les
écoles et à vivre dans une actuelle pauvreté de la seule providence de Dieu, et son
exemple a fait qu’un autre gentilhomme converti autrefois apres avoir veu ce
chanchement, a quitté les occasions qu’il avoit pour vivre et continuer ses études
Bambacari dice ch’era confessore di Lavinia quando era in Pisa. Giulio Strozzi di
Mantova, figlio del marchese Giulio Cesare, fu religioso francescano, consacrato
anch’egli vescovo nel 1677 e defunto nello stesso anno 1680.
1 “A dì 17 giugno 1677, giorno del Corpus Domini, Geronimo mio figlio prese
l’abito di Gesuita con gran fervore. Che piaccia a Dio sia a maggior sua gloria”. Nota
citata di Silvestro Arnolfini, c. 59.
358
dans une honneste médiocrité, et s’est aussy donné à une actuelle pauvreté, mais je
n’ay plus rien appris de celuy-cy; mais le premier m’a envoyé une lettre écrite cette
année la feste des Rois, qui preuve des très évidentes marques de la divine providence.
Je me confonde a voir dans des nouveaux convertis une si grande perfection, et dans
moy après tant d’annéez encore de si grandes imperfections et tiédeurs.
Recommendez moy à Dieu et aux prières de tous vos advocats dans le paradis, et de
tous vos amis spirituels en la terre, Dieu nous fasse dignes de sa miséricorde infime.
Mes très humbles baisemains à monsieur Arnofini et à toute vostre familie, en
particulier au révérend Père Hiérôme, et suis, Madame, vostre très indigne valet et
fils en J. C.
Nic. Ev. de Tiz. Suffr. de Münster
A Münster 1683, jour de s. Gioseph. Plust a Dieu, que je le puisse servir comme l’a
fait la sainte Térèse, pour obtenir par son entremise de ne plus manquer à aucune
part de ma vocation, ou de venir finir mes jours sous l’obéissance.
359
l’Autriche nous de- vroient rendre tous saints ; mais j’advoue mes misères, que j’en
sois peut-estre moins émeu que personne : oh que j’ay un extrême besoin des prières
de mes amys puisque elles seulement obtiennent de Dieu miséricorde pour moy, et je
crains que de moy même je mette seul plus d’obstacle, que les mérites de tant de
personnes ne peuvent point surpasser. Dieu vous bénisse et tout ce qui vous
appartient. Mes baisemains à Mons. Arnolfini et toute la familie. Je suis, Madame,
vostre très indigne valet et fils
Nic. Ev. de Tiziop.
A Münster, la veille de S. Ignace de Loyola [30 luglio] 1683
A Madame
Madame Lavinie Arnolfini de’ Cenami
à Lucques
Anche la seguente terza lettera, incompiuta e senza data - che può essere la
prima parte superstite d’una di quelle che, per eccessivo scrupolo, furono
distrutte - sembra riferirsi agli avvenimenti politici derivati dall’assedio di
Vienna, liberata dal valore di Giovanni Sobieski il 12 settembre 1683; ma la
cui vittoria, come già l’altra di Lepanto, non ricondusse la pace fra i principi
cristiani, alleati nel comune interesse con la Chiesa.
Madame,
c’est à cette heure temps de prendre à coeur l’interest de la saincte Eglise; quand les
grands du monde s’appliquent à des nouvelles alliances, pour en empêcher le progrez,
et même pour en éteindre autant qu’ils pourront. C’est aux Rois et Princes
Catholiques de voir ce que par leur force et autorité, qu’ils ont de Dieu, Dieu voudra
faire ; mais s’il y doit estre de bénédiction pour les actions des séculiers, il faut que
Moises sur la montagne tienne les bras élevez vers le ciel. La connoissance que vous
avez, des personnes qui s’appliquent à trouver Dieu, vous donnera le moyen de faire
établir avec vous une union non pas des personnes ensemble, mais des coeurs en
Dieu, et si à toutes les élévations du saint corps et du sainct sang de nostre Seigneur,
par tout le monde l’un s’unissoit avec cette intention que David prononça quand
l’on luy rapportoit qu’Achitophel s’unissoit dans la conjuration d’Absalon contre
David : Infatua quaeso, Domine, consilium Achitophel ! Dieu peut-estre se laissera
plier vers la miséricorde pour ne pas permettre à nos adversaires, ce que nos péchez
méritent.
[senza data; 1683]
360
La quarta lettera, del 24 settembre 1684, scritta da Amburgo, dove lo Stenone
erasi recato da Münster per i doveri del suo ministero di Vicario Apostolico,
fra i quali la difesa della Casa missionaria dei Gesuiti minacciata di
remozione (1).
Di là, scrivendo all’Arnolfini, rivela non senza nostalgia del soggiorno in
Italia, l’angustia del suo spirito, combattuto, più che dagli umani contrasti,
dalla severità della sua coscienza religiosa, e dal timore di non sapere
adempire ai propri doveri di pastore d’anime. Può riferirsi dunque a questo
tempo e a questo suo angosciato abbattimento l’epistola consolatoria che, in
risposta agli scrupolosi dubbi, gli diresse il P. Giovanni Sterech della
Compagnia di Gesù (2); come ha stretta relazione il contenuto della lettera
che segue con la confessione scritta delle sue colpe dallo Stenone (3).
Il quale, ancora una volta insistendo sul timore della propria indegnità
sacerdotale, quasi udisse davvero nella sua santa umiltà la invettiva di
Caterina da Siena contro “i fiori puzzolenti” della Chiesa, giunge alla
consimile invocazione del martirio, se pure anche di questa grazia non si rese
indegno!
3 “Auctor enumerat suas culpas. et de ipsis petit misericordiam a Deo”. Ed. W. MAAR,
op. cit. dal ms. Stenonis Nicolai Opera. Medic. Palat. 36.
361
seulement servir aux âmes, j’avois de la peine à ne me brouiller des fois avec mon
confesseur : dans l’autre lieu où Dieu m’envoya depuis, j’[en]ay eu deux de suite,
l’un étant appelé autre part, et là il y avoit quelque confidance, parce que c’étoit des
Pères de la Compagnie; avec tout cela ils se trouvèrent des rencontres où ma charge
m’obligeait a des choses qui ôtèrent grande partie de cette confience si nécessaire pour
le gouvernement de l’esprit. Je suis à cette heure dans un troisième lieu de demeure
où il y a des mois que je ne traite avec mon confesseur que le peu de mots que l’on
croit nécessaire pour la confession, et cela pour m’être trouvé obligé de chercher le
changement de deux missionairs, d’où sont suivis de telles passions contre moy, que
j’aurois de la peine à les tous expliquer. J’ay informé le Pére Général de tout, et il a
promis d’y vouloir remédier ; mais il y faut du temps. Il semble que le seul nom
d’Evesque ait quelque antipathie avec les religieux, et quoy que je ne fasse pas une
action de superiorité et que je me gouverne en tout comme un simple missionaire, et
que ce que je crois nécessaire, je le traitte avec les supérieurs, nous restons tousjours
dans une méfiance. Vous voyez comment je me trouve, et si je n’ay pas raison de
craindre que pour ne me pas estre bien servi des directeurs que j’ay eu auparavant,
Dieu me punit à cette heure de cette façon. Je donne des règles d’esprit aux autres, et
je manque à les pratiquer moy même. L’on m’a chargé du soin de plusieurs endroits,
et je ne trouve pas moyen pour satisfaire à un ; voyez je vous prie si mes craintes ne
sont pas très justes, surtout quand il me vint en pensée cette horrible sentence d’une
Sainte, que Dieu pour le péché du monde le faisoit gouverner par des prélats
reprouvéz. Et avec toutes les fautes que je reconnois en moi, avec tout le defaut des
directeurs, avec tout le danger des misères du monde misèrable, je passe ma vie
comme sans sourire, sans larmes, sans douleurs, il faut dire comme un mort, qui
n’appréhend plus rien. Priez Dieu qu’il me fasse une de ces deux grâces, ou de faire
tout ce que mes obligations demandent, ou de me retirer à n’avoir soin que de ma
proprie âme, et de m’y assister pour me préparer à une bonne mort. Il est vray, s’Il
me vouloit faire digne du martyr, ce seroit la plus grande grâce, mais je m’en suis
desjà rendu trop indigne. Je ne sçay où me tourner, que aux miens des amis de Dieu.
Les bonnes nouvelles du Pére Girolamo m’ont fort réjouy : j’espère qu’il me fera la
miséricorde de se souvenir de moy, quand il est avec le bon Dieu ; oh la grande
différence qu’il y a entre la religion en Italie et dans ces quartiers il me semble que
nous [ne] sommes plus catholiques icy, si peu de personnes trouve-t-on, qui
s’appliquent véritablement à Dieu, et moy moins que le reste. La mémoire de ce que
j’ay veu en Italie de bon me réveille quelque fois, et cela même me fait quelque fois
craindre, qu’ayant tant veu je l’imite si peu. Vous ne me mettez pas tout à fait hors
de peine pour la santé de Mons. d’Arnolfini, j’advoue que l’âge rendra la guérison
difficile, mais je le tiens tellement conforme avec la volonté du bon Dieu, que le repoz
362
de l’âme servira beaucoup pour rendre plus efficaces les remèdes pour le corps. Dieu
vous bénisse, et toute la familie, de laquelle de même que de vous, Madame, je me
professe le plus indigne valet
Nic. Ev. de Tiziop.
Hamburg, ce 24 du settembre 1684.
1 “Il nuovo stile” col quale sono datate alcune lettere si riferisce alla riforma
gregoriana (1582) del calendario giuliano, accettata molto più tardi nei paesi di
religione protestante, e per la quale si debbono computare dieci giorni in più sul
vecchio stile.
363
Anche la sesta lettera è senza data, ma scritta indubbiamente da Amburgo
prima del 22 novembre 1685, giorno della morte di Silvestro Arnolfini (1).
Informato della grave malattia di lui dal Gran Duca di Toscana, Cosimo III
de’ Medici, lo Stenone che aveva bene conosciuto in Firenze l’ambasciatore
della Repubblica lucchese, innalza preghiere per la sua sanità, e chiede il
ricambio di preci per la salute spirituale della propria anima, e della
comunità religiosa, di cui è responsabile innanzi a Dio.
1 “A dì 22 novembre 1685, alle 11 ore e mezzo in circa, seguì la morte del sig.
Silvestro Arnolfini mio padre, che sia in cielo” etc. Dai ricordi domestici di Attilio
Francesco, di seguito alla citata Nota etc. di Silvestro. Archivio Arnolfini, reg. 23 c.
68.
364
È la parola del supremo conforto che può dare solo la fede cristiana nella
temporanea separazione da coloro, che ci furono più cari nella vita terrena.
Con la morte del consorte la sposa ha perduto l’occasione di esercitare a
favore di lui sofferente la virtù della carità; ma può acquistare il beneficio
della grazia interiore, restando sempre congiunta all’assente con i vincoli del
suffragio, e confortata dalla fede d’essere a lui ricongiunta. Bene intende il
suo dolore, espresso dalle lagrime che le facevano velo agli occhi mentre gli
partecipava tanto lutto; ma poiché lo scrivente, a fine di concedere la dovuta
pietà all’affetto umano si riferisce qui al pianto di S. Agostino sulla salma
della madre sua Monica, e non alle lagrime versate da Cristo sul sepolcro di
Lazzaro - come dice il Bambacari (1) - è da arguire che un’altra lettera
consolatoria fosse stata scritta posteriormente dallo Stenone alla vedova
Arnolfini. Nella seconda parte della seguente torna ad insistere sulle aridità
dello spirito che lo affliggono, specialmente dopo la perduta speranza d’un
ritorno in Italia.
365
de le suivre. Vous avez perdue une occasion pour les vertus chrestiennes qui
regardent l’extérieur, mais vous avez gaigné du temps pour celles qui regardent
l’intérieur. Le même pacquet qui me portoit vostre lettre d’Hamburg a Swerin me
portast aussy la lettre d’un mary, qui avait perdu sa femme aussy par une mort très
chrestienne, lequel voyant à cette heure ses enfans en état de n’avoir guère plus
besoin de luy, delibère d’une manière de vivre pour s’unir entièrement avec le bon
Dieu. Peut-être, comme vous avez souffert beaucoup de difficulté en mêlant l’action
avec la contemplation, Dieu vous en veut récompenser par ses douceurs, qu’Il verse
dans les âmes solitaires, et se servir de vos prières comme de celles de Moises, pour
obtenir aux combattans contre les ennemys spirituels l’assistance divine et la
victoire. Pour ce qui me regarde, mes tiédeurs, négligences et ignorances m’ont
reduit dans un état, où je ne me connois plus : Dieu le voit si je ne suis pas desjà
entièrement délaissé de Luy: je reconnois une partie des grandes obligations de mon
état, et je prêche aux autres la dannation de ceux qui ne s’affatiquent point pour
accomplir toutes les obligations de leur vocation, et je mène une vie, comme si les
âmes ne me regardoient point, auxquelles je suis envoyé. Priez Dieu qu’Il ait pitié de
moy, et de toutes les âmes qu’Il a voulu soubs mes soins, et qu’Il me donne lumière
et force pour tellement servir à toutes affin que personne au jour du jugement se
puisse plaindre de mes tiédeurs, négligences, ignorances et autres défauts, comme
des causes de sa dannation. J’avois espéré me remettre un peu selon l’esprit dans vos
quartiers, mais Dieu m’a renvoyé dans un pays où je suis plus aveugle que je n’ay
pas été dans aucun endroit. Il s’y pourroit faire un grand bien, et vos prières y
peuvent contribuer, parce qu’il faut que tout vienne de Dieu par de voyes de sa pure
divine providence cachée ; puisque j’y trouve les intrigues d’entre les personnes
d’une telle manière qu’où je devrois attendre la plus grande confiance, je n’en ose
rien espérer. Enfin si l’établissement, que nous désirons, de l’exercice après la mort
de S. A. Ser.me (si Dieu la fait mourir sans héritier, comme il y a grande apparence
qu’il n’en viendra pas) se fera, c’est que Dieu le veut faire par des voyes cachées à
nos yeux, desquelles j’attends le plus, pourveu que vous le recommandez à vos Amis
spirituels, affin que tous avec vous s’applique[nt] d’une ferveur tout à fait
particulière pour obtenir de Dieu cette miséricorde pour ce pays, c’est à dire qu’Il
nous veut donner una liberté stabile pour l’exercice, et des ouvriers apostoliques, qui
ne cherchent rien que la gloire de Dieu et le salut des âmes. Il y a longtemps que je
n’ay rien entendu de Messer Francisco à Venise, ny même du Chevalier
Buonacoursi, et comme vous ne manquerez pas d’y avoir des autres de nouveau
appellez de Dieu, faites moy la grâce de m’en donner quelque nouvelles et de me
recommander à eux tous. Si nous étions ensemble vous vous étonneriez à entendre
les misères spirituelles de ces quartiers, et surtout la dureté de mon coeur, qui m’y
366
accoutume tellement, que j’y passe le temps sans en être sensiblement touché, sinon
quand je l’escri à cette heure, pour un moment, et cela assez légièrement. Dieu ait
pitié de moy, et de nous tous. Mes très humbles baisemains à tous ceux de vostre
familie : Dieu vous veuille avec la nouvelle année donner nouvelle force pour l’aimer
et louer à proportion des grâces qu’Il vous a faites.
Je suis, ma très chère Mère, vostre très indigne valet et fils en J. C.
Nic. Ev. de Tiz.
Swerin ce 17 de dec. 1685.
A Madame, Madame Lavinie Cenami
Lucques
L’ultima lettera dello spirituale carteggio, di cui non resta che minima parte,
è un ripetuto e commosso rendimento di grazie, l’estremo, rivolto dallo
Stenone a colei che ritenne salvatrice della sua anima. Anche questa è scritta
da Swerin il 2 novembre 1686, nella diciannovesima ricorrenza
dell’indimenticato giorno della conversione, ed a breve distanza dalla morte,
avvenuta il 25 di quello stesso mese (1). Dopo sì lungo tempo, e dopo tante
variate vicende, il ricordo persistente gli fa ancora superare ogni distanza
per ricongiungerlo a quel benedetto giorno, destinato dalla Chiesa al
suffragio dei trapassati, e segnato da Dio a principio della sua nuova vita
spirituale.
Sempre, come dice, lo punge il rammarico di non aver meritato la grazia, di
non aver saputo ricambiare alla sua benefattrice il beneficio con le opere del
proprio ministero; per ciò, con umiltà contrita, domanda soccorso di
preghiere e conforto di perdono. Ma ch’egli, così dolorante nello spirito e
infermo nella carne, fosse stato ben degno della carità divina ed umana che
dalle tenebre del dubbio scientifico lo innalzò alla luce della verità rivelata,
fanno testimonianza queste sue ultime parole di sollecito amore verso i
fratelli in Cristo, al pari di lui convertiti, o sulla via della conversione. Egli
attende - come scrive - il comando del Pontefice per levarsi dall’abbattimento
che l’opprime nella persona e nell’animo; poi riprendere l’interrotto
cammino che conduce dai paesi nebulosi del settentrione verso lo splendido
sole del mezzogiorno. Ma invano sospira di rivedere con gli ultimi sguardi
1La relazione “De morte ac rebus gestis episcopi Stenonis mathematici praestantissimi”
diretta al Card. Francesco Barberini da Gaspare Engelberto Smal, edita da A. M.
BANDINI a c. 78 della Collectio veterum aliquot monumentorum etc. e riprodotta dal
Manni, trovasi nel citato fasc. 16 del reg. 97 dell’Archivio Arnolfini.
367
mortali l’Italia!
368
Catholiques est très petit, et de ceux là même peu qui me donnent de la consolation ;
oh que la saincte Eglise a bien eu raison de donner des défenses rigoureuses contre la
pratique, ou la vie familière avec les hérétiques ! Les Catholiques qui s’y gouvernent
négligement deviennent pires qu’eux. J’attends de poste en autre ce que Sa Sainteté
voudra de moy, ou que je m’arreste dans ces quartiers de la meilleure maniere que je
puisse, ou que je m’en aille à Treuve [Treviri] où l’Electeur me demande, ou que je
retourne en Italie. Que la seule volonté de Dieu soit faite ! c’est mon unique désir, et
priez Dieu qu’Il me fasse cette grâce, duquel je vous souhaite pour vous et pour tout
ce qui vous appartient tout ce que pour toute l’éternité sera la plus grande gloire de
la divine miséricorde, étant, ma très honorée mère en Jésus Christ, vostre très indigne
valet
Nic. Ev. de Tiziop.
Swerin, le jour des morts, st. n. 1686.
A Madame
Madame Lavinie Cenami veuve d’Arnolfini
à Lucques.
369
creduto passaggio alla fede cattolica nel 1666 del “solenne maestro
dell’Alcorano” Cogia Abulgaith ben Farag Assaid (1), e dello stesso re di
Danimarca Federigo IV, ricondotto a Firenze nel 1709 dal suo giovanile
sogno d’amore per “la fanciulla di Lucca” (2) sono tutti episodi religiosi da
studiare come ultimi, ma non meno efficaci effetti della complessa causa a
torto chiamata contro Riforma, e peggio reazione cattolica. In quel grande
movimento di valori spirituali che fu la vera Riforma italiana, contrastante
vittoriosamente, nei paesi latini, il dominio religioso e civile ai perpetui
nemici di Roma e della Chiesa, è da considerare fra le più eminenti la figura
di Nicola Stenone, nel quale, come bene scrisse il Vedrani “si succedettero
due anime: quella di uno scienziato e critico, freddissimo osservatore della
realtà sensibile, e quella di un asceta ardentissimo nella fede d’un mondo
soprasensibile”. Su tutti gli altri convertiti questo danese, illuminato dalla
vera luce sotto il sole d’Italia, eccelle davvero per la severa austerità del
costume e per lo splendore ancor vivo della mente. Egli, Nicola Stenone che,
dopo maturo esame e penoso contrasto, giunge a scrivere al suo maestro
Giovanni Silvio la ispirata epistola scientifica De propria conversione, per
rigettare la filosofia cartesiana, che gli era stata fino allora fondamento e
guida, impersona ed afferma l’avvenuto trapasso di poche anime
privilegiate dall’apparenza fugace del mondo sensibile alla verità assoluta
ed eterna dello spirito immutabile che i credenti chiamano Dio.
370
APPENDICE
371
tutto quel tempo, che è stato conosciuto da noi, anzi che una collana d’oro
con grosse medaglie con l’effigie del sig.r Duca che li fu donata dal
medesimo, la seconda volta che passò di Annover tornando di Danimarca
sua patria per venire a Roma, la lasciò ad un suo amico, e poi l’ordinò che la
distribuisse a’ poveri.
Faceva esso una vita estenuatissima, celebrava sempre in pubblico nella
Chiesa ducale la Santa Messa con esemplarità grande, e spesse volte e ne’
giorni festivi faceva discorso all’altare; il doppo pranzo delle Feste
predicava, quando in francese, quando in tedesco e quando in italiano, e
sempre con gran profitto dell’anime e predicava in queste lingue perchè la
Corte fioriva di simili nationi. Il suo vivere era sempre ritirato da qualsiasi
cosa di sollievo, sfuggendo tutti quelli potesse darli la Corte, andandovi solo
per il respetto delle Altezze Loro, e per predicare l’onore di Dio, e
guadagnare anime, e sempre in habito da Prelato di saia, benché fosse la città
luterana, e tutto deponghiamo con giuramento per esserci trovati presenti a
quanto sopra si è notato.
Soggiungendo ritrovarsi qui in Lucca un tal Rev. Bonaventura Nardini di
Garfagnana stato P. Cappellano del sig.r Duca d’Annover nel tempo che
viveva Mons.r Stenon suddetto, quale dice aver veduto fare al medesimo un
bel regalo di argenterie, e recusate da detto Prelato per il voto che haveva
fatto di povertà, ma poi accettate con conditione di potere il tutto dare a’
poveri come fece.”
“Io Niccolò Francesco Gratiani et Marie Teresse Duvergès dite Gratiani
affermiamo quanto habbiamo deposto sopra questo foglio in bona coscienza
e con giuramento mano propria.”
372