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Questa pubblicazione è stata realizzata

con il contnbuto della Facoltà di Filosofia


dell'Università Vita-Salute San Raffaele.
Wemer Jaeger

PATDETA
lA FORMAZIONE DELLUOMO GRECO

Introduzione di Giovanni Reale


Traduzione di Luigi Emery e Alessandro Setti
lndici di Alberto Bellanti

BOMPTANT
IL PENSIERO OCCIDENTALE
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e, Pef gli aggiornamenti, 1945 by Oxford University Press,
New York · .. · · · · · ...... " . · ·.
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© 2003 R.C.S. Libri S.p.A., Milano


Tedizione Bompiani Tl Pensiero Occidentale aprile 2003
INTRODUZIONE

DI
GIOVANNI REALE

CON
BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI
DI WERNER }AEGER

DI
HERBERT BLOCH
GIOVANNI REALE

LA FIGURA DI WERNER }AEGER E LA SUA OPERA


«PAIDEIA» COME GRANDIOSO MANIFESTO DEL
«TERZO UMANESIMO»

La formazione spirituale e culturale di Werner Jaeger

Jaeger è nato nel 1888 (a Lobbetich nella Renania) ed


è morto nel 1961 (negli Stati Uniti, a Boston). Il suo maes-
tro principale è stato Ulrich von Wilamowitz Moellen-
dorff; in seguito, ha assorbito, in varia maniera, fecondi
stimoli che provenivano dai messaggi di altre grandi
figure di filologi e studiosi tedeschi del pensiero antico e
da alcuni grandi pensatori che fiorirono fra la fine del
XIX e i primi lustri del XX ·secolo.
Nel suo primo semestre, diciottenne, studiò a
Marburgo, dove frequentò le lezioni di Hermann Cohen
e di Paul Natorp, e prese conoscenza dell'interpretazione
neokantiana di Platone. Ma la sua formazione si è realiz-
zata nell'Università di Berlino, a partire dal 1907, dove
insegnava Wilamowitz, circondato da grandi studiosi che
formavano un vero e proprio «Gotha» di straordinario
splendore.
J aeger stesso precisa: «Anche un Wilamowitz non
poteva certamente essere in grado di abbracciare tutte le
facce dell'antichità nella stessa maniera, ma al momento
VIII GIOVANNI REALE

del mio ingresso nella vita accademica (1907) nell'Uni-


versità di Berlino la scienza dell'antichità era nella sua
incomparabile completezza, e io ho sempre cercato di
imparare da tutti. Uomini come Hermann Diels,
Johannes Vahlen, Eduard Norden, Wilhelm Schulze,
Eduard Meyer e altri, vivono non solo nella mia grata
memoria, ma anche nella mia opera, nella misura in cui
io sono stato capace di recepire la loro scienza» (Scripta
Minora 1960, p. XII; in seguito abbreviato con S.M.).
Sempre a Berlino, Jaeger assistette alla nascita dell'o-
pera di epocale importanza di Diels, Die Fragmente der
Vorsokratiker (che si è imposta come insostituibile punto
di riferimento), seguendo le sue lezioni sugli autori trat-
tati nel primo volume nella sua prima stesura. Diels gli
fece conoscere anche Lucrezio e gli Epicurei, sulla base
dei lavori di Usener, che era stato suo maestro. Lesse le
opere di Wilhelm Dilthey, ma solo dopo la sua morte
(non poté seguire le sue lezioni, in quanto in quegli anni
si era già ritirato dall'insegnamento).
Alla conoscenza di Aristotele Jaeger venne avviato da
Adolf Lasson, che da giovane aveva seguito le lezioni dei
dei celebri filologi August Boechk e Karl Lachmann.
Inoltre Lasson aveva personalmente conosciuto August
Meineke, e proseguiva sulle linee tracciate da Adolf
Trendelenburg e Hennann Bonitz.
Jaeger riferisce anche di essere stato ammesso - mal-
grado fosse di gran lunga il più giovane - nelle riunioni
che si facevano fra studiosi di alta classe in casa di
Lasson in lunghe serate del venerdì, nelle quali riunioni
veniva praticato l'antico metodo della esatta esegesi di
un testo aristotelico con i vari problemi che esso solleva-
va. Si seguiva proprio quel metodo, scrive Jaeger, «che è
tradizionale nella storia dell'aristotelismo, e che è in uso
nella scuola di Oxford a partire da Ingram Bywater e con
W .D. Ross» (S.M., p. XIV).
I rapporti che Jaeger ebbe con tutti questi studiosi -
in maniera diretta o per mediazione - sono stati fonda-
INTRODUZIONE IX

mentali, oltre che per la s:ua formazione filologica,


soprattutto per quella filosofica. Infatti Wilamowitz era
un grande filologo, ma aveva scarsa sensibilità filosofica,
come Jaeger stesso riconosce: «Ciò che è propriamente
filosofico era lontano dallo spirito di Wilamowitz» (S.M.,
p. XIV).
La posizione assunta personalmente da Jaeger fu
quella di una costante ricerca di una «giusta misura» fra
filologia e filosofia, avvicinandosi non poco a quella
posizione che oggi chiameremmo «storico-ermeneutica».
Di conseguenza, egli respinse le letture che danno
eccessivo peso alla teoresi, che potremmo chiamare di
carattere «teoreticistico». Giudicò quindi correttamente
l'interpretazione di Platone della scuola di Marburgo
inaccettabile dal punto di vista storico-filologico, ma
trasse da essa un fruttuoso stimolo filosofico. Gli fece
sorgere la convinzione che bisognava avvicinarsi alla
filosofia greca attraverso uno studio del mondo antico in
termini di storia delle idee. In effetti, la storia della filo-
sofia non può se non essere una storia delle idee nei loro
fondamenti e nei loro nessi.
Nello stesso tempo, Jaeger respinse anche quelle
posizioni che potremmo chiamare «filologistiche», che
danno preminenza allo studio delle parole e dei dati lin-
guistici; e analogamente respinse anche quel metodo di
presentare il pensiero antico in modo puramente o preva-
lentemente «dossografico».
In particolare, l'interpretazione del pensiero degli
antichi di Jaeger si differenzia nettamente da quella di
Eduard Zeller. Mentre quest'ultimo nella sua celebre
opera La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico pun-
tava sui grandi sistemi e sulla loro presentazione in
maniera «puramente dossografica» (S.M., p. XXI), Jaeger
punta sulla individuazione di particolari idee-chiave,
studiando i nessi strutturali che le collegano con alcuni
motivi caratteristici di un'intera epoca. Di conseguenza,
egli studia in modo costante il pensiero filosofico degli
X GIOVANNI REALE

antichi nelle sue implicanze e nei suoi effetti «inclusi i


suoi influssi sulle scienze, sul pensiero religioso e teolo-
gico, sull'educazione, sul diritto e sullo Stato, e altresì
con la considerazione degli influssi di ritorno che la filo-
sofia stessa ha subito da parte di queste forze spirituali»
(S.M., p. XXI).
Jaeger ha continuato per tutta la sua vita a produrre
lavori strettamente filologici ad alto livello (tutti inclusi
in Scripta Minora 1960), ma li ha prodotti e usati in pre-
valenza come strumenti di lavoro. In effetti, nelle sue
grandi opere - fra le quali Paideia si impone non solo
come il suo capolavoro, ma anche come una delle opere
più significative del XX secolo dal punto di vista storico-
filosofico - egli ha raggiunto i vertici di un vero «storico
di idee» ricostruite e interpretate su solide basi.

La brillante carriera di Jaeger e la fondazione del «terzo


umanesimo», incentrato su Platone come figura emble-
matica dell'educatore

Nel 1914 a soli 26 anni, Jaeger vinse la cattedra


all'Università di Basilea; nel 1915 si trasferì all'Uni-
versità di Kiel e nel 1921 passò all'Università di Berlino,
come successore di Wilamowitz.
Nel 1924 divenne membro della «Akademie der
Wissenschaften» di Berlino. Nello stesso anno fondò insie-
me a Johannes Popitz la «Gesellschaft fiir antike Kultur», e
nel 1925 fondò la rivista «Die Antike» (di cui fu anche
direttore) con lo scopo di diffondere fra tutti gli uomini
colti il messaggio di fondo della cultura antica quale ele-
mento di perenne validità per la formazione spirituale.
Veniva attuato in questo modo il programma cultura-
le del «terzo umanesimo», incentrato sulla convinzione
che la cultura antica, in particolare l'antica «paideia» con
ai vertici Platone, costituisse un efficace e valido stru-
mento per uscire dalla crisi spirituale allora dilagante.
INIRODUZIONE XI

Alcune conferenze e articoli preparati e pubblicati in


questo periodo tracciano il quadro del «terzo umanesi-
mo» in modo sempre più dettagliato. Del 1924 è la confe-
renza tenuta all'Università di Berlino per il festeggia-
mento della fondazione del Reich, dal titolo: Die griechi-
sche Staatsethik im Zeitalter des Plato; del 1925 è la rela-
zione tenuta sempre a Berlino in un convegno dal titolo
«Das Gymnasium»: Antike und Humanismus; sono state
composte nel 1927 e pubblicate nel 1928 tre conferenze
tenute all'Università di Monaco dal titolo: Platos
Stellung im Aufbau der griechischen Bildung, delle quali la
terza ha il significativo titolo programmatico: Die plato-
nische Philosophie als Paideia; del 1929 è la conferenza
dal titolo: Die geistige Gegenwart der Antike, relazione al
primo convegno della «Gesellschaft fiir antike Kultur»;
(tutti questi testi, che fanno ben comprendere il sorgere e
lo sviluppo del programma del «terzo umanesimo»,
sono traccolti nel volume Humanistische Reden und
Vortrii.ge 1937; 19602).
Del 1934 è il primo volume di Paideia.
Nello stesso anno Hitler si impossessava definitiva-
mente del potere con l'eliminazione degli avversari, e già
nel 1936, per salvare dalle persecuzioni la moglie, che era
ebrea, Jaeger andò in esilio in America e iniziò a inse-
gnare all'Università di Chicago.
Gli altri due volumi di Paideia uscirono prima in lin-
gua inglese in America (II nel 1943 e III nel 1944), ma subi-
to dopo anche in Germania (Il nel 1944 e III nel 1947).
Con la partenza di Jaeger dalla Germania e con la
definitiva presa del potere da parte di Hitler, il «terzo
umanesimo» non ebbe più peso nella cultura tedesca. Ma
il suo messaggio girò per tutto il mondo legato alla cul-
tura dell'Occidente. Paideia venne tradotta in italiano (I
1937; II 1955; III 1959), in spagnolo e pubblicata in
Messico (I 1942; II 1943; III 1944; nel 1957 uscì anche una
edizione in volume unico); nel 1964 usciva anche la tra-
duzione del volume I in francese.
XII GIOVANNI REALE

Perché il movimento è stato definito «terzo umanesimo»?


Il «primo» umanesimo fu quello italiano; come
«secondo umanesimo» Jaeger intese quello sviluppatosi
nell'età di Goethe, e di conseguenza chiamò «terzo»
quello da lui promosso.
Il suo maggiore collaboratore nell'attuazione del pro-
getto del «terzo umanesimo» fu Julius Stenzel, le cui
opere ebbero pure successo, anche se non come quelle di
Jaeger. Per un pubblico vasto egli compose Platone edu-
catore, pubblicato nel 1928 (fu tradotto in italiano prima
parzialmente nel 1936 e poi integralmente nel 1966 per le
edizioni Laterza). Del 1917 è l'opera Studien zur
Entwicklung der platonischen Dialektik von Sokrates zu
Aristoteles e del 1924 è l'opera Zahl und Gestalt bei
Platon und Aristoteles, molto apprezzate dagli studiosi
specialisti.
Già nel 1935 Stenzel moriva, a soli 52 anni. Il messag-
gio del «terzo umanesimo» continuò solamente nelle
opere di Jaeger, soprattutto con Paideia.

L'opera «Paideia» come grandioso manifesto del «terzo


umanesimo»

Jaeger precisa che ciò che lo ha indotto a comporre


Paideia, oltre al suo interesse spirituale, è stata la crisi
della cultura umanistica che era in atto in Germania: una
cultura che si era invece così ben sviluppata nel secolo
XIX. Egli scrive: «Senza una permanente validità dell'i-
dea dell'uomo nella cultura, la dottrina classica pencola
nel vuoto». E precisa quanto segue: «Chi non si rende
conto di questo, dovrebbe venire in America, e qui cerca-
re di capire che cosa accade nello sviluppo degli studi
classici. Dove la tradizione umanistica comincia a deca-
dere, allo studioso dell'antichità rimane una sola cosa da
fare: difenderla a spada tratta e dedicarsi alla sua missio-
ne come insegnante, così come facevano i monaci del
INTRODUZIONE XIII

primo medioevo. L'importanza di ciò che chiamiamo


scienza umanistica non si può dedurre in maniera astrat-
ta da un concetto di conoscenza o per contrasto con la
scienza naturale, per quanto logico questo possa appari-
re. Queste non possono essere altro che astrazioni dedot-
te a posteriori, che hanno origine dal bisogno di portare
tutto ciò che esiste a un sistema ben organizzato» (S.M.,
p. XXVI). L'importanza della scienza umanistica non si
può comprendere se non sulla base di una solida tradi-
zione culturale, e solo nell'ambito di questa essa si può
risvegliare nuova forza: «l'urgenza prometeica di model-
lare uomini, che ci viene dall'antichità- scrive Jaeger -, è
e rimane radice di tutta la dottrina classica» (ibidem).
La forza educativa proveniente dal mondo greco ha
caratterizzato l'Occidente a partire dai Romani; è poi più
volte rinata con continue trasformazioni col sorgere di
nuove culture, dapprima con il cristianesimo, poi con l'u-
manesimo e il rinascimento; ed è proprio questa «forza
educativa», questa paideia, che, secondo Jaeger, bisogne-
rebbe ricuperare e mantenere in vita anche nel mondo
contemporaneo.
Egli sviluppa la sua tesi a grande raggio e con straor-
dinario ingegno. In effetti, il concetto di paideia è, in
qualche modo, onnicomprensivo di tutta quanta la vita
spirituale degli Elleni, e quindi ha nessi strutturali con
tutta una serie di concetti. Tuttavia, uno solo è il concetto
centrale attorno cui tutti i concetti connessi con varie
scienze in vario modo ruotano: quello di areté, ossia di
«virtù». Di conseguenza, Jaeger ricostruisce in modo
mirabile proprio il concetto di areté nella sua evoluzione
semantica da Omero a Platone, e in base a esso anche il
concetto di paideia: «Questo mi si è presentato - egli pre-
cisa - come il filo di Arianna per dipanare la storia della
paideia greca, che ruota attorno a nient'altro che all'areté
dell'uomo. Il punto che si doveva raggiungere era questo:
comprendere i Greci mediante i loro concetti e le loro
caratteristiche peculiari, e valutare il loro significato per
XIV GIOVANNI REALE

la storia del loro influsso spirituale. Dobbiamo imparare


storicamente perché i Greci stessi abbiano visto il loro
mondo spirituale in modo "astorico", ossia come la strut-
tura di un mondo di norme immutabili e non come il
corso di eventi puramente temporali» (S.M., p. XXVII).
Questo procedimento ci porterebbe anche a conside-
rare l'antichità come un tutto in modo organico. In effet-
ti, dice Jaeger, «La storia vista in questa luce appare non
solo come teatro di grandi fatti ed eventi, ma anche come
il luogo dove costanti forme dello spirito, forgiate da spe-
cifiche condizioni sociali, si sono infine liberate da que-
sta loro origine e continuano a esercitare il loro potere,
sia come modelli in senso greco, sia come semi che gene-
rano nuove forme» (ibidem).
Fra i moltissimi punti-chiave che qui potrebbero
venire richiamati, dato il limitato spazio che ho a dispo-
sizione, mi concentrerò su due soli, ma veramente emble-
matici.
Il primo riguarda Socrate con la scoperta del nuovo
concetto di psyche su cui si fonda l'Occidente, di cui
Jaeger scrive: «Ma che cos'è l"'anima" o, con la parola
greca e socratica, che cos'è "psyche"? Si consenta, per il
momento, di porre questo problema solo in un senso
puramente filologico. Quello che colpisce è che quando
Socrate;in Platone come negli altri Socratici, pronuncia
questa parola "anima" vi pone sempre come un fortissi-
mo accento e sembra avvolgerla in un tono appassionato
e urgente, quasi di evocazione. Labbro greco non aveva
mai, prima di lui, pronunziato così questa parola. Si ha il
sentore di qualcosa che ci è noto per altra via: e il vero è
che qui per la prima volta nel mondo della civiltà occi-
dentale, ci si presenta quello che ancora oggi talvolta
chiamiamo con la stessa parola, anche se gli psicologi
moderni non associano ad essa la nozione di sostanza
reale. La parola "anima'', per noi, in grazia delle correnti
spirituali per cui è passata nella storia, suona sempre con
un accento etico o religioso; come altre parole: "servizio
INTRODUZIONE xv

di Dio" e "cura d'anime" essa suona cristiana. Ma questo


alto significato, essa lo ha preso per la prima volta nella
predicazione protrettica di Socrate» (infra, pp. 750 sg.).
E per quanto concerne Platone come «il maestro per
eccellenza dell'educazione», Jaeger traccia una ricostru-
zione che, per molti aspetti, si impone come punto di
riferimento indispensabile anche oggi, soprattutto per
l'interpretazione della Repubblica, opera tanto fraintesa.
Egli comprende e dimostra molto bene come essa sia non
un'opera "politica" nel senso moderno del termine, e
come sia invece un trattato di paideia, scritto, cioè, per
conoscere e formare l'uomo al più alto grado.
Contro Gomperz - che, in ottica positivistica, giudica-
va la Repubblica come opera contenente, sì, molti bei
pensieri, però troppo incentrata su problemi di educazio-
ne - Jaeger scrive: «Tanto Vi:\rrebbe dire che la Bibbia è,
sì, un libro geniale, ma che in essa si parla troppo di Dio.
Ma non è il caso di sorridere, perché questo atteggiamen-
to non è un caso isolato. Esso anzi è tipico di quella man-
canza di intendimento che il secolo XIX ha mostrato di
fronte a quest'opera. La scienza, che si era evoluta a
superba altezza liberandosi dallo scolasticismo dell'u-
manesimo, aveva preso a sprezzare - e ciò pareva segno
di distinzione intellettuale - tutto ciò che sapeva di
"pedagogico"; col risultato che essa era diventata incapa-
ce di intendere le sue proprie origini. Quel problema del-
l'educazione umana, che ancora al tempo di Lessing e di
Goethe aveva avuto significato altissimo, la scienza non
era più in grado di vederlo nel suo valore antico e plato-
nico di centro della vita spirituale, dal quale l'esistenza
umana deriva il suo più profondo significato. Quanto più
vicino all'intelligenza della Repubblica era stato, un seco-
lo prima, Gian Giacomo Rousseau, quando aveva detto
che quest'opera: non era un libro di scienza dello Stato,
come pensano quelli che giudicano un libro soltanto dal
titolo, ma che era il più bel trattato dell'educazione che
fosse mai stato scritto» (infra, pp. 1031 sg.).
XVI GIOVANNI REALE

Di grande rilievo è la dimostrazione che Jaeger pre-


senta dell'educazione filosofica - che è la forma più ele-
vata di paideia - come «conversione (Jtcptayroyit, µc'ta-
cr'tpo<)>it)>>, come il voltarsi di tutta l'anima dalle tenebre
alla luce dell'Idea del Bene, principio del Tutto, centrale
nella Repubblica (cfr. infra, pp. 1200 sgg.). Egli precisa
inoltre quanto segue: «Quando si ponga il problema, non
già del fenomeno "conversione" come tale, ma dell'origi-
ne del concetto cristiano di conversione, si deve ricono-
scere in Platone l'autore primo di questo concetto. Il tra-
sferimento del vocabolo all'esperienza religiosa cristiana
ebbe luogo nel terreno del primitivo platonismo cristia-
no» (infra, pp. 1200 sg., nota 82).
In modo particolare va rilevato come, proprio in
Paideia, venga da J aeger per la prima volta presentata in
maniera corretta e ben evidenziata, la statura «meta-poli-
tica» del messaggio della Repubblica di Platone:
«L'essenza dello Stato di Platone non sta nella struttura
esterna - se pure ne abbia una - ma nel suo nucleo meta-
fisico, nell'idea di realtà assoluta e di valore su cui è
costruita. Non è possibile realizzare la repubblica di
Platone imitandone l'organizzazione esterna, ma solo
adempiendone la legge di bene assoluto che ne costitui-
sce l'anima» (infra, p. 1309).
La Città ideale di cui parla la Repubblica platonica
non si realizza esternamente, mettendo in àtto la struttu-
ra del suo schema, ossia creando uno Stato esteriore, ma
edificandola nell'uomo interiore, ossia nell'anima.
Jaeger richiama, a giusta ragione, il passo di Repubblica
IX 592 b, che esprime la cifra emblematica dell'opera nel
suo intero: «È indifferente se lo Stato ideale esista o esi-
sterà; perché l'uomo giusto osserva nel suo agire soltan-
to la legge di questo vero Stato, e non di alcun altro».
È, questa, una interpretazione radicalmente antitetica
a quella di Popper e dei suoi seguaci, e senza paragone
superiore dal punto di vista storico-ermeneutico.
INTRODUZIONE XVII

Il paradigma storico-genetico per l'interpretazione di


Aristotele proposto da ]aeger, il suo straordinario suc-
cesso e la sua dissoluzione

Jaeger ha iniziato la sua carriera scientifica studiando


Aristotele. Del 1911 è la sua dissertazione in lingua lati-
na Emendationum Aristotelearum Specimen (riedita in
S.M., pp.1-38).
Del 1912 è il suo primo cospicuo libro Studien zur
Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, in
cui si dimostra che la Metafisica di Aristotele non è un'o-
pera organica, ma una silloge di scritti nati in differenti
epoche. La tesi, molto ben condotta, non è tuttavia origi-
nale, perché già Paul Natorp (che - tra l'altro - Jaeger
conobbe all'Università di Marburgo) l'aveva in certa
misura anticipata, addirittura già nel 1888. (Ho pubblica-
to quest'opera di Natorp con il titolo Tema e disposizione
della «Metafisica» di Aristotele, nella traduzione di V.
Cicero e con mia Introduzione, in cui si potrà vedere in
che misura anticipava la tesi jaegeriana, Vita e Pensiero,
Milano 1995). La perizia con cui Jaeger, ancora giovane
(ventitreenne), condusse questo lavoro, lo impose, e a
buona ragione, in primo piano.
Su Aristotele ritornò ancora nel 1913 e nel 1917. Ma fu
con l'Aristoteles. Grundlegung einer Geschichte seiner
Entwicklung del 1923, che Jaeger si impose con una tesi
rivoluzionaria, che per quasi mezzo secolo dominò gli
studi sullo Stagirita (nel 1934 usciva l'edizione inglese;
nel 1935 la traduzione italiana curata da Guido Calogero;
nel 1946 la traduzione spagnola). Nella Metafisica, così
come nelle grandi opere aristoteliche - secondo Jaeger -
non solo non c'è una «unità letteraria», ma non c'è nep-
pure una «unità concettuale», ossia una «unità dottrina-
le». Manca un minimo comun denominatore stabile e
preciso. Dunque, non ci sono solamente tensioni dialetti-
che fra differenti concetti, ma ci sono vere e proprie
opposizioni e contrasti teoreticamente insanabili, ossia
XVIII GIOVANNI REALE

non mediabili in funzione di una visione sintetica com-


prensiva e strutturalmente unitaria.
Una volta che si escluda una prospettiva unitaria
mediatrice delle opposizioni, se si vuol salvare la cospi-
cua statura del filosofo, non rimane se non il tentativo di
operare una scansione e una collocazione delle differenti
e opposte tesi in tempi diversi, e quindi cercare di indi-
viduare differenti fasi di una evoluzione spirituale del
loro autore.
La parabola dell'evoluzione storico-genetica diventa,
in questo modo, un canone ermeneutico risolutivo dei vari
problemi, una chiave di volta per intendere l'opera di
Aristotele in generale e la Metafisica in particolare.
Ma il paradigma intepretativo storico-genetico di
J aeger si è via via rivelato privo di qualsiasi solida base
ermeneutica, e di conseguenza insostenibile.
Infatti, certi contrasti e opposizioni di alcune tesi che
si trovano nella Metafisica e nelle grandi opere dello
Stagirita non risultano mediabili solo se si legge l'opera
nell'ottica della Wirkungsgeschichte (come in larga misu-
ra fa Jaeger), e se non si ricuperano con esattezza le
valenze che quei concetti avevano nel preciso momento
della loro nascita e nella loro puntuale tensione dialetti-
ca con le dottrine accademiche.
Inoltre, una collocazione cronologica e una datazione
di alcuni libri o di alcune parti della Metafisica e delle
grandi opere aristoteliche sarebbero credibili solo nel
caso che venissero convalidate da precisi dati storici. Ma
questi dati mancano pressoché del tutto. E un «dato di
fatto» non può venire «dedotto» da esegesi e da interpreta-
zioni di contenuti dottrinali. ·
Nella sua stessa edizione critica della Metafisica,
pubblicata a Oxford nel 1957, Jaeger è caduto in arbitra-
rietà, obiettivamente e storicamente ben difficilmente
ammissibili: egli ha introdotto nel testo stesso parentesi
quadre con doppia linea verticale, per indicare quei passi
INTRODUZIONE XIX

che, a suo avviso, sarebbero stati inseriti nella presunta


stesura finale e nelle sistemazioni del materiale operate
da Aristotele medesimo. Ma è ben evidente che, se que-
sto non viene comprovato sulla base della lettura dei
codici, ossia sulla base di dati di fatto incontrovertibili,
l'editore del testo fa delle mere congetture, che può sen-
z'altro indicare, ma non già nel testo, bensì solo nell'ap-
parato critico, appunto come «congetture».
Le tappe dell'evoluzione di Aristotele, secondo
Jaeger, sarebbero state tre: (1) dapprima lo Stagirita
sarebbe stato un Platonico, con forti interessi teologici;
(2) successivamente, sarebbero prevalsi in lui interessi
ontologici (interesse per l'essere in quanto essere, per
l'entelechia immanente, per la struttura della sostanza
sensibile); (3) infine, sarebbero prevalsi interessi empiri-
ci per le raccolte e le sistemazioni dei dati di fatto, e la
concreta comprensione dei fenomeni empirici.
A ben vedere, questa parabola evolutiva rispecchia
esattamente la legge dell'evoluzione attraverso i tre stadi
di cui, come è noto, parlava Comte in Cours de
Philosophie Positive, secondo cui l'evoluzione dello spi-
rito umano, in tutte le branche del sapere, procede attra-
verso tre tappe: la prima di carattere teologico, la seconda
di carattere metafisico e la terza di carattere positivo.
Pertanto, le tre tappe dell'evoluzione delle scienze e la
loro esclusione reciproca (non mediabili) stabilite da
Comte sono l'esatto corrispettivo di quelle che Jaeger vor-
rebbe individuare nell'evoluzione del pensiero di
Aristotele.
Certo, non ci sono dati biografici di Jaeger che dimo-
strino suoi interessi per Comte; ma le tangenze di conte-
nuti e di struttura delle due tesi comprovano ad abun-
dantiam la dipendenza dell'una dall'altra.
Una tesi come questa di Jaeger (che ha fatto davvero
epoca come poche altre, in quanto ha creato un vero e
proprio paradigma ermeneutico alternativo a quello
xx GIOVANNI REALE

dominante - che puntava su un Aristotele sistematico se


non addirittura sistematicistico -, e per giunta con tutti
gli effetti che ha prodotto, e con le conseguenti discus-
sioni e polemiche), avrebbe richiesto interventi da parte
del suo autore a più riprese e in vari modi, in risposta a
richieste di vario tipo. Invece, Jaeger su Aristotele non
scrisse più nulla, e lavorò solo per l'edizione critica della
Metafisica. Fece eccezione per una polemica con Paul
Gohlke, nel 1928, per denunciare alcuni suoi errori filo-
logici, che avrebbero potuto screditare il nuovo tipo di
esegesi. In realtà, Gohlke ha proceduto imperterrito per
la sua strada, e ha tracciato un «riorientameto gestaltico»
del paradigma jaegeriano con acutezza ermeneutica, in
rapporto alla quale gli errori filologici che J aeger gli con-
testava non erano niente affatto decisivi.
In effetti, quella interpretazione di Aristotele di radi-
ce positivistica non rientrava in maniera adeguata in quel
disegno che J aeger stava tracciando con il programma del
nuovo umanesimo e con l'accentuarsi dei propri interes-
si religiosi e teologici.
Jaeger aveva iniziato a maturare il paradigma erme-
neutico storico-genetico per l'interpretazione di Aristo-
tele nel 1916, quando era professore all'Università di
Kiel. Egli stesso ci dice che da allora data sostanzialmen-
te anche la forma di esposizione del suo libro, e precisa:
«eccettuato il capitolo conclusivo» (Aristotele, ed. ital., p.
VIII). In effetti, in questo capitolo Jaeger cerca di correg-
gere, almeno in parte, il tiro della sua tesi di fondo. Dice
espressamente che «Aristotele non è mai stato un positi-
vista, neppure nei tempi in cui prevalse in lui l'interesse
per la ricerca empirica» (ibidem, p. 514). La peculiarità
dell'ultimo Aristotele sarebbe da vedere nella «energia
analitica», nella «mentalità analitica», nel «metodo anali-
tico» (op. cit., pp. 503 sgg.). Ma questo, malgrado l'affer-
mazione che abbiamo sopra letto, secondo cui Aristotele
non è mai stato un positivista, richiama proprio l'aspetto
tipico del metodo positivista. Comte stesso afferma che
INTRODUZIONE XXI

nell'indagine scientifica si tratta «seulement d'analyser


(!) avec exactitude les circonstances de leur production,
etc» (Cours de Philosophie Positive, Paris 1854, vol. I, p.
17).
In ogni caso, ancora Jaeger ribadisce in questo ultimo
capitolo - da lui scritto verso la fine del 1922, se non
addirittura agli inizi del 1923 - quanto segue: «Tutto ciò
che è venuto a contatto con lo spirito di Platone possiede
una certa rotondità plastica, ma niente contrasta più del-
['idea alla tendenza analitica del pensiero aristotelico, il
quale sta al pensiero platonico come lo studio anatomico
della figura umana sta alla sua presentazione artistica. A
chi si ponga dal punto di vista estetico e religioso può
darsi che questo faccia spavento: ma ciò non toglie che
esso costituisca un dato tipico della mentalità aristoteli-
ca» (op. cit., p. 507 sg.).
A me pare che a Jaeger sia successo, a livello persona-
le, il contrario di quello che, secondo lui, si sarebbe veri-
ficato nel processo evolutivo di Aristotele, e che secondo
Comte rappresenta il processo evolutivo non solo delle
scienze, ma di ciascun uomo scienziato. Scrive Comte:
«[...] chacun de nous, en contemplant sa propre histoire,
ne se souvient-il pas q'il a été successivement, quant a
ses notions les plus importantes, théologien dans son
enfance, métaphysicien dans sa jeunesse, et physicien,
dans sa virilité?» (op. cit., I, p. 11).
Jaeger già nel 1921 pubblicava l'edizione critica del
Contra Eunomium di Gregorio di Nissa, e via via si inte-
ressava sempre più di problemi teologici, come vedremo.
Basta ricordare, poi, il grande lavoro da lui svolto nella
direzione dell'edizione critica delle opere di questo
Padre della Chiesa e le sue opere dedicate alla problema-
tica teologica, di cui diremo. Egli non ha ripudiato la sua
interpretazione di Aristotele, ma l'ha, in qualche modo,
rimossa, e non ha più voluto discutere su di essa.
Personalmente mi ero impegnato nella trattazione e
nella confutazione delle tesi connesse con il paradigma
XXII GIOVANNI REALE

storico-genetico nell'interpretazione di Aristotele non


solo di Jaeger, ma anche di coloro che usavano lo stesso
metodo storico-genetico per giungere a conclusioni diffe-
renti e addirittura opposte, già nella seconda metà degli
anni cinquanta dello scorso secolo. Nel 1961 pubblicavo
Il concetto di "filosofia prima" e l'unità della Metafisica
di Aristotele, procedendo controcorrente e con forti
avversioni, in quanto fino negli anni settanta il paradig-
ma storico-genetico fu predominante. Il lettore interessa-
to potrà vedere la sesta edizione di questa mia opera pub-
blicata nel 1994, contenente anche i vari saggi precedenti
in appendice, con le varie motivazioni e documentazioni
che presentavo contro il paradigma storico-genetico, che
poi si sono imposte.
La tesi jaegeriana su Aristotele, dopo uno straordina-
rio successo durata quasi mezzo secolo, è giudicata, oggi,
obsoleta e del tutto superata: con il metodo storico-gene-
tico, infatti, si è dimostrato tutto e il contrario di tutto, e
di conseguenza i suoi risultati si sono letteralmente azze-
rati. Essa è certamente frutto di un errore ermeneutico;
ma si tratta, comunque, di un errore presentato e svilup-
pato da Jaeger con straordinaria finezza, e per certi aspet-
ti in maniera geniale. Tuttavia, proprio da tale errore
ermeneutico io personalmente ho tratto molti vantaggi
per la comprensione dei testi aristotelici, e posso ben
dire, con Bacone: citius emergit veritas ex errore quam ex
confusione.
Restano, in ogni caso, alcuni incontestabili guadagni
collaterali emersi da tale tesi: le opere pervenuteci di
Aristotele non sono «opere» nel senso moderno del ter-
mine, ma insiemi di appunti e di materiale di lavoro per
le lezioni che lo Stagirita teneva nel Peripato, messi
insieme in parte da lui, in parte dai discepoli e in larga
misura da Andronico di Rodi, e come tali vanno letti e
interpretati. (In tal senso, l'opera jaegeriana del 1912
rimane oggi più valida che non quella del 1923). Inoltre,
Jaeger ha portato in primo piano l'interesse e lo studio
INTRODUZIONE XXIII

dei frammenti e delle testimonianze pervenuteci delle


opere pubblicate da Aristotele. Egli riteneva che tali
opere fossero giovanili, in quanto risentono in buona
misura dell'influsso di Platone; ma anche questa tesi dal
punto di vista cronologico non pare più sostenibile, come
risulta dalla imponente nuova edizione dei frammenti
delle opere perdute curata da Olof Gigon (Berlino 1987),
da cui si evince che Aristotele non solo non ha mai scon-
fessato quelle opere, e da nessun documento risulta pro-
vato che si trattasse solamente di opere giovanili. Tuttavia,
va detto che solo dopo Jaeger i resti di tali opere sono stati
considerati di grande importanza e a fondo studiati.
Infine va rilevato che nel progetto del «terzo umane-
simo» Jaeger non ha dato ad Aristotele un significativo
ruolo; anche nella grande Paideia il pensiero dello
Stagirita non viene trattato: predomina Platone in senso
pressoché assoluto.

I contributi di Jaeger allo studio della medicina greca

Seguendo, con grande coerenza, il programma erme-


neutico che aveva tracciato fin dall'inizio - ossia di stu-
diare il pensiero dei Greci e le idee-chiave che lo sorreg-
gono nei loro nessi strutturali con le varie discipline con
i loro influssi e con i loro conseguenti riflussi - J aeger si
è occupato a fondo anche della medicina greca.
Il primo capitolo del volume III di Paideia (dr. infra,
pp. 1339-1412), che ha come titolo La medicina greca come
paideia, attesta i vertici da lui raggiunti in questo ambi-
to. La sua tesi basilare, ben fondata e dimostrata, è la
seguente: la medicina greca «valicò per la prima volta i
limiti di una mera tecnica artigiana e si fece forza cultu-
rale, elemento di guida intellettuale nella vita del popolo
greco. Da allora la medicina divenne sempre più, anche
se non senza opposizioni, parte costruttiva della cultura
generale (eyKUKÀtoç nmòeia), posizione, questa, che
XXIV GIOVANNI REALE

essa non ha più riconquistato nella cultura moderna»


(infra, p. 1340). In particolare,' egli dice: «Sempre e
dovunque ci sono stati medici; ma l'arte sanitaria dei
Greci è diventata arte metodicamente consapevole sol-
tanto per l'efficacia esercitata su di lei dalla filosofia
ionica della natura» (infra, p. 1342).
Jaeger ha collaborato al Corpus Medicorum Grae-
corum, per quanto concerne la critica testuale, per ben
dodici anni, dal 1925 al 1936, ossia fino all'anno in cui ha
dovuto abbandonare la Germania (si vedano le indica-
zioni nella bibliografia nel titolo finale dei singoli anni
dal 1925 al 1936). Già nel 1913 aveva iniziato a occuparsi
di questa problematica con lo studio Il pneuma nel Liceo.
Si veda inoltre l'articolo AITAPXAI, in «Hermes», 1929.
Nel 1938 ha pubblicato due cospicui lavori concernenti
Diocle di Caristo, studiando i rapporti fra la medicina e
la scuola di Aristotele, e presentando i frammenti dello
stesso Diocle (cfr. le indicazioni nella bibliografia, anno
1938). Su temi connessi con la medicina è ritornato anche
negli anni 1940, 1946 e 1959.
I concetti-chiave messi in evidenza da Jaeger, che
indicano in modo perfetto i rapporti fra medicina greca e
filosofia sono espressi nel modo seguente: «Compito del
medico è di restaurare la nascosta proporzione, quando
sia stata turbata dalla malattia. Nello stato di buona salu-
te è la natura stessa che la ristabilisce o, se si vuole, è essa
stessa la giusta proporzione. Il concetto così importante è
quello di "mescolanza", che in realtà significa una specie
di giusto equilibrio delle forze dell'organismo, strettamen-
te connesso con quello di "proporzione" e di "simmetria".
La natura opera nel senso di questa "sensata norma"»
(infra, pp. 1375 sg.). E ancora: «Non occorre una gran
conoscenza dei dialoghi platonici per vedere che il pro-
cedimento caratterizzato qui da Platone come proprio
della medicina, non è altro che quello suo proprio, spe-
cialmente dei dialoghi tardL In realtà si rimane stupiti
leggendo la letteratura medica, a vedere fino a qual
INTRODUZIONE xxv

punto il procedimento metodico di "Socrate" come


Platone lo descrive, si trova in essa come prefigurato. [...]
La medicina empirica, per intima necessità di cose,
cominciò a "vedere insieme", per dirla con Platone, in
tipi o forme (eì'.ò11), casi singoli di carattere uguale verifi-
cati attraverso una lunga serie di osservazioni. Questa
parola cì'.011 è usata nella letteratura medica ogni volta che
si tratta di un numero di tali tipi da distinguere l'uno dal-
l'altro; ma quando si vuole semplicemente rilevare il
senso dell'unità nella molteplicità, sia introduce il con-
cetto di "una idea" (µi.o: i0€o:), cioè di un unico aspetto o
"vista". Identica conclusione è stata messa in luce dagli
studi sull'uso delle espressioni dooc; e iOÉo: in Platone,
condotti indipendentemente dalla letteratura medica.
Questi concetti metodici, dunque, svolti primamente dai
medici riguardo al corpo e alle sue funzioni, li troviamo
poi trasferiti da Platone nel campo dei suoi problemi, nel
campo dell'etica, e di lì ancora a tutta la sua ontologia».

Origini e sviluppi della problematica religiosa e teologica


in Jaeger e la sua interpretazione della mediazione fra
messaggio evangelico e paideia greca nei Padri della
Chiesa

Gli interessi di Jaeger per la problematica religiosa e


teologica sorsero molto presto, ma si svilupparono a poco
a poco e raggiunsero piena maturazione soprattutto negli
ultimi anni della sua vita.
Già nel 1921 usciva l'eccellente edizione critica del
Contra Eunomium di Gregorio di Nissa (1960 2 ), opera con
la quale si apriva l'imponente edizione critica di questo
Padre della Chiesa, che Jaeger diresse fino all'anno della
sua morte. Era stato lo stesso Wilamowitz a suggerirgli
l'impresa e a sollecitarlo a compierla. L'edizione, che è
pubblicata dall'editore Brill (Leiden), è stata progettata
in dieci volumi, più un supplemento di indici in due
XXVI GIOVANNI REALE

volumi. Non pochi volttmi sono usciti mente Jaeger era


ancora in vita.
Dopo brevi articoli del 1930 e del 1938, Jaeger pubbli-
cò l'impegnativo saggio Humanism and Theology nel 1943
(saggio tradotto in francese nel 1956, in polacco nel 1957,
in italiano nel 1958 e in tedesco nel 1960), in cui presen-
tava alcuni punti cardinali del suo pensiero in materia. A
partire dal 1947 egli continuò a tornare su questa materia
quasi ogni anno.
Proprio nel 1947 Jaeger pubblicò un libro veramente
rivoluzionario dal titolo La teologia nei primi pensatori
greci, dapprima in inglese (subito riedito l'anno successi-
vo), tradotto in spagnolo (1952), edito quindi in tedesco
(1953), tradotto anche in italiano (1961) e in francese·
(1966). Come ho già ricordato, egli aveva assistito alla
nascita dell'opera magistrale di Diels, Die Fragmente der
Vorsokratiker, seguendo le lezioni dello stesso Diels sul
primo volume, entrando così nel vivo del pensiero dei
Presocratici, con la lettura di tutti i testi e di tutte le testi-
monianze pervenuteci su di essi. In questo libro Jaeger
capovolge l'interpretazione diffusa, secondo cui si legge-
vano i Presocratici nell'ottica della «scienza della natu-
ra», e quindi in senso «fisicistico». Esaminando a fondo
le cosmologie di questi pensatori, egli mostra come i loro
fondamenti siano di carattere «teologico», e fa vedere
come essi abbiano in qualche modo influito, mediata-
mente, sulla teologia filosofica di Platone e di Aristotele,
nonché sui pensatori dell'età ellenistica.
Nel 1954 esce la cospicua opera su Gregorio di Nissa
e su Macario dal titolo Two Rediscovered Works of
Ancient Christian Literature: Gregory of Nissa and
Macarius.
Nel 1961 esce la sua opera conclusiva Cristianesimo
pimitivo e paideia greca, dapprima in inglese e poi in
tedesco (1963); nel 1966 venne pubblicata anche la tradu-
zione italiana. Quest'opera contiene, in un certo senso, il
completamento di Paideia, e ne costituisce quasi un suo
INfRODUZIONE XXVII

corollario. Già nel 1933, nella Prefazione al primo volume


di Paideia, J aeger scriveva: «Mi riserbo di decidere in
quale forma inserire Roma e l'antichità cristiana nel pro-
cesso culturale derivante dai Greci».
La tesi di fondo che egli sostiene è la seguente. Già
Origene era convinto che, se il Cristianesimo è la più
grande forza educativa della storia, resta comunque vero
che esso è in accordo con Platone e con la filosofia. «In
questo modo - scrive Jaeger, op. cit., p. 87 - Platone e la
filosofia divennero per Origene gli alleati più potenti del
cristianesimo nella battaglia che allora combatteva».
Jaeger, inoltre, precisa quanto segue: «La grande dif-
ferenza appunto fra il cristianesimo e ogni filosofia
umana, è che quello considerava la venuta del Logos nel-
l'uomo non come il risultato di uno sforzo umano ma
come un processo che parte dall'iniziativa divina. Ma
Platone, nell'ultima sua grande opera, le Leggi, non aveva
insegnato che il Logos è l'aureo vincolo per il quale il
Legislatore e Maestro e l'opera sua sono uniti al Nous
divino? E non aveva forse collocato l'uomo in un univer-
so che con il suo ordine perfetto e nella sua perfetta
armonia era un modello eterno per la vita dell'uomo? Il
cosmos del Timeo platonico rendeva possibile l'educazio-
ne dell'uomo, perché, per essere realizzata, essa richiede-
va un mondo ordinato e non il caos. Nelle Leggi troviamo
una enunciazione che riferisce a Dio, come alla prima
fonte, tutto quello che in quest'opera è detto sulla pai-
deia: Dio è il pedagogo dell'universo, ò 0i::òc;- nmòaycoyd
-còv Koaµov [«Dio è il pedagogo dell'universo», X 897]. Il
sofista Protagora aveva affermato una volta che l'uomo è
la misura di tutte le cose, stabilendo così la relatività di
ogni educazione. Platone rovescia questa sentenza famo-
sa di Protagora e la corregge in questo senso: Dio è la
misura di tutte le cose [Leggi, IV 716 C]. Per Origene
Cristo è l'educatore che traduce in realtà queste idee sub-
limi» (ibid., pp. 87 sg.).
Oltre a Origene, hanno lavorato in questo senso i
XXVIII GIOVANNI REALE

Padri della Cappadocia: Basilio, Gregorio di Nissa e


Gregorio di Nazianzo. «Gregorio di Nissa - scrive Jaeger,
op, cit., p. 104 - rivendica la libertà di servirsi della cul-
tura greca, citando espressamente l'esempio di Basilio».
Questi autori, oltre che grandi teologi, sono stati filo-
sofi, e hanno fatta propria questa scienza come elemento
essenziale della civiltà e della cultura.
Leggiamo una pagina che contiene quei concetti-chia-
ve che completano il messaggio di Paideia: «Questo non
poteva avvenire se non si fosse profondamente meditato
sui rapporti fra cristianesimo e eredità greca. Origene e
Clemente si erano mossi per questa via di alte riflessioni,
ma ora occorreva molto di più. Origene aveva certamente
dato alla religione cristiana la sua teologia nello spirito
della tradizione filosofica greca, ma quello cui miravano
nel loro pensiero i Padri della Cappadocia era una civiltà
cristiana totale. A questa impresa essi recavano l'apporto
di una vasta cultura, che è evidente in ogni parte dei loro
scritti. Nonostante i loro convincimenti religiosi che si
opponevano a una rinascita della religione greca, che in
quel tempo veniva sollecitata da forze potenti nello
Stato, non tengono celato il loro alto apprezzamento del-
l'eredità culturale dell'antica Grecia. Troviamo così una
netta linea di demarcazione fra religione greca e cultura
greca. E danno vita in una nuova forma e a un diverso
livello a quella connessione, positiva senza dubbio e pro-
duttiva, fra cristianesimo ed ellenismo, che già abbiamo
trovato in Origene. Non è esagerato parlare in questo
caso di una specie di neoclassicismo cristiano, che è più di
un fatto puramente formale. Per opera sua il cristianesimo
si erge ora come l'erede di tutto quanto nella tradizione
greca sembrava degno di sopravvivere, Non solo perciò
rafforza se stesso e la sua posizione nel mondo civile, ma
salva e dà nuova vita a un patrimonio culturale che in
gran parte, soprattutto nelle scuole retoriche di quel
tempo, era divenuto una forma vacua e artefatta di una
tradizione classica ormai irrigidita. Molto si è già detto
INTRODUZIONE XXIX

sui vari rinascimenti che la cultura classica, sia greca che


romana, ha avuto nel corso della storia, in Oriente e in
Occidente. Ma poca attenzione si è prestata al fatto che
nel quarto secolo, l'età dei grandi Padri della Chiesa,
abbiamo un vero e proprio rinascimento che ha dato alla
letteratura greco-romana alcune fra le più grandi persona-
lità; le quali hanno esercitato un'influenza duratura
sulla storia e la cultura dell'età tarda sino ai nostri gior-
ni. E caratterizza bene la diversità dello spirito greco dal
romano il fatto che l'Occidente latino ha il suo Agostino,
mentre l'Oriente greco è attraverso i Padri Cappadoci che
ha prodotto una nuova cultura» (op. cit., pp. 97-99; corsi-
vi nostri).

Conclusioni sulla "Paideia" e sul pensiero di Jaeger

Il progetto culturale del «terzo umanesimo» di Jaeger


è stato talvolta interpretato in chiave «politica» e «ideo-
logica» nel senso in cui questi termini si intendono oggi.
Si sono chiamati in causa i suoi rapporti con Johannes
Popitz, che con lui fu fondatore della Gesellschaft fiir
antike Kultur e ne è stato il presidente (Popitz fu un
membro importante del Reich e fu ministro delle finanze
anche dopo la salita al potere di Hitler, dal 1933 al 1934).
Inoltre, si è fatto richiamo anche ad alcune affermazioni
dello stesso Jaeger, come per esempio questa: «Ogni cul-
tura superiore, anche al sommo grado della spiritualità,
reca ancora evidenti segni dell'origine sua, per quanto il
contenuto si trasformi. La cultura non è se non la fisio-
nomia, progressivamente spiritualizzata, dell'aristocra-
zia di una nazione» (infra, p. 29).
Ma, in verità, il «terzo umanesimo» di Jaeger non ha
nulla a che vedere con !'«ideologia». Esso si colloca molto
al di sopra dell'ideologia, almeno nel senso in cui oggi
viene intesa in modo radicalmente riduttivistico, in otti-
ca di genesi marxistica. Per Marx e per molti che si sono
xxx GIOVANNI REALE

a lui ispirati le idee che via via vengono proposte sono o


quelle della classe predominante o quelle di coloro che si
preparano a diventare classe dominante; si tratta quindi
di idee che sono finalizzate al mantenimento o alla con-
quista del potere, ma che vengono proditoriamente pre-
sentate come «universali».
Le idee che Jaeger proponeva con il suo «terzo uma-
nesimo» non rientrano affatto in tale ottica. Se si estrag-
gono certe affermazioni dai suoi testi o anche certi even-
ti dal loro contesto, si privano delle loro radici e si snatu-
rano, e di conseguenza si interpretano in funzione di un
sistema di riferimento concettuale e verbale che sono
loro estranei.
Jaeger precisa che la cultura e la paideia della Grecia
divennero per lui la vera fonte spirituale e il campo per il
suo impegno scientifico, in quanto e nella misura in cui
vennero da lui sentite e rivissute come Ursprung des
Geistes, «ciò da cui ha origine la vita spirituale», e pro-
prio «come l'àévaoi; oùcria», egli dice con parole di
Platone (Leggi XII 966 E 2) ; ossia ha inteso il pensiero dei
Greci come «realtà che dura sempre», come «realtà peren-
ne» (cfr. S.M., p. Xl), e dunque come qualcosa che rimane
eternamente valido, e che, proprio in quanto tale, ha
influito stabilmente nel corso della storia, e che come
«paradigma» deve continuare a esercitare i suoi benefici
influssi. In questa ottica J aeger ha avuto rapporti con
uomini politici, intendendo però la politica nell'origina-
rio senso greco.
Leggendo molte pagine della Paideia di J aeger sui
poeti e sui filosofi, ci viene in mente quanto Tatarkiewicz
scrive in riferimento ai grandi scultori ellenici e a
Sofocle: «Essi rappresentavano la realtà viva cercando
però in essa le forme tipiche, comuni; erano altrettanto
lontani dal naturalismo che dall'astrazione. Si potrebbe
ripetere degli artisti dell'età di Pericle ciò che Sofocle
soleva dire di se stesso, e cioè che essi rappresentavano
gli uomini quali dovrebbero essere. Gli artisti idealizza-
INTRODUZIONE XXXI

vano la realtà, e questo fatto può aver suscitato in loro la


convinzione che tali opere sarebbero durate nel tempo. A
chi gli chiedeva perché dipingesse così lentamente, Zeusi
rispose: "Perché dipingo l'eterno"» (Storia dell'estetica,
ed. ital., Einaudi, voi. I, p. 100).
E questa «eternità» cui i Greci si ispiravano corrispon-
de perfettametne a quella «origine dello spirito»
(Ursprung des Geistes) che Jaeger vede nel pensiero elleni-
co, e che con l'espressione di Platone egli chiama àévaoç
où<ria. Questa, a nostro avviso, dovrebbe essere anche una
convinzione di tutti quegli uomini che credono nell'esi-
stenza.del vero e nelle capacità dello spirito umano, se non
di raggiungerlo definitivamente, quantomeno di avvici-
narsi ad esso, sia pure mediante complessi e problematici
corsi e ricorsi, di cui la cultura greca e la sua paideia sono
una espressione veramente paradigmatica.

Milano, marzo 2003


GIOVANNI REALE

N.:S. La presente edizione raccoglie in volume unico i tre


volumi in cui «Paideia» è apparsa per la prima volta in traduzio-
ne italiana (presso La Nuova Italia). Pertanto, la numerazione
delle pagine, che in quell'edizione cominciava da pagina 1 ad
ogni volume, è stata unificata (vedi anche N.B. a p. LIII, sotto il
frontespizio).
Ringrazio vivamente il dott. Alberto Bellanti, il quale ha
curato tutti gli Indici. In primo luogo, ha fuso gli «Indici dei
nomi e delle cose», che nell'edizione Nuova Italia erano divisi
secondo i singoli volumi, convertendo tutti i riferimenti nella
nuova numerazione. Inoltre, ha redatto ex novo un imponente
«Indice dei passi degli autori antichi» citati da Jaeger (i cui rife-
rimenti fanno capo sempre alla nuova numerazione) e infine un
«Indice degli studi moderni» menzionati nel testo.
BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI
DI WERNER }AEGER
DI HERBERT BLOCH

Il seguente elenco degli scritti di Wemer Jaeger si basa


soprattutto sulla bibliografia pubblicata dagli « Harvard Stu-
dies in Classical Philology » LXIII (1958) pp. 1-14. Questa bi-
bliografia riproduceva un elenco tenuto da J aeger stesso, in cui
egli segnava via via tutto ciò che veniva pubblicato. Per quanto
tale elenco fosse per lo pili esatto, esso conteneva alcuni er-
rori, che abbiamo corretto. Inoltre abbiamo seguito il criterio
di riportare, per ogni anno, in primo luogo i libri, poi gli
articoli e infine le recensioni, insieme al breve resoconto sullo
stato del CorpU$ Medicorum Graecorum che, dal 1925 al 1936,
C"onclude la bibliografia di ogni anno. Abbiamo indicato, per
i libri, il numero delle pagine, e per ogni articolo o recensio-
ne ristampati negli Scripta Minora e nella seconda edizione
di H umanistische Reden und V ortriige (pubblicati entrambi
nel 1960) è stata aggiunta l'indicazione relativa a questi volu-
mi. La presente bibliografia in questo è uguale a quella pub-
hlicata da Marianne Ebert nel libretto di W olfgang Schadewaldt,
Gedenkrede auf Werner }aeger 1888-1861, Berlin, Walter de
Gruyter, 1963, pp. 25-39 (il necrologio è ripreso dagli « Schwei-
zer Monatshefte » XLII [1962], pp. 755-769; per il resto la Ebert
segue la bibliografia del 1958, a parte poche correzioni, ma ag-
giornandola fino al 1961).

1911
Emendationum Aristotelearum Specimen. Dissertatio inaugu-
ralis, Berolini, typis expressit Aemilius Ebering, pp. 61.
Scripta Minora I, pp. 1-38.
Recensione a: Charles Werner, Aristate et l'idéalisme plato-
mczen, « Dentsche Literaturzeitung » XXXII, coll. 2962-63.
Scripta Minora I, pp. 39-40.

1912
St11dien :;ur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristo-
teles, Berlin, Weidmann, pp. vu-198.
XXXIV HERBEKT BLOCH

Zu Aristoteles Metaphysik e 9, 1051 a 32fj, « Rheinisches Mu-


seum » LXVII, pp. 304-305.
Recensione a: Benvenuto Donati, Dottrina pitagorica e aristo-
telica del diritto, « Bollettino del Circolo Giuridico di
Roma» I, pp. 113-114. Scripta Minora I, pp. 41-43.
Su lppodamo da. Mileto, lbid., p. 195 (risposta alla nota del
Prof. Donati, a p. 173 dello stesso volume).
Recensione a: Alberi Goedeckemeyer, Die Gliederung der
aristotelischen Philosophie, « Deutsche Literaturzeitung l>
XXXIII, colL 2972-74. Scripta Minora I, pp. 45-47.

1913
Replica alla risposta di A. Goedeckemeyer alla recensione prece-
dente, « Deutsche Literaturzeitung » XXXIV, coli. 162-164.
Aristotelis de animalium motione et de animalium incessu;
Ps.-Aristotelis de spiritu libeUus, Edidit Vernerus Guilel-
mus Jaeger, Lipsiae (Bihliotheca Teuhneriana), pp. xx1-64.
Horaz Carm. I 34, « Hermes » XLVIII, pp. 442-449. Scripta
Minora I, pp. 49-56.
Das Pneuma im Lykeion, « Hermes » XLVIII, pp. 29-74. Scripta
Minora I, pp. 57-102.
Das Ziel des Lebens in der griechischen Ethik von der So-
phistik bis zu Aristoteles, prolusione · tenuta alla Fried-
rich-Wilhelm-Universitat di Berlino il 14 giugno 1913,
« Neue Jahrhiicher fiir das klassische Altertum >i XXXI,
sez. I, pp. 697-705.
Recensione a: Wilhelm Schick, Favorin itEQl ttaL8rnv "tQOqJ1\ç
und die antike Erziehungslehre, « B,erliner Philologische
Wochenschrift » XXXIII, coll. 164-167. Scripta Minora I,
pp. 103-106.
Recensione a: Gustavus Przychocki, De Gregorii Nazianzeni
epistulis quaestiones selectae, « Deutsche Literaturzei-
tung » XXXIV, coll. 1180-82. Scripta Minora I, pp. 107-110.
Recensione a: Wilhelm Gerhausser, Der Protreptikos des Po-
seidonios, « Deutsche Literaturzeitung » XXXIV, coll. 1765-
68. Scripta Minora I, pp. 111-114.
Recensione a: Eduard Norden, Agnostos Theos, « Giittingische
Gelehrte Anzeigen l> CLXXV, pp. 569-610. Scripta Mino-
ra I, pp. 115-161.

1914
Nemesios von Emesa, Quellenforschungen zum Neuplatonis-
mus und seinen Anfiingen bei Poseidonios, Berlin, Weirl-
mann, pp. XI-148.
BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI W. JAEGER xxxv

Neuere Aristoteles·Forschung, « Die Geisteswissenschaften » I


(1913-1914), pp. 403-406.

1915

Eine stilgeschichtliche Studie :mm Philipperbrief, « Hermes >>


L, pp. 537-553. Scripta Minora I, pp. 163-179.
Recensione a: Aristotelis Ethica Nicomachea. Recognovit Fr.
Susemihl. Editio tertia, curavit Otto Apelt, « Berliner
Philologische Woehenschrift » XXXV, coll. 34-38. Scripta
Minora I, pp. 181-185.
Recensione a: Heinrich Maier, Sokrates. Sein W erk und
seine geschichtliche Stellung, « Deutsche Literaturzeitung »
XXXVI, coll. 333-340 e 381-389. Scripta Minora I, pp.
187-200.
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Paideia Christi (discorso all'Università di Tiibingen in occa·
sione del conferimento del titolo di dottore ho110ris causa
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glio 1958), « Zeitschrift fiir die neutestamentliche Wis-
senschaft » L, pp. 1-14. Humanistische Reden und Yor-
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The Greek ldeas of lm.mortality (Ingersoll Lecture 1958),
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Scripta Minora, I-II, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,


pp. XXVIIl•413 e 565.
Humanistische Reden und Vortrage (seconda edizione amplia-
ta), Berlin, Walter de Gruyter, pp. vu-336. Qnesto volu-
me contiene un contributo mai pubblicato precedente-
mente, la traduzione tedesca di una conferenza (inedita
anche nell'originale inglese) tenuta al Simposio sui Pa-
dri della Cappadocia, che ebbe luogo a Dumbarton Oaks,
Washington, D; C.., nel maggio 1956 sotto la direzione di
Werner Jaeger: Die asketisch-mystische Theologie des Gre·
gor von Nyssa, pp. 266-286.
Gregorii Nysseni Opera, ed. W. Jaeger, I et Il: Contra Euno-
mium, ed. W. Jaeger (seconda edizione [vedi 1921]), Lei-
den, E. J. Brill, pp. xv-409 e LXXII-412.
Gregorii Nysseni Opera, ed. W. Jaeger, VI: In Canticum Can-
ticorum, ed. H. Langerbeck, Leiden, E. J. Brill, pp.
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Humanismus und Theologie (traduzione tedesc~), Heidelberg,
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Gregor uon Nyssas Lehre vom Heiligen Geist, a cura di Her-
matin· Do'rrieli;:Leiden. E. J, Brill, pp; x-153. ·
Five E:r*J:s (ci: EntWiiife ztt ·Lehenserinnerong » [ined.]. Introdu-
zione a Seripta Minora [vedi 1960], « Classica! i:"hil-Ology· at
the Unive:tSity of Berlm » [vedi 1960],.:« Soloii.'s Eunomia·»
[vedi 1926], « Tyrtaeus on True Àrete » [vedi 19321); tradu-
zione di Adele M. FiSke, R• S. C. J. Con una bibliografia
degli-scritti di W. Jàeger-a c1lra di Herbert Bloch, Montreal.
Mario Cas-alini Ltd:., PII• XJ.171. . .
A la n.aissan.ce. de la théologie. Essai sur. les Présocratiq~ (tra·
duzione dal tedesco). Paris, _Les Editions du Cerf, pp. 267.

Inoltre, Werner Jaeger diresse la collana « Neue philologi-


S"che UnterS"Uch'Dngen », da lUi. fondata e. di cui uscirono undici
volumi (dal 1926 al 193'i, Betlin:, Weidm:ann); fondò ailche il
periodico « Die Antike » nel 1925, da lui diretto per i primi
dodfoi volmill ·. ( 1925-1936).
PAIDEIA
LA FORMAZIONE
DELL'UOMO GRECO

N.B. - Le pagine della presente edizione - che raccoglie in uno


solo i tre volumi della precedente edizione della Nuova Italia -
sono state rinumerate in modo progressivo (vedi N.B. a p. XXXI,
alla fine dell'Introduzione). Per ragioni tecniche, tuttavia, non si
sono potuti aggiornare i numerosi rimandi interni presenti nelle
note del testo, che dunque rimangono gli stessi della vecchia edi-
zione. Pertanto, per facilitare il lettore, accanto alla nuova pagina-
zione viene indicata, in parentesi quadra, anche quella dell'edi-
zione Nuova Italia, a partire dal secondo volume.
PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Presento al pubblico un.'o~a cfindagine storica che


ri propone ·il c:Ompito, intentato sinora. di fare oggetto
d'un nuovo esame complessivo della grecità la forma,.
zione delE uomo greco, la. paideia. Per quante volte ci
ri si.a accinti a descrivere lo Stato e la M>Cietà, la lettera--
tura, la religione o la filosofia dei Greci nel loro sviluppo.
sino ad oggi non ·pare si sia ancora temato di esporre il
processo formati~ storico dell'uomo greco e la genesi sp~
rituale della figura ideale dei Greci nella loro reciproca
in/luen.za. A tale o6mpito, che attendeva chi lo svolgesse,
io non. mi sono tuttavia dedicato per essermisi esso pre-
sentaro per accidente, ma perché mi è sembrato dipen-
dere da questo grande problema. spirituale e storico l'iB-
tima comprensione di quella originalità edU('Ativa in.coJJP
parabik onde irraggia nei millenni. fin/ luen.za im.peritura
dei Greci.
Il primo volume compren.J.e i fondamenti, lo sviluppo
e la crisi della cultura greca nelEetà dell'uomo eroico
e politico, cioè nel periodo primitivo e · classico del
popow greco. Esso termina col tracollo dello Stpro attico.
Il secondo volume esporrà la restlJlJTaZÌ(Jne spirituale nel
.iecolo di Platone, la sria battaglia per I.o Stato e per "1
:ultura e r avvento della civiltà -greca a dominatrice del
mondo. Mi rU!erbo di decidere in qual forma inserire
Roma e l'antichità cristianà. nel procesw culturale deri-
vante dai Greci.
LVI PAIDEIA

La mÙJ esposizione si rivolge non solo ai dotti, ma


a tutti coloro che, nello sforzo del~ età presente per c-0n-
servare la nostra civiltà più volte millenaria, cercano og-
gi riaccostarsi alla grecità. Fu spesso difficile equilibrare
il bisogno d'un panorama storico complessivo e la ne-
cessità ineluttabile d'una revisione approfondita del
molteplice wgopiento, media.nte accurate indagini spe-
ciali in tutti i campi trattati nel libro. Lo studio del-
r antichità classica secorul,o il criterio direttivo di que-
sto faceva sorgere ad ogni passo rma moltitudine di nuovi
problemi, che per dieci anni furono oggetto principale
del mio insegnamento e delle mie ricerche. Nelrinteresse
del di$egno generale ho rinunciato a riprodurne tutte le
risultanze in forma di volumi di studi SIJ€CUùi, che avreb-
bero gonfiato a dismisura l'opera. La dimostraZÌ<me delle
mie idee si ricavu principalmente dalresposizione dei te-
sti originali, coordinando i fatti in. modo che si ill~
nino da sé. I passi citati degli autori classici· sono indièad
in. nota: del pari la bibliografia strettamente necessaria,
soprattutto in quanto riguardi direttamente problemi di
storia della cultura.. Là dov'era indispensabile più ampia
dimostrazione, era peraltro di rado possibile darla s'òrto
la forma delle solite note. Perciò ho in pa.,:.te pubblicato
in precedenza tali elementi del mio lavoro, in forma di
monografie, limit.andomi qu.i a brevi richiami, e in parte
altre ne ··seguiranrw. Le monografie e questo libro costi-
tuiscono scienti.fica.mente un. tutto e si integrano passo
passo reciprocament.e.
Ho tentato di tratteggiaTe n.elflntroduzione, in un
e!Gme più generale dei caratteri tipici, il posto della
paideia greca nella stori4. lvi è anche detto brevemente
che cosa risulti, per il nostro atteggiamento di fronte al-
fumonis,;..g del passato, dalla nostra considerazione del·
tipo greco di forma:rione rklfuomo. Questo problema è
oggi più vivo che 1nai e particola~nte discusso. La su.a
PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE LVII

1JOluzi.one n,el.1: età presente non può, certo, esser data


dalla mera conoscenza storica, quale si. cerca nel pre-
sente libro, gùicché si tratta di noi medesimi, e 1WIJ dei
Greci. Ma la conoscenza approfondita del fenomeno cul-
turale greco è fondamento in.dispensabile anche d'ogni
odierna conoscenza e proposito educativi. Da tale convin-
cimento è sorto il mio studio sci-enti.fico del problema e,
come suo risulmto, il presente libro. ·

Berlin-Westend, ottobre 1933.


WERNER }AEGER
PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Il fatto di dover provvedere a una seconda ·edizi.one


dei primo' volume di« Pai.deia >,non più tardi d'un anno
e mezzo dalla sua pubblicazione, sembrami indizio in-
coraggiante del favore che il libro ha incontrato. Dato
il breve tempo trascorso dal suo primo apparire, non mi
è staro possibile apportare all'opera rirocchi cospi.cui;
con f occasione furono tuttavi.a rettificate alcune sviste.
Del rimanenze, è naturale, data find.ole di questo li-
bro, che le considerazi.oni cui esso ha dato luogo con-
sistano in gran parte nella molteplice reazione che cia-
SCUI& qraulro storico generale suscita a contatto con le
diverse concezioni fil0$0ficke. A ciò ai è aggiunta una ~
scwsione circa il fine e i metodi della conoscen.za sto-
rica., 6Ulla quale non giova qui diffondermi. Dimostrare
teoreticamente consistenza e peculi.arità (ieUa mia con-
cezione è c6mpìto a sé; più m.i preme lasciare ch'essa
si affermi cimentmulosi con la materi-a stessa che ad essa
mi ha condotto. È superfluo dire che f aspetto della stari.a
illustrato dal presente libro non può né vuole surrogare
la stari.a nel senso tradizionale, cioè· stari.a degli avveni-
menti. Non meno leèito e necessario è t11ttavia. un genere
di considerazione che colga fe&istenza storica delfuomo
dal lato delfimpronta rappresentativa che ne ricevono
le creaZioni dello spirito. A JNUte il fatto che, per vari
secoli - oome per la Grecità arcaica - la documenta-
oone di cui disponi.amo a.ppa.rtiene quasi esclusivamente
LX PAIDEIA

a questo ripo, ésse, anche in età -per le quali si accom,,.


grumo I.oro testimonianze d'altro genere, rimangono pw
sempre quelle .che ci consentono di penetrare più diretta-
mente nella vita interiore del passato. E di questa si tratta.
in una esposizione che ha per oggetto la paideia dei Greci
e, ad un tempo, i Greci in quanto paideia.

Berlino, luglio 1935.


WERNER JAEGER
INTRODUZIONE
IL POSTO DEI GRECI NELLA STORIA
DELL'EDUCAZIONE DELL'UMANITÀ

Tutti i popoli che attingono un certo grado di sviluppo


hanno naturalmente l'impulso a educare. L'educazione
è il principio di cui ai vale la comunità umana per con-
servare e propagare il proprio tipo fisico e morale. Nella
vicenda universale gl'individui passano, laddove il tipo
si mantiene identico a se stesso.
L'animale e l'uomo, in quanto creatura :fisfoa, conser·
vano il proprio tipo mediante la spontanea procreazione
naturale. Ma quanto alla figura sociale e spirituale, in-
vece, essa non può esser propagata e conservata dall'uomo
se non mercé quelle forze della sua natura, con le quali
Pha creata, cioè con la volontà e la ragione C0118apevoli.
·Grazie a queste la sua evoluzione ha un certo campo di
azione che manca alle altre specie d'esseri viventi, pre-
scindendo qui dall'ipotesi di mutamenti preistorici delle
specie ed attenendoci soltanto al mondo quale ci è datQ
dall'esperienza. La stessa natura :fisica dell'uomo e le sue
qualità possono essere modificate e recate a più alta
efficienza da una cernita cosciente. Ma lo spirito dell'uomo
ha in sé possibilità di sviluppo infinitamente più ricche.
Acquistando progressiva coscienza di sé, egli edifica sulla
conoscenza del mondo interno ed esterno la miglior for-
ma d'esistenza umana. La natura dell'uomo quale essere
2 PAIDEIA

corporeo e spirituale dà luogo a speciali oondizioni per


la conservazione e la trasmi.ssione del tipo umano e pro-
muove speciali istituti materiali e morali, la cui essenza
noi designamo con la parola: educazione. Nell'educa-
zione, quale è praticata dall'uomo, opera quella medesima
volontà di vita, plastica e generatrice, della natura, la
quale spontaneamente tende a propagare e conservare
ogni specie vivente nella sua forma; ma in questo gradino
è portata alla massima intensità mediante il finalismo
della conoscenza e della vòlontà umana consapevoli.
Ne derivano taluni corollari generali. L'educazione,
in primo luogo, non è faccenda individuale, ma, per sua
natura, è cosa della comunità. Il carattere di questa si
· imprime nei singoli suoi membri, e nell' uomo, ~éi)ov
'JCOÀL-rLx.6v, è sorgente d'ogni azione e comportamento in
una misura che non ha riscontro nell'animale. Non v'è
altro caso, in cui l'influenza determinante della comunità
sui suoi membri si faccia valere maggiormente, che nel
suo sforzo di plasmare consapevolmente secondo la pro-
pria idea, mediante l'educazione, i nuovi individui conti-
nuamente sorgenti dal suo seno. L'edificio d'ogni comu-
nità riposa sulle leggi e norme, scritte o non scritte, in
essa vigenti, le quali vincolano es&a medesima e i suoi
membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta
della viva coscienza normativa d'una comunità umana,
sia quella della famiglia, sia della professione o del ceto,
sia delle associazioni più vaste, come la tribù e lo Stato.
L'educazione partecipa al proce8so di crescenza e di
vita della comunità con le mutazioni di questa, e così alle
sue vicende esteriori come al suo sviluppo interno e alla
sua evoluzione spirituale. A questa è soggetta anche la
coscienza generale dei valori che interessano la vita uma-
na; la 8t0ria dell'edueazi.cine è quindi essenzialmente de-
terminata dalle trasformazioni della concezione dei va·
lori in una comunità. La stabilità delle norme vigenti si·
INI'RODUZIONE 3

gnifica anche saldezza dei principii educativi d'un po-


polo; l'abbattimento e la dissoluzione delle norme genera
incertezza e oscillazioni nell'educazione, sino a renderla
impossibile affatto. Questa situazione si ha non appena
la tradizione sia abbattuta violentemente o si corrompa
internamente. D'altra parte la stabilità non è per se stessa
sintomo sicuro di salute; essa domina anche in uno stato
di irrigidimento senile, nel periodo tardivo delle civiltà,
per esempio nella Cina confuciana prerivoluzionaria, sulla
fine dell'antichità classica, nel tardo ebraismo, in talune
epoche delle Chiese, dell'arte e delle scuole scientifiche.
Immane è l'impressione di stabilità qua-si extratemporale
che dà la storia millenaria dell'antico Egitto. Ma anche
per i Romani la saldezza delle vigenti condizioni politi-
che e sociali era pregio supremo, a petto del quale tutti
gl'ideali e le aspirazioni particolari di cambiamento non
avevano che legittimità limit~ta.
Un posto speciale spetta alla grecità. I Greci, consi-
derati dal presente, rappresentano rispetto ai grandi po-
poli storiei dell'Oriente un « progresso » radicale, un
nuovo « grado » in tutto ciò che concerne la vita del-
l'uomo nella comunità. Questa.è impostata, presso i Greci,
su fondamenti affatto nuovi.· Per quanto altamente si
apprezzi l'importanza artistica, religiosa e politica dei
popoli anteriori, la storia di ciò che possiamo chiamare
cultura, nel nostro senso consapevole, non comincia
che coi Greci.
L'indagine moderna, nel secolo scorso, ha allargato
immensamente il nostro orizzonte storico; I'oikumene dei
Greci e dei Romani « classici », che da duemila anni coin-
cideva coi confini del mondo, è stata da noi superata
nello spazio da ogni lato, e mondi spirituali sino allora
inesplorati si sono dischiusi alla nostra vista. Ma con
tanto maggior chiarezza riconosciamo oggi che, con que-
sto ampliamento del nostro orizzonte, permane immu·
4 PAIDEIA

tato il fatto che la nostra storia - nel senso d'una comu-


nione profonda - «incomincia» tuttora con l'affacciarsi
dei Greci, in quanto essa oltrepassa i limiti del proprio
_popolo e ci dobbiamo riconoscer membri d'una più ampia
cerchia di popoli. Ebbi perciò già a chiamare tale cer-
chia I'ellenocentrica 1 ).
Cominciamento significa qui non solo inizio tempo-
rale, ma &p:x,1), origine spirituale, cui si risale da ogni
nuovo gradino, per trarne orientamento. Questa la ra-
gione del nostro incontro spirituale con la grecità, sem-
pre rinnovato nel corso ·della nostra storia; e va notato
sin d'ora che il senso di questo rifarci di là e di questa
spontanea ripetizione non consiste nel conferire ad una
grandezza spirituale eterna, che penetra nell'età nostra,
un'autorità indipendente dal destino nostro e quindi ri-
gida e immutabile. Ne è sempre ragione il nostro proprio
bisogno vitale, qualunque possa essere il livello dal quale
se ne giudichi. È ovvio come per noi, e per ogni popolo
di tale cerchia, esistano anche rispetto all'Ellade e a
Roma estraneità originarie, che stanno in parte nel san-
gue e nel sentimènto, in parte nella mentalità e nella
creatività, in parte nella varietà delle situazioni storiche.
Ma tra questa sorta di diversità e quella elle sentiamo di
fronte ai popoli dell'Oriente, a noi spiccatamente estranei
per razza e spirito, esiste un immenso divario, e commet-
tono senza dubbio uno spostamento antistorico di pro-
spèttiva taluni scrittori recenti, separando il mondo del-
l'antichità classica da quello delle nazioni occidentali con
un'alta muraglia, al pari della Cina, dell'India o del-
l'Egitto.
Ma non si tratta soltanto di un senso di vicinanza dato
dalla parentela etnica, per quanto importante sia appunto

1) Cfr. il mio saggio introduttivo nella collezione Altertum


und Gegenwart (2a ed. Lipsia 1920) II (ristampato in Humani-
stische Reden und Vortràge, Berlino 1937).
INTRODUZIONE 5

questo fattore per l'i:D.tima comprensione di un altro po-


polo. Dicendo ehe la nostra storia non eomincia propria-
mente che eon l'Ella-de, dobbiamo aver presente il senso
speciale nel quale usiamo in questo easo il concetto di
«storia». Storia chiamiamo anche l'indagine relativa a
mondi estranei. meravigliosi e misteriosi, quale fu svolta
già da Erodoto. Con sguardo fatto acuto nel cogliere la
morfologia della vita umana in tutte le sue forme, ci
accostiamo oggigiorno anche ai popoli più remoti. cer-
cando di penetrarne lo spirito peculiare. Ma dalla storia
intesa in codesto senso, quasi diremmo antropologico, -dif-
ferisce una considerazione storica la quale abbia per pre-
supposto un'affinità spirituale fissata dal destino, ancor
viva e operante in noi, sia essa un'affinità del proprio po-
polo o sia d'una cerchia di popoli strettamente legati tra
loro. Solo in questa sorta di storia è data una compren-
sione che procede dal di dentro, un contatto veramente
creativo tra il Sé e l'Altro. Solo in essa è una comunanza
di forme e di ideali sociali e spirituali sviluppati, qualun-
que siano le mille rifrazioni e modificazioni in cui, sul
terreno delle varie razze e genti di quella data famiglia
di popoli. essi .variano, s'inerf?oiano e si respingono, si
estinguono e si rinnovano. In una comunanza siffatta con
I'antichità classica, trovasi così l'Occidente nel suo com-
plesso come ciascuno dei suoi principali popoli civili per
suo conto e in una particolare guisa. Se intendiamo la sto-
ria in questo senso più profondo, d'intimo legame, essa
non può abbracciare quale scena l'intero pianeta, e nessun
allargamento nel nostro orizzonte geografìoo potrà mai
spostare i confini della storia « nostra » più in là verso
il passato, di dove da millenni li ha posti il nostro de-
stino storico. Se in futuro avrà mai a sorgere un'unità
dell'umanità tutta, in un senso analogo, è cosa che sfugge
per ora da ogni previsione e non ha importanza per la
questione della quale ci occupiamo.
6 PAIDEIA

Non si può definire con poche parole quanto di sov-


vertitore, d'inauguratore di un'èra nuova, determina il
posto dei Greci nella storia dell'educazione dell'umanità.
È compito di tutto il presente libro esporre la formazione
dell'uomo greco, la paUlcia, nella sua peculiarità e nel
suo sviluppo storico inconfondibili. Easa non è un mero
complesso d'idee astratte, ma è la storia stessa della Gr17
eia nella concreta realtà delle vicende vissute. Ma questa
storia vissuta sarebbe obliata da gran tempo, se i Greci
non ne avessero tratta una forma eterna. Essi la crearono
quale espressione di una suprema volòntà, con la quale
affrontavano il destino. Di questa volontà, nella fase pri·
ma del loro sviluppo, mancava loro ancora ogni concetto.
Ma, quanto più chiaroveggenti procedevano nel loro cam-
mino, tanto più netto s'im.primeva nella loro coscienza la
mèta onnipresente cui mhordinavano se stessi e la pro-
pria vita: la formazione di un'umanità superiore. L'idea
dell'educazione appariva loro rappresentativa del signi-
ficato d' ognf sforzo umano. Essa divenne pe:t loro giustifi-
cazione suprema dell'esist.enza della comunità e dell'in·
dividualità umana. Così intesero se stessi i Greci all'apice
del loro sviluppo. Non v'è alcuna fondata ragione di rite-
nere che noi, grazie a non so quale superiore int.elligenza
psicologica, storica o sociale, possiamo intenderli meglio.
Anche gl'imponenti monumenti della loro prima età non
riescono pienamente comprensibili se non sotto questa
luce. Sono germinati dallo stesso spirito. E nella forma
della pai.cleia, della «cultura>, i Greci trasmisero infine
in eredità agli altri popoli dell'antichità l'insieme della
propria creazione spirituale. Fu l'idea greca della cul-
tura, cui Augusto riallacciò la missione dell'Impero Ro-
mano. Senza l'idea greca della cultura non vi sarebbe una
antichità classica quale unità storica, né un « mondo ci-
vile > occidentale.
Certo, nel logoro uso verbale odierno, noi siamo so-
INTRODUZIONE 7

liti applicare il concetto di cultura per lo pm non in


questo senso, di ideale appartenente alla sola umanità
postgreca, ma l'applichiamo, con significato reso assai
banale, generalizzando, a tutti i popoli della terra, com·
presi i primitivi; intendiamo cioè per cultura nient'altro
che l'insieme delle manifestazioni e forme di vita caratte·
ristiche d'un popolo 2 ). La parola cultura è quindi deca·
duta a concetto antropologico meramente descrittivo; non
rappresenta più un altissimo concetto di valore, un ideale
consapevole. In questo significato vago e sbiadito, di mera
analogia, è allora lecito parlare di una cultura cinese,
indiana, babilonese, ebraica o egiziana, sehhene in nes-
suna di tali lingue si trovi un vocabolo corrispondente e la
consapevolezza del relativo concetto. Nessun popolo d'ele-
vata organizzazione manca, è vero, di un apparato educa·
tivo, ma la Legge e i Profeti degl'Israeliti, il sistema con·
fuciano dei Cinesi, il Dharma degl'Indù, nell'essenza loro
e in tutta la loro struttura spirituale sono tutt'altra cosa
dall'ideale greco della cultura umana. In ultima analisi
la consuetudine di parlare d'una pluralità di culture pre-
elleniche è sorta dal malvezzo di livellamento positivistico,
che subordina ogni cosa estranea ai tradizionali concetti
europei, senza accorgersi che la falsificazione storica co-
mincia, in fondo, sin dall'inquadramento di un mondo
straniero entro il nostro sistema di concetti, non rispon·
dente alla natura di quello. Qui ha la sua· radice il circolo
vizioso quasi inevitabile d'ogni· comprensione storica. Eli-
minarlo totalmente è impossibile, ché dovremmo perciò
cominciare con l'uscir quasi di noi stessi. Ma, nelle que-
stioni fondamentali della ripartizione storica del mondo,

2 ) Per la discussione su questo punto vedi il mio saggio PT.atos


Stellung im Aufbau der griechischen Bildung (Berlino 1928) e
specialmente la prima parte, generale: Kulturidee und Griechen•.
tum, p. 7 ss. in « Die An1jili:e» IV 1 (ristampato in Humanisti-
sche Reden und Vortrage, 1937),
8 PAIDEIA

si dovrebbe ad ogni modo poter acquistar chiara coscienza


del divario capitale tra il mondo preellenico e quello che
coi Greci incomincia, nel quale per la prima volta si costi-
tuisce un ideale di cultura quale consapevole principio
formativo.
Invero, non v'è forse ancora gran che di guadagnato,
a dimostrare che i Greci furono i creatori dell'idea della
cultura; questa paternità, anzi, in un'età spesso stanca di
cultura, potrebbe apparire un peso. Ma ciò che noi chia-
miamo oggi cultura non è che un prodotto d'avvizzi-
mento, un'ultima metamorfosi dell'originale; per dirla
alla greca, non tanto la paideia quanto l'anarchioo ed
esteriore «apparato della vita», xcx-rcxcrxeu~ -rou ~lou, che
si va estendendo a dismisura e che appare ben più biso-
gnevole di ricever lume dalla sua vera forma originaria,
per riaccertarci del suo vero significato, di quanto non
sia esso in grado di conferir valore a quella. La rifles-
sione sul fenomeno primario presuppone alla sua volta
una mentalità affine alla greca, analoga a quella che ri-
vive - crederei senza diretta tradizione storica - nella
considerazione goethiana della natura. Appunto in mo·
menti storici in cui, nell'irrigidimento di µn' età tardiva,
l'uomo vivo si riscuote sotto il suo guscio, in cui l'ottuso
meccanismo esteriorizzato della cultura diventa il ne·
mico dell'elemento eroico che è nell'uomo, alJora, per
tDla profonda neceSBità storica, insieme con la brama di
rifarsi alle sorgenti della propria stirpe, deve destarsi
il bisogno prepotente di penetrare sino agli strati pro-
fondi dell'esistenza storica, dove lo spirito affine del p0w
polo greco si plasmò dalla vita ineandescente la forma
che conserva sino ad oggi quel fuoco ed eterna l'istante
creativo del suo prorompere. La Grecità non rappresenta
per noi _solo lo specchio storico della civiltà del mondo
moderno ed un simbolo della sua autocoscienza razionale.
Il segreto, il miracolo del nascimento avvolge la prima
INTRODUZIONE 9

creazione di attrattive sempre nuove, e quanto maggiore


è il pericolo che anche il patrimonio più prezioso si fac~
eia scipito nell'uso quotidiano, tanto più intenso è, per lo
spirito conscio del valore riposto di tali forze, il richiamo
alle creazioni nelle quali esse si affacciano dal profondo
dell'animo umano con la freschezza mattutina della gio-
vinezza etnica e del genio creatore.
L'importanza storica dei Greci quali educatori, di-
cevamo, deriva dalla nuova e consapevole concezione della
posizione dell'individuo nella comunità. Se consideriamo
i Greci sullo sfondo storioo dell'antico Oriente, la diffe.
renza è così imponente, che i Greci sembrano fondersi
in un'unità col mondo europeo dell'età moderna, che sin
troppo facilmente interpretiamo nel senao della libertà
dell'individualismo moderno. In realtà non v'è contrasto
più crudo che tra la coscienza individuale dell' uomo
odierno e lo stile di vita dell'Oriente preelleni()o, quale
ci si presenta nella cupa maestà delle piramidi o delle·
tombe regali e degli edifici monumentali d'Oriente. Di
fronte a tale inaudita esaltazione di singoli uomini-dèi
oltre ogni misura naturale, dove si esprime un sentimento
metafisico a noi estraneo, ma anche di. fronte all' annichi-
limento della moltitudine, senza il quale è impensabile
quell'esaltazione del dominatore e della sua importanza
religiosa, l'inizio della storia greca si presenta come l'alba
di una nuova valutazione dell'uomo, che per noi facil-
mente si fonde senz'altro oon l'idea, diffusa specialmente
dal Cristianesimo, dell'infinito valore delle singole anime
umane e con l'autonomia spirituale dell'individuo, riven-
dicata dal Rinascimento in poi. E invero come giustifi-
care, senza · alquanto del senso greco della dignità del-
l'uomo, il diritto dell'individuo all'alta importanza che
gli conferisce l'età moderna?
Ora, storicamente è certo incontrovertibile che i
Greci, al culmine del loro sviluppo filosofi.ce>, avevano già
10 PAIDEIA

preso in considerazione anche il problema dell'individuo;


la storia della personalità europea deve indubbiamente
muovere da essi. Vi si aggiunsero influenze romane e cri·
stiane, e da questa mescolanza sorse il fenomenò dell'Io
individualizzato. Da questo punto di partenza moderno
non possiamo tuttavia afferrare con nettezza ideale la po-
sizione dello spirito greco nella ~oria della formazione
dell'uomo. La via migliore è, invero, di muovere dalle
disposizioni etniche dello spirito greco. La vivacità spon-
tanea, la mobilità e l'intima libertà dell'uomo greco, che
semhrano essere il presupposto del rapido espandersi di
questa nazione in un mondo di forme inesauribilmente
ricco di contrasti, e che suscita sempre nuova ammirazione
ad ogni contatto con gli scrittori greci, a cominciare dai
più antichi, non sorge affatto da una soggettività cosciente
alla moderna, ma è natura, e là d-0ve questa perviene,
quale Io, alla consapevolezza, ciò avviene passando spiri-
tualmente per la scoperta di norme e leggi oggettive, la
cui conoscenza nuova conferisce all'uomo rinnovata sicu-
rezza di pensiero e d'azione. Come la risoluzione e libe-
razione del corpo umano nella sua rappresentazione
per parte degli artisti greci, inesplicabile ,movendo dal-
l'Oriente, non si basa sull'imitazione esteriore di atteg·
giamenti individuali dell'oggetto, còlti a caso, ma deriva
dalla chiara comprensione delle leggi generali della strut·
tura, dell'equilibrio e del movimento del corpo umano;
così quella sovrana libertà di comunicativa spirituale dei
Greci, ehe diresti padroneggiata senza sforzo, proviene
dalla sagace consapevolezza, preclusa ai popoli dell'età
anteriore, d'una regolarità insita nelle cose. I Greci han-
no un senso innato di ciò che corrisponde alla « Na-
tura>. Il concetto di Natura, che essi per primi conia-
rono, è s~nza dubbio sgorgato dalla loro particolare di-
sposizione di spirito. Molto prima che la loro mente
producesse quest'idea, essi vedevano già le cose con tali
INTRODUZIONE 11

occhi, cui nessun elemento del mondo si presentava mai


isolato nella sua particolarità, ma sempre e soltanto in~
quadrato nel nesso vivo di un tutto, dal quale riceveva
la sua posizione e il suo significato. Noi chiamiamo que-
sto modo di vedere « organico », perché concepisce il
singolo quale membro di un tutto. Il bisogno dello spi-
rito greco di una comprensione cosciente delle leggi della
realtà, che si nvela in ogni campo della vita, nel pen-
siero, nella parola e nell'azione come in ogni specie di
cre<1.zione artistica, è connesso con questa capacità di co-
gliere la struttura naturale, insita, originaria, organica
dell'essere.
Il modo artistico di configurare e di vedere, proprio
dei Greci, appare allzitutto quale attitudine estetica;
senza duhbio è già in qualche modo fondamento del
semplice atto visivo dell'occhio e non si basa già sul-
l'inserzione consapevole di un'idea nel regno della figu-
razione artistica. Questa commistione, l'idealizzazione
cioè dell'arte, non si presenta che relativamente tardi,
nell'età classica dei Greci. Certo, col mettere in rilievo
la disposizione naturale e l'inconsapevolezza di tale vi-
sione, non si spiega ancora perché incontriamo lo stesso
fenomeno anche nella letteratura, la cui creazione non
si basa già sulla vista, bensì sulla cooperazione del senso
verbale e del processo paichico interno. Anche nell'arte
oratoria dei Greci troviamo i medesimi principii formali
che nelle arti figurative e costruttive. Noi parliamo del
carattere plastico od architettonico d'un poema o di una
opera in prosa. Ciò che chiamiamo qui plastico od archi-
tettonico non sono valori formali foggiati sul modello
dell'arte figurativa, ma norme analoghe del discorso e
della sua costruzione, che con tali espressioni noi ci chia-
riamo figuratamente soltanto perché la struttura delle
opere dell'arte :figurativa ci riesce più evidente e quindi
ne acquistiamo più presto coscienza. Le forme letterarie
12 PAIDEIA

dei Greci, nella loro molteplicità e nella loro sapiente


struttura, sono sorte organicamente dalla trasposizione
delle semplici e schiette formè naturali della vita espres-
siva umana nella sfera ideale dell'arte e dello stile. Anche
nell'arte oratoria la capacità d'una composizione or-ga-
nica e d'una limpida d-IBposizione deriva unicamente dal
senso naturale e dalla crescente comprensione dell'ele-
mento regolare nel percepire, nel pensare e nel parlare,
che infine si tecnicizza nella creazione astratta della lo-
gica, della grammatica e della retorica. Sotto questo ri-
spetto molto abbiamo ad imparare dai Greci, e ciò che
ne abbiamo appreso è il patrimonio inalienabile delle
forme del discorso, del pensiero e dello stile, tuttora va-
levoli per noi.
Ciò vale anche per il· massimo miracolo dello spirito
greco, che per la sua struttura incomparabile reca testi-
monianza più eloquente d'ogni altra cosa: la filosofia.
In questa assume lo sviluppo più visibile quella forza
che è radice dell'arte e del pensiero greco: la chiara vi-
sione delle norme costanti su cui si hasa ogni accadimento
e cangiamento nella natura e nel mondo umano. Tutti i
popoli hanno prodotto le loro leggi, ma .i Greci cercano
dappertutto quella « legge > che opera nelle cose stesse,
e si sforzano di regolare in conformità la vita e il pen-
siero dell'uomo. Il greco è il popolo filosofo fra tutti. La
« tlieoria > della fil080ifia greca è intimamente connessa
con la :6.gorazione artistica e con la poesia greca. Essa con-
tiene non solo l'elemento razionale, cui noi pensiamo an-
zitutto a questo proposito, ma, come dice l'origine filolo-
gica della parola,· un elemento visivo, che coglie sempre
l'oggetto come un tutto, nella sua «idea», cioè quale
figura contemplata. Anche avendo coscienza dei pericoli
d'una siffatta generalizzazione ed interpretazione di ciò
ch'è anteriore mediante ciò che è ulteriore, non possiamo
disconoscere che l'idea platonica, costruzione intellettuale
INTRODUZIONE 13

di carattere tutto proprio, specilficatam.ente greca, ci of-


fre la chiarve della mentalità greca anche negli altri campi.
È stato in ispecie enunciato spesso, sin dall'antichità, il
nesso tra l'idea platonica e la tendenza formale preva-
lente nell'arte greca 3 ), ma l'osservazione vale in m.isura
non ininore per le arti della parola e per la natura della
mentalità greca in genere. Già la concezione del cosmo
dei primi filosofi. della natura è una visione siffatta, in
contrapposto alla scienza naturale calcolatrice e speri-
mentatrice dell'età nOt>tra. Non è mera addizione di oaser-
vazioni singole e astrazione metodica, bensì qualche cosa
che va più oltre, una spiegazione dei particolari in base
a una immagine che assegna loro il loro poato e il loro
senso quali parti d'un tutto. La matematica e la muaiea
dei Greci differiscono da quelle dei popoli anteriori, per
quanto abbiamo qualche nozione di queste, per il mede-
simo improntarsi all'idea.
Anche il posto singolare occupato dalla G.recità nella
storia dell'umana educazione si fonda sulle medesime pe-
culiarità della sua organizzazione interna, sulla sete di
forma, che tutto domina, con la quale i Greci non affron·
tano 'soltanto i rompiti artistici, ma del pari le cose della
vita, e sul senso filosofico, che afferra l'universale, delle
leggi profonde della natura umana e delle norme, che ne
derivano, del governo dell'animo individuale e della
struttura della comunità. Invero l'universale, il Logos, se-
condo il profondo intendimento che ha Eraclito dell'es-
senza dello spirito, è appunto l'elemento comune, come
la legge nella polis. La chiara coscienza dei principii na-
turali della vita umana e delle leggi immanenti secondo
le quali operano le forze fisiche e psichiche dell'uomo
dovev~ acquistare la maBSima importanza nel momento

3) Il testo fondamentale è: Cicerone De oratore, 7-10, che


deriva da una fonte ellenistica.
14 PAIDEIA

in cui i Greci si trovarono di fronte al problema dell'edu-


cazione'). Mettere tutte codeste oonoscenze, quali forze
formatrici, al servizio dell'educazione, e plasmare uomini
reali così come il vasaio dà forma alla creta e lo scultore
alla pietra, ecco un'ardita idea creatrice, che non poteva
maturare se non nella mente di quel popolo d'artisti e di
pensatori. L'opera d'arte suprem11, di cui si trovò asse-
gnata la realizzazione, fu per esso l'uomo vivente. Ai
Greci per primi balenò l'idea che anche leducazione de-
v'essere un processo costruttivo consa11evole. «Fatto mani
e piedi e mente diritto e senza difetto» - così un poeta
greco dell'epoca di Maratona e di Salamina descrive l'es-
senza della vera virtù virile, che è ardua conquista. A que·
sta sola specie di educazione è propriamente applicabile
il nome di cultura (formativa), che infatti ineontriamo
per la prima volta in Platone quale espressione figurata
per indicare l'azione educativa 5).
In tedesco la parola Bil.dung rende oon grande evi·
denza il senso greco, cioè platonico dell'esseri.za dell'edu-
cazione: essa comprende in sé il rapporto tanto all'ele-
mento plastico, del modellamento artistico, quanto alla
figura normativa («idea» o «tipo») interiormente pre-
sente al modellatore. Dovunque quest'idea si riaffaccia
dipoi nella storia, è un'eredità dei Greci e si presenta
sempre là dove lo spirito U.inano, dall'addestramento ri-
volto a determinati scopi esteriori, ritorna all'essenza vera
dell'educazione. Ma il fatto che ai Greci questo oompito
apparisse tanto grande e arduo, e che essi vi si consa-
crassero con un intimo slancio senza pari, sta da sé e non
si spiega né con la loro attitudine arti.etica, né con la foro
mente speculativa. Sin dalle prime tracce che abbiamo
di loro, troviamo l'uomo al centro del loro pensiero. Gli

') Cfr. il mio saggio Antike und Humanismus (Lipsia 1925)


13 (ristampato in Humanistiche Reden und Vortriige, 1937).
') Ilì..&:nuv, Platone, Resp. 377b, Legg. 671c e altrove.
INTRODUZIONE 15

dèi antropomorfi; il predominio a.ssoluto del problema


della :figura umana nella plastica greca e nella pittura
stessa; il procedere conseguente della filosofia dal pro-
blema del cosmo a quello dell'uomo, nel quale culmina
con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema
inesaurihile, da Omero in poi, per tutti i secoli seguenti,
è l'uomo in tutta I'estenSione del termine; infine lo Stato
greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda
quale plasmatore dell'uomo e di tutta la sua esistenza:
tutti questi sono raggi d'un medesimo lume. Sono le .ma~
nifestazioni di un sentimento antropocentrico della vita,
che non trova ulteriore derivazione o spiegazione e che
compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci
furono così il popolo antropoplasta per eccellenza.
Siamo ora in grado d'enunciare più precisamente che
cosa costituisca l'originalità dei Greci rispetto all'Oriente.
La loro scoperta dell'uomo non ·è la scoperta dell'Io sog-
gettivo, ma l'acquistar coscienza delle leggi universali
della natura umana. Il principio spirituale dei Greci non
è l'individualismo, bensì I'« umanismo », se è lecito usare
volutamente la parola in questo suo classico significato
originario. Umanismo viene da kunianitas. Questa parola,
oltre al significato più antico e volgare di disposizione
umanitaria, che qui non ·c'interessa, dal tempo di V ar-
rone e di Cicerone al più tardi ne ebbe anche un altro,
più alto e severo: indica l'educazione dell'uomo alla &118
vera forma, alla vera umanità 6 ). È questa la vera paidei,a
greca, quale un uomo politico romano la considerava per
modello. Essa non muove dal singolo, bensì dall'idea. Al
disopra dell'uomo-i7egge, come al disopra dell'uomo pre-
teso io autonomo, sta l'uomo quale idea, e tale lo consi·
derarono sempre i Greci, come educ:atori o poeti, artisti
e indagatori. Ma l'uomo-idea significa l'uomo quale imma·

•) Cfr. Gell. Noct. Att. XIII 17.


16 PAIDEIA

gine universale ed esemplare della specie. L'imprimere al


singolo la forma della comunità, in cui ravvisammo l' es-
senza dell'educazione, procede preSBO i Greci, con con-
sapevolezza sempre crescente, da siffatta immagine del-
l'uomo e, con sforzo indefesso, mette capo infine ad un'im-
postazione e ad un approfondimento filosofico del pro-
blema dell'educazione, così sistematici e sicuri come non
furono realizzati da alcun altro po·polo.
L'ideale umano dei Greci cui doveva informarsi l'in-
dividuo non è un vuoto schema, non sta fuori dello spazio
e del tempo. È la forma viva sorta dall'almo suolo della
nazione, soggetta quindi continuamente all'evoluzione
storica. Essa accolse tutte le vicende della collettività e
tutti i gradi del suo sviluppo spirituale. Ciò fu discono-
sciuto dal classicismo ed umanismo antistorico di epoche
passate, col con'cepire la « umanità » la « cultura >, lo
«spirito» dei Greci o dell'antichità classica quale espres-
sione di un'umanità assoluta, fuori del tempo. Senza dub-
bio il popolo greco, per l'appunto, ha tramandato alla
poaterità numerose nozioni imperiture in forma imperi-
tura. Ma sarebbe fatale fraintendimento di quanto ab-
biamo detto della volontà formativa dei Greci, rivolta al
normativo, se pe:r tale norma si volesse intendere qualche
cosa di rigido, di definitivo. La geometria euclidèa e la
logica aristotelica sono certamente fondamenti perma-
nenti della mente umana sino a tutt'oggi e non ne pos-
siamo far di meno; ma anche questa forma generalissima,
che aetrae da ogni contenuto di vita storica, che la scienza
,greca si è data, appare tuttavia greca affatto al nostro
sguardo storico, e lascia posto, accanto a sé, per altre
forme di pensiero e d'intuizione matematica e logica. Ciò
varrà tanto più per quelle creazioni dei Greci che recano
anoor più forte l'impronta del loro ambiente storico e
sono direttamente subordinate a una determinata situa•
zione temporale.
INTRODUZIONE 17

La tarda grecità degl'inizi dell'Impero proclamò per


prima classiche in .quel senso extratemporale le opere
della grande epoca della sua nazione, sia quali modelli
d'imitazione artiBti~·formale, sia quali modelli etici.
I Greci, dallo sbocco della loro storia nell'Impero Ro•
mano, si trovavano allora eliminati quale nazione auto-
noma, e il colto della propria tradizione era diventato
per loro l'unico, contenuto snperiore dell'esistenza. Di·
vennero così creatori primi della teologia classicistica
dello spirito, come si potrebbe definire l'umanismo di
quello stampo. La loro vita contempl.ativa estetica è il
prototipo della vita degli umanisti e dei dotti quali si
avrà poi in t~pi moderni. Entrambe hanno per presup·
posto un concetto astratto, non-storico, dello spirito, quale
una sfera di eterna verità e bellezza elevantesi ben al
disopra delle sorti dei popoli e delle loro alterazioni. An-
che il neo-umanismo tedesco del periodo goethiano con-
siderò i Greci quale rivelazione assoluta della vera natura
dell'uomo in una deterininata, irripetibile epoca della
storia, dimostrando così maggiore affinità originaria col
razionalismo illuministico che non col pensiero stt;irico
che allora si veniva destando e che doveva riceverne sì
forte impulso.
Un secolo di studi storici, sviluppatisi in contrapposi·
zione al classicismo, ci separa da quella concezione. Se
oggi, di fronte al pericolo opposto; di uno storicismo
senza limiti e senza mèta, che genera un livellamento
incolore, ci ripieghiamo sui valori permanenti dell'anti-
chità classica, non può tuttavia trattarsi per noi di riin·
nalzarli quale idolo extratemporale. Il loro contenuto
esemplare e la loro virtù formativa, che esperimentiamo
su noi medesimi, non possono esserne rivelate se non
quali forze operanti nella vita storica, e come tali infatti
agirono e sorsero a tempo loro. Una storia della lettera·
tura greca isolata dalla comunità sociale, d:.lla quale le

\
18 PAIDEIA

sue opere sorsero, cui si rivolgevano e su cui poggiavano,


non è più p088ihile per noi. Appunto nelle profonde ra·
dici dello spirito greco in questo terreno della oomunità
sta la sua forza superiore. Gl'ideali, portati nei suoi pro-
dotti alla purezza della forma, sono stati estratti, per
parte dello spirito delle personalità creatrici, che lì fog·
giarono, da una possente vita superindividuale della col-
lettività. L'uomo la cui immagine si rivela nelle opere dei
grandi Greci è l'uomo politico. L'educazione greca non
è una somma d'arti e d'imprese private, avente per fine il
perfezionamento dell'individuo, pago di se stesso. Così
non prese ad intenderlo che l'età di decadenza della tarda
grecità, priva di Stato, dalla quale discende in linea di-
retta la pedagogia dell'età moderna. È comprensiibile CO·
me il filellenismo di un'età ancora apolitica del popolo
tedesco, quale fu il nostro classicismo, abbia dapprima
proseguito per questa via. Ma lo stesso nostro moto spiri-
tuale verso lo Stato ci riaprì gli occhi al fatto che uno
spirito estraneo allo Stato non fu meno ignòto agli Elleni
del periodo aureo, che uno Stato estraneo allo spirito.
Le massime opere della grecità sono monumenti d'una
coscienza civica di grandiosità unica, il cui travaglio si
eaplica senza lacune attraverso tutti i gradi di sviluppo,
dall'eroismo dei poemi d'Omero sino allo Stato autorita·
rio di Platone comandato dai savi, dove individuo e CO·
munità sociale combattono l'ultima battaglia sul terreno
della filosofia. Un futuro umanismo dovrà essere orien·
tato essenzialmente sul fatto fondamentale di ogni atti-
vità educativa greca, che l'umanità, « l'esser uomo », fu
sempre sostanzialmente riconnesso dai Greci alla natura
politica caratteriBtica dell'uomo'). Segno dell'intimo le-

7) Cfr. il mio discorso Die griechische Staatsethik im ZeitalteT


des Plato; anche il mio corso di lezioni Die geistige GegenwaTI
der Antike (Berlino 1929) 38 ss. («Dle Antike» V 185 ss.).
INTRODUZIONE 19

game della vita intellettuale produttiva con la comunità


è il fatto che le personalità cospicue, tra i Greci, si consi-
derano interamente al servizio di questa. Questo feno-
meno è noto anche all'Oriente e sembra essere soprattutto
naturale là dove la vita è retta da rigorosi vincoli reli-
giosi. Ma i grandi uomini, presso i Greci, non si presen-
tano affatto quali profeti della divinità, bensì quali auto-
nomi maestri del popolo e foggiatoci dei propri ideali.
Anche dove parlano nella forma dell'inspirazione reli-
giosa, questa si trasforma sempre in conoscenza e crea-
zione propria. Ma, per quanto personale per forma e vo-
lontà, quest'opera dello spirito è sentita clal suo autore,
con intensità intatta, nella sua funzione sociale. La triade
greca del Poeta (7tot1j-rljç) dell'uomo di Stato (7toÀt-rtx6ç)
e del Saggio (crocp6ç) incarna l'elemento direttivo su-
premo della nazione. In quest' atmoi>fera di libertà inte-
riore, che p_er la sua conoscenza dell'essenza delle cose
si sente obbligata verso la . totalità in virtù di leggi su-
preme, concepite come divine, la creatività dei Greci è
salita alla sua grandezza educativa, che la colloca ben
al disopra del virtuol!!Ìsmo artistico ed intellettuale della
moderna civiltà individualistica. Essa solleva la « lettera-
tura » greca classica, oltre la ·sfera di quanto sia mera-
mente estetico, movendo dalla quale si cerca invano d'in-
tenderla, all' incommensurabile influsso essenziale che
esercitò sui millenni.
Il più potente influsso sopra il nostro :m:odo di sen-
tire spetta all'arte greca nelle sue età più splendide e
nelle sue creazioni somme. Bisognerebbe scrivere addi-
rittura una storia dell'arte greca quale specchio degli
ideali che via via dominarono la vita. Anche per l'arte
dei Greci vale l'affermazione che essa, sino al IV secolo
inoltrato, è in prevalenza espre8sione dello spirito col-
lettivo. Per l'intelligenza dell'ideale virile agonale, van-
tato dagli epinici di Pindaro, chi farebbe a meno delle
20 PAIDEIA

statue dei vincitori olimpici. che l'arte ci pone v1v1 sot-


t'occhio, o delle sue immagini degli dèi, quale incarna-
zione delle idee greche circa la dignità e l'elevatezza
. della nobiltà del corpo e dell'anima umana? Il tempio
dorico è senza dubbio il monumento più grandioso che
il carattere dorico, la dorica subordinazione del singolo
ad un tutto rigorosamente disposto, abbiano tramandato
alla posterità. Vi è insita un'imponente virtù di fare sto·
ricamente presente quella vita passata, che vi si eter-
na, e la religiosità che la riempiva. Pure, vero strumento
della paideia secoli.do i Greci non sono le mute arti
dello scultore, del pittore e dell'architetto, bensì il poeta
e il musico, il filosofo e il rètore, cioè l'uomo poli-
tico. Il legislatore, secondo la concezione greca, è sotto
1lll certo rispetto più affine al poeta che non l'artefice

delle arti :figurative: è la loro funzione pedagogica che


li accomuna. Soltanto quell'artefice che forma l'uomo
vivente ha un diritto specifico a questo nome. Per quanto
spesso i Greci paragonino l'a,ttività educativa con quella
dell'artefice delle arti plastiche, presso un popolo arti-
sta quale è il greco, non si fa quasi parola dell'effi-
cacia educativa della contemplazione di 0:pere d'arte nel
senso winckelmanniano. La parola e il suono, e - in
quanto agiscono mediante la parola o il suono o per mezzo
d'entrambi - il ritmo e l'armonia sono per i Greci le
forze formatrici dell'animo, senza più, giacché decisivo
in ogni paideia è l'elemento attivo, il quale nella forma-
zione dello spirito diviene anche più importante che
nell'agon delle capacità fisiche. L'arte, secondo la con-
cezione greca, spetta a un'altra sfera. In tutto il periodo
classico essa mantenne il suo posto nel mondo sacramen-
tale del culto, onde ebbe origine. Essa è per sua natura
agalma,,. ornamento. Ciò. non vale per l'epos eroico, dal
quale s'irradiò in ogni altra poesia la forza educativa.
Anche là dove :questa è legata al culto, essa affonda le
INTRODUZIONE 21

sue radici ben addentro nella sfera sociale e politica, e


ciò vale tanto più per le opere prosastiche. La storia della
cultura greca coincide cosi, in sostanza, con la cosiddetta
letteratura. È, secondo . l'intesero originariamente i suoi
creatori, espressione dell'autoformazione dell'uomo greco.
A parte ciò, per i secoli ehe vanno sino all'età classica,
all'infuori di quanto resta della poesia noi non posse-
diamo tradizioni rilevanti in forma scritta, sicché anche
per una storia greca in senso più largo, in quel periodo,
la progressiva formazione dell'uomo nella poesia e nel-
!' arte è l'unico elemento afferrabile. La Storia ha voluto
che questo solo restaBBe di tutta l'esistenza dell'uomo.
Noi non cogliamo· il processo di f or m a z i o n e dei
Greci in quell'epoca se non nella f o r m a ideale del-
l'uomo, ch'essi foggiarono.
Da ciò risulta segnata la via e circoscritto il oompito
della presente esposizione. La scelta e la trattazione
non richiedono speciale motivazione. Debbono giustifi-
carsi, almeno in complesso, di per se stesse, sebbene
taluno potrà desiderarvi una cosa, tal altro un'altra. È un
vecchio problema, quello che si pone qui in forma
nuova giacché il criterio dell'educazione dell'uomo fu
sin da principio connesso con lo studio dell'antichità
classica. Essa fu sempre, per i secoli ulteriori, il te-
soro inesauribile del sapere e della cultura, dapprima
piuttosto nel senso di un'esteriore dipendenza di con-
tenuto, poi come un mondo di modelli ideali. Il sorgere
della moderna archeologia storica diede luogo a un at-
teggiamento radicalmente diverso. Alla riflessione storica
nuova importava soprattutto conoscere che eoea avesse
avuto esistenza reale e come si fosse svolto. Nella ricerca
appaBSionata d'una pura visione del passato, anche l'an-
tichità classica divenne ai suoi occhi semplicemente un
tratto di storia, per quanto privilegiato, a proposito del
quale malvolentieri si cercava quale ne fosse l'efficacia
22 PAIDEIA

immediata. Questa era considerata faccenda privata, la-


sciando all'apprezzamento individuale di giudicarne il
valore. Che accanto a codesta storiografia oggettivo-enci-
cfopedica dell'antichità, che si andava facendo sempre
più diffusa, e che invero presso i suoi cultori precipui era
molto meno scienza neutra, di quanto sembrasse ad essi
medesimi., esistesse in pratica ancora qualche cosa del
genere di una « cultura classica », si poteva far mostra
d'ignorare sintantoché questa manteneva ancora inconte-
stato il suo posto.
La scienza rimaneva in debito d'una nuova giusti-
ficazione del suo ideale, la cui visione storica classicista
si riteneva scalzata dall'indagine. Ma nell~ora presente,
in cui l'intera nostra cultura, sconvolta da un'immane
esperienza storica propria, ha iniziata una revisione dei
propri fondamenti., alla scienza dell'antichità si ripre-
senta, quale problema ultimo e· decisivo per la sua stessa
sort~ la questione del contenuto educativo dell'antichità
classica. La scienza storica non può risolverla se non sul
terreno della conoscenza storica. Il fine è di intendere
secondo la stessa sua essenza spirituale l'imperituro fe-
nomeno edrueativo dell'antichità classica e,l'im:pulso, deci-
sivo per tutta la posterità, dato dai Greci alla corrente
della storia.
LIBRO PRIMO

L' ETA ARCAICA


CAPITOLO PRIMO.

ARISTOCRAZIA E ARET:É

L'educazione quale funzione della comunità è cosa


sì generale e naturalmente necessaria, che, ovvia com'~
coloro che ne sono oggetto o che l'esercitano, per lungo
tempo ne hanno appena coscienza, ed essa non lascia
traccia di sé nella tradizione letteraria se non in età re-
lativamente tarda. Il contenuto ne è press'a poco lo stesso
presso tutti i popoli; è insieme morale e utilitario; anche
presso i Greci non presenta altri caratteri. Riveste tal-
volta la forma di comandamenti, quali: one>ra gli dèi,
onora il padre e la madre, rispetta lo straniero; tal altro
consiste in prescrizioni, tram<mdate per secoli oralmente,
di decenza esteriore e in regole di pratica saggezza; tal
altra ancora nel comunicare nozioni ed esperienze profes-
sionali, la cui sostanza, in quanto siano traamissibili, è
indicata dai Greci con la parola teclme. Se le regole ele-
mentari della debita condotta verso gli dèi, i genitori e gli
stranieri furono poi formulate anche nelle leggi scritte
dagli Stati greci, dove diritto e morale non erano ancora
metodicamente separati 1 ), i tesori, invece, deila sapo-

•) Molti passi omerici dimostrano l'esistenza di queste norme


di rispetto per gli dèi, per i genitori e per gli ospiti. Sebbene essi
non appaiano qui come un unico codice tripartito, Omero spesso
ricorda o illustra .l'uno o l'altro di questi precetti. Esiodo Opp.
183 ss., registra fra altri sintomi la violazione dei diritti del·
26 LIBRO I -L'ETÀ ARCAICA

rosa sapienza popolare, meecolati a primitive regole di


convenienza e alle norme prudenziali delle tenaci super-
stizioni volgari, affiorano per la prima volta, dall'anti-
chissima tradizione orale, nella gnomica paesana d'Esio-
do 2 ). La regola inerente a. un mestiere, per sua natura,

l'ospite e dei vincoli familiari insieme con l'empietà verso gli


dèi come segni caratteristici dell'avvento dell'età del ferro. Eschilo
Su.ppl. 698-709, nella lunga e solenne preghiera delle Danaidi
a Zeus Xenios per~ benedica i loro benefattori, il popolo di
Argo, aggiunge alla fine una preghiera perché sia mantenuto il
rispetto per gli dèi, i genitori e gli ospiti. Questa aggiunta appare
di ·accento schiettamente individuale, mentre il resto della pre-
ghiera è piuttosto tipico di forma, come pu() essere chiarito dal
confronto con l'analoga preghiera delle Eumenidi (Eu.m. 916
ss.) per la città. di Atene, ·o con l'antica preghiera romana per
l'offerta dei Suovetaurilia nel De agri cu.li~a di Catone, in cni
la preghiera per il rispetto degli dèi, dei genitori e degli ospiti
manca. Nelle Eumen.idi è un chiaro accenno allo steBBO triplice
com.andamento, nella solenne protesta delle Erinni contro la
violazione dei loro diritti, 490 ss., e. specialmente 534-549. Nelle
Eu.menidi, è il rispetto per i genitori (-roxéCJ>v cré~a:ç) che è mi-
nacciato dal matricidio di Oreste, mentre nelle Supplici è in causa
il diritto dell'ospite. In entrambi i passi il rispetto per gli dèi,
i genitori e gli ospiti è considerato come la somma dei &Eaµ.ol
di Dike (cfr.· Suppl. 708, Eum. 491, 511, 539). Altri riscontri,
nel commento alle Supplici di P ALEY. Euripide conosce lo stesso
codice tripartito. Egli, infatti, (Antiope fr. 38) non fa che dare
una forma più moderna e razionale all'antica' legge sull'onore
dovuto ali'ospite, quando aggiunge al rispetto per gli dèi e i ge-
nitori quello per il « nomos comune agli Elleni», cioè la legge non
scritta riguardante il trattamento' dei cittadini di altre città greche
(per lo stesso termine, cfr. Eur. Sappl. 311, 526, 671). Pindaro,
Pyth. VI 33, omette l'ospite perché non riguarda il tema di quella
poesia e così fa Aristotele (Eth;, Nic. VIII 14, 1163 b 16) e altri
autori. che si riferiscono allo stesso precetto di onorare gli dèi e
i genitori. Pindaro riporta questa norma agli insegnamenti del
centauro Chirone, il maestro di Achille e di altri grandi eroi mitici;
in altre parole, questo preCl!tto rappresenta per lui il nucleo di
una primitiva tradizione educativa. Fo:rse egli lo lesse nel poema
epico didascalico XtpCJ>voç ùito&ijxa:' (cfr. pp. 356 e 393) al quale
allude anche altrove. Eschilo, Suppl. 708-709, prova che il pre-
cetto in qualche modo è stato incorporato anche nella legisla-
zione scritta (h &e:aµloir,; Mxa:ç yéypa:n-.a:i), e certamente ci è
detto da Eliano, VaT. Hist. VIII 10, che con qualche modifica-
zione esso faceva parte delle leggi di Dracone, che erano chiamate
&e:aµol. E ci() pu<I essere avvenuto anche per altri stati greci.
1) Cfr. il capitolo su Esiodo, p. 130.
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 27

ripugna del tutto dal rivelare in forma scritta il proprio


segreto, come mostra ancora, per esempio, il giuramento
professionale dei medici nella raccolta degli scritti ippo-
cratici 8 ).
Dall'educazione in queato senso differisce la cultura
data all'uomo mediante la creazione d'un tipo ideale d'in-
tima coerenza e di stampo determinato. Non si dà cultura
senza un'immagine, presente allo spirito, dell'uomo quale
dev'essere, dove la considerazione dell'utile è indifferente
o ad ogni modo accessoria, e l'elemento decisivo è invece
il xa:J...6v, cioè il Bello, col valore impegnativo d'un mi-
raggio, d'un ideale 4 ). Questa opposizione di motivi educa-
tivi si può seguire attraverso tutte le età; è elemento fon-
damentale della natura umana. Poco importa con quali
parole la designiamo. Ma è facile vedere che, se ci è con·

a) Cfr. « Paideia» III 15 e.


') Dai poemi di Omero alle opere filosofiche di Platone e Ari-
stotele la parola xcù6v, «il bello» denota una delle più signifi-
cative forme del valore personale. In contrasto a parole come
iJ8u o cruµcp€pov, il piacevole o l'utile, xcx'.ì.6v significa l'ideale.
L'amicizia basata non sul piacere o sull'utile ma sul xcx'.ì.6v è il
frutto di un'ammirazione per il valore della· personalità umana
come tale ed è generalmente fondata su un comune ideale. Un'azione
è fatta 3L& TÒ xcc'.ì.6v ogni volta che esprime semplicemente un
ideale umano come :fine a se stesso, non quando serve a un iltro
:fine. Il termine xcxÀÒc; xciycx.&6c; non appare in Omero, ma deve
essere molto antico. Il più antiéo passo pervenutoci in cui questo
termine è presupposto come ideale è Solone, fr. l, 39-40, ,.i però
il distico è autentico. Se usata per una persona la parola xcxÀ6c;
si riferisce alla bella figura piuttosto che al valore personale (areté),
come è chiaro da que~to passo e da molti altri: ·quindi l'aggiunta
xciycx.&6c; era necessaria per esprimere l'ideale completo della per·
sonalità umana come era concepito dalla primitiva società greca.
Essa comprendeva sia la bella apparenza (&.y'.ì.cx.òv d8oç;, cfr.
Tyrt. fr. 7, 9), sia la vera areté che si immaginava corrispondente
ad essa. Chiunque guasta questa areté con qualche brutta azione
« smentisce la sua nobile apparenza» come « svergogna la sua
schiatta» (Tyrt. I. c.). Normale e naturale è che i due elementi
fisico e morale, coincidano. Lo e:!1loç;, o bellezza esteriore, è consi-
derato e onorato, come il riflesso visibile della personalità intera
e del suo valore ideale. Tersite non ha areté e quindi è rappresen-
tato da Omero come una figura ridicolmente deforme (B 216
cxta;(LCf't'O<; 8è civljp Ù'ltÒ "D..LOV ijì..&e:v).
28 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

sentito usare i termini « educazione » e « cultura » in que-


sto significato diverso, giustificato dalla storia, la clÙtura
sorge da un'altra radice, che non ciò che abbiamo testé
definito quale educazione in senso lato. La cultura si ma-
nifesta in tutto il modo di essere dell'uomo, nella presenza
e nel contegno eeteriore come nell'atteggiamento intimo.
Entrambi non si formano a caso, ma soltanto quale pro-
dotto d'una volontaria selezione. Già Platone la paragonò
con la selezione delle razze canine elette. Essa dapprima
non muove che da una classe ristretta, l'aristocrazia della
nazione. Il kalòs kagatlWs dell'età classica rivela ancora
tale origine così chiaramente come il gentleman inglese'.
Questi v-ocaboli derivano in origine dal tipo della claBSe
nobiliare superiore. Impadronitasi la società borghese,
nella sua ascesa, di tale forma, questa diventa, in linea
di principio, patrimonio comune e ad ogni modo norma
generale.
È un fatto fondamentale della storia . della cultura,
che ogni cultura superiore è sorta dalla differenziazione
sociale dell'umanità, che alla sua volta deriva dalla na-
turale diversità fisica e psichica degl'individui. Anche là
dove la differenziazione conduce alla formazione di ri·
gide caste privilegiate, il principio dell'ereditarietà che
vi regna torna di continuo a correggersi automaticamente
mediante il rinsanguamento dal basso, dalla grande ri-
serva delle forze etniche. Anche là dove rivolgimenti vio·
lenti spogliano o distruggono del tutto la claese imperante,
in brevissimo tempo, per necessità naturale, si ricostituisce
una classe dirigente quale nuova aristocrazia. Sorgente del
processo spirituale di formazione della cultura d'una na·
zione è l'aristocrazia. La storia della cultura greca, di
questo processo formativo della personalità nazionale del·
l'ellenismo, di cospicua importanza per il mondo intero,
comincia col costituirsi nell'aristocrazia dell'Ellade ar·
caica una determinata immagine dell'uomo superiore
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 29

verso la quale si viene educando l'élite della stirpe 5 ).


Il fatto compiuto della cultura aristocratica, che si eleva
di su larghi strati sociali, si trova all'inizio d'ogni tradi-
zione scritta, e da esso deve prender le mosse lo studio
storico. Ogni cultura posteriore, anche al sommo grado
della spiritualità, reca ancora evidenti i segni dell'origine
sua, per quanto il contenuto si trasformi. La cultura altro
non è se non la fisonomia, progressivamente spiritualiz-
zata, dell'arietoerazia d'una nazione 6 ).

6) Cfr. la distinzione fatta a p. 7 (con la nota 2) fra« cultura»


come concetto semplicemente antropologico, che significa tutto
il modo di vita o il carattere di una particolare nazione, e « cultura»
come consapevole ideale di umana perfezione. In questo ultlln.o
senso umanistico la parola è usata nel passo che segue. Questo
«ideale di cultura» (in greco areté e paideia) è una particolare
creazione. del pensiero greco. Il concetto antropologico di cultura
è un'estensione moderna di questo concetto originario; ma con
questa si è trasformato un concetto di .valore in una categoria
puramente descrittiva che può essere applicata ad ogni nazione.
anzi anche alla « cultura dei primitivi», perché ha interamente per-
duto il suo vero significato normativo. Anche nella definizione di
cultura data da Matthew Arnold, come« il meglio che sia stato pen-
sato e detto in ogni età», il sens.o originale (educativo) della parola
(come ideale di perfezione umana) è oscurato. Questa definizione
tende a fare della cultura una specie di museo cioè è « paideia»
nel senso del periodo alessandrino, quando venne a designare
erudizione. ·
8) Questa sentenza non deve essere presa come un dogma
che si voglia imporre alla storia o che possa essere ispirato da
un ideale politico. Essa è una semplice constatazione dei fatti
offertici dai nostri documenti della primitiva tradizione greca
ed è confermata dall'esempio di molte altre nazioni che ebbero
un lungo e organico sviluppo culturale. Naturalmente una vera
classe « rappresentativa» non esiste mai., isolata dal resto del
popolo; la cultura, anzi, di un tale gruppo, come l'antica nobiltà
greca, è il :fiore di una più vasta, inconsapevole, secolare tradi-
zione di forma nel culto, nelle istituzioni e nel costume comune
all'intero organismo sociale (vedi la distinzione fatta alla nota
5 tra cultura nel senso umanistico come ideale consapevole di
perfezione umana [ areté] e cultura in senso più vasto, antropo-
logico). Il nesso fra l'una e l'altra è stato ben messo .in rilievo
da T.S.ELIOT in Notes Toward a Definition of Culture, ristampato
in « Partisan Review », N. 2, 1944. Nella primitiva letteratura
greca, cultura in questo senso più antropologico è constatabile
per la prima volta nelle Opere del poeta contadino beota Esiodo
30 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Per le origini della cultura greca non poSBiamo, come


sembrerebbe ovvio, andare scandagliando sulla traccia
della storia della parola paideia, giacché questa non si

(v. cap. IV). Tuttavia ciò che noi chiamiamo cultura greca nel
senso specifico di un consapevole ideale della perfezione umana
- la cultura dell'epos omerico - fu proprio di un limitato gruppo
del popolo, laristocrazia.
Questo fatto non è per niente in conflitto insanabile con la
nobile idea dei secoli posteriori che tutti gli uomini sono nati
uguali, perché questo assioma non pretende di essere una consta-
tazione storica, ma esprime piuttosto una fede metafisica che,
se accettata. ha importanti conseguenze pratiche, ma non altera
il passato. Né il fatto che la cultura in senso umanistico sia stata
originariamente ristretta a una particolare classe ha mai distolto
le posteriori generazioni dal chiedere che un numero maggiore
di uomini fosse ammesso a godeme i benefici. La democratica
cultura dell'Atene di Pericle fu il prodotto finale di una lunga e
graduale trasformazione ed estensione della primitiva tradizione
aristocratica. Uno dei più importanti compiti di questo libro è
quello di descrivere questo svolgimento storico del V e IV sec.
a. C., unico nella storia e di significato universale. Il significato
di questo processo è nell'enorme espandersi del regno della cultura
che la rese accessibile all'intera città o nazione: e lo spirito della
nuov.a unità politica e culturale lasciò il suo ' segno in ogni
importante manifestazione del genio greco durante questo periodo.
La metamorfosi dell'antico, aristocratico modo di vita nella demo-
crazia di Pericle non si può capire unicamente come estensione
di diritti politici alla massa del popolo. Mentre la civiltà greca
si sviluppa dalla sua forma originaria e più esclusiva in un comples-
so più universale ed umano, essa seguiva, in pari tempo, la sua
propria intima tendenza. Giacché la vera forina di questa cultura
implicava, dal principio, un potente elemento di universalità e
razionalità che la metteva in grado e la predestinava a svilupparsi
al di là dei limiti di classe nella cultura dell'intera nazione greca
e finalmente nella civiltà mondiale. Cosl essa conquistò e penetrò
il mondo adattando la sua forma alle varie situazioni, ma senza
rinunciare alla sua essenza:
L'idea umanistica che sosteneva questa trasformazione era
il principio secondo cui se la cwtura è concepita come un « pri-
vilegio» dovuto alla «nobile nascita» non ci può essere più alto
diritto a un tale privilegio che quello inerente alla natura del-
l'uomo come essere ragionevole. Perciò invece di volgarizzare
quello che era nobile, lo rnluppo culturale della Grecia· nobilitava
tutto il genere umano offrendogli il programma di una più alta
forma di 'rita, la vita della ragione. E ancora di più: la nuova
società autogovernantesi dei secoli più tardi diventò sempre più
consapevole der fatto che la realizzazione di questo programma
dipendeva non solamente dalla più vasta estensione della cultura,
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 31

trova prima del V secolo 7). Ciò non è invero che una
circostanza casuale della tradizione: potrebbe darsi che
trovassimo per avventura attestazioni anche più antiche,
venendo in luce nuove fonti. Ma evidentemente neanche
èosì vi sarebbe nulla di guadagnato, giacché gli esempi
più antichi mostrano chiaro che la parola, al principio
del V secolo, aveva ancora il semplice significato di « edu-
cazione dei fanciulli», era cioè ben lontana ancora dal
senso più elevato che riceverà poco dopo e che qni ab-
biamo di mira. Il leitmotiv naturale della storia della
cultura greca è .piuttosto il concetto dell'areté, che risale
sino ai tempi più remoti. La lingua tedesca odierna non
offre, come è noto, nn pieno equivalente di tale parola,
laddove Tugende, nel Mittelhochdeutsch * col suo signi-

ma anche dal mantenimento di un livello Blto in ogni attività


umana. Nessuna forma di società può sopravvivere a lungo senza
una accurata e cosciente educazione dei suoi membri più capaci
e più valenti, anche quando non si può più esser sicuri che essi
appartengano a una classe privilegiata di nobiltà terriera.
Su un piano razionale la sola via per governare con una
classe ereditaria è .il governo dei più valenti cittadini, scelti e
addestrati al servizio del bene comune. Ma quando noi vediamo
la filosofia del periodo classico della Grecia così seriamente impegna-
ta a questo compito di selezione ·ed educazione, il problema che
essa è intenta a risolvere non è lo stesso che si presenta ai primordi
della civiltà greca, tranne la differenza di forma? Questo almeno
fu il modo con cui quei più tardi educatori guardarono il probleina:
essi non pensarono in termini di privilegio, ma di areté e così ridus-
sero la « nobiltà» al suo vero significato. Quando gli umanisti
del Rinascimento rivissero l'eredità spirituale dell'antichità clas-
sica, adottarono, con l'ideale classico della cultura, questa conce-
zione di nobiltà o dignità dell'uomo. E questa idea umanistica che
ispirò il Rinascimento fu una delle fonti della civiltà moderna.
Certamente questo concetto di nobiltà implicito nell'ideale greco
di cultura ha conseguenze interessanti per il problema della
moderna democrazia; ma questo non è argomento per uno studio
storico come il presente.
7) Per la prima volta appare in Eschilo, Sept. 18, dove tut·
tavia significa -tpocplj, allevamento o cura di bambini. Cfr. capitolo
sui Sofisti; p. 495, n. 1.
" Cioè la lingua tedesca dell'epoca cavalleresca, quale si con-
figurò verso il secolo XII (Walter von der Vogelweide, ecc.).
Analogo al caso della parola Tugend (nel tedesco. odierno), cw
32 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

ficato non anoora ridotto al mero campo morale, desi-


gnando il supremo ideale virile cavalleresco, col suo abbi-
namento di eletti costumi aulici e· di eroismo guerriero,
oorrisponde esattamente al significato greco. Ciò indica a
mfficienza dove si debba cercare l'origine del concetto.
Esso ha radici nelle concezioni fondamentali dell'aristo-
crazia cavalleresca. Nel concetto dell'areté si concentra
il contenuto educativo di quel periodo nella forma più
pura.
Il testimone più antico della cultura aristocratica della
grecità ·~caica è Omero, se è lecito indicare con questo
nome le due grandi epopee dell'Iliade e dell'Odissea. È
per noi tanto la fonte storica riguardante la vita di quel-
l'epoca, quanto la dilratura espressione poetica dei suoi
:ideali. Noi dobbiamo considerarlo sotto entrambi i ri-
spetti. Ne ricaviamo in primo luogo la nostra visione del
mondo della nobiltà e ricerchiamo quindi come il
suo ideale dell'uomo prenda corpo nei poeini omerici, di-
venendo così elemento educativo operante ben oltre il
ristretto campo in cui valeva originariamente. Solo me-
diante il raffronto oo8rante del fluttuante sviluppo storico
della vita e dello sforzo artistico per ete:çnare la norma
ideale nella quale ogni età creatrice trova la sua espres-
sione suprema, si fa manifesto l'andamento della storia
della cultura.
In Omero, come pure nei secoli ulteriori, il concetto
dell'areté è spesso usato in senso lato, non indicando sol-
tanto qualità dell'uomo, ma anche il pregio d' esseri non
umani, come la forza degli dèi o il coraggio e la celerità

accenna l'A., è in italiano quello della parola virtù. Per ritrovare


in ~sa un significato vicino all'aret6 greca dobbiamo risalire al-
l'accezione, più vicino alla virtus latina, in cui usavasi nel Rina-
scimento, nella lingua, ad esempio, del Machiavelli; dove il con-
cetto di « virtù. » non è ancora ristretto alla moralità, ma equivale
a valentia, « tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma
il carattere. o la forza morale» (De Sanctis). (N. d. T.).
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 33

dei nobili destrieri 8 ). L'uomo volgare, invece, non ha


areté, e se accade che un rampollo di nobile schiatta cada
in schiavitù, Zeus gli toglie la metà della sua areté ed egli
non è più que1lo di prima 11). L'areté è il vero predicato
della nobiltà. I Greci considerarono sempre la capacità o
forza eminente quale ovvio· presupposto d'ogni situazione
di predominio. Signoria ed areté sono indissolubilmente
congiunte. La radice della parola è la steesa che in &pLa"t"oç,
il superlativo di « valente » od « egregio », che al plurale
è usato sempre a designare l'aristocrazia. Ed è ben natu-
rale che, in quella concezione che valuta l'uomo secondo
la sua capacità 10), il mondo in genere eia c01IBiderato sotto
questo rispetto. Su ciò si basa l'applicazione del termine
a soggetti non umani, come pure la successiva estensibilità
del concetto così designato. Per valutare la capacità del-
l'uomo, mfatti, possiamo immaginare misure diver8e, a
seconda del céimpito ch'egli debba assolvere. In Omero,
qualche volta appena, in parti più recenti, per areté s'in-
tendono qualità morali o intellettuali 11), ma del resto,

8 ) L'areté dei cavalli è menzionata in 'I" 276 e 374. Platone


(Resp. 335b) parla di areté di cani e di cavalli e (353b) dell'areté
dell'occhio; areté degli dèi è in 0 498.
") p 322.
10) I Greci sentirono che l'areté era soprattutto una forza,
una capacità di fare qualche cosa. Forza e salute sono l'areté
del corpo, intelligenza e acutezza I'areté della mente. Da questo
punto di vista è difficile accettare la moderna spiegazione sog-
gettivistica che fa derivare la parola da &péaxCù, «piacere» (cfr.
M. HoFFMANN, Die ethische Terminologie bei Honwr, Hesiod
und den alten Elegikern und Jambographen, Tiibingen 1914,
p. 92). È vero che l'areté spesso contiene un elemento di ricono-
scimento sociale (il suo. significato, dunque, si cambia in « stima»,
« rispetto»). Ma questo è un senso secondario, creato dal carattere
altamente sociale di tutti i valori umani nei tempi primitivi.
La parola originariamente sarà stata una indicazione oggettiva
del valore di chi la possiede. di un suo particolare potere,
che lo fa un uomo completo.
11) Questo si trova in O 641 ss. dove l'intelligenza è menzionata
insieme con la forza fisica e la prodezza in guerra sotto la locuzione
generica « ogni sorta di aretài ». È significativo il fatto che la
34 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

conforme l'opinione dell'età arcaica, la forza e la destrezza


del guerriero o del competitore, soprattutto il valore eroi-
co, che tuttavia non è apprezzato quale azione etica nel
senso nostro, distinguendolo dalla forza, ma vi è sempre
intuitivamente incluso.
Non sembra probabile che la parola areté, all'epoca
in cui si formarono le due epopee, nell'uso vivo avesse
realmente soltanto quel significato ristretto che predo-
mina in Omero. Già l'epopea stessa conosce, oltre all'areté,
altri criteri di valutazione: così l'Odissea non ceSBa di esal-
tare pregi intellettuali, soprattutto del protagonista, nel
quale il coraggio, in generale, passa in secondà linea ri-
spetto al senno e ali'astuzia. Anche altri pregi, oltre alla
forza intrepida, dovevano sin d'allora esser compresi nel
concetto d'areté, come troviamo anche in altri casi - a
parte le eccezioni sopradette - nell'antica poesia. Ivi la
lingua .parlata, col nuovo significato del termine, penetra
evidentemente nello stile della poesia. Ma areté quale
nome della forza e del coraggio eroici era· ormai quasi
radicata nella lingua tradizionale del poema eroico e vi
si conservò più a lungo in questo significato. Che il merito
maBCOlino si fondi anzitutto su queste quali,tà è cosa ovvia
nell'età guerriera delle migrazioni e trova riscontro anche
presso altri popoli. Anche nell'aggettivo &ya:66ç, formato
da altra radice, ma spettante al concetto di areté, si ma·
nifesta il nesso tra aristocrazia e prodezza guerresca; esso
significa ora nobile, ora prode o valente, laddove non ha
l'ulteriore significato di « buono » in generale, così co·
me areté non ha quello di virtù morale. In locuzioni
oonsaerate, come «cadde da prode» 12), l'antico signifi-
cato si conservò sino a tarda epoca. La locuzione si trova
spesso in questo significato in iscrizioni sepolcrali e in·

parola fosse usata talvolta in questo più largo senso nell'Odissea,


. che è il poema più recente.
12) &.vl]p &.yoc.&òç ye:v6µ.e:voç &.7ré.&cxve:.
CAP. I: ARJSTOCRAZIA E ARETÉ 35

narrazioni di battaglie. Tutte le parole di questo grup-


po 13) hanno tuttavia in Omero, per quanto con prevalenza
del significato guerresco, anche un significato « etico » più
generale. Ambedue derivano dalla medesima radice: esse
designano l'uomo egregio, per il quale, nella vita privata
come in battaglia, vigono talune norme di condotta che
non esistono per l'uomo del volgo. Il codice di casta della
nobiltà cavalleresca non è dunque divenuto fondamentale
per l'educazione greca eolo in quanto fornì alla posteriore
etica della polis uno dei principali ornamenti del suo
cànone della virtù, l'imperativo dell'intrepidità, la cui
ulteriore qualifica, di « virilità », rammenta ancora chia-
ramente la parificazione omerica del coraggio con l'areté
virile pura e semplice; ma in genere le regole superiori
di una eletta condotta derivano da questa fonte. Per tali
valgono non tanto obblighi determinati nel senso d'una
morale borghese, quanto e soprattutto una mano sempre
tesa ad ognuno e la grandiosità di tutto il tipo di vita 14).

13) "Accanto ad &ycx.&6c;, è usato generalmente in questo senso,


fo.&Mc;: l'opposto è xcxx6c;. Nella lingua di Teognide e di Pindaro,
queste parole seguitano ad applicarsi alla nobiltà di nascita,
sebbene il senso ne sia cambiato parallelamente allo sviluppo
della civiltà greca. Era naturale che l'areté fosse limitata alla
nobiltà nei tempi di Omero, ma una tale limitazione non può
essere valida in tempi più tardi, specialmente perché gli antichi
ideali furono rinnovati nel significato da un punto di vista comple-
tamente differente.
14) Lo sviluppo delle virtù omeriche di liberalità e magnificenza
al tempo di Pindaro sotto l'influenza delle cambiate condizioni
economiche è il tema di una dissertazione di laurea di Radcliffe
della Sig.na CoRA MAsoN, 1944. Cfr. anche una dissertazione
di J. HIMEBWK, Ile:vlcx en 1tÀou-.oc; (Utrecht 1925). Questi ideali
di una antica società aristocratica sono ancora vivi nella trat-
tazione filosofica di Aristotele, Eth. Nic. IV, 1-6. La libertà aristo-
telica (èÀe:u.&e:pt6Tl)c;) e la magnificenza (µe:ycxÀo7tpbte:tcx) non
nascono da un sentimento di pietà o di simpatia sociale col povero
come la cptÀcxv.&p<:ù1tlcx e la cptÀo!;e:vlcx, che hanno parte così grande
nell'antica vita e letteratura cristiana. Ciò non prova, tuttavia,
che l'ideale più antico manchi di sentimento sociale, ma solo
che questo sentimento era del tutto differente da quello nato
nel cristianesimo. Il sentimento antico è del tutto oggettiviz·
36 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Carattere essenziale della arutocrazia appare in Omero


ciò che di impegnativo essa ha per i suoi rappresentanti.
Si applica loro una misura più rigorosa, ed essi stest1i ne
hanno orgogliosa coscienza. Il fattore educativo della no-
biltà eta nel destare il sentimento dell'obbligo verso l'idea-
le, eh.e è così posto continuamente sott'occhio al singolo.
A questo sentimento, alla aù:los. si può sempre fare ap-
pello; l'offenderlo suscita negli altri il sentimento, inti-
mamente connesso a quello, della némesis 1~). Entrambe
sono in Omero concetti tipici della morale di casta aristo-
cratica. All'orgoglio nobiliare, che si compiace di volger
lo sguardo alla lunga serie degl'illustri antenati, si con-
trappone la nozione che la posizione privilegiata non si
mantiene se non con le virtù mercé le quali fu conseguita.
Il nome di iristoi importa sì una pluralità, ma entro que-
sto gruppo che emerge sulla massa regna dal canto suo
un'intensa gara la cui posta è l'areté. Lotta e vittoria, se-
condo le idee cavalleresche, sono la vera prova del fuoco
della genuina virilità. Esse rappresentano non· solo il
trionfo :fisico sull'avversario, ma la conferma dell'areté
strappata alla natura con dura disciplina. La parola ari-
stew, che fu usata più tardi per indicare ,la singolar ten-
zone dei grandi eroi nell'epos 18), coglie per.fettam.ente que-
sta concezione. Tutta la vita, l'aspirazione loro è un con-
tinuo zelo di cimentarsi, un gareggiare per la palma.

zato. Il criterio, cioè, sul quale misura la sua azione e i suoi doni
è il criterio oggettivo di Ttµ-fi in una accurata gradazione.
") Per ixt86>.; e véµe:crn; cfr. il libro di M. Hoffmann citato
a nota 10, e specialmente la monografia di C. E. VoN EllFFA,
AI.Ml:E und veruiandte Begriffe in ihrer Entwicklung von Homer
bis Demokrit (Beihefte zum « Philologus», Suppl.-Bd. 30, 2),
lavoro di cui io suggerii il tema all'autore. Cfr.: le osservazioni
chiarificanti di Aristotele su .xt86>.; e véµe:aiç, Eth. Nic. II 7, 1108
a 31 ss., e la trattazione particolare su .xl86>.; IV 15. Quella su
véµe:a ~ç non esiste nella versione dell'Etica che . possediamo e
può essere andata perduta alla :fine del 1. IV.
l&) I grammatici alessandrini spesso usarono la parola aristeio
combinata col nome di un eroe, come titolo di cauti omerici.
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 37

Quindi l'inesauribile diletto della narrazione poetica di


tali aristìe. Anche in pace la brama di gare dell'areté vi-
rile si procaccia l'occasione d'affermarsi nei ludi, quali
l'Iliade descrive persino nelle brevi pause della guerra,
nei ludi funebri in onore di Patroclo caduto. Essa conia,
quale motto dell'uomo cavalleresco, il verso n), citato da
millenni da tutti gli educatori, oc:th &.fM't"E:OeLV xoc:t ùndpo-
x.ov è:µµe:voc:L &n(J)v, che alla smania di livellamento della
noviMima sapienza pedagogica doveva essere riserbato
di metter fuori corso.
In questa frase il poeta riassume in modo breve e
appropriato gl'intendimenti educativi dell'aristocrazia.
Quando Glauco .si fa incontro a Diomede sul campo, vo-
lendo presentarsi quale avversario suo pari, secondo l'uso
omerico enumera i propri famosi antenati, indi soggiunge:
«E me generò Ippoloco, da lui discendo. Quando egli mi
mandò a Troia, più volte mi fece ammonimento di lottare
per la palma del sommo valore virile e di superarvi tutti
gli altri». Non si potrebbe meglio esprimere come il sen·
timento della nobile gara infiammi il giovane eroe. Per
l'autore dell'undicesimo libro dell'Iliade questo verso era
già un adagio. Egli creò una scena di commiato oonsimile
nella partenza d'Achille, dove il padre, Peleo, gli dà per
viatico il medesimo mònito 18).
Anche del rimanente l'Iliade attesta l'alta coscienza
educativa dell'aristocrazia greca arcaica. Essa mostra già
come l'antico concetto guerresco dell'areté non bastasse
più ai poeti d'una generazione ulteriore, ma come questi
recassero in sé un'immagine nuova dell'uomo peifetto, la
quale oltre alla nobiltà dell'azione riconosceva quella
della mente e nel loro abbinamento ravvisava la mèta.

17 ) z208.
18) A 784, Il precetto è senza dubbio secondario in questo
passo ed è ripetuto colle stesse parole da Z 208, la scena del-
l'incontro di Glauco e Diomede.
38 LlBRO I - L'ETÀ ARCAICA

È significativo che quest'ideale sia proclamato dal vecchio


Fenice, posto quale educatore al fianco d'Achille, l'eroe
esemplare dei Greci. Egli rammenta al giovanetto, in
un'ora decisiva, il fine cui l'ha educato: «L'una e l'altra
cosa, essere oratore di discorsi e operatore d'azioni».
Non a torto già i Greci d'età posteriore ravviBarono in
questo verso la più antica formulazione dell'ideale
greco' della cultura, con la sua aspirazione ad abbrac-
ciare l'umano nella sua totalità :is). E se il detto era
. citato volentieri in un periodo di super-cultura retorica,
per vantare l'energia dell'antica età eroica, facendo della
sua immagine un contrapposto della propria esistenza,
povera d'azioni e ricca di parole, esso d'altronde attesta
anche la fisionomia spirituale dell'antica cultura aristo-
cratica. Il padroneggiam.ento della parola vale qual segno
della sovranità della mente. La sentenza di Fenice cade
nel momento in cui Achille irato riceve la deputazione
dei capi greci. Il poeta gli pone di fronte, in Odisseo, il
maestro della parola e in Aiace l'uomo d'azione, di poche
parole. Sullo sfondo di tale contrasto deve spiccare con
consape~olezza anche maggiore l'ideale della più eletta
cultura, cui il terz-0 della delegazione, Feniee, che deve
servire da mediatore, ha educato l'alunn~ suo Achille;
ideale che il poeta vuol rappresentare in questo sommo
tra gli eroi. V e diamo dunque come la tradizionale equi-
valenza originaria della parola areté col valore guerriero
non era ostacolo, per quella nuova età, a trasformare l'im-
magine dell'uomo eletti;> secondo le sue superiori esigenze
spirituali, sino a che, più tardi, anche la parola, evol-
vendo nel suo significato, seguì la mutata concezione.

19) Questa era l'opinione dell'autore greco, da cui Cicerone


derivò la parte del suo De oratore (III, 57) dove è citato il verso
(I 443). Tutto il passo è interessante come un primo tentativo
di scrivere una storia dell'educazione.
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 39

Intimamente connesso con l'areté è l'cmore, 'che nei


primi tempi della vita della comunità è considerato inse-
parabile dalla valentia e dal merito. Secondo la bella
spiegazione d'Aristotele 20 ) l'onore è la natural misura, in
un pensiero non ancora interiorizzato, dall'approssima-
zione dell'uomo alla mèta dell'areté, cui egli tende.« Ma-
nifestamente aspirano gli uomini all'onore per accertarsi
del proprio valore, della propria areté (di essere &yoc-3-o().
Aspirano quindi ad essere onorati da persone capaci di
giudicare, da cui siano conosciuti, e sulla base del proprio
valore reale (&pe:-r~ ). Così riconoscono dunque nel merito
stesso (&pe:tj) la cosa più alta». Ma se la riflessione filo-
sofica ulteriore rimanda così l'uomo ad una norma di va·
lutazione insita nella sua stessa interiorità, insegnandogli
a considerare I' onore quale mero riflesso esteriore del suo
intimo valore, rispecchiato nell'apprezzamento della co-
munità, J'uomo omerieo, invece, nella coscienza del pro-
prio valore reca ancora esclusivamente l'impronta della
società cui appartiene. È creatura d'una casta e misura
la propria areté sulla considerazione di cui gode tra i suoi
.pari. L'uomo filosofo può rinunciare al riconoscimento
esteriore, anche senz'esservi - sempre secondo Aristo-
tele - del tutto indifferente 21 ).
Per Omero e per il mondo aristocratico del tempo
suo, il negato onore è invece la massima tragedia umana.
Gli eroi sono instancabili nelle reciproche attestazioni
d'onore, ché su ciò riposa tutto il loro ordinamento so-
ciale. La loro sete d'onore è addirittura insaziabile, senza
che ciò sia una particolarità che caratterizzi moralmente

20) Eth. Nic, I 5, 1095 b 26.


lll) Cfr. il passo della lettera di Aristotele ad Antipatro (fr.
666 Rose) che rispecchia la sua reazione all'atteggiamento dei
Delfi che, dopo la morte di Alessandro, ritrattarono le onoranze
conferite al gran dotto per ·la sua opera sulle liste dei vincitori
delle gare del:fiche; è ovvio che l'esecuzione di questa opera era
stata possibile per l'aiuto del re Macedone.
40 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

la persona singola. È anche ovvio che l'eroe maggiore o


il principe più potente voglia essere maggiormente ono.
rato. Il merito riconosciuto dal prossimo non ha mai avuto ·
ritegno, nell'antichità, di pretendere l'onore dovuto al-
l'azione compiuta. Il criterio subordinato del compenso
da esigere non è, qui, deciso. Lode e biasimo degli uomini
(faa:woç e ~6yo_i:;) sono le fonti dell'onore e disonore. Ma
lode e biasimo, secondo l'etica :filosofica dell'epoca ulte-
riore, sono considerati come il fatto sociale fondamentale,
in cui si manifesta l'esistenza di crite~i di valutazione og-
gettivi nella vita sociale 22). Il carattere assolutamente pub-
blico che ha la coscienza presso i Greci - in realtà nel
pensiero greco antico manca affatto un concetto parago-
nabile alla nostra coscienza personale 28 ) - è difficile a
concepirsi per· l'uomo moderno. Ma il renàersi conto di
questo fatto è condizione prima dell'intendimento, per
noi sì arduo, del concetto dell'onore e della sua impor-
tanza per gli antichi. L'aspirazione a segnalarsi e la pretesa
d'essere onorato e stimato sembrano alla coscienza cri-
stiana una peccaminosa vanità personale. Per i Greci rap·
presentano l'immergersi dell'individuo nell'ideale e nel
8Uperindividuale, con che soltanto ha prinçipio il suo va-
lore. L'areté eroica non si compie quindi, in certo qual
modo, se non con la morte fisica dell'eroe. È insita nel
mortale, è anzi esso medesimo, ma gli sopravvive nella sua
fama, cioè nell'immagine ideale della sua areté, anche
dopo la morte, così come, già lui vivo, stava autonoma ac-

tt) Arist. Eth. Nic. III 1, 1109 h 30.


U) Cfr. F. ZuCKER. Syneidesis-Conscientia (Jena 1928) (cfr.
p. 556). Possiamo dire che ciò che prese il posto di una coscienza
individuale nei tempi di Omero era questo sentimento di aidos
e nemesis di cui si parla a p. 36 (cfr. il libro di Von Erffa su Aidos
citato sopra, n. 15). Ma ciò dipendeva solo da un obbiettivo codice
sociale sempre presente nella mente dell'individuo, che doveva
conformarsi a questo codice ideale.
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 41

canto a lui e lo seguiva 24). Anche gli dèi esigono onore e


godono della lode delle proprie azioni per parte della
comunità culturale, e vendicano., gelosamente ogni offesa
al proprio onore. Gli dèi d'Omero sono, per così dire,
una società aristocratica dotata d'immortalità. L'essenza
propria del culto divino greco e della pietà greca si espri-
mono nell'onore tributato alla· divinità: esser pio significa
« onorare il Divino > 211 ). L'una e l'altr.a 008a, onorare gli
dèi e gli uomini in ragione della loro areté, è fatto umano
primordiale.
Movendo di qui s'intende il tragico conflitto di Achille
nell'Iliade. L'esser egli indignato contro i Greci e il ricu-
sare aiuto ai suoi non sorge da eccessiva bramosia d'onore
di quest'individuo. La grandezza della brama· d'onore
corrisponde soltanto a quella dell'eroe ed è naturale, se-
condo il modo di sentire greco. L'offesa fatta per l'ap-
punto a questo eroe nel suo. onore è il colpo più grave
contro i fondamenti su cui sorge la comunità guerriera
degli eroi achei contro Troia. Gbi l'intacca non riconosce
più, alla fine, nelnmeno la vera areté. Il fattore dell'amor

24) Questo è manifesto specialmente nel sistema cli formazione


dei nomi propri greci. Spesso essi erano presi dal regno degli ideali
sociali e perciò spesso hanno relazione a ~ncetti come gloria.,
fama, reputazione, ecc. e inoltre erano combinati con qualche
altra parola che esprimeva il grado o la ragione di tale fama o
reputazione (così Pericle, Temistocle, ecc.). Il nome era una spe-
_ranza della futura areté di colui che lo portava; fissava., per così
dire, il modello ideale di tutta la sua vita. Questo distingue i
nomi greci dai nomi ebrei o egiziani, per la natura dei quali cfr.
HERMANN RANKE, Grun.dsiitzliches 11. Verstandnis d. iigyptischen
Personennamen (« Sitz. d. Heidelberger Akad. » XXVII, 3. Abh.
1937). .
Bi) TÒ .&e:!ov = -.ò .-!µ.Lov per eccellenza. ArisL Etl&. Nit:.
I 12, e specialmente 1102 a 4. Quando il mondo di lingua e pensiero
greco' fu cristiimllzato, questo atteggiamento fondamentale del
pensiero religioso greco cominciò a ima volta a esercitare una
profonda influenza sul pensiero e sul costume cristiano, come
dimostrano la letteratura greco-cristiana ed il culto dei primi
secoli. Più. ancora rivelerà lit storia della liturgia, del sermone
e dell'inno cristiano.
42 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

patrio, che oggi aiuterebbe a superare questa difficoltà,


è ancora estraneo all'antica aristocrazia 26), Agamennone
non può che appellarBi dispoticamente alla propria auto-
rità di capo supremo, motivo non meno estraneo ai" senti-
mento aristocratico, non riconoscendo esso se non un pri-
mus mter -pares. Al senso di patire il rifiuto dell'onore me-
ritato con le proprie azioni si mescola quindi In Achille
anche que8to sentimento di caBta. Ma ciò non è decisivo;
la vera gravità dell'offesa sta in ciò che è l'areté supe-
riore, oui si nega onore 27). Il secondo grandioso eBempio
dell'esito tragico d'un disconoscimento dell'onore è Aiace,
il maggiore eroe acheo dopo Achille, cui non sono date
le armi d'Achille, sebbene egli avesse meritato di por-
tarle più d'OdiBseo. cui sono attribuite. Questa tragedia

26) Tuttavia una rassegna dello sviluppo storico del concetto


greco di patria (n-a:'t"plc;, mi:rpa:) dovrebbe cominciare con Omero.
Ma, ed è cosa singolare, non sono i famosi eroi Greci dell' niade
che danno il prii:no solenne esempio di questo sentimento politico.
Esso è .fondamentale piuttosto nel troiano Ettò:re, amato dal
popolo, e difensore della sua città (cfr. le sue famose parole M
243 e:!i; olwvòi; &p LG't"O<; &µùve:cr.&a;L n-e:t:>l mhp l]i;). La passione
del patriottismo non sorse nei grandi imperi antichi o nell'aristo-
crazia omerica, ma fu una conseguenza del sorgere della città-
stato, .che è rispecchiata per la prii:na volta in alcuni passi del-
l'epica, come si è precedentemente notato. Questo sentimento
era del tutto differente dall'idea del «popolo eletto», che il moderno
nazionalismo laico ha ereditato dal nazionalismo religioso degli
antichi Israeliti. Questa forma di patriottismo è o una religione
o un surrogato di essa.
2 7) A 412; B 239-240; I 110 e 116; Il 59; e soprattutto I
315-322, quando, pregato dai delegati dell'esercito greco di tornare
al campo di battaglia e di accettare le proposte di Agamennone
per una riconciliazione, Achille recisamente rifiuta l'offerta:
«Agamennone non mi persuaderà mai; né alcun aJtro dei Greci,
credo, poiché qui . evidentemente, non c'è nessun pubblico rico-
noscimento per un uomo che combatte implacabilmente il nemico.
Colui che si tiene lontano dalla battaglia ha una parte [µoi:pa:]
uguale a quella di un uomo che combatte con tutte le sue forze:
e l'uomo codardo e il valoroso sono tenuti nello stesso onore».
Onore ('t"tµ:fi) qui è l'oggettiva manifestazione sociale di una grati-
tudine pubblica (x&.pti;) dovuta all'uomo che h.a compiuto grandi
imprese per amore dell'intera comunità e per cui non esiste
compenso materiale.
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 43

mette capo alla pazzia e al suicidio 28) ; l'ira d'Achille


porta l'esercito dei Greci all'orlo della rovina. Ardua que-
sti-0-ne è per Omero se vi sia riparazione del ricusato onore.
Fenice consiglia bensì ad Achille di non tender troppo
l'arco e di accettare in espiazione i doni di Agamennone,
non foss'altro considerando le angustie de' suoi. Ma che
lAchille della leggenda originaria non rigetti soltanto
per orgoglio la riparazione, lo dimostra d'altra parte
l'esempio d'Aiace, che nell'oltretomba non risponde alle
parole di compassione dell'antico rivale Odisseo, bensì
volgesi in silenzio « alle altre ombre nel buio regno dei
morti» 29). Tetide implora Zeus 30) : « Aiutami e on-0-ra mio
figlio, cui non fu assegnato che sì breve destino d'eroe.
Agamennone l'ha defraudato del suo onore. Così onoralo
tu, o Olimpio ». E il sommo Dio condiscende e fa soccom-
benti in battaglia gli Achei privi dell'ausilio d'Achille,
perché riconoscano quanto ingiustamente defraudarono
del suo onore il loro massimo eroe.
Presso i Greci d'età più recente la brama d'onore non
è più motivo di lode, ma risponde per lo più alla nostra
ambizione. Tuttavia anche nell'età della democrazia l'ac-
compagna assai spesso l'ammissione di una legittima avi-
dità d'onore tanto nella politica degli Stati quanto nella
condotta personale 31 ). Nulla ci aiuta meglio a comp:ren-
dere la n0<biltà morale di tale concezione, che la rappre-
sentazione del megalopsychos, dell'uomo che sente alta-
mente o è orgoglioso di sé, nell'Etica di Aristotele 32 ). Il

28 ) La morte di Aiace era narrata in uno dei poemi epici ciclici,


la .<Piccola Iliade», da cui Sofocle prese l'intreccio del suo Aiace·
29 ) À 543 ss.
30) A 505 ss.
31 ) Arist. Eth. Nic. IV 4 tenta di distinguere qnÀonµlo: in
senso buono e cattivo. Senofonte, .l\!1em. II 3 16, Hipp. 2, 2 e
altri passi. usa la parola in senso buono e così Isocrate 9, 3.
32 ) Eth. Nic. IV 7-9. Cfr. il mio saggio Der Grossgesinnte in
« Die Antike» VII, 97 ss.
44 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

pensiero etico di Platone e d'Aristotele si basa in- me>lti


punti sull'etica aristocratica dell'ellenismo arcaico; OC·
correrebbe interpretarlo metodicamente secondo un crite-
rio storico-ideologico. Col sublimarli ad universalità filo.
sofica, si toglie ai vecchi concetti la limi~atezza di casta,
confermandone in compenso più sicuramente la verità
permanente e l'indistrnttihile idealità. È ovvio che il pen·
siero del IV secolo è più differenziato dell'omerico, e non
dobbiamo aspettarci di ritrovarne già in Omero i concetti,
e nemmeno di poterne rintracciare nell'epos equivalenti
esatti. Ma Aristoiele, come i Greci d'ogni età, ha spesso
dinanzi agli occhi le figure omeriche e svolge i suoi con-
cetti addirittura sul modello foro; mostrando d'essere, con
la sua mente, intimamente sempre molto più vicino alle
concezioni elleniche arcaiche, che non ai tempi nostri.
L'apprezzamento dell'alta stima o del giusto orgoglio
di sé quale virtù etica sccmcerta sulle prime la coscienza
odierna, e appare anche singolare che Arii!totele non in·
tenda per essa una virtù auton-0ma come le altre, ma una
siffatta virtù, che presuppone le altre, cui viene ad ag·
giungersi « in certo modo soltanto quale loro ornamento
supremo » 38). Ciò s'intende bene sol quan~o ci si sia reso
conto che il filosofo cerca qui di assegnare il suo posto,
nella propria analisi della coscienza morale, all'altera
a-reté dell'antica etica aristocratica. Altrove 84) egli stesso
dice che Achille e Aiace sono per lui modelli di tale qua·
lità. L'avere alta- stima di sé, quale mero sentimento della
propria persona, non rappresenta ancora per se steBSO un
valore morale, anzi è ridicolo, se tale atteggiamento del·
l'animo non è sorretto dalla piena areté, da quella somma
fusione d'ogni eccellenza per la quale Aristotele, al pari
<li Platone, si vale ancora senza esitanza del concetto della

aa) Arii;t. 1':1h. Nic. IV 7, 1124 a I.


84) Analyt. Pos_t. II 13, 97 b 15.
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 45

kalokagathia 85 ). Ma il pensiero etico dei grandi filosofi


atèniesi rimane fedele alla propria origine aristocratica,
in quanto solo nel sentimento dell'alta stima di sé fa tro-
vare all'areté la sua vera perfezione. La giustificazione
della megalopsycma quale espressioi;ie suprema della per-
sonalità intellettuale e morale si basa ancora per Aristo-
tele, come per la concezione omerica, sulla dignità del-
l'areté 88). «Poiché il premio dell'areté è l'onore, questo si
tributa a chi è valente:.. L'alta stima di sé costituisce
quindi un'esaltazione dell'areté. Si afferma tuttavia anche
che il vero alto sentimento di sé è per l'uomo l~ cosa
più ardua.
L'importanza fondamentale dell'etica aristocratica ar-
caica per la formazione della personalità greca si tocca
qui con mano. Il pensiero greco relativo all'uomo .e alla
sua areté ci si presenta qui sùhito col carattere d'uno
sviluppo unitario. Ad onta d'ogni mutamento e arricchi-
mento di contenuto nel. corso dei secoli seguenti, esso
conserva sempre la sua forma stabile, quale venne costi-
tuendola nell'antica etica aristocratica. Su questo concetto
dell'areté si fonda il carattere aristocratico dell'ideale
culturale greco.
In.daghfamone ancora· i motivi ultimi. Anche qui Ari-
stotele può essere ancora la nostra guida. Egli insegna ad
intendere l'aspirazione dell'uomo alla perfezione del-

31) Per l'Qrigine e il significato di kalokagathia. v. nota 4. Arist.


Eth. Nic. IV 7, 1124 a 4 lo connette strettamente con quella altezza
d'animo che dovrebbe essere basata sul completo possesso del-
l'areté. La parola kalokagaihia (come termine con cui Platone
indica 7'iia11 &pe:-rii) non è trattata o usata altrimenti nell'Etica
Nicomachea (ma v. la breve menzione in X 10, 1179 b 10). Nella
forma più antica di questo trattato, l'Etica Eudemia, libro VIII
15, la parola è ancora usata nel senso platonico, come la somma
di tntte le particolari virtù (etl x11-ròc µépoi; &pe:-retl). Al tempo
di Platone o! xetì..ol x&y11&ol generalmente significa i ricchi (d"r.
Resp. 569a). Ma Platone cerca .di rinnovare il più antico significato
liberando la parola dalla nota indicante privilegio di classe.
") Eùs. Nic. IV 7, 1123 b 35.
46 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

l'areté quale emanazione d'un amor di sé elettissimo, la


qnÀocu-r(oc 87 ). Ciò non è un mero capriccio della specula-
zione astratta - nel qual caso sarebbe invero ingannevole
il paragone con l'areté della Grecia arcaica - ché anzi
nel concetto d'un ideale e legittimo amor di sé, che il
filosofo difende in consapevole contrasto con l'opinione
media del suo secolo « altruistico ». e illuminato, e che
segue con particolare predilezione, egli in realtà ha messa
nuovamente in evidenza una delle radici prime del pen-
siero etico greco. Il gran conto in cui egli tiene I'amor di
sé deriva dal medesimo fecondo approfondimento filoso-
fico dei concetti fondamentali dell'etica aristocratica, da
cui viene anche la sua valutazione positiva della brama
d'onore e dell'alto sentimento di sé. Se s'intende retta·
mente il «Sé» (oc1h6.;), non riferendolo cioè all'Io fisico,
bensì all'immagine superiore dell'uomo che è pre19ente
al nostro spirito e che ogni animo nobile aspira a realiz-
zare in sé, allora non si tratta che del somnio amore per
quel« Sé», se si pone anzitutto a se stesso l'esigenza deHa
somma areté «e si fa proprio il Bello per se stesso in gene-
rale » 88 ). È difficile tradurre quest'espres.sione intimamente
greca. Esigere il Bello per se stesso (che p~r i Greci ha
sempre insieme il significato di nobile ed eletto), appro-
priarselo in se stesso, significa non lasciarsi sfuggire al·
cuna occasione di ottenere il premio della somma areté.
Che cosa intese Aristotele per questo « Bello »? Ci vien
fatto di pensare alla raffinata cuitora personalistica del-
l'umanità colta in tempi più recenti, all'ispirazione, così
caratteristica dell'umanismo del Settecento, verso un per-
sonale sviluppo estetico ed arricchimento spirituale senza
limiti. Ma le paro-le stesse d'Arist~tele c'insegnano senza
equivoco possibile ch'egli ha invece l'occhio rivolto an-

87 ) ib. IX 8.
ss) ib. IX 8, 1168 b 27.
CAP. I: ARISTOCRAZIA E ARETÉ 47

zitutto, per l'appunto, ad atti del più eccelso eroiismo mo-


rale: chi ama se stesso dev'essere inMancabile nell' ado-
prarsi in pro degli amici, sacrificarsi per la patria, cedere
volonteroso danaro, beni ed onore « facendo suo il Bello
in se stesso» 39 )_. Qui si riaffaccia la singolare locuzione,
ed appare ora perché la suprema dedizione all'ideale sia
appunto, per Aristotele, la prova .di un altissimo amor di
sé. « Invero vivere breve tempo in somma gioia sarà pre-
ferito, da chi sia animato da tale amor di sé, ad una lunga
esistenza in pigra quiete. Egli vivrà piuttosto un anno solo
per uno scopo elevato, che non condurre una luuga vita
per nulla. Compirà piuttosto un'unica magnifica e grande
azione, che non molte insignificanti ».
In queste parole è espressa la fondamentale concezione
della vita dei Greci, nella quale ci sentiamo loro affini d'in·
dole e di razza: l'eroismo. Esse costituiscono una chiave
per cogliere l'essenza della 8toria greca, per la compren·
sione psicologica di quella breve eppur così incompara·
bilmente splendida aristeia. Nella formula «far proprio il
Bello per se stesso » è espresso con chiarezza unica l'in·
timo motivo dell'areté ellenica. È questo, che sin dall'epoca
aristocratica omerica distingue I' eroismo greco dal mero
furibondo sprezzo della morte: la subordinazione dell'ele-
mento fisico ad un « Bello » superiore. Nello scambio di
questo Bello con la vita, l'impulso naturale dell'uomo al·
l'affermazione di se stesso trova appunto nella dedizione
il suo più alto sodisfacimento. Nel discorso di Diotima
nel Convito di Platone, il sacrificio di danari e averi, la
prontezza dei grandi eroi del passato a soffrir fatiche,
lotte e morte per averne in premio fama duratura, è messa
accanto allo sforzo dei poeti e dei legislatori per lasciare
creazioni immortali del proprio spirito, e l'uno e l'altra

39) ib. IX !:I, 1169 a 18 ss.


48 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

sono spiegati col desiderio strapotente d'eternarsi, . che


urge l'uomo mortale. Questo è interpretato quale fon-
damento metafisico degli aspetti paradossali della brama
d'onore 40). Anche Aristotele, nell'inno, che ci è pervenuto,
all'areté dell'amico suo Hermias, principe d'Atameo, che
suggellò col sacrificio della vita la sua fedeltà al proprio
ideale filosofico e morale, riallaccia espressamente il suo
concetto filosofico dell'areté all'areté eroica d'Omero, com-
misurandolo al modello di Achi!lle .e d'Aia-0e n). E dalla
figura d'Achille sono ricavati evidentemente anche i tratti
coi quali egli compone la sua descrizione dell'amor di sé.
Tra i due grandi filosofi e i poemi omerici si stende la
catena ininterrotta delle testimonianze del vivo perdurare
dell'idea dell'areté della prima età ellenica.

'°) Symp. 208-209.


41) Cfr. il mio Aristotele (ir. it. Calogero, Firenze, La Nuova
Italia, s. d., ma 1935) p. 154. ·
CAPITOLO SECONDO.

CULTURA ED EDUCAZIONE
DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA

Accanto alla considerazione dell'areté, idea centrale


della formazione dell'uomo greco, sta, ad integrarla il-
lustrandola, il quadro movimentato della vita dell'aristo-
crazia ellenica arcaica, quale ci è dato dai poemi « ome-
rici». E680 conferma le risultanze cui ci ha condotti sin
qui la nostra indagine.
Chi si vale oggi dell'Iliade e dell'Odissea quali fonti
storiche della cultura greca arcaica non deve prenderli
come un'unità, come se fossero opera d'un poeta, anche
se in pratica continuiamo tranquillamente a parlare
d'Omero, come fece l'antichità, la quale in origine com-
prendeva anzi sotto questo nome un numero di poemi
epici molto maggiore ancora 1 ). Se un'età ancor priva di
spirito storico, quale fu la Grecità classica, trasse infine
da quel cumulo i nostri due poemi, come i due di maggior
pregio artistico, trovando gli altri indegni d'Omero, ciò
non vincola il nostro giudizio scientifico e non può nem-
meno valere per tradizione in senso proprio. L'Iliade,
all'occhio diello storico, è in complesso un poema più ar-

1) L'osservazione è stata fatta per la prima volta da F. G.


WELCKER, DflT epische Cydus (Bonn 1835) che cere~ di ricostruire
l'antica letteratura epica greca nella sua totalità.
50 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

caico; l'Odissea rispecchia uno stadio più recente della


civiltà. Gò posto, l'attribuzione storica dell'epica a deter-
minati secoli diventa un problema urgente. I materiali
per risolverlo, d'altronde, non ci si offrono per la maggior
parte se non nei poemi steBSi. Di qui l'incertezza che per-
dura ad onta di tutto l'acume applicato a questo oom-
pito. Gli scavi dell'ultimo cinquantennio hanno, sì, arric-
chito di molto la nostra visione dei primi tempi della
Grecità, e in ispecie la questione del nocciolo storico della
leggenda epica ha trovato risposta più precisa. Ma non
si può affermare che l'assegnazione dei nostri poemi epici
a determinate epoche abbia oon ciò progredito, distando
essi secoli interi dalla formazione delle leggende.
Il mezzo principale di determinare l'epoca rimane
l'analisi dei poemi stessi. In origine non la si praticò
affatto a questo fine, ma essa derivò dalla tradizione an-
tica, che parla in parte di una redazione delle epopee
conchiusa in epoca relativamente tarda, dando adito ad
ipotesi circa lo stato anteriore, in coi dovettero circolare
in forma di singoli canti indipendenti 2 ). È merito soprat-
tutto del Wilamowitz l'aver applicata l'analisi, che lavo-
rava dapprima su basi puramente logiche,e artistiche, al
quadro storico che abbiamo della civiltà greca arcaica 3 ).

2 ) La questione mosse essenzialmente dai famosi Prolegomena


ad Homerum di F.A. WOLF (1795). Quest'opera seguì quasi im-
mediatamente la riscoperta delle antiche teorie alessandrine su!-
l' epica e della tarda tradizione critica pervenuta ai tempi moderni
attraverso gli scolii trovati nei più antichi manoscritti di Omero
di Venezia e pubblicati per la prima volta dal Marchese de Vil-
loison nel 1788.
3) Tutti i contributi alla questione omerica del WILAlllOWITZ,
dal suo primo libro Homerische Untersuchungen, alla sua grande
opera Homer und die flias e alla posteriore monografia Die
Heimkehr des Odysseus, mostrano questa nuova tendenza storica.
Egli cerca sempre di paragonare lo sviluppo dell'epica ai monumenti
archeologici e al poco che conosciamo dello sfondo storico della
poesia greca arcaica. Cfr. anche la sua conferenza Das homerische
Epos in Reden und Vortriige, Bd. I. I libri su Omero di E. Bethe
e Ed. Schwartz seguono lo stesso metodo. Ma la stessa tendenza
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 51

Oggi la questione essenziale è di sapere se dobbiamo limi-


tare tale metodo di studio storico all'Iliade e all'Odissea
nella loro totalità, ossia rassegnarci, o se dobbiamo esten-
derlo ai tentativi, pur sempre assai ipotetici, di distinguere,
anche entro ciascun epos, stratificazioni di epoca e carat-
tere diversi'). Ciò nulla ha a che fare eon l'esigenza, giu-
stificata e ancora ben lontana dall'esser soddisfatta, di
valutare le epapee, anzitutto artisticamente, nel loro com-
plesso. Essa trova il suo p();StO là dove si tratti di apprez-
zare Omero quale poeta: ma non è possibile, ad esempÌQ,
giovarsi dell'Odissea quale quadro storico dell'aristocrazia
greca arcaica, se le parti a questo fine più importanti non
risalgono che al mezzo del secolo VI, come ritengono
oggi autorevoli studiosi 5). Di fronte a ciò non è più dato
rifugiarsi nel mero scetticismo; occorre o una motivata
confutazione o un'accettazione che ne tragga le debite
illazioni.
Non posso dar qui, come è ovvio, un'analisi mia; ri-
tengo tuttavia d'aver dimostrato che il primo canto del-

prevaleva anche tra gli archeologi contemporanei., Schliemann.


Dorpfeld., Evans, e i loro successori che tentarono di far luce
sul problema dell'epica con le nuove testimonianze fornite dagli
scavi.
') Una spiccata tendenza ad abbandonare l'analisi dei poemi
omerici appare in alcune opere recenti come DoRNSEIFF, Archiiisch.e
Mythenerzàhlung (Berlino 1933) e }ACOBY, Die geistige Physiogno-
mie der Odyssee (in « Die Antike » IX 159). Fra gli studiosi anglosas-
soni questa tendenza è stata sempre molto forte. Recentemente
essa è stata rappresentata dagli americani J. A. Scott e S. E.
Bassett, i cui ben :noti libri nella Sather Classical Series, si op-
pongono, in linea di principio, allo spirito analitico della ricerca
omerica dell'ultimo secolo. Ad essi si possono aggiungere gli articoli
di G. M. Calhoun.
&) Questa è l'opfuione di eminenti dotti moderni come En.
SCHWARTZ, Die Odyssee (Monaco 1924) 294 e WILlllOWITZ, Die
Heimkehr des Odysseus (Berlino 1927), dove egli nota (p. 171
ss.): « Chi non fa distinzione fra i poemi omerici in fatto di lingua
o religione o morale, chi, come Aristarco, pone una netta divisione
fra essi e il ve:G>npov, cioè tutta la rimanente letteratura, non
può più pretendere di essere preso in seria considerazione».
52 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

l'Odissea, che la critica dal Kirchhoff in poi ascrive per


l'appunto alla più tardiva fra tutte le elaborazioni del·
l'epos, era considerato omerico già da Solone, e anzi con
somma probabilità sin da prima del suo arcontato ( 594),
quindi sin dal VII secolo al più tardi doveva essere rite-
nuto tale 6 ). Che i movimenti spirituali del VII-VI secolo,
d'immensa portata novatrice, restassero senz'alcuna in·
fluenza sull'Odissea, come è costretto a suppcnre il Wila·
mowitz fissando un termine tardivo, non sembra possa
spiegarsi a sufficienza nemmeno adducendo, com'egli fa,
lo studio scolastico della poesia rapsodica più tarda e il
suo isolamento dalila vita 7 ). D'altra parte il razionalismo
etico e religioso che domina nel suo complesso l'azione
dell'Odissea nella sua forma odierna dovette essere assai
più antico nella Ionia, giacché al principio del sec. VI vi
nasce già la filosofia milesia della natura, per la quale le

6 ) Cfr. il mio saggio Solons Eunomie (« Sitz~ Berl. Akad. »


1926) p. 73 ss. Qui ho dimostrato, ciò che credo indubbio, che
Solone nella sua elegia 'Hµe:-répoc 3è 7t6Àtc; echeggia il discorso
di Zeus nel concilio degli dèi del libro dell'Odissea (cfr. anche
p. 270). Questa elegia è in relazione col disagio sociale di Atene,
che Solone cercò di sanare con le sue riforme (594 a. C.). Essa
deve pertanto risalire al periodo immediatamente precedente le
riforme stesse e costituisce quindi una prova del più alto valore
sull'aspetto che presentava la nostra Odissea verso la :fine del
settimo secolo. Così l'Odissea conosciuta ai tempi di Solone com-
prendeva quelle parti del poema che un critico come A. Kirch-
hoff giudicava le più recenti: la Telemachia ed in essa il I libro.
L'analisi dell'Odissea del Kirchhoff, parve così conclusiva a dotti
moderni come Wilamowitz e Schwartz, che essi basarono in buona
parte le loro indagini sui suoi risultati. Essi supposero che il primo
libro dell'Odissea appartenesse a un tempo molto più tardo di
quanto apparirebbe ora dalle imitazioni di esso riscontrabili nel-
!'elegia di Solone. Le loro conclusioni devono essere riesaminate
alla luce dei fatti di cui si è fatto parola di sopra, come è stato
prontamente riconosciuto da RUDOLF PFEIFFER nella sua pene·
trante rassegna dei libri del ·Wilamowitz e dello Schwartz sul-
l'Odissea, in « Deutsche Literaturzeitung» 1928 pp. 2364 e 2366.
F. JACOBY in « Die Antike» IX 160, aggiunge altri argomenti
per riportare anche più indietro il terminus ante quem dell'Odissea
7) WILAMOWITZ, op. cit., p. 178.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 53

condizioni sociali e le idee geografiche e politiche del·


l'Odissea non sono sfondo adatto 8 ). Che l'Odissea, sostan·
zialmente, esistesse così già prima d'Esiodo, è per me
certissimo. D'altra parte ritengo che dobbiamo all'analisi
filologica conoscenze tipiche fondamentali circa la forma·
zione dei grandi poemi epici, le quali sussistono quand'an·
che non dovessimo trovarci mai in grado di chiarire to-
talmente questo mistero con le risorse della nostra fantasia
costruttiva e della nostra logica critica.
Il desiderio, ben perdonabile, dello studioso, che vor·
rebbe sapere più di quanto sapere ci è dato, ha spesso
ingiustamente screditata la sete d'indagine per se stessa.
Appare oggi necessario fornire nuove prove, quando si
parli ancora di stratifìeazioni più recenti dell'Iliade, come
si fa nel presente libre. Credo di poterle dare, sebbene non
qui. Se l'Iliade, in complesso, ci dà un'impressione di
maggiore antichità che l'Odissea, non è detto con questo
che la sua formazione quale grande poema epico, nella
sua forma odierna, debba esser tanto lontana da quella
dell'Odissea nella sua struttura definitiva. L'Iliade, s'in·
tende, fu il grande modello di questa struttura, ma la
tendenza a formare grandi poemi epici appartiene a una
determinata epoca e investì ben presto anche altri argo·
menti. È, del resto, un pregiudizio dell'analisi, che deve
risalire alle sue origini dal romanticismo e alle speciali
idee di questo circa la poesia popolare, il considerare per
lo più senz'altro il periodo più recente dell'epica come
artisticamente inferiore. Appunto da questo pregiudizio
contro la « redazione », situata alla fine dello sviluppo

8) WILAMOWITZ, op. cit., p. 182, suppone che la Telemachia


sia stata composta nella Grecia continentale· (opinione che con-
trasta coi suoi stessi argomejiu in Homerische Untersuchungen
p. 26) e parla di una «cerchia c'ulturale» corinzia. I suoi argomenti
non sono riusciti a convincermi. Anche J ACOBY è contrario alla
sua opinione: op. cit., p. 161.
54 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

dell'epica e eui si è dato certo troppo scarso valore, spre-


giandola anzi addirittura per sistema, anziché ID.tenderla
nei suoi intendimenti artistici, è sorta m buona parte la
tipica diffidenza del «buon senso» verso la critica, basan-
dosi lo scetticismo, come sempre, sulle contradizioni tra
le risultanze dell'indagine scientifica. Ma tale diffidenza;
in una questione così decisiva, in cui la scienza stessa è
obbligata a riesaminare dii continuo i propri fondamenti,
non deve aver l'ultima parola, nemmeno se non dobbiamo
più mirar così lontano come la critica fece per un pezzo.

n più antieo dei due .poemi epici mostra l'assoluta pre-


valenza dello stato di guerra, quale si deve presupporre
nell'età delle migrazioni delle genti greche. L'Iliade Iii raf·
figura il suo mondo come un'età d'impero quasi escl.uaivo
dell'antico spirito eroico dell'areté, e tale ideale incarna in
tutti i suoi eroi. Essa fonde in indissolubile unità ideale
l'immagine, tramandata nel canto, degli antichi eroi leg·
gendari e le vive tradizioni dell'aristocrazia' del proprio
tempo, che conosce già una spiccata vita della polis, come
dimostra soprattutto la rappresentazione di Ette>re e dei
Troiani. Il valoroso è sempre l'aristocratico, l'uomo di
classe elevata; il combattimento e la vittoria son<> la sua
suprema distID.zione e la vera sostanza della sua vita. Certo,
anche il tema fa sì che l'Iliade rappresenti principalmente
questo lato dell'esistenza; l'Odi-ssea per se stessa offre di
rado l'occasione di. descrivere lotte eroiche. Ma, se qualche
008a possiam-0 affermare circa la preistoria dell'ep06, si
è che il cant-0 ero.ico più antieo celebrava battaglie e gesta
eroiche, e da canti e tradizioni siffatte è nata, nel suo
contenuto, l'Iliade 9). Anche nel soggetto, appunto, si ma-

9) La frase xÀ1foi: &vòp wv ( = le glorie degli uomini) che è usata


in I 189 per « canti» divulgati dagli aedi indica abbastanza chia-
ramente questa origine di tutti i canti epici. Cfr. G. W. NITZSCB,
Sagenpoesie der Griechen (Braunschweig 1852) llO.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 55

nifesta il 11uo carattere arcaico. Gli eroi dell'Iliade, che


ool loro spirito bellicoso e la loro brama d'onore si mo-
strano genuini rappresentanti della propria classe, sono
poi anche del rimanente, nel loro contegno, gran signori,
con tutti i loro pregi come con le loro evidenti debolezze.
Soltanto m pace è impossibile raffigurarseli : il loro posto
è sul campo di battaglia. All'infuori di questo non li ve-
diamo che nelle pause della battaglia, ai pasti, nei sacr:ifizi,
nelle deliberazioni.
Là scena cambia nell'Odissea. Il motivo del ritorno
degli eroi, il nostos che si allacciava tanto naturalmente
alle battaglie sotto le mura di Troia, formò il passaggio al-
1'evidenie rappresentazione e all'accurata pittura della
loro esistenza in tempo di pace. Sono leggende, per se
stesse, antichissime. Ma al lato umano della vita degli eroi
si volgeva di preferenza l'interesse di un'età più recente,
il cui animo repugnava dalle sanguinose descrizioni di
battaglie e provava il bisogno di rispecchiare maggior-
mente la vita propria negli eventi e negli uomini dell'an-
tica leggenda. Dove l'Odissea rappresenta l'esi81:enza degli
eroi nel dopoguerra, i loro viaggi avventurosi e la loro
vita in patria con la casa e la corte, la famiglia e il loro
ambiente, essa trae le sue vedute dagli atteggiamenti reali
della vita dell'aristocrazia contemporanea, proiettandoli
con ingenua vivacità nel passato. Essa è quindi la nostra
fonte principale per conoacere le condizioni della cul-
tura aristocratica antica. È quella della Ionia, dove dovette
formarsi l'Odissea, ma, per ciò che qui c'interessa, pos-
siamo considerarla tipica. Si sente chiaramente che la
sua descrizione di tutto ciò non fa parte del corredo
tradizionale dell'antico canto erofoo, ma si ba11a su una
diretta osservazione realistica. La materia di queste scene
domestiche era a88ai meno preformata dalla tradizione
epica, alla quale premevano gli eroi medesimi e le loro
gesta, non già la pacata descrizione dell'ambiente. L'affac-
56 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

ciarsi di questo nuovo elemento non veniva soltanto dalla


materia diversa, ma, come la · scelta stessa del soggetto,
derivava dal gusto di un'età più contemplativa e di paci·
fico godimento.
Se l'Odissea è in grado di vedere e descrivere come un
tutto la cultura d'una classe, come quella dell'aristocrazia
nelle sue corti e in villa, ciò costituisce un progresso nel·
l'osservare la vita e nel porre i problemi sotto il rispetto.
dell'arte. L'epopea si fa romanzo. Nell'Odissea l'imma·
gine del mondo, alla periferia, sino alla quale la fantasia
avventurosa del poeta e della leggenda riporta continua·
mente l'eroe, trapassa volentieri nel regno del favoloso e
del prodigioso; all'opposto, la descrizione dell'ambiente
patrio molto si avvicina alla realtà. Non mancano, è vero,
nemmeno qui tratti favolosi; la descrizione dello sfarzo
regale alla corte di Menelao o nel palazzo del ricco prin·
cipe dei Feaci, che contrasta con la sobria semplicità pae-
sana neHa sede d'Odisseo, evidentemente trae ancora ali·
mento da antichi ricordi del fasto e dell'amore dell'arte
di grandi sovrani e di possenti regni dell'epoca micenèa,
se pure non hanno influito qui modelli orientali oontem·
poranei 10). Ma del resto è appunto il realismo aderente
alla vita, che distingue l'immagine della nobiltà dell'Odis-
sea da quella dell'Iliade. La nobiltà dell'Iliade è in gran
parte, come abbiamo mostrato, un'immagine fantaatica
ideale, creata giovandosi di lineamenti tradizionali del·
l'antico canto epico. Essa è interamente atteggiata secondo
la prospettiva che aveva determinato la forma di tale
tradizione: l'ammirazione della sovrumana areta degli

•O) Per le caratteristiche preomeriche della monarchia assoluta


che si ritrovano nei poemi omerici, v. M. P. Nrr.ssoN, Das home·
rische Konigtum (« Sitz. Berl. Akad.» 1927) 23 sa. Le remi-
niscenze della preomerica arte micenea nei poemi omerici sono
trattate nella letteratura archeologica: v. anche G. FlNSLEJl,
Homer (II ed. Lipsia 1914-18) p. 130 ss.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 57

eroi del passato. Solo qualche tratto politico-realistico,


come la scena di Tersite, tradisce l'epoca relativamente
recente sino alla quale si spinge la formazione dell'Iliade
nella sua figura odierna, per il tono sprezzante che lo
« sfrontato » dal nome espressivo as.sume coi nobili si·
gnori 11). Tersite è l'unica caricatura veramente maligna
che si trovi in tutto Omero. Tutto attesta peraltro che la
nobiltà era ancora salda in sella quando incominciarono
questi primi attacchi di un'età nuova. Nell'Odissea man·
cano, è vero, siffatti tratti politici moderni; la comunità
d'Itaca è retta, in assenza del Re, da un'assemblea popo-
lare diretta dall'aristocrazia, e la città dei Feaci è l'im-
magine fedele d'una polis ionica sotto la &ignoria d'un
re 12). Ma evidentemente la nobiltà è già, per il poeta, un
problema sociale e umano, ch'egli vede con un certo
dietaooo 111 ). Ciò lo ha me.sso in grado di rappresentare
oggettivamente questa classe come un tutto, con quella
innegabile calda simpatia per il valore dei sentimenti
e d'una cultura veramente aristocratici, evidente non
ostante la severa critica dei suoi indegni rappresentanti,
che per noi conferisce un pregio così inestimabile alla sua
testimonianza.
La nobiltà dell'Odissea è una olasse chiusa, fortemente
consapevole del proprio privilegio, della propria signoria,
della propria maggior finezza di costumi e di vita. Invece
delle grandiose passioni, delle figure gigantesche e dei
destini tragici dell'Iliade, nel poema più recente troviamo
gran numero di figure d'altra natura, di proporzioni più
umane. Hanno tutte qualche cosa d'umano, di benevolo;
nelle parole e nei casi loro domina ciò che in termine

ll) B 211 ss.


la) Su Itaca, v. ~; la città dei Feaci, ?:-.&.
U) È difficile che i rapsodi siano stati, essi, di nobile stirpe.
Invece tra i poeti giambici, lirici ed elegiaci vi fu certamente
un certo numero di aristocratici (cfr. WILAJl[OWITZ, op. cit.,
p. 175).
58 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

d'arte la retorica posteriore chiamerà ethos. Il commercio


degli uomini tra loro ha qualche cosa di civilissimo: il
contegno assennato e- sicuro di NaU8icaa di fronte all'ap-
parizione scom::ertante d'Odisseo sospinto ignudo dalle
onde, implorante aiuto; Telemaco di fronte all'ospite suo
Mente, alla corte di Nestore e di Menelao; la casa d'AI-
cinoo, l'accoglienza ospitale fatta al grande straniero e
~
il commiato, straordinariamente cerimonioso, d'OdiSBeo
da Alcinoo e dalla sua consorte; del pari l'incontro
d'Eumeo, il vecchio porcaro, col vecchio padrone trasfor-
mato in mendicante o il suo contegno rispetto al giovane
suo figlio Telemaco. Alla genuina educazione dell'animo
che si manifesta in queste scene ne fa peraltro riscontro
un'altra, diventata mera correttezza formale, quale sem-
pre sorgerà là dove sia tenuta in gran conto la distinzione
della parola e del contegno.
Persino il modo di trattarsi fra Telemaco e gli orgo·
gliosi e prepotenti Proci, ad onta dell'odio reciproco,
sono d'una cortesia impeccabile. Nobili o volgari, i rap·
presentanti di questa società serbano in ogni situazione
la loro impronta di stile, il loro decorum. La condotta
spudorata dei Proci è un'onta per loro e per,la loro classe:
sono in molti a dirlo. Nessuno può, senza indignazione,
e!ll!erne spettatore, e infine giunge la dura espiazione. Ma
predicati quali « i nobili, gl'illustri, i virili » s'incontrano
usati per i Proci, ciò non ostante, così di frequente come
le parole di biaBimo per la loro insolenza e violenza: per
il poeta restano pur sempre i nobili signori. Il loro castigo
è duriMimo, perché il loro fallo pesa doppiamente. E se
il loro misfatto costituisce lllla macchia sulla gloria della
loro classe, la compensa ampiamente la luminosa, genuina
elevatezza delle :figiire principali, circondate di tutta la
simpatia immaginabile. Il favorevole giudizio oomples·
sivo sul conto dell'aristocrazia non muta affatto a motivo
dei Proci. Il poeta sta in cuor suo con coloro che raffigura,
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 59

ne ama l'educazione e la cultura superiore: se ne ha la


sensazione ad ogni passo. Anzi, mettendola continuamente
in evidenza egli ha indubbiamente un intentQ. educativo.
Ciò ch'egli ne riferisce ha, agli occhi suoi, valore per se
stesso; non è mero ambiente indifferente, bensì è parte
essenziale dell'eccellenza dei suoi eroi. Il loro stile di
vita gli appare inBeparahile dalla loro condotta; esso
conferisce loro una dignità particolare, ch'essi, con le no-
bili e ammirevoli azioni, col loro contegno impeccabile
nella buona e nella cattiva fortuna, dimostrano ben me·
ritata. La loro sorte privilegiata è in armonia con l'ordi-
namento divino del mondo, e gli dèi accordano loro pro-
tezione. Il loro merito puramente umano risplende sempre
unito alla luce della loro aristocratica distinzione.
Condizioni della cultura aristocratica sono la seden·
tarietà, la proprietà terriera 14) e la tradizione. Esse ren·
dono possibile la trasmissione dello stile di vita dagli
anziani ai fanciulli; ma è necessario vi concorra il meto·
dico modellare i giovani sulla regola rigorosa degli usi
aulici, la « scuola » raffinata. Nell'Odissea non sarebbe
immaginabile alcuna educazione e culturra metodica al·
l'infuori della classe superiore, non oSJtante il suo senso
d'umanità verso i non-nobili, giù giù sino al mendicante,
non. ostante la mancanza d'ogni rigoroso e altezzoso di-
stacco del nobile dall'uomo del volgo e non ostante la
vicinanza patriarcale tra padrone e servo. L'educazione
quale formazione della personalità umana mediante con·

14) Nella prima edizione in ùna nota a questo passo io dissi


che sarebbe stato opportuno uno studio particolare dello sviluppo
delle relazioni fra proprietà e areté nel mondo omerico. In seguito
uno dei miei studenti del Radcliffe College, Cambridge, Mas·
sachusetts, la Sig.na CORA MAsON ha affrontato questo problema
nella sua dissertazione The Ethics of Wealth (1944). Ella ha stu·
diato lo sviluppo delle relazioni fra areté e possessi materiali
nell'antica poesia greca attraverso l'epica omerica e la poesia
postomerica, Pindaro incluso. Per la letteratura esistente sul
problema, vedi la bibliografia citata nella sua monografia.
60 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

tinui ammaestramenti e direzione spirituale è caratteri·


stica speciale dell'aristocrazia d'ogni popolo e d'ogni età.
Questa classe sola affaccia di fronte alla persona, al suo
contegno generale, esigenze che non si possono sodisfare
senza una metodica cultura delle qualità fondamentali.
Il mero crescere naturalmente nei oostumi e nelle usanze
degli antenati non bastava più. La volontà d'affermarsi
della nobiltà e la sua posizione preminente implicavano
l'esigenza d'imprimere per tempo nei suoi rappresentanti,
negli anni della formazione individuale, l'immagine della
nobile virilità quale si concepiva in quell'ambiente. Qui
per la prima volta l'educazione divenne cultura, cioè for·
maziòne dell'intera personalità secondo un tipo fisso. L'im·
portanza di quest'ultimo per lo sviluppo della cultura fu
sempre preser .te ai Greci 15) ; in ogni cultura aristocratica
esso ha una funzione decisiva, sia che pensiamo al xixÀÒ~
x&yix66ç dei Greci, sia alla «cortesia» del medioevo ca-
valleresco, sia alla fisonomia sociale del Settecento, quale
ci sorride con volto conven:tj.onale da tutti i ritratti del·
l'epoca.
Misura suprema d'ogni pregio della personalità virile
rimane anche nell'Odissea l'ideale avito d17l valore guer-
riero. Ma vi si aggiunge o~ l'estimazione dei meriti intel-
lettuali e sociali, che l'Odissea si compiace di mettere in
risalto. L'eroe ste&o è l'uomo non mai a oorto di saggi
consigli, che in ogni situazione sa trovare le parole oppor-
tune. Sua gloria è la sua astuzia, il senno inventivo e pra·

16) Più tardi il pensiero greco, sulla natllla dell'educazione


dà gran peso al concetto di ,.U,.oç e ·timoi:iv, anche quando è for-
temente sentita, come dai Sofisti e da Platone, l'importanza che
ha in questo processo il fattore individuale, spontaneo~ È questo
un concetto ereditato dall'antico ideale aristocratico di educa-
zione (v. p. 57 ss.). Ovviamente, i lineamenti del tipo ideale po-
steriore, platonico, differiscono molto da quello dell'antico mondo
aristocratico; ma l'immagine con cui il processo educativo è si-
gnificato plasticamente è ancora la stessa; quella del «modellare».
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 61

tico che, nella lotta per la vita e per il rimpatrio, finisce


per trionfar sempre su nemici possenti e su insidiosi
pericoli. Questo carattere, non indiscusso nemmeno tra i
Greci, specie fra le stirpi della madrepatria, non è crea-
zione unitaria d'un singolo poeta. A formarne l'immagine
hanno lavorato i secoli; di qui la sua contradittorietà 16).
L'avventuriero errabondo, ricco d'astuzie, è creazione del-
1'epoca dei navigatori fonici. L'impulso ad eroicizzarne la
figura venne dalla sua appartenenza al ciclo delle leggende
troiane e soprattutto la sua partecipazione alla distru-
zione d'Ilio 17). I lineamenti piuttosto aulici, ch'egli spesso
assume nell'Odissea., sono oondizionati dal quadro sociale,
d'interesse decisivo per il poema che abbiamo sott'occhio.
Anche gli altri personaggi sono rappresentati non tanto
sotto l'aspetto erofoo, quanto umano; l'elemento intellet-
tuale è messo in vivissimo risalto. Telemaco è detto spesso
giudizioso o sagaoo; di Menelao la consorte vanta non
fargli difetto alcun pregio, né della mente, né della per-
sona. Di Nausicaa è detto ch'essa non manca. di cogliere
l'idea giusta. Penelope è chiamata saggia e sagace.

16) Pindaro non amava il carattere di Ulisse. L'Aiace e il Fi-


lottete di Sofocle testimoniano che accanto all'ammirazione con-
venzionale per il grande eroe esisteva ·anche un'opinione meno
favorevole. .Anche I' I ppia minore di Platone esprime per bocca
del sofista gli stessi dubbi sul carattere di Ulisse, ma Platone
ci fa intendere che Ippia non fa che seguire, su questo punto,
una tendenza generale; giacché Socrate ricorda di avere udito
lo stesso giudizio da Apemanto (il padre di uno dei meno noti
giovani interlocutori del dialogo) cioè da uno della generazione
precedente. In ultima analisi questa disposizione verso Ulisse
risale all'Iliade che lo mette a contrasto come 1tOÀthpo7toç con
lo schietto carattere di Achille. Anzi nell'Odissea (& 75) si ritrova
l'antica tradizione intorno a questo contrasto dei due grandi eroi
nel canto di Demodoco sulla contesa di Ulisse e Achille.
1 7) Nell'Odissea (& 487-498) Ulisse stesso si compiace, più che
di ogni altra cosa. di questa· sua fama e alla corte dei Feaci prega
l'aedo di cantare piuttosto di ogni altra, la storia del cavallo di
Troia.
62 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

È nece&ario far parola a questo punto dell'importanza


educativa dell'elemento femminile nell'antica culbu-a
aristocratica. L' areté propria della donna è la bellezza :
cosa altrettanto ovvia quanto l'apprezzamento dell'uomo
a seconda de' suoi pregi spirituali e corporali. Anche il
culto della bellezza femminile corrisponde al tipo aulico
di cultura d'ogni epoca cavalleresca. La donna peraltro
non si presenta soltanto quale oggetto della ricerca erotiea
maschile, come Elena o Penelo.pe; ma insieme sempre nella
sua sal<la posizione sociale e giuridica di signora della
casa. Sue virtù sono la pudicizia e la domestica avvedu-
tezza. La serietà di costumi e le doti casalinghe di Pene-
lope sono lodate altamente. Ma la mera bellezza di Elena,
che tante sventure ha attirato su Troia, basta a disarmare,
ail solo suo ap_()arire, i vegliardi troiani e ad attribuire ogni
colpa agli dèi 18). Nell'Odissea Elena, tornata frattanto col
primo marito a Sparta, è descritta quale prototipo della
gran signora, modello di eletta ·eleganza e di suprema com-
pitezza e maestà rappresentativa. È lei a dirigere la con·
versazione con I'ospite, che incomincia graziosamente col
rilevare la sorprendente somiglianza di famiglia, prima
ancora che il giovane Telemaco le sia presentato. Ciò rÌ·
vela la sua magistrale superiorità in quell'arte Ul). La rocca,
senza la quale è impelli!abile la virtuosa ma.Bsaia, che le
serve le collocano dinanzi quando viene a prender posto
nella sala degli uomini, è d'argento, e il fuso d'oro. L'uno
e I'altra, per la gran signora, non sono più che attributi
decorativi 2-0).
La posizione sociale della donna non fu mai più,
presso i Greci, così elevata come sul declinare del pe-
riodo cavalleresco omerico. Arete, la consorte del prin·

19 ) r
164.
18) 8 120 88. Cfr. specialmente le sue parole a vv. 138 ss.
IO) 8 131.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 63

cipe dei Feaci, è cmorata dal popolo come una dea. Ne


compone i litigi col suo presentarsi e determina le deci-
sioni deil marito ool suo intervento o col suo consiglio 21 ).
Per ottenere di ritornare ad Itaca con l'aiuto dei Feaci,
Odisseo, dietro suggerimento di N ausicaa, non si rivolge
in primo luogo al padre di lei, al Re, ma abbraccia im-
plorando le ginocchia della sovrana, ché decisiva è la be--
nevolenza di questa per far esaudire la sua preghiera 22).
Quanta sicurezza nel contegno della stessa Penelope, così
sola e abbandonata, di fronte allo sciame dei pretendenti
che tumultuano protervi: ella infatti può sempre contare
sul rispetto assoluto della sua persona e della sua dignità
di donna 23 )~ I modi cortesi dei nohili signori con le donne
del loro ceto è prodotto di un'annosa cultura e di un'alta
educazione sociale. La donna è rispèttata e onorata non
solo quale essere socialmente utile, come nella famiglia
contadina secondo l'insegnamento d'Esiodo 24), né solo
quale madre della prole legittima, come nella borghesia
greca posteriore, per quanto anche per i nobili, appunto,
fieri del proprio albero genealogico, la donna debba avere
importanza quale genitrice di un'eletta stirpe 25). Essa è

21) 'Il 71-74.


22) Per il suggerimento di Nausicaa, v. i;; 310-315. Cfr. 'Il 142 ss.
Anche Atena parla a Ulisse della riverenza di Alcinoo e dei suoi
figli per Arete: 'Il 66-70.
23) ix 330 ss.; " 409-451; a 158; tp 63 ss.
'') La casa, il bove e la moglie sono i tre elementi fondamentali
della vita del contadino in Esiodo, Opp. 405 (citato da Aristo-
tele, Pol. I 2, 1252 b 10, nella sua famosa trattazione economica).
In tutta la sua opera Esiodo considera l'esistenza della donna da
un punto di vista economico, non solo nella sua versione della
storia di Pandora, con cui vuol spiegare l'origine del lavoro e della
fatica fra i mortali, ma anche nei precetti sull'amore, il corteg-
giamento e il matrimonio (ib. 373, 695 ss.; Theog. 590-612).
25) Il« medio evo» greco mostra, più chiaramente che altrove,
il proprio interesse a questo lato del problema nella abbondante
produzione poetica in forma di catalogo dedicata alle genealogie
eroiche delle antiche famiglie, e più di tutto nei cataloghi di eroine
famose, da cui quelle derivavano, del tipo delle 'HoitXL, giunteci
col nome di Esiodo.
64 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

la rappresentante e la custode d'ogni elevato costume e


tradizione. Questa sua dignità spirituale influisce anche
sul comportamento amoroso dell'uomo. Nel primo canto
dell'Odissea, che rappresenta in tutto idee morali più raf-
finate che le parti più antiche dell'epopea, troviamo un
tratto notevole quanto alla relazione tra i due sessi. Quando
Euriclea, la fida e onorata servente, scorta con la fiaccola
Telemaco sino alla stanza da letto, il poeta, al modo
epico, ne narra brevemente la vita. Il vecchio Laerte la
comperò un giorno, quand'era una bella fanciulla, a ca-
rissimo prezzo. Per tutta la vita la tenne nella sua casa
in onore pari a quello in cui era la nobile consorte, ma,
per riguardo a questa, senza mai divider con essa il letto 26 ).
Nell'Iliade abbiamo idee molto più vicine alla natura.
Si potrà considerare un tratto personale che Agamennone,
in guerra, pensi di riportarsi in patria Criseide, assegna-
tagli quale preda, e in pubblica assemblea dichiari di
preferirla alla stessa Clitennestra, ché non le è inferiore
né per forme e figura, né per senno e abilità 27 ) - già ~i
antichi esegeti notano come sia qui riassunta in un sol
verso tutta l'areté della donna - ma il modo imperioso
in cui l'uomo mette qui da parte ogni riguardo non è del
resto un caso unico nell' Iliade. Amintore, padre di
Fenice, viene a contesa col figlio a motivo dell'amante,
per la quale trascura la moglie e che il figlio, incitato
dalla sua madre stessa, gli aliena 28 ). Qui non si tratta dei
costumi di guerrieri feroci, ma della vita in tempo di pace.
Al confronto, le idee rispecchiate nell'Odissea rappre-
sentano, in maniera generale, un livello superiore. Somma
delicatezza ed intima raffinatezza di sentimento dell'uomo

26) Cfr. G. PASQUALI, La scoperta dei concetti etici nella Grecia


antica, in« Civiltà Mod.» I (1929) 343 88.
27 ) A 113 ss.
•a) I 447-453.
CAP. Il: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 65

nell'incontro fatale con una donna si rivelano nel mira-


bile dialogo d'Odisseo con Nausicaa, dell'uomo esperto
con l'ingenua fanciulila 219). Qui la cultura interiore è rap-
presentata per se stessa, non altrimenti che quando il
poeta dell'Odissea s'indugia con amore a descrivere i
giardini regali o l'architettura della casa d'Alcinoo, o a
contemplare il singolare paesaggio, cupo e melanconico,
della remota isola della ninfa Calipso. Questa profonda
costumatezza interiore è effetto dell'influenza educatrice
della donna su una rude società mascolina, tutta violenza
guerriera. Nell'intima relazione tutta personale dell'eroe
con la sua dea, che lo dirige in tutte le sue peregrinazioni
e mai non l'abbandona, Pallade Atena, trova la sua più
bella espressione la virtù d'inspiratrice e di guida spiri-
tuale della femminilità. .
Non siamo, del resto, ridotti a trarre illazioni dalle de-
scrizioni occasionali dei costumi di corte e del contegno
aristocratico, contenute nell'epos, circa Io stato della cul-
tura in tale classe sociale; il quadro che i poemi omerici
disegnano della cultura dell'aristocrazia comprende anche
la più vivace rappresentazione dell'educazione diffusa in
tale ambiente. Giova abbinare qui le parti più recenti del-
l'Iliade con l'Odissea. Come il maggior rilievo dato all'ele-
mento etico è proprio in genere delle parti più tardive
dell'epos., così pure l'interesse consapevole per i problemi
dell'educa'.rione si limita allo strato più recente. Oltre
alla Telemachia, nostra fonte principale è per questo il
nono canto dell'Iliade. L'idea di porre accanto alla figura
del giovinetto eroe Achille un educatore e maestro, nella
persona del vecchio Fenice, ha dato luogo ad una delle
più belle scene del poema, per quanto l'invenzione per
se stessa sia indubbiamente d'origine più tardiva. Riesce
in realtà difficile raffigurarsi gli eroi dell'Iliade altrimenti

28 ) ~ 149 SS.
66 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

che sul campo di battaglia e quali figure perfettamente


mature. A nessun lettore dell'Iliade verrà probabilmente
fatto di chiedersi come si siano formati, come siano cre-
sciuti i suoi eroi, per quali vie la preveggente e provvida
saggezza dei genitori e dei maestri possa averne avviati i
passi, sin dalla puerizia, verso la mèta della futura eroica
grandezza.
Alla leggenda primitiva tale atteggiamento era senza
dubbio estraneo affartto, ma come nell'inesauribile inte·
resse per la genealogia degli eroi, onde sorge tutto un
nuovo g:enere di poesia epica, così in misura crescente si
manifeeta l';nflll.880 d'idee feudali anche nella piropen·
sione ad assegnare ai grandi eroi leggendari un'ampia
hiograD.a giovanile e ad ~parsi dell'educazione e dei
maestri loro.
Il maestro d'eroi per eccellenza è in questo periodo
il saggio centauro Chirone, che dimora nelle gole bo-
scose e ricche di sorgenti del Pelio, in Tessaglia 80 ). La
tradizione fa suoi allievi buon numero d'eroi famosi,
tra i quali Achille, che Peleo, suo padre, quando Te-
tide l'ebbe abbandonato, affidò alla custodia del vecchio.
Dal nome di lui letà arcaica intitolò un poema epico
didascalico (Xlpeùvoç U7to6ljxot~), che conteneva massime
educative in versi, attingendo probabilmente la materia
dalla tradizione aristocratica 31). Gl'insegnamenti erano ri-
volti, a quanto pare, ad Achille. Doveva esservi già çon-
tenuta molta saggezza di Vita Vissuta, se nell'antichità si
poté attrihuire il poema ad Esiodo. I pochi versi che ce

30) Molti editori seguono l'ortografia dei manoscritti bizantini


e scrivono il nome del centauro Cheiron. Io preferisco la forma
del nome testimoniata da un'antica iscrizione vascolare (Chiron);
cfr. KRETSCHMER, Die griechischen Vaseninschriften 131 se. e
A. RzACH, Hesiodus, ad Theog. v. 1001. ·
31) I resti del poema furono riuniti insieme con i frammenti
di altre opere da A. RzAcH nella sua edizione minore di Esiodo
(III ed. Lipsia 1913) 196 ss.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 67

ne sono rimasti non consentono purtroppo un giudizio


sicuro. In favore del nesso con letica aristocratica depone
tuttavia il fatto ché Pindaro 32 ) vi.si riferisce. Persino Pin-
daro, che rappresenta una concezione nuova e più pro-
fonda delle relazioni dell'educazione con le disposizioni
naturali dell'uomo e che del rimanente non attribuisce al
mero insegnamento parte cospicua nella formazione del-
l'areté eroica, pur con la sua devota fedeltà alla tradi-
zione leggendaria deve confessare ripetute volte che i più
grandi uomini del passato ricevettero gli ammaestramenti
del vegliardo pieno d'amore per gli eroi. Ora lo ammette
semplicemente, ora rilutta dal riconoscerlo, ma ad ogni
modo ha trovato questa nozione già fissata in salda tradi-
zione, ed essa è evidentemente più antica dell'Iliade. Seb-
bene il poeta del canto IX ponga Fenice quale educa-
tore d'Achille al posto di Chirone, in altro luogo 38 ) del-
l'Iliade Patroclo è invitato a porre sulle ferite d'un guer-
riero rimedi lenitivi, secondo ha appreso da Achille, cui
li insegnò un tempo Chirone, il più giusto dei Centauri.
L'insegnamento si limita qui peraltro a soli principii
medici, ed è noto infatti che Chirone è ritenuto anche
maestro d'Asclepio 34). Ma pure nella caooia e in tutte le
nobili arti cavalleresche Pindaro lo chiama l'educatore
d'Achille, ed è chiaro che tale fu la versione originaria 35).
Il poeta della « Ambasceria ad Achille » non poteva porre
mediatore, al fianco di Aiace e Odisseo, il rozzo centauro.
Anche quale educatore di un eroe sembrava meglio adatto
un altro eroe cavalleresco. Ciò doveva corrispondere al-
i'esperienza propria del poeta, giacché egli non si scosterà
senza necessità dalla leggenda. Scelse quindi Fenice, che

82) Pind. Pytk. VI 19 ss.


83) A 830-832.
34) Pind. Pytk. III 5 ss.
35) Pind. Nem. III 43 s., 58.
68 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

era vassallo di Peleo e principe dei Dolopi, ad assumere


quella parte 36).
La critica ha affaeciato dubbi a-ssai gravi circa l'origi·
narietà del discorso di Fenice nell'ambasceria ad Achille,
anzi circa tutto quanto il personaggio, che non s'incontra
altrove nell'Iliade; e infatti si trovano indizi indubbi che
dovette esistere una versione del canto dell'ambasceria in
cui due soli rap.presentanti dell'esercito, che dovevano
essere Odisseo ed Aiace, erano inviati ad Achille. Voler
tuttavia riottenere tale versione espungendo semplice·
mente il grande discorso esortativo di Fenice è impossi·
bile, come è per lo più il caso di siffatti tentativi pratici
di ricostruzione, anche là dove il rimaneggiamento sia
ben evidente 37). La figura dell'educatore, nella redazione

86) I 480-484.
87) Le famose forme di duale (I 182 s.) della descrizione del-
l'ambasceria in cammino alla tenda di Achille sono state discusse
e spiegate nei più varii modi da quando Aristarco quietava la
sua coscienza di grammatico osservando rasse~atamente che,
come mostra il passo, il duale può qualche volta essere usato
invece del plurale. Un'altra spiegazione è basata sul parallelismo
fra questa scena del libro IX col libro I dell'Iliade v. 320 ss;, dove
i messaggeri di Agamennone fanno lo stesso cammino alla tenda
di Achille per portagli via Briseide. Il parallelismo tra le due
situazioni è troppo evidente e non poteva sfuggire a nessuno.
C'è un'espressa allusione ad esso nel discorso di Nestore, I 106.
In A 320 ss. si tratta certamente del duale vero e proprio,
non di un duale per il plurale. Ai due araldi mandati ad Achille
nel libro I corrispondono gli ambasciatori che offrono il ritorno
di Briseide ad Achille nel libro IX. E questi, nonostante il duale,
sono tre e, in più, ci sono due araldi. FRANZ BOLL in «Zeitschrift
f. osterr. Gymn.» (1917 e 1920), sostenne che il voluto paralle-
lismo può giustificare l'uso della forma duale per i tre ambasciatori
nel libro IX: il poeta avrebbe usato il duale deliberatamente
per ricordarci la scena del I libro. Ma io non riesco a vedere come,
a produrre questo effetto, potesse servire l'uso della forma duale,
quando poi, in realtà, le persone erano tre o più e non due. Mi
sembra assai più plausibile pensare ehe i duali conservati nel
testo dei nostri manoscritti derivino da un'altra e più antica
variante - una tradizione epica ancora più antica, orale o scritta
- in cui gli ambasciatori erano due soltanto. Questi poterono
essere unicamente Ulisse e Aiace, essendo Fenice una figura
altrimenti ignota, secondaria. evidentemente inventata per questa
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 69

odierna del poema, è in iattetta relazione coi due compa-


gni d'ambasceria. Del suo ideale educativo, come già
mostrammo 88), Aiace personifica piuttosto l'azione, Odia-
seo la parola. In Achille soltanto, entrambe sono riunite:
egli attua la vera armonia tra il più alto vigore di pen·
siero e d'azione. Chi tocca il discorso di Fenice non può
quindi arrestarsi nemmeno dinanzi ai discorsi degli altri
due, e distrugge l'intera struttura artistica di questo canto.
Ma non è questa sola conseguenza a ridurre la critica
ad absurdum; anche il preteBO motivo. che si assume per
l'inserzione del discorso di Fenice si basa su un disco·
noscimento totale dell'intento poetico dell'assieme. Il di-
scorso del vecchio è infatti di eccezionale lunghezza, com-
prende varie centinaia di versi e culmina nel racconto
dell'ira di Meleagro, che, a una lettura superficiale, par
quasi sia fine a se stesso. Si è ritenuto che il poeta imi-
tasse il motivo dell'ira d'Achille da una poesia anteriore,
circa l'ira di Meleagro, e; al modo delle allusioni lettera·
rie ellenistiche, volesse qui citare, per dir così, la sua
fonte, dando una sorta di estratto di quell'epOB 89 ). Co-
munque si vogli11. risolvere la questione se, al tempo in
cui si formò questo canto, esÌBtesse un'elaborazione poe-
tica della leggenda di Meleagro, o se il poeta segua una

occasione e di carattere affatto differente. Egli era il maestro, e


l'autore lo scelse per impartire ad Achille la lezione di morale
contenuta nella sua sproporzionata p:redica; Ma sarebbe troppo
facile pretendere di restituire la fonna originale del racconto
epico espungendo il passo del lungo discorso di Fenice e i pochi
altri passi che vi si riferiscono. Teoricamente si deve riconoscere
l'esistenza di due versioni parallele dell'ambasceria che nel nostro
testo dell'Iliade sono confuse in modo che non è più possibile
separarle. L'invenzione di Fenice l'educatore e il suo discorso
contribuisce più di ogni altra cosa all'unificazione del poema così
come noi lo abbiamo: è perciò praticamente im!lossibile tornare
indietro, al di là di quest'ultima trasformazione del poema. senza
distruggere la sua composizione.
38) Cfr. p. 38.
89) Cfr. ERNST HowALD, « Rheinisches Museurn» LXXIII
(1924) 405.
70 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

tradizione orale, certo si è che iii. di.ecorso di Fenice è


il modello d'un discorso esortativo del maestro al suo
alunno, e la diffusa narrazione dell'ira di Meleagro e
delle sue disastrose conseguenze è un paradigma mitico,
come se ne trovano numerosi nei disèorsi dell'Iliade e del-
l'Odissea 40 ). L'uso del paradigma è partioolarmente tipico
per la forma del discorso ammaestrativo in ognuna delle
sue varietà 41 ). Ne.&run altro aveva tanto diritto di adduue
I'esempio ammonitore di Meleagro, quanto il vecchio mae-
stro, del quale Achille è costretto a riconoscere la disinte-
ressata fedeltà e devozione. Fenice può enuncill!"e verità
che Odisseo non poteva dire. In bocca sua questo estremo
tentativo di influire sull'inflessibile volontà dell'eroe e
di indurlo a riflettere, trova la più seria energia interiore:
in caso d'insuccesso esso presenta la tragica crisi del-
!'azione, sotto più viva luce, quale effetto dell'ostinato
rifiuto d'Achille.
In nessun altro luogo dell'Iliade Omero è, in così alto
grado come qui, maestro e guida della tragedia, come lo
chiama Platone 42). Così parve già a'gli antichi. La strut-
tura dell'azione dell'IlWde assume così una piega etiea e
pedagogica, e la forma del paradigma fa ~periosamente
presente l'aspetto fondamentale del caso, la Nemesi 48). '

Ciascun lettore è costretto a sentire con intima partecipa-


zione tutta la gravità ddla decisione definitiva dell'eroe,
dalla quale dipende la sorte dei Greci, del suo amico più
caro, Patroclo, e infine l'intero suo destino. L'evento di-
viene necessariamente per lui un problema generale. Dal-

'°) V. p. 81 e 95. Già gli antichi commentatori lo rilevarono.


Nei tempi moderni EmcH BETHE, « Rhein. Mus.» LXXIV (1925)
129, giustamente ha sottolineato il carattere di exemplum della
narrazione di Fenice dell'ira di Meleagro e lo ha messo in relazione
con lo scopo ammonitorio del suo discorso.
41) V. nota 40.
Ili) PI. Resp. 595c.
") I 523.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 71

l'esempio di Meleagro si stacca l'idea religioaa dell'Ate,


che è di tanto peso per il poeta dell'Iliade quale ci sta
dinanzi compiuta. Sullo sfondo dell'allegoria, moralmente
commovente, delle litài, delle preghiere, e della pervica-
cia del cuore umano, quest'idea brilla come un lampo mi-
naccioso da cupe nubi 44).
Per la storia dell'educazione greca l'intera invenzione
è di somma importanza. In primo luogo, fa vedere chia-
ramente l'elemento tipico dell'antica educazione aristo-
cratica. Al figlio, ancora inesperto affatto nell'arte della
parola come nella guerra, il padre, Peleo, assegna, perché
lo accompagni al campo e alla corte regale, il più fido dei
propri vassalli, e questi gl'inculca studiatamente un alto
idea:le tradizionale di virtù virile 45 ). Tale missione tocca
a Fenice a motivo dell'intimità di tanti anni che lo lega
ad Achille: non è se non la continuazione dell'amicizia
paterna che, sin dalla prima età dell'eroe, unisce a lui il
vecchio. Questi gli rammenta con parole commoventi il
tempo in cui a mensa, nella gran sala, lo teneva fanciullo
sulle sue ginocchia, perché egli non voleva stare con nes-
sun altro; come gli mastica.sse i bocconi e gli desse beni-
gnamente a bere del suo vino, sino a che, rigurgitando,
gl'inumidiva la veste sul petto <1-6). Fenice lo considerava
come un figlio suo, poiché a lui medesimo, per la tragica
maledizione del padre, Amintore, era negato aver prole.
Ora è in diritto d'aspettarsi, nella vecchiezza, di trovare
nel giovane eroe un protettore. Ma, oltre questi tratti ti-
pici di precettore e di paterno amico, Fenice è per
Achille una guida nel senso profondo dell'autoeducazione
morale. La tradizione delle antiche leggende appartiene,
patrimonio vivo, a tale educazione, ed esse non offrono

44) I 502 ss.


'5) I 438.
") ·1 490 ss.
72 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

soltanto esempi sovrumani di valore e forza eroica: pulsa


in esse il caldo sangue dell'esperienza che deriva all'u0tmo,
sempre nuova e approfondita, dalla vita, e, penetrando
l'argomento venerando, ne ricava sempre nuovo signi·
fìcato.
n poeta è evidentemente un ammiratore dell'eduea-
zione elevata, cui ha eretto un monumento nella figura
di Fenice; ma appunto per questo la sorte di Achille,
del quale l'ammaestramento ariBtocratico, a suo credere,
ha fatto un modello sommo d'ogni virtù virile, gli riesce
un arduo problema. Contro la smisurata forza in-azionale
dell'aeciecam.ento, contro la dea Ate, ogni arte dell'edu-
cazione umana, ogni buon consiglio è impotente. Ma
anche le preghiere e le rimostranze della vera ragione sono
personificate dal poeta in potenze divine, benevole al-
l'uomo. Sono bensì lente, e arraneano sempre dietro ad
Ate dal piede veloce, ma rimediano poi al male che que-
sta produce 47). Bisogna soltanto onorarle, le figlie di Zeus,
quando si approssimano, e dar loro ascolto-: allora por-
gono benevolo aiuto all'uomo. Ma chi le respinge e si
ostina caparbio contro di loro, a lui mandano Ate, per-
ch'egli espii con suo danno 48 ). Qui l'immagjnoso pensiero
religioso dell'età arcaica, immune ancora d'astrazione,
ravvisa, nella commovente figurazione dei due demoni e
della loro impari ga:ra per il possesso del cuore umano,
l'intimo conflitto tra la passione cieca e il ravvedimento,
il vero problema centrale d'ogni educazione nel senso più
profondo della parola. Il concetto moderno del libero
arbitrio va qui tenuto affatto da banda, al pari dell'idea
di colpa in tal senso. Il pensiero antico è ancora molto

47) Cfz. quanto dissi di .questo tipo di educazione in generale


e dell'uso dell'esempio mitico (rcixpoclìe:1yµix) a fine esortatorio,
nelle parlate dei poemi omerici
411) I 502-512.
CAP. II: CULTIJRA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 73

più largo e perciò più tragico. Il problema della respon-


sabilità non è qui decisivo, come invece, ad esempio, al
principio dell'Odissea 49 ). Ma lo zelo educativo, ingenua-
mente pratico, del vecchio mondo aristocratico shocca già
qui. nel suo documento più antico e più bello, nella con-
sapevolezza del pr1>blema dei limiti di qualsiasi educa-
zione umana 50 ).

Il contrapposto dell'inflessibile Pelide è Telemaco, alla


cui educazione ci fa assistere il poeta del primo libro del-
l'Odissea. Mentre Achille non fa alcun conto dei precetti
di Fenfoe e precipita nella rovina, Telemaco presta do-
cilmente ascolto agli ammonimenti della dea che si cela
sotto le spoglie del paterno ospite Mente 51). Le parole di
lui gli dicono invero le stesse cose che la voce del suo
cuore gli suggerisce. Telemaco è il prototipo del giovane
docifo, cui il consiglio, volenterosamente accolto, d'un
amico esperto conduce all'azione e alla fama. Nei canti
seguenti, Atena, dalla quale, secondo la credenza ome-
rica, emana sempre l'ispirazione divina. all'azione fortu-
nata, si nasconde nella persona di un altro amico anziano,

49) V. pp. 81 ss., 115, e passim in questo libro. Cfr. gli indici
di « Paideia» alla voce « esempiò ».
W) Non bisogna dimenticare, tuttavia, ciò che si è cercato di
provare nella nota 37: e cioè che la presente forma del IX libro
dell'Iliade non è la versione originale, ma è di origine più recente.
In esso il grande problema educativo implicito nella decisione di
Achille, gli è presentato energicamente e con profonda intuizione
degli elementi psicologici e morali della situazione, dal suo maestro
Fenice. Originariamente un poeta aveva concepito l'ambasceria
come una mossa strategica degli uomini più rappresentativi del-
!'esercito greco, Ulisse e Aiace, che trasmettevano ad Achille
le proposte formali del re Agamennone. Il problema era soltanto
quello di una difficile missione diplomatica, che poi doveva finire
in un fallimento completo. È caratteristico di quel poeta che
introdusse la figura di Fenice, maestro di Achille, aver visto la
Situazione soltanto alla luce del problema educativo, e di averlo
così mirabilmente espresso.
fil) cc 105 e 180.
74 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Mentore 52), che accompagna Telemaco nel suo viaggio a


Pilo e a Sparta. Quest'invenzione deriva evidentemente
dall'usanza di dare un precettore per compagno a giovani
di gran casa, specialmente in viaggio. Mentore accompa-
gna con occhio vigile ogni passo del suo protetto, 8B8isten-
dolo in ogni circostanza coi suoi precetti e consigli. Lo
ammaestra nelle forme del buon contegno in società, dove
egli si trcwa di fronte, con titubanza, a situazioni nuove
e difficili. Gl'insegna come debba presentarsi agl'illustri e
anziani Nestore e Menelao e come esporre loro la propria
istanza, per ottenere buon successo. Il bell'atteggiamento
di Telemaco verso Mentore - il cui nome, dal Télé-
maque di Fénélon in poi, è venuto a designare universal-
mente un amico anziano, educatore, guida e protettore
- si fonda sullo sviluppo del motivo dell'edueazione 53 ),
che predomina del resto in tutta la Telemachia e che dob-
biamo ora considerare più ampiamente. Appare mani·
festo che il poeta non ha avuto il solo interito di fare una
pittura d'ambiente aulico. Anima di questo racconto uma·
namente attraente è il problema, che il poeta si è pro-
posto consapevolmente, del come il figlio giovinetto di
Odisseo divenga un uomo prudente, che a,giace pondera-
tamente e cui arride il successo. Se nessuno può abbando-
narsi all'impressione del poema senza sentirvi un'efficacia
pedagogica voluta, la quale peraltro manca affatto in am·
pie parti dell'Odissea, ciò dipende dall'elemento caratte-
ristico e ad un tempo esemplare della trama interiore, che
procede parallela all'az.ione esteriore della Telemachia
e ne è il vero scopo.
Dobbiamo lasciar qui impregiudicata la questione, sol-

U) ~ ''401.
lill) EDuABD SCHWARTZ, nel libro Die Odyssee (Monaco 1924)
253, ha dato speciale rilievo all'elemento educativo nella leggenda
di Telemaco.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 75

levata dall'analisi critica della formazione dell'Odissea,


se la Tekmachia fosse dapprima un poema a sé, o se sia
stata scritta originariamente per il poema gfobale, quale
oggi lo leggiamo H). Se vi fu mai un epos di Telemaco
per se stante, l'isolarsi di questa parte appunto della leg·
genda d'Odisseo non si può spiegare se non con l'interesse
di un'età che vi sentiva vivamente l'attrattiva di raffigu·
rarsi la situazione del giovane e quella del problema edu·
cativo, e si gettava quindi su un soggetto che dava pieno
corso al libero sviluppo di questo motivo. La leggenda,
per se stessa, all'infuori della patria e dei nomi dei geni·
tori, non offriva alla fantasia appigli concreti. Ma il mo·
tivo ha in sé la sua logica propria, e secondo questa il
poeta lo fa sviluppare. Nella costruzione complessiva del-
l'Odissea costituisce una bella invenzione l'avviare simul·
taneamente le due parti distinte - Odisseo, che dalla ninfa
amorosa è trattenuto lontano nell'isola cinta dal mare, e
suo figlio, che attende in patria, inerte e abbandonato, il
ritorno del padre - per ricongiungerle dando luogo al
ritorno dell'eroe. L'ambiente che il poeta disegna è quello

64) Che la parte dell'Odissea; nota sotto il nome di Telemachia


( oc-8), fosse stata in origine poema a sé stante, fu sostenuto da
AnoLF KmcHHòFF nei libri Die homerische Odyssee und ihre Ent-
stehung, Berlino 1859 (v. p. VIII e p. 136 ss.) e Die Composition
der Odyssee, Berlino 1869. Con questi due libri., l'analisi omerica
si trasferisce all'Odissea, mentre durante il suo primo fecondo
sviluppo, dai Prolegomena del WoLF (1795) fino alla metà del
sec. XIX, era stata centrata sull'Riade. Il risultato dell'analisi
del Kirchhoff per la Telemachia fu accettato come definitivo da
molti studiosi moderni, come il WILAMOWITZ (Homerische Un-
tersuchungen, Berlino 1884; Die Heimkehr des Odysseus, Berlino
1927), EDUARD SCHWARTZ (Die Odyssee, Monaco 1924) e R. JEBB
(Homer, 18 ed. 1886). La questione fondamentale è, se il lungo
discorso esortativo di Atena a Telemaco (oc 252-305) perché egli
intraprenda il viaggio a Pilo e Sparta, descritto poi nei libri ~-8,
sia realmente opera del medesimo poeta c1ie scrisse i libri ~-a
o se debba essere considerato una ulteriore e maldestra aggiunta
di mano di un redattore che voleva introdurre la Telemachia,
poema indipendente posteriore in un poema più vasto e più an-
tico intorno al ritorno di trusse.
76 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

d'una residenza nobiliare. Telemaco non è, dapprima,


che un giovanetto in halìa dei maneggi insolenti dei pre·
tendenti della madre. Egli vi assiste rassegnato, senza tro·
var la forza di prendere decisioni sue proprie, mite e in-
capace di rinnegare, nemmeno di fronte a quel flagello
della sua casa, l'innata distinzione dell'indole sua, non-
ché difendere energicamente i propri diritti. Questo gio-
vanetto passivo, di molle gentilezza, sterilmente lagnan-
tesi, sa:rehhe un alleato nullo per Odissea, che rimpatria
per affrontare una grave battaglia decisiva e per compier
vendetta, costretto ad affrontare i Proci quasi senz'alcun
aiuto. Chi ne fa un combattente prode, risoluto, ardito,
è Artena.
Contro la tesi di una configurazione volutamente pe-
dagogica del personaggio di Telemaco nei primi quattro
canti dell'Odi~ è stato detto che la poesia greca non
conosce rappresentazioni dello svolgimento interiore di
un carattere 55 ). Certo, la Telemachia non è un romanzo
pedagogico moderno, e non si può chiamare· svolgimento,
nel senso nostro, il mutamento di Telemaco. Quell'epoca
non sa spiegarselo Be non quale effetto d'ispirazione di-
vina. Ma questa non giunge, come tante ~olte nell'epos,
in modo meramente meccanico, mediante un comando di
un messaggero divino o la notte, in sogno; non agisce
come un influsso magico; strumento naturale della grazia
divina è invece il proc~, tolto dalla vita, dell'influenza

66) Così il WILAMOWITZ, op. cit. Ma cfr. R. I'FEIFFER, «Deut-


sche Literaturzeitung» 1928, pp. 2, 368. Devo tuttavia obiettare
al punto di vista di Pfei:ffer, che non tanto si tratta dell'aft"er·
mazione di_ una norma divina nell'educazione nobiliare in ge·
nerale, quanto della guida divina nella vita e nella sorte particolare
di Telemaco. Una tal guida ha però nel caso presente uno speciale
significato pedagogico. Il che non si può contestare, semplice-
mente osservando che Atena interviene costantemente nell'Odis-
sea, e « pertanto» viene ad essere solo un mezzo di tecnica epica,
eome sostiene JACOBY, « Die Antike» IX 169, contro Pfei:ffer.
L'influenza divina si manifesta in forme molto varie.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 77

esercitata volurtamente sulla volontà e sul giu.clizio del


giovinetto, predestinato ad essere un eroe. Non occorre
che l'impulso decisivo dal difuori, per produrre in Tele·
maco la Iieces.saria ·disposizione · intima all'iniziativa. Il
cooperare dei diversi fattori - della propensione inte-
riore, che da sé non trova la via della mèta e non trapassa
in azione, della buona indole, dell'aiuto e favore divino
e del momento risolutivo della guida che indica la via -
è finissimamente misurato. Qui si rivela il profondo in·
tendimento, per parte del poeta, del problema ch'egli si
è posto. Se la tecnica epica gli consente di ridurre ad
unità d'azione l'intervento divino e la naturale influenza
educativa, col fare che Atena stessa parli a Telemaco sotto
le spoglie dell'ospite anziano Mente, questo artificio gli è
reso più agevole dal sentimento universalmente umano
che ancor oggi conferisce per noi alla sua invenzione l'in·
tima sua verosimiglianza: che nell'influenza liberatrice
d'ogni vera azione educativa, la quale da ·un ottuso im·
paccio scioglie tutte le energie giovanili a lieta attività, è
insito rm impulso divino, un miracolo naturale. Come
Omero, nel fallire del maestro di fronte all'ultimo e più
arduo c6mpito, quello di piegare l'animo d'Achille votato
alla fatalità, riconosce l'opposta influenza del demone,
così, nel felice mutarsi di Telemaco da giovinetto irreso·
luto in vero eroe venera piamente l'opera d'una grazia
divina. In tutti i momenti culminanti, la coscienza e
l'azione educativa dei Greci è pienamente consapevole di
questo fattore imponderabile. Sono i grandi aristocratici
Pindaro e Platone, presso i quali lo riscontriamo nel modo
più evidente.
Atena stessa chiama espressamente ammonimento edu·
cativo 5'8) il discorso che, in figura di Mente, rivolge a Te-

58) oc 279, Ù7toTl&e:cr&oci, il verbo corrispondente a Ù7to&ljxoci,


che è la parola propria per «precetto»; cfr. FmEnLÀNDER, «Ber·
meS» XLVIII (1913) 571.
78 UBRO I - L'ETÀ ARCAlCA

lemaco nel primo canto. Essa fa maturare in Telemaco la


decisione di farsi egli medesimo paladino del proprio di-
ritto, di affrontare apertamente i Proci, di chiamarli a
rispondere delle loro azioni in faccia a tutti nell'agorà e
di chiedere appoggio per il suo disegno di far ricerca del
padre disperso 37). Alternando ·effieaeemente l'insuece8SO

57) L'assemblea del popolo di Itaca nel libro II, in cui Tele-
maco espone il suo caso e fa l'ultimo appello ai Proci per una
lotta leale, ha lo scopo definito nella composizione dell'Odissea
di affermare che la colpa della tragica fine della storia, cioè del-
l'uccisione dei Proci, è dei Proci stessi. Il poeta che scrisse il li-
bro II e il discorso di Atena che ordina a Telemaco di convocare
l'assemblea (cx 252 ss.), volle dare una giustificazione morale
e giuridica che soddisfacesse la sua me11te moderna e razionale
all'antico canto che finiva con la mnesterophonia. Mi pare che
egli abbia messo in bocca ad Atena il suggerimento di convocare
l'assemblea prima che Telemaco lasci Itaca per il suo viaggio
di ricerca, a ragion veduta. Questo dà all'azione di Telemaco una
sanzione divina e conferisce alla convocazione un ·solenne ca-
rattere di ammonimento che dà ai Proci la piena responsabilità
delle consegnenze del loro rifiuto di adottare una condotta più
ragionevole. Ancora più rilievo ha il discorso di, Atena (cx 252)
in quanto ella ha già prima, nel concilio degli dèi sull'Olimpo
(cx 90), annunziato la sua intenzione di consigliare a Telemaco
di convocare l'assemblea ed accusare i Proci dinanzi al popolo.
Questo dimostra che ella agisce col favore di tutti gli dèi e di
Zeus stesso, che non solo approva il suo piano, ma anche il metodo
di esegnirlo. Quando Atena ammonisce i Proci delle conseguenze
delle loro azioni, essa applica il principio che Zeus stes.so ha af-
fermato nel suo discorso (cx 32) sulle responsabilità dell'uomo
per i suoi stessi dolori. L'esempio di Egisto, a cui Zeus si riferisce,
prova che Egisto era stato giustamente punito perché aveva
agito male, non ostante l'avvertimento divino. Devo confessare
che queste considerazioni sono sempre state per me il più grande
ostacolo ad ammettere la tesi del Kirchhoff: che il discorso di
Atena a Telemaco nel libro I non sarebbe stato scritto dallo stesso
poeta che poi nei libri II-IV descrive come Telemaco metta in
atto il suo consiglio, ma da qualche poeta secondario che voleva
inserire il poema della Telemachia già esistente separatamente.
Questa opinione implicherebbe che originariamente l'assemblea
non avrebbe avuto alcun significato particolare e che avrebbe
assunto quello scopo da noi rilevato di sopra (l'ammonimento
ai Proci) solamente quando il redattore del I libro uni la Tele-
machia all'Odissea. Pare che il Kirchhoff si sia fermato solo sul
fatto che l'assemblea era affatto inutile per il momento poiché,
naturalmente, i Proci non avrebbero accolto la proposta di Te-
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 79

iniziale e il nuovo slancio, il poeta, dopo il fallimento


dell'assemblea, gli fa osare in segreto per suo conto il
periglioso viaggio le cui esperienze dovranno farlo uomo.
In questa« Telemachou paUlew:. non manca alcun tratto
essenziale: i consigli d'un amico e consigliere anziano ed
esperto; l'influenza, più tenera e delicata, della madre
amioaa per il suo unico figlio, alla quale nel momento
decisivo è impossibile chieder consiglio, giacché non sa-
rebbe affatto in grado di seguire l'improvviso alto slan-
cio del figlio che a lungo assai ha protetto, anzi non .po-
trebbe che impacciar:lo con le sue apprensioni; poi l'esem-
pio del padre prematuramente perduto, che agisce quale
fattore principale; il viaggio in paesi stranieri visitando
corti amiche, la conoscenza di uomini e cose nuove; l'in-
coraggiamento e la benevola fiducia di personaggi cospi-
cui, ai quali Telemaco leva lo sguardo e che avvicina per
trovare presso di loro consiglio e possibilmente aiuto,
l'acquisto di nuovi amici e fautori e la cura tutrice d'una
potenza divina che gli spiana la via, tiene benigna la mano
sul suo capo e non lo lascia andare a rovina nei pericoli.
Il poeta descrive con calda simpatia l'intima titubanza
del giovane, cresciuto nella sua remota isoletta nella sem-
plicità d'una signoria campagnola, ignaro del gran mon-
do, quand'egli per la prima volta vi si affaccia ed è ospite
d'alti per110naggi; e dall'interesse che tutti gli dimostrano

lemaco di ritornarsene a casa. Ma il critico sagace trascura prima


di tutto l'importanza del discorso come giustificazione morale
della finale punizione dei Proci, e poi l'accento messo dall'autore del
libro I sulla distinzione fra disgrazia mandata da un dio e sof-
ferenza che l'uomo si procura da se stesso. L'assemblea e il viaggio
di Telemaco nei libri II-IV assumono tutta la loro importanza
solo se si parte da una struttura del poema come quella che si
ha attualmente. E questa struttura s'impianta nel .ibro I. Senza
di esso il II e il IV rimarrebbero semplici episodi senza una base.
Tutto ciò rende accettabile la conclusione che essi siano stati
scritti come un'esposizione della situazione morale e legale di
tutta l'Odissea, da porsi all'inizio del poema.
80 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

fa sentire ai pro.pri ascoltatori come le buone usanze e


l'educazione non lascino tanto facilmente nell'imbarazzo
il giovinetto · inesperto, nemmeno in situazioni ardue e
nuove, e come il nome del padre gli spiani la via.

Su un punto giova trattenerci più ampiamente, giao-


ché è di particolare importanza per la struttura spirituale
dell' ideale educativo aristocratico, e cioè l' importanza
educativa dell' esempio. Per I' età più antica, che non
conosce né leggi oodifìcate, né un pensiero etico sistema·
tico, oltre ai pochi comandamenti pratici della religione
e della sapienza proverbiale., tramandata oralmente dii
generazione in generazione, non e.siste per la condotta
individuale un punto d'ori~ntamento più effi~ce del·
l'esempio. Oltre all' influenza immediata dell' ambiente,
soprattutto delila casa patema, di così evidente efficacia,
nell'Odissea, nei due principali persona.W · giovanili,
Telemaco e Nausicaa 58 ), vi è la copia dei tanti illustri
esempi tramandati d.a.lla leggenda. Nell'ordinamento so·
ciale del mondo arcaico e<36a occupa press'a poco il luogo
che nel mondo nostro tiene la storia, compresa la storia
biblica. La leggenda comprende tutto il pa,trimonio d'ere·
dità spirituale, dal quale ogni nuova generazione attinge
il proprio nutrimento. Come il maestro d'Aehille, nel-
l'Iliade, nel suo grande diBCorso esortativo si richiama al-
l'esempio ammonitore della collera di Meleagro Ml) .del

58) Su Ulisse come modello per Telemaco cfr. cx 255 e altri


passi. Per Nausicaa non è detto espressamente che sua madre
sia il suo modello ma ciò è da considerarsi presupposto nel mondo
omerico. V. 71 69-70. In i: 25 Atena si meraviglia ironicamente
che la madre di Nausicaa l'abbia generata così trascurata nei suoi
vestiti.
59) I 524 ss. Fenice invoca l'autorità degli antichi x'..ì.&cx .Xvl1pùiv
che, egli dice, <<abbiamo ricevuto dalle generazioni passate». Ad
essi si riferisce a proposito dell'ira (µ li'nç) per trovare un parallelo
al caso di Achille e una norma di azione per dominarla. E questo
è l'esempio di Meleagro, di cui fa un lungo racconto.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 81

pari nell'educazione di Telemaco non manca l'esempio in-


coraggiante adatto alla sua situazione. Il raffronto con la
vendetta che Oreste fece di suo padre su Egisto e Cliten-
nestra, era ben ovvio. Anch'essa era un elemento della
grande tragedia, ricca di casi individuali, del ritorno del-
1'eroe. Agamennone era stato ucciso sùhito dopo iJ ritorno
da Troia. Od.isseo era ormai da vent'anni lontano dalla
patria: questo spazio di tempo bastava a permettere al
poeta di situare l'impresa d'Oreste e il precedente suo
soggiorno nella Focide prima dell'inizio dell'azione del-
l'Odissea. Si è svolta da poco, ma già la fama d'Oreste si
diffonde sulla terra, ed è rappresentata da Atena a Tele-
maco con parole d'incitamento 00). Se in genere gli esempi
della leggenda guadagnano autorità mercé l'età veneranda
- Fenice, nel suo disoorso ad Achille 81), si richiama ap·
punto alla dignità del passato e degli antichi eroi -
nel caso d'Oreste e di Telemaco, all'opposto, la forza
dell'esempio sta nell'analogia tra le due situazioni, tanto
vicine nel tempo.
Il poeta -attribuisce evidentemente valore altissimo al
motivo dell'esempio.« Non devi più trascinar la vita ~me
un fanciullo - dice Atena a .Telemaco - ché sei troppo
avanti negli anni. Non odi quale fama ha raccolto Oreste
in tatto il mondo per aver ucciso il per;fìdo assassino Egi·
sto, che aveva fatto strage di suo padre? Oh, tu, amico
- lo vedi, sei bello e robusto - hai forza bastante per-
ché un giorno i posteri ti lodino» 82). Senza l'esempio con-
creto l'ammaestramento di Atena mancherebbe dell'ele-
mento normativo convincente sul quale esso possa fon-
darsi. Appunto nel caso scabroso dell'uso della violenza, il
riferimento a un illustre esempio è doppiamente neces-
sario per far impressione al delicato giovinetto. Già nel·

80) cc 298-302.
11) V. nota 59.
11) cc 296 811.
82 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

l'assemblea degli dèi il poeta ha fatto illustrare a bella


posta i1 problema morale della vendetta dallo stesso Zeus
mediante l'esempio d'Egiato e Oreste 68 ), togliendo così
all'ulteriore riferimento d'Atena ad Oreste, anche agli
oechi d'un ascoltatore critico, ogni ombra di dubbiezza
morale. L'importanza essenziale che assume il motivo del-
1'esempio nell'educazione di. Telemaco alla sua :missione
fatale, si riaffaccia sempre anche nel sègnito dell'azione,
come nel diacol'SO di Nestore a Telemaco 84'}, dove iii. vene-
rando vegliardo s'interrompe a mezzo il suo racconto delle
vicende di Agamennone e della sua casa, per proporre
Oreste qua.le modello a Telemaco, e questi gli risponde
esclamando: « A ragione Oreste fece vendetta, e gli Achei
diffonderanno la sua fama largamente, oggetto di canto
per le generazioni avvenire. Così gli dèi dessero a me pure
tal forza, ch'io potessi far vendetta sui Proci della loro ob-
brobriosa prepotenza>. Lo stesso motivo dell'esempio si
ripete al termine del racconto di Nestore 65 ); esso è dun-
que impiegato alla fine di ambe le parti principali del suo
lungo discorso, con molta insistenza e ogni volrta con
espres&J riferimento a Telemaco.
Questa ripetizione, come è ovvio, è voJuta. Il richia-
marsi al modello di eroi famosi e all'esempio della leg-
genda in genere e in ogni forma è per il poeta parte in-
tegrante d'ogni etica ed educazione aristocratica. Av.remo
a ritornare sul valore di questo fatto per l'intima cono-
scenza del canto epico e del come eseo sia radicato nella
struttura della società arcaica. Ma anche per i Greci dei
secoli ulteriori il paradigma ha sempre conservato la sua
importanza quale categoria fondamentale della vita e del
pensiero 68). Basti accenna.re anticipatamente all''ll80 ehe

83) cx 32-47.
84.) y 195-200.
65) y 306-.316.
•s) E nei miei propositi una ricerca a parte sullo sviluppo storico
del paradigma (eumplum) nella letteratura greca.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA 83

fa Pindaro degli esempi mitici, i quali costituiscono un


elemento così cospieuo dei suoi inni trionfali 67). Eirr&
rehhe ohi volesse interpretare quest'uso, passato in tutta
la poesia e in parte anche nella prosa dei Greci 68 ), quale
fenomeno meramente stilistico. Esso è strettamente legato
all'esBenza dell'etica aristocratica arcaica ed anehe nella
poesia. in origine, era ancora ben vivo nel suo significato
educativo. In Pindaro, massimamente, si riaffaccia il ge-
nuino senso antico del paradigma mitieo. E se, infine, si
considera che tutto il pensiero di Platone è, per la sua
più intima struttura, paradigmatico, e ch'egli qualifica
la sua Idea «un paradigma. fondato sull'esistente» 6111 ),
allora è ben chiara l'origine di questa forma deÌ pensiero.
Appare ora come il « modello », di validità universale,
dell'Idea filoso.fica del « Buono » 70 ), o per dix meglio del-
l'&yoc66v, si trova sul prolungamento rettilineo della linea
di sviluppo ide~Ie che muove dall'idea dell'esempio del-
l'antica etica aristocratica dell'areté. Lo svolgimento dalla
forma spirituale della cultura aristocratiea omerica alla
filosofia di Platone, che passa per Pindaro, è perfetta-
mente organico, razionale e necessario. Non è « evolu-
zione » nel senso semi-naturalistico del termine, quale
suole usarlo l'indagine storica, ma sviluppo sostanziale
della forma originaria dello spirito greco, che nella sua
struttura fondamentale rimane identico a se stesso attra-
verso tutte le fasi della propria storia.

67) Cfr. pp. 390-395.


68) Lo svolgimento di quest'uso è stato seguito nell'antica
poesia greca da R. ÙEHLER nella sua dissertazione Mythologische
E:icempla in der iilteren grieihischen Dichtung (Basilea 1925). Segue
gli spunti di NITZSCH in Sagenpoesie der Griechen (1825), ma
bada troppo poco al nesso di questa pratica stilistica con l'antico
rispetto aristocratico per i modelli etici.
69) PI. Theaet. 17 6e.
70) Per l'idea platonica di Dio come paradigma nell'anima
del reggitore filosofo, v. Resp. 472c, 484c, SOOe, 540a e «Paideia »
Il. pp. -481-483.
CAPITOLO TERZO.

OMERO EDUCATORE

Platone cita, quale opinione diffwra nell'età ima, che


Omero fu l'educatore di tutta la Grecia 1 ). Dipoi la sua
sfera d'.influenza si estese ben oltre i confini dell'Ellade.
Nemmeno l'appassionata critiea filosofica di Platone poté
scuoterne la signoria, per quanto abbia reso cosciente il
mondo d'una perenne limitazione del valore educativo
d'ogni poesia 2 ). La concezione del poeta quale educatore
del suo popolo - nel se.neo più ampio e più profondo
del termine 8 ) - fu sin da principio ovvia per· i Greci
e conservò per loro sempre la sua validità. Omero non è
che l'esempio più solenne di tale concezione generale, per
così dire il suo caso classico. Giova a noi tenere tale con·
cezione nella massima considerazione, né dovremmo pre·
giudicarci l'intendimento della poesia greca col porre,
in luogo del giudizio dei Greci stessi, il dogma modemo
dell'autonomia della considerazione puramente estetica

1 ) Egli parla dei« lodatori d'Omero» (Resp. 606e) che lo leg-


gono non solo per il piacere artistico, ma anche come maestro
di vita. Lo stesso pensiero appare in Senofane (fr. 10 Diebl).
2) V. « Paideia » II, pp. 363 ss. e 625 ss.
8) Meglio di tutti gli interpreti moderni della poesia greca.
U. v. Wilamowitz-MoellendorfF ha riconosciuto questa posizione
dominante, di maestri, dei poeti greci del periodo arcaico e del
classico e non si è stancato di rilevare l'importanza del . fatto.
86 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

dell'arte'). Anche se caratteristico di tailune specie ed


epoche dell'arte figurativa e della poesia, esso tuttavia
non è oggetto d'astrazione per la poesia greca e per i suoi
maggiori rappresentanti, e quindi non le è applicabile.
È caratteristico del pensiero greco originario come l'ele-
mento estetico non sia ancora separato dall'etico. Questo
processo non s'inizia che relativamente tardi. Per Platone
ancora, alla limitazione del contenuto di verità dei poemi
omerici è direttamente connessa una diminuzione del loro
vafore ~). Soltanto con la retorica classica si venne a pro-
muovere assai la considerazione formale, e infine il Cri-
stianeeimo fece della vafotazione puramente estetica 6 )

•) Questo è vero naturalmente, solo per il periodo della grande


poesia greca. I poeti ellenistici come Callimaco e Teocrito non
pretesero più di essere maestri di tutta la nazione: erano artisti
nel senso moderno e vivevano in un loro mondo puramente este-
tico. La cultura per loro era raflìnatezza letterana. È vero che
essi pretendevano la dignità di supremi arbitri della paideia con-
temporanea. ma per essi questa significava soprattutto gusto
letterario e giudizio critico. Così essi si ritirarono definitivamente
nel regno in cui li aveva relegati la critica platonica della poesia.
5) La critica platonica della poesia era diretta alla sua man-
canza di verità filosofica, da cui sembrava dipend!'re la sua dignità
ed il suo valore di paideia. Ma negando questo valore alla poesia,
Platone cercò più di chiunque al~o della Grecia classica di de-
limitare esattamente quello che noi chiamiamo il valore estetico.
Egli non contesta l'azione della poesia dentro tali limiti, ma esige
che le nostre relazioni con essa si restringano al puro godimento
estetico. Non è quindi esatto dire che Platone misura la poesia
solo con un criterio morale o filosofico, perché con esso misura
non la poesia. ma il tradizionale ufficio della poesia come vera
paideia. Sappiamo da tradizione degna di fede che Platone teneva
presso di sé fra altri poeti (come Sofrone il mimografo) le opere
complete del più moderno di tutti, Antimaco di Colofone, con
cui noi ora facciamo cominciare il periodo ellenistico della let-
teratura greca. Cfr. la testimonianza dello scolaro di Platone,
Eraclide Pontico e B. WYss, Antimachi Colophonii Relìquiae
(Berlino 1936) LXIV.
6) Cfr. specialmente la discussione del problema se tutti i
grandi poeti debbano o meno unire l'utile al duke, presso la scuola
epicurea: Philoderrws ii.ber dìe Gedichte fùnftes Buch di CHRISTIAN
JENSEN (Berlino 1923) 110 ss. La poesia è la« roccaforte» delle
umane passioni per gli Epicurei, d'accordo con Sesto Empirico,
CAP. III: OMERO EDUCATORE 87

della poesia l'atteggiamento intellettuale predominante,


poiché rese possibile rigettare in gran parte, come fallace
ed empio, il contenuto etico e religioso dei poeti dell'an-
tichità, ma accettare la forma classica quale mezzo indi-
spensabile d'educazione e fonte di diletto 7 ). La poesia
non ha cessato dipoi di rievocare dal mondo delle ombre
alla luce gli dèi e gli eroi della « mitologia » pagana, ma
quel mondo è ormai caratterizzato a priori quale gioco
irreale della mera fantasia artistica. Ci verrebbe fatto di
accostarci ad Omero con una prospettiva analogamente
ristretta, ma così facendo ci precluderemmo la via ad in-
tendere il mito. e la poesia nel loro vero senso ellenico.
Ci ripugna, certamente, il modo in cui l'ulteriore poetica
filosofica dell'ellenismo interpreta il contenuto educativo
d'Omero secondo l'arido criterio razionalistico del «fa,..
bula docet » 8 ) o, sul modello deilla sofistica, fa dell'epos
un'enciclopedia di tutte e arti e le scienze 9 ). Ma codesto
parto della scolastica .altro non è che il travisamento di
un'idea per se stessa giusta, la quale, come ogni cosa bella
e vera, deve .necessariamente farsi grossolana tra rozze
mani. Anche se un utilitarismo siffatto giustamente ripu-
gna al nostro senso dell'arte, rimane tuttavia ovvio che

Adv. Math. I 298 (p. 668 Bekker) « molto nelle parole dei poeti
è non solo inutile, ma dannoso in sommo grado». La natura della
poesia non può essere giudicata dai · suoi benefici morali o scien·
tifici.
?)Cfr. p. es. il famoso trattato di Basilio il Grande per la gioventù
cristiana sull'uso della letteratura greca classica.
B) Il pensiero degli Stoici e dei Peripatetici sul valore educativo
della poesia è generalmente fondato sui poemi omerici. V. il
libro di Filodemo, Ile:pt 1tO 17](.LcX't'C»V ricordato a nota 6, in cui ricorda
e critica le opinioni dei precedenti trattatisti di poetica.
") I Sofisti consideravano Omero come la fonte di ogni co·
noscenza tecnica (-c-é:(va:1). Ps.-Plutarco, De vita et poesi Homeri,
rappresenta la stessa opinione che noi conosciamo solo indiret-
tamente dalla polemica di Platone sull'argomento nella Repub-
blica o nello Ione. Ma in Plutarco questa teoria i svolta compiu-
tamente in ogni particolare. V. « Paideia» Il, p. 629. ·
88 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Om.erQ, come tutti i grandi p<>eti della grecità, non è mero


oggetto della storia letteraria formale, ma va apprezzato
quale primo e maBsimo creatore e plasmatore dell'urna·
nità greca.

E qui si presentano talune osservazioni circa lefficacia


educativa della poesia greca in genere, che s'impongono
specialmente nel caBo d'Omero. Un'efficacia siffatta è eser·
citata dalla poesia soltanto là dove in essa si esprima tutto
l'insieme delle energie estetiche ed etiche dell'uomo. Ma
la relazione dell'elemento estetico con l'etico non consiste
soltanto in ciò, che questo sia accidentalmente dato con
un quaJsiasi «soggetto», senz'essere essenziale per l'in-
tento propriamente artistico; il contenuto normativo e la
forma artistica dell'opera d'arte stanno inveoe in una re·
!azione di reciprocità, anzi hanno comune l'intima radice.
Mostreremo come appunto lo stile, la composizione, la
forma in ogni senso, sia condizionata e inspirata, nel suo
specifi.oo atteggiamento estetico, dai contenuti spirituali
che incarna. Certo, di questa veduta non va fatta sùhito
una legge estetica generale. V'è un'arte - e vi è stata in
ogni epoca - che ignora i problemi centrali dell'umanità
e che va intesa meramente secondo il suo ideale for·
male, v'è anzi persino un'arte che si ride d'ogni cosid·
detto contenuto elevato, o almeno si comporta con in-
differenza, quanto al contenuto, verso il proprio oggetto.
Facciamo qui aBtrazione da quella voluta frivolezza ar·
ti.stica che alla sua volta torna ad -essere «morale» con
lo smascherare senza riguardo valori illusori convenzionali,
svolgendo quindi una funzione criticamente purificatrice.
Educativa in senso proprio non può essere se non una
poesia le cui radici si addentrino negli strati profondi del-
!'essere umano, nella quale viva un ethos, uno slancio
superiore dell'animo, un'immagine dell'umano che acoo~
muni e vincoli gli uomini. Ma appunto della poesia elevata
CAP. m: OMERO EDUCATORE 89

dei Greci v,a detto che essa non oi dà soltanto un qualsiasi


frammento della realtà, heDBÌ sceglie e contempla quella
porzione dell'esistenza, eh'easa presenta, in relazione a·
un determinato ideale.
D'altra parte anche i valori supremi non divengono
per gli uomini, per lo più, impressioni di valore per·
manente e d'efficaeia suggestiva se non in quanto eter-
nati dall'arte. L'arte ha in sé una illimitata capacità di
comunicazione spirituale, di psicagogìa, come dicevano
i Greci. Essa sola possiede ad un tempo quella universa-
lità e· quell'evidenza vitale immediata che sono le due
condizioni più importanti dell'efficacia educativa. Mercé
l'accoppiamento di queste due sorta d'efficacia spirituale
essa supera tanto la vita reale quanto la rifles-sione filo·
sofica. La vita possiede l'evidenza sensibile, ma le sue espe-
rienze mancano d'universalità, sono troppo commiste
d'accidentale perché la vivacità delle impressioni ricevute
p<>S6a sempre conseguire il grado estremo di profondità.
La filosofia e la riflessione, d'altra parte, si elevano bensì
all'universali:tà e penetrano sino all'essenza delle cose, ma
hanno efficacia soltanto su chi, mercé I'esperienza propria,
può dare alle loro idee l'intensit~ interiore della vita vis-
suta. La poesia si trova così sempre in vantaggio, rispetto
ad ogni ammaestramento meramente razionale e a tutte
le verità di ragione universali, ma anche rispetto alla mera
esperienza accidentale del singolo. Essa è più filosofica
della vita reale {se è lecito parafrasare un noto detto
d'Aristotele), ma è anche più piena di vita che la cono·
scenza filosofica, mercé la sua concentrata realtà spirituale.
Queste considerazioni non sono affatto valide per la
poesia di tutte le età, e nemmeno senza eccezione per
quella dei Greci, né d'altra parte sono limitate a questa
nella loro validità; ma a neSSQ.Il'altra poesia del mondo
convengono come a quella dalla quale sono ricavate. In
esse noi non facciamo in sostanza che riprodurre la con·
90 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

cezione svolta di sulla grande poesia del proprio popolo


dal sentimento artistico greco, destato all'autoconoscenza
filosofica, nell'età di Platone e d'Aristotele. Non ostanti
parecchie variazioni d'indole particolare, la concezione
greca dell'arte è rimasta in genere invariata sotto que-
sto rispetto anche più tardi, ed essendo essa sorta in
un'epoca in cui era ancor vivo il senso della poesia e
dell'elemento specificamente ellenico di questa, è stori-
ca.mente legittimo· e neceBSario chiederci se valga per
Omero. Non v'è alcun'epoca il cui contenuto ideale ab-
bia realizzata la sua forma, e quindi la più alta efficacia
formativa sulla posterità, in maniera così Jarga e insieme
artisticamente universale come quella che ha per araldo
Omero. L'epos è meglio d'ogni altra poesia in grado di
rivelare il carattere unico dell'attività educativa dei Greci.
Per quanto riguarda la maggior parte delle fonne più
tarde della letteratura greca, gli altri popoli non hanno
generato da sé formazioni parallele. I modmm popoli ci-
vili non ne vengono in possesso che adotta:Ìldo la forma
classfoa. Ci pervennero così la tragedia, la commedia, la
dissertazione filosofica, il dialogo, il trattato scientifico
sistematico, la storiografia critica, la hiogmma, l'oratoria
forense, celebrativa e politica, la narrazione di viaggi, le
memorie, l'epistolario, la confessione, l'autobiografia e il
saggio. Troviamo invece anche presso altri popoli, nella
medesima fase di sviluppo, una divisione sociale in aristo-
crazia e popolo, paragonahille alla primitiva grecità, un
ideale virile aristocratico e un'arte indigena del canto
eroieo quale espressione di un'imperante concezione eroica
della vita. Dal canto eroico è sorto spesso anche ailtrove,
come presso i Greci, un epos: così presso gl'Indi, i Ger-
mani, i Latini, i Finni e p!resso taluni popoli nomadi del-
1'Asia Centraile. Siamo quindi in grado di confronta.re la
poesia epica di popoli di razza e civiltà diversissime e di
riconoscere la peculiarità dell'epica greca.
CAP. III: OMERO EDUCATORE 91

Invero è stato spesso O&!el'Vato quanto spiccate siano


le analogie di tutte codeste poesie, in quanto si trovino
al medesimo grado di sviluppo antropologico. I poemi
eroici del periodo arcaico condividono con gli altri po·
poli i loro caratteri primitivi. Ma ciò non riguarda che
lelemento esteriore, temporale di tale arte, non già la
ricchezza della loro 806tanza umana, né il vigore della
loro forma artistica. Non v'è popolo la cui epica ahhia
espresso in una creazione coaì esauriente e grandiosa
come la greca quanto in sé racchiude di fatalità universale
e di senso eterno della vita il grado eroico dell'esistenza
umana, che nonostante ogni « progreSB-O » borghese è, nel
suo nueleo, imperituro. Nemmeno una poesia eroica di
tanta altezza umana e tanto vicina a noi per consangui·
neità quanto quella dei popoli germanici può, per l'am-
piezza e la durata della sua influenza, esser paragonata
ad Omero. Il divario tra la .sua pOBizione storica nella
vita del suo popolo e la funzione dell'epos medioevale
germanico e francese è evidente nel fatto che l'influsso
d'Omero non s'interruppe mai, in un millennio intero di
cultura greca, laddove i poemi epici aulici medievali cad-
dero presto in dimenticanza dopo il tramonto dell'epoca
cavalleresca. La viva autorità d'Omero diede Juogo nel
periodo ellenistico, in cui si studiava ogni cosa scientifica-
mente, ad una scienza a sé per indagare la sua tradizione
e la forma originale de' suoi poemi, la filologia, la quale
trasse .vita esclusivamente dalla vitalità perenne del suo
oggetto. L'epica medievale della Canzone di Rolando, del
Beowulf, dei Nibelungi, sonnecchiante nei polverosi ma-
noscritti delle biblioteche, dovette all'opposto attendere
che la scienza già organizzata la riscoprisse e la rimettesse
in luee. La Commedia di Dante è l'unico poema del Me-
dioevo che abbia acquistato un posto perenne nella vita
non solo della propria nazione, ma dell'umanità, e ciò
per la medesima ragione che nel caso d'Omero. Il poema
92 LIBRO I - L ;ETÀ ARCAICA

dantesco è invero legato all'età sua, ma la profondità e


universalità della sua umanità e della sua concezione del-
!'esistenza l'elevano ad un livello cui lo spirito inglese
non giunse che con Shakespeare, il tedesco con Goethe.
Appunto in uno stadio primitivo, l'espressione poetica
d'un popolo è naturalmente legata con più stretto vincolo
all'elemento nazionale. La comprensione della sua pecu-
liarità per parte d'altri popoli e d'età poateriori è quindi
necessariamente limitata. Ciò che è connaturato col paese,
senza di che non si dà poesia vera, non si eleva a valore
universale se non là dove consegua insieme il più alto
grado di umana universalità. Quanto singolare dev'essere
l'attitudine dei Greci a cogliere e raffigurare ciò ehe tutti
unisce e su tutti ha efficacia, se Omero, che primo sorge
all'inizio della loro storia, divenne il maestro dell'uma-
nità intera.
Om.ero è il rappresentante della cultura greca arcaica.
Già lo abbiamo apprezzato quale «fonte » della nostra
conoscenza storica dehla società greca primitiva. Ma l'eter-
nare il mondo cavalleresco nell'ep-OS è qualche cosa di più
che un involontario rispecchiare la realtà nell'arte. Quel
mondo, con le sue alte esigenze e tradizioni, è la sfera
della vita superiore onde la poesia omerica ha tratto il
succo e di cui si alimenta. Il pathos dell'alto destino eroico
del combattente costituisce l'atmosfera spirituale del-
l'Iliade, e l'ethos umano della cultura e del costume ari-
stocratici anima l'Odissea, in quanto poema. La società
che aveva generato tale forma di vita era condannata a
perire; nessuna notizia storica ne fa più testimonianza;
ma la sua immagine ideale, nell'incarnazione poetica
d'Omero, rimase fondamento vivo d'ogni cultura ellenica.
Dice un verso di Holderlin: « Ma ciò che resta, è dono dei
poeti >. Esso esprime la legge fondamentale della storia
della culfura greca. Pietre del suo edificio sono le opere
dei poeti. Di grado in grado la poesia greca si riempie
CAP. ill: OMERO EDUCATORE 93

progressivamente di consapevole spmto educativo. Qui


appunto potrebbe proporsi la questione se l'atteggiamento
interamente oggettivo dell'epos sia conciliabile con sif-
fatto proposito. Nella precedente analisi dell'Ambasceria
ad Achille e della Telemachia abbiamo già mostrato con
esempi concreti come in quei canti si esprima un pro·
fondo intento educativo. Ma evidentemente il concetto
della grandezza educativa d'Omero va inteso in modo as·
sai più generale. Essa non si limita alla trattazione espressa
di problemi educativi o a passi i quali tendono a un effetto
morale. La poesia delle epopee omeriche è un'entità spi·
rituale compleBSa, che non si può ridurre ad una formula
unica, e accanto alle parti relativamente recenti, che rive-
lano un interesse pedagogico così spiccato, ve ne sono
altre, d'altro genere, il cui andamento narrativo sobria·
.mente aderente al soggetto scarta ogni idea d'un secondo
fine morale del poeta. Nel nono canto dell'Iliade e neN.a
Telemachia incontriamo un atteggiamento spirituale che,
per il suo intento d'esercitare una influenza, soggettiva-
mente consapevole e logicamente motivato, già si avvicina
all'elegia. Da questo dobbiamo ilistinguere un altro carat·
tere educativo, per così dire oggettivo, che nulla ha a che
fare con l'intento personale del poeta, ma è insito nell'in-
dole stessa del canto epico. Questo ci fa risalire, da quei
tempi relativamente recenti, sino ai primordi del genere.
Omero dipinge più volte gli antichi aedi, dalla cui
tradizione artistica è sorto I'epos. Missione del cantore è
tener vivo nella memoria della posterità il ricordo delle
«gesta degli uomini e degli dèi » 1Q). La fama, la conserva·
zione e l'incremento di essa è il vero senso del canto
eroico. Gli antichi canti epici sono spesso chiamati addi-
rittura «fama degli uomini» 11). Nel primo libro del-

10) IX 338 €py'&.v11pù>v Te: &e:ù'>v T&, Tii Te: XÀELoUCHV &.oLllol.
11). I 189, 524, ~ 73.
94 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

l'Odissea, il poeta, che predilige i nomi significativi, dà al


cantore il nome di Femio, cioè portatore di nuove, annun-
ciatore della fama. Nel nome del cantore feace Demodoco
è contenuto l'accenno alla pubblicità della sua professione.
Il cantore, appunto perché banditore della ram:a, ha il
suo poato fuso nella comunità sociale. Platone annovera
tra i begli effetti della follia inspirata dagli crei l'estasi
poetica e descrive a questo proposito il prototipo del-
poeta 12). «L'ossessione e l'invasamento che vengon dalle
Muse afferrano un'anima delicata e consacrata, la destano
e la rapiscono entusiasticamente in canti e in ogni
sorta di creazioni poetiche, ed essa, esaltando innume-
revoli gesta del passato, educa la posterità». È questa
la concezione ellenica per eccellenza. Essa sorge dall'in-
dissolubile legame di natura d'ogni poesia col mito,
memoria delle grandi gesta preistoriche, e ne deduce
la funzione sociale e formativa del poeta, il suo carattere
educativo. Questo non consiste, per Platone, in una
consapevole intenzi.one d'influire sull'uditore; ma il tener
viva la fama, come fa il canto, è già per se stesso un'at-
tività educativa.
Occorre rammentare qui quanto esp.onemmo circa
l'importanza degli. esempi insigni per l'etica aristocra-
tica omerica. Vi facemmo menzione anche del valore
educativo degli esempi attinti al mito, quali Fenice
propone ad Achille, Atena a Telemaco, per mònito o
stimolo 13). Il mito ha per se stesso questo valore norma-
tivo,_ anche senza che occorra citarlo espressamente a
modello od esempio. Non diventa esemplare soltanto
mediante il paragone di un caso qualsiasi, presentato
dalla vita, con un episodio mitico analogo, ma tale è

lll) Platone - Phaedr. 245a - stabilisce esattamente il rap-


porto tra poesia e areté, nella glori.a di cui la poesia orna le grandi
azioni degli uomini.
18) Cfr. p. 80 ss.
CAP. m: OMERO EDUCATORE 95

per sua natura. È fama, notizia delle cose grandi e su·


blimi che la tradizione riferisce del passato, non già
materia scelta ad arbitrio. Ciò ch'è eccezionale è nor-
mativo, già per il mero riconoscimento del dato di fatto.
Ma il cantore non narra soltanto fatti; egli vanta e loda
ciò che v'è al mondo di degno di lode e di vanto. Come
gli eroi d'Omero, da vivi, esigono già onore e curano
sempre di tributarsi reciprocamente il rispetto che ad
ognuno si conviene, cosi ogni vera gesta eroica agogna
eterna fama 14). Il mito, la leggenda eroica, è la riserva
inesauribile ·di modelli che la nazione possiede e dalla
quale il suo pensiero attinge ideali e norme per la
vita propria. Che tale sia l'atteggiamento d'Omero di
fronte al mito, lo dimostra l'uso di paradigmi mitici
per tutte le situazioni immaginabili dell'esistenza, in
cui un uomo si accosta ad un altro consigliando, avvi-
sando, ammonendo, spronando, vietando o coman-
dando 15). Cosa caratteristica, ciò non si riscontra nel
racconto, ma sempre nei discorsi dei personaggi epici:
ivi il mito funge sempre da istanza normativa, cui fa
appello chi parla. È dunque insito in esso qualche
cosa di universale; non ha mero carattere di fatto, seb-
bene originariamente, senza dubbio, abbia un tempo
rispecchiato eventi storici, i quali nella fantasia esorna-

1' ) Per l'alto concetto di Pindaro dell'essenza della vera poesia


cfr. p. 379 ss;
16) V. R. 0EHLER, Mythologische Exempla in der iilteren grie-
chischen Dichtung (Basilea 1925) che raccoglie gli esempi mito-
logici dell'antica poesia greca, ma forse non mette abbastanza
in rilievo il carattere normativo di questi riferimenti al mito
nelle parlate omeriche. Più tardi l'u;empio mitologico diventa
solo un elemento decorativo, specialmente se usato nella retorica
epidittica. Ma l'uso di esempi come punti di riferimento a scopo
dimostrativo si può seguire lungo tutta la storia letteraria greca.
I precetti retorici e ancor più l'uso degli autori mostra chiaramente
che nelle età più tarde e più razionali gli esempi mitologici sono
sempre più sostituiti da esempi storici, cioè l'esempio ideale cede
il posto a quello einpirico. crr; « Paideia » III, Indice dei nomi
e delle cose s. v. Paradigma.
96 LIBRO I - L'ETÀ ARCAlCA

trice della posterità assunsero, attraverso la lunga tra-


dizione è l'interpretazione esaltatrice, una grandezza
sopranaturale. Non altrimenti va inteso il legame della
poesìa col mito, che per i Greci è .legge fissa. Esso di-
pende appunto dalla derivazione della poesia dal canto
eroico, dall'idea della fama, dell'esaltazione e dell'imita-
zione degli eroi. All'infuori della grande poesia tale legge
non vale; tutt'al più il mito, quale elemento di stile
idealizzante, si t.ova frammischiato in altri generi di
poesia, come la lirica. Ma l'epos è di sua natura un
mondo ideale, e l'elemento idealità, nel pensiero greco
arcaico, è appunto rappresentato dal mito.
Ciò infiuisce, nell'epos, sino ai particolari tutti
dello stile e della struttura. Una della peculiarità ca-
ratteristiche del linguaggio poetico epico è l'uso stereo-
tipo degli aggettivi esornativi, derivato direttamente
dallo spirito originario degli antichi x.Moc ocv8p6>v. Nel
grande epos che noi abbiamo sott'occhio~ già preceduto
da una lunga evoluzione del canto eroicò, spesso l'im-
piego di tali epiteti non è più vivo, ma voluto dal con-
venzionalismo dello stile epico. I singoli aggettivi non
sono più usati sempre con significato, caratteristico,
ma per lo più sono divenuti ornamentali, elemento indi-
spensabile dell'impronta di quest'arte, fissata da secoli,
che si presenta anche là dove non occorre, o addirit-
tura disturba. Gli aggettivi sono ora divenuti un mero
ingrediente dell'atmosfera ideale in cui s'immerge tutto
ciò che tocca il racconto epico. Anche all'infuori del-
l'uso degli epiteti, nelle descrizioni e rappresentazioni,
regna questo tono laudativo, d'esaltazione e di trasfi-
gurazione. Tutto ciò ch'è basso, spregevole e brutto è
come cancellato dal mondo epico. Già gli antichi no-
tano che Omero solleva tutto, anche le cose per se
stesse più indifferenti, a quella sfera. Dione di Prusa,
il quale non poteva ancora avere chiara coscienza del
CAP. III: OMERO EDUCATORE 97

nesso intimo tra lo stile laudativo e la natura dell'epos,


contrappone Omero al rampognatore A:rchiloco e dice
che gli uomini hanno più bisogno di biasimo che di lode
per la propria educazione 16). Non tanto c'interessa qui
H suo giudizio, poiché muove da un atteggiamento pes-
simistico, diametralmente opposto all'antica educazione
aristocratica e al suo culto dei grandi esempi; vedremo
più tardi i suoi presupposti sociali diversi; ma la realtà
effettiva dello stile epico e della sua tendenza idealiz-
zatrice non può descriversi in modo più calzante che
con le parole del retore, sensibilissimo a queste cose
formali. « Omero - scrive egli - ha lodato quasi tutto,
gli animali e le piante, l'acqua e la terra, le armi e i
cavalli. A nessuna cosa, possiamo dire, egli· può passar
davanti senza lodarla e vantarla non appena la nomina.
Persino quell'unico, che ha spregiato, Tersite, egli lo
chiama oratore di bella voce».
La tendenza idealizzante dell'epos, dipendente dalla
sua derivazione dall'antico canto eroico, lo distingue
da altre forme letterarie e gli assegna il suo posto pri-
vilegiato nella storia della cultura greca. Tutti i generi
della letteratura greca sono sorti dalle forme fondamen-
tali e naturali dell'attività espressiva umana: cosi la
melica dalla canzone popolare, le cui forme essa varia
e sviluppa con arte, il giambo dall'usanza omonima
delle feste dionisiache, l'inno e il prosodion dal culto
divino, l'epitalamio dalla costumanza nuziale popolare,
la commedia dal komos e la tragedia dal ditirambo.
Possiamo ripartire le forme originarie, onde si svilup-
parono i generi della poesia artistica, in appartenenti
al culto divino, spettanti alla vita privata e spettanti
alla vita della comunità. Alle forme d'espressione poe-
tica che hanno origine privata o culturale è estraneo -

te) Dio Pr. Or. XXXIII ll.


98 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

se non altro inizialmente - il fattore educativo. Il canto


eroico, invece, è per natura sua idealizzatore, indiriz-
zato a creare modelli eroici. Esso distanzia di molto,
per importanza educativa, ogni altra specie di poesia,
appunto perché rispecchia oggettivamente la totalità
della vita e mostra l'uomo in lotta con la sorte e per il
conseguimento di un'alta mèta. Poesia gnomica ed ele-
gia calcarono le orme dell'epos, cui entrambe sono as-
sai affini anche per la forma. Lo spirito educativo del-
l'epos si trapianta in esse e più tardi anche in altri ge-
neri, come il giambo e il canto corale. La tragedia, poi,
cosi nello spirito come nel contenuto mitico, è piena-
mente erede dell'epos. Solo al suo legame con l'epos,
non già all'origine dionisiaca, deve la tragedia la sua
dignità etico-educativa. Se si aggiunge che anche le
grandi forme prosastiche che agiscono da fattori edu-
cativi, come la storiografia e la trattazione filosofica,
sono sorte direttamente dallo studio dell'epos, può dirsi
che l'epos è addirittura la radice di tutta la cultura
superiore greca.

Cerchiamo ora di mostrare l'elemento normativo


'
anche nell'intima struttura dell'epos. Due sembrano, a
prima vista, le vie. O prender le mosse dalla forma con-
chiusa dell'epos complessivo quale è, senza curarsi af-
fatto dei risultati e dei problemi dell'analisi scientifica
d'Omero; oppure scegliere una via più difficile, impi-
gliandosi fatalmente nel groviglio delle ipotesi geneti-
che. Sarebbe male così l'una come l'altra cosa; pren-
diamo quindi una via di mezzo, che rende giustizia in
massima allo studio genetico dell'epos, senza costrin-
gerci a mostrare sino ai minimi particolari come si at·
teggi l'analisi secondo il nostro criterio 1 7). In!!ostenibile

11) Accenniamo in breve ad alcuni dei più importanti libri mo-


derni sulla questione omerica: u. v. WILAMOWITZ-MOELLENDORFF,
CAP. III: OMERO EDUCATORE 99

è ad ogni modo, anche professando un agnost1c1smo


assoluto circa questi problemi, uno studio che non tenga
conto, almeno in massima, dei fatti evidenti della pre-
istoria dell'epos. Questo ci divide dall'interpretazione
omerica degli antichi, la quale, quando parla del valora
educativo del poeta, pensa senz'altro all'intera Iliade e
Odissea 18). Il tutto, evidentemente, deve restare mèt~
anche dell'interprete moderno, anche se l'analisi do-
vesse insegnargli che questo tutto non fu se non l'ulte-
riore conclusione dell'ininterrotto lavoro poetico di ge-
nerazioni intorno all'inesauribile tema. Ma chi, ad ogni
modo, tien conto - come tutti facciamo - della pos-
sibilità che l'epos in formazione si sia incorporate ver-
sioni .anteriori della leggenda in forma più o meno al-
terata, così come l'epos compiuto accolse ancora inser-
zioni, più recenti, di canti interi, dovrà tentare di raf-
figurarsi gli stadi antecedenti con la maggiore evidenza
possibile.
L'idea che ci si è fatta della natura del canto eroico
più antico deve necessariamente esercitare su ciò una

Die flias und Homer (Berlino 1916); Emcu BETBE, Homer,


Dichtung und Sage (2 voll. Lipsia 1914); GILBERT MtraRAY,
The Rise of the Greek epic (II ed. Oxford 1911). Fra i critici
unitari ricordiamo: J. A. SCOTT, The Unity of Homer (Berkeley
1921); S. E. BASSETT, The poetry of Homer (Berkeley 1938); Sir
R:rcBARD JEBB nel suo Homer (I ed. 1886) dà un'introduzione
sulla questione omerica e i suoi sviluppi nel XIX sec.; GEORG
FmsLER, Homer (II ed. Lipsia 1914-18) ha un bel capitolo sulla
storia del problema. Per l'analisi dell'Odissea v. il libro ricordato
a n; 54 del cap. precedente di questo libro. Cfr. anche C. M. BoWllA,
Tradition and Design in the Riad (Oxford 1930).
18) Non consideriamo per ora i più tardi fra i critici antichi,
quelli della scuola Alessandrina che per prinri applicarono il me-
todo analitico all'epica e distinsero quelle che essi credevano
interpolazioni più tarde, i cosidetti :;(ùlp(l;;ovnç (p. es. libro X del-
1' Iliade, la ~oÀ6>vsta:). Altri negavano che Omero fosse l'autore
di ambedue i poemi, l'Iliade e l'Odissea. Cfr. F. A. WoLF, Pro-
legomena ad Homerum (Balle 1795) CLVID. Sul metodo della
seuola Alessandrina per la tradizione omerica, cfr. anche l'opera
capitale di K. LEBRS, De Aristarchi Studiis Homericis.
100 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

influenza decisiva. Il nostro concetto fondamentale dd-


1' origine dell'epica da canti eroici antichissimi, quali
sono menzionati anche presso altri popoli come prima
forma della tradizione, ci suggerisce l'ipotesi che la
descrizione di singolari tenzoni, l' aristia, risolventisi
nella vittoria di un eroe famoso su un cospicuo avver-
sario, sia stata la forma primitiva del canto epico 19). La
narrazione di una singolar tenzone è più ricca d'inte-
resse umano che la descrizione di battaglie di masse,
cui mancano facilmente piena evidenza ed intima vi-
vezza. Anche la descrizione di combattimenti di masse
non può destare il nostro interesse se non col dare largo
sviluppo ad episodi in cui emergono singoli grandi eroi.
Ma il racconto di una singolar tenzone desta sempre un
interesse più profondo mercé l'elemento personale ed
etico, che difficilmente può svilupparsi nella descrizione
di battaglie di masse, e mercé il più forte legame in-
timo dei suoi momenti singoli con l'assieme della lotta.
Il racconto dell'aristia d'un solo eroe contiene sempre
un elemento fortemente incitativo. Episodi del genere
si trovano, sul modello epico, anche nella storiografia
posteriore; nell'Iliade costituiscono i ~omenti culmi-
nanti della descrizione della guerra. Sono scene con-
chiuse, che anche quali parti dell'epos complessivo
conservano una certa autonomia, lasciando cosi discer-
nere che furono un tempo fine a se stesse o sono cal-
cate su canti autonomi. Il poeta dell'Iliade risolve la
lotta sotto le mura di Troia nel racconto dell'ira
d'Achille e dei suoi effetti e in una serie di singolari
tenzoui autonome, come l'aristeia di Diomede (E),

19) Questa OJ)lm0".1.e fu esposta da uno dei vecchi critici che


generalmente tennero un atteggiamento scettico di fronte ai
moderiri tentativi d'analisi, G. W. NITZSCH nel suo libro Bei-
lrage zur Geschichte der epischen Poesie der Griechen (Lipsia 1862)
pp. 57, 35•,.
CAP. III: OMERO EDUCATORE 101

d' Agamennone (A), di Menelao (P), la monomachia


di Menelao e Paride (P), d'Ettore e Aiace (H), le quali
tutte dal più al meno sono episodi per se stessi impor-
tanti. In scene siffatte la stirpe cui era rivolto il canto
eroico trovava diletto, in esse ravvisava lo specchio
dei propri ideali.
Nuovo scopo artistico della grande epopea è, in-
troducendo gran numero di tali scene di combatti-
mento e collegandole a formare un'azione unitaria, non
solo di presentare, come prima si soleva, quadri parti-
colari d'un avvenimento complessivo, dato per noto,
ma di mettere in risalto tutti gli eroi famosi 20). Racco-
gliendo molte gesta e figure, in parte già celebrate in
anteriori canti singoli, il poeta crea un quadro immenso,
la lotta intorno ad Ilio come un tutto. Ciò che egli
ravvisa nella lotta è chiaramente enunciato dall'opera
sua: è un imponente agone della somma areté di tanti
eroi immortali. Non dei Greci soli, ché anche i loro
avversari sono un popolo che lotta eroicamente per la
terra natia e per la libertà. «Uno è il miglior
auspicio: combattere per la patria»: cosi fa dire Omero
non a un Greco, ma· all'eroe dei Troiani, che cade
per la sua patria e perciò assume tratti di sì calda
umanità 21). I grandi eroi degli Achei incarnano piut-
tosto l'elemento propriamente eroico. La patria, la

20) L'antica «ballata» o otµ'I), dopo un preludio, cominciava.


di solito, da un punto della narrazione scelto arbitrariamente:
lv.&ev È:Àchv ooç ot µèv focrcréÀµc.>v 1btl V'l)W\I ~civ-re:ç &7tÉ7tÀ€10\I
(.& 500). Ma non solo Demodoco, il cantore dei Feaci, comincia
così il suo canto. Anche il poeta del proemio dell'Odissea ancora
segue questa antica tecnica, quando prega la Musa di cantare
il ritornò di Ulisse ed il fato dei suoi compagni cominciando da
quel punto che le piaccia: -rwv à:µ6.&i<:v ye, .&eci, .&uycx-rep A16ç,
d7tè xcxt ijµ.!v (à.µ.6.&ev ye corrisponde a lv.&ev È:ÀGlv). Un'altra
forma per indicare il principio era: ti; ou, come in A 6 M'ìjvw
ou
&e:,3i<:, .&s:cX, II 'l)À'l)t&3e:ro 'Ax,À'ìjoç.... ti; 37j -rà: 7tpro-rot
3ta:cr-rii-r'llv èp (crcxne •••.
21) M 243.
102 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

sposa e il figlio sono motivi che si eclissano, dalla loro


parte. Si dice, sì, all'occasione, che essi mossero per
farsi render ragione del rapitore; si fa anche un tenta-
tivo di ricondurre Elena in possesso del legittimo con-
sorte mediante trattative dirette coi Troiani, ponendo
così termine allo spargimento di sangue, come era ovvio
secondo idee politiche più razionali. Ma questa le-
gittimazione resta senza importanza notevole. Ciò che,
negli Achei, incontra la simpatia del poeta, non è la
giustizia della loro causa, ma il loro eroismo risplen•
dente di luce immortale.
Sullo sfondo ondeggiante delle sanguinose battaglie
d'eroi spicca nell'Iliade un destino individuale di tra-
gicità puramente umana, la vita eroica d'Achille. La
storia d'Achille diviene per il poeta l'intimo nesso
col quale comporre le successive scene di combatti-
mento in unità poetica. Alla figura tragica d'Achille
deve l'Iliade di non essere per noi soltanto un venerando
incunabolo di preistorico spirito guerrierò~ ma anche
monumento immortale d'esperienza eternamente umana
e di dolorosa grandezza. La grande epopea non reca
soltanto un immenso progresso nell'arte, della compo-
sizione d'un insieme ampio e complesso, ma rappre-
senta ad un tempo un approfondimento dell'intimo
contenuto, un indirizzarsi al problema che solleva la
poesia eroica al disopra della sua sfera originaria, dando
al cantore una posizione spirituale affatto nuova, un
valore educativ• in senso superiore. Da banditore im-
personale della fama del passato ·e delle sue gesta,
egli diviene ora poeta in senso pieno, interprete creativo
della tradizione.
Interpretazione e creazione spirituale sono, in fondo,
una sol3 e medesima cosa. Non è difficile intendere
come la grande originalità dell'epos greco nella com-
posizione d'un tutto unitario, che gli si è sempre rico-
CAP. lII: OMERO EDUCATORE 103

nosciuta, sorga dalla medesima radice onde deriva la


sua efficacia educativa: dall'elevatezza spirituale dei
problemi che vi sono contenuti e dalla consapevolezza
dei medesimi. Il crescente compiacimento di padro-
neggiare una vasta materia, che è un tratto tipico di
quest'ultima fase di sviluppo del canto epico e si trova
presso altri popoli precisamente come presso i Greci,
di per se stesso non conduce ancora necessariamente
all'arte della grande epopea, e anche là dove ciò ac-
cade,. ·facilmente corre pericolo, in tale stadio, di de-
generare in ampie narrazioni romanzesche, dove, comin-
ciando « dall'uovo di Leda» 22) e principiando con la storia
dei natali dell'eroe, l'antica leggenda è riferita in modo
stucchevole 23). La descrizione dell'epos omerico, dram-
maticamente concentrata, che presenta sempre con evi-
denza gli avvenimenti ed entra « in medias res », non
lavora che a sobrii tratti. Invece d'una storia della
guerra di Troia o di tutta la vita eroica d'Achille, esso
dà con meravigliosa sicurezza la sola crisi, momento
di valore rappresentativo e di somma fecondità poetica,
che gli permette di concentrare la guerra decennale con
tutte le sue vicende e le sue lotte, il passato, il presente
e l'avvenire in breve spazio di tempo. Tale capacità
fu già ammirata, a ragione, dai critici d'arte dell'an-
tichità. Essa fa d'Omero, per Aristotele e Orazio, non
solo l'epico classico, ma addirittura modello supremo
di sovrana creatività poetica. Egli scaccia l'elemento
storico, smaterializza gli avvenimenti e fa che il pro-
blema si sviluppi interamente dall'intima necessità che
vi è insita.

22) Hor. ÀTll Poetica 147.


13) Questo era il modo consueto all'epica ciclica, come è descritta
da Aristotele e da Orazio. Il principio dei Nibelungi è molto simile.
Comincia a raccontare dalla gioventù degli eroi maggiori, Sigfrido
e Crimilde.
104 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

L'Iliade s'inizia nel momento in cui Achille si ri-


tira irato dalla lotta e i Greci vengono perciò a trovarsi
in gravissime difficoltà, in cui, per miopia e colpa degli
uomini, dopo anni di lotta, il frutto di tante fatiche
va perduto quando la mèta è ormai vicina; in cui,
venuto a mancare il concorso del sommo eroe, gli altri
eroi greci compiono tutti lo sforzo massimo, mostrandosi
nella più pura luce del loro valore; in cui il nemico,
incoraggiato dall'assenza d'Achille, impegna tutta la
sua tremenda forza e tiene vittorioso il campo, sino a
che ·Patroclo è indotto dalle angustie crescenti dei suoi
ad intervenire, e la sua morte per mano di Ettore ot-
tiene finalmente quanto le preghiere e l'offerta di ri-
parazione dei Greci non avevano ottenuto: Achille in-
terviene di nuovo, per vendicare l'amico caduto, uccide
Ettore, salva i Greci dalla rovina, dà sepoltura all'amico
con selvaggio lamento arcaicamente barbarico e scorge
ora vicina l'eguale sorte che l'attende. Quando Priamo
si torce innanzi a lui nella polvere, implorando la salma
del figlio, anche il cuore inesorabile del Pelide si scioglie
in lacrime, al pensiero del proprio vecchio padre,
or})ato anch'egli del figlio, mentre pur, respira.
Già lo spaventoso scoppio d'ira dell'eroe, motivante
tutta la rigorosa concatenazione dell'epopea, ci appare
nella stessa luce eccezionale che circonda da ogni lato
la su.a figura: breve e sovrumano eroismo d'un magni-
fico· giovane, che ad una vita lunga e ingloriosa nella
pace e nel godimento antepone consapevole l'ascesa
breve ed erta di un'eroica vita d'azione, il vero mega-
wpsychos, senza riguardo quindi verso l'avversario pari
suo, che tocchi l'unico frutto dei suoi sforzi, il suo onore
d'eroe 24.). Così il poema comincia senz'altro con l'incupire

") Secondo Aristotele, Eth. Nic. IV 7, il µe:ya:)..6<jiuxo.; è b µe:-


yciÀ(J)V ~a:u-ròv &~LÙ>v
&1;Loç &v, «colui che crede se stesso degno di
grandi premi e realmente Io è»; il primo di questi premi è l'onore
CAP. III: OMERO EDUCATORE 105

la splendida sua figura, e anche la fine non assomiglia al-


i'esito trionfale di un'ordinaria aristeia. Achille non si
allieta della vittoria su Ettore; il tutto termina nel
lutto inconsolabile dell'eroe, nell'atroce lamento fune-
bre dei Greci e dei Troiani intorno a Patroclo e ad
Ettore e nella tetra certezza del vincitore circa la pro-
pria sorte.
Chi desidera soppresso l'ultimo canto, o proseguita
l'azione sino alla morte d'Achille, e vorrebbe quindi
far dell'Iliade un' Achilleide o ritiene questa essere stata
l'intenzione prima, pensa storicamente, movendo dal-
1'argomento, e non, artisticamente, dalla forma, dal
problema. L'Iliade celebra la gloria della massima ari-
stia della guerra di Troia, la vittoria d'Achille sul pos-
sente Ettore, in cui la tragedia della grandezza eroica
votata alla morte si mescola alla sua, purtroppo umana,
concatenazione di destino e contributo personale. La
vera aristia vuole la vittoria dell'eroe, non la sua fine.
La tragicità che sta nel decidersi Achille a compiere
su Ettore fa vendetta di Patroclo caduto, pur sapendo
che sùhito dopo caduto Ettore è sicura la sua stessa
morte, non troverebbe il proprio compimento nel con-
tinuar dell'azione sino a tale catastrofe esteriore. Essa
serve piuttosto, nell'Iliade, ad elevare interiormente
la vittoria d'Achille, dandole maggiore umana profon-
dità. Il suo eroismo non è di quella ingenua sorta degli
antichi eroi; culmina nella scelta, consapevolmente
fatta, d'una grande gesta al prezzo prefissato della pro-
pria vita: tutti i Greci d'età più recente ~oncordano
in questa interpretazione e appunto in ciò ravvisano
la grand~zza morale e la massima efficacia educativa
dell'epos. Ma l'eroica decisione d'Achille non attinge

riservato alla vera areté. Per Achille come modello di magnllllimità


per Aristotele, v. n. 34 del cap. «Aristocrazia e aret6», p. 44.
106 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

la sua piena tragicità se non intrecciandosi col motivo


della sua ira e del vano tentativo dei Greci per pla-
carlo, giacché così il suo rifiuto stesso dà luogo all'in-
tervento e alla fine del suo amico nel momento della
sconfitta greca.
Tenendo conto di questa concatenazione bisogna
parlare addirittura d'una costruzione etica dell'Iliade.
A prospettarne partitamente e con piena evidenza le
linee occorrerebbe addentrarci nell'interpretazione, come
non possiamo far qui. Il controverso problema della
formazione delle epopee omeriche non è peraltro né
risolto d'un colpo, né soppresso dalla dimostrazione
di tale costruzione, la quale naturalmente presuppone la
unità ideale dell'opera d'arte 25). Ma anche per l'analisi è
un contravveleno salutare contro la tendenza unilate-
rale a sbriciolare il tutto, il rifarci meglio presente l'esi-
stenza di salde linee continuative dell'azione: fatto che,
appunto secondo il criterio nostro, deve emergere nella
massima evidenza. Il problema, chi sia l'autore di tale
·architettura dell'epos, può esser qui lasciato da parte.
Fosse essa già legata alla concezione originaria, o sia
stata il risultato della ulteriore elaborazione d'un poeta
più recente, nell'Iliade quale ci è pervenuta non può
assolutamente trascurarsi ed è d'importanza fondamen-
tale quanto al suo intento e alla sua efficacia.
Vogliamo chiarirlo meglio, limitandoci a qualche
punto dei più importanti. Già nel primo canto, dove si
narra la causa del dissidio tra Achille ed Agamennone,
l'offesa fatta a Crise, sacerdote d'Apollo, e il suo effetto,

») RoLA.ND IIERKENRA.TH, Der ·ethische Aufbau der flias und


Odyssee (Paderbom 1928) ha fatto una completa analisi dei due
poemi dal punto di vista etico; il che egli crede sia la via più adatta
per un giusto apprezzamento della roro composizione e arte uni-
taria. Il libro ha molte buone osservazioni. ma spinge troppo oltre
la sua tesi sopravvalutando l'importanza di questa per la questione
dell'origine dell'epica.
CAP. III: OMERO EDUCATORE 107

la collera del dio, il poeta assume un atteggiamento ben


netto. Il contegno dei due eroi contendenti è ben.si ve-
duto in seguito con tutta oggettività, ma è anche ca-
ratterizzato ben chiaramente come un eccesso fallace.
Tra loro si erge il saggio vegliardo, Nestore, incarna-
zione della sophrosyne. Egli ha vedute tre generazioni
di mortali e a coloro, tutti accesi del presente, parla
come dall'alto di un trono delle loro effimere agitazioni.
La figura di Nestore tiene in equilibrio tutta la scena.
Già in questa esposizione cade la parola pregnante Ate 26).
All'acciecamento d'Agamennone, l'offensore, si accom·
pagna nel canto nono, ben più pernicioso nei suoi ef·
fotti, quello d'Achille, che «non sa cedere» 27 ), ma si
ostina ciecamente nell'ira sua, oltrepassando così i li-
miti umani. Egli stesso lo dice, quando è troppo tardi,
pentito. Ora maledice la propria collera, che lo in-
dusse ad essere infedele alla sua missione d'eroe, a star-
sene in ozio e a sacrificare l'amico diletto 28). Del pari
Agamennone, riconciliandosi con Achille, deplora il
proprio accecamento in un'ampia similitudine circa i
fatali effetti di Ate28). 11 concetto dell'Ate, come quéllo
della Moira, in Omero è ancora prettamente religioso;
essa è un agente divino, cui l'uomo difficilmente può sot·
trarsi. Pure, specialmente nel canto nono, l'uomo nelle
sue azioni appare, se non signore del proprio destino,
almeno, in un certo senso, inconsciamente cooperante
a foggiarlo. V'è certo una profonda necessità spirituale
nel fatto che precisamente i Greci, per i quali l'uomo
che agisce eroicamente è la cosa più alta, hanno sentito

") V. A 411-412 per l'Ate di Agamennone. Agamennone


stesso ammette la sua Ate in I 116. Achille è ammonito di
guardarsi da Ate, da Fenice in I 510-512.
27) Hor.. od. I 6, 6.
29 ) .T 56 ss.
28) T 86 ss., 137.
108 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

così demonicamente il tragico pericolo dell'acciecamento,


ravvisandovi l'eterno contrapposto dell'agire e dell'osare,
laddove la rassegnata saggezza asiatica lo scansa rifu-
giandosi nell'inazione e nella rinuncia. La massima
eraclitèa ij0oç &:v.&pC:mcp 3oc:tµ6>v è il punto d'arrivo di
quella via della conoscenza del destino umano, sulla
quale per primo s'incamminò nell'Iliade il creatore
della figura d'Achille.

In tutto Omero si manifesta una larga veduta « fi-


losofica» della natura umana e delle leggi eterne che
reggono il corso del mondo.-Nulla v'è d'essenziale nella
vita umana, che non sia contenuto in quella. Piace al
poeta considerare anche il caso singolo al lume della
sua conoscenza generale dell'essenza delle cose. La pre-
dilezione della poesia greca per l'elemento gnomico, la
propensione a commisurare tutto ciò che accade ad una
norma superiore, il muovere del suo pensiero da pre-.
messe universali, l'uso frequente d'esempi· mitici quali
tipi e ideali di validità universale, tutti questi tratti
hanno in Omero la loro origine prima. Della concezione
dell'uomo propria dell'epos non v'è si~holo più me-
raviglioso delle figurazioni sullo scudo d'Achille, che
l'Iliade(~ 478 ss.) descrive ampiamente. Efesto vi raffi-
gurò la terra, il cielo e il mare, il sole instancabile e la luna
piena e tutte le costellazioni che inghirlandano il cielo.
Vi fece inoltre l'immagine di due belle città degli uomini.
Nell'una v'erano nozze, banchetto. corteo e canti nu~
ziali; giovinetti che danzavano in giro al suono del
flauto e della lira, donne che stavano sulle porte a guar-
dare ammirate; popolo adunato sulla piazza del mer-
cato, dove si svolgeva una contesa giudiziaria: due
uomini ,erano in lite circa la multa da pagare per un
omicidio, e i giudici sedevano in sacro cerchio sulle
pietre lisce, lo scettro in mano, e pronunciavano la sen-
CAP. IIl: OMERO EDUCATORE 109

tenza. Intorno all'altra città stavano accampati due


eserciti di guerrieri, splendenti nell'armi, che volevano
distruggere o saccheggiar la città; ma gli abitanti non
si arrendevano ancora, anzi ponevano donne, fanciulli
e vecchi a difesa sui merli delle mura, e gli uomini
uscivano di soppiatto, si ponevano in agguato in riva
a un fiume dov'era l'abbeverata del bestiame, e piom-
bavano su un armento. Ne sorgeva presso il fiume una
battaglia coi nemici sopraggiunti, s'incrociavano in aria
i giavellotti, e nella mischia si vedevano incedere Eris
e Kydoimos, i demoni della guerra, e Ker, il demone
della morte, dalla veste sanguigna, trascinava via per
i piedi, nel tumulto, feriti e morti. Accanto v'era un
campo; gli aratori, coi loro buoi aggiogati, segnavano i
solchi in su e in giù, e sul ciglione, dove davan di volta,
un uomo, per ristoro, versava loro del vino in una coppa.
Poi era raffigurato un podere dove si faceva il raccolto:
i mietitori impugnavano i falcetti, le spiche cadevano
a terra ed erano messe in manne, e il padrone assisteva
tacito e lieto in cuor suo, mentre gli araldi appresta-
vano un banchetto. Una vigna dove si faceva lieta ven-
demmia, un superbo armento di cornuti buoi con pa-
stori e cani, un pascolo in una bella valle con pecore
e stabbi e stalle, un ballo dove fanciulle e giovanetti
danzavano tenendosi per mano e un divino canto!'e
cantava accompagnandosi col liuto, compivano questo
quadro esauriente della vita umana e dei suoi eterni
momenti, semplici e grandi. E tutt'all'intorno, sull'orlo
dello scudo rotondo, scorreva l'Oceano.
La perfetta armonia della natura e della vita umana,
che appare nella descrizione dello scudo, regna dap-
pertutto nella concezione omerica della realtà. Dap-
pertutto lo stesso grande ritmo funge da elemento uni-
ficatore nella piena del movimento. Non v'è giorno
così . traboccante d'umano tumulto, che il poeta di-
110 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

mentichi d'osservare come il sole sorge e tramonta


su quell'agitazione, come al lavoro e alla lotta della
giornata tien dietro la stanchezza e, la notte, il sonno
che scioglie le membra avvolge i mortali. Omero non
è né naturalista, né moralista. Né si abbandona al-
l'esperienza caotica della vita senza trovare stabilità
di fronte ad essa, né la domina dall'esterno. Le forze
morali sono per lui così reali come le energie fisiche.
Egli coglie oggettivamente, con occhio acuto, le pas-
sioni umane; ne conosce il demonico impeto elemen-
tare, .che è più forte dell'uomo e lo trascina. Ma, se
anche spesso la corrente loro straripa, torna sempre
ad esser rattenuta da saldi argini. I supremi limiti
etici sono per Omero, come per i Greci in generale, leggi
dell'essere, non convinzioni d'un mero dover essere 30).
Sul fatto di compenetrare il mondo di tale ampliato
senso della realtà, al cui paragone ogni mero « rea-
lismo» appare irreale, si fonda l'efficacia sconfinata
dell'epos omerico. ·
All'approfondimento del tema sotto l'aspetto gene-
rale e di necessità naturale si riconnette, in Omero,
l'arte della motivazione. Egli non conosce mera accet-
tazione passiva di tradizioni né semplice narrazione di
fatti, ma soltanto sviluppo interiormente necessario
dell'azione di fase in fase, nesso indissolubile tra causa
ed effetto. Sin dal primo verso, in entrambe le epopee,

80) La coscienza dell'obbligo morale nella fo:rma di ixl8wt;,


vsiu;cnt;~xixì..6v, ixlaxp6v ecc. esiste, naturalmente, anche in Omero.
t l'aspetto soggettivo della morale. Ma nello stesso tempo la
natura della moralità umana appare come conformità alla strut-
tura intinia della realtà oggettiva, tanto nell'epica quanto nella
riftessio4e dei poeti più tardi su questo problema. Per il concetto
di dilce in Solone, v. pp. 267 ss.; la dilce nella filosofi.a naturale di
Anassimandro, p. 298 ss.; la morale nei Sofisti e la sua relazione
con la «legge di na~a », p. 551 ss., 556 ss.; l'armonia di So-
focle p. ·481 s.
CAP. m: OMERO EDUCATORE 111

la drammaticità del racconto si svolge con perfetta


continuità. « Musa, narra l'ira d'Achille e la sua contesa
con l' Atride Agamennone. Qual dio -fece che si affron-
tassero così ostilmente ? » La domanda dà nel segno
come un dardo. Il racconto dell'ira d'Apollo, che segue,
limitato rigorosamente ai tratti essenziali, che indicano
la causa della sventura, è posto all'inizio dell'epos come
l'eziologia della guerra peloponnesiaca nella storia di
Tucidide. L'azione non si distende come una fiacca
successione temporale: vale per essa, in ogni punto, -il
principio di ragion sufficiente, ogni evento riceve rigo-
rosa motivazione psicologica.
Ma Omero non è un autore moderno, che faccia
svolgere ogni cosa soltanto interiormente, quale espe-
rienza o fenomeno di una coscienza umana. Nel mondo
in cui egli vive, nulla accade di grande senza l'intervento
di una potenza divina; cosi è quindi anche nell'epos.
L'inevitabile onniscienza del poeta narratore non si
manifesta in Omero col fare ch'egli parli anche dei
moti più segreti dell'intimo dei suoi personaggi, quasi
che si fosse trovato egli stesso al posto loro, come sono
costretti a fare i nostri sc:r!-ttori; egli invece scorge dap-
pertutto i nessi tra l'umano e il divino. Non è sempre
agevole indicare il limite dove tale concezione della
realtà diventa in Omero mera forma di rappresentazione
poetica. Ma certamente è del tutto errato il definir
sempre l'intervento degli dèi un mero artificio epico.
Il poeta non vive ancora in un mondo di voluta illusione
artistica, dietro il quale stia la nuda spregiudicatezza
e la banalità dell'esistenza quotidiana. Nella maniera
in cui gli dèi intervengono nelle epopee omeriche si
sente chiaramente un'evoluzione spirituale da un inter-
vento più esteriore ed isolato, che dovette essere anti-
chissimo nello stile epico, ad una costante direzione in-
terna della persona singola per parte d'una divinità,
112 LIBRO I - L'ETÀ ARCAlCA

al modo che Odisseo è guidato da Atena mediante sem-


pre nuove inspirazioni 31).
Anche per il pensiero religioso e politico dell'an-
tico Oriente gli dèi sono sempre, è vero, coloro che agi-
scono, e non nella poesia soltanto. Sono essi, in realtà,
a produrre e fare tutto ciò che. gli uomini compiono e
subiscono, nelle epigrafi regali dei Persiani, Babilo-
nesi ed Assiri o nella profezia e nella storiografia dei
Giudei. Sempre è in gioco l'interesse degli dèi; essi si
schierano con l'una o con l'altra parte, secondo che
vogliono ripartire il proprio favore o badare al proprio
interesse. Ognuno chiama responsabile il proprio dio
del bene e del male che gli tocca e tutte le inspirazioni,
come ogni successo, sono opera sua. Anche nell'Iliade
gli dèi sono divisi in due campi~ È un modo di pensare
arcaico; ma altri tratti sono recenti, come lo sforzarsi
del poeta di salvare al possibile, al disopra della di-
scordia in cui la lotta per Ilio ha piombati anche gli
dèi, la lealtà di questi tra loro, l'unità del loro operare
in grande e la stabilità della loro repubblica divina.
Causa ultima d'ogni . evento è il decreto di Zeus. Anche
nella tragedia d'Achille, Omero scorge il compimento
del suo supremo volere 32). Gli dèi sono chiamati passo
passo a motivare l'azione. Ciò non contradice all'inter-
pretazione naturale e psicologica dei medesimi fatti. La

81) Non si può certamente dire che il ricorso ad un motivo


divino, cosi usato dai poeti dell'Iliade e dell'Odissea, sia fin da
principio o divenga gradualmente un semplice artificio meccanico
della tecnica epica. Ci sono bensi dei passi in cui l'intervento
divino opera come un deus ex machina (p. es. quando Atena trasfor-
ma Ulisse in un giovane o in un mendicante per occultarlo), ma
in tutta l'Odissea appare lo sforzo consapevole di dare un nuovo
significato religioso a questo convenzionale mezzo epico. Cosi il
principio della guida divina è applicato in tutta l'Odissea anche
piit costantamente che nell'Iliade.
32) A 5 d~òc; 3'h-eJ..e(e"o i;ouJ..1). Qui la volontà di Giove
è data come causa ultima proprio nei primi versi del poema.
CAP. III: OMERO EDUCATORE 113

considerazione psicologica e la considerazione metafi-


sica d'un medesimo avvenimento non si escludono af-
fatto, anzi la loro coesistenza è, per il pensiero omerico,
cosa naturale.
L'epos ne riceve una singolare duplicità d'aspetto.
L'ascoltatore deve considerare ogni azione ad un tempo
sotto il rispetto umano e divino. La scena di questo
dramma è propriamente a due piani; noi segniamo
continuamente gli eventi sotto la specie dell'azione ed
intenzione umana e sotto quella delle superiori dispo-
sizioni che governano il mondo. È ovvio come le azioni
umane debbano quindi necessariamente apparire nella
loro limitatezza, miopia e dipendenza da imperscru-
tabili sovrumani decreti, giacché agli umani attori tali
nessi non sono visibili come all'occhio del poeta. Basta
pensare all'epopea latino-cristiana e germano-cristiana
del medioevo, che non conosce dèi quali forze motrici
e non concepisce quindi tutti gli eventi se non dal
lato soggettivo del loro accadimento, come mera atti-
vità umana, per misurare la sua differenza dalla conce-
zione poetica della realtà che si ha in Omero. L'intrec-
ciarsi degli dèi alle azioni e alle s_o:fferenze umane co-
stringe il poeta greco a veder sempre l'azione e la
sorte dell'uomo nel suo valore assoluto, a inquadrarla
sempre nella concatenazione universale e a commisu-
rarla a supreme norme religiose e morali. L'epos greco
è di concezione più oggettiva e più complessa che
l'epica medievale. Solo Dante, anche qui, gli è in mas-
sima paragonabile dimensionalmente. 33). L'epos contiene
già in germe la filosofia dei Greci 34). D'altra parte, di

&a) V. P· 91.
84) L'epica di Omero ha questo in comune con la filosofia
greca, che, nell'una e nell'altra, la realtà è presentata nella sua
totalità: il pensiero filosofico la presenta in forma razionale, mentre
l'epica la mostra in forma mitica. Quale sia la «posizione del-
114 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

fronte alla cosmologia puramente teomorfa dell'Oriente


e alla sua concezione dell'accadimento, secondo la quale
la sola divinità agisce e l'uomo non è che oggetto,
appare in luce vivissima il carattere antropocentrico
del pensiero greco. Omero conferisce nel modo più
deciso all'uomo e alla sua sorte un interesse preminente,
ma lo considera sempre secondo la prospettiva delle
idee universali e dei problemi della vita più alti 35).
Nell'Odissea tale peculiarità della struttura spiri-
tuale dell'epos greco si manifesta in modo ancor più
spiccato che nell'Iliade. L'Odissea è un'opera di un'epoca
il cui pensiero era già in alto grado razionalmente e
sistematicamente ordinato. Se non altro, l'insieme del
poema quale è giunto a noi fu compiuto in un'età sif-
fatta e ne crea evidenti le tracce. Quando due popoli
si fanno guerra, invocando con sacrifici e preghiere
l'aiuto dei propri dèi, questi vengono sempre a tro-
varsi in una situazione difficile, almeno · secondo una
concezione per la quale ampiezza d'azione illimitata e giu-
stizia imparziale appartengono all'essenza del potere di·
vino. Vediamo così nell'Iliade un pensiero religioso e
morale già progredito, alle prese col prol;>lema di come
conciliare il carattere originario della maggior parte

l'uomo nell'universo», cli.e è il .tema classico della filosofia greca.


è anche presente ogni momento in Omero. V. la descrizione
dello scudo di Achille, p. 108 s., che rispecchia perfettamente questa
universalità e completezza della visione omerica della vita e
areté umana.
36) Visto sullo sfondo dd. concetto orientale sulla vita, il punto
di vista di Omero è antropocentrico ed umanistico, in questo
senso della parola. Ma d'altra parte si deve a:lfermare che esso
non è solamente umano, e se lo paragoniamo alla interpretazione
antropocentrica della realtà propria del più tardo soggettivismo,
p. es. dei Sofisti del V sec., esso appare decisamente teocentrico.
Omero riporta ogni cosa umana a una onnipresente forza e norma
divina. Pfàtone rimette in equilibrio I due elementi nella sua
filosofia. Cfr. il mio Humanism and Theo'Wgy (Aquinas Lectnre
1943, Marquette University Press, Milwankee, Wis.) p. 46 ss.,
54 ss. e tutto il II volume di «Paideia».
CAP. ID: OMERO EDUCATORE 115

degli dèi, piuttosto particolare o localmente circoscritto,


con l'esigenza d'un governo del mondo unitario e ra-
zionale. L'affinità ed umanità degli dèi greci allettava
una stirpe, che nel suo alto orgoglio aristocratico si sen-
tiva d'origini eguali agl'immortali a raffigurarsene la
vita e le azioni, con naturalezza e senza eccessivo
distacco, al modo della propria robusta esistenza ter-
rena. Con questa immagine, di cui tante volte, col
loro astratto bisogno di elevatezza, si scandalizzarono
filoso~ posteriori, contrasta nell'Iliade un sentimento
religioso, la cui rappresentazione della divinità, e special-
mente della personalità del supremo signore del mondo,
ha dato nutrimento alle più sublimi idee dell'arte e
della filosofia greca ulteriori. Ma nell'Odissea per la prima
volta troviamo una costante maggior coerenza e fina-
lità nell'azione degli dèi.
L'invenzione del consiglio degli dèi al principio del
primo e del quinto canto, è, sì, presa dall'Iliade, ma
il divario tra le scene tumultuose sull'Olimpo, spet-
tanti all'Iliade, e il dignitoso . concilio d'inabbordabili
personalità sovrumane nell'Odissea, salta agli occhi~
Nell'Iliade gli dèi rischiano. di venire alle mani, Zeus
impone la propria sovranità con le minacce 36), dèi usano
contro dèi mezzi più che terreni, per ingannarli o
sventarne il potere 37). Lo Zeus che presiede il consiglio
degli dèi al principio dell'Odissea è la coscienza uni-
versale filosoficamente purificata. Egli inizia il suo
esame 38) del caso presente ponendo in modo generalis-
simo il problema dell'umana sofferenza e accennando
al nesso indissolubile tra destino e colpa 39). Questa teo-

36) Di questo l'esempio più singolare e sconcertante è nella


minaccia di Zeus in @ 5-27.
n.
37) Il più. famoso esempio è la .Ò.LÒ~ &miT7], XIV. '
38) a; 32 ss. .
88) V. anche p. 270 e la mia interpretazione dei versi omerici
cc 32 ss. nel saggio Solons Eunomie, ivi citato (n. 41).
116 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

dicea aleggia su tutto il poema. Per il poeta la somma


divinità è una potenza onnisciente, superiore ad ogni
pensiero e ad ogni azione dei mortali. Essa è, nella
sua essenza, spirito e pensiero. Non è paragonabile
alla miope passione che fa uscir di strada l'uomo e lo
fa incappare nella rete dell'Ate. Le sofferenze d'Odisseo
e la tracotanza (iJ~p~c;) dei Proci, espiata con la morte,
sono presentate dal poeta sotto questo aspetto etico-
religioso. L'azione si svolge con perfetta unità, dal
problema cosi posto, sino al termine.
È conforme alla natura di questo romanzo che la
coerenza della superiore volontà direttiva, la quale alla
fine conclude tutto giustamente e felicemente, si affacci
palese nei momenti culminanti dell'azione. Il poeta
stesso inquadra tutto quanto avviene nel sistema
di relazioni del suo pensiero religioso: ne· viene ad
ogni figura la sua posizione ben defì.nita. Tale rigo-
roso organamento etico è prohabilmenie opera sol-
tanto dell'ultima fase dell'elaborazione p·oetica della
leggenda d'Odisseo 40). All'analisi si offre qui un com-
pito che attende tuttora d'esser risolto: intendere nel
suo sviluppo storico il sorgere di questa, versione eti-
cizzante del tema dagli strati primitivi, per quanto
è dato ancora coglierli. Oltre all'idea generale eti-
co-religiosa, quale domina nelle grandi linee la forma
definitiva dell'Odissea, si manifesta un'attraentissima
molteplicità di concezioni, il ·meraviglioso-favoloso,
l'idillico, l'eroico, l'avventuroso, ma in nessuna di tali
specie si esaurisce l'effetto del poema. E se in ogni età
se ne sentì l'unità e la severa economia costruttiva
come uno dei suoi pregi maggiori, essa si fonda appunto
sul disegno generale del problema etico-religioso che
vi .si sviluppa.
'°)- Cfr. quello che è detto a p. 75 ss., specialmente nelle note,
sul disegno dell'Odissea e sulla sua origine nella forma attuale.
CAP. III: OMERO EDUCATORE 117

Ma non tocchiamo qui che un lato di un fenomeno


ben più vasto. A quel modo che Omero inquadra la
sorte dell'uomo nella grande cornice degli accadimenti,
in un mondo rigorosamente definito, così egli colloca
le sue figure tutte e sempre nell'ambiente che loro
spetta. Non prende mai astrattamente l'uomo di per se
stesso, soltanto interiormente; tutto si fa ai suoi occhi
immagine compiuta della vita concreta. Le sue figure
non sono meri schermi che a quando a quando si destino
ad espressione drammatica, si sollevino ad effetti straor·
dinari o si ergano in atteggiamenti nei quali tornino
poi a un tratto a fissarsi. Gli uomini d'Omero sono
così reali, ·che ci sembra poterli vedere con gli occhi
e toccar con mano. E come sono perfettamente coerenti
nei loro atti e pensieri, così la loro esistenza è in in-
tima relazione col mondo esterno. Prendiamo Pene·
lope: quali effetti non avrebbe tratti da questa figura
un bisogno maggiore d'intensità lirica di sentimenti, di
intensi atteggiamenti espressivi ? Ma tale atteggiamento
è naturalmente difficile da sostenere a lungo, tanto per
lo spettatore quanto per il soggetto. I personaggi
d'Omero restano sempre naturali ed esprimono piena·
mente, in ogni momento, se stessi e la propria indole;
possiedono una pienezza di carattere, una totalità cli
riferimenti incomparabile. Penelope è ad un tempo la
massaia nella sua casa, la moglie abbandonata del-
l'uomo scomparso angustiata dai pretendenti, la pa·
drona delle serventi, delle fedeli e delle proterve, la
madre ansiosa dell'unico figlio che custodisce. Ed ecco
il vecchio fido porcaro, sul quale si può sempre con·
tare; il decrepito padre d'Odisseo nel suo piccolo e
un po' misero ritiro lungi dalla città; il padre di lei
è lontano e non può darle aiuto. Tutto ciò è tanto
semplice e necessario; e in questa cerchia di relazioni
l'intima logica del personaggio si espande in una tran·
118 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

quilla efficacia plastica. Il segreto della forza plastica


delle figure omeriche si fonda sul fatto ch'esse sono
collocate nello stabile sistema di coordinate d'un am-
biente di evidenza e chiarezza matematiche 4l.).
In fin dei conti la capacità e il bisogno, che ha
l'epos omerico, di rappresentare il mondo cui descrive
come un cosmo totale che riposa su se stesso, dove il
fattore durata e ordine bilancia quello del mutamento
impetuoso e dell'evento fatale, trae origine da una pri-
mordiale determinatezza formale dello spirito greco.
Per l'osservatore moderno rimane un prodigio inspie-
gabile come tutte le forze e le tendenze caratteristiche
della grecità, che si affermarono nel suo ulteriore svol-
gimento storico, si presentino già chiaramente prefor-
mate in Omero. Quest'impressione si attenua natural-
mente considerando i poemi isolatamente. Solo consi-
derando in blocco Omero e i Greci dei tempi posteriori,
ne emerge la spiccata affinità. Essa ha sua ragione pro·
fonda nelle occulte qualità ereditarie dellà razza e del
sangue. In presenza di esse cogliamo ad un tempo ciò
che è conforme e ciò che è estraneo, e appunto nella
nozione di questa necessaria diversità ,di ciò che è
affine sta la fecondità del nostro contatto col mondo
greco.. Ma, al disopra del momento della nazionalità e
della razza, per noi afferrabile soltanto col sentimento e
intuitivamente, che si mantiene stranamente immutato
nelle sue proprietà fondamentali attraverso ogni tra-
sformazione storica dello spirito e attraverso ogni vi-

") Mi viene a proposito di dir qui che non è stato scritto ancora
su Omero un libro come ·quello di RlcHARD HEINZE, Vergila
epischa Technik o come il bello studio di H. W. PRESCOTT, Vergil's
À11 (che è stato ispirato dal libro del Heinze). Ma buone osserva-
zioni di questa indole si trovano nel libro di S. E. BASsETr, The
Pae&Ty of Hom6T (Berkeley 1938).
CAP. III: OMERO EDUCATORE 119

cenda, non dimentichiamo l'immensa influenza storica


che il mondo umano ben definito d'Omero non poté
non esercitare su tutti gli ulteriori sviluppi della sua
nazione. Soltanto per esso, unico patrimonio originario
panellenico, pervennè questa all'unità della coscienza
nazionale, e cosi esso diede impronta decisiva a tutta
la cultura greca ulteriore. ·
CAPITOLO QUARTO.

ESIODO E IL POPOLO CONTADINO

Accanto a Omero i Greci collocavano, come loro se-


condo grande poeta, il beota Esiodo. Con lui ci si
schiude una sfera sociale ben diversa dal mondo del-
l'aristocrazia e dalla sua cultura. Soprattutto il più re-
cente e paesano dei due poemi d'Esiodo che ci restano,
gli Erga, dà il quadro più perspicuo della vita del ceto
contadino nella madrepatria greca sul finire del se-
colo VIII e reca un complemento essenziale alle nostre
nozioni circa la vita del popolo greco nel periodo più
remoto, ricavate da Omero, :figlio della Ionia. Impor-
tanza specialissima ha poi quest'opera per la cono-
scenza dell'evoluzione della cultura greca. Se Omero
mette anzitutto in piena luce il fatto fondamentale
che ogni cultura muove dalla formazione di un tipo
d'umanità aristocratica, che sorge col promuovere vo-
lutamente le qualità dell'eroe e signore, in Esiodo si
rivela la seconda grande sorgente della cultlU'a: il va-
lore del lavoro. Il titolo « Opere e Giorni», che i po-
steri diedero al poema gnomico d'Esiodo, lo dice per-
fettamente. Non solo la lotta dell'eroe cavalleresco con
l'avversario che l'osteggia in campo, ma anche la lotta
silenziosa e tenace del lavoratore con la dura terra e
con gli elementi ha il suo eroismo e promuove qualità
di valore eterno per la formazione dell'uomo. Non per
122 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

nulla la Grecia diede i natali a un'umanità nella quale


la stima del lavoro ha un saldo posto. La vita spensierata
della classe dominante in Omero non deve illuderci
che questo paese non abbia sempre indirizzati al lavoro
i propri abitanti. Lo dice Erodoto a proposito di paesi
e popoli più ricchi 1 ): « In Grecia la povertà fu sempre
di casa, ma vi si aggiunge l'areté. Essa è dovuta alla
saggezza e a forti leggi. Sua mercé l'Ellade ripara alla
povertà e alla schiavitù». Il suo territorio traversato
da montagne, con le tante anguste valli e contrade
segregate, ove mancano quasi affatto grandi e continue
pianure coltivabili, quali offre il Nord dell'Europa, co-
stringe i Greci ad una lotta continua col suolo, per
strappargli l'estremo prodotto possibile. L'allevamento
del bestiame e la coltivazione dei campi rimasero sem-
pre per i Greci il genere più importante e tipico d'oc-
cupazione umana. Sulla costa soltanto prevalse più
tardi la navigazione 2); negli antichi tempi l'agricol-
tura fu senz'altro la condizione prevalente.

1) Ber. VII 102.


2) Le famose parole di Orazio Illi robur et aes triple:i: circa pectus
erai sono una tarda eco (che si coglie anche in altri autori latini)
dell'antico senso greco dei pericoli della navigazione. Forse Orazio
segue un carme greco per noi perduto. Nell'epoca di Esiodo i
viaggi per mare erano ancora considerati come contrari alla volontà
degli dèi. È vero che troviamo nelle Opere e Giorni una parte
dedicata interamente ai viaggi in mare (vocu't'LÀbJ), 618-694, che
stabilisce, tuttavia, che essi devono essere limitati alla stagione
più adatta cioè la tarda estate e il principio dell'autunno, perch6
in questa stagione non è grave il pericolo di uragani e naufragi:
ma il navigante badi di non restare lontano dalla patria :finch6
l'uva sia matura e comincino le burrasche del tardo autunno.
Anche la primavera .è stagione di viaggi in mare, ma il poeta
non l'approva e lascia questa opinione agli altri. Il testo dei
manoscritti delle Opere e Giorni, deve essere con;otto al verso
682 perch6 ela:pw6ç è una debole ripetizione della stessa parola
al v. 678, dove è a suo posto. Lo Heyer ha proposto à.pya:Àéoç
al v. 682 e la congettura, come tale, è certo soddisfacente. Il poeta
non approva il nÀ6oc;, in primavera, perch6 esso è &pna:x-r6c;,
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 123

Ma Esiodo non ci presenta soltanto per se stessa la


vita dei contadini della madrepatria: ravvisiamo in lui
anche l'influenza della cultura aristocratica e del suo
fermento spirituale, la poesia omerica, sulle classi in-
feriori della nazione. Il processo formativo della cultura
greca si svolge non solo mediante l'accettazione unila-
terale del costume e della mentalità creati da una classe
privilegiata per parte degli altri elementi della popo-
lazione: ogni cet".l vi reca anzi il proprio contributo. Il
contatto con la cultura superiore, che il ceto contadino,
ottuso e rozzo, riceve dalla classe dominante, desta in
esso la più viva reazione. Il rapsodo, che recitava i
poemi omerici, era fatto per essere in quell'epoca tra-
smettitore dei valori più elevati della vita. Nei noti
versi del proemio della Teogonia, Esiodo narra la sua
vocazione alla poesia: come, pascendo il suo gregge,
da semplice pastore, ai piedi dell'Elicona, vi ricevesse
un giorno l'inspirazione delle Muse e, dalle loro mani,
il bastone cli rapsodo S). Ma il rapsodo d'Ascra, dinanzi

altro epiteto difficile, ma evidentemente genuino che vuol significare


che l'uomo rapisce dalle mani degli dèi questa possibilità precoce,
ma rischiosa, di navigare: &p7tiil;:oua~ 7tÀ6ov (cfr. v. 320). Cfr.
il mio articolo su &p7tiil;:e:w e &pmxyµ6ç nella Epistola di S. Paolo
ai Filippesi in« Hermes» I (1915) pp. 537-553. È da notarsi che
gli abitanti della città giusta di Esiodo non devono navigare
affatto, cfr. Opp. 236 e Theog. 869-877.
3 ) Hes. Theog. 22-34. Il poema comincia con la lode delle
Muse dell'Elicona, vv. 1-21, e poi prosegue: «esse un tempo insegna-
rono a Esiodo il bel canto, mentre pascolava gli agnelli ai piedi
del sacro Elicona, e queste parole le dee mi dissero»; il poeta
riporta poi le parole delle Muse dicendo come esse strapparono
e gli diedero una verga e lo ispirarono col dono del canto. Dal-
l'improvviso passaggio dalla terza alla prima persona singolare
è stato concluso che Esiodo non deve essere la stessa persona
che dice di se stesso« lo» negli ultimi versi. Questo ci condur-
rebbe a considerare Esiodo come un famoso poeta anteriore al-
i'autore della Teogonia. E a questa conclusione è giunto p. es.
HUGH G. EVELYN - WHITE nella sua edizione di Esiodo in «Loeb
Classica) Library» (Londra 1936) p. xv. Anche nell'antichità
classica ci sono assertori di questa ipotesi; giacché Pausania
124 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

alla folla ascoltante nei villaggi, non propagò soltanto


il vivido splendore dei versi d'Omero. Tutto il suo pen-
siero aveva profonde radici nel terreno fecondo della
schietta vita campagnola, e là dove, per esperienza vis-
suta, oltrepassava la funzione di mero Omerida e tro-
vava la forza d'una creazione propria, ivi gli fu con-
cesso dalla Musa di mettere in luce i genuini valori
propri della vita contadina, facendone patrimonio spi-
rituale della nazione intera.
Possiamo raffigurarci chiaramente lo stato delle cam-
pagne ai tempi d'Esiodo, in bàse alla sua descrizione.
Per quanto non sia lecito generalizzare senz'altro le
condizioni della Beozia presso un popolo così vario
come il greco, esse tuttavia sono certo largamente ti-
piche. Detentori del potere e della cultura sono i si-
gnorotti della nobiltà, ma i contadini hanno inoltre
una notevole indipendenza spirituale e giuridica. Non
si parla di servitù della gleba, e nulla indica nemmeno
lontanamente che quei liheri agricoltori e ,allevatori di
bestiame, viventi del lavoro delle proprie braccia 4),
discendano da una classe soggiogata nel periodo delle
migrazioni, come è il caso per esempio nella Laconia.
Essi convengono ogni giorno al mercato' e nella ì..foX.YJ

IX 31, 4 nota che alcuni studiosi sostenevano che !'Opere fos-


sero l'unico poema di Esiodo. A me è impossibile associarmi a
questa opinione, che, a mio credere, deriva da incomprensione
del cambiamento dalla terza persona alla prima. piuttosto naturale
nel proemio di un libro, nel quale deve esser detto il nome del-
l'autore. Certo non poteva dire «lo sono Esiodo». Anche un
autore del V sec. può mettere il suo nome in terza persona
in un periodo a sé «Tucidide di Atene, ha scritto la storia ecc. »
e poi può continuare: «poiché io non credo i tempi più antichi
molto importanti..•• (où µe:y&.Àa: voµL~w ye:vécr&a:L)».
') Anche i contadini hanno degli schiavi (8µwa:ç); cfr. Opp.
597. Ma a v. 602 Esiodo parla anche di lavoratori che sono ar·
ruolati solo per il raccolto e poi licenziati. Cfr. Wn.A.MOWITZ,
Hesiodos Erga (Berlino 1928) 110.
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 125

e discutono i propri affari pubblici e privati 5). Si cri-


tica francamente la condotta dei concittadini e anche
dei nobili signori, e « ciò che la gente dice» ( <p~µ '"IJ) è
d'importanza decisiva per la riputazione e la riuscita
delle persone d'umile stato. Questo ceto non può af-
fermarsi e procacciarsi considerazione se non in folla 6).
Ad occasione esteriore del suo poema gnomico
Esiodo prende il processo col fratello Perse, scansafa-
tiche avido e litigioso, che amministra malamente la sua
parte di eredità paterna e torna ora ad accampar nuove
pretese. La prima volta vinse corrompendo i giudici 7).
La lotta tra la forza e il diritto, sulla quale il pro-
cesso ci apre uno spiraglio, evidentemente non è sol-
tanto un caso ·personale del poeta. Egli si fa ad un
tempo portavoce degli umori dominanti tra i contadini.
Anche cosi resta assai grande il suo ardire nel rinfac-
ciare ai signori « divoratori di doni» avidità e uso bru-
tale del proprio predominio 8). La sua descrizione non è
conciliabile con l'immagine ideale della patriarcale si-
gnoria dei nobili quale si trova in Omero. i!: ovvio che
vi furono anche prima siffatte condizioni e il malcon-
tento ch'esse generano; ma·per Esiodo il mondo degli
eroi è un'altra epoca, migliore del presente, « età fer-
rea», com'egli la descrive a fosche tinte negli Erga 9).

5) Clr. Hes. Opp. vv. 493 e 501, dove dice che il «locale riscal-
dato» (hi:ctÀlji; ÀéaJ(1)) è il posto favorito degli oziosi, specialmente
d'inverno, quando il freddo li tiene lontani dai lavori dei campi
') Cfr. i vari detti proverbiali sull'importanza di « ciò che
dice la gente» (t.p1]µ1)) Opp. 760, 761, 763.
7) Opp. 27-39, 213 ss., 248, 262.
a) Opp. 39, 221, 264.
9) La tradizione seguita da Esiodo distingueva l'età dell'oro,
dell'argento, del bronzo e del ferro, ma fra l'età del bronzo e quella
del ferro Esiodo inserisce l'età eroica, quella descritta da Omero.
Egli pensa che essa sia stata immediatamente precedente alla
sua età, cioè a quella del ferro. È. ovvio che questa è una invenzione
secondaria, escogitata per introdurre nella descrizione anche il
mondo omerico, che per Esiodo era reale come il suo stesso mondo
126 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Nulla caratterizza meglio il senso della vita totalmente


pessimistico del popolo lavoratore, che la storia delle
cinque età del mondo, che incominciano con l'età del-
l'oro sotto il regno di Crono per condurre via via, con
progressione discendente, sino al basso livello in cui
giustizia, costume e felicità umana versano nel duro
presente. Aidos e Nemesi, velandosi, hanno lasciata la
terra per far ritorno tra gli dèi dell'Olimpo: agli uomini
non hanno lasciato che pene e discordia senza fine 10).

Da un ambiente siffatto non sorge alcun puro ideale


di cultura umana, come invece nelle condizioni, più
propizie, date dal tenor di vita dell'aristocrazia ome-
rica. Tanto più importa la questione, in qual misura
la popolazione abbia partecipato al patrimonio spiri-
tuale della classe dominante e allo svilupparsi della cul-
tura aristocratica in civiltà comprendente la nazione
intera. Essenziale è il fatto che la campagna non è
ancora oppressa e posta sotto tutela dalla città. La
cultura arcaica feudale è in massima parte campa-
gnola e legata alla terra. La campagna non è ancora
sinonimo di arretratezza spirituale, non si J:Jrisura con me-
tro cittadino. «Villano» non significa ancora «rozzo» 11).
Infatti anche le città dei tempi antichi, specie nella
madrepatria greca, sono principalmente centri campa-
gnoli e tali per lo più sono rimaste. Dappertutto nelle
campagne fioriscono ancora costume vivo, schietto pen-
siero, pia fede, cosi come ogni anno i campi traggono
nuovi frutti dal profondo della terra, e non v'è ancora

contemporaneo. Esso non si adattava bene nella serie delle suc-


cessive età dei metalli che gradatamente degenerano. Esiodo
spesso fonde varianti diverse dei miti o agginnge di testa sua.
10) Opp. 197-201.
ll) Questo è il significato preso più tardi dalla parola greca
&;ypoixoç. Cfr. il tipo di uomo descritto sotto qnesto nome in
Teofrasto, char. IV.
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 127

civiltà urbana livellatrice, né un pensiero bell'e fatto12),


che schiacci inesorabilmente tutto quanto è originale
e ingenuo.
Naturalmente tutta la vita spirituale superiore viene,
nelle campagne, dalla classe superiore. Nelle residenze
dei nobili l'epos omerico fu dapprima cantato da can-
tori girovaghi, come già trovasi descritto nell'Iliade e
nell'Odissea. Ma anche Esiodo, che è cresciuto in· am-
biente contadino ed ha lavorato da contadino, crebbe
già nella conoscenza d'Omero: non lo ha conosciuto
soltanto quando si è fatto rapsodo di professione. La
sua poesia si rivolge anzitutto a uomini del suo stato,
ed egli può contare che i suoi ascoltatori intendano il
linguaggio letterario dell'epos omerico, ch'egli usa. Nulla
rivela così chiaramente come la struttura della poesia
esiodea l'indole del processo intellettuale avviato dal
contatto di questo ceto con la poesia omerica. In quella
si rispecchia la formazio11.e interiore del poeta. Tutto
ciò che Esiodo atteggia a poesia assume, come cosa
ovvia, la forma già fissata da Omero. Vi s'infiltrano
versi interi ed emistichi, parole e locuzioni tolti da
Omero. L'uso d'epiteti epici appartiene pure all'arma-
tura ideale che la lingua d'Esiodo prende dall'omerica.
Ne viene un contrasto singolare ·tra il contenuto e la
forma della nuova poesia. Eppure la ·sobria esistenza
dei contadini e dei pastori, legata alla terra, evidente-
mente abbisognò appunto di questo elemento non po-

U) bi « Paideia » III 298-307 si mostra come, anche nel


tempo in cui la città pensava che la vita di campagna volesse
dire mancanza di cultura, Senofonte, in tutti gli scritti e più
di tutto nell'Economico, esprime un'opinione del tutto differente.
Però l'idea che ha della vita campestre. un gentiluomo di cam-
pagna non è quella di un pastore o di un contadino, quella, cioè,
che Esiodo esprime nei suoi Erga. Ciò che Senofonte ed Esiodo
hanno in comune e ciò che li separa entrambi dall'idillio bucolico
dei poeti ellenistici è laspetto del tutto realistico e privo di
romanticismo che ha per essi la vita campestre.
128 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

polare, ch'essi dovettero attingere dall'esterno, da un


mondo culturale loro radicalmente estraneo, per ele-
vare le loro nuove impressioni, le velleità e i sentimenti
indistinti loro propri, alla chiarezza consapevole e allo
slancio etico senza di che questi non sarebbero mai stati
in grado di giungere a un'espression6 convincente. Il
contatto con la poesia omerica, per l'uomo del mondo
esiodeo, non significa soltanto un immenso accresci-
mento di mezzi espressivi formali: ad onta dell'estra-
neità da lui dello spirito eroico-patetico, con la precisione
e la chiarezza con che sono còlti in Omero i sommi pro-
blemi della vita umana, esso gli apre una via d'uscita
intellettuale dall'angustia opprimente della propria dura
esistenza, verso un'atmosfera di pensiero più libera 13).
I poemi d'Esiodo ci fanno intravecJere ancora con
una certa chiarezza che cosa, all'infuori d'Omero, co-
stituisse pure un patrimonio intellettuale vivo per i
contadini della Beozia. Nella grande massa leggendaria
della Teogonia, su quanto ci è noto attraverso Omero
spicca abbondante materia antichissima, che qui sol-
tanto veniamo a conoscere, sebbene non sempre si
possa distinguere che cosa preesistesse in, forma poetica
e che cosa non fosse altro che tradizione orale. Senza
dubbio il pensiero costruttivo d'Esiodo è particolar-
mente forte appunto nella Teogonia; più vicini, invece,
gli Erga al ceto contadino reale e alla sua vita. Anche
qui, tuttavia, Esiodo può interrompere a· un tratto
il corso del suo pensiero e narrare lunghi miti nella
certezza di far cosi effetto sugli ascoltatori li). Anche

1 •) Cfr. il fenomeno parallelo dell'influenza di Omero sulla


forma e la lingua dei poeti elegiaci e lirici, pp. 177 ss., 226, 237-
240.
14.) Chi pensa che la Teogonia e .gli Erga siano opera di due
diversi poeti (efr. n. 3), non vede che gli Erga si comprendono
.•ppieno solo sullo sfondo di un vivente pensi.ero mitico, che è
qnello della Teogonia, .e che non esprime più l'atteggiamento
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 129

per il popolo il mito è oggetto d'immenso interesse;


suscita narrazione e riflessione senza fine, comprende
tutta la filosofia di quegli uomini. E già nell'inconscia
scelta della materia leggendaria si esprime la menta-
lità particolare dei contadini. Sono evidentemente pre-
diletti quei miti che esprimono la concezione pessimi-
stica e realistica di qu~sta classe o trattano le cause
dei travagli sociali che gravano su di essa: il mito di
Prometeo, nel quale Esiodo trova risposta al problema
della ragione di tutta la pena e il lavoro della vita
umana; il racconto delle cinque età del mondo, che
spiega il gran distacco tra la propria esistenza e lo
splendido mondo omerico e riflette l'eterna aspirazione
dell'uomo a tempi migliori; e il mito di Pandora, dal
quale traspare un apprezzamento crudo e malevolo
della donna quale causa d'ogni male, estraneo alle
concezioni cavalleresche 15). Difficilmente andremo er-
rati nel ritenere che non fu Esiodo a rendere per
primo popolari queste storie tra i suoi compatrioti,
sebbene egli certo per primo le collocasse cosi risoluta-
mente nel vasto complesso di filosofia sociale in cui
sono ora comprese nel suo poema, Ma il modo in cui
egli riferisce, ad esempio, la storia di Prometeo e di
Pandora, presuppone già chiaramente che siano note
agli ascoltatori 1 6). Rispetto a questa tradizione leggen-

puramente oggettivo di Omero davanti alla tradizione mitica,


ma lo ravviva con imo spirito nuovo, quasi filosofico.
15) Hes. Opp. 81 ss., cfr. Theog. 585 ss. e 591 ss.
16) Si veda con quale debole legame è introdotta la storia
del vaso di Pandora ( nC.&oc;). Esiodo non la racconta, ma presup-
pone che i suoi uditori la conoscano. Critici di altri tempi conclusero
da tali indizi che tutta la parte riguardante il 7tl.&oc; fosse una
interpolazione posteriore, opera di un rapsodo che trovò strana
la mancanza di questa parte della storia. Ma io spero che questa
opinione non abbia oggi più seguaci. Similmente, la causa della
collera di Zeus, il tradimento di Prometeo contro gli dèi al convito
sacrificale di Mecone, .non è raccontata, a v. 48 degli Erga, ma
130 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

daria religiosa ed etico-sociale, nell'ambiente esiodeo


passa in seconda linea l'interesse per la leggenda eroica
predominante nell'epos omerico. Nel mito ha preso
corpo l'atteggiamento primitivo dell'uomo di fronte
all'essere; perciò ogni ceto ha il proprio patrimonio
di leggende.
Ma il popolo custodisce .inoltre la propria antichis-
sima saggezza pratica; acquistata mediante l'esperienza
d'immemorabili e anonime generazioni, ora consigli e
nozioni professionali, ora norme etiche e sociali, con-
densate in brevi sentenze affinché s'imprimano facil-
mente nella memoria. Esiodo ha tramandata nei suoi
Erga una gran quantità di tale prezioso patrimonio.
Tali parti dell'opera, con la loro lingua serrata, spesso
originale nei suoi atteggiamenti, sono tra le più riuscite
poeticamente, per quanto le grandi esposizioni d'idee
della prima parte siano personalmente e storicamente
più interessanti. V'è in questa seconda parte tutta la
tradizione del popolo contadino, antiche regole circa
l'economia domestica e il matrimonio, circa le coltiva-
zioni nelle varie stagioni, una meteorologia con norme
per la giusta successione dei modi di vestire e regole
di navigazione. Tutto ciò è chiuso tra suc~ose massime
morali, comandamenti e divieti in principio e in fine.
Abbiamo qui anticipato, parlando della poesia d'Esiodo,
sebbene non si tratti per ora che di mettere in evidenza
gli svariati elementi culturali del ceto contadino, cni
si rivolge la sua poesia. Ma essi si trovano talmente
squadernati nella seconda parte degli Erga, che non
v'è che da coglierli. La forma, il contenuto e l'ordina-
mento loro li fanno riconoscere immediatamente per

solamente-vi si accenna. In Tb.eog. 535 ss. questa parte del mito


è svolta completamente; così l'accenno dell'altro poema rimanda
alla Teogonia, come avviene per altri passi degli Erga. Cfr. n.
25.
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 131

retaggio popolare. Abbiamo qui il perfetto contrappeso


alla cultura dell'aristocrazia. All'educazione e alla sag-
gezza popolare è ignota una formazione univoca del-
l'uomo nella totalità della sua personalità, larmonia
tra il corpo e la mente, la valentia universale nelle
armi e nella parola, nel canto e nell'azione, come ri-
chiede l'ideale cavalleresco 17). Qui invece un'etica le-
gata alla terra si compenetra con nativa vigoria col
contenuto materiale della vita, da secoli immutato, e
col quotidiano lavoro professionale. Il tutto è più rea-
listiuo -e più vichi.o alla terra, sebbene senza uno scopo
ideale superiore.

Soltanto con Esiodo vi si aggiunge l'ideale- che di-


venta il punto di cristallizzazione di tutti codesti ele-
menti -e permette loro di assumere figura di poesia in
forma d'epos: l'idea del diritto. Dalla sua lotta per il
proprio diritto contro le sopraffazioni del ·fratello e
contro la venalità dei giudici aristocratici si sviluppa
l'appassionata fede nel diritto che anima il suo poema
più personale, gli Erga. La grande novità è che il poeta,
in quest'opera, parla in persona propria. Sacrifica la
tradizionale oggettività dell'epos e si fa banditore egli
stesso della dottrina che l'ingiustizia è maledetta e la
giustizia benedetta. Per motivare quest'ardito inter-
vento diretto, Esiodo muove immediatamente dalla sua
contesa giudiziaria col fratello Perse 18). È lui, ch'egli
apostrofa, lui al quale rivolge le sue esortazioni. Cerca,
con parole sempre nuove, di convincerlo che Zeus pro-
tegge il diritto anche quando i giudici terreni lo sfor-
zano e che il mal acquisto non fa prò. Ma anche ai

17) Cfr. pp. 36-37. Per il concetto di areté in Esiodo, vedi


pp. 146-147.
18) Opp. 27 ss.
132 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

giudici, possenti signori, si rivolge poi col racconto


dello sparviero e dell'usignolo, e in altri luoghi ancora 19).
Ci troviamo trasportati con tanta vivacità nella situa-
zione del processo, nello stadio precedente l'ultima deci-
sione giudiziaria, che è facile indursi all'erronea opi-
nione che Esiodo parli in pieno processo e che gli
Erga siano un'opera di circostanza, d'origine affatto
momentanea. Cosi infatti ritennero numerosi interpreti
recenti. Sembra corroborarlo il fatto che non si fa mai -
parola dell'esito della lite. È mai possibile - si ar-
gomentò - che il poeta lasci gli ascoltatori nell'in-
certezza a questo proposito, se la decisione è già avve-
nuta ? Si cercarono quindi nel poema i riflessi del
processo reale. Si cercarono persino mutamenti di situa-
zione, che infatti si credette anche di trovare, e, di con-
seguenza, si risolse in una serie di « mòniti a Perse» 20)
temporalmente staccati, l'opera, che a noi riesce dif-
ficile sentire come un tutto unitario, data la sua com-
posizione arcaicamente rilassata. Così. la teoria Lach-
manniana dei canti fu trasferita dalla critica omerica
alla poesia gnomica d'Esiodo. Riesce tuttavia ostico il
conciliare con questa interpretazione dell'attualità del
poema quelle ampie parti che sono di 'natura pura-
mente gnomica e nulla hanno a che fare con la lite
giudiziaria, ma in cui il discorso è egualmente rivolto
al fratello P~rse e che gli danno ammaestramenti,
come il calend_ario dell'agricoltore e del navigante e
le sue raccolte di sentenze morali che vi si connettono 21).

18) Opp. 202 ss.


• 0) E questo il titolo dell'opera di AnoLF Kn!CHHOFF già
ricordata (Hesi.odos' Mahnlieder an Perses, Berlino 1889) in cui
egli applicò all'opera di Esiodo lo stesso metodo che aveva usato
nell'analisi dell'Odissea.
21) Questa parte del poema comincia al v. 298, dopo le famose
parole sulla areté e la miglior via per arrivarci (286-297). Esse
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 133

E che influenza dovrebbero avere sul corso d'un pro-


cesso reale gl'insegnamenti religiosi e morali, d'into-
nazione del tutto generale, circa il giusto e l'ingiusto,
contenuti nella prima parte ? Qui ci giova soltanto am-
mettere che il prender le mosse dal caso concreto -del
processo, il quale evidentemente fu a suo tempo d'im-
portanza capitale nella vita d'Esiodo, non è nel suo
poema se non la forma artistica di cui egli riveste il
suo discorso per conferirgli efficacia. Senza di essa non
sarehh~ possibile il discorso in prima persona, né l'ef-
fetto drammatico della prima parte ?12). Ed essa si af-
ciava da sé, giacché il poeta aveva realmente vissuta
con quella tensione intima la lotta per il proprio di-
ritto. Se il processo non è narrato sino alla fine, è solo
perché la realtà di fatto nulla importava ai fini della
poesia gnomica 23).
A quel modo che Omero -rappresenta come un
dramma di dèi e d'uomini la sorte degli eroi che lot-
tano e soffrono, cosi Esiodo sente lo svolgimento sem-
plicemente civile della sua lite come lotta delle potenze
celesti e terrene per la vittoria del diritto. Egli inalza
cosi levento reale della sua vita, per se stesso insigni-
ficante, all'eccelso livello e alla dignità di vera epopea.
Certo, non può, come Omero, collocare in cielo i propri
uditori, ché nessun mortale può conoscere la futura

sono come un secondò proemio, o passaggio alla seconda parte


degli Erga, puramente didascalica.
2 •) Troviamo la stessa forma arcaica di composizione nella
raccolta delle poesie di Teognide, che comincia con la descrizione
generale della situazione politica di Megara al tempo del poeta
e a questa breve prima parte aggiunge la lunga serie di precetti
morali che costituiscono il nucleo dell'opera. Cfr. p. 360 ss.
••) Un passo importante per capire la struttura degli Erga
e rendersi ragione della loro unità è stato fatto da P. FRIEDLAlIDER
in « Hermes » XLVIII 558. La sua posteriore analisi in « Gott.
Gel. Anz.» 1931 non era apparsa prima della stesura completa
di questo capitolo.
134 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

decisione di Zeus circa lui medesimo e il suo caso.


Egli non può che invocare Zeus nelle sue preghiere,
affinché protegga il buon diritto. Perciò il poema in-
comincia con l'inno e con la preghiera. Zeus, che umilia
i potenti e inalza i deboli, deve far che sia retta la
sentenza dei giudici 24) ; il poeta stesso assume la parte
attiva in terra: vuol dire il vero a1 fratello Perse, tra·
viato, e distoglierlo dalla perniciosa via dell'ingiustizia
e del litigio. Anche Eris è, si, una divinità cui gli uomini,
sebbene a malincuore, debbono pagare il loro tributo;
ma oltre alla Eris maligna ve n'è una benigna, che non
eccita lite, bensì emulazione 25 ). Zeus le ha assegnata

24) Pausania IX 31, 4 dice di aver visto sul monte Elicona.


presso la fonte, un'antica tavola di piombo nella quale erano
incisi gli Erga di Esiodo, senza però il proemio con l'invocazione
a Zeus. Questa forma può essere stata presa da qualche edizione
ellenistica. Il peripatetico Prassifane, scolaro di Teofrasto e i
critici Aristarco e Cratete pensavano che questo proemio fosse
un'aggiunta.. Cfr. le testimonianze in RZACH, editro maior, p. 127.
A loro si sono uniti alcuni critici moderni. KoNRAT ZIEGLER in
« Archiv fiir Relig.» XIV (1911) 392 ss. cerca appunto di provare
che il proemio degli Erga è scritto nello stile caratteristico del
V sec., con tutte le figure retoriche il cui uso, in artificiosa promi-
scuità, è generalmente attribuito a Gorgia: antitesi, isocolon e
isoteleuto. Ma questo argomento può valere in senso inverso
perchè ciò che troviamo nel proemio di Esiodo 'è un inno regolare
di fattura schiettamente arcaica. La somiglianza con lo stile di
Gorgia conferma solo le: tradizione, secondo la quale la retorica
in principio cercava di gareggiare con la poesia per quanto riguarda
la forma. Cfr. Arist. Rhet. III 1,9. Più esattamente si può dire
che lo stile di Gorgia séguiva strettamente l'antica forma poetica
dell'inno. Il proemio di Esiodo è uno dei pochi documenti antichi
di questo genere che possediamo. Come ho mostrato in Solons
Eunomie ( « Sitz. Berl. Akad. » 1926 p. 83), questa forma fu copiata
da Solone al principio del VI sec. nella elegia politica 'Hµe:Tépa:
8.è 'lt6ÀLç. Infatti nella seconda parte, questa elegia si svolge grada-
tamente in un vero inno a Eùvoµla:, che, naturalmente, deve
esser considerata dea potente, come ~LXlj nella prima parte della
poesia. Le due dee sono sorelle nella Teogonia di Esiodo, v. 902.
Il proemio de·gli Erga è una lode di Dike e di Zeus, suo protettore,
ed è elemento essenziale, nel punto in cui si trova, come da molto
tempo hanno dimostrato in modo convincente il Lisco e il Leo.
2•) L'introdurre una seconda buona Eris opposta alla Eris
cattiva della tradizione può essere solo interpretato come una
correzione del poeta a se stesso, una specie di palinodia., come
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 135

la sua dimora nelle viscere della terra 26). Essa incita


al lavoro colui che nulla possiede e se ne sta neghit-
toso, quando vede con invidia il successo del vicino
che si affatica onestamente e riesce a qualche cosa.
E qui il poeta si volge a Perse, per metterlo in guardia
dalla mala Eris. Solo il ricco può abbandonarsi a
un'oziosa litigiosità, con pieni i granai e non avendo
da preoccuparsi per la propria esistenza; egli può ben
insidiare gli averi d'estranei e sciupare il suo tempo
aJ mercato. Esiodo esorta il fratello a non mettersi
una seconda volta su tale via, ma ad accordarsi seco
senza processo, ché da un pezzo -hanno diviso l'eredità
paterna e Perse si è già preso più che non gli spettasse,
cattivandosi con doni il favore dei giudici. « Stolti,
non sanno quanto loro calzi il detto: la metà è -più
dell'intero, e quale benedizione stia sin nell'erba più
vile che la terra fa crescere per l'uomo, nella malva
e neJl'asfodelo » 27). Così il poeta volge sempre l'ammo-
nimento al fratello dal caso concreto al generale. E già
il principio fa intravedere come, per Esiodo, il mònito
contro il litigio e l'ingiustizia e la fede incrollabile
nella tutela del diritto per parte della potenza divina
si colleghi con la seconda parte positiva del poema,
la dottrina del lavoro dell'agricoltore e del marinaro
e le massime circa ciò che è bene l'uomo faccia o non
faccia 28). Il legame è dato dall'idea-base dell'opera: il

quella famosa di Stesicoro. Esiodo si riferisce evidentemente a


Theog. 226, dove egli conosce solo la cattiva Erinni. Il modo con
cui comincia a oùx &pcx µ.oùvov &lJv 'Epl8wv y&voi; chiaramente
lega la nuova idea di una buona Eris con un precedente pensiero
da correggersi. In questo senso &pcx con l'imperf. è usato spesso
in Omero.
26) Sull'interpretazione delle «radici della terra» in Opp. 19,
cfr. p. 296, n. 31.
27 ) Opp. 40.
28) La lode de lavoro (&pyov, èpyck~e:a.&ot,) apre la seconda
parte degli Erga, vv. 298-316.
136 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

nesso tra giustizia e lavoro. L'Eris benigna, con la


sua pacifica emulazione nel lavoro, è l'unica potenza
che esista sulla terra contro il prevalere dell'invidia
e della discordia. Il lavoro è, sì, un grave onere per
l'uomo, ma è una necessità; e a chi, mercé sua, riesce
a vivere, sia pure stentatamente, esso reca tuttavia
più felicità che l'ingiusta avidità dei beni altrui.
Questa esperienza della vita si fonda per il poeta
sulle leggi eterne che reggono il mondo, che Esiodo,
in quanto pensatore, riconosce nella rappresentazione
religiosa del mito 29 ). Già in Omero si trovano spunti
di una interpretazione filosofi.ca di singoli miti. 11 pen-
siero, peraltro, non vi si è ancora applicato sistematica-
mente, secondo tale direttiva, alla tradizione mitica;
Esiodo non osa farlo che nell'altra sua grande opera,
la Teogonia. La leggenda eroica infatti, ben difficil-
mente poteva esser oggetto di speculazione cosmologica
e teologica; la leggenda degli dèi, invece, le offriva
ricco alimento. La sete di causalità che si veniva de-
stando trovava qui appagamento nell'edificio sapiente
d'una sistemazione completa della genealogia degli dèi.
Ma anche i tre concetti essenziali d'una dottrina ra-
zionale del divenire del mondo si trov~no visibilmente
nelle mitiche rappresentazioni, comprese nella Teogonia,
del caos, spazio vtioto, della terra e del cielo come
base e tetto del mondo, che il caos separa, e dell'Eros
quale primordiale forza cosmica, creatrice di vita. Tetta
e cielo sono entità costitutive per ogni rappresentazione
mitica del mondo; quanto al caos, lo troviamo anche
nel mito nordico: è dunque evidentemente patrimonio
originario della razza indogermanica 30). Ma l'Eros di

29) Sull'armonia della vita umana con le leggi dell'universo


in Omero, cfr. pp. 109 e 113.
30) Il greco Chaos è il gingargap della saga nordica. Chaos
deriva da xcicrxro, che corrisponde al germanico gapen.
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 137

Esiod_o è un'idea speculativa di conio originale e d'im-


mensa fecondità filosofica 31). Nella titanomachia e nella
dottrina delle grandi dinastie divine il suo pensiero
teologico lavora a costruire uno sviluppo razionale del
mondo, in cui oltre alle forze inferiori, telluriche e
atmosferiche, della natura, vengano a inquadrarsi anche
le forze etiche. Il pensiero della Teogonia non si accon-
tenta dunque di coordinare le divinità riconosciute,
oggetto di culto, non si attiene all'elemento dato per
tradizione nella religione corrente, ma, al contrario,
pone i dati della religione nel senso più ampio - culto,
tradizione mitica e interiorità personale - al servizio
d'un sistematico ripiegamento della fantasia e dell'in-
telletto sulle origini del mondo e della vita umana.
Tutte le forze operanti vi sono rappresentate quali po-
tenze divine, conforme questo stadio di sviluppo in-
tellettuale. È ancora una concezione mitica ben viva,
che ci si presenta qui in forma d'una poesia già pie-
namente individuale. Ma quale importanza direttiva
e formatrice abbia l'elemento razionale in questo si-
stema mitico, lo dimostra il fatto che viene oltrepas-
sata la cerchia degli dèi di Omero e del culto, e viene
operato il passaggio dalla mera registrazione e combina-
zione della tradizione religiosa all'interpretazione crea-
trice e alla libera invenzione di nuove cosiddette per-

3 1 ) La teoria di Esiodo su Eros fu ripresa da Eschilo (Danaidi


fr. 44) e dai filosofi presocratici come Parmenide ed Empedocle.
Quest'ultimo chiama la stessa forza <plÀLCC e 'Aq>poS[-r'IJ. Anche
Platone nel Simposio fa affermare al medico Erissimaco l'esistenza
di un principio universale a cui dà il nome e la natuxa di Eros.
Nella MMafisica di Aristotele si parla di un Eros delle forme mate-
rializzate che le spinge a realizzare in se stesse la forma immateriale
che egli chiama Dio. In un senso più naturalistico Lucrezio nel
proemio al I libro del De rerum natura chiama questo principio
col nome empedocleo di Venus (=' Acpp0Sh11). Dal concetto plato-
nico ed aristotelico di Eros si arriva in linea diretta ai Neoplatonici
e al cristiano Pseudo-Dionigi l'Areopagita, che cerca di riconciliare
l'Eros pagano con P Agape cristiana, considerandoli ambedue come
138 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

sonifì.cazioni, che danno appagamento al bisogno del


pensiero astratto che si viene destando 32).
Bastino questi pochi accenni a dare lo sfondo dei
miti degli Erga, introdotti da Esiodo per spiegare la
necessità della fatica e del lavoro nella vita umana e
l'esistenza del male nel mondo. Appare qui, come già
nel racconto introduttivo della mala e della buona
Eris 33), che Teogonia ed Erga, non ostante la diversità
dell'argomento, per il poeta non stanno semplicemente
autonome l'una accanto all'altra, ma che il pensiero
dell'Esiodo teologo trapassa in quello dell'etico, così
come nella Teogonia, inversamente, si rivela già chiaro
l'etico. Entrambe le opere sorgono dall'intima unità
della concezione del mondo d'una medesima persona-
lità. Il pensiero informato a causalità della Teogonia
è applicato da Esiodo, nella storia di Prometeo degli
Erga, al problema pratico, morale e sociale del lavoro.
A un certo momento il lavoro e la pena dovettero
affacciarsi nel mondo, ma nel perfetto ordinamento
divino delle cose non poterono aver fondamento sin
da principio. Esiodo ravvisa la causa nell'azione fatale
di Prometeo, ch'egli considera sotto una luce affatto
morale, nel furto del fuoco divino 34). Per pnnizione
Zeus creò la prima donna, l'astuta Pandora, la proava
del sesso femminile. Dal vaso di Pandora sfuggirono

forza divina e universale. Le teorie dell'Eros universale passano


da questi pensatori a Dante e ai filosofi scolastici, e ai poeti del
sec. XIX che ravvivano questo concetto.
32) Il pensiero di Esiodo merita una nuova interpretazione
più coerente di quella invalsa finora. La sua azione nella presenta-
zione della tradizione mitologica, come appare nella sua opera,
deve essere definita più chiaramente. Aristotele - Met. II 4, 1000
a 18 - lo· chiama uno di quelli che ao9E~ov't"cu µu1hxwc; ed è
questa la miglior definizione di Esiodo data finora.
33) Cfr. p. 134 s.
") Opp. 41 88.
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 139

i demoni della malattia, della vecchiaia e mille altri


malanni, che popolano ora la terra e il mare 35).
Il mito è trasfigurato, sforzandolo arditamente, se-
condo la nuova idea speculativa del poeta, e portato
in posizione siffattamente centrale. L'applicarlo nel bel
mezzo dei ragionamenti generali degli Erga corrisponde
all'uso paradigmatico del mito nei discorsi dei personaggi
dell'epos omerico 36). Questa ragione dei due ampi «in-
nesti» o « divagazioni» mitiche che s'incontrano nel
poema esiodeo non è stata apprezzata a dovere; essa
è ugualmente importante per intendere e il contenuto,
e la forma. Gli Erga sono un unico grande discorso
d'insegnamento e d'ammonimento, precisamente come
una elegia, poniamo, di Tirteo o di Solone, per forma
e atteggiamento psicologico, si riallaccia direttamente
ai discorsi dell'epos omerico 37). Gli esempi mitici vi
sono perfettamente a posto. Il mito è come un orga·
nismo, la cui anima si trova in via di perpetuo rinno-
vamento e mutamento. Chi produce tale mutamento
è il poeta; ma, ciò facendo, egli non obbedisce soltanto
al proprio arbitrio. Il poeta è creatore d'una nuova
norma di vita per l'età sua ed interpreta il mi~
base a questa nuova norma e viva certezza interiore.
Il mito non si mantiene in vita se non mercé l'inces-
sante metamorfosi della sua idea, ma la nuova idea
poggia sul veicolo sicuro del mito. Ciò vale già per la

86) Il consiglio di Zeus di dar vita alla prima donna, e come


fu eseguito, è narrato da Hes. Opp. vv. 56-105. Sul mondo senza
fatica e senza male, prima della impresa di Prometeo, v. ib. 90-92
38) Cfr. pp. 70 e 80 ss. e note.
37) I commentatori non hanno notato che gli Erga (dopo la
preghiera a Zeus che termina con le parole « ma io voglio dire
la verità a Perse») mostrano nella caratteristica formula introdut-
tiva oòx. &pa: µouvov ~lJV, di essere modellati su formule iniziali
di discorso omeriche. Se si capisce questo, si capisce tutto il piano
del poema.. È un « discorso» esortatorio ingrandito a dimensioni
epiche. Ricorda da vicino il discorso esortatorio di Fenice in I.
140 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

posizione del poeta di fronte alla tradizione nell'epos


omerico; in Esiodo, poi, diviene molto più evidente
ancora, ché qui l'individualità del poeta ci è rimasta
ben riconoscibile nei motivi originali del suo pensiero,
presentandosi essa per la prima volta consapevolmente
quale individualità e facendo, con tanta evidenza, della
tradizione mitica lo strumento del proprio intento in-
tellettuale.
Quest'uso normativo del mito è reso anche più evi-
dente dal fatto che Esiodo, negli Erga, colloca imme-
diatamente accanto alla storia di Prometeo il racconto
delle cinque età del mondo, con la seguente formola di
transizione, breve, quasi informe, ma molto caratte-
ristica del senso in cui questo è addotto 38) : « Ma, se
vuoi, anche una seconda storia ti compirò con arte sino
al culmine. E tu prenditela a cuore ! ». Apostrofare
Perse per l'appunto qui, al trapasso dal primo al se-
condo mito, era necessario per far presente all'ascol-
tatore il fine attuale d'ammaestramento· dei due rac-
conti, in apparenza così digressivi. La storia dell'.età
dell'oro e dei tempi posteriori, sempre peggiori, deve
dimostrare come gli uomini in origine st,essero davvero
meglio d'ora e vivessero senza fatica né dolore. Essa
serve di spiegazione al mito di Prometeo. Che i due
miti, a prenderli per realtà, si escludano reciprocamente,
è cosa di cui Esiodo non si cura: fatto specialmente
caratteristico per la sua concezione del tutto ideale
del mito. Quale causa della crescente infelicità degli
umani Esiodo cita la presunzione e la stoltezza cre-
scenti, il cessante timor di Dio, la guerra e la violenza.
Nella quinta età del mondo, quella del ferro, nella
quale il poeta lamenta di dover vivere egli stesso, non
impera più che il diritto del più forte. Solo i malfat-

38) Opp. 106.


CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 141

tori possono ancora reggersi. La terza storia che E§iodo


presenta è la favola dello sparviero e dell'usignolo.
Egli l'indirizza espressamente ai giudici, possenti si-
gnori. Lo sparviero rapisce l'usignolo, il « cantore», e
al suo lamento pietoso il ladrone pennuto, nel rapirlo
in aria tra i suoi artigli, risponde 39) : « Infelice, che giova
il tuo gridio ? Ora ti ha in sua balia uno più forte di
te, e tu mi seguirai dove voglio. Sta in me solo divo-
rarti o lasciarti andare». Esiodo chiama questa para-
bola animalesca un ai1U1s 40). Favole siffatte furono
sempre care al popolo. Esse assolvevano nel pensiero
popolare un compito analogo a quello del paradigma
mitico nei discorsi dell'epos: contengono una verità
generale. Anche !'es.empio mitico si chiama ancora
ainos i.Il Omero e in Pindaro. Solo più tardi questo
concetto si restrinse alla favola animalesca. Nel voca-
bolo si esprime la validità che si riconosce al consiglio
dato. Ainos non è dunque la sola favola animalesca
dello sparviero e dell'usignolo 41.); questa non è che il
paradigma, ch'egli presenta in ispecie a1 giudici; vero
ai1U1s è anche la storia di Prometeo e il mito delle
età del mondo.
La medesima apostrofe bilaterale, a Perse e ai

39) ib. 207.


40) ib. 202.
41) octv,oç, nel senso di « lode» ( = ~:rcocwoc;), si trova in Omero
e in Pindaro. Anche Eschilo, Ag. 1547, e Sofocle, O. C. 707, lo
usano in questo senso in parti liriche. Da questo significato si
distingue generalmente quello di « storia, novella», che si trova
anche in Omero e nei poeti tragici. In realtà, come si è mostrato
di sopra (v. p. 93), il significato originario di «racconto», detto
dal poeta o dal raposodo, è « lode delle grandi gesta degli uomini e
degli dèi » e questo significato deve essere esteso anche al racconto
fatto comunemente dal popolo. Anche questo è una «lode», e
spesso con una morale. Perciò lo si chiamava cx!11oc;. Al popolo
piacevano le favole come i miti e anche di più. Perciò anche la
favola è chiamata cx!voc;: essa è «lode» in quel sensò più largo
che l'accomuna al mito: l'una e l'altro contengono un esempio.
142 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

giudici 42), si ripete nella parte seguente del poema, che


prospetta la maledizione dell'ingiustizia e la benedizione
della giustizia mediante le commoventi immagini re-
ligiose della giusta e dell'ingiusta città 43). Dike diviene
qui per il poeta una divinità autonoma, figlia di Zeus,
che gli siede accanto e gli muove lagnanza se gli uomini
vogliono cosa ingiusta, affinché egli li chiami a renderne
conto. L'occhio suo si fissa anche su questa città e
sulla lite giudiziaria che vi si svolge: egli non permet-
terà che trionfi la causa ingiusta. E il poeta si rivolge
nuovamente a Perse: « Considera tutto ciò e porgi
ascolto al diritto, dimentica ogni violenza. Ché tale
è il costume che Zeus ha prescritto agli uomini: i pesci
e le fiere e gli uccelli alati si divoreranno tra loro, poiché
non v'è tra loro diritto. Ma agli uomini diede egli il
diritto, sommo tra i beni»«). Questa distinzione tra
l'uomo e la bestia si riallaccia chiaramente alla para-
bola dello sparviero e dell'usignolo. Fra gli uomini

42) A Perse si rivolge il poeta in Opp. 213, ai re a v. 248. Nello


stesso modo, nella prima parte del poema, Perse è apostrofato
per la prima volta al v. 27, e tutta la storia~ Prometeo e il mito
delle cinque età sono indirizzati a lui; poi c'è una breve apostrofe
ai giudici (v. 106) nella favola del falco e dell'usignolo. Così nella
prima parte del poema Esiodo parla alternativamente alle due
parti. Nella seconda parte questo non è più possibile, perchè
non si tratta più di una questione di diritto, ma si danno precetti
sul lavoro destinati propriamente al solo Perse; chè il lavoro
varrà . a redimerlo dalla sua ingiustizia.
43) Opp. 219 ss. La città giusta, 225 ss.; la città ingiusta, 238 ss.
") Opp. 274. Qui al v. 276 v6µ.oç non significa ancora «legge»
come più tardi. Cfr. WILAMOWITZ, Hesiods Erga 73. Quest'ultimo
concetto è espresso piuttosto da òbt'IJ· Anche i più antichi filosofi
ionici che scoprirono quella che noi chiamiamo« legge di natura»,
la chiamarono ÒLK'IJ, non v6ii.oç. La sottile distinzione di Esiodo
fra la vita delle bestie e la vita degli uomini fu abbandonata più
tardi al tempo dei Sofisti da chi metteva espressamente uomini
e bestie allo stesso livello e li pensava soggetti alla medesima
legge:« la lotta per la vita», la cui norma suprema è che la forza
crea il diritto. Allora tutte le leggi apparvero come· unà conven-
zione artifìciàle, mentre la lotta degli animali tra loro fu detta
cpucri::i ò!xcxiov. Cfr. pp. 557, 673, II 235.
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 143

non si dovrebbe mai fare appello, secondo il convinci-


mento d'Esiodo, al diritto del più forte, come fa invece
lo sparviero di fronte all'usignolo.
In tutta la prima parte del poema parla una fede
nella divinità che pone l'idea del diritto al centro della
vita. Questo elemento ideologico non è, s'intende, pro-
dotto originale della semplice vita contadina arcaica.
Nella forma in cui lo troviamo in Esiodo dev'essere
estraneo in genere alla madrepatria greca; presuppone
invece, al pari del tratto razionale che si afferma nel-
1'aspirazione sistematica della Teogonia, Le condizioni
cittadine e il progredito sviluppo intellettuale della
Ionia. La fonte più antica di tale pensiero è per noi
Omero: in esso si trovano i primi elogi del diritto.
Nell'Iliade l'idea del diritto si affaccia ancora meno
che nell'Odissea, più vicina nel tempo ad Esiodo. Qui
troviamo già l'idea che gli dèi sono garanti del diritto,
che il loro governo del mondo non sarebbe veramente
divino se non finisse per procurare vittoria al diritto.
Questo postulato domina tutta quanta l'azione del-
l'Odissea. Anche nell'Iliade, in una famosa similitu-
dine della Patroclia, si manifesta .già la credenza che
Zeus mandi dal cielo tempesta tremenda quando in
terra gli uomini violano il diritto 45). Tuttavia tali atte-
stazioni isolate di un'idea etica della divinità e la stessa
concezione che pervade l'Odissea sono ancora ben lungi
dalla passione religiosa di un profeta del diritto quale
è Esiodo, il quale, nella sua fede incrollabile nella
tutela del diritto per parte di Zeus, da semplice figlio
del popolo impegna la lotta col mondo circostante

46) II 384-393. Da notare che il concetto di Zeus come una


forza etica che difende la giustizia, è espresso più chiaramente
in questa similitudine che in qualsiasi altro punto dell'Iliade. È
stato osservato da tempo che le similitudini di Omero, in contrasto
con la narrativa eroica rigidamente stilizzatà, spesso xnostrano
tracce della vita reale contemporanea al poeta.
144 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

e, col suo pathos irresistibile, ci trascina ancora dopo


millenni. Da Omero prende il contenuto della sua
idea del diritto, e persino talune locuzioni caratte-
ristiche, ma l'energia riformatrice con la quale egli
vive quest'idea nella realtà, il suo predominio as-
soluto nella sua concezione del reggimento diVino e
del significato del mondo annunciano un'età nuova:
per essa l'idea del diritto diventa la radice dalla quale
dovrà sorgere una società umana nuova e migliore
L'identificazione della volontà divina di Zeus con l'idea
del diritto e la creazione della nuova :figura divina della
Dike, posta in sì stretta relazione con Zeus, il sommo
dio 4 6 ), sono gli effetti immediati della forza religiosa e
della serietà morale con la quale il contadino e l'abitante
della città, ceti che ascendono, sentono l'esigenza, da
loro accampata, della tutela del diritto.
È impossibile ammettere che Esiodo, nel suo retro-
terra della Beozia, certamente arretrato rispetto allo
sviluppo intellettuale d'oltremare, abbia ·per primo af-
facciato tale esigenza e ne abbia ricavato interamente
da sé il pathos sociale. Egli non fece che sentirla con
Ml) Cfr. Opp. 256-260. Strettamente connessa con la posizione
centrale di Dike nel regno divino, è l'idea di Esiodo dei trentamila
guardiani di Zeus che vegliano sul mantenimento della giustizia
sulla terra, come una polizia celeste (Opp. 252). Questo realismo
rende ancor più tangibile l'idea omerica di « Zeus che vede e ode
ogni cosa». Il teologo Esiodo si interessa del problema di sapere
chi sono gli spiriti immortali scelti da Zeus per questo serVizio.
Egli dice nel mito delle cinque età del mondo che gli uomini del-
l'età dell'oro, che erano simili agli dèi anche durante il tempo
della loro vita, dopo la morte diventarono cc demoni buoni» e
rimasero sulla terra come guardiani degli uomini mortali (Opp.
122 ss.). C'è un notevole contrasto fra questo realismo religioso
di Esiodo che crede alla giustizia divina e il concetto idealistico
di Solone che pensa a Dike come un principio proprio del mondo
sociale umano, che agisca automaticamente ed organicamente.
Cfr. pp. 264-267. Dall'idea esiodea sui demoni guardiani si volse
la posterioze demonologia dei· G-reci, che poi si fuse con la teoria
degli angeli della religione cristiana. L'opinione di Esiodo è na-
turalmente l'antica credenza popolare negli spiriti interpretata
da un punto di vista teologico e morale.
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 145

particolare intensità nella lotta con quell'ambiente e


se ne fece quindi banditore. Esiodo stesso narra negli
Erga 47) come suo padre, da K yme, città eolica dell'Asia
Minore, fosse emigrato, ridotto in miseria, nella Beozia,
ed è da supporre che il senso di tristezza di questa
nuova patria, che il figlio esprime anco1a con tanta
amarezza, dal padre si trasmettesse a lui. La famiglia
non si sentì mai del tutto a suo agio nel mise1·0 villag-
gio d'Ascra. Esiodo lo chiama« orribile l'inverno, insop-
portabile l'estate, mai piacevole»: nulla di più ovvio
che egli, nella casa paterna, sin dalla giovinezza si
abituasse a considerare con occhio volutamente critico
anche le condizioni sociali della Beozia. L'idea della
Dike fu da lui introdotta nel suo ambiente. Essa si
annuncia già distintamente nella Teogonia 48). Eviden-
temente l'etica triade divina delle Horai: Dike, Euno-
mia ed Eirene, vi deve alla predilezione personale del
poeta il suo posto accanto alle tre Moire e alle tre
Cariti. Come, facendo la genealogia dei venti, Noto
Borea e Zefìro, egli si diffonde a descrivere il danno
eh' essi arrecano al navigante e all'agricoltore 49), così
le dee del Diritto, del Buon_ Ordine e della Pace soµo
lodate quali fautrici delle «opere degli uomini». Negli
Erga Esiodo compenetra della sua idea del diritto
tutta la vita e il pensiero della gente di campagna.
Abbinando l'idea del diritto con quella del lavoro, egli
è riuscito a creare negli Erga l'opera che sviluppa se-
condo un criterio dominante e rende educativamente
efficace la forma spiritualt> e il contenuto reale della
vita dei campi. Avremo ora a mostrarlo· in breve, esa-
minando la rimanente comeagine degli Erga.

47) Opp. 633 ss.


48) Theog. 902.
49) Theog. 869 ss.
146 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

All'esortazione con la quale si chiude la prima parte,


di rispettare il diritto e di astenersi una volta per
sempre da ogni ingiustizia, Esiodo allaccia immedia-
tamente una nuova apostrofe al fratello: quei versi
famosi, che da millenni corrono di bocca in bocca,
staccati dal contesto 60). Bastano essi a rendere Esiodo
immortale. « Lascia ch'io ti consigli, Perse, fanciul-
lone, secondo retta conoscenza». E qui la parola del
poeta assume un tono di paterna superiorità, ma caldo
e suasivo. « Alla miserabile condizione si può facil-
mente arrivare a schiere: liscia è la via, e ben vicina
la sua dimora. Ma innanzi alla buona riuscita gli dèi
immortali han posto il sudore. Lungo ed erto è il sen-
tiero fin lassù, e dapprima aspro. Ma, giunto che tu
sia in alto, facile riesce ad onta della fatica». Con « mi-
serabile condizione» e « buona riuscita» non si ren-
dono appieno i vocaboli greci xor:x6't""l)<; e &pe-dj, ma si
esprime almeno che non si tratta ili tr1stlz1a e
virtù in senso morale, come s'intese più -tardi nell' an-
tichità 51). Questa parte del poema si riallaccia alle pa-
role introduttive della prima parte circa la buont1- e
la mala Eris 52). Dopo che, nella prima parte, è stata
posta chiaramente sott'occhio all'ascoltatore la male-
dizione della discordia, si vuol mostrare ora . il pregio

•0) Opp. 206 ss.


61 ) U. v. WILAMOWITZ·MOELLENDORFF, Sappho urnl Simo-
nides (Berlino 1913) 169. La sua opinione è stata discussa invano
da molti critici: ma questo passo è decisivo: (Opp. 312-313) «se
tu lavori, l'ozioso presto ti invidierà quando tu sarai ricco; ché
la prosperità è seguita da areté e reputazione (7>Àou-rw lì' &pe:T"Ì)
xcxl xulìoi; bm11ìeì)». Inoltre tutti i precetti speciali che Esiodo
impartisce per il lavoro del contadino dal v. 383 in poi sono espres-
samente subordinati alla massima generale (381-382): «se il tuo
animo desidera ricchezza (7>Àou-roi;), fa queste cose che ti dico
e lavora, lavora e poi ancora lavora». La successione che Esiodo
vede è: lavoro, benessere. areté.
•2) Opp. 63.
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 147

del lavoro. Esso è vantato come l'ardua ma unica via


che conduca all' « areté». Questo concetto comprende
tanto la valentia personale quanto ciò ch'essa produce:
prosperità, successo, considerazione 53). Non è l'antica
areté guerriera e aristocratica, e nemmeno quella del
ceto dei proprietari terrieri, che presuppone la ricchezza,
bensì quella del lavoratore, che trova la sua espres-
sione in una modesta proprietà. Ed ecco dato il motto
per la seconda parte, per gli Erga veri e propri. Il fine
è l'areté, quale è concepita dall'uomo del popolo. Egli
vuole arrivare a qualche cosa. All'ambiziosa gara della
virtù virile cavalleresca, quale è voluta dall'etica ari·
stocratica, subentra la silenziosa e tenace emulazione
del lavoro. Col sudore della fronte l'uomo mangerà il
suo pane; ma non è per lui una maledizione, anzi una
benedizione. A questo prezzo soltanto si può acquistare
l' areté. Qui è perfettamente chiaro che Esiodo si pro·
pone a bello studio di affiancare all'educazione aristo·
cratica, quale si rispecchia nell'epos omerico, un'educa-
zione popolare, una dottrina dell'areté dell'uomo sem·
plice. Giustizia e lavoro sono le colonne sulle quali
essa riposa.
Ma si può insegnare l'areté? Questa fondamentale
questione sta sul limitare d'ogni etica e d'ogni edu-
cazione. Appena pronunciata la parola areté, ecco
Esiodo sollevarla. « Certo, ottimo fra gli uomini è colui
che tutto considera da sé e intende che cosa, in avve-
nire e da ultimo, sia più opportuno. Ma è anche bravo
chi sa seguire un altro, il quale rettamente lo ammaestri.
Sol chi né sa intendere da sé, né sa ascoltare e acco·
gliere nell'animo gl'insegnamenti altrui, è un buono a

53) V. n. 51. Areté, posizione sociale e reputazione vanno insieme


nell'opinione di Esiodo. Kul>oc; è qui uguale a lì61;oc che è usata
piuttosto'· nella prosa. Cfr. il confronto di Solone fra oÀ(3oc; e 1>61;o:
fr. l. 34,_ p. 272.
148 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

a nulla» 54). Non invano queste parole si trovano tra


l'indicazione del fine, l'areté, e il principio delle mas-
sime singole che la seguono immediatamente. Perse,
e chiunque altro voglia ascoltare l'insegnamento del
poeta, deve lasciarsi docilmente guidare da lui, se non
è in grado di riconoscer da sé, nell'intimo suo, che cosa
gli convenga e che cosa gli nuoccia. Sono così stabiliti
la legittimità e il senso di tutto l'ammaestramento.
Nell'etica filosofica ulteriore questi versi fmono consi-
derati il primo fondamento di una dottrina e d'una
educazione etica. Aristotele li cita per intero nell'Etica
Nicomachea, là dove tratta, a mo' d'introduzione, de]
giusto principio (&p:;cfi) dell'ammaestramento etico 55).
Cenno importante per intenderne l'ufficio in relazione
agli Erga. Anche là il problema dell'intendimento ha
grande importanza. Perse non ha, per suo conto, la
veduta giusta; ma il poeta deve presupporne l'idoneità
a ricevere ammaestramento, se si prova a. comunicargli
il proprio convincimento e ad influire su di lui. La
prima parte dissoda il terreno per la semina del-
l'insegnamento della seconda; estirpa pregiudizi ed
errori del pensiero, che impediscono di .f"iconoscere il
vero. Con la violenza, la lite e l'ingiustizia, l'uomo non
giunge alla mèta: deve subordinare i propri sforzi al-
l'ordinamento di"'-ino che regge il mondo, per giun-
gere a vera prosperità. Quando l'uomo se ne sia inti-
mamente persuaso, allora altri può aiutarlo, con l'am-
maestramento, a trovar la via che vi conduce.
Ed ora alla parte generale, che li inserisce nella de-
terminata situazione attuale, tengono dietro i singoli
insegnamenti pratici d'Esiodo 56), a cominciare da una

54)Opp. 293.
65) Arist. Eth. Nic. I 2, 1095 b 10.
56) Cfr. n. 22, su questa composizione degli Erga di Esiodo
e quella analoga del poema didattico di Teognide.
CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 149

serie di sentenze che esaltano l'alto pregio del lavoro.


« Sii pertanto memore della mia esortazione e lavora,
o Perse, rampollo divino, affinché la fame ti odii, e
t'ami la ben ghirlandata onesta Demetra e colmi di
provviste i tuoi granai... Chi vive inoperoso, dèi e
uomini sono in collera con lui. Egli assomiglia nel suo
contegno ai pecchioni, che consumano inattivi l'opera
faticosa delle api. Possa tu aver la buona voglia di com-
piere lavoro regolare in giusta misura, affinché ti sian
pieni i granai di quanto ciascuna stagione t'offre di
provviste » 57). «Il lavoro non è vergogna, vergogna è
l'inoperosità. Se Lavori, presto l'ozioso t'invidierà, non
appena tu abbia guadagno. Al guadagno tien dietro ri-
spetto e considerazione. Nella tua situazione il lavoro
è l'unica cosa giusta, purché tu rivolga l'animo tuo
desideroso, dal bene altrui al tuo lavoro e provveda
al tuo sostentamento, come io ti consiglio » 58). Esiodo
parla poi della nociva vergogna del povero, della pro-
prietà mal tolta e di quella donata dalla divinità, e
passa a . precetti singoli circa l'onorare gli dèi, la pietà
e la proprietà. Parla della condotta verso amici e ne-
mici, in particolare verso i cari vicini, del donare e
ricevere e risparmiare, della fiducia e della diffidenza,
specialmente verso le donne, delle eredità e del numero
dei figli. Seguono, in blocco conchiuso, le opere del-
l'agricoltore e poi quelle del navigante, cui si aggiunge
ancora, terminando, una raccolta di massime isolate.
La fine è formata dai 4' Giorni». Non ci occorre analiz-
zare il contenuto di queste parti. Specialmente fa
dottrina del lav~ro professionale del contadino e del
navigante - due cose non tanto disparate, per la
Beozia, come a nostro modo di sentire - si addentra

57 ) Opp. 298·307.
118) Opp. 311 ss., v. n. 51,
150 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

talmente nei particolari realistici, che, non ostante la


grande attrattiva che presenta il quadro del lavoro
quotidiano di quell'età remota, non possiamo qui se-
guirli. L'ordine mirabile che presiede a tutta quella
vita, conferendole il suo ritmo e la sua bellezza partico-
lare, sorge dal suo intimo legame con la natura e col suo
corso immutabile, perpetuamente ricorrente. Come l'im-
perativo sociale della giustizia e dell'onestà e la dot-
trina che l'ingiustizia non dà buon frutto, nella prima
parte degli Erga, sono inquadrati nell'ordinamento mo-
rale del mondo, così l'etica del lavoro e del mestiere,
nella seconda parte, sorge dall'ordinamento naturale
dell'esistenza e da questo riceve la propria legge. Il
pensiero d'Esiodo non distingue ancora l'una dall'al-
tra cosa, l'ordine morale e il naturale derivano per lui
egualmente dalla divinità. Tutto quanto l'uomo fa,
nelle sue relazioni col prossimo e con gli dèi come nel
suo lavoro, è un'unità profonda.
Come già notammo, Esiodo ricava il ricco tesoro
d'umana esperienza del lavoro e della vita, che espone
all'ascoltatore in questa parte degli Erga, dalla pro-
fonda e secolare tradizione popolare. Questo affiorare
dell'immemorabile, legato alla terra, inconscio ancora
di sé, è ciò che propriamente ci afferra nel pòema
d'Esiodo ed è una delle fonti principali della sua effi-
cacia. La sua concretezza, con la sua forza concentràta,
ricaccia nell'ombra il rapsodismo convenzionale di pa-
recchi canti omerici. Un nuovo mondo, la cui copia di
nativa bellezza umana l'epos eroico non pareva intra-
vedere se non in talune similitudini e in singoli luo-
ghi 59) contemplativi, come la descrizione dello scudo
d'Achille, offre all'occhio la sua fresca verdura, il forte
sentore 'della terra dissodata dall'aratro ci avvolge, e

' 9) Cfr. pp. 108-109.


CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 151

dai boschetti risuona il grido de] cuculo, incitando aJ


lavoro gli agricoltori. QuaJe distanza daJ romanticismo
della poesia ellenistica delle grandi città e dei dotti,
che riscopre l'idillico ! La poesia d'Esiodo rende vera-
mente la vita campagnola nella sua totalità. Inserendo
l'idea de] diritto, quaJe fondamento di tutta la vita
sociale, in quel vecchio mondo del mestiere e de] la-
voro, vicino alla natura, egli diventa custode e ricrea-
tore della sua intima compagine. Egli mostra a] la-
voratore la sua vita faticosa e uniforme nello specchio
d'un ideale superiore e animatore. Non ha bisogno di
guardare con invidia la classe privilegiata, daJla quaJe
sin allora era venuto anche a1 popolo tutto il suo nu-
trimento spirituale; egli trova invece nella cerchia
della sua propria esistenza e nella propria attività
consueta, nelle sue stesse asprezze, un significato e un
fine superiori.
Nella poesia d'Esiodo si compie sotto i nostri occhi
l'autoformazione spirituale d'un ceto privo sino allora
d'una cultura conscia del proprio fine. Essa si giova
alJ'uopo dei vantaggi che le offre la cultura del ceto
superiore e delle virtù spiritu.ali formative della poesia
aulica, ma attinge interamente il suo contenuto pro-
prio e il suo ethos da] fondamento primo della propria
vita. Per ciò che Omero non rappresenta soltanto una
poesia di casta, ma assurge ad ogni passo dalla radice
d'un ideale aristocratico ad un'altezza e larghezza spi-
rituale universalmente umana, egli ha la forz~ di con-
durre ad una cultura propria una classe che vive in
tutt'altre condizioni d'esistenza, d'insegnarle a trovare
il senso umano della vita che le è proprio e a plasmarlo
secondo una legge interiore. Cosa invero grande; ma
anche più grande il fatto che, con quest'atto di auto-
formazione spirituale, il ceto contadino esce dal suo
isolamento e la sua voce si fa porgere ascolto nell'agorà
152 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

della nazione greca. Come in Omero la cultura dell'ari-


stocrazia si spiritualizza sino ad ottenere la più alta
efficacia universalmente umana, così anche la civiltà
campagnola supera già, in Esiodo, gli angusti limiti
della sua sfera sociale. Per quanto grande sia la parte
della sua poesia che non riesce applicabile e compren-
sibile che al contadino e all'agricoltore, il valore etico,
fecondo per la collettività, di questa concezione della
vita, mercé lopera del poeta, è inalzato una volta per
sempre e reso accessibile a tutti. La struttura sociale
agraria non era, certo, destinata a dare alla vita del
popolo greco la sua impronta definitiva. La cultura
greca non trovò se non nella polis la sua forma specialis-
sima e definitiva; quanto si conservò accanto ad essa
di cultura campagnola e legata alla terra, spiritual-
mente rimase affatto eclissato. Tanto maggiore im-
portanza ebbe il fatto che in Esiodo il popolo greco
possedette in ogni età un educatore all'ideale del lavoro
e della rigorosa legalità, sorto su quel suolo campagnolo
e conservante il suo valore anche in tutt'altre condizioni
sociali.

Nella tendenza educativa d'Esiodo sta la vera ra-


dice della sua poesia. Questa non si fonda sul padro-
neggiamento della forma epica, né è inerente all'ar-
gomento per se stesso. Se si considera la poesia dida-
scalica esiodea soltanto quale applicazione della lingua
e della forma metrica dei rapsodi, maneggiate più o
meno originalmente, ad un contenuto « prosaico»
per la sensibilità di generazioni ulteriori, si arriva a
nutrire addirittura dubbi circa il carattere poetico di
tali opere, simili a quelli che già la filologia dell'anti-
chità esprime quanto alla poesia didascalica ulteriore 60).

so) Anecdota Bekkeri 733, 13.


CAP. IV: ESIODO E IL POPOLO CONTADINO 153

Esiodo stesso trovò senza dubbio il fondamento giu-


ridico della propria missione poetica nella sua volontà
profetica di diventare il maestro del suo popolo. Con
tali occhi vedevano i suoi contemporanei Omero; non
era per loro immaginabile altra forma d'attività in-
tellettuale superiore, che quella del poeta e dell'Ome-
rida. Alla forma ideale del linguaggio epico era già
per essi indissolubilmente legata l'intenzione educa-
tiva del poeta, quale era sentita da loro nell'influenza
d'Omero sopra se medesimi. Col raccogliere Esiodo in
tal modo l'eredità d'Omero, l'essenza dell'attività poe-
tica creatrice fu trasferita decisamente, per tutte le età
susseguenti e ben oltre i limiti della poesia meramente
didascalica, nel suo significato modellatore, socialmente
costruttivo. Questa forza costruttiva le deriva sempre,
al di là d'ogni zelo d'ammaestramento meramente mo-
rale o pratico soltanto, da una volontà di penetrare
l'essenza delle sose, volontà che tutto rianima e che è
nata da profondissima conoscenza. La diretta minaccia
all'esistenza della patriarcale comunità delle classi, rap-
presentata dalla discordia e dall'ingiustizia, quale Esiodo
ha presente, gli ha aperti gli occhi sulle fondamenta
intangibili sopra le quali riposa tutto l'edificio della
vita sociale e che sorreggono anche il 13ingolo. Questo
sguardo che coglie l'essenziale, riconoscendo dapper-
tutto il senso originario e semplice della vita, è ciò che
fa il vero poeta. Dinanzi ad esso non vi sono materie
per se stesse prosaiche o poetiche.
Se Esiodo, primo tra i poeti greci, parla in nome
proprio a chi gli sta intorno 61), cosi facendo egli discende,
dalla sfera dell'epica proclamazione della gloria ed espo-
sizione della leggenda, nella realtà e nella lotta attuale.
Com'egli intenda il mondo eroico dell'epos quale pas-

81) Opp. 174, 633-640, 654-662; Theog. 22-33.


154 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

sato ideale appare chiaro nel mito delle cinque età


del mondo, dov'egli le contrappone al ferreo presente 62).
Al tempo d'Esiodo il poeta aspira ad influire più di-
rettamente sulla vita. Qui si rivendica per la prima
volta una supremazia che non si basa né sulla nobile
discendenza, né su una posizione sancita dallo Stato.
Si presenta spontaneo il raffronto coi profeti d'Israele,
che infatti è stato da tempo istituito. Ma già nel primo
poeta greco che si fa innanzi con la pretesa di parlare
pubblicamente alla comunità in base al proprio supe-
riore intendimento, è manifesta la differenza che an-
nuncia nella grecità un'epoca nuova della storia sociale.
Con Esiodo incomincia la supremazia dello spirito, che
dà al mondo greco la sua impronta. È ancora lo « spi-
rito» nel suo senso primordiale, vero spiritus, affiato
divino, che il poeta, secondo narra egli stesso· come
una reale esperienza religiosa, ricevette ai piedi del-
l'Elicona mediante l'inspirazione personale delle Muse.
Le Muse stesse dicono della loro inspirazione, quando
destinano Esiodo ad esser poeta: « Sappiamo bensi
dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo-anche,
se vogliamo, proclamare la verità» 63).,, Così dice il
proemio della Teogonia. Anche secondo il proemio degli
Erga, è la verità, che Esiodo vuole annunciare al fra-
tello in questo poema ammaestrativo 64 ). Anche questa
consapevolezza d'insegnare una verità è, rispetto ad
Omero, cosa nuova, e il coraggio di parlare in prima
persona deve in qualche modo riconnettervisi. È la
vera autodefinizione del poeta-profeta greco, il quale,
mercé la conoscenza approfondita della coordinazione
del mondo e della vita, vuol guidare gli uomiui dal-
1'errore sulla retta via.
''") Opp. 147.
63 ) Theog. 27.
64) Opp. 10. Cfr. WILHELM LuTHER, Wahrheit umi Liige im
iiltesten Griechentum (Boma-Lipsia 1935).
CAPITOLO QUINTO.

L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA

La polis quale forma educativa e i suoi tipi. - L'edu-


cazione greca non consegue la propria forma classica
se non nell'assetto sociale della vita che si ha nella
polis 1). Società aristocratica e popolo c~mpagnolo, pe-
raltro, non sono affatto semplicemente sostituiti dalla
polis, ché anzi la vita feudale e contadina si spinge
dappertutto nella storia dei primi tempi della polis,
_perdurando anche ulteriormente accanto a questa. Ma
la funzione direttiva spirituale passa ·alla cultura ur-
bana. Anche là dove sorge, in tutto o in parte, su base
aristocratica o agraria, rappresenta un principio nuovo,
una forma più salda e conchiusa della vita collettiva,
che più d'ogni altra è caratteristica dei Greci. Ancors.
nel linguaggio nostro, le parole « politica» e « politico»,
derivate da polis, sono patrimonio intellettuale vivo e
rammentano come con la polis greca sorga per la prima

1) Cfr. ALFRED ZIMMER, The Greek Commonwealth (V" ed.


Oxford 1931) e MATTIAS GELZER, Das Problem des KZassischen.
Acht Vortràge gehalten auf der Fachtagung der klass. Altertums-
wissenschaft zu Naumburg hrsg. v. Werner Jaeger (Lipsia 1931).
A sostegno della tesi che la polis sia stata la forma politica ori-
ginaria nella Grecia classica, si può osservare che i filosofi del
periodo classico non ricordano alcuna altra forma politica. Anzi
i tentativi dei Greci durante questo periodo per formare più larghi
gruppi o confederazioni presuppongono l'esistenza della città-stato
come normale unità sociale.
156 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

volta ciò che chiamiamo lo Stato, sicché dobbiamo tra-


durre il vocabolo greco, a seconda del contesto, con
Stato o città. Stato, per i secoli che vanno dalla fine
dell'età patriarcale sino alla fondazione dell'impero ma-
cedone d'Alessandro, è quasi sinonimo di polis. Seb-
bene già l'età classica producesse organismi statali di
maggiore estensione, essa non ne conosce se non in
forma di unione d'un certo numero di Stati-città con
maggiore o minore autonomia. La polis è il centro su-
premo, movendo dal quale si organizza la storia di que-
sto importantissimo periodo dello sviluppo della gre-
cità, e sta quindi in primo piano nello studio sto-
rico 2).
Chi, tuttavia, secondo l'usata ripartizione, lasciasse
lo Stato allo storico « politico » e allo studioso del di-
ritto pubblico, staccandone il contenuto della vita in-
tellettuale, si precluderebbe in anticipo l'intendimento
della storia greca. Potremmo, -sì, scrivere una storia
della cultura tedesca, per lunghi tratti, quasi senza
politica, che non è venuta ad occupare un posto cen-
trale rispetto a quella se non in tempi recenti. Appunto
perciò, da noi, anche i Greci e la loro, cultura furono
considerati principalmente sotto il rispetto estetico.
Ma così il centro di gravità rimane arbitrariamente spo-
stato. Tale centro non può trovarsi che nella polis, giac-
ché essa comprende ogni sfera della vita intellettuale
e personale ed esercita influenza decisiva sulla forma
in cui questa si organizza. Tutti i rami dell'attività in-
tellettuale, nel primo periodo della grecità, sorgono
direttamente dalla comune radice della vita della co-
munità. Si può anche fare il paragone con una moltitu-

2) Cfr~- FUSTEL DE COULA-'"<GES, La cité antique (XVI8 ed.


Parigi 1898), GUSTAVE GLOTZ, The Greek City and its Institutwns
(Londra 1929), JACOB BuRCKHAm>T, Griechische Kulturgeschichte,
Bd. I (Berlino 1898).
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 157

dine di rivi e fiumi che sboccano in un unico mare:


nella vita complessiva della cittadinanza, onde rice-
vono indirizzo e mèta e che per invisibili vene sotter-
ranee torna ad alimentarne le sorgenti. Descrivere la
polis greca significa dunque rappresentare la vita dei
Greci nella sua totalità. Anche se questo rimane un
compito ideale ben difficilmente realizzabile, almeno
nel solito modo di narrazione dei fatti storici rivolta
al particolare, che procede lungo una linea tracciata
nel tempo; tuttavia la nozione di tale unità deve dare
i suoi frutti in ogni campo. La polis è la cornice sociale
della storia della cultura greca, nella quale dobbiamo
situare i valori della « letteratura» sino alla fine del
periodo attico 3).

3 ) Hegel fu tra i primi a capire la capitale importanza della


polis per la vita spirituale greca. Questa idea, però, non gli de·
riva dalla sua filosofia né dal posto che in essa egli dà allo stato:
al contrario fu la sua giusta interpretazione storica della polis greca
che influì sulla sua filosofia. Egli ammirava l'armonia e la unità
della vita greca tutta incentrata sulla vita della comunità. Altri
grandi studiosi del XIX sec., come Fustel de Coulanges e J acob
Burckhardt, guardarono l'onnipotenza della polis nella Grecia
antica con gli occhi diffidenti dell'individualismo liberale del
loro secolo, ma ammisero, con Hegel, il fatio che l'antica città-stato
aveva dominato la vita greca in ogni sua forma, e questo fatto
rilevarono, nel loro quadro della vita greca, con tanto maggior
chiarezza quanto più lo temevano. Hegel, d'altra parte, cercava
di fondere l'antico concetto dell'uomo come essere politico con
l'ideale umanistico del XIX secolo, di quando, cioè la cultura
in generale, era stata ormai separata dalla politica e si era ritratta
nei limiti di un ideale estetico e morale. Hegel era ritornato a
quegli umanisti del rinascimento italiano che, come Machiavelli,
avevano visto nella respublica il centro della vita umana. Ma
egli tentò anche di ridare a questa idea la dignità etica che essa
aveva avuto nella filosofia di Platone e Aristotele, ancorando
spiritualmente lo Stato nell'Assoluto. Il Burckhardt, nel suo scet-
ticismo, cercò di salvare la libertà individuale (che era per lui
il supremo valore umanistico) che vedeva in pericolo a causa delle
forze collettive insite nel potente stato moderno. Egli pensò che
anche l'universale moto verso la libertà politica sarebbe alla
fine sboccato in una tirannia delle masse che avrebbe sopraffatto
qualsiasi reale libertà spirituale. Perciò rifiutò energicamente la
fiducia di Hegel nell'ideale della polis e la sua approvaZìone a
158 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

È ovvio come non possa essere ufficio nostro ad-


dentrarci nell'esame della sterminata varietà di forme
in cui la vita della polis e le costituzioni politiche si
manifestano e che la disciplina delle antichità politi-
che ha raccolte nello scorso secolo. A concentrare que-
st'ampia materia ci obbliga di per se stessa la natura
delle nostre fonti, che offrono bensì ogni sorta di par-
ticolari importanti per le varie città, ma per lo più
non ci consentono di formarci una chiara rappresenta-
zione della loro vera vita sociale 4). Anche qui, per il
nostro studio, è d'importanza capitale come lo spirito
della polis greca abbia trovato, nella poesia e nella
prosa susseguente, la sua espressione ideale, che deter-
minerà durevolmente il carattere spirituale della na-

tutto il sistema di vita greco. Quindi, mentre il Burckhardt ado-


rava l'arte e il pensiero greco, paradossalmente descrisse la realtà
politica della vita greca, anche nelle sue forme più liberali, coi
più foschi colori. Comunque si giudichi della verità di qu_esti
pensieri rimane il fatto storico che la polis compenetrò tutta la
vita greca; e chi vuol descrivere la reale struttura di questa, deve
tener gran conto della polis, specialmente per il periodo antico
e classico della storia greca. L'individualismo, in quel senso su-
premamente raffinato in cui lo intese il Burckl;tardt e lo concepì
l'umanesimo del XIX sec., fu il resultato ultimo della dissoluzione
dell'armonia classica tra uomo e polis, e così deve essere inteso.
La nostra opinione su questo argomento non è dogmatica, né
nel senso hegeliano, né in quello del Burckhardt. A questa armonia
classica io ho dato il nome di "umanesimo pplitico», intendendo
con ciò designare l'ideale greco di civiltà nella sua str~tta con-
nessione con la vita sociale del tempo. Non è però mia intenzione
additare, di questa relazione, il solo aspetto favorevole: giacché
questo libro segue lo sviluppo di questa idea attraverso tutte le
sue fasi storiche e finisce esponendo le gravi antinomie implicite
ad essa, in cui si trovarono a dibattersi i secoli più tardi dell'an-
tichità classica e che condussero alla definitiva separazione,
nella Grécia, fra cultura e vita politica. Cfr. l'analisi di questo
processo storico nel II e III vol. di «Paideia».
4) La perdita più grave per questo argomento fu la distruzione
dell'opera gigantesca della scuola di Aristotele, le Costituzioni o
Politeiai di 158 stati, greci o barbari, di cui la ritrovata Costi-
tuzione d( Atene, è il solo esempio riruasto. I frammenti degli
altri libri di questa grande collezione furono pubblicati in Ari-
stotelis fmgmenta da V ALENTIN RosE (Lipsia 1886).
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 159

zione. Dobbiamo così rifarci senz'altro a pochi tip1


principali dello Stato greco, che hanno per esso valore
rappresentativo. Già Platone, cercando nelle Leggi
di tirar le somme del pensiero della grecità arcaica
in fatto di pubblica educazione, ebbe a muovere, ana-
logamente, dai poeti, imbattendosi così in due forme
fondamentali, le quali, associate, gli parvero rappre-
sentare in complesso la cultura politica del suo po-
polo: lo Stato guerriero spartano e lo Stato secondo
il diritto (Rechtsstaat), d'origine ionica. Di queste, quindi,
ci occuperemo particolarmente 5).
Troviamo qui la totale diversità dello spirito delle
stirpi greche quale fatto primario dell'esistenza storica
della nazione greca. Esso è d'importanza fondamentale,
in senso ben più largo ancora che per lo Stato greco,
per la struttura della vita intellettuale greca; anzi,
l'indole peculiare della cultura greca non si può inten-
dere appieno se non in base a questa molteplicità
di stirpi, così nella vivezza dei contrasti che vi si di-
spiegano come nell'armonia che infine li supera e li
compone idealmente. Nella cultura aristocratica ionica
e nelle condizioni del ceto -contadino beozio, rappre-
sentate da Omero e da Esiodo, il carattere etnico non
ha avuto quasi alcun peso per noi, giacché non ci è
poesihile alcun confronto con altre stirpi della stessa
epoca. La lingua dell'epos, sorta dalla mescolanza di

5 ) Cfr. Platone, Leggi, libri I-III. Nel porre questi due tipi
a base della sua analisi filosofica, Platone seguiva lo sviluppo
storico contemporaneo della Grecia. Dal tempo in cui Atene,
in seguito alle guerre persiane, era venuta a emergere come la
principale potenza democratica, la Grecia fu sempre divisa in
due campi, Atene e Sparta. Così è descritta per la prima volta
da Tucidide, sotto l'impressione della guerra del Peloponneso.
La descrizione erodotea delle condizioni politiche della Grecia
è assai più ricca e varia, ma la posterità ha aècettato la visione
semplificata di Tucidide piuttosto che quella di Erodoto o che
. la particolareggiata descrizione aristotelica delle forme costi-
tuzionali degli stati greci.
160 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

varii dialetti, mostra invero che la raffinata struttura


della poesia omerica si fonda già sulla collaborazione
di genti diverse nella leggenda, nel verso e nello stile
del linguaggio; ma l'indurre da tali tracce diversità
della loro indole intellettuale sarebbe impresa dispe·
rata, così come nessuna indagine r1.uscì mai ad enu-
cleare da Omero interi canti di uniforme tinta dialet·
tale eolica. Ben più nettamente si differenziano le pe-
culiarità dorica e ionica nella forma della vita pub-
blica e nella fisionomia spirituale della polis. Entrambe
confluiscono nell'Atene del V e IV secolo. Mentre la
vita pubblica reale d'Atene riceve dal modello ionico
le influenze decisive, nella sfera intellettuale, mediante
l'influenza aristocratica della filosofi.a attica, l'idea spar-
tana ha una rinascita e nell'ideale culturale di Platone
si fonderà in un'unità superiore con l'idea fondamentale
dello Stato costituzionale ionico-attico, toltane la forma
democratica s).

L'ideale spartano del IV sec. e fu tradizione. - Sparta


non occupa un posto autonomo né nella storia della
filosofia, né in quella dell'arte. Mentre Ja stirpe ionica,
p. es., ha parte precipua nello sviluppo della coscienza
:filosofica ed etica, invano si cerca il nome di Sparta
nelle esposizioni dell'etica e della filosofi.a greca 7 ).
A più forte ragione trova il suo posto nella storia del-
!'educazione. Quanto di più peculiare ha prodotto

8 ) Cfr. «Paideia» II e III specialmente dove si parla dell'opi-


Jiione di Platone sull'ideale spartano (v. «Sparta» e «Platone»
negl'indici dei voi. II e III). Cfr. anche l'orazione funebre di Pe-
ricle nelle Storie di Tucidide, e la sua idea complessa Bllllo stato
Ateniese in cui si conciliano qualità opposte (v. pp. 686-687).
7 ) Platone fa dire a Socrate ironicamente (Prot. 342b) che
tutti gli Spartani (e i Cretesi) sono filosofi e che la forma carat-
teristica della loro natura filosofica è il cosidetto parlare laconico;
ma gli Spartani ostentano di essere incolti.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 161

Sparta è il suo Stato, e lo Stato si presenta qui per la


prima volta quale potenza educatrice in tutta l'esten-
sione del termine.
Le fonti della nostra conoscenza di tale singolare
organismo sono in parte, purtroppo, assai oscure. È tut-
tavia fortuna che l'idea centrale, di cui l'educazione
spartana è compenetrata in ogni particolare, ci si ri-
veli in modo così schietto e sicuro nelle poesie traman•
date sotto il nome di Tirteo 8). Solo a questa possente
manifestazione essa deve d'aver potuto staccarsi dalla
sua origine storica, esercitando influenza permanente
sulla posterità. Ma, a differenza di Omero ed Esiodo,
dall'elegia di Tirteo, conforme l'indole di questa poesia
di puro pensiero, non apprendiamo se non il mero
ideale. Non siamo .in grado di ricostruire in base ad
essa il substrato storico sul quale è nato quell'ideale.
Dobbiamo riferirci perciò a fonti più recenti 9).
La testimonianza principale di cui disponiamo, lo
Stato dei Lacedemoni di Senofonte, è un prodotto
del romanticismo, in parte filosofico, in parte politico,
del IV sec. a. Cr ., che scorgeva nello Stato spartano
una sorta di prima rivelazione politica 10). Quanto alla
Costituzione dei Lacedemoni d'Aristotele, non pos-
8) Platone nelle Leggi - 629a e 660e - sceglie Tirteo come
il caratteristico rappresentante dello spirito e dell'ideale di areté
spartano e dimostra ciò con citazioni dai carmi di lui. Al tempo
di Platone Tirteo era generalmente riconosciuto come l'araldo
del valore spartano e in Sparta tutti erano imbevuti degli ideali
della sua poesia (Leggi 629h). V. anche « Paideia >>·III 382-
385.
9 ) Studiosi moderni hanno messo in dubbio l'autenticità delle

poesie di Tirteo basandosi sul fatto che esse contengono scarsi


riferimenti alle condizioni del tempo. Così EDUARD ScHWARTZ
nel suo articolo già menzionato Tyrtaios in« Hermes» XXXIV
(1899) 428 ss. Cfr. anche VERRALL, « Cla~sical Review» XI (1897)
269 e XII (1898) 185 ss.; U. v. WILAMOWITz-MoELLENDOBFi'•
Text,geschichte der griechischen Lyriker, in « Al>h. d. Gott. Ges.
d. Wiss.» N. F. IV (1900) 97 ss.
10) Cfr. la trattazione di questo libro in « Paideia » III
289-296.
162 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

siamo ricostruirla che per punti particolari, di sugli


articoli dei lessici della tarda classicità, che si giova-
rono del ricco materiale di quella. Indubbiamente la
sua tendenza, analogamente all'apprezzamento dello
Stato spartano nel secondo libro della Politica ari-
stotelica 11), era una critica sobrietà di giudizio, in con-
trasto con la consueta apoteosi di Sparta per parte dei
filosofi. Senofonte, filospartano, conosce peraltro Sparta
per intima esperienza personale, laddove Plutarco, preso
dal medesimo fascino romantico, nella sua biografia
di Licurgo non fa che contaminare a tavolino . fonti
letterarie anteriori, di valore assai diverso. Nel valerci
di tali testimonianze dobbiamo tener sempre presente
che esse derivano già interamente dalla reazione, con-
sapevole o meno, alla cultura moderna del IV secolo.
Nelle condizioni arcaiche di Sparta, felicemente primi-
tive, essi ravvisano spesso, anacronisticamente, il su-
peramento di manchevolezze del proprio tempo e la
soluzione di problemi che in realtà non esistevano ancora
affatto per il « saggio Licurgo ». Soprattutto è ormai
impossibile, al tempo di Senofonte e d' Agesilao, stabi-
lire esattamente l'età delle istituzioni di Sparta. L'unica
garanzia della loro antica origine sta nel famoso, tenace
conservatorismo che fece dei Lacedemoni l'ideale di
tutti gli aristocratici e valse loro l'abominazione dei
democratici del mondo intero. Ma anche Sparta ebbe
ad evolvere, e in tarda epoca vi si rilevano ancora in-
novazioni nell'educazione.
Dalla Politica d'Aristotele deriva il giudizio che
l'educazione spartana è un addestramento guerriero
unilaterale. Biasimo già noto a Platone, che l'ha pre-
sente nel delineare, nelle Leggi, il suo quadro dello

ll) Arist. Pol. II 9.


CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 163

spirito dello Stato licurgico 12). Dobbiamo intendere tale


critica secondo l'epoca in cui fu scritta. L'incontra-
stata egemonia di Sparta sulla Grecia dopo l'esito
vittorioso della guerra peloponnesiaca fu annientata
in capo a nemmeno sette lustri dalla catastrofe di
Leuctra. L'ammirazione per la sua eunomia, che du-
rava da secoli, ricevette un grave colpo. L'avversione
dei Greci per gli oppressori era divenuta generale,
dacché un'insaziabile bramosia di potenza si era im-
padronita di Sparta, sopraffacendone la patriarcale
morigeratezza. Il danaro, un tempo quasi ignoto a
Sparta, era affi.uito a fiumi nel paese, e gravi ammoni-
tori avevano « scoperto» un antico oracolo, secondo
il quale l'avidità di danaro, e null'altro, avrebbe per-
duto Sparta 13). In quest'epoca di politica espansioni-
stica freddamente calcolatrice, alla maniera di Lisan-
dro, in cui armosti lacedemoni imperavano dispotici
nelle acropoli di quasi tutte le città greche e in cui era
soffocata ogni libertà politica delle città autonome di
nome, anche l'antica morigeratezza spartana appariva
involontariamente sotto la luce dell'uso machiavellico
che ne faceva la Sparta contemporanea.

Noi conosciamo troppo poco la Sparta arcaica, per


coglierne con sicurezza lo spirito. I recenti tentativi, in
ispecie, di dimostrare creazione di un'epoca relativa-
mente tarda la forma classica dello Stato spartano, il
cosmo « licurgico », sono rimasti mere ipotesi. Karl

12) Arist. Pol. II 9, 1271 b I ss. Egli cita le Leggi di Platone


625c ss. per questa esposizione. Certo prende da Platone questa
parte della sua critica;
13) L'oracolo &: q>LÀOXP'IJ[LOCT(CX :En&p-rcxv oÀd, dCÀÀo òl: oùòtv,
era ricordato da Aristotele nella sua Costituzùme degli Spartani,
perduta. V. V ALENTIN RosE, Aristotelis fragrnenta, n. 544. L'auten·
ticità defforacolo è stata contestata da Eduard Meyer e altri
studiosi moderni.
164 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Otfried Miiller, il geniale iniziatore della storia delle


stirpi e delle città greche, tutto compreso egli stesso
della grandezza etica della doricità, cui cercò di met-
tere bene in luce, contro il culto tradizionale d'Atene,
ha inteso il carattere guerriero dell'antica Sparta in
modo affatto diverso, e probabilmente a ragione, dal
perdurare di una condizione antichissima della stirpe
dorica, conservatasi nella Laconia, mercé circostanze
speciali, dai giorni della migrazione e della prima con-
quista del paese sino a tarda epoca 14). La migrazione
·dorica, della quale si era sempre serbato preciso ricordo
tra i Greci, fu l'ultimo degli scaglioni di genti, probabil-
mente d'origine medio-europea, penetrati in Grecia dal
settentrione della penisola balcanica, dalla cui mesco-
lanza con l'antica popolazione mediterranea, d'altra
razza, ebbero origine i Greci dell'età storica. Il carat-
tere proprio degl'immigrati si mantenne con la maggior
purezza a Sparta. Dalla stirpe dorica Pindaro dovette
derivare il suo ideale di quel tipo umàno biondo ed
eletto, quale egli si raffigura non solo l'omerico Mene-
lao, ma anche l'eroe nazionale, Achille, e addirittura
tutti i «biondi Danai» dell'antichissima età eroica del-
l'ellenismo 15).
Giova ad ogni modo prender le mosse dal fatto
che gli Spartani non rappresentano che l'esile strato
di dominatori, di tardiva sovrapposizione, della popola-
zione laconica; sotto di loro sta un ceto contadino li-
bero e lavoratore, i Perieci, e gli Iloti, servi della gleba,
la massa assoggettata, quasi priva di diritti. Le notizie

KABL OTFRIED MUELLER, Die Dorier (1824).


1')
Pmdaro, Nem. VII 28, !;ctv&òç MevéÀctoç, Nem. III 43 !;ctv·
1 5)
&òç 'AXLÀeoç, Nem. IX 17 !;ct'J&oxoµiiv Act\1&:6)\1 µéyLcr-roL Àcty1hctL.
Anche Atena Nem. X 7 e le Grazie Nem. V 54, sono, nell'imma-
ginazione di Pindaro, biondo-chiomate.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 165

più antiche ritraggono Sparta come un perpetuo ac-


campamento guerriero. Tale carattere è determinato
più dallo stato interno della comunità, che non da
brama di conquista rivolta all'esterno. La duplice mo-
narchia degli Eraclidi, politicamente impotente in tempi
storici, che soltanto in campo riacquistava di volta
in volta il proprio valore primitivo, è un rudimento
dell'antica monarchia militare dell'epoca dell'immigra-
zione dorica, derivante forse da due diverse genti, i
cui capi si erano parallelamente affermati. L'assemblea
popolare spartana è ancora in tutto l'antica adu-
nata dei guerrieri 16) : non vi si discute, ma si votano
per si o no le proposte presentate dal Consiglio degli
anziani. Questo ha il diritto di sciogliere l'assemblea
e può ritirare le sue proposte quando la votazione
abbia esito sfavorevole 17). L'eforato è la massima auto-
rità dello Stato e riduce aJ minimo i poteri politici
della monarchia. La sua istituzione rappresenta una
soluzione media del dilemma del contrasto fra sovrano
e popolo, poiché anche al popolo non concede che un
minimo di diritti e mantiene il tradizionale carattere
autoritario della vita pubblica. È - cosa signllìca-

16) La parola cr-rpix-r6i; che vuol dire « esercito» ha anche nei


tempi più antichi (e in poesia spesso anche nel V sec.) il significato
di «gente», «popolo», e in tal modo mantiene una traccia ap-
prezzabile dell'origine di quel che noi chiamiamo «le libere isti-
tuzioni 11>: i diritti politici dei cittadini di un'antica polis origi-
nariamente derivavano dalla loro attività nella difesa della loro
patria. Per decisioni di grande importanza lo cr-rpix-r6ç doveva
essere consultato. V. i molti esempi di questo uso della parola
cr-rpix-r6ç in Pindaro ed Eschilo.
17) Questo è lo stato delle cose presupposto nella retra (discorso)
dei re Polidoro e Teopompo: oct 8è: crl<:OÀtÒGv ò 8iiµoç llot-ro, -roòç
7tpe:cr[luye:v&ixç xixt &.pxixyhcr.i; &.7tocr-rix-r'ìjpocç 'Ì]µe:v. Cfr. Plut. Lyc. 6.
Plutarco aveva già detto che il demos di Sparta aveva il diritto
di esaminare e criticare (.!:mxplve:tv) le leggi proposte dal consiglio,
e che il popolo aveva il costume di fare proposte aggiuntive o
di apporre il veto alle deliberazioni proposte.
166 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

tiva - l'unica istituzione che non s1 sia attribuita


alla legislazione di Licurgo 18).
Quest'asserita legislazione è l'opposto di ciò che i
Greci intendevano generalmente sotto tal nome. Non è
una codificazione di singoli principii di diritto pubblico
e civile, bensì il nomos nel senso originario, la tradizione
orale vigente, di cui erano :fissate per iscritto soltanto
alcune leggi fondamentali solennemente stabilite, le
cosiddette rhetrai, come quella circa i poteri dell'as-
semblea popolare, conservataci da Plutarco 19). Le an-
tiche fonti non considerano questo tratto come residuo
di uno stato di cose primitivo, bensì ravvisano in esso,
in contrasto con la pletorica legiferazione della demo-
crazia del IV secolo, la saggezza previdente di Licurgo,
il quale, al pari di Socrate e Platone, considera l'effi-
cacia dell'educazione e la formazione del senso di ci-
vismo come più importante delle norme scritte. Dove
è esatto che l'educazione e la tradizione orale assumono
tanto maggiore importanza, quanto meno ·la legge re-
goli dal di fuori, con meccamca costrizione, ogni par-

18) Plutarco attribuisce al re Teopompo l'istituzione dell'efo-


rato - Lyc. 7 - ma Tirteo, che descrive i vari elementi della
costituzione spartana nel suo poema detto Eunomia, scritto due
generazioni dopo il tempo di Teopompo, e che ha grande ammirazione
per questo re, non ricorda gli efori. Un'altra versione, di cui
Erodoto ci dà la prima testimonianza (I 65), dice che l'eforato
fu istituito da Licurgo. Questa non è certo una tradizione vera
e propria: l'istituzione degli efori era attribuita al famoso legi-
slatore perché tutto a Sparta era considerato opera sua. V. i passi
degli antichi autori sulle varie tradizioni cronologiche in F. JACOBY,
Apolloclors Chronik, 140 ss. Secondo Sosicrate (Diog. L. I 68)
esisteva una - tradizione che datava i primi efori soltanto con
l'arcontato di Eutidemo (556).
- 19) Cfr. Plut. Lyc. 6 e 13. Nel secondo di questi capitoli Plu-
tarco ricorda un discorso di Licurgo µ.lj xpija.&ixt v6µmç èyyptiq>otç.
Se ciò è vero, quando si parla di una retra si deve pensare a qual-
cosa che originariamente non fu scritto. Ma il fatto che Plutarco
ne cita qualcuna in dialetto Laconico, prova che qualche volta
esse furono conservate per iscritto. Lo scrittore da cui Plutarco
prende il testo delle retrai in Lyc. 6 le avrà trovate a Sparta.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 167

ticolare dell'esisten~a . .Pure, l'immagine del grande pe-


dagogo politico Licurgo si basa sulla posteriore inter-
pretazione idealizzatrice delle condizioni di Sparta, se-
condo la visuale dell'ideale educativo filosofico d'età
posteriore 20).
Dal raffronto coi deplorevoli fenomeni che accom-
pagnavano la degenere democrazia attica più recente,
il filosofo fu indotto a cercare nelle istituzioni spartane
l'invenzione consapevole di un legislatore geniale. Nel-
l'antica vita in comune degli uomini spartani nelle
mense, nella loro organizzazione bellica per attenda-
menti, nell'eclissarsi della vita privata dietro la pub-
blica, nell'educazione statale della gioventù d'ambo i
sessi, infine nella rigorosa separazione tra la popola-
zione agricola e artigiana dei « banausi » e il ceto, li-
bero dei dominatori, che aveva agio di dedicarsi sol-
tanto ai suoi doveri civici, agli esercizi guerreschi e alla
caccia, si ravvisò la voluta attuazione d'un ideale d'edu-
cazione filosofico, quale è esposto da Platone nella sua
Repubblica. In realtà Sparta, per Platone, come per
altri ulteriori teorici della paideia, fu so~to più d'un
rispetto il modello, per quanto egli l'animasse d'uno
spirito affatto nuovo 21). Il grande problema sociale
di ogni educazione ulteriore fu il superamento del-
l'individualismo e la formazione dell'uomo secondo una
norma obbligatoria per tutti quanti. Lo Stato spartano,
con la sua rigorosa autorità, si presentava come la so-

20 ) L'assenza cli leggi scritte è spiegata da Plutarco, Lyc. 13 ss.,


col fatto che l'educazione era fa cosa più importante a Sparta.
La funzione della legislazione era stata presa del tutto dalla pai-
deia: 't'Ò yd:p OÀO'I xod 7t'éi.'I Tijç 'loµo.&e:crlixç lpyo'I e:tç 't''Ì)'I 7t'IX~3dixv
·à:'lijtjie: (scilicet Licurgo). Plutarco certamente prese questa inter-
pretazione del fatto storico da Platone, nella Repubblica. Cfr.
« Paideia» II 408-410.
21) Per le relazioni di Platone con Sparta, cfr. « Paideia» III
378 ss. (La sua lunga discussione su questo soggetto si trova in
Leggi, libri I-III).
168 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

luzione pratica del problema. Sotto questo rispetto,


appunto, occupò per tutta la vita la mente di Pla-
tone. Ma anche Plutarco, tutto pieno delle idee peda·
gogicbe di Platone, si rifà sempre da questo punto 22 ).
« L'educazione si estendeva sino agli adulti. Nessuno
era libero né doveva vivere a suo talento, ma, come
in un accampamento, ognuno nella città aveva il suo
modo di vita rigorosamente determinato e la sua parte
nei compiti dello Stato, e si aveva sempre coscienza
di non appartenere a se stesso, bensì alla Patria».
Altrove 23) egli scrive: « Licurgo avvezzò i cittadini in
genere a non avere né il desiderio, né la capacità di
vivere una vita propria, ma, come le api, sempre uniti
alla comunità e raccolti intorno al sovrano, quasi libe-
rati dal proprio io da entusiastica ambizione di appar-
tener tutti soltanto alla Patria.»
A considerarla secondo la cultura, tutta imbevuta
d'individualismo, dell'Atene post-periclea, Sparta era
in realtà un fenomeno difficile ad intendersi. Per quanto
poco si ricavi d'interpretazione filosofica delle cose di
Sparta dalle nostre fonti, pure i fatti, nell'insieme,
sono bene osservati. Ciò che, veduto cQn gli occhi di
Platone o di Senofonte, appariva opera di un unico
genio pedagogico, conscio del suo programma e munito
di autorità superiore, era in realtà il perdurare d'uno
·stadio più semplice ed antico della vita collettiva, con
un vincolo etnico particolarmente tenace e un'indivi-
dualizzazione scarsamente sviluppata. A produrre la
forma spartana lavorarono secoli interi. Solo eccezio-
nalmente conosciamo la parte avuta da una singola
persona nel suo processo formativo. Così i nomi dei
re Teopompo e Polidoro rimasero legati a certi muta-

'") Plut. Lyc. 24.


11) ib. 25.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 169

menti costituzionali 24). Non siamo più in grado di sta-


bilire se il nome di Licurgo, della cui storicità non
se:mbralecito duhita,re, fosse anch'esso legato in origine
a determinati atti costituzionali, e perché più tardi gli
sia poi stata attribuita l'intera creazione dello Stato
spartano. Certo è soltanto che la tradizione della «Co-
stituzione di Licurgo » è derivata 25 ).
Tale tradizione risale ad un'epoca che ravvisava
nel mondo spartano un sistema di coerenza consape-
vole e per la quale valeva senz'altro a priori che ra-
gione suprema dello Stato è la paideia, cioè un orga-
namento dottrinalmente sistematico della vita di tutti
gl'individui secondo norme assolute. Non si cessa d'in-
sistere sulla sanzione delfica della « Costituzione di Li-
curgo », in contrapposto alla legge meramente umana
della democrazia e alla sua relatività. Ciò va inteso
secondo la tendenza delle nostre fonti a dimostrare
che la disciplina spartana è l'educazione ideale. La
possibilità dell'educazione, per tutto il IV secolo, di-
pendeva in ultima analisi dal problema di giungere ad
una norma assoluta della condotta umana. E in Sparta
questo problema si trovava risolto, ché quell'ordina-
meato si fondava su una base religiosa: era stato appro-
vato o raccomandato dal dio stesso di Delfo. L'intera
nostra tradizione circa Sparta e la Costituzione di Li-
curgo risulta così formata in modo unitario secondo
lo spirito d'una posteriore teoria dello Stato e dell'edu-

24) V. sopra nn. 17 e 18.


21>) Questa tradizione si incontra per la prima volta nella let-
teratura greca conservata in Erodoto I 65-66, dove la famosa
,ennomia spartana e tutto il cosmos degli Spartiati è attribuito
a Licnrgo che appare come un personaggio storico contemporaneo
del re Leobote. Erodoto ricorda che Licnrgo dopo la morte fu
venerato come nn dio a Sparta e che gli fu dedicato un tempio
ancora esistente ai tempi dello scrittore. Cfr. V. EHRENBERG,
Neugrundtrr des Staates (Monaco 1925) 28-54.
170 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

cazione, e risulta in tal senso antistorica. Il giusto cri-


terio per comprenderla si ha soltanto tenendo presente
che essa sorse nell'epoca del fiorire della speculazione greca
intorno all'essenza e ai fondamenti della paideia. Senza
l'interesse vivissimo che tale corrente pedagogica provò
per Sparta, noi non ne sapremmo nulla addirittura.
Tutta la sua sopravvivenza nella storia, come pure la
conservazione dei carmi di Tirteo, si basa soltanto
sull'importanza che conservò stabilmente I ' i d e a d i
Sparta, quale elemento indispensabile dell'edificio
della paideia della Grecia più recente 26).
Che resta, se eliminiamo la vernice filosofica so-
vrapposta, come quadro storico ?
L'ideale presentato da Senofonte comprende tanti
fatti direttamente osservati, che, anche toltane l'inter-
pretazione storica e pedagogica ch'egli ne dà, si ricava
un quadro evidentissimo della Sparta reale del tempo
suo e del suo Stato educatore guerriero,· unico in Gre-
cia. Ma il periodo di formazione di quella~ Sparta è av-
volto nell'oscurità, se non può intendersi come si-
stema unitario, frutto della sapienza legislatrice di Li-
curgo. La critica moderna, anzi, ha pe.rsino messa in
dubbio l'esistenza di Licurgo. Ma anche s'egli visse ed
è l'autore della cosiddetta grande rhetra, già nota a
Tirteo nel VII secolo, ciò non dimostrerebbe ancora
nulla quanto all'origine del sistema d'educazione spar-

26) Più esattamente parlando, la tradizione su Licurgo può


essere riportata a due periodi di1ferenti della storia spirituale
di Grecia. Ebbe origine nel tempo in cui sorse la speculazione
razionale intorno alla miglior forma dello Stato (e:òvoµlix), cioè
nel VI-V sec. E questa speculazione ha lasciato traccia in Erodoto
I 65 ss. Il secondo impulso venne dalla discussione pedagogica
e filosofica durante e dopo la guerra Peloponnesiaca: questa fase
è rappreseptata da uomini . come Crizia, Platone e Senofonte.
La prima fase affermò l'origine e la legittimazione religiosa (Delfica)
del cosmo spartano; la seconda svolse la struttura pedagogica
implicita nel sistema spartano.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 171

tano quale è descritto da Senofonte. La partecipazione


dell'intera cittadinanza spartana all'educazione mili-
tare ne fa una sorta di casta aristocratica, e anche molti
tratti di tale educazione rammentano l'educazione del-
l'aristocrazia nella Grecia arcaica. Ma l'averla estesa
ai non nobili dimostra che si è avuta qui un'evoluzione,
la quale ha trasformato in questo senso la signoria no-
biliare, che originariamente dobbiamo presupporre an-
che in Sparta. Un pacifico dominio dell'aristocrazia,
come in altri Stati greci, non bastava a Sparta, dacché,
con l'assoggettamento dei Messeni, occorreva tener sog-
getto a forza tutto. un popolo amante della libertà, che
nemmeno nel corso di secoli poté assuefarsi alla ser-
vitù. Ciò non era possibile se non facendo dell'intera
cittadinanza spartiate una classe di dominatori armati,
libera da ogni attività professionale. Il fondamento di
quest'evoluzione dovette esser posto durante le guerre
del secolo VII, e la contemporanea insistenza del demos
per ottenere maggiori diritti, che troviamo in Tirteo,
dovette assecondarla. I diritti civili rimasero semp~e le-
gati, in Sparta, alla qualità di ·guerriero del cittadino.
Tirteo ci dà la prima testimC!nianza dell'ideale politico-
militare che trovò poi la sua realizzazione nell'insieme
dell'educazione spartana. Ma egli stesso non avrà pen-
sato che alla guerra. I suoi carmi mostrano chiaramente
ch'egli non presuppone ancora compiuta la disciplina
spartana quale è nota all'epoca ulteriore, ma ch'essa
è in divenire 27).

21) Sui principali caratteri dell' agoghé, il sistema educativo


spartano, n~Ìla descrizione di Senofonte, v. « Paideia » III 295 s.
Non è necessario trattarne qui, perché esso rappresenta piuttosto
l'ideale del movimento pedagogico filo-laconico del IV sec., che
la realtà storica della Sparta del VII sec., anche se alcuni studiosi
vorrebbero riportarne i lineamenti al principio della storia spar-
tana. della quale invece è il prodotto finale.
172 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Anche per le guerre messeniche stesse, Tirteo è la


nostra unica fonte, giacché la tradizione degli storici
ellenistici posteriori è risultata, alla critica recente, af-
fatto o precipuamente romanzesca. L'occasione della
sua attività poetica fu data dalla grande insurrezione
dei Messeni, assoggettati una prima volta tre genera-
zioni prima 28). «Diciannove anni combatterono conti-
nuamente implacabili, con cuore costante, i padri dei
nostri padri, armati di lance; ed ecco, nel ventesimo
anno, i nemici abbandonarono i loro pingui campi e
fuggirono dagli alti monti d'Itome ». Tirteo menziona
anche l'antico Teopompo, «il nostro re caro agli dèi,
cui dobbiamo la conquista della Messenia». Egli era
frattanto diventato eroe nazionale. Togliamo queste
parole dalle citazioni del poeta, tramandateci dagli
storiografi posteriori 29). In un altro di questi frammenti
è descritta in modo realistico la servitù dei· vinti. Il
loro territorio, del quale Tirteo dipinge più volte la fe-
racità, era stato spartito tra proprietari spartani; gli
spossessati, sotto questi, da servi della gleba, condu-
cevano una misera vita. « Come gli asini si travagliano
sotto gravi some, così essi, sotto il dploroso impero
della costrizione, recavano in tributo ai loro domina-

28) EDUARD ScawARTZ, Tyrtaws in« Hermes» XXXIV (1899)


rifiutava non solo l'autenticità delle poesie di Tirteo, ma anche
le notizie storiche che intorno alla guerra Messenica erano fornite
da tardi autori ellenistici, come il poeta epico Riano di Bene in
Creta e il retore Mirone di Priene (le opere perdute di ambedue
furono usate come fonti da Pausania nel IV libro della sua Perie-
gesis ). Dopo che io avevo ristabilito l'autenticità dei carmi di
Tirteo nel mio saggio Tyrtaios, Ueber die wahre Areté (« Sitz. Berl.
Akad.» 1932) un dotto che avevo avuto tra i miei studenti, ha
dato una nuova analisi della tradizione storica ellenistica e ha
difeso con successo contro l'ipercriticismo di Eduard Schwartz
la realtà storica delle guerre Messeniche. Cfr. JuRGEN KROYMANN,
Sparta und Messenien (in« Neue Philologische Untersuchungen»,
hrsg. v. Werner Jaeger, Heft XI, Berlino 1937).
29) Tyrt. fr. 4.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 173

tori la metà dell'intero raccolto dei propri campi».


« Quando poi uno dei signori veniva a morte, essi per
giunta erano obbligati a partecipare con le loro donne,
levando lamenti, al funerale » 30).
Tali ricordi dello stato di cose precedente l'odierna
insurrezione dei Messeni dovevano stimolare il coraggio
dell'esercito spartano, all'idea della passata vittoria,
ma ad un tempo atterrirlo con la rappresentazione della
servitù che l'attendeva se ora restavano vincitori i ne-
mici che tanto avevano dovuto patire. Uno dei carmi
conservati per intero 31) così cominciava: «Siete pure i
discendenti dell'invitto Eracle - coraggio, dunque;
Zeus non ha ancora rivolto da noi malevolo il collo.
Non temete la forza dei nemici e non fuggite ! Ben co-
noscete lopera del luttuoso Ares e siete esperti della
guerra, foste testimoni e della fuga e dell'inseguimento».
Si rincora qui un esercito sconfitto e scoraggiato, e in-
fatti l'antica leggenda ravvisava in Tirteo il capo in-
viato agli Spartani, salvatore nel pericolo, da Apollo
delfico 32). Si credette per un pezzo, fidandosi della tra-
dizione classica ulteriore, ch'egli fosse un capitano; sin-
ché non venne a smentirlo un papiro scoperto di re-
cente, con ampie reliquie d'un nuovo carme di Tirteo,
nel quale il poeta, parlando in prima persona plurale,
esorta ad obbedire al capo 33). È un lungo componimento

80) Tyrt. fr. 5.


31 ) Tyrt. fr. 8.
' 2 ) PI. Legg. 629a con gli scolli ad loc. (p. 301 Greene) e Filo-
coro e Callistene ap. Strah. 362.
33) Tirteo era stato, a quel che si diceva, un generale spartano

( cnpoc-.7Jy6i;), cfr. Strah. 362. Alcuni studiosi moderni hanno ac-


cettato questa cosiddetta tradizione, sebbene essa i..on abbia
altro fondamento se non la leggenda secondo la quale egli fu man-
dato agli Spartani dagli Ateniesi come capo per la seconda guerra
Messenica. In tempi antichi Filocoro e Callistene ricordavano
questa storia (Strab. loc. cit.), ma anche Strabone rimandava i
suoi letiori all'Eunomia di Tirteo. Qui (fr. 2) egli dice della nazione
174 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

poetico, tutto al futuro: la visione, anticipata dalla


fantasia del poeta, di un'imminente lotta decisiva, nello
stile d'una descrizione di battaglia omerica. Si citano i
nomi delle antiche phylai spartane degl'Illei, Dimani
e Pamfili, che evidentemente vigevano ancora nell' or-
dinamento delle milizie, ma furono. più tardi eliminate
e sostituite da una nuova ripartizione; si parla inoltre
della lotta intorno ad una muraglia ed una fossa: trat-
tasi a quanto pare d'un assedio. Del resto non si pos-
sono ricavare dalle poesie dati storici concreti, e già gli
antichi, evidentemente, non vi trovarono maggiori al-
lusioni d'indole storica 34).

L'esortazione di Tirteo all'areté. - Nelle elegie di


Tirteo si eterna la volontà politica che fece grande
Sparta. L'essersi essa creata la sua figura spirituale
nella poesia, è la miglior prova della sua forza idealiz-
zatrice; che opera ben oltre la durata storica dello
Stato spartano, né è spenta sino ad oggi. ·Per quanto
vi sia di singolare e temporalmente limitato nei
particolari della vita spartana quale la conosciamo
più tardi, L'idea di Sparta, che riempie di !Jé tutta l'esi-
stenza dei suoi cittadini e cui tutto tende. in questo
Stato con ferrea coerenza, è qualche cosa d'imperituro,

Spartana: « noi venimmo a questa contrada da Erineo, quando


per la prima volta prendemmo possesso di lei ». Strabone giu-
stamente ne trae che Tirteo doveva essere Spartano di nascita,
ma stranamente tien fede all'altra parte della tradizione leggen-
daria, cioè che egli era un capo degli Spartani durante le guerre
Messeniche, anche se non era stato mandato a 11,1ro dagli Ateniesi.
Ora, ciò è dimostrato falso dal passo, citato nel testo, della nuova
elegia trovata in un papiro. che è ora il &. I nell'antologia del
Die hl.
34) È stato detto a n. 9 che la mancanza di allusioni ~toriche
rese sospetti i carmi di Tirteo agli occhi di molti critici moderni,
come Schwartz e Wilamowitz. Ma la nuova elegia fr. I prova
che allusioni di tal genere, anche se esse non possono aver gran
parte in questo genere di esortazione poetica, non sono del tutto
assenti.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 175

perché ha fondamento profondo nell'umana natura.


Essa conserva la sua verità e il suo valore anche quando
il suo incarnarsi esclusi~o in tutto il tipo di vita di
questo popolo appare ai posteri unilaterale. Tale sem-
brava già a Platone la concezione spartana dell'uomo-
cittadino, della sua missione ed educazione; ma egli
stesso ravvisava nell'idea politica, quale la trovava eter-
nata nei versi di Tirteo, uno dei fondamenti duraturi
d'ogni civiltà politica 35). Né egli è isolato in tale apprez-
zamento, anzi non fa che esprimere lo stato dell' opi-
nione preesistente. Non ostante ogni riserva riguardo
alla Sparta reale di quell'epoca e alla sua politica,
giova riconoscere che tale era sin d'allora lapprezzamento
dell'idea spartana tra i Greci tutti 36). Certo, non tutti
come i fi.lospartani, che non mancavano in nessuna
città, _ravvisavano un ideale assoluto nello Stato di
Licurgo; ma, dato il posto che Platone accorda a Tirteo
nel proprio organamento della cultura, esso poté di-
ventare patrimonio comune e permanente di ogni ulte-
riore civiltà.. Platone è il grande ordinatore del patri-
monio spirituale della nazione, nella cui sintesi le forze
storiche della vita spirituale greca dovevano oggetti-
varsi, assumendo la giusta situazione reciproca. Una
volta compiuta tale sistemazione, nulla d'essenziale vi
fu più mutato. Nella civiltà classica ulterio:i;e e presso
la posterità, Sparta mantenne il posto assegnatole nella
cultura greca 37).
L'elegia di Tirteo è impregnata d'un grandioso

86) Cfr. PL Legg. 629a-630e e 660e-66la.


36) Cfr. pp. 190-191 e note.
37) Questa ammirazione per il valore spartano nelle poesie
di Tirteo non deve confondersi con il filo-laconismo della reazione
politicà dei secoli posteriori. Lo spirito di Leonida, che morì coi
suoi Spartani alle Termopili per la libertà della Grecia, quando
gli eserciti delle altre città avevano abbandonato il posto, rimane
il monumento più autentico di questo ideale.
176 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

ethos educativo. L'entità di quanto vi si esige dallo


spirito di solidarietà e di sacrificio del cittadino, è, sì,
giustificata dal momento speciale in cui il poeta affaccia
tali esigenze, cioè dal grave pericolo in cui versava
Sparta nelle guerre Messeniche; ma i carmi di Tirteo
non sarebbero stati considerati, sino ad epoca remota,
le più venerande testimonianze del civismo spartano,
se in essi non si fosse trovata l'espressione eterna, per
eccellenza, dello spirito di Sparta. Le norme poste in
essi al pensiero e all'azione del singolo non sorgono da
una momentanea esaltazione delle esigenze dello Stato,
conseguenza inevitabile della guerra, ma sono diven-
tate fondamento dell'intero mondo spartano. Non si
trova, in tutta la poesia greca, altro caso in cui altret-
tanto evidente sia l'immediata derivazione della crea-
zione poetica dalla vita della reale comunità sociale.
Tirteo non è un'individualità poetica nel senso nostro.
È il portavoce della collettività, proclama quanto è in-
tima certezza di tutti i cittadini che pensano retta-
mente. E perciò il poeta parla anche spesso al plurale:
combattiamo, moriamo ! Ma anche là dove dice « io»,
non è il suo Io soggettivo, che, conscio del proprio va-
lore artistico o personale, si valga della libertà di pa-
rola; non è nemmeno l'Io di un comandante, come
spesso si ritenne sin dall'antichità {facendo di Tirteo
un capitano) 38): è l'Io universale della« pubblica voce
della Patria», di cui ebbe a parlare Demostene 39).
I suoi giudizi circa ciò che sia « onorevole» o « ver-
gognoso» attingono dalla viva coscienza della collet-
tività, cui si rivolgono le sue parole, quell'impeto e
queU'ineluttabile necessità che il mero pathos personale
dell'oratore non può mai conferir loro. Se lo stretto

38) V. n. 32.
H) Demosth. Cor. 11a
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 177

vincolo del cittadino con la città, anche in uno Stato


come lo spartano, restava in tempo di pace piuttosto
latente per la coscienza media, l'idea della collettività
si affacciava poi ad un tratto, con forza prepotente,
nell'ora del sommo pericolo. La ferrea struttura dello
Stato spartano non si foggiò definitivamente che attra-
verso la dura vicenda delle lotte che allora incomin-
ciavano, e dureranno decenni. In quella grave ora
occorreva non solo una risoluta direzione militare e
politica, ma anche l'espressione intellettuale, di vali-
dità universale, dei nuovi valori umani fomentati dal
fatto della guerra. Banditore dell' areté fu mai sempre
il poeta, e questo si levò nella persona di Tirteo. La
leggenda lo vuole inviato da Apollo 40). Non v'è espres-
sione più acconcia del fatto misterioso che nell'ora del
pericolo, quando ve n'è bisogno, il capo spirituale,
ad un tratto, si affaccia realmente. Egli dà per la
prima volta piena figura poetica alla nuova sorta di
areté civica, che il momento esige.

Sotto il rispetto formale l'elegia di Tirteo non è


creazione del tutto autonoma. Gli elementi della sua
forma, per lo meno, erano dati al poeta. La forma me·
trica del distico elegiaco è indubbiamente anteriore. Le
origini ne sono a noi oscure e tali erano già per i filo-
logi dell'antichità 41). Essa si riconnette al verso del·

40) Cfr. p. 173.


U) Aristotele, che parla dell'origine della tragedia e della com-
media, non dà una teoria sua sull'origine dell'elegia nella Poetica.
Questa lacuna fu sentita, com'era naturale, nella· scuola aristo-
telica della generazione seguente, ma non fu raggiunto l'accordo
fra gli studiosi, come dice Orazio (Ars Poetica 77), seguendo come
fonte il peripatetico Neottolemo di Pario, secondo la testimo-
nianza di Porfirione. Questo stato di incertezza è confermato
dalla tradizione sull'inventore dell'elegia contenuta in testimo·
nianze scarse e frammentarie dei più tardi grammatici antichi.
Qualcuno parla di Tirteo o Callino, altri di Archiloco o Mimnermo,
e tutto fa pensare alla mancanza di una conoscenza reale.
178 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

l'epos eroico e, come questo, era allora atta ad acco-


gliere qualsiasi contenuto. L'elegia non ha dunque una
forma «interiore», a quel modo che immaginavano i
grammatici dell'antichità 42), i quali volevano far risalire
tutte le specie d'elegia ad una radice unica, il « lamento»,
movendo dall'ulteriore evoluzione letteraria del genere
e da un'errata etimologia. Di fisso la forma dell'elegia
ha, oltre al metro, che nei tempi più antichi non si
distiÌlgueva da quello dell'epos nemmeno con un vo-
cabolo speciale, un solo elemento: l'apostrofe, sia ri-
volta ad una persona singola, sia a parecchie. Essa è
l'espressione d'una intima comunione della persona
apostrofata con chi parla, ed è essenziale per l'elegia.
Nel caso di Tirteo sono i cittadini in complesso, o la
gioventù virile, cui il poeta si rivolge. Anche nel carme
che incomincia in tono apparentemente piuttosto ri-
flessivo (fr. 9), il pensiero si appunta alla fine in
forma di comando, rivolto a tutti i membri di un'asso-
ciazione, qui come sempre non precisata, ··ma data per
nota 43). Nell'apostrofe esortativa si esprime chiara-
mente il carattere educativo dell'elegia. Questa lo ha
in comune con l'epos, solo che nell'elegia, come n6lla
poesia didascalica degli Erga esiodèi, esso diviene azione
parenetica consapevole e diretta su un determinato
ascoltatore. Il contenuto mitico dell'epos si svolge in
un mondo ideale; l'apostrofe dell'elegia a persone reali
ci trasporta nell'ambiente reale. del poeta.
Ma, se anche il suo contenuto è tolto dalla vita de·
gli uomini cui si rivolge, lo stile dell'espressione poe-

42) Una raccolta delle più importanti testimonianze degli an-


tichi grammatici sull'elegia come genere poetico e sulle sue ori-
gini si trova in J. M. EDMONDS, Greek Elegy and Jambus vol. I
(«Loeb Classica! Library»). Cfr. l'art.« Elegie~ in Pauly-Wissowa,
Realencyclopaedie V 2260, del CRusrus; C. M. BOWRA. Early
Greek Elegists (Cambridge [Mass.] 1938).
43) V. l'interpretazione di questa elegia a p. 180 ss.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 179

tica è peraltro stabilito una volta per sempre dall'epos


omerico, sicché anche la materia contemporanea si ri-
veste, per il poeta, del linguaggio dell'epos. Questo
risponde alla materia di Tirteo assai più che a quella
d'Esiodo, il quale si trovava nella medesima situazione
rispetto all'epos: che vi è infatti di più affine all'epos,
che lotte sanguinose ed eroismo guerriero ? Così Tirteo
non solo poté togliere da Omero il materiale linguistico,
parole singole e locuzioni, a volte anzi interi emistichi,
ma nelle descrizioni di battaglie dell'Iliade egli trovava
inoltre già preformato il modello di discorsi interi, atti
a spronare una schiera di guerrieri al supremo ardimento
e alla resistenza tenace nel pericolo«). Bastava staccare
tali parentesi dallo sfondo mitico che avevano nell'epos,
trasportandole nel vivo presente. Già nell'epos le allo-
cuzioni battagliere avevano una intensa efficacia inci-
tatoria. Omero sembrava rivolgersi con esse non solo
ai personaggi epici apostrofati, ma direttamente allo
stesso ascoltatore; così sentirono, ad ogni modo, gli
Spartani. Bastava che l'ethos possente, che vi spira,
scendesse dalla scena ideale d'Omero nella realtà guer-
riera dell'epoca delle guerre Messeniche, ed ecco creata
l'elegia di Tirteo. Tale processo spirituale ci riesce
tanto più comprensibile, se leggiamo Omero, come si
faceva ai tempi di Tirteo e d'Esiodo, soprattutto quale
educatore contemporaneo e non solo narratore del
passato 45).
Tirteo, con le sue elegie, si sentiva indubbiamente

44) Cfr. FELIX JACOBY, Studien zu den iilteren griechischen


Elegikern in « Hermes» LIII (1918) p. 1 ss.
U) L'opera epico-didascalica di Esiodo e il carattere ortatorio
dei più antichi poeti elegiaci provano senza alcun dubbio che
l'impressione che l'epica omerica faceva sulla mente degli udi·
tori doveva essere in grande misura didascalica. Gli inventori
del nuovo genere cercarono di dare una forma più efficace e di-
retta alla forza di persuasione dell'epos.
180 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

un vero Omerida. Ma ciò che conferisce a questi di-


scorsi alla nazione spartana la loro grandezza propria,
non è l'imitazione più o meno congeniale del modello
omerico, sia nel complesso, sia nei particolari, bensì
l'energia spirituale con la quale si compie la trasposi-
zione delle forme e contenuti dell'arte epica nel mondo
contemporaneo. Se anche poco s_embra dapprima resti a
Tirteo di sua proprietà spirituale, a togliere dai suoi
carmi tutte le eredità omeriche in fatto di lingua, verso
e idee, pure il suo diritto al riconoscimento d'una vera
originalità aumenta non appena intendiamo, mercé il
nostro criterio di giudizio, come egli ponga sempre, die-
tro le forme tradizionali e dietro gli antichissimi ideali
eroici, un'autorità etico-politica del tutto nuova, che li
ricrea: l'idea della collettività della polis, che regge i
singoli tutti e per la quale tutti vivono e muoiono.
L'ideale omerico dell'areté eroica è riplasmato nell'eroi-
smo dell'amor patrio, e il poeta compenetra di questo
spirito l'intera cittadinanza 46). Ciò ch'egli· vuol creare è
un popolo, uno Stato intero d'eroi. Bella è la morte,
quando un uomo l'incontri da eroe 47) ; e da eroe l'incon-
tra morendo per la Patria. Solo questo pensiero con-
ferisce alla sua fine il significato ideale di sacrificio di
se stesso per un bene superiore 48).

Questo nuovo valore dell'areté si manifesta nel modo


più chiaro nel terzo carme pervenutoci 49). Sino a poco
fa, per svariate ragioni formali, si soleva considerarlo

46) Ettore, l'eroe troiano, il valoroso difensore della sua città,


è fra tutti i caratteri ome:rici il più vicino a questo ideale. Cfr.
i famosi vv. (M 243) dç o!Cs>vÒç &pLa-roc; &v-uvsa.&cxL 7t<:pt mbp1)<;·
Ma gli er~~ greci non combattono per la patria, ma per l'onore
e per la gloria.
'1) Tyrt. fr. 6, 1-2.
48) Cfr. p. 183.
49} Tyrt. fr. 9.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 181

più recente e se ne volle negare l'attribuzione a Tir-


teo. Ho data altrove ampia dimostrazione della sua
autenticità 50). Non si può assolutamente spostarlo sino
all'età dei Sofisti (V sec.) 51). È evidente che Solone
e Pindaro già lo conoscono ed è innegabile che, sin
dal VI secolo, Senofane ne imitasse e rielaborasse l'idea
centrale in una poesia pervenutaci 52). È ancora in certo
modo manifesto che cosa inducesse Platone a scegliere
per l'appunto questa elegia fra tutte le poesie a lui
ancora accessibili, che andavano sotto il nome di Tirteo,
quale particolarmente caratteristica dello spirito di
Sparta 53). È la rigorosa conseguenza con la quale il
poeta svolge qui il principio dell'areté spartana.
Possiamo qui ficcare lo sguardo bene addentro nello
svolgimento storico di questo concetto da Omero in
poi e nell'intima crisi in cui viene a trovarsi l'ideale
umano dell'antica aristocrazia nel periodo in cui si
afferma la civiltà della polis. Il poeta fa risaltare la
v e r a areté sugli altri beni supremi che, a parere dei
suoi contemporanei, costituiscono il pregio e la dignità
di un uomo.« Non riterrei meritevole un uomo di me-
moria duratura, e non parlerei di lui, né per la virtù
de' suoi piedi né per la sua arte di lottatore, nemmeno
se la sua grandezza e la sua forza fossero imponenti
come quelle dei Ciclopi e se egli vincesse nella corsa il
tracio Borea» 54). Sono, questi, tutti esempi della areté

50) Cfr. il mio saggio Tyrtaios. Uehtrr die wahre Areté (« Sitz.
Ber!. Akad. » 1932) in cui le conclusioni esposte in questo capitolo
appariranno fondate esaurientemente.
51) In questa età; alcuni critici come Eduard Schwartz e il
Wilamowitz tendevano ad attribuire lelegia, soprattutto per quello
che essi chiamavano la sua composizione armonica e logica e
la sua forma di espressione retorica. Cfr. i loro lavori ricordati
alla n. 9.
62) Questo ho dimostrato nel mio saggio a cui rimando a n. 50,
pp. 557-559.
&a) PI. Legg. 629a, 660e.
64) Tyrt. fr. 9, 1 ss.
182 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

agonale, che la nobiltà, dai tempi omerici in poi, sti-


mava sopra tutto e che, negli ultimi cent'anni, avevano
elevato i giochi d'Olimpia, anche per competitori non
nobili, al grado di misura somma delle umane capa-
cità. Ma egli cita inoltre altre virtù dell'antica aristo·
crazia 55): «E quand'anche egli fosse più bello di Titone
e più ricco di Mida e di Cinira, e più regale di Pelope,
figlio di Tantalo, e avesse una lingua di favella più
grata che .Adrasto, non per questo l'onorerei, avesse
pure la più gran fama del mondo, se non possiede co-
raggio guerriero; ché non farà buona prova in bat-
taglia, se non sopporta la vista della sanguinosa strage
guerresca e non si fa addosso al nemico nella lotta
corpo a corpo. Questa è areté - esclama il poeta con
impeto - questo è il premio più alto e glorioso che
un giovane possa ottenere tra gli uomini. Questo è un
bene per la comunità, per la città e per tutto il po-
polo: che un uomo tenga duro combattendo in prima
linea, scacciando ogni idea di fuga» 56). Non si dica che
questa è tardiva retorica: ne troviamo di simile già
in Solone. Le radici della forma retorica si sprofondano
lontano nel tempo 57). La vivace iterazione sorge dal-
l'intimo pathos del pensiero in cui culmina l'intera
poesia: che cos'è il vero valore virile? L'eflicacissimo
affollarsi di negazioni, che riempie i primi dodici versi

") La lista dei vincitori olimpici cominciava con Coreho nel


776 a. C. poche decine d'anni prima della seconda guerra Mes-
senica, durante la quale Tirteo scrisse i suoi carmi. Sugli atleti
Spartani vincitori, cfr. p. 192; per la critica di Senofane alla va-
lutazione eccessiva della vittoria nei giuochi nazionali, cfr. pp. 191
e 323 s.; sulle odi di Pindaro, p. 378 s.
~) Tyrt. fr. 9, 5-17. Le parole in dialetto ionico ;uvòv èo-Mv
significano la ste8sa cosa che xoLvòv &y°'.&6v, cioè il bene comune.
Con esse Tirteo introduce un nuovo criterio per la vera virtù.
. 67 ) Cfr. Solone fr. 14 Diehl, 7 TO(UT' &qie:voc; .&vllToi:cn e Tyrt.
fr. 9, 13 -1]8' &pe:TI], T68' &e:.&À~v èv &v.&p C:motcrtv &p tcrTov. Per questa
antica retopca v. il mio saggio su Tirteo (ricordato a n. SO), p. 549.
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 183

stimolando in sommo grado l'attesa dell'ascoltatore,


rinnega volutamente tutte le idee correnti; e, dopo aver
abbassati d'un gradino tutti gli alti- id~ali dell'antica
nobiltà greca, pur senza rinnegarli o abbandonarli del
tutto, il poeta, da vero profeta del nuovo, sobrio e se-
vero civismo, proclama: non v'è che un'unica misura
della vera areté, e cioè lo Stato e ciò che ad esso giova
o nuoce 58 ).
Il suo annuncio mette capo, con coerenza, all'elogio
del « premio » che tale civica abnegazione reca all'uomo,
sia ch'egli cada sul campo, sia che ritorni vincitore
in trionfo. « Ma chi cade tra i combattenti e perde la
sua cara vita, dopo aver coperto di gloria la sua città,
i suoi concittadini e suo padre, quando giace trafitto
davanti da molti dardi attraverso il petto e il convesso
scudo e la corazza, colui piangono tutti quanti giovani
e vecchi, e con doloroso rimpianto tutta la città si duole
per lui, e il suo tumulo e i suoi figli sono onorati tra
gli uomini, e i figli de' suoi figli e i suoi tardi discen-
denti, e giammai perisce l'alta sua fama né il suo nome,
ma, sebbene giaccia sotterra, egli diviene immortale» 59).
Che è mai la gloria dell'eroe omerico, proclamata dal
cantore epico, per quanto lontano si spanda sulla terra,
a petto di quella del semplice guerriero spartano, così
profondamente radicato nella comunità civile dello
Stato come lo ritrae Tirteo in questi versi ? Quello
strettissimo vincolo di comunanza, che nella prima parte
del carme pareva non volesse che affacciare esigenze,
diviene qui ciò che conferisce ai suoi cittadini ogni va-
lore ideale. Dopo reso politico il concetto dell'areté
eroica, nella seconda parte si conferisce carattere po-
litico all'idea della gloria eroica, che, nella concezione

Oll) V. n. 56.
69) Tyrt. fr. 9, 23-32.
184 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

dell'epos, ne è compagna inseparabile 60 ). Garante ne di-


viene ora la polis; il« nome» dell'eroe, cui è legata
la sua perennità, è al sicuro nella sua esistenza collet-
tiva, che oltrepassa il fuggevole presente.
I Greci dei primi tempi non conoscono ancora
una immortalità dell' « anima »; con la morte corporale
l'uomo stesso è morto. La psyché significa in Omero
piuttosto l'opposto, la copia corporea dell'individuo
umano, l'ombra che va all'Ade, la quale è un mero
nulla 61 ). Ma a chi, mediante il sacrificio della vita, si
sia elevato oltre i limiti dell'esistenza meramente umana
ad un'esistenza superiore, la polis conferisce l'immor-
talità del suo Io ideale, del suo «nome». Quind'innanzi
l'idea eroica della gloria conservò sempre per i Greci
questa risonanza politica. L'uomo politico attinge la
sua pienezza nella perennità della memoria che di lui
si serba nella comunità per la quale visse o morì. Sol-
tanto con la progressiva svalutazione dellò Stato, anzi
di tutto il mondo terreno e con l'apprezzamento pro-
gressivo del valore dell'anima individuale, che tocca il
culmine nel Cristianesimo, il disprezzo della fama di-
venta un'esigenza morale dei filosofi 62 ). Ancora nella co-
scienza civile di Demostene e di Cicerone non era cosi.
Nell'elegia di Tirteo ci troviamo agl'inizi dello sviluppo

80) Sull'idea omerica di areté e gloria v. sopra pp. 39 ss., 93 s.


Sulla interpretazione politica di questo fondamentale concetto da
parte di Tirteo, v. il mio saggio su Tirteo (ricordato· a n. 50)
pp. 551-552.
61) V. ERWIN ROIIDE, Psyche, I cap..< Fede nelle anime e culto
delle anime nei poemi omerici». Trad. it.: E. Codignola, Bari 1914.
62) Socrate segna il punto critico di questo svolgimento. Platone

nella Repubblica ricompensa «l'uomo veramente giusto» accor-


dandogli gli onori tradizionali che la polis usava dare ai suoi citta-
dini; ma il cambiamento radicale delle relazioni tra l'individuo
e la polis,. si rivela nel fatto· che la più alta ricompensa concessa
da Platone all'uomo giusto è l'immortalità dell'anima e l'assi-
curazione del suo eterno valore come personalità umana. Cfr.
«Paideìa» II 641 s. ·
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 185

dell'etica della polis 63). Come essa, proteggendo nella


morte l'eroe caduto, lo accoglie in mezzo alla comunità,
così inalza anche il guerriero che ritorna vincitore.
« Giovani e vecchi l'onorano, la sua vita gli vale distin-
zione e considerazione in copia, nessuno gli nuoce né gli
fa torto. Quando è vecchio, è considerato con reverenza,
e tutti gli fanno largo dovunque si presenti» 64). Nella
stretta comunità della polis greca arcaica, queste non
sono belle parole soltanto. Questo Stato è, sl, piccolo,
ma ha nell'esser suo qualche cosa di eroico e insieme
di schiettamente umano. Per la grecità e per tutta l'an-
tichità classica l'eroe è la forma superiore dell'uomo
puro e semplice.
Quel medesimo Stato, che qui appare quale po-
tenza ideale nella vita dei suoi cittadini, si presenta mi-
naccioso e tremendo in un'altra poesia di Tirteo 65). Ivi
alla morte gloriosa sul campo di battaglia è contrap-
posta la miseria della vita raminga, quale è sorte ine-
vitabile dell'uomo che in guerra non compi il suo do-
vere di cittadino ed è quindi costretto ad abbandonare
la patria. Egli va errando per il mondo con padre e
madre, con la sua donna e i figliuoletti. Per tutti coloro
che accosta, egli, così povero e mendico, è un estraneo,
guardato con occhio ostile. Egli macchia la sua schiatta
e disonora il suo nobile sembiante; lo attende la sorte

83) Si può dire che Cicerone nel Somnium Scipionis rinnova


il concetto della Repubblica di Platone sul valore umano e l'im-
mortalità, ma che il suo è un cielo Romano, un Eliso per i grandi
patrioti, per le figure storiche di importanza prima. Così Cicerone
una volta di più testimonia del potere dell'antica idea della polis.
64) Tyrt. fr. 9, 37-42.
65) Tyrt. fr. 6, 7. Studiosi moderni hanno sostenuto che questa
lunga e famosa elegia, che è citata dall'oratore attico Licurgo
(Leocr. 107) come un modello di vera areté per la gioventù Attica,
risulti dall'accostamento di due carmi. Una completa esposizione
ùelle mie ragioni per oppormi a tale divisione, lascio ad altra
occasione; ma v. il mio saggio su Tirteo (Zoe. cit.) p. 565, II. 1.
186 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

.
del reietto, l'abiezione. Qui la logica inesorabile dei
diritti dello Stato sugli averi e sul sangue dei suoi
membri è raffigurata con incomparabile vigoria ed evi-
denza. La sorte crudele dei profughi in paese straniero
è rappresentata altrettanto realisticamente quanto
l'onore reso al prode in patria. Non fa differenza im-
maginarcelo sbandito, quando la situazione eccezional-
mente grave dello Stato esigeva davvero temporanea-
mente pene siffatte contro chi fuggiva in faccia al ne-
mico, oppure pensare all'esilio volontario di colui che
vuole sfuggire al servizio delle armi e vive quindi da
avventizio in un'altra città. L'abbinamento di altezza
ideale e di forza brutale che caratterizza lo Stato in
questi quadri, integrantisi reciprocamente, lo avvicina
alla natura degli dèi, e così fu infatti sentito dai Greci.
Anche il fondare la nuova virtù civile sul bene collet-
tivo non è, per il pensiero greco, mero utilitarismo di
natura materiale; questa comunità, la polis, poggia in-
vece su un fondamento religioso. Di fronte all'areté
dell'~pos il nuovo ideale politico dell'areté è, appunto,
anche espressione di un mutato atteggiamento religioso
dell'uomo. Lo Stato diviene compendio di tutte le cose
umane e divine.

Non può farci meraviglia trovare Tirteo, in un'altra


elegia- l'Eunomia 66 ), famosa nell'antichità - in veste
d'ammonitore nella politica interna e di campione del
vero ordinamento dello Stato. Egli inculca al popolo
il principio fondamentale della « Costituzione» spar-
tana, quale, indipendentemente, ci è tramandato nel-
!' arcaica rhetra, redatta in prosa dorica 67 ), conservata
da Plutarco nella Vita di Licurgo. Tirteo è testimone

66) Tyrt. fr. 2, 3ah (Diehl).


67) Plut. Lyc. 6.
CAP. V: L'EDUCAZlONE STATALE SPARTANA 187

principe dell'antichità di tale prezioso documento sto-


rico, della quale nella sua poesia dà in sostanza una
parafrasi poetica 68). Il poeta, evidentemente, si è sem-
pre più immedesimato nella parte di pubblico educa-
tore, sicché, nei carmi a noi noti, abbraccia tutto il
mondo spartano in pace e in guerra. Ciò c'interessa qui
più delle questioni sulla storia della tradizione e della
composizione, che si riconnettono alle due versioni pa-
rallele e discrepanti di questa poesia, d'importanza
somma per la storia arcaica di Sparta.
L'andamento dell'argomentazione dell'Eunomia è im-
_portante tanto per l'atteggiamento personale di Tirteo
quanto quale contrapposto storico allo spirito politico
della Ionia e d'Atene. Se là, ben presto, nessuno si
sente più vincolato all'autorità della mera tradizione
e del mito, ma si cerca di disciplinare la ripartizione
dei diritti pubblici a seconda d'un pensiero sociale e
giuridico la cui validità giudicavasi la più larga possi-
bile, Tirteo invece deduce la eunomia spartana, all'an-
tica, dall'aùtorità divina, ravvisando in tale origine la
sua suprema e intangibile garanzia. « Zeus Cronide
stesso, consorte della ben ghirlandata Hera, diede que-
sta città agli Eraclidi. Insieme con essi lasciammo il ven-
toso Erineos e venimmo all'ampia isola di Pelope» 69 ).
Accostando questo passo alla più estesa sequenza di
versi in cui il poeta riproduce in sostanza l'antica rhe-
tra 70), s'illumina pienamente il significato del suo rifarsi
dagl'inizi storico-mitici dello Stato spartano nell'epoca
della prima immigrazione dorica.
La rhetra limita i diritti del popolo di fronte al

68) Questa mi sembra la vera affinità della Eunomia cli Tirteo


con l'antica retra ricordata a n. 67. EDUARD MEYER in Forschun-
gen zur alten Geschichte, I 229, ha messo in dubbio l'autenticità
cli questo carme. Ma i suoi sospetti mi sembrano senza fondamento.
89 ) Tyrt. fr. 2.
70) Tyrt. fr. 3;ib.
188 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

potere dei re e del Consiglio degli anziani. Anche que-


sta legge fondamentale è fatta derivare da Tirteo dal-
!'autorità divina; fu sanzionata o anzi imposta dall'ora-
colo d'Apollo delfico. Se il popolo, che dopo la guerra
vittoriosa ma dura aveva acquistato coscienza della
propria forza e in premio della propria abnegazione
avrà chiesto diritti politici, si spinge troppo oltre m
questa via, Tirteo vuole rammentargli ch'esso deve sol-
tanto ai re, agli « Eraclidi», il suo diritto sul territorio.
A loro Zeus aveva assegnata la città, secondo l'antico
mito dello Stato, che qualifì.cava ritorno degli Eraclidi
l'immigrazione dorica nel Peloponneso. I re sono dun-
que l'unico legame giuridico che colleghi la situazione
presente con quell'antichissimo atto di donazione di-
vino, che creò lo Stato. Mediante l'oracolo di Delfo la
posizione giuridica dei re è fissata durevolmente.
L'E uno mia di Tirteo intende dare l'interpretazione
autentica dei fondamenti costituzionali del mondo spar-
tano. La sua costruzione, che deriva da un pensiero
mezzo razionale, mezzo mitico, presuppone lll forte
monarchia delle guerre Messeniche. Tirteo non è affatto
un reazionario: lo mostra il suo carme .sulla vera virtù
civica. S'egli cerca ivi di porre un'etioo dello Stato in
luogo dell'etica dell'aristocrazia, e lotta per l'incorpo-
razione del cittadino, quale guerriero, nello Stato, ciò
merita assai più il nome di rivoluzionario. Ma egli è
ben lontano dalla sovranità popolare 71). Il popolo, quale

11) Questa, almeno, sembra la sua posizione, quando lo guar-


diamo retrospettivamente alla luce degli sviluppi politici posteriori.
Dal punto di vista del tempo di Tirteo, il VII sec., la definizione di
virtù civica e la sua riduzione al semplice valore che ogni cittadino-
soldato deve possedere, appare piuttosto democratica, special-
mente se questo criterio si mette in confronto con quelle antiche
norme aristocratiche che, come si è cercato di mostrare, Tirteo
rifiutò come insufficienti (fr. 9). L'elemento democratico nella
costituzione Spartana è messo in rilievo dai più degli antichi
autori. Ma paragonandolo col grado raggiunto poi da Atene, si
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPAJITANA 189

appare nella Eunomia, è l'assemblea dei guerrieri, che


vota si o no su ogni proposta presentata dal Consiglio,
senza godere dal canto suo di libertà di parola. Dopo
la guerra, era probabilmente difficile mantenere questo
stato di cose, ma evidentemente ci si valse dell'autorità
popolare, che Tirteo si era guadagnata in guerra quale
capo spirituale, per erigere ad argine contro ulteriori
esigenze del popolo il « giusto ordine».

Il Tirteo dell' Eunomta appartiene a Sparta, il Tir-


teo delle elegie guerresche appartiene a tutta la grecità.
All'immagine d'un nuovo eroismo civico, sbocciata qui,
.nella guerra e nei perigli, in mezzo ad un mondo del
resto non troppo eroico e pieno di lotte di parte sociali,
s'era riacceso il fuoco della vera poesia. L'aver essa
compreso lo Stato nella grande ora decisiva della sua
esistenza, le assicurò per l'avV-enire il suo posto ac-
canto agl'ideali dell'epos omerico. Noi possediamo un'ele-
gia guerresca del poeta ionico Callino d'Efeso, che
deve spettare ad epoca non molto anteriore, la quale
per forma è pensiero invita ad un confronto con Tirteo.
Non è del tutto chiaro in che relazione si trovino i
due poeti; può darsi che siano affatto indipendenti
l'uno dall'altro. Callino incita i concittadini a corag-
giosa difesa contro i nemici: un frammento di un altro
carme ci permette d'inferire che si trattava delle schiere
predatrici dei barbari Cimmerii, che correvano l'Asia
Minore e invasero anche il regno di Lidia. Ecco sorgere,
nella stessa situazione, dai medesimi antefatti, una crea-
zione poetica affine. Troviamo in Callino la medesima
dipendenza da Omero in tutto ciò che è formale e la

può dire'-che lo sviluppo della tendenza democratica a Sparta,


che abbiamo visto in formazione al tempo di Tirteo, in. seguito
si arrestò.
190 LIBRO I - L'ETÀ ARCAlCA

medesima compenetrazione della forma epica con lo


spirito di solidarietà civica.
Ma ciò che per il figlio d'Efeso e per i suoi con-
cittadini, politicamente indifferenti, non fu che un sus-
sulto isolato, divenne a Sparta costante atteggiamento
e norma educativa. Tirteo infuse per sempre nei suoi
concittadini la nuova idea della comunità, e l'eroismo
ch'egli insegnava diede allo Stato spartano la sua im-
pronta storica. Quale instillatore dell'idea eroica dello
Stato, egli oltrepassò ben presto i confini di Sparta.
Dovunque, tra i Greci, si coltivò o fu promosso dallo
Stato un virile civismo, dovunque si volle onorar la
memoria degli Eroi, Tirteo rimase il poeta classico di
tale ideale «spartano», anche in Stati non spartani e
persino antispartani, come Atene 72). I suoi versi ricor-
rono negli epigrammi sepolcrali del V sec. per guerrieri
caduti e nelle pubbliche orazioni funebri del IV sec.,
fatte tenere dallo Stato ateniese per i suoi caduti. Nei
simposii sono recitati a suon di flauto; oratori attici,
come Licurgo, li imprimono nel cuore della gioventù
al pari delle poesie di Solone, e Platone prende Tirteo
a modello per il posto che assegna nel SlJO Stato ideale
alla classe dei guerrieri, ordinando che si tenga il guer-
riero in maggior conto che il trionfatore olimpico 73).
Nelle Leggi egli riferisce come anche nella Sparta
del IV sec. Tirteo valesse tuttora quale suprema espres-
sione del civismo dorico, il quale assegna per fine della

7B) V. l'osservazione sull'influenza di Tirteo nella storia del


pensiero e della letteratura greca a pp. 556-568 del mio saggio
ricordato a n. 50. Alla lunga lista di testimonianze là riferite,
che attestano il suo durevole effetto nei tempi posteriori, compresa
l'età democratica di Atene, possiamo ora aggiungerne un'altra
importante dell'età ellenistica: l'epigramma pubblicato da G. KLAF-
FENBACH nella relazione sui suoi viaggi di esplorazione epigrafica
in Etolia e Acarnania (« Sitz. Ber!. Akad.» 1935 p. 719). V. anche
« Paideia» III 382.
73 ) PI. Resp. 4651-466a.
CAP. V! L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 191

pubblica educazione dei cittadini l'avviamento alla va-


lentia guerresca. Tutti gli Spartani - dice egli - ne
sono «impregnati» 74). Egli mostra come debba far i
conti con lui anche chiunque non sia Spartano e, com'egli
stesso, non consideri perfetta né definitiva tale con-
cezione dell'essenza dello Stato e della eccellenza su-
prema dell'uomo.
Il processo non poteva arrestarsi a Tirteo. Ma ap-
punto là dove continua il travaglio dello spirito greco
intorno alla vera areté, noi troviamo regolarmente ch'essa
si riallaccia alle idee sovvertitrici di Tirteo, esposte
con tanta passione, e torna sempre a rifondere il con-
tenuto delle sue esigenze nuove nella vecchia forma
del suo carme intorno alla vera virtù. Tipico atteg-
giamento della «cultura» greca. Una volta coniata
una forma, essa rimane valida anche in stadi ulteriori
e superiori, e ogni elemento nuovo deve cimentarsi
con essa. Cosi il filosofo Senofane 75) di Colofone, modifì.-
cando Tirteo a cent'anni di distanza, cercò di dimo-
strare che solo la forza spirituale merita di tenere il
primo posto nello Stato, laddove Platone, continuando
quest'evoluzione, pone 76) la, giustizia accanto e sopra
l'intrepidità, e nello Stato ideale, che costruisce nelle

1') Pi Legg. 629h.


75) Xenoph. fr. 2 (Diehl). Se si confronta la prima parte del-
l'elegia di Senofane sulla vera areté col fr. 9 di Tirteo, risulta
evidente che la protesta del primo per il valore esagerato at-
tribuito al vincitore d'Olimpia non è solo un accordo incidentale
con la famosa poesia di Tirteo, ma che egli lo segue come modello
e lo varia abilmente. L'idea fondamentale delle due poesie è la
stessa: che esiste una virtù più alta di quella dei vincitori delle
grandi gare elleuiche. Tutti e due riaffermano la superiorità di
questa nuova idea di areté, e la esaltano. Ma la differenza tra
loro è sul concetto di questa più alta virtù. Per Tirteo essa è il
valore, mentre la mente filosofica di Senofane mette più in alto
la conoscenza (crocp(Q(). V. p. 324. Senofane ha elaborato la sua
nuova idea nell'antica forma poetica dell'elegia di Tirteo, come
anche Teognide in un modo leggermente diverso, v. 699 s.
7&) PL Legg. 660e.
192 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Leggi, vuole che Tirteo sia «rifatto» ìn tal senso,


per adattarlo allo spirito di questo Stato medesimo.

La critica di Platone, del resto, si rivolge non tanto


a Tirteo quanto agli eccessi dello Stato forte di Sparta
contemporanea, il quale scorgeva ìn quella poesia guer-
resca il documento della propria fondazione. Si nota
come persìno i suoi maggiori ammiratori non riuscis-
sero a scoprire alcuna traccia dello spirito delle Muse
in quella tardiva Sparta, fattasi rigida e unilaterale. Il
silenzio di Senofonte e i vani sforzi di Plutarco per col-
mare questa lacuna sono per se stessi eloquenti. Non
occorre dipìngere questa povertà come virtù. Fortu-
natamente, ad onta della nostra documentazione fram-
mentaria, siamo ancora ìn grado di mostrare come
:O.ella genuìna antica Sparta dell'età eroica del sec. VII
vi fosse posto per una vita più ricca e come essa fosse
esente affatto dalla posteriore povertà di spirito, che
tanto contribuì a formare la figura storica di Sparta.
Per quanto Tirteo apprezzi - e a ragione - più la
valentia nelle armi che non la mera educazione ginna-
stica del corpo, tuttavia l'elenco dei ~citori olimpici
nei secoli VII-VI, soprattutto dopo l'esito felice delle
guerre Messeniche, dimostra che Sparta seppe eccel-
lere anche ìn queste pacifiche competizioni, · giacché i
nomi spartani sopravanzano di gran lunga quelli degli
altri. Stati partecipanti 77).
Ma anche nelle arti e nella musica quell'antica
Sparta non si isola con rigore ostile dalla lieta vita
degli altri Greci, come sarà poi ritenuto vero carattere
spartano. Gli scavi hanno messo in luce, precisamente
di quell'epoca primitiva, avanzi di un'intensa attività
architettonica e di un'arte che risente l'influenza di mo-

77) V. O. BBINDIANN, Die Olympische CTonik in « Rhein. Mu-


seum» N. F. LXX (1915} 634. ·
CAP. V: L'EDUCAZIONE STATALE SPARTANA 193

delli della Grecia orientale. Ciò concorda con l'importa-


zione, dovuta a Tirteo, dell'elegia d'origine ionica. In quel
tempo si fece venire a Sparta il grande musico Ter-
pandro di Lesbo, inventore della cetra a sette corde,
perché dirigesse i cori nelle feste religiose e li trasfor-
masse secondo le sue fondamentali innovazioni 78 ). La
Sparta più recente si attenne tenacemente alla maniera
terpandrea, respingendo ogni cambiamento come una
rivoluzione politica. Ma appunto in questo irrigidi-
mento appare ancora sino a qual punto, nell'antica
Sparta, leducazione musicale fosse considerata forma-
tiva per tutto quanto l'ethos umano. Di qui è dato
risalire al tempo in cui queste forze artistiche avevano
agito con la piena vivacità originaria.
Gli ampi avanzi della poesia corale del poeta lirico
Alcmane, nativo di Sardi ma divenuto cittadino spar-
tano, compiono felicemente il quadro della Sparta ar-
caica. Nella sua nuova patria egli dovette trovar campo
per un'attività sufficiente a riempire tutta l'esistenza.
Tirteo, per lingua e forma, si era ancora attenuto del
tutto ad Omero; Alcmane, sicuro di sé, introduce il
dialetto laconico nella lirica corale. Nei versi da lui
scritti per cori di fanciulle spartane spumeggia l'esube-
ranza maliziosa e la forma realistica della razza dorica,
che nell'elegia di Tirteo non osava interrompere se non
a tratti la stilizzazione omerica. Con l'apostrofare de-
terminate fanciulle del coro, chiamate per nome, pro-
clamandone i pregi e alludendo scherzosamente alle
loro amhizioncelle e piccole gelosie, i canti di Alcmane
ci trasportano col medesimo senso di vivo realismo in
mezzo all'animazione degli agoni musici della vecchia
Sparta, dove nemmeno il sesso femminile restava in-

78) Plut. De Mus. 4. Sul tempo di Terpandro (fonte: Glaucone


di Reggio), su Terpandro e la 7tp<li-r'l) xcx-roca-rcxcnç della musica
a Sparta~ ib. 9. cfr. De Mus. 42.
194 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

feriore per emulazione agli uomini. Vi si sente già


chiaramente quel più libero atteggiamento della donna
nella vita pubblica e privata cli Sparta 79 ), che dava
nell'occhio agli Ioni, influenzati dall'Asia, e agli Ate-
niesi, in ciò dipendenti da quelli. Questo tratto, come
tante altre particolarità etniche doriche nei costumi
e nella lingua, è un residuo, fedelmente conservato,
dell'età prima della razza dominatrice immigrata, che
qui perdura più vivace che nel resto dell'Ellade.

79) Più tardi Aristotele (Pol. Il 9, 1269 b 17 ss.) criticò le donne


spartane per la loro licenziosità (&ve:cnç). In 1270 a, egli segue
le tracce della loro libertà su su fino al principio della storia
Spartana. Egli parla anche di dominio delle donne (yu'.lamco-
xpa:Te°fo"&cu) in Sparta, che egli crede essere tipico degli stati
militari.
CAPITOLO SESTO.

LO STATO SECONDO IL DIRITTO


E IL SUO IDEALE CIVICO

Il contributo del resto della grecità alla formazione


dell'uomo in quanto essere politico è meno nettamente
circoscritto che non la parte che vi ebbe Sparta, non
foss'altro perché non si può indicare alcuno Stato de-
terminato, nel quale abbiano avuto luogo i passi deci-
sivi. Soltanto nell'Atene dell'inizio del VI secolo ritrO:.
viamo un fo~damento di memorie sicure, giacché ivi lo
spirito nuovo, che prende possesso dello Stato, trovò
espressione nelle creazioni poetiche di Solone. Ma que-
sto Stato attico fondato sui diritto presuppone una
lunga evoluzione, poiché Atene è l'ultima fra tutte le
grandi città greche a fare il suo ingresso nella storia.
La dipendenza di Solone dalla cultura ionica, che tra-
spare ad ogni passo, non ci lascia dubbio che anche
l'origine del nuovo pensiero politico va ricercata nel
paese più critico e di maggiore mobilità spirituale del
mondo greco, nella Ionia 1). Non abbiamo purtroppo
che nozioni manchevolissime delle condizioni politiche
delle colonie. Dobbiamo accontentarci di induzioni che

1 ) V. il cap. su Solone., pp. 257-259, per l'influsso ionico 8UI


pensiero di Solone.
196 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

si possono trarre in base alle circostanze posteriori e


ad avvenimenti analoghi in altri luoghi.
Nella Ionia non si ebbe, a quanto pare, poesia po-
litica alla maniera di Tirteo e di Solone 2), eccezion fatta
di Callino, del quale ebbimo già a parlare 3 ). Non ab-
biamo il diritto di ritener casuale tale difetto di poesia
politica. Esso ha evidentemente una ragione profonda
nell'indole della stirpe ionica. Gli Ioni, comein gene-
rale i Greci dell'Asia Minore, mancavano di energia
politica costruttiva e non presentano in nessun luogo
una formazione statale duratura, storicamente efficiente.
Anch'essi invero, all'epoca della loro immigrazione, il
cui ricordo vive nell'epos omerico, ebbero la loro età
eroica, e sarebbe fallace il raffigurarceli sin da prin-
cipio come quel popolo molle e voluttuoso che cono-
sciamo nell'epoca di poco precedente le guerre Persiane').
La loro storia rimane sempre piena di lotte sanguinose,
e i loro poeti, Callino, Archiloco, Alceo· e Mimnermo,
sono veramente una stirpe guerriera 6). , Ma lo Stato
non è mai per loro la realtà propriamente suprema, cpme
in Sparta e in Atene. La funzione degli Ioni nella
storia dello spirito greco consiste nella J.ilierazione delle
forze individuali, anche nella vita politica. Ma sebbene
lo Stato coloniale ionico, in complesso, non possieda la

2 ) Qualche studioso moderno ha postulato la sua esistenza.,


ma realmente non c'è traccia di una più antica poesia politica.
8 } V. p. 189 s.

') Anche Senofane (fr. 3 Diehl) accusa gli Ioni di« lusso inu-
tile» (&:~poO'UV7J &vù>tpe:À-fiç) appreso dai Lidi che causò la loro
decadenza politica e si riferisce in particolare agli abitanti della
sua città natale, Colofone. Ma &:~p6~~o~ e &:~po8(a:~-.o~ pare che
fossero i termini soliti per descrivere i Lidi e gli Ioni e la loro
vita lussuosa al tempo di Eschilo; cfr. Aesch. Pers. 41eBacch.17, ~.
6 ) Anche Mimnermo, il poeta più conosciuto per la sua esal-
tazione sentimentale dei piaceri sensuali dell'amore, celebrò nelle
sue poesie la conquista di Colofone e Smirne per opera dei primi
coloni. In un'elegia descrisse con grande ammirazione il porta-
mento eroico di un cittadino di Colofone nelle battaglie equestri
coi Lidi nella valle del fiume Ermo. Fr. 12 e 13 Diehl.
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 197

capacità di subordinare a se . stesso tali nuove forze e


di rinvigorirsi mercé loro, pure in esso per la prima
volta si affermarono le idee politiche che poi, nell'am-
biente più saldo della madrepatria, diedero l'avvio al
più fruttuoso rinnov_amento dello Stato.
Troviamo nell'epos omerico i primi riflessi della
vita della polis ionica. La lotta dei Greci intorno a Troia
non offriva, certo, occasione diretta di descrivere una
città greca, ché i Troiani sono barbari per Omero; ma
senza volerlo si affacciano lineamenti d'una polis ionica
quando il poeta narra la difesa di Troia, ed Ettore, sal-
vatore della patria, divenne anzi un modello per Cal-
lino e Tirteo. Qui, e specialmente in Callino (p. 190),
pare ci si accosti assai all'ideale spartano. Ma lo Stato·
città ionico volse presto in un'altra direzione, anch'essa
già accennata nell'epos. Nell'unico luogo dove lIliade
presenta l'immagine d'una città in pace, nella recenziore
descrizione dello scudo d'Achille, ru. centro della città,
sul mercato, troviamo rappresentata la scena d'un tri-
bunale, in cui « gli anziani» siedono sulle lisce pietre
in sacro circolo e rendono giustizia 6). Le famiglie no-
bili hanno dunque già ampia_ parte nell'amministrazione
della giustizia, che in origine era stata di spettanza del
re. n detto famoso contro la poliarchia ') dimostra che
v'erano ancora re, ma che si trovavano già spesso in
difficoltà. Anche la descrizione dello scudo menziona
beni della Corona e parla d'un re che assiste con com-
piacimento alla coltivazione della terra 8). Ma non de-
v'essere che un nobile, proprietario terriero, giacché
l'epos chiama spesso anche i nobili signori co] titolo
di basileus. La vita agricola della madrepatria, presup-

8) ~ 503; v. p. 108 s.
7) B 204.
') ~ 556.
198 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

posto della sovranità territoriale, perdurò dapprima


immutata nelle colonie. Altro esempio è quello del re
feace Alcinoo. Sebbene legittimo re ereditario, egli non
ha che la presidenza d'onore tra i geronti del Consiglio.
Il trapasso, dunque, dalla monarchia alla signoria dei
nobili non era più cosa remota; frattanto la carica di
basil.eus quale sommo sacerdote o magistrato eponimo
perdurò qua e là, senza che, de] resto, diritti speciali ·
fossero inerenti al titolo. Questa evoluzione ci è nota
soprattutto in Atene, ma si rileva anche . altrove. In
Atene la monarchia dei Codridi decade via via a mera
parvenza e cede il posto alla signoria dei nobili, che
troviamo ancora al tempo di Solone. Non ci è dato sa-
pere quanto tempo dopo l'immigrazione tale tipica
evoluzione si sia compiuta caso per caso nella Ionia.
La ristrettezza della zona costiera sulla quale si
assiepavano le schiere degl'immigrati in continua af-
fluenza e l'impossibilità di distendersi maggiormente
nell'interno del paese, ch'era ancora nelle mani di po-
polazioni barbariche non aventi ancora saldo assetto
politico, ma combattive, come i Lidii; i Frigi e i Carii,
spingeva sempre più le città litoranee, con la cre-
scente sicurezza della navigazione, al commercio ma-
rittimo. Anche qui, l'imprenditrice fu dapprima la no-
biltà possidente, la quale seppe prendere Un. nuovo
indirizzo. _I Greci delle colonie furono sin da prin-
cipio gente meno sedentaria, una volta staccatisi dalla
madrepatria. L'Odissea rispecchia già l'orizzonte oltre-
marino, immen.samente·ampliato, e il nuovo tipo d'uma-
nità del navigatore ionio. Odisseo non è tanto il bel-
l!coso cavaliere, quanto l'incarnazione dello spirito
d'avventura e del gusto dell'esplorazione in terre lon-
tane e dell'accorta spigliatezza degli Ioni, usi a presen-
tarsi in ogni paese e capaci sempre di trarsi d'impaccio.
L'orizzonte dell'Odissea si spinge, ad oriente, sino alla
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 199

Fenicia e alla Colchide, a mezzogiorno sino all'Egitto,


ad occidente sino alla Sicilia e agli Etiopi occidentali,
e a settentrione, oltre il Mar Nero, sino al paese dei
Cimmerii 9 ). È cosa affatto ordinaria il racconto d'incon-
tri del navigatore con gruppi di marinari e mercanti
fenici, il cui commercio abbracciava tutto il Me-
diterraneo e faceva ai Greci la più aspra concorrenza.
Anche il viaggio degli Argonauti fu una genuina epopea
di navigatori, coi suoi racconti meravigliosi di terre e
genti remote da esso toccate. Il commercio ionico crebbe
col rapido sviluppo industriale delle città dell'Asia Mi-
nore, che soppiantava sempre più la vita di tipo agrario.
Slancio decisivo ebbe con l'introduzione della mone-
tazione aurea dalla vicina Lidia e col sorgere della cir-
colazione del danaro in luogo della permuta. Segno
certo della sovrapopolazione delle città marinare della
Ionia, piccole agli occhi nostri, è ch'esse, come la ma-
drepatria, nei secoli dall'VIII al VI ebbero parte cospi-
cua nella colonizzazione delle coste del Mediterraneo,
della Propontide e del Ponto. Il numero stupefacente
di colonie emanate da un'unica città come Mileto ci
attesta, in mancanza d'altre tradizioni storiche, la forza
d'espansione e l'intraprendenza degli Ioni e la vita pul-
sante che regnò nelle città greche dell'Asia Minore di
quell'epoca 10).
Sguardo lungimirante, pronta mobilità e iniziativa
personale sono i caratteri salienti dell'uomo nuovo che
ivi si formò. Con le mutate forme dell'esistenza doveva
necessariamente sorgere uno spirito nuovo; l'orizzonte
ampliato e il senso della propria energia aprivano la
via a un più ardito volo del pensiero. Lo spirito di
critica indipendente, che incontriamo .nella Ionia così

9) N 272.
10) V. F. BIU.BEL, Die ionische Kolonisation (Lipsia. 1926).
200 LIBRO I· L'ETÀ ARCAICA

nella poesia individuale d'Archiloco come nella filosofia


milesia, doveva farsi strada anche nella vita pubblica.
Non abbiamo notizia delle lotte interne che dovettero
svolgersi qui prima che in qualsiasi altra parte della
grecità. Ma la serie di testimonianze che esaltano quale
fondamento della società umana il Diritto si estende,
nella letteratura ionica, dalle parti più recenti dell'epos,
attraverso Archiloco e Anassimandro, sino ad Eraclito 11).
Quest'alta estimazione del diritto per parte di poeti e
filosofi non precorre la realtà, come si potrebbe credere,
anzi evidentemente non è che il riflesso dell'importanza
fondamentale di tale conquista nella vita pubblica del-
l'epoca che va dal secolo VIII al principio del secolo V.
E, a cominciare da Esiodo, vi s'intona poi il coro dei
poeti della madrepatria, Solone ateniese sovrastando
ogni altra voce.
Ogni giurisdizione era stata sino allora senza con-
trasto nelle mani della nobiltà, che, senza legge scritta,
giudicava secondo la tradizione. Con l'inasprirsi del
contrasto tra la nobiltà e i semplici cittadini, il quale
doveva risultare dalla migliorata situazione economica
della popolazione non nobile, ciò conduceva facilmente
all'abuso politico dell'ufficio di giudice e alla richiesta,
per parte del popolo, d'un diritto scritto. Le accuse
d'Esiodo contro i venali giudici aristocratici, che sfor- .
zano il diritto, sono il necessario preludio a tale riven-
dicazione 12). Mercé loro la parola Diritto,. dike, diventa
la parola d'ordine della lotta di classe. La storia della
codificazione del diritto nelle singole città dura secoli,

11) Cfr. Archil. fr. 94, che mostra come nei carmi di lui, anche
gli animali della favola insistono sui loro diritti e si rivoltano
contro l'ingiustizia. Per il cgncetto di Anassimandro di una giusti-
zia cosmica (8bc71), v. pp. 299-300; su Parmenide p. 326 s.; su Era-
clito p. 338 ss.
11) V. p. 135 ss.
CAl'. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 201

e ne sappiamo pochissimo 13). Ma qui si tratta piuttosto


del principio come tale. Diritto scritto equivale a di-
ritto eguale per tutti, grandi e umili. A giudici dove-
vano continuare ad esser designati dei nobili, non gente
del popolo, ma in avvenire dovevano esser vincolati,
nei loro giudizi, a norme fisse della dike.
Lo stato di cose arcaico appare in Omero. Egli, per
lo più, denomina il diritto anche con un'altra parola:
themis 14.). Ai re omerici Zeus ha dato « scettro e
themis » 1 6). La themis è l'essenza dell'autorità giudica-
tiva degli antichi re e nobili signori. Secondo la sua
radice linguistica, questa parola significa il « cànone ».
Il giudice dell'età patriarcale rendeva giustizia secondo
il cànone dovuto a Zeus, la cui norma attingeva libera-
mente dalla tradizione del diritto consuetudinario e
dall'esperienza propria. Il concetto di dike è etimolo-
gicamente oscuro. Deriva dal linguaggio processuale
greco, e, per se stesso, dev'essere antico quanto la
themis 16). Si diceva «dare e ricevere dike » delle parti
contendenti, conglobando ancora sentenza punitiva ed
esecuzione. Il colpevole « dà dike », ciò che in origine
equivale a risarcimento; la parte lesa, il cui diritto è

1 3) Oltre le legidazioni di Licurgo e Solone, i Greci furon'l


soliti esiùtare le leggi di Dracone, Zaleuco, Caronda, Androdamante,
Pittaco, Filolao e altri. Aristotele - Pol. II 13 - le ricorda come
i codici più importanti. Le leggi di Gortina in Cr'lta furono
conosciute con la scoperta della famosa iscrizione, pubblicata con
un commento da Biicheler e Zitelmann.
14) A 779, II 796; ~ 56 ecc. 0sµti; è ciò che è «posto» dal
costume e, in questo senso, è giusto.
15) B 206.
16) Il libro di R. HIRZEL, Themis, Dike und VeTwandtes (Lipsia
1907) fu un eccellente studio per il tempo in cui fu scritto, ma oggi
fa l'effetto di essere piuttosto privo di senso storico. È antiquato
sotto molti rispetti, ma ancora contiene molto materiale di valore.
Un utile schizzo dello svolgimento storico dell'idea, si può trovare
nell'opera di V. EHRENBERG, Die Rechtsidee im frilhen Griechentum
(Lipsia 1921). Il tentativo di derivare 3bc71 da 3~xe~v, «gettare»,
non mi sembra riuscito.
202 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

ristabilito dalla sentenza, «riceve dike »; il giudice


« assegna dike ». Il significato-base di dike è quindi al-
l'incirca quello di: ciò che spetta a ciascuno 17). Designa
inoltre concretamente il processo, la sentenza e la pena,
solo che in questo caso il significato intuitivo non è,
come di solito, l'originario, bensi il derivato. Il senso
più elevato, che la parola riceve nella vita della polis
dell'epoca post-omerica, non sorge da questi significati
maggiormente esteriorizzati in senso tecnico, ma dal-
!' elemento normativo insito in quelle antichissime e
notissime formule del linguaggio giuridico. Esso denota
la spettanza cui si ha diritto, quindi il principio stesso
che garantisce questo diritto e al quale ci si può appog·
giare, qualora uno sia danneggiato dalla hybris, che in
origine è la parola regolare per significare l'azione con-
traria al diritto 18). Se la themis si riferiva piuttosto
alla posizione autoritaria del diritto, alla sua legalità
e validità, la dike ha di mira la sua applicabilità giudi-
ziaria. Si comprende che la dike doveva· di necessità
diventare la parola d'ordine principale in un'età di
lÒtta per le rivendicazioni giuridiche d'un ceto che sino
allora aveva sempre dovuto accettare ,i) diritto sol-
tanto quale themis, cioè quale legge e validità autori-
taria, imposta dall'alto. L'appellarsi alla dike diviene
ora sempre più frequente, appassionato, esigente 19).

17) Forse un po' di questo significato era ancora vivo nell'uso


avverbiale della parola - in realtà un antico accusativo - come
in xuvòc; 8(xljv, che noi traduciamo «a mo' di un cane». V. anche
l'omericolj &v-&pcim(J)V 8lx1J fo-.l(noi «come è giusto per un uomo»)
e così lxe:~ 8bt1JV significa« egli ha la sua parte».
18) Dike e hyhris sono opposte per i Greci. Nei più antichi
autori hybris significa la concreta violazione del nomos, p. es.
rubare dei cavalli. Quella hybris, di cui poeti moderni parlano
così spesso· come di qualche ·cosa di particolarmente greco, cioè
il trascendere i limiti della natura umana e tentare gli dèi, è un'ac·
· cezione particolare della parola per cui v. p. 313 ss.
19) V. V. EBRElllBEIIG, op. cil. p. 54 ss.
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 203

Ma nell'origine della parola v'era anche un altro


elemento che la predestinava a questa lotta: quello
dell'eguaglianza. Esso dovette esservi contenuto in
germe sin da principio; e ne abbiamo la miglior con-
ferma nella mentalità popolare primitiva, che voleva
reso pari per pari, restituzione eguale di quanto si sia
ricevuto, e pari compenso per il danno arrecato. È ovvio
come questi principii fondamentali siano sorti intera-
mente dalla sfera del diritto di proprietà, e ciò collima
coi dati tipici della storia del diritto d'altri popoli. In
ogni tempo, per il pensiero greco, quest'elemento origi-
nario dell'eguaglianza rimase incluso nella parola dike.
Anche la dottrina filosofi.ca dello Stato di secoli ulte-
riori muove di qui, cercando soltanto una nuova inter-
pretazione del concetto d'eguaglianza, eh.e nella sua
ultima forma meccanica, quale ricevette nel campo
del diritto pubblico della democrazia, doveva contra-
stare all'estremo con la concezione aristocratica di Pla-
tone e d'Aristotele circa il vario valore degli uomini.
Per il periodo più antico l'esigenza d'una parità
di diritto fu scopo supremo 20). In ogni contesa, per
quanto di poca entità, circa il mio e il tuo, occorreva
una misura per misurare equamente la porzione spet-
tante a ciascuna delle parti. Si ripete qui sul terreno

20) Cfr. Solone fr. 24, 18-19. Lo stesso ideale è implicito nell'uso di
Dike in Esiodo. Il pensiero di Solone è evidentemente ispirato dalla
Ionia. Il fatto che assai antica sia la richiesta dell'uguaglianza
di diritto di fronte alla legge e al giudice, potrebbe giustificare
la presunzione che l'idea di isonomia (che diventa corrente solo
nel V sec. e significa eguaglianza democratica) sia più antica
di quanto proverebbero le scarse testimonianze di cui disponiamo,
e originariamente abbia nvuto l'altro senso di uguaglianza davanti
alla legge. EBREMBERG, op. cit. p. 124, si oppone a questa sup-
posizione: l'idea di Hirzel che isonomia significhi «equa distri-
buzione della proprietà » (p. 240) mi sembra essere antistorica
e non risponde nemmeno all'opinione dei democratici greci più
estremisti.
204 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

del diritto il problema che quell'epoca medesima ri-


solse quanto allo scambio economico delle merci adot-
tando un sistema :fisso di pesi e misure: si cercava la
giusta « J,UÌsura » per la partecipazione al diritto e la si
trovò nell'esigenza dell'eguaglianza, contenuta nel con-
cetto stesso della dike.
Certo, ci s'ingannava ancora non scorgendo l'am-
biguità di questa norma, ma fu forse appunto questo
a renderla praticamente atta a servire da parola d'or-
dine nella lotta politica. Si poteva intendere per essa
la mera eguaglianza dei non-pari, cioè dei non-nobili,
dina,nzi al giudice o alla .legge, ove legge vi fosse; ma
poi anche la partecipazione attiva alla giurisdizione o
l'eguaglianza costituzionale del voto d'ognuno negli af-
fari dello Stato; infine la partecipazione del semplice
cittadino agli uffici direttivi, eguale a quella che già
aveva l'aristocrazia. Ci troviamo qui, dunque, agl'iniZi
di un processo evolutivo che, nel suo sv~lgimento, con
lo spingere sempre più oltre la meccanizzazione e l'esten-
sione dell'idea di eguaglianza, portò alla democrazia.
Essa non è tuttavia contenuta necessariamente nella ri-
chiesta d'egual diritto per tutti o d'una legge scritta.
Queste due si ebbero anche in Stati oligarchici e mo-
narchici, e d'altra parte è caratteristico dell'estrema
democrazia che in essa non la legge, ma la moltitudine
domina lo Stato. Dovevano passare secoli prima che
in Grecia si sviluppasse e si diffondesse tale forma di
Stato.
Si forma dapprima una serie di grandi prelimi-
nari. I più antichi presentano ancora una sorta di si-
gnoria della nobiltà. Ma non è più quella d'una volta,
dacché la dike ha creato una piattaforma per la vita
pubblica, sulla quale altolocati e gente da poco si af-
frontavano come «uguali». Anche la nobiltà dovette
aprirsi al nuovo ideale del polite, che sorgeva dall'orien-
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 205

tamento verso il diritto e questo prendeva per misura.


Quante volte, negli imminenti periodi di lotta sociale
e di rivoluzione violenta, non dovette cercarvi prote-
zione la stessa nobiltà! Persino nel linguaggio si an-
nuncia il formarsi del nuovo ideale. Sin dai tempi
antichissimi si avevano ben.si numerosi vocaboli per
designare determinate specie concrete di delitti. come
adulterio, assassinio, rapina, furto, ma mancava un
concetto generale per indicare la qualità morale in virtù
della quale si evitano tali eccessi e si rispetta il giusto
limite. L'età nuova conia all'uopo il termine astratto
« giustizia», dikaiosyne, così come, in quel tempo di
somma estimazione delle virtù agonali, come la lotta,
il pugilato, ecc., si crearono i sostantivi corrispondenti,
che mancano in lingua nostra21). Il nuovo vocabolo sor-
geva dalla crescente interiorizzazione del sensQ del di-
ritto e dal suo oggettivarsi in un tipo d'uomo speciale,
in una particolare areté. In origine le aretai erano pre-
rogative d'ogni genere, che si hanno o si godono. Con
l'equiparazione dell'areté virile con la· prodezza si era
poi fatto innanzi un fattore etico, cui tutti i pregi ehe
un uomo possa avere per giunta, si subordinano e cui
debbono servire. La nuo~a dikaiosyne era di un genere
più oggettivo. Essa divenne ora l'areté in senso asso-
luto, tanto più dacché si credeva di possedere, nella
legge scritta, il criterio infallibile del giusto e dell'in-
giusto. Con la determinazione scritta del nomos, cioè della
giurisprudenza valevole per tutti, il concetto generale
della giustizia riceveva un contenuto tangibile. Essa
consisteva ora nell'obbedienza alla legge dello Stato,

21) L'aggettivo IHxaLoç, che rappresenta uno stadio preliminare


in questo processo, appare nell'Odissea e in alcuni passi dell'Iliade;
ma il sostantivo lhxaLOO"OV7J non si trova in Omero. IlaÀaLO"(LOcr0\17J
o itaÀaLµoc;Òv7J è usato da Omero, Tirteo e Senofane; m>x~o<JUv7J
si direbbe inventato da Senofane.
206 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

così come la «virtù» crIStlana consisterà più tardi


nell'obbedienza ai comandamenti divini.
Cosi sorge qui una nuova forza d'educazione umana
nella volontà giuridica generata dalla comunione di vita
della polis, analogamente a quella avutasi, nella fase
aristocratica precedente, nell'ideale cavalleresco del va-
lore guerresco. Nelle elegie di Tirteo quest'antico ideale
era stato fatto proprio dallo Stato spartano ed elevato
a virtù civile generale 22). Nel nuovo Stato secondo il
diritto e secondo la legge, sorgente da gravi lotte in-
terne per il suo regime costituzionale, questo tipo spar-
tano, meramente guerriero, .non poteva valere quale
unica, totale realizzazione dell'uomo politico. Ma, come
mostra lappello del poeta efesio Callino ai suoi im-
belli concittadini per la difesa contro i barbari inva-
sori del paese, la virile combattività non mancava
nemmeno nello Stato ionico al momento opportuno,
solo che ne mutava il posto nell'àmbito dell'areté. Il
valore in faccia al nemico, sino a] sacrificio della vita
per la patria, diviene ora un dovere che la legge im-
pone ai cittadini e la cui inadempienza punisce con
grave pena, ma non è, appunto, che un 'dovere tra gli
altri. Chi è giusto nel senso concreto che la parola
possiede quind'innanzi nel pensiero politico greco, cioè
chi è ossequiente alla legge e si regola secondo la sua
norma 23), quegli compié anche il suo dovere in guerra.
Il libero ideale antico dell'areté eroica dell'eroe ome-
rico diventa rigoroso dovere civico, cui tutti i citta-
dini sottostanno ugualmente, precisamente come il ri-

U) Cfr. p. 181.
•3) La concezione della giustizia come obbedienza alle leggi.
è generale nel V e IV sec. a. C.; cfr. i passi recentemente scoperti di
Antifonte (Pap. Ox. X.I 1364, col I [l-33]; Hunt; DIELS, Vorsokra·
tiker• II 346), e i passi ricordati in HIBZEL, op. cit. 199 n. 1, spe·
cialmente Pl. Cri:. 54h.
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 207

spetto dei limiti del mio e del tuo. Tra le sentenze


poetiche famose del VI secolo trovasi il verso, spesso
citato dai filosofi posteriori, che dice compresa nella
giustizia ogni virtù. L'essenza del nuovo St~to secondo
la legge è così defuùta in modo non meno esauriente
che conciso 24).

Col concetto della giustizia quale areté del perfetto


cittadino, la quale abbraccia e sodisfa ogni dovere,
tutti i precedenti sono superati, ma i gradi anteriori
dell'areté non sono con ciò annullati, bensì conservati
nella nuova forma superiore. Tale è il significato di
ciò che Platone chiede nelle Leggi 25), doversi nello
Stato ideale «ritoccare» la poesia di Tirteo che esalta
la prodezza quale somma areté, ponendo la giustizia
al posto della prodezza. Platone non vuole con questo
escludere la virtù spartana, ma soltanto collocarla al
posto che le spetta, e la subordina alla giustizia. Il va-
lore nella guerra civile è da apprezzare diversamente
da quello dimostrato contro il nemico della patria 26).
Platone dà un esempio molto eloquente per mostrare
come tutta l'areté sia compresa nell'ideale dell'uomo
giusto. La sua ordinaria terminologia distingue quattro
« virtù »: prodezza, pietà, giustizia e prudenza. Pre-
scindiamo qui dal fatto che nella Repubblica, e
spesso altrove, invece della pietà troviamo la saggezza,
più filosofica. Questo cànone, delle quattro cosiddette
virtù platoniche, s'incontra del pari già in Eschilo quale
essenza della vera virtù civile. Platone l'ha semplice-
mente ripreso dall'etica della polis della Grecia ar-

' 4) Phocyl. fr. 10; Theogn. 147.


26) Pl. Legg. 660e.
21) Pl. Legg. 629c ss.
208 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

caica 27). Ma la quadruplicità di tale canone non gl'im-


pedisce di riconoscere che l'intera areté è contenuta
nella giustizia 28). In Aristotele questo fenomeno si ri-
pete nell'Etica Nicomachea. Egli distingue un numero
d' aretai assai maggiore che Platone, ma dove il discorso
cade sulla giustizia egli parla d'un doppio concetto di
questa virtù: una giustizia in senso stretto, la giuri-
dica, ed una generale, che comprende l'insieme delle
norme IQ.orali e politiche. In questa non è difficile rico-
noscere il concetto di giustizia dello Stato secondo legge
della Grecia arcaica. E infatti Aristotele si riferisce
espressamente, quanto ad esso, al verso sopra citato,
essere ogni virtù compresa nella giustizia 29). La legge
con le sue prescrizioni, regolava le relazioni del citta-
dino con gli dèi dello Stato, con i concittadini e con
i nemici della patria.
La derivazione dell'etica filosofica. di Platone e
d'Aristotele dall'etica della polis greca ai_:caica non era
più nota alle età posteriori, che solevano considerarla
come l'etica in senso assoluto e quindi extratemporale.
Quando, nelle chiese cristiane, s'incominciò a discu-
terla, si trovò singolare che Platone ed /Aristotele chia-
massero virtù morali la prodezza e la giustizia. Era
necessario fare i conti con questo dato fondamentale
della coscienza morale dei Greci. Per un'età senza co-
munità politica, senza Stato nel senso classico, e se-
condo la visuale della mera etica religiosa individuale,

27) Aesch. Sept. 610. Il Wilamowitz credette questo verso


spurio e lo espunse nella sua edizione di Eschilo, come riflettente
il canone platonico delle virtù, ma poi rinunziò a questa atetesi.
Cfr. le mie lezioni Platos Stellung im Aufbau der griechischen Bildung
in « Die Antik:e» (1928) 163, e Die griechische Stàatsethik im Zeit-
alter des Plato (1924) 5 (ristampato in Humanistische Reden und
Vortriige).
28) Pl. Resp. 433h.
19) Arist. Eth. Nic. V 3, 1129 b 27.
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 209

ciò non era comprensibile, era anzi un puro paradosso;


e si compilarono vane dissertazioni dottorali sulla que-
stione: se e perché la prodezza fosse una virtù. Per noi
l'accoglimento consapevole dell'antica etica della polis
nell'etica filosofi.ca posteriore, mediante la quale con-
tinua ad esercitare influenza sulla posterità, è un pro-
cesso affatto naturale della storia dello spirito. Nessu-
na filosofia si alimenta, infatti, di pura ragione; essa
non è che la forma, concettualmente sublimata della
cultura e civiltà storicamente formatasi. Ciò vale, per lo
meno, per la filosofia di Platone e d'Aristotele; la quale
non è comprensibile senza la cultura greca, né questa
senza di quella.

Il processo storico, qui anticipato, dell'accoglimento


dell'antica etica della polis e del suo ideale umano per
parte della filosofia del IV secolo a. C., trova esatto
riscontro nell'epoca della formazione della cultura della
polis. Anche questa ha già accolti in sé i gradi pre-
cedenti. Non fa propria soltanto l'areté eroica d'Omero,
ma anche le virtù agonali, tutta l'eredità del periodo
aristocratico, come fa del r:esto anche l'educazione sta-
tale spartana all'epoca in cui veniamo a conoscerla.
La polis incoraggia i suoi cittadini a gareggiare nelle
competizioni olimpiche e in altre ed incorona chi ritorna
vincitore con gli onori più alti. Se, prima, la vittoria
non rendeva famosa che la schiatta del vincitore, in
tempi di crescente senso di solidarietà di tutta la cit-
tadinanza essa serviva ad maiorem patriae gloriam 30).

30) Cfr. le parole di Tirteo e Senofane (pp. 182 e 324)


sul pubblico riconoscimento e sulla posizione sociale elevata
garantita dall'intera polis al vincitore olimpico ai loro tempi,
cioè dalla metà del VII al primo terzo del V sec. Con Senofane
raggiungiamo il tempo di Pindaro, Simonide e Bacchilide, la cui
poesia fu in grande misura dedicata alle lodi dei vincitori nei
giochi ellenici ( cfr. p. 377 ss.).
210 UBRO I· L'ETÀ ARCAICA

Come delle competizioni ginniche, così la polis fa par-


tec1p1 i propri figli anche della tradizione musica del
passato e della pratica delle arti. Istituisce «isonomia»
non solo ne] campo de] diritto, ma anche, per i beni
superiori della vita, che la cultura aristocratica aveva
creati e che divengono ora patrimonio comune della
cittadinanza 31).
L'immenso potere della polis sulla vita individuale
si basava sull'idealità del concetto della polis. Lo Stato
divenne un essere spirituale a sé, assorbi tutti i conte-
nuti più elevati dell'esistenza umana, ridistribuendoli
come propri doni. A questo proposito noi pensiamo
oggi anzitutto al diritto, che lo Stato accampa, di di-
rigere l'educazione de' suoi cittadini in età giovanile.
Ma l'educazione statale della gioventù non fu promossa
che dalla filosofia del IV secolo; degli Stati più antichi,
lo sola Sparta esercitò un'influenza diretta. sulla forma-
zione della gioventù 32). Peraltro anche all'infuori di
Sparta lo Stato fu educatore dei propri ~ittadini già
nell'epoca in cui si formò la cultura della polis, col
considerare gli agoni ginnici e musici nelle feste degli
dèi come una sorta di. ideale rappresentazione di se
stesso e col ridurli al proprio servizio. Essi sono la più
alta rappresentazione della cultura spirituale e corpo-
rale di quell'epoca. A ragione Platone chiama ginna-
stica e musica «la vecchia cultura» (cX.px.ocloc 7tOCt~e:loc} 33).
Il curare questa cultura, originariamente aristocratica,
come facevano le città mediante grandi e costose gare,

31) V. Pl. Legg; 654b, sulla poesia corale come scuola superiore
per la gioventù greca nell'antica c;ittà-stato. Il filosofo lamenta
che questa bella tradizione non eserciti più il suo inflmso educativo
ai suoi tempi e propone di rinnovarla nel suo stato ideale. Cfr.
« Paideia» III 399 ss. Sulla esecuzione pubblica del dramma
greco, v. p. 434.
88) Arist. Eth. Nic. X 10, 1180 a 24 ss.
81 ) PI. Resp. 376e.
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 211

non diede vivissimo impulso soltanto alle competizioni


e a quanto riguardava le arti musiche: appunto nel-
l'emulazione da ciò suscitata si formò d'altra parte
il vero spirito di solidarietà. Per il cittadino d'una città
greca è d'allora in poi ovvio l'orgoglio d'appartenere
alla sua polis. La qualifica compiuta d'un Elleno, oltre
al suo nome e a quello del padre, comprende sempre
quello della sua città natale. Come nel moderno senti-
mento nazionale, cosi nella coscienza dell'appartenenza
alla polis era insito per i Greci un valore ideale.

La polis quale totalità della comunità civile dà


molto; ma può anche esigere il massimo. Essa s'impone
senza riguardo alcuno agl'individui e imprime loro il
proprio suggello. Diviene ora, per i cittadini, sorgente
di tutte le norme valide a regolarne la vita. Il valore
dell'individuo e della sua condotta si misura esclusiva-
mente secondo il vantaggio o il danno della polis.
È questo il risultato quasi paradossale della lotta, con-
dotta con si incredibile passione, per il diritto e per
l'eguaglianza dell'individuo: nella legge l'uomo si fog-
gia un nuovo vincolo rigoroso, che tiene unite e con-
centra le forze divergenti ben più saldamente che non
avesse mai potuto il vecchio ordinamento sociale. Lo
Stato si esprime oggettivamente nella legge, la legge
diventa re - come diranno più tardi i Greci 34) - e
questo sovrano invisibile non solo chiama i trasgressori
alla resa dei conti e si oppone alle sopraffazioni dei più
forti, ma s'intromette anche positivamente, con le sue
norme, in tutti i campi della vita, ch'erano prima aperti
all'arbitrio del singolo, istituisce limiti e direttive sin

34 ) Il motto viene da Pindaro (fr. 152) e ha una lunga storia


nella letteratura greca, traceiata da E. STIER nella sua disserta-
zione Nomos Basileus (Berlino 1927).
212 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

nelle più intime faccende della vita privata e dalla con-


dotta morale dei suoi cittadini. L'evoluzione dello Stato
porta cosl, .attraverso la lotta per la legge, allo sviluppo
di nuove e più differenziate norme di vita.
, In ciò sta l'importanza del nuovo Stato per la for-
mazione dell'uomo. Platone dice a ragione che ogni
forma di Stato foggia il suo particolare tipo d'uomo, e
così egli come Aristotele richiedono dall'educazione,
nello Stato perfetto, che rechi in tutto l'impronta dello
spirito di esso 35). «Educato nell'ethos delle leggi» -
suona la formula, che spesso s'incontra, di quest'ideale
presso i grandi teorici attici dello Stato del IV secolo 36).
Essa dà a vedere chiaramente l'importanza educativa
immediata dell'istituzione di una norma di diritto di va-
lidità generale, mediante la legge scritta 3 7). La legge rap-
presenta il gradino più importante lungo il cammino della
cultura greca dal mero ideale di classe aristocratico
all'idea dell'uomo concepita in modo sistematico e filo-
sofico. Dappertutto l'etica e l'educazione filosofi.ca si
riallacciano, più tardi, per il contenuto e per la forma,
alle legislazioni anteriori. Non sorgono negli spazi eterei
del pensiero puro, bensi mediante la elaborazione con-
cettuale della sostanza storica della nazione, come già
riconobbe la filosofi.a stessa dell'antichità. Nella legge
l'eredità delle norme giuridiche e morali del popolo
greco trovò la sua forma più generale e obbligativa.
L'opera filosofica d'educazione, compiuta da Platone,
culmina nel divenire egli, nell'ultima e maggiore opera
sua, legislatore; e Aristotele, al termine dell'Etica,

llli) PI. Resp. 544d; Arist. Pol. III 1, 1275 b 3.


36) Pl. Legg. 625a, 75le; ep. 335d; Isocr. Panegyr. 82, De Ptu:e
102; e cfr. Arist. Pol. VIII 1, 1337 a 14.
87 ) V. il capitolo sulle .Leggi di Platone in «Paideia» III (cap.
X), speciaJmente la parte su « Il legislatore come educatore»
e« Lo spirito delle Leggi». V. anche M. MuHL, Die heUenischen
Gesetzgeber als Erzieher in « Neue Jahrhiicher » (1939) Heft 7.
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SCO IDEALE CIVICO 213

invoca il legislatore per attuare il proprio ideale 38).


La legge è anche un grado preliminare della filosofia
in quanto la creazione di essa, presso i Greci, è del
tutto opera di singole eminenti personalità. Esse fu.
rono a. buon diritto considerate gli educatori del loro
popolo, ed è tipico del pensiero greco come i legisla-
tori fossero collocati accanto ai poeti e le norme di
legge accanto alle massime della sapienza poetica,
perché apparivano affini di loro natura 39).
La critica ulterj.ore della legge, quale sorse nel-
l'epoca della democrazia degenere, causa la legifera-
zione precipitosa e dispotica delle città, non trovava
ancora luogo per allora 40). A differenza di tale scet-
ticismo, tutti i pensatori anteriori sono ancora unanimi
nel lodare la legge. Essa è per loro l'anima della polis.
« Per la sua legge, il popolo ha da combattere come
per le sue mura» - dice Eraclito 41). Qui, dietro l'im-
magine della città visibile, con la sua cinta tutrice di

38) Questa fu la ragione che alla fine indusse Platone a rias-


sumere le sue idee filosofiche sulla condotta individuale e la vita
sociale degli uomini in un'opera .intitolata appunto per questo
"Le Leggi», in cui l'educatore appare come un legislatore del
genere umano. Anche Aristotele nell'Etica sente alla fine la neces-
sità del legislatore; v. Eth. Nic. X 10, 1180 a 15 ss. Sia Platone
che Aristotele si riferiscono più volte alla tradizione legislativa
reale del popolo Greco e anche a quelle di nazioni non greche.
I loro concetti di volontà umana, di azioni volontarie o involontarie,
di giuJtizia, e dei vari gradi di trasgressione della legge, sono
venuti su da ".ll accurato studio della legge positiva della loro
nazione. Percio la legislazione fu il passo più importante verso
la formulazione di regole generali e norme di vita fisse, processo
che fini nella filosofia.
39) Cfr. il mio saggio Sowns Eunomie (« Sitz. BerL Akad.»
1926) 70. Il legislatore appare come «autore» in Platone, Phaedr.
257a ss. e sullo stesso piano del poeta in 278c.
40) Non parlo qui dei Sofisti e dei loro seguaci della politica
attiva, che contrapponevano nomos e physis, ma di critici come
Platone, Isocrate e altri, che erano favorevoli a strette norme
di condotta u. 1ana, ma non credevano più che le buone leggi
fossero una panacea. V. Pl. Polit. 294a-h; Isocr. A.reop. 40 ss.
41) Eraclito, fr. 44 (Diels).
214 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

mura, appare la polis invisibile, il cui saldo baluardo


è la legge. Ma già prima si trova un riflesso molto ca·
ratteristico dell'idea del diritto nella filosofia naturale
d' Anassimandro da Mileto, intorno alla metà del VI se-
colo. Dalla vita sociale della polis, egli trasferisce il
concetto della dike nella natura e spiega il nesso cau-
sale del divenire e del perire delle cose come una con·
tesa giudiziaria, nella quale esse debbono tributarsi
reciprocamente ammenda e risarcimento per la propria
ingiustizia secondo la sentenza del Tempo 42). Qui sta
l'origine dell'idea filosofica del cosmo; anche questa
parola designa infatti, originariamente, l'ordinamento
giuridico dello Stato e d'ogni comunità. L'ardita proie·
zione del cosmo statale nell'universo, l'esigenza, dun-
que, che non solo nella vita umana, Ìna anche nella
natura dell'Esistente debba essere principio dominante
l'isonomia e non la pleonessia, mostra . con evidenza
come, per quell'epoca, la nuova esperienza politica del
diritto e della legge fosse divenuta centro d'ogni pen·
siero, fondamento dell'esistenza e vera fonte della sua
fede nel senso del mondo. Nella sua importanza per
l'interpretazione filosofica del mondo, questo processo
spirituale di trasposizione, va ancora esaminato in par-
ticolare. Qui occorreva soltanto mostrare in breve quale
luce esso proietti sulla sfera dello Stato e sul nuovo
ideale dell'uomo in quanto politico 43). Ma si fa ad un
tempo manifesto quanto profondamente connesso sia,
nella Ionia, il sorgere della consapevolezza filosofica con
le origini dello Stato secondo legge.
Loro radice comune è il concetto universale che
indaga ed interpreta il mondo e la vita nella loro
conformazione essenziale, e che poi, movendo di qui,

D) Anassimandro, fr. 9 (DIELS, Vorsokratiker I).


18) Cfr. p. 299 ss.
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITfO E IL SUO IDEALE CIVICO 215

compenetra di sé sempre più compiutamente la cul-


tura greca 44).
Giova infine caratterizzare il passaggio al nuovo
Stato-polis, che si fa strada nella Ionia, nella sua im-
portanza decisiva per l'evoluzione della cultura aristo·
cratica greco-arcaica verso l'idea di una « cultura umana
universale». Ciò che .qui ne diremo non si applica
peraltro ancora interamente - mi preme avvertirlo -
ai primi inizi della storia della polis, b~nsì anticipa il
bilancio dell'intero processo del quale abbiamo qui
analizzate le basi. Ma è opportuno rivolgere sin d'ora la
nostra attenzione alla portata di massima di questa tra-
sformazione storica e tenerla costantemente presente.
Collocando l'uomo nel suo cosmo politico, lo Stato
gli conft?risce, oltre alla vita privata, una sorta di se-
conda esistenza, il ~(oç 1tOÀt't"tx6ç. Ognuno appartiene
ora in certo qual modo a due ordini; l'elemento privato
(iatov) e il comune (xotv6v) nella vita del cittadino si
dividono nettamente l'uno dall'altro. L'uomo non è
soltanto «idiota», ma anche «polita»'°). Oltre alla sua
capacità professionale gli occorre ora una virtù civica
generale, la 1tOÀt't"tx'Ìj &ps't"~, che lo renda atto alla con-

«) Nei secoli più antichi i Greci concepirono questa norma


universale come Dike, poi come il Bene, o come la Ragione (Logos).
La filosofia di Eraclito combina le due cose. Ciò che i .pensatori
più antichi chiamavano la Dike nell'universo, egli lo riconduce al
Logos, come a sua fonte. Cfr. p. 339 ss.
46) La parola greca tlh Ù>T1Jç significa l'opposto di 7toÀ(T1)ç anche
se lo stesso individuo è contemporaneamente una persona privata
e un membro della comunità politica (-roc t81oc opposto a -roc
81)µ6cnoc). Il contrasto è più intenso quando l't8LÙ>T1J<; è messo a
fronte col politico attivo (7toÀLnx6ç) o con una persona la cui
vita è dedicata a qualche attività di utilità comune (81)µtoupy6ç),
a un artigiano. In quest'ultimo caso l8tÙ>-r1Jç significa laico, profano.
Nella lingua di Platone, p. es. nella Repubblica, t8tÙ>-r1J<; significa
l'individuo, in quanto non influisce sull'opinione e sulla vita
pubblica. Ma fin dai tempi di Eraclito, un secolo prima della
Repubblica di Platone, troviamo la distinzione fra l'elemento
comune (1;uv6'.I = xo~'.16v) della vita umana e quello che è privato
o individuale (t8to'>1); v. DIELS, Vorsokratiker I: Heracl. Jr. 2.
216 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

corde e intelligente collaborazione con gli altri nel me-


desimo ambiente della polis. È chiaro perché la nuova
figura politica dell'uomo non poteva riallacciarsi, come
l'educazione del popolo secondo Esiodo, all'idea del
lavoro umano 46). Il concetto d'areté di Esiodo era tutto
compenetrato del contenuto di vita reale e dell'ethos
professionale della classe lavoratrice cui si rivolgeva.
Considerando dal presente l'evoluzione dell'educazione
greca, noi saremmo indotti a pensare che la nuova cor-
rente non avrebbe avuto che da accogliere tale pro-
gramma esiodeo: invece della cultura generale della
personalità, propria dell'aristocrazia, avrebbe prodotto
un nuovo concetto della cultura del popolo, che ap-
prezzasse ogni uomo secondo lo speciale lavoro da lui
compiuto, e avrebbe cercato il bene generale nel com-
piere ciascuno l'opera sua con la maggior perfezione
possibile, come esige Platone, aristocratico, nello Stato
autoritario della sua « Politeia », retto di:t' pochi uomini
intellettualmente superiori. Simpatizzando col genere
di vita e con l'attività professionale popolari, avrebbe
potuto dichiarare che il lavoro non fa vergogna, anzi
è per ognuno l'unico fondamento del suo valore quale
cittadino. Ma il processo reale, senza pregiudizio del
riconoscimento di quest'importante realtà sociale, si
svolse in tutt'altro. modo.
La novità portata dalla politizzazione generale del-
l'uomo, che fini per imporsi, fu l'esigere da ciascuno
che intervenisse attivamente nello Stato e nella vita
pubblica e acquistasse coscienza dei propri doveri di
cittadino, diversi affatto da quelli della sua sfera pro-
fessionale privata. Questa capacità politica « generale»
non era stata posseduta sino allora che dalla nobiltà.
Essa av:_eva esercitato il potere sin da tempi immemora-

46) V. sopra p. 148 ss.


CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 217

bili e possedeva quindi una preparazione incompara·


bile, tuttora indispensabile. Era impossibile che il nuovo
Stato volesse annientare quest'areté, se intendeva bene
il proprio interesse; esso doveva soltanto impedire che
se ne abusasse volgendola all'utile proprio o all'ingiu-
stizia. Quanto all'ideale, ad ogni modo, esso era ancora
conforme a ciò che dice Pericle in Tucidide 47). La cul-
tura politica, nella libera Ionia si riallaccia dunque,
precisamente come nella rigida Sparta, all'antica edu-
cazione aristocratica, cioè a un ideale di areté che
comprendeva l'uomo intero e tutte le sue forze. Ciò
nulla toglieva della sua legittimità all'etica del lavoro
esiodea, ma per il polita come tale il fine supremo era
Io stesso già insegnato da Fenice ad Achille: esser
parlatore di discorsi e operatore d'azioni 48). Almeno le
persone più importanti della cittadinanza, -che ascen-
deva, dovevano superare questo gradino, e anche la
moltitudine doveva, sino a un certo punto, esser resa
accessibile all'idea di quest'areté.
Questa evoluzione fu straordinariamente fruttuosa.
Come si ricorderà, la relazione fra la -capacità profes·
sionale e la cultura politica doveva diventare appunto
il problema sul quale Socrate innestò la sua critica della
democrazia. Per Socrate, figlio d'uno scalpellino, umile_
membro del popolo lavoratore, era un paradosso irri-
tante che il calzolaio, il sarto e il falegname abbiso-
gnassero bensì di nozioni concrete speciali per eserci-
tare il loro bravo mestiere, l'uomo politico invece non
dovesse avere che una cultura generale di contenuto
assai vago, sebbene il suo « mestiere» avesse a che fare

47) Thuc. II 37.


48 ) La parola greca che, nel nuovo ordine politico, venne
sempre più a esprimere quest'antico ideale, fu kaloskagathos: parola
di sicura origine aristocratica che però si diffuse gradualmente e di-
ventò l'ideale di ogni cittadino che aspirasse a una più alta cultura,
giungendo infine a significare semplicemente « virtù civica».
218 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

con tante cose più importanti 49). È chiaro che il pro-


blema non poteva esser così formulato se non da un'epoca
per la quale era premessa ovvia che l'areté politica
dev'essere capacità e sapere 50). Il difetto di una compe-
tenza speciale appariva quindi, secondo questa visuale,
addirittura quale essenza della democrazia 51). Ma, in
realtà, per l'antichissimo Stato-polis greco la virtù po-
litica non era stata ancora affatto un problema preci-
puamente intellettuale. Abbiamo già mostrato più so-
pra che cosa s'intendesse allora per virtù civile. Il
nuovo Stato secondo il diritto era appena istituito, e
la vera virtù del cittadino consisteva nella spontanea
subordinazione di tutti, senza distinzione di grado
né di nascita, alla nuova autorità della legge 52). In
questo concetto anteriore della virtù politica, lethos
prevaleva ancora pienamente sul logos. Il rispetto della
legge e la disciplina erano per esso più importanti che
la questione, quanto intendesse l'uomo comune del-
!'amministrazione e dei fini dello Stato. bi collabora-
zione in questo senso non si trattava minimamente.
Lo Stato-polis primitivo era, per i suoi cittadini,
garante di. tutti i fondamenti ideali dellar vita. IloÀL-rci-
ecr6oct significava esser partecipe dell'organismo ge-
nerale, ma aveva anche semplice,mente il significato di
cc vivere», ché l'una cosa e l'altra facevano tutt'uno 53 ).
Mai, più tardi. lo Stato s'identificò maggiormente
con la dignità e il valore dell'uomo. Se Aristotele ha
chiamato l'uomo animale politico, distinguendolo dun-

'9)
V. « Paideia» II 187 ss.
&0)
V. p. 503 ss.
u)V. « Paideia» II 188.
H)Cfr. p. 206.
53) IloÀtTEÙecr.3-«t = «vivere» si trova ancora nel greco del .
Nuovo Testamento; v. Act. 23, 1 e Phil. 1, 27 &~!wc; "t"ou eùocyye:-
À!ou -cou Xptcr-cou 'ltOÀt-ceùecr.3&. E così 'ltoÀhe:uµoc significa sempli-
cemente «vita»; v. Phil. 3,20 ijµ&v yQ:p "t"Ò 'ltOÀho:uµ.oc b oùpocvoiç
umipxet.
CAP. VI: LO STATO SECONDO IL DIRITTO E IL SUO IDEALE CIVICO 219

que dalla bestia per la sua stabilità 54), questa equiva-


lenza della humanitas, dell'esser uomo, con lo Stato
non è intelligibile se non movendo dalla vita quale si
configura nella cultura della polis greca arcaica, per
la quale la comunità era appunto l'essenza d'ogxri ele-
vatezza di vita, anzi divina essa stessa. Un cosmo di
leggi su questo modello greco arcaico, in cui lo Stato
è lo spirito stesso e tutta la cultura dello spirito si
riferisce allo Stato come· a suo fine, è tratteggiato
da Platone nelle Leggi. Egli vi definisce 55) l'e·ssenza
d'ogni vera cultura o paideia, contrapposta a] sapere
speciale dei professionisti, dei mercanti, dei bottegai
e degli armatori, quale «educazione all'areté, la quale
riempie l'uomo della brama e del bisogno di diventare
un perfetto cittadino, che sappia cosi comandare come
lasciarsi comandare, in base al diritto».
Platone ha qui reso fedelmente il senso originario
della cultura «generale» secondo lo spirito della polis
greca arcaica. Egli ha bensì accolto nel suo concetto
di cultura 'l'esigenza socratica d'una techne politica, ma
senza intendere con ciò un sapere specializzato, che sia
affine al sapere dell'operaio-. La vera cultura è per Pla-
tone « generale», perché avere il senso della politica
significa avere il senso di ciò che è generale. La con-
trapposizione tra le nozioni professionali concrete e la
cultura politica keale, che mira all'uomo intero, ha la
sua origine ultima, come già mostrammo, nel tipo
aristocratico della Grecia arcaica. Soltanto nella cultura
della polis esso ricevette tuttavia il suo significato più
profondo, perché qui questa mentalità fu trasferita al
resto della cittadinanza, e la cultura aristocratica di-
venne formazione generale dell'uomo in quanto poli-

64) Arist. Pol. I 2, 1253 a 3, lhL &v.&pmnoc; <pucre:L noÀL't'Lxòv


l;éj)ov.
56 ) PI. Legg. 643e. Cfr. « Paideia» III 389 sa.
220 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

tico. Lo Stato-polis arcaico è, dopo la cultura aristo-


cratica, il primo gradino imprescindibile dello sviluppo
dell'ideale «umanistico» d'una cultura generalmente
umana, etico-politica; possiamo anzi dire che fu que-
sta, propriamente, la sua missione storica. Il successivo
passaggio dallo Stato-polis della Grecia arcaica alla
signoria deJla moltitudine, legata a tutt'altre forze 68),
non ha affatto influenza decisiva sull'essenza di questa
cultura, giacché essa conservò il suo originario carat•
tere aristocratico in tutte le trasformazioni politiche
che dovette attraversare. Il suo valore non va misu-
rato né in base ai singoli capi geniali, il cui sorgere
dipende sempre da circostanze eccezionali, né alla sua
utilità per la moltitudine, cui non può applicarsi senza
un effetto livellatore per ambe le parti. Da siffatti
esperimenti il buon senso dei Greci si tenne sempre
lontano. L'ideale dell'areté politica generale è impre-
scindibile in ragione della necessità di· rinnovare di
continuo una classe dirigente, senza la qiiale non può
sussistere alcun popolo né alcuno Stato, qualunque sia
la sua costituzione.

") Cfr. « Paideia» III 181 aa., 417 se.


CAPITOLO SETTIMO.

L'AUTOFORMAZIONE DELL'INDIVIDUO
NELLA POESIA IONICO-EOLICA

Il rinnovamento dello Stato sulla base comune del


diritto per tutti creò il nuovo tipo umano del cittadino
e fece della creazione di una norma generale della vita
civile una necessità urgentissima per la nuova comu-
nità. Ma, se l'ideale della società aristocratica della
Grecia arcaica aveva trovato nell'epos la sua espres-
sione oggettiva, se nella sua poesia Esiodo aveva pla-
smato in forma imperitura la sobria saggezza dell'espe-
rienza e dell'etica del lavoro degli agricoltori, e Tirteo
le severe esigenze dello spirito statale spartano, ci manca
invece, sulle prime, un'analoga piena espressione della
nuova idea della polis nella poesia dell'epoca. Per
quanto pronta fosse la cultura della polis ad accogliere
in sé, come vedemmo, la cultura precedente, assumendo
in servigio proprio, con questa, l'alta poesia quale
mezzo della sua autorappresentazione ideale, non altri-
menti che la musica e la ginnastica della passata epoca
aristocratica, tuttavia non si trattava affatto d'una in-
carnazione del suo particolar contenuto essenziale in
creazioni poetiche sue, le quali potessero competere
con la poesia del passato, divenuta già classica. Non
abbiamo qui da menzionare che le storie della fonda-
zione delle città, in stile epico convenzionale, ma in
222 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

nessun caso sembra che uno di questi prodotti artistici,


ancora assai rari nel periodo più antico della cultura
della polis, si sia elevato all'importanza di vero epos
na)';'1nale, quale Virgilio, in Roma, seppe conferire
all'ultima e massima creazione dcl genere, l'Eneide 1).
L'ethos del nuovo Stato, dapprima, non trovò affatto
la sua espressione veramente rivoluzionaria in forma
poetica, ma precisamente nella creazione della prosa.
Non meno di questo significa infatti la legge scritta.
Caratteristico del nuovo stadio della comunità umana
è appunto questo: che la lotta politica per la norma
ideale della vita e dell'attività rigorosamente legale
spinge con somma decisione a fissarne i comandamenti
in principii chiari e validi per tutti 2). Di fronte a

1 ) Nel genere epico, la varietà x-rlcnç fu, a quel che sembra,


una tarda derivazione dell'epica che nacque al tempo dell'antica
città-stato greca, poichè celebrava l'origine mitica o mitico-storica
di questa o quella polis. Senofane dì Colofone, p. ~s. scrisse (Diog.
L. IX 20) una x-rlcrLç dì Colofone, ma solo dopo che aveva lasciato
la città e dopo che essa aveva perso la sua indipendenza politica.
Il suo etc; 'EÀ1fo:11 &7tOLXLO'[L6i; (Diog. L. loc. cit.) si riferiva a un
avvenimento contemporaneo, la fondazione di Elea nell'Italia
meridionale, di cui egli ste8SO era stato testimone.
2 ) Nel Simposio (209d), Platone paragona' i legislatori del-
l'antica Grecia - Licurgo, Solone e altri che scrissero leggi per
le loro città - coi poeti, Omero, Esiodo e altri, e mette alla pari
la produzione degli uni con quella degli altri. Nel Fedro (257e) ancor
più Platone insiste sulla pratica dì scrittura prosastica che ha il po-
litico, per la sua abitudine di scrivere leggi e decreti per trasmetterli
alla posterità. V. la sua raffigurazione dei grandi legislatori
greci e barbari come Àoyoyp&q>oL iu Phaedr. 258c. Certamente
Platone li considera come i veri fondatori della prosa. Anche
l'uomo politico è una specie di 7tOL7JTfii;: l'assemblea è il suo teatro
e nei suoi seguaci egli ha i suoi t7ta:WÉTIXL ·come ogni grande poeta
(Phaedr. 258b). Così anche Platone considera la sua stessa opera
di legislatore come qualcosa che può essere. paragonato a quella
dì un grande poeta (Legg. 8llc; v. « Paideia» III 452 s.). In
Gorg. 45lb, i politici che scrivono psefismata nell'assemblea del
popolo sono detti scrittori (cruyypa:qi6µ.svoL); e i discorsi forensi dei
legografi (-Pl. Eu:thyd. 272a) ·sono solo un'altra forma di questa
antica prosa legale. E non sono forse Legge (Thorah) i cosidetti
libri di Mosè, la più antica e più importante parte della letteratura
ebraica? Analogie si possono trovare in altre letterature orientali.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 223

quest'esigenza morale, così vivamente sentita, il biso-


gno di una figura poeticamente evidente dell'uomo
nuovo restò dapprima affatto eclissato. Lo Stato secondo
la legge nasce già da uno spirito razionale e, come
tale, non ha affinità con la poesia. · I fattori poetica·
mente fecondi della vita della polis parevano esauriti
già in Omero, Callino, Tirteo. Tutto l'àmbito della
vita cittadina quotidiana rimaneva necessariamente
inaccessibile alla poesia sublime, e l'eroismo di Solone 3 ),
interno alla polis, che doveva diventare fonte d'una
nuova alta poesia, non si affacciò alla mente d'alcun
figlio della Ionia o dell'Eolia.
In compenso, nel più stretto ambiente personale,
lontano da tutto ciò che sia politica, si apre alla poesia
una nuova sfera d'esperienze, nella quale la vediamo
immergersi avidamente. In tale mondo c'introduce la
poesia elegiaca e giambica degli Ioni e la lirica eolica.
II dinamismo della volontà di vivere individuale, la cui
tensione durante la trasformazione dello Stato ci appare
piuttosto indirettamente, attraverso la sua influenza
modificatrice sulla vita della comunità, si manifesta
qui nell'espressione dei su9i moventi nella loro inte-
riorità immediata. Se non penetrassimo tali processi
spirituali, ci mancherebbe la condizione essenziale per
intendere le trasformazioni politiche. I nessi causali
tra lo spirituale e il materiale, specialmente in mancanza
di qualsiasi informazione circa le condizioni economiche
dell'epoca, restano avvolti qui nell'oscurità come nella
maggior parte dei casi; ma, per la storia della cultura,
più importa la fi.sonomia spirituale che l'uomo dell'età
nuova seppe darsi e l'orina che, in virtù di essa, lasciò
nella evoluzione ulteriore. E invero quest'orma dello
spirito ionico rimase impressa indelebilmente nella stCJ-

8) Cfr. il cap. su Solone, p. 257 ss.


224 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

ria greca e dell'umanità. I poeti esprimono per la prima


volta, in nome proprio, sentimenti e opinioni proprie.
La comunità rimane per loro affatto nell'ombra. Anche
dove toccano di politica (caso non raro), questa
non ci si presenta quale norma generale che esiga ri-
spetto, come in Esiodo, Callino, Tirteo e Solone, ma
quale passione di parte spiccatamente personale, com.e
in Alceo, o insistenza del singolo sul suo diritto, come
in Archiloco. Persino gli animali della favola, litigando,
vi si appellano reciprocamente al « loro diritto», copia
umoristica delle condizioni umane 4). Peraltro, l'aperta
espresi;;ione delle idee personali del poeta in questa
nuova poesia ha sempre per presupposto la polis e la
sua struttura sociale. In essa riposa l'individuo, ne' suoi
limiti come nella sua libertà, sia che questa relazione
rimanga inespressa, sia che il poeta si rivolga espres-
samente ai concittadini con la sua opinione personale,
come fa appunto costantemente Archiloco 5).
È sommamente caratteristico del tipo d'individua-
lità che per la prima volta in questa poesia prende a
muoversi con meravigliosa scioltezza, come esso non si
esprima, alla moderna, quale sentimento tutto ripie-
gato sull'interiorità, immerso in se stesso, dell'Io nel
suo legame o distacco dal mondo, quale effusione di
puro sentimento. Forse questo moderno tipo consape-
vole d'individualità poetica non è che un ritorno del-
l'arte all'originaria forma naturale d'ingenua espres-
sione del sentimento individuale, quale si trova presso
uomini delle epoche e delle razze più diverse e indub-
biamente sin ~a un grado di cultura remotissimo.
Nulla invero è più sciocco dell'idea che i Greci abbiano

') Archil. fi. 94 (Diehl).


5 ) Archi!. fr. 7, 1-2; 9; 52; 54; 60; 64; 85; 88, 4; 109; tutti
questi passi si riferiscono a concittadini o alla città e ai suoi affari
pubblici.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 225

recato per primi al mondo il sentimento e il pensiero


individuali, giacché il mondo intero è, piuttosto, nu-
trito quasi esclusivamente di questa sorta di pensiero
e di sentimento. Né sono i primi o gli unici ad aver
dato forma axtistica a tale individualità: lo mostra con
particolaxe eloquenza la lirica dei Cinesi, che i moderni
sentono così profondamente affine. Ma questa appunto
ci fa anche cogliere la diversa natura dell'individua·
lità greca ar?aica.
Pensiero e sentimento del poeta greco conservano
tuttavia, entro la sfera dell'Io di nuova conquista, un
certo rif~rimento a un elemento normativo, a un dover
essere. Lo vedremo più precisamente caso per caso.
Non è punto facile intendere con precisione concettuale
che cosa dobbiamo propriamente intendere per indivi-
dualità in Archiloco e simili, per quanto questo termine
sia invalso da tempo. Non è certamente il senso mo·
demo, post-cristiano dell'Io, inerente all'anima singola
conscia dell'intimo suo valore. Presso i Greci, l'Io è
concepito sempre in un nesso vivo con tutto il mondo
circostante, con la natura come con la società umana,
non già staccato ed isolato da essa. Ciò toglie alle manife·
stazioni di tale individualità l'elemento propriamente
soggettivo; si potrebbe anzi dire che, in una poesia
come quella d'Archiloco, l'Io singolo ha appreso ad
esprimere e a rappresentare in sé l'intero mondo og·
gettivo e le sue leggi. L'individuo greco non consegue
la sua libertà, e lo spazio in cui muoversi sicuro di sé,
con l'abbandonare semplicemente le redini all'elemento
soggettivo, bensì con l'oggettivarsi spiritualmente. Nella
misura in cui si contrappone, come un mondo a sé,
alla legge esteriore, esso scopre, per così dire, le sue
proprie leggi interiori.
Consideriamo ora in esempi singoli questo processo,
di cui è ovvia la portata per la storia delle forme dello
226 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

spirito occidentale. Abbiamo già osservato un processo


parallelo in altro luogo, nel sorgere dell'elegia di Cal-
lino e di Tirteo. Rilevammo colà il fatto, notevole per
la storia della cultura, che l'ideale civico spartano
trova la sua espressione poetica nell'atto che la pare-
nesi omerica, che spronava gli eroi al valore, si tra·
sferisce dall'epos direttamente nella realtà vissuta del
presente 6). Ciò che vale colà per l'intera cittadinanza,
per l'esercito degli Spartani, si ripete in Archiloco per
la persona stessa del poeta. Nelle elegie egli mede-
simo, o chi gli sta intorno, si presenta costantemente
vivente di destini e di considerazioni omeriche. In que-
ste trasposizioni formali e sostanziali ci si fa pienamente
manifesto il grande processo culturale che si compie
in quel tempo nella personalità singola col prendere
intimamente possesso dell'epos. Anche l'inalzamento
dell'individuo ad un grado di mentalità e di vita più
libere si deve principalmente all'influenza formativa
d'Omero.
Quando Archiloco si presenta quale « servitore del
sovrano Enialio », che s'intende anche del « soave dono
delle Muse » 7), noi sogliamo trovare decisivo e nuovo
l'ardito orgoglio di quest'Io, che, nella sua doppia mis-
sione di guerriero e di poeta, si sente a ragione qualche
cosa di unico. Ma dobbiamo anche ricordare che si
tratta d'un processo spirituale d'autoformazione, se il
poeta avvolge qui la sua persona reale nel paludamento
eroico dell'espressione epica o se parla superbamente
delle lotte contro i «signori dell'Euhea dalle lance fa-
mose », nelle quali si guadagna la vita da lanzo, chia-
mandole « il tumulto d'Ares » e « l'opera piena di ge-

8 ) Cfr. pp. 177-180 su Tirteo imitatore d'Omero; p. 189 s.


su Callino.
7) Archil. fr. I (Diehl)
CAP. VU: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 227

miti delle spade» 8). Egli beve il suo vino e mangia il


suo pane con atteggiamento da eroe omerico, « pog·
giato alla spada» con la quale si nutre 9). Tutto ciò
dice di se stesso un uomo che pure non dev'essere di
sangue nobile. L'epos dà il suo stile a tutta. la sua vita,
azioni e pensieri 10).
Certo, egli non si sente sempre pienamente all'al-
tezza di quest'arduo compito. L'individualità d'Archi·
loco non si esprime soltanto nell'elevare egli il suo Io
contingente sino alla norma ideale foggiandolo su que·
sta, tolta da Omero; ma l'eguagliare questo stesso Sé
all'ideale e ad esso commisurarlo, conduce necessaria-
mente a scorgere, con l'acuto sguardo oggettivo proprio
dei Greci, anche i punti dove quella greve, arcaica ar·
matura eroica non si attaglia allo scheletro vacillante
della propria insufficiente umanità. Questa conoscenza
di sé non può nemmeno intaccare l'invincibile vivacità
d' Archiloco; diventa, an.zi, per lui nuovo motivo di
esprimersi e di affermarsi con umorismo anche di fronte
alle esigenze inadempibili degl'ideali tradizionali. Sen·
tano pure gli eroi omerici la perdita del proprio scudo
come morte del proprio onore, e piuttosto sacrifichino
la .vita, anziché soffrire tale onta 11); qui è il punto
dove il moderno eroe di Paro fa le sue nette riserve,
ed è ~icuro d'avere l'ilare consenso dei contemporanei
quando va poetando 12): « Rallegrasi ora uno dei ne-
mici Saei del mio scudo, che io lasciai forzatamente,
arma irreprensibile, sulla spiaggia. Ma io stesso sfuggii

8) Fr. 3. Nota anche il colorito epico dei nomi, con cni si rivolge
ai ,suoi amici K'l'jpuxl3'1'jt;, A!<nµl37jt;, A!cr,(UÀl37jt;.
9 ) Fr. 2.
10) V. quello che dice Crizia (fr. 44 Dll:Ls, Vorsokratiker II,
1) sulla famiglia di Archiloco: sua madre era una schiava.
ll) Anche Crizia (Zoe. cii. n. 10) chiama la perdita dello scudo
la peggiore di tutte le azioni vergognose di Archiloco. In. Atene
si puniva severamente il pl~0<crmç, che perdeva i diritti civili.
lll) Archil. fr. 6b (Diehl).
228 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

al termine della morte. Al diavolo, dunque, codesto


scudo ! Me ne comprerò uno I!l ~liore ». La deliziosa me·
scolanza di moderno umorisn·, naturalistico, che senza
illusioni sa come anche da ,. · ., non si abbia che una
vita da perdere, coi O.osculi d'intonazione epica del-
1' « arma irreprensibile» e del « termine ('tiÀoç) della
morte», diventa qui sorgente di un effetto comico
immancabile. Grazie al quale il prode fuggiasco può
permettersi la chiusa, veramente impertinente, che con
la sua schiettezza stupefacente tocca il colmo: Me ne
comprerò semplicemente uno meglio ! In fin dei conti,
che altro è uno scudo, se non un pezzo di pelle di bue
conciata, con sopra un po' di lucido metallo ?
Una siffatta trasformazione dell'eroico nel normale,
e sin troppo naturale, appare di un ardimento incredi-
bile; ma anche qui l'epos recenziore aveva aperta la
via. Non altrimenti, quando Achille, nell'ultimo canto
dell'Iliade, dopo aver rimessa al misero Priamo la
salma del figlio ucciso, lo invita a ma.ii.giare e a bere
accennando all'esempio di Niobe, che pure ebbe a sof·
frire il più profondo dolore materno: « Anche Niobe,
come fu sazia di lacrime, dovette ricordarsi del cibo» 13).
Non siamo che uomini, tutti. Anche l'eroismo ha i suoi
limiti. Come qui la tragicità dell'elemento naturale,
così in Archiloco è .la sua comicità, ad infrangere la
rigida norma eroica. Ma, in qualche modo, il pensiero
greco verte sempre intorno alla giusta norma e la di-
scute, sia per farla valere nella sua superiorità rispetto
alla natura, sia per difendere il diritto della natura di
fronte all'ide.ale. Lungo è ancora il cammino da queste
prime manifestazioni di un incipiente allentarsi dei ri·
gidi vincoli del convenzionalismo cavalleresco e del-
1'onore di casta, che appunto come norma non val

11) n 602 ss.


CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 229

nulla per un lanzo, sino alla rivoluzione filosofi.ca del


pensìero morale, che dovrà proclamare la « Natura »
vera e sola giustitlcata norma di condotta 14). Ma in
quell'insolente scavalcare individualmente ogni limite
di decenza consueto, come fa Archiloco - ciò che in
lui si esprime dappertutto con aperta schiettezza -
c'è già la consapevolezza d'essere non solo il più sfron-
tato, ma anche il più naturale e sincero di fronte a
coloro che sono più rigidamente vincolati dal costume.

Spesso, poi, ciò che a prima vista ci appare in Ar-


chiloco puro soggettivismo non è che emanazione d'una
mutata concezione generale del decente e dello scon-
veniente e d'una ribellione, in tal caso giustificata,
contro gl'idoli dell'opinione pubblica e l'autorità della
tradizione. Né si tratta soltanto di una comoda elu-
sione di norme tradizionali, ma è la seria lotta per una
norma nuova. L'ordine sociale antichissimo non co-
nosceva istanza di giudizio più elevata, quanto all'uomo,
che la pubblica fama. Essa è semplicemente inappel-
labile. Nel profondo rispetto di essa il mondo aristo-
cratico omerico s'incontra con la morale esiodea dei
contadini e degli operai 15). Archiloco indica uno stadio
più libero quando, di fronte al giudizio del demos
circa il giusto e l'ingiusto, la gloria e l' ~nta, si sente
affatto indipendente 16): « Se ci si volesse occupare delle
querule ciance della gente, allora nessuno avrebbe- gran
sodisfazione dalla vita». Certo, in questa emancipa-
zione la pigrizia dell'umana natura ha avuto la sua

14) V. p. 557 sulla distinzione dei Sofisti tra «legge» e «natura».


15) Nel codice morale dell'uomo nobile di Omero, la fama è il
premio e la vergogna la pena. Rispetto per le parole della gente
come in " 75; -. 527; w 200, è prop.rio della morale della .città-
stato, che influì sulle parti più tarde dell'epica. Esiodo, Opp.
763, fa della Fama una dea.
16) Fr. 9.
230 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

parte, da non sottovalutare; la motivazione lo indica


assai chiaramente. Una certa trascuratezza accompa-
gnava dappertutto la nuova libertà e naturalezza. Ma
non furono solo moventi edonistici a condurre alla ri-
bellione contro l'autorità delle pubbliche dicerie della
cittadinanza; la critica d'Archiloco procede al più aspro
attacco radicale contro di essa. Si dice che la polis
serba onorata memoria d'un uomo benemerito verso
di essa oltre la sua morte - lo proclamavano infatti
tutti i poeti, a cominciare da Omero, quale premio sicuro
del merito - ma « tra la gente di questa città nessuno
dopo morte incontra più riverenza né onorato ricordo.
Sinché viviamo, noi corriamo dietro al favore di chi
è vivo, ma per il morto la va sempre nel modo peg-
giore» 17). Un altro frammento mostra più chiaramente
che cosa ciò voglia dire. Il poeta pensa alla maldi-
cenza, che esce dai suoi oscuri nascondigli appunto
quando nessuno ha più motivo di temere colui che ne
è colpito. « Ignobile è denigrare i morti'» 18). Chi ha
17) Fr. 64 (v. n. 18).
18) Fr. 65. Questi versi e quelli a cui ci richiamiamo nella
nota precedente, debbono essere letti insieme. Il biasimo di Archl-
loco per l'uso ignobile di vituperare il morto,deve essere stato
famoso fra i Greci d'ogni città. Ciò è dimostrato dalla recente
scoperta di una bella iscrizione poetica arcaica sulla tomha di
un medico di nome Charon fra le rovine dell'antico Teithronion
(Focide) pubblicata da G. KLAFFENBACH in Reise durch Mittel-
griechenland und die Jonischen Inseln « Sitz. Berl. Akad.» 1935
p. 702). L'iscrizione risale al VI sec. a. C. Perciò è posteriore ad
Archiloco non più di mezzo secolo. L'iscrizione dice così: xcx:i:pe:
X&:pov· oùlHc; TU xcx:xoc; ÀÉye:L où8è .&cx:v6v-t-cx:, 'lt"OÀÒc; iiv.&p6'1t"ov
Àua&:µe:voç xcx:µ&:-ro. L'editore giustamente osserva che Àuaocµe:voc;
deve essere Àua&:µe:vov e questo è certamente un errore del lapicida.
Ma ciò che più importa è l'allusione ai fr. 64 e 65 di Archiloco,
che è sfuggita all'osservazione del Klaffenbach. Charon era stato
l'eccezione alla regola di Archiloco: egli non era biasimato nemmeno
dopo la morte perchè aveva liberato molta gente dai malanni.
Sappiamo da Eraclito (fr. 42 Diels) che Archiloco, come Omero
era recitato .nelle feste pubbliche dei Greci, e il nuovo epigramma
niostra che egli era conosciuto fin dal VI sec. a. C. anche nel lontano
distretto agricolo della Focide, che non era certo un centro di
cultura letteraria.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 231

cosi penetrata la psicologia della fama e riconosciuta


la bassezza della moltitudine, ha perduto insieme anche
il rispetto assoluto della voce della collettività. L'opi-
nione umana è mutevole come il giorno che Zeus su-
scita: così insegnava già Omero 19). Anche Archiloco
pone questa nozione omerica nel mezzo della vita che
lo circonda 2°). Che ci si può aspettare di grande da
siffatte creature efimere ? L'antica etica aristocratica
poteva ancora venerare nella fama un'autorità supe-
riore, intendendo per essa altra cosa: la gloria di grandi
azioni e il suo lieto riconoscimento nella cerchia degli
uolili.ni d'alto sentire. Trasportato alle chiacchiere del
volgo denigratore, che misura ogni grandezza sulla
propria meschina misura, questo senso diventa un
non-senso. Cosi _il nuovo spirito della polis, per neces-
sario controveleno alla maggiore sfrenatezza di pen-
sieri e d'azioni, suscita la critica pubblica.

Non è mero caso, se Archiloco è il primo e mag-


giore rappresentante dello lji6yoi; nella poesia, il te-
muto censore 21). Si sono attribuiti un po' troppo fret-
tolosamente tutti i suoi ~ambi, in buona parte di
contenuto critico, alla sua iii.dole personale. In questo
genere, se in altro mai della poesia greca, ci si ritiene
a"!ltorizzati a pensare ad una spiegazione puramente
psicologica, intendendo la poesia quale sfogo imme-
diato dell'amara soggettività del suo autore 22 ). Cosi fa-
cendo si trascura che il sorgere della poesia satirica
letteraria è, nella vita della polis arcaica, un fenomeno
caratteristico dell'importanza crescente del demos. Il
giambo era in origine pubblica consuetudine nelle feste

19) a 136.
20) Fr. 68.
11) Dio Pr. Or. XXXIII 12.
1Z) V. la critica di Pindaro, Pyth. II 55.
232 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

dionisiache, e piuttosto uno sfogo generale dell'umor


popolare, che non il prodotto del rancore personale
di un singolo. È assai eloquente il fatto che il giambo,
ulteriormente, si mantiene e si continua con la maggior
naturalezza nell'antica commedia attica, nella quale
il poeta si fa innanzi, come è noto, quale portavoce
della critica pubblica. Né a ciò contradice l'altro fatto,
altrettanto certo, che egli, come già .Axchiloco, non è
soltanto il portavoce, ma a volte anche l'oppositore
dell'opinione generale. L'una e l'altra cosa dipende
dalla sua missione di fronte al pubblico. Se fosse esatto
che nel giambo non si manifesti che un Io sbrigliato,
pretendendo per sé la considerazione di tutti, sarebbe
inesplicabile come, dalla medesima radice, potesse svi-
lupparsi il giambo filosoficamente ammaestrativo di Si-
monide o quello, politicamente ammonitore, di Solone.
Chi ben guardi, questo elemento parenetico è già per-
fettamente sviluppato nei giambi di .Axchiloco, accanto
all'elemento di censura e critica, ed ha, eVidentemente,
intimo legame con questo.
In lui non troviamo citati, è vero, esempi e modelli
mitici come nella parenesi dell'epos, ma in compenso
ci si offre qui un'altra forma di ammaestramento, som-
mamente caratteristica dell'ambiente dal quale sorge
la sua parenesi: la favola. «Vi racconterò una favola»
- così comincia la storia della Scimmia e della Volpe 23).
E analogamente quella della Volpe e dell'Aquila 2'):
« C'è una favola degli uomini, che dice ». Non tro-
viamo ia favola nelle elegie di stile eroico di Axchiloco,
ma soltanto nei giambi. Già negli Erga di Esiodo la
rilevammo quale elemento tradizionale dell'ammaestra-
mento popolare 2~). La corrente di tale parenesi sbocca

23) Fr. 81.


14) Fr. 89.
15) Cfr. p. 141.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOUCA 233

evidentemente in Archiloco nella poesia giambica, egual-


mente popolare. E anche in un altro caso, dalla coin-
cidenza del giambo con Esiodo, possiamo dedurre trat-
tarsi della forma originaria della poesia satirica, nel
caso cioè del b.iasimo delle donne in Semonide d'Amorgo,
assai minor fratello in arte d'Archiloco 26). Dal motivo,
che spesso ricorre in Esiodo, si è voluto dedurre una
misoginia e un romanzo d'amore· personale del poeta,
del quale si affaccerebbero qui le amare esperienze 27).
Ma la satira delle donne e di tutto il sesso loro appar-
tiene senza dubbio al repertorio antichissimo della sa-
tira popolare nelle pubbliche. adunate. Il suo ripetersi
in Semonide non sarà soltanto una studiata imitazione
d'Esiodo, ma si riallaccia al genuino giambo antico,
che non dovette affatto consistere esclusivamente nel
vituperare e nel mettere pubblicamente alla berlina
sfugole persone malviste. L'una e l'altra cosa, denigra-
zione personale e motteggio contro tutt'una categoria,
come le donne pigre e buone a nulla - e non sarà
mancato neanche il viceversa, solo che non trovò il
suo poeta, eccetto Aristofane 28) - ebbe il suo posto
nell'antico giambo.
L'essenza del genuino vituperio popolare, dello lji6-
yoc;, non si può, evidentemente, dedurre che con cir-
cospezione dalle trasformazioni e derivazioni letterarie
che ci sono pervenute, ma senza dubbio esso ebbe in
origine una funzione sociale, ancora chiaramente af-
ferrabile. Non è né biasimo morale nel senso nostro,
né rancore arbitrariamente personale, che abbia sem-
plicemente a sfogarsi su ogni vittima innocente. Da tale

") Sem. fr. 7; cfr. Hes. Theog. 590, Opp. 83, 373.
2 7) E. SCHWARTZ. « Sitz. Betl. Akad.» 1915, p. 144.
18) Reciproci motteggi fra uomini . e donne avvenivano alle
feste di Demetra in Pallene (Paus. VII 27; 10) e alla festa di
Apollo a AnMe (Ap. Rhod. IV 1726).
234 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

interpretazione ci preserva la pubblicità stessa dell'at-


tacco, che era ovvia premessa della sua efficacia come
della sua liceità. Il komos di Dioniso, in cui tutte le
lingue sono sciolte, era l'occasione nella quale si po-
tevano. lanciare sanguinose verità notorie. Contro
l'abuso di tale libertà, ogniqualvolta vi si giunga, il
sentimento popolare ha un istinto sanissimo. E che
valore ideale od artistico avrebbe avuto, anche nella
forma più bella, lo sfogo d'odio e d'ira personale?
Non si sarebbe certamente fatto parlare Archiloco per
secoli accanto ad Omero - come attesta il detto d'Era-
clito 29) - in tutti gli agoni musici, quale maestro dei
Greci, se non si fosse sentita, operante anche nelle
poesie, quest'intima relazione con la coscienza comune
del popolo. Depone in questo senso già il ripetuto
appello ai concittadini, che si trova appunto nei giambi.
I giambi di Catullo e di Orazio, che con. critica intran-
sigente affrontano pubblici inconvenienti dei tempi loro
e si rivolgono a una universalità almeno· ideale anche
là dove non fanno oggetto di satira che un'unica per-
sona odiata, debbono integrare qui l'immagine che ci
formiamo in base a scarsi frammenti ,d'Archiloco 30).
Stando all'insieme della evoluzione del giambo da Ar-
chiloco in poi in tutta la poesia greca arcaica, non è
possibile dubitate che in quelle discussioni critiche

29 ) Eraclito (fr. 42 Diels) prova che così era considerato Archi-


loco.
3 8 ) Ma Callimaco, imitando i giambi di Archiloco, non sembra
rivolgersi a un uditorio di questo genere. Un tipico esempio di
satira giambica è stato recentemente scoperto. I benemeriti editori
del papiro fiorentino, G. VITELLI e M. NORSA («Atene e Roma»,
serie III, voi. I) non esitarono ad attribuire il carme proprio ad
Archiloco, ma le dotte remiscenze di altri carmi archilochei, il
metro e la spiritosa raffinatezza della lingua non possono far
pensare che a Callimaco (cfr. anche G. PASQUALI,« SIFC » 1933).
Ai vv. 7 ss. io credo che il poeta abbia preso dal Fedro il paragone
platonico dell'anima, con una coppia di cavalli, per dipingere
la violenza della passione.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 235

d'uomini, giudizi ed influenze, che destano per qualsiasi


ragione la pubblica attenzione, non si sfoga già una
soggettività trascurabile, bensì prende la parola un
personaggio di riconosciuta superiorità.
La forte influenza di questa nuova poesia derivava
da un bisogno profondo dell'epoca. Penetrava così per
la prima volta nella poesia greca un elemento che si
stacca stranamente dallo stile elevato della forma ome-
rico-epica, quale mostrano ancora le elegie stesse d'Ar:
chiloco. Questa nuova maniera appunto è un tributo
dello stile poetico allo spirito della polis, le cui vio-
lente passioni non si potevan frenare col solo epainos
dell'educazione aristocratica omerica. Invero, come no·
tarono già gli antichi, la « volgare natura» dell'uomo
abbisogna più del biasimo che della lode per stimolo.
Quanto popolare fosse quest'ufficio di riprensore, si
sente in Archiloco ancora nel suo comportamento, si-
curo del plauso 31). Egli osa attaccare persino le somme
autorità della città, strateghi e demagoghi, ed è sempre
sicuxo in anticipo dell'eco favorevole della sua cri-
tica 32). Ma anche nel suo caso matrimoniale còn Neo·
bule e negli attacchi appassionatamente sarcastici con-
tro il padre di lei, Licambe, che ha respinto la propo-
sta del poeta, è evidente che s'immagina presente,
come pubblico, la città intera. Il poeta è in uno giu·
dice e accusatore. « Babbo Licambe, chi ti ha scon·
volta cosi la ragione ? Eri pure di giudizio, prima,
ma ora sei aperta cagione di risa per tutti nella nostra
città»33). Persino qui il biasimo, nella sua forma, è
ancora parenetico.
Certo, il motteggio contro nemici personali era una
forte tentazione di abbandonare senza ritegno le redini

Sl) V. n. 21.
32) Fr. 60.
33) Fr.- 88.
236 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

al sentimento soggettivo. Il lungo giambo, ritrovato


qualche decennio fa su un papiro, che giustamente
si attribuisce al grande odiatore 34), lascia espandersi
senza freno questa forza nella pittura esuberante delle
future sofferenze ch'egli augura al nemico maledetto.
Pindaro, maestro della lode educativa, dice 35): « Vidi
da lungi, per lo più in angustia disperata, il biasima-
tore Archiloco, com'egli s'ingrassa d'inimicizie svillaneg-
gianti». Ma anche quella poesia tutt'odio, come mo-
stra d'improvviso l'efficace chiusa, sorge da un odio
giusto, o almeno ritenuto tale da Archiloco: « Questo
vorrei vedere, ché egli mi ha fatto torto e ha calpe-
stati i nostri giuramenti, egli ch'era un tempo mio
amico» 36). Un verso, pervenutoci isolato, fa, alla per-
sona cui si rivolge, questo rimprovero: « Non hai bile,
tu, che brucia il fegato ! » 3 7). Questo verso, tolto da
un contesto a noi ignoto, si riferisce ad ogni modo
ad una qualità che riesce insoffribile ad Archiloco, l'in-
capacità ad una giusta collera, che, come ·è noto, sem-
bra più tardi difetto morale anche all'etica peripate-
tica 38). Il passo getta viva luce su tutta la poesia del-
l'odio d' Archiloco e conferma, come Ja chiusa del
canto d'odio contro il falso amico, l'impressione che
i giambi d' Archiloco contengono un forte elemento

84) Fr. 79. V. R. REITZENSTEIN, « Sitz. BerL Akad. » 1899,


p. 857 ss. e «Hermes» XXXV 621 ss. Per una più compiuta biblio-
grafia sul carme, v. DIERL, Anthologia Lyrica Graeca, voL I, ad
loc.
36) Pind. Pyth. II 55 ..
36) Fr. 79, 12 ss. V. un simile scoppio di inimicizia in Teoguide
v. 349, -r:&v e:t'IJ µi!:Àctv ct!µct me:rv.
37) Ho liberamente parafrasato l'immagine che nel carme (fr.
96) è puramente anatomica intonandomi a Orazio, Serm. I 9,
66 (cfr. un passo simile in Od; I 13, 4).
38) V. ,.Arist. fr. 80 (Rose) dove sono raccolti passi di Seneca,
Filodemo 'e Cicerone, che testimoniano questa opinione di Aristo·
tele. Non è questo un fondamento sufficiente per attribuirla al
dialogo perduto n politico, come fa il ROSE. Arist. Pseudep. 114.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOUCA 237

normativo. La coecienza, appunto, d'applicare agli


uomini ch'egli biasima una misura di validità superin-
dividuale, gli conferisce la capacità di sfogarsi così li-
beramente. Di qui si spiega poi la facilità con la quale
il giambo, dalla satira, passa all'ammaestramento o
alla riflessione.

Volgiamoci ora ai componimenti ammaestrativi o


riflessivi. Quanto abbiamo prima osservato circa la re-
lazione con Omero, trovasi anche in queste poesie,
che rivelano la filosofia d'Archiloco. Egli esorta gli
amici a sostenere con virile pazienza la sventura o
consiglia di rimettersi in tutto agli dèi. Tutto viene
agli uomini dalla Tyche e dalla Moixa 39). Spesso la di-
vinità risolleva inopinatamente, nella sventura, gli
uomini che giacevano ormai distesi a terra; spesso
abbatte anche quelli che si reggevano saldi, si che ca-
dono riversi 40). Tutti questi sono detti che ritroviamo
dipoi spesso nel pensiero greco, ove si parli della po-
tenza della Tyche. La religiosità d' Archiloco ha sua
radice nel problema della Tyche. Queste considerazioni,
per il contenuto e in parte sino alla lettera, sono tolte
da Omero, ma la lotta dell'uomo col destino è tra-
sferita qui, dal mondo grandioso degli eroi, nella re-
gione quotidiana del presente. Sua scena è la vita
del poeta, il quale, attraverso il modello dell'epos,
acquista egli stesso coscienza di sé quale persona che
1offre ed agisce e riempie la propria esistenza del con-
tenuto della concezione epica del mondo 41). Quanto

39)Fr. 7 e 8.
40)Fr. 58.
U) Ecco, di questo, un hell'esempio: (fr. 68) «Tale è l'opinione
degli uomini, o Glauco, figlio di Leptine, quale è il giorno che
Zeus manda loro». Anche l'antico retore Teone nei suoi
Progymnasmata (Rhet. Graec. I 153 W.) notava giustamente che
238 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

pm liberamente e consapevolmente l'Io umano ap-


prende a dirigere i passi del suo pensiero e della sua
azione, tanto più saldamente si sente legato al pro-
blema del destino.
L'evoluzione dell'idea della Tyche procede dipoi
per i Greci sempre di pari passo con quella del pro-
blema della libertà umana. Aspirare ad un massimo di
indipendenza significa tuttavia rinunciare a molte cose
che sono date all'uomo quale dono della Tyche. E cosi
troviamo non a caso in Archiloco, per la prima volta,
con piena chiarezza la professione di fede personale di
un uomo interiormente libero, indirizzata ad una de-
terminata forma di vita liberamente scelta, una vera
« scelta della vita», nei famosi versi nei quali si ricusa
d'aspirare alle ricchezze di Gige, di oltrepassare coi
propri desideri il limite tra l'uomo e la divinità e di
stender la mano verso il potere della. tirannide 42).
« Ché lungi è essa dai miei occhi». Da quale riconosci-
mento derivi tale orgogliosa discrezione, lo mostra la
singolare apostrofe del poeta a se stesso 43). Questo

qui Archiloco parafrasa Omero (a 136 ss.). Uµ altro esempio:


quando confessa di aver sbagliato (fr. 73) ma aggiunge che Ate
ha condotto altri prima di lui fuor di strada, pare che pensi a
qualche famoso episodio di poesia epica.
42) Fr. 22. Chi parla non è il poeta stesso, ma il falegname
Charon (v. Arist. Rhet. III 17, 1418 b 28) il quale proclama la
sua filosofia sulla vita.
43) Fr. 67a. Le parole del terzo verso di questa grande poesia
devono essere corrotte nella nostra tradizione manoscritta del-
l' Anthologia di Stobeo, a cui dobbiamo di avercela conservata.
h 3oxofotv q.&pwv è generalmente inteso «negli agguati dei tuoi
nemici», che dà un senso buono, ma è difficile che 3ox6c; significhi
agguato. La glossa di Esichio ~3oxoc;· tvé3poi: sembra derivare
da questo passo, ma è dubbio che la spiegazione ~vé3poi: dia il
significato esatto del nome lv3oxoc;. L'interpretazione di Esichio
probabilmente è derivata da un testo con glosse marginali in
cui la parola che doveva essere spiegata con la glossa ~vé3poi:
era corrotta· in ENLl.OKOICIN. Il modo normale di esprimere
« imboscata» nella lingua omerica, sarebbe stato E N AO XO ICI N.
Io sospetto che Archiloco avesse realmente scritto lv ).6xotcnv
q.&pwv.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 239

primo grande monologo della letteratura greca trova


la sua motivazione nell'applicare l'apostrofe esorta-
tiva rivolta altrui, quale è frequente nell'elegia e nel
giambo, alla propria persona, che sembra qui scin-
dersi in colui che parla e nel suo spirito pensante e
volente 44 ). Anche di ciò si ha già un esempio nell'Odis-
sea, cui Archiloco si riallaccia quanto all'idea e alla
situazione.
Ma che ha egli fatto del detto tante volte citato
d'Odisseo: « Cuore, sopporta, ben altro hai sopportato
più cane ! » 45 ). Egli esorta il proprio coraggio ad emer-
gere dal vortice di sofferenze disperate nelle quali
è sommerso, ad opporre arditamente il petto ai nemici
e a difendersi con atteggiamento sicuro.« Né devi, da
vincitore, pavoneggiarti in faccia a tutti, né, da vinto,
a casa, gettarti a terra e gemere; ma allégrati di quanto
è lieto, non ceder troppo alla sventura, e riconosci
quale ritmo tenga vincolati gli uomini».
La considerazione dalla quale muove questo ethos
sovrano si solleva qui, al disopra del consiglio mera-
mente pratico di moderazione tratto direttamente dalla
vita, all'idea universale di un « ritmo» insito in tutta
l'esistenza umana 46). Su questa Archiloco fonda la sua
esortazione a padroneggiarsi e il mònito contro ogni
eccessivo abbandonarsi al sentimento di gioia o do-
lore, cioè, per lui, alla fortuna o sventura che viene
dall'esterno, dal destino. In questo « ritmo» par già
sentire qualche cosa dello spirito della filòso:fia natu-

") Questa forma di dialogo con se stesso è la cellula iniziale


dei soliloquia del tempo più tardo, come l'opera famosa di S.
Agostino. La distinzione platonica fra anima e ragione rese sempre
più naturale questo genere di conversazione, dividendo l'individuo
nei suoi due elementi.
' 5 ) u 18.
i6) Per semplicità ho tradotto la parola iciniea di Archiloco
puaµ6c; (fr. 67a, 7) con «ritmo», che deriva dalla forma attica.
240 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

raie e della riflessione storica ionica, che prima si


spinse ad una rappresentazione oggettiva della rego·
larità nel corso naturale dell'esistenza. Erodoto parla
addirittura del « ciclo delle cose umane», intendendo
soprattutto l'alto e basso della umana fortuna 47).
L'alto e basso non deve ·tuttavia indurci a ravvi-
sare ora nel «ritmo» d'Archiloco quel fluire che, per
l'intùito moderno, dev'essere conseguenza naturale della
ritmicità e suole anzi appoggiarsi a una derivazione
linguistica da ps6>, «scorrere» 48). Questa è confutata
dai fatti evidenti della storia del vocabolo, la quale
dimostra che l'applicazione speciale di esso al moto
della danza e alla musica, onde prendiamo il nostro
vocabolo «ritmo», è secondaria e nasconde, piuttosto,
il significato fondamentale. Dovremmo anzi chiederci,
prima, come intendessero i Greci l'essenza della danza
e della musica. E ciò è illuminato di vivida luce da
quel significato fondamentale, quale è · mostrato in
modo bellissimo dal verso d' Archiloco. Il -fatto che il
ritmo «tenga» gli uomini 4 9) - io ho tradotto addirit·
tura « tenga vincolati» - esclude ogni idea d'un
:fluire delle cose. Pensiamo al Prometeo eschilèo,
che, tenuto immobile nelle ferree maglie de' suoi ceppi,
dice di se stesso : Io sono qui serrato in questo « ritmo »;
o a Serse, del quale Eschilo dice ch'egli ha messo in
ceppi il :flutto dell'Ellesponto e « portato ad altra
forma (ritmo)» il tragitto, cioè lo ha trasformato in un
ponte, mettendolo in saldi ceppi 50). Qui il ritmo è pre·
cisamente ciò che impone al moto, al :fiume la barriera,

47) Her. I 207 (cfr. I 5).


48) Questa spiegazione etimologica è così comune che non
c'è bisogno di dare speciali riferimenti.
49 ) Le parole di Archiloco (fr. 67a, 7) sono: y(yvroaxe lroto<;
puaµÒç OC".8-p C:mouç lxeL.
OO) Aesch. Prom. 241 ©a' ~ppò.&µLaµiXL; Pei's. 747 1>'6po" µe-rep·
pÒ.S-µLçe.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 241

la stabilità, ed è questo l'unica cosa che valga anche


per Archiloco. Così anche Democrito parla, nel ge-
nuino senso antico, del ritmo degli atomi, intendendo
non già il loro moto, hensi, secondo il significato già ri-
prodotto esattamente da Aristotele 51), il loro« schema».
E così, giustamente, già gli antichi esegeti interpre-
tarono la parola anche in Eschilo 52 ). Evidentemente,
non si tratta di un'immagine presa dalla musica,
quando i Greci parlano del ritmo d'un edificio o d'una
statua, e l'intuizione prima, che sta a fondamento della
scoperta greca del ritmo nella danza e nella musica,
non è, del pari, il fluire, ma all'opposto la saldezza e la
rigorosa limitazione del movimento 53).
In Archiloco assistiamo al miracolo d'una nuova
cultura personale, che si basa sul consapevole ricono-
scimento di un'ultima, salda forma fondamentale e co-
mune, data da natura, della vita umana. Un adeguarsi
cosciente ai suoi limiti, libero dall'autorità della mera
tradizione, si annuncia. Il pensiero umano assume di-
rettamente la difesa della propria causa e, come nella
convivenza della polis tende a fissare per legge le norme
valide per tutti, così, oltre questo limite esteriore, si
spinge ormai nella sfera dell'interiorità umana, per
serrare là entro, in salde barriere, anche il caos delle
passioni. Nei secoli seguenti, il vero campo di questa
ricerca è la poesia; solo più tardi, e in seconda linea,
vi si aggiunge la filosofia. Il cammino della poesia,
movendo oltre Omero, appare evidente, in Archiloco,

il) Arist. Met. I 4, 985 b 16.


") Cfr. Scholia in Àeschylum, ad Prom. 241. Spiegano èppO&-
µtaµ.o:t con tO"'t"etUp(J)µ.etL, tl('t"é't°o:µ.o:L.
63) Il compianto Wilhelm Schulze, il grande linguista a cui
io presentai il mio materiale e le conclusioni a cni esso mi induceva
era favorevole a cercare una nuova etimologia di pu.&µ.6.; che
fosse migliore della tradizionale derivazione da péù), perchè questa
evidentemente non si accorda coi fatti. Egli pensava alla pos-
sibilità che òp.& 6.; fosse connesso alla stessa radice.
242 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

nel suo indirizzo spirituale. La poesia dei tempi nuovi


è nata dall'intimo bisogno che prova l'individuo, mo-
vendosi più liberamen'l;e, d'un progressivo affrancamento
dei problemi generalmente umani dal contenuto mitico
dell'epos, che ne era stato sin allora l'unico rappre-
sentante. Facendo letteralmente proprio il contenuto
ideale e problematico dell'epos, i poeti, nell'elegia e
nel giambo, gli conferivano l'autonomia dei nuovi ge-
neri poetici particolari e lo trasformavano in vita per-
sonale.

Della poesia ionica del primo secolo e mezzo dopo


Archiloco ci rimane giusto abbastanza per riconoscere
come essa proceda del tutto su queste rotaie; nessuno,
tuttavia, eguaglia in larghezza di mente il grande no-
vatore. È soprattutto la forma riflessiva del giambo di
Archiloco e dell'elegia ad esercitare la s.ua influenza
sui posteri. I giambi pervenutici di Semonide d'Amorgo
sono spiccatamente ammaestrativi. Il primo, con l'apo-
strofe che contiene, mostra chiaramente l'indirizzarsi
di questo genere poetico a scopo direttamente educa-
tivo 54). « Figlio mio, Zeus ha in sua mano la :fine di
tutte le cose e ne dispone come vuole. Ma gli uomini
nulla ne sanno. Creature effim.ere, noi viviamo come
bestie al pascolo, ignari come la divinità condurrà a
termine ciascuna ·cosa. Tutti vivono di speranza e illu-
sione soltanto, e il loro meditare tende all'inattingibile.
Vecchiaia, malattia, morte sul campo di battaglia o nei
:flutti del mare colgono l'uomo prima ancora ch'egli
abbia conseguita la sua mèta. Altri ancora :finiscono
suicidi». Come Esiodo, il poeta lamenta che nessuna
sventura manchi agli uomini 55). Innumerevoli spiriti

") Sem. fr. 1 (Diehl).


55) Bes. Opp. 100.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 243

maligni, pene e dolori inattesi si aggirano tra loro.


« Se badassero a me, non ameremmo la nostra infelicità
stessa - anche qui sentiamo un'eco d'Esiodo 56) - e
non tormenteremmo noi stessi cercando dolori ingua-
ribili».
In un'elegia, che tratta quasi il medesimo tema di
questo giambo 57), appare chiaro che cosa Semonide
consigliasse agli uomini nella chiusa della poesia, andata
perduta. Il motivo della loro cieca caccia alla propria
infelicità è che essi abbandonano le redini alla loro
speranza d'una vita senza fine. « Una cosa, la più
bella, ha detto l'uomo di Chio: quali le foglie, tali so:il'o
gli umani 58). Ricevono, è vero, con gli orecchi questa
nozione, ma non se la prendono a cuore. Ché in· cia-
scuno è insita la speranza che cresce nel cuore della
gioventù. Sinché sono ancora nel fior degli anni, i
mortali hanno animo leggero e progettano molte cose
ineseguibili. Ché nessuno pensa alla vecchiezza e alla
morte, e, sinché è sano, nessuno si preoccupa della
malattia. Stolti coloro che così pensano, e non sanno
che ai mortali è concesso sol? un breve tratto di gio-
ventù e d'esistenza. Ma tu tienilo a mente e compia-
citi, pensando alla fine della vita, di concedere all'anima
tua alcunché di gradevole>>. La gioventù appare qui
sorgente di tutte le illusioni esagerate e di tutte le
imprese eccessive, perché le manca ancora la saggezza
omerica, la quale riflette quanto corta sia la vita.
Singolare e nuovo suona il corollario che il poeta trae

66) Hes. Opp. 58. Un'altra reminiscenza di Esiodo in fr. 29,


Opp. 40.
67 ) Fr. 9. L'attribuzione di questo carme a Semonide, sostenuta
dal Berckg, è uno dei più sicuri resultati della ricerca filologica.
Stobeo lo riporta col nome del più famoso Simonide di Ceo.
68) È questo un bell'esempio di quell'adattamento di pensiero
e forma omerica per opera di poeti lirici di cui si è parlato a
p. 226. Cfr. n. 6 e 41.
244 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

da questo principio, la esortazione a godere per tempo


quanto di gradevole offre la vita. Questo non c'era
in Omero 59 ). È la parola d'ordine d'una generazione
per la quale le elevate esigenze dell'epoca eroica molto
hanno perduto della loro profonda se~ietà e che perciò
sceglie, tra gfinsegnamenti del passato, ciò che meglio
corrisponde alla propria concezione della vita. Ed era
il lamento della brevità della vita umana. Traspor·
tata dal mondo del mito eroico all'ambiente del poeta,
che sentiva in modo più vicino alla: natura, questa
nozione, anziché un eroismo tragico, deve di neces·
sità produrre un'ardente sete di vita 60).
Quanto più severamente la polis piegava la vita dei
cittadini alla costrizione della legge, tanto più neces·
sariamente il « bios politico» chiedeva in compenso un
allentamento delle redini nella sfera della vita privata.
È quanto Pericle 61), nel suo quadro ideale dello Stato
ateniese, contenuto nell'elogio funebre, presenterà poi
quale divario tra la libera umanità attica:· e i troppo
rigidi vincoli spartani: «Noi non prendiamo in mala
parte se il nostro prossimo si concede a volte uno
spasso per conto suo, e non glielo facciamo scontare
amaramente facendogli il viso dell'armi». Questa li-
bertà di mosse è il margine necessario, lasciato al sin·
golo dalla legge della polis, che tutti vincola, ed è anche
troppo umano che l'impulso ad estendere il campo

59 ) L'Achille di Omero dal fatto che la sua vita sarà più breve
di quella degli altri mortali, conclude non già che egli dovrebbe
cercar di goderne più intensamente i piaceri, ma che l'onore è
il solo compenso che gli può essere offerto per il suo eroico sacri-
ficio.
60) È anche interessante l'uso della parola ljiux-fi nella frase
(Sem. fr. 29, 13): ljiux?i -.&v &yoc&&v -rÀlj3't xocpt1;;6µe:voç, dove
essa indica evidentemente l'anima individuale e i suoi desideri.
Un uso simile si trova in Xen. Cyr. 1, 3, 18 dove la madre di
Ciro dice al ragazzo che suo padre era un libero persiano uso a
seguire la legge e non la sua «anima».
•1) Thuc. II 37, 2.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 245

dell'esistenza individuale si presenti in quell'epoca, per


il volgo, quale esigenza d'un più intenso e consapevole
godimento della vita per parte del singolo. Ciò non è
vero individualismo; non mette capo al conflitto con
le potenze superindividuali 62). Ma entro le loro bar-
riere si espande e si estende sensibilmente la sfera del
bisogno personale di felicità. La parte spettante a cia-
scuno pesa ora di più sulla bilancia della vita. Nella
cultura attica dell'età di Pericle, tale delimitazione
delle due sfere della vita è fondamentalmente accet-
tata dallo Stato e dall'opinione pubblica; ma questo
riconoscimento ha dovuto conquistarselo, e questo passo
fu fatto nella Ionia. I vi sorge per la prima volta una
poesia edonistica, che proclama con appassionata in-
sistenza la legittimità del desiderio di felicità e bellezza
sensibile e la vanità d'una vita priva affatto di tali beni.

Come Semonide d' Amorgo, così Mimnermo da Co-


lofone si presenta nelle sue elegie quale maestro del
pieno godimento della vita. Ciò che in Archiloco sem-
bra piuttosto sfogo occasionale d'una natura vigorosa
e stato d'animo personale e momentaneo, appare nei
suoi due successori la suprema saggezza: diviene una
rivendicazione generale, l'ideale anzi d'una vita cui essi
vogliono guidare gli uomini. Senza l'aurea Afrodite
non c'è vita, non godimento ! Piuttosto la morte -
esclama Mimnermo - se non dovessi più allietar-
mene 63). Nulla sarebbe più errato, che raffigurarci un
poeta quale Mimnermo - di Semonide possediamo
saggi troppo scarsi per formarci un'immagine com-
piuta della sua personalità - come un gaudente de-

80) Il conflitto con le norme sape:rindividuali si produce sola-


mente quando si fa del piacere la base del sistema di vita e attività
umana. Questo fecero più tardi i Sofisti. V. pp. 246-247.
63) Mimn. fr. 1 (Diehl).
246 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

cadente. Tra le sue poesie, alcune fanno risuonare una


nota spiccatamente politica e guerriera, attestando, in
versi omerici di particolar vigoria, tradizione e sensi
cavallereschi 64). Ma che la poesia includa nei propri
limiti la sfera del godimento personale della vita, è
cosa nuova e cospicua per la cultura umana. Come la
crescente sofferenza dell'uomo per la sua dipendenza
dal destino, dai « doni di Zeus», che non si possono
se non accogliere ·secondo che tocca in sorte a cia-
scuno 65), cosi pure il lamento per la brevità della vita
e per la fugacità del godimento sensuale, sempre più
alto nella poesia post-omerica, dimostra che si vengono
sempre più considerando le cose tutte sotto il rispetto
del diritto dell'individuo alla vita. Ma quanto più si
aprono le porte alle esigenze della natura, quanto più
volenterosi ci si tuffa nel proprio piacere, tanto più
profonda rassegnazione deve afferrare l'uomo. Morte,
vecchiaia, malattia, sfortuna, e quant'altr? lo insidia,
si fanno minacce gigantesche, e chi cerca sottrarsi loro
col godimento momentaneo, ne porta tuttavia la spina
sempre confitta nel cuore 66).
Nella storia delle idee, la poesia edonistica rappre-
senta uno dei momenti più importanti dello sviluppo
della grecità. Basta ricordare come, al pensiero greco,
il problema dell'individuo nell'etica e aella struttura
dello Stato si sia sempre presentato nel senso che il
motivo del piacevole (~M) cerca di prendere il so-
pravvento sull'eletto (xocMv). Nella sofistica s.coppia il
conflitto aperto di questi due moventi d'ogni azione
umana 67), e la filosofia di Platone culmina nel supera-

") Fr. 12-14.


86) Tutto ciò che è dato all'uomo nella vita viene da Zelli!
e dagli dèi e deve essere accettato. Cfr. Archil. fr. 8, 58, 68; Sem.
fr. 1, 1 88.; SoL fr. 1, 64; Theogn. vv. 134, 142, 157 ecc.
66) Cfr. Mimn. fr. 2, 5, 6.
11) Cfr. p. 559.
CAP. VIl: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 247

mento della pretesa del pia.cere ad essere il bene su-


premo della vita umana 68 ). Per portare al parossismo
i contrasti come avvenne nel sec. V, per superarli
come si cercò di fare nella filosofia attica da Socrate a
Platone, e per condurli infine all'armonia, come voleva
l'ideale aristotelico della personalità umana 69), era ne-
cessario che l'umana sete .di una piena gioia di vivere
e di un godimento com;apevole ottenesse prima la sna
conferma in linea di massima di contro all'esigenza
del xocJ..6v, quale è rappresentata dall'epos e dall'elegia
arcaica. Ciò ha luogo nella poesia ionica da Archiloco
in poi. Il significato dell'evoluzione spirituale che vi
si compie è indubitabilmente centrifugo. Essa libera
le forze e allenta l'impalcatura sociale della polis di
tanto almeno, quanto contribui al suo consolidamento
con l'istituire l'impero della legge.
Per portare alla discussione e all'accettazione pub-
bliche tali esigenze, occorreva la forma ammaestra-
tiva della riflessione, che è propria dell'elegia e del
giambo post-archilochèi. L'edonismo non vi si presenta
quale casuale tendenza individuale del singolo; i poeti
motivano invecè in principij generali il « diritto» del-
l'individuo al godimento della vita. Ad ogni passo Se-
monide e Mimnermo ci rammentano che siamo all'epoca
in cui s'inizia la considerazione razionale della natura ed
in cui sorge la filosofi.a della natura milesia. Il pensiero
non si arresta dinanzi ai problemi della vita umana,
come potrebbe sembrare dalla trattazione tradizionale
che questo periodo riceve nella storia della filosofia, la
quale per lo più si limita al lato cosmologico 70). Il

68) Cfr. « Paideia » II 200-205, 242-244, 610-617.


69 ) Le conclusioni definitive di Aristotele sul posto che la
ljtìovfi occupa nella formazione della personalità umana e sulle
sue relazioni con l'<Xpetj si trovano in Eth. Nic. X 1-5 e VII.
70 ) Per uua convenzione che sembra difficile a sradicarsi, la
maggior parte dei libri che si occupano di storia della filosofia
248 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

pensiero investe la poesia, che era stata sempre rap-


presentante delle idee etiche, e le infonde il proprio
spirito. Anche qui incontriamo ora problemi che sono
trattati come tali. Il poeta si presenta al suo uditorio
quale :filosofo della vita. Le poesie conservateci di
Semonide non sono più impulsive impressioni personali,
come in Archiloco, che a volte possono anche pas-
sare alla forma riflessiva, bensì puri ammaestramenti
circa un determinato tema; e Mimnermo è, si, artista
ben più forte di Semonide, ma, nella maggior parte
de' suoi frammenti superstiti, condivide con quello il
carattere contemplativo. Anche nel suo passaggio dal-
l'elemento eroico all'elemento umano privato, la poesia
conserva il suo atteggiamento educativo.

Se la poesia post-archilochèa della Ionia, intorno


al trapasso dal VII al VI sec., si diffonde, in forma di
riflessioni generali, sui naturali diritti alla vita che
l'uomo ha, nella lirica eolica di Saffo e d'Alceo, amhidue
di Lesbo, prorompe la vita interiore individuale. A que-
sto fenomeno, unico nel campo della vita spirituale
greca, quella che più si avvicina è la forma della mani-
festazione individuale d' Archiloco, la quale presenta
non solo pensieri generali, ma reali esperienze perso-
nali, con la sfumatura colorita del sentimento indivi-
duale. Archiloco costituisce invero un precedente ine-
liminabile della lirica eolica, ma persino nei suoi carmi
d'odio, in cui la sua soggettività si espande così appas-
sionatamente, essa si orienta ancora secondo una norma

greca non danno importanza alla poesia politica, morale o religiosa


dei primi secoli, ma solo alla poesia che riguarda la natura o l'es-
sere come quella di Parmenide ed Empedocle. Fa eccezione L.
RoBIN col suo La Pensée grecque (in L'Evolution ~ l'humanité,
ed. da H. Berr). V. anche MAX WUNDT, Geschichte ~r Griechischen
Ethik, voL. I, che ha trattato giustamente la poesia greca come
una fonte di primaria importanza, su questo argomento.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 249

generale del senso etico. L~ lirica eolica, specialmente


in Saffo, va più oltre, si fa espressione del puro senti-
mento. Certo, è innegabile che, con .Archiloco, la sfera
dell'individuale si eleva ad un'importanza e si arrichi-
sce di un'abbondanza di possibilità espressive, che
schiude la risorsa della libera comunicazione anche al
più segreto moto dell'anima. Con .Archiloco si conse-
gue, nel dar forma generale a ciò che sembrerebbe to-
talmente soggettivo ed informe, una sicurez!lla dalla
quale sorgerà in Saffo il dono mirabile di elevare anche
l'elemento personalissimo ad eternamente umano, senza
togliergli l'attrattiva dell'immediatezza della vita vis-
suta.
Il miracolo dell'autoformazione dell'interiorità uma-
na nella lirica eolica non è minore della creazione
contemporanea della filosofia e dello Stato secondo il
diritto per parte dei Greci dell'Asia Minore. Ma rico-
noscere questo miracolo non vuol dir chiudere gli occhi
dinanzi allo stretto nesso che anche questa sorta della
poesia greca ha con l'ambiente esteriore. Come Archi-
loco, con ciascuno dei suoi versi sanguigni, è tutto im-
merso nella vita circostante, _cosi pure la poesia d'Alceo
e di Saffo, secondo ci mostra la ricca scelta di componi-
meriti diversi dataci dai ritrovamenti degli ultimi de-
cenni, è tutta legata a circostanze della vita esteriore,
e la poesia è scritta per un determinato pubblico. A ciò
è legato anzitutto l'elemento convenzionale che abbiamo
ora appreso a meglio discernere, in questa poesia come
in Pindaro. Ma il vivo nesso dei canti bacchici d'Alceo
col simposio mascolino, quello del canto nuziale e
amoroso di Saffo con la musica cerchia delle giovani
c-0mpagne che si raccoglie intorno alla poetessa, acquista,
secondo la nostra visuale, un'importanza ancor più
profonda e positiva.
Il simposio, con la sua scioltezza di contegno, ma
250 LlBRO I - L'ETÀ ARCAICA

anche con l'alta sua tradizione intellettuale, è per l'ele-


mento mascolino la sede principale d'una libera espan-
sione del nuovo atteggiamento e della nuova comunica-
tività individuale 71). Perciò l'individualità maschile è
rappresentata precipuamente dalla larga corrente della
poesia simposiale, che quell'epoca fa zampillare da
numerose fonti ed in cui shoccano tutte le intense emo-
zioni 72). I canti bacchici d'Alceo, nei frammenti conser-
vati, offrono un ricco quadro, che comprende effu-
sioni sentimentali e considerazioni riflessive d'ogni sorta.
Un folto gruppo è dedicato all'espressione d'opinioni
politiche, appassionata e piena d'odio archilochèo, quali
i violenti sfoghi contro Mirsilo 73), il tiranno ucciso.
Confessioni erotiche osano spesso affacciarsi nella fida
compagnia d'amici, ad alleggerire il cuore oppresso dal
peso del suo segreto. Amichevoli consigli, dettati da
un ethos profondo, lasciano intuire il valore crescente
di siffatti vincoli personali quale valido s~stegno del-
l'incerta esistenza individuale. Notazioni di paesaggio,
di cui troviamo già in Archiloco 74) i primi indizi, mo-
strano la natura veduta da costoro non più come un 'im-
magine contemplata o goduta oggettivamente, al modo
del pastore omerico che dall'alto del monte, nella soli-
tudine notturna, contempla rabbrividendo sul suo capo
lo splendore del cielo stellato 75 ); qui invece il cambia-
mento dell'atmosfera o della stagione, i trapassi dalla
luce all'oscurità, dalla quiete alla tempesta, dall'immo-

'11) Sull'importanza del simposio greco, v. « Paideia » I 322,


II 303 86.., III 385 ss.
72) Per le relazioni dell'antica poesia greca coi simposii, v.
R. REITZENSTEIN, Epigramm und Skolion (1893).
73) Alceo e suo fratello Antimenide furono entrambi capiparte
degli aristocratici di Mitilene, che contrastavano il dominio al
tiranno Mirsilo e a Pittaco l'aisymnete. Cfr. Arist. Pol. III 14,
1285 a 37.
") Alc. fr. 30. Cfr. Archil. fr. 56.
1") 0 555-559.
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLICA 251

bilità invernale al soffio vivificante della primavera,


diventano specchio dei moti dell'animo umano, sostrato
espressivo degli affetti. Considerazioni pie, liete o rasse-
gnate circa il corso del mondo e la sorte, si col-
legano in modo nuovo affatto con un'ebbrezza filoso-
fi.ca, che nel trasporto dionisiaco seppellisce ogni gra-
vezza della vita individuale. Così nemmeno l'intona-
zione individuale di questa lirica smentisce il legame
con la comunità umana, ma questa appunto si restringe
alla cerchia personale in cui il singolo ha ad espri-
mersi.

Oltre alla poesia bacchica v'è la forma cultu-


rale dell'inno e della preghiera, ma anch'essa non è
che un'altra forma primordiale dell'espressione umana,
che la poesia riprende. Appunto nella preghiera l'uomo,
nel suo isolamento, sta di fronte all'Essere quale
nudo lo, in un atteggiamento originario. Per il soggetto
orante, l'apostrofe alla potenza divina quale Tu invi-
sibilmente presente si fa sempre più un organo d'espres-
sione dei propri pensieri o di libera effusione del pro-
prio sentimento senza testimoni auricolari umani, di
che il più bell'esempio ci è dato dalle preghiere di
Saffo 76 ).
Par quasi che lo spirito greco avesse bisogno di
questa donna per compiere l'ultimo passo penetrando
nel mondo della nuova interiorità del sentimento sog-
gettivo. Che ciò fosse (rualche cosa di grande, sentirono

78) L'esempio più notevole di questo uso della forma di preghiera


in Saffo è il fr. I, la preghiera ad Afrodite. V. Solone fr. I, la pre-
ghiera alle Muse, che è trasformata in una sorta di espressione
personale del suo pensiero su Dio e il mondo. Più tardi nella tragedia
greca, la preghiera diventa una forma frequente per esprimere
le emozioni del coro.
252 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

i Greci, onorando Saffo, secondo il detto di Platone,


quale decima musa. La poesia femminile non è cosa
insolita nell'Ellade, ma nessuna delle sue sorelle in
arte ha trovato posto accanto a Saffo: essa rimane
unica. Al paragone della ricchezza di contenuto della
poesia d'Alceo, la lirica di Saffo è racchiusa entro stretti
limiti. È il mondo della donna che la circonda, ma
questo medesimo in quella parte soltanto che è co-
stituita dalla vita che la poetessa ha in comune con
la cerchia delle sue fanciulle. La donna quale madre,
amata e sposa dell'uomo, quale più spesso si presenta
nella poesia greca ed è esaltata da poeti d'ogni epoca,
p~rché in questa forma vive nella fantasia virile, non
appare nei canti di Saffo se non a volte, all'affacciarsi
o al partire d'una delle fanciulle della sua schiera.
Essa non è oggetto, per Saffo, d'ispirazione poetica.
La donna compare nella sua cerchia quale giovinetta
che comincia a staccarsi dalla madre. Sotto la custorula
della donna non sposata, la cui vita, come quella d'una
sacerdotessa, è tutta consacrata al culto delle Muse,
riceve la consacrazione del Bfllo nella danza collet-
tiva, nella musica e nel canto.
La funzione poetica ed educativa greca non fu mai
cosi compiutamente una come in questo thìaso di fem-
minilità consacrata alle muse, la cui periferia spiri-
tuale è difficile coincidesse con l'àmbito della poesia
stessa di Saffo, ma comprendeva piuttosto tutto il
Bello del passato. Allo spirito virilmente eroico della
tradizione Saffo univa l'ardore e la grandezza del-
l'anima femminile nei propri canti, dove vibra l'or-
goglio particolare della consona vita comune de] suo
ambiente. Tra la casa paterna e l'ingresso nella vita
coniugale,. s'inserisce qui una sorta d'ideale sfera inter-
media, che non possiamo intendere se non quale edu-
cazione della donna alla più alta nobiltà dell'anima
CAP. VII: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NEUA POESIA IONICO-EOLICA 253

femminile. L'esistenza della cerchia raccolta intorno


a Saffo presuppone la concezione educativa della poesia,
che era ovvia per i Greci dell'età sua; ma il fatto nuovo
e grande è che la donna aspira ad essere ·ammessa in
questo mondo e vi si conquista, quale donna, il suo
posto e la sua parte. Merita infatti il nome di conquista
lo schiudersi qui alla donna il servizio delle Muse e il
fondersi quest'elemento nella sua formazione perso-
nale. Ma questa fusione essenziale, che diviene propria-
mente formazione umana, non si compie mai senza là
potenza dell'eros, che svincola le energie dell'anima, e
il parallelo tra l'eros platonico e l'eros saffico s'impone
da sé. Quest'eros femminile, i cui fiori poetici ci deli-
ziano con la delicatezza del profumo e la morbidezza
del colorito, ha avuto la forza di creare una vera
comunione umana. Non può dunque essere stato mo-
mentaneo stato d'animo, ma dovette unire le anime,
che ne erano imbevute, in un terzo e superiore ele-
mento. Era presente nella grazia sensuale della musica
e della danza e s'incarnava nell'elevatezza della figura
che si ergeva quale modello in mezzo alle compagne.
La lirica saffica tocca i suoi momenti culminanti nel-
l'ardente ricerca del favore d'un acerbo cuore vergi-
nale non ancora sbocciato, nel commiato da un'amica
diletta costretta a staccarsi dalle compagne per tor-
nare al luogo natale o seguire l'uomo che vuol farla
sua - ciò che, in quei tempi, nulla ha a che fare con
l'amore - o infine nel ricordo nostalgico d'una com-
pagna strappatale, che, lontano, .la sera, vagando nel
giardino solitario, invano chiama la sua Saffo perduta.
È tutto ozioso, e non si addice all'uomo moderno,
escogitare indimostrabili spiegazioni psicologiche della
natura di tale eros, o, all'opposto, pieno d'indigna-
zione morale per tale blasfemìa, presentare i senti-
menti dell'ambiente saffico come perfettamente con-
254 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

soni ai comandamenti del costume cristiano-borghese 71).


Le poesie rappresentano la patologia dell'eros saffico
come una passione che scuote l'equilibrio interiore e
occupa sensi ed anima con pari intensità. · Ciò che a
noi importa non è tanto rilevare l'esistenza del lato
sensuale dell'erotismo saffico, quanto l'esuberanza di
sentimento, sprigionata dalla forza di quello, che afferra
tutta intera la personalità. La poesia amorosa maschile
dei Greci non attinge mai nemmeno lontanamente la
profondità psicologica di questa poesia. La polarità
mascolina di spirito e sensi non concesse che più tardi
all'elemento erotico un'importanza, che più si adden-
tra nell'elemento psicologico e può riempire la vita
tutta.
Taluni hanno qualificata questa trasformazione del
sentimento mascolino una femminizzazione ellenistica;
certo è che, nell'età arcaica, soltanto la donna era ca-
pace di tale dedizione, comprendente anima e sensi,
la quale, a nostro modò di sentire, sola merita il nome
d'amore. Per la donna, l'esperienza amorosa sta al
centro della sua esistenza, ed ella soltanto l'accoglie
con l'unità della sua natura indivisa. Nella relazione
con l'uomo, in quell'epoca, cui era estraneo ancora il
concetto del matrimonio d'amore, ciò doveva essere
più difficile da conseguire; così come, d'altra parte,
l'amore dell'uomo nella sua più alta spiritualizzazione
non si atteggiò poeticamente nella relazione con la
donna, bensì in forma d'eros platonico. Sarebbe un
anacronismo il voler ravvisare nel sentimento di Saffo,
sempre vicino ai sensi, la pretersensibilità metafisica

1'1) V. p. es. WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Sappho und Simoni-


des (Berlino 1913) 71 ss., che segue le orme del Welcker nella
difesa di Saffo. Tutto lo sdegno del Wilamowitz si rivolge contro
P. L(ouYs), Les chansons de Bilitia (Parigi 1895), libro a cui egli
ra quasi troppo onore.
CAP. VJI: AUTOFORM. DELL'INDIVIDUO NELLA POESIA IONICO-EOLlCA 255

dell'anelito dell'anima platonica verso l'Idea, che è il


segreto del suo eros. Ma in comune con Platone ha
che l'anima sua è profondamente investita. Ne deriva
quella grande sofferenza che conferisce alla poesia di
Saffo la grazia delicata d'una seducente tristezza, ma
anche l'alta nobiltà di una tragicità schiettamente
umana.
La leggenda, che presto s'impadroni della sua fi-
gura, ha raffigurato l'enigma che avvolge la sua per-
sona e il suo mondo affettivo nel racconto dell'amore
infelice per un bell'uomo, Faone, simboleggiandone la
tragedia nel drammatico balzo dagli scogli di Leucade.
Ma l'uomo rimane remoto affatto al mondo di lei; si
affaccia tutt'al più quale corteggiatore d'una -delle fan-
ciulle a lei dilette all'uscita da quel mondo, ed è guar-
dato con occhio estraneo. Il pensiero ch'egli gode la
divina felicità di sedere innanzi all'amata e d'ascol-
tarne la dolce voce, il riso che suscita il desiderio,
desta in Saffo il ricordo dei suoi propri sentimenti
presso l'essere amato. A quella voce, a quel riso il
cuore le si ferma in petto per l'emozione. « Sol ch'io
ti veda, muore la voce sul mio labbro, mi s'inceppa la
lingua, un sottil fuoco mi scorre sotto la pelle, la
tenebra mi vela gli occhi, le orecchie ronzano, sgorga
il sudore, tremo tutta, e, più pallida dell'erba, sono
all'aspetto quasi una morta» 78).
L'arte suprema di Saffo sta nella sobrietà, spoglia
di sentimentalità come è il canto popolare, e nella
immediata verità sensuale dell'interiorità rappresen-
tata. Dove troviamo nell'arte occidentale, giù giù sino
a Goethe, alcunché di paragonabile ? Se dobbiamo cre-
dere che questo canto sia stato composto per le nozze
dell'alunna e che Saffo, in questa forma, tenga un

78) Sapph. fr. 2.


256 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

linguaggio così incomparabilmente personale, non oc-


corrono altri esempi per mostrare come, mercé l'estrema
profondità del sentimento personale, quanto di conven-
zionale hanno stile e lingua resti trasformato in pura
espressione dell'individualità. La semplicità stessa della
situazione sembra mettere in luce le più sottili sfuma-
ture del sentimento, le quali sole le conferiscono reale
importanza. Ma non a caso, certamente, di tale indi-
vidualità fu capace soltanto la donna, e la donna solo
in virtù della massima forza che le sia concessa, l'amore.
Saffo si fa innanzi tra i poeti del sesso virile quale
sua banditrice. Come un simbolo di questa sua mis-
sione unica suona l'esordio di un'ode scoperta da pochi
decenni: « Gli uni dicono che la cosa più bella della
terra sia un gruppo di cavalieri, altri uno di fanti
guerrieri, altri ancora di navi. Ma io dico: la cosa più
bella è l'essere amato, che il cuore brama» 79).

70 ) Fr. 27a.
CAPITOLO OTTAVO.

SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITICA


D'ATENE

Ultima ad aggiungersi al concerto spirituale delle


stirpi elleniche interviene verso il 600 l'.Attica, che dap·
prima pare soltanto accogliere docile e variare i temi
delle altre, soprattutto degli Ioni a lei affini, ma ben
presto li intesse per suo conto in un'unità superiore,
di essi giovandosi per la sua melodia propria, che si
afferma sempre più chiara e piena. La forza attica non
tocca il colmo che cent'anni dopo, nella tragedia di
Eschilo, e poco mancò che avessimo a conoscerla di qui
soltanto. Per tutto il VI secolo, altro non possediamo
che i frammenti, non privi d'importanza, delle poesie
di Solone, la cui conservazione non è neanch'essa, certo,
un mero caso. Dell'edificio della cultura attica, So-
lone rimase per più secoli una delle colonne maestre,
sinché vi fu uno Stato attico e in esso una vita intel·
tuale indipendente. I suoi versi s'inculcavano ai gio-
vanetti sin dalla prima età e sempre s'invocavano
dagli oratori in tribunale e nelle assemblee popolari,
quale espressione classica dello spirito civico ateniese 1).

1) Cfr. il mio saggio Solons Eunomie (« Sitz. Berl•.Akad.»


1926) 69-71; nel quale si troveranno i fondamenti per le afferma-
zioni di questo capitolo.
258 LlBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Così la viva efficacia ne _durò sino all'epoca in cui, col


decadere della potenza e dello splendore dello Stato
attico, si destò un desiderio retrospettivo della passata
grandezza, e la dottrina storica e grammaticale di
un'età nuova s'incaricò della conservazione delle re-
liquie. E questa incorporò ai propri tesori, quali do-
cumenti storici d'alto pregio, le testimonianze poetiche
che Solone dà di sé. Non è gran tempo, che anche noi
le consideravamo principalmente sotto questo aspetto 2).
Supponiamo per un momento di trovarci nella si-
tuazione in cui ci avrebbe posti la perdita d'ogni trac-
cia delle poesie di Solone. Senza di queste ben difficil-
mente riusciremmo ad intendere ciò che, nella grande
poesia attica del periodo tragico, anzi in tutta la vita
intellettuale d'Atene, è per l'appunto la cosa più sin-
golare e grandiosa: la perfetta compenetrazione d'ogni
produzione intellettuale con l'idea dello Stato. In que-
sta somma consapevolezza della funzione~ legata alla
comunità e di questa formatrice, d'ogni attività in-
tellettuale individuale, si esprime una posizione dello
Stato così dominante rispetto alla vita dei suoi cit-
tadini, come non troviamo del rimanen:t;e se non a
Sparta. Ma l'ethos dello Stato spartano, con tutta
la grandezza e compiutezza del suo stile di vita, manca
tuttavia di un impulso interno suo proprio e, col volger
del tempo, si palesa sempre più inetto ad assumere un
nuovo contenuto intimo: cade a poco a poco nell'irri-
gidimento 3). La polis ionica, d'altronde, 'con la sua

2) U. v. WILAlllowrrz-MoELLENDORFF, Aristoteles und Athen


(Berlino 1893) II 304, ha interpretato le poesie di Solone nello
spirito col quale vi si accostò Aristotele stesso nella sua ' A.&'l)va;loov
IloÀ~-.da;;· cioè come documenti fondamentali per un periodo
importante della storia costituzionale di Atene e testimonianze
dell'uomo che era stato la più importante figura di quell'epoca.
Cfr. anche I. LINFORTH, Solon the Athenian (Berkeley 1919).
s) V. il cap. su Sparta, p. 193.
CAP. VIII: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLIDCA D'ATENE 259

idea del diritto ha bensì recato il principio organizza-


tore d'un nuovo edificio sociale, e, insieme con l'abbat-
timento dei privilegi di casta, la libertà civile, la quale
procurò a ciascuno il campo in cui svilupparsi senza
ostacoli 4); ma, dando cosi luogo all'umano e al troppo
umano, non aveva saputo sviluppare le forze coesive,
né indicare alla nuova zampillante ricchezza d'attività
individuale, nell'edificazione della comunità, un fine
superiore. Tra la forza educativa che si esprimeva nel
nuovo ordinamento legale della vita politica, e l'illimi-
tata libertà di pensiero e di parola dei poeti ionici,
mancava ancora il vincolo che le tenesse unite. Sol-
tanto con la cultura attica si vennero a porre in equi-
lihrio le due forze, la forza propulsiva dell'individuo
e quella, obbligativa, della comunità statale. Con tutta
la sua intima affinità con la Ionia, cui l'Attica tanto
deve intellettualmente e politicamente, questo fonda-
mentale divario tra la centrifuga libertà di mosse
ionica e la forza centripeta dell'edificio statale rimane
evidentissimo. Ciò spiega come le creazioni decisive
della grecità nel campo dell'educazione e della cultura
non siano sorte che sul suolo dell'Attica. I monumenti
classici della cultura politica dei Greci, da Solone a
Platone, Tucidide e Demostene, sono tutti creazione
della stirpe attica. Non poterono sorgere che là dove
un forte senso delle esigenze della vita della comunità
era in grado di subordinare, ma anche di vincolare
intimamente a sé, ogni altra forma dello spirito 6).

4) V. il cap. sullo stato secondo il diritto, p. 199 ss.


6) Tracciare lo sviluppo storico dello spirito greco, e attico
in particolare, che conduce a questa· sintesi, è uno dei principali
scopi di quest'opera. Questo sviluppo culmina nell'orazione funebre
di Pericle nelle Storie di Tucidide, per quello che riguarda diret-
tamente la realtà politica (v. p. 683). Ma noi lo possiamo
rintracciare anche nel tentativo filosofico di Platone di fondare
«in teoria» (À6yci>} uno stato ideale che unisca un ordine ideale
con un alto livello di libertà spirituale per l'individuo.
260 LIBRO I - L'ETÀ ARCAJCA

Il primo rappresentante di tale carattere schietta·


mente attico è Solone, che ne è ad un tempo il più
eletto creatore. Che se anche un popolo intero era qui
predestinato dal suo spirito armonico a compiere l'ec·
cezionale, decisivo fu tuttavia, per l'ulteriore sviluppo,
il fatto che sin dagl'inizi esso trovasse la personalità
capace di dar forma a tale attitudine. La storiografia
politica suole giudicare i personaggi storici dal loro
successo tangibile; essa apprezza quindi Solone soprat-
tutto secondo l'aspetto politico concreto della sua opera
costituzionale, la Seisactìa 6). Per la storia della cultura
greca importa anzitutto ciò ch'egli, quale maestro po-
litico, rappresentò per il suo popolo ben oltre la durata
della propria influenza sulla storia contemporanea, ed
è appunto questo che gli conferisce importanza pe·
renne per la posterità. Così si affaccia per noi in primo
piano Solone poeta. È questi, che ci rivela i moventi
della sua opera politica, i quali, per la grandezza della
loro inspirazione etica, si sollevano ben - al disopra
del livello della politica di parte. Abbiamo già parlato
dell'importanza della legislazione per la formazione del-
l'uomo politico nuovo 7) : le poesie di Solonft ne costituì•
scono .l'illustrazione più chiara. Esse hanno per noi
anche il pregio particolare che, dietro la generalità
impersonale della legge, si affaccia qui la figura spiri·
tuale del legislatore, nella quale s'incarna visibilmente
anche per noi la virtù educativa della legge, che i
greci così vivamente sentirono 8 ).
La società attica arcaica, dalla quale proveniva
Solone, continuava a ricever la sua impronta dalla no-
biltà terriera, la cui signoria, in quel tempo, era al-

6) Cfr. Arist. Ath. Pol. capp. VI, XIII; Plut. Sol. 15.
7) Cfr. p. 211 ss.
8) Cfr. « Paideia» III 369 ss.
CAP. VIII: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITICA D'ATENE 261

trove già in parte infranta o volgeva. al tramonto.


Il primo passo verso la codificazione del diritto del
sangue nell'Attica, le proverbiali leggi « draconiane» 9),
avevano rappresentato piuttosto un consolidamento
dello stato di cose tradizionale, che una rottura con la
tradizione. Nemmeno le leggi di Solone miravano ad
eliminare la signoria della nobiltà come tale. Solo la
riforma di Clistene, dopo abbattuta la tirannia dei
Pisistratidi, la spazzò via violentemente. A chi pensi
ali' Atene più recente e alla sua inquieta sete di no-
vità, appare un prodigio che le onde agitate della
tempesta sociale e politica, le quali avevano sommerso
il mondo circostante, s'infrangessero contro le aperte
coste dell'Attica. Ma in quel tempo i suoi abitanti
non sono a~cora i navigatori, accessibili ad ogni in-
fluenza straniera, dei secoli posteriori, quali Platone li
descrive 10). L'.Attica è ancora un paese puramente
agrario. II popolo, legato alla terra, niente affatto mo-
bile, è attaccato alla religione e al costume dei padri.
Ciò non vuol dire che dobbiamo figurarci i ceti infe-
riori non toccati dalle nuove idee sociali, come insegna
l'esempio della Beozia, che già un secolo prima di So-
lone 11) aveva avuto il suo Esiodo e la cui situazione
feudale rimase tuttavia salda sino al fiorire della de-
mocrazia greca. Quanto di rivendicazioni e reclami
sorgeva dall'ottusa moltitudine, non si traduceva tanto
facilmente in azione politica determinata. Ciò si ebbe
soltanto là dove la cultura superiore della classe diri-
gente divenne essa stessa il terreno alimentatore di
tali idee, e un aristocratico, per ambizione o per pro-
fonda comprensione, venne in aiuto della massa e ne

9) Cfr. Arist. Ath. Pol. IV; Plut. Sol. 17.


10) Cfr. Pl. Legg. 706b ss.
11) Cfr. p. 143 ss.
262 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

assunse la guida. I nobili proprietari, amatori di ca-


valli, che nelle figurazioni dei vasi arcaici vediamo
guidare i loro legni leggeri in qualche occasione solenne,
e soprattutto ai funerali dei loro pari, si ergevano di
contro al servo ceto dei lavoratori contadini come
una forza compatta. Lo spirito di casta egoistico e
l'altezzoso isolamento degli altolocati e possidenti di
fronte agli umili costituivano un saldo argine contro
le richieste della popolazione oppressa, la cui condi-
zione spesso disperata è rappresentata in modo impres·
sionante nel giambo grandioso di Solone 12).
La cultura della nobiltà attica è del tutto ionica;
cosi nell'arte come nella poesia domina il suo gusto e
il suo stile straniero e superiore. È naturale che tale
influenza si estendesse anche al tenore e alla conce·
zione della vita; era una concessione al sentimento po·
polare, se le leggi di Solone vietavano il fasto orientale
e le prè:fiche, ch'erano state sino allora d'uso ai fune·
rali dei personaggi altolocati 13). Soltanto cent'anni dopo,
la sanguinosa gravità delle guerre persiane abbatté
definitivamente il predominio del modello ionico nel·
l'Attica quanto ad abbigliamento, acconc~atura e tenor
di vita 14), la ocpx.odoc X_À.L8~, della cui affettazione manie-
rata e suntuosa, al modo dell'Asia Minore, non abbiamo
ottenuta un'idea ben viva se non dalle figurazioni
arcaiche venute in luce dalle macerie persiane dell'Acro·
poli. Per l'età di Solone è venuta di recente ad aggiun·
gervisi la dea ritta del Museo di Berlino, quale perfetta
rappresentante dell'orgogliosa femlnÌnilità, superba del
suo stato, di quell'aristocrazia dell'Attica arcaica. lm·
pregnandosi di cultura ionica, la madrepatria doveva

12) Sol. fr. 24.


13 ) Plut. Sol. 21.
14) Cfr. Thuc. I 6.
CAP. vm: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLmCA D'ATENE 263

necessariamente importare molte novità che .furono


trovate nocive; ma ciò 11on deve impedirci di ve·
dere come soltanto quando l'indole attica fu fecondata
dallo spirito ionico, si destasse nell'Attica arcaica l'im·
pulso a plasmare una forma spirituale sua propria.
Specialmente il movimento politico, che moveva dalla
moltitudine degli economicamente deboli,· sarebbe in-
concepibile senza gli stimoli dell'Oriente ionico, e in·
sieme con quello l'eminente figura ru capo ru Solone,
nella quale pure si compenetrano indissolubilmente at-
ticità e ionicità. Per questa storica fase culturale, fe.
conda di risultati, oltre a quel poco che il ricordo sto-
rico posteriore ne ha conservato ed oltre alle reliquie
dell'arte attica contemporanea, Solone è ,propriamente
il nostro testimone classico. Le sue forme poetiche, ele-
gia "e giambo, sono d'origine ionica. Le sue strette re·
lazioni con la poesia ionica contemporanea sono espres-
samente confermate dal carme a Mimnermo da Colo-
fone 10). La lingua ch'egli usa nelle poesie è un ionico
misto a forme attiche; l'attico stesso, infatti, in quel
tempo non è ancora idoneo alla poesia elevata. Ionico
è in parte anche il patrimoniu d'idee della sua poesia,
ma qui confluiscono elementi personali ed estranei,
unendosi nell'enunciazione ru una grandiosa novità,
per la quale la forma ionica adottata gli dà la libertà
interiore e la padronanza dell'espressione, seppure non
sempre esente da ogni sforzo.

Nei carmi politici 16), che vanno dal periodo. prece-


dente la legislazione sino agli anni dell'incipiente ti-
rannia di Pisistrato 17) e della conquista dell'isola ru

15) Sol. fr. 22. V. anche fr. 20 che richiama Mimnermo.


16 ) V. Solons Eunomie (« Sitz. Berl. Akad.» 1926) 71 ss., per
le relazioni di Solone con Omero, Esiodo e i Tragici e per l'interpre·
tazione della sua poesia politica.
17) Plut. Sol. 8.
264 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Salamina, ossia si estendono ad un mezzo secolo, So-


lone ha restituito d'un tratto alla poesia quella gran-
dezza educativa che aveva avuto un tempo in Esiodo
e Tirteo. La sua apostrofe ai concittadini - che è la
forma costante del suo discorso - sgorga da un cuore
appassionatamente agitato da un senso di solidarietà
responsabile. Mai la poesia degli Ioni, da Archiloco a
Mim.nermo, ha tali accenti, eccetto il solo Callino, che,
nell'ora in cui la guerra minacciava 18), aveva fatto
appello all'amor patrio e al senso dell'onore dei suoi
concittadini efesii. La poesia politica di Solone non è
nata da questo omerico spirito d'eroismo; è un pathos
tutto nuovo, dal quale prorompe. Ogiri età veramente
nuova apre alla poesia nuove sorgenti nell'anima umana.
Abbiamo veduto come, in quell'epoca d'imponenti
trasformazioni sociali ed economiche nella lotta per
ottenere la maggior partecipazione possibile ai beni
del mondo, l'idea del diritto offrisse saldo. appoggio al
pensiero inquieto. Esiodo, nella lotta contro l'avidità
del rapace fratello, aveva per il primo invocata la
Dike quale divina potenza tutrice; l'aveva esaltata
quale protettrice della comunità contro la maledizione
della hybris, collocandola, nella sua fede, accanto al
trono del sommo Zeus 19). Il flagello dell'ingiustizia dif-
fuso dalla colpa d'uno solo su tutta la città è da lui
dipinto con tutto il crudo realismo della fantasia del
credente: cattivo raccolto, carestia, pestilenza, aborti,
guerra e morte; per contrapposto, inv~ce, il quadro
della città giusta splende dei vividi colori della benedi-
zione divina: i campi recano grano, le donne parto-
riscono figli somiglianti ai genitori, le navi portano

18) Cfr. p. 189.


1 9) Cfr. p. 142.
CAP. VIII: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITICA D'ATENE 265

sicuro il guadagno a casa, pace e ricchezza regnano


in tutto il paese 20).
Anche in quanto uomo politico, Solone vive nella
fede nella potenza della Dike, e l'immagine che ne de-
linea presenta tinte evidentemente esiodee. È da cre-
dere che l'indefettibile fede d'Esiodo nella giustizia
avesse già avuta la sua importanza nelle lotte di classe
delle città ioniche e fosse divenuta fonte d'intima forza
di resistenza per il ceto che lottava per la propria equi-
parazione. Solone non è riscopritore delle idèe d'Esiodo
- di che non aveva bisogno - ma il loro prosecutore.
Anche per lui certo è che il diritto ha il suo posto in-
crollabile nell'ordinamento divino del mondo. Egli non
si stanca di riaffermare ch'è impossibile calpestare il
diritto, giacché questo finisce sempre per imporsi vit-
torioso. Il castigo, prima o poi, arriva, ristabilendo il
necessario equilibrio là dove la prepotenza (hybris)
umana ha violati i giusti limiti 21 ).
Questo convincimento impone a Solone il dovere
di farsi innanzi quale ammonitore dei concittadini,
che si consumano in un Cieco contrasto d'interessi. Egli
vede la città avvicinarsi a gran passi all'abisso e vuole
frenarne l'imminente roviita 22). Spinti dalla sete di
guadagno, i capi del popolo si arricchiscono con mezzi
illeciti, non risparmiano né i beni dello Stato, né quelli
del tempio e non rispettano i venerandi fondamenti
della Dike, la quale contempla silenziosa tutto il pas-
sato e il presente, ma col tempo viene senza fallo a

20) Cfr. p. 142 e Hes. Opp. 213 ss. e specialmente la descrizione


della città giusta (225 ss.) e della città ingiusta (238 ss.).
21) Sol fr. 1, 8 7tcXV't«>c; lline:pov fjÀ&e: lìbt7J; 1, 13 "°'X&«>c;
lì' &.voi;µ(cry&'tlX' &'t"Jj; 1, 25-28 mxv..c.>c; lì' Èc; 'téÀO<; t!;e:<pcXV"Jj; 1, 31
-Y)Àu-&e: 7tliv'tc.>c; ixi'.inc; (scil. &e:éilv µoipix); 3, 16 'tifi lìè XP 6vci>
7tcXV'troc; 'Ì]À.&' &.7to'te:t.croµ&v7j (cfr. 1, 76); 24, 3 presuppone lo
stesso concetto perché Èv lìbq) XP 6vou il tempo stesso è giudice.
P) Sol. fr. 3, 6 ss.
266 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

punire. Ma se guardiamo come Solone s'immagina il


castigo, si fa manifesto che cosa lo separi dal realismo
religioso della fede esiodea nel cfuitto. La punizione
divina non è per lui cattivo raccolto e pestilenza, come
per Esiodo 23), ma si compie sempre in modo immanente
mediante lo sconvolgimento dell'organismo sociale ca·
gionato da ogni violazione del cfuitto 24}. In uno Stato
siffatto scoppia la lotta di parte e la guerra civile,
la gente ei raduna in assemblee che non conoscono
s.e non la violenza e l'ingiustizia, turbe d'indigenti sono
costrette ad abbandonare la patria e cadono in servitù
a cagione dei debiti. E quand'anche uno voglia sfug-
gire a tale sventura e si rintani nell'angolo più segreto
della sua casa, pure la calamità generale lo scova,
«scavalca il muro di cinta» e trova modo d'entrare 26).
Giammai al mondo il legame del singolo e della
sua sorte con la vita della collettività fu rappresen-
tato in guisa più plastica ed efficace che in queste pa-
role del grande carme àmmonitore, che risale eviden-
temente al periodo anteriore alla designazione di So-
lone quale «conciliatore» 26). Il malanno sociale è come
una malattia contagiosa, che si fa strada, dappertutto.
Piomba inevitabile su ogni città - grida Solone - che
susciti siffatta discordia intestina 27). Non è una vi-

23) Cfr. p. 264 e n. 20 sulla città giusta e ingiusta in Esiodo.


24) Sol. fr. 3, 17 ss. v. la mia interpretazione di questo passo
in Solons Eunomie, loc. cii. p. 79.
26) Sol fr. 3, 28.
26) iha:ÀÀa:X't"~ç. Cfr. Arist. Ath. Pol. VI; Plut. Sol. 14.
27 ) Fr. 3, 17. Il LINFORTB, Zoe. cit. pp. 141 e 201, intende rriicra;
n:6Àtç come l'intera città, che è certo possibile; ma io l'intenderei
piuttosto nel senso generale di « ogni città » come l'EnMONDS
in Elegy and Jambus I 119. La proposizione relativa 7J cnoccrw
~µipuÀov •. èm:yeCpe:t mi sembra riferita a n:occr71 n:6Àe:t, come l'ho
tradotto nel testo e non a 3ouÀocrÒ\17)\I che immediatamente pre-
cede. Le parole èç 8è: xa:KÌ]\I .. 8ouÀocrU\17)\I interrompono la sentenza
in forma paratattica come è uso in questo stile arcaico ( = &crn
CAP. VIII: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITICA D'ATENE 267

sione profetica, che qui si esprime, ma la conoscenza


politica. Il nesso causale tra l'offesa al diritto e il per-
turbamento del corso della vita sociale è qui espresso
per la prima volta quale principio oggettivo di validità
generale, ed è questa nozione 28 ), che spinge Solone a
parlare. « Questo mi ordina il mio spirito d'insegnare
agli Ateniesi » - così termina la descrizione dell'in-
giustizia e delle sue conseguenze per lo Stato, e con
slancio religioso 29 ), ricordando le immagini antitetiche
esiodee della città giusta e dell'ingiusta, dipinge il lu-
minoso contrapposto dell'eunomia, col quale si chiude
promettente il suo messaggio. Anche l'Eunomia 30) è
per lui, come la Dike, una divinità - la Teogonia
esiodea 31) le chiama sorelle - ed anche il loro effetto
è immanente: non si manifesta in un qualche dono
del cielo, nella fecondità dei campi e in sovrabbondanza
d'ogni sorta, come in Esiodo, bensì nella pace e nel-
l'armonia del cosmo sociale.
Solone, qui e in altri luoghi, coglie con tutta chia-
rezza l'idea di un'intima regolarità della vita sociale32).
È bene rammentare che nel medesimo tempo, nella
Ionia, i filosofi milesii della natura Talete e Anassi-
mandro movevano i primi arditi passi sulla via del ri-
conoscimento d'una legge permanente nel perpetuo di-
venire e perire della Natura 33). In entrambi i casi, è
lo stesso impulso a cogliere intuitivamente un ordine

i:ç xixx-Jiv ÈÀ.&e:'Lv iìouÀoo-Òv"l]v). iìouÀoO"UVlJ non è la causa ma l'ef-


fetto di ai:&atç. Cfr. fr. 8, 4. i:m:ydpe:w 1'0Àe:µov, 8tc.>yµ6v, ecc.
richiede una persona o gruppo di persone come soggetto.
28) La sentenza è ripetuta da Teognide, v. 51.
29) Sol. fr. 3, 30.
30) Fr. 3, 32 ss.
Sl) Hes. Theog. 902.
32) Cfr. Solons Eunomie, loc. cit. p. 80.
33) Cfr. Anassimandro fr. 9 (DIELS, Vorsokratiker). Qui la
relazione di causa ed effetto nella natura è interpretata come
nna ricompensa (iìlxl] o i:latç) che le cose debbono reciprocamente
pagarsi. V. p. 297 ss.
268 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

immanente nel corso della natura e della vita umana


e quindi un intimo significato e una norma interiore
del reale~ Solone presuppone indubitabilmente l'idea di
un nesso regolare tra causa ed effetto nella natura e
ne fa un espresso parallelo con la r~golarità del pro-
cesso sociale, quando, in altro luogo, dice 34) : « Dalla
nube vengono neve e grandine, al fulmine segue ne-
cessariamente il tuono, e a cagione di uomini troppo
potenti una città va alla rovina, e il demos cade nelle
mani d'un despota» 35). La tirannide, cioè la signoria,
basata sulla massa del popolo, di un'unica famiglia
nobile e del suo capo su tutte le altre famiglie nobili,
era per la società degli eupatridi dell'Attica il peri-
colo più tremendo che Solone potesse evocare, ché da
quel momento era finita per il loro secolare predominio
nello Stato 36). Del pericolo della democrazia Solone,
cosa tipica, non fa ancora parola: data l'immaturità
politica della massa, esso era lontano an~ora. Solo la
tirannide, con lo spodestamento della nobiltà, le spianò
la via.
Questa nozione di determinate leggi della vita po-
litica ben potevano afferrare gli Ateniesi, giovandosi
di precedenti ionici, più facilmente d'ogni altro prima
di loro, poiché essi avevano sott'occhio le esperienze
dell'evoluzione politica di molte città greche della ma-

34) Sol. fr. 10. Plutarco, che ripcrta questi versi, parla di essi,
già nel suo tempo, come di quelli che contengono la « fisica » di
Solone.
36 ) La stessa opinione che il concentrarsi di tutto il potere .
politico nelle mani di uno solo è generalmente la causa della ti-
rannia, sì ritrova in Solone fr. 8 che gli antichi critici riferiscono
al tempo della tirannia di Pisistrato; v. Diog. L. I 51 ss.
36 ) Cfr. la paura della tirannide in Teognide, vv. 40 e 52. Questo
poeta era uno degli aristocratici di Megara. Alceo era di una vecchia
famiglia di Mitilene o Lesbo; egli combatté prima la tirannide
di Mirsilo, poi il governo d'uno solo in mano di Pittaco; v. sopra
p. 250 e n. 73 di quel cap.
CAP. VIII: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITICA D'ATENE 269

drepatria e delle colonie in più di cent'anni, dove si


erano svolti con notevole regolarità i medesimi pro-
cessi. Il tardo accedere d'Atene a tale evoluzione le
consentì di divenire creatrice della sapienza politica
preventiva e quest'insegnamento resta gloria perenne
di Solone. Rimane peraltro caratteristico della natura
umana che, per quanto Atene avesse acquistato per
tempo tale superiore conoscenza, il passare per la fase
della tirannide risultò egualmente una necessità per
essa.
Possiamo tuttora seguire, nelle superstiti poesie di
Solone, lo sviluppo di tale nozione dal primo messag-
gio ammonitore sino al momento in cui gli avvenimenti
politici confermarono la limpida previsione di lui, ritto
sulla vetta solitaria della conoscenza, e si realizzò
la tirannide d'un solo, Pisistrato, e della sua famiglia.
« Se avete subito sventure a cagione della vostra de-
bolezza, non addossàtene la colpa agli dèi. Ché voi
stessi avete fatto ascendere costoro, dando loro il po-
tere, e per questo siete caduti in obbrobriosa servitù» 37).
Queste parole si riallacciano evidentemente all'esordio
dell'elegia ammonitrice della quale parlammo più so-
pra 38). Anche là si diceva: «La nostra città non perirà
per decreto di Zeus e decisione dei beati iddii, ché
Pallade Atena, la sua altera patrona, ha stese su di lei
le mani; ma sono i cittadini stessi, che nella loro
avidità di danaro, per insipienza, vogliono mandar la
città a rovina» 39). Quanto qui minacciasi, è verificato
nel carme posteriore. Solone si scolpa di fronte ai con-
cittadini, accennando chiaramente alla precedente sua
predizione della sventura imminente, e intavola la que-

17 ) V. n. 35.
as) V. pp. 265-267.
88 ) Fr. 3, 1 ss.
270 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

stione della colpevolezza. S'egli lo fa nei due luoghi


quasi con le medesime parole, ciò prova che si tratta
qui, per lui, d'una idea cardinale della sua politica;
per dirla alla moderna, della questione della responsa-
bilità, o, alla greca, della parte spettante all'uomo
nella propria sorte.
Questo problema era stato posto la prima volta
nell'epos omerico, al principio dell'Odissea, dove Zeus
sovrano, nell'assemblea degli dèi, rigetta le ingiusti-
ficate lagnanze dei mortali, i quali addossano agli dèi
la colpa d'ogni disavventura della vita umana. Quasi
con le stesse parole di Solone, vi è detto che non gli
dèi, bensì gli uomini stess~ accrescono, con l'insipienza,
i propri dolori 40). Solone si riallaccia consapevolmente
a questa teodicea omerica 41). L'antichissima religione
greca ravvisa in ogni sventura umana un' Ate inelut-
tabile, inviata dalle potenze superiori, sia che venga
dal di fuori, sia che abbia radice nel volere e negl'im-
pulsi dell'uomo stesso. Rispetto a ciò, la riflessione
filosofica che il poeta dell'Odissea pone sulle labbra di
Zeus, quale sommo rappresentante del reggimento del
mondo, costituisce già un gradino superi9re dello svi-
luppo etico. Qui si distingue nettamente fra un'Ate
nel senso di decreto divino imperscrutabile e strapo-
tente, ed una colpevolezza dello stesso uomo operante,
con la quale egli accresce la propria infelicità oltre la
porzione assegnatagli dal destino. Essenziale appare per
la seconda il fattore della prescienza, dell'azione in-
giusta con volontà consapevole 42). Qui sta il punto dove
il pensiero di Solone stesso circa l'importanza del di-

40) °' 32 ss.


41) Per que$to vedi i miei argomenti in Solons Eunomie, loc.
cit. p. 73 ss.
42 ) In Omero (ix 37) Egisto, prevenuto da Ermes che avrebbe
pagato il fio della sua azione, soffre Ò1tÈ:p µ6pov.
CAP. VIIl: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLffiCA D'ATENE 271

ritto per una vita sana della comunità umana shocca


nella teodicea omerica e le dà un contenuto nuovo.
Ciò che si è rivelato all'uomo quale nozione generale
delle leggi della politica include un obbligo per chi
agisce. Il mondo in cui vive Solone non lascia più
all'arbitrio divino lo stesso campo che la credenza del-
l'Iliade. In questo mondo impera un rigoroso ordina-
mento di giustizia, e gran parte delle sorti che l'uomo
omerico accettava passivamente dalla mano degli dèi,
Solone è .costretto ad addebitarle agli uomini stessi.
Gli dèi, in questo caso, non sono che esecutori del-
1'ordine morale, che è considerato addirittura identico
col loro volere. Invece di profondersi come i lirici ionici
dell'età sua, non meno profondamente agitati dal pro-
blema del dolore nel mondo, in melanconici e rassegnati
lamenti circa il destino umano e la sua ineluttabi-
lità i13), Solone esorta l'uomo all'azione responsabile ed
egli stesso, con la sua condott.a politica e morale, ne
dà un esempio, che attesta nel modo più autorevole
cosi l'intatta vigoria com.e la serietà morale del carat-
tere attico.
Anche in Solone, del resto, non manca affatto l'ele-
mento contemplativo. La grande elegia interamente
conservata, la preghiera alle Muse, riprende appunto
il problema della responsabilità personale, conferman-
done l'importanza per tutto il pensiero di Solone 44):
Esso vi è inserito in una considerazione generale di
tutte le aspirazioni e le sorti umane, la quale, meglio
ancora delle poesie politiche, fa vedere quanto profon-

43 ) V. cap. precedente pp. 245-247 con la nota 65.


") Sol. fr. I. V. LINFORTH, Solon the Athenian 104 ss. e 227 ss.;
KAm.. REINHARDT, Solons Elegie dç Éa:uT6'1, in« Rhein. Museum»
N. F. LXXI (1916) 128 ss., ha contribuito grandemente alla
giusta interpretazione dell'elegia. Il WILAMOWITZ ha comi:nentato
questa elegia in Sappho und Simonides 257 ss.
272 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

damente quest'uomo di Stato operante si fondi sulla


religione. Questa poesia ci mostra l'antica etica ari-
stocratica, a noi ben nota specialmente attraverso
Teognide e Pindaro, anzi già attraverso l'Odissea stessa,
con la sua tradizionale considerazione per la proprietà
materiale e per la dignità sociale, ma qui tutta compe-
netrata della severa concezione giuridica e della teo-
dicea di Solone 45). Nella prima parte dell'elegia, Solone
limita il naturale desiderio di ricchezza con l'esigenza
che sia acquistata con giusti mezzi. Solo il possesso
dato dagli dèi è duraturo; quello ottenuto con l'ingiu-
stizia e con la violenza non è terreno fecondo che per
l'Ate, la quale non si fa molto aspettare.
Come sempre in Solone, si affaccia qui l'idea che la
ingiustizia non si sostiene che per breve ora; col tempo
viene, ad ogni modo, la Dike. La concezione piuttosto
sociale-immanente del «castigo divino», che trovammo
nelle poesie politiche, passa qui in seconda linea ri-
spetto all'immagine religiosa della « vendetta di Zeus»,
che irrompe improvvisa come una tempesta primave-
rile. Egli dissemina repentinamente le nubi, sconvolge
i :Butti del mare sino al fondo, si abbatte sui campi
devastando l'opera faticosa dell'operosità umana; ma
poi risale in cielo, i1 sole irraggia la pingue terra,
tutt'all'intorno non si vede più una nube: tale è la ven-
detta di Zeus, cui niuno sfugge. Chi espia prima, chi
dopo, e se il reo sfugge al castigo, i figli e i figli dei
figli lo scontano innocenti in sua vece 46). Qui ci tro-
viamo già in pieno in quella cerchia d'idee religiose
onde sorgerà, cent'anni dopo, la tragedia attica.

") Cfr. fr. 1, 7 ss. Xpljµo:'t'o: 8' lµdpCìl µ&v Exe:w, HlxCìlç
Sè 1te:7tiia>&o:t oòx è&éÀCìl. 7tdV't'Cìlç iSO'-re:pov 'l\À&e: 3lxlj. Così
anche Teognide, 145 ss. e Pindaro, Ol. II 53: 6 7tÀoih'oç &pe:'t'o:iç
Se:So:tSo:Àµévoç è l'ideale di Pindaro. V. anche Nem. IX 45
&µo: x-re:&votç 1tOÀÀoiç blSo~ov •••• xuSoç o Pyth. III 110.
48) Fr. 1, 17-32.
CAP. vm: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITTCA D'ATENE 273

Ma ora il poeta si volge a considerare quell'altra


Ate, che nessuna cura umana vale a stornare. E ve-
diamo come, per quanto nell'età di Solone la sfera
dell'attività e· del destino umani già sia ampiamente
compenetrata di razionalità e d'eticità, rimanga un
residuo che non si risolve in questo tentativo di rifare
i conti parte a parte al reggimento divino del mondo.
« Noi mortali, buoni e cattivi, pensiamo che consegui-
remo 47) quanto desideriamo, sino a che sopraggiunge
la sventura, e allora ci lamentiamo. L'infermo spera
diventar sano; il povero ricco. Ognuno cerca il danaro
e il guadagno, ognuno per altra via, da mercante o
marinaro, da contadino, da operaio, da cantore o in-
dovino. Ma anche questi non può stornare la sventura

47) Fr. 1, 33 segna la transizione dalla prima alla seconda parte


dell'elegia. Nella parte precedente Solone ha trattato solamente
di quell' Ate che è causata .dall'umana ingiustizia, ma al v. 34
egli abbandona la distinzione fra uomini buoni e cattivi e co-
mincia a parlare in un' Ate comune agli uni e agli altri. Le parole
al principio del v. 34 evlS"l)V1JV sono corrotte (perciò nel testo ho
dato solamente un'approssimativa parafrasi del senso), e non si
è ancora riusciti a emendare il verso in maniera convincente. Il
tentativo del Reinhardt che scrive an:eolSetv f,v non è soddisfa-
cente. Il eò ISewfiv del Biicheler è paleograficamente assai al-
lettante e il Diehl l'ha accolto nel testo dell' Anthologia Lyrica;
ma un'espressione come questa, nel greco di Solone, non è pro-
babile. Le congetture di altri mi sembrano· ancora meno accettabili.
Così siamo ancora lontani dalla soluzione, sebbene il trovarla
non dovrebbe essere difficile, dato che il guasto non può essere
che un errore materiale del copista: esso fu forse causato in parte
da itacismo, come crede Reinhardt, perché ci sono diversi eta
nel complesso di lettere senza senso che ci è stato conservato:
EN.6.HNHN. Il Reinhardt ha ragione nel credere che l'ultima
sillaba debba essere il pronome relativo 1]v, che deve riferirsi a
rxÒ"t"Òc; IS6l;ixv fxcccri;oc; !;ceL, in EN.6.HN ci deve essere un infinito
pres. att. -ISeLv. Non può essere an:eulSetv, ma piuttosto, credo,
!plSetv (cfr. vv. 67 e 69): chi spera di eò lplSetv fallisce, contro
l'aspettativa, e chi xccxwc; lplSeL, inaspettatamente ha successo.
L'aspettativa è espressa nel v. 33 da voe\iµev, che è sinonimo
di t:>.n(ç in 36 e da x~aea.&cu ... ISoxeì: in 42. In lplSeLV 7Jv IS61;ixv
fx0tai;oc; l;ceL la proposizione relativa è avverbiale e equivale a
lp3eav C::,ç fxrxai;oc; ISoxeì: ( = 6lc; tÀn(~eL) e lplSetv clic; !xcca"t"o<;
ISoxeì: significa « aver successo », « andar bene » (efr. 67, 69).
274 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

imminente, pur prevedendola». Qui, dall'argomenta-


zione arcaicamente enumerativa della poesia, si affac-
cia la tesi capitale della sua seconda parte: la Moira
rende radicalmente malcerto ogni sforzo umano 48), per
quanto coerente e serio, e questa Moira non si può
stornare nemmeno con la prescienza, al pari del so-
praggiungere della sventura della quale uno abbia colpa,
di cui si tratta nella prima parte. Essa colpisce quindi
buoni o cattivi indifferentemente. Tra l'esito e gli
sforzi nostri intercede una relazione del tutto irrazio-
nale. Appunto chi vorrebbe far bene, raccoglie spesso
l'insuccesso, e chi si mette sulla cattiva strada, la di-
vinità lo lascia sfuggire alle conseguenze della sua
stoltezza. Un risico rimane in ogni azione umana 49).
Il riconoscimento di quest'irrazionalità della umana
riuscita non sopprime tuttavia per Solone la respon-
sa,bilità di chi agisce per le conseguenze delle cattive
azioni; la seconda parte dell'elegia non contradice af-
fatto, secondo il suo pensiero, alla prima: Dall'incer-
tezza dell'esito anche delle migliori aspirazioni non
consegue per lui né rassegnazione, né rinuncia allo
sforzo personale. Tale era stata la conclusione del
poeta ionico Semonide d'Amorgo, il quale lamenta che
i mortali sprechino vanamente tanta fatica e forza
per fini inattingibili e illusori, consumandosi nel do-
lore e nelle cure, anziché rassegnarsi a cessar di ago-
gnare con cieca speranza alla propria sventura 50). Con-
tro di lui si rivolge evidentemente l'ateniese Solone
nella chiusa della sua elegia. Invece di prendere il
corso del mondo dal lato umano e sentimentale, egli si
colloca oggettivamente al posto della divinità e chiede

<18) Fr. l, 63.


&&) Fr. 1, 67-70.
60) Cfr. p. 243.
CAP. VIII: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITICA D'ATENE 275

a se stesso e ai propri uditori se ciò che secondo il


pensiero umano è privo di ragione, non appaia ra-
gionevole e giustificato secondo quella visuale più ele-
vata. È insito nella natura della ricchezza, che già è
l'oggetto d'ogni sforzo umano, di non aver in se stessa
né scopo, né misura. Proprio i più ricchi tra noi lo
dimostrano - esclama Solone, - ché cercano di pos-
sedere il doppio 61). Chi mai potrebbe saziarli, con tutti
i loro desideri? Non c'è che una soluzione la quale
non conosca riguardo per gli uomini. Gli dèi ci danno
il guadagno, ma lo riprendono anche. Ché, se il demone
della cecità gli si accompagna 52), allora lo controbi-
lancia, e cosi la proprietà passa continuamente di
mano in mano.
Era necessario esaminare ampiamente questa poe-
sia, giacché essa contiene la concezione d'etica sociale
di Solone. Le poesie in cui egli giustifica a posteriori
la propria opera legislativa 63) mostrano chiaramente lo

01) Fr. 1, 71 ss.


52) Il senso delle parole, alla fine dell'elegia fr. I, 75, &'t"7j ll'è!;
a.u't"oov &va.cpa.tVe't"a.t, fiv <!m6n Zeùç r.èµ.<)in •Etcroµ.év'ljv, &ÀÀO't"E
&ÀÀoç qet, deve essere « quando Zeus manda Ate, che balza
fuori da troppo grandi successi, ora l'ha un uomo, ora un'altro».
Solone cita, pare, Archiloco fr. 7, 7 ltÀÀO't"<: 1"lfÀÀaç qet nl:3e·
vuv µ.è:v tç -ljµ.éa.ç hp&.7te.&' ••.. è!;a.Gnç 3'hèpouç È1ta.µ.elljie't"cct
e cfr. poi Aesch. Prom. 276 (r.&.ncc 't"ot 1tÀa.vwµ.év'lj r.pòç O!ÀÀO't"'
&ÀÀov 1t'ljµ.ov1J 7tpoatl;<Xvct) e altri poeti di questo tempo. Cfr.
Theogn. 351. Ipso .facto, col mutare di Ate, muta di mano la ric-
·chezza. Solone non dice ciò espressamente in questa elegia, ·ma
è implicito nelle sue ultime parole; e nel frammento 4, 11-12
dichiara infatti che solamente areté ha valore permanente, mentre
la ricchezza (:)(pljµ.cc't"cc) cambia continuamente (è[ÀÀO't"E lfÀÀOç È!:)(&t).
Le parole quasi identiche mostrano che le due cose - Ate e la
fortuna mutevole - sono strettamente connesse nella mente· di
Solone. Visto dagli occhi di un pover'uomo questo significa che
presto la sua povertà potrà battere alla porta di un altro, come
mostra Teognide, loc. cit. Il pucrµ.6ç di Archiloco a cui si riferisce
Solone ha i suoi lati buoni, come i suoi lati cattivi.
53) Cosi, p. es., fr. 5, 8, 10, probabilmente 16 e particolarmente
23, 24, 25, che debbono appartenere tutti al tempo posteriore
all'arcontato di Solone. Fr. 3 e 4 sono legati chiaramente con
276 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

stretto nesso tra la sua volontà pratico-politica e tali


idee religiose. L'interpretazione della Moira divina quale
necessario compenso alle ineliminabili disparità di pos-
sesso tra gli uomini gli prescrive normativamente,
anche quale uomo politico, la sua linea di condotta 54).
Tutte le sue azioni e le sue parole fanno ravvisare,
quale motivo predominante delle sue riforme, l'aspira-
zione a siffatto giusto equilibrio tra sovrabbondanza e
penuria, tra strapotenza e impotenza, privilegio e ab-
bandono 55). A questo modo egli non poté, è vero, ac-
contentare del tutto né gli uni né gli altri, ma in realtà
tanto i ricchi quanto i poveri gli dovettero quanto di
potenza conservarono o guadagnarono. Solone trova
sempre nuove immagini efficaci per illustrare questa
sua pericolosa posizione non tanto al di sopra quanto
in mezzo ai partiti. Egli sa che la sua forza consiste
unicamente nell'inattaccabile autorità morale della sua
personalità disinteressata, rigorosamente giusta. Se pa-
ragona l'attività egoistica dei capipartito - faccendieri
col toglier la panna dal latte o col levar le reti ben
piene 56), immagini d'efficace perspicuità per la fantasia
dei contadini e dei pescatori dell'Attica, per rappre-
sentare il contegno proprio ricorre alla più eletta sti-
lizzazione omerica, che illumina di viva luce la sua
consapevolezza di eroico pioniere. Eccolo ora reggere
a difesa il suo scudo dinanzi ad ambe le parti, senza

gli anni dell'accesa disputa politica che precedette la nomina


di Solone come lhetÀÀttXtjç, cioè prima dell'anno 594. Se la grande
elegia. la preghiera alle Muse, appartenga anche a questo più an-
tico periodo o no, rimane incerto.
54) Nell'opinione di Solone è un fatto che la ricchezza cambia
continuamente -mani; cfr. fr. 4, 12 e n. 52. Ivi si è dimostrato
come questo fatto sia connesso con l'opinione di Solone sulla
Moira e sulla sua influenza nelle mutevoli fortune degli uomini,
secondo il pensiero espresso nella grande elegia, fr. 1.
5 5 ) Fr. 4, 7; 5; 23, 13 ss.; 24, 22-25; 25.
") Fr. 23, 3 e 25, 7.
CAP. VIII: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITICA D'ATENE 277

lasciarne prevalere alcuna, ora avanzarsi intrepido tra


le due fronti, là nel mezzo, dove i giavellotti volano
in qua e in là, o farsi strada a zannate come il lupo
attraverso la muta che gli abbaia intorno furiosa 57).
L'effetto più profondo viene da quelle poesie nelle quali
egli parla in nome del proprio Io, perché da questo
irraggia sempre la forza vittoriosa della personalità,
più che mai nel grande giambo 58) nel quale fa la sua
resa di conti « dinanzi al tribunale del Tempo ». La
naturale immediatezza delle immagini plastiche, che
sfilano qui sotto i nostri occhi, il bello slancio di sen-
timento fraterno per ogni creatura umana, l'intensità
della simpatia, fanno di questa poesia il documento
più personale fra tutti i frammenti politici rimastici 59).

Mai statista al potere fu, più di Solone, superiore


ad ogni mera brama di potenza; compiuta l'opera sua
legislativa, egli lasciò per un pezzo il paese, dandosi
a viaggiare. Egli stesso non si stanca di rilevare che
non sfruttò il proprio ufficio per conseguire la tiran-

57) Fr. 5, 5; 24, 26-27; 25, B. Per la ricostruzione del testo di


fr. 25, 9 v. il mio articolo in« Hermes» LXIV (1929) 30 ss. Invece
di èyoo 8è 't"OO't"W\/ ••• ÈV [J.E:'t"O';LJ(JLL<p opoi;; XO';'t"fo't""Jj\/ (llpoi;; nella lingua
di Solone significa una pietra ipotecaria [v. fr. 24,6] e non è perciò
metafora conveniente per la sua posizione pericolosa fra le due
fronti di combattimento del ricco e del povero), propongo di
leggere Èv µe:-rO':LXµ.lcp 11op6i;;. Così si mantiene la metafora
(che è presa dal mondo dell'epos) libera da mistioni con altre,
come è richiesto dallo stile prosastico del giambo. Nello stile lirico
di Pindaro la mescolanza delle due metafore potrebbe essere
accettata. Èv µe:-rO':LXµ.[<p lìop6i;; è una frase che si ritrova poi in
parti giambiche della Tragedia. Ed è chiaro ormai che essa risale
ai versi certamente famosi di Solone.
58) Fr. 24, 3.
5D) I primi due versi di questa poesia (fr. 24) non sembrano
essere stati ancora rettamente intesi dagli interpreti: Èyw lì€ -roov
µ€v o6ve:x0': !;uv-fiyO';yov lì'ìjµov -r[ -roù-rwv 7tplv mxdv È7tO';Ua&.µ"l)v;
-r( è inteso da studiosi moderni (Sandys, Edmonds, Linforth)
nel senso di« perché», sicché essi pensano che Solone domandi:
«Perché mi fermai prima di aver finito queste cose (scil. le cose
per cui io radunai il popolo)?». Questo sembra concordarsi diffi-
278 LIBRO I· L'ETÀ ARCAICA

nide né per arricchirsi, come avrebbero fatto i più al


suo posto, ed è dispostissimo a raccoglierne la taccia di
stupido 60). Nella storia,· atteggiata novellisticamente,
di Solone e di Creso 61 ), Erodoto ha fissata l'immagine
di quest'uomo indipendente. t il saggio Solone, cui
nemmeno la vista del despota asiatico in mezzo alle
sue ricchezze, fatte per dare le vertigini ad un Greco,
può rendere un solo istante incerto nel convincimento
che il più semplice campagnolo dell'Attica sulla sua
zolla, che col sudore della fronte conquista il pane
quotidiano per sé e per i suoi figli, e, dopo aver adem-
piuto fédelmente tutta la vita i suoi doveri di padre
e di cittadino, sulla soglia della vecchiezza ha l'onore
di morire per la patria, questi è più felice di tutti i re
della terra. Questa storia spira un singolarissimo Inisto
della scioltezza e del gusto dei viaggi propri degli Ioni,
che « per vedere » 62) vanno in giro per il .mondo, e di

cilmente con ciò che egli ci dice in tutta la poesia into:mo alla
grandezza dei suoi successi come uomo di stato. E in un'altra poesia,
a quel che sembra appartenente allo stesso periodo della sua vita,
fr. 23, 21, in cui difende le sue azioni in maniera molto simile,
egli dice:« non mi doVTebbero guardare con tanta,diflìdenza come
se io fossi un nemico, perché coli l'aiuto degli dèi ho compiuto
quello che avevo promesso di fare» (& µèv yrtp e:!;i;oc, aùv .&e:ofow
1jvuaoc). Le parole del fr. 24, 2, debbono perciò significare qualcosa
come: 't"l 't"OU't"ù)V n"pÌv 't"uxe:'Lv tn"ocuaciµ71v; «Mi fermai prima di
aver compiuto tutto?. No, certo». Questo è espresso in greco,
come spesso, per mezzo dell'elegante èostruzione partitiva. «Prima
di aver finito quale di queste cose mi fermai ?». I critici hanno
evidentemente esitato a dare a 't"OU't"ù)V il valore di genitivo par-
titivo, perché -ruxe:'Lv in attico vuole normalmente un genitivo
come complemento: perciò hanno riferito 't"l a ln"ocuaiiµ. "JV· Ma
in attico 't"uxe:'Lv è spesso costruito con l'accusativo di un pronome
neutro; cfr. p. es. il famoso epigramma n'OCV't"(J)V f)òLa't"OV ò'ou 't"Lç
!pif, 't"Ò 't"uxe:'Lv (dove 't"Ò non è articolo, ma l'accusativo del pro-
nome dimostrativo). Sarebbe molto importante che Solone avesse
realmente pensato di essersi dovuto fermare prima di aver com-
piuto tutto il suo programma, ma ciò che egli dice sembra a me
proprio il contrario.
60) Fr. 23.
61) Her. I 29 ss.
62) Her. I 30 't"'ijç .&e:ù)pbJi; tXÒ"Jf.=.iiaocç e:tve:xe:v.
CAP. VIII: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITICA D'ATENE 279

civica sedentarietà attica. Riesce attraentissimo se-


guire tale mescolanza, prodotto dell'incipiente incontro
del carattere attico con la cultura ionica, attraverso i
frammenti pervenutici delle poesie apolitiche. Esse sono
espressione· d'una maturità spirituale la quale fece sui
contemporanei tale impressione, che annoverarono So-
lone tra i sette savi.
Ecco per primi i versi famosi nei quali egli risponde
alle lagnanze del poeta ionico Mimnermo circa i ma-
lanni della vecchiaia e al suo ardente dèsiderio di
morire già a sessant'anni, senz'aver conosciuto né ma-
lattia, né dolore. « Se vuoi ancora badare a me, can·
cella codeste parole e non serbarmi rancore per aver
io trovato qualche cosa di meglio che tu stesso, e ri-
tocca i tuoi versi, o ionico usignolo, e canta cosi: Ot-
ta~tenne possa la Moira mandarmi la morte» 83). La
riflessione di Mimnermo era un'effusione di quel libero
atteggiamento mentale ionico che si pone al disopra
della vita e, movendo da un determinato orientamento
soggettivo, è capace di pensarla nella sua totalità e,
dov'essa perda il suo valore, di augurarsela troncata.
Ma Solone non condivide la valutazione della vita che
fa lo Ionio. Nell'Attico, il sano vigore e il fresco amore
alla vita insorgono contro la raffinata stanchezza pes-
simistica che vuol già far punto a sessant'anni, trovan-
dosi smarrita dinanzi ai dolori e ai malanni dell'umana
esistenza. Per Solone, invecchiare non è un doloroso
estinguersi a poco a poco. L'inestinguibile vigor gio-
vanile fa ogni anno metter nuovi fiori all'albero ancor
verde della sua felice esperienza 64). Né egli vuol sapere

83 ) Fr. 22: l'apostrofe scherzosa Àtyuq.cr-rcklì"ljc; è intraducibile.


Ho tentato di coniare un'espressione che le si avviciDi almeno
nel tono. V. Mimn. fr. 6.
H) Fr. 22, 7.
280 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

d'una morte illacrimata, anzi si augura di cagionare


ai suoi, quando morrà, duoli e sospiri 65). Anche qui, è
un famoso poeta ionico, Semonide d' Amorgo, cui egli
contradice. Questi aveva insegnato che la vita è così
breve e ricca di fatiche e dolori, che non dobbiamo
occuparci d'un morto più d'un giorno 66). Nemmeno
Solone ha un'opinione più favorevole del bilancio delle
gioie della vita umana. Un suo frammento dice: « Nes-
sun uomo è felice. Carichi di fatica sono tutti i mor-
tali sotto il sole» 67). Come Archiloco e tutti i poeti ioni-
ci, egli soffre dell'incertezza dell'umana sorte: « L'intento
degli dèi immortali è nascosto affatto agli uomini » 68 ).
Ma di contro a ciò sta la gioia dei doni dell'esistenza,
della prole, dello sport vigoroso, dell'equitazione e della
caccia, del vino e del canto, dell'amicizia umana e
della felicità sensuale dell'amore 69). La capacità inte-
riore di godere sembra a Solone ricchezza non minore
che l'oro e l'argento, le terre e i cavalli. Ciò che importa
non è, quando uno deve scendere all'Ade; quanto ab-
bia un tempo posseduto, ma che cosa la vita gli abbia
dato de' suoi beni. La poesia delle ebdomadi, con-
servataci intera, costruisce tutta la vita umana su
dieci settenni 70) e ad ogni età assegna il suo posto
particolare nel tutto. Essa spira un senso prettamente
greco del ritmo della vita. Questo non ammette lo
scambio d'un grado con un altro, ché in ciascuno è in-
sito il suo significato proprio e pertanto a ciascuno con-

65)F:r. 22, 5.
6&)Sem. f:r.l e 2.
67 ) Sol f:r. 15.
68 ) F:r. 17.
69 ) Fr. 12-14.
76) Fr: 19. Per questa poesia v. l'interpretazione di W. SCHA-

DEWALDT in« Die Antike» IX 282, Lebensalter und Greisenalter


im friihen Griechentum.
CAP. VIII: SOLONE E GL'INIZI DELLA CULTURA POLITICA D'ATENE 281

viene un'altra cosa; ma col suo alternarsi di ascesa,


apogeo e discesa, segue il corso generale della natura 71).

È lo stesso senso nuovo dell'intima regolarità delle


cose, che determina l'atteggiamento di Solone di fronte
ai problemi puramente umani, come ai politici. Ciò
ch'egli dice, suona per lo più, com'è spesso della sag-
gezza greca, assai semplice. Ciò ch'è naturale è sempre
semplice quando sia inteso. « Ma è la cosa più difficile
fra tutte, cogliere l'invisibile misura della saggezza, che
sola reca in sé i limiti di tutte le cose». Anche queste
sono parole di Solone 72). E sembrano fatte apposta
per porgerci la giusta misura della sua grandezza.
I concetti della misura e del limite, che dovevano
diventare di così fondamentale importanza per l'etica
greca, indicano chiaramente il problema che, per So-
lone e l'età sua, è sentito come centrale: il consegui-
mento d'una nuova norma di vita mercé la forza della
conoscenza interiore. Il carattere di tale norma non
s'intende .che tuffandosi nella totalità dei detti, della
personalità e della vita di lui; definire non si può.''··
.Al volgo basta attenersi alle leggi che gli sono pre-
scritte. Ma chi le prescrive abbisogna egli stesso d'una
misura superiore, che non si trova scritta in nessun luogo ..
La dote rarissima che gli permette di trovare tale mi-
sura è detta da Solone « gnomosyne », perché suggerisce
sempre la gnome, che significava la veduta giusta e in-
sieme la ferma volontà di farla valere 73).

n) Riguardo alle ehdòmadi e ad altri periodi nella medicina


e nella filosofia naturale dei greci, v. W. H. RosCHER, Die en-
neadischen und hebdomadischen Fristen und Wochen der iiltesten
Griechen (Lipsia 1923) e W. JAEGER in « Abh. d. Berl. Akad.»
1938, n. 3, p. 28 ss.
72) Fr. 16.
73) Le parole del distico (fr. 16) in sé non rivelano se Clemente
di Alessandria (Strom. V 81, 1) sia stato o no nel vero, nel riferirle a
282 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

È questo il punto dai quale dobbiamo intendere


l'unità del suo mondo interiore. Tale unità non gli era
data. Nella Ionia troviamo bensi già viventi nella vita
pubblica le idee di diritto e di legge, che sono l'ele-
mento dominante nel pensiero politico e religioso di
Solone; ma colà, come vedemmo, non pare trovassero
alcun assertore poetico. L'altro aspetto della vita spi-
rituale ionica, che tanto più fortemente si afferma nella
poesia ionica, è quello del godimento individuale e
della saggezza personale. Anche questo è ben noto
a Solone. Il nuovo è l'intima fusione dei due emisferi,
che vediamo compiuta nelle sue poesie. Essi vengono
a comporre il quadro di tutt'una vita umana di rara
compiutezza ed armonia, che trova ad un tempo la
sua più perfetta incarnazione nella personalità del suo
creatore. L'individualismo è superato, ma l'individua-
lità è salvata, anzi ora soltanto è eticamente fondata
Con la sua fusione di Stato e spirito, comunità e indi-
viduo, Solone è veramente il primo Attico. Mediante
essa, egli ha plasmato in modo esemplare il tipo perenne
dell'uomo attico per tutto l'ulteriore sviluppo della sua
stirpe.

Dio. Chi conosca questo autore può essere un po' sctittico su ciò,
perch~ egli trova nascoste allusioni al problema di Dio in tutta
la letteratura classica greca. per il suo fine apologetico. Ma se
egli ha ragione e se è vero che Solone parla della gnome degli
immortali come di una invisibile misura « che sola tiene il fine
di tutte le cose», allora il difficile compito dell'uomo diventa
()(ocÀe:7tÙ>TctT611 ècrn vo7jcrocr) quello di riconoscere questa misura
nella natura del mondo e di realizzarla in tutte le cose che egli
prende a fare. Ciò che rende esitanti ad accettare questa inter-
pretazione che può apparire suggerita dalle parole del secondo
verso (mivi:c.>11 m:(poci:cc ~e:1) è la nuova parola yvwµ.ocrU\ll]. Essa
è formata come altri astratti, come lhxoc1ocrovl], 7tUxi:ocrÒvl], 7tcc-
Àcc1µ.ocròvl] e sembra riferirsi a una qualità umana piuttosto che
divina. Essa consiste nella giusta intuizione della invisibile mi-
sura in tutte le cose, che, come dice Solone, è così difficile da sta-
bilire. Così Teognide 694, yv6>11cc1 yocp )(ctÀe:7tÒv µéTpov, lii:' ècr.&M
7tctp'ij, parla dell'uomo e non di Dio.
CAPITOLO NONO.

IL PENSIERO FILOSOFICO
E LA SCOPERTA DEL COSMO

Noi siamo soliti considerare le origini del pensiero


filosofico dei Greci nell'usata cornice della « Storia della
Filosofia», in cui i «Presocratici», dai tempi d'Aristo-
tele in poi, occupano un loro posto fisso, quale fonda-
mento storico e sistematico della :filosofia attica classica,
cioè del platonismo 1). Di recente tale nesso storico
è stato spesso eclissato dalla cura di intendere quei
pensatori quali filosofi primi, ciascuno per sé, nella
sua assoluta originalità, ciò che venne ad accrescerne
ancora assai l'importanza. Nell'àmhito della storia della
cultura greca, la prospettiva deve necessariamente risul-
tare spostata. ~ infatti chiaro che anche in essa ai
pensatori più antichi deve spettare un posto eminente,
ma d'altra parte immediatamente, nella cultura dell'età
loro, sono ben lungi dall'avere un'importanza pari a

1 ) L'interesse per lantica filosofia greca che è così evidente


.nella Metafisica e nella Fisica di Aristotele e in tutte le sue opere
«
tiragmatiche ha radici nell'Accademia platonica; cfr. Paideia»
III 255, n. 125. Ma Aristotele, via via che divenne filosofo in-
dipendente da Platone, adattb le opinioni dei Presocratici alle
categorie del suo proprio pensiero. HAROLD CHERNISS, in Ari-
stotle' s Criticism of Presocratic Philosophy (Baltimore 1935) ha
delinato con grande sagacia l'influsso che questo punto di vista
esercitò sul!' opinione di Aristotele circa la filosofia dei suoi pre-
decessori.
284 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

quella che avrà, ad esempio, per la fine del V secolo


Socrate, l'educatore per eccellenza, o per il IV secolo
Platone, che per primo ravvisò nell'educazione d'un
uomo nuovo l'essenza della filosofia 2).
Nell'età dei Presocratici, per la cultura nazionale
la funzione direttiva spetta ancora incontestata ai poeti,
cui vengono ora ad aggiungersi legislatori e uomini di
Stato. Soltanto coi Sofisti ciò muta. Essi si differen-
ziano quindi nettamente dai filosofi naturali e dagli
ontologi del periodo precedente. I Sofisti sono, nel più
vero senso del termine, un fenomeno culturale. Solo
in una storia dell'educazione possono essere apprez-
zati appieno, laddove il contenuto teoretico della loro
dottrina è in genere esiguo. E perciò la tradizionale
storia della filosofia non se n'è mai occupata gran
fatto 3). Se, invece, nella prospettiva nostra, i grandi
teorici della filosofia della natura e i loro sistemi non
possono esser trattati uno per uno nell'àmhito della
storia dei problemi, essi peraltro debbon~ trovar qui
considerazione in quanto grandi figure dell'epoca, e

") La parola« filosofia» che in ongme significava «cultura»


(« Bildung», «Culture») e non una scienza e disciplina razionale,
prese poi il significato ulteriore nella cerchia di Socrate e Platone,
che partendo dal problema della virtù ( areté) e della educazione
umana trassero da esso un nuovo metodo razionale di educazione.
La filosofia, questa perfetta identità di cultura e disciplina in-
tellettuale, non esisteva al tempo dei Presocratici. che chiamarono
la loro attività la-rop(7j o sapienza (ao<pt7J)·
3 ) Cfr. il cap. sui Sofisti p. 495. E vero che parecchi studiosi
moderni hanno cercato di rendere giustizia ai Sofisti e li hanno
compresi nella storia della filosofia greca; ma non lo fa Aristotele
perché per lui la filosofia è una scienza che riguarda l'investi-
gazione della realtà. I Sofisti erano educatori o «maestri di virtù».
È logico che essi avessero una parte più importante (sebbene
negativa) nei dialoghi di Platone, perché Platone e Soèrate par-
tivano dal problema educativo. La riabilitazione dei Sofisti co-
minciò con Hegel. Ma solo nelle cerchie dei moderni pragmatisti
hanno assunto la parte dei veri iniziatori della filosofia, a causa
del loro agnosticismo pratico. V. il mio Humanism and Theo"logy
(Marquette Univ. Press, Milwaukee 1943) 38 ss.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 285

occorre intendere l'elemento fondamentale e novatore


del loro originale atteggiamento spirituale nel valore
che ha per l'ulteriore sviluppo del tipo umano greco.
Occorre infine determinare ·il punto in cui la corrente
di questa pura speculazione, che sgorga in disparte
dalle lotte per la formazione della vera areté umana,
sbocca in quell'ampio movimento e incomincia a di-
venire, oltrepassando la persona dei suoi rappresentanti,
una forza plasmatrice dell'uomo in seno al complesso
sociale.

È difficile segnare nel tempo la linea limite corri-


spondente all'affacciarsi della riflessione razionale; essa
taglierebbe a mezzo l'epos omerico; ma la compene·
trazione di elementi razionali col « pensiero mitico »
vi è ancora così intima, che una netta separazione ap-
pare impossibile. Un'analisi dell'epos condotta secondo
tale criterio mostrerebbe come la riflessione razionale
investa per tempo il mito, cominciando a trasformarlo 4).
La filosofia naturale ionica si riallaccia all'epos senza
soluzione di continuità. Questo rigoroso nesso organico
dà alla storia dello spirito greco la sua compattezza
ed unità architettonica, laddove p. es. la formazione
della filosofia medievale non si riconnette all'epos ca-
valleresco, ma si fonda invece sull'adozione scolastica
della filosofia dell'antichità classica per parte delle
università, che, nell'Europa centrale e occidentale, ri-
mane per secoli interi senza influenza sia sulla cultura
aristocratica, sia sulla cultura borghese che le succede.
(La grande eccezione è Dante, che riassume in sé cul-
tura teologica, cavalleresca e borghese).
Non è facile davvero dire in che cosa la dottrina

4 } Si potrebbe e si dovrebbe scrivere un libro sul razionalismo


in Omero.
286 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

del poeta omerico 5 ), esser l'Oceano l'origine di tutte


le cose, differisce da quella di Talete, a determinare la
cui teoria dell'acqua quale principio originario del
mondo contribui indubbiamente anche la rappresen·
tazione intuitiva dell'Oceano infinito. Nella Teogonia
esiodea regna da cima a fondo il più pertinace intel-
letto costruttivo, con tutta la coerenza di un ordina·
mento e di un 'indagine razionali. Nella sua cosmologia,
d'altra parte, v'è ancora una forza intatta di intui-
zione mitica 6), la quale rimane efficace, ben oltre il
limite dove siamo soliti far cominciare il regno della
filosofi.a « scientifica», nelle dottrine dei « fisici», e senza
la quale ci riuscirebbe incomprensibile la meravigliosa
fecondità filosofica di quell'antichissimo periodo scien·
tifico. Le forze naturali d'attrazione e di repulsione
della dottrina d'Empedocle, lAmore e l'Odio, hanno la
stessa origine spirituale che l'Eros cosmogonico d'Esiodo.
L'inizio della filosofi.a scientifica non coincide dunque
né con quello del pensiero razionale, né con la fine del
pensiero mitico 7). Troviamo ancora la più genuina mi-
togonia così nel nucleo della filosofia di Platone e
e d'Aristotele come nel mito platonicO' dell'anima o
nell'intuizione aristotelica dell'amore delle cose verso
il motore immobile del mondo 8 ).
L'intuizione mitica senza alcun elemento informa·
tore del logos è ancora cieca, e il concetto logico sen·
za alcun nucleo vivo d'intuizione mitica originaria ri-

') E 201 (302), 246. .Aristotele cita questi versi - Met. I 3,


983 b 30, come un'anticipazione della teoria di Talete.
6 ) .Arist. Mei. II 4, 1000 a 18 parla con felice espressione del
modo esiodeo come di un µulhxwç <roqill:e:<r.&oct.
?) In altre parole c'era già molto pensiero razionale in quella
che noi chiamiamo «l'età mitica» e c'era ancora un largo elemento
mitico in quello che noi chiamiamo «pensiero razionale».
8) Cfr. il mio Aristotele (tr. it. Calogero, Firenz , La Nuova
Italia, 1935) 63, 64, 196 e altrove.
CAP. LX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 287

suita vuoto: così potremmo dire parafrasando una frase


kantiana. Secondo questo criterio, la storia della filo-
sofi.a greca va considerata quale processo di progres-
siva razionalizzazione dell'originaria concezione religiosa
del mondo, basata sul mito. Se ci rappresentiamo tale
concezione come sviluppantesi in isfere di realtà con-
centriche, dall'esteriorità della periferia sino all'inte-
riorità del centro, allora il processo col quale il pen-
siero razionale s'impossessa del mondo si svolgerà in
forma d'una penetrazione graduale dalle sfere este-
riori alle più profonde ed interne, sino ad attingere il
centro - l'anima - con Platone e Socrate; da questo
punto incomincia poi un moto retrogrado, sino allo
sbocco della filosofi.a classica nel neoplatonismo. Il mito
platonico dell'anima ehbe appunto la forza di opporsi
alla dissoluzione tot:ale dell'Essere nel razionale 9), di
compenetrare anzi dal canto suo nuovamente, dall'in-
terno, il cosmo razionalizzato e di assoggettarselo pro-
gressi vamente. Qui venne poi ad inserirsi la religione
cristiana, trovando come un letto già scavato. .
È problema spesso discusso, come sia che la filo-
sofi.a greca incominci dal problema della natura, e non
dall'uomo. Per rendersi ragione di questo fatto impor-
tantissimo e ricco di conseguenze, si è tentato di cor-
.reggere la storia e di far derivare le concezioni degli
antichissimi filosofi. naturali dallo spirito della mistica
religiosa 10). Ma con ciò il problema, anziché risolto, è
semplicemente spostato. Esso dilegua non appena ci
rendiamo conto ch'esso è sorto per avere a torto ri-
stretto l'orizzonte alla cosiddetta storia della filosofi.a.
Se alla filosofi.a naturale aggiungiamo quanto v'è di
pensiero costruttivo, nel campo etico-politico e reli-

9) Questa era la tendenza caratteristica di Platone.


16) La questione è stata posta e risolta da KARL J OEL, Der
U rsprung der Naturphilosophie aus dem Geiste der Mystik (J ena 1906).
288 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

gioso, nella poesia ionica da Are biloco in poi e nelle


poesie di Solone, è chiaro che basta abbattere le bar·
riere tra poesia e prosa per ottenere un quadro com·
pleto del pensiero filosofico nel suo divenire, abbrac·
ciante anche il campo umano ll). Solo che la concezione
dello Stato, per sua natura, conserva sempre un'im-
mediatezza pratica, laddove l'indagine della physis o
della genesis, dell' « origine», è condotta per amore della
theoria stessa. Il problema dell'uomo non fu concepito
teoreticamente dai Greci se non quando, in base ai
problemi del mondo esterno, principalmente della me-
dicina, e dell'intuizione matematica, si fu formato un
tipo di techne precisa, da poter servire di modello allo
studio dell'interiorità dell'uomo 12). Ciò fa pensare al
motto di Hegel: la via propria dello Spirito è l'indi-
retta. Se l'anima dell'Oriente, nel suo anelito religioso,
si profonda immediatamente nell'abisso del sentimento,
ma non vi trova alcun punto d'appoggio, lo spirito
greco, col suo sguardo educato alla regolarità del cosmo
esteriore, scopre poi presto anche la legge interiore
dell'anima, pervenendo alla considerazione oggettiva
di un cosmo interiore. Solo mercé questa scoperta, nel
momento critico della storia greca, si rese possibile
sviluppare una nuova educazione dell'uomo in base
alla conoscenza filosofica che Platone si propose per
mèta 13). Nella priorità della filosofia della natura ri-
spetto alla filosofia dello spirito. è dunque riposto un

11) Questo è stato fatto p. es. da LÉON RoBIN, La Penséegrecque


(Parigi 1923) in L'evolution de l'humanité, diretta da Henri Berr.
12) Dobbiamo ricordare che Platone quando affrontò il pro-
blema delle leggi del cosmo umano, applicò i metodi della medicina
e delle matematiche. Cfr. « Paideia» II 285 ss., 522 ss. sWle mate-
matiche; e III 36 ss. sulla medicina.
lS) Questa crisi è descritta in questo volume, Libro Il, special-
mente nei capp. su Euripide, Aristofane, i Sofisti e Tucidide.
Il voL II è dedicato a Platone e alla scoperta del cosmo nell'uomo.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOHCO E LA SCOPEKIA DEL COSMO 289

« significato» storico profondo, che si rivela chiara-


mente appunto alla riflessione mirante alla storia della
cultura. Il pensiero dei grandi ionici antichi, sgor-
gante da una sorgente profonda, non è sorto da una
volontà educativa consapevole, ma, nel pieno dissol-
versi della concezione mitica del mondo e nel caos in
cui fermenta una nuova comunità umana, torna a
contrapporsi direttamente all'Essere posto in forse 14).
Ciò che più colpisce nella personalità dei primi filo-
sofi, che peraltro non si davano ancora questo nome
platonico 15), è il loro speciale atteggiamento mentale,
la piena dedizione alla conoscenza, l'immergersi nel-
l'Essere per se stesso, che alla posterità greca, e certo
anche ai contemporanei, parve qualche cosa di affatto
paradossale, ma suscitò ad un tempo la più profonda
ammirazione. La pacata noncuranza dello studioso di
fronte alle cose che premono al resto dell'umanità, a
denari e onori, e persino alla casa e alla famiglia, la
sua apparente cecità quanto al proprio utile e la sua
indifferenza di fronte alle novità che fanno impres-
sione sul grosso pubblico, fecero sorgere quei noti aned-
doti circa la singolarità degli antichissimi pensatori,
che furono poi raccolti con zelo e tramandati special-
mente nell'Accademia platonica e nella scuola peripa-
tetica, quali esempi e modelli del [3foi; 0e:Cùp"IJ't'Ut6c;, che
Platone insegnava quale vera praxis del filosofo 16). In
1') L'importanza fondamentale del contributo dei Presocra-
tici al problema umanistico in cui furono impegnati Platone e
il suo tempo, appare ovvia quando si pensi che essi si interessavano
soprattutto al problema dell'essere: giacché la vera libertà umana
in senso platonico è riferita all'Essere.
16 ) Cfr. n. 2.
16 ) Cfr. il mio saggio Ueber Ursprung und Kreislauf des phi-
losophischen Lebensidecds (in « Sitz. Berl. Akad. » 1928) 390 ss.
(trad. it. Calogero, ìn appendice all'Aristotele, p. 559 ss.). Cfr. an-
che FRANZ BoLL, Vita Contemplativa («Ber. Heidelherg. Akad.»
1920).
290 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

questi aneddoti il filosofo è il grande originale, un po'


sconcertante, ma amabile, che spicca sullo sfondo della
comunità degli uomini o se ne apparta a bella posta,
per consacrarsi ai suoi studi. È ingenuo come un fan-
ciullo, goffo e maldestro, e vive fuori delle circostanze
di luogo e di tempo. Il saggio Talete, osservando non
so che fenomeno celeste, cade nel pozzo, e la sua fan-
tesca tracia lo schernisce di voler considerare le cose
celesti, se non vede nemmeno ciò che ha sotto il naso 17).
Pitagora, ~ichiesto perché viva, risponde: Per consi-
derare il cielo e le stelle 18). Anassagora, accusato di
non curarsi dei congiunti né della città natale, accenna
con la mano al cielo: Quella è la mia patria 19). Si allude
con ciò a quell'immergersi, incomprensibile alla gente,
nella conoscenza del cosmo, nella «meteorologia», come
ancora dicevasi in quel tempo con significato più
ampio e profondo, nella scienza, cioè, delle cose che
sono in alto. Il contegno del filosofo è esagerato e
stravagante agli occhi del popolo, ed è popolare, presso
i Greci, il raffigurarsi l'uomo cogitabondo come un
infelice, giacché egli è 7tEpL"t'"t'6ç 2°). Parola intraduci-
bile, ma che evidentemente esprime un<1. qualche vio-
lazione della misura (hybris): il pensatore varca infatti
quel limite che è posto dagli dèi allo spirito umano.
Simili figure ardite e solitarie, che per La loro stessa
natura rimasero sempre casi isolati, non potevano sor-
gere che nella Ionia, in un'atmosfera di somma libertà
personale. Colà si lasciavano in pace quei personaggi
d'eccezione, che altrove davano scandalo ed erano osta-
colati. Nella Ionia, uomini dello stampo di Talete di

Pl Theaet. 174a (DIELS, Vorsokratiker I A 9).


1 7)
18) Giamblico, Protrept. 51, 8. V. il mio Aristotele, tr. it., 127.
Il detto 'di Anassagora è una variante di questo (Iambl. Zoe. cit.
51, 13).
19) Diog. L. Il 7 (DIELS, Vorsokratiker I A 1).
20) Cfr. Arist. Met. I 2, 983 a 1.
CAP. DC: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 291

Mileto divennero presto popolari; se ne tramandarono


con interesse i detti e si narraronc) aneddoti sul conto
loro 21). Ciò è prova d'una viva risonanza, che permette
d'inferire una certa comprensione intuitiva dell'attua-
lità di siffatte figure e delle loro nuove idee. Anassi-
mandro fu il primo, per quanto sappiamo, che avesse
l'ardire di notare e diffondere i propri pensieri in prosa,
a quel modo, cioè, che un legislatore scriveva le sue
tavole. Il filosofo cancella cosi il carattere privato
delle proprie idee, non è più un l~tcO-rJJç: rivendica il
diritto a farsi as.coltare da tutti. Se, dallo stile della
prosa scientifica ionica posteriore, possiamo tentar d'in-
ferire quale fosse la forma del libro d' Anassimandro,
probabilmente egli manifestava in prima persona la
sua opposizione all'opinione corrente dei compatrioti.
Ecateo di Mileto inizia la sua opera genealogica con
queste parole, di un'ingenuità grandiosa: « Ecateo di
Mileto cosi dice: I discorsi dei Greci sono molti e ri-
sibili; ma io, Ecateo, dico ciò che segue» 22). Eraclito
incomincia, lapidario: «Di questo Logos, sebbene esso
duri eterno, gli uomini non hanno intendimento, né
prima d'udirlo, né dopo averlo udito. Sebbene tutto
accada secondo questo Logos, essi sono come gente
inesperta, ogniqualvolta cercano di farsi un'esperienza
con parole e opere come quelle ch'io espongo, scompo-
nendo ogni cosa secondo la sua natura e spiegando
come si comporti» 23).
L'ardire ·di una siffatta critica intellettuale perso-
nale della concezione corrente del mondo fa il paio
con quello dei poeti ionici, che incominciano ad espri-

21) V. altri aneddoti su Talete, oltre quello ricordato a n. 17,


in DIELS, Vorsokratiker I A 1, 26 (cfr. Arist. Pol. I 2, 1259 a 6)
e la tradizione ionica tramandata da Her. I 74; I 170.
22) Ecateo, fr. la (JACOBY, F. Gr. Hist. I 7-8).
28) Heracl fr. 1 (DIELS, Vorsokratiker I).
292 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

mere liberamente i propri sentimenti e le proprie idee


circa la vita umana e il loro ambiente: l'uno e l'altro
sono prodotti dell'individualità che si desta. Il pen-
siero razionale agisce, come comincia ad apparire in
questo stadio, da esplosivo. Le più antiche autorità
perdono la loro validità. Conta solo ciò che « io» posso
spiegare con fondati motivi, ciò di cui il « mio » pen-
siero può rendersi ragione. Tutta la letteratura ionica,
da Ecateo ed Erodoto, creatore della geografia e del-
!'etnografi.a e padre della storia, sino agli scritti dei
medici ionici, di valore fondamentale per millenni, è
compenetrata di questo spirito e si serve di questa
caratteristica forma personale di critica. Ma appunto
con l'affermarsi dell'Io razionale si compie il più fecondo
superamento dell'individuo, e nella concezione del vero
si affaccia un nuovo elemento d'universalità, cui deve
inchinarsi ogni arbitrio 24).
11 punto di partenza della filosofi.a naturale del se-
colo VI fu il problema dell'origine, della physis, che
diede perciò il suo nome a tutto quanto quel movimento
spirituale e alla forma speculativa da esso creata. Non
è fuor di luogo tener sempre presente il,solo significato
originario della parola greca, senza intrusione dell'idea
moderna della fisica 25), ché quell'impostazione dei pro-
blemi, metafisica secondo il linguaggio nostro, rimase
di fatto costantemente il motivo propulsore, e quanto
venne ad aggiungervisi di nozioni e d'osservazioni fi-
siche, vi si subordinò interamente. Certo, tale processo
rappresentò indirettamente anche la nascita della scienza

24) Cfr. WILHELM LUTHER, Wahrheit un.d Liige im altesten


Griechentum (Boma-Lipsia 1935). In questa monografia le origini
del concetto greco di à:À'fi.&e:~oi: e tutto il gruppo di parole ad esso
relative sono diligentemente esaminati nel loro contesto.
25) JoHN BuRNET, Early Greek Philosophy (IV" ed. Londra
1930) 10 88.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 293

razionale della natura, ma questa rimase dapprima


come involta nella speculazione metafisica, e soltanto
a poco a poco venne a rendersi indipendente. Nel con-
cetto greco della physis, entrambi gli elementi sono
compresi ancora indistinti: il problema dell'origine, che
costringe il pensiero a spingersi oltre i fenomeni sen-
sibili, e la comprensione di tutto ciò che è sorto da
quell'origine ed ora esiste (-r~ ov-roc), mediante l'infor-
mazione conforme all'esperienza (b-rophJ)· È ovvio
del pari che il bisogno d'indagare innato negli Ioni,
che avevano il gusto' dei viaggi e dell'osservazione,
contribuiva ad approfondire le questioni sino all'af-
facciarsi di problemi ultimi, cosi come il problema del-
1'essenza e dell'origine del mondo intensificava pro-
gressivamente il bisogno d'estendere le cognizioni di
fatto e di spiegarsi i fenomeni singoli. Data la vici-
nanza dell'Egitto e dei paesi dell'Asia citeriore, è più
che probabile - e lo attesta infatti con certezza la
tradizione - che il continuato contatto spirituale degli
Ioni con la· civiltà, più antica, di quei popoli, non do-
vette soltanto condurre a farne proprie le conquiste
tecniche e le cognizioni in fatto di topografia, di nau-
tica e d'astronomia, ma richiamò anche l'attenzione
di qliesta stirpe di navigatori e di mercanti, di vivace
intelligenza, sui problemi più profondi ai quali quei
popoli, nelle loro cosmogonie e mitologie, davano altra
risposta che i Greci.
Cosa radicalmente nuova è peraltro che la cono-
scenza empirica dei fenomeni celesti e naturali, de-
sunta dall'Oriente e accresciuta, fu originariamente po-
sta dagli Ioni al servigio di quel problema ultimo del-
l'origine ed essenza delle cose, subordinando cosi alla
considerazione teoretica e causale quel campo del mito
in cui questo veniva in contatto immediato con la
realtà del mondo fenomenico sensibile: il mito cosmo-
294 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

gonico. Questo è anche il momento del sorgere della


:filosofi.a scientifica, che è in tutto e per tutto la storica
conquista dei Greci. Il suo distacco dal mito non si
compie, invero, che gradatamente, ma il suo carattere
scientifico-razionale è dimostrato già dalla circostanza
esteriore che essa si affaccia quale corrente di pen-
siero unica, rappresentata da una pluralità di pensa-
tori indipendenti, ma che si riallacciano l'uno all'altro.
Il legame degl'inizi della filosofia naturale ionica con
Mileto, metropoli della cultura ionica, si manifesta
nella serie dei primi tre pensatori, Talete Anassimandro
Anassimene, la cui vita arriva sino alla distruzione
di Mileto per parte dei Persiani (principio del sec. V).
Non meno patente che la brusca interruzione di un'altis-
sima fioritura spirituale, continuata per tre genera-
zioni, causa l'intervento brutale degli eventi storici
esteriori, è, in questa superba serie di grandi uomini,
la continuità delle loro indagini e del loro tipo intel-
lettuale, che, alquanto anacronisticamente, è. stata chia-
mata «scuola di Mileto » 26). Ma in tutti e tre l'imposta-
zione dei problemi e le soluzioni si muovono realmente
in una determinata direzione. Essa ha dato alla fisica
greca, sino a Democrito e ad Aristotele, i suoi concetti
fondamentali, segnandone il cammino.

Vogliamo chiarire quale sia lo spirito di quella :filo-


sofi.a arcaica con l'esempio della figura più importante
tra i fisici di Mileto, A n a s si ma n dr o . Egli è il solo
della cui concezione del mondo noi possiamo farci
un'idea assai precisa. In Anassimandro il pensiero ionico
rivela un'ampiezza meravigliosa. Egli fu ideatore d'una
rappresentazione dell'universo di profondità veramente

26) HERMANN DIELS, Ueber die altesten Philosophenschulen der


Griechen, in Philos. Aufs. Ed. Zeller gewidm. (Lipsia 1887) 239-260.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 295

metafisica e di rigorosa unità costruttiva. Ed egli


stesso fu l'autore della prima carta cosmografi.ca e il
padre della geografia scientifica 2 7). Anche i primordi
della matematica greca risalgono all'epoca dei filosofi
di Mileto 28).
La rappresentazione della terra e dell'universo con-
cepita da Anassimandro è un trionfo dello spirito geo-
metrico. È come il simbolo visibile di una rettilineità
monumentale, che è propria dell'animo e del pensiero
dell'uomo arcaico. Il mondo d' Anassimandro è costruito
secondo proporzioni rigorosamente matematiche. Il di-
sco terrestre della concezione omerica non è per lui
che apparenza ingannevole; il corso quotidiano del
sole da est ad ovest continua in realtà sotto la terra,
tornando ad est al punto di partenza. Il mondo non è
dunque una mezza sfera, bensì una sfera intera, con
nel centro la terra. Il corso non solo del sole, ma an-
che delle stelle e della luna, è circolare. Il cerchio più
esterno è quello del sole, che misura 27 volte il dia-
metro terrestre, e al disotto quello della luna, che lo
misura 18 volte. Il cerchio descritto dalle stelle fisse
è il più basso e quindi - il testo che ce ne dà notizia
è guasto in questo punto 29) - misura evidentemente
9 volte il diametro terrestre, e questo è il triplo del-
1' altezza della terra, la quale ha la figura di un cilin-
dro piatto 30). Questo non riposa, come ammette inge-

27) Cfr. Anassimandro fr. 6 (DIELS, Vorsokratiker I). La notizia


tramandataci da Agatemero e Strahone risale a Eratostene.
28) F. ENRIQUES e G. SA.NTILLA.NA, Storia del pensiero scientifico
voL I (Milano 1932); T. L. HEATH. A Manual of Greek Mathe-
matics (Oxford 1931); A. HEIDEL, The Pythagoreans and Greek
Mathematics, in « Am. Jour. of Philol.» 61 (1940) 1-33.
29 ) Cfr. PAUL TANNERY, Pour l'histoire de la science hellène
(Parigi 1887) 91.
30) Sulle proporzioni numeriche del cosmo in Anassimandro
e la loto più probabile ricostruzione, v. H. DmLs, « Archiv f.
Gesch. d. Phil. » X. Cfr. anche i passi antichi là ricordati.
296 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

nuamente il pensiero mitico, su una base solida, non


sorge, come un albero si leva nell'aria, da radici che
si affondino invisibili 31), ma si libra nello spazio co-
smico. Non è la pressione dell'aria a sostenerla; essa
si tiene in equilibrio mercé la sua equidistanza, da ogni
lato, dalla sfera celeste 32).
La medesima tendenza alla matematica domina l'im-
magine cartografica della terra formatasi nel corso di
varie generazioni di scienziati, in parte seguita ancora,
in parte contradetta da Erodoto, il quale ne designa
collettivamente i creatori come «gli Ioni». Seni;a dub-
bio egli attin,ge anzitutto all'opera di Ecateo di Mi-
leto, il più vicino a lui nel tempo 33), ma appunto nella
pinacografìa questi, secondo ne abbiamo es{'.ressa no-
tizia 34), si fonda su Anassimandro; e la configurazione
schematica della carta terrestre è appunto più con-
forme al disegno geometrico anassimandrèo della strut-
tura cosmica e terrestre, che non a Ecateo, viaggia-
tore ed esploratore, il quale ha conosciuto genti e
paesi coi propri occhi ed è orientato soprattutto verso
i fenomeni singoli 36). Erodoto non potrebbe parlare de
« gli Ioni» se non sapesse che Ecateo. appunto in
questo indirizzo costruttivo, ebbe precursori. Io non
esito quindi a far risalire ad Anassimandro l'abbozzo
81) Le radici della terra appaiono in Hes. Opp. 19; Wn..uio-
WITZ, Hesiods Erga 43, crede che Esiodo intenda semplicemente
le profondità della terra, ma cfr. Theog. 728, 812. Ndla cosmo-
gonia orfica di Ferecide (fr. 2, Diels) che è in parte basil.ta su un
antichissimo concetto mitico, si parla di una «quercia alata»:
una combinazione dell'idea di Anassimandro che il mondo è Ji.
beramente sospeso, con il concetto di un albero con le radici nel-
l'infinito (cfr. H. DIELs, « .Axchiv. f. Gesch. d. Phil.» X). In Par-
menide, fr. 15a, la terra è detta «radicata nell'acqua».
82) Anassimandrci, fr. 11 (DIELS, Vorsokratiker I).
88) Cfr. F. J.A.COBY in Pauly-Wissowa, R E VII 2702 ss.
84) Anassimandro, fr. 6 (Diels).
85) HuGO BERGER, Geschichte der Wissenschaftlichen Erdkunde
der Griechen, 38 ss.; W. A. HEIDEL, The Frame of the An.cient
Greek Maps, 21.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 297

dello schema cartografico che, in base ad Erodoto, e


Scilace e ad altri autori, possiamo attribuire ad Ecateo.
La superficie terrestre si divide in due parti quasi
eguali: Europa ed Asia. I limiti sono segnati da fiumi
imponenti. Inoltre l'Europa è quasi tagliata a mezzo
dal Danubio, la Libia dal Nilo 36 ). Erodoto irride lo
schematismo costruttivo della configurazione terrestre
proprio della antichissima cartografi.a ionica: la terra
vi è disegnata rotonda, come fatta al tornio, e avvolta
tutt'all'intorno dall'Oceano, il gran mare esterno, che
per lo meno all'est e al nord nessun occhio umano
aveva ancora veduto 37). Ciò caratterizza in modo assai
umoristico lo spirito geometrico e aprioristico di tale
costruzione del mondo. L'età di Erodoto attende a
colmare le lacune con fatti nuovi, attenuandone od
eliminandone gli arbitrii. Non conserva che quanto è
realmente assodato empiricamente. Ma il gran passo
innanzi, la genialità creativa è dalla parte d' Anassi-
mandro e di quegli originali pionieri che cercarono
d'esprimere nel linguaggio ideale delle proporzioni nu-
meriche, da loro appunto approfondite, la loro sugge-
stiva nozione di un ordinamento e d'un organamento
complessivo della struttura dell'universo 38).
Il principio primo, che Anassimandro pone in luogo
dell'acqua, considerata come tale da Talete, cioè l'il-
limitato (&m:Lpov), mostra il medesimo ardito supera-
mento del fenomeno sensibile. Tutti i :filosofi della na-
tura sono impressionati dal grandioso spettaùolo del
divenire e perire delle cosè, di cui l'occhio umano per-
cepisce la variopinta figura. Che cos'è quell'inesau-

a•) Her. II 33, IV 49.


87 ) Her. IV 36.
38) Cfr. KARL J OEL, Zur Geschichte der Zahlenprinzipien in
der griechischen Philosophie in « Ztschf. f. Phil. u. philos. Kritik»
97 (1890) 161-228.
298 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

rihile onde tutto proviene e in cui nuovamente svanisce ?


Talete ritiene sia l'acqua, che evapora in aria o si
solidifica congelandosi, quasi pietrificandosi. La sua
mutabilità s'impone. Dall'umido deriva tutto ciò che
al mondo è vita. Non sappiamo quale degli antichi
fisici insegnò per primo che anche il fuoco degli astri,
come crederanno ancora gli stoici, sì alimenti dei va-
pori che salgono dal mare 39) •. Anassimene ritiene l'aria,
e non l'acqua, elemento originario, cercando soprat-
tutto di spiegare la vita nel Tutto: l'aria domina il
mondo come l'anima il corpo, e anche l'anima è aria,
soffio, pneuma 40). Anassimandro parla dell' apeiron, che
non è un determinato elemento, ma «tutto comprende
in sé e tutto governa» 41). Queste sembra siano le sue
stesse parole. Aristotele ne fu urtato, ritenendo che
della « materia» possa dirsi piuttosto esser essa inclusa
in ogni cosa, che non includere tutto 42) •. Ma altri epi-
teti dell' apeiron, usati nel riferimento aristotelico, come
«immortale» ed « eterno», presentano htequivocabil-
mente il senso dell'attività 43), e «governare» il tutto
non è possibile che a una divinità. E infatti la tradi-
zione dice pure che l' apeiròn, il quale 'Sempre nuovi
mondi 44) partorisce e in sé riassorbe, era chiamato dal
filosofo divino o dio 45). Il nascere delle cose dall'apeiron
sarebbe un'emanazione del complesso originario delle
opposizioni che si contrastano in questo mondo. E a ciò
si riferisce questa grandiosa sentenza, l'unica d' Anas-

3•) Arist. Met. I 3, 983 b 6 ss. dà come ragione possibile del-


l'idea di Talete che l'acqua è il principio di tutte le cose, il fatto
che l'umido conserva il calore. Ma egli non aveva alcun libro
di Talete e perciò la sua spiegazione è una sua improvvisazione.
• 0 ) Anassimene, fr. 2 (Diels).
41) Anassimandro, fr. 15 (Diels).
42) Arist. Phys. III 7, 207 b 35.
43) Anassimandro, fr. 15.
44) Anassimandro, fr. 10 e 11.
'") Anassimandro, fr. 15.
CAP. IX: IL PENSIERO HLOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 299

simandro che ci sia direttamente tramandata: « Ma


donde le cose esistenti hanno origine, là dèv'essere anche
la .loro fine, secondo il destino. Ché devono pagarsi
reciprocamente (&:ìJ.1jÀoLç) pena ed espiazione secondo
il giudizio del tempo» 46).
Da Nietzsche ed Erwin Rohde in poi, assai si è
scritto su questo passo, nel quale si è voluto scorgere
molto di mistico 47 ). L'esistenza delle cose come tale,
l'individuazione, sarebbe un peccato originale, una apo-
stasia dall'eterno principio fondamentale, che le crea-
ture dovrebbero espiare. Dacché fu restituito il testo
originale (inserendovi l'<ÌÀÀ1jì..oLç che manca nelle vecchie
edizioni) dovrebb'esser chiaro che si tratta di tutt'al-
tro: della riparazione della azione sopraffattrice (pleo-
nessia) delle cose 48). Non già l'esistenza è una colpa
(concezione estranea alla grecità) 49), ben.si Anassiman-
dro immagina concretamente che le cose contendano
tra loro, come gli uomini in tribunale. Ci 'troviamo di
fronte a una polis ionica. Vediamo il mercato, dove si
rende giustizia, e il giudice, seduto sul ·suo seggio, c)ie
stabilisce il castigo (-r&:-r-re:L) 50). Egli ha nome Tempo. Lo
conosciamo dal pensiero politico di Solone: al suo brac-
cio non si sfugge 51). Quanto l'uno dei contendenti abbia

Anassimandro, fr. 9: 1h86vett yàtp etÙ-i-Òt (i. e. -i-Òt &v-i-et) 1Hx11v


48 )
xett OCÀÀTJÀOtc; -i-'ijc; .X~tXLC(c; Xet'tÒt 't"Ì]v 'tOU xp6vou -i-ci!;w.
"t-lcrLV
'7) Di maggiore sobrietà l'interpretazione data da J. BulllSET,
Early Greek Philosophy (IV" ed. Londra 1930) 53 ss. Mi sembra
tuttavia che egli non abbia reso giustizia alla grandiosità dell 9 idea
di Anassimandro e al suo significato filosofico.
48) Cfr. DIELS, Vorsokratiker I: Anassimandro, fr. 9.
49) Anche il mito orfico in Arist. fr. 60 (Rose) non significa
che l'esistenza sia una colpa. Cfr. A. DIÈS, Le cycle mystique
(Parigi 1909).
6-0) -i-&;tc; non è «ordine» nel senso di «ordinamento», come
traduce il Diels, ma, evidentemente, «ordine» nel senso attivo
di «comando». Fissare un premio, una pena, un tributo si dice
appunto -i-ci-i--i-e:tv. Andoc. 4, 11; Thuc. I 19. Così pure v. Pl. Legg.
925b e Resp. 305c: 7tetpà: 't"Ìjv -i-ou vo[Lo.&hou -i-&;tv.
51) Cfr. p. 272.
300 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

preso di troppo all'altro, gli sarà immancabilmente


ritolto e ridato a colui che ebbe troppo poco. L'idea
di Solone era questa: la dike non dipende dalla giuri-
sprudenza umana, terrena; né viene dall'esterno quale
intervento isolato d'una giustizia punitiva divina, come
immaginava l'antica religione esiodea; è invece una
compensazione che si attua in maniera immanente nel
corso stesso dei fatti, che quindi giunge senza fallo,
ed è appunto questa sua ineluttabilità il « castigo di
Zeus», la « vendetta divina » 52). Anassimandro va assai
più oltre. Egli vede verificarsi questo eterno compenso
non solo nella vita umana, ma nell'universo intero,
negli esseri tutti. L'immanenza della sua effettuazione,
che si palesa nella sfera umana, gli suggerisce l'idea
che le cose della natura, le loro forze e contrasti siano
sottoposti a una giustizia immanente, come gli nomini,
e che secondo questa se ne compia l'ascesa e il tra-
monto.
In questa forma - agli occhi di noi -moderni -
sembra a~unciarsi l'idea immensa che la Natura sia
inte_ramente conforme a leggi. Ma non si tratta della
mera uniformità del corso causale nel senso astratto
della scienza odierna. Ciò che Anassimandro formula
nelle sue parole va chiamato piuttosto una norma del-
l'universo, che non una legge naturale in senso moderno.
Il riconoscimento di questa norma degli eventi nella
natura ha un senso religioso immediato 53). Non è mera
descrizione di fatti, è giustificazione dell'essenza del
mondo 54). Il mondo si palesa, attraverso essa, come un

1a) SoL fr. 1, 25; 30.


6 3) Ho sostenuto più ampiamente questa interpretazione in
una conferenza ancora inedita sul frammento di Anassimand:ro
(v. « Sitz. Berl. Akad. » 1924 p. 227).
64) Come nella Repubblica di Platone lo stato è la struttura
dell'anima umana« scritta a caratteri più grandi», così per Anas-
simandro l'nniverso tende ad essere un ordine sociale (x6aµoç)
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 301

« cosmo » in grande; in linguaggio nostro: un ordina-


mento giuridico delle cose. Esso conserva il proprio si-
gnifi.cato appunto nell'incessante, inevitabile divenire e
trapassare, cioè in ciò che, per l'attaccamento del-
l'uomo ingenuo alla vita, riesce sopra ogni altra cosa
incomprensibile e difficile ad accettare in questa vita.
Non sappiamo se Anassimandro stesso usasse già la
parola kosmos in questo senso. Nel suo successore Anas-
simene s'incontra già, se il frammento è autentico 55).
Oggettivamente, l'idea del cosmo, se non precisamente
nel senso ulteriore, senza dubbio è data in massima
nell'idea anassimandrea dell'eterna dike che regna nel
corso della Natura. Possiamo quindi a buon diritto
qualificare la concezione del mondo d' Anassimandro
scoperta interiore del cosmo. Non era infatti possibile
fare questa scoperta altro che nelle profondità dello
spirito umano. Essa non ha nulla a che fare con tele-
scopi e specole, né con qualsiasi altra sorta d'indagine
meramente empirica. Dalla medesima virtù interiore
dell'intuizione è sorta l'idea dell'infinità dei mondi,
che si attribuisce ad A.nassimandro 56). Senza dubbio
l'idea filosofica del cosmo implica un distacco dalle
rappresentazioni religiose tradizionali. Ma questo di-
stacco rappresenta la conquista di una nuova imponente
intuizione della divinità dell'Essere tra l'orrore della·
caducità e dell'annientamento, onde quella nuova

« scritto più grande». Questa però è solo una tendenza giacché


solo Eraclito vide con piena chiarezza nella filosofia del predecessore
questo parallelismo e lo elaborò sistematicamente. Cfr. Heracl.
fr. 114, sulla legge umana e divina (cioè la legge che governa
l'universo).
55) Anassimene, fr. 2. K. Reinhardt dubita della autenticità.
~8) Nella prima edizione di questo libro io contestavo con M:
A. Cornford, la verità di quest'attribuzione; ma gli argomentJ.
di R. MoNDOLFO, L'infinito nel pensiero dei Greci (Firenze 1934)
45 &e. mi hanno convinto.
302 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

generazione, come mostrano poeti, vedevasi in-


calzata 57).
In questa gesta spirituale sono contenuti i germi
di incalcolabili sviluppi filosofici. A tutt'oggi, infatti,
l'idea del cosmo è rimasta una · delle categorie essen-
ziali del nostro intendimento del mondo, per quanto
nella sua moderna applicazione scientifica abbia sem-
pre più perduto il suo originario significato metafisico.
Ma appunto per la formazione dell'uomo greco l'idea
del cosmo riassume con evidenza simbolica il signifi-
cato dell'antichissima filosofia della natura. Come il
concetto etico-giuridico della colpevolezza, in Solone,
è desunto dalla teodicea dell'epos 58), così la giustizia
universale d' Anassimandro ricorda come il concetto
greco di causa (a:h(oc). che divenne fondamentale per
il pensiero nuovo, in origine faccia tutt'uno con quello
di colpa e fosse dapprima trasferito dalla responsa-
bilità giuridica alla causalità fisica. Questo processo
. mentale è strettamente connesso con l'analoga appli-
cazione agli eventi naturali del gruppo di concetti
kosmos-dike-tisis, tolto dal campo giuridico 59). Il fram-
mento d' Anassimandro ci consente di ficcar lo sguardo
bene addentro nel sorgere del problema della causa-
lità da quello della teodicea. La sua dike è l'inizio

67) Cfr. Anassimandro, fr. 15. Per questo rimando fin da ora
a un mio libro non ancora pubblicato, The Theology of the early
Greek Philosophers (The Gifford Lectures 1936, St. Andrews)
che conterrà un capitolo sull'aspetto teologico della filosofia della
scuola di Mileto.
68) Cfr. Solons Eunomie (« Sitz. Berl. Akad.» 1926) 73.
") Questa trasposizione del concetto di retribuzione dal campo
legale e politico a quello dell'universo fisico, non fu un atto singolo
di un filosofo, ma fu per lungo tempo fondamentale nel pensiero
greco, riguardo al problema della causalità, come è dimostrato dalla
letteratura medica della Grecia classica, cioè dal cosidetto Corpru
Hippocraticum, dove la relazione causale appare sempre come
compenso e retribuzione nel senso di Anassimandro e Eraclito.
Cfr. il cap. sulla medicina in« Paideia» III 9.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 303

del processo cli proiezione della polis nell'universo 60).


Tuttavia non troviamo ancora nei pensatori di Mileto
un espresso riferimento dell'ordinamento umano del
mondo e della vita al « cosmo » dell'Essere extra-
umano 61). Né era conforme alla loro impostazione dei
problemi, che, astraendo dapprima del tutto dall'uomo,
era rivolta soltanto all'indagine del principio eterno
delle cose. Ma, mentre l'esempio dell'ordinamento del-
l'esistenza umana serviva loro cli chiave per l'inter-
pretazione della physis, l'idea dell'universo da loro
creata recava sin da principio nel suo grembo il germe
cli una futura nuova armonia dell'eterno essere col
mondo dell'esistenza umana e coi suoi valori.

Pensatore ionico è anche il samio Pi t a g or a , per


quanto esplicasse la sua attività nell'Italia meridionale.
La. sua personalità intellettuale è così difficile da af-
ferrare come la sua personalità storica. L'immagine
di lui si trasformò continuamente, nel corso della tra-
dizione, insieme con lo sviluppa della cultura greca,
oscillando tra quelle cli scienziato novatore, d'uomo
politico, d'educatore, di fondatore di setta, d'inizia-
tore religioso e di mago 62). Eraclito lo disprezzò come
enciclopedico, al pari di Esiodo, Senofane ed Ecateo,
ma evidentemente in un senso speciale, come fu il caso per
ognuno dei suddetti 63). Al paragone della grandiosa
coerenza ideale d'Anassimandro, l'amalgama d'elementi
diversi, che si rilevano in Pitagora, ha infatti qualche

60) Eraclito fece un ulteriore passo. V. n. 54 e p. 337 ss.


61) Eraclito cercò di mostrare come la vita umana deve essere
concepita sullo sfondo della nuova filosofia ionica della natura ·
e come così tutto appare cambiato. Cfr. p. 338 s.
· 82) Sulle varie opinioni antiche circa la personalità e il carat-
tere intellettuale di Pitagora, v. J. BuRNET, Early Greek Philo-
sophy (IVa ed.) p. 86-87.
83).Eraclito, fr. 40. La parola "ltoÀuµ.oc-&l"IJ in Eraclito~ apposta
a vouç «mente, ragione».
304 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

cosa di isolato e casuale, qualunque idea ci si faccia


di tale mescolanza. La recente moda, di rappresen-
tarlo come una sorta di medico-stregone, non merita in-
vero una seria confutazione. La taccia di polimazia fari-
tenere che gli ulteriori « cosiddetti Pitagorici », come
li chiama Aristotele 64), dovevano aver ragione di farri-
salire a Pitagora gl'inizi del loro genere di scienza, che,
a differenza dalla « meteorologia » ionica, chiamavano
semplicemente mathémata, cioè « gli studi». Questo
nome generalissimo comprende in realtà cose assai
eterogenee: la dottrina dei numeri e gli elementi della
geometria, i principii dell'acustica e della teoria mu-
sicale e le cognizioni dell'epoca circa il moto degli
astri, cui in Pitagora si sarà aggiunta certamente la
conoscenza della filosofia naturale milesia 65). Oltre a
ciò, per noi senza legame apparente, la dottrina della
migrazione delle anime, affine a quella della setta
religiosa degli Orfici, che per Pitagora personalmente è
attestata con certezza e da Erodoto è detta caratteri-
stica anche degli antichi Pitagorici. Ad essa è connesso
quanto di prescrizioni etiche risale al fondatore. Il
carattere di setta della comunità da lui /fondata è per
Erodoto cosa certa 66 ); essa si mantenne sino alla sua
persecuzione politica e al suo annientamento nell'Italia

") Cfr. EmcH FRANK, Plato urnl die sogennanten Pythago-


reer (Halle 1923); J. BURNET, loc. cit. 86.
66) Cfr. Arist. Met. I 5, 985 b 23. I mathémata che Platone
introduce nella sua Repubblica, 1. VII, come propaideia pe:r i
suoi guerrieri, consistevano in aritmetica, geometria, stereometria,
astronomia e musica. Egli li riconnetteva con la tradizione della
scuola Pitagorica come esisteva allora nell'Italia meridionale (v.
« Paideia» II 526) ed è molto probabile che questa tradizione
risalga a Pitagora stesso. Anche la cosmologia faceva parte del
sistema pitagorico, come appare non solo dai frammenti molto
discussi che portano i nomi pitagorici di Filolao e Archita, ma
anche dal ..fatto che Platone scelse un pitagorico dell'Italia me-
ridionale, Timeo da Locri, come figura rappresentativa nella sua
opera cosmologica, il Timeo.
se) Her. IV 95, cfr. Il 81.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 305

meridionale verso la fine del V secolo, cioè oltre cento


anni 67).
La conr.ezione pitagorica del numero quale prin-
cipio delle cose è preformata nella simmetria rigorosa-
mente geometrica del cosmo d'Anassimandro 68). Non
è intelligibile prendendo le mosse dalla mera aritmetica.
Derivava, secondo la tradizione, dalla scoperta di nuove
disposizioni regolari nella natura, e cioè del rapporto
tra la frequenza delle vibrazioni e la lunghezza delle
corde della lira 69). Ma, per estendere il dominio del
numero a tutto il cosmo e all'ordinamento della vita
umana, ·occorreva un'arditissima generalizzazione di
quell'osservazione, che trovò indubbiamente un appog-
gio nel simbolismo matematico della filosofia naturale
milesia. La dottrina pitagorica non ha niente a che
fare con la scienza naturale matematica in senso odierno.
Il numero significa per quella molto di più; non signi-
fica ricondurre i fenomeni naturali a rapporti quanti-
tativi calcolabili: i diversi numeri sono invece l'essenza
qualitativa di cose affatto diverse, del cielo, del matri-
monio, della giustizia, del kair6s 70), ecc. D'altra parte
è certo un'illecita materializzazione di tale identifica-
zione ideale del numero e dell'esistente quella d'Ari-
stotele, là dove dice che per i Pitagorici le cose con-
stano di numeri in senso materiale 71). Al corso del loro
pensiero deve accostarsi maggiormente la spiegazione
d'Aristotele medesimo, che essi credevano di ravvisare
nei numeri molte analogie con le cose, e maggiori che
non nel fuoco, nell'acqua, nella terra, dai quali prin-

67) J. BURNET, loc. cit. 90 88.


68) Cfr. p. 295.
69 ) Cfr. la discussione su tutte le fonti in EDUARD ZELLER,
Philosophie der Griechen I l, 401-403 (Va ed.).
70) Arist. Met. I 5, 985 b 27.
n) Arist. Met. I 5, 986 a 15 ss.
306 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

c1pn la speculazione anteriore faceva derivare ogni


cosa 72). Troviamo il chiarimento più importante della
concezione dei Pitagorici in uno stadio posteriore dello
sviluppo filosofico, nel tentativo che fa Platone nelle
sue opere tardive (a tutta prima cosi strano agli occhi
nostri) di riportare a numeri le sue Idee. Aristotele
critica in ciò la concezione qualitativa di ciò che è
puramente quantitativo. Sembra a noi ch'egli formuli
così quasi una banalità, ma è stato giustamente rile-
vato che nel concetto greco del numero è originaria-
mente contenuto questo fattore qualitativo e che l'astra-
zione di ciò che è meramente quantitativo non avviene
che gradatamente 73).
Forse l'origine dei vocaboli numerali e la loro for-
mazione linguistica singolarmente varia potrebbe for-
nirci ulteriori chiarimenti in proposito, se si potesse
rintracciare l'elemento intuitivo che vi. è indubbia-
mente insito. Come i Pitagorici venissero ad apprez-
zare così altamente il potere del numero, s'intende
anche dalle sentenze altisonanti d'altri contemporanei.
Così Prometeo, in Eschilo, chiama l'invenzione del nu-
mero il capolavoro della sua sapienza civilizzatrice 74).
La scoperta del dominio del numero in varii cospicui
campi dell'essere schiudeva allo spirito, indagante il
senso del mondo, ancora una nuova. via per riconoscere
che nelle cose stesse è insita per natura una norma
alla quale occorreva rivolger l'atte~zione, e, con una

72) Arist. Met. I 5, 985 b 27 18. Cfr. ibid. 985 b 23, dove si dice
che questi «Pitagorici» vissero nello stesso tempo o prima di Leu-
cippo, Democrito e Anassagora. Ci si avvicina così al tempo di
Pitagora stesso (il VI sec.). Aristotele deliberatamente non lo.
menziona; l'eccezione in Met. I 5, 986 a 30, è interpolazione.
73 ) J. STENZEL, Zahl und Gestalt bei Platon und Aristoteles
(Il& ed. Lipsia 1933) che, ad ogni modo, non si ferma sui Pita-
goricL
7') Aesch. Prom. 459 &:,a&µòc; ~o:x:ov aotpLaµciTCilv.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 307

speculazione che sembra a noi un gioco, gli faceva


procurare cli ricondurre ciascuna cosa ad un principio
numerico. Così, ad una nozione duratma e fu:finita-
mente feconda, tante volte è intimamente legato, in
pratica, l'abuso della medesima. Tutti i grandi periodi
di incremento della conoscenza raziona]e presentano
questa ardita, eccessiva autoestimazione. Nulla può
reggersi, di fronte a1 pensiero pitagorico, che non finisca
per essere spiegato quale numero 75).
Con la matematica si affaccia un nuovo elemento
essenziale della cultura greca. Le singole sue parti si
sviluppano dapprima indipendentemente. Anche la fe-
condità educativa di ciascuna di esse è riconosciuta
per tempo, ma solo in uno stadio ulteriore esse vengono
ad influire l'una sull'altra, e se ne costituisce un tutto.
L'importanza cli Pitagora quale educatore è messa in
forte rilievo dalla tradizione leggendaria posteriore. Fu
indubbiamente Platone a darne l'esempio; dopo di lui
la vita e l'opera di' Pitagora furono liberamente atteg-
giate da Neopitagorici e Neoplatonici, e quanto gli
scrittori posteriori espongono con comoda ampiezza
sotto questo nome di Pitagora, non è quasi a1tro che
questa sapienza edilìcante della tarda classicità, accolta
in maniera acritica 76). V'è tuttavia un nocciolo di ve-
rità storica in fondò a tale concezione. Non si tratta
di un atteggiamento meramente personale: l'ethos edu-
cativo si radica nell'essenza oggettiva delle nuove co-
gnizioni, rappresentate nella nostra tradizione da Pi-
tagora. Esso s'irradia specialmente dall'aspetto nor-

76) Cfr. Arist. Met. I 5, 986 a 1 ss.


. 76)Le fonti neopitagoriche da cui deriviamo il racconto det-
tagliato, ma leggendario, della vita e dell'insegnamento di Pi-
tagora, sono due tardi biografi, Porfirio e Giamblico. Alcuni mo-
derni studi su Pitagora educatore p. es. O. WILLMANN, Pitha-
goreische Erziehungsweisheit, peccano nel dare come verità storica
troppo di quello che questi tardi autori antichi dicono di Pitagora.
308 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

mativo dell'indagine matematica. Basta ricordare l'im-


portanza della musica per la cultura greca arcaica e
lo stretto legame tra la matematica pitagorica e la
musica, per vedere come dall'intendimento delle leggi
numeriche dei suoni dovesse ben presto sorgere la
prima teoria filosofica dell'efficacia educativa della mu·
sica. L'accoppiamento di musica e matematica, ist1·
tuito da Pitagora, rimase d'allora in poi saldo pos-
sesso dello spirito greco.
Da tale connubio appunto derivavano i concetti più
fecondi e di maggior portata per il pensiero educativo
greco. Ad un tratto, ecco che su tutti i campi dell'esi-
stenza si riversa un flutto di nuove conoscenze norma-
tive, che evidentemente trae alimento da questa sor-
gente. Il VI secolo segna la nascita di tutte quelle
meravigliose idee fondamentali dello spirito greco che
sono diventate per noi come un simbolo _del suo carat·
tere essenziale e ci appaiono inscindibili dall'esser suo.
Esse non c'erano sin da principio, bensf spuntarono
in una successione storicamente condizionata. Il nuovo
intendimento della struttura della musica è uno dei
momenti decisivi di tale svolgimento. La cognizione
dell'essenza dell'armonia e del ritmo, che ne sorse,
basterebbe da sola ad assicurare ai Greci l'immorta-
lità nella storia dell'umana cultura. La possibilità d'ap-
plicare tale cognizione in tutti i campi della vita è
quasi illimitata. Come nell'assoluta continuità causale
della fede solonica nella giustizia, si schiude qui un
secondo universo di rigorosa normalità. Se Anassiman-
dro considera l'universo come un kosmos delle cose,
do.ve regna un'assoluta, infrangibile norma di giustizia,
il principio di tale kosmos, nell'intuizione pitagorica
del mondo, si presenta quale armonia 77). Se là la ne-

77) Arist. Met. I 5, 986 a 2 ss.


CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 309

cessità causale degli accadimenti - nel senso del « di-


ritto» che regge l'esistenza - era còlta nel tempo,
nell'idea dell'armonia si fa cosciente piuttosto l'aspetto
strutturale della normalità cosmica.
L'armonia si esprime nella relazione delle parti col
tutto, che si basa sul concetto matematico di propor-
zione, il quale si presenta nel pensiero greco in una
forma che ha evidenza geometrica. Quando si parla
dell'armonia dell'universo, trattasi d'un concetto com-
plesso, nel quale è compreso cosi il significato musicale,
l'idea del bell'accordo dei suoni, come quella di un ri-
gore numerico, di una regolarità geometrica e di una
disposizione tettonica. Immensa è l'efficacia dell'idea
d'armonia su ogni aspetto della vita greca nei tempi
ulteriori. Essa tocca l'arte figurativa e costruttiva come
la poesia e la retorica, la religione e l'etica. Dapper-
tutto si desta la consapevolezza che anche nell'attività
produttiva e pratica dell'uomo esiste una norma rigo-
rosa del conveniente (7tpbcov, &:pµ.6-r-rov), che, al pari
di quella del Diritto, non può violarsi impunemente.
Solo chi consideri in ogni campo il dominio assoluto di
tali concetti nel pensiero greco dell'età classica e post-
classica, si forma un'idea adeguata dell'efficacia nor-
mativa della scoperta dell'armonia. I concetti di ritmo,
misura, relazione, sono strettamente legati ad essa, o
ne ricevono un contenuto più preciso. Come per l'idea
del cosmo, cosi vale anche per l'armonia e per il ritmo
che la loro scoperta nella «natura dell'essere» è la
premessa necessaria della loro applicazione al mondo
interiore dell'uomo e ai problemi della vita.

Non ci è noto quale fosse l'intimo legame tra la


speculazione matematica e musicale e la dottrina della
migrazione delle anime di Pitagora. Come il pensiero
filosofico di quell'età è già di sua natura metafisico,
310 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

così col mito delle anim.e, che deriva dal cam.po del-
l'irrazionale, vi penetra dal di fuori una credenza
religiosa. Accostiamo a questa la dottrina, affine, degli
Orfici: essa fu probabilmente la fonte della concezione
pitagorica dell'anima. Anche i filosofi posteriori se ne
mostrano più o meno influenzati.
Il VI secolo, che, dopo il naturalismo dissolvente
del VII, è l'epoca delle battaglie decisive per un rinno-
vamento spirituale della vita, rappresenta uno slancio
imponente non solo per la serietà dello sforzo filosofico,
ma anche religiosamente. Il movimento orfico è una
delle testimonianze più cospicue di tale interiorità,
erompente con forza nuova dalle oscure profondità
della stirpe. Nella ricerca di un senso superiore della
vita, essa s'incontra con lo sforzo del pensiero razionale
per intendere filosoficamente una « norma universale»
oggettiva nell'esistenza cosmica. II contenuto dogma-
tico della credenza orfica non è, certo, molto cospicuo;
interpreti recenti l'hanno molto sopravalutàto, con l'in-
trodurvi molti elementi della tarda antichità, per ot-
tenere un quadro d'assieme adeguato ai loro concetti,
fissati a priori, di una religione della r.edenzione 78).

78) Cosi si poteva dire dopo Macchioro ed altri, p. es. O. KERN,


Die Religion der Griechen (Berlino 1926-38). Si veda, però, la
reazione critica contro l'esagerazione di quegli studiosi che ten-
devano a dare una ipotetica ricostruzione della religione orfica
di questo antico periodo, in WILA.lllOWITZ, Der Glaube der Helleneri
Il (1932) 199, e nel libro più recente di IVAN LINFORTB, The Arts
of Orphsus (1941). Le obiezioni di questi studiosi hanno avuto
un effetto moderatore, ma forse l'atteggiamento negativo è andato
con esse troppo oltre. Più moderato è W. R. GUTBIDE, Orpheus
ami Greek Religion (Londra 1935). Se noi accettiamo solamente
ciò che, attraverso una tradizione autorevole, può essere riportato
ad una primitiva setta che si desse il nome di orfica, quello che
troviamo non è certamente molto; ma forse la parola «orfismo»
non ha molta importanza, perché è lo specifico tipo religioso e
le sue caratteristiche, cioè il ~loç e la concezione mistica del-
l'anima-demone, che ci interessano qui, comunque tutto ciò fosse
chiamato.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 311

Tuttavia nella dottrina orfica delle anime si affaccia


un nuovo sentimento umano della vita e una nuova
forma della consapevolezza di sé. A differenza dalla
concezione omerica dell'anima, v'è nell'orfica un ele-
mento spiccatamente normativo. La credenza nell'ori-
gine divina dell'anima e nella sua immortalità implica
il dovere di conservarla pura nel suo presente stato
terreno, legato al corpo. Il credente si sente in obbligo
di render conto della propria vita 79). Abbiamo già in-
contrato in Solone l'idea di un conto da rendere. Là
era la responsabilità sociale del singolo verso la tota-
lità dello Stato; qui incontriamo una seconda sorgente
dell'esigenza etica d'una resa dei conti: l'idea religiosa
di purezza. La. purezza, concepita in origine soltanto
ritualmente, è ora tradotta in terln.:ini etici. Non va
scambiata con la purezza ascetica dello spiritua1ismo
ulteriore, per il quale il corpo è per se stesso male,
ma certi spunti dell'ascesi dell'astensione esistono già
nell'orfismo e nei Pitagorici, soprattutto la regola di
astenersi da ogni alimento carneo 86). Anche la svalu-
tazione del corpo s'inizia già, con la contrapposizione
7D) Cfr. E .. ROHDE, Psyche Il:-il cap. « Die Orphiker»; W. F.
Orro, Di.a Manen (Berlino 1923) 3.
80) L'astenersi da tutti i cibi camei è considerata caratteristica
del ~(or; orfico da Platone Legg. 782c; così Eur. Hipp. 952 ss.;
Aristoph. Ranae, 1032 ss. Scrittori antichi posteriori attribuiscono
la stessa norma a Pitagora, seguiti da alcuni studiosi moderni.
Ma questa tradizione non è affatto sicura, anche se i rituali degli
orgia orfici e pitagorici, furono messi in relazione e paragonati
tra loro sotto vari rispetti da Erodoto, II 81. Cfr. G. RA.TllMANN,
Quaestiones Pythagoreae Orphicae Empedocleae (Halis Saxonum
1933) 14 Ps. Aristosseno (Diog. L. VIII 26) negava l'autenticità
della tradh ione che attribuiva ai Pitagorici lastinenza dai cibi
carnei. In ruesto evidentemente si opponeva all'opinione dei
suoi cont<.mporanei. I « Pythagoristae » praticanti della regola
pitagorica 'a cui astinenza. era messa in caricatura dagli scrit-
tori della commedia nuova, pretendevano di essere i veri seguaci
di Pitagora. Ma proprio questo contestava Aristosseno, rappre-
sentante della corrente scientifica del pitagorismo. Cfr. J. BURNET,
Early Greek Philosophy (cap. su Pitagora) che crede nella tradi-
zione ·dell'astinenza pitagorica.
312 LIBRO I- L'ETÀ ARCAICA

radicale tra corpo ed anima, derivante dall'idea della


discesa dell'anima, quale ospite divina, in questa sfera
terrena e mortale. Purezza e contaminazione, peraltro,
furono a quanto pare, intese dagli Orfici affatto nel
senso d'osservanza o violazione della legge dello Stato.
Anche nel « diritto sacro» della Grecia arcaica esi-
steva il concetto del Puro. Bastava estenderne il campo,
perché l'idea orfica di purezza potesse accogliere tutto
quanto il contenuto del nomos vigente. Certo, ciò non
significa abbandonarlo ad un'etica civile in senso mo-
derno, ché il nomos greco è d'origine divina, anche
nella sua nuova forma esteriormente razionale. Ma,
col fondersi nell'idea orfica di purezza, riceve un fon-
damento nuovo, considerato secondo il criterio della
salute dell'anima individuale, di natura divina.
La diffusione del movimento orfico in Grecia e nelle
colonie, evidentemente rapidissima, ·si spiega soltanto
con la rispondenza ad un profondo bisogno degli uomini
di quell'epoca, che la religione fissata nel culto non
era in grado d'appagare. Anche gli altri freschi im-
pulsi religiosi dell'epoca, l'importanza immensamente
crescente del culto di Dioniso e la dottrina apollinea di
Delfo rivelano un crescente bisogno religioso personale.
La stretta vicinanza che univa Apollo e Dioniso nel
culto delfico rimane bensì un enigma per la storia delle
religioni; tuttavia i Greci sentirono evidentemente,
nella polarità d'opposizione di questi due elementi,
qualche cosa di comune, e ciò, nel tempo in cui ve li
troviamo l'uno accanto all'altro, sta nel loro modo
d'influire sull'interiorità dei credenti 81). Nessun altro
dio influiva così profondamente come questi due sul
contegno della personalità singola. Saremmo indotti a

81 ) Dioniso muove i cuori col potere del suo culto estatico,


Apollo col suo insegnamento morale e colla sapienza.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 313

credere che la forza limitatrice, ordinatrice e chiarifica-


trice dello spirito apollineo non avrebbe scossi così
profondamente gli animi, se la sconvolgente eccita-
zione dionisiaca, squassando ogni civica -eucosmia, non
le avesse preparato il terreno. La religione delfica è
in quell'epoca così intimamente viva, da dimostrarsi
capace d'attrarre tutte le forze costruttive della na-
zione, ponendole al proprio servizio. I « sette savi »
al pari dei re e tiranni più potenti del VI secolo ri-
conoscono nel profetico iddio l'istanza suprema cui
ricorrere per consiglio. Nel V secolo, Pindaro ed Ero-
doto sono profondissimamente compresi dello spirito
delfico, del quale sono testimoni principi. Persino nel
suo fiore, nel VI secolo, esso non trovò espressione in
documenti religiosi duraturi. Ma a Delfo la religione
greca attinse allora la sua suprema efficacia quale forza
educatrice, che si estendeva ben oltre i confini del-
l'Ellade 82). Sentenze famose di savi laici furono con-
sacrate ad Apollo, non sembrando che w:i'eco della
sua sapienza divina, e, sulla soglia del suo tempio,
chi entrava era ammonito dalla formula «conosci te
stesso», che inculca la dottrina della sophrosyne, il
mònito a tener presenti { limiti umani, con la conci-
sione della legge, caratteristica dello spirito dell'epoca.
Mal si comprende la sophrosyne greca, intendendola
come espressione di una natura innata, di un'indole
armonica che nulla può turbare. Per rendersene conto
basta chiedersi perché essa si presenti così imperiosa
appunto in quell'epoca dinanzi alla quale si riaprirono,
improvvisamente, con insospettate profondità, tutti gli

89) Sull'influenza morale della propaganda religiosa dell'Apollo


Delfico, cfr. WILAMOWITZ, Der Glaube der Hellenen II 34 ss.
Questo studioso parla a p. 38 del dio delfico come educatore per
i suoi precetti sui riti di purificazione e per le regole di vita con-
nesse.
314 LIBRO I -L'ETÀ ARCAICA

abissi dell'esistenza, e in ispecie quelli dell'umana inte·


riorità. La misura apollinea non è la parola d'ordine
d'una quiete e sazietà filistea. Per essa si argina la
sfrenatezza individualistica dell'uomo, diventa somma
empietà non già il «pensar cose umane» 83), bensì il
tender troppo in alto. Il concetto della hybris, spettante
in origine alla sola sfera del diritto terreno e inteso
affatto concretamente, che non significava altro che
l'opposto della dike 84), si estende ora in senso religioso.
Comprende ora anche la pleonessìa dell'uomo di fronte
alla divinità, anzi questo nuovo concetto della hybris
diviene l'espressione classica del sentimento religioso
nell'età dei tiranni. È il significato nel quale la parola
è passata nel linguaggio moderno; insieme con l'idea
dell'invidia degli dèi, ebbe a lungo parte preponderante
nel determinare l'idea che molti si fecero della religione
greca. La fortuna dei mortali è instabile come il giorno;
e cosi l'animo umano non deve tender troppo in alto.
Ma il bisogno umano di felicità trova una Via di scampo
che da questa tragica costatazione penetra nel suo mondo
interiore, sia nel rapimento dell'ebbrezza dionisiaca, che
si palesa anche in ciò complemento della misura e del ri·
gore apollinei, sia nella credenza orfica che l'anima sia la
parte migliore dell'uomo e che sia destinata a una
sorte più alta e più pura. Se. lo sguardo freddamente
pacato, che la mente indagante il vero ficca nel fondo
della natura, presenta appunto allora all'uomo lo spet·
tacolo del divenire e perire senza posa, se altro non
gli mostra che l'impero d'una legge universale incu·
rante dell'uomo e della sua meschina esistenza, la
quale con la sua ferrea « giustizia » calpesta senz'altro
la nostra effimera felicità, nel cuore dell'uomo si desta
83) Pind. Isth. IV 16; Nem. IX 47. Epicarmo, fr. B 20 (DIELS,
Vorsokratiker I), ecc.
M) Ha sempre questo significato in Omero ed Esiodo.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 315

quella forza interiore che vi si contrappone: la fede


nella propria destinazione divina. L'anima, ciò che non
può esser còlto in noi né reso tangibile da alcuna cono-
scenza naturale, si afferma un'intrusa in questo mondo
inospitale e cerca una patria eterna. La fantasia inge-
nua si raffigura immagini di una vita futura nell'aldilà
fatta di piaceri sensibili, lo spirito eletto si sforza di
reggersi in mezzo al vortice del mondo nella speranza
d'una redenzione mercé il compimento del suo cam-
mino. Ma entrambi concordano nella certezza del loro
destino superiore, e l'uomo pio, che approda all'aldilà,
sulla soglia di quel mondo professerà come parola d'or-
dine quella fede per la quale visse e sopportò la vita:
« Anch'io sono di stirpe divina». Sulle lamine auree
orfiche 85), più volte rinvenute in tombe dell'Italia meri-
dionale, quasi viatico funebre per il viaggio nel-
!' aldilà, stanno incise come segno di riconoscimento
queste parole.
Nello sviluppo della consapevolezza della persona-
lità umana, il concetto orfico dell'anima fu un gradino
essenziale. L'idea filosofica platonica ed aristotelica
della divinità dello spirito 86) e la distinzione dell'uomo
meramente sensibile dal suo vero Io, che è sua missione
perfezionare, sarebbe impensabile senza quello. Basta

86) DIELS, Vorsokratiker (Va. ed.) I 15; Orfeo, fr.17 ss. È vero
che queste lamine d'oro sono molto più tarde; ma l'Italia meridio-
nale dove furono trovate, fu per secoli la sede di questa fede reli-
giosa. Inoltre è probabile che ci sia stata una tradizione ininter-
rotta dal VI sec. a. C. fino al III, periodo a cui sono attribuite
le lamine d'oro di Petelia. Infatti, si deve considerare tanto il
conservatorismo proprio di ogni rituale e credenza religiosa, quanto
l'identità del tipo di religiosità presupposto da questi «passaporti
dell'anima», con l'antica credenza orfica nell'origine divina del-
l'anima-demone e del suo ritorno al cielo.
86 ) Il Fedone e la Repubblica mostrano più chiaramente questa
credenza; per Aristotele v. i frammenti del suo dialogo perduto
Eudemo e del 'lt"e:pt <pLÀoaocp(a:c; e il mio Aristotele (tr. it., pp.
51 ss., 57, 172).
316 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

considerare un solo filosofo, come Empedocle, imbevuto


dell'orfica coscienza della divinità, per comprovare la
continua affinità della nuova religione coi ~roblemi
del pensiero filosofico, che si manifesta per la prima
volta in Pitagora. Empedocle esalta Pitagora appunto
nel suo poema orfico delle «Purificazioni» 87). In Empe-
docle si compenetrano la credenza orfica nelle anime
e la filosofia ionica della natura. La sua sintesi mostra,
in maniera molto istruttiva, l'integrarsi reciproco di
queste due concezioni in una sola e medesima persona.
È come un simbolo di tale integrazione l'immagine
che Empedocle presenta dell'anima sbattuta di qua e
di là nel turbine degli elementi: aria, acqua, terra e
fuoco la respingono, palleggiandosela reciprocamente.
« Cosi anch'io sono ora uno sbandito da Dio, che vaga
errabondo» 88). Nel cosmo della filosofia naturale, l'ani-
ma non trova in nessun luogo il posto che le spetta, ma
si rifugia nella sua autocoscienza religiosa. Solo quando,
come in Eraclito 89), si combina con l'idea filosofica
stessa del cosmo, questa può bastare pienamente al
bisogno metafisico dell'uomo.

Col secondo dei grandi emigrati iomc1, che trova-


rono il proprio campo d'azione nell'Occidente greco,
Senofane di Colofone, lasciamo la serie dei severi pen-
satori. La :filosofia naturale Inilesia è nata dalla pura
indagine scientifica. Ma Anassimandro, col rendere ac-
cessibile la propria dottrina in forma di libro, indirizza
già la sua speculazione alla pubblicità. Pitagora è il
fondatore di una comunità che si prefigge l'attuazione
delle regole di vita del maestro. Sono spunti di un

87) Emped. fr. 129 (Diels).


88) Emped. fr. 115, 23.
89) Cfr. p. 342.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 317

indirizzo educativo, estranei per sua natura alla theoria


filosofica. Ma con la sua critica essa toccava cosi pro-
fondamente tutte le concezioni correnti, ch'era impos-
sibile il suo isolamento dal resto della vita dello spi-
rito. La filosofia della natura, a quel modo che riceveva
gli stimoli più ,fecondi dal movimento che si svolgeva
contemporaneamente nello Stato e nella società, cosi
restituiva ad abundantiam quanto aveva ricevuto. Se-
nofane è poeta; in lui lo spirito filosofico prende pos-
sesso della poesia: segno infallibile che questo inco-
mincia a divenire una forza culturale, giacché la poe-
sia continua ad essere la vera espressione della cul-
tura nazionale. Nell'anelito alla forma poetica si mani-
festa la totalità dell'efficacia umana della filosofi.a, che
abbraccia del pari intelletto e sentimento, e insieme
la sua aspirazione ad un'egemonia spirituale. La nuova
prosa, che viene dalla Ionia, non estende che a poco
a poco il proprio campo e non trova la stessa riso-
nanza, non foss'altro perché vincolata dal dialetto a
una cerchia più ristretta che la poesia, la quale si serve
della lingua d'Omero ed è quindi panellenica. E pa-
nellenica è l'influenza che Senofane aspira a dare alle
sue idee. Persino un rigoroso elaboratore di concetti
quale Parmenide, o un filosofo della natura quale
Empedocle, ricorrono alla forma esiodea della poesia
didascalica, incoraggiati forse dall'esempio di Senofane,
il quale, se non fu un vero pensatore né scrisse mai
una poesia didascalica intorno alla natura, come molti
gli attribuiscono 90), divenne tuttavia uno dei padri

90 ) Sulla questione del poema didascalico attribuito a Senofane,


v. BuRNET, Early Greek Philosophy, 115. Quando avevo già scritto
queste parole. K. DEICHGRABER pubblicò il suo articolo Xenophanes
m:pt cpucre:Cù<; in « Rhein. Mus. » 87 in cui vuol dimostrare resistenza
di un poema didascalico di Senofane sulla filosofia naturale. Io
ho trattato questa questione più particolarmente nelle mie con-
ferenze (Gifford Lectures 1936) non ancora pubblicate: The Theo-
318 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

della esposizione poetica d'una dottrina filosofi.ca, di-


vulgando nelle sue elegie e nei sill-Oi - nuova sorta
di poesia satirica - le idee evolute della fisica ionica 91)
e impegnando aperta lotta, conforme lo spirito di que-
sta, contro la cultura imperante.
La cultura, voleva dire anzitutto Omero ed Esiodo.
Come dice Senofane medesimo: da Omero hanno sem-
pre imparato tutti 92). Egli è perciò l'obiettivo centrale
m;:lla lotta per una nuova cultura 93). La filosofia ha
sostituito alla .concezione omerica del mondo una spie-
gazione naturale e regolare dei fenomeni. La fantasia
poetica di Senofane è colpita dalla grandezza di questa
nuova concezione 94'). Essa rappresenta ai suoi occhi il
distacco dal politeismo ed antropomorfismo del mondo

logy of the Early Greek Philosophers, a cui debbo rimandare il


lettore. Il Deichgraber stesso, p. 13 del suo articolo, ammette
che Aristotele e Teofrasto, cioè i due che nell'età .classica furono
di più appassionati ricercatori della storia dei pensatori più antichi
non considerano affatto Senofane fra i fisici, ma vedono in lui
un teologo. È vero. che due tardi grammatici, Cratete di Mallo
e Polluce citano un poema di Senofane in esametri a cui danno
il titolo di Ile:pl qiuawic;. Ma ciò non basta per affermare che si
trattasse di un poema del tipo e delle proporzioni dei poemi epici
«Sulla natura» di Empedocle o Lucrezio, special.mente quando
si sa che gli antichi usarono con molta libertà di questo titolo.
Questo modo di vedere è confermato dai frammenti conservatici.
I frammenti di Senofane raccolti dal DIELS, Vorsokratiker I, sotto
il titolo Ile:pl qiuae:<ilc; appartengono in parte, mi pare, ai Silloi
e hanno poco a che fare con un poema sulla fisica.
91) I silloi erano diretti contro tutti i filosofi e i poeti; cfr.
Xenoph. A 22, 25 Non posso discutere qui le relazioni di Senofane
con Parmenide: è argomento di cui intendo trattare altrove.
K. REINHARDT in Parmenides (Bonn 1916) combatte ropiuione
generalmente ammessa che Senofane sia stato il fondatore del
sistema Eleatico; non mi pare però che egli abbia ragione nel
farne un seguace di Parmenide. In realtà, la filosofia volgarizzata
di Senofane non mi pare basata su un sistema definito, e ciò si
applica anche alla sua dottrina della divinità di tutta la natura.
92) Xenoph. fr. 10 (Diels).
sa) Xenoph. A I (Diog. L. IX 18); A 22.
94) Questo è ovvio dai suoi stessi argomenti; questo non esclude
il fatto ricordato a n. 91 che egli anche abbia attaccato i fì.losofì
contemporanei (Pitagora?).
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 319

degli dèi, che Omero ed Esiodo - secondo il noto


detto d'Erodoto - diedero ai Greci 95). Hanno addos-
sato ai loro dèi ogni nefandezza - esclama Senofane,
- il furto, l'adulterio e l'inganno reciproco 96). Il suo
concetto della divinità, da lui proclamato col pathos
entusiastico del nuovo vero, coincide con l'universo.
Non v'è che un dio 97 ), non paragonabile ai mortali né
per la sua :figura, né per la sua mente. Esso è tutto
vista, tutto udito, tutto pensiero 98 ). Senza sforzo, col
solo pensiero, egli padroneggia ogni cosa 99). Non si
affaccenda di qua e di là come gli dèi dell'epos, bensì
riposa immobile in se stesso lOO). È stolta idea degli
umani, che gli dèi nascano ed abbiano :figura e indu-
menti umani 1°1). Se i buoi, cavalli e i leoni avessero
le mani e con esse potessero dipingere come gli uomini,
dipingerebbero l'aspetto e il corpo degli dèi a loro
immagine: bovi e cavalli 102). I negri credono in dèi
camusi e neri, i Traci in dèi dagli occhi azzurri e dai
capelli fulvi 103). Tutti i fenomeni del mondo esterno,
che gli uomini interpretano quali azioni degli dèi e
dinanzi ai quali tremano, dipendono da cause naturali.
L'arcobaleno non è che una nuvola colorita 104), il mare
è il grembo di tutte le acque, di tutti i venti e le nubi 105).
«Dalla terra e dall'acqua siamo sorti tutti» 106). «Terra

96) Her. II 53. Secondo lui, Omero ed Esiodo crearono la teogonia


dei Greci, perchè diedero agli dèi nomi (!'ltrovuµ(r.cL), onori, attività
e descrissero le loro figure (e:!lkoc).
96) Xenoph. fr. 11 e 12 (Diels).
•7) Arist. Met. I 5, 986 b 21-24; Xenoph. fr. 23 (Diels).
es) Xenoph. fr. 23, 24.
99) Xenoph. fr. 25.
100) Xenoph. fr. 23.
101) Fr. 14.
102) Fr. 15.
103) Fr. 16.
104) Fr. 32.
105 ) Fr. 30.
106 ) Fr. 33.
320 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

ed acqua è tutto quanto nasce e cresce » 107). « Tutto


viene dalla terra e tutto alla terra ritorna » 108). La ci-
viltà non è un dono degli dèi ai mortali, come insegna
il mito; sono invece gli uomini stessi, che, con le loro
ricerche, hanno trovato e via via perfezionato ogni
cosa 109).
Di tutte queste idee nemmeno una è nuova. Anas-
simandro e Anassimene non pensarono, in fondo, nulla
di diverso: sono essi i creatori di questa concezione
naturalistica. Ma Senofane ne è l'alfiere e banditore
ardente. Esso lo ha afferrato non solo col suo impeto
distruttore di tutto il vecchio, ma anche con la sua
forza creatrice religiosa e morale. Allo scherno mor-
dace delle insufficienze dell'immagine omerica del mondo
e della divinità, si accompagna in lui lo svolgimento
della nuova e più degna fede. È appunto l'influenza
rivoluzionaria della nuova verità su la vita e la cre-
denza umana, che ne fa il fondamento· di un'educa-
zione nuova. Il cosmo della filosofia naturale, ripercor-
rendo a ritroso il cammino dello spirito, diviene ora il
modello dell'eunomia nella comunità sociale 110), e in
esso trova fondamento metafisico l'etica, della polis.
Senofane scrisse anche altre poesie oltre le filo-

Fr. 29.
167 )
108)Fr. 27.
109)Fr. 18. La versione data nel Prometeo di Eschilo (v. 506)
secondo la quale Prometeo fu l'inventore di tutte le arti (i:éxvoci)
presuppone l'idea di Senofane che l'uomo abbia trovato da solo
tutta la civiltà. Ogni lettore fornito di spirito filosofico ha sempre,
giustamente, visto in Prometeo il simbolo del genio creatore
dell'uomo, anche se nel dramma di Eschilo egli è un vero e proprio
dio. La versione del mito data da Eschilo è a mezza strada fra
l'antica leggenda che concepiva un dio per ogni arte, come
inventore, e l'idea razionale che l'uomo stesso abbia creato ogni
cosa senza l'aiuto divino. Per Eschilo, Prometeo fu l'ipostasi
divina di questa creativa ed antarchica concezione dell'uomo.
110) Questo è mostrato dalle due più ampie elegie di Senofane,
fr. 1 e 2. V. in particolare 2, 19 sull' e:òvoµbj della polis e i suoi
rapporti con la croq:>(1J.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 321

sofiche: un'epopea su «la Fondazione di Colofone » e


una « Fondazione della colonia d'Elea ». Nella prima
quest'uomo irrequieto, che in una sua poesia, vegliardo
di 92 anni, poteva rivolger lo sguardo a 67 anni di
perpetue peregrinazioni ll1), iniziate prohahilmP~te emi-
grando da Colofone alla volta dell'Italia meridionale, ha
elevato un monumento alla sua antica patria ii2). Forse
partecipò egli stesso alla fondazione d'Elea 113 ); ad ogni
modo anche in quest'opera, in apparenza impersonale.
v'era più sentimento personale del consueto. Le poei;.:..,
filosofiche sorgono interamente dall'esperienza perso-
nale delle nuove dottrine profondamente innovatrici
ch'egli portò, dall'Asia Minore, nel suo ambiente della
Magna Grecia e della Sicilia.
Si è ritenuto Senofane un rapsodo che sulla pub-
blica piazza recitasse Omero, ma in privato le proprie
poesie satireggianti Omero ed Esiodo 114). Ciò mal si
adatta all'unità della sua personalità, che imprime il
proprio suggello inconfondihilf' a ciascuno dei suoi detti
pervenutici. Non si tratta infatti che di un frainten-
dimento della tradizione. Egli situa le sue poesie nel bel
mezzo del pubblico contemporaneo, come mostra il

lll) Xenoph. fr. 8.


m) Diog. L. IX 20 (Xenoph. A I Diels).
113) V. n. 112.
114) Tu. GOMPERZ, Griechische Denker I p. 129, ha rappresentato
Senofane come un rapsodo omerico errante, che nelle ore di ozio reci-
tava anche le sue poesie pubblicamente. Questa idea risale a Diog.
L. IX 18 (DIELS, Vorsokratiker I, Xenoph. A I), che scrive ocÀÀoc
xod ocù-.òc; tppoc<Jicl>lìs:~ -.ci ~ocuToii. Ma queste parole non possono
intendersi come antitesi alla recitazione di Omero, che non è
affatto menzionata. Sono precedute da una enumerazione delle
varie forme di poesia che egli scrisse e Diogene vuol dire che Seno-
fane non solo scrisse queste poesie, ma anche che le declamava nei
suoi viaggi per la Grecia; ciò che non era certo di uso comune.
La parola ~a;<Ji'l>lìe!v non significa altro che «declamare», e non
include certo, e tanto meno nel greco scolorito del II sec. d. C.,
l'9ttiviti'I epecifìca del rapsodo omerico.
322 LIBRO I - L'FfÀ ARCAICA

grande carme conviviale 115). È la scena solenne deJ sim-


posio arcaico, pieno ancora di profonda gravità reli-
giosa. Ogni particolare della cerimonia, che l'occhio
del poeta coglie, assurge nella sua descrizione a un si-
gnificato superiore. Il simposio è ancora il luogo di
celebrazione delle grandi imprese degli dèi e dei mo-
delli di virtù virile. E Senofane impone che si taccia
delle brutte discordie tra gli dèi e delle lotte dei titani,
giganti e centauri, invenzioni dell'età precedente,
che altri cantori si compiacevano di esaltare a ban-
chetto, e d'onorare piuttosto gli dèi e di tener vivo
il ricordo della vera areté 116). Che cosa egli intenda per
onorare gli dèi, l'aveva detto negli altri canti; da que-
sta locuzione desumiamo soltanto che la critica delle
tradizionali rappresentazioni degli dèi, nelle poesie di
lui rimasteci, era poesia conviviale. Essa è imbevuta
dello spirito educativo del simposio arcaico. All'idea
dell'areté, che vi si coltiva, si unisce per lui la nuova
e più pura celebrazione degli dèi e la nozione dell'or-
dine eterno dell'universo 117). Per lui la verità filoso-
fica diviene guida alla vera areté umana.
Trova qui il suo luogo un secondo ampio carme 11 8)
dedicato alla medesima questione. Esso mostra Seno-
fane che lotta appassionatamente per affermare il suo
nuovo concetto dell'areté. È un documento di prim'or-
dine per la storia della cultura, sicché non pos-
siamo tralasciarne qui un esame diffuso. Esso ci tra-
sporta in un ambiente di struttura sociale arcaico-aristo-
cratica, totalmente diverso dalla nativa Ionia del poeta
col suo sciolto assetto sociale. L'ideale virile cavalle-

115) Xenoph. fr. 1 (Diels).


118 )Fr. I, 20.
11 7) Mantenere un giusto concetto della dignità e della grandezza
degli dèi fa parte della pietà religiosa e, pertanto, dell'areté.
Così si deve intendere il fr. I, 20-24.
11s) Fr. 2.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 323

resco dell'olimpionico conserva anche qui tutto il suo


valore, quale risplende ancor una volta di viva luce,
nella stessa epoca, nei cori pindarici, per impallidire
poi sempre più. La sorte, con l'invasione dei Medi
nell'Asia Minore e con la rovina della sua città natale,
ha sbalestrato Senofane in questo ambiente, a lui
estraneo, dell'Occidente greco, nel quale, sebbene vi re-
stasse quasi sette decenni da quando vi emigrò, non
mise mai radice. In tutte le città greche in cui si pre-
sentò, si ammirarono i suoi versi, si accolsero con stu-
pore le sue nuove dottrine. Certo egli sedette anche
alla mensa di molti ricchi e distinti personaggi, come
ce lo rappresenta il noto aneddoto dell'arguta conver-
sazione col tiranno Gerone di Siracusa ll9), ma in quel-
l'ambiente l'uomo di pensiero come tale non trova
mai l'ovvio apprezzamento né l'alta considerazione so-
ciale che gode nella nativa Ionia: egli rimane isolato.
In tutta la storia della cultura greca non v'è esem-
pio più evidente dell'inevitabile conflitto tra l'arcaica
cultura aristocratica ellenica e il nuovo tipo d'uomo
filosofo, che qui per la prima volta lotta per il suo
posto nella società e nello Stato, presentandosi con un
ideale suo proprio della cultura umana, che esige rico-
noscimento generale. Sport o spirito; in questo aut-aut
sta tutta la violenza dell'attacco. L'assalitore sembra, è
vero, debba cozzare vanamente contro le rigide mu-
raglie della tradizione, ma il suo grido di guerra ri-
suona come un clamore di vittoria, e il corso ulteriore
degli eventi ha dato ragione alla sua fiducia, spezzando
la tirannia dell'ideale agonale. Senofane non è in grado
di ravvisare come Pindaro, in ogni trionfo olimpico,
sia nella lotta, sia nel pugilato, nella corsa a piedi o
in cocchio, la rivelazione d'una areté divina del vinci-

lll) Xenoph. A II (Diel11),


324 LlBRO I - L'ETÀ ARCAICA

tore 120). «La città copre d'onori e di doni il vincitore


Jelle gare, eppure non è degno quanto me, - esclama
4

egli, - ché è pur migliore della forza degli uomini


e dei cavalli la nostra sapienza ! È un falso nomos,
che ci fa giudicare così. Non è giusto anteporre alla
saggezza la mera forza corporale. Ché, se anche una
polis abbia tra i suoi cittadini un pugilatore eccellente
o il vincitore nel pentathlon o nella lotta, è ben lungi
dall'essere per questo in buon ordine (civoµ.hi), e, per
quanto una città si allieti d'una vittoria nelle gare di
Pisa, questa non riempie già i suoi granai» 121).
Questa motivazione del valore della conoscenza
filosofica ci riesce sorprendente, ma non fa che mo-
strarci nuovamente, con chiarezza abbagliante, che la
polis e la sua salute è la misura assoluta di tutti i va-
lori. Qui doveva puntare Senofane, se voleva far va-
lere l'uomo filosofo di contro al precedente ideale vi-
rile. Ci sovviene quel carme di Tirteo, nel quale egli
aveva proclamato l'assoluta superiorità della virtù civile
spartana, il val.ore guerresco, rispetto a tutti gli altri
pregi dell'uomo, e in ispecie alle virtù agonali dell'olim-
pionico. «Questo è un bene comune a tutta la polis» -
aveva detto, e per la prima volta, in quei ~ersi, lo spirito
dell'eticità politica si era levato contro l'antico ideale
cavalleresco 122). In nome della polis era poi stata esaltata
la giustizia quale somma virtù, quando lo Stato secondo
il diritto subentrò all'antico 123). In nome della polis,
Senofane proclama ora la sua nuova forma dell'areté,
la cultura dello spirito (aoi:pt"I)). Essa elimina tutti gli
ideali precedenti, accogliendoli in sé e suh~rdinando­
seli. È la forza dello spirito, che crea nello Stato il

120) V<- il cap. su Pindaro p. 372 u.


121 ) Fr. 2, 11-22.
122 ) V. p. 182.
118) V. P· 206 H.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 325

diritto e la legge, il buon ordine e il benessere. Seno·


fane ha presa volutamente a modello l'elegia di Tirteo,
immettendo nella forma di questa, cosi adatta al suo
scopo, il nuovo contenuto de] proprio pensierol.24). Con
questo gradino, lo sviluppo de] concetto politico del-
l'areté ha conseguito la sua mèta: prontezza, senno e
giustizia, infine la sapienza - ecco le qualità che an·
cora per Platone costituiscono l'essenza dell'areté ci-
vile. Nell'elegia di Senofane la nuova « virtù dello·
spirito», la aoqi(oc, destinata ad avere funzione tanto
cospicua nell'etica filosofica 1 25), affaccia per la prima
volta le sue pretese. La filosofia ha scoperto la propria
importanza per l'uomo, cioè per la polis. Il passo
dalla pura contemplazione del vero alla rivendicazione
del diritto alla critica e alla direzione della vita umana
è compiuto.
Senofane non è un pensatore originale, ma per la
storia ideale dell'età sua è una figura importante. Il
capitolo «filosofia e formazione dell'uomo» s'inaugura
con lui. Euripide ancora combatterà con armi desunte
da Senofane la sopravalutazione tradizionale dell'atle-
tismo presso i Greci 126), e la critica che Platone fa del-
l'uso ·educativo dei miti omerici segue la medesima
direttiva 127).

Parmenide d'Elea va annoverato tra i pen·


satori sommi, ma la sua importanza nella storia della

=) V. il mio Tyrtaios (« Sitz. Berl. Akad.» 1932) 557.


12i) La virtù della sapienza (croljl(et) appare nella filosofi.a politica
di Platone come la più alta areté. È la virtù dei reggitori della
sua repubblica. Nell'Etica di Aristotele è la più importante delle
cosidette virtù intellettuali (3~etV07Jnxetl &ps:-ret() di cui si parla
nel I. VI.
12 6 ) Euripide riprese la polemica di Senofane contro gli atleti
nella tragedia per noi perduta, Autolico, fr. 282 Nauck (DIEI.S,
Vorsokratiker I, Xenoph. C 2).
127) « Paideia » II 366-368.
326 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

cultura non può esser propriamente apprezzata se non


considerando in complesso la storia, foltissima ed este-
sissima, dell'ulteriore influenza dei suoi spunti ideali
fondamentali. Lo ritroviamo in tutti gli stadi dello
sviluppo filosofico dei Greci, e inoltre egli rappresenta
sino ad oggi, quale archegheta, uno dei tipi eterni di
mentalità filosofica. Oltre alla filosofia naturale milesia
e alla speculazione numerica pitagorica, si affaccia con
lui una terza forma fondamentale del pensiero· greco,
la cui importanza penetra profondamente, oltre i con-
fini della filosofia, nella vita tutta dello spirito: l' ele-
mento logico. Nella filosofia naturale anteriore domi-
nano altre forme spirituali: la fantasia guidata e con-
trollata dall'intelletto, il senso plastico e architetto-
nico che distingue i Greci, che cerca di disporre e ordi-
nare coi suoi mezzi il mondo visibile, e un pensiero
simboleggiante, che interpreta l'Essere extra-umano
movendo dalla vita umana.
L'universo di Anassimandro è simbolo intuitivo del
divenire e perire cosmico, al disopra dei cui vivi con-
trasti si leva dominatrice l'eterna ilike. Il pensiero con-
cettuale, invece, resta qui affatto in secop.da linea 128).
Le proposizioni di Parmenide sono un edificio stretta-
mente logico, compenetrato della coscienza dell'impe-
rioso rigore del ragionamento. Non a caso i frammenti
superstiti dell'opera sua sono le prime serie di propo-
. sizioni filosofiche ampie e concatenate che possediamo
m greco. Il significato di tale pensiero non si mani-

128) Tuttavia ha forse ragione K. REINHARDT, al cui libro


io devo molto, quando dice (Parmenides 253) che Anassimandro
nel dedurre i predicati di «immortale» e «imperituro» dalla natura
dell'apeiron fece il primo passo verso la deduzione puramente
logica, propria di Parmenide, dei predicati dell'Essere assoluto,
dalla sua essenza. Ho trattato più ampiamente questo problema
nelle mie Gifford Lectures del 1936 (v. n. 57). La mescolanza
di elementi empirici e speculativi del pensiero dell'antic11 Gi-ecill
we:ritll l!l nost:ra attenziolle·
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 327

festa e non è comunicabile che nel processo del pen-


sare per se stesso, non già nel quadro statico che ne
è il prodotto 129). La forza con la quale Parmenide in-
culca all'uditore le sue teorie fondamentali, non deriva
da zelo dogmatico di persuasione, bensì dalla neces-
sità logica che in esse trionfa. Anche per Parmenide,
la mèta suprema cui possa giungere l'indagine umana
è la conoscenza di un'assoluta Ananke, ch'egli chiama
anche Dilre o Moira, richiamandosi, certo volutamente,
ad Anassimandro 130). Ma parlando della dike, la quale
serra l'Esistente nei propri vincoli e non lo lascia,
sicché esso non può né divenire, né perire, egli non
vuol dire soltanto che la sua dike ha funzione opposta
a quella d' Anassimandro, la quale si manifesta ap-
punto nel divenire e nel perire delle cose. La dike
di Parmenide, che tien lontano dal suo Essere ogni
divenire e perire, facendolo riposare immobile in se
stesso, è la necessità insita n e l c o n c e t t o stesso
dell'Essere, intesa quale « diritto» dell'Essere 131). Nelle
proposizioni continuamente inculcate: - l'Essere è, il
Non-essere non è 132 ); l'Essere non può non essere, il Non-
essere non può essere; - .si esprime per Parmenide
quella necessità ideale che deriva dal riconoscimento
dell'impossibilità della contradizione logica;
Questo carattere costrittivo di ciò che si coglie nel
puro pensiero è la grande scoperta che domina la filo-
sofia dell'Eleate. Essa determina la forma del tutto
polemica in cui egli svolge le sue idee. Peraltro, ciò
che nei suoi principii appare a noi scoperta d'una legge

129) Parm. fr. 8, 12, parla della forza della certezza (7tlcr·noc;
tcrxòc;). Il «cuore della Verità» è incrollabile (&:rpeµ~c; fr. 1, 29);
la sola 1ì61;oc è priva di un vero potere di convincere (1, 30).
130 ) Anan.ke fr. 8, 16 (Diels), Dike 8, 14, Moira 8, 37; cfr. anche
l'uso frequente di xp-fi, XPEWV, ecc.
J.31) Fr. 8, 14.
132) Fr. 4; 6; 7.
328 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

logica è per lui una conoscenza oggettiva e concreta,


che lo pone in conflitto con tutta la filosofia naturale
precedente. Se è vero che l'Essere mai non-è e che il
Non-essere mai è, per Parmenide, come si è detto,
ne consegue che il divenire e il perire sono impossi-
bili 133). Altro insegna, veramente, l'apparenza visibile, e
a questa si erano ciecamente fidati i filosofi della na-
tura, facendo sorgere l'Essere dal Non-essere e dissol-
versi nel Non-essere. È l'opinione che condividono, in
fondo, tutti gli umani, giacché si fidano tutti della
testimonianza degli occhi e degli orecchi, invece di
interrogare il proprio pensiero, che solo può condurre
a una certezza indubitabile. Il pensiero è l'occhio e
l'orecchio intellettuale dell'uomo, e chi non lo segue
è simile al cieco e al sordo 134) e s'impiglia in contradizioni
senza uscita. Alla fine, egli è ridotto a considerare Es-
sere e Non-essere come la stessa cosa _eppure altra
cosa 135). Chi fa derivare l'Essere dal Non-essere, pone
al principio l'assolutamente Inconoscibile,, ché ciò che
non è non può esser conosciuto: alla vera conoscenza
deve corrispondere un oggetto 136). Chi ricerca la verità
deve quindi distogliersi dal mondo sensibile del di-
venire e del perire 137), che lo conduce a proposizioni così
impensabili, per rivolgersi al puro Essere, che coglie col
pensiero. «Ché Pensare ed Essere sono una cosa» 138).
La maggior difficoltà del puro pensare sta sempre
col pervenire ad una qualche conoscenza concreta del
suo oggetto. Nelle parti superstiti dell'opera sua, Par-
menide appare intento a dedurre dal suo nuovo e ri-
goroso concetto dell'Essere una serie di determinazioni

1aa) Fr. 8, 3; 8, 13 ss.; 8, 38.


134) Fr. 6.
1a•) Fr. 6, 8.
1 36 ) Fr. 8, 7 H.
1~ 7 ) Fr. 8, 14.
ias) Fr, 5,
cAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 329

che gli spettano essenzialmente : pietre miliari, le chiama


il filosofo, sul cammino dell'indagine su cui ci conduce
il pensiero puro 139). L'Essere è non-divenuto, quindi
·immortale, intero ed unico, incrollabile, eterno onni-
presente, uno, continuo, indivisibile, uniforme, in sé
illuminato e chiuso. È perfettamente evidente che tutti
i predicati positivi e negativi, che Parmenide enuncia
del suo Esistente, sono ricavati dal riscontro della
filosofia naturale anteriore e derivano dall'accurata ana-
lisi critica dei loro presupposti ideali 140). Non è qui il
luogo di mostrarlo punto per punto. Le nostre possi-
bilità d'intendere sono purtroppo limitate, appunto per
Parmenide, dalla lacunosità della nostra conoscenza
della .filosofia anteriore. Certo vi è continuo il riferi-
mento ad Anassimandro; può darsi inoltre che al pen-
siero pitagorico mirino gli attacchi di Parmenide, seb-
bene qui non possiamo che cercar d'indovinare 141 ). Non
è qui luogo per un'interpretazione sistematica del ten-
tativo parmenidèo di scardinare, in base al suo nuovo
criterio, la filosofia naturale in blocco; né per una
analisi delle aporie cui mette capo il pensiero conti-
nuando con coerenza la sua via. Con esse lottano so-
prattutto gli scolari di Parmenide, tra i quali spetta
importanza del tutto personale a Zenone e a Melisso.
La scoperta del pensiero puro e della rigoros·a ne-
cessità logica si presenta in Parmenide come conquista
di una nuova «via», anzi dell'unica via praticabile,
conducente alla verità 142). L'immagine della retta via
(òMç) dell'indagine ricorre continuamente, e, per quanto

188) Fr. 8.
l«O) Cfr. K. RiEZLER, Parmenides 10 ss.
lil) Quest'è stata l'opinione comune di quasi tutti gli studiosi
moderni. Essa si fonda in parte sni concetti di mspo:ç e &m: Lpov,
in parte sulle opinioni combattute nella parte del poemll di Parm~·
nide che tratta della 8 6~o:. ·
Ull} Fr. 1, 2; 4; 6; 8, 1,
330 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

sia ancora mera immagine, tuttavia ha già un sapore


quasi terminologico; specialmente nella contrappo-
sizione tra la via retta e la fallace, dove si avvicina al
significato di «metodo» l 43)., Qui ha sua radice questo
concetto scientifico fondamentale. Rarmenide è il primo
pensatore che abbia posto consapevolmente il problema
del metodo filosofico, distinguendo chiaramente le due
vie principali, percezione e pensiero, nelle quali si scinde
quind'innanzi la filosofia. Quanto non è conosciuto per
la via del pensiero, non è che «umana opinione» 144).
La salvezza si fonda unicamente sul passaggio dal
mondo dell'opinione a quello della verità. Parmenide
sentì personalmente tale trapasso come qualche cosa
di violento e grave, ma grande e liberatore. Esso dà
all'enunciazione delle sue idee lo slancio grandioso e
il pathos religioso che la rendono, oltre il campo della
logica, umanamente commovente. È infatti lo spetta-
colo dell'uomo che lotta per la conquista della cono-
scenza, che per la prima volta si affranca dall'appa-
renza sensibile della realtà e scopre nello spirito I' or-
gano per abbracciare la totalità e l'unità dell'Essere.
Per quanto questa nozione sia ancora , commista a
molto di problematico, con essa spunta una delle atti-
vità fondamentali secondo cui i Greci plasmarono il
mondo e l'uomo. Ogni riga di Parmenide palpita del-
l'esperienza sconvolgente di tale indirizzarsi dell'inda-
gine umana verso il pensiero puro.
· Quest'esperienza spiega la ripartizione dell'opera sua
in due parti crudamente contrapposte: « verità » e
« opinione» 145). E di qui si scioglie anche il vecchio

143) Cfr. OTFRIED BECKER, Das Bild des Weges.... im friih-


griechischen Denken (Einzelschrift z. « Hermes », Heft 4, 1937).
144) Fr. 8, 51.
Uli) Nei vv. 50-52 (fr. 8), Parmenide passa dalla prima parte
della sua opera, che tratta solamente della Verità (à.).:fi.&e~cx:) alla
seconda, che tratta dell'opinione (~6l;cx:).
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 331

enigma: come la nuda logica di Parmenide vada accop-


piata al suo sentimento poetico. Soluzione troppo fa-
cile è il ritenere che, in quell'epoca, addirittura ogni
soggetto fosse atto ad esser trattato nel metro d'Omero
e d'Esiodo. Parmenide ·diventa poeta in virtù del sen-
timento entusiastico d'essere il campione d'una cono-
scenza toccatagli come rivelazione della Verità stessa.
È cosa diversa dal fare altezzoso di Senofane: la poesia
di Parmenide s'informa a un'altera modestia e, s'egli
è inflessibile ed esigente nella sostanza, poi sente di
non essere che un ricettacolo della grazia di una Po-
tenza superiore, cui sta reverente dinanzi. Il p_roemio
è enunciazione immortale 146) di questa inspirazione :filo-
sofica. Ad un esame più attento, l'immagine dell' «uomo
saggio» 14 7), che va incontro alla verità, è tolta dalla
sfera religiosa. Il testo è guasto nel punto decisivo,
ma la lezione originaria, a mio credere, si può ancora
ricostruire. L' « uomo saggio» è l'iniziato, chiamato a
contemplare i misteri del vero. Sotto questo simbolo
s'intende la nuova nozione dell'Essere 148), e la via che
lo conduce alla mèta « intatto» - così leggo io - è
la via della salvezza 14 9 ). Questa derivazione dalla sfera
fantastica dei misteri, che assumevano allora grande
importanza, è altamente caratteristica dell'orgoglio me-

14•) Fr. 1.
147 ) Fr. 1, 3.
148) Sul paragone tra la conoscenza e la iniziazione ai misteri,
v. la legge d'Ippocrate, « Paideia» III 19. J_>iù ~ar~ Platone n~l
Simposio, 210a e 210e, usa la metafora dei IIDsten per la via
della conoscenza e per l'iniziazione nel culto del vero Eros;
v. « Paideia» II 329 s.
149) Fr. 1, 3. Spesso è stato rilevato che la lezione accettata
contiene nna metafora assurda, descrivendo la via che conduce
!'nomo alla ·verità « attraverso tutte le città» (xoc-riX. miv-r' &<H7J
qiépE ~ d lì 6-roc 'P Ù>Toc ). La congettura del Wilamowitz xoc-riX. rr&:noc
.:octj non è felice. Dopo aver fatto la congettura xoc.:iX. 7tcXV.:' &cr~11'ij,
trovo che essa era stata già suggerita dal Meineke, il che è nna
b11ona raccom;mdazione. ·
332 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

tafisico della filosofia. Se fu detto che per P11rmenide


Dio e sentimento sono indifferenti a petto del pensiero
rigoroso e delle sue esigenze, ciò va modificato nel
senso che questo pensiero e la verità ch'esso coglie
rappresentano essi per lui qualche cosa di religioso 158 ).
In base a questo sentimento della sua missione supe-
riore, egli poté per primo dare viva figura umana, nel
proemio del suo poema, all'immagine del filosofo: la
figura dell' «uomo saggio», che le figlie della Luce
guidano, lungi dal sentiero degli uomini, lungo la se-
vera via che porta alla dimora del Vero.

Se la filosofia, dopo la VIcmanza alla vita attinta


con l'atteggiamento illuministico-educativo di Seno-
fane, sembrava invece in Parmenide avere ancora oltre-
passat-0 il suo originario distacco dalle cose umane,
giacché nel suo concetto dell'Essere dilegua ogni con·
creta esistenza singola e quindi anche l'uomo; in E :r a -
cl i t o d'Efeso, poi, si compie sotto questo· rispetto il
rivolgimento più pieno. La tradizione della storia della
filosofia lo ha annoverato a lungo fra i filosofi della
natura, ponendo il suo principio primo, ,il fuoco, ac-
canto all'acqua di Talete e all'aria di Anassimene 151).
La pregnante concisione delle parole enigmatiche, spesso
aforistiche, dell' «oscuro» avrebbe dovuto preservare
il suo impeto, a stento rattenuto, dall'essere scambiato
con uno studio tutto consacrato alla spiegazione delle
cose. In Eraclito non si trova mai traccia di una con-
siderazione meramente dottrinale dei fenomeni e nem-
meno l'ombra d'una teoria puramente fisica. Ciò che
potrebbe intendersi per tale, fa parte di un complesso

UO) K..-·RE1NHABDT, Parmenides 256.


161) Questa interpretazione risale ad Aristotele che nella Meta-
fisica e nella Fisica pone Eraclito come uno degli antichi monisti.
CQsi a~che !'fa i moqerni Eduard Zellei.-, Th. Gomperz, J. a~et;.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 333

più vasto e non è fine a se stesso. Eraclito è fuor


di dubbio - si trova sotto l'impressione profonda della
filosofia della natura. Il quadro generale ch'essa dà
della realtà, il cosmo, l'infinita altalena del divenire
e del perire, l'inesauribile principio primo onde sorge
ed in cui si riimmerge, il circolo delle forme sempre
mutevoli, che l'Esistente percorre; tutto ciò, nelle sue
grandi linee, è saldo possesso del suo pensiero.
Ma se i Milesii, e più crudamente ancora Parmenide,
in lotta con loro, per concepire oggettivamente l'Essere
si erano distanziati al possibile da questo, cancellando
il mondo dell'uomo dal quadro della natura, in Era-
clito il cuore umano è il centro paziente-agente, ap-
passionatamente sensitivo, dove s'incontrano i raggi
di tutte le forze del cosmo. La legge universale nel
suo imperio non è per lui un lontano e sublime spetta-
colo, nella cui contemplazione immergendosi lo spirito
dimentichi se stesso, diventando la totalità dell'Esi-
etente; hensi l'accadimento cosmico attraversa per il.
mezzo quest'osservatore. Egli sa che tutto ciò ch'egli
dice o fa non è che l'effetto di tale forza .in lui, seb-
bene la maggior parte degli uomini non sappia d'essere
mero strumento nelle mani di un ordinamento supe-
riore 152). Questa è la grande novità che si affaccia con
Eraclito. L'immagine del cosmo 153) è portata a compi-
mento dai suoi predecessori, l'eterno contrasto tra Es~
sere e Divenire si è manifestato all'uomo: ora lo assale
con impeto inaudito il problema del come l'uomo possa
sostenersi in mezzo a tale lotta. Mentre la sete d'inda-
gine della composita «istoria» milesia, che s'alimenta

1°2) Cfr. Heracl. fr. l (Diels); seconda sentenza, fr. 2. Su Eraclito


v. O. GIGON, Untersuchungen zu Iieraklit (Lipsia 1935).
153) Heracl. (fr. 30, 75. 89) usa regolarmente la parola cosmos
in modo tale da mostrare che egli ha preso questo concetto dai
!luoi predecessori. Diversamente K. REINRABDT, op. cii. p; 50.
334 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

di se stessa, in Ecateo e in altri contemporanei affini,


con la sua razionalistica saggezza infantile, instanca-
bile e avida afferra e s'incorpora sempre nuovo conte-
nuto cosmico, terre e popoli e tradizioni remote, Era-
clito pronuncia l'aspra sentenza: « Le molte nozioni
(poly·mathia) non danno il nerbo della mente» 154) e si
fa fondatore d'una filosofia di cui tutta l'importanza
rivoluzionaria è racchiusa in quest'unica profonda sen-
tenza: «Io ho indagato me stesso» 155). Non v'è espres-
sione più grandiosa dell'indirizzarsi della filosofia al-
l'uomo, che ha luogo in Eraclito.
Nessun pensatore, prima di Socrate, suscita la no-
stra simpatia personale al pari d'Eraclito. Egli si trova
al colmo della libertà di pensiero ionica, e noi siamo
tentati d'intendere una sentenza come quella testé ci-
tata anzitutto quale prova di un orgoglio dell'Io por-
tato al sommo. L'imperiosa altezzosità dell'atteggia-
mento d'Eraclito, discendente da stirpe nobilissima, ci
appare a prima vista quale superbia arist<tcratica ele-
vata a vero valore dallo spirito personale. Ma l'inda-
gine di se stesso, della quale egli parla, nulla ha a
che fare con l'approfondimento psicologic9 del proprio
carattere personale. Essa rappresenta, oltre all'intui-
zione sensibile-intellettuale e al pensiero logico (le due
vie sino allora battute dalla filosofia), lo schiudersi di
una nuova sfera della conoscenza mediante il ripie-
garsi dell'anima su se stessa. Col detto d'Eraclito, aver
egli indagato se stesso, è intimamente legata un'altra
proposizione: «Tu non troverai i confini dell'anima,
per quanto lontano tu ti spinga, tanto profondo è il
suo Logos » 156). Il senso originario d'una dimensione

154) F.r. 40. Per Eraclito sono rappresentanti di questo tipo di


noÀuµcdl·l'7) Esiodo, Senofane, Ecateo e Pitagora.
li&) Fr. 101 ilh!; '7)0"cl[L'7)V èµl!:6>U't'6'1.
156) Fr. 45.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 335

della profondità nel Logos e nell'anima è caratteri-


stico del suo pensiero. Tutta la sua filosofia sgorga da
questa nuova sorgente di conoscenza.
Il Logos di Eraclito non è il pensiero concettuale
(voEi:v, v6'Yjµix) di Parmenide 157), la cui logica puramente
analitica esclude la rappresentazione immaginosa di
un'interna scon:finatezza dell'anima. Il Logos d'Era-
clito è una conoscenza dalla quale sgorgano del pari
«parola e azione» 158 ). Se cerchiamo un esempio di que·
sta particolare specie di conoscenza, non è il pensiero
il quale insegna che l'Essere non può mai non essere,
bensì quel profondo intendimento che splende in una
proposizione come questa: « L'ethos è demone al-
l'uomo» 159). È importante e caratteristico che sin dalla
prima proposizione 160) del suo libro, fortunatamente
pervenutaci, sia espressa tale relazione produttiva della
conoscenza con la vita. Vi si parla di parole e azioni
che gli uomini tentano senza intendere il Logos, che
solo insegna « a fare da svegli» ciò che coloro che non lo
possiedono « fanno dormendo». Il Logos deve dunque
dare una nuova vita consapevole. Esso abbraccia tutta
la sfera dell'umano. Eraclito è il primo filosofo che intro-
duca il concetto della cpp6V1J<1Lç equiparandolo alla ao-
cplix; la conoscenza, cioè, dell'Essere è per lui con-
nessa all'intendimento dei valori e dell'indirizzo della
vita umana, li comprende in sé consapevolmente 161).

167 ) Su voe:tv e volJµot in Parmenide, v. l'indice di W. KRANZ


ai Vorsokratiker del DIELS, s. v.
168 ) Heracl. fr. 1, 73 e 112: lTt'IJ xoct tpyoc, Ttote:i:v xoct À&ye:Lv.
È importante osserv'are che la conoscenza per Eraclito implica
«parola e azione»; TtOLe:i:v non ha in Eraclito il significato aristo-
telico, ma è vicino a TtflOC'T-re:w; v. l!pyoc, fr. l e la n. 161 sul concetto
eracliteo di qipove:i:v. La spiegazione di l!Ti:'IJ xoct l!pya: data dal
G!GON, op. cit. p. 8, non mi soddisfa.
m) Fr. 119.
160) Fr. l, cfr. n. 158.
161 ) <I>p 6vl)cnç è conoscenza riferita all'azione. La conoscenza
per Eraclito include sempre questa relazione (v. n. 158). Perciò
336 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

La forma profetica nella quale egli parla deriva la


sua necessità interiore dall'aspirazione del ·filosofo ad
aprire gli occhi dei mortali su se stessi, a svelar loro iJ
principio primo della vita, a scuoterli dal loro sonno 162).
A questa missione di interprete od intermediario non
cessano d'accennare numerose espressioni d'Eraclito.
Natura e Vita sono un griphos, un enigma, un oracolo
delfico, una sentenza sibillina; bisogna saperne decifrare
il s e n s o 163). Eraclito si sente il solutore d'enigmi,
l'Edipo filosofico, che strappa alla Sfinge il segreto;
ché la «Natura ama nascondersi» 164).
È una nuova forma di filosofare, una nuova auto-
coscienza del filosofo: esprimibile soltanto in parole e
immagini attinte all'esperienza interna. Anche il
Logos non è determinabile che per immagini. Il suo
genere di universalità, l'influsso ch'esso esercita, la con-
sapevolezza che desta in colui che inspira,. si esprimono
per Eraclito nel modo più chiaro nella sua prediletta
contrapposizione tra colui che è desto ~ colui che
sogna 165). Egli rileva un criterio essenziale del Logos,
che lo distingue dallo stato di spirito della moltitu-
dine: esso è l'elemento comune {~uv6v) 186), il kosmos
uno ed eguale, che non sussiste se non tra i « desti»,
laddove il « dormiente» ha il suo mondo speciale, il

non è solo chiamata voe:rv, voiiç (cfr. fr. 114), ma anche qip6v7]0'tç,
qipove:7:v; v. fr. 2, 112, 113, 114, 116. Su questo concetto v. il mio
Aristotele (trad. it.) 84 ss., 89, 106-110; croq>[7J, fr. 112.
162) La metafora « svegliare quelli che dormono» appartiene
al linguaggio profetico. Cfr. Heracl fr. 1, 73, 75. Sulla lingua di
Eraclito in generale, v. B. SNELI" in « Hermes »LXI 353 e WtLA·
MOWITZ, « Hermes» LXII 276. Altri elementi ili linguaggio p101e..
tico, sono il paragone con il« sordo» o con lo «stordito», fr. 34.
1~ 3 ) V. fr. 92 sulla Sibilla; fr. 93 sul linguaggio dell'oracolo
delfico; fr. 56 l'indovinello proposto dai ragazzi che Omero nou
era stato capace di sciogliere.
164) Fr. 123.
165) V. n. 162.
1 86) ~uv6v cfr. fr. 2, 113, 114,
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 337

mondo del suo sogno, che non è appunto, se non so-


gno 167). Questa comunione sociale del Logos eracliteo
non va ridotta a mera espressione immaginosa del-
l'universalità logica. La comunione è il sommo bene
che conosca l'etica della polis; essa annulla in sé
l'esistenza separata degl'individui. Ciò che dapprima
sembrava in Eraclito individualismo portato al sommo,
il suo imperioso atteggiamento dittatorio, si rivela ora
l'opposto, cioè superamento cosciente dell'oscillante ar-
bitrio individuale, nel quale minacciava di perdersi
tutta la vita. Bisogna seguire il Logos; in esso è isti-
tuita, al disopra della legge della polis, una « comunità»
ancor più alta ed ampia, sulla quale si può appoggiare
la propria vita e il proprio pensiero, con la quale ci
si può « far forti come fa una polis con la legge» 168).
« Gli uomini peraltro vivono come se avessero ognuno
una sua ragione privata» 169).
Qui appunto appare come non si tratti soltanto
d'un difetto di conoscenza di natura teoretica, bensì
di tutto quanto l'essere degli uomini, del loro atteg-
giamento pratico, che non corrisponde allo spirito co-
mune del Logos. Come nella polis, cosi nel Tutto
esiste una Legge, Per la prima volta s'incontra qui
questa singolarissima idea greca. In essa lo spirito
educativo politico della saggezza legislativa greca ap-
pare come elevato a più alta potenza. La legge, che
Eraclito chiama divinità, è còlta soltanto dal Logos;
di essa « si nutrono tutte le leggi umane» 170). Il Logos
eraclitèo è lo spirito quale organo di senso cosmico.
Ciò che in germe era già incluso nell'azione secondo la
concezione anassimandrèa dell'universo, si sviluppa,

1 61 ) Fr. 89.
168) Fr. 114.
1 118) Fr. 2.
HO) Fr. 114.
338 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

nella coscienza d'Eraclito, nella concezione del Logos.


conscio di sé, della sua azione e del suo posto nell'or-
dinamento universale. In lui vive e pensa lo stesso
« fuoco» che permea il cosmo quale vita e pensiero 171).
Per la sua origine divina esso è in grado di penetrare
nella divina interiorità della natura, onde deriva esso
medesimo. Così l'uomo, dopo che la filosofia pre-era-
clitèa aveva scoperto il cosmo, è inserito da Eraclito
nel nuovo edificio dell'universo quale un'entità di ca-
rattere totalmente cosmico. Per svolgere la sua vita
come ente siffatto, esso abbisogna della conoscenza e
del rispetto volonterosi della norma della legge co-
smica. Come Senofane aveva esaltato la « saggezza>~
quale somma virtù umana, poiché è la sorgente del-
1'ordine giuridico nella polis 172), così Eraclito ne fonda
il diritto d'imperio sul fatto ch'essa insegna agli uomini
di seguire, nella parola e nell'azione, la verità della
natura e della sua legge divina 173).
Il reggimento razionale della saggezza· cosmica, il
cui significato oltrepassa la comune ragione umana, è
còlto da Eraclito nella dottrina originaria delle oppo-
sizioni e dell'unità del Tutto. Anche la ,dottrina del-
l'opposizione si riallaccia in parte a concrete rappre-
sentazioni fisiche della filosofia naturale milesia, ma
infine non attinge la sua forza viva da suggerimenti
d'altri pensatori, bensì da un'intuizione immediata del
processo della vita umana, che abbraccia l'elemento
spirituale e il fisico, in un'unità singolarmente com-
plessa, come una biologia comprendente entrambi que-
sti eiuisferi. Ma « vita» non è solo l'Essere umano, ma
anche il cosmico. Soltanto inteso quale vita, perde la
sua apparente contradittorietà. L'idea anassimandrèa

ln) Cfr. fr. 30, 31, 64, 65.


111) Xenoph. fr. 2, 12.
1'8) Heracl. fr. 1. 32, 112. 114.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 339

dell'univeu;o aveva concepito il divenire e il perire


come governo compensatore di un'eterna giustizia, o
meglio come una contesa. giudiziaria delle cose dinanzi
al tribunale del Tempo, dove l'uno deve pagare all'altro
ammenda della sua ingiustizia e pleonessìa 174). Il con·
trasto diviene per Eraclito addirittura e< padre di tutte
le cose » 1 75). Soltanto nel contrasto si stabilisce la dike.
La nuova idea pitagorica dell'armonia giova ora a
spiegare in modo significativo la veduta d' Anassiman•
dro. «Appunto ciò ch'è discorde si unisce; dal diverso
sorge la più bella armonia » 176). È questa una legge che
evidentemente domina tutto il cosmo. Sazietà e pe·
nuria, le cause della guerra, esistono in tutta la na·
tura. Essa è tutta piena di opposizioni: giorno e notte,
estate e .inverno, caldo e freddo, guerra e pace, vita
e morte si alternano in perpetua vicenda 177). Tutti gli
opposti della vita cosmica si convertono continuamente
l'uno nell'altro 178): si tributano reciproca ammenda, per
attenerci all'immagine del contrasto giudiziario. Tutto
il «processo» del mondo è uno scambio (&µOL~-fi), la
morte dell'uno è sempre la vita dell'altro, un'eterna al-
talena 179). « Trasmutando riposa» 180). <e Vivo e morto,
desto e dormiente, giovane e vecchio sono, in fondo,
una medesima cosa. Questo è, trasformandosi, quello,
e quello è di nuovo questo» 181). «Se uno ha inteso non
me, ma il mio Logos, è saggio riconoscere che tutto è
una cosa» 182). Il simbolo eraclitèo dell'armonia degli
opposti nel cosmo è l'arco e la lira. Entrambi compiono

174) Anaximan. fr. 9 (Diels). V. p. 299.


176) Heracl. fr. 53, cfr. fr. 67.
i1&) Fr. 8.
177 ) Fr. 67.
i1s) Fr. 31, 62.
178) Fr. 90.
1ao) Fr. 84.
1111) Fr. 88.
1H) Fr. 50.
340 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

l'opera propria mediante la « contrastante composi-


zione» 183). Il concetto generale, che qui manca ancora
al linguaggio filosofico, è quello della tensione; ne tien
luogo l'immagine 184). L'uni,tà eraclitèa è piena di ten-
sione. L'intuizione biologica contenuta in questo pen-
siero geniale è di una fecondità sconfinata, e solo ai
giorni nostri è stata adeguatamente apprezzata.
Per rilevare quanto di nuovo e d'essenziale rappre-
senta Eraclito per la formazione . dell'uomo greco, ri-
nunceremo qui all'ulteriore interpretazione filosofica
della dottrina degli opposti e dell'unità del Tutto, e
tralasceremo affatto, in ispecie, l'ardua questione della
relazione in cui essa sta con Parmenide 185). Rispetto
ai pensatori anteriori, Eraclito appare il primo antro-
pologo filosofo. La sua filosofi.a dell'uomo è, per cosi
dire, quello interno dei tre anelli concentrici, nei quali si
può raffigurare la sua filosofia: l'anello antropologico è
avvolto dal cosmologico, e questo dal teologico. Questi
anelli, peraltro, non vanno invero disgiunti l'uno dal-
l'altro; non si può, soprattutto, pensare l'anello antro-
pologico come indipendente dal cosmologico e dal teo-
logico. L'uomo d'Eraclito è parte del cosmo, sottostà
come tale alla legge del tutto, come ogni altra parte.

183) Fr. 51, cfr. fr. 10.


lM) Cfr. fr. 51, l'esempio della lira e dell'arco che hanno in
comune la tensione.
185) Molto dipende dall'interpretazione di Parmenide, fr. 6, 4
ss. (Diels) che un tempo si soleva riferire alla dottrina di Eraclito
della 7tocÀlv-rpo1tO~ ocpµovl1J. Le parole 7tocÀlv-rpo7toç XÉ:Àe\l-&oç,
Parm. fr, 6, 9, parevano contenere un allusione al famoso fr. 51
di Eraclito. K. REINHARDT nel suo Parmenides contestò questa
interpretazione e, di conseguenza, l'ordine cronologico dei pensatori
presocratici seguito dal DIELS nei Fragmente der Vorsokratiker.
Ma anche se non si deve riferire il fr. 6 di Parmenide a Eraclito,
rimane il difficile problema di sapere se sia necessario o no invertire
col Reinhardt, il rapporto tra i due pensatori e ammettere che
la teoria eraclitea dell'armonia degli opposti, fu concepita come
soluzione al problema parmenideo della loro inconciliabilità.
CAP. IX: IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO 341

Ma, recando consapevolmente in sé, in virtù dello spi·


rito che gli è proprio, la legge eterna della vita totale,
può partecipare alla somma sapienza, dal cui consiglio
sorge la legge divina. La libertà dell'uomo greco con·
siste nel suo subordinarsi, quale suo membro, alla to·
talità della polis e alla sua legge. È un'altra libertà
da quella del moderno individualismo, che si sente
sempre connessa ad una universalità sovrasensibile,
mediante la quale l'uomo appartiene anche a un mondo
superiore a questo mondo terreno dello Stato. La li-
bertà filosofica, cui assurge il pensiero d'Eraclito, ri-
mane fedele affatto all'indole dell'uomo greco, legato
alla polis, nel sentirsi egli quasi membro d'una « co-
munità » universale di tutti gli esseri e nell'assogget-
tarsi al nomos di essa 186). Il senso religioso cerca il reg-
gitore personale di questo Tutto; cosi anche Eraclito.
<< Uno, il solo Saggio, vuole e non vuole esser chiamato
Zeus» 187). Se invece il senso politico dei Greci di quel-
l'epoca è incline a considerare la signoria d'uno solo
quale tirannia, il pensiero d'Eraclito, sa conciliare le
due cose, perché la legge non significa per lui la mag·
gioranza, bensì l'emanazione d'una conoscenza su-
prema. « Legge è anche obbedire alla decisione d'un
solo» 188).
L'addentrarsi d'Eraclito nel senso del mondo è il
sorgere d'una nuova e superiore religione, di una com-
prensione spirituale delle vie della somma sapienza.
Vivere e agire secondo questa concezione si · diceva
dai Greci cpp ovi;:'i:v 1 89); a questo sistema di vita

186) Fr. 114.


181) Fr. 32.
1 88 ) Fr. 33.
189) V. n. 161. Si può ricordare che anche nella tragedia di
Eschilo la parola ippovs:t:v indica (Ag. 176) la suprema sapienza
religiosa che l'uomo possa raggiungere. Nella tragedia la raggiunge
con la sofferenza. -
342 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

conduce la profezia d'Eraclito per il tramite del Logos


filosofico. L'antichissima filosofia della natura non aveva
posto espressamente il problema religioso; la sua con-
cezione dell'universo mostrava la faccia dell'Essere non
rivolta all'uomo. La religione orfica era venuta a col-
mare questa lacuna e aveva insegnato a credere nell'in-
tima affinità dell'anima col Divino, in mezzo al vortice
annientatore del divenire e del perire universale. nel
quale la filosofia della natura sembrava precipitar.,
l'uomo 190). Ma la filosofia naturale, con l'idea del cosmo
e della dike che lo domina, offriva un punto di cristalliz-
zazione alla coscienza religiosa, ed ivi appunto s'lliseri-
sce Eraclito con la sua interpretazione dell'uomo, po-
nendolo interamente nella visuale cosmica. D'altra parte
la religione orfica dell'anima è come inalzata ad un
livello superiore nel concetto eraclitèo dell'anima: per
la sua affinità col «fuoco imperituro» del cosmo l'anima
filosofica è capace di riconoscere la sapienza divina e
di accoglierla in sé 191). Così l'opposizione del pemiero
cosmologico e religioso del VI secolo, nella sintesi d'Era-
clito, che sta sulla soglia del nuovo secolo, appare
superata e ridotta ad unità. Abbiamo già notato come
l'idea del cosmo dei Milesii rappresenti piuttosto una
norma dell'universo che non una legge di natura iD.
senso nostro. Eraclito sviluppò tale carattere, nel suo
« nomos divino», sino alla religione del cosmo, fon-
dando nella norma dell'universo la norma di vita del-
l'uomo filosofico.

190) V. p. 310 s.
tsi) rir. fr. 36, 17. ll7. ua.
CAPITOLO DECIMO.

REAZIONE E TRASFIGURAZIONE
DELL'ARISTOCRAZIA

Abbiamo veduto smora l'influenza della cultura


ionica sulla madrepatria e sull'Occidente greco soltanto
nella lotta religiosa e politica dell'Atene di Solone e
nell'aspro urto dell'illuminista ionico Senofane con la
religione popolare e con l'ideale virile agonale dell'ari-
stocrazia greca. L'assalitore tratteggia queste idee come
anguste e ristrette, e arretrato, .rozzo e nemico del sa-
pere il ceto che ne è il rappresentante. Tuttavia esso
seppe opporre all'offensiva del nuovo, a parte la propria
forza esteriore, un'energica resistenza spirituale, e non
si può non rilevare come la produzione poetica di tutta
la madrepatria, da Solone in poi, che va più in là di
tutti nell'accogliere idee ioniche, presenti laspetto
di un'appassionata reazione 1). I due principali cam-
pioni di questa reazione sul passaggio dal VI al V se-
colo, Pindaro di Tebe e Teognide.di Megara, sono im-
bevuti di un aspro orgoglio di classe. Si rivolgono al
ceto dei dominatori aristocratici, ambiente che poli-
ticamente si contrappone ostile e chiuso al carattere

1) Questo avvenne non soltanto nella Grecia propria, ma an·


che fuori, come prova l'esempio di Alceo di Mitilene; v. cap. VU
n. 73.
344 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

ionico. Ma il mondo aristocratico di Pindaro e di Teo-


gnide non dorme più i suoi sonni tranquilli, è percosso
dalla marea dei tempi nuovi e costretto a una dura
lotta per reggersi. Da questa lotta materiale e spirituale
per l'esistenza è nata la profonda e radicale medita-
zione della nobiltà sui propri valori essenziali, che in-
contriamo nei due poeti. Non ostante la diversità indi-
viduale del loro spirito e l'impossibilità di paragonarli
per valore puramente artistico, sotto questo rispetto
dobbiamo metterli assieme. La loro poesia, sebbene
formalmente Pindaro spetti al genere della lirica corale
e Teognide alla poesia gnomica, si presenta come
un'unità culturale. In essa s'incarna l'autocoscienza del-
l'aristocrazia, destatasi al più alto senso dei propri
meriti speciali, che possiamo chiamare nel pieno senso
del termine l'ideale aristocratico della cultura in quel-
l'epoca.
L'aristocrazia della metropoli, in qu~nto modella
con consapevole autorità il proprio superiore ideale
umano, è immensamente superiore agli Ioni e al loro
atteggiamento interiore, che si scinde nella duplice
tendenza verso l'individuale e verso il naturale. Invero
come per Esiodo, Tirteo e Solone, anche per Pindaro e
Teognide, a differenza dall'ingenua naturalezza con la
quale l'elemento spirituale si presenta nella Ionia in
tutte le sue forme, è caratteristico questo consapevole
ethos educativo. Esso riceve indubbiamente incremento
dall'urto di due mondi così inconciliabilmente nemici,
ma questo ben difficilmente può essere, nonché l'unica,
la principale ragione del fatto che i rappresentanti ve-
ramente cospicui della consapevole educatività greca
appartengono quasi senz'eccezione alle stirpi della ma-
drepatriay La maggior durata della signoria e della
cultura aristocratica, fonte della superiore volontà edu-
cativa della nazione, nei paesi della madrepatria, può
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 345

aver contribuito in grado cospicuo a far sì che nulla


di nuovo vi potesse spuntare senza contrapporre al
preesistente un determinato ideale, una compiuta figura
dell'uomo. Se nella polemica di Senofane, gonfia di
personale orgoglio intellettuale, contro le vecchie idee
feudali, poteva sembrare che queste fossero morte da
un pezzo, in Teognide e in Pindaro, invece, esse espli-
cano d'improvviso una mirabile nuova forza morale e
religiosa. Non ci fanno mai dimenticare, è vero, come
siano legate ad una classe, ma le loro radici, attra-
verso questo strato di superficie, si affondano in una pro-
fondità umana che le preserva da ogni invecchiamento.
La tenace energia della loro autodifesa spirituale non
deve certo dissimularci ch'era un mondo agonizzante,
quello per il quale combattevano Pindaro e Teognide.
La loro poesia non produsse una rinascita della nobiltà
nel senso politico esteriore, ma rappresenta l'eternarsi
della sua idea nel momento fatale in cui è più grave-
mente minacciata dalle forze nuove dell'epoca e l'in-
corporarsi della sua forza socialmente costruttiva nel
patrimonio generale della nazione greca.
Se noi oggi abbiamo un'idea della vita e dello stato
sociale dell'aristocrazia greca nei secoli VI e V, lo
do)lbiamo esclusivamente alla poesia. Tutto ciò che
le arti figurative e la scarsissima tradizione storica vi
aggiungono, rimane invero soltanto muta illustrazione
di ciò che i poeti ci rivelano dell'intima sua essenza.
Certo, qui per l'appunto, la testimonianza dell'arte nella
plastica, nell'architettura e nella pittura vasale è di
particolare importanza, ma non riesce per noi elo-
quente se non considerata al lume della poesia e quale
espressione dei suoi ideali. Siamo costretti a rinunciare
a una storia esteriore dell'evoluzione sociale, della quale
non possiamo afferrare nemmeno qui se non frammenti
locali e· qualche rara tappa principale riguardante qual-
346 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

che rara località principale. L'unica cosa che siamo in


grado di seguire chiaramente, rimane il cammino dello
spirito greco quale si esprime nelle sue reliquie scritte,
per quanto grandi siano anche qui le perdite. Per
questo possediamo, in Teognide e in Pindaro, due rap-
presentanti sommamente caratteristici, in senso diver-
sissimo. Di recente è venuto ad aggiungervisi un lirico
corale prima quasi ignoto, quale è Bacchilide, col solo
risultato, ai fini nostri, di dimostrare che non ci occorre
spingerci al di là di Pindaro. Daremo qui la precedenza
a Teognide, come quello dei due poeti che è forse più
antico. Ciò presenta anche il vantaggio di formarci
prima un'idea della difficile situazione sociale nella
quale la nobiltà si trova in parte in quell'epoca, giac-
ché nella poesia di Teognide essa ha grande rilievo,
laddove in Pindaro vediamo la cultura aristocratica
piuttosto dal lato della sua fede religiosa e del supremo
ideale di perfezione virile.

La tradizione del libro di Teognide. - Non si può


far a meno di parlare anzitutto della tradizione del
libro di Teognide, che è assai complessa, e, nella di-
scutibilità di quasi ogni dato, di motivare la propria
opinione 2). Non tratterei così diffusamente di questa
materia filologica, per quanto interessante, se la
maniera in cui l'opera del poeta ci fu tramandata
non c'illuminasse ad un tempo ampiamente sulla
storia di quel singolare episodio della cultura greca
che è indissolubilmente legato all'influenza esercitata
da Teognide.
Già il IV secolo dovette aver presente, sostanziai-

~) Nella seguente discussione sono stato costretto a criticare


alcune opinioni di R. REITZENSTEIN, Epigramm und Skolion (1893)
e di F. JACOBY, Theognis (« Sitz. Berl. Akad.» 1931). Cfr. ora
JosEPH KROLL, Theognisinterpretationen (Lipsi .. 1936)
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 347

mente compiuta, la raccolta che per mero caso ci è


tramandata sotto il nome di Teognide. Gli studi re·
centi hanno dedicato in copia acume e lavoro scienti·
fico all'analisi di questo libro singolare. Nella forma in
cui ci è noto, è difficile sia passato attraverso il fuoco
purificatore della critica filologica alessandrina 3); servì
invece ad uso pratico nei simposii dei secoli V e IV,
sinché, col graduale estinguersi di questo ramo cospicuo
della vita « politica » dei Greci, fu messo in disparte
per non esser più letto e tramandato se non quale cu·
riosità letteraria. Fu attribuito a Teognide perché un
libro di questo poeta costituì in esso il nucleo centrale
per un florilegio di massime e poesie di poeti varii
di epoca più o meno recente (dal VII al V sec.). Erano
tutte recitate, nei simposii, al suono del flauto. Il
testo originale~ alterato e sfigurato in più luoghi, mo-
stra come anche i versi più famosi finissero per essere
canticchiati alla peggio 4). Se la scelta dei poeti non
scende più giù del V secolo, ciò dipende tuttavia
anche dall'agonia politica della nobiltà. Evidentemente
erano soprattutto ambienti aristocratici quelli in cui
viveva questa poesia, ché non solo le poesie teogni-
dee della raccolta, ma anche varii altri suoi ele-
menti sono animati da uno spirito assai ostile al
demos, e la cosa più ovvia sarebbe raffigUl'arsi il li-
bro in uso nelle eterìe aristocratiche d'Atene al tem-
po di Crizia, dalle quali nacque il pamphlet sulla co-
stituzione d'Atene e cui anche Platone era legato per
nascita. L'abbinamento. di simposio ed eros, che il suo

3) Cfr. WILAMOWITZ, Textgeschichte der griechischen Lyriker


(.3erlino 1900) 58.
4 ) Ciò può essere dimostrato, naturalmente, soltanto per alcuni
versi di altri poeti che sono stati incorporati nella raccolta teogni-
dea e che sono stati tramalldati anche indipendentemente pe)
loi-o contesto,
348 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Convito ci mostra nella forma più elevata 6), si rispec-


chia evidentemente anche nella storia della raccolta
teognidèa, ché il cosiddetto libro secondo, che è in
realtà una raccolta autonoma di canti, aggregatavi con
tenue legame, ha per oggetto l'eros, che celebravasi
in quelle occasioni.
Per fortuna, cercando di separare quanto spetta a
Teognide da quanto spetta ad altri poeti della rac-
colta, Ìton dobbiamo contare, per apprezzare le diffe~
renze individuali dei singoli autori e delle singole epo-
che, soltanto sulla nostra sensibilità stilistica e intel-
lettuale. Molti elementi si riconoscono senz'altro per
versi di noti poeti, che ci sono pervenuti; altre volte
dobbiamo accontentarci di indizi più o meno sicuri.
Il libro di Teognide sta al principio e per la sua forma
stessa si stacca assai distintamente dagli estratti d'altri
poeti, semplicemente accostati uno all'altro~ Certo, non è
neanche questo un poema serrato, bensì una raccolta di
massime, e si deve anzi soltanto a questo suo· carattere se
vi si aggiunsero elementi estranei. Ma la raccolta di
sentenze di Teognide è retta da un'unità interiore. Non
ostante la relativa indipendenza esteriore- delle singole
sentenze, di cui è formata, vi si rileva un pensiero che
si svolge progressivamente, ed essa ha un proemio e
una chiusa 6), che si stacca chiaramente da ciò che se-
gue. Nell'enucleare questo antico ed autentico libro di
Teognide, a parte lo spirito inconfondibile del suo ru-
vido piglio feudale, ci fornisce un aiuto particolare la
forma nella quale il poeta non cessa di indirizzare il
discorso al giovinetto amato cui rivolge i suoi ammae-

') V.« Paideia» II 303 ss.


') Il libro di Teognide comincia con inni ad Apollo ed Artemide
e con l'invocazione delle Muse e delle Grazie (vv. 1-18). L'epilogo
è a vv. 237-254; il poeta promette al suo amico Cimo che la poesia
o· farà immortale portando il suo nome per terre e mari.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 349

stramenti, Cirno, :figlio di Polipao, rampollo di nobile


schiatta. Un'apostrofe siffatta s'incontra già nel carme
esortativo d'Esiodo a Perse, nei versi dei giambici e
nella lirica di Saffo e d'Alceo. Impartendo Teognide il
suo insegnamento in forma di sentenze isolate, l'apo-
strofe « Cirno » ovvero « :figlio di Polipao » si ripete nel
suo libro assai più spesso, sebbene non in ogni sentenza.
La medesima forma si trova anche nell'antica poesia
gnomica nordica, dove ricorre ogni poco il nome in
colui cui essa si rivolge . .La menzione del nome di Cirn.o
ci serve come un fossile tipico nel mettere in luce l'auten-
tico strato di Teognide, che ne è cosparso da cima a
fondo.
Ma esso non si trova soltanto sino al punto in cui
rileviamo quella ch'era in origine la poesia finale del-
l'antico libro di sentenze; s'incontra anche nelle parti
che la seguono. Tuttavia, se nel libro di massime di
Teognide si presenta in fitta successione, qui invece non
compare che qua e là, e allora per lo più parecchie
volte a breve intervallo, sicché giova ritenere che tali
tratti, se autentici, siano citazioni ricavate dal libro di
sentenze di Teognide nella: sua forma originale più
completa. E poiché si tratta in parte di luoghi che
si trovano ancora anche nel testo dell'antico libro di
sentenze - e non par possibile si trovassero in un'unica
raccolta di poesie - è chiaro che le parti ora aggiunte
a Teognide furono in origine un libro a sé, nel quale,
oltre ad altri poeti, erano anche componimenti di Teo-
gnide. Era un florilegio, composto in un'epoca in cui
Teognide era già diventato classico, sulla :fine del V se-
colo o sul principio del IV al più tardi. L'esistenza di
siffatte antologie nelle scuole è espressamente attestata
per quel periodo da Platone nelle Leggi 7). Ve ne sa-

') Legg. Slla.


350 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

ranno state anche in uso nei simposii. Più tardi i varii


libri che noi ora leggiamo furono riuniti nella nostra
silloge, come giustamente è stata chiamata. Quanto
rozzamente si procedesse, risulta dal fatto che nessuno
si diede nemmeno la pena di eliminare i doppioni
che ne sorsero, se pure furono notati. Nel farci un con-
cetto di Teognide, non dobbiamo quindi fondarci sol-
tanto sul libro delle sentenze rivolte a Cirno, tramanda-
toci come un tutto, bensì aggiungervi anche le sparse
massime a Cirno della raccolta posteriore, annessa a
quello. Il libro delle sentenze a Cirno è ad ogni modo
il nostro vero fondamento, dalla cui solidità tutto di-
pende. · Occorre dunque saggiarla ançhe più attenta-
mente, prima di affrontare la questione se dal resto
della raccolta, oltre alle massime a Cimo contenutevi,
sia da ricavare anche qualche altra cosa all'attivo di
Teognide.

E anzitutto donde ci risulta che il libro a Cirno


sia opera di Teognide ? Il suo nome, e quindi il suo
diritto a tale attribuzione, sarebbe scomparso senza
traccia in questa o in qualsiasi altra raécolta generale
di canti, al pari del nome di tanti altri poeti famosi
che vi sono compresi, se Teognide non fosse ricorso
a uno speciale artificio per isfuggire a tale sorte, che
minacciava con grande probabilità un autore di carmi
simposiali. Egli scolpì nel proemio il proprio nome9
non solo mettendosi così al riparo dall'oblio, ma im·
primendo anche alla sua proprietà intellettuale il pro•
prio marchio, o - come egli stesso lo chiama - il
proprio sigillo. Ascoltiamo le sue parole 8) : « Cirno,
secondo una saggia idea, che io ho, a questi versi de-
v'essere impresso il mio sigillo; allora non saranno ma!

8) Theogn. vv. 19-26.


CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 351

rubati di nascosto, e nessuno sostituirà qualche cosa


di peggiore al buono, se ve n'è, ma ognuno dirà: que-
sti sono i versi di Teognide da Megara, egli è famoso
fra tutti gli uomini. Solo agli ahitànti, qui, della no-
stra città non posso ancora piacere a tutti. Non fa
meraviglia, o figlio di Polipao, ché nemmeno Zeus può
accontenar tutti, sia che mandi la pioggia, sia la sic-.
cità ».
Un altissimo concetto della propria arte e la vo-
lontà di tutelare la proprietà intellettuale sono feno-
meni che incontriamo anche nell'arte figurata di quel-
l'epoca, quando ad esempio lo scultore o il decora-
tore di ceramiche scrive il proprio nome sul suo pro-
dotto. In un aristocratico spiccatamente tradizionalista,
questo tratto individualistico deve interessarci par-
ticolarmente, come quello che lo rivela toccato più
a fondo dallo spirito dell'epoca, di quanto non risponda
al suo orgoglioso atteggiamento. Ch'egli, dicendo « im-
primere il proprio sigillo», abbia inteso « incorporare
il proprio nome» nelle sue poesie, risulta inoppugna-
bilmente dalle sue parole. Lo dice in primo luogo l'idea
del sigillo, giacché si sigilla con la cifra o col nome
del proprietario; in secondo luogo l'abbiamo sott'oc-
chio, ché alle sue parole circa l'intenzione d'imprimere
il suo sigillo ai versi segue immediatamente l'indica-
zione del nome. L'indicazione del nome del poeta al
principio dell'opera non era, invero, una novità asso-
luta per quell'epoca, ma l'esempio d'Esiodo, nel proe-
mio della Teogonia non aveva trovato imitatori, e
soltanto un immediato predecessore di Teognide, il
poeta gnomico Focilide di Mileto, aveva fatto un'in-
venzione simile per contrassegnare quale sua proprietà
le sue massime, evidentemente perché questa sorta
di versi diventava facilmente patrimonio comune, come
i proverbi. Infatti versi famosi di Focilide e di Teo-
352 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

gnide sono citati da scrittori posteriori addirittura quali


K proverbi», senza indicazione d'autore. Le sentenze
di Focilide erano, certo, particolarmente esposte a que-
sto pericolo, giacché erano sentenze isolate, senza in·
timo legame. Si dovevano poter ripetere ciascuna per
sé; perciò il poeta premise il proprio nome ad ognuna.
Il primo verso comincia sempre, qui, con le parole:
e< Anche questa è una sentenza di Focilide ». Seguen·
done l'esempio, Ipparco figlio di Pisistrato, quando
compose le sue massime per le erme delle strade mae·
stre dell'Attica, incominciò ciascuna con le parole:
« Questo è un segno d'Ipparco», per poi continuare:
«Non ingannar mai l'amico», oppure: «Procedi con
giusto intento» 9 ). Teognide non aveva bisogno di
fare altrettanto, ché le sue sentenze formavano, come
s'è detto, un tutto compatto, che doveva esser tra·
mandato come tale: la tradizionale sapienza educativa
del ceto nobile. Teognide fa assegnamento sulla diffu·
sione del proprio libro « fra tutte le genÌi, per terra
e per mare », come dice tanto nel proemio quanto nel·
l'epilogo 10). Per tutelare il suo diritto di proprietà sul
libro e sul suo contenuto, a Teognide, eome ad ogni
autore d'un libro prosastico, novità che spunta appunto
in quell'epoca, bastava nominare l'autore al principio
dell'opera. Gli autori d'oggi non hanno bisogno di
questo mezzo, ché nome e titolo si trovano sul fronte·
spizio. Ma quest'uso non esisteva ancora sul finire
del IV secolo avanti Cristo; non vi era dunque altro
espediente che quello seguìto ancora da Ecateo, Ero·
doto e Tucidide: essi incominciano con l'indicare il
proprio nome ed esporre il proprio intento. Negli
scritti medici pervenutici sotto il nome collettivo d'lp·

') [Pl.] HipparcA. 228e.


10)V. il prologo, v. 23, e l'epilogo, vv. 245-252.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 353

pocrate, manca questa indicazione individuale della


provenienza, e quindi la paternità dei singoli scritti
rimane per noi un mistero. Nella poesia la trovata del
e< sigillo » non si affermò come nella prosa. Non la
troviamo che· nel nomos citaredico del V secolo, dove
la espressione « sigillo » è definitivamente tecnica per
indicare il passo contenente il nome del poeta 11). Se
ciò venga da Teognide, non siamo in grado di dire.
Ora di recente, quanto alle vicende suhìte dal
libro di Teognide attraverso i tempi, si è detto ch'egli
non poteva conseguire il suo intento se non sigillando
le sue sentenze una per una, e si è quindi voluto rife-
rire il « sigillo » all'apostrofe « Cirno » 12). Per noi,
certo, sarebbe cosa comoda: potremmo allora risolvere
d'un tratto, e in modo meccanico, ma appunto perciò
oggettivo, la questione dell'autenticità, la quale, senza
tale criterio, deve di necessità restar sempre alquanto
intricata. Ma Teognide non poteva prevedere in quali
imbarazzi si sarebbe trovato il critico filologo due
millenni e mezzo più tardi, quando non vi fosse più
che un unico esempla:re del suo libro. Ché questa è la
nostra situazione di fronte all'unico manoscritto del-
1' antichità dal quale deriva quanto ci è pervenuto di
Teognide. Egli sperava che il suo libro fosse per tro-
varsi sempre nelle mani di tutti; ai millenni è diffi-
cile pensasse. Tanto meno poteva aspettarsi che il
suo libro di sentenze, in capo a soli cent'anni, dovesse
essere già inesorabilmente abbreviato, trascelto e infine
fuso con molti altri autori innominati a formare un
repertorio di canti simposiali. Meno che mai poteva

11) V. i Persiani di Timoteo, v. 241 ss., e le osservazioni del


WILillOWITZ, p. 65 e 100 del suo commento.
12) È questa l'opinione del JACOBY, op. cit. p. 31; cfr. il saggio
di M. PoHLENZ in« Gott. Gel. Nachr. » 1933, che io ebbi solo quando
avevo terminato di scrivere questo capitolo.
354 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

pm immaginare che l'inserzione del suo nome nel proe-


mio del suo poema, invece di proteggerlo da appropria-
zioni indebite, dovesse invece farlo passare un giorno
per l'autore di tutte le anonime poesie estranee unite
alle sue in questa raccolta. Rallegriamoci tutta via che
il suggello del suo nome sul principio del suo poema
ci ponga tuttora in grado di rimettere in luce la sua
personalità, che giaceva sepolta sotto l~ massa dei
beni senza attribuzione. Ciò non sarebbe possibile per
nessun altro dei poeti riuniti nella raccolta; in questo
senso egli ha pur conseguito il suo scopo.
L'identificazione del «sigillo» con l'apostrofe a Cirno
è tuttavia insostenibile anche per ragioni interiori.
Quanto più ci si immerge nel libro a Cirno, tanto più
appare impossibile separare le sentenze munite del-
l'apostrofe a Cirno dalle rimanenti, essendo queste e
quelle intessute a formare un unico corso di pensieri.
Il dubbio di accogliere tra le sentenze sènza il nome
di Cirno, che pure si trovino nell'antico· libro delle
sentenze, anche elementi. non autentici, non si può in
massima negare, e infatti immediatamente prima del-
1' epilogo del libro delle sentenze, al di Jà del quale
incomincia la materia estranea, si è annidato un passo
di Solone 13). Ma questo turba talmente l'andamento
del pensiero, che, anche senza poterlo identificare per
solonico, noi lo escluderemmo come corpo estraneo.
Senza critica contenutistica e formale non veniamo a
capo di nulla né qui né in alcun altro caso, e ognuno
ammetterà che anche il nome di Cirno, soprattutto
là dove ricorre fuori de) libro delle sentenze, non co-
stituisca una garanzia assoluta d'autenticità.

13) Vv. 227-232. Questi versi corrispondono a Solone fr. l,


71-76 (Diehl).
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 355

Per farci un'idea di Teognide dobbiamo dunque fon-


darci anzitutto sul libro completo delle sentenze a
Cirno, dov'egli assume risalto veramente plastico. Giova
aggiungervi le sentenze a Cirno sparse nella raccolta
annessa al libro stesso, con l'ovvia restrizione che la
critica è qui più incerta, giacché non leggiamo queste
sentenze nel loro nessò originario tutelantele, e ciò
purtroppo ne diminuisce di molto il valore agli oc-
chi nostri. Quanto al resto, non ·siamo disgraziata-
mente in grado, coi mezzi di cui disponiamo, di sce-
verare passi di Teognide che per avventura vi si tro-
vino. Menzione particolare meritano inoltre soltanto le
belle poesie 14) d'un poeta di Megara, tolte probabil-
mente dal proemio d'un libro di poesie a sé, conside-
rate per lo più come teognidee, la cui gaiezza simposiale
è solcata dai lampi precorritori dell'imminente tem-
pesta dell'invasione persiana. Se esse sono di Teognide,
egli viveva ancora intorno al 490 o 480. Le condizioni
politiche interne di Megara, descritte dal libro a Cirno,
secondo le nostre cognizioni, certo assai scarse, non
convengono bene a quell'epoca, ma accennerebbero
piuttosto alla metà del secolo VI, e in tale periodo (544)
la cronologia scientifica stabilita nell'antichità situa
il poeta. Disgraziatamente ciò resta per noi incontrol-
labile 15). Sulle poesie dell'età persiana stessa poco ci
si può fondare; esse sembrano animate da un altro
spirito che il libro a Cirno, e il modo in cui il loro
autore si giova di questo, fa apparire l'ipotesi di un
secondo poeta di Megara, distinto da Teognide, non

14) Vv. 757-792.


15) Secondo Eusebio e Suida, l'acmé di Teoguide cade nella
59a olimpiade (544-541 a. C.). Ma v. SCHMID, Geschichte der grie-
chischen Literatur I, 1 (Monaco 1929) 381 ss., che rifiuta la tradizione
e preferisce il tempo di poco anteriore e posteriore al 500, poichè
considera come di Teognide i versi intorno alle guerre Persiane
(v. n. 14).
356 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

tanto fuor di luogo quanto fu giudicata. Tuttavia due


interferenze di poco conto tra queste tardive poesie e
il proemio di Teognide costituiscono una base troppo
esigua perché vi si possa fondare con sicurezza un'ipo-
tesi così incisiva.

La codificazione della tradizione educativa aristocra·


tica. - Per la forma, il libro di Teognide appartiene al
medesimo genere che la sapienza agreste delle Opere
e Giorni d'Esiodo e le sentenze di Focilide. Sono
Ù7toffYjxotL, « insegnamenti» 16). La parola s'incontra alla
fine del proemio, sùbito prima dell'inizio delle massime
gnomiche vere e proprie: « Ma a te, o Cimo, poiché
ti sono amico, voglio insegnare ciò che io stesso, quan-
d'ero ancor fanciullo, appresi dagli eletti » 17). È dun-
que cosa importante per il suo insegnamento ch'esso
non offre idee individuali di Teognide, bensì la tradi-
zione del suo ceto. Un primo tentativo· di fissare in
versi le regole morali dell'antica disciplina aristocra-
tica era stato il poema, già menzionato 18), degli
« Insegnamenti di Chirone ». Focilide dà norme di vita
pratiche di carattei:-e generale. Dal raffronto con lui
(come, d'altra parte, con Esiodo) emerge più che mai
la novità di Teognide. Egli vuole insegnare, con la
sua poesia, tutta quanta l'educazione aristocratica,
quelle norme sacrosante che . sino allora non si erano
trasmesse che oralmente di generazione in generazione.

16) Isocrate per primo paragonò la poesia didascalica di Esiodo


a quella di Teognide e Focilide e classificò le opere di tutti e tre
sotto la comune denominazione di {mo&'ijxcu (ad Nicoclem, 43).
V.« Paideia» III 178 s. e P. FRIEDLANDER, "f11:o&ljxoc~ in « Her·
mes» XLVIII (1931) 572. Il discorso di Isocrate ad Nicoclem e
quello pseudo-isocrateo ad Demonicum sono i legittimi successori
di queste poesie didattiche nella prosa classica.
17) Theogn. v. 27.
18 ) Cfr. p. 66.
CAP. X: REAZIONE E 1RASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 357

È una voluta contrapposizione alla tradizione conta-


dina, codificata da Esiodo negli Erga.
Il giovinetto cui il poeta rivolge il discorso è a
lai legato dai vincoli dell'eros. Ciò è evidentemente
per Teognide premessa fondamentale del loro rapporto
educativo, cui deve conferire un carattere tipico anche
agli occhi della classe alla quale entrambi apparten-
gono. È caratteristico il fatto che, la prima volta che
vediamo da vicino la cultura della nobiltà dorica,
incontriamo l'eros mascolino quale fenomeno così do-
minante. Non vogliamo addentrarci qui in un esame
di questo problema, assai discusso per l'appunto oggi-
giorno, poiché non è nostro proposito illustrare le con-
dizioni della società per se stesse. Occorre soltanto
mostrare dove questo fenomeno si situi e abbia le
sue radici nella vita del popolo greco; il che poi vuol
dire riconoscere come l'eros dell'uomo verso il giovi-
netto o il fanciullo sia un elemento storico costitutivo
della struttura dell'aristocrazia greca arcaica, indisso-
lubilmente legato agl'ideali morali e di classe di essa.
Si è parlato di pederastia dorica 19), ed. a ragione in
quanto rimane sempre più o meno estranea al senti-
mento nazionale ionico ed attico, come mostra soprat-
tutto la commedia. È naturale che le costumanze del
ceto superiore si trasferiscano sempre più alla borghe-
sia possidente: così fu del 7tCl:L3LxÒç ~wç; ma poeti e
legislatori, che in Atene lo menzionano o lo lodano
come qualche cosa di ovvio, sono per lo più figli della
nobiltà, da Solone, nelle cui poesie la pederastia è
nominata, con l'amore della donna e lo sport aristo-
cratico, quale uno dei sommi beni dell'esistenza 20}, sino

1 ») V. EmcR BETBE, Die dorische Knabenliebe in« Rhein. Mus. »


N. F. LXII (1907) 438-475.
20) Si possono avere duhbi sul significato di TCa:i8ei; cplÀoL in
Solone fr. 13, che qualcuno interpreta come «figli suoi» (come
358 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

a Platone 21). La nobiltà panellenica è appunto domi-


nata dall'influenza dorica. Se nella Grecia stessa, e
sin dall'età classica, questo eros, per quanto diffusis-
simo, incontrava apprezzamento così diverso, perché
legato a determinate premesse sociali e storiche, ciò
facilita all'osservatore moderno la coruprensione del
noto fatto che una forma d'erotismo bandita o spre-
giata da buona parte del popolo greco assumesse in
altri ceti uno sviluppo così profondamente diverso,
unendosi alla più alta sensibilità per la perfezione e
l'intima nobiltà virili 22).
È ben comprensibile come una vi:va ammirazione
per il corpo di figura eletta, di forme ben proporzio-
nate e di nobile portamento avesse a sorgere appunto
in una stirpe che da tempi immemorabili era usata
considerare tali doti come sommi pregi dell'uomo e che
le portò a un livello sempre più alto mediante una
gara ininterrotta, condotta con sacrosanto impegno e
con ogni energia fisica e morale. Nell'infiammarsi per
gl'invidiabili detentori di simili qualità era insito un
fattore ideale, un amore per l'areté. Una profonda
aidòs salvaguardava le persone legate daIBeros da ogni
bassa azione, e uno slancio superiore le animava in
ogni nobile azione 23). Lo Stato spartano inserì con.sa-

in Mimnermo 2, 13) e non come cc ragazzi», ma neLfr. 12 il concetto


di 7ta:LaocpL'ì..er-v è definito da Solone stesso in maniera inequivocabile.
La parola m:tri; è usata nello stesso senso nel fr. 14, 5 e in Mimn.
1, 9. Ambedue i.poeti congiungono l'amore per la donna e quello
per i ragazzi come le due forme generalmente riconosciute di
amore.
21) V. ccPaideia» II, cap. VIII ccll Simposio di Platone». Ma
sul posteriore giudizio di Platone nelle Leggi contro I'eTos dorico,
v. «Paideia» III 385.
' 2 ) Sulla filosofia erotica di Platone, v. RoLF LAGERBORG,
Platonische Liebe (Lipsia 1926). V. anche i discorsi su eros nel
Simposio 'di Platone, specialmente quelli di Fedro e Pausania
(cc Paideia» II 309 ss.) che riflettono le opinioni tradizionali ~u
questo soggetto.
2s) Cfr. PI. Symp. l 78d.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 359

pevolmente l'eros, quale fattore cospicuo, nella sua


&ywy~ 24) e la relazione tra l'amante e l'amato poteva
paragonarsi, per autorità educativa, a quella tra i ge·
nitori e il figlio, anzi le era sotto varii rispetti superiore,
nell'età in cui il giovanetto incomincia a sciogliersi per
la prima volta dall'autorità e dalla tradizione fami-
liare, avviandosi al pieno sviluppo virile. Nessuno met·
terà in dubbio le numerose attestazioni di tale potere
educativo dell'eros, la cui storia culmina nel Simposio
di Platone. La dottrina aristocratica di Teognide, che
ha sua radice nel medesimo ambiente, è sorta intera-
mente da quest'impulso educativo, del quale ci è fa.
cile trascurare l'aspetto erotico in presenza della sua
appassionata serietà morale. Alla :fine del libro di sen-
tenze 25), essa erompe con dolorosa amarezza: «lo ti
ho dato ali con le quali volerai sulla terra e sul mare.
In tutte le feste e i lieti convegni tu sarai sulla bocca
di tutti, la graziosa gioventù farà risonare il tuo nome
al suono del flauto, ed anche dopo sceso ali' Ade ti
aggirerai per tutta l'Ellade e sulle isole del mare,
canzone ai venturi, sinché terra e sole saranno. Ma io
son tanto nulla per te, che m'inganni come un fanciul-
lino con le tue parole».
La rigorosa « eucosmia » di questi simposii aristo-
cratici, animata dall'eros, rimase a lungo non turbata
da alcuna tempesta. Le cose mutarono tuttavia al
tempo di Teognide. La battaglia condotta dalla no-
biltà per mantenere la sua posizione, minacciata o dai
ceti in ascesa o dalla tirannide, ci è nota attraverso
la poesia di Solone. lvi la nobiltà appare quale partito
egoistico, la sua egemonia politica un malgoverno,

24 ) Xen. Lac. resp. II 12, fon y<Xp ·n xocL -.oiho npòt; 7tettl3e:~ocv.
V. tutta la parte 12-14.
26) Theogn. v. 237 ss.
360 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

causa di rivendicazioni senza fine della moltitudine


troppo tempo oppressa, le quali mettono a repentaglio
lo Stato. Da questo pericolo era sorta l'etica civica
solonica, che col suo pensiero politico frena gli estremi
e cerca di preservare lo Stato dalla tirannide 26). Anche
la poesia di Teognide ha per premessa la lotta tra le
classi. Al principio delle sue massime egli pone pa-
recchie poesie di maggior mole, che illustrano la situa-
zione sociale nel suo complesso. La prima è un'elegia 27)
in istile solonico, evidentemente sotto l'influenza del
modello del grande Ateniese quanto ad intonazione,
idee e linguaggio. Ma laddove Solone, figlio egli stesso
dell'aristocrazia, accusa il proprio ceto, che conosce
nelle sue debolezze così come ne ama i pregi, Teognide
chiama responsabile il solo partito avversario dell'ir-
requietudine e dell'ingiustizia onde è piena la città.
La situazione di Megara si è evidentemente disposta
a disfavore dell'antica nobiltà terriera della città. I capi
violentano il diritto, rovinano il popolo, 'impinguano
le proprie tasche e sono avidi di potenza sempre mag-
giore. Il poeta vede la città, ancor tranquilla, dividersi
nella guerra civile: risultato finale sarà, un tiranno.
L'unica via di salvezza che Teognide sembri conoscere,
il ritorno cioè alla giusta ineguaglianza della signoria
aristocratica, è fuori d'ogni possibilità.

Una seconda poesia compie il fosco quadro 28). «La


città è, sì, ancor la stessa, ma la gente è mutata. Uomini
che non avevano alcuna idea di che fossero tribunali
e leggi, cui sfregava le reni la rozza pelle di capra
che portavano per indumento, e che vivevano fuor
della città come bestie selvatiche, costoro sono ora i
28) Cfr. p. 275 s.
") Theogn. vv. 39-52.
lii) Theogn. vv. 53-68.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 361

signori, o Cirno, e quelli che prima contavano qualcosa,


sono ora poveri diavoli. È una vista insostenibile !
Ridono di nascosto l'uno dell'altro e ·s'ingannano a vi-
cenda e non conoscono alcuna salda norma che dica
loro che cosa sia nobile od ignobile, perché non hanno
tradizione. Cimo, non farti amico, a nessun fine, alcuno
di costoro. Trattali con cortesia, se parli loro, ma in
cose serie non aver mai a che fare con essi, ché allora
conoscerai l'animo di quei miserabili soggetti e ti ac-
corgerai che non c'è da fidarsene nella vita. Inganno,
doppiezza e malizia, ecco ciò che piace a quella scia-
gurata compagnia».
Sarebbe una grave lacuna, se non possedessimo
questo documento d'odio e di disprezzo, e insieme di
vivissimo risentimento. Dobbiamo accostarlo alla prima
elegia per vedere con che parzialità di classe sia qui
interpretata l'idea solonica dell'equità quale radice
d'ogni ordine sociale. Ma troppo sarebbe aspettarsi
tale equità dal rappresentante dell'antica classe domi-
nante, ormai spodestata, e anche per uno spettatore
imparziale l'appellarsi di chi è ora oppresso all'idea del
diritto conferisce al quadro,. ch'egli fa, della situazione
dello Stato un pathos che non manca di vigore poe-
tico. Il realismo della sua critica, nutrito del giambo,
dà alla forma sostenuta dell'elegia nuova vivacità in-
teriore. Quasi più importante ancora dell'esempio di
Solone per la rappresentazione dell'ingiustizia impe-
rante è quello degli Erga esiodei, che hanno esercitato
evidente influenza sulla distribuzione del libro di Teo-
gnide in due parti principali, rinserrate tra proemio
ed epilogo 29). Ciò non va inteso soltanto formalmente,
ma risulta dall'analogia della situazione interiore. Come
in Esiodo l'etica del lavoro del contadino, coi suoi in-

H) Cfr. p. 148.
362 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

segnamenti generali, sorge dall'immediata esperienza


personale della lite per il mio e il tuo tra il poeta e
il fratello Perse, anch'essa dunque per la giustizia,
così la dottrina aristocratica di Teognide sorge dalla
sua lotta intellettuale contro la rivoluzione sociale.
L'accusa di violazione del diritto riempie cosi in Esiodo
come in Teognide la prima parte. Questa si svolge
in entrambi in varie ampie concatenazioni d'idee. Il
parallelismo è patente anche nella seconda parte del
libro di Teognide, che, con le sue brevi massime, imita
la sentenziosità degli Erga. L'analogia non è turbata
dal fatto che in Teognide si trovano anche nella se-
conda parte alcuni componimenti di maggiore ampiezza,
che dall'adagio in più versi giunge alla forma riflessa
della breve elegia. Tipicamente arcaica è questa ma-
niera, comune ai due casi, di derivare dall'impulso
personale e dalla necessità del momento <pialche cosa
di validità extratemporale. Il difetto d'equilibrio arti-
stico fra le parti dell'opera che ne sorge, è compensato,
per la nostra moderna sensibilità, dalla maggiore inte-
riorità individuale e intensità di sentimento, tanto che
facilmente siamo indotti all'errore di fare dell'erom-
pere di questa commossa interiorità dalla sua sfera
soggettiva, una norma generale, cosi da non trovare
che confessioni là dove voglion essere cognizioni.
La seconda delle elegie della prima parte c'intro-
duce già alla raccolta di massime, vero e proprio co-
dice dell'etica aristocratica, là dove attribuisce l'ingiu-
stizia e la condotta maligna della classe ora dominante
al fatto ch'essa non possiede criterio alcuno 30) del no-
bile e dell'ignobile. Questo è appunto quanto il poeta
vuole insegnare a Cirno, affinché si distingua dal volgo

30) ~wµa:L (60) che sono veramente sentenze perentorie~ cfr.


le yvwµa:L epigrammatiche, che appaiono nell'ultima parte del.
libro.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 363

per disciplina e contegno veramente nobili. Di quel


criterio dispone solo cm possieda la tradizione. È tempo
di conservarla al mondo, facendo sorgere l'uomo che
la esprima in forma duratura: così potrà esser di guida
al giovane bennato perché diventi uomo veramente
nobile. Il poeta ammonisce a non frequentare i cattivi
(xc.cxol, aetÀol), che è per lui un concetto concreto,
comprendente tutto quanto non proviene dalla disci-
plina aristocratica, così come d'altronde i buoni (&yix6oE,
fo6Àol) non si irovano che tra i suoi pari. È questa
un'idea fondamentale della sua educazione, ch'egli sta-
bilisce subito come un assioma, enunciando la sua in-
tenzione di comunicare gl'insegnamenti degli antenati 31),
e con la quale inizia poi la parte sentenziosa 32). Nel
mezzo - tra l'enunciazione programmatica e le mas-
sime - sta la parte politica 33). Essa dà la motivazione
attuale del mònito: - attienti agli eletti, non ti me-
scolare al volgo -"-- facendo un quadro a fosche tinte
della loro corruttela. Che cosa intenda Teognide per
frequentazione degli eletti, ci mostra in complesso
l'esempio del suo stesso insegnamento, il quale infatti
è animato dal sentimento dell'autorità della vera no-
biltà, che il poeta rivendica per se medesimo.

Non è nostro compito seguire minutamente il corso


dei pensieri contenuti nella parte sentenziosa. Ogni
parola detta dal poeta, ogni dovere da lui affermato
trae il suo accento speciale, la sua urgenza partico-
lare dall'immediatezza del pericolo in cui li situa la

31 ) Theogn. vv. 31-38. M. HOFFMANN, Die ethische Termino-


logie bei Homer, Hesiod und den alten Elegikern und Jambographen
(Tiibingen 1914) 131 ss. ha studiato i concetti di &ya:.&6ç, xa:x6ç,
fo&).6ç e 1le:LÀ6ç in Teognide ed ha esaminato il loro oignificato.
32 ) Theogn. vv. 69-72.
33) V. vv. 39-68. Questa parte consiste in due elegie Kupve:,
xue: L r.oÀL<; l]òe: (39-52) e Kupve:, it6ÀLç µ.èv e.&' f)lle: it6ì..Lç (53-68).
364 LIBRO i - L'ETÀ ARCAICA

precedente descrizione delle condizioni sociali. Teo-


gnide incomincia con tutt'una serie di gnomai che
ammoniscono a non . stringere amicizia coi cattivi ed
ignobili, perché malfidi e traditori 34). Consiglia a non
aver che pochi amici, uomini che alle nostre spalle
non parlino diverso che in faccia e nei quali abbiamo
un appoggio nella sfortuna. Ogni rivolgimento suscita
nella co1lettività una crisi di fiducia: coloro che hanno
egual modo d.i sentire si stringono vieppiù tra loro, ché
il tradimento sta in agguato da ogni parte. Teognide
stesso dice: un uomo fidato vale tant'oro nei tempi
di discordia politica 35). È questa ancora l'antica etica
aristocratica ?
Certo, essa aveva inalzato a modelli le amicizie
ideali, Teseo e Piritoo, Achille e Patroclo, e l'estima-
zione del buon esempio appartiene alla sostanza più
antica dell'educazione aristocratica. Ma qui, sotto la
pressione della disperata situazione politica della no-
biltà, l'antica dottrina dell'alto valore del ·buon esem-
pio e delle elette relazioni diviene lode dell'eterìa poli-
tica, etica di parte 36). Ciò segue già dal posto premi-
nente del mònito a sceglier bene le proprie relazioni
e a fare di un animo di provata fidatezza la premessa
d'ogni amicizia, messo in cima all'educazione teognidea.
Può darsi che il poeta stesso avesse già ricevuto dai
genitori tale insegnamento, ché la lotta sostenuta dal
suo ceto aveva una storia già lunga. Ad ogni modo
questa lotta sociale aveva fatto dell'etica aristocra-
tica una cosa diversa; col maggior rigore si era venuti
anche a maggior ristrettezza. Per quanto diversa sia

34) Theogn. v. 69 ss.


35) Theogn. v. 77 ss.
S6) In tempo di cr-r<icn.;, era il partito, non l'affinità a deter-
minare le amicizie, come dice Tucidide III 82, 6. In origine cpLÀo~
significa i membri del clan, della consorteria; in Teognide si-
gnifica gli aderenti a un partito, ma nel senso di classe sociale.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 365

quest'etica aristocratica, nel suo fondamento, dalla


nuova etica dello Stato, superante i contrasti sociali,
quale è rappresentata da Solone, pure la nobiltà ora
è costretta a subordinarsi in qualche modo al tutto.
Essa può sentirsi come un recondito Stato nello Stato,
ingiustamente abbattuto, che si tratta di ristabilire;
ma oggettivamente considerato, rimane un mero par-
tito, che lotta per la propria potenza, giovandosi,
nella sua ricerca d'interna coesione, dell'innato sen-
timento di casta per prevenire la disgregazione. n
vecchio comandamento della frequentazione dei buoni
diviene un esclusivismo di tinta politica. È effetto di
debolezza; tuttavia è innegabile che il comandamento
della fedeltà, anche se resti soprattutto lealismo poli-
tico di classe, e quello d'assoluta sincerità, quali fon-
damenti dell'amicizia, produssero alti valori che hanno
anche un contenuto etico. Qui sono le radici dello
spirito di corpo, e in base a questo è espresso il giu-
dizio 37 ) : « La gente nova ride di nascosto nell'ingan-
narsi reciprocamente ». Questa educazione di casta non
può paragonarsi al livello dell'idea civica di Solone;
non dobbiamo tuttavia d~bitare della serietà del suo
comandamento di dimostrare in pratica l'equazione
&.yoc66ç = nobile. Teognide ravvisa nella distinzione,
cosi intesa, la forza della propria classe, l'ultimo ba-
luardo nella lotta per la sua esistenza.
Ciò che rileviamo nelle norme circa le relazioni
convenienti è un fenomeno che interessa tutta l'edu-
cazione di Teognide. Quest'etica aristocratica è intera-
mente il prodotto delle nuove condizioni sociali. La
trasformazione del ceto in partito non va tuttavia in-
tesa troppo rigorosamente nel senso di una determi-
nata attività politica. La nobiltà è soltanto costretta

11) Theogn. v. 59 ss.


366 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

a raccogliersi strettamente a difesa. Nella vita pubblica


tale minoranza, per il momento, non può affatto im-
porsi; Teognide consiglia quindi al suo giovane amico
di adattarsi volutamente, esteriormente, a quelle date
circostanze 38 ) : « Segui la via di mezzo, come faccio io ».
Non è l'eroica posizione intermedia di Solone tra gli
estremi contrastanti 39), bensì un cavarsela col minimo
rischio personale. Cirno dovrà essere astuto e mostrarsi
cangiante. Dovrà essere come il polpo, che assume il
colore dello scoglio cui si appiccica, e mutar conti-
nuamente di colore 40). È l'adattamento proprio della
lotta per la mera esistenza, e il demos rappresenta
appunto il nemico. La difficoltà morale di tale lotta
sta in ciò che essa, di sua natura, non è aperta; ma
Teognide crede che un uomo nobile vi resti pur sempre
nobile, che, anzi, sia « una roccaforte per il demos
dalla testa vuota, sebbene poco onore · esso gli tri-
buti» 41 ). Non sono contradizioni: è la risultanza neces-
saria della situazione in cui trovasi la nobiltà. Ma non
è l'antica etica aristocratica.

Nuova e sconvolgente è soprattutto1 la crisi del


concetto di areté, connessa al vero nocciolo del rivol-
gimento politico, il sovvertimento della vita economica.
La situazione della vecchia nobiltà si basa va sulla
proprietà terriera, ed è scossa da] sorgere dell'econo-
mia monetaria. Non sappiamo se vi si aggiungessero
ragioni politiche; certo è che la nobiltà, al tempo di
Teognide, è in parte ridotta in povertà, e un nuovo
ceto ricco plebeo ascende verso il potere politico e la
considerazione sociale. L'antico concetto aristocratico

88) Theogn. v. 220.


89) V. p. 276.
'°) Theogn. v. 213 ss.
il) V. 233.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 367

dell'areté fu anch'esso scosso da tale passaggio di pro-


prietà, giacché essa aveva sempre compreso anche il
prestigio sociale e le ricchezze materiali, senza di che
talune doti specifiche dell'uomo eletto, come la ge-
nerosità e la magnificenza, non potevano affatto ma-
nifestarsi 42). Anche per il semplice contadino era cosa
ovvia che la ricchezza procura areté e considerazione,
come dice Esiodo 43); e l'accoppiamento dei due concetti
mostra come nell'areté arcaica vada sempre inclusa
l'idea del prestigio sociale e della situazione esteriore.
La dissoluzione di questo concetto dell'areté venne
dalla nuova etica civile. E dovunque il concetto d'areté
della vecchia aristocrazia è attaccato o trasformato, so-
prattutto in Tirteo e Solone, appare quanto gli fosse
saldamente legata appunto la ricchezza (oÀ~oç, 7tÀOU'C"oç)
e quanta difficoltà trovasse a staccarsi da tale unità
originaria. Tirteo aveva apprezzato la nuova areté po-
litica - che per Sparta, in lotta con la Messenia, con-
sisteva soprattutto nel valore guerresco - più della
ricchezza e di tutti i beni dell'aristocrazia 44); e così So-
lone La somma virtù politica del nuovo Stato secondo
il diritto, la giustizia 45). Ma, da figlio delle vecchie idee
circa la ricchezza, aveva implorato dagli dèi la ric-
chezza, sia pure giusta soltanto, fondandovi anche la
sua speranza di conseguire areté e considerazione 46). P~r
le sue concezioni sociali, l'ineguaglianza degli averi non

42) V. sopra, p. 59, su Omero; su Solone, p. 272. L'ideale


ùi Pindaro, 7CÀOUToç à.pe:Toci:ç 8e:8oc~8ocÀµévoç, è lo stesso. Anche
Aristotele nel suo codice etico, stabilisce l'importanza dei beni
materiali per una «buona vita» e per lo sviluppo di certe virtù
morali come la µe:yocÀo7CpÉ7te:~oc e la È:Àe:u~e:p>6niç, Eth. Nic. IV
1 e IV 4. Queste virtù erano eredità dell'antico modo di vita ari·
stocratico.
43 ) Hes. Upp. 313 7CÀOUT<p 8' à.pe:-.'Ìj xocì xu8oç 07C7J8e:'t.
44) Tyrt. fr. 9, 6. Cfr. p. 182.
•s) Sol. fr. 3, 5 ss.
t6) Sol.n. 1, 7 ss.
368 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

era un'istituzione senz'altro contraria alla divinità, giac-


. ché per lui, oltre il danaro e i beru materiali, esistono
anche altre ricchezze, che la natura ha date all'uomo
nell'uso delle sue membra sane e. nella gioia di vivere <1 7 ).
S'egli avesse la scelta tra areté e ricchezza, darebbe la
preferenza alla prima 48). Che carattere rivoluzionario, <>
insieme positivo e robusto abbia quest'ordine d'idee,
ce lo mostra il confronto con Teognide, che non si stanca
di lamentare e maledire la povertà, attribuendole un
potere illimitato sugli uomiru <19). Certo, egli l'ha speri-
mentata in persona propria, e, per quanto gli pesi, vi
sono peraltro valori che gli stanno più a cuore della
proprietà, per amor dei quali, anzi, egli esorta a rinun-
ciare spontaneamente a questa. Egli ha purtroppo ve-
duto negli odiati nuovi ricchl come danaro e bassezza
possano bene andar congiunti, ed è c-0stretto a dar ra-
gione a Solone, che preferisce allora la giusta povertà 50).
Qm è perfettamente chiaro il capovolgimento del con-
cetto d'areté dell'antica aristocrazia, sotto la pressione
delle condizione dell'epoca. In Solone esso è frutto di
spontaneità interiore.

u) Sol. fr. 14.


") Sol. fr. 4, 9-12.
49) Sui molti passi dei «Detti a Cirno» riguardanti il problema
di ricchezza e povertà, cito Teognide v. 149 ss., e specialmente
vv. 173-182. I « Detti dai poeti», che ora formano la seconda
parte della silloge teognidea, contengono -parecchio intorno alla
povertà, p. es. v. 267, 351, 383, 393, 619, 621, 649, 659, 667. Ma
non è possibile dire quali di questi distic siano realmente teo-
gnidei. L'elegia che ostenta cinismo nel pregiare la ricchezza
(vv. 699-718) come il solo bene, è una imitazione e trasformazione
della famosa poesia di Tirteo (fr. 9) come ho dimostrato in Tyr-
taios uber die wahre Areté (« Sitz. Bei:l. Akad.» 1932) 559 ss. Il
carme, benché incorporato nella silloge teognidea, pare un pro-
dotto del V sec.
60) I passi di Solone sull' areté e sulla ricchezza (plutos) fu-
rono incorporati nella nostra silloge teognidea (cfr. vv. 227, 315,
585, 719)-·perché somigliavano molto alle manifestazioni schiet-
tamente teognidee. In realtà furono il modello e la fonte di Teo-
gnide stesso snll'areté e sulla ricchezza. vv. 149, 153, 155, 161,
165, 319, 683.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 369

Teognide ha discusso appassionatamente le idee di


Solone circa la proprietà e l'areté; si sente ad ogni passo:
come nelle elegie politiche della prima parte 51) discute
con l'eunomia di Solone, così qui con la grande elegia
alle Muse, la quale considera il rapporto tra l'aspira-
zione umana al possesso ed il successo, sotto il rispetto
della giustizia dell'ordinamento divino del mondo. Le
due parti dell'elegia, che formano una contrapposizione
grandiosa, sono state variate da Teognide in due poesie
indipendenti, distruggendo cosi, peraltro, la profonda
giustificazione del reggimento divino, che in Solone tiene
unite le due parti 52). Egli non si occupa d'una cono-
scenza religiosa siffatta, anzi non ne è capace affatto.
Il primo ragionamento di Solone, che riconosce l'opera
di Dio nel fatto che il mal tolto, a lungo andare, non
prospera, suscita in Teognide una riflessione più sog-
gettiva: certo, egli approva Solone; ma gli uomini tor--
nano sempre a lasciarsi. illudere dal fatto che il castigo,
alle volte, si fa tanto aspettare. Si sente qui l'impazienza
di chi attende la vendetta celeste contro i suoi nemici
di parte e dice a se stesso che forse non la vedrà più
coi propri occhi.
Nemmeno nella libera variazione sulla seconda parte
dell'elegia di Solone, Teognide vede l'elemento proble-
matico che si ha quando, non ostante quella rigorosa
giustizia divina che è tratteggiata da Solone nella prima
parte, gli sforzi dei buoni tante volte falliscono, ma gli
errori degli stolti non hanno infauste conseguenze. La
contradizione etica che vi è contenuta non stimola la
sua riflessione; tanto meno egli è in grado di schierarsi,
come Solone, dalla parte della divinità, per intender~

61) V. p. 360.
52 ) Sol. fr. l (Diebl). La prima parte è riecheggiata in Teogni4'.l
vv. 197-208, la seconda in Teognide vv. 133-142.
370 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

secondo quella prospettiva p1u elevata, la necessità di


una compensazione preterindividuale nel caos degli sforzi
e desideri umani. Anche qui Teognide non trova nelle
considerazioni di Solone se non l'impulso ad un atteg-
giamento soggettivo di rassegnazione. Secondo le sue
esperienze, egli è compenetrato dell'idea che l'uomo non
è mai responsabile egli- stesso né def proprio successo,
né del proprio insuccesso. Altro non resta all'uomo,
che rimettersi al volere degli dèi; quanto a lui, non
può influire per nulla sul proprio destino. Anche nella
ricchezza, nel successo e nel prestigio è nascosto il germe
della sventura - dice altrove; occorre quindi implo-
rare una cosa sola: la Tyche 53 ). Che giova a un uomo
volgare il . danaro, se gli tocca in sorte, dal momento
che lanimo suo non è « diritto» ? Non può che con·
durlo a rovina 54).
Ciò. solo che resta eliminando idealmente nell'uomo
veramente nobile la ricchezza, dunque per così dire
la nobiltà interiore, diviene ora l'areté 55), e CÌUanto pochi
sono ad averla ! Si è creduto che Teognide non possa
«moraleggiare» così; ma appunto perché egli appar-
tiene alla nobiltà onoratamente decaduta; egli ha i~­
parato a pensare in questo alla maniera di Solone. Né
è giusto asserire che non possa appartenergli la bella
sentenza 56): «Nella giustizia è contenuta ogni virtù, e
nobile è chiunque sia giusto». Anche s'egli ha desunta
l'idea da un non-aristocratico quale Focilide 57), non po·

03) Theogn. v. 129.


H) Theogn. v. 153.
55) Theogn. vv. 149-150.
56) Theogn. vv. 147-148: È11 lìè: lìLl<OCLocru1171 ciuÀÀ~(31ì11v 7tiia'
&.pE-rf, icrnv, 7téiç lìi -r' rivÌjp &.ya..&6ç, Kup11E, lìlxa.rnç Èc1v.
57) Soltanto il verso è:v 81: lìLJ<<Xtocruv71 auÀÀ~(3lì1J" 7tifo' &.pE-rlj
È:cr-rw (Theogn. v. 147) fu citato da Teofrasto nel primo libro
del IlEpt ÌJ.&&11 come appartenente a Teognide, ma lo stesso autore
lo cita di nuovo nel I libro della sua Etica come appartenente
a Focilide. Michael Ephesius, comm. ad Arist. Eth. Nic. V 2, 1129 b
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 371

teva fare a meno di far suo il principio che il volgo


anelante al potere aveva scritto sulla propria bandiera
e che pure in pratica - secondo il convincimento di
lui - calpestava. Appunto questo principio divenne
ora l'arma della classe già dominatrice, ora ingiusta·
mente oppressa, che un tempo aveva sola « conosciuto
la legge e il diritto » e che, a giudizio del poeta, era
tuttora unica rappresentante della vera giustizia 58). Que-
sto è, certo, un restringere l'ideale della giustizia quale
vera virtù, riducendola dallo Stato alla casta, ma per
Teognide esso non ha nulla d'imbarazzante. Anche per
Pindaro la giustizia è divenuta elemento indispensabile,
anzi fiore supremo della civiltà aristocratica. Qui, ap·
punto, lo spirito della nuova etica della polis ha dav-
vero superati gli antichi ideali.
Non v'era più che un'ultima barriera, e cioè la fede
incrollabile nel sangue. Perciò Teognide comanda come
supremo dovere di conservarlo puro. Qui leva la sua
voce contro fratelli di casta stolti e senza princ1pn, i
quali credono di poter rimettere in piedi le loro malan·
date proprietà per mezzo di matrimoni con le figlie
di ricchi plebei, o dànno le proprie figlie ai figli di nuovi
ricchi. « Nella scelta degli animali da monta, arieti,
asini e stalloni, non trascegliamo che i più eletti; ma
al nostro stesso sangue non abbiamo riguardo per le-
gami siffatti. La ricchezza mescola le schiatte» 59 J. An-
chè questo ruvido insistere sull'idea della razza e del·
l'allevamento, è un segno che l'etica aristocratica è en·

27 (p. 8 Wendland) nota questa contraddizione, ma non trova


difficoltà a supporre che il verso si trovi in tutti e due gli autori.
Poiché questa non può essere una improvvisazione di Michael,
è probabile che l'abbia desunta da una fonte dotta e molto più
antica.
58 ) Teognide, v. 54, parla dei Àocol che anticamente OUT& lllxocç
tjll&mxv ouT& v6µouç, ma ora sono ciyor..&o[, mentre quelli che an·
ticamente erano èa.&Àol, sono ora lle:~Ào(.
6D) Theogn. v. 183 ss.
372 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

trata in una nuova fase. Essa diventa lotta consapevole


contro. il prevalere livellatore del danaro e della· molti-
tudine. È naturale che ad esempio in Atene, dove oc-
correva assolvere cosi imponenti compiti generali, gli
spiriti più profondi, sebbene per lo più appartenenti
alla nobiltà, non potessero fermarsi alla mera reazione.
Già Solone l'aveva oltrepassata. Ma dovunque era una
nobiltà in lotta per la propria esistenza e per il proprio
carattere peculiare, essa trovò il suo specchio nella
sapienza educativa di Teognide di Megara. Molte delle
sue idee risorsero in una fase ulteriore nella lotta della
borghesia col proletariato, e in fin dei conti la sua fede
sta e cade con la questione se sia in genere giustificata
e necessaria una aristocrazia, sia aristocrazia di sangue
o di qualsiasi altra tradizione superiore. L'idea della
selezione della razza, che è specificamente aristocratica,
nell'antichità stessa trovò il suo ulteriore sviluppo so-
prattutto in Sparta e presso i grandi educatori di Stato
del secolo IV, e a suo luogo avremo a trattarne più
ampiamente SO). Basterà dire per ora che sia a Sparta
sia nelle teorie di Platone e di Aristotele, questo ideale
si spogliò della limitatezza di casta 61), accQmpagnandosi
all'esigenza dell'educazione statale della n.azione intera.

La fede aristocratica di Pindaro.. - Dalla lotta tenace


dell'aristocrazia in difesa della sua posizione sociale,
quale si svolse non nella piccola Megara soltanto, Pin-
daro ci conduce alle vette eroiche della vita aristocra-
tica greco-arcaica. Giova dimenticare per qualche tempo
i problemi di tale cultura, nei quali Teognide ci permette
di gettare uno sguardo, perché varchiamo qui la soglia
di un mondo superiore. Pindaro è la rivelazione di una
grandezza e d'una bellezza da noi remote, ma che c1
60) Cfr. « Paideia» II 425 ss.; III 435 ss.
61) Su Platone v. la nota precedente. Arist. Pol. VII 16 ss.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 373

sforzano al rispetto e all'ammirazione. Egli mostra l'ideale


dell'aristocrazia ellenica di razza nei momenti della sua
più alta sublimazione, e come, inoltrandosi. dai tempi
mitici nella fredda e grave realtà del V secolo, esso
abbia pur la forza di richiamar sempre di nuovo su di sé,
nelle gare Olimpiche e Pitiche e in quelle di Nemea e
dell'Istmo di Corinto, gli sguardi di tutta l'Ellade, fa-
cendo obliare tutti i contrasti fra le diverse stirpi e
contrade nell'orgoglio, che tutte le unisce, dei suoi
trionfi. Di qui giova considerare l'essenza dell'aristocrazia
greca arcaica, per intendere come la sua importanza per
la formazione dell'uomo greco non si esaurisca nella
gelosa conservazione di tradizionali privilegi e pregiu-
dizi· di casta, né nell'elaborazione di un'etica della pro-
prietà, per quanto interiorizzata 62 ). L'aristocrazia è la
creatrice dell'alto ideale umano tuttora sensibilmente
presente anche all'ammiratore estraneo nelle opere delle
arti figurative del periodo greco arcaico e classico 63),
per quanto esso sia spesso piuttosto ammirato esterior-
mente che non intimamente inteso. L'essenza di quel-
l'uomo agonale, che l'arte ci fa vedere nella forte e ar-
moniosa conformazione della .sua nobile figura, acquista
per noi, nella poesia di Pindaro, vita e linguaggio inte-
riori e, con la sua forza d'animo e la sua serietà reli-
giosa, esercita tuttora un'attrattiva misteriosa, quale
è propria soltanto di ciò che è unico, irripetibile nella
storia dello spirito umano 64). Eccezionalmente propizio,
82 ) Sull'aspetto economico della società aristocratica dell'antica

Grecia, v. la bibliografia citata a p. 59 n. 14.


83 ) HEGEL giustamente osserva nella Filosofia della Storia
(Werke, Vollst. Ausg., Berlino 1848, Bd. IX 295 ss.), che l'opera
d'arte oggettiva, l'ideale dell'atleta creato dalla scultura greca,
fu preceduta dall'opera d'arte soggettiva che fu l'uomo vivente,
il corpo addestrato del vincitore olimpico. In altre parole, la
«bella individualità» che è la legge dell'antica arte greca fu de·
terminata e modellata dalla paideia greca e dal suo ideale atletico.
") Alcuni grandi pensatori originali del sec. XIX, come J.
G. Herder. e W. v. Humboldt, dotati di straordinaria conoscenza
374 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

invero, ed irripetibile fu il momento in cui il mondo ter-


reno della fede greca arcaica, impregnato di divinità,
vide nella figura umana, inalzata oltre la misura terrena
alla «perfezione», l'apice del divino, e in cui, ad un
tempo, nelle immagini antropomorfe degli dèi trovava
consacrazione e santificazione lo sforzo del mortale per
accostarsi a quel modello, che primo aveva rivelato
all'occhio dell'artista la legge di tale perfezione.
La poesia di Pindaro è arcaica, ma anche in altro
senso che le opere dei suoi contemporanei e persino
d'anteriori poeti preclassici. Il giambo di Sòlone ap·
pare, al confronto, moderno affatto per linguaggio e
sentimento. Quanto la poesia pindarica ha di vario-
pinto, sovrabbondante, logicamente difficile da affer-
rare, non è che il paludamento esteriore « d'attualità »
di un arcaismo profondamente interiore, che ha suo
fondamento in tutto l'essere dell'uomo·, nei vincoli più
rigidi che ne reggono l'atteggiamento intellettuale, nella
diversità del suo tipo di vita 65). Di fronte· a Pindaro,
se ci accostiamo a lui movendo dalla « anteriore » cultura
ionica, ci coglie il senso di uscire dall'unità evolutiva
spirituale che, spiccandosi dall'epos ome:çico, conduce
in linea retta alla lirica e alla filosofia naturale indivi-
duali degli Ionici, e di trovarci lanciati in un altro
mondo. Come in Esiodo, del resto cosl docile alunno
d'Omero e del pensiero ionico, lo sguardo ei spinge
spesso d'improvviso nella patria preistoria, sepolta sotto

storica e immaginazione poetica, riscoprirono il vero fondamento


sociale della poesia di Pindaro. V. GLEASON ARCHER, The Re·
ception of Pindar in Eighteenth-Century German Literature (Har-
vard dissertation 1944), che delinea l'influenza di Pindaro sul
pensiero francese e inglese dal Rinascimento in poi e adduce
molto e buon materiale probatorio.
") Sulla lingua poetica di Pindaro, cfr. F. DORNSEIFF, Pindars
Stil (Berlino 1921), che contiene eccellenti osservazioni, e fra
i lavori anteriori A. CROISET, La poesie de Pindare (Parigi 1895).
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 375

le fondamenta dell'epos, così in Pindaro, e qui molto


più ancora, siamo circondati da un mondo del quale
la Ionia d'Ecateo e d'Eraclito non serba più alcuna
idea; anzi, sotto più d'un rispetto esso è intimamente
più antico d'Omero e della sua civiltà umana, sulla
quale sono già caduti i primi raggi del mattutino astro
del pensiero ionico. Invero, per quanto la fede aristo-
cratica di Pindaro abbia di comune con l'antico epos,
pure in Omero non sembra ormai quasi altro che un
lieto gioco ciò che per Pindaro torna ad essere profon-
damente serio. Ciò dipende in parte, com'è ovvio, dal
divario tra la poesia epica e l'inno pindarico, il quale
proclama quale precetto ~eligioso ciò che quella narra
quale vita reale. Ma tale diversità di atteggiamento
poetico non deriva soltanto dalla. forma e dall'occasione
dei componimenti poetici, come qualche cosa d'este-
riormente dato, bensì da tutta l'intima aderenza di Pin-
daro a quella sfera aristocratica da lui descritta. Solo
perché lo stesso esser suo ne derivava e ne è nutrito,
poteva egli dare dell'idea di essa una raffigurazione
così suasiva come quella che ebbe nella poesia di lui 66 ).
L'opera di Pindaro ebbe nell'antichità un'ampiezza
molto maggiore di quella parte che ce n'è pervenuta.
Soltanto in epoca recente un fortunato ritrovamento
nel suolo egiziano ci ha dato un'idea della sua poesia
religiosa, ch'era andata perduta 67). Per mole essa sopra-
vanzava di gran lunga gli inni trionfali od epinici, come
furono chiamati dipoi; ma per lui non ne differiva so-
stanzialmente 68). Anche nei carmi ai vincitori delle gare

06) Per tutta questa parte v. il Nachwort a Pindarische Gedichte


di RUDOLF BORCBARDT.
67 ) Nelle sabbie d'Egitto sono stati scoperti papiri con alcuni
peani, on partenio, e una parte di un ditirambo di Pindaro. oltre
a poesie di Bacchilide, Corinna e Alcmane.
88) Sulla storia del testo, tradizione ed egesesi del IV libro
degli Epinici di Pindaro, cfr. WILAMOWITZ, Pindaros (Berlino 1922).
376 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

d'Olimpia, di Delfo, dell'Istmo e di Nemea, si affaccia


dappertutto il senso religioso dell' agon, e la emulazione
incomparabile che vi si esplicava era un momento cul·
minante della vita religiosa del mondo aristocratico.
La pratica singolare della ginnastica - nel senso
più ampio del termine - nell'Ellade arcaica, è le-
gata alle feste degli dèi sin dai secoli più remoti cui
risalgono le notizie pervenuteci. Ludi funebri in onore
di Pelope ad Olimpia diedero forse origine a quelle
feste, simili a quelli in onore di Patroclo, descritti nel·
l'Iliade. Che anche ludi funebri potessero celebrarsi pe·
riodicamente, è attestato pure in altri casi, come per
Adrasto a Sicione, dove gli agoni avevano tuttavia altro
carattere 69). Può darsi che tali antiche gare passassero
presto a far parte del culto di Zeus olimpico. I doni
votivi in forma di cavalli, rinvenuti sotto le fondamenta
del santuario primitivo, permettono d'inferire che in
quella sede di culti antichissimi si svolgessero corse di
cocchi molto prima dell'epoca in cui la tradizione sto·
rica dei giochi olimpici colloca la prima vittoria di Co-
rebo nella corsa nello stadio 70). Secondo il modello d'Olim-
pia, ne] corso dei secoli arcaici, si co~gurarono gli
altri tre agoni periodici panellenici, che si accompagnano
nell'età di Pindaro a quello di Pisa, senza mai egua·
gliarlo del tutto per importanza. Lo sviluppo delle gare
dalla semplice corsa sino al programma complesso che
rispecchiano gl'inni trionfali di Pindaro, è riferito dalla
tradizione della tarda classicità in tappe esattamente
delimitate nel tempo; tuttavia l'attendibilità di tali dati
non è incontestata 71).

Her. V 67.
69 )
Sulle gare olimpiche v. E. W. GARDINER, Greek Athletic
70)
Sports arul Festivals (Londra 1910) e AthletU:s of the Ancient World
(Oxford 1930); FRANZ MEzò, Geschichte der olympischen Spiele
{Monaco 1930).
n) Sull'ordine dei vari generi di gare di Olimpia, v. MAHAFFY,
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 377

Ma non abbiamo qui ad occuparci della storia degli


agoni, né dell'aspetto tecnico della ginnastica. Che l'ago-
nistica fosse propria, in origine, della sola nobiltà, è
cosa insita nella sua indole stessa ed è confermata dalla
poesia. Per la concezione di Pindaro, è questa una pre-
messa essenziale. Sebbene le competizioni ginniche, ai
suoi tempi, già_ da un pezzo non fossero più privilegio
d'un ceto, la partecipazione delle antiche casate conti-
nuava ad esservi prevalente. Esse avevano la proprietà,
che dava agio e mezzi per un continuo allenamento. Nella
nobiltà non soltanto era tradizionale l'alta stima del-
1'ag6n, ma vi si tramandava anche con la maggior fa.
cilità l'opportuna attitudine psichica e fisica, per quanto
col tempo potessero entrare in competizione vincitori
borghesi, che sodisfacevano alle medesime condizioni.
Solo più tardi l'atletismo professionale spodesta nei ludi
quella razza, selezionata in secoli di sforzi tenaci e d'in-
crollabile tradizione e solo d'allora in poi il lamento
di Senofane per la sopravalutazione della bruta « forza
fisica» materiale trova un'eco tardiva ma durevole 72).
Nel momento in cui lo spirito è· sentito come qualche
cosa di nettamente contrapposto o addirittura ostile al
corpo, l'ideale dell'antica agonistica è umiliato irrepa·
rahilmente e perde la sua posizione dominante nella vita
greca, sebbene sussista ancora per secoli quale sport.
Nulla le è in origine più estraneo del concetto meramente

« J. H. S.» II 164 ss.; A. KoERTE, « Hermes» XXXIX (1904)


224 ss.; O. BRUCKMANN, « Rhein. Mus.» N. F. LXX (1915) 623;
v. anche E. W. GAEDINER, Greek Athletic Sports and Festivals.
72) V. Xenoph. fr. 2, 11 (DIELS, Vorsokratiker I) e sopra
pp. 322-324. Un lungo frammento del dramma perduto di Euri-
pide, Autolico, tramandatoci da Ateneo (X 413c), riprende e
svolge l'invettiva di Senofane contro gli atleti. Egli li attacca
con lo stesso spirito del suo predecessore sul fondamento della
loro inutilità verso la società in tempo di guerra. Anche Platone,
nella sua Repubblica, misura la prodezza atletica col criterio di
utilità militare (v. « Paideia» II 399).
378 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

intellettuale della forza o educazione «fisica». L'unità,


per noi irrimediabilmente perduta, di corpo ed anima,
che ammiriamo nei capolavori delle arti figurative gre-
che, ci indirizza ad intendere l'altezza umana dell'ideale
agonale, se anehe la realtà non gli corrispose affatto pie-
namente. È diffidle indovinare sino a qual punto Se-
nofane abbia ragione rispetto ad essa; ma l'arte ci dice
se non altro ch'egli non è vero interprete di quell'alto
ideale, inteso come tale, la cui incarnazione, insieme
con l'immagine della divinità, costituisce il compito
più elevato di tutta l'arte religiosa di quell'epoca.
Gl'inni di Pindaro si riferiscono ai momenti supremi
della vita dell'uomo agonale, alla vittoria ad Olimpia
o in qualche altro dei grandi ludi. La vittoria è la pre-
messa del carme, il quale è destinato alla sua celebra-
zione ed è per lo più cantato al momento del ritorno
del vincitore, o poco dopo, da un coro di giovani con-
cittadini del festeggiato. Questo vincolo dell'inno trion-
fale con l'occasione esteriore appare in Pindaro d'ordine
religioso come negl'inni agli dèi. Né è cosa semplice.
Formatasi nella Ionia, riallacciandosi all'epos, che sin
da principio non fu cultuale, una poesia, individuale,
nella quale l'uomo cercava l'espressione dei propri sen-
timenti e pensieri, uno spirito più libero aveva inspirato
anche la poesia cultuale, sin dai tempi più remoti equi-
parata al canto eroico, l'inno, cioè, che si cantava in
lode d'un dio. Ciò condusse a svariate trasformazioni
della sua antica forma convenzionale, sia che il poeta
v'introducesse un pensiero religioso proprio~ dando così
al canto un vigore espressivo personale, sia che inno e
preghiera si riducessero a mera forma, per poter espri-
mere liberamente di fronte a un Tu sovrumano i recon-
diti sentimenti dell'Io umano, come fa la lirica ionica
ed eolica. Un passo ulteriore, che attesta il crescente
orgoglio dell'individuo anche nella madrepatria, fu com-
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 379

piuto trasferendo l'inno dall'omaggio agli dèi all'esalta-


zione di persone singole, che si può rilevare verso la
fine del VI secolo. Qui l'uomo diviene esso stesso oggetto
dell'inno. Certo, .ciò non era possibile per un uomo
qualsiasi, bensì soltanto per i divi olimpionici; ma il
farsi profano dell'inno è tuttavia innegabile, e profana
affatto era la « Musa venale» 73) del grande virtuoso
della poesia contemporanea Simonide, di Iulide nell'isola
di Ceo, che coltivava la specialità di tali inni trionfali
oltre a molti altri generi di poesia d'occasione profana,
e quella del nipote Bacchilide, minore emulo suo e di
Pindaro.
Pindaro è il primo per il quale l'inno trionfale di-
venga un genere di poesia religiosa. Movendo dalla sua
concezione arcaico-aristocratica dell' ag6n, egli presenta
l'uomo e il vincitore, che si sforza di conseguire la perfe-
zione della propria virilità, secondo una determinata
interpretazione etico-religiosa della vita, e diviene così
il creatore d'una poesia lirica d'una enorme profondità
di contenuto umano, là dove essa, dall'alto della vetta
splendidamente soleggiata, volge lo sguardo al senso e
alle vicende misteriose dell'umana sorte; e non v'è
poeta di più sovrana libertà che questo pensoso maestro
di una nuova forma d'arte cultuale, che obbedisce a una.
sua pietà originale. Soltanto in questa forma l'inno
all'uomo vincitore ha per lui diritto d'esistere. S'egli
lo ha strappato, così trasformandolo, ai suoi inventori,
fieri della loro tecnica, e lo ha fatto cosa propria, poté
osarlo soltanto nell'orgogliosa consapevolezza dell'esclu-
siva veracità della propria concezione de1le venerande
cose di cui qui si trattava. Lo hymno~ epinikos porse

73) V. Pind. lsth. II 6, ci Mofoct yiXp où cptÀox.ep81Jc; n:Cù T6T' 'iv


oò8' è:pyiinc;. Gli scoliasti ad loc. riferiscono questa allusione
polemica a Simonide. Ma v. anche Pyth. XI 41. Sulla cptÀox.€p8s:tct
di Simonide, v. WILAMOWITZ, Pindaros p. 312.
380 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

l'occasione di rimetterle in valore tra la gente del tempo


suo, altra per indole e per intendimenti, e il nuovo carme
stesso conseguì ora soltanto la sua « vera natura», con
l'inspirarsi alla genuina fede aristocratica. Ben lungi dal
sentire nel rapporto col vincitore festeggiato una dipen-
denza indegna del poeta, nonché dal subordinarsi effet-
tivamente alle sue istruzioni come un operaio, egli
ignora del pari la superbia intellettuale della degna-
zione, ma sta sempre all'altezza stessa del vincitore,
sia esso re, nobiluomo o semplice cittadino. Poeta e
vincitore vanno uniti, per Pindaro, e così secondo la
sua stessa spiegazione di tale rapporto, invero singolare
ai tempi suoi, si rinnova in lui il senso originario del-
l'aedismo antichissimo, che altro non era se non pro-
clamare la gloria di grandi imprese ' 4).
Egli restituisce così al canto lo spirito eroico dal
quale in origine sgorgò in età remotissime e al disopra
della mera narrazione dell'accaduto e dell'espressione
abbellita del mero sentimento, lo inalza ad elogio di
ciò che è esemplare 75). Il legame con l'occasione mute-
vole, apparentemente casuale ed esteriore, diviene per
lui la maggior forza della sua poesia: la ,vittoria esige
il canto. Questa idea normativa è per Pindaro il fonda-
mento della sua poesia. Essa si riaffaccia in lui sempre
nuovamente atteggiata, quando « stacca dalla parete
la dorica phorminx » 76) e ne fa risonare le corde. « Ogni
cosa è assetata di un'altra, ma la vittoria nei ludi ama
soprattutto il canto, il più degno accompagnatore delle
corone e delle virtù virili» 77 ). «Lodare l'eletto» è da
lui chiamato « fiore della giustizia» 78), anzi il canto è

74 ) V. p. 93 s. sulla concezione omerica e platonica del poeta-


vate. La stessa idea si trova in Hes. Theog. 99 ss.
75) Sull'exemplum o modello nell'antica poesia greca, v. p. 81 s.
76) Pind. Ol. I 18.
77) Pind. Nem. III 6.
78) Nem. Ili 29: 8lxixç &c.>T<>ç.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 381

spesso qualificato un « debito » deJ poeta verso il vin-


citore 79 ). L'areta, - in Pindaro non possiamo scrivere
questa parola che secondo la fonetica rigorosamente
dorica della sua lingua - l' areta, che trionfa ne1la vitto-
ria, non vuol essere « nascosta tacitamente in terra» 80) :
vuol essere eternata nella parola del poeta. Pindaro è
il vero poeta, al cui tocco tutte le cose ili questo mondo
fattosi monotono e scipito, come per incanto, ricuperano
sempre la loro fresca significanza originaria. « La pa-
rola - dice egli nel canto in onore dell'Egineta Tima-
sarco, vincitore nella lotta degli adolescentj - la pa-
rola vive più a lungo delle azioni, se la lingua l'attinge
dal cuore con la felicità che donano le Grazie » 81).
Troppo poco possediamo della lirica corale greca
arcaica, per determinare con sicurezza il posto ·ili Pin-
daro nella storia ili essa, ma sembra ch'egli creasse cosi
qualche cosa di nuovo, e non si riuscirà mai a « far
discendere » da quella la poesia ili lui. La lirizzazione
artistica dell'epos nella poesia corale arcaica, che prende
dall'epos soprattutto la materia mitica trasportandola
in forma lirica 82), procede in una direzione opposta,
per quanto la lingua ili Pindaro possa andarle debi-
trice caso per caso. In lui pòssiamo parlare piuttosto
d'una rinascita, nella lirica, dello spirito epico-eroico e
della sua genuina lode degli eroi. E nulla può stare
in più pieno contrasto con la libera espressione della
personalità singola, quale abbiamo nella poesia ionica

79) La parola greca è xpéoc;. Cfr. Ol. III 7; Pyth. IX 10, ecc.
80) Nem. IX 7 .
. 81) Nem. IV 7.
83) Questo fu fatto nella Magna Grecia da Senocrito di Locri
(fine del VII sec.) e in Sicilia, nelle più famose poesie corali di
Stesicoro di Imera (VI sec.). Entrambi i poeti trassero le loro
liriche dal mito eroico dell'epos e perciò crearono una forma di
«ballata epica». Alcuni di questi poemi erano di lunghezza con-
siderevole, talvolta di libri interi, e così chiaramente additavano
la loro origine epica.
LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA
382

ed eolica da Archiloco a Saffo, che questo subordinare


la poesia ad un ideale religioso e sociale, e la dedizione
quasi sacerdotale del poeta al culto, abbracciato con
tutta l'anima, di quest'ultimo eroismo che ancora so-
pravvive dai primordi.
Da questa concezione, che Pindaro ha dell'indole
della propria poesia, riceve nuova luce anche la sua
forma. Vinterpretazione filologica degl'inni si è molto
affaticata intorno a tale problema. August Boeckh fu
il primo, nella sua grande opera su Pindaro, a cercare
d'intendere il poeta così movendo dalla piena conoscenza
del suo ambiente storico, come dall'intima intuizione
del suo spirito. Nell'ondeggiare del pensiero, difficil-
mente afferrabile, degl'inni trionfali pindarici, egli cercò
l'unità ideale, che gli rimaneva celata. Ciò condusse
in pratica a escogitazioni insostenibili 83), sicché fu una
liberazione quando il Wilamowitz e la sua generazione,
abbandonando quella via, si dedicarono piuttosto alla
svariata ricchezza che le poesie offrono alla fantasia
sensibile 84). L'interpretazione particolare di Pindaro deve
in buona parte i suoi progressi a tale rinuncia. Ma l'opera
d'arte nel suo complesso rimane problemjl inevitabile,
e appunto per un poeta che lega cosi rigorosamente la
propria arte ad un unico compito ideale, è doppiamente
giustificata la domanda se vi sia, nei suoi inni trionfali,
un'unità formale che oltrepassi la mera unità stilistica.
Nel senso d'un rigido schematismo di struttura, essa
~dubbiamente non esiste, ma è precisamente di là da
quest'ovvia realtà, dove la questione viene ad assumere
un interesse superiore. Nessuno oggigiorno vorrà più

83 ) Per la concezione del Boeckh sulla forma poetica e per


il suo modo di affrontare il problema in Pindaro, v. W OLFGANG
SCHADEWALDT, Der Aufbau des pindarischen Epinikion in« Schrif-
ten d. Koenigsberger Gelehrten Gesellschaft» (Halle 1928) 262.
8 ' ) La svolta fu segnata dall'opera dello studioso danese A.
B. DRACRMANN, Moderne Pìndarfortolkning (Copenaghen 1891).
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 383

credere ad un geniale abbandonarsi alla fantasia, quale


fu attribuito a Pindaro, in base alla propria esperienza
interiore, dal periodo dello Sturm und Drang; e se di
fronte alla forma complessiva dell'inno pindarico, senza
volerlo, si fa luogo tuttavia a. tale concezione, ciò mal
conviene a quell'accentuazione dell'elemento di maniera,
che da circa una generazione abbiamo appreso a meglio
discernere nell'arte sua accanto all'elemento originale.
Se prendiamo le mosse dall'insopprimibile nesso
tra vittoria e canto 85), quale ci è risultato, a Pindaro
si presentavano dapprima diversi modi in cui la fan·
tasia poetica poteva impadronirsi del suo oggetto. Po-
teva fissare, quali impressioni sensibili, lo svolgimento
reale della lotta o della corsa dei cocchi, l'agitazione
della folla spettatrice, il turbinar della polvere, lo stri-
dore delle ruote, al modo che Sofocle, ad esempio, tenne
nell'Elettra, nella drammatica descrizione della corsa dei
cocchi a Delfo, fatta dal messo. Pindaro sembra badare
appena a questo aspetto; non ne tratta mai che in ti-
pici richiami concisamente allusivi e in modo affatto
secondario. E anche là è per rammentare il travaglio
della lotta, più che descrivere il fenomeno sensibile,
ché lo sguardo del poeta è tutto rivolto all'uomo che
ha riportata la vittoria 86). La vittoria è per lui la rive-
lazione della suprema areta umana, e, dal vederla Pin-
daro così, risulta determinata anche la forma del suo
canto. Tutto sta nel rendersi conto di questa sua ma-
niera di vedere, ché in fin dei conti anche per l'artista

86) V. anche W. ScHADEWALDT, loc. cit. p. 298.


>!6) Il WILAMOWITZ in Pindaros (Berlino 1922) 118, vide chia-
ramente questa distinzione, senza però insistervi abbastanza.
Invece deve essere questo il pnnto di partenza per ogni tentativo
di capire l'opera di Pindaro e non solamente nel suo aspetto mo-
rale, in quanto espressione del credo aristocratico, ma anche
nella sua struttma: il Wilamowitz non ha tratto le conclusioni
logiche dalla sua scoperta che avrebbe illuminato la struttura
degli ejlinici.
384 LIBRO I-L'ETÀ ARCAICA

greco, per quanto più rigidamente vincolato dalla co-


strizione del genere letterario, radice della sua partico-
lare forma di rappresentazione è la forma della sua
intuizione interiore.
La coscienza artistica di Pindaro stesso è per noi
la guida migliore 87). Egli vede se stesso, in ispirito, ga-
reggiare con le arti figurative e con l'architettura e si
compiace di derivare da queste le proprie immagini.
La sua poesia, ricordando i ricchi tesori delle città gre-
che nel recinto sacro di Delfo, gli appare come un the-
sauròs d'inni 88). Come, in grandiosi proemi, egli si vede
talvolta dinanzi i propri canti quasi facciata d'un pa-
lazzo adorna di colonne 89), cosi sul principio del quinto
canto nemeo paragona la propria situazione rispetto
all'uomo celebrato quale vincitore a quella d'uno scul-
tore rispetto all'oggetto che raffigura. «Io non sono uno
scultore, che crea figure sorgenti immobili sul loro piedi-
stallo» 00). Appunto in questo « non sono» si esprime
il sentimento di fare opera in qualche modo simile; e
che egli abbia coscienza di non far opera da meno, anzi
maggiore, è mostrato dal séguito: « ma su tutte le navi
e sulla piccola barca, muovi, dolce cant~>, da Egina,
ed annuncia che Pitea, il poderoso figlio di Lampone,
ha conquistato nei giochi nemei la corona del pancrazio>).
Il raffronto era ovvio, giacché lo scultore dell'epoca
pindarica, oltre le statue degli dèi, non scolpiva che
immagini dei vincitori nei ludi. Ma la simiglianza va
anche più oltre. Le immagini dei vincitori della statuaria
contemporanea presentano lo stesso atteggiamento ri-
spetto alla persona del glorificato. Non ne presentano i

87) Cfr. HEBMANN GuNDERT, Pinclar und sein Diihterberuf


(Frankfnrt,. 1935).
88) Pind. Pyth. VI 8.
89) Ol. VI I.
90) Nem. V 1.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 385

lineamenti individuali, bensì l'ideale della figura umana,


quale è stata plasmata dall'allenamento alla gara. Pin-
daro non poteva trovare paragone più conveniente al-
l'arte sua, giacché anch'essa non ha di mira l'uomo quale
individuo, ma celebra in lui il rappresentante della
somma areta. L'una e l'altra cosa sorgono direttamente
dalla natura dell'olimpionicità stessa e dalla concezione
dell'uomo che ne è fondamento. Il paragone s'incontra
anche un'altra volta, non sappiamo se con un voluto ri-
ferimento a Pindaro, e cioè in Platone, dove, nella Poli·
teia, paragona Socrate, dopo foggiata nella sua mente
l'immagine ideale dell'areté dei futuri governanti-filosofi,
ad uno scultore. In un altro passo analogo della stessa
Repubblica, dove è formulato in massima il suo carat·
tere paradigmatico che lascia dietro di sé ogni realtà,
questo modo di filosofare, creatore d'ideali, è paragonato
all'arte del pittore, che non crea uomini reali, bensì un
ideale di bellezza 91). Si manifesta qui il nesso profondo,
del quale già i Greci stessi ebbero coscienza, tra l'arte
greca, specialmente l'arte figurativa con le sue statue
di dèi e di vincitori, e il processo spirituale col quale si
foggia il sommo ideale umario nella poesia di Pindaro
e, più tardi, nella filosofia di Platone. Entrambi sono
animati dal medesimo intendimento. Pindaro è lo scul-
tore potenziato; dei suoi vincitori egli fa i prototipi del-
l'areta.

Il totale immedesimarsi di Pindaro con tale missione


non appare se non al confronto coi suoi colleghi e con·
temporanei, i poeti di Ceo Simonide e Bacchilide. Per
ambedue la lode della virtù virile era ingrediente con-
venzionale dell'inno trionfale. Ma inoltre Simonide è

91) Socrate è paragonato a uno scultore in Reap. 540c e cfr.


36ld; cfr. anche il paragone col pittore di figure ideali (7'C%?C'•
8elyµix~ix) in 472d.
386 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

pieno di considerazioni personali, le quali mostrano


come, anche a parte quell'occasione, l'areté incominci
a diventare un problema nei primi tempi del secolo V.
Egli trova belle parole per la sua somma rarità in terra.
Essa abita su ardue rocce, circondata dal sacro coro
delle agili ninfe. Non ogni occhio mortale può contem-
plarla, se non gli è sgorgato dall'intimo, bruciando l'anima,
il sudore 92). Per la prima volta s'incontra qui, per de-
signare questa « virtù virile», la parola à:vopda:, evi-
dentemente in un significato ancora assai largo. Essa
è spiegata dal famoso scolio 93 ) di Simonide sul nobile
Tessalo Scopa. Ivi appare un concetto dell'arété che
comprende insieme corpo ed anima. « Arduo è diven-
tare uomo di vera virtù, fatto senza menda, retto
di mani e di piedi e di mente». L'alta e consapevole
arte insita nell'areté, e soggetta a una norma rigorosa,
è resa manifesta, con una siffatta sentenza, ai contem-
poranei, i quali dovevano evidentemente ID.tenderla in
un senso nuovo e speciale. Di qui intendiam(} il pro-
blema che Simonide s(}lleva nello sco~. La S(}rte av-
volge spesso l'uomo in sventure senza scampo, che non
lo lasciano pervenire alla perfezione. La ~ola divinità
è perfetta. L'uomo non può esser tale, se lo tocca il
dito della sorte. Colui solo che gli dèi amano e cui man-
dano buona fortuna, perviene all'areté. Perciò il poeta
loda chiunque non faccia spontaneamente il male. « Che
se poi, tra coloro che questa terra nutre, troverò un
uomo che sia del tutto irreprensibile, ve lo annuncerò ».
Simonide di Ceo è un testimone importantissimo

92 ) Simon. fr. 37 (Diehl). In questo carme Areté è concepita


come una dea; lo scopo dei mortali è di ascendere il suo sacro
monte e di contemplarla faccia a faccia. Ma questo fine è riser-
vato solamente a pochi, sebbene tutti siano liberi di tentare.
93) Simon. fr. 4 (Diehl). Vedi l'interpretazione che della poesia
dà il WILAMOWJTZ, Sappho und Simonides (Berlin 1913) 159.
Sul concetto di areté in Simonide, v. WILAMOWITZ, op. ci:. p. 175.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 38 7

del processo spirituale col quale la consapevolezza della


dipendenza dell'uomo dal destino in tutto ciò che fa,
la quale si sviluppa nella lirica ionica da Archiloco in
poi iritensifìcandosi di contiriuo, penetra nella vecchia
etica aristocratica, ch'egli ha da rappresentare nei suoi
irini trionfali come Pindaro. In Simonide s'incontrano
parecchie e diversissime linee della tradizione; ed è
ciò che lo rende particolarmente interessante. Egli con-
tinua tanto la civiltà ionica quanto l'eolica e la dorica
ed è rappresentante tipico della nuova cultura panelle-
nica, compiuta verso la fine del secolo VI. Ma appunto
perciò, non ostante la sua insostituibilità per la storia
del problema dell'idea greca dell'areté, proprio per il
quale Socrate, nel Protagora di Platone, disputa coi So-
fisti intorno all'interpretazione del suo scolio 94), egli non
è perfetto rappresentante dell'etica aristocratica nel senso
di Pindaro. Per quanto importante egli sia per una storia
della concezione dell'areté al tempo di Pindaro e d'Eschilo,
pure non si può dire di questo grande artista che per
lui l'areté rappresentasse qualche cosa di più che un
oggetto di studio d'inesauribile interesse. Egli è il primo
sofista 95). Ma per Piridaro si tratta non solo della radice
della sua fede, ma anche del principio creativo della
sua forma poetica. Quanto essa aécoglie d'elementi con·
cettuali e quanto rigetta, è determinato dalla sua appar-
tenenza al grande compito di cantare il vincitore quale
rappresentante dell'areté. Se v'è nella poesia greca un
caso in cui l'intelligenza della forma artistica sorga
dalla concezione della norma umana ch'essa incarna,
questo è Pindaro. Non possiamo spiegarlo minutamente,

9') PL Prot. 338e. V. «Paideia» II 197.


95) Per questo nel Protagora di Platone il sofista sceglie questa
poesia come punto di partenza per la discussione sull'areté. Al
tempo di Simonide, il poeta era il saggio, capace di rispondere
a questioni difficili. Cfr. WILAMOWITZ, op. cit. p. 169.
388 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

giacché non è qui nostro compito svolgere analisi della


forma per se stessa 96 ). Seguendo ulteriormente l'idea
pindarica dell'uomo aristocratico si apriranno ripetuta-
mente, da sé, prospettive sul problema della forma
poetica.

Insieme con la concezione aristocratica dell'areta è


data per Pindaro la sua connessione con le azioni de-
gl'illustri antenati. Il vincitore è in lui sempre illumi-
nato dalla superba tradizione della sua stirpe. Egli fa
onore agli avi, così come essi lo fanno partecipe del
proprio splendore. In questa subordinazione non v'è
alcuna diminuzione del merito dell'odierno detentore
dell'alta eredità. L'areta non è, anzi, divina se non
perché un dio od eroe fu capostipite della stirpe; da
lui emana la .forza che, nel corso delle generazioni,
torna continuamente a rivelarsi nel singolo. Non si
tratta tuttavia d'una concezione propriamente indivi-
duale, giacché è il sangue divino a produrre ·ogni grande
cosa. Perciò· la celebrazione di un eroe mette capo quasi
sempre, per Pindaro, alla lode del sangue, degli ante-
nati di lui. La loro lode ha il suo posto fisso negli epi-
nici. Ascrivendosi a questo coro, il vincitore viene a
collocarsi accanto agli dèi e agli eroi. « Quale dio, quale
eroe, quale uomo loderemo ? » - incomincia il secondo
carme olimpico. Accanto a Zeus, cui è sacra Olimpia,
accanto ad Eracle, che istitw lolimpiade, egli colloca
Terone, il signore d'Agrigento, il vincitore nella gara
delle quadrighe, «l'ornamento della stirpe dei padri, so-

98 ) Le opinioni esposte in questo capitolo sono state da tempo


argomento delle mie lezioni sulla paideia, che furono di stimolo
a W. ScHADEWALDT a trarne frutto, per una analisi strutturale
delle odi di Pindaro (Der Aufbau des pindarischen Epinikion,
v. n. 83). Egli però non trattò l'uso dei miti in Pindaro ma il suo
libro spinse L. ILLIG a far ciò in una dissertazione di Kiel: Zu.r
Form cler pindarische11 Erziihlung (Berlin 1932).
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 389

stenitore della città, dal nome di eletto suono». Non


sempre, peraltro~ è tutto buono e fausto quanto si può
narrare della stirpe del vincitore. L'umana libertà e la
profondità religiosa del poeta si manifesta meglio che
mai là dove sulle alte virtù degli uomini cade l'ombra
del dolore inviato dalla divinità 97 ). Chi vive ed agisce
deve soffrire, tale è la credenza di Pindaro, dei Greci
in genere. L'agire in questo senso spetta precisamente
ai grandi; di questi soli ciò può dirsi nel pieno senso
del termine, e sono essi quelli che veramente soffrono.
Così l' ai6n, in premio di genuine virtù, ha concesso alla
schiatta di Terone e de' suoi padri ploutos e charis, ma
l'ha anche avvolta in colpe e sofferenze.« Nemmeno il
tempo può più fare che non siano state, ma la dimenti-
canza, Latha, può ben toccare loro, se un buon demone
ne governa il destino. Ché, infrenato, sia pur riluttante,
da elette gioie, muore il -dolore, se la Moira divina pro-
muove l'alta felicità di una ricca prosperità» 98).
Come la felicità e la prosperità della stirpe, anche
la sua areta è data infine dagli dèi. È quindi per Pin-
daro un grave problema, come avvenga che spesso
essa, dopo una serie di gloriosi rappresentanti, cessa
per varie generazioni. Ciò appare interruzione incom-
prensibile della catena di testimonianze delle forze di-
vine d'una stirpe, collegante il presente del poeta con
l'età degli eroi. L'età nuova, che più non conosce l'areta
del sangue, avrà additati siffatti inetti rappresentanti
della stirpe. Nel sesto carme nemeo Pindaro si diffonde
su questo cessare dell'areta umana. Le schiatte degli
uomini e degli dèi sono ben lontane tra loro, eppure
respiriamo entrambe la stessa vita, che abbiamo rice-

97 ) HERMANN FRAENKEL, Pindar's ReligiorJ (« Die 1\ntike~


III, 39).
~ 8 Ì Ol. II 15 ss,
390 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

vuta dalla medesima madre terra. Ma il nostro potere


è separato da quello degli dèi: la stirpe dei mortali è
nulla; il cielo, invece, dove troneggiano gli dèi, è una
sede eternamente incrollabile. Eppure, sia per grandezza
d'animo, sia per natura, noi somigliamo agl'immortali,
non ostante l'incertezza della nostra sorte. Così il vin-
citore della lotta tra adolescenti, Alcimida, dimostra
ora quanto di forza deisimile sia nel suo sangue. Nel
padre parve cessare, ma egli ricalca le orme del padre
di suo padre, Prassidamante, che fu un grande trion-
fatore ad Olimpia, all'Istmo e a Nemea. Anch'egli -pose
termine con le proprie vittorie all'oblio di suo padre
Soclide, figlio inglorioso d'un glorioso padre. È come
per i campi, che, alternamente, ora donano agli uomini
l'annuo sostentamento, ora tornano a riposare. L'ordi-
namento aristocratico per l'appunto si fonda .sul rin-
novo di rappresentanti eminenti. Che anche nello svi-
luppo delle generazioni d'una casata vi sia un cattivo
raccolto, un'aforia, è idea che si presenta ·sempre na-
turale al pensiero greco, che ritroviamo nell'èra cri-
stiana nell'autore del trattato Del Sublime, dov'egli
tratta della causa dell'estinguersi dei grandj spiriti crea-
tori nell'età degli epigoni 99).
Il continuo ricordo che ha Pindaro degli antenati,
la cui autorità sui vivi, nella madrepatria greca, era
legata non solo alla rieordanza personale, ma anche alla
prossimità delle loro tombe piamente onorate, si accom-
pagna cosi a tutt'una :filosofia piena di profondi pensieri
sul merito, la felicità e la sofferenza nel succedersi delle
generazioni di un'umanità cui arridono i sommi beni
terreni, fornita delle doti più elette, sorretta dalle tra-
dizioni più alte. La storia delle nobili casate dell'età

99 ) L'autore del Sublime c. 44, 1 parla della xoaµ.~xÌ) ciqio·


p(°', in ogni campo della vita spirituale, al tempo dell'impero
romano.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 391

sua forniva all'uopo materia copiosa. Ma, per Pindaro,


nel pensiero rivolto agli antenati è insito tuttavia qual-
che cosa d'altro: il grande stimolo educativo dell'esem·
pio. La lode del passato e del suo eroismo è, da Omero
in poi, aspetto fondamentale d'ogni educazione aristo-
cratica. Se la lode dell' areta è precipuamente opera del
poeta, egli è l'educatore nel senso più eletto 100). Pindaro
ha seguito questa missione con la più alta consapevo·
lezza religiosa; in ciò si distingue dall'impersonale aedi-
smo omerico. I suoi eroi sono uomini oggi viventi e
lottanti. Egli li inserisce nel mondo del mito. Ciò si-
gnifica, per Pindaro, ch'egli li colloca in un mondo di
modelli ideali, il cui splendore li irradia e la cui lode
deve elevarli volonterosi a pari altezza, suscitandone le
forze migliori. Ciò dà all'impiego del mito in Pindaro
il suo senso e valore particolare. Il biasimo, quale fu
esercitato dal grande Archiloco nelle sue poesie, appare
a Pindaro gnobile 101). I suoi rivali pare abbiano riferito
al re Gerone di Siracusa che il poeta s'era espresso con
biasimo su1 conto suo. Nell'accompagnatoria del suo se-
condo canto pitico, Pindaro, conscio del proprio debito
di gratitudine, rigetta l'accusa. Ma, insistendo nella lode,
al re, che porgendo orecchio all'insinuazione non si è
mostrato all'altezza della sua dignità, indica egli stesso
un modello cui deve emulare. Risparmia al sovrano la
vista di qualche cosa di più alto al di sopra di sé. Ma
dovrà lasciarsi dire dal poeta che cosa sia il suo vero Io,
al quale non deve restare inferiore. In questo luogo
l'idea pindarica dell'esempio attinge la sua massima
profondità. La massima « divieni quel che sei» è come
la somma di tutto il suo pensiero educativo 1112). Tale è

100) V.• note 74 e 75 e il cap. «Omero educatore».


101) Pytk. II 54-58.
lOS) Pyth. II 72, y&110~' o!oç foal µ.cc.S-6>11. Nel citare questo passo,
gli autori spesso hanno omesso µ.cc.S-©11; l'omissione è già in Eusta-
392 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

il senso di tutti i modelli mitici che propone agli uomini.


affinché in quelli si lascino presentare l'immagine subli-
mata della propria natura stessa. Sempre toma ad ap-
parire quanto profondo sia, nella storia sociale e spi-
rituale, il nesso essenziale tra questa paideia aristocra-
tica e lo spirito educa,tivo della filosofia platonica delle
idee. Questa vi si mostra radicata, mentre è remota
da tutta la filosofia ionica della natura, cui la storia
della filosofia suole collegarla quasi esclusivamente, in
modo unilaterale. Di Pindaro non si troverà certo alcun
cenno nelle introduzioni alle nostre edizioni di Platone;
invece i principii materiali degl'ilozoisti vi si trasmet-
tono ereditariamente, ridotti ad aride croste, come un
morbo perenne 103).
Il tipo di lode pindarico, quale è usato verso re Ge-
rone, richiede non minore ardire che la critica, ed è
impegno maggiore. Per rendere evidente quanto si è
detto, prendiamo ora in Pindaro l'esempio più semplice
di lode educativa, la sesta ode pitica. Colui al quale
il poeta si rivolge, Trasihulo, figlio di Senocrate, il fra-
tello del tiranno Terone d'Agrigento, è ancor giovanis-
simo ed è venuto a Delfo per farvi co:ttere i cavalli
del padre. La sua vittoria è celebrata da Pindaro in un
breve carme, che esalta l'amor filiale di Trasihulo. Per
·l'antica etica cavalleresca, dopo il rispetto per Zeus,
signore del cielo, è questo il più alto comandamento 1111).

zio (v. le testimonianze nella dotta edizione di Pindaro di A. Tu-


RYN ad Zoe.). L'aggiunta di µa:.&ùiv rende chiaro che Gerone deve
diventar!\ il suo vero «se stesso», ora che Pindaro glielo ha ri-
velato. ·
103) Se questo è vero, il presente libro diventa la più naturale
e appropriata introduzione alla :filosofi.a di Platone.
1 6 4) Pyth. VI 19 ss. I precetti di onorare gli dèi e i genitori spesso
appaiono congiunti nell'antica tradizione greca col comandamento
di rispettare gli ospiti. Ma quest'ultimo precetto è omesso da
Pindaro in quest'ode come m~nQ importiµiie n~l ~so presente;
y. sopra, cap. I n. l. ' - ·
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 393

Chirone, il saggio centauro, prototipo dell'educatore


d'eroi, inculcò già tali insegnamenti al Pelide Achille,
quando cresceva sotto la sua custodia. Al riferimento
a quella venerabile autorità segue la menzione di Auti-
loco, figlio di Nestore, che dinanzi a Troia diede la. vita
per il vecchio padre combattendo contro Memnone,
capo degli Etiopi. « Ma degli odierni Trasibulo più di
tutti ha seguito le orme paterne» 105). Qui alla lode della
virtù filiale s'intreccia l'esempio mitico d'AntHoco, la
cui gesta è narrata in breve. Così Pindaro, per ciascun
caso singolo, torna a ricorrere al mito come al grande
tesoro di paradigmi, cui attinge la sua sapienza poetica.
La compenetrazione della realtà contemporanea con
l'elemento mitico si dimostra dappertutto forza idea-
lizzatrice e trasformatrice unica nel suo genere. Il poeta
vive e si muove interamente in un mondo in cui il
mito è più reale d'ogni altra cosa l06), e sia ch'egli canti
per la vecchia nobiltà, sia che celebri vincitori nuovi
tiranni o figli della borghesia, da poco saliti in alto,
privi d'illustri avi, la soglia della fama, che vengono
così a varcare, li solleva tutti ad egual divinità, non
appena il poeta li tocchi con la bacchetta magica della
sua scienza del senso superiore di queste cose.
Nel Filiride Chirone, il saggio centauro, maestro
d'eroi, la coscienza educativa di Pindaro foggia il pa-
rallelo mitico di se stessa. Lo incontriamo in lui anche
altrove, ad esempio nel terzo carme nemeo, ricco di
esempi mitici. Ivi sono modelli gli antenati .stessi de]
vincitore egineta: Peleo, Telamone, Achille. Da que-
st'ultimo, la mente del poeta ricorre alla grotta di Chi-

100) Pyth. VI 44.


lOO) Questo induce Pindaro a introdurre un mito in ogni poesia
a farne il centro della sua interpretazione esaltatrice dell'evento
presente. V. KARL FEHR, Die Mythen bei Pindar (Ziirich 19~!!)
ç1 di li· Illi~, la mono~afìa cj.ta~a ~ Il. 96,
394 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

rone, dove egli fu educato 107). Ma esiste poi un'educa-


zione, per chi crede l'areté insita nel sangue? Pindaro ha
affrontato più volte il problema. Esso, in fondo, era già
posto in Omero, nel canto dell'Iliade 108) che ad Achille
contrappone quale educatore Fenice, per farne poi
rimbalzare inefficace sul cuore indurito dell'eroe, nel
momento culminante, il grande discorso esortativo.
Ma là è il problema della possibilità di dirigere il
carattere innato; in Pindaro è la nuova questione se
la vera virtù dell'uomo possa apprendersi o sia insita
nel sangue. Ci sovviene qui l'eguale domanda, che sempre
ricorre in Platone l09). Essa fu cosi formulata dapprima
nel corso della lotta della concezione aristocratica ar-
caica con lo spirito dell'illuminismo razionale. Pindaro
rivela ad ogni passo come l'abbia rimuginata, e dà la
sua risposta nel terzo carme nemeo:

Pieno valore ha soltanto colui, cui pregio glorioso


è innato. Chi possiede soltanto
quanto apprese, vacillante ombra d'uomo,
mai non si avanza con saldo piede,
ma mille altre
cose, con animo immaturo,
non fa che assaggiare 110).

Achille fece stupire Chirone coi saggi del suo innato


animo eroico, che, senz"aver mai avuto un maestro,
dava sin da fanciullo. Cosi narrava la leggenda. Essa,
che secondo Pindaro tutto sa, dava dunque a quella
domanda la giusta risposta: che non vi può essere edu-
cazione se non dove sia innata areta, come negl'illustri
alunni di Chirone, Achille Giasone Asclepio, dei quali

107) Nem. III 50 ss.


108) V. cap. II.
109) V. « Paideia» II 276.
uo) Nem. III 38 ss.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 395

il buon centauro « ebbe profittevole cura in tutte le


cose opportune »lll). Nella succosità d'ognuna di queste
parole sta il frutto maturo d'una lunga meditazione
di quest~ problemi, dimostrando con quanta consape-
volezza e decisione il mondo aristocratico difenda la
propria posizione in quell'epoca di crisi.

Inapprendibile, come l'areta dell'olimpionico, è l'arte


del poeta, che sgorga dalla medesima sorgente divina.
È, di sua natura, « sapere ». La parola aocp loc è in Pin-
daro il nome costante dello spirito poetico. È impossi-
bile darne un'esatta traduzione; dipende da ciò cui cor-
risponde, secondo il sentimento di ciascuno, l'essenza
dello spirito pindarico e della sua efficacia, cosa estre-
mente varia. Chi non vi scorge che la pura mente arti-
stica, atta a crear belle poesie, l'intenderà estetica-
mente 112). Omero aveva chiamato aocp6ç il carpentiere,
e nel greco del V secolo il vocabolo può benissimo con-
servare il significato di: colui che è tecnicamente esperto
d'alcunché. Che la parola abbia un peso maggiore,
quando è Pindaro a pronunciarla, dev'esser chiaro ad
ognuno. In quell'epoca è da un pezzo parola d'uso
per significare il sapere superiore dell'uomo che possiede
una conoscenza eminente, un intendimento di ciò che
l'uomo de] volgo chiama lo straordinario, alla quale ci

111 ) Nem. III 56. Ho accettato la congettura di Hecker èv ocpµÉ·


VOtO"L 1t0CQ"L (invece di rrmoc) -0-uµòv oc\S~c.)V. Èv fu aggiunto da Erhard
Schmid.
112 ) Questo punto di vista fu sostenuto fra altri da Franz Dorn-
seiff. Ci sono passi che possono essere interpretati nei due modi,
ma cfr. Theogn. 770, dove aocpl7J è la più alta saggezza del poeta
che lo distingue dagli altri mortali, e gli conferisce missione e
dovere di istruirli. In questo passo si distinguono, di essa, tre
aspetti: pensare o ricercare (µwcr.&oct), mostrare (lletxvuew) e
scrivere (rro teìv). Si tratta, a quel che sembra, della stessa cosa
che la &peTij aocp[ 7J di Teognide, 790.
396 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

si inchina docilmente. Così eccezionale era anche il Ila·


pere poetioo cli Senofane, il quale nelle sue poesie chiama
orgogliosamente « la nostra sapienza» U3) la sua critica
rivoluzionaria delle concezioni filosofiche correnti. Si
sente qui l'impossibilità di distinguere tra forma e con-
cetto: soltanto l'unità d'entramhi costituisce la crocp(cx. E
come potrebbe infatti essere altrimenti, data la ricchezza
di pensiero dell'arte pindarica ? Il « profeta delle Mu-
se» 114) è il banditore del « vero», che (< attinge dal pro-
fondo del cuore » 115). Egli giudica il valore degli uomini
e distingue dal mendace ornamento il « discorso vero »
della tradizione mitica 116). Il campione della missione di-
vina delle Muse sta accanto ai re ed ai potenti come un
eguale, sulle vette dell'umanità. Egli non brama il
plauso della folla. e< Possa essermi concesso di aver com-
mercio con gli eletti e di piacer loro » - così termina il
secondo carme nemeo a re Gerone di Siracusa.
Ma se gli « eletti» sono i potenti di qtiesto mondo,
non per questo il poeta diviene un cortigiano; egli ri-
mane l' « uomo dalla lingua dritta, che ottimamente
si trova sotto qualsiasi regime, sotto la tirannide come
là dove impera il volgo insolente, o dov.e gl'intelletti
superiori custodiscono una città}> 117). Non trova il sa-
pere che presso gli eletti, e in questo senso la sua poesia
è, nel senso più profondo, esoterica. « Io reco sotto il
braccio molti veloci dardi nella faretra, i quali parlano
soltanto agl'intendenti, e sempre abbisognano d'inter-
preti. Saggio è chi per il sangue suo molto sa, ma co-
loro che sono solo addottrinati, invano col coro inso-
lente delle loro lingue, come corvi, gracchieranno contro

113) Xenoph. fr. 2, 11 88. (Diel8). V. p. 324.


114) Paean. VI 6.
lls) Nem. IV 8.
116 } O!. I 28b.
iP) Pyth. Il 86.
CAP. X: REAZIONE E TRASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 397

il divino uccello di Zeus» 118). Gli « interpreti», di cui


i suoi carmi, i « dardi », abbisognano, sono le grandi
anime, che per natura propria sono partecipi dell'inten-
dimento. superiore. L'immagine dell'aquila non si trova
in questo solo luogo di Pindaro. Il terzo carme nemeo
termina: «Ma lesta è l'aquila fra tutti gli uccelli, che
raggiungendola di lontano afferra veloce con gli artigli
la sanguinosa preda. Ma le gracchianti cornacchie si
alimentano nella bassura» 119). L'aquila diviene per Pin-
daro il simbolo del suo orgoglio di poeta. Non è più
una mera immagine, bensì una qualità metafisica dello
spirito stesso, s'egli sente quale propria natura l'alto,
l'altezza inaccessibile e il libero moto senz'impacci nel
regno dell'etere, al disopra della bassa regione ove le grac-
chianti cornacchie cercano il proprio alimento. Questo
simbolo ebbe la sua storia, da Bacchilide, contemporaneo
iuniore di Pindaro, sino al magnifico verso d'Euripide:
«L'etere tutto si offre libero al volo dell'aquila» 120).
In esso cerca la sua espressione la personale coscienza
che ha Pindaro d'una nobiltà spirituale, e questo titolo
di nobiltà del poeta è per noi appunto il veramente im-
mortale. Certo, la credenza nell'areté del sangue non
lo abbandona nemmeno qui; essa gli spiega l'abisso
che sente tra la propria forza poetica, che ha nel sangue,
e il sapere degli «addottrinati» (µocOo\1-rEç) 121). Checché
si pensi della dottr~na della nobiltà del sangue, il taglio
tra l'innata nobiltà di natura ed ogni sapere o capacità
soltanto imparati, aperto da Pindaro, non si rimargi-
nerà, perché sussiste realmente ed a ragione. Egli ha
piantato questa sentenza immediata,mente dinanzi alla
soglia di quell'epoca della cultura greca che doveva

118 ) Ol. II 83.


119) Nem. III 77.
UD) Fragmenta Tragicorum, fr. 1047 Nauck.
111) Ol. II 94.
398 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

dare all'istruzione uno sviluppo così impreveduto e al-


l'intelletto la massima importanza 122).

E qui usciamo dal mondo dell'aristocrazia e tor·.


niamo ad affidarci al gran fiume della storia che gli
scorre rumoreggiando dinanzi, mentre esso sembra sta-
gnare sempre più. Pindaro stes~o l'ha superato - non
nelle sue idee, ma nella sua efficacia - nei grandi carmi·
nei quali, poeta d'importanza panellenica ormai ·rico-
nosciuta, celebra le vittorie riportate nella corsa .dei
cocchi dai potenti tiranni siculi Terone e Gerone, e
nobilita questi e le loro giovani creazioni politiche fre-
giandole dello splendore tradizionale dei propri antichi
ideali aristocratici e insieme rialzandone così il pregio.
Ciò potrà sembrarci storicamente contradittorio, seb-
bene ogni potere usurpato da uomini nuovi abbia sem-
pre amato adornarsi della suppellettile signorile di una
passata grandezza. Pindaro stesso in questi carmi ha
superato in sommo grado l'elemento aristocratico-con·
venzionale, e mai il suo accento personale risuona più
chiaro di qui. Nell'educazione dei re egli scorge l'ultimo
e sommo compito che spetti al poeta dell'aristocrazia
nell'età nuova 123). Su quella egli, come più tardi Platone,
poteva sperar d'influire~ da essi poteva attendersi che,
in un mondo mutato, tenessero alti gl'ideali politici
che lo animavano e arginassero l'insolenza della moltitu·
dine. Così egli sta isolato, da ospite, alla corte di Gerone re
di ~iracusa, vincitore dei Cartaginesi, accanto ai grandi

V. il capitolo sui Sofisti, p. 495 ss.


122)
Dopo Teognide che, nelle elegie, aveva creato come uno
123 )
a specchio del cavaliere», Pindaro, nelle ultime grandi odi de-
dicate ai re siciliani, compone un suo « specchio dei principi».
Isocrate, più tardi, imitò questo genere di paideia, nel suo discorso
A Nicocle (v. « Paideia» III 146 ss.), nell'introduzione (4) in cui
chiama la edncazione dei governatori la più urgente necessità del
suo tempo.
CAP. X: REAZIONE E 1RASFIGURAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA 399

confratelli « addottrinati», Simonide e Bacchilide, come


più tardi Platone alla corte di Dionigi accanto ai so-
fisti Polisseno ed Aristippo.
Solo d'un grande, che venne alla corte di Gerone,
gradiremmo sapere se i suoi passi s'incrociarono mai
con quelli di Pindaro, quando rappresentò la seconda vol-
ta a Siracusa i Persiani 124): Eschilo d'Atene. Frattanto
l'esercito dello Stato democratico ateniese, appena ven-
tenne, aveva battuto i Persiani a Maratona; e a Sala-
mina, con la sua flotta, col suo capitano e con lo slan-
cio del suo genio politico, decise della vittoria per la
libertà di tutti i Greci d'Europa e d'Asia Minore. La
città natale di Pindaro se ne stava appartata, in ver-
gognosa neutralità, da quella lotta nazionale. Se cer-
chiamo nei suoi canti un'eco dell'evento eroico, che su-
scitava in tutta l'Ellade nuove forze piene d'avvenire,
cogliamo nell'ultimo carme istmico soltanto il profondo
sospiro di sollievo dello spettatore che, con cuore diviso,
è stato ansioso in attesa e che ora, grazie a una bene-
vola divinità 120), vede stornato il « masso di Tantalo »
che incombeva sul capo di Tebe: non sappiamo se la
minaccia persiana o I' od.io dei Greci vincitori, dei quali
Tebe aveva tradita la causa e la cui vendetta minac-
ciava distruggerla. Non Pindaro, ma il suo grande ri-
vale, il versatile greco insulare Simonide, divenne il
lirico classico delle guerre persiane, che con tutto lo
splendore e l'adattabile duttilità della sua forma, che
padroneggia . ogni cosa quasi giocando, ma è fredda,
scrive ora per le città greche le poesie sepolcrali c-ommes-
segli per i loro caduti. L'eclissarsi di Pindaro dietro
di lui in quest'epoca ci appare una tragica sfortuna;
ma forse v'era una ragione più profonda nel suo osti-

124) Schol. ad Aristoph. Ran. 1028 (da Eratostene, Ikpi xwµrp•


8E<%ç).
l2D) Islh. VIII 9 sa.
400 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

narsi a servire un diverso eroismo. La Grecia vittoriosa


sentì tuttavia nei suoi versi qualche cosa d'affine allo
spirito di Salamina, e Atene amava il poeta che l'aveva
salutata con l'apostrofe ditirambica 126): «O splendida,
coronata di viole, famosa nei canti, roccaforte dell'El-
lade, magnifica Atene, tu divina sede». In quel mondo,
a lui intimamente estraneo, che qui sorgeva, qui per
l'appunto doveva restare assicurata la sua durevole
fama nazionale; eppure la nemica d'Atene, la ricca e
consanguinea Egina, città dalle vecchie casate marinare
d'armatori e di mercanti, era più cara al suo cuore. Ma
il mondo cui il suo cuore apparteneva e ch'egli sublimò,
era maturo per il tramonto. Sembra quasi essere una
legge dello spirito che le grandi forme storiche della
comunità umana, so] quando la loro vita è all'estremo
abbiano la forza di plasmare conclusivamente, e mo-
vendo da wi'ultima profondità d'intellezione, il proprio
ideale spirituale, quasi che la loro parte. immortale si
staccasse dalla parte mortale. Cosi la cwtura aristo-
cratica greca, nel tramontare, produce Pindaro; cosi la
polis greca Platone e Demostene; cosi la gerarchia me-
dievale della Chiesa, quando ha oltrepassato il 2uo fa-
stigio, Dante.

111) Dùh. f:r. 6'9


CAPITOLO UNDICESIMO.

L'AZIONE CULTURALE DEI TIRANNI

Il fiorire della poesia aristocratica si estese sino al


V secolo; tuttavia, tra la signoria dei nobili e lo Stato
democratico s'inserisce il ponte della tirannide, la quale
per la storia della cultura eb~e importanza non minore
che per l'evoluzione dello Stato, e perciò deve esser qui
considerata di proposito, dopo che già più volte vi
abbiamo accennato. La tirannide sicula, per i cui rap-
presentanti Gerone e Terone co~pose Pindaro i suoi
grandi carmi, è un fenomeno a sé, come già Tucidide
vide giustamente 1). In quest'avamposto della grecità
di contro alla potenza marinara e commerciale di Car-
tagine, sempre più estendentesi, la « signoria d'uno sofo »
durò più che in ogni altro territorio greco, laddove,

1) Tucidide I 17 giudica il periodo dei cosidetti tiranni nella


storia Greca principalmente dal punto di vista della grandezza
delle loro imprese in guerra e del potere politico, e giunge alla
conclusione che sotto questo rispetto non possono essi sostenere
il confronto con la moderna democrazia ateniese dell'epoca di
Pericle, perché essi erano impegnati solo in azioni locali contro
i loro vicini. Fra essi quelli che raggiunsero la potenza più grande
furono i tiranni di Sicilia. Tucidide constata (I 18, 1) che, da
quando il dominio dei tiranni fu infranto in Atene e in tutta la
Grecia dall'intervento politico o militare di Sparta, quella forma
di governo continuò a esistere solo in Sicilia. Sui tiranni in gene-
rale v. H. G. PLASS, Die Tytannis in ihren beiden Perioden bei
den alte~ Griechen (Brema 1852) e P. N. URE, The Origin of
Tyranny (Cambridge 1922).
402 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

nell'Ellade stessa, questo periodo di sviluppo politico


ebbe termine con la caduta dei Pisistratiili d'Atene
nel 510. La tirannide sicula si fonda su tutt'altre condi-
zioni che quella della madrepatria e delle colonie greche
orientali, sorta da necessità sociali interne. Essa fu per
lo meno tanto un esponente militare e di politica estera
dell'imperialismo commerciale delle grandi e potenti
città sicule, quali Agrigento, Gela e Siracusa, quanto
riflesso della dissoluzione della vecchia signoria aristo-
cratica e dell'ascesa del popolo. Anche più tardi la ti-
rannide sicula dei Dionigi, dopo mezzo secolo di corso
democratico, si ricostituì con intima necessità per motivi
nazionali, e fu ciò che, anche agli occhi di Platone, le
diede la sua giustificazione storica 11).
Risaliamo di qui alla situazione d'Atene e delle
ricche città istmiche verso la metà del secolo VI, quando
nella madrepatria si era imposto il trapasso alla tiran-
nide. Atene era stata l'ultima tappa di tale evoluzione,
che Solone, nelle poesie della vecchiaia, poté ancora
vedere avvicinarsi ed infine verificarsi, dopo averla pre-
detta da tempo 3 ). Figlio egli stesso dell'aristocrazia
attica, egli aveva coraggiosamente infrant~ le idee ere-
. ditarie della sua casta, delineando nelle sue leggi, rap-
presentando nelle sue poesie e precorrendo nella sua
attività un nuovo tipo umano di vita, la cui attuabi-
lità non dipendeva più dalle prerogative del sangue e
della proprietà. Nell'ammonire all'equità verso l'oppresso
popolo lavoratore, nulla era stato peraltro più lontano
dall'animo suo che la democrazia, la quale volle più
tardi far di lui il proprio padre. Egli non voleva che il
risanamento morale ed economico dei fondamenti del

I) ?V Ep. VIII 353a ss..


3) Sol fr. 3, 18; 8, 4; 10, 3-6. In modo simile Teognide (40 e 52)
profetizza che il governo di un tiranno sarà il risultato della lotta
(VI sec.) fra l'antica aristocrazia e le masse che salgono, in Megara.
CAP. XI: L'AZIONE CULTURALE DEI TIRANNI 403

vecchio Stato aristocratico, alla cui prossima fine certo


non pensò da principio. Ma la nobiltà nulla aveva impa-
rato dalla storia, e nulla imparò da Solone. Cessata essa
dal suo ufficio, le lotte di parte divamparono con nuova
violenza.
L'elenco degli arconti indicò già ad Aristotele che in
questi decenni, dei quali nulla sappiamo, dovettero
prodursi ripetute perturbazioni eccezionali dell'ordine
politico, giacché si trovano anni senz'alcun arconte, e
uno di questi cercò di tenere due anni la carica'). La
nobiltà della costa, dell'interno e dei distretti più po-
veri e montuosi dell'Attica 5), la cosiddetta Diacria, era
divisa in tre fazioni, a capo delle quali erano le casate
più potenti. Tutte e tre cercavano di guadagnar séguito
anche tra il popolo. Evidentemente questo incomin-
ciava ora a divenire un fattore col quale bisognava fare
i conti, benché o appunto perché, profondamente mal-
contento, politicamente era senza organizzazione e senza
capi. Pisistrato, il capo del partito aristocratico dei
Diacridi, seppe ridurre con grande abilità le altre stirpi
~ che, come gli Alcmeonidi, erano in parte ben più
ricche e potenti - in una sitùazione sfavorevole, appog-
giandosi al popolo e facendogli concessioni. Dopo varii
vani tentativi d'impadronirsi del potere e dopo essere
stato più volte sbandito, infine, con l'aiuto d'una guardia
del corpo personale, armata non di lance alla militare,
bensì di solidi bastoni, riusci ad afferrare il potere, che
nel corso d'un lungo periodo di governo tanto consolidò,
da poterlo, morendo, trasmettere indisturbato ai figli 6).

La tirannide è di somma importanza quale fenomeno

') Arist. Ath. Pol. 13, 1.


a) Arist. Ath. Pol. 13, 4-5.
6 ) Her. I 59; Arist. op. cie. 14.
404 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

spirituale e quale forza motrice della profonda trasfor-


mazione culturale che incomincia col dissolvimento della
signoria aristocratica e col trapasso dell'autorità poli-
tica nelle mani della borghesia 7), nel VI secolo. Nella
tirannide ateniese, sul conto della quale abbiamo le
notizie più precise, ciò si osserva in modo tipico; ci
occuperemo dunque di questa. Occorre tuttavia dare
prima uno sguardo al precedente sviluppo di questo
singolare fenomeno sociale nel rimanente della Grecia.
Per la maggior parte delle città dove la tirannide
è attestata, non ne sappiamo disgraziatamente gran che
di più che nome e azioni singole dei suoi detentori.
Circa il modo in cui sorse e le sue cause abbiamo rare
indicazioni, e più rare ancora circa i protagonisti e
l'indole della loro signoria. Ma la regolarità meravi-
gliosa con la quale questo fenomeno, a cominciare dal
secolo VII 8), si presenta in tutto il mondo ellenico,
fa ritenere trattarsi di cause uniformi. Nei casi a noi
meglio noti del secolo VI, l'origine della ·.tirannide si
connette alle grandi trasformazioni econoiilÌche e so-
ciali di quell'età, delle quali incontriamo gli effetti,
per quanto ci è noto, soprattutto in Sol0ne e in Teo-
gnide 9). La crescente diffusione dell'economia monetaria,
accanto e in luogo degli scambi in natura, esercitò in-
fluenza rivoluzionaria sulla proprietà terriera della no-
biltà, che aveva costituito sino allora la base dell'ordi-
namento politico. La nobiltà, attaccata alla vecchia

1 ) Come la parola sofista, che entrò nell'uso verso lo stesso


tempo, le parole tiranno o monarca non avevano ancora in questo
periodo il significato negativo che le caratterizzò in seguito. Queste
parole distinguevano questi uomini nuovi dai re del passato.
I tiranni cercarono di mantenere il più possibile le forme repub-
blicane. Cfr. K. J. BEI.OCR, Griechische Geschichte I, 1 (3. Aufl.
Ber:ino 1924) 355 ss.
") La prima menzione della tirannide si può trovare alla metà
del VII sec. in una famosa poesia di Archiloco (fr. 22 Diehl).
9 ) V. i capp. corrispondenti in questo libro, p. 260 ss. e p. 343 SL
CAP. XI: L'AZIONE CULTURALE DEI TIRANNI 405

forma d'economia, venne ora a trovarsi spesso in isvan-


taggio di fronte ai possessori dei nuovi patrimoni che
sorgevano dal commercio e dall'industria, e la trasfor-
mazione economica di quella parte del vecchio ceto
dominante che si orientava verso il commercio creò
nuovi distacchi fra le stesse vecchie casate. Talune fa-
miglie immiserirono e non poterono tenere il loro posto
nella società, come insegna Teognide; altre, come quella
degli Alcmeonidi nell'Attica, accumularono tale ricchezza,
che la loro preminenza divenne insopportabile agli stessi
loro pari, mentre esse non potevano resistere alla tenta-
zione di affermarla anche politicamente. I contadini e
fittavoli indebitati delle terre dei nobili furono spinti
all'estremismo da una dura legislazione sui debiti, che
dava al proprietario ogni potere sui servi della gleba 10),
e i nobili malcontenti che si misero alla testa di quella
massa politicamente impotente riuscirono agevolmente
ad impadronirsi del potere. Il rinforzo recato al seguito
dei proprietari aristocratici dalla categoria, egualmente
antipatica in tutti i tempi, dei nuovi ricchi, fu politi-
camente e moralmente un dubbio guadagno li), ché il
distacco tra la plebe dei nullatenenti e la vecchia classe
colta non ne restò che approfondito e ridotto al brutale
contrasto, meramente materiale, tra poveri e ricchi,
che forni materia inesauribile alla sobillazione. L'esi-
stenza dei tiranni fu resa possibile dal fatto che il de-
mos, senza una guida siffatta, non era in grado di scrol-
lare l'imperio della nobiltà, ma per lo più era del tutto
pago quando n'era ottenuto lo spodestamento 12), giac-

10) Arist. Ath. Pol. 2, 2. Cfr. Sol. fr. 24, 7-15 (Diehl).
11) Sull'ammonimento di Teognide di evitare matrimoni fra
nobili impoveriti e nuovi ricchi, v. pp. 371-373.
1 2) Pisistrato è descritto come nemico dei ricchi e dell'antica
nobiltà, ma amico del cittadino comune. Arist. Ath. Pol. 16.
Egli amministrò lo Stato più "JçOÀLTLXÙ>ç !Jli -rupocvvLx&ç Arist. op.
cit. 14, 3 e 16, 2.
406 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

ché il fine positivo dell'autorità sovrana del «popolo


libero » era ancora estraneo alla plebe, avvezza da secoli
a servire e ad obbedire. Essa ne era in quel tempo molto
meno capace ancora che all'epoca dei grandi demago-
ghi, dei quali anche più tardi non poté mai far a meno
e la cui successione Aristotele usa quindi a ragione, neJla
« Costituzione d'Atene», quale filo conduttore della sua
storia della democrazia attica 13).
Troviamo la tirannide press'a poco simultaneamente
nella madrepatria, nella Ionia e nelle isole, dove, come
è ovvio, dato il loro sviluppo intellettuale e politico,
si è indotti a cercarne gl'inizi 14). A Mileto, ad Efeso e a
Samo, intorno all'anno 600, o poco dopo," troviamo
l'autorità politica nelle mani di noti tiranni, che in
parte mantengono strette relazioni coi loro pari del-
l'Ellade. I tiranni, infatti, sebbene fenomeno meramente
interno, o forse appunto perciò, sono sin. da principio
legati tra loro da una solidarietà internazionale, che
spesso si appoggia a legami coniugali. Essi anticipano
cosi la solidarietà di principii tra democrazie o tra oli-
garchie, cosi frequente nel secolo V. Cosi - fatto ben
singolare - si ha per la prima volta una politica estera
di largo orizzonte, che ad esempio a Corinto, ad Atene
e a Megara conduce anche alla fondazione di colonie.
Tipico di queste è ch'esse sono in più stretta relazione
con la metropoli, che non quelle istituite anteriormente.
Così Sigeo serve addirittura da base ateniese sull'Elle-
sponto, e Periandro crea per Corinto analoghe basi sul
Mar Ionio a Corcira, che assoggetta, e nella regione
tracia a Potidea, che fonda ex novo. In Grecia,
Corinto e Sicione sono alla testa del movimento, seguite
poi da Mega.ra e da Atene. La tirannide ateniese sorse

1 3) Cfr. Arist. op. e#. 28 e passim.


U) V. n. 8.
CAP. XI: L'AZIONE CULTURALE DEI TIRANNI 407

con l'appoggio del tiranno di Nasso, che alla sua volta


fu poi sostenuto da Pisistrato. Anche nell'Euhea la
tirannide si stabilisce per tempo. Un poco più tardi si
afferma, come notammo, in Sicilia, ove doveva poi di-
spiegare la massima potenza. L'unico cospicuo tiranno
siculo del VI secolo è Falaride d'Agrigento, fondatore
della prosperità della città. In Grecia, la figura di mag-
giore statura fra i tiranni è indubbiamente Periandro
di Corinto, per quanto bene si possa dire di Pisistrato.
Suo padre Cipselo, dopo rovesciato il regime aristocra-
tico dei Bacchiadi, aveva fondata una dinastia che si
mantenne per più generazioni. Il suo periodo più splen-
dido fu la signoria di Periandro. Mentre l'importanza
storica di Pisistrato sta nell'aver egli preparata la fu-
tma grandezza d'Atene, Corinto fu portata da Perian-
dro a· un'altezza dalla quale dopo la morte di lui de-
cadde, per non attingerla mai più.
Nelle altre parti della Grecia si mantenne l'aristo-
crazia. Essa continuava a reggersi sulla proprietà ter-
riera e qua e là, come nella piazza prettamente commer-
ciale d'Egina, anche su grandi patrimoni. In nessun
luogo la tirannide si mantenne per più di due o tre
generazioni. Per lo più la rovescia nuovamente la no-
biltà, esperta di politica e attiva, ma di rado è questa
a trar profitto dal rivolgimento: per lo più si viene
presto alla democrazia, come in Atene. Causa princi-
pale della caduta dei tiranni è di regola, come spiega
Polibio 15) nella sua teoria del circolo delle costituzioni,
l'inettitudine dei figli e dei nipoti, che ereditano sol-
tanto la potenza ma di rado anche la vigoria intellet-
tuale dei padri, e l'abuso dispoticamente arbitrario della

.15) Polyh. VI 7. La degenerazione dei figli è vista da Polihio


come causa della decadenza non solo della tirannia e della mo-
narchia, ma anche della aristocrazia (VI 8, 6). Questa idea evi•
dentemente deriva dalla Repubblica di Platone,
408 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

potenza acquistata mercé il favore del popolo. La ti-


rannide diviene uno spauracchio, agitato dagli aristo-
cratici spodestati, che lo trasmettono ai loro successori
democratici. Ma l'odio ai tiranni non è che una forma
unilaterale assunta dall'ostilità e dalla i:eazione imme-
diate. In ogni Greco, secondo il detto arguto del Burck-
hardt, si celava un tiranno, ed esser tiranno era per
ognuno un sogno di felicità cosi ovvio, che Archiloco
e Solone non sanno meglio esprimer la loro indole tran-
quilla, che confessando di non condividerlo quanto a
loro 16). Ai Greci la signoria d'un solo, di valentia dav-
vero eminente, parve sempre, anche nelle età più illu-
minate, « conforme alla natura », ed essi, più o meno
spontaneamente, vi si sottoposero 17).
La tirannide più antica è una via di mezzo tra la
regalità patriarcale delle prime età e la demagogia del pe-
riodo democratico. Conservando le forme esteriori dello
Stato aristocratico, il despota cercava di raccogliere il mag
gior numero di poteri nelle sue mani e n&lla cerchia
dei seguaci, appoggiandosi su una forza militare per
lo più non numerosa, ma efficiente. Gli Stati che non
producono un ordinamento atto a funzionare e legale,
sorretto dal volere della comunità o d'una forte maggio-
ranza, non possono esser governati che da una mino-
ranza armata. Dato che nemmeno una lunga consuetu-
dine vale ad addolcire l'impopolarità di tale costrizione.
sempre visibile, il tiranno era costretto a compensarla
con losservare scrupolosamente le forme esteriori del-
!'assegnazione delle cariche, con l'ammaestrare sistemati-
camente al lealismo personale e con una politica eco-
nomica popolare. Pisistrato ebbe persino a comparire
di persona dinanzi al giudice, se implicato in qualche

11) V. n. 8.
Arist. Pol. III 17, 1288 a 28. Ma il governo tirannico è «con-
17 )
iro natura» 1287 b 39.
CAP. XI: L'AZIONE CULTURALE DEI TIRANNI 409

controversia, per dimostrare l'impero assoluto del di-


ritto e della legge, ciò che fece profonda impressione
sul popolo 18). Le antiche famiglie nobili furono de-
presse in ogni maniera; competitori nobili particolar-
mente pericolosi si mandavano in esilio, o si affida-
vano loro missioni onorevoli fuor del paese: così pare
Pisistrato sostenesse Milziade nella sua preziosa con-
quista e colonizzazione del Chersoneso. Ma nemmeno
voleva egli permettere che il popolo si concentrasse
nella città, diventando una pericolosa forza organiz-
zata. Motivi economici e politici insieme indussero Pi-
sistrato a favorire in massima le campagne, ciò che ve
lo fece popolarissimo. Ancora molti anni dopo, la tiran-
nide era chiamata la « vita sotto Crono », cioè l'età
dell'oro 1 9 ), e circolava ogni sorta di simpatici aneddoti
intorno alle visite personali del despota alle campagne
e ai suoi contatti con l'umile popolo lavoratore, del
quale si era stabilmente cattivato il cuore con la sua
bonarietà e con la tenuità delle tasse 20). Si mescolavano
inscindibilmente, in tale politica, senno politico e schietto
e sicuro istinto agrario. Egli seppe persino risparmiare
alla gente di recarsi in città per faccende giudiziarie,
venendo regolarment~, di persona, nelle campagne quale
giudice conciliatore e tenendovi udienza 21).
Soltanto nel caso di Pisistrato, purtroppo, siamo in
·grado di delineare un quadro cosi evidente della po-
litica interna dei tiranni, ed anche qui solo perché già
Aristotele così lo disegnò, in base alle antiche cronache
attiche di cui si giovava 22). A nessuno sfuggirà il co-
18) Ariet. Ath. Pol. 16.
19 ) ib. 16, 7.
20) ib. 16, 6.
21 ) ib. 16, 5.
22) L'immediata fonte di Aristotele per la storia dei Pisistra-
tidi nella Costituzione di Atene pare che sia stata la Atthis di uno
scrittore di poco più vecchio, Androzione, scolaro di Isocrate.
V. WILAMOWITZ, Aristoteles und Athen I (Berlino 1893) 260 11s.
410 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

spicuo fattore economico che vi si trova. È questo _l'ele-


mento veramente decisivo; tutto ciò che è politica non
è che ripiego adottato in via d'urgenza. Ciò che seduce
ne] nuovo stato di cose è il successo, che peraltro non
va attribuito se non al regime personale onnipotente
di un uomo veramente capace, che pone tutte le sue
forze a servizio de] bene pubblico. Che cosi sia stato
dappertutto è lecito dubitare; ma anche un regime come
la tirannide non va giudicato che dai suoi rappresen-
tanti migliori. A giudicarlo dall'esito, fu un periodo di
rapida e fortunata ascesa.

Spiritualmente l'affermarsi dei tiranni nel corso del


VI secolo si può raffrontare con quello del loro contrap-
posto politico, i grandi legislatori ed aisymnetai, che fu-
rono insediati qua e là con poteri straordinari per ema-
nare norme durature o per rimettere ordine in situazioni
momentaneamente intricate. Costoro ip..fimrono sulla cul-
tura generale principalmente col creare la il.orma ideale
della legge, che non esc]ude l'attività politica dei cit-
tadini, laddove il tiranno esclude l'iniziativa del singolo,
intervenendo dappertutto attivamente egli stesso. Egli
non è educatore della cittadinanza alla areté politica
generale, ma diventa un modello in un altro senso.
Il tiranno è il prototipo deJl'uomo di Stato di tempi
più recenti, per quanto gli manchi la responsabilità di
questo. Per la prima volta dà l'esempio d'un largo e
preveggente calcolo dei fini e dei mezzi di un'azione
programmatica all'esterno e all'interno, ossia d'una vera
politica. Il tiranno è la manifestazione specifìca, nel
campo dello Stato, dell'individualità spirituale che si
viene destando, così come, nelle sfere contigue, lo sono
il poeta e il filosofo. Quando poi, nel secolo IV, sorge
l'interesse generale per le individualità cospicue, dando
origine al nuovo genere letter~o della bio~afia, poeti?
CAP. XI: L'AZIONE CULTURALE DEI TIRANNI 411

filosofi e tiranni ne sono l'oggetto preferito 23). Tra i co-


siddetti sette savi, quali vennero in fama dal principio
del VI secolo in poi, accanto a legislatori, poeti ed altri
personaggi affini si trovano anche tiranni, come Perian-
dro e Pittaco 24). È particolarmente caratteristico che
quasi tutti i poeti dell'epoca vivono alla corte dei ti-
ranni. L'individualismo non è ancora fenomeno gene-
rale, cioè livellamento generale degli spiriti, bensi vera
indipendenza interiore. Proprio per questo le poche
menti autonome cercano d'aver commercio tra loro.
Il concentrarsi della cultura in tali sedi dà luogo a
una profonda intensificazione della vita intellettuale,
che non resta limitata alla stretta cerchia dei veri crea-
tori, ma si estende a tutto l'ambiente. Tale fu l'influenza
delle corti poetiche di Policrate di Samo, dei figli di
Pisistrato ad Atene, di Periandro di Corinto, di Gerone
di Siracusa, per non menzionare che i nomi più illustri.
Per Atene conosciamo un po' meglio ancora le condi-
zioni dell'età dei tiranni e possiamo apprezzare che cosa
significhi per lo sviluppo dell'Attica l'irradiarsi della
cultura dalla corte dei despoti nelle arti, nella poesia e
nella vita religiosa. Qui sono all'opera Anacreonte, Si-
monide, Pratina, L·aso, Onomacrito. Qui sono le ori-
gini del teatro comico e tragico, dell'intensa vita musi-
cale del V secolo, delle grandi recitazioni omeriche ordi-
nate da Pisistrato per la festa nazionale delle Pana-
tenee, da lui splendidamente rinnovata, delle grandi
feste dionisiache, dell'organica vita artistica attica nella
scultura, nell'architettura e nella pittura. Solo in que-
st'epoca Atene acquista quel carattere di sede delle

23) Ciò è stato messo in luce da F. LEO, Die griechisch-romische


Biographie (Lipsia 1901) v. p. 109 ss.
24) Pittaco fu nominato aisymnetes di Mitilene dà una schiac-
ciante maggioranza (Arist. Pol. III 14, 1285 b 1) ma l'opposizione
aristocratica condotta da Antimenida e suo fratello, il poeta
lirico Alceo, lo considerò uguelmente tiranno.
412 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

Muse, che sempre conservò. Uno spirito d'intrapren-


denza superiore e d'intensa clilettazione spira dalla corte.
Ipparco, uno dei figli minori cli Pisistrato, nel dialogo
omonimo, compreso tradizionalmente tra le opere di
Platone 25), ma spurio, è rappresentato come il primo
esteta. È spirito« erotico e amatore d'arte» 26). Fu cosa
tragica che il pugnale dei tirannicidi, nel 514, colpisse
per l'appunto quest'uomo giocondo e politicamente in-
significante 27). Sinché egli visse, le cose andarono bene
per i poeti, e non solo per coloro che, come Onomacrito,
falsificavano sentenze d'oracoli nell'interesse della di-
nastia o sodisfacevano il bisogno che aveva la corte,
secondo la moda d'allora, d'una nuova mistica religio·
sità rovistatrice di misteri, col comporre intere epopee
sotto il nome d'Orfeo. I tiranni alla fine dovettero ab-
bandonare pubblicamente chi s'era cosi compromesso,
per non ricongiungersi con lui che nell'esilio 28).
Ma il caso scandaloso non diminuisce le
benemerenze
della clinastia in fatto di letteratura. D'·allora in poi
scorre per i simposii attici, fiume inesauribile, ogni
sorta di poesia e di culto delle Muse. I tiranni hanno
l'ambizione d'essere festeggiati quali vin,citori, coi loro
carri da corsa, nei giochi nazionali degli Elleni; favo·
riscono ogni forma d'emulazione agonale. Sono così leva
potente dello slancio della cultura generale nella vita
dell'età loro. Si è affermato che lo sviluppo grandioso
delle feste religiose e la cura delle arti, tratti caratteri·
stici della figura del tiranno greco, non sorsero che dal-
l'intento di distrarre il popolo inquieto dalla politica,

116) Hipparcli. 228b ss.


16) Arist. Ath. Pol. 18, 1.
27 ) Tucidide VI 54, in un famoso excursus prova che la tradi-
zione popolare errava nell'afferniare che Ipparco, l'ucciso, era
il signore della città e che Armodio e Aristogitone liberarono AtenE'
dal suo tiranno.
28) Her. VII 6; Arist. fr. 7 (Rose).
CAP. XI: L'AZIONE CULTURALE DEI TIRANNI 413

occupandolo in modo anodino. Anche se entrano in


gioco tali intenzioni accessorie, tuttavia il concentrarsi
volutamente su questo compito mostra come l'occupar-
sene fosse allora considerato parte essenziale della vita
dello Stato e dell'attività pubblica. Il tiranno si pale-
sava cosi vero « politilWs » e ad un tempo approfon-
diva nei cittadini il senso della grandezza e de] pregio
della città natale. vm:teresse del pubblico per tutto
ciò, se non era cosa de] tutto nuova, risultava tuttavia
ad un tratto enormemente accresciuto dall'appoggio si-
steniatico accordatogli dall'alto e con larghi mezzi. La
sollecitudine dello St~to per la cultura era un segno
della benevolenza dei tiranni verso il popolo. Più tardi,
dopo la loro caduta, essa passò allo Stato democratico,
il quale non fece in ciò che seguire l'esempio dei suoi
predecessori, e d'allora in poi non è più nemmeno im-
maginabile un organismo statale evoluto senza un'at-
tività sistematica in tale direzione. Peraltro questi com-
piti culturali dello Stato consistevano ancora in preva-
lenza, in quel tempo, nella trasfigurazione artistica della
religione e nell'appoggio dato agli artisti dal despota;
questo elevato impegno non . pose mai lo Stato in con-
flitto con se stesso. Ciò non era possibile se non da parte
di una poesia che toccasse più a fondo. la vita e il pen-
siero pubblici, di quanto potessero mai fare i poeti
lirici alla corte dei tiranni, o mediante la scienza e la
filosofia, che in quell'epoca ancora non esistevano ad
Atene. Nessuna notizia ci parla di relazioni della tiran-
nide, nei primi tempi, con personalità filosofiche. Molto
invece essa contribui alla diffusione e al prestigio delle
arti e della cultura musica e ginnica del popolo.

Se tante volte il mecenatismo dei tiranni del Rina-


scimento e delle corti d'epoche più recenti, con tutte
le loro benemerenze rispetto alla vita intellettuale del-
414 UBRO I - L'ETÀ ARCAICA

l'età loro, ci sembra aver tuttavia qualche cosa di sfor-


zato, se tale sorta di cultura non ci sembra schietta,
non radicata né in un'aristocrazia, né nel popolo, ma
piuttosto lusso d'una classe ristretta, non va dimenti-
cato d'altronde che anche presso i Greci si ebbe già
qualche cosa di simile. Le corti dei tiranni greci sul
finire del periodo arcaico furono i primi Medici 29 ), anche
nel senso che godettero la cultura come qualche· cosa
di staccato dal resto della vita, come la crema di una
superiore esistenza umana, e la donarono con prodiga
mano al popolo, cui essa era estranea. La nobiltà non
aveva mai fatto altrettanto; ma la cultura ch'essa pos-
sedeva non si lasciava nemmeno trasmettere a quel
modo. In ciò stava, anche dopo perduta la potenza po-
litica, la sua importanza duratura nello sviluppo cultu-
rale del popolo. Ma evidentemente è proprio della na-
tura stessa di ciò ch'è spirituale d'isolarsi sempre con
facilità e di foggiarsi un proprio mondo, dove trova
più propizie condizioni esteriori di produiione e d'effi-
cacia, che non in mezzo alla dura e indifferente lotta
della vita quotidiana. Gli intellettualmente privilegiati
amano rivolgersi ai potenti della terra, , o, come dice
secondo l'aneddoto Simonide, che fu certo il personaggio
più cospicuo del cenacolo di Pisistrato, i saggi debbono
accostarsi alle porte dei ricchi. Col progressivo raffina-
mento, l'arte e la scienza sono sempre più esposte alla
tentazione di curarsi soltanto dei pochi intenditori e di

lii) L'analogia che si pone tra i tiranni greci del VI sec. e del
principio del V coi Medici della Firenze rinascimentale è
esatta non solamente nella glorificazione del nuovo regime nelle
arti del tempo, ma anche politicamente; giacché ambedue le
signorie furono esponenti delle tendenze democratiche di una
nuova forma di città-stato. Questa forma era opposta al tipo
di polis più aristocratica e conservatrice che nella Grecia del
V I sec. fu rappresentato da Sparta e nell'Italia del Rinascimento
da Venezia.
CAP. Xl: L'AZIONE CULTURALE DEI TIRANNI 415

diventare esse medesime un'attività da iniziati. Il senso


d'essere cosa privilegiata suole inoltre avvicinarle anche
nella loro concezione, sia pure disprezzandosi recipro-
camente.
Cosi era in Grecia alla fine del VI secolo. Per effetto
dello sviluppo della vita intellettuale nella Ionia, la
poesia dell'ultimo periodo arcaico, in generale, non pre-
senta più alcun vincolo sociale. Teognide e Pindaro,
che per le loro convinzioni sono poeti dell'aristocrazia,
costituiscono un'eccezione ed in ciò sono invece moderni
e a'flìni piuttosto ad Eschilo, che ha per sfondo lo Stato
attico dell'epoca delle guerre persiane. Questi poeti, pur
movendo da premesse diverse, rappresentano il supera-
mento di tutto il virtuosismo artistico dell'età dei ti-
ranni, rispetto alla quale la loro posizione è simile a
quella d'Esiodo e Tirteo rispetto all'epos del tardo rap-
sodismo. Gli artisti raccolti intorno a sé da Policrate
di Samo, da Periandro di Corinto e dai figli di Pisistrato
ad Atene, i musici e poeti del tipo d' Anacreonte, Ihico,
Simonide, Laso, Pratina, insieme coi loro colleghi delle
arti figurative, sono appunto « artisti » nel senso più
stretto del termine: una razza a sé, uomini d'affasci-
nante capacità artistica, all'altezza d'ogni compito e
che si muovono sicuri in ogni ambiente, ma senza aver
più radice in alcun luogo. Quando la corte di Samo
chiude le sue porte e il tiranno Policrate cade sotto la
spada dei Persiani, Anacreonte si stabilisce alla corte
d'Ipparco ad Atene, che lo manda a prendere con una
nave a cinquanta rematori; e quando anche l'ultimo
rampollo dei Pisistrati è costretto a lasciare Atene per
andare in esilio, Simonide si trasferisce in Tessaglia
alla corte dei principi Scopadi, sinché, anche là, il sof-
fitto della sala precipita, schiacciando tutta quella
schiatta. Par quasi un simbolo; secondo la tradizione
aneddotica, anche là Simonide fu l'unico superstite. Ve-
416 LIBRO I - L'ETÀ ARCAICA

gliardo ottantenne, egli passa ancora alla corte del ti-


ranno Gerone di Siracusa. Quale era l'intera esistenza
dei suoi campioni, tale anche la cultura che rappresen-
ta vano. Essa poteva dilettare e deliziare un popolo
intelligente e amante del bello, come l'ateniese, ma non
poteva commuoverlo nel profondo dell'anima. A quel
modo che le pr:>fumate clamidi ioniche e le ricche trecce
con appuntatevi cicale d'oro ornavano secondo la moda
gli Ateniesi di questi ultimi decenni prima di Maratona,
così le belle arti e l'armoniosa poesia degli Ioni e dei
Peloponnesiaci raccolti alla corte dei tiranni adornavano
la città d'Atene. Esse riempivano l'aria dei germi d'ogni
arte e della ricchezza d'idee di tutte le stirpi greche,
creando così l'atmosfera in cui poté crescere il grande
poeta attico che, nell'ora fatidica del suo popolo, fu
pari all'altezza del suo genio.
LIBRO SECONDO

APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO


ATTICO
CAPITOLO PRIMO.

IL DRAMMA ESCHILÈO

Eschilo era ancora fanciullo all'epoca dei tiranni; di-


venne uomo sotto il nuovo regime popolare, che, caduti
i Pisistratidi, pose termine in breve alla lotta allora
impegnata dall'aristocrazia per la conquista del potere.
Era stata invero la vecchia gelosia della nobiltà spo-
destata, a provocare la caduta dei tiranni; ma il ri-
torno all'anarchia feudale che regnava prima di Pisi-
strato era tuttavia impossibile. Uno degli Alcmeonidi
reduci dall'esilio, Clistene, che come Pisistrato si ap-
poggiava sul demos contro i rimanenti aristocratici,
fece l'ultimo passo per eliminare la signoria dei nobili.
All'antico ordinamento delle quattro phylai attiche,
ognuna delle quali aveva esteso a tutto il paese le sue
leghe tra consanguinei, sostitui il principio astratto della
ripartizione meramente regionale dell'Attica in dieci
phylai, che, lacerando gli antichi vincoli di sangue, ne
distrusse la potenza politica mediante un diritto eletto-
rale democratico, fondato su questo nuovo sistema di
phylai. Ciò segna la fine dello Stato fondato sulle stiTpi,
anchè se non quella dell'influenza intellettuale e poli-
tica dell'aristocrazia. Nello Stato democratico ateniese,
sino alla morte di Pericle, furono uomini dell'aristocra-
zia a restarne a capo, ed anche il mitggior poeta del
giovane Stato, Eschilo, figlio d'Euforione, come cen-
t'anni prima il primo grande rappresentante dello spi-
420 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

rito attico, Solone, era un rampollo della nobiltà cam-


pagnola. Egli era oriundo d'Eleusi, per la celebrazione
dei cui misteri Pisistrato aveva appunto allora edificato
il nuovo santuario. La commedia si compiacque d'imma-
ginare uno stretto nesso tra la gioventù del poeta e la ve-
neranda dea eleusina ! Era uno spassoso contrasto con
Euripide, il «figlio della dea degli ortaggi» 1 ), quando
Aristofane fa entrare Eschilo nella competizione contro
guastatori della tragedia con la pia preghiera 2):
Demetra, tu che educasti il mio spirito,
oh, fammi esser degno della tua consacrazio~e.

Il tentativo del W elcker, di far derivare la pietà


personale d'Eschilo da una supposta teologia dei mi-
steri, è oggi superato 3 ); una certa intuizione del vero
si troverà piuttosto nell'aneddoto che vuole Eschilo ac-
cusato d'aver reso pubblico sulla scena il sacro segreto
dei misteri, ma assolto dal tribunale per aver potuto
provare d'averlo fatto inconsapevolmente 4). Ma anche
se, senz'aver ricevuto gli ordini sacri, attinse la cono-
scenza delle cose divine dal profondo deJ proprio spi-
rito, la preghiera a Demetra rimane un tratto caratte-
ristico d'immortale verità nella sua virile' umiltà e nella
forza della sua fede. Grazie ad essa ci riesce più facile
rassegnarci alla perdita d'ogni notizia circa la vita del
poeta, vedendo che già un'età a lui così vicina, e cui
egli stava tanto a cuore, preferiva appagarsi della leg-
genda che ne avvolgeva la figura. Eschilo era per essa
ciò che l'epigramma sepolcrale esprime con grandiosa
semplicità: a testimone dell'aver egli compiuto in vita

1 ) Nelle Rane di Aristofane 840, Eschilo si rivolge a Euripide

con queste parole: w 7tlXL T7ji; &.poupix(ou .&eou.


2 ) Aristoph. Ranae 886-887.
3) F. G. WELCKER, Die a.eschylische Trilogie Prometheus und dis
Kabirenweihe zu Lemnos (Darmstadt 1824).
') Arist. Eth. Nic. III 2, 1111 a 10; cf. Anonym. comm. in
F:th. Nic. 145 (Heylbut): Clem. Strom. U 60, 3.
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 421

sua quanto v'è di più alto, non chiama che il bosco


di Maratona. Della sua opera poetica non fa cenno 5).
Anche questa « epigrafe » non è storica: non fa che ren-
dere con stilizzata hreviloquenza la figura ideale del-
l'uomo, quale la vedeva un poeta epigono. Già l'età
d'Aristofane avrebbe potuto formulare così l'atteggia-
mento d'Eschilo, ché già per essa egli era «il combattente
di Maratona», il rappresentante spirituale della prima
generazione, animata dalla più alta volontà etica, del
nuovo Stato attico.
Rare volte, nella storia, una battaglia fu combat-
tuta per un'idea al pari di quelle di Maratona e di Sa-
lamina. Che Eschilo partecipasse alla battaglia navale,
dovremmo supporlo anche se Ione di Chio 6) non l'avesse
narrato, una generazione più tardi, nei suoi appunti di
viaggio; ché gli ateniesi avevano lasciata la città, imbar-
candosi 1tlXV~"l)µe:(, « con tutto il popolo,>. Il racconto del
messaggero nei Persiani è l'uniea relazione d'un vero te-
stimone oculare del dramma storico in cui furono gettate
le basi della futura potenza d'Atene e della sua signoria,
invero non mai compiuta, sulla nazione. Ma a veder
così quella lotta fu Tucidide, non Eschilo, il primo 7).
Per lui essa fu la rivelazione della profonda saggezza del-
1'eterna giustizia che regge il mondo. Un'esigua schiera,
che la lotta per l'indipendenza nazionale infiammava a
nuovo eroismo, guidata dalla superiorità intellettuale
di un Ateniese, aveva sconfitte le miriadi di Serse, nel
cui animo la servitù aveva tarpata la virilità. Europae
succubuit Asia B). Lo spirito di Tirteo era risorto dal-
l'idea della libertà nazionale e del diritto 9).

i) V. Vita Àeschyli II (Aesch. ed. WILAMOWITZ, ed. maior, p. 5).


') Schol. in Àesch. ad Pers. 432.
7 ) V. Thuc. I 74, il discorso degli ambasciatori ateniesi in
Sparta sulla ascesa di Atene all'egemonia dopo le guerre persiane.
S) Com. Nep. Them. 5.
9 ) Questo è vero anche in senso letterale: ei può cogliere lo
422 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

La data del più antico dramma d'Eschilo non è de-


terminabile con approssimazione inferiore al decennio;
non sappiamo quindi se la religione delle imponenti
preghiere a Zeus, che sono nelle Supplici 16), fosse già
viva in lui prima delle battaglie persiane. Le ra-
<l.ici della sua fede sono le stesse della religione di So-
lone, che era la sua guida spirituale. Ma di quanto
questa fede acquistò in Eschilo di tragica potenza, dob-
biamo attribuir la sua parte a quella tempesta sommo-
vitrice e purificatrice che si è fatta manifesta per sem-
pre nella tragedia dei Persiani. Le due esperienze vis-
sute della libertà e della vittoria sono i saldi vincoli
coi quali questo figlio dell'età dei tira~, volgente al
tramonto, legò all'ordine nuovo la propria solonica fede
nel diritto. Lo Stato è l'ambiente ideale, non solo lo
scenario occasionale della sua creazione poetica. Ari-
stotele dice giustamente che i personaggi della tragedia
antica non parlano ancora retoricamente, bensì politica-
mente ll). Ancora nel suo grandioso commiato, la chiusa
delle Eumenidi, con l'appassionata implorazione delle
sue solenni preghiere per il bene del popolo greco e per
l'intatto sussistere del suo ordinamento diYin.o, Eschilo
rivela il carattere veramente politico della sua trage-
dia 12). Su questo si fonda la sua virtù educativa, che
è ad un tempo morale, religiosa, umana, perché lo
Stato tutto ciò abbraccia, in maniera ·nuova e gran-
diosa. Se Eschilo, in questo suo carattere educativo,
è affine a Pindaro, l'Ateniese differisce tuttavia profonda-

spirito di Tirteo e la sua inlluenza sull'animo dei cittadini ate·


niesi, fino a tutto il V sec., nel linguaggio di molti epigrammi
sepolcrali di guerrieri ateniesi morti nelle molte guerre della loro
patria e negli elogi funebri pronunziati in loro onore a cura dello
Stato. V. il mio Tyrtaios in« Sitz. Berl. Akad.» 1932 pp. 561-565.
lD) V. Aesch. Suppl. 86 ss. e 524 ss.
ll) Arist. Poet. 6, 1450 h 7.
12) Aesch. Eum. 916 ss.
CAP. J: IL DRAMMA ESCHILEO 423

mente dal Tebano nell'indole sua. Pindaro anela alla


restaurazione del mondo aristocratico e della sua so-
vranità, secondo lo spirito dei vincoli tradizionali. La tra-
gedia d'Eschilo è la resurrezione dell'uomo eroico se-
condo lo spirito della libertà. Il passaggio da Pindaro
a Platone, dall'aristocrazia del sangue all'aristocrazia
dello spirito e della conoscenza, appare cosi ovvio e
necessario; ma non è possibile che attraverso Eschilo.
Fu di nuovo il buon genio del popolo attico, che,
come ai giorni di Solone, cosi al tempo del suo ingresso
nella storia mondiale fece sorgere il poeta che forgiò
il ferro ancora incandescente. Il compenetrarsi di Stato
e spirito in una perfetta unità dà alla nuova forma
umana, che qui nasce, la sua unicità classica, giacché
raro è che l'uno e l'altro sorgano da un medesimo orien-
tamento. È difficile dire se in ciò fosse piuttosto lo
spirito a promuovere lo Stato, o lo Stato . lo spirito;
tuttavia si direbbe quasi fosse il secondo caso, se per
Stato non si intendano le autorità governative, ma lo
sforzo della cittadinanza d'Atene, che tutti occupava
egualmente a fondo, per liberarsi da un caos secolare
mediante il cosmo politico, voluto e realizzato col mas-
simo impegno di tutte le forze morali. L'esperienza viva
dello Stato, alla fine, diviene appunto, secòndo l'in-
tendimento di Solone, la forza che tiene assieme tutti
gli sforzi umani. La giovane democrazia del tempo di
Eschilo illustra perfettamente le parole del Montesquieu
in L'esprit des lois: la democrazia antica nella sua forma
vera e originaria era basata sulla virtù. La fede nell'idea
del diritto 13), che animava il giovane Stato, sembrava
trovare nella vittoria 14) la sua consacrazione e conferma
1 3) MONTESQUIEU, L'esprit des lois III, cap. 3.
H) Si veda quanto rilievo abbia l'appello a Dike nel grande
discorso di Agamennone al suo ritorno in patria, Aesch. Ag.
810 ss.; simile l'accento del coro in Ag. 249 e passim.
Nelle Eumen.idi poi il rapporto. con questo problema e con la
424 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

divina. Qui sorse primamente la vera e propria cul-


tura del popolo ateniese.
È caduto ad un tratto tutto quanto di molle raffi-
natezza e di lusso sontuoso si era sovrapposto alla na-
tura attica in quegli ultimi decenni d'un progresso ma-
teriale quasi troppo rapido ed esteriore. Come lo sfarzo
delle vesti ioniche passa di moda, per far posto alle
semplici vesti mascoline doriche 15), cosi sui volti delle
figure umane, create dalle arti figurative in quei de-
cenni, all'insignificante sorriso convenzionale dell'ideale
di cultura e di bellezza ionico subentra una gravità
profonda, quasi accigliata. Soltanto la generazione se-
guente, quella di Sofocle, trovò fra i due estremi l'equili-
brio dell'armonia classica. Ciò che la cultura aristocra-
tica non poté partecipare al popolo, né da sola aveva
potuto l'influenza di una superiore cultura straniera, lo
compì ora il suo proprio destino storico. Mercé l'arte
d'un grande poeta, che pur si sentiva del tutto membro
del suo popolo, esso instillò nella collettività la pia e
ardita disposizione d'animo della vittoria, facendo sì
che, in un co;mune grato entusiasmo, questa si levasse
alta sulle differenze di nascita e d'educaajone. Quanto
di più grande era ora d'appartene.J;lZa degli Ateniesi,
sia di memorie storiche, sia di patrimonio spirituale,
apparteneva, una volta per sempre, non più ad una classe
sola, ma aJ popolo intero. Tutto ciò ch'era stato prima,
doveva impallidire a petto di ciò, e gli toccava in sorte
naturalmente. Non la costituzione né il diritto eletto-
rale, ma la vittoria è la madre della cultura nazionale
attica del V secolo. Su questo terreno, non su quello

sna importanza per la polis investe l'intera tragedia. Dike è


la più alta norma di condotta che la stessa dea Atena abbia sta-
bilito per-· la sua città: Eum. 691. Snl timore della legge come
fondamento della democrazia ateniese v. Eum. 698. Cfr. il discorso
di Pericle in Thuc. II 37, 3 e n. 59.
16) Thuc. I 6, 3-4,
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 425

della cultura aristocratica vecchio stile, si edificò lAtene


di Pericle. Sofocle, Euripide e Socrate furono figli della
borghesia. Veniva il primo dal ceto artigiano; i geni-
tori d'Euripide avevano una piccola fattoria; il padre
di Socrate era un bravo scalpellino d'un piccolo sob-
borgo. Col carattere progressivamente radicale 1 6 ) assunto
dalla democrazia dopo lo spodestamento dell'areopago,
che ai tempi d'Eschilo era ancora il vero fulcro dello
Stato, l'opposizione della società e della cultura aristo-
cratica tornò poi a farsi più sensibile, e questa si isolò
sempre più. Non bisogna tuttavia trasportare ciò a
ritroso dai tempi di Crizia agli anni dopo Salamina.
Ai giorni di Temistocle, d'Aristide e di Cimone, popolo
e nobiltà erano legati da grandi compiti comuni: il
riassetto della città, la costruzione delle lunghe mura,
il consolidamento della Lega di Delo e la conclusione
della guerra d'oltremare. Nell'Atene di quei decenni,
cui si rivolgeva la nuova forma di poesia, ci par di co-
gliere qualche cosa dell'alto volo e dello slancio, ma
anche dello spirito di rinuncia, della modestia e della
reverenza dello spirito eschilèo.

La tragedia restituì alla poesia greca la grande unità


di tutto quanto è umano: in ciò non è paragonabile
che all'epos omerico 17). Non ostante la ricchissima fe-
condità dei secoli intermedi, essa, per copia di sostanza
e di forze plasmatrici come per ampiezza d'opera crea-
tiva, non è pareggiata che dall'epos. Appare come una
rinascita del genio poetico della nazione greca, ma dalla
Ionia questo è passato ora ad Atene. Epos e tragedia
sono come due imponenti sistemi montagnosi, collegati

lS) Arist. Ath. Pol. 25-26.


17) Aristotele vide questo chiaramente; nella Poetica egli si
ferma soltanto su due forme di poesia greca, l'epica e il dramma.
426 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPffiITO ATTICO

dalla serie ininterrotta delle catene minori loro appar-


tenenti.
Se consideriamo nel suo corso lo sviluppo della poe-
sia greca dalla fine dell'epos, vale a dire dal suo apo-
geo in poi, quale espressione della progressiva forma-
zione delle grandi forze storiche attraverso le quali si
effettua la formazione dell'uomo, la parola rinascita
acquista un senso più determinato 18). :Nella poesia post-
omerica vediamo dappertutto un crescente sviluppo del
puro contenuto concettuale, sia quale esigenza norma-
tiva della collettività, sia quale espressione personale
dell'individuo. Tali forme di poesia sorgono per lo più,
è vero, dall'epos; ma, con lo staccarsi esse dall'epos,
il mito, che nell'epos incarnava quei contenuti a cui
essi erano legati, o rimane eliminato del tutto, come in
Tirteo e Callino, Archiloco e Simonide, Solone e Teo·
gnide e per lo più nei lirici e in Mimn.:rmo, o è inse-
rito nel pensiero amitico del poeta in forma di esempi
mitici isolati, come negli Erga esiode4 nei · lirici e nei
miti pindarici. Gran parte di tale poesia è pura pare-
nesi e consiste in precetti e consigli generali. Un'altra
parte è di contenuto contemplativo. Anche la lode, che
nell'epos nt'.ln si rivolgeva che alle gesta d'eroi mitici,
è tributata ora a persone reali e contemporanee, e per-
sone siffatte sono del pari oggetto della lirica mera-
mente affettiva. Se la poesia, nel periodo post-omerico,
diviene espressione sempre più larga ed intensa della
vera vita spirituale contemporanea, tanto sociale quanto
individuale, ciò non era possibile che allontanandosi
dalla leggenda eroica, la quale in origine era stata, oltre
all'inno agli dèi, l'unico oggetto del canto.
D'altra parte, nonostante la tendenza predominante

18) V. i capitoli di questo libro sulla poesia post-omerica,


Esiodo, Tirteo, la lirica. i poeti giambici e gli elegiaci.
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 427

a trasferire nella realtà del p.resente il contenuto d'idee


dell'epos, facendo così della poesia, in misura sempre
maggiore, la plasmatrice e guida diretta della vita, il
mito conserva anche nell'età post-omerica la propria
importanza quale fonte inesauribile di creazione poe-
tica. O non è usato che come un elemento d'idealità,
nobilitando il poeta ciò che appartiene al presente col
riferimento a paralleli mitici e creandosi così una propria
sfera di realtà superiore, come nel citato uso degli esempi
mitici nella lirica 19); oppure il mito rimane oggetto di
rappresentazione come un tutto, ciò che poi nella vi-
cenda dei tempi e degl'interessi dà luogo ai criteri più
diversi, con forme di rappresentazione che possono con-
seguentemente essere diverse affatto. Così, negli epici
del cosiddetto ciclo, prevale l'interesse meramente con-
tenutistico per le leggende del ciclo troiano. Mancava
agli autori la comprensione della grandezza artistica e
spirituale dell'Iliade e dell'Odissea: sivoleva soltanto
apprendere che cosa fosse accaduto prima e poi. Tali
epopee, d'uno stile epico assimilato meccanicai:nente
- quale del resto si trova più volte anche in Omero
stesso, nei canti più recenti ~ debbono il proprio nasci-
mento a un bisogno storico: poiché tutto il periodo ar-
caico prende per storia autentica le memorie leggen-
darie, tale istorizzazione non poteva mancare. Il poema
del Catalogo, che fu attribuito ad Esiodo, perché s{
aveva in lui un autore cui spettano versi affini, appaga
il bisogno della classe dei cavalieri, di far derivare gli
alberi genealogici nobiliari da dèi ed eroi; esso fa dun-
que ancora un passo innanzi nell'istorizzazione del mito:
questo diviene preistoria del presente. Entrambe le spe-
cie d'epica si continuano accanto alla poesia amitica

19) Cfr. la monografia cli R. Oehler. citata al cap. II, n. 68 e gli


studi cli L. Illig e del Fehr SlÙ miti in Pindaro, a cui si rimanda
nel cap. su Pindaro, n. 106.
428 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

dei secoli VII e VI. Senza poter competere con essa


per. importanza viva, sodisfano tuttavia un bisogno
dell'epoca, per la quale Omero ed il mito sono ormai
lo sfondo di tutta la sua esistenza. Esse sono per così
dire l'erudizione dell'epoca. Ne troviamo la diretta con-
tinuazione nelle elaborazioni prosastiche ioniche della
materia mitica, con o senza intento genealogico, in
Acusilao, Ferecide ed Ecateo. La forma poetica, in
realtà era diventata da tempo cosa secondaria affatto,
non era più, in fondo, che un abbellimento. Le scarse
reliquie dei «logografi» prosastici appaiono ben più
fresche e moderne. Essi cercano, con la loro arte nar-
rativa, di ravvivare l'interesse per l'argomento.
Mentre la dissoluzione della forma epica nella prosa
presenta in modo particolarmente patente il processo
di crescente materializzazione e istorizzazione del mito,
nella poesia corale, che sorge nell'Occidente greco, in
Sicilia, si compie una nuova trasformazione artistica
della leggenda eroica, la sua trasposizione · dalla forma
epica nella lirica. Ma qui non si tratta di una rinnovata
fede nella leggenda. Stesicoro d'Imera assume di fronte
ad essa un atteggiamento di fredda cri~ica razionale
come Ecateo di 1\-Iileto. Per la lirica corale antecedente
a Pindaro la leggenda non è affatto fine a se stessa,
com'era stata per l'epos, ma materia ideale per la com-
posizione musicale e la rappresentazione corale. Logos,
rhythm6s e harmonia cooperano quali forze plasmatrici,
ma il logos è tra esse la minore. Esso è l'elemento che
si lascia guidare; elemento-guida è la musica, la quale
suscita l'interesse vero e proprio. È un dissolversi del
mito in parecchi elementi sentimentali liricamente effi-
caci, e il raggrupparsi di questi in una narrazione a
mo' di ballata, che procede a sbalzi, destinata al fine
p~ciso d'esser musicata, generando la singolare impres-
sione di vuoto e d'incompiutezza che suscitano nel-
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 429

l'odierno lettore le reliquie di tale poesia priva della


sua musica. Anche l'impiego narrativo del mito nella
semplice poesia lirica, come in Saffo, è destinato sol-
tanto a suscitare un certo stato d'animo 20). Esso ne
fa il sostrato del sentimento artistico, o almeno è questa
l'unica sua efficacia, e anche questo ci rimane assai
inaccessibile in tal forma. Quanto di questo genere ab-
biamo trovato d'lbico, è vuota imbottitura e non in-
teressa che per il suo grande nome.
Sebbene il mito si mantenga così nella poesia e nella
prosa, ciò che trova un parallelo calzante nel suo im-
piego decorativo nella pittura vasale del VI secolo,
esso non è più, in nessun caso, il rappresentante delle
grandi idee che agitano quell'epoca. In quanto non è
del tutto materializzato, ma adempie ancora a una fun-
zione ideale, esso è di natura convenzionale e decora-
tiva. Dove si affaccia nella poesia un vero moto spiri-
tuale, ciò non ha luogo in quanto al mito, ma in forma
puramente concettuale. Si potrebbe immaginare una
evoluzione che, movendo di qui, procedesse in linea retta,
con un distacco sempre maggiore del contenuto filoso-
fico dalla poesia, nella direzione della giovane prosa
filosofica e narrativa degli Ioni, per metter capo alla
trasposizione di tutte le forme poetiche concettuali e
riflessive del VI secolo in Myot prosastici, parenetic!
o indagativi, circa l'areté, la tyche, il nomos e la poli-
teia, quali produsse poi effettivamente la sofistica.
Ma i Greci della madrepatria non erano ancora cosi
innanzi, da poter percorrere questa strada dello spirito
ionico, e gli Ateniesi non la percorsero poi mai per dav-
vero. Qui la poesia non era ancora interiormente così
razionalizzata, che quel trapasso divenisse ovvio; nel

20) Tale è il carme sulle nozze di Ettore e Andromaca scoperto


qualche diecina d'anni fa (fr. 55a Diehl).
430 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

VI secolo, e appunto neJa madrepatria, era tornata ad


intendere quale ideal forza vitale la propria alta mis-
sione, che aveva smarrita nella Ionia. Ciò che avevano
suscitato nell'anima di questo popolo le immani scosse
mediante le quali la pacifica e pia stirpe attica era stata
lanciata nella vita storica, non era certo meno « filoso-
fico » che la scienza e la ragione ionica. Ma questa nuova
intuizione totale della vita non poteva esser mostrata
al mondo che in simboli religiosi spiritualizzati da una
sublime poesia. L'appassionata ricerca d'una nuova norma
e forma di vita, svolta dal VI secolo, reso titubante dal
disfacimento del vecchio ordine e della fede avita,
agitato da ignote forze spirituali che si venivano de-
stando, in nessun altro. luogo era stata più ampia e pro-
fonda che nella patria di Solone. Ineguagliata ne era
l'intima delicata sensibilità, unita a tanta molteplicità
di attitudini intellettuali e a una freschezza di gio-
ventù quasi indistinta ancora. Fu questo ierreno a pro-
durre la pianta meravigliosa della tragedia. Tutte le
radici dello spirito greco le dànno alimento e sostegno,
ma la grande radice madre la profonda giù giù nella
sostanza prima di tutta la poesia e di , tutta la vita
più alta della nazione greca, nel mito. In un'età le cui
forze maggiori parevano dipartirsi sempre più dall'eroico,
epoca di conoscenza riflessa e di accresciuta attitudine
al dolore, quale si mostra nella letteratura ionica, da
quelle radici appunto sorge uno spirito d'eroismo nuovo,
interiorizzato, che si sente immediatamente e origina-
riamente affine al mito e all'Essere che in questo ha
preso figura. Esso infonde nuova vita nei suoi schemi
e ridà loro voce, abbeverandoli del sangue del ~uo olo-
causto. Senza di ciò, il miracolo di questa resurrezione
non è spiegabile.
I recenti tentativi di deriva.re e determina.re- stori-
camente il carattere della tragedia, compiuti con cri-
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 431

terio filologico, trascurano la questione. Essi esterio-


rizzano il problema, facendo derivare la novità crea-
tiva da qualche processo formale, meramente lettera-
rio, ritenendo ad esempio che il ditirambo dionisiaco
abbia « assunto forma seria» per essergli stata data per
contenuto, da una mente inventiva,_ l'antica leggenda
eroica drammatizzata, rappresentata da un coro di cit-
tadini attici 21). La poesia medievale di tutte le nazioni
civili dell'Occidente è ricca di drammatizzazioni della
storia sacra, tuttavia non ne sorse tragedia, sino a che
non la rese possibile la conoscenza dei modelli classici.
Anche dalla leggenda eroica greca drammatizzata non
sarebbe sorta che una nuova ed effimera va:r;ietà arti-
stica della lirica corale, che poco c'interesserebbe e che
non sarebbe stata suscettibile di sviluppo, se la leggenda
eroica non fosse stata trasportata ad un grado di spi-
rito eroico superiore a quello on.d'era sorta, ricevendo
così nuova forza artistica e plasmatrice. Della forma
primitiva della tragedia non abbiamo, purtroppo, idea
precisa, e perciò non possiamo giudicarne che dall'apo-
geo del suo sviluppo. Nella sua form:a compiuta, che
troviamo in Eschilo, essa si presenta come la resurre-
zione del mito della nuova concezione del mondo e del•
l'uomo, suscitata nello spirito attico da Solone in poi,
la quale tocca in Eschilo la suprema intensità dei suoi
problemi religiosi e morali.

È estraneo al nostro intento presentare una com-


piuta storia delle origini della tragedia, come in genere
qualsiasi compiutezza 22). Per quanto qui c'interessa, toc-

111) WILilt:OWITZ, Einleitung in die attische Tragodie (Berlino


1907) 107.
22) Per la stessa ragione esula dai fini di questo libro esaminare
la letteratura moderna sul problema dell'origine della tragedia
greca, "dalla Nascita della Tragedia di FEDERICO NIETSCHE fino
432 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

cheremo del primo periodo di questo genere letterario


in relazione al problema del contenuto ideale tragico.
Una ere.azione spirituale cosi molteplice può conside-
rarsi sotto gli aspetti più diversi. Ciò che noi tentiamo
di presentare non è che un apprezzamento della tra-
gedia quale oggettivament~ intellettuale della nuova
figura dell'uomo, che si viene formando in quell'epoca,
e della virtù educativa, che irraggia da questo prodotto
immortale dello spirito greco. La copia d'opere dei tra-
gici greci a noi pervenute è tale, che dobbiamo neces"
sariamente considerare il problema da una certa di-
stanza, se non vogliamo che ne sorga tutt'un libro sulla
tragedia, analogamente al caso dell'epos e di Platone.
Trattare della tragedia secondo tale criterio è peraltro
necessario, giacché le è adeguata soltanto una tratta-
zione la quale sia anzitutto consapevole del fatto che
la tragedia è la più alta manifestazione di un'uma-
nità per la quale arte, religione e filosofia costitui-
scono ancora un'unità inscindibile. Ed è appunto que-
st'unità, che rende una vera gioia l'occuparsi delle
espressioni di quell'epoca e per la quale essa ci appare
cosi privilegiata rispetto ad ogni storia e~clusivamente
filosofica, religiosa o letteraria. I tempi in cui la storia
della cultura umana segue interamente o in prevalenza
le vie distinte di tali forme dello spirito, sono necessa-
riamente unilaterali, per quanto profondamente deter-
minata dalla storia sia tale unilateralità. Par quasi che
la poesia, la quale fu dai Greci primamente elevata al-
i'altezza, difficilmente mantenibile, di questo loro li-
vello e missione spirituale, abbia voluto ancora una
volta rivelare tutta la sua ricchezza e la sua potenza

alle fantasiose teorie di moderni storici della religione. Tutto il


materiale è discusso con giudizio eqnilihrato e grande completezza
da A. W. PICKARD ·CAMBRIDGE in Dithyram:b, Tragedy and Comedy
(Oxford 1927). Cfr. W. KRANz, Stasimon (Berlino 1933).
CAP. I: IL DRAMMA ESOilLEO 433

nella copia più strabocchevole, prima di abbandonare


la terra ritirandosi sull'Olimpo.

La tragedia attica ebbe tutt'un secolo d'incontra-


stata egemonia, che coincide temporalmente e sostan-
zialmente con l'ascesa, il fiore e il declino della potenza
terrena dello Stato attico. Con questo si levò la tra-
gedia alla sua grandezza nazionale, quale è rispecchiata
nella commedia; il predominio dello Stato contrib.ui
essenzialmente a determinare la portata della sua riso-
nanza nel . mondo greco, anche mercé la diffusione che
lo Stato attico diede all'idioma attico, ed infine essa
giovò pure a compiere la dissoluZione intellettuale e
morale per cui peri lo Stato - secondo il retto giudizio
di Tucidide - così come lo aveva trasfigurato all'epoca
del suo apogeo e gli aveva dato interiormente nerbo e
forza nella sua ascesa. Sotto il rispetto meramente
artistico o psicologico, l'evoluzione della tragedia da
Eschilo a Sofocle ed Euripide - non c'importano qui
i numerosi minori che suscitò l'attività creatrice di
questi grandi - va giudicata in tutt'altro modo; ma
la storia della cultura umana, nel senso più profondo
del termine, fa apparire il processo perfettamente come
lo riflette la commedia contemporanea, specchio della
coscienza pubblica, senza pensare alla posterità. Mai,
infatti, presso i contemporanei, né il carattere né l'effi-
cacia della tragedia furono sentiti come meramente
artistici. Essa era per loro talmente regina, che la fa-
cevano responsabile dello spirito della collettività, e
sebbene gli stessi sommi poeti, per il nostro pensiero
storico, non siano che i rappresentanti, e non già i crea-
tori addirittura di tale spirito, ciò non muta affatto
la responsabilità del loro ufficio di capi, che nello Stato
democratico ateniese era sentita ancor più grande e
grave di quella, fissata dalla costituzione, dei capi poli-
434 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

tici continuamente rinnovati. Le ingerenze dello Stato


platonico nella libertà della poesia, che riescono tanto
incomprensibili e intollerabili al pensiero liberale, non
si possono intendere che secondo questo criterio. Eppure
tale concezione responsabile del poeta tragico non poté
essere l'originaria, se ripensiamo all'atteggiamento me-
ramente edonistico dell'età di Pisistrato di fronte alla
poesia. Esso non si formò che sulla tragedia d'Eschilo;
è l'ombra di lui, che Aristofane evoca dall'Ade quale
unico mezzo per ricondurre la poesia alla sua vera mis-
sione nello Stato dell'età sua, che non conosceva cen-
sura platonica.
Dacché lo Stato organi2:zava le rappresentazioni alle
feste di Dioniso, la tragedia era diventata sempre più
cosa nazionale. Le solenni rappresentazioni attiche sono
il prototipo ineguagliato d'un teatro nazionale, per il
quale i drammaturghi e registi tedeschi del .periodo clas-
sico tanto si adoperarono, ma invano. Certo il nesso
contenutistico dei drammi col culto del dio, alla cui
celebrazione servivano, era tenue. Il mito dionisiaco
appariva di rado sull'orchestra, come nella Licurgìa di
Eschilo, che rappresentava la leggenda omerica dell'em-
pietà del re tracio Licurgo verso il dio Dioniso, o come
più tardi nelle Baccanti di Euripide, che trattarono la
leggenda di Penteo. Un'azione propriamente dionisiaca
meglio conveniva al dramma satiresco, comico-burlesco,
che, quale forma primitiva della rappresentazione dio-
nisiaca, sopravvisse parallelamente e continuò ad esser
richiesto dal popolo dopo ogni trilogia tragica 23). Ma

23) Il più gran genio nel campo del dramma satiresco fu Pratina
di Fliunte nel Peloponneso, e poi di Atene, che l'antica tradizione
chiamò il re dei satiri. Non si aveva una vera conoscenza del-
l'arte di Eschilo stesso nel dramma satiresco finché ampi fram-
menti papiracei di alcuni di questi drammi satireschi non
furono scoperti, recentemente, in Egitto. Furono pubblicati nel
vol. XVIII degli Oxyrhynclius Papyri. V. il primo giudizio, cui
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 435

veramente dionisiaca era nella tragedia l'estasi degli


attori. Era questo l'elemento d'influenza suggestiva su-
gli uditori, i quali sentivano come realtà vissuta i do-
lori delle persone rappresentate sull'orchestra. Ciò dicasi
ancor più dei cittadini che formavano il coro e che tutto
l'anno, preparandosi. nelle prove alla rappresentazione,
s'immedesimavano con la propria parte. Il canto corale
fu la scuola superiore della grecità arcaica, gran tempo
prima che vi fossero maestri che avviassero alla poesia,
e la sua influenza sarà stata sempre più profonda di
quella dell'apprendimento meramente intellettuale 2').
L'istituto della chorodidaskalia non senza ragione con-
serva nel suo nome un sapore di scuola e d'insegnamento.
La solennità e rarità, la partecipazione dello Stato e
di tutta la cittadinanza, la serietà e lo zelo della pre-
parazione e l'attesa di tutto l'anno per il nuovo coro
(cosi dicevasi) che il poeta aveva creato appositamente
per quel giorno 25), infine la gara di più poeti per il pre-
mio, facevano di quelle rappresentazioni il momento
culminante della vita cittadina. Nel raccoglimento so-
lenne col quale ci si adunava di buon mattino in onore
di Dioniso, la mente e l'animo si abbandonavano con

dette luogo questa memorabile scoperta: ED. FRAENKEL, Aeschy-


lu.s: New Texts and Old Problems, in « Proceedings of the British
Academy » XXVIII.
24) Platone si rese conto di ciò con chiarezza, quando nelle
Leggi cercò di resuscitare la più antica forma di cultura greca
(paideia) riportando . nella vita del suo tempo la poesia corale
e le danze del periodo arcaico. V. « Paideia» III 399 ss. -
25) La parola propria per «tragedia» o «commedia» era xop6c;.
!v !xdvcp -.éj> xopéj> (Plat. Prot. 327d) non significa «in quel coro»
ma «in quel dramma». Giacché le persone a cui si riferiva Platone
in questo passo non appartenevano certamente al coro, ma erano
gli attori. Questo significato della parola prova che anche dopo
che il dramma classico ebbe preso la sua forma peculiare, rimase
viva la memoria di UllO stadio precedente del suo sviluppo, quando
il coro e il dramma erano la stessa cosa. Anche al tempo di Aristo-
fane al principio di nna azione drammatica l'araldo dice « Teognide,
introduci il tuo coro» (Ach. 11 e:foccy' i1 E>foyvt TÒ\I xop6v).
436 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

lieta recettività all'impressione dello spettacolo singolar-


mente serio della nuova arte. Sulle 'semplici panche di
legno, intorno alla piattaforma in terra battuta dove
si danzava, il poeta non trovava ancora dinanzi a sé
un pubblico letterariamente blasé, ma nella sua arte
psicagogica sentiva la forza di commuovere un popolo
intero in un sol momento,· come nessun rapsodo aveva
mai potuto fare coi canti d'Omero. Il poeta tragico
divenne un personaggio politico, e lo Stato intervenne
quando un confratello anziano d'Eschilo, Frinico mise
in tragedia un fatto contemporaneo in cui gli Ateniesi
non si sentivano esenti da colpa, la presa di Mileto
per parte dei Persiani, trascinando il popolo alle la-
crime 26).
Non minore era l'effetto dei drammi mitici, giacché
causa dell'efficacia emotiva di tale poesia non era già
il riferimento alla realtà ordinaria. Essa scuoteva la
tranquilla e comoda sicurezza dell'esistenza filistea me-
diante la fantasia poetica d'un linguaggio dotato di
aspetti di un ardimento e d'un'elevatezza nuovi, il cui
slancio ditirambico toccava il suo apogeo dinamico nei
cori, sorretto dal ritmo della danza e ,dalla musica.
Il voluto distacco dal linguaggio usuale sollevava l'udi-
tore al disopra di se stesso, in una sfera di verità su-
periore. Tale linguaggio chiamava gli uomini « mor-
tali» e « creature d'un giorno », non soltanto per sti-
lizzazione convenzionale: parola e immagine erano ani-
mate dal soffi.o vivo d'una nuova religione eroica. «O tu,
che primo fra i Greci levasti a torre venerande parole»
- cosi apostrofano i nipoti l'ombra del poeta 27). Nel-
l'ardimento della « turgidezza» solennemente tragica,

26) Her. VI 21. L'arconte in Atene decretò dop!! questa prima


rappresentazione che non si rappresentasse più il dramma di
Frinico M1À-fi't'ou ocÀCllcrn;.
27) Aristoph. Ranae 1004.
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 437

che tale appariva rispetto alla spoglia realtà quotidiana,


si sentiva tuttavia l'adeguata espressione della grandezza
t...'animG eschilea. Solo la potenza stupefacente di tale
linguaggio è in grado di compensate in qualche modo
per noi la perdita della musica e del ritmo dei movi-
centi. Vi d aggiungeva l'effetto dello spettacolo 28), che
sarebbe mera curiosità il voler ricostruire. Il rammen·
tarlo può giovare tutt'al più a cancellare dalla fantasia
del lettore odierno l'immagine scenica del teatro chiuso,
che falsifica lo stile della tragedia greca; ma a ciò basta
tuttavia l'aspetto affascinante di una maschera tragica,
quale è stata spesso plasmata dall'arte greca. In essa
si concreta visibilmente il divario essenziale fra la tra-
gedia greca ed ogni ulteriore forma di dramma. La sua
distanza dalla realtà ordinaria è così grande, che il ri-
ferimento parodistico delle sue parole a situazioni della
vita quotidiana sarà d'ora innanzi fonte inesauribile
di comicità per la sensibilità stilistica raffinata dell' orec-
chio greco. Nel dramma, infatti, tutto è trasportato in
una sfera di figure sublimate e di timore reverenziale.
La travolgente impressione immediata sui sensi e
sull'animo era insieme sentita dallo spettatore quale
irradiazione dell'intima forza drammatica che penetrava
e animava il tutto. La concentrazione d'un intero de-
stino umano nel breve e violento succedersi d'eventi
abbracciato dal dramma, dinanzi agli occhi e agli orec-
chi dello spettatore, rappresenta, al paragone dell'epos;
un immenso incremento dell'intensità istantanea del-
1'effetto. Il culminare dell'evento rappresentato in un
momento fatale trovava fondamento, sin dall'inizio, nel
valore d'esperienza vissuta dell'estasi dionisiaca, ben
diversamente dall'epos, il quale narrava la leggenda per

18 ) Vita Aeschyli 2. t ciò che Aristotele, Poet. 6, 1450 a 10


chiama llqnç.
438 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

se stessa e soltanto nell'ultima fase della sua evoluzione


si era adattato a una concezione generale tragica, quale
vediamo nell'Iliade e nell'Odissea a noi pervenute. La
tragedia antichissima sorse dai cori dionisiaci di ca-
proni, che il suo nome rammenta ancora, quando un
poeta ravVISo nell'entusiasmo ditirambico lo stato
d'animo artisticamente sfruttabile che alla concentra-
zione del mito liricamente sentita, quale si riscontra
nella lirica corale sicula arcaica, aggiungeva l'evidenza
drammatica e l'immedesimarsi del cantore nell'Io del
personaggio agente. Cosi il coro, da narratore lirico, di-
venne attore e quindi soggetto egli stesso . dei dolorosi
casi che sino allora non aveva fatto che riferire con
simpatia, accompagnandoli coi propri sentimenti. La
rappresentazione mimica di un'azione vera e propria,
particolareggiata e calcata sulla vita, non rientrava
affatto nell'indole di quella forma originaria della tra-
gedia; il coro vi era del tutto disadatto. Poteva trattarsi
soltanto di farne uno strumento, quanto ··più perfetto
fosse possibile, delle emozioni liriche suscitate in esso da
un evento che l'investisse e ch'esso esprimesse col canto
e con la danza. Le limitate possibilità di tali forme espres-
sive non potevano esseJ"e sfruttate appieno dal poeta
se non creando per il coro, con un reiterato e brusco
cangiamento di fortuna, una scala di fattori espressivi
lirici varia e ricca di contrasti al possibile, come ci mo-
stra ancora il dramma più antico d'Eschilo, le Supplici,
dove il coro delle Danaidi è ancora interamente il vero
attore 29). Qui s'intende anche perché si rendesse neces-
sario aggiungere al coro un corifeo: egli non aveva altro
compito che .di suscitare, col presentarsi e con quanto
annunciava, ed eventualmente con le sue stesse spieg-ct-

29) Sullo sviluppo del coro nella tragedia greca da attore prin-
cipale a spettatore ideale, v. p. 463.
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 439

zioni od azioni, situazioni varie, le quali motivassero


la vicenda, drammaticamente efficace, delle effusioni li-
riche del coro. Così il coro vive «il trapasso profonda-
mente commovente dalla gioia al dolore e dal dolore
alla gioia» 30). La danza è l'espressione del suo tripudio,
della sua speranza, della sua gratitudine; dolore e di-
sperazione effonde nella preghiera, che già nella lirica
e. nella riflessione individuali dell'antica poesia serve
ad ogni sorta d'espressione dell'animo commosso.
Già in questa tragedia antichissima, che non era
azione ma soltanto passione, la forza della sympatheia,
la compassione dello spettatore per il patimento del
coro doveva diriger l'attenzione sulla fatalità che cau-
sava tali perturbamenti dell'umana esistenza e ch'era
mandata dagli dèi. Senza questo problema della Tyche
o Moira, fatto tanto presente alla coscienza. dell'epoca
dalla lirica ionica, non sarebbe mai sorta una tragedia
vera e propria dal primitivo « ditirambo a contenuto
mitico» 31). La forma puramente lirica del ditirambo,
che atteggia ad espressione di sentimenti soltanto un
un singolo momento drammatico della leggenda, ci è
stata infatti esemplificata in varii saggi scoperti di re-
cente. Di qui ad Eschilo restava, certo, un passo gigan-
tesco. Certo vi ebbe importanza essenziale la moltipli-
cazione dei corifei, onde segui che il coro non rimase
più fine a se stesso, e i corifei divennero compartecipi,
e alla fine anzi protagonisti dell'azione. Ma il perfezio-
namento tecnico non fu che il mezzo per mettere in
evidenza in modo più grandioso e compiuto, nell'evento
rappresentato, che rimaneva ancora precipuamente un

GOETHE, Ifigenia in Tauride.


30 )
31)V. l'opera di W. C. GREENE, Moira. Fate, Good and Evi!
in Greek Thought (Cambridge, Mass., 1944) in cui la storia del
problema ì\ se~uita attraverso tutta la letteratura greca.
440 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

caso patito dall'uomo, l'idea superiore dell'impero delle


potenze divine.
Soltanto con l'affacciarsi di quest'idea il nuovo ge-
nere di rappresentazione diviene propriamente «tragico»;
dove non giova cercare una determinazione concet-
tuale di validità generale, affatto estranea per lo meno
ai poeti più antichi. Il concetto del tragico non è in-
fatti se non dedotto a posteriori dal genere letterario
della tragedia giunto a compiuto svolgimento. Se si
.vuol riconoscere un significato alla domanda: - che
cosa costituisce, nella tragedia, il tragico per se stesso ? -
(ciò che senza dubbio si farà), le va data risposta di-
versa per ciascuno dei grandi poeti tragici 32); una defi-
nizione generale non potrebbe che generare oscurità.
Alla domanda si può dare soprattutto una risposta
storica. La rappresentazione sensibile del dolore me-
diante le estasi cantate e danzate del coro, onde si svi-
luppò, con l'aggiunta di varii corifei, la rappresentazione
di un destino umano in sé conchiuso, divenne, per un'età
che da tempo vi era intimamente matura, il nodo cen-
trale della sua religiosa investigazione del mistero del
dolore, inviato dalla divinità nella vita uiµana 33). L'es-
sere testimoni dello scatenarsi del destino, che già
Solone aveva paragonato alla tempesta, sfidava ap-
punto a resistergli la più alta energia dell'animo umano,

32 ) Un brillante tentativo di rispondere alla domanda « Che


cosa è il tragico nella tragedia greca?», fu fatto da P. FBIEDLANDER
in « Die Antike» I e II. Ma rimane la questione se le categorie
sotto le quali l'autore cerca di descrivere il fenomeno sarebbero
riuscite soddisfacenti per la mente greca come lo sono per il lettore
moderno. M. PoHLENZ cercò di risolvere lo stesso problema nel
suo volume Die griechische Tragodie (Lipsia - Berlino 1930).
33 ) La discussione di q11esto problema in Esiodo, Archiloco
Semonide, Solone, Teognide, Simonide e Pindaro si trova dove
si tratta rispettivamente di ciascun autore. Questi poeti sono il
giusto punto di partenza per ogni analisi del problema della tragedia
greca.
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 441

suscitando quale ultima riserva contro il timore e la


compassione, effetti psicologici immediati di quell'espe-
rienza M), la fede nella razionalità della vita. ·L'effetto
specificamente religioso dell'esperienza del destino umano,
quale è accolto dalla tragedia d'Eschilo nella rappresen-
tazione dell'evento stesso e suscitato nello spettatore,
è ciò che, secondo l'arte sua, possiamo qualificare la
tragicità 35). È necessario lasciar del tutto da parte ogni

34) La famosa definizione di Aristotele della tragedia e del


suo effetto sugli uditori, dà a tale effetto i nomi di ìtÀe:oc;e ip6~oc;
che sono i più importanti 7'et.&-fiµetTCC suscitati dalla tragedia e
soggetti alla xoc.&O!:pcr~c; tragica. Se nel testo mi avviene di usarli
nello stesso senso, ciò non è perché io sia un aristotelico ortodosso,
ma semplicemente perché da uno studio lungo e minuto del dramma
eschileo ho dovuto trarre la conclusione che queste categorie
si adattano veramente ai fatti meglio di qualsiasi altra. Aristotele
deve averle adottate in base ad !lll contatto di pura esperienza
con le tragedie stesse e non per considerazioni astratte. Ogni
tentativo moderno di accostarsi al dramma greco senza precon-
cetti deve giungere alle stesse conclusioni, o a conclusioni simili,
e dovrebbe essere concepito come, p. es. ha inteso BRUNO SNELL
nella monografia Aischylos und das Handeln im Drama (« Pbilo-
logus» Supplementband XX 1928), studiando il fattore della paura
tragica per la struttura della tragedia greca.
35) Nell'occuparsi concretamente di singole opere della tragedia
greca, è impossibile naturalmente separare il loro aspetto pura-
mente artistico della loro funzione religiosa e umana (qualcuno
direbbe «insegnamento morale» il che sarebbe un'indebita limi-
tazione di questo aspetto}. Euripide ed Eschilo, nelle commedie
di Aristofane parlano tanto della loro TÉXV"IJ quanto della loro
croip(cc. H. O. F. KITTO nel suo libro Greek Tragedy (Londra 1939)
dà un contributo notevole al primo aspetto. Anche ERNST HowALD
in Die griechische Tragiidie (Monaco-Berlino 1930) pone l'ac-
cento sull'effetto poetico della tragedia greca. Ma io preferirei
vedere incluso nel concetto di «arte» il senso di quello che il Kitto
chiama «dottrina storica» in quanto esso ci aiuta a capire quel
carattere dell'arte greca (cro<pl<>:) per cui essa include in sé ogni
esperienza spirituale e che fece dei suoi grandi artisti i 7'Àctcr't"OC~
dell'Ellade, non solo per caso, ma, come mi sembra, esEenzial-
mente. In un libro come questo è inevitabile che, nel breve sguardo
alla tragedia, i particolari di un'analisi artistica siano soverchiati
dalkt considerazione \lella funzione creativa di questa grande arte
nel plasmare la civiltà greca. Nello stesso modo non si potrà
scendere a particolari trattando della struttura dialettica della
filosofia di Platone, ma solo ci si occuperà del diritto che questa
rivendicò di essere il vero compimento della missione educativa
442 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

mode.r:110 concetto dell'essenza della drammaticità _o della


tragicità e concentrare tutta la nostra attenzione su
questo punto, se vogliamo avvicinarci alla tragedia
eschilèa.
La realizzazione del · mito nella tragedia è non
solo sensihile, ma radicale. Essa non si estende soltanto
alla drammatizzazione esteriore, che del racconto fa
un'azione cui assistiamo, ma tocca anche l'elemento
spirituale, l'interpretazione dei personaggi. In generale,
le storie tradizionali sono concepite interamente in base
alle premesse interiori del presente. Se i successori
d'Eschilo, e soprattutto Euripide, si spinsero in ciò
sempre più innanzi, sino a che la tragedia mitica finì
per imborghesirsi, i primi germi di tale evoluzione si
trovavano già nei suoi inizi, giacché anche Eschilo at·
teggia secondo l'immagine che recava in sé le figure
della leggenda, la quale spesso non gli offriva che i meri
nomi e i vuoti contorni di un'azione. Così il re Pelasgo,
nelle Supplici, è un uomo di Stato moderno, la cui
condotta è determinata dalla deliberazione dell'assem-
blea popolare e che ad essa -si appella, quando gli si
chiede un pronto intervento 36). Lo Zeus ,del Prometeo
incatenato è il prototipo del moderno tiranno, quale lo
vede l'età d'Armodio e Aristogitone. Anche l'Agamen-
none d'Eschilo appare assai poco omerico; come un
vero figlio dell'età della religione e dell'etica delfica, è
preoccupato da un continuo timore di qualche eccesso
di hybris, in cui potesse incorrere, vincitore, al colmo
della potenza e della felicità. Egli è tutto compreso
della credenza solonica, che la sovrabbondanza generi
hybris e questa conduca a perdizione 37). E solonica ·è
della poesia classica greca. Questa ·missione fu riconosciuta dai
primi critici letterari greci, che furono anche poeti. V. ALFONSO
REYES, La critica en la edad Ateniense (México 1940) 111 es.
36) Aesch. Suppi. 368 s8., 517, 600 88.
87 ) Aesch. Ag. 921 ss., la scena del tappeto.
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 443

più che mai la concezione ch'egli tuttavia all'Ate non


isfugga. Prometeo è con::epito come il primo consigliere,
spodestato, del giovane tiranno geloso e diffidente, che
gli deve si il rinsaldamento della propria signoria, nuova
·ancora e ottenuta con la violenza, ma non vuol più
oltre dividere con lui la propria potenza, quando Pro'-
meteo cerca di suo arbitrio di giovarsene a realizzare
disegni segreti per salvare gli uomini sofferenti 38). Nel
suo Prometeo, Eschilo fonde con l'uomo politico il so-
fista, come dimostra il fatto che l'eroe è più volte apo-
strofato con questo appellativo, in quell'epoca ancora
onorifico 39). Anche Palamede era chiamato sofista, nel
dramma che è andato perduto. Entrambi enumerano
con vivo orgoglio le arti che inventarono per giovare
all'uomo 40). A Prometeo è attribuita la nuovissima cono-
scenza geografica di lontane terre ignote, che al tempo
d'Eschilo era ancora cosa rara e misteriosa, accolta
avidamente dalla fantasia degli ascoltatori. Peraltro le
lunghe enumerazioni di paesi, fiumi e popoli nel Prome-
teo incatenato e nel liberato non servono solo d'orna-
mento poetico, ma caratterizzano ad un tempo l'on-
niscienza di chi le enuncia 41).
Siamo venuti cosi alla forma dei discorsi, per la
quale può dimostrarsi lo stesso che per i personaggi del
dramma. Dai discorsi geografici del sofista Prometeo è
già apparso che il loro atteggiarsi è tutto subordinato
alla raffigurazione del personaggio che li tiene. Analogo

88) Prom. 197-241.


89) Prom. 62, 944, 1039. Eschilo qui usa le parole aotp1aTfii;
e aoip6i;; a6tp1aµ.ix è usato in 459, 470, 1011.
'°) NAUCK, Fragm. Trag. 2 : Eschilo sotto Palamedes; cfr. fr.
adesp. 470.
41) Il racconto di Prometeo della lunga peregrinazione di lo
790 ss. parla di paesi lontani, montagne, fiumi e popoli; così Prom.
lib. fr. 192-199 (Nauck). Il poeta prende le sue informazioni da
una fonte dotta. forse la Ile:plolloc; y'ijc; di Ecateo di Mileto.
444 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

è il caso, quando, nel Prometeo, il vecchio Oceano ri-


cava in buona parte dalle formule d'antiche massime i
saggi consigli che impartisce all'amico sofferente per in-
durlo all'arrendevolezza di fronte al prepotere di Zeus 42).
Nei Sette contro Tebe si ode un capitano contempora-
neo impartire i suoi ordini. Il processo del matricida
Oreste dinanzi all'areopago, nelle Eumenidi, ha potuto
essere sfruttato quale fonte storica primaria de] diritto
del sangue nell'Attica, perché è tutto condotto secondo
le idee di questo 43), e per i canti di benedizione della
processione finale il modello fu dato dalla liturgia del
culto ufficiale e dal linguaggio delle sue preghiere 44).
A siffatta modernizzazione del mito su larghissima scala
non erano ricorsi né l'epos tardivo né la lirica, per quanto
i poeti avessero assai spesso alterata la tradizione leg~
gendaria, secondo richiedeva il loro intento. Inutili al-
terazfoni del fatto vero e proprio, quale era narrato
dal mito, non furono compiute da Eschilo, ma atteg-
giando egli plasticamente ciò che là era ·mero nome,
il mito doveva adattarsi all'idea, dalla quale sola la
figura traeva la sua intima struttura.
Quanto vale per i personaggi e i di~corsi, vale in
genere per la costruzione della tragedia intera. La con·
figurazione corrisponde in entrambi i casi alla conce-
zione dell'essere propria del poeta e ch'egli ritrova nel

42 ) Nel discorso di Oceano, Prom. 307 ss., Eschilo deriva dalla


tradizione dell'antica poesia gnomica.
43) Questo fu dimostrato per la prima volta nell'edizione monu-
mentale delle Eumenidi di Eschilo curata da K. O. MuLLER (1833)
in cui il dramma fu proiettato sullo sfondo del diritto penale e
delle tradizioni religiose aborigeni su cui questo poggiava. Cfr.
anche la grande edizione dell'Orestea curata dal THOMSON (Cam-
bridge 1938).
44 ) I cori di Eum. 916 e Suppl. 625 che sono ambedue so-
lenni preghiere per la prosperità della città (rispettivamente Atene
e Argo) ci rivelano in assell2a di tradizione diretta circa la forma
e natura di questa sorte di discorsi religiosi, le forme rituali usate
nelle puhbliche preghiere.
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 445

suo argomento. Ciò può forse sembrare una banalità,


eppure non è. Prima della tragedia non v• era stata al-
cuna poesia che presentasse il· mito senz'altro quale
espressione di un'idea e scegliesse i miti a seconda della
misura in· cui convenivano a tale scopo. Invero non era
affatto il caso che si potesse drammatizzare qualsiasi
elemento di leggenda eroica, ottenendone una tragedia.
Aristotele 45) riferisce che, col progressivo perfezionarsi
della forma tragica, soltanto pochissimi temi del grande
patrimonio della leggenda attraevano ormai i poeti,
ma questi pochi furono trattati da quasi tutti gli autori.
I miti di f:dipo e della famiglia reale tebana o della
sorte degli Atridi - Aristotele ne enumera anche alcuni
altri - recavano già in sé, per la natura loro, il germe
della futura configurazione; erano tragedie in potenza.
L'epos aveva narrata la leggenda per se stessa, ed anche
là dove, negli strati più recenti dell'Iliade, si affaccia
un'idea direttiva, rispetto alla quale si dispone il tutto,
il suo dominio, tuttavia, non riesce più ad imporsi uni-
formemente alle diverse parti dell'epos. Nella lirica, in
quanto sceglie temi mitici, si tratta di dar risalto agli
elementi lirici del soggetto. Solo il dramma fa dell'idea
del destino umano e del suo corso, con la sua ascesa
e il suo declino necessari, con peripezia e catastrofe,
il proprio principio informatore, cui deve la propria
salda struttura.

Il Welcker poté per primo mostrare come Eschilo


per lo più non creasse tragedie staccate, ma le compo-
nesse in forma .di trilogie 46). La rappresentazione di tre
lavori di ciascun poeta rimase consueta anche in sé-

") Poei. 13, 1453 a 18.


") V. il suo libro citato sopra a nota 3. V. anche .il più re-
cente tentativo di ricostruire le trilogie di Eschilo di FRANz STOSSL,
Die Trilogie des Aischylos (Baden-Vienna 1937).
446 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

guito, quando tale forma fu abbandonata. Non sappiamo


se il raggruppamento a tre a tre provenga dal fatto
che si prendessero le mosse dalla trilogia quale forma
normale, o se Eschilo, facendo di necessità virtù, con-
sacrasse a un soggetto unico complessivo tutti e tre i
drammi ~he lo Stato richiedeva. Ma ad ogni modo è
chiaro per quale motivo interiore egli giungesse alla
sua grande composizione trilogica. La fede solonica,
condivisa dal poeta, scorgeva uno dei problemi più ar-
dui nel trasmettersi di padre in figlio, e bene spesso dai
colpevoli agl'innocenti, della maledizione caduta su una
schiatta. Questa sorte, che domina varie generazioni,
cercò il poeta di costringere entro l'unità d'una trilogia
nell' Orestiade e nei drammi dei re argivi e tebani. Essa
era applicabile anche là dove il destino di un singolo
eroe si compiva in più fasi, come nel Prometeo incate-
nato, nel liberato e nel portatore della fiaccola 47).
La trilogia si presta particolarmente quale punto
di partenza per intendere l'arte di Eschilo, giacché mo-
stra all'evidenza come non si tratti del personaggio,
ma d'un destino, soggetto del quale non è affatto ne-
cessario sia una persona unica, ma può e,.ssere egual-
mente una intera schiatta. Nel dramma ·eschileo l'uomo
non è ancora problema egli stesso: egli è oggetto del
destino; problema è il destino. Sin dal primo verso, in
Eschilo, l'atmosfera è carica d'elettricità, è sotto la
pressione del demone, che grava su tutta la casa. Eschilo
è, fra tutti i drammaturghi del mondo, il maestro sommo
dell'esposizione tragica. Nelle Supplici, nei Persiani,
nei Sette contro Tebe, nell'Agamennone, l'ascoltatore è
subito affascinato dal destino incombente, che irrompe
...
Nel ricostruire l'ordine delle tre tragedie di cui conosciamo
47 )
i titoli nella trilogia perduta di Eschilo, io seguo WESTPH.AL,
Prt>legomena zu Aeschylus Tragodien (Lipsia 1869), in cui è di-
mostrato che il Ilup<p6poc; era l'ultima. non la prima.
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 447

poi con violenza irresistibile. Non sono gli uo1D1m 1


veri attori, ma le potenze sovrumane. Talvolta, come
nell'ultima parte dell'Orestiade, esse tolgono addirit-
tura l'azione di mano agli uomini, conducendola a ter-
mine tra sé. Ma sempre sono per lo meno invisibilmente
presenti, e se ne sente distin~amente la presenza. Non
si può far a meno di pensare alle sculture del frontone
d'Olimpia, d'inspirazione così evidentemente tragica. An-
che là la divinità si erge, nella sua potenza sovrana,
nel mezzo della lotta degli uomini, dirigendo ogni cosa
secondo il proprio volere.
Appunto nel far intervenire continuamente la divi-
nità e il destino si mostra la mano del poeta. Ciò non
preesisteva nel mito. Qualunque cosa accada, è per lui
subordinata al problema dominante della teodicea, quale
era stato svolto da Solone nelle sue poesie, riallaccian-
dosi all'epos più recente. La sua mente si sforza senza
posa d'indagare i reconditi motivi dei decreti divini.
Uno dei problemi capitali era per Solone il nesso ori-
ginario tra la sventura e la colpa propria dell'uomo.
Nella sua grande elegia, che si occupa di tale questione,
sono espresse per la prima volta le idee che inspirano
la tragedia d'Eschilo 48). L'epos, nel suo concetto del-
l'acciecamento, dell' Ate, aveva ancora concepito unita-
riamente la causalità divina ed umana: gli errori del-
l'uomo, che lo conducono alla rovina, sono effetto di
una potenza demonica, cui nessuno può resistere. Essa
spinge Elena a lasciare lo sposo e la casa per fuggire
con Paride. Essa fa irrigidire il cuore e la mente di
Achille di contro alle dichiarazioni della deputazione
dell'esercito che restaurano il suo onore offeso e alle
esortazioni del suo canuto maestro 49). L'evoluzione del-

48 ) Sol. fr. 1 (Diehl); v. p. 268 H.


&u) V. p. 66 ss.
448 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

l'autocoscienza umana si compie nel senso d'una pro-


gressiva indipendenza dell'umana conoscenza e volontà
rispetto agl'infiussi superiori. Cresce così la parte che
l'uomo ha da attribuire a se stesso nella determinazione
della propria sorte.
Già nello strato più recente dell'epos omerico, nel
primo canto dell'Odissea, il poeta tenta di delimitare
quale parte spetti alla divinità e quale all'uomo nella
sua infelicità ed assolve il reggimento del mondo dalla
colpa di tutto il male in cui l'uomo incorre senza vo-
lerlo 50 ). Solone ha approfondito questo pensiero con la
sua grandiosa fede nella giustizia. Per lui il diritto è
un principio divino immanente nel mondo, la cui offesa
deve scontarsi necessariamente e indipendentemente da
ogni giustizia umana. Sorta che sia questa nozione
nella coscienza dell'uomo, essa gli addossa gran parte
della responsabilità della sua infelicità. D'altrettanto
cresce l'altezza morale della divinità, che diviene cu-
stode della giustizia universale. Ma chi può intendere
veramente le vie di Dio ? L'uomo crede, sì, di poterne
cogliere i moventi in questo o quel caso; ma quante
volte non accorda la divinità una buona ri11scita appunto
allo stolto e al malvagio, lasciando fallire i serii sforzi
del giusto, anche con le idee e intenzioni umanamente
migliori ? Questa «sventura imprevidibile » 61), non c'è
negazione che valga a cancellarla dal mondo; è il resi-
duo indelebile di quell'antica Ate, della quale parla
Omero, che conserva sempre la sua realtà oltre alle
colpe in cui siamo incorsi noi stessi. Essa presenta,
secondo l'umana esperienza, un legame particolarmt:nte
stretto con ciò che i mortali chiamano felicità, che fa-
cilmente trapassa nel più profondo dolore, perché induce

50 ) V. p. 115.
OC7tfl 6o7t-rov x.a:x. 6v ed espressioni simili furono usate spesso
61 )
per definire che cosa intende la lingua greca per Ate.
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 449

addirittura gli uomini alla hybris. Nell'insaziabilità del-


l'appetito, che brama sempre il doppio di che ha, per
molto che sia, sta in agguato il pericolo demonico.
Cosi la felicità, cosi ogni possesso non può restare a
lungo presso chi lo detiene, e la perpetua sua instabi-
lità è insita nella sua natura stessa. Il convincimento
di Solone, che esista un ordinamento divino del mondo 52),
aveva trovato appunto in questa nozione, pur tanto
dolorosa per l'uomo, il suo appoggio più saldo. Anche
Eschilo è inconcepibile senza tale convincimento, che
può dirsi piuttosto una nozione, che non una credenza.

Come la tragedia eschilea sorga direttamente da que-


sta radice, lo dimostra con la maggiore semplicità un
dramma come i Persiani. Esso offre la singolarità di
non appartenere ad una trilogia; ciò che presenta per
noi il vantaggio che vi vediamo la tragedia svolgersi,
in un spazio ristrettissimo, in un'unità in sé conchiusa.
Inoltre i Persiani sono cosa unica in quanto vi manca
la materia mitica. Il poeta ha atteggiato a tragedia un
evento storico del quale è stato testimone egli stesso.
Ciò ne offre occasione di ·vedere che cosa sia per lui
essenziale, in un soggetto, ai fini della tragedia. I Per-
siani sono tutt'altro che «storia drammatizzata». Non
sono un lavoro drammatico patriottico nel senso cor-
rente, scritto nell'ebbrezza della vittoria. Guidato da
profondissima sophrosyne e consapevolezza dell'umana
limitatezza, Eschilo fa anche una volta testimone il
popolo dei vincitori, che l'ascolta con raccoglimento,
dell'impressionante spettacolo storico della hybris per-
siana e della tisis divina, che piomba schiacciante sulla
strapotenza dei nemici, già certi della vittoria. La storia
diventa qui essa medesima mito tragico, perché ha una

62) V. p. 265 11. e 271 s1,


450 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

sua grandezza e perché la catastrofe umana rivela in


guisa così evidente la mano divina.
Ci si è ingenuamente stupiti che i drammaturghi
non abbiano trattato più spesso « temi storici ». La
ragione è semplice: perché la storia comune non so disfa
le condizioni volute da una tragedia greca. I Persiani
mostrano quanto passi in seconda linea, per il poeta,
la realtà drammatica esteriore degli avvenimenti, come
tale. L'effetto della sorte sull'anima di chi ne è colpito,
è per lui tutto. Sotto questo rispetto, Eschilo non ha
di fronte alla storia altro atteggiamento che di fronte
al mito. Ma nemmeno l'esperienza del dolore è fine a se
stessa. In questo, appunto, i Persiani, per quanto nella
forma più semplice che il poeta conosca, sono il proto-
tipo della tragedia eschilèa. Il dolore contiene in sé la
forza della conoscenza 63): antichissima sapienza popo-
lare. Ignota ancora all'epos quale motivo poetico domi-
nante, essa ha acquistato per Eschilo un'importanza
più profonda e quindi centrale. Esistono gradi -intermedi,
come il « conosci te stesso» del dio delfico, che richiede
la nozione della limitatezza dei mortali, quale fu inse-
gnata senza posa da Pindaro, animato dallJl sua pietà
apollinea. Anche per Eschilo quest'idea è essenziale e
si affaccia con particolare rilievo nei Persiani. Ma essa
non esaurisce il suo concetto del cppow:i:v, della cono-
scenza tragica mediante la forza del dolore. Nei Persiani
egli dà a quest'idea la sua propria incarnazione, ché
tale è il significato dell'evocazione dell'ombra del vec-
chio e saggio re Dario, la cui eredità è stata sprecata
e dissipata da Serse, suo erede, con vanitosa superbia.
I tumuli sui campi di battaglia della Grecia - profetizza
l'ombra veneranda di Dario - saranno alle generazioni
future muto ammonimento che la superbia mai non
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 451

giova ai mortali 54). « Ché là dove fiorisce la hybris,


reca per spica l'acciecamento, e se ne raccoglie una
mèsse di lacrime. E quando vedete tal premio di tale
azione, rammentatevi d'Atene e dell'Ellade, e non ac-
cada che alcuno, disprezzando il dono del demone, che
è in suo possesso, si lasci sedurre da altro, e rovesci a
terra la propria grande ventura. Zeus minaccia, vendi-
catore della superbia esagerata, e chiede una rigorosa
resa dei conti».
Si continua qui il pensiero di Solone, che appunto
chi più ha, cerca di afferrare il doppio. Ma quello che
in Solone non è che considerazione intellettuale dell'im-
possibilità di realizzare il conato umano, per se stesso
infinito, diventa in Eschilo il pathos dell'esperienza
relativa alla tentazione demoniaca e all'acciecamento
umano, che la segue senza resistenza sulla via del pre-
cipizio. La divinità è per lui sacra e giusta come per
Solone, e intangibile ne è l'ordinamento eterno. Ma
per la «tragicità» dell'uomo, che per la propria cecità
incorre nella condanna divina, egli trova accenti com-
moventi. Sin dall'inizio dei Persiani, nel coro, in uno
col ricordo fiero e nostalgico dello splendore e della
potenza dell'esercito persiano sceso in campo, si leva
l'immagine terribile dell'Ate. «Ma all'inganno malizioso
del dio.... quale mortale può sfuggire ?... Benevola dap-
prima gli parla, ma poi lo attira Ate nella rete dalla
quale non v'è più scampo». E «straziato dal timore» è
il suo «cuore abbrunato» 55 ). Della rete d'Ate, dalla
quale non si esce più, parla anche la chiusa del Pro-
meteo. Là è peraltro Ermete, il messaggero degli dèi,
che mette in guardia le Oceanidi ammonendo che sarà
colpa loro se, parteggiando con incrollabile simpatia

") Aeach. Pera. 818.


1&) Pl11's. 107-116.
452 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

per il reietto dagli dèi, che tra pochi istanti l'abisso


inghiottirà, correranno con lui alla rovina, consapevol-
mente e volontariamente 56). Nei Sette contro Tebe il
coro, nel suo lamento sui fratelli nemici, che sono in-
corsi nella maledizione del padre Édipo ed hanno tro-
vata entrambi la morte in singolar tenzone dinanzi
alle porte della città, ha una visione raccapricciante 57) :
« Ma alla fine le dee della maledizione intonarono lo
squillante inno trionfale, quando la stirpe intera fu col-
pita dall'annientamento. Il monumento trionfale del-
1'Ate sorge alto presso la porta dov' essi furono abbattuti
e dove il demone del destino, vintili entrambi, ebbe
posa».
L'idea eschilèa del destino è tutt'altro che un dare
un esempio; lo dice il linguaggio di quelle immagini
terrificanti che l'azione dell'Ate suggerisce alla sua fan-
tasia. Nessuno aveva ancora sentito ed espresso con si-
mile vigore plastico il carattere demonico dell'essere
suo. Qui anche la fede più incrollabile nella forza etica
della conoscenza dovrà rendersi conto che I'Ate rimane
pur sempre l' Ate, sia che il suo piede - come dice
Omero - proceda sul capo degli uomini, sia che - come
insegna Eraclito - demone dell'uomo 'sia il proprio
ethos 58). Per la tragicità d'Eschilo, ciò che noi chia-
miamo carattere non è affatto essenziale. Nel contrasto
tra la fede nella perfetta coerenza del giusto ordinamento
del mondo e la commozione suscitata dalla demonica
crudeltà e malizia dell'Ate, onde l'uomo è indotto a
violare tale ordinamento, per cader poi vittima neces-
saria alla sua restaurazione, qiri soltanto è racchiusa
tutta l'idea eschilèa del destino. Solone prendeva le

5 6 ) J>rom. 1071; dr. Solon.s Eunomie (« Sitz. Berl. Akad.»


1926) 75.
67) Sept. 953.
&s) T 93; Herael. fr. 119.
CAP. I: IL DRAMMA ESCIDLEO 453

mosse dall'ingiustizia quale pleonessìa sociale, indaga~


dove trovasse espiazione, e vedeva confermata costan-
temente la propria aspettazione. Eschilo muove dal-
1'esperienza, tragicamente commovente, della Tyche nella
vita umana; ma la sua intima certezza riconduce sempre
la sua ricerca della ragion sufficiente di essa alla fede
nella giustizia della divinità. Non dohhiamo trascurare
questo spostamento d'accenti, di fronte alla concor-
..:.anza d'Eschilo e Solone, se vogliamo intendere perché
la medesima fede si esprima nell'uno in mani.era così
pacat.. e contemplativa, nell'altro in maniera così dram-
maticamente violenta e trionfale.

Il· contrasto problematico della fede eschilèa ha mag-


gior rilievo nelle altre tragedie, che nei Persiani, dove
l'idea della sanzione divina, che colpisce la hybris umana,
si sviluppa in guisa assai semplice e continua. Assume
la maggiore evidenza nelle grandi trilogie, per quanto
possiamo rendercene conto. Non così nel dramma più
antico che possediamo, le Supplici, essendo questo il
primo elemento della trilogia, della quale gli altri due
sono perduti. A parte l'Orestiade, conservata per intero,
la cosa è possibile soprattutto nella trilogia dei Lahda-
cidi, giacché di essa possediamo per fortuna appunto
l'ultimo dramma, i Sette contro Tebe. .
Nell'Orestiade culminano non soltanto la fantasia
verbale creatrice e l'arte della composizione del poeta,
ma anche l'intensità del suo problema etico-religioso, e
si stenta a credere che questo lavoro drammatico, il
più possente e virile che la storia conosca, sia stato da lui
compiuto in tarda età, poco prima della morte. Eviden-
tissima è anzitutto l'inscindibilità del primo dramma
dai due seguenti. Rappresentarlo da solo è, a rigore,
una barbarie, per tacer delle Eumenidi, che non possono
sussistere affatto se non quale gigantesco finale. L'Aga•
454 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATI1CO

mennone è tanto poco opera autonoma, quanto le Sup-


plici: è essenzialmente un'introduzione al secondo
dramma. La· maledizione che pesa sulla schiatta degli
Atridi non è qui rappresentata per se stessa, ciò che
avrebbe dato luogo a una trilogia di drammi della ma-
ledizione coordinati, che avrebbero rappresentato cia-
scuno la sorte di un'altra generazione, come sarebbe con
un Oreste al terzo posto e un Agamennone nel mezzo.
Invece nel posto centrale, stabilite le necessarie pre-
messe dal primo dramma, è l'implicarsi d'Oreste nel-
l'involontaria colpa senza scampo, mediante l'adempi-
mento, voluto da Apollo stesso, del suo dovere di ven-
detta contro la propria madre: problema tragico di
un'antinomia incomparabile e ricercata; e tutto il dramma
finale è dedicato alla risoluzione di questo nodo, che
ingegno umano non vale a sciogliere, mercé il prodigio
di un atto di grazia divino 69), che insieme con l'assolu-

09) La parte della polis nel dramma di Eschilo è di suprema


importanza, come mostra la sua glorificazione alla fine dell'Ore-
stea. La polis appare qui come un elemento indispensabile del
divino ordine del mondo, come l'idea del cosmo, di cui come
si è visto prima (p. 300 s.), essa è stata il prototipo terreno. La
nuova libertà dell'individuo significa, per il tempo di Eschilo,
libertà del potere del clan e della giustizia del clan. Una città-Stato
fortemente centralizzata fondata su un rigoroso ordine sociale
e leggi scritte era· guarentigia di una tale libertà per le genera-
zioni i cui ideali viventi furono espressi nell'arte di Eschilo. È dif-
ficile capire il senso morale con cui la giovane democrazia attica
parla dello Stato nella tragedia di Eschilo, dal punto di vista
del liberalismo moderno, che in complesso vede la libertà del-
l'individuo minacciata proprio da quel potere dello Stato che
dapprima era stato il suo più forte protettore. Ma nell'Antigone
di Sofocle appare un aspetto differente ed è concretamente rap-
presentata la possibilità di grave conflitto fra lo Stato e l'indi-
viduo. Questa volta è lo ·Stato, che interferisce negli obblighi
sacri dell'individuo verso il clan e la famiglia; lo Stato stesso
appare come un potere tirannico. Il problema era stato già scorto
nell'ultima scena dei Seue a Tebe di Eschilo, se pure essa è auten-
tica. Anche nella scena dei Sette, dove l'autorità politica del re
si urta col fervore religioso delle donne che minacciano di scon-
volgere l'ordine dello Stato in un momento di estremo pericolo,
çi troviamo di fronte a un conflitto simile. Questo conflitto deve
CAP. I: IL DRAMMA ESCIDLEO 455

zione del colpevole sopprime l'istituto della vendetta


di sangue, avanzo tremendo del vecchio Stato a base
familiare, instaurando solo custode del diritto il nuovo
Stato fondato sulla legge.
La colpa d'Oreste non si basa affatto sul suo carat-
iere; egli non è per nulla considerato dal poeta sotto
questo rispetto. Egli è semplicemente il figlio sventu-
rato, cui incombe il dovere della vendetta di sangue
nel momento in cui diviene uomo; lo aspetta, come una
maledizione, la sciagurata azione che lo annienterà prima
ancora ch'egli abbia assaporata la vita, e cui il dio
di Delfo non cessa di incitarlo, quand'egli si lasci in
qualche modo distrarre da quella mèta ineluttabile. Così
egli non è che l'oggetto del destino che l'aspetta. Non
v'è più piena rivelazione del problemismo eschilèo, che
quest'opera. Essa rappresenta il conflitto delle forze
divine stesse che sono custodi della giustizia 80). I vi-
venti non sono che il punto dove si scontrano distrug-
gitrici, e anche l'assoluzione finale del matricida rimane
in fondo sommersa nella riconciliazione generale fra i
contrastanti dèi antichi e nuovi e nei canti di benedi-
zione che accompagnano con la loro musica solenne,
epilogo maestoso, la fondazione del nuovo ordinamento
giuridico dello Stato e la trasformazione delle Erinni
in Eumenidi.

L'idea solonica 61) che gl'innocenti debbano espiare


per i padri colpevoli, dà luogo, nei Sette contro Tebe, ad
una chiusa della trilogia drammatica dei re tebani, che in

aver avuto una parte nella .trilogia dionisiaca di Eschilo, la per·


duta [,ycurgia come nelle Baccanti di Euripide, che sono l'an-
titesi di .quella.
60) C'è un conflitto simile nella trilogia delle Danaidì, dì cui
abbiamo le Supplici, nella trilogia di Prometeo e forse anche
nella Lycurgia.
e1) Sol fr. 1, 29-32 (Diehl). Cfr. p. 272.
456 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

fosca tragicità, e non soltanto per il fratricidio finale,


è sotto più d'un rispetto superiore all'Orestiade. I fra-
telli Eteocle e Polinice cadono vittime della maledi-
zione che pesa sulla schiatta dei Labdacidi. Eschilo
l'ha motivata con la colpa del capostipite, e indubbia-
mente, senza tale sfondo, un fatto come quello rappre-
sentato nel dramma finale, a noi pervenuto, sarebbe
apparso del tutto impossibile al suo animo pio 62). Ma
l'azione che si svolge nei Sette è tutt'altro che il compi-
mento inesorabile della perfetta sanzione punitiva di-
vina, voluto dalla pia moralità. L'accento cade sul
fatto che l'inflessibile causalità dell'antica colpa trae
qui a rovina un uomo che Iniglior sorte avrebbe meritato
per la sua alta virtù di sovrano e d'eroe a cui va la no-
stra simpatia sin dal primo istante. Polinice rimane
un'ombra 63); in pieno risalto è invece ritratto Eteocle,
il difensore della sua città. L'areté personale e il destino
preterindividuale formano qui il contrasto· più teso; in
ciò il dramma costituisce il più spiccato contrapposto
dei Persiani, con la loro semplice, lapidaria logica di
delitto e castigo. Par quasi che alla colpa del terzo grado·
ascendente mal possa ancorarsi quell'im:i;nane peso di
dolori. L'intimo significato del quadro finale pacifica-
tore delle Eumenidi risulta approfondito, se sentiamo
appieno l'esito implacato dei Sette.

62) Sulla ipotetica ricostruzione delle due tragedie che pre-


cedevano i Sette a Tebe nella trilogia tebana, v. CABL ROBERT,
Oidipus; Geschichte eines poetischen Stojfs (Berlino 1915) 252 e
F. STèissL, op. cit. (nota 46).
63) L'occhio acuto di Euripide vide bene quale occasione gli
offrisse tutto ciò. Nelle sue Fenicie egli dà a Polinice un carat-
tere amabile, molto più attraente del tetro e tirannico Eteocle
che è descritto da lui come ambizioso e demoniaco, bruciante
di brama di potere, sì da non indietreggiare neppure davanti ad
atti criminosi per raggiungere il suo supremo desiderio. Cfr. Enr.
Phoen. 521-525. L'Eteocle di Eschilo è il vero patriota e altrui-
sta difensore della sua patria.
CAP. I: IL DRAMMA ESClilLEO 457

Appunto nell'antinomia di questo dramma sta il


suo ardimento. Rispettando assolutamente le premesse
della giustizia superiore, il cui impero, secondo l'inten-
zione del poeta, non dobbiamo giudicare dalla sorte
dell'individuo, ma imparare ad intllire soltanto abbrac-
ciando con lo sguardo il tutto, Eschilo pone qui l'udi-
tore anzitutto sotto l'impressione, umanamente tremenda,
del demone alla cui azione non si sfugge, che svolge
l'opera sua sino alla sua fine severa e cui un eroe quale
Eteocle affronta composto in un atteggiamento gran-
dioso. La grande novità è la consapevolezza tragica con
la quale Eschilo manda incontro a certa morte l'ultimo
rampollo della stirpe. Ne sorge una figura che solo nel-
l'esito tragico rivela la sua suprema areté 64). Eteocle ca-
drà, ma, incontrando la morte, salverà la città natale
dall'espugnazione e dalla servitù. La dolorosa novella
della sua morte non deve impedirci d'udire il tripudio
della salvezza 65). Così, dal diuturno travaglio d'Eschilo
intorno al problema del destino, sorge qui la nozione
liberatrice d'una grandezza tragica, cui l'uomo soffe-
rente si eleva ancor nell'istante del proprio annienta-
mento. Nel sacrificare alla salvezza collettiva la propria
vita segnata dal destino, egli ci concilia con ciò che,
. nella disfatta della vera areté, appare irrazionale anch"'
all'animo più pio.
Nei Sette contro Tebe, ciò che fa epoca rispetto al
tipo anteriore di tragedia, come i Persiani o le Sup-
plici, è che qui per la prima volta, nei drammi a noi

64) Dell'Antigone di Sofocle è un coro famoso (582 sgg.) che


appare in parte come un riflesso della tragedia eschilea di Eteocle.
Qui l'eroica giovinetta e non suo fratello che l'ha preceduta nella
morte, appare come l'lùtima vittima della maledizione della casa
dei Labdacidi. Versi come Ànt. 593 ss. danno un suono vera-
mente eschileo.
66) V. le parole trionfanti al principio del discorso del mes·
saggero, Sept. 792 ss., in cui Eschilo esalta i meritj il!rlno11;!li
di Eteocle per Tebe.
458 IJBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

pervenuti, centro dell'azione è un eroe 66). Nei drammi


anteriori, protagonista e soggetto deJl'azione era il coro.
Il coro dei Sette non presenta un'impronta individuale
come le Danaidi nelle Supplici; rappresenta soltanto
l'elemento tradizionale del lamento e dell'orror tragico,
che costituiscono l'atmosfera della tragedia. Sono sem-
plicemente donne e fanciulli in preda al panico, nel
mezzo della città assediata. Sullo sfondo della titubanza
femminile spicca l'eroe con l'energia grave e meditata
della sua azione virile. Se la tragedia greca è, di sua
natura, piuttosto passione che azione 67), Eteocle soffre
agendo sin.o all'ultimo respiro.

Anche nel Prometeo predomina un personaggio sin-


golo, non in un dramma solo, ma per tutta la trilogia.
Il nostro giudizio deve necessariamente limitarsi all'unico
dramma pervenutoci. 11 Prometeo è la tragedia del genio.
Eteocle cade da eroe, ma né la sua qualità di sovrano,
né quella di guerriero è fonte della sua ·tragicità, e
tanto meno deriva essa dal suo carattere. Essa vient-
dall'esterno. La sofferenza e il fallo di Prometeo hanno
origine in lui medesimo, nella sua natura e nella sua
condotta. « Liberamente, sì, liberamente io fallai, non
lo nego. Per soccorrere altrui, io stesso mi procurai
tormento » 68). Il Prometeo spetta dunque a tutt'altra
sfera che la maggior parte dei drammi pervenutici.
Pure, la sua tragicità non è personale in senso indivi-
dualistico: è senz'altro quella della creatività spiri-

86 ) Il Prometeo è l'altro dramma che si deve riallacciare a questo,


ma l'ordine cronologico delle due tragedie non è del tutto chiaro.
Ci sono r~gioni, tuttavia, per sostenere la priorità del Prometeo.
87) Per la figura di Eteocle come re, vedi lo studio fatto per
mio suggerimento da VIRGINIA Woons, Types of Rulers in the
Tragedies of Aeschylus (Tesi dell'Università di Chicago 1941) cap. IV.
98) Prom. 266.
CAP. I: IL DRAMMA ESOilLEO 459

tuale 69). Questo Prometeo è libera creatura dell'anima


di poeta d'Eschilo. Per Esiodo era stato semplicemente
l'empio, punito da Zeus per il delitto d'aver rapito il
fuoco 70). In quest'azione Eschilo, col vigor d'una fan·
tasia che i secoli posteriori non potranno mai àmmirare
con gratitudine e venerazione bastante, scopre il germe
di quell'immortale simbolo umano ch'è la figura del
suo Prometeo: apportatore di luce all'umanità soffe-
rente. Il fuoco, forza divina, si fa per lui simbolo della
civiltà 71). Prometeo è lo spirito creatore di civiltà, che
penetra, intendendolo, il mondo, e con l'organizzarne
le forze lo fa servire ai propri fini. al proprio volere;
che ne dischiude i tesori e asside su salde basi l'incerta
vita degli uomini, che andavan tentoni. Il messaggero
degli dèi e il suo sbirro che lo mette in ceppi, il demone
della forza bruta, apostrofano sarcastici Prometeo quale
sofista, maestro dell'invenzione 72 ). La teoria del sorgere
della civiltà, propria dei pensatori ed illuininisti ionici 73 )
con la loro trionfante coscienza del progresso, vero op-
posto della rassegnata dottrina del campagnolo Esiodo,
delle cinque età del mondo in progressiva decadenza 74),
ha fornito ad Eschilo le tinte per colorire l'ethos del
suo eroe dello spirito. Egli è sorretto dal volo della
sua fantasia creatrice e della sua forza inventiva ed

69) Prometeo è l'ideale che rappresenta la techne creativa in tutto


il dramma di Eschilo: v. Prom. 254, 44lss. particolarmente 506.
70) Hes. Theog. 521, 616. Nella narrazione, come ora si legge,
la punizione è alleviata da Eracle, che libera Prometeo dlill.'aquila:
ma questo episodio della Teogonia è evidentemente una più tarda
interpolazione rapsodica suggerita dlilla differente concezione di
Eracle fornita dalla tradizione epica. In Theog. 616 la punizione
non è limitata nel tempo, ma dura sempre (cf. il presente Épuxe;~).
71 } Cfr. n. 69.
72) Cfr. n. 39.
73) Horn, Hymn. XX, 4 (a Efesto) se esso non è già un riflesso
del Prometeo di Eschilo. V. anche Xenoph. fr. 18 (Diels).
7<1) Hes. Opp. 90 ss.
460 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

inspirato da un amore soccorrevole per l'umanità sof-


ferente 75).
Il dolore è diventato, nel Prometeo, il carattere spe-
cifico del genere umano. Nell'oscura esistenza troglodi-
tica di queste effimere creature, Prometeo ha portato il
raggio della cultura. Se occorresse ancora una prova che
questo dio, incatenato alla rupe come per ischerno delle
sue azioni, incarna per Eschilo il destino proprio del-
l'umanità, è il dolore ch'egli divide con questa e che
in lui s'immilla. Chi oserebbe dire sin dove si spinga
qui volutamente il simbolismo del poeta? La limitatezza
individuale, propria di tutti i personaggi mitici della
tragedia greca e che li fa apparire quali uomini che
realmente vissero un giorno in qualche luogo, non si
sente in pari grado in Prometeo. Tutti i secoli sentirono
in lui il rappresentante dell'umanità, si sentirono inca-
tenati alla rupe in suo luogo, spesso unendosi al suo
grido d'odio impotente 76). Anche se Eschilo lo ideò
soprattutto quale figura drammatica vitale; pure nella
sua concezione fondamentale, nella trasfigurazione del
furto del fuoco, era insito sin da principio un elemento
filosofico di concezione così profonda e gi;andiosa, ab-
bracciante l'umanità intera, che lo spirito umano non
l'esaurirà mai nei secoli dei secoli. Alla grecità erari-
serbato il destino di presentare questo simbolo dell'eroi-
smo d'ogni creazione umana, lottante nel dolore, quale
espressione suprema della tragicità del proprio essere.
Solo l'Ecce homo, che, con la sua sofferenza legata alla
colpa del mondo, è sorto da tutt'altro spirito, poté
creare un suo simbolo nuovo dell'umanità, di valore
eterno, senza nulla togliere alla verità dell'altro. Non
per nulla il Prometeo fu sempre l'opera prediletta da

16) Per la «filantropia» di Prometeo v. 28, 235 ss., 442 ss.~


?42, 507.
16) Così anche Goethe e Shelley,
CAP. I: IL DRAMMA ESCHILEO 461

poeti e filosofi d'ogni nazione fra le tragedie greche, e


tale resterà sempre, sintantoché una scintilla di fuoco
prometeico brillerà nello spirito umano.
La grandezza imperitura di questa creazione eschi-
lèa non va certamente cercata in qualche mistero teo-
gonico, alla cui rivelazione nella seconda parte (perduta)
della trilogia sembrano accennare le aperte e celate
minacce di Prometeo 77), bensì nell'eroico ardimento spi-
rituale della figura stessa di Prometeo, il cui momento
tragico più fecondo è dato senza dubbio. dal Prometeo
incatenato. Che il Prometeo liberato dovesse venir a inte-
grare quest'immagine, è cosa altrettanto certa quanio
la nostra incapacità di stabilire alcunché di certo in
proposito. Non sappiamo se e come lo Zeus del mito,
che il dramma pervenutoci rappresenta quale despota
violento, vi si trasformasse nello Zeus della fede eschilèa,
nel quale le preghiere dell' Agamennone e delle Supplici
esaltano la saggezza e giustizia eterna. Vorremmo sapere
come il poeta stesso vedesse la figura del suo Prometeo,
il cui fallo, per lui, non consisteva certamente nel furto
del fuoco quale delitto contro la proprietà degli dèi,
ma, secondo il valore spirituale e simbolico che quell'atto
ha per Eschilo, in una più profonda, tragica manchevo-
lezza del beneficio che Prometeo aveva recato all'urna·
nità col suo dono meraviglioso 78).
In ogni età, l'illuminismo sogna la vittoria della
conoscenza e delle arti sulle potenze ostili all'uomo,
di fuori e di dentro. Eschilo, nel Prometeo, non discute
questa fede; udiamo soltanto l'eroe stesso esaltare il
beneficio dell'ascesa dalla tenebra alla luce del pro-
gresso e della civiltà, di cui l'umanità è stata fatta par-
tecipe con l'aiuto suo, ed assistiamo alla timida am-

"1'1) Prom. 515-525.


' 8 ) Prom. 514, TtXV"'I 8'iiva:yx:11ç iia.&a:ve:aTépct µctY.péj>.
462 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

mirazione del coro delle Oceanidi per la sua divin:t


forza creatrice, sebbene non all'approvazione della sua
azione 79 ). Per far vantare da Prometeo le sue invenzioni
in pro dell'umanità così da trascinare anche noi con
la sua fede, bisogna che il poeta si fosse docilmente
abbandonato al volo di tali sp~ranze e alla grandezza
del genio prometeico. Ma la sorte del formatore d'uomini,
del creatore della civiltà, egli non la scorge nello splen-
dore radioso del successo finale. L'autonomia e l'indi-
pendenza dello spirito creatore non conoscono limiti,
come dice dal canto suo il coro. Prometeo si è sepa-
rato dai Titani suoi fratelli, ha compreso come la loro
fosse una causa disperata, perché volevano riconoscere
la sola forza bruta, senza intendere che l'acume solo
della mente regge il mondo 80) (così intende Prometeo la
superiorità del nuovo ordinamento olimpico dell'uni-
verso sui Titani precipitati nel Tartaro). Ma nel suo
amore immenso, che vorrebbe strappare a 'forza l'uma-
nità sofferente dalle vie prescrittele dal signore del
mondo, e nella superba veemenza del suo impeto crea-
tivo, rimane egli stesso un Titano; il suo spirito, anzi,
per quanto ad un livello superiore, è più , titanico del-
l'indole dei suoi rozzi fratelli, i quali, in un frammento
del principio del Prometeo liberato, sciolti dai ceppi
da Zeus e placati, si. accostano al luogo della sua pena,
dov'egli soffre tormenti più tremendi di quanti essi mai
abbiano conosciuti 81 ). Anche qui, è impossibile così di-
sconoscere il simbolo, come intenderlo appieno, man-
candoci il séguito. L'unica indicazione ci è data dalla
pia rassegnazione del coro 82) nel Prometeo incatenato « lo
rabbrividisco, al vederti dilaniato da mille dolori. Ché,

78 ) Prom. 516. ma cfr. 526 ss. e 550·552.


SO) Prom. 212-213.
11) Cfr. &. 191, 192 (Nauck).
") Prom. 546.
CA.P. I: IL DRAMMA ESCHILEO 463

non tremando innanzi a Zeus, di tuo arbitrio troppo


tu giovi agli uomini, o Prometeo. Ma com'è la benevo-
lenza stessa a te sì inclemente, o amico ! Di.', dove
hai difesa ? Dov'è l'aiuto dei mortali? Non vedesti
l'ansimante trasognata impotenza che tiene in ceppi
la cieca stirpe degli uomini? Non mai i folli desideri
dei mortali vinceranno il saldo ordinamento di Zeus».
Così la tragedia del titanico creatore della civiltà
conduce il coro, attraverso l'm;rore e la pietà, alla co-
noscenza tragica, come esso stesso esprime nelle parole
seguenti 83) : e< Questo conobbi, poiché ebbi veduta la tua
sorte annientatrice, o Prometeo». Questo luogo è d'im-
portanza decisiva per la concezione eschilèa dell'effica-
cia della tragedia. Ciò che il coro dice di se stesso, lo
spettatore sente quale esperienza sua, e così deve sen-
tirlo. Questa fusione tra coro e spettatore è un nuovo
grado dell'evoluzione dell'arte del coro in Eschil'o. Nelle
Supplici il coro delle Danaidi è ancora il vero attore 84) ;
non v'è ancora altro eroe oltre ad esso. Che tale sia la
natura originaria del coro, affermò per primo con netta
decisione Federico Nietzsche nel suo scritto giova:Dile
La nascita della Tragedia, opera geniale ma che
spesso mescola elementi incongiungibili. Tale scoperta
non va tuttavia generalizzata. Quando, in luogo del
coro, fu un sol uomo a rappresentare il destino, la fun-
zione del coro dovette mutare. Esso diviene ora sempre
più lo « spettatore ideale», per quanto si cerchi sempre
di farlo partecipe dell'azione. L'avere la tragedia greca
un coro, che nei suoi canti simpatizzanti oggettiva sul-
l'orchestra il contenuto tragico dell'azione drammatica,
costituisce una delle radici più forti della sua virtù
educativa. Il coro del Prometeo è tutto orrore e compas-

88) Prom. 553.


") V. n. 29.
464 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

sione e incarna in ciò l'effetto della tragedia in tal modo,


che Aristotele non avrebbe potuto trovare modello mi-
gliore per la sua famosa definizione dell'effetto stesso 85).
Sebbene il coro si fonda talmente in uno col dolore di
Prometeo che alla fine, non ostante l'ammonimento
divino, preferisce sprofondare con lui nell'abisso, in una
compassione infinita, pure in quel canto in cui dal
sentimento si eleva alla contemplazione, la sua emozione
tragica si distilla in tragica conoscenza. Esso attinge
così la mèta suprema cui vuol condurre la tragedia.
Quanto afferma il coro del Prometeo - esservi una
conoscenza suprema, cui non si giunge che attraverso
il dolore - è infatti il fondamento ultimo della reli-
gione tragica d'Eschilo. Tutte le opere sue poggiano
su questa grande unità spirituale. Dal Prometeo, l'arco,
volgendo un po' indietro, attraverso i Persiani, dove
l'ombra di Dario enuncia tale nozione, conduce alla
dolorosa profondità delle preghiere delle Supplici, dove
le Danaidi si sforzano, nelle loro angustie~ d'intendere
le vie imperscrutabili di Zeus; in avanti, conduce al-
l' Orestiade, dove, nella solenne preghiera del coro del-
l' Agamennone, la fede personale del poeta trova la sua
forma più alta 86). L'intimità commovente di questa fede
che si dibatte tutta la vita fra gravi dubbi, che lotta
per conquistare il beneficio del dolore, reca in sé una
monumentale forza espressiva, di una profondità e in-
tensità veramente riformatrici. È profetica, e tuttavia
è anche di più. Col suo « Zeus, chiunque tu sia», essa
sosta, adorando, dinanzi all'ultima delle porte, dietro
le quali sta nascosto l'eterno mistero dell'Essere, l'Id-
dio la cui essenza non può che esser intravista, soffrendo,
nei suoi effetti, « il quale dischiuse la via della cono·

81) Cfr. Prom. 553 sa.


16) Àg. 160.
CAP. I: IL DRAMMA ESCIDLEO 465

scenza ai mortali, il quale elevò a legge: imparare nel


dolore. Invece del sonno, stilla sul cuore il tormento,
memore della colpa. Anche ai recalcitranti giunge così
il ravvedimento. Ma è certo grazia degli dèi, ch'essi
siedano così formidabili al sacro timone». In questa sola
nozione il poeta tragico ritrova la pace del cuore, quando
vuole « rimuoverne il fardello del dubbio». Qui gli soc·
corre liberatore il mito, trasformantesi in puro simbolo,
che celebra Zeus quale trionfatore del primitivo mondo
titanico e della sua forza provocante, traboccante di
hybris. L'ordine, che torna sempre a stabilirsi contro
ogni violazione, prevale sul caos. Tale è il senso del do-
lore, anche là dove non l'intendiamo.
Così il cuore pio prova in sé, appunto mediante la
potenza del dolore, la magnificenza del trionfo divino.
Quegli solo ha veramente compreso, che, come l'aquila,
può unirsi con tutto il cuore al grido di vittoria che si
leva giubilante, con tutte le creature, verso Zeus il
trionfatore. Tale è il significato della harmonia di Zeus
nel Prometeo, che i desiderii e i pensieri dei mortali
non debbono mai oltrepassare, e cui anche la creazione
titanica della civiltà umana deve alla fine subordinarsi.
E in questa prospettiva appare pieno d'intimo signifi-
cato che al termine della vita del poeta, alla fine del-
l'Orestiade, si presenti l'immagine del kosmos statale,
in cui tutti i contrasti debbono conciliarsi e che riposa
esso medesimo sul kosmos eterno. Inserita in tale ordi-
namento, anche la nuova figura dell' «uomo tragico»,
creata dall'arte della tragedia, dispiega la sua recondita
armonia con l'Essere, elevandosi, con una capacità di
soffrire e una forza vitale eroicamente accresciute, ad un
grado d'umanità superiore.
CAPITOLO SECONDO.

L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE

Sofocle ed Eschilo vanno menzionati assieme, quando


si tratti della tragedia attica quale potenza educativa.
Sofocle assunse con piena consapevolezza la successione
del poeta seniore, e il giudizio dei contemporanei, per
i quali Eschilo rimaneva sempre il venerando eroe e il
maestro possente del teatro ateniese, collocò Sofocle al
suo fianco 1). Questo modo di vedere ha invero profonde
radici nella concezione greca dell'essenza della poesia,
che non cerca in essa anzitutto l'individualità unica, ma
la considera come una forma d'arte che si perpetua auto-
noma, che passa ad un altro rappresentante e rimane
per lui quasi misura preformata. Possiamo rendercene
conto appunto nel caso d'una creazione come la tragedia,
che, una volta affacciatasi, ha nella sua posizione do-
minante qualche cosa di impegnativo per lo spirito
dei contemporanei e dei posteri, che sprona ogni energia
alla più nobile emulazione.
Questo elemento ago~ale d'ogni attività poetica dei
Greci aumenta man mano che l'arte diviene centro
della vita pubblica ed espressione del vigente ordina-
mento spirituale e statale; nel dramma deve quindi
toccare il suo grado supremo. Cosi soltanto si spiega

1) Cfr. Aristoph. Ranae 790.


468 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

l'immensa affiuenza di poeti di secondo e terz'ordine con-


correnti alla gara dionisiaca. Suscita meraviglia sempre
nuova in noi, oggi, l'apprendere di quale sciame di sa-
telliti furono accompag11ati, da vivi, i pochi grandi di
fama duratura, della cui opera qualche cosa è rimasto.
Lo Stato, con le sue rappresentazioni e premiazioni, non
suscitava propriamente tale gara; non faceva che av-
viarla su direttive fisse, anche se veniva per ciò stesso
ad incoraggiarla. Con questo vivo confronto d'anno in
anno, a parte anche la continuità della tecnica che si
ha in ogni arte e specialmente nell'arte greca, non po-
teva mancare di sorgere un controllo ininterrotto della
nuova forma d'arte anche sotto il rispetto intellettuale
e sociale, che, senza recar pregiudizio alla libertà arti-
stica, rendeva d'altra partè estremamente vigile il giu-
dizio pubblico contro ogni menomazione del grande pa-
trimonio ereditario e contro ogni perdita di profondità
e d'efficacia che avesse a subire. ·
Tale è la giustificazione, ancorchè nori senza restri-
zioni, spettante al confronto fra tre spiriti d'indole così
diversa, e sotto parecchi aspetti incomparabili affatto,
quali furono i tre grandi poeti tragici ateniesi'. Caso per
caso, appar sempre ingiusto,· se non addirittura stolto,
il considerare Sofocle ed Euripide quali successori di
Eschilo, perché in tal modo s'impongono loro criteri di
misura -desunti da una grandezza estranea e che non
conviene all'epoca loro. Il miglior successore è sempre
chi va diritto per la sua via, se ha in se stesso la forza
di fare opera personale. I Greci, per l'appunto, furono
sempre inclini a_ far valere, oltre alla fama del novatore
quella del perfezionatore ultimo, anzi a riconoscerla su-
periore, e a scorgere la somma originalità non nel primo
ma nel più compiuto frutto di un'arte 2). Ma se l'artista

1) V. Isocr. Paneg. 10. La differenza di merito fra il primo


CAP. Il: L'UOMO lRAGICO DI SOFOCLE 469

sviluppa la propria forza cimentandosi con la forma


che trova già plasmata, e in questo senso le va debitore,
egli deve anche sottomettersi ad essa quale misura di
se stesso e lasciarsi giudicare a seconda che, con l'opera
propria, ne conserva, diminuisce od accresce il valore.
Ed ecco vediamo che questo processo non si svolge
semplicemente da Eschilo a Sofocle e da questo ad Euri-
pide, ma che Euripide, in certo qual modo, può esser
considerato quale successore immediato d'Eschilo al
pari di Sofocle, che persino gli sopravvisse. Entrambi
continuano l'opera del vecchio maestro con spirito di-
verso affatto, e non a torto gli studi dell'ultima genera-
:>.:ione hanno molto insistito sul fatto che i punti di con-
tatto tra Euripide ed Eschilo sono molto più cospicui
che quelli di Sofocle con uno degli altri due. Non senza
fondamento, Euripide è considerato, dalla critica d'Ari-
stofane e di coloro che ne condividono le idee, quale cor-
ruttore non già dell'arte di Sofocle, ma della tragedia
d'Eschilo 3). A questa egli si riallacciò, non restringen-
done, invero, ma ampliandone infinitamente la por-
tata. Ciò ottenne col lasciar adito allo spirito della sua
epoca in crisi, sostituendo i problemi moderni ai dubbi
della coscienza religiosa di Eschilo. Nel predominio
dell'elemento problematico sta, ad onta degli aspri
contrasti che li dividono, l'affinità tra Euripide ed
Eschilo.
Secondo questa prospettiva, Sofocle pareva quasi
star da sé, in disparte. Quel carattere di appassionata
intimità e d'esperienza personale vissuta, proprio dei
suoi due grandi confratelli, pareva fargli difetto, e in
base al suo finissimo rigore stilistico e alla sua pacata

inventore (1'pÙ>Toc; e:upcl.v) e il maestro che porta un'arte alla per-


fezione (ò èl;o:xp~{3cl.ao:c;) fu sempre riconosciuta dai Greci.
a) V. p. 635.
470 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

oggettività s1 credette di poter ora spiegare bensi stori-


camente il giudizio ammirativo del classicismo, che vide
in Sofocle il culmine del dramma greco, ma d'averlo in-
sieme superato quale pregiudizio. Cosi la predilezione
della scienza e il gusto psicologico moderno, cui quella
teneva dietro, si rivolsero quasi simultaneamente all'ar-
caismo idealmente profondo, sebbene ancor rozzo, degli
inizi e al soggettivismo raffinato dell'autunno della tra-
gedia attica, ch'erano stati a lungo trascurati 4). Quando,
infine, si venne a determinare meglio il posto spettante
a Sofocle secondo disposizioni cosi mutate, si dovette
cercare il segreto del suo successo in un altro campo,
e fu trovato nella sua pura arte, che, sviluppatasi con
la grande espansione del teatro durante la sua gioventù,
che aveva avuto per dio Eschilo, è sempre sicura nelle
sue mosse e tiene l'efficacia scenica per norma suprema 5 ).

4 ) Quella resurrezione della tragedia greca, che risulta dal-


l'opera di tutta la vita del grande studioso U. v. Wilamowitz-
Mollendorff, ebbe come punto di partenza Eschilo ed Euripide;
volontariamente :fino ai suoi ultimi anni, Wilamowitz trascurò
Sofocle. Per questo, v. anche le osservazioni di K. REINHARDT,
Sophokles (Francoforte 1933) Il e G. PERROTTA, Sofocle (Mes-
sina 1935) 623. ,
5 ) TYcno v. WILAMOWITZ nel libro Die dramatische Technik
des Sophokles (Berlino 1917), che è il più grande contributo degli
ultimi trenta anni su questa materia, per primo pose le basi
su cui deve essere studiato Sofocle da questo punto di vista. E
non si deve dimenticare che fu Goethe il primo che indirizzò
rattenzione dei critici alla superiore maestria di questo antico
poeta tragico, come a una delle cause essenziali dell'efficacia
della sua arte. Ma contro questo modo unilaterale di accostarsi
al poeta che fu il merito, ma anche la limitazione, del libro di
Tycho v. Wilamowitz ci è stata una notevole reazione nella più
recente letteratura sofoclea, che può essere intesa come indizio
del rinnovato interesse per questo poeta. Il Turolla ha indicato
nella particolare religiosità di Sofocle il giusto punto di partenza
per intenderlo. Il Reinhardt nel suo bel libro citato a nota 4, ha
fatto un interessantissimo studio della « situazione» nella tra-
gedia di Sofocle, cioè della relazione da uomo a uomo e, in special
modo di quella tra l'uomo e la divinità. Dobbiamo poi ricordare
qui il libro notevole di H. WEINSTOCK, Sophokles (Lipsia-Berlino
1931) che ugualmente rappresenta una reazione contro il for-
malismo della mera tecnica drammatica. Una ricca e compless;i
CAP. Il: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 471

Se questo Sofocle rappresenta qualcosa di più che una


parte, per quanto cospicua, dell'intero poeta, sarebbe
giustificata la domanda: come mai egli meriti il posto
di perfezionatore compiuto, assegnatogli dal classicismo
non solo, ma già dall'antichità stessa. TI suo posto ap·
pare poi particolarmente problematico in una storia
della cultura greca, che per principio non considera la
poesia sotto il mero rispetto estetico.
Senza dubbio, Sofocle è inferiore ad Eschilo quanto
a vigore d'affermazione religiosa. Anche Sofocle recava
in sé una raccolta e profonda pietà, ma le sue opere
non sono principalmente espressione promotrice di tale
fede. La non-pietà d'Euripide - rispetto alla tradi·
zione . - si presenta ben più affermativa che la religio-
sità incrollabile, ma in se stessa conchiusa, di Sofocle.
Non è possibile coglierlo nella sua vera forza prendendo
per criterio la sua vis problematica: bisogna concederlo
alla critica della scienza moderna; sebbene, quale con-
tinuatore della tragedia eschilèa, egli sia anche l'erede
del suo contenuto ideologico. In realtà dobbiamo pren-
der le mosse dall'efficacia scenica delle opere sue, la
quale non si esaurisce peraltro con l'intenderne la tec-
nica accorta e superiore. Che Sofocle, rappresentante
della seconda generazione, cui spetta in tutto il com-
pito dell'affinamento cosciente e del lavoro di sfumatura,
superi tecnicamente su tutta la linea il vecchio Eschilo,
potrebbe quasi sembrar cosa ovvia. Ma come si spiega
che il ben comprensibile tentativo recente di far valere
anche praticamente il suo gusto mutato, acclimatando
sulla scena moderna le tragedie d'Eschilo e d'Euripide

nuova interpretazione di Sofocle che cerca di evitare gli opposti


estremi delle due correnti e di correggere qualcuna delle loro
troppo soggettive osservazioni su particolari problemi è nell'ec-
cellente opera di Gennaro Perrotta citata a nota 4. V. anche C.
M. BPWllA ntl suo nuoyo libro Sqphoçlea~ Tragedy (O:xfqrd 1944), ·
472 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

non sia andato al di là di esperimenti isolati dinanzi ad


un pubblico. più o meno d"iniziati, e che Sofocle, non
certo per un pregiudizio classicistico, sia il solo dramma-
turgo greco che resti sempre in repertorio nei nostri
teatri ? La tragedia d'Eschilo non riesce a vincere nem-
meno con l'intima vigoria del pensiero e della parola,
sulla scena moderna, la rigidezza antidrammatica dei
cori che vi predominano,
/
quando essi parlino da fermi,
mancando il canto e la danza. La dialettica euripidea
suscita ben.si, in tempi agitati come i nostri, un'eco af-
fine; ma che vi è di più mutevole che i problemi attuali
della società borghese ? Basti pensare quanto distanti
da noi siano oggi Ibsen o Zola, del resto non certo pa-
ragonabili ad Euripide, per intendere come ciò che co-
stituiva il nerbo dell'efficacia d'Euripide ai tempi suoi
rimanga per noi piuttosto una barriera insuperabile.
Ciò che, in Sofocle, produce su di noi la medesima
impressione indelebile che ne determina il valore im-
perituro nella letteratura mondiale, sono .i suoi perso-
naggi. Se ci domandiamo quali tra le creature dei poeti
tragici greci, indipendentemente dalla scena e dal com-
plesso del dramma in cui sono situate', vivano nella
fantasia degli uomini, Sofocle tiene di gran lunga il
primo posto 6). Questa sopravvivenza isolata del per-
sonaggio come tale non può mai essere conseguita dal-
l'effetto momentaneo dell'azione e della condotta scenica
meramente bene atteggiata, che si è rimproverata a So-

6 ) Sui caratteri in Sofocle e influenze di essi sulla letteratw:a


dei secoli seguenti, v. J. T. SHEPPARD, Aeschylus and Sophocles
(New York 1927) che ha rapporto soprattutto colla ictteratura
inglese, e K. HEINEMANN, Die tragischen Gestalten der Griecheri
in der Weltliteratur (Lipsia 1920), che comprende anche Eschilo,
Euripide e Seneca nella sua ampia rassegna. Ma i caratteri di
Sofocle posseggono qualità plastiche tutte loro che li distinguono
da ogni altro. Non possono ce:rto essere intesi in unii semplict>
Motivgeschichte.
CAP. U: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 473

focle. Nulla forse è più arduo enigma per l'età nostra


che la saggezza naturale e pacatamente semplice che
ha rappresentati quali nostri pari, eppure avvolti da
un nembo di sovrana nobiltà, quegli uomini reali, di
viva carne, animati da intense passioni e da sentimenti
delicatissimi, da una grandezza eroicamente superba e
insieme da vera umanità. Nulla in essi è ricercato o
artificiosamente spinto. Età posteriori cercarono invano
la monumentalità nel violento, nel colossale, negli ele-
menti di grande effetto. Qui, in Sofocle, esaa ci sorge
dinanzi spontanea, in proporzioni naturali. La vera
monumentalità è sempre semplice ed evidente. Il suo
segreto sta nell'eliminare dal fatto ogni elemento secon-
dario e accidentale, sì che non ne irraggi, con piena
chiarezza, se non la sua intima legge, celata all'occhio
comune. I personaggi di Sofocle non conoscono la ter-
restre compattezza, quasi sorta dal suolo, delle figure
eschilèe, che accanto a quelli possono facilmente appa-
rire immobili, anzi irrigidite; è, la loro, una mobilità
ancora senza peso, come i tanti personaggi del teatro
euripideo, che malvolentieri chiamiamo «figure», perché
non si concretano in una vera esistenza corporea, al di
là della doppia dimensione teatrale del costume e della
declamazione. Tra il precursore e il successore, Sofocle
si leva quale creatore nato di figure, che si circonda
come senza sforzo della falange delle sue creature, o
piuttosto esse circondano lui 7). Nulla, infatti, è più
estraneo al personaggio verace, che l'arbitrio d'una fan-
tasia capricciosa. Sono tutti nati da una necessità che
non è né la vuota generalità de] tipo, né la determinatezza

. 7 ) La qualità monumentale delle figure drammatiche di Sofocle


nasce dall'intendimento di rappresentare in esse l'areté umana
(v. p. 467). Cfr. l'articolo di W. SCHADEWALDT citato sotto a
nota 10 e J. A. MooRE, Sophocles and Areté (Cambridge, Mass.,
1933).
474 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

unica del carattere individuale, ma l'essenzialità stessa,


opposta a ciò ch'è vuoto di carattere.
Si è spesso istituito un parallelo tra la poesia e l'arte
figurativa, accostando ciascuno dei tre tragici ad una
diversa fase evolutiva della forma plastica 8). Tutti que-
sti paragoni hanno facilmente qualche cosa di un gioco,
e tanto più, con quanto maggiore pedanteria sono svolti.
Ahhiamo paragonato noi stessi simbolicamente la posi-
zione della divinità nel mezzo delle sculture del fron-
tone olimpico al posto centrale di Zeus o del destino
nella tragedia arcaica 9) ; ma questo paragone era pu·
ramente ideale, non si riferiva alla plasticità delle figure
del poeta. Se invece chiamiamo Sofocle il drammaturgo
plastico, intendiamo appunto questa qualità, ch'egli
non condivide con alcun altro; il che esclude a priori
un parallelo istituito fra i tragici e l'evoluzione della
forma plastica. Come la figura poetica, così la figura
plastica si ·basa sulla conoscenza di leggi supreme, ma
qui finisce ogni parallelo; ché le leggi specifiche di ciò
che ha realtà interiore non sono comparabili alla strut-
tura, legata allo spazio, della corporeità tangibile e vi-
sibile. Ma se l'arte figurativa di quest'epoca persegue
nella sua rappresentazione dell'uomo, quale fine su-
premo, l'espressione di un ethos intimo, sulle sue crea-
zioni sembra cadere, trasfigurandole, un barlume di quel
mondo interiore che la poesia di Sofocle primamente

8 ) Questo tipo di paragone è abbastanza antico, e comincia


con gli scrittori greci di critica letteraria. Se ne trovano spesso
in Dionigi di Alicarnasso, nell'anonimo Del Sublime, in Cicerone,
e altri autori che rappresentano questa tradizione. Il paragone
si faceva anche tra pittura e poesia (cfr. il famoso detto di Orazio:
ut pictura poesis).
9 ) Cfr. pp. 446-44 7. Il paragone fra la poesia greca e le belle
arti è stato elaborato più sistematicamente da FRANz WINTER
nel capitolo « Parallelerscheinungen in der griechischen Dicht-
kunst und bildenden Kunst » in: GERCKE-NORDEN, Einleitung
in die Altertumswissenschaft (Lipsia-Berlino 1910) vol. II, P· 16l;
l!fr. su E;sclµIQ e Sofocle P· 176 ss,
CAP. II: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 475

dischiuse. Più che mai commovente ci si presenta il ri-


flesso di tale umanità nei monumenti sepolcrali attici
dell'epoca. Per quanto inferiori, quali opere di un'arte
di second'ordine, alla pienezza d'espressione e di conte-
nuto dell'opera poetica sofoclèa, tuttavia il raccogli-
mento dell'artista di fronte alla medesima interiore es-
senza umana, il quale traspare dalla pacatezza di que-
ste opere, ci mostra come poesia ed. arte siano animate
dallo stesso spirito. Questo alza intrepido e sereno la
sua immagine dell'eternamente umano di contro al do-
lore e alla morte, professando così la sua particolare e
genuina certezza religiosa.
Quale monumento duraturo dello .spirito attico nella
sua maturità, la tragedia di Sofocle si colloca accanto
all'arte plastica di Fidia: ambedue rappresentano l'arte
dell'età periclèa. Rivolgendo di qui lo sguardo indietro,
tutto il corso precedente della tragedia appare indiriz-
zato a questa mèta. Anche del rapporto tra Eschilo e
Sofocle si può dire altrettanto; ma non di quello di
Sofocle con Euripide, o, tanto meno, con gli epigoni
della poesia tragi.ca che si hanno ancora nel secolo V.
Tutti questi non sono che echeggiatori, e ciò che in
Euripide è grande e gravido d'avvenire, accenna già,.
di là dalla poesia, ad un nuovo regno filosofico. Si può
così qualificare Sofocle classico, nel senso eh'egli rap-
presenta l'apogeo dello sviluppo storico della tragedia,
la quale attinge in lui « la sua natura», come direbbe
Aristotele IO). Ma egli è classico anche in un altro ed
unico senso, che conferisce a questa denominazione una
dignità superiore a quella di mero perfezionatore d'un
genere letterario. Ed è la sua posizione nel corso ideale

10 ) Sull'arte di Sofocle come forma classica della tragedia


greca, v. W. SCHADEWALDT, Das Problem des Klassischen und
die Aniike, Acht Vortrage hrsg. v. Werner Jaeger (Livsia-Berli:qQ
1931) 25 &S,
476 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATI'ICO

della grecità, come espressione del quale consideriamo


qui principalmente la letteratura. Considerato quale
progressiva oggettivazione della formazione dell'uomo,
lo sviluppo della poesia greca culmina in Sofocle. Solo
secondo questa visuale ·si può intendere appieno ed
approfondire quanto dicevamo delle figure tragiche di
Sofocle ll). I loro pregi non sorgono dal campo cli ciò
ch'è meramente formale, ma hanno radice in uno strato
più profondo dell'umano, dove l'elemento estetico, l'etico,
il religioso si compenetrano e si condizionano reciproca-
mente. Tale fenomeno non è affatto isolato nell'arte
greca, come ci ha insegnato il nostro esame della poesia
arcaica. Ma forma e norma sono tutt'uno in modo
affatto speciale nella tragedia di Sofocle; tali sono mas-
simamente nei suoi personaggi, dei quali già il poeta
stesso disse, con calzante brevità, che sono figure ideali,
non già uomini della realtà ordinaria, quali li rappre-
senta Euripide 12 ). Sofocle, plasmatore di uomini, ap-
partiene alla storia della cultura umana -più d'ogni
altro poeta greco e in un senso del tutto nuovo; nell'arte
sua si rivela per la prima volta la coscienza, che si è
destata, della cultura umana. È cosa dWersa affatto
cosi dall'efficacia educativa al modo d'Omero, come
dall'intento educativo al modo d'Eschilo. Presuppone
l'esistenza d'una società umana per la quale la « cul-
tura», l'essere umanamente formati, per se stesso, è
divenuto sommo ideale; ciò peraltro è possibile sol
quando, travagliatasi una stirpe in gravi conflitti inte-
~ori circa iJ significato del destino, conflitti della pro-
fondità d'Eschilo, l'Umano come tale sia alfine collo-
cato nel centro dell'Essere. L'arte sofoclèa di creare
figure umane è coscientemente inspirata dall'ideale di

ll) V. p. 472 ss.


. 11) ,Arist. Poet. 25, 1460 b 34.
CAP. II: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 477

un atteggiamento umano che è prodotto peculiare della


cultura e della società dell'età di Pericle. Cogliendo tale
nuovo atteggiamento nella sua essenza profonda, quale
dovette portarlo in petto egli stesso, Sofocle umanizzò
la tragedia, facendone un modello imperituro di cultura
umana nello spirito inimitabile dei suoi creatori. Si
potrebbe quasi chiamarla un'arte della cultura, quale è
- per quanto in una cornice temporale molto più arti-
ficiale - il Tas.~o come tappa isolata del travaglio di
Goethe per la conquista della forma nella vita e nell'arte,
se non fosse che per la nostra parola «cultura», con
ogni sorta d'associazioni mentali, include un pericolo
d'infiacchimento, dal quale non riusciamo mai a libe-
rarci interamente. Bisogna prescindere affatto da con-
trapposizioni diventate moneta corrente nella scienza
filologica, come « esperienza culturale» ed « esperienza
originaria», per misurare ciò che sia la cultura nel senso
greco originale 13), cioè la creazione prima e l'esperienza
originaria della consapevole formazione dell'uomo, per
comprendere la sua forza, che dà ali alla fantasia d'un
grande poeta. L'incontro creatore di poesia e cultura
in questo senso è una costellazione che si dà una volta
m tutto il corso della storia.

L'unità tra popolo e Stato, ardua conquista realiz-


zata nelle guerre persiane, sopra la quale si leva il co-
smo spirituale della tragedia eschilèa, gettò in Atene,
come già esponemmo, le basi d'una nuova cultura indi-
gena, superante i contrasti tra cultura aristocratica e

13) Mi sono provato a introdurre, nel testo, gli opposti termini


Ur-Erlebnis e Bildungs-Erlebnis come li usava, nella critica lette-
raria, Friedrich Gundolf. Bildungs-Erlebnis significa un'esperienza
che ci viene non attraverso contatti immediati colla vita stessa,
ma soltanto per la via d'impressioni letterarie o della dottrina. Ma
questa terminologia antitetica non s'adatta alla poesia classica
greca.
478 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

vita popolare. Nella vita di Sofocle appare simboleg-


giata in maniera unica l'eudemonià della generazione
che edificò su tale fondamento lo Stato e la cultura del-
!'età di Pericle. I fatti sono ben noti, ma più signifi-
cativi di quanto l'indagine coscienziosa possa stabilire,
del rimanente, quanto ai particolari personali della sua
vita esteriore. Non è, certo, se non leggenda che So-
focle partecipasse, bel giovinetto, alle danze per la
vittoria di Salamina, dove Eschilo aveva combattuto;
ma è eloquente il fatto che la vita del più giovane
dei due non incominciasse propriamente che nel mo-
mento in cui la tempesta era passata. Sofocle sta sulla
cresta, erta ed esigua, dell'apogeo meridiano del po-
polo attico, purtroppo presto· oltrepassato. L'opera sua
è circonfusa dalla serenità senza vento, d>aliX e ya:À-fiv-ri,
dell'incomparabile giornata storica la cui alba sorge
con la vittoria di Salamina. Egli chiuse gli occhi poco
prima che Aristofane invocasse l'ombra del grande Eschilo
per proteggere la sua città dalla rovina. Non fece in
tempo ad assistere alla caduta d'Atene. Mori dopo l'ul-
tima vittoria d'Atene, anche una volta suscitatrice di
grandi speranze, nella battaglia delle Arginuse, ed ora
vive laggiù - così lo rappresenta Aristofane poco dopo
la sua morte - in così perfetta armonia con se stesso
e col mondo; come visse in terra 14). È difficile dire quanto
di tale eudemonia egli debba all'età sua, favorita dalla
sorte, quanto alla felice sua natura, e qtianto in essa
sia frutto d'arte consapevole e di quella silenziosa, mi-
steriosa saggezza di fronte alla quale la pretesa della
genialità ama esprimere talvolta la propria insufficienza
ed incomprensione con un imbarazzato atteggiamento
di spregio. La vera cultura non è mai se non l'opera
di queste tre forze riunite; nel suo fondamento ultimo

16) Aristoph. Ranae 82.


CAP. II: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 479

rimane un enigma. Meraviglioso e m essa che non è


possibile spiegarla, nonché costruirla, ma soltanto ad-
ditarla: eccola.
Se null'altro conoscessimo dell'Atene di Pericl~, dalla
vita e dalla figura di Sofocle concluderemmo che nel-
!' età sua, per la prima volta, sorse la formazione inten-
zionale dell'uomo. Si loda il suo modo di contenersi,
e per questa forma quell'epoca creò il termine nuovo
di « urbano », occr't"efoç. Quattro lustri dopo, esso è
d'uso corrente in tutti i prosatori attici, in Senofonte,
negli oratori e in Platone, e il tipo, così indicato, di
commercio sciolto ed affabile con altri e di squisito con-
tegno personale è analizzato e descritto da Aristotele.
Ciò ha per presupposto la società attica dell'età di Pe-
ricle. Non v'è più bella illustrazione della grazia
di questa fine cultura attica, tanto lontana dal
senso scolastico di questa parola, che l'arguto rac·
conto di un poeta contemporaneo, Ione di Chio 15),
di quell'episodio vero della vita di Sofocle in cui egli,
compagno ·di Pericle nel comando dell'armata, si trova
ospite di riguardo in una piccola città ionica. Al ban-
chetto, ha per vicino il maestro di letteratura del luogo,
il quale, tutto compreso del proprio sapere, lo affiigge
con la critica pedantesca di un bel passo d'un antico
poeta: «Splende su guance purpuree la luce dell'amore»,
il cui colorito poetico lo urta. Come sa trarsi d'impaccio
la superiorità d'uomo di mondo e la grazia umana del
poeta, dando a quel realista povero di fantasia, con
spasso generale, la prova della sua totalt> inettitudine
all'ufficio, per se stesso tanto bello, d'interprete di poeti:
e, a riprova tangibile ch;egli stesso s'intende pur sem-
pre di più del suo ufficio di capitano, sebbene non di
sua elezione, mettendo in opera il suo malizioso « stra-

li) Athen. XIII 603e.


480 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

tagemma» contro il grazioso fanciullo che gli sta por-


gendo la coppa colma di vino - ecco un tratto indi-
menticabile nell'immagine dell'uomo Sofocle e insieme
della società attica dell'età sua, che qui non deve man-
care. Accanto al ritratto del poeta datoci da questo
aneddoto autentico, consono per spirito e contegno alla
statua lateranense di Sofocle, poniamo il ritratto di
Pericle dello scultore Cresila. Esso non riproduce sol-
tanto il grande uomo di Stato, né, ad onta dell'elmo,
il solo condottiero. A quel modo che Eschilo, per la
posterità, fu sempre il combattente .di Maratona e il
fedele cittadino della sua città, così l'arte e l'aneddoto
incarnano in Sofocle e in Pericle la quintessenza della
suprema nobiltà della kalokagathia attica, secondo lo
spirito dell'età loro.
In questa forma vive una sensibile e chiara co•
scienza di ciò che è umanamente giusto e opportuno in
ciascun caso~ la quale, nell'estremo padroneggiamento
dell'espressione e nella misura perfetta, si ·rivela quale
nuova libertà interiore. Nulla è in essa di affettato e
sforzato; la sua levità è riconosciuta e ammirata da
tutti; ma nessuno è in grado d'imitarla, quale è descritta
alcuni anni dopo da Isocrate. Non esiste che ad Atene.
Quanto v'è ancora di eccelso nell'intensità eschilèa del-
l'espressione e del sentimento, cede il posto a un equi-
librio e ad una proporzione naturali, che sentiamo e
gustiamo come un miracolo tanto nell'arte plastica del
fregio del Partenone quanto nella lingua dell'uomo so-
foclèo. Non si può definire che sia propriamente questo
segreto palese, ma non è, ad ogni modo, cosa mera·
mente formale. E invero sarebbe assai singolare che il
medesimo fenomeno si mostrasse simultaneamente nel-
l'arte plastica e nella poesia: deve avere per fondamento
qualche cosa di preterindividuale, comune ai rappresen-
tanti tipici dell'epoca. È l'emanazione di un'esistenza
CAP. II: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 481

finalmente placata, finalmente all'unisono con se stessa,


come bellamente esprime quel noto verso d'Aristofane:
un'esistenza, cui nemmeno la morte può far nulla, in
virtù di che essa deve restare «là» la stessa che « qui»,
ruxoÀoç 16). Non è possibile banalizzare tutto ciò peggio
che interpretandolo, soltanto esteticamente, quale mera
bella linea o, soltanto psicologicamente, quale mera na-
tura armonica, scambiando i sintomi con l'intima es·
senza. Se Sofocle è maestro dei mezzitoni, che non
riescono ad Eschilo, ciò non ha per sola ragione l' acci-
dentalità del suo temperamento personale•. Non v'è
altro esempio in cui la forma come tale sia con tanta
immediatezza l'espressione adeguata, la rivelazione anzi
dell'Essere e della sua significanza metafisica. Alla do-
manda, quale sia l'essenza e il significato di quest'esi-
stenza, Sofocle non risponde, come Eschilo, con una
filosofia, con una teodicea, ma con la forma del suo di-
scorso stesso, con la figura dei suoi personaggi. Ciò mal
potrà intendere chi, di tra il caos e l'inquietudine della
vita, nel momento in cui ogni salda forma si dissolve,
non abbia mai stesa la mano verso questa guida, per
ritrovare, mercé l'efficacia _d'alcuni versi sofoclèi, il pro-
prio equilibrio interiore. Quanto essi fanno sentire col
suono e col ritmo loro - la misura - è per Sofocle il
principio deJl'csistenza, significa il pio riconoscimento
d'una giustizia insita nelle cose stesse, il cui rispetto
è il segno della suprema maturità. Non invano il coro
della tragedia sofoclèa parla sempre dell'assenza di mi-
sura quale radice d'ogni male. Nel vincolo religioso verso
questa nozione ha la sua più profonda radice l'armonia
prestabilita dell'arte plastica e dell'arte poetica di So-
focle e di Fidia. A noi tale consapevolezza, onde è piena
tutta quell'età, pare espressione così ovvia della so-

1 8) V. nota 14.
482 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

phrosyne profondissimamente insita in tutto ciò ch'è


greco, fondata sull'elemento metafisico, che alla cele-
brazione della misura per parte di Sofocle sembra ri-
spondere, da ogni parte del mondo greco, un'eco mul-
tipla. Nuova non è punto, infatti, l'idea, ma per l'effi-
cacia storica e per il valore assoluto di un'idea non è
mai decisiva la sua novità, bensì la sola profondità e
intensità con la quale fu afferrata e vissuta. Lo sviluppo
dell'idea greca della misura quale valore supremo si può
contemplare, collocandosi nel punto dov'è Sofocle, come
da una vetta. Essa muove verso di lui e da lui riceve
la sua classica impronta poetica quale potenza divina,
dominatrice del mondo e della vita 17).

Lo stretto legame tra la cultura umana e la misura


nella coscienza dell'epoca può dimostrarsi anche sotto
un altro aspetto. In generale noi dobbiamo dedurre il
valore degl'intendimenti artistici della classicità greca
dalle sue opere stesse, le quali ad ogni modo restano
per noi le migliori testimonianze. Ma quando si tratti
di cogliere le tendenze creative ultime e più difficil-
mente afferrabili di sì ricche e complesse creazioni dello
spirito umano, è un'esigenza giustificata quella d'accer-
tarsi, mediante testimonianze dell'epoca, che la via da
noi seguita sia la giusta. Di Sofocle stesso la tradizione
ci dà due sentenze; le quali peraltro, in fin dei conti
non ricevono garanzia storica se non dalla loro conso-
nanza con la nostra medesima impressione intuitivà
dell'arte sua. L'una è quella, già citata 18), che caratte-
rizza i personaggi di Sofocle, in contrapposto al rea-
lismo d'Euripide, quali :figure ideali. In un altro detto 19),

17 )Per la relazione spirituale del poeta con la sua città v. W.


ScHADEWALDT, Sophokles und Athen (Francoforte 1935).
1s) V. pp. 476-477.
19) Athen. I 22a-b.
CAP. Il: L'UOMO lRAGICO DI SOFOCLE 483

l'artista differenzia la propria opera poetica rispetto


a quella d'Eschilo col negare a questo la consapevolezza
nel cogliere il punto giusto, che gli appare essenziale
nel caso proprio. Considerati assieme, i due detti pre-
suppongono una particolare consapevolezza delle norme
secondo le quali il poeta crea le sue figure e rappresenta
gli uomini « quali debbono essere». Ma appunto tale
coscienza della norma ideale dell'uomo è propria del-
.'epoca iniziale della sofistica. La questione dell'areté
dell'uomo è affrontata con enorme intensità sotto
l'aspetto del problema educativo. «L'uomo quale deve
essere» è il gran tema dell'epoca e la mèta di tutti gli
sforzi dei Sofisti. Sino allora, la poesia sola aveva dato
un fondamento ai valori umani della vita. Essa non
poteva non risentir l'influenza della nuova volontà edu-
cativa. Se Eschilo o Solone avevano conferito alla poe-
sia la sua grande efficacia col farne la scena della pro•
pria lotta interiore con la divinità e col destino, ora So-
focle, seguendo l'impulso plastico. dell'epoca, si rivolge
all'uomo stesso e trasporta l'elemento normativo nella
rappresentazione della figura umana. Troviamo già certi
spunti di tale sviluppo nelle opere tardive d'Eschilo,
quand'egli, per accrescere la tragicità, contrappone al
destino figure quali Eteode Prometeo Agamennone Ore-
ste, in cui è insito un forte elemento d'idealità. Qui
s'innesta Sofocle, e atteggia i suoi protagonisti a rappre-
sentanti della più alta areté, quale la vagheggiavano
i grandi educatori dell'epoca. Da che parte si trovi la prio-
rità, se presso la poesia o presso l'ideale culturale, non
è dato decidere; ma per una poesia come quella di So-
focle è affatto insignificante. Fatto decisivo è che la
poesia e l'attività intesa a plasmare l'uomo si rivolgono
consapevolmente al medesimo fine.
Gli uomini di Sofocle nascono da un ideale di bel-
lezza, di cui è fonte una spiritualizzazione senza prece-
484 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

denti <lella loro figura. In essa si manifesta il nuovo


ideale dell'areté, che per la prima volta fa cosciente-
mente della psyché il punto di partenza d'ogni cul-
tura dell'uomo. Questa parola acquista nel corso del
V secolo un suono nuovo, un significato più alto che
per altro non avrà tutto il suo peso se non in Socrate 20).
Nell' «anima» si riconosce ora oggettivamente il centro
dell'uomo. Da essa irraggia ogni sua azione e contegno.
L'arte figurativa aveva da tempo scoperto le leggi del
corpo umano, facendone oggetto di studio intensissimo.
Nella «armonia» del corpo aveva ritrovato il principio
del cosmo, del quale il pensiero filosofico aveva prima
acquistato certezza nella considerazione del Tutto 21 ).
Dal cosmo, i Greci passano ora a scoprire anche ciò
che spetta all'anima. Non sgorga, esperienza vissuta,
quale caotica interiorità, ma, all'opposto, è assogget-
tato all'ordine di una legge quale ultima regione del-
l'essere che rimanesse non compenetrata ari.cora dell'idea
cosmica. Come il corpo, cosi l'anima ha evidentemente il
suo ritmo e· la sua armonia. Si affaccia ora l'idea di
una conformazione dell'anima 22 ), che siamo tentati di tro-
vare espressa per la prima volta con piena chiarezza in
Simonide, quando egli definisce l'areté con le parole:
« fatto senza menda diritto, di mani e di piedi e di
mente» 23). Ma da questo primo barlume dell'idea di un
« essere in forma » spiritualmente, analogo all'ideale cor-
porale dell'addestramento agonale, restava ancora un
20) Pel concetto di anima e per la sua importanza per So-
crate, v-. « Paideia» II 60-71.
21 ) Policleto in un frammento rimastoci della sua opera sulla
scultura, definisce la perfetta forma di un corpo umano come
una certa proporzione di numeri, cioè di misure.
22 ) Platone parla letteralmente di xcc-rcccrxe:u-Ji ~ux'ìJ.ç in que-
sto senso, e distingue differenti forme di questa struttura; cf.
« Paideia » II 563 e p. 572, n. 278. Questa nuova consapevo-
lezza in tali argomenti fu preparata dall'età dì Sofocle.
23) Simon. fr. 4, 2 (Diehl). Si noti la coordinazione fra gin-
nastica ed esercizio mentale.
CAP. Il: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 485

gran passo sino alla teoria della cultura che Platone


attribuisce, certo con giusto giudizio storico, a Prota-
gora 24). In questa l'idea della plasmazione è svolta con
intima conseguenza; da immagine poetica si è fatta
principio educativo. Protagora parla ivi della forma·
zione dell'anima ad una vera euritmia ed euharmostia.
La. giusta armonia e il giusto ritmo debbono esser su-
scitati in essa dal contatto con le opere della poesia,
in cui tali norme hanno preso corpo. Anche in questa
teoria l'ideale della formazione dell'anima è visto mo·
vendo dall'aspetto corporale, ma non tanto dall'areté
agonale, come nel caso di Simonide, quanto dall'arte
figurativa e dall'atto della plasmazione artistica. Da
questo campo intuitivo derivano anche i concetti nor·
mativi dell'euritmia ed euharmostia. L'idea della cultura
formativa non poteva nascere che presso il popolo
classico dell'arte figurativa. Nemmeno l'ideale delle figure
di Sofocle può smentire tale modello. Educazione, poesia
ed arte figurativa si trovano, in quell'epoca, in intima
relazione reciproca; nessuna di esse è pensabile senza
le altre. Cultura e poesia scorgono il loro modello nel-
l'impulso di plasmare figure, proprio della scaltura, e
s'indirizzano all' t8éoc dell'uomo come l'arte; l'arte, dal
canto suo, è indirizzata dalla cultura e dalla poesia aJ.
l'anima 25). Ma in tutto ciò si rivela on alto apprezza-
mento dell'uomo, che per tutte tre è centro dell'interesse.
Tale indirizzo antropocentrico, assunto dallo spirito at-
tico, segna il momento che vede nascere la «umanità »,

24) PL Prot. 326b.


26) V. la conversazia:ae di Socrate col pittore Parrasio sul-
l'espressione dell'anima nella· rappresentazione dell'apparenza fi.
sica, e soprattutto della faccia, in Xen. Mem. III 10, 1-5; cfr.«Pai-
deia» II 72. Qui l'educatore che conosce l'anima umana mira ad un.a
consapevolezza nuova delle leggi dell'espressione fisionomica del-
l'ethos, mentre l'artista appare sopraffatto dall'ardita domanda
di Socrate.
486 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

non già nel senso social-sentimentale di amor del pros-


simo, che i Greci chiamano filantropia, bensì quale in-
tendimento del vero essere dell'uomo 28). A questo pro-
posito è particolarmente caratteristico come la donna,
· per la prima volta, si affacci, pienamente equiparata
all'uomo, quale rappresentante dell'umanità. Le nume-
rose figure di ·donna di Sofocle - Antigone Elettra
Deianira Tecmessa Giocasta, senza contare per~onaggi
secondari quali Clitennestra lsmene Crisotemide - fanno
apparire nella luce più viva l'altezza e l'ampiezza del-
l'umanità sofoclèa. La scoperta della donna è conse-
guenza necessaria della scoperta dell'umanità quale og-
getto proprio della tragedia.

Di qui comprendiamo la trasformazione dell'arte


tragica che intercorre fra Eschilo e Sofocle. Esterior-
mente, salta agli occhi come la forma della trilogia,
che è regola nel più anziano dei due poeti, sia abban-
donata dal successore. La sostituisce il dramma sin-
golo, che ha per centro l'azione umana. Eschilo aveva
bisogno della trilogia per abbracciare drammaticamente
tutta la compagine epica d'una concatenanone fatale,
che spesso non poteva esser rappresentata se non nella
connessione dei dolori di più generazioni successive.
Il suo s_guardo era rivolto al corso del destino nel suo
complesso, perché in questo soltanto appariva il giu-
sto equilibrio del reggimento divino; che tanto spesso
la fede e il sentimento etico non riescono a trovare
nella sorte individuale. Così i personaggi, anche se sono
essi a suscitare la nostra partecipazione affettiva agli
avvenimenti, retrocedono ad un posto secondario, e il
poeta è costretto come a immedesimarsi sempre nella

26 ) Sul concetto di filantropia e sulle sue relazioni col concetto


di human.itaa, v. « ~aideia» III 166, n. 75.
CAP. II: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 487

parte della potenza superiore che governa il mondo.


In Sofocle cessa il bisogno d'una teodicea, che domina
il pensiero religioso dell'epoca che va da Solone ~ Teo-
gnide ed Eschilo. Tragico è per lui appunto il carattere
inevitabile e irrimediabile del dolore. È questo l'aspetto
necessario del destino, veduto dal lato dell'uomo. Ciò
non significa affatto che sia abbandonata la concezione
religiosa d'Eschilo; solo che l'accento non cade più
su di essa. Lo mostra con particolare evidenza l' esèm•
pio di una delle prime opere di Sofocle, come l'Antigone,
dove tale concezione del mondo è ancora assai visibile.
La maledizione in cui la stirpe dei Labdacidi è in-
corsa per sua colpa, segaìta da Eschilo, nella trilogia
tebana, nel suo effetto distruttore lungo più genera-
zioni, sta anche in Sofocle, nello sfondo, quale causa
ultima. Antigone cade sua ultima vittima, come, nei
Sette d'Eschilo, Eteocle e Polinice 27). Sofocle fa per-
sino che Antigone e il suo antagonista, Creonte, con-
tribuiscano essi medesimi a determinare la sorte loro,
intervenendo attivamente, e il coro non si stanca di
parlare dell'esorbitanza e di rinfacciare ad entrambi il
loro contributo alla propria sventura 118). Ma per quanto
tali fattori, secondo Eschilo, siano atti a giustificare
il destino, pure tutta la luce si concentra sulla tragica
figura umana, e si ha l'impressione ch'essa si regga del
tutto autonoma. Il destino non deve richiamare l'at-
tenzione sopra di sé quale problema distinto, disto-
gliendola da quella: esso è in qualche modo essenzial-
mente legato alla figura dell'essere umano che soffre,
non gli è ,soltanto imposto al difuori. Antigone è per
natura destinata, possiamo anzi dire prescelta per il

21) V. il coro Ànt. 583 ss.


28) Cii'J è stato stabilito indubitabilmente da AUGUST BoECKH
nella sua analisi della tragedia nell'appendice alla sua edizione
deil' Antigone di Sofocle (Berlino 1843).
488 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

suo calvario, ché la sofferenza consapevole diviene una


nuova· nobiltà che le è propria. Quest'esistenza prede-
stinata al dolore - senza far posto qui a idee cri-
stiane - si mostra sùbito nel primo dialogo del pro-
logo fra Antigone e la sorella. La delicatezza verginale
di Ismene arretra tremante dinanzi alla fine libera-
mente scelta, sebbene il suo amore fraterno non sia
certo minore, come ben presto dimostra in modo com-
movente il suo falso accusarsi dinanzi a Creonte e la
disperata sua volontà di andare a morte con la sorella
condannata. Eppure essa non è figura tragica. Serve
a dar rilievo ad Antigone, e noi riconosciamo a questa
un profondo diritto a respingere in quel momento
l'affettuoso proposito d'lsmene, di condividere la sua
sofferenza. Come già Eschilo, nei Sette, accresce la
tragicità d'Eteocle col dare a lui, travolto innocente
nella sorte della sua casa, lineamenti eroici, cosl in
Antigone sono esaltate tutte le qualità della sua no-
bile stirpe.
Questa sofferenza del protagonista è situata dal
primo canto del coro dinanzi ad uno sfondo generale.
Il coro intona un inno alla grandezza deij'uomo quale
creatore di tutte le arti, che domina le possenti forze
della natura mediante lenergia dello spirito e che,
quale sommo fra tutti i doni, ha ricevuto il diritto,
forza creatrice di Stati: tale la costruzione teorica
d'un contemporaneo di Sofocle, il sofista Protagora,
circa l'origine della civiltà e società umana 29 ); e l'or-

29) Nel mito sull'origine della civiltà (PL Prot. 322a) anche
Protagora distingue espressamente fra il livello delle arti tecni-
che e il più alto stadio di sviluppo delle arti politiche dello Stato.
Dietro la descrizione platonica è certamente molto di storico:
Protagora scrisse realmente un libro intitolato IIe:pt •-ijç l:v ocpx'ii
xocTOCO"TcX<Hoç che riguardava evidentemente lo stadio più antico.
della civiltà umana. V. Conte W. VON UXKULL-GYLLENBAND,
Griechische Kulturentstehungslehren (Berlino 1924). V. anche p. 514 s.
CAP. II: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 489

goglio prometeico dell'ascesa, che domina questo primo


tentativo di una storia naturale dell'evoluzione umana,
si sente anche nel ritmo maestoso del coro sofoclèo. Ma,
con l'ironia tragica propria di Sofocle, non appena il
coro ha esaltato il diritto e lo Stato, sbandendo rigo-
rosamente da ogni umana comunità chi violi la legge,
appare Antigone trascinata in ceppi. Adempiendo alla
legge non scritta del più elementare dovere fraterno,
ella ha consapevolmente violato il decreto del re che,
tirannicamente esagerando l'autorità dello Stato, ha
vietato sotto pena di morte la sepoltura del di lei fra-
tello Polinice, caduto combattendo contro la sua stessa
patria; e nel momento stesso, nello spirito degli spet-
tatori, l'immagine dell'uomo appare sotto un'altra luce,
e quel superbo inno ammutolisce dinanzi al balenare
della tragica nozione dell'umana debolezza e nullità.
Fu pensiero profondo quello di Hegel, che scorse
nell'Antigone il tragico conflitto fra due principii mo-
rali: la legge dello Stato e il diritto della famiglia 30).
Ma se il rigore ideale della sua concezione politica, non
ostante la forte esagerazione di questa, ci fa più vicino
il re, e la ribellione della dolente Antigone difende le
eterne leggi della pietà contro le sopraffazioni dello
Stato con la travolgente forza di persuasione della vera
passione rivoluzionaria, pure l'accento principale non
cade su questo problema generale, che al poeta dell'età
sofistica si presentava abbastanza ovvio per idealizzare
il contrasto tra i due protagonisti. Anche quant'altro
è detto circa la hybris, la smoderatezza e l'irragionevo-
lezza è cosa piuttosto marginale e non già centrale
coni.e in Eschilo. Il suo intrecciarsi con la sofferenza
tragica agisce sempre in modo immediatamente intel-

30) liEGEL, Àesthetik, Bd. II (Jubilaeumsausgabe, Stuttgart,


1928) 51-52.
490 LIBRO II - APOGEO E O.USI DELLO SPIRITO ATI1CO

ligibile sull'eroe, e anziché porlo, giuridicamente,


dalla parte del torto, rende evidente, appunto in na-
ture elette, l'ineluttabilità del destino cui gli dèi gui-
dano l'uomo. L'irrazionalità di questa « Ate», che
aveva già turbato il senso della giustizia di Solone e
su cui si travaglia tutta quell'epoca, è per Sofocle il
presupposto, non già il problema tragico. Se Eschilo
aveva cercato di risolvere il problema, Sofocle accetta
I'Ate come data. Ma il suo atteggiamento di fronte al
fatto del dolore ineluttabile, mandato dalla divinità,
che la lirica greca arcaica aveva lamentato sin dai
suoi inizi, non è perciò di mera passività, e tanto meno
vale per esso il detto rassegnato di Simonide, dover
l'uomo necessariamente espiare la sua areté, quando la
sventura senza scampo Io atterra 31). L'inalzamento
dei suoi eroi del dolore ad uman~ sublimità è il suo
e< sì» di fronte a tale realtà, il cui enigmà non è risolto,
come quello della Sfinge, da alcuna mente mortale.
Soltanto ne~ dolore, anzi persino nell'annientamento
totale della sua felicità terrena, il personaggio tragico,
m Sofocle, si eleva a vera grandezza umana.

L'uomo di Sofocle, nel suo dolore, diviene l'istru-


mento accordato con mirabile delicatezza, dal quale la
mano del poeta può trarre tutte le note dell' ailinos
tragico. Per farlo risonare egli inette in opera tutte le
risorse della sua fantasia drammatica. La tragedia di

31 ) Simon. fr. 4, 7-9; cf. p. 386 ss. éi.vòpa. I>' oùx fo·n ii.7i où
xa.xòv E!J.!J.e:VIXL ov av &ii.fixlX\loç cruii.qiopoc xix.&ÉÀ 1J.• Questa sentenza
è il nocciolo della sapienza di Simonide riguardo le relazioni di
sventura e areté. Gli eroi di Sofocle sono sventurati per il loro
destino, ma non xixxol. V. le parole di Aiace a suo figlio, che
riflettono il senso superbo del proprio valore. Ai. 550-551: c1
7tlXL, yévoLo 7t1X't"pòç e:ù-ruxfo-re:poç, -roc l>'éi.ÀÀ' aii-oi:oç xixl. yévot'
av où xixx6ç. Édipo è conscio della sua nobiltà, -rò ye:wixi:ov (O .C. 8)
pur nella sua miseria. V. anche 270 xixl-roL 7twç tyw xixxòç qiùcrw;
75 è1td7te:p e:! ye:vvixi:oç, Ù>ç rn6nL, 7tÀ7jv -roi3 l)ix[!J.OVOç.
CAP. II: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 491

Sofocle, rispetto a quella d'Eschilo, c1 appare un im-


menso accrescimento d'efficacia drammatica. Ma ciò
non si fonda sul fatto che Sofocle ponga l'evento per
se stesso, nel senso realistico della drammaticità sha-
kespeariana, al posto della tradizionale danza corale. La
violenza, che s'impone anche al più rozzo naturalismo,
con la quale si svolge l'azione dell'Édipo, potrebbe dar
luogo a tale equivoco, e forse esso deve in buona parte
a questo le sue reiterate rappresentazioni sulle scene
odierne; ma, così considerandola, non s'intenderà mai
l'architettura Inirahilmente equilibrata della sceneg-
giatura sofoclèa. Essa non sorge dalla coerenza este-
riore degli eventi materiali, ma da una superiore logica
artistica, che, nel crescendo pieno di contrasti d'una
progressione di scene, ci fa vedere da ogni lato l'intima
natura del protagonista. Ne è esempio classico l"Elettra.
La virtù inventiva del poeta, mediante arditi espe-
dienti, crea sempre nuovi inceppi e incidenti, per far
percorrere ad Elettra nell'intimo suo tutta la scala
dei sentimenti sino alla disperazione assoluta; ma anche
nelle più 'lriolente oscillazioni del pendolo egli mantiene
il tutto in perfetto equilibrio. Quest'arte tocca il cul-
mine nella scena del riconoscimento d'Elettra ed Ore-
ste, dove mediante la voluta dissimulazione del re-
duce salvatore, che non lascia cadere il suo velo se non
a poco a poco, il dolore d'Elettra percorre tutte le gra-
dazioni dal cielo all'inferno. La drammaticità di Sofocle
è quella dei moti dell'anima, che svolge il suo intimo
ritmo nell'armonico disegno dell'azione. Essa ha la sua
sorgente nella figura umana, cui sempre mette capo,
come all'elemento ultimo e supremo. Ogni azione dram-
matica non è per Sofocle se non intima esplicazione
nel dolore dell'uomo, il quale realizza il proprio de-
stino e insieme se stesso.
Anche per questo poeta la tragedia è organo della
492 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

pm alta conoscenza, ma non è il q:>povdv in cui Eschilo


trovava la pace del cuore. È l'autoconoscenza tragica
dell'uomo, la quale approfondisce il delfico yv(;)lh aectu-
-r6v sino a penetrare la nullità larvale della forza umana
e della felicità terrena 32). Ma tale autoconoscenza ab-
braccia anche la nozione dell'indistruttibile e supera-
trice grandezza <!e1 dolore umano. Il dolore delle figure
sofoclèe è parte integrante dell'esser loro. Non mai
rappresentò il poeta in modo più impressionante e mi-
sterioso la fusione dell'uomo e del destino in un'unità
indissolubile, che nel massimo tra i suoi personaggi,
cui il suo amore lo ricondusse anche una volta, nei
suoi tardi anni. Vegliardo cieco, scacciato dalla patria,
Édipo erra mendico per il i;nondo, guidato per mano
dalla figlia Antigone, altra figura prediletta, che non
abbandona mai il poeta. Nulla è così caratteristico
dell'indole della tragicità sofoclèa, come questo suo
vivere in compagnia delle proprie creatme poetiche.
Il pensiero di ciò che accadrà d'Édipo non lo ha abban-
donato. Egli appunto, sul quale pareva essersi abbat-
tuto il fardello del dolore universale, fu sin dal primo
momento una figura di forza quasi simbo;lica: diviene
l'uomo che soffre, per eccellenza. Nel fior degli anni,
Sofocle aveva trovata una superba sodisfazione nel
nel rappresentare Édipo in mezzo all'uragano dell'an-
nichilimento. Lo aveva lasciato, sotto gli occhi dello
spettatore, nell'istante in cui egli maledice se stesso e,
disperato, desidera estinguere tutta la propria esistenza,
cosi come ha spenta di sua mano la luce dei propri
occhi. Dove la figura tragica come tale è compiuta,
il poeta tronca bruscamente il filo, non altrimenti che
nell'Elettra.

32) Cfr. le parole di Ulisse, che nelle sofferenze tragiche


del suo nemico Aiace vede la nullità dell'uomo, Ai. 125-126;
v. anche O. C. 608, e soprattutto O. T. 1186 ss.
CAP. II: L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE 493

Tanto più significativo è il fatto che Sofocle, poco


prima di morire, riprese il soggetto d'Édipo. Chi si
aspettasse da questo secondo Édipo una soluzione ÙPfi-
nitiva del problema, resterebbe certo deluso. Ma frain-
tenderebbe Sofocle, in un senso euripidèo, chi così
volesse interpretare l'appassionata autodifesa del vec-
chio Édipo, nella quale egli non cessa di dire che com-
mise senza saperlo le sue colpe 33). Né il destino, né
Édipo è assolto o accusato. Eppure il poeta sembra ve-
dere qui il dolore secondo una prospettiva più aita.
È un ultimo incontro col vecchio viandante senza posa,
poco prima ch'egli tocchi la mèta. La sua eletta na-
tura è intatta, non ostante la sventura e l'età, nella
sua energia sempre indomita 34). La sua coscienza lo
aiuta a sopportare il suo dolore, .annoso compagno in-
divisibile, che gli rimane fedele sino all'ultima ora 35).
Non v'è posto, in questa cruda pittura, per una com-
mozione sentimentale; ma il dolore rende Édipo vene-
rando. Il coro sente il suo brivido, ma più ancora la
sua elevatezza, e il re d'Atene accoglie onorevolmente
il mendico cieco, come un ospite illustre. Secondo una
sentenza divina, egli dovrà trovare in terra attica
l'estremo riposo. La morte d'Édipo è avvolta nel mi-
stero. Egli va, solo, senza guida, nel bosco, e nes-
suno più lo vede. Imperscrutabile come le vie del
dolore, lungo le quali la divinità conduce Édipo, è il
prodigio della liberazione, che l'attende alla mèta.
« Gli dèi che ti abbatterono, ora ti rialzano» 36). Occhio

33) Cfr. O. C. 203 ss., specialmente la lunga p"ijcrn;, 258 ss.


84.) o. c. 8.
35) Édipo, quando appare a Colono come un vecchio mendi-
co errante, al principio dell'ultima tragedia di Sofocle, sembra
perfettamente riconciliato colle sue lunghe sofferenze e col suo
destino; cfr. o. c. 7 <r't"epye:LV YtXP oc[ n:&.S-ocL µe: xC::. xp6voç !;uv~v
µocxpòç 1hl>&crxe:L xoct 't"Ò ye:vvocì:ov 't"phov.
36) o. c. 394.
494 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

mortale non deve vedere questo mistero: ne è parte-


cipe soltanto colui che il dolore ha consacrato. La
consacrazione del dolore lo avvic~a al divino, non è
dato dir come, e lo separa dal resto degli umani. Ora
egli riposa su1 colle di Colono, nella patria diletta del
poeta, nel bosco sempreverde delle Eumenidi, dove
tra le fronde canta l'usignolo. Piede umano non calca
quella terra, ma di là si spande sull'Attica una bene-
dizione.
CAPITOLO TERZO.

I SOFISTI

I Sofisti come fenomeno di storia della cultura. -


Nell'età di Sofocle si ha il primo slancio di un pro-
cesso spirituale d'importanza inestimabile per l'avve-
nire, del quale dovemmo già far cenno p1u sopra:
ossia l'origine . di quella che in senso stretto dicesi
cultura, cioè della « paideia». In quell'epoca soltanto,
la parola, che nel IV secolo e durante l'età ellenistica
e imperiale estese sempre più il suo significato e il suo
contenuto, venne a rifarsi alla somma areté umana;
e da « educazione dei fanciulli » - semplice signifi-
cato che ha ancora in Eschilo, dove si trova per la
prima volta 1) - divenne il compendio dell'ideale mo-
dellarsi corporale e spirituale della kalokagathfo, la
quale ora, per la prima volta con chiara consapevolezza,
include anche una formazione spirituale vera e propria.
Per Isocrate, Platone e l'età loro sussiste già quest'am-
pio nuovo significato.

1 ) Aesch. Sepi. 18. Ma vedi Pindaro fr. 198 oihoL µe: !;évov

ou8'oc1ìocijµovoc ]\foLcriiv bcoctlìe:ucrocv XÀU't"OCL 0'ij(3otL. Questo fram·


mento è una prova importante del fatto che al tempo di Pin-
daro ed Eschilo anche in Beozia la parola 7totL1ìe:6oo comprendeva
di già la cultura musicale (e, certamente, anche la ginnastica)
che ne sarà il contenuto fondamentale nell'età periclèa. Per un
terzo passo, concernente la paideia, nel poeta siciliano contempo-
raneo Epicarmo (se è autentico), v. « Paideia» III 50, n. 81.
496 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

Certo l'areté era già stata sino da principio stretta·


mente connessa con la questione dell'educazione 2).
Con lo sviluppo storico percorso dall'ideale dell'areté
umana nel corso dell'evoluzione del complesso sociale,
doveva necessariamente mutare anche la via di con·
seguirlo, e il pensiero doveva in genere appuntarsi con
insistenza verso il problema del modo d'educazione
da seguirsi all'uopo. La chiarezza fondamentale nel
porre il quesito, senza di cui sarebbe impensabile il
sorgere della singolarissima idea greca della formazione
dell'uomo, presuppone tutta quella graduale evoluzione
storica che abbiamo seguita dalla più antica conce-
zione aristocratica dell'areté sino all'ideale politico del-
l'uomo dello Stato secondo il diritto. La forma in cui
fondare e trasmettere I' areté doveva esser altra per
l'educazione aristocratica, che per il contadino esio-
deo o per il cittadino della polis, se ed in quanto per
quest'ultimo esisteva alcunché di simile~ Astrazione
fatta da Sparta, infatti, dove dai giorni di Tirteo in poi
si era formata una particolare educazione dei cittadini,
l'agoghé, che non trovava riscontro in nessun luogo
della Grecia, altrove nulla faceva Lo Stat;o che somi·
gliasse o potesse sostituire l'antica educazione aristo-
cratica quale ci mostrano l'Odissea o Teognide e Pin-
daro, e l'iniziativa privata non seguì che a poco ·a poco.
Grande svantaggio della nuova società civico-urbana
rispetto alla aristocratica era il fatto che, col nuovo
ideale dell'uomo e del cittadino 3 ), non era ancor data
un'educazione intesa a questo fine, per quanto in mas-
sima si credesse d'avere oltrepassata la concezione ari-
stocratica. L'istruzione professionale tecnica, che il pa·
dre lasciava in retaggio al figlio quando questi gli sue-

2) V. cap. Il dcl libro I.


8) V. cap. VI del libro I.
CAP. III: I SOFISTI 497

cedeva nel suo mestiere o nella sua industria, non


poteva mai surrogare l'educazione generale del corpo e
dell'animo che possedeva il xoc).Òç x&yoc06ç dell'aristo-
crazia e che si fondava su una concezione ideale com-
plessiva dell'uomo 4J. L'esigenza di una nuova educa-
zione, avente per fine l'uomo deJla polis, dovette affac-
ciarsi di buon'ora. Anche qui il nuovo Stato dovette
raccoglier la successione. Sulle orme dell'antica educa-
zione dei nobili, tenacemente attaccata al suo aristo-
cratico criterio di razza, dovette cercar di attuare la
nuova areté, che nello Stato ateniese, ad esempio, fa-
ceva d'ogni cittadino nato libero, di stirpe ateniese,
un membro consapevole della comunità statale e lo
metteva in grado di servire al bene comune. Non era
che un concetto ampliato della comunità di sangue,
quello dell'appartenenza alla stirpe, venuto a surro-
gare l'antico Stato aristocratico famigliare. D'altro fon-
damento, che non fosse questo, non si trattava. Per
quanto già fortemente si erga in quell'epoca l'indivi-
duo, sarebbe tuttavia stato impensabile il fondare la
sua educazione su altro che sulla comunione della
stirpe e dello Stato. Per questo assioma supremo d'ogni
educazione umana è esemplare il costituirsi della paideia
greca. Lo scopo prefisso era il superamento del privi-
legio educativo dell'antica nobiltà, che riteneva l'areté
accessibile a coloro soltanto che l'hanno nel loro san-
gue divino. Ciò non poteva riuscir difficile a un pen-
siero razionale coerente, quale veniva sempre più affer-
mandosi in quel periodo. Pareva non esservi che una
via la quale conducesse a quella mèta, e cioè la forma-
zione consapevole dello spirito, alla cui forza illimitata
la nuova età era portata. a credere. Poco li turbava
l'altezzosa ironia di Pindaro verso gli «addottrinati» 5).
') Cfr. p. 25 ss.
•) Cfr. p. 396.
498 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

L'areté politica non poteva né doveva dipendere dalla


nobiltà del sangue., se l'assorbimento delle masse nello
Stato, che appariva infatti irrefrenabile, non aveva ad
essere una falsa strada. E se lo Stato moderno della
polis aveva fatta propria l'areté corporale della no-
biltà adottando la ginnastica, perché non sarebbe stato
egualmente possibile ottenere. per via spirituale, me-
diante una metodica educazione, le innegabili d?ti ·ere-
ditarie di comando di quel ceto ?
Così lo Stato del V secolo diviene, di necessità
storica, il punto di partenza del grande movimento
educativo che dà precipuamente ad esso e al secolo
seguente la loro impronta e dal quale ha origine l'idea
occidentale della cultura. Questa, secondo l'intende-
vano i Greci, è interamente educativo-politica. Dalla
più profonda necessità vitale dello Stato trasse origine
l'idea dell'educazione, la quale riconosce . nel sapere,
la nuova grande potenza spirituale di quell'età, una
forza plasmatrice dell'uGIDO e la pone al servigio di
questo compito. E non importa, per il nostro atteggia-
mento, se noi approviamo in se stessa la costituzione
democratica dello Stato attico, dalla quale sorsero
questi problemi nel secolo V. Senza dubbio la fase
dell'iniziazione delle masse alla politica, che è la causa
e uno dej caratteri della democrazia, è presupposto
storico necessario a che si acquisti coscienza degli
eterni problemi che il pensiero greco, con profonda
riflessione, in quella fase del proprio sviluppo si è
proposti ed ha posti alla posterità. Anche per noi essi
sono sorti e ridiventati attuali attraverso il medesimo
processo. Problemi come quello dell'educazione del-
l'uomo politico e della formazione dei dirigenti, della
libertà e dell'autorità, non sorgono se non con questo
gradino di sviluppo spirituale e qui soltanto acquistano
tutta la loro urgenza e la pienezza del loro significato.
CAP. m: I SOFISTI 499

Nulla hanno a che fare con primitive forme storiche


d'esistenza, con una vita in orde e tribù, cui è ancora
ignota ogni individualizzazione dello spirito amano.
Nessuno dei problemi sorti sul terreno di quella forma
statale del V secolo si limita quindi nel suo significato
all'àmhito della democrazia greca dello Stato-città. Sono
i problemi dello Stato, in senso universale, assoluta-
mente. Lo prova il fatto che il pensiero dei grandi
educatori e filosofi dello Stato greco, movendo dalle
condizioni della democrazia, attraverso le esperienze
fatte in essa giunge ben presto a soluzioni che oltre-
passano arditamente quella data forma statale e che
sono d'inesauribile fecondità per ogni situazione con-
simile.
Il cammino del movimento educativo del quale
iniziamo ora l'esame, partendo dall'antica cultura ari-
stocratica, al termine di un'ampia curva, con Platone,
Isocrate e Senofonte, doveva condurre a riallacciarsi
all'antica tradizione aristocratica e all'antica idea del-
l'areté e al loro rinnovamento su UD fondamento spi-
ritualizzato. Ma il principio e il mezzo del secolo V
ne sono ancora ben lontani. Qui, all'opposto, si trattava
anzitutto di spezzare l'angustia delle vecchie idee: la
loro premessa mitica d'un privilegio del sangue, che
invero non si poteva più dimostrare giustificato e vero
se non là dove reggevasi quale superiorità spirituale e
forza morale, quale crocp(oc e atxlXtOO'UV"I). Senofane mo-
stra quanto fosse fortemente legato all'elemento poli-
tico sin da principio l'introdursi della « forza spi-
rituale» nel quadro dell'areté, e come fosse motivato
col buon ordine e col benessere della comunità
statale 6). Anche in Eraclito, sebbene in altro senso,
la legge è legata al « sapere», cui deve la propria ori-

s) Cfr. p. 324.
500 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO AITICO

gine, e il detentore terreno di tale divino sapere ri-


vendica una situazione speciale nella polis o viene in
urto con essa 7). Ma appunto questi esempi capitali
del sorgere del nuovo problema - Stato e spirito, -
presupposto dell'esistenza dei Sofisti, mostrano con piena
chiarezza come il superamento della vecchia aristo-
crazia del sangue e delle sue pretese, per parte dello
spirito, crei immediatamente un nuovo contrasto al
posto del vecchio. Ed è il rapporto della forte perso-
nalità intellettuale con la comunità, che travagliò sino
alla fine dello Stato-polis tutti i pensatori, senza ch'essi
ne venissero a capo. Nel caso di Pericle, tale problema
trovò una soluzione altrettanto felice per l'individuo
quanto per la collettività.
Pure, il destarsi dell'individualità spirituale nova-
trice e della sua incomoda consapevolezza del proprio
valore non avrebbe forse dato l'avvio, di per se stesso,
ad un movimento culturale così forte come la sofistica,
la quale affaccia per la prima volta in un vasto ambiente
l'esigenza di fondare l'areté sul sapere e ne compenetra
il pubblico, se il pubblico stesso non avesse risentito
il bisoguo d'ampliare l'orizzonte civico ~ di dare al
singolo un'educazione spirituale. Questo bisogno si fa
sempre più appariscente dacché Atene, dopo le guerre
Persiane, si è affacciata alla ribalta internazionale, in
quanto entità economica, commerciale, statale. Atene
dovette la propria salvezza ad un sol uomo e alla sua
superiorità spirituale. Se anche non lo tollerò a lungo
dopo la vittoria, perché la sua autorità non era concilia-
bile con l'arcaica «isonomia» ed era sentita come una
tirannide appena velata, pure la logica degli eventi im-
poneva di rendersi conto che la conservazione dell'or-
dinamento democratico dello Stato diveniva sempre

7) V. p. 337 s.
CAP. III: I SOFISTI 501

più chiaramente subordinata al problema della ade-


guata personalità del capo. Era questo in realtà il pro-
blema dei problemi appunto per la democrazia, la
quale doveva portare se stessa all'assurdo, non appena
volle esser qualcosa di più che la forma rigorosamente
regolata dell'esercizio della politica e si trasformò in
vero dominio della massa sullo Stato.
Il fine del movimento educativo che i Sofisti su-
scitarono fu, sin da principio, non l'educazione del
popolo, ma dei capi. Non era, in fondo, che il vecchio
problema dell'aristocrazia, sotto nuova forma. Certa-
mente in nessun luogo, come in Atene, si offrivano ad
ognun,o, anche al semplice cittadino, tante possibilità
d'acquistare i fondamenti d'una cultura elementare,
anche senza che lo Stato assumesse la direzione ddla
scuola. Ma i Sofisti non si rivolgono, sin da principio,
che ad un'élite. A loro non ricorre se non chi vuole
educarsi alla politica e dirigere un giorno la sua città.
Questi, per sodisfare le esigenze dei tempi, non dovrà
soltanto realizzare, come Aristide, l'antico ideale po·
·litico della giustizia, quale si può pretendere da qual·
siasi cittadino. Egli non deve soltanto osservare le
leggi 8), ma con le leggi dirigere egli stesso lo Stato,
e per questo, oltre all'esperienza, sempre indispensa-
bile, cui non mena che l'immergersi nella pratica della
vita politica, gli occorre una generale comprensione
della natura delle cose umane. Certo, le doti capitali
dell'uomo di Stato non si possono acquistare: l'energia,
la presenza di spirito e la preveggenza, che Tucidide
soprattutto loda in Temistocle 9), sono innate. Ma il
. dono della parola pronta e persuasiva può essere svi-
luppato. Già presso i nobili geronti, che formano il

B) Cfr. p. 206, n. 23.


•) Thuc. I 138, 3.
502 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

Consiglio dello Stato nell'epos omerico, essa è la virtù


propria dei governanti e anche in tutto il periodo po-
steriore conserva tale dignità. Esiodo ravvisa in essa
una forza che le Muse conferiscono al re e mercé la
quale egli dirige con una dolce pressione ogni assem-
blea 10). Ecco l'eloquenza già equiparata all'inspirazione
del poeta per parte delle Muse, certo ponendo mente
anzitutto alla capacità giudicativa della parola che de-
cide e motiva. Nello Stato democratico, con le sue as-
semblee popolari e la sua libertà di parola, la dote d'ora-
tore divenne più che mai indispensabile, divenne anzi
il vero timone nelle mani dell'uomo di Stato. L'età
classica chiama addirittura l'uomo politico « retore».
Il vocabolo non ha ancora il significato meramente
formale dei tempi più recenti, ma include anche l'ele-
mento sostanziale. Che l'unico contenuto d'ogni pub-
blica eloquenza sia lo Stato e i suoi affari, è in quel
tempo cosa ovvia.
Di qui doveva prender le mosse qualsiasi insegna-
mento inteso a formare uomini politici. Esso diventa,
per sua necessità interna, una scuola dell'oratore, e
qui si può intendere, secondo la parola ,greca logos e
il suo valore, un grado assai vario di compenetrazione
degli elementi formale e sostanziale. Secondo questo
· criterio diventa comprensibile e significativo il for-
marsi di tutt'una classe di educatori, la quale si offre
pubblicamente d'insegnare per danaro la « virtù » -
come un tempo si traduceva 11). È colpa principalmente
di questa errata modernizzazione del concetto greco
dell'areté, se la pretesa dei Sofisti o maestri di sapienza,
come i contemporanei e ben presto essi medesimi chia-
marono la loro professione, appare· spesso all'uomo mo-

10) Hes. Theog. 81 ss.


11) Sulla «professione », o epiinghelma dei Sofisti, v. « Paideia »
II 184.
CM'· III: I SOFISTI 503

derno una presunzione radicalmente stolta ed ingenua.


Questo sciocco equivoco dilegua non appena restituiamo
alla parola areté il significato, ovvio nell'età classica,
di areté politica, e pensiamo anzitutto alle capacità in-
tellettuali e oratorie che, nella nuova situazione del se-
colo V, dovevano apparire suo elemento decisivo. È na-
turale per noi, rivolgendo lo sguardo ai Sofisti, vederli
sin da principio con l'occhio scettico di Platone, per il
quale il dubbio socratico circa « l'apprendibilità della
virtù » 12) è l'inizio d'ogni conoscenza filosofiça. Ma è
storicamente ingiusto, e ostacola ogni vera intelligenza
di quell'epoca, importantissima per la storia dell'umana
cultura, il caricarla in anticipo dei problemi d'una fase
più evoluta della consapevolezza filosofica. Nella storia
delle idee, i Sofisti sono un fenomeno così necessario
come Socrate o Platone; questi, anzi, senza di quelli
sono affatto impensabili.
L'impresa d'insegnare l'areté politica è espressione
diretta del profondo mutamento di struttura avvenuto
nella sostanza dello Stato. L'immane rivolgimento che
lo Stato attico subì col Sll;O ingresso nella politica in
grande stile, è stato descritto da Tucidide con geniale
penetrazione. Il trapasso dalla condizione statica del-
l'arcaico Stato-città alla forma dinamica dell'imperia-
lismo periclèo recò seco la più forte tensione e la gara
di tutte le forze, all'interno come verso l'esterno. La
sistemazione razionale dell'educazione politica non è
che un caso particolare di quella della vita intera, più
che mai orientata verso l'efficienza e il successo. Ciò non
poteva restare senza influenza sull'apprezzamento delle
qualità dell'uomo. L'elemento etico, che «s'intende da
sé», passò automaticamente in seconda linea rispetto
all'intellettuale, che venne ad essere in tutto premi-

11) V. << Paideia » II 97 s., 189, ecc.


504 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

nente. L'estimazione del sapere e dell'intelletto, quale


era stata rappresentata appena cinquant'anni prima da
Senofane, propugnatore solitario d'un nuovo tipo umano,
divenne ora generale, specialmente nella vita degli af-
fari e della politica. È il tempo in cui l'ideale dell'areté
umana accoglie in sé tutti quei valori che l'etica aristo-
telica, più tardi, riassumerà sotto la qualifica di pregi
intellettuali, 8LocV07J't"Lxocl &.pe:-rocl, cercando di combi-
narli coi valori etici in un'unità superiore 13). Certo,
questo problema era ancora estraneo affatto all'età dei
Sofisti. II lato intellettuale dell'uomo vi si affacciava
per la prima volta imperiosamente, e ne sorgevano quei
compiti educativi che i Sofisti cercavano di assolvere.
Cosi soltanto si spiega ch'essi credessero di poter inse-
gnare l'areté. Sotto un certo rispetto, dunque, in questo
presupposto pedagogico avevano altrettanto ragiohe
quanto Socrate col suo dubbio radicale, perché in fondo
intendevano tutt'altra cosa.
La finalità dell'educazione sofistica quale cultura
dello spirito include una straordinaria molteplicità di
mezzi e metodi d'insegnamento. Possiamo tuttavia ten-
tar di dedurre tale varietà dal criterio ~voco della
cultura dello spirito, tenendo presente il concetto dello
spirito nella molteplicità dei suoi aspetti possibili. Lo
spirito è, da un lato, l'organo col qua.le l'uomo accoglie
in sé il mondo degli oggetti, dunque pieno di cose.
Se si astrae invece da ogni contenuto oggettivo (ed è
questa la veduta nuova di quell'età), nemmeno allora
lo spirito è vuoto, anzi allora appunto appare l'intima
struttura che gli è propria. È questo lo spirito quale
principio formale. Secondo queste due vedute, si tro-
vano nei Sofisti due modi d'educazione dello spirito
radicalmente diversi: la trasmissione d'un sapere enc1-

13) V. specialmente Arist. Eth. Nic. VI.


CAP. m: I SOFISTI 505

clopedico e la cultura formale dello spinto, coi loro


campi differenziati 14). È chiaro come l'opposizione di
due metodi d'educazione non trovi la sua unità che nel
concetto superiore della cultura dello spirito. Ambedue
i tipi d'istruzione si sono mantenuti, come principio edu-
cativo, sino al giorno d'oggi, per lo più in forma di
compromesso e non in assoluta unilateralità. Già presso
i Sofisti stessi non fu, in gran parte, diversamente.
Ma anche l'unione personale dei due tipi non deve
illuderci che non si tratti di due tipi d'educazione dello
spirito radicalmente diversi. Oltre alla cultiira intel-
lettuale meramente formale v'è tuttavia presso i Sofisti
anche una cultura formativa in senso superiore, la
quale non dipende dalla struttura dell'intelletto e della
lingua, ma dalla totalità delle forze spirituali. Prota-
gora ne è il rappresentante. Oltre alla grammatica,
alla retorica e alla dialettica essa apprezza soprattutto
la poesia e la musica quali forze plasmatrici dell'anima.
La radice di questo terzo tipo d'educazione sofistica
sta nell'elemento politico ed etico 15). Esso si distingue
dal tipo formale e dall'enciclopedico in quanto non
prende astrattamente l'uomo per se stesso, ma lo inse-
risce quale membro nella comunità. L'educazione lo
pone cosi in una stabile relazione col mondo dei valori
e inquadra la cultura dello spirito nel complesso del·
l'areté umana. Anche questa forma è cultura dello
spirito; solo che qui lo spirito non è inteso in modo

14) Il più enciclopedico ideale di educazione fu personificato


da Ippia di Elide. Prodico di Ceo sembra aver coltivato gli studi
grammaticali e linguistici, in particolare la sua famosa sinoni-
nùca lodata e nello stesso tempo parodiata da Socrate nel Pro·
tagora di Platone 339e-34le, 358a. Prodico aveva in comune con
Protagora questo interesse per i fatti formali.
15) Pl. Prot. 325e, ss. In 318e Platone fa segnare allo stesso
Protagora una distinzione netta fra il suo ideale etico e politico
di educazione e l'enciclopedismo matematico di lppia di Elide.
506 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

meramente intellettuale-formale o intellettuale-concreto,


bensì nel suo essere socialmente condizionato.
È dunque ad ogni modo un giudizio troppo este-
riore quello che si è ·pronunciato col dire 1 6) che I' ele-
mento nuovo e insieme coordinatore è, nei Sofisti,
l'ideale culturale della retorica, l'o:ù Myo:Lv, perché co-
mune a tutti i rappresentanti della sofistica, laddove
essi differivano nell'apprezzamento delle cose, essendovi
anche Sofisti che sono puri retori, come Gorgia, e non
insegnavano null'altro. Comune a tutti è piuttosto
l'essere maestri d'areté politica 17) e il volerla conseguire
mediante un'intensificazione della cultura dello spirito,
qualunque contenuto le attribuiscano. È oggetto di
sempre nuovo stupore per noi la ricchezza di nuove
e durature conoscenze pedagogiche di cui il mondo va
debitore ai Sofisti. Sono essi i creatori della cultura
intellettuale e dell'arte educativa ad essa indirizzata.
Ed è. insieme chiaro che la nuova cultlira, appunto
là dove essa oltrepassava l'elemento formale e l'ele-
mento concreto, e là dove la preparazione alla politica
direttiva più si addentrava nei problemi della mora-
lità e dello Stato, più che mai correva pepcolo di are-
narsi a mezza via, se non si basava sull'indagine ge-
nuina e sul pensiero filosofico approfondito, che cerca
la verità per se stessa. Movendo di qui, Platone ed
Aristotele scardinarono poi tutto il sistema dell'edu-
cazione sofistica 18).
Questo ci conduce al problema del posto spettante
ai Sofisti nella storia della filosofi.a e della scienza greca.

16) H. GoMPERZ, Sophi&tik und Rhetorik: das Bildungsìdeal


des e:i5 Mye:Lv in seinem Verhiiltnis rur Philosophie des .fUnften
Jahrhunderts (Lipsia 1912).
1 7) PL Prot. 318e ss., .Meno 9la se. e altrove.
18) V. i capp. «Paideia sofistica o socratica?» in «Paideia»
Il 177;«L'edttcatore come uomo politico» ib. 211 ss.; «La Re-
pubblica» ib. p. 465 e passim.
CAP. III: I SOFISTI 507

Esso invero fu sempre singolarmente ambiguo, seb-


bene sia tradizionalissimo e passi per ovvio il consi-
derarli quale anello organico dello sviluppo filosofico,
come fanno le nostre storie della filosofia greca. A Pla-
tone non giova qui richiamarsi, giacché ciò che lo
conduce a sempre nuove discussioni coi Sofisti è la
loro pretesa d'essere maestri d'areté, quindi precisa-
mente il loro legame con la vita e con la pratica, e
non la loro scienza. Unica eccezione, la critica della
teoria del conoscere di Protagora nel Teeteto di
Platone 19). Qui esiste in realtà un legame tra la sofi-
stica e la filosofia, ma si limita 3 quest'unico rappre-
sentante, ed il ponte è assai stretto. La storia de1la
filosofia, data da Aristotele nella Metafisica, esclude
i Sofisti. Le moderne storie della filosofia sogliono rav-
visare in essi i fondatori del soggettivismo o relati-
vismo filosofico. Ma gli spunti teorici che si trovano in
Protagora non giustificano siffatta generalizzazione, ed
è addirittura una deformazione della prospettiva storica
il porre i maestri dell' areté accanto a pensatori cosmici
dello stampo d' Anassimandro, Parmenide od Eraclito.
Si mostra nella cosmologia dei Milesii quanto lon-
tano dal puro bisogno speculativo della « istorie » ionica
fosse in origine l'idea dell'uomo, o, più ancora, d'una
pratica influenza educativa. Movendo di là abbiamo
indagato come la considerazione del cosmo si avvicini
passo passo al problema dell'uomo, che si affaccia sem-
pre più imperioso. L'ardito tentativo di Senofane, di
fondare l'areté dell'uomo sulla conoscenza razionale di
Dio e del mondo, pone già questo in intima relazione
con l'ideale educativo, e per un momento pare che la
filosofia della natura, accolta nella poesia, debba con-
seguire il predominio spirituale sulla cultura e sulla

19) PL Theaet. 152a.


508 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

vita della nazione 20 ). Ma Senofane rimase fenomeno


isolato, per quanto la questione dell'essenza, della mi$-
sione e del valore dell'uomo, una volta posta, non do-
vesse più dar tregua alla filosofia. Certo, solo quel
grande pensatore solitario che fu Eraclito seppe effet-
tuare l'inserzione dell'uomo nel regolare organamento
del mondo secondo un principio unitario 21), ed Eraclito
non è un fisico. Gli eredi della scuola di Mileto nel
V secolo, nelle cui mani lo studio della natura assume
r.empre più carattere di scienza speciale, o esclusero
affatto l'uomo dal campo del proprio pensiero, o, se
avevano profondità filosofica, affrontarono ciascuno a
suo modo il problema. In Anassagora di Clazomene la
tendenza antropocentrica dell'epoca irrompe nella co-
smogonia; egli pone al principio dell'essere lo spirito
quale forza ordinatrice e direttiva, ma del rimanente
svolge senza lacune la filosofia meccanica della natura:
ad una compenetrazione di natura ·e spirito egli non
giunge 22 ). Empedocle d'Agrigento è un centauro filoso-
fico; nella sua anima duplice, la fisica elementare ionica
vive in singolare alleanza con la religione or.fica della
redenzione. L'uomo, creatura irredenta e trastullo deJ-
1' eterno divenire e trapassare fisico, è da e~sa condotto
per una mistica via dall'infausto circolo degli elementi,
ClÙ è incatenato dal destino, alla purezza originaria e
divina della vita dell'anima 23). Così il mondo interiore

20)
V. cap. IX del libro I: « Il pensiero filosofico ».
Cfr. p. 338 ss.
2l)
2 2) Per que&ta definizione della posizione intermedia di Anas-
sagora tra gli antichi filosofi naturalisti e Socrate, v. Pl. Phaed. 97h.
23 ) Anche nel poema Sulla natitra, Empedocle, che era nn me-
dico egli stesso, pose più attenzione alla struttura del corpo umano
di quanto avessero fatto i pensatori antecedenti (cfr. ETTORE
BIGNONE, Empedocle, Torino 1916, p. 242). Ma l'altro poema,
Purificazioni, mostra che questo non è tntto Empedocle e che
egli era molto più profondamente preso dal problema della mente
umana che da quello del corpo e della costituzione :fisica. Cfr.
BIGNONE, op. cit. p. 113 ss.
CAP. III: I SOFISTI 509

dell'uomo, che di fronte al prepotere delle forze co-


smiche reclama sempre più instantemente il proprio
diritto, mantiene in ciascuno di questi pensatori per
diversa via la propria autonomia. Persino un pensa-
tore naturalista così rigoroso come Democrito non può
più lasciar da parte il problema dell'uomo e del mondo
morale che gli è proprio. Egli evita d'altra parte gli
espedienti, in parte singolari, cui questo problema
aveva indotti i suoi precursori immediati, e pre-
ferisce distinguere nettamente tra filosofia della na-
tura ed etica sapienza educativa, dandola non per una
scienza teoretica, ma nella forma tradizionale della pa-
renesi. In essa l'eredità dell'antica poesia sentenziosa
si mescola in maniera singolare con lo spirito naturali-
stico-razionale dello scienziato moderno 24). Tutti questi
sono sintomi significativi dell'importanza crescente del
problema che l'uomo e la sua esistenza posero alla
filosofia. Ma il pensiero educativo dei Sofisti non trae
di qui la sua origine 25).
Il progressivo interessarsi della filosofia all'uomo,
che stringe sempre più da presso il suo oggetto, è nuova
prova della necessità storica del sorgere dei Sofisti,
ma il bisogno ch'essi sodisfanno non è scientifico-teo-
rico, bensì affatto pratico. Ed è questa la ragione pro-
fonda per la quale essi esercitarono in Atene un influsso
così profondo, laddove la scienza della scuola fisica
ionica, a lungo andare, non poté mettervi radice. Senza
·simpatia per tale studio remoto dalla vita, i Sofisti

24) Cfr. PAUL NATORP, Die Ethika des Demokrit (l\farhurg


1893); HERMANN LANGERnEcK, 6.o:a:u: EIIIPTI:MIH in
« Neue Philologische Untersuchungen», hrsg v. W. Jaeger, voi. X
(Berlino 1935).
25 ) La sola eccezione, per questo rispetto è Democrito, v. LAN-
GERBECK, op. cit. p. 67 ss. Egli si accosta di più al modo dei
Sofisti di affrontare teoricamente il problema della paideia e
della natura umana.
510 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

si riallacciano alla tradizione educativa dei poeti, ad


Omero ed Esiodo, a Solone e Teognide, a Simonide e
a Pindaro. Soltanto inserendo i Sofisti nell'evoluzione
della cultura greca, la cui linea è segnata da questi
nomi, ne appare manifesta la posizione storica 26). Già
in Simonide, Teognide e Pindaro il problema dell'areté
e della possibilità d'insegnarla era penetrato nella poesia,
la quale sino allora aveva semplicemente posto e pro-
clamato il suo ideale umano 27). Essa diviene ora campo
d'una molteplice discussione intorno all'educazione. Si-
monide, in fondo, è già un tipico sofista 28). I Sofisti
fanno l'ultimo passo. Traducono i varii generi di poesia
parenetica, nella. quale l'elemento pedagogico emer-
geva più spiccato,. nella nuova prosa d'arte, nella quale
sono maestri, venendo così studiatamente a gara con
la poesia, così nella forma come nel contenuto 29). Nel
contempo, questo farsi prosa del contenuto educativo
della poesia è un segno della sua definitiva razionaliz-
zazione. Quali eredi della missione educativa della
poesia, i Sofisti rivolgono la propria attività anche a
questa. Sono i primi esegeti scolastici delle opere dei
grandi poeti, cui prediligono riallacciare i propri am-
maestramenti. Non è il caso d'aspettarse~e una inter-
pretazione nel senso nostro: stanno di fronte ai poeti
con immediatezza, fuori del tempo, introducendoli in-
genuamente nel presente, come mostra in modo dcli-

26 ) Pl. Prot. 316d presenta il grande sofista come perfet-


tamente conscio di questa continuità. Protagora, certo, qui
esagera e parla dei poeti dcl passato come di un gruppo di antichi
Sofisti, predecessori suoi. Ma, senza dubbio, c'è molto di storica-
mente vero in questo presentare i Sofisti come eredi della grande
tradizione educativa. Isocrate pure, che era un autentico scolaro
dei Sofisti, chiama (Ad Nic. 43) Esiodo, Focilide e Teognide, suoi
predecessori nel!' arte del discorso parenetico.
27) V. p. 370 ss.; p. 386 ss.
26) PL Pro!. 339a.
19 ) Cfr. il mio 1Yrtaios (<< Sitz. Ber!. Akad. » 1932) p. 564.

V. anche « Paideia » III 145 s., 17 8 ss.


CAP. m: I SOFISTI 511

zioso il Protagora di Platone 30). La fredda consape-


volezza intellettuale del fine, propria di tutta quell'età,
non si rivela mai più forte né meno felice, che nella
concezione pedagogica della poesia. Omero è per i
Sofisti un'enciclopedia di tutto il sapere umano, dal-
l'arte di costruire i carri sino alla strategia, e una mi-
niera di sagge norme di vita 31). Il pregio d'ammaestra-
mento eroico dell'epos o della tragedia è inteso in ma-
niera tangibilmente utilitaria.
Non pertanto, i Sofisti non sono meri epigoni.
Sono compresi d'un complesso molteplice di nuovi pro-
blemi. Sono tanto influenzati così dal pensiero razio-
nale dell'età loro circa temi inerenti alla morale ed
allo Stato, come dalle dottrine dei fisici, da suscitare
intorno a sé un'atmosfera di multiforme cultura, quale
nemmeno l'età di Pisistrato aveva conosciuta di così
chiara consapevolezza, di cosi zampillante vivacità e
sensibile comunicativa. L'orgoglio intellettuale di Se-
nofane è inseparabile dal nuovo tipo; Platone non
cessa di farne oggetto di parodia e di motteggio, nelle
sue forme a~sai svariate, dalla dignità grottescamente
presuntuosa sino alla meschina vanità. Tutto ciò fa
pensare ai letterati del Rinascimento, e vi armonizza
anche l'indipendenza, il cosmopolitismo e la libertà di
mosse che porta i Sofisti per il mondo. Ippia d'Elide,
esperto in tutti i campi dello scibile e che ha appreso
t:utte le arti manuali, che non porta indosso un indu-
mento né un ornamento che non abbia fabbricato di
sua mano, è il perfetto «uomo universale» 32). Anche
negli altri è impossibile ridurre sotto uno qualsiasi dei

30 ) Proi. 339a ss. Socrate dà un altro esempio di questo atteg·


giamento nella Repubblica 33le ss.
31 ) PI. Resp. 598d descrive questo tipo di spiegazione sofistica
di Omero, evidentemente con qualche esempio specifico in mente.
V. « Paideia » II 628 s. con le note.
BI) Fl. Hipp. Min. 368b.
512 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

concetti tradizionali tale brillante mescolanza di filo-


logo e retore, di pedagogo e letterato. Certo non solo
per l'insegnamento che impartiscono, ma per tutta la
seduzione intellettuale e psicologica del loro tipo mo-
derno, i Sofisti, in ogni città dove rapp_!'.M.e;ntino per
qualche tempo la propria parte, sono /'6spi~; cari dei
ricchi e dei potenti, quali somme celebntà dello spirito
greco. Anche in ciò sono i veri successori dei poeti pa-
rassiti, che abbiamo trovati,--~~n-;--fi~~- def secolo VI,
alle corti dei tiranni e nelle case dei ricchi aristocra-
tici 33). La loro esistenza si fonda esclusivamente sulla
loro importanza intellettuale .. Dato il loro perpetuo
vagare, non possono avere una situazione stabile di
cittadini. Il fatto stesso che una vita cosi sradicata
fosse possibile nella Grecia di quell'epoca, è certo la
cosa più singolare, ed è segno certo del sorgere d'una
forma di cultura del tutto nuova, individualistica nel
suo nucleo più profondo, per quanto discorra di edu-
cazione orientata verso la comunità e della virtù del-
l'ottimo cittadino. I Sofisti sono di fatto le individua-
lità più spiccate di un'età già tendente in genere all'in-
dividualismo. Perciò meritavano realmente, d'essere am-
mirati dai contemporanei quali genuini rappresentanti
dello spirito del se~olo. Anche il fatto che la cultura
dia da vivere, è UD segno dei tempi. Essa è « impor-
tata» come una merce sul mercato e messa in com-
mercio 34). In questo maligno paragone di Platone v'è
qualche cosa di perfettamente giusti.tì.cato; basta non
prenderlo quale critica morale mossa ai Sofisti e alla
mentalità personale, ma quale sintomo spirituale. Per
la « sociologia del sapere » i Sofisti sono UD capitolo
inesauribile e tutt'altro che sfruttato.

33 ) V. p. 411 ss. Sui Sofisti e le loro relazioni con la società


e coi ricchi, v. « Paideia » II 183.
34) PL Proi. 313c.
CAP. lii: I SOFISTI 513

Tutto sommato questi uomini nuovi rappresentano


un fenomeno di primissimo ordine nella storia della
cultura. Per mezzo loro la paideia, nel senso di chiara
idea e teoria della cultura, si è affacciata al mondo
ed è stata .collocata su UD fondamento razionale. In
questo senso debbono esser considerati tappa importante
dello sviluppo dell'umanismo, sebbene questo non tro-
vasse la sua forma più alta e più vera che nella lotta
coi Sofisti e ne) loro superamento ad opera di Pla-
tone 35). Questo carattere di provvisorietà e d'incom-
piutezza resta loro per sempre.
La sofistica non è UD movimento scientifico, bensì
una sommersione della scienza (nel senso dell'antica
fisica e « historie » degli Ionici) per parte degli interessi,
diversamente orientati, della vita e soprattutto per
parte dei problemi pedagogici e sociali, che risulta-
vano dalla trasformazione delle condizioni economiche
e politiche. Il movimento, dunque, dapprima agisce
addirittura nel senso di scacciare la scienza; così come
agì, in tempi recenti, sulla vecchia scienza la marea
di pedagogia, sociologia e giornalismo; Ma la sofistica,
compiendo la trasposizione dell'antica tradizione edu-
cativa, quale era incarnata soprattutto nella poesia da
Omero in poi, nel linguaggio e nel modo di pensare
della nuova epoca razionalistica, e dando consapevo-

Bi) Ci sono studiosi che pensano che i Sofisti non solo siano
i fondatori dell'umanesimo, ma che anche lo abbiano portato
a perfezione, e, insomma, vorrebbero proporceli a modello. La
nostra opinione su questo punto dipende dall'atteggiamento che
abbiamo di fronte alla filosofia. in quanto realmente si sviluppò
dal conflitto col tipo solistico di educazione, alla filosofia. spe-
cialmente, di Socrate, Platone e· Aristotele. Il conflitto nacque
sul problema del valore supremo da cui dipende, secondo la «filo-
sofia» greca, l'educazione umana. V. il mio Humanism and Theo-
logy (Aquinas Lecture 1943, M:arquette Univ. Press) 38 ss. in
cui ho distinte due forme fondamentali di umanesimo, tr&. ioro
opposte, quella dei Sofisti e quella dei filosofi (Socrate, Platone,
Aristotele). Sull'umanismo di Protagora v. p. 516.
514 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

lezza teorica al concetto di cultura, conduce all'esten·


s10ne del campo della scienza ionica dal lato etico-
sociale e prepara la via ad una vera filosofia politico-
etica accanto e al disopra della scienza della natura 36).
L'opera dei Sofisti ebbe la maggior durata nel campo
formale. Ma contro la retorica doveva sorgere ben pre-
sto un tremendo avversario e un forte concorrente nel-
l'elemento scientifico che se ne staccò rivendicando il
proprio diritto. Così la cultura sofistica, appunto nella
sua poliedricità, celava il germe della battaglia cultu-
rale dei secoli posterio,ri, la battaglia tra la filosofia
e la retorica.

Le origini della pedagogia e dell'ideale della cultura.


- I Sofisti sono stati detti i fondatori della scienza
dell'educazione. In realtà essi hanno posto le fonda-
menta della pedagogia, e la cultura intellettuale segue
tuttora in gran parte le medesime vie 37). · Ma è que-
stione ancor oggi indecisa se la pedagogia sia una scienza
o un'arte, e i Sofisti non chiamarono scienza, ma techne
la loro arte e teoria dell'educazione. Circa Protagora
siamo assai informati, per mezzo di Platone, ché la
descrizione ch'egli fa del suo modo di c~ntenersi in
pubblico, ad onta della sua ironica caricatura, deve
darne in sostanza un quadro fedele. Il sofista qualifica
la sua professione « techne politica », poiché insegna
l'areté politica 38). La tecnicizzazione dell'educazione
non sembra che un caso particolare della tendenza ge-
nerale dell'epoca a risolvere la vita intera in una serie

36 ) PL Hipp. Maj. 218c rileva la distinzione fra la tendenza


pratica dei Sofisti e le tendenze teoriche degli antichi filosofi e
sapienti. ..
. 37) Cfr. A. BusSE, Die Anfiinge der Erziehungsioissenschaft
(« Neuct Jahrbiicher» XXVI, 1910) 469 ss.; C. P. GuNNING,
De sophisti& Graeciae praeceptoribus (Amsterdam 1915).
S.) PI. Prot. 319a.
CAP. m: I SOFISTI 515

di specialità opportunamente costruite e teoricamente


fondate, che procurano un sapere concreto trasmissi-
bile. Troviamo specialisti e trattati speciali per Le
scienze matematiche, per la medicina, la ginnastica,
la teoria della musica, l'arte scenica, ecc. Persino gli
artisti come Policleto incominciano a scrivere trattati.
I Sofisti scorgono poi nella propria arte il corona-
mento di tutte le arti. Nel mito dell'origine della ci-
viltà 39), che Platone fa esporre dal suo Protagora per
illustrare natura e posizione della sua techne, il sofista
distingue due gradi di sviluppo. Evidentemente essi
non sono concepiti quali tappe storiche staccate nel
tempo: la loro successione non è che la forma in cui
il mito rappresenta l'importanza e la necessità dell'edu-
cazione superiore sofistica. Primo grado è la civiltà
tecnica. Protagora, seguendo Eschilo, la chiama il
dono di Prometeo, che gli uomini ricevettero col fuoco.
Non ostante questo possesso essi sarebbero stati con-
dannati a misera :fine, giacché si distruggevano tra
Loro in lotte tremende, se Zeus non avesse loro confe-
rito il dono del diritto, che li rese capaci di fondare
lo Stato e la comunità. Non è chiaro se Protagora
tolga anche questo tratto da Eschilo, cioè dalla parte
perduta della trilogia prometeica, o se lo abbia preso
da Esiodo 40), che per primo esalta il diritto quale dono
di Zeus agli uomini, onde essi si distinguono dalle be-
stie che si divorano tra di loro. Originale è soltanto
l'ulteriore sviluppo che dà· Protagora. Laddove il dono
di Prometeo, il sapere tecnico.; non è dato che agli
specialisti, Zeus ha instillato il senso del giusto e della
legge a tutti gli uomini, ché altrimenti lo Stato non
potrebbe sussistere. Ma v'è anche un grado superiore

18) ib. 320c 11.


'°) Bes. Opp. 276.
516 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

d'intendimento dei fondamenti del diritto e dello Stato,


che è insegnato dalla techne politica dei Sofisti. Questo
è per Protagora la vera cultura e il vincolo spirituale
che tiene unita l'intera comunità e civiltà umana.
Non tutti i Sofisti avranno avuto un concetto così
elevato della propria missione; la media si sarà accon-
tentata di comunicare altrui il proprio sapere. Per ap-
prezzare equamente tutto questo movimento è tut-
tavia necessario prender le mosse dal suo più cospicuo
rappresentante. Il posto centrale che Protagora ·assegna
alla cultura umana nel complesso della vita caratte-
rizza la finalità spirituale della sua educazione quale
schietto « umanismo ». E ciò sta nel collocare la cul-
tura umana al disopra di tutta la sfera della tecnica
nel senso odierno del termine, della civiltà. Questa
radicale e netta distinzione tra capacità e sapere tecnici,
e cultura vera e propria, è divenuta il fondamento del-
l'umanismo. Ci si dovrebbe forse guardare dall'equi-
parare senz'altro quello specialismo al concetto mo-
derno di Beruf * (x);Yjcnç) d'origine cristiana, che è più
ampio del concetto classico greco della techne 41 ). Pro-
fessione nel senso nostro è anche quella dello statista,
alla quale Protagora vuole educare gli uon:rini; in greco
invece il chiamarla una techne è cosa assai ardita, che si
giustifica soltanto col fatto che la lingua greca non pos-
siede parola per esprimere ciò che, nell'attività del-
l'uomo politico, si basa sul tirocinio delle sue energie
e sul sapere acquisito. È anche ben evidente che Pro-
tagora si sforza di staccare questa sua techne dalle
professioni tecniche in senso stretto, presentandola come
qualche cosa di totale, universale. Per la medesima

* Il vocabolo tedesco Beruf ha il doppio significato e di


«vocazione» e di «professione, mestiere» (N. D. T.).
41) V. KARL HOLL, Die Geschichte des Worts Beruf (« Sitz.
Ber!. Akad. » 1924) XXIX.
CAP. ID: I SOFISTI 517

ragione egli contrappone nel modo p1u reciso la sua


idea della cultura « universale» anche alla educazione
degli altri Sofisti e alla loro cultura meramente con·
creta. A parer suo essi addirittura « rovinano la gio-
ventù», e sebbene questa venga ai Sofisti soltanto per
sfuggire al mero tecnicismo del mestiere, essi suo mal-
grado tornerebbero a iniziarla ad un sapere tecnico 42 ).
Veramente« universale» per Protagora non è che _la
cultura politica.
Con questa concezione dell'essenza della cultura
umana «universale» egli non fa che tirar le somme di
tutto lo sviluppo storico dell'educazione greca 43). An-
che quest'elemento etico e politico è un tratto fonda-
mentale della natura della vera paideia. Soltanto in
tempi più recenti vi si aggiunse o si cercò sostituirvi
un tipo nuovo, puramente estetico d'umanismo, non
occupando più lo Stato per essi il posto supremo. Per
l'età classica della grecità, essenziale è appunto il col-
legare ogni cultura superiore all'idea dello Stato e
della comunità. A designare l'idea della cultura umana
che emerge nella sofistica dal profondo dell'evoluzione
dello spirito greco, noi usiamo la parola umanismo
a ragion veduta e nel suo significato essenziale, non
già approssimativamente, quale mero esempio storico.
Per l'età moderna, il concetto d'umanismo è- peraltro
legato alla relazione consapevole della nostra cultura
con l'antichità. Ma questa non si fonda, alla sua volta,
se non sul fatto che la nostra idea della cultura « uni·
versale» dell'uomo ha colà appunto la sua origine
storica. L'umanismo, in questo senso, è sostanzialmente
una creazione dei Greci. Soltanto la sua importanza

42 ) Pl. Prot. 318d. Protagora include l'aritmetica, l'astronomia,


la geometria, la musica (che qui significa teoria musicale) fra le
technai, con particolare riferimento a lppia di Elide.
43) Cfr. p. 215 s~.
518 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

imperitura per lo spirito umano rende necessario ed


essenziale per la nostra educazione anche il riferimento
storico all'antichità classica 44).
Del rimanente è qui da notare sin da principio che
l'umanismo, per quanto ne restino costanti i principii,
ebbe sviluppo vivo e non si lascia fissare al tipo di Prota-
gora. Cosi Platone come Isocrate accolsero l'idea di cul-
tura dei Sofisti, dandole ciascuno una piega diversa 45 ).
Nulla è più caratteristico di tale metamorfosi, del fatto
che Platone, al termine della sua vita e del suo filo-
sofare, nelle Leggi, trasforma il famoso detto di
Protagora, che appunto nella sua ambiguità è tanto
significativo per il suo umanismo - « L'uomo è la
misura di tutte le cose» - nell'assioma: «Misura di
tutte le cose è Dio» 46). Dove giova ricordare che Pro-
tagora disse, della divinità, di non essere in grado
d'asserire né di che forma sia, né ch'essa esista, né
che non esista 47 ). Di fronte a questa critiea platonica
dei fondamenti dell'educazione sofistica dobbiamo porre
senz'altro con ogni rigore la domanda: sono essenziali
per l'umanismo lo scetticismo e l'indifferentismo reli-
giosi ed il « relativismo » morale e gnoseologico, che
Platone combatte e che lo rendono per tutta la vita
a~canito avversario dei Sofisti 48) ? La risposta non di-,
pende dall'opinione del singolo: anch'essa deve esser
data oggettivamente dalla storia stessa. La nostra
ulteriore esposizione tornerà di continuo a toccare

") V. Humanism and Theology (cfr. n. 35) 20 ss. e anche i


saggi: «Antike und Humanismus» e «Kulturidee und Griechen-
tum» nel mio volume Humanistische Reden und Vortrage (Ber-
lino 1937) 110 e 125 ss.
46) V. nota 35 e « Paideia» Il e III in cui è descritto que-
sto processo di sviluppo dell'antica paideia.
46 ) PL Legg. 716c; cfr. Protagoras, fr. 1 (Diels). V. « Paideia »
Il, libro Ili.
47) Protagoras, fr. 4 (Diels).
'8) Cq. H umqnism al'ld Theology 36 s11,
CAP. ill: I SOFISTI 519

questo problema, e farà conoscere la lotta dell'educa-


zione e della cultura per la religione e per la filosofia,
che tocca il suo- momento decisivo, per la storia uni-
versale con l'accoglimento del Cristianesimo per parte
della tarda classicità 49).
Non possiamo dir qui, in proposito, se non, a titolo
di anticipazione, quanto segue. L'educazione greca an-
tica, anteriormente ai Sofisti, ignora affatto la moderna
scissione tra cultura e religione; essa ha radici profonde
nel terreno religioso." L'abisso non si apre che nell'età
dei Sofisti, che è insieme quella della creaZ:ione del
concetto consapevole d'educazione. La relativizzazione
delle norme tradizionali della vita e il riconoscimento
rassegnato dell'insolubilità degli enigmi della religione,
che troviamo in Protagora, certamente non eran legati
soltanto casualmente all'alto suo concetto della educa-
zione dell'uomo. L'umanismo consapevole non poteva
probabilmente sorgere dalla grande tradizione educa-
tiva dei Greci se non in un momento storico in cui
quei supremi valori educativi fossero posti in dubbio.
Esso infatti presenta dapprima chiaro un ritrarsi sul-
l'esigua base della « mera» ·umanità. L'educazione, che
ha sempre bisogno di muovere da una norma, ora
che i contenuti normativi correnti sfuggono tra le dita
agli uomini, si aggrappa alla forma dell'uomo, si fa
formale 50). Situazioni siffatte si sono ripetute nella
storia, e l'umanismo vi si accompagna sempre stret-
tamente. Ma d'altra parte è per esso altrettanto impor-
tante il fatto che, in questo atteggiamento formale,
esso guarda oltre i propri limiti, in dietro e in avanti:

49 ) V., per il momento, Humanism and Theology 58 ss. Ma io


spero di trattare in un volume a sé l'ultimo periodo dell'anti-
chità, in cui la classica paideia greca si fuse colla nuova religione
cristiana.
•o) Cfr. Humanism and Theology 39 sa.
520 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

in dietro, alla copia delle forze formative religiose e


morali della tradizione storica, quale vero e genuino
« spirito», onde il concetto di spirito del razionalismo,
svuotato sino all'astrattezza, deve anzitutto riacqui-
stare il suo contenuto vivo e concreto; in avanti, al
problema religioso e filosofico d'un concetto dell'Essere
che abbracci e protegga l'Umano come una tenera
radice, ma renda all'uomo il terreno fecondo in cui
possa metter radice. L'atteggiamento che si assuma
rispetto a tale problema fondamentale d'ogni educa-
zione, è decisivo per giudicare l'importanza dei Sofisti.
Storièamente parlando, tutto sta nel mettere in chiaro
se Platone abbia posto fine o abbia posto il corona-
mento al primo umanismo che la storia conosca, quello
dei Sofisti 51). La posizione che si assuma di fronte
a tale questione storica rappresenta una vera profes-
sione di fede. A considerare la cosa con criterio pura-
mente storico, sembra tuttavia effettivamente deciso
da tempo che l'idea della formazione dell'uomo, quale
era proclamata dai Sofisti, aveva bensì in sé un grande
avvenire, ma non era una creazione definitiva. Con la
sua consapevolezza formale, essa fu d'ines1;imabile effi-
cacia pratico-educativa sino ai giorni nostri. Ma, ap-
punto presentandosi promettentissima, abbisognava
d'un fondamento approfondito mediante la filosofia e
la religione. È, in fondo, lo spirito religioso dell'antica
educazione greca da Omero sino alla tragedia, che as-
sume nuova figura nella :filosofia di Platone. Platone
supera il concetto di cultura dei Sofisti, in quanto ri-
sale al di là di esso 52 ).
L'elemento decisivo è, nei Sofisti, l'idea consape-

61) ib. p. 42 ss., 53 811,


U) ib. pP· 4 7-54,
CAP. III: I SOFISTI 521

vole della cultura come tale. Se rivolgiamo indietro lo


sguardo sulla via percorsa dallo spirito greco da Omero
sino al periodo attico, tale idea non si presenta già
come cosa subitanea, sibbene quale frutto, storica-
mente necessario e maturo, di tutta quell'evoluzione.
È l'espressione dello sforzo costante d'ogni creazione
poetica e di tutto il lavorio dei pensatori della grecità
verso una espressione normativa dell'idea dell'Uomo.
Tale sforzo, di sua natura formativo, spingeva, so-
prattutto in un popolo cosi filosofico, alla progressiva
consapevolezza ·dell'idea della cultura nel senso ele-
vato in cui è qui intesa. Appare naturalissimo che
tutte le precedenti creazioni dello spirito greco si col-
legassero per i Sofisti a quest'idea della cultura e si
considerassero destinate a costituirne il contenuto. La
virtù educativa delle opere dei poeti era sempre sus-
sistita per il popolo greco. Il suo concentrarsi ad es-
senza della cultura si compi necessariamente nel mo-
mento in cui l'azione educativa consapevole (mtLiìeù-
ELV) si rivolse non più esclusivamante all'età puerile
(7ttl~ç), bensi con particolare intensità all'uomo in via
di formazione, e sorse il pensiero che il cammino edu-
cativo dell'uomo non ha alcun limite superiore che
possa esser fissato cronologicamente. Ora ecco ad un
tratto una paideia anche dell'uomo adulto. Il concetto
che in origine non aveva significato se non il processo
dell'educazione per se stesso, estese la propria sfera
dal . lato oggettivo, del contenuto, precisamente come
la parola tedesca Bildung o l'equivalente latina cul-
tura, che dal processo acquisitivo della cultura passa a
designare l'esser colto e poi il contenuto della cultura,
per abbracciare infine tutta la sfera della cultura dello
spirito in cui il singolo nasce quale membro del suo
popolo o d'un determinato ambiente sociale. La co-
struzione storica di questo mondo culturale culmina
522 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

nel farsi consapevole dell'idea di cultura. Appare quindi


del tutto naturale ed ovvio che i Greci abbiano desi-
gnato ogni forma sviluppata ed ogni creazione spiri-
tuale, l'intero patrimonio e contenuto della loro tracli-
zione, a cominciare dal IV secolo, quando questo con-
cetto trovò la sua cristallizzazione definitiva, come la
loro paideia - noi diciamo, in tedesco, Bildung, o,
alla latina, cultura.
Sotto questo rispetto i Sofisti sono un fenomeno
centrale. Essi sono i creatori della coscienza culturale,
in cui lo spirito greco consegue il suo telos e perviene
all'intima certezza della propria forma e del proprio
indirizzo peculiari. E l'aver essi cooperato all'affer-
marsi di questo concetto e di questa. consapevolezza ha
per il momento maggiore importanza che il non avergli
dato ancora la sua impronta definitiva. Acquistando
e dando ai contemporanei, in un'epoca di dissolvi-
mento delle forme tradizionali dell'esistenza, la consa-
pevolezza che la cultura dell'uomo era il grande com-
pito affidato dalla storia al loro popolo, essi scoprirono
il punto cui tendeva costantemente l'intero processo
storico e dal quale doveva prender le moss,e ogni con-
sapevole assetto della vita. La consapevolezza è un
livello elevato, ma è il livello di un'epoca tarda. Ed è
questo il rovescio del fenomeno. Anche se non occorre
illustrare l'affermazione che il periodo dai Sofisti a
Platone e ad Aristotele rappresenta un'ascesa costante
nello sviluppo dello spirito greco, tuttavia conserva
la sua validità il detto di Hegel, che l'uccello di Mi-
nerva spicca il volo al crepuscolo. Lo spirito greco
paga la sua signoria mondiale, della quale primi mes-
saggeri sono i Sofisti, a prezzo della propria giovinezza.
Possiamo comprendere come Nietzsche e Bachofen vo-
lessero situare l'apogeo nell'epoca precedente il destarsi
della ratio, come nei primordi mitici, in Omero o nel
CAP. fil: I SOFISTI 523

periodo tragico. Ma è assurdo questo romantico dar


valore as;;oluto al periodo arcaico, poiché lo sviluppo
dello spirito delle nazioni, come degl'individui, ha in
se stesso la propria legge inviolabile, e l'impressione
che suscita a chi lo rivive storicamente non può essere
che contradittoria. Noi sentiamo dolorosamente la per-
dita che lo sviluppo dello spirito implica in sé, ma
non vorremmo tuttavia esser privati d'alcuna delle sue
forze; troppo bene sappiamo come soltanto mercé loro
siamo disposti e capaci di ammirare così liberamente
il passato. Tale è necessariamente il nostro atteggia-
mento, giacché ci troviamo noi stessi in un tardo gra-
dino culturale e, in un certo senso, non perveniamo
veramente a noi stessi che movendo dalla sofistica.
Essa ci è più «vicina» che Pindaro od Eschilo; dei
quali, in cambio, abbiamo maggior bisogno. Appunto
in presenza dei Sofisti intendiamo come il « perdu-
rare» dei gradi anteriori nell'edificio storico della cul-
tura non sia una vuota parola, giacché non possiamo
accettare il nuovo grado se non quando il precedente
sia compreso insieme in questa cultura.

Siamo troppo poco informati circa i singoli sofisti,


per poter presentare, anche soltanto per i loro princi-
pali rappresentanti, un quadro individuale del loro
sistema d'insegnamento e dei loro fini. Ch'essi medesimi
tenessero molto a tali differenze, lo dimostra la descri·
zione comparativa che ne dà Platone nel Protagora;
tuttavia essi non sono così lontani l'uno dall'altro,
come li induceva a credere la loro ambizione. Il motivo
della deficienza di notizie è ch'essi non lasciarono let·
teratura che sia loro sopravissuta a lungo. Scritti
di Protagora, che occupa anche in ciò un posto privi-
legiato, si leggevano qua e là ancora nella tarda clas-
sicità, sebbene anch'essi fossero allora pressoché di·
524 LlBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

spersi 53). Qualche lavoro più spiccatamente scientifico


dei Sofisti rimase in uso parecchi decenni, ma in ge-
nerale non erano uomini di scienza; loro scopo era d'eser-
citare un'influenza sui contemporanei. La loro decla·
mazione ( ÈnLOe:L!;~ç) retorica non era, per dirla con Tu-
cidide, un «possesso duraturo », ma piuttosto un pezzo
di bravura destinato agli ascoltatori immediati. E nel
loro approfondito lavorio educativo il meglio delle
loro forze si concentrava sul commercio con le persone
vive, e non sull'attività letteraria, com'è del re&to
naturale. Socrate andò in ciò anche più in là e non
scrisse mai nulla. È una perdita irreparabile, per il
giudizio nostro su di essi, il non aver più alcuno spi-
raglio aperto sulla loro pratica educativa. Poco monta
se in cambio sappiamo sparsamente qualche cosa
della loro vita e delle loro opinioni, che in fondo poco
importano. Non ce nè occuperemo se non in quanto
si tratti dei fondamenti teoretici della loro attività
educativa. Qui ha importanza essenziale anzitutto la
consapevolezza del processo culturale, che è legata
alla conquista della consapevolezza dell'idea di cultura.
Essa presuppone un intendimento dene circostanze
dell'azione educativa e specialmente un'analisi del-
l'uomo. È ancora semplice nei suoi elementi, al para-
gone della psicologia moderna~ così semplice all'incirca
come la dottrina fisica elementare dei presocratici ri-
spetto alla chimica moderna. Ma dell'essenza delle cose
la psicologia non ne sa oggi più che la dottrina sofistica
dell'educazione, e la chimica non più di Empedocle
o d' Anassimene; possiamo quindi rallegrarci tuttora
delle originali vedute di massima della pedagogia dei
Sofisti.

Porfirio dà notizie importanti su un esemplare superstite


53 )
qal trattato di Protagora sull'Essere: v. Prot. fr_ 2 (Diels),
CAP. ID: I SOFISTI 525

Riallacciandosi alla contesa, anteriore d'un secolo,


tra l'educazione aristocratica e la concezione politico-
democratica, che abbiamo trovata in Teognide e in
Pindaro 54), la sofistica indaga i presupposti d'ogni edu-
cazione, il problema della relazione tra « natura » e
voluta influenza educativa nel divenire dell'uomo. V ano
sarebbe raccogliere i molti luoghi della letteratura del
tempo che echeggiano tale esame. Essi dimostrano che
i sofisti recarono la coscienza di tali problemi in ogni
ambiente. Le parole mutano, ma la cosa è la stessa
dappertutto: si è giunti alla nozione che la natura
{cpucnç) è il fondamento sul quale va edificata ogni edu-
ca~ione. L'opera costruttiva stessa si compie come ap-
prendimento (µiX6'YJcrLç) e insegnamento (8L8cx:crxcx:J..(cx:)
rispettivamente e come esercizio (&c:rx'YJ<rLç), che fa
dell'appreso una seconda natura 55). V'è qui il tentativo
d'una sintesi delle vecchie opposte tesi della paideia
aristocratica e del razionalismo, con un abbandono ra-
dicale dell'etica aristocratica della stirpe.
Al posto del sangue divino subentra ora il concetto
generalmente inteso della natura dell'uomo in tutta
la sua accidentalità e molteplicità di significati indivi-
duali, ma col suo àmhito di gran lunga più vasto.
È un passo straordinariamente gravido di conseguenze,
che non divenne possibile se non con I'aiuto della
giovane scienza medica, appunto allora nella freschezza
del suo primo sorgere. Essa era rimasta per un pezzo
una primitiva chirurgia militare, mista a superstizioni
ed esorcismi popolareschi svariati, sino a che il rapido
incremento della conoscenza della natura nella Ionia
e lo sviluppo d'una empiria disciplinata incominciò

") V. cap. X del libro I.


") V. i frammenti del Grande Logos di Protagora, Prot. B 3
(Diels). Distinzioni simili si possono trovare in Platone, Democrito,
Isocrate, Aristotele.
526 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

ad influire anche sulla medicina, indirizzando i medici


all'osservazione scientifica del corpo umano e dei pro-
cessi in esso svolgentisi. In tali ambienti medici scien-
tifici sorse il concetto della natura umana, che tanto
spesso incontriamo nei Sofisti e nei loro contempo-
ranei 56). Il concetto della physis è riportato dalla to-
talità dell'universo al singolo,. all'uomo: qui ha rice-
vuto il suo colorito individuale. L'uomo sottostà a
certe regole, che la natura sua propria gli prescrive
e dalla cui conoscenza deve muovere il suo regime, da
sano come da ammalato, se vuol prendere la via giusta.
Dal concetto medico della physis umana, che qui per
la prima volta fu riconosciuta quale organismo cor-
poreo d'una determinata costituzione e trattata in con-
formità, si passò presto ad un concetto più largo della
natura umana, quale è posto a fondamento della loro
teoria dell'educazione dai Sofisti, i quali intendono per
essa il complesso di corpo ed anima, ma ·soprattutto
l'interna disposizione dell'uomo. In senso analogo, in
quell'epoca, anche lo storico Tucidide usa il concetto
di natura umana, ma, conforme l'oggetto da lui stu-
diato, lo volge a significare la natura sociale e morale
dell'uomo. L'idea della natura umana, <luale fu qui
primamente intesa, non va presa affatto come qualche
cosa di ovvio; è essa medesima un'opera fondamentale
dello spirito greco. Soltanto mercé sua si rende possi-
bile una vera dottrina della cultura 57).
I profondi problemi religiosi inclusi nella parola
« natura» non furono sviluppati dai Sofisti. Una certa

66) Sarebbero importanti nuovi studi sul concetto di natura


umana nella letteratura medica del corpus Ippocratico. V. il ca-
pitolo« La medicina greca come paideia» in « Paideia »III, passim.
57 ) Si ebbe nno sviluppo parallelo del pensiero scientifico
nei secoli XVII e XVIII, che ebbe il suo centro nel concetto di
natura umana. V. W. DILTHEY, Zur Weltanschauung und
Analyse des Menschen (Schriften, Bd. II).
CAP. III: I SOFISTI 527

fede ottimistica che la natura umana sia di regola edu-


cabile e atta al bene è la loro premessa; l'individuo
disposto infelicemente o disposto al male è eccezione.
È questo, come è noto, il punto d'appiglio, in ogni
tempo, della critica religiosa cristiana dell'umanismo.
L'ottimismo pedagogico dei Sofisti non è certo l'ultima
parola dello spirito greco su tale questione, ma se i
Greci avessero preso le mosse dalla coscienza generale
della colpa anziché dall'ideale della formazione del-
l'uomo, non si sarebbe mai giunti ad una pedagogia
né ad un ideale di cultura. Basta ricordare la scena
di Fenice nell'Iliade, Pindaro e Platone, per rendersi
conto quanto profonda coscienza avessero i Greci, sin
da principio, anche dell'elemento problematico d'ogni
educazione. Sono soprattutto gli aristocratici, natural-
mente, a recare in sé tale dubbio. Pindaro e Platone
non condivisero mai le illusioni democratiche della cul-
tura illuminata della moltitudine. Il plebeo Socrate è
ilriscopritore di questo dubbio aristocratico circa l'edu-
cazione. Bisogna ricordare Le parole profondamente
rassegnate di Platone, nella VII Lettera, sugli angusti
Limiti posti all'influenza della conoscenza sulla molti-
tudine e sulle ragioni per le quali egli non si presentò
quale apportatore d'un messaggio di salvazione agl'in-
numerevoli, ma delimitò così rigorosamente la propria
cerchia 58). Ma occorre ricordare ad un tempo come
questa stessa aristocrazia greca dello spirito abbia tut·
tavia costituito il punto di partenza d'ogni cultura
umana superiore e cosciente, e s'intenderà come ap-
punto in tale intima antinomia tra il dubbio pensoso
circa l'educabilità e l'indou;i.ahile volontà d'educare stia
l'eterna grandezza e fecondità dello spirito greco. Tra
questi due poli trovano posto cosi la cristiana coscienza

68) Pl. ep. VII 34ld.


528 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

della colpa e il suo pessimismo culturale come l'otti-


n:rismo culturfile dei Sofisti. È bene rendersi sùbito
conto de] carattere storicamente condizionato delle sue
premesse, per· poterne poi meglio riconoscere le bene-
merenze. L'apprezzarle non può non accompagnarsi
alla critica, appunto perché ciò che i Sofisti vollero e fe-
cero rimane indispensabile anche per l'età nostra.

Nessuno penetrò più chiaramente né rappresentò


con più vivezza il legame dell'ottimismo culturale dei
Sofi~i con l'attualità politica, che il suo grande critico,
Platone. II suo Protagora rimane sempre la fonte
alla quale dobbiamo attingere, perché la prassi edu-
cativa e il mondo ideale dei Sofisti vi sono visti come
una grande unità storica, e i suoi presupposti sociali
e politici sono svelati in modo inconfutabile. Essi sono
sempre gli stessi, là dove si ripete nella storia, per
l'educazione, la situazione che trovarono ì Sofisti. Le
differenze individuali tra i metodi educativi dei Sofisti,
di cui vanno tanto orgogliosi i loro inventori, per
Platone non sono poi che oggetto d'ilarità. Le perso-
nalità di Protagora d' Abdera, d'Ippia ~'Elide e di
Prodico di Ceo sono presentate tutte in una volta:
essi sono tutti ospiti, contemporaneamente, del ricco
Ateniese Callia, la cui casa si è tramutata in albergo
di celebrità intellettuali 59). Ad onta di tutte le diffe-
renze, vi appare manifesta la spiccata aria di famiglia
spiritualmente comune ai Sofisti.
Protagora, il più cospicuo di loro, che si è assunto
di educare aU'areté politica un giovane ateniese di
buona famiglia avido di sapere, presentatogli da So-
crate, svolge, ribattendo le obiezioni scettiche di So-
crate, le ragioni de] suo convincimento circa l'educa-

59) V. "Paideia >; Il, cap. V.


CAP. fil: I SOFISTI 529

bilità sociale dell'uomo 60). Egli prende le mosse dalla


situazione sociale esistente. Ognuno suole confessare
apertamente la propria incapacità in qualche arte che
richiede una speciale attitudine, perché non è motivo
di vergogna. Nessuno, invece, commette palesemente
infrazioni delle leggi, bensì salva almeno l'apparenza
di una condotta legittima. Se tralasciasse di farlo e
confessasse apertamente il proprio torto, ciò sarebbe
ritenuto, in questo cas-6, non già schiettezza, ma fol-
lia; tutti infatti ritengono che ognuno può esser parte-
cipe della giustizia e dell'assennatezza. L'acquisibilità
dell'areté politica risulta anche dal vigente sistema di
pubblica approvazione e punizione. Nessuno si. adira
contro un altro per deficienze che questi abbia per na-
tura sin dalla nascita e che non sia in grado di. elimi-
nare, per le quali non merita né lode, né castigo. Ma
tanto la lode quanto il castigo sono assegnati dalla
società umana là dove trattisi di beni conseguibili me-
diante sforzi coscienti ed apprendimento. I falli umani
che la legge punisce debbono dunque essere evitabili
mediante l'educazione, se l'intero sistema sul quale
riposa la società non ha ad essere insostenibile. Altret-
tanto deduce Protagora anche dal significato della -pena.
ln opposizione alla concezione causale, propria della
Grecia arcaica, della punizione come vendetta per aver
uno commesso un fallo, egli professa una teoria eviden-
mente affatto moderna, la quale VU:ole inflitta la pena
finalisticamente, quale mezzo per migliorare il malfat-
tore e intimorire gli altri 61). Tale concezione pedago-
gica della pena si basa sul presupposto dell'educabilità:
dell'uomo. La virtù civile è fondamento degli stati;
senza di essa non sussisterebbe alcuna comunità:. Chi

SO) Pl Proi. 323a 91.


81) lh. 324.n-h.
530 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

non ne è partecipe deve essere educato, punito e ammo-


nito sino a che si migliori; se poi è inguaribile, dev'es-
sere escluso dalla comunità o ucciso. Così non solo la
giustizia punitiva, ma tutto lo Stato è per Protagora
una potenza educativa da cima a fondo. È, per dir
meglio, il moderno Stato secondo il diritto e la legge,
quale egli vede realizzato in Atene, il cui spirito poli-
tico parla da tale coerente concezione pedagogica della
pena e cerca in essa la propria giustificazione.
Questa concozione educativa della giurisprudenza
e della legislazione dello Stato ha propriamente per
presupposto un'influenza sistematica dello Stato sul-
l'educazione dei suoi cittadini, che per altro, come già
dicemmo, non si ebbe in Grecia all'infuori di Sparta.
È notevole che i Sofisti non propugnarono la statizza-
zione dell'educazione, sebbene tale esigenza, secondo il
criterio di Protagora, fosse in realtà assai ovvia. Ma
questa lacuna colmarono appunto i Sofisti, offrendo
in seguito ad accordi privati la propria opera ·educativa.
Protagora dimostra che la vita dell'individuo si trova
già sottoposta ad influenze educative sin dalla nascita.
Nutrice, madre, padre e pedagogo gareggi;mo nel for-
mare il fanciullo, ammaestrandolo e mostrandogli che
cosa sia giusto ed ingiusto, bello e brutto. Cercano di
raddrizzarlo, come un fusto che si pieghi e si storca,
con minacce e percosse. Poi egli va a scuola, impara a
conoscere l'ordine e acquista le nozioni del leggere e
scrivere e suonare la cetra.
Superato questo stadio, il maestro gli propone poe-
sie di buoni poeti e gliele fa imparare a memoria 62 ).
Esse contengono molti ammonimenti e racconti che
esaltan~ uomini eminenti, il cui esempio deve stimo-
lare il fanciullo all'hnitazione. Mediante l'insegnamento

68 ) ib. S25e.
CAP. III: I SOFISTI 531

della musica egli è inoltre educato alla sophrosyne e


distolto dalle monellerie. Segue lo studio dei poeti li-
rici, le cui opere sono recitate sotto forma di composi-
zioni musicali. Esse rendono familiari alle aniu:;:e gio-
vanili il ritmo e l'armonia, per farle docili, giacché
la vita umana abbisogna d'euritmia e di giusta ar-
monia. Questa deve esprimersi in tutto ciò che dice
e fa l'uomo veramente colto 63). Si manda inoltre la
gioventù alla scuola di ginnastica dal pedotriba, per
educarne il corpo, affinché esso sia buon servitore dello
spirito valente e l'uom_o non fallisca mai nella vita
per debolezza fisica. Protagora tiene particolar conto
dell'eletta società dinanzi alla quale fa questa espo-
sizione delle condizioni fondamentali e dei gradi della
cultura umana, con l'accenno che le famiglie bene-
stanti fanno educare più a lungo i propri figli, che
non . la classe più povera. I :figli dei ricchi incomin-
ciano prima ad imparare e terminano più tardi 64). Con
ciò egli vuol dimostrare che ognuno procura ai propri
figli l'educazione più accurata possibile, che dunque
l'educabilità dell'uomo è communis opinio di tutti quanti
e che, praticamente, l'azione educativa è esercitata da
ognuno senza esitare.
Caratteristico del nuovo concetto di cultura è che
Protagora non fa terminare l'educazione éon l'uscire
dalla scuola. Essa, anzi, in un certo senso comincia
proprio allora. Ed è di nuovo la concezione dello Stato
prevalente nell'età sua, che si rispecchia nella teoria
di Protagora, quando egli considera le leggi dello Stato
quali educatrici all'areté politica. La cultura propria-
mente civica incomincia col fatto che il giovane licen-
ziato dalla scuola, entrando nella vita attiva, è costretto

18) ib. 326a-b.


H) ib. 326c.
532 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

dallo Stato a conoscer le leggi e a vivere secondo il


modello e l'esempio (rrcx:pcHh:tyµcx:) ch'esse dànno 65). Si
tocca qui con mano la trasformazione dell'antica paideia
aristocratica nella moderna educazione civile. L'idea
del modello domina l'educazione aristocratica da Omero
in poi. Nel modello personale s'incarna agli occhi del-
1' allievo la norma ch'egli deve seguire, e lo sguardo
ammirativo rivolto alla sua personificazione nella figura
umana ideale deve stimolarlo all'imitazione. Questo
elemento personale dell'imitazione (µ(µ -r,crt.:;) viene a
mancare nella legge. Nel sistema progressivo d'educa-
zione svolto da Protagora, esso non è invero scom-
parso del tutto, ma è disceso ad un grado più basso: è
inerente all'insegnamento, elementare e ancora di puro
contenuto, della poesia, il quale, come vedemmo, non
era indirizzato alla forma, al ritmo e all'armonia dello
spirito, bensì all'elemento normativo morale e all'esempio
storico. Inoltre l'elemento normativo del modello, nella
concezione della legge quale suprema educatrice del cit-
tadino, è conservato e rafforzato, ché la legge è l'espres-
sione più generale e serrata della norma vigente. La
vita conforme la legge è paragonata figuratamente da
Protagora all'educazione elementare dell'insegnamento
della scrittura, in cui i fanciulli debbono imparare a
scrivere senza oltrepassare la riga. Anche la legge è
una linea calligrafica di questa sorta, invenzione d' ot-
timi, vecchi legislatori. Protagora aveva paragonato il
processo educativo al raddrizzamento d'un fusto; quan-
do il linguaggio giuridico chiama euthyne, « raddrizza-
mento », la pena che riconduce alla linea chi ne de-
via, anche in ciò, a parere del sofista, si manifesta la
funzione educativa della legge 66).

65) ib. 326c-d.


86 ) ib. 326d.
CAP. III: I SOFISTI 533

Nello Stato ateniese la legge (v6µoç) non era soltanto


regina (~ix11LÀ€uç) - come allora si soleva dire citando
Pindaro 67 ) - ma era anche l'alta scuola del cittadino.
Tale idea è oggi alquanto estranea al modo di sentire
dell'età nostra. La legge non è più invenzione di vene-
randi legislatori, ma creatura del momento, ciò che
presto doveva diventare purtroppo anche in Atene, e
nemmeno gli specialisti possono averla presente nella
sua totalità. Ai giorni_ nostri sarebbe ben difficile im-
maginare che a Socrate, nel carcere, nell'istante in
cui gli si schiude la via della libertà e della fuga,
le leggi apparissero quali persone vive, ammonendolo
a restar loro fedele anche nell'ora della tentazione,
perché furono esse a educarlo e proteggerlo tutta la
vita e perché sono il fondamento stesso della sua
esistenza. Ciò che Protagora dice delle leggi quali
educatrici rammenta quella scena del Critone pla-
tonico 68). Egli non fa così che formulare lo spirito
dello Stato secondo il diritto nell'età sua. Noi sen-
tiremmo l'affinità elettiva della sua pedagogia con
lo Stato attico anche se egli non si riferisse più volte
espressamente alle condizioni d'Atene e non dicesse
che lo Stato attico e la sua organizzazione si basano
su questa concezione dell'uomo. Se Protagora abbia
avuta egli stesso questa consapevolezza, o se sia stato
Platone ad attribuirgliela per parte sua riferendone la
lezione, genialmente ma con artistica libertà, nel Pro-
tagora, è cosa che non siamo più in grado di deter-
minare. Certo è soltanto che Platone fu per tutta la
vita del parere che l'educazione dei Sofisti fosse un'arte
calcata sulle circostanze politiche reali.

67 )V. p. 211.
6B) PI. Crit. SO a; cfr. Prot. 326c.
534 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

Tutto ciò che Protagora espone in Platone mira al


problema dell'educabilità. Questo non è peraltro de-
dotto dai Sofisti soltanto dalle premesse dello Stato e
della società e dal common sense politico e morale,
bensì inserito in un quadro ancor più vasto. Il pro-
blema della malleabilità della natura umana è un caso
particolare della relazione tra natura ed arte in ge-
nere. Quanto a questo aspetto della teoria sono molto
istruttive le considerazioni di Plutarco nel suo trattato,
fondamentale per l'umanismo del Rinascimento, in-
torno all'educazione della gioventù, ripubblicato infi-
nite volte, le cui idee sono state totalmente assorbite
dalla pedagogia moderna. L'autore stesso confessa nel-
l'introduzione 69) - e ce nè accorgeremmo anche da
soli - d'aver conoscenza e èli giovarsi della letteratura
pedagogica anteriore. Ciò non riguarda solo quel dato
luogo per il quale egli si riferisce ad essa, .ma anche il
capitolo seguente, nel ·quale tratta dei tre fattori fon-
damentali di ogni educazione: natura, apprendimento,
adattamento. È chiaro com'egli si basi qui sul terreno
dell'antica teoria pedagogica.
A noi torna molto opportuno ch'egli,'insieme alla
«trinità pedagogica» 70), nota anche d'altra parte come
propria dei Sofisti, ci abbia conservata una successione
di pensieri strettamente connessa con questa dottrina
e che illumina di viva luce la portata storica dell'ideale
culturale dei Sofisti. La fonte di Plutarco illustrava k
relazione tra quei tre elementi dell'educazione con
l'esempio dell'agricoltura, quale caso fondamentale di
elaborazione della natura mediante l'arte metodica del-
l'uomo. Per la buona agricoltura occorre in primo
luogo un buon terreno, poi un contadino esperto, infine

&i) Plut. De lib. educ. l d.


70) V. p. 525.
CAP. ill: I SOFISTI 535

una buona semente. Il terreno dell'educazione è la


natura dell'uomo, al contadino corrisponde l'educatore,
semente sono le dottrine e i precetti che trasmette la
parola parlata. Là dove tutte tre le condizioni sono so-
disfatte interamente, si ottiene un resultato eccezionale.
Ma anche là dove una natura meno dotata riceve la
cura opportuna per mezzo della conoscenza e dell'adat-
tamento, quella deficienza può essere in parte compen-
sata; inversamente, invece, anche la natura più ric-
camente dotata deperisce, ove sia trascurata. È ap-
punto questa esperienza, che rende indispensabile l'arte
educativa. Ciò che si strappa alla natura finisce per
diventare più forte della natura stessa. Il buon terreno.
diviene infecondo se non è C"\llato, e tanto più cattivo,
quant'o migliore è per natura. Una terra meno buona,
lavorata opportunamente e continuamente, reca alla
fine frutti eletti. Altrettanto vale per le culture arboree,
che formano l'altra metà dell'agricoltura. L'esempio
dell'addestramento degli animàli è del pari una prova
della malleabilità della physis. Basta intervenire col
lavoro nel momento giusto, nel più malleabile, che per
l'uomo è l'infanzia, in cui la natura è ancor tenera e
le cose apprese si fondono ancora facilmente con l'animo
e gli s'imprimono.
Non più è possibile, purtroppo, distinguere netta-
mente gli elementi antichi e recenti di quest'argomen-
tazione. Plutarco ha evidentemente unito dottrine della
filosona postsofistica a idee dei Sofisti. Così l'immagine
della malleabilità (1nhtì..ixcr-ro-J) dell'anima giovanile pro-
viene forse da Platone 71) e la bella idea che l'arte sia
un compenso alle manchevolezze della natura ritorna
m Aristotele 72), se pure non presuppongono già en-

71) Pl. Resp. 317h.


73) Questa pa:rte del perduto Protrettico in cui Aristotele
:;vol~eva questa idea è :ricostruita, :pe:r µiezzo del :frotrettiço Qi
536 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

trambi precursori sofistici. L'efficace esempio dell'agri-


coltura sembra invece così organicamente connesso con
la dottrina della trinità pedagogica, che è necessario
attribuirlo alla dottrina pedagogica sofistica 73). Esso è
già usato anche prima di Plutarco ed anche per questo
deve risalire ad una fonte antica. Mediante la sua tra-
duzione in latino, il paragone della cultura umana con
l'agricultura è passato nel pensiero dell'Occidente, con-
ducendo alla calzante invenzione della cultura animi:
la cultura dell'uomo è un « coltivare lo spirito». In
questo concetto è ancor manifesta la risonanza imma-
ginosa della sua derivazione dalla cultura della terra.
La dottrina della cultura dell'umanismo ulteriore fece
risorgere anche quest'idea, facendola partecipe del po-
sto centrale che occupa d'allora in poi l'idea della cul-
tura dell'uomo nel pensiero dei popoli civili ( « Kultur-
volker »).
È conforme al carattere di primi umamsti, da noi
attribuito ai Sofisti, l'essere essi divenuti i creatori del
concetto di cultura, per quanto non potessero supporre
che quest'immagine avrebbe un giorno talmente eclis-
sato il semplice concetto dell'educazione dell'uomo, di-
ventando simbolo supremo di civiltà. Ma questo cam-
mino trionfale dell'idea di cultura è intimamente giusti-
ficato, giacché in quella feconda similitudine si esprime
il nuovo fondamento universale dell'idea greca della
formazione dell'uomo, la quale, così, è caratterizzata
come l'applicazione suprema della legge generale del-
l'affinamento e miglioramento della natura mercé l'at-

Giamblico neoplatonico, nel mio Aristotele: p. 97 ss. della trad.


italiana (Firenze 1935).
73) Il paragone dell'educazione con l'agricoltura appare anchE>
nella Legge « Ippocratica» 3. Ma poiché la data dell'origine d;
questa non è nota, essa non ci aiuta molto dal punto di vist"
della cronologia. La Legge mi sembra un prodotto del tempo dei
Solisti o non molto posteriore.
CAP. III: I SOFISTI 537

tività consapevole dello spmto umano. Appare qui


come l'abbinamento della pedagogia con la filosofia
della cultura, attestato dalla tradizione per i Sofisti
e soprattutto per Protagora, fosse intimamente neces-
sario. L'ideale della formazione dell'uomo, è per lui
il culmine della cultura in quel senso amplissimo in cui
abbraccia tutto ciò che va dai primordi del padroneggia-
mento della natura fisica per parte dell'uomo al colmo
dell' autoformazione dello spirito umano. In tale pro-
fondo e largo fondamento dato al fenomeno dell'educa-
zione si rivela nuovamente la natura dello spirito greco,
indirizzata all'universalità e totalità dell'essere. Senza
di essa né l'idea di cultura, né quella della formazione
dell'uomo si sarebbero presentate in forma cosi pla-
stica.

Ma, per quanto importante sia questa profonda mo-


tivazione filosofica dell'educazione, il parallelo con la
cultura della terra non ha se. non valore limitato per il
metodo dell'educazione stessa. Le conoscenze immerse
nell'anima dall'apprendimento stanno con essa in altra
relazione che non il seme con la terra. L'educazione
non è un mero processo di crescenza che 'progredisca
da sé, che l'educatore produca a suo arbitrio e ali-
menti e promuova coi propri mezzi. Abbiamo già
rammentato il modello dell'educazione fisica dell'uomo
mediante l'allenamento ginnastico, le cui annose espe-
rienze offrivano l'esempio più ovvio per la nuova cul-
tura dell'anima. Al modo che, tenendo presenti le arti
:figurative, si considerava il trattamento del corpo vi-
vente come un atto formativo, così a Protagora l'edu-
cazione appare come un dar forma all'anima, e i mezzi
dell'educazione come forze formatrici 74). Se i Sofisti

1 4) V. p. 531 e n. 63.
538 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

abbiano già applicato al processo educativo il concetto


determinato di formazione o cultura, non possiamo
dire con certezza; ma in massima la loro idea dell'edu-
cazione non è nient'altro che questo. Può dunque essere
indifferente che sia stato Platone ad usare forse per
primo la parola « formare» (7tÀOC't"'t'E:tv) 75). Quando Pro-
tagora, inculcando il ritmo poetico e musicale e l'ar-
monia, vuol rendere ritmica ed armonica l'anima 76), ciò
si inspira già all'idea della formazione. Protagora, in
quel luogo, non descrive l'insegnamento ch'egli stesso
impartisce, ma quello di cui gode dal più al meno ogni
Ateniese e che impartiscono le scuole private esistenti.
È da ritenere che l'insegnamento dei Sofisti si basasse
con analogo indirizzo su questo, soprattutto nelle di-
scipline formali, che erano elemento capitale dell'edu-
cazione sofistica. Prima dei Sofisti non si parla mai
di Grammatica, Retorica e Dialettica; essi debbono
quindi considerarsene i fondatori. La nuova techne è
evidentemente l'espressione metodica del principio della
formazione dello spirito, giacché muove dalla forma
della lingua, del discorso e del pensiero. Quest'azione
pedagogica è una delle più grandi scoperte 'dello spirito
umano. Esso acquista così per la prima volta coscienza,
in questi tre campi della sua attività, della legge re-
condita della sua propria struttura.
La nostra conoscenza di questa grande opera dei
Sofisti è purtroppo manchevolissima. I loro scritti
grammaticali sono perduti, ma su di essi si sono poi
basati i posteri, i Peripatetici e gli Alessandrini. La
parodia che ne fa Platone ci apre qualche spiraglio sulla
Sinonimica di Pro dico di Ceo; abbiamo inoltre qualche
notizia della classificazione delle varie specie di voca-

16) « Paideia» II 364 e n. 58,


7•) PI. Prot. a26a-b.
CAP. III: I SOFISTI 539

boli di Protagora e della dottrina d'lppia circa l'impor-


tanza delle lettere e delle sil1abe 77 ). La Retorica dei
Sofisti è anch'essa perduta; già i suoi manuali non
erano destinati alla pubblicazione. Un tardo frutto di
questo tipo è la Retorica di Anassimene, congegnata
in gran parte su concetti tradizionali, che dà ancora
una certa idea della Retorica sofistica. Meglio possiamo
renderci conto ancora dell'arte della discussione dei
Sofisti. Ne è bensì perduto il trattato capitale, le « Anti-
logie » di Protagora; ma il trattato, che ci è pervenuto,
d'un ignoto sofista della fine del V secolo 78), che scrisse
in dorico, i «Discorsi Duplici» ( ~Lcrcrol. A.6ym) ci per-
mette di farci un'idea di questo metodo singolare di
parlare d'una medesima cosa « da ambo i lati», ossia
ora impugnandola, ora difendendola. Alla Logica non
si giunge che nella scuola di Platone, e l'eristica da pre-
stigiatori di certi Sofisti di basso conio, contro il cui
malanno lotta la filosofia seria, mostra, nella carica-
tura che ne fa l' Eutidemo platonico, quanto si con-
tasse sin da principio sulla nuova arte disputativa
quale arma nel duello oratorio. Essa è in ciò più affine
alla Retorica., che alla teoria scientifica della Logica.
Data la mancanza quasi totale di tradizioni dirette,
siamo costretti a renderci conto dell'importanza della
cultura formale dei Sofisti soprattutto dall'immensa
loro influenza sui coevi e sui posteri. A questa cultura
debbono i contemporanei l'inaudita padronanza e l'arte
superiore nella composizione dei discorsi e delle argo-
mentazioni, come in ogni altra forma di ragionamen-
to, dalla semplice narrazione d'un fatto sino all'ec-

77 ) Le poche testimonianze sono raccolte in DIELS; Vorso-


kratiker: Prodicus, A 13 ss.; Protagoras, A 24-28; Hippias, A 1-12.
78 ) Il luogo di Dialexeis 8 si riferisce alla vittoria dei Lacede-
moni contro gli Ateniesi e i loro alleati e alle sue conseguenze
per ambedue le parti, cioè alla fine della guerra del Peloponueso.
540 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATI1CO

citamento delle più intense passioni, di cui gli orato1


padroneggiano tutte le gradazioni come una tastiera.
Qui è all'ordine del giorno quella « ginnastica dello
spirito » della quale sentiamo così spesso la mancanza
nell'espressione degli oratori e scrittori. moderni. Gli
oratori attici di quell'epoca ci fanno realmente l'im-
pressione che il logos sia un denudarsi per la lotta.
Una dimostrazione ben costrutta, così serrata ed agile,
assomiglia al corpo nervoso e allenato d'un atleta in
ottima forma. Il dibattito giudiziario si chiama in
greco ag6n: per i Greci, esso rimane sempre la lotta
tra due avversari in forme legalizzate. Studi recenti
hanno mostrato come, nell'antichissima oratoria giudi-
ziaria, al tempo dei Sofisti, in luogo dell'antiquato si-
stema di prove mediante testimoni, tortura e giura-
mento, subentri via via la dimostrazione per via di
logica argomentazione, propria della nuova retorica 79).
Ma anche un indagatore della verità così austero come
lo storico Tucidide si mostra dominato dall'arte formale
dei Sofisti sino ai particolari della tecnica oratoria,
della sintassi, e persino dell'uso grammaticale delle pa-
role, della « orthoepia » 80). La Retorica è .diventata la
cultura predominante della tarda classicità. Essa corri-·
spondeva talmente <..'.la disposizione formale del popolo
greco, da riuscirgli fatale, venendo alla fine a soffo-
care ogni altra cosa, come una pianta rampicante.
Questo fatto non deve pregiudicare la valutazione del-
l'importanza educativa del nuovo trovato. Insieme con
la Grammatica e con la Dialettica, la Retorica divenne
fondamento della cultura formale dell'Occidente. Esse
formano, insieme, quello che dalla tarda antichità in
poi si chiamò trivium, che, fondendosi col quadrivium.

79) V. F. SoLl\lSEN, Antiphonstudien (« Neue Philologische Un-


tersuchungen» hrsg. v. W. Jaeger, Bd. VIII) 7.
BO) J. H. FINLEY, Thucydides (Cambridge, Mass., 1942) 250 ss.
CAP. lII: I SOFISTI 541

diede luogo al sistema delle sette arti liberali, ed in


questa forma scolastica sopravvissero a tutti gli splen-
dori della cultura e dell'arte classica. Le classi supe-
riori della scuola classica francese portano tuttora il
nome di quelle « discipline », derivante dalla scuola
conventuale del medioevo, in segno dell'ininterrotta
tradizione della cultura sofistica 81).
I Sofisti non composero ancora essi stessi quelle tre
arti formali con l'Aritmetica, la Geometria, la Musica
e l'Astronomia, nell'ulteriore sistema delle sette arti
liberali. Ma il numero di sette è, in fin dei conti, la
cosa meno originale, e l'inclusione generica nell'istru-
zione superiore di ciò che i Greci chiamavano ma-
thémata, cui dai Pitagorici in poi appartenevano anche
l'Armonia e la scienza degli astri, ossia appunto ciò che
è essenziale all'unione del trivium col quadrivium, è
in realtà opera dei Sofisti 82). Solo l'insegnamento pra-
tico della musica era generalmente in uso già prima
di loro, come risulta anche dalla descrizione che fa
Protagora del sistema d'educazione vigente. L'insegna-
mento musicale era affidato al citarista 83 ). I Sofisti vi
aggiunsero la dottrina teorica pitagorica delle armonie.
Opera per sempre fondamentale fu l'introduzione del-
l'insegnamento della matematica. Nell'ambiente dei co-
siddetti Pitagorici essa era stata oggetto d'indagine
scientifica. Il sofista Ippia per primo ne ricon~sce il
valore pedagogico unico; anche altri Sofisti, come An-
tifonte e più tardi Brisone si occuparono, nella ricerca

81 ) Le antiche artes vivono ancora nell'ordo studiorum dei Ge-


suiti. Il termine «arti liberali» è vivissimo ed è usato per desi-
gnare una «educazione generale». Anche negli Stati Uniti d' Ame-
rica, sebbene il suo contenuto di studi sia stato modernizzato,
il «college di arti liberali», è un tipo definito di scuola, opposto
alla pedagogia utilitaristica e professionale.
82) V. Hippias, A 11-12 (Diels).
83) Pl. Prot. 326a.
542 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

e nell'insegnamento, di problemi matematici, e d'allora


in poi la matematica non fu più scacciata dalla cultura
superiore.
II sistema greco della cultura superiore, quale fu
costruito dai Sofisti, domina oggi tutto il mondo civile.
Esso si è imposto dappertutto, tanto più che non
richiede la conoscenza della lingua greca. Non bisogna
mai dimenticare che non solo l'idea della cultura ge-
nerale etico-politica, nella quale abbiamo riconosciuto
l'origine della nostra cultura umanistica 84), ma anche
la cosiddetta cultura realistica, che ora gareggia con
l'umanistica, ora la combatte, è stata creata dai Greci
e deriva direttamente da essi. Ciò che noi oggi chia-
miamo cultura umanistica in senso stretto, impensabile
senza la conoscenza delle lingue originali della lettera-
tura classica, non poté anzi sorgere se non sulla base
d'una cultura non greca, ma che risentì profondissima
l'influenza spirituale della cultura greca, quale fu la
romana. La cultura bilingue greco-latina è, infine, crea-
zione dell'umanismo del Rinascimento. Dei suoi stadi
preliminari nella cultura della tarda antichità avremo
ancora ad occuparci.
In che senso i Sofisti impartissero l'insegnamento
della matematica, non sappiamo. Una delle principali
obiezioni della critica del pubblico contro questo lato
dell'educazione sofistica era l'inutilità della matema-
tica per la vita pratica. Platone, come è noto, propu-
gna l'inserzione della matematica nel suo programma
d'insegnamento quale propedeutica alla filosofia 85).
Questa concezione è quanto vi ha di più remoto dallo
spirito dei Sofisti. Ma d'altra parte non è affatto certo
che noi abbiamo diritto d'attribuir loro la motivazione

84) V. p. 516 ss.


Sii) PI. Resp. 536d.
CAP. li: I SOFISTI 543

con la quale Isocrate, alunno della retorica sofistica,


dopo essere stato da prima per molti anni avverso alla
matematica, finì per ammetterla, e cioè quale mezzo
d'addestramento formale dell'intelletto, che soltanto
non doveva prender troppo posto 86). I mathémata rap-
presentano, nella scuola dei Sofisti, l'elemento reali-
stico, Grammatica Retorica e Dialettica il formale. Nel
senso d'una siffatta distinzione in due gruppi di disci-
pline depone anche l'ulteriore ripartizione delle sette
arti liberali in trivio e quadrivio. Perdurò evidente-
mente la consapevolezza del diverso compito educativo
dei due gruppi. La tendenza ad unire le due branche
si fonda già sull'idea dell'armonia, o, come in Ippia
medesimo, sull'ideale dell'universalità; e non è sorta
semplicemente per addizione 87). Infine non è nemmeno
probabile che i mathémata, cui apparteneva l'astronomia
- in quell'epoca non ancora molto matematica - fos-
sero svolti come semplice ginnastica formale della mente.
L'inutilità pratica di tale sapere in quel tempo pare
non fosse, agli occhi dei Sofisti, un'obiezione decisiva
contro il suo valore educativo. Essi dovettero apprez-
zare la matematica e l'astronomia per il loro valore
teoretico. Se per lo più non erano scienziati produt-
tivi, tale è invece il caso appunto di Ippia. Il valore
dell'elemento puramente teoretico per la cultura dello
spirito trovò qui il primo riconoscimento. Erano tut-
t'altre capacità, quelle sviluppate da queste scienze
che non le tecnico-pratiche, le quali dovevano essere
destate dalla Grammatica, dalla Retorica e dalla Dia7
lettica. La forza costruttiva e analitica, quella che è

Isocr. Antid. 265; Panath. 26.


86 )
87)Platone in Hipp. Maj. 285 ss. mostra soltanto la varietà
enciclopedica della cultura di Ippia, ma in Hipp. Min. 368b,
descrive il suo sforzo consapevole verso l'universalità. Ippia ebbe
lambizione di essere maestro così di ogni arte come di ogni ge-
nere di conoscenza.
544 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

in fondo la forza pensante dello spirito, si temprava


nel processo della conoscenza matematica. Ad una teo-
ria di tale efficacia non si giunse presso alcun sofista;
Platone ed Aristotele svilupparono per primi la piena
consapevolezza dell'importanza educativa della scienza
pura. Ma l'acume dei Sofisti, che colse sùbito nel se-
gno, merita d'essere apprezzato da noi, così come l'ap-
prezzò a dovere la storia dell'educazione posteriore.
Con l'adozione dell'insegnamento scientifico-teore-
tico non poteva non affacciarsi sùbito la questione,
sino a che punto si dovessero svolgere tali studi. Do-
vunque si parla, in quell'epoca, d'istruzione scientifica,
in Tucidide Platone Isocrate Aristotele, ritroviamo i
riflessi di tale questione. Non erano affatto i soli teorici
a sollevarla, anzi ravvisiamo in essa chiaramente l'eco
dell'opposizione cui si urtava in larghi ambienti la
nuova cultura, col suo insolito approfondirsi in istudi
puramente intellettuali, remoti dalla vita, che sembra va
sottrarre tempo ed energie. L'età anteriore non cono-
sceva tale indirizzo mentale se non quale fenomeno
d'eccezione di singoli dotti bizzarri, che appunto per
il loro strano distacco dall'ordinaria vita, civile e dai
suoi interessi, e per la loro originalità, considerata con
un senso tra l'ironico e l'ammirato, avevano goduto
d'una certa stima e benevola sopportazione 88). Le cose
cambiarono nel momento in cui tale sapere accampò
la pretesa d'essere la cultura vera e «superiore» e di
prendere il posto dell'educazione usata sino allora o di
sopravanzarla.
L'opposizione non venne tanto dalla popolazione
lavoratrice, che restava a priori esclusa da quella cul-
tura, perché « inutile » e costosa e rivolta soltanto alle
sfere dirigenti. Capace di critica era soltanto il ceto

811) V. p. 289 _H.


.CAP. ID: I SOFISTI 545

superiore, ch'era sempre stato in possesso di una cultura


più elevata e dì criteri più sicuri, col suo ideale da
gentleman della kalokagathia, rimasto in sostanza im-
_mutato anche in regime democratico. Uomini politici
autorevoli, come Pericle, e personaggi che davano il
tono alla società, come Callia, l'uomo più ricco d'Atene,
offrivano l'esempio della predilezione appassionata degli
studi, e molte persone distinte mandavano i figli alle
lezioni dei Sofisti. Ma non si poteva negare il pericolo
che celava, per il tipo virile aristocratico, la aoq;(oc.
Non si voleva fare, dei propri figli, dei sofisti. Taluni
scolari d'ingegno dei Sofisti, che traevano coi loro mae-
stri di città in città e intendevano ricavare essi stessi
una professione da quanto avevano appreso, non sem-
bravano ai giovani ateniesi di buona famiglia, che
assistevano alle lezioni, modelli propriamente da imi-
tare; facevano loro piuttosto sentire la differenza di
classe dei Sofisti, ch'erano tutti d'origine borghese, e
destavano la coscienza del limite sino al quale ci si
poteva abbandonare alla loro influenza 89). Nell'elogio
funebre di Pericle, Tucidide ha anche fatto enunciare
dallo Stato la sua riserva di fronte alla nuova intellet·
tualità, giacché, per quanto in alto ponga lo spirito,
egli non dimentica tuttavia d'aggiungere al Cfl~Àocroqiouµi::'il
il suo ammonitore &'il&U µcx:Àocx(ixç: cultura dello spirito
senza infiacchimento 90).
Questa formula, col suo compiacimento severo e vi-
gile del fiorire degli studi, è straordinariamente istrut-
tiva quanto all'atteggiamento della classe dirigente
d'Atene nella seconda metà del V secolo. Rammenta
la disputa tra «Socrate» - che qui è senz'altro Pla-
tone stesso - e l'aristocratico ateniese Callicle nel

89) Pl. Prot. 312a, 315a


vo) Thuc. II 40, 1.
546 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO AITICO

Gorgia di Platone, intorno al valore della pura ri-


cerca per la formazione dell'uomo dabbene, avente fun-
zione attiva nello Stato 91). Callicle respinge con impeto
la scienza quale attività cui dedicare la vita. Essa
è buona e giovevole per trattenere i giovani dalle sca-
pataggini, nell'età piena d'insidie in cui s'avviano
a maturità, e per allenarne la mente. Chi non ha cono-
sciuto per tempo siffatti interessi non diviene mai
un uomo veramente libero 92 ). Ma chi, all'opposto, tra-
scorre la vita intera in quell'angusta atmosfera, non
diviene mai uomo completo, ma si arresta ad una
fase di sviluppo giovanile 93). Il limite sino al quale
giova occuparsi di quel sapere è fissato da Callicle col
dire che bisogna percorrerlo «per la propria educazione»,
cioè per un certo tempo e quale mera fase transitoria.
Callicle è il tipico rappresentante della sua classe so-
ciale: non c'è bisogno di occuparci qui dell'atteggia-
mento di Platone di fronte a lui 94). Scettica come Cal-
licle era, dal più al meno, tutta laristocrazia e la so-
cietà borghese d'Atene di fronte al nuovo entusiasmo
intellettuale della sua gioventù. Solo il grado di rite-
nutezza era diverso da persona a persena. Avremo
occasione di parlare più innanzi delia commedia: è
questa una delle testimonianze più importanti di cui
disponiamo 95).
Callicle è egli stesso allievo di Sofisti, come ogni
sua parola rivela. Ma, da uomo politico, ha appreso
poi a subordinare quel gradino della sua formazione
alla totalità della sua carriera d'uomo politico. Egli
cita Euripide, la cui opera rispecchia tutti i problemi

91) PL Gorg. 484c ss.


") ib. 485c.
93 ) ib.-" 485d.
94.) ib. 485a llo-ov mxL8docç x.&pLv. Così anche PL Prot. 312b
e poi Isocrate; cfr. « Paideia» III 254.
95) V. p. 623 ss.
CAP. III: I SOFISTI 547

dell'epoca. Questi aveva portato sulla scena, nella sua


Antiope, i due opposti tipi moderni dell'uomo d'azione
e del teorico e sognatore nato, e l'uomo di vita attiva
e coraggiosa vi parlava già al fratello, tanto diverso
d'indole, al modo che Callicle · a Socrate. È singolare
che questo dramma dovesse servir ili modello ad Ennio,
poeta della Roma arcaica, presso il quale il giovane
eroe Neottolemo, figlio del grande Achille, pronuncia
la sentenza: philosophari sed paucis 96). Si è sempre
avuta l'impressione che l'atteggiamento dello spirito
romano, eminentemente pratico e politico, ili fronte
alla filosofia e alla scienza greca, abbia trovato in
questo verso la sua espressione lapidaria, come una
legge storica. Ma questa « parola romana», che fa rab-
brividire molti dei nostri filellèni, viene in realtà da
labbra greche. Non è che un tradurre e far proprio
l'atteggiamento del ceto distinto ateniese dell'età so-
fistico-euripidea di fronte alla nuova scienza e filosofia.
Si esprime in esso un'estraneità, rispetto allo spirito
della pura teoria, per nulla minore di quella ch'era e
rimase propria dei Romani. L'occuparsi dell'indagine
scientifica « soltanto per la .propria educazione » 9 7) e
nella misura in cui occorre a tal fine, era la formula
della cultura periclèa, giacché questa era cultura tutta
orientata verso l'azione e la politica. Suo fondamento
era lo Stato attico, che aveva per fine il dominio della
Grecia. Anche quando Platone, dopo il tracollo dello
Stato, proclamò la « vita :filosofica» quale ideale, non
lo giustificò se non con la finalità del suo valore pra-
tico per lo sviluppo dello Stato 98). Non altra è la po-

96) Ennianae Poesis Reliquiae ed. VAHLEN, Il ed., p. 191.


Cito il verso nella forma epigrammatica. in cui lo dà Cicerone.
97 ) V. n. 94.

") V. il mio Uber Ursprung und Kreislauf des philosophischen


Lsbensideal (« Sitz. Berl. Akad. » 1928) 394-397.
548 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

s1z1one dell'idea isocratèa della cultura rispetto al pro-


blema del sapere puro. Soltanto passata l'età dei grandi
Attici, la scienza ionica ha la sua risurrezione in Ales-
sandria. I Sofisti aiutarono a superare questa opposi·
zione tra lo spirito attico e lo ionico, etnicamente af-
fine. Essi erano predestinati a procacciare ad Atene gli
elementi dello spirito di cui non poteva fare a meno
per i grandi e complessi compiti del suo Stato e a
porre la scienza ionica al servizio della cultura attica.

Crisi dello Stato e educazione. - L'idea della cultura


dei Sofisti rappresenta un punto culminante della sto-
ria interiore dello Stato greco. Questo aveva bensì
determinata da secoli la forma dell'esistenza dei propri
cittadini; e il suo cosmo divino era stato esaltato dalla
poesia d'ogni specie, ma l'attitudine educativa diretta
dello Stato non era mai stata ancora presentata e mo-
tivata in maniera cosi larga. La cultura dei Sofisti
non era sorta soltanto da un pratico bisogno politico:
essa assumeva consapevolmente per fine e per misura
ideale d'ogni educazione lo Stato, e nella teoria di Pro-
tagora pareva che lo Stato fosse addirittura fonte di
tutte le forze educative, anzi un unico grande orga-
nismo educativo, compenetrante di questo spirito tutte
le sue leggi ed istituzioni sociali 99). La concezione dello
Stato di Pericle, quale è riassunta da Tucidide nell'elo-
gio funebre, culmina nella medesima professione di
fede nello Stato quale educatore e trova assolta in
modo esemplare nella comunità ateniese tale missione
culturale dello Stato 100). Le idee dei Sofisti sono dun-
que penetrate nella politica reale, hanno conquistato
lo Stato. I fatti non ammettono altra interpretazione.

99) PI. Prot. 32ld, 322b ss., 324d ss., 326c-d.


180) Thue. Il 41, 1.
CAP. ID: I SOFISTI 549

Pericle e Tucidide sono animati anche del rimanente


dallo spirito dei Sofisti; debbono essere anche in ciò
recettivi; non inspiratori. La loro concezione ed.ucativa
dello Stato acquista maggiore importanza inquantoché
Tucidide l'unisce ad un'altra veduta nuova: nella na-
tura dello Stato moderno è insito il suo anelare alla
potenza. Tra questi due poli, potenza e educazione, è
teso lo Stato dell'età classica 101), ché ad ogni modo ciò
rappresenta una tensione, per quanto lo Stato educhi
gli uomini esclusivamente per proprio conto. L'esigenza
che gli individui sacrifichino la vita per i suoi scopi
presuppone che questi concordino col bene, rettamente
inteso, del tutto e delle sue parti. Questo bene dev'es-
sere misurabile secondo una norma oggettiva: come
tale valse sempre per i Greci il Giusto, la Dike. Su di
essa è basata l'eunomia e quindi l'eudemonia della
polis. Per Protagora, infatti, l'educazione mirante allo
Stato ha anche nome educazione alla giustizia 102). Ma
da questo punto precisamente sorge, nell'età dei Sofisti,
la crisi dello Stato, che diviene ad un tempo la più
grave crisi dell'educazione. Sarebbe un sopravalutare
immensamente l'influenza dei Sofisti il volerla rendere
sola responsabile, come spesso si fa, di questo pro-
cesso 103). Esso non fa che manifestarsi nel modo più
spiccato nella loro dottrina, perché questa rispecchia
con la più chiara consapevolezza tutti i problemi del-
l'epoca e perché l'educazione deve necessariamente

lOl) Questo è già evidente nell'ideale democratico di Pericle


quale è esposto nell'orazione funebre. Esso è ancora equilibrio
rigoroso fra i due diversi aspetti dello Stato, in forte tensione fra
loro. Ma si cambia in acuta antinomia nel Gorgia di Platone;
v. « Paideia » II 225.
102) Cfr. i passi citati a n. 99.
103) PI. Resp. 492a-b (v. «Paideia» II 466) constatò esatta-
mente che i Sofisti erano più il prodotto dell'opinione e morale
pubblica che guide o scopritori di essa.
550 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

risentire con la massima intensità ogni scossa dell'auto-


rità vigente.
Il pathos morale col quale Solone aveva un tempo
introdotta l'idea del diritto nello Stato, vi è ancora vivo
nell'età di Pericle. Suo orgoglio sommo è il suo ufficio
di tutore del diritto in terra e di riparo di quanti siano
ingiustamente oppressi. Ma anche dopo adottato il
governo popolare, non s'era mai quetata l'antica lotta
intorno alla costituzione e alla legge; la nuova epoca
non faceva che svolgerla con altre armi, delle quali i
pii e bravi predecessori non sospettavano affatto la capa-
cità distruttiva e l'insidia. V'era bensì una concezione
predominante, che ebbe la forza d'imporsi: era, in mi-
sura sempre crescente dall'esito felice delle guerre Per-
siane in poi, l'idea democratica, secondo la quale ogni
decisione e ogni diritto dipendeva dalla maggioranza
numerica. Con lotte sanguinose e con la perpetua mi-
naccia della guerra civile essa s'era fatta strada, ed
anche l'egemonia, per lunghi anni quasi indiscussa, d'un
solo eminente uomo politico, quale Pericle, discendente
egli stesso dalla nobilissima casa degli Alcmeonidi,
J:!-Oll era stata ottenuta che a prezzo di nuove larghe

estensioni dei diritti popolari. Ma sotto la vernice del-


l'Atene democratica ufficiale ardeva inestinguibile la
scintilla della rivolta nelle sfere dell'aristocrazia poli-
ticamente spodestata o, come li chiamavano gli avver-
sari, degli oligarchi 104).

l0 4 ) Il più interessante documento di questi sentimenti e della


critica che nacque da queste cerchie nello . tato ateniese, è il più
antico libro di prosa che si abbia in dialetto attico, lo Stato de-
gli Ateniesi di autore anonimo. Il libro ci fu conservato fra le
opere di Senofonte, presumibilmente perché il manoscritto fu
trovato fra le sue carte. Or.a è generalmente citato come l'«An-
tico oligarca». V. la profonda analisi di KARL GELZER, Die Schriji
vom Staate der Athener (« Hermes», Einzelschriften, Heft 3,
Berlino 1937).
CAP. m: I SOFISTI 551

Sintantoché la democrazia, sotto la guida d'uomini


eminenti, passava in politica estera di successo in suc-
cesso, e le redini erano rette saldamente da una sola
mano, essi in parte rimasero sinceramente lealisti, in
parte furono costretti almeno a :fingere sentimenti be-
nevoli verso il popolo e a piaggiare il demos, arte che
ben presto fiorì in Atene straordinariamente, assumendo
anche forme grottesche. Ma la guerra peloponnesiaca,
che sottopose la potenza d'Atene, crescente senza posa,
all'ultima prova fatale, scosse sempre più gravemente,
dopo la morte di Pericle, l'autorità del governo e
quindi dello Stato stesso, attizzando infine sino al-
i'estrema passione la lotta per il predominio interno.
Si combatté da ambe le parti coi mezzi della nuova
retorica e deJl'arte polemica dei Sofisti, e invero non si
può affermare che questi, secondo le loro vedute poli-
tiche, dovessero necessariamente schierarsi dall'una delle
due parti. Ma se, per Protagora ancora, appariva ovvio
che la vigente democrazia fosse senz'altro «lo Stato»,
cui si rivolgevano tutti i suoi sforzi educativi, ora,
all'opposto, troviamo precisamente gli avversari del
demos in possesso delle armi di cui hanno appreso
l'uso mediante la cultura sofistica. Per quanto queste,
in origine, non fossero foggiate contro lo Stato, ora
gli riescono tuttavia fatali; e non sono soltanto le
arti della retorica, ma soprattutto le idee generali
dei Sofisti intorno alla natura del diritto e della legge,
ad avere funzione importante in tale lotta. In virtù
di esse, questa, da mera lotta di parte, diventa battaglia
ideale decisiva, che scuote i principii fondamentali del-
l'ordine vigente.
Per i tempi anteriori, lo Stato secondo il diritto
aveva costituito una grande conquista. Dike è una
dea possent"; nessuno può offendere impunemente i
fondamenti del suo ordinamento. Il diritto vigente in
552 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

terra ha sua radice nel diritto divino: è una concezione


comune ai Greci tutti. Essa non aveva mutato col
trapasso dal vecchio Stato autoritario al nuovo ordine
razionale dello Stato secondo il diritto; solo il conte-
nuto, ritenuto sanzionato dalla divinità, s'era trasfor-
mato. La divinità aveva assunto l'aspetto della ragione
e della giustizia umana. Ma l'autorità della nuova
legge continuava a riposare sulla sua rispondenza alla
legge divina, o - come si sarebbe espresso il pensiero
filosofico dei tempi nuovi - sulla sua rispondenza alla
Natura. La Natura era diventata per loro l'essenza del.
divino. Regnava in essa la medesima legge, la medesima
dike che era rispettata nel mondo umano quale norma
suprema. Tale era stata l'origine dell'idea del cosmo 106).
Ma nel corso del secolo V quest'immagine della Natura
si era nuovamente trasformata. Già per Eraclito il
cosmo risorgeva perennemente dalla lotta perpetua
delle opposizioni: « il conflitto è padre di tutte le cose».
A poco a poco non rimase che la lotta; il mondo ap-
parve prodotto fortuito della coazione e del prevalere
nel gioco meccanico delle forze.
Riesce a noi difficile decidere a prima, vista se que-
st'intuizione della Natura sia il primo passo, e la sua
applicazione al mondo umano non sia che il secondo,
o se ciò che l'uomo crede ravvisare nell'universo quale
legge eterna non sia che la proiezione della sua mutata
concezione «naturalistica» della vita umana. L'antica
e la nuova concezione del mondo, nell'età dei Sofisti,
si trovano affiancate. Euripide, nelle Fenicie, fa van-
tare l'eguaglianza, principio democratico fondamentale,
quale legge osservabile a cento doppi nell'opera della

105) Cfr. p. 300 s. Per quanto segue v. il mio discorso Die grie-
chische Staatsethik in Humanistiche Reden und Vortràge (Berlino
1937) 93.
CAP. III: I SOFISTI 553

natura, cui nemmeno l'uomo può mai sottrarsi 106). Ma


al concetto d'eguaglianza, quale l'intende la democra-
zia, altri muovono nel contempo la critica più severa,
dimostrando che la Natura, in realtà, non conosce in
nessun luogo questa « isonomia» meccanica e che in
essa domina dappertutto il più forte. In entrambi i casi
appare evidente come l'immagine dell'Essere e del suo
ordine permanente sia veduta in base a una prospet-
tiva tutta umana ed interpretata, a seconda delle di-
verse posizioni dell'uomo, in sensi opposti. Abbiamo
l'una accanto all'altra, per così dire, una visione de-
mocratica e una visione aristocratica della Natura e
del mondo. La nuova immagine del mondo mostra in
aumento le voci di coloro che, anziché venerare l'egua-
glianza geometrica, mettono in risalto la naturale disu-
guaglianza degli uomini e da questo fatto muovono
nello svolgere tutto il loro pensiero giuridico e politico.
Nella loro opinione si richiamano all'ordinamento divino
del mondo per l'appunto come i loro predecessori, po-
tendo anzi lusingarsi d'avere dalla loro parte le cogni-
zioni della scienza della natura o della filosofia nuo-
VISSI ma.

L'indimenticabile incarnazi.one di questo princ1p10


è Callicle nel Gorgia di Platone 107). Egli è docile
alunno dei Sofisti; che le sue idee derivino di là, è
dimostrato dal primo libro della Repubblica di Pla-
tone, dove il diritto del più forte trova il proprio di-
fensore nel sofista e retore Trasimaco 108). Ogni genera-
lizzazione sarebbe, certo, una deformazione del quadro
storico. Facile sarebbe contrapporre al naturalismo dei
due avversari combattuti da Platone un altro tipo di

106) Eur. Phoen. 535 ss.; cfr. Suppi. 399-408.


107) PI. Gorg. 482c ss., specialmente 483d.
188) PI. Resp. 338c.
554 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATnCO

sofista, il rappresentante didattico della morale tra-


dizionale, che non vuole se non trasportare in prosa
i precetti della poesia gnomica. Ma il tipo di Callicle
è di gran lunga più interessante e, come lo ritrae Pla-
tone, anche il più forte. Vi dovettero essere tra gli
aristocratici d'Atene siffatte nature adoratrici della
forza, evidentemente familiari a Platone, sin dalla gio-
ventù, per l'esperienza del suo ambiente. Si pensa su-
bito a Crizia, capo senza scrupoli della reazione ~ più
tardi « tiranno»: egli, forse, o un suo fratello ideale,
ha fornito certi lineamenti per la figura di Callicle,
che è nome fittizio 109). Con tutta l'avversione radicale
di Platone di fronte a Callicle, senti tuttavia nella sua
esposizione una capacità d'intima simpatia, quale non
ha se non chi già dovette o sempre deve di nuovo vin-
cere quel nemico nel proprio petto. Platone stesso,
infatti, narra nella Lettera VII che gl'intimi di Crizia,
certo non solo per la sua parentela con questo, avevano
visto in lui il loro naturale alleato e, per qualche tempo,
se l'erano realmente cattivato per i propri disegni llO).
L'educazione secondo lo spirito di Protagora, cioè
conforme l'ideale tradizionale della « giustizia», è at-
taccata da Callicle con un pathos che ci fa insieme sen-
tire il capovolgimento totale di tutti i valori. Quanto
è somma giustizia per lo Stato ateniese e per i suoi
cittadini, è per lui il colmo dell'ingiustizia 111). «Noi
alleviamo fin da bambini i migliori e i più forti fra
noi, come leoncelli, e li stordiamo e li incantiamo e li
rendiamo schiavi, col predicar loro che bisogna man·
tener l'uguaglianza e che questo sia il bello e il giu·
sto. Ma se una volta ci sia un uomo di natura davvero
potente, che scuota e infranga queste catene e se ne

109) V. « Paideia » II 233 s.


110) Pl. ep. VII 324d.
111) PI. Gorg. 4B3e. V. « Paideia » II 231 se.
CAP. III: I SOFISTI 555

liberi, e calpesti tutte le nostre scritture e le nostre


malie e i nostri incantesimi e tutte le leggi contro na-
tura, ecco che egli, lo schiavo, si adergerà e si rivelerà
nostro padrone: e allora rifulgerà nel suo splendore il
diritto di natura».
La legge, secondo questo modo di vedere, è un li-
mite artificiale, una convenzione dei deboli organizzati
per incatenare i loro naturali signori, i più forti, e co-
stringerli ad eseguire il voler loro. Il diritto di natura
è in contrasto stridente col diritto umano. Commisu-
rato alla sua norma, ciò che lo Stato di giustizia chiama
diritto e legge è puro arbitrio. Se gli si debba sotto-
stare o no, è per Callicle esclusivamente questione di
potenza. Ad ogni modo il concetto del giusto, nel senso
della legge, ha perduto per lui la sua intima autorità
morale. Sulle labbra d'un aristocratico ateniese, questo
è l'annuncio aperto della rivoluzione. In realtà il colpo
di stato del 403, dopo la sconfitta d'Atene, fu eseguito
secondo questa inspirazione.
È necessario venire in chiaro della portata del pro-
cessò mentale del quale siamo qui testimoni. Diretta-
mente dalla visuale dei. tempi nostri, non possiamo
nemmeno misurarla appieno, ché se anche un atteg-
giamento come quello di Callicle di &onte allo Stato
deve necessariamente minarne in ogni caso l'autorità,
pure la conseguenza della concezione che nella vita
politica decida la mera forza preponderante, secondo le
idee odierne, non equivarrebbe affatto necessariamente,
quanto all'atteggiamento morale del singolo nella vita
privata, ad una proclamazione dell'anarchia. Per la
nostra coscienza odierna, Ja Politica e la Morale sono
divenute due campi profondamente divisi, sia a ra-
gione sia a torto, e le regole di condotta sui due ter-
reni non sono senz'altro le stesse. Tutti i tentativi
teoretici di superare tale discrepanza nulla mutano
556 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

al fatto storico che la nostra etica deriva dalla reli-


gione c~istiana, la nostra politica dallo Stato dell'anti-
chità classica, che quindi l'una e l'altra sono sorte
da radici morali differenti. Questa partita doppia, san-
zionata da consuetudine millenaria, di fronte alla quale
la moderna filosofia è anzi costretta a fare di neces-
sità virtù, era ignota ai Greci. Se noi nella morale di
Stato scorgiamo sempre anzitutto un contrapposto al-
l'etica individuale, e molti, in cuor loro, preferirebbero
non citare quel primo termine se non tra virgolette,
esso per i Greci dell'epoca classica, anzi di tutto il
periodo della civiltà della polis, rappresenta quasi una
tautologia, ché per loro lo Stato è addirittura l'unica
fonte d'ogni norma morale, né è dato vedere quale
altra etica dovrebbe esservi all'infuori dell'etica dello
Stato, cioè all'infuori della legge della comunità nella
quale l'uomo vive. Una morale privata, distinta da
questa, è per i Greci un'idea assurda. Ci è necessario
astrarre qui del tutto dal nostro concetto della co-
scienza personale. Anch'esso germinò, è vero, dal suolo
greco, ma in epoca assai posteriore 112). Per i Greci del
V secolo non vi sono che due p-0ssibilitjt: o la legge
dello Stato è la norma suprema della vita umana ed
è consona all'ordinamento divino dell'Essere, e allora
uomo e cittadino sono una cosa sola e l'uno si risolve
nell'altro; oppure le norme della vita dello Stato con-
traddicono a quelle che sono poste dalla natura o dalla
divinità, quindi l'uomo non può accettare le leggi dello
Stato, e allora la sua esistenza cade fuori della comunità
politica e sprofonda nell'abisso, se appunto quel supe-
riore, eterno ordinamento della natura non offre nuovo
sicuro ancoraggio al suo pensiero.

112) V. F. ZucKER, Syneidesis-Conscientia (Jena 1928).


CAP. III: I SOFISTI 557

Dallo squarcio aperto fra legge dello Stato e legge


cosmica alla cittadinanza mondiale dell'età ellenistica
corre una via rettilinea. Non mancano, tra i Sofisti,
di quelli che hanno tratta espressamente questa dedu-
zione dalla loro critica del nomos. Essi sono i primi
cosmopoliti. Secondo ogni apparenza, è questo un tipo
diverso da quello di Protagora. Platone l'ha contrap-
posto a quest'ultimo nella persona dell'universalista
Ippia d'Elide 113): « O voi qui presenti - gli fa dire, -
ai miei occhi voi siete tutti quanti parenti, affini e
concittadini, non secondo la legge, è vero, bensì per
natura. Ché il simile è per natura parente del simile,
ma la legge, che è il tiranno degli uomini, in molte
cose fa violenza contro natura». L'opposizione tra legge
e natura, nomos e physis, è qui la stessa che in Cal-
licle, ma l'indirizzo e l'esito della critica della legge
sono affatto diversi. Entrambi cominciano peraltro con
l'abbattere il vigente concetto d'eguaglianza, giacché
esso è l'essenza della concezione tradizionale della giu-
stizia. Ma Callicle oppone all'ideale d'eguaglianza della
democrazia il fatto deJla naturale ineguaglianza degli
uomini 114), laddove il sofista.e teorico Ippia, al contrario,
trova ancora troppo angusto il concetto d'eguaglianza
della democrazia, perché essa fa valere quest'ideale
soltanto per i cittadini liberi, pari per diritto e per
stirpe, del proprio Stato. Ippia vuole estendere l'egua-
glianza e l'affinità a tutti quanti hanno sembianze
umane. Analogamente si esprime il sofista ateniese
Antifoi:J.te nel suo libro esplicativo La Verità, del
quale qualche tempo fa vennero in luce reliquie assai
ampie 115). «Noi abbiamo tutti, sotto ogni rispetto, la

llB) PL Prot. 337c.


114) V. p. 552 ss.
115) Pap. Oxyrh. 1364 (Huiit), ora pubblicato in DIELS, Vor-
•okratiker II (V ed.) 346 ss., fr. B 44, col. 2, 10 ss.
558 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

medesima natura, barbari e Greci». La motivazione


di questa eliminazione di tutte le differenze nazionali
formatesi storicamente, nel suo ingenuo naturalismo
e razionalismo, forma un contrapposto interessantissimo
all'entusiasmo di Callicle per l'ineguaglianza. « Ciò si
può vedere dai bisogni naturali di tutti gli uomini.
Essi possono so disfarli tutti allo stesso modo, e in
tutte queste cose non v'è tra noi alcuna differenza da
barbaro a Greco_ Respiriamo tutti la stessa aria per
la bocca e per il naso e mangiamo tutti con le mani».
Questo ideale internazionale d'eguaglianza, estraneo af-
fatto alla democrazia greca, è in realtà l'estremo op-
posto della critica di Callicle. La dottrina d' Antifonte
livella con coerenza, al pari delle differenze nazionali,
anche le soci~. «Noi onoriamo e stimiamo gli uomini
di casata distinta; quelli di casata non distinta, invece,
non li onoriamo né stimiamo. Perciò stiamo gli uni
di fronte agli altri come gente appartenente a popoli
diversi».
Politicamente, la teoria d' Antifonte e d'lppia, col
suo egualitarismo astratto, non costituiva per il mo-
mento gran pericolo per lo Stato d'allora, tanto più
che non cercava né trovava risonanza presso le masse,
ma si rivolgeva soltanto a una piccola cerchia di per-
sone istruite, che politicamente in gran parte la pen-
savano piuttosto come Callicle. Ma una minaccia indi-
retta dell'ordine storicamente costituitosi stava nel
naturalismo patente di tale pensiero, che a tutto appli-
cava la propria misura e minava così l'autorità delle
vigenti norme. Quest~ atteggiamento del pensier~ si
può seguire nelle sue tracce più antiche risalendo sino
all'epos omerico e i Greci v'inclinarono sempre. La
loro innata capacità di cogliere la totalità delle cose
poteva avere effetti assai diversi sul pensiero e sul con-
tegno degli uomini, giacché ogni persona, a seconda
CAP. III: I SOFISTI 559

dell'indole sua, ravvisava in quella totalità aspetti


molto diversi. Chi la vedeva nutrita d' eventi eroici
che spingono le forze dell'uomo eletto alla più alta
tensione, e chi vedeva ogni cosa svolgersi nel mondo
« con tutta naturalezza». Chi preferiva morir da eroe
al perdere il proprio scudo, e chi lo abbandonava e se
ne comperava uno nuovo, perché più gli premeva la
vita. Lo Stato moderno esigeva moltissimo quanto a
disciplina e a dominio di sé, e la divinità dello Stato
santificava tali esigenze. Ma la moderna analisi del-
l'attività umana considerava le cose in modo mera-
mente causale e fisico e rilevava un profondo contrasto
tra ciò che l'uomo ricerca od evita per natura, e ciò
che la legge gli ordina di ricercare od evitare. « La
maggior parte delle prescrizioni di legge è contraria
alla natura » - dice Antifonte 116) ; e altrove parla della
legge quale « pastoia della natura ». Questa nozione
conduce poi a minare il concetto di giustizia, ideale
dell'antico Stato secondo il diritto. «Per giustizia s'in-
tende non violare le leggi di quello Stato di cui uno è
cittadino». Nella stessa formulazione· verbale par di
sentire la relativizzazione del valore normativo della
legge. In ogni Stato, in ogni città vige infatti una legge
diversa. Bisogna regolarsi secondo essa, se si vuol vi-
vere colà, e altrettanto dicasi dell'estero; ma un'obbli-
gatorietà assoluta non le spètta. La legge, quindi,
non è intesa che affatto esteriorinente: non come un
convincimento intimo dell'uomo, ma come un limite
che non dev'essere varcato. Ma, ·se manca il vincolo
interiore, la giustizia non è più che legalità esteriore
della condotta, per sfuggire al danno della pena; per-
ciò difficilmente si osserverà la legge nel caso in
cui non vi sia alcun motivo di salvar le apparenze ili

ll.6) Antiphon. fr. A, col. 2, 26 e col. 4, 5; cfr. l, 6.


560 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

fronte al prossimo e dove s:i agisca senza testimoni.


È questo infatti, per Antifonte, il punto in cui risalta
la differenza essenziale tra la norma di legge e la norma
di natura. La norma di natura non si può impune-
mente tenere in non cale nemmeno senza testimoni.
Qui, appunto, occorre aver riguardo non solo all' « ap-
parenza», ma anche alla « verità», come dice il sofista
con chiara allusione al titolo del proprio libro. Suo
scopo è dunque di relativizzare la norma artificiale
della legge e di dimostrare che la norma di natura è
la vera.

Ciò fa .pensare alla sempre più pletorica legifera-


zione della democrazia greca del tempo, che vuole sta-
bilir tutto per legge, ma così facendo si avvolge conti-
nuamente in con.tradizioni ed è costretta a ritoccare o
annullare leggi vigenti per far posto a leggi nuove, e
al detto di Aristotele nella Politica 117), essere meglio
per lo Stato aver leggi cuttive, ma stabili, che leggi
sempre mutanti, per buone che siano. L'impressione
penosa della fabbricazione di leggi in massa e della rela-
tiva lotta dei partiti con tutti i suoi accide,nti e le sue mi-
serie umane doveva spianar la via al relativismo. Ma
non è solo il fastidio della legge, proprio della dottrina
d'Antifonte, a trovar rispondenza nell'opinione pubblica
contemporanea - si pensi alla figura del venditore
dei novissimi decreti dell'assemblea popolare, malme-
nato tra sì schietto plauso del pubblico, nella commedia
aristofanea 118) - : anche il naturalismo risponde alla
corrente predominante dell'epoca. La maggior parte
dei democratici convinti non altro intendevano, col
loro ideale, che lo Stato nel quale « si può vivere come
si vuole»~. Anche Pericle,_ nella sua caratteristica della
117) Arist. Pol. II 8, 1268 b 26 sa.
llS) Aristoph. Ao. 1035.
CAP. III: I SOFISTI 561

Costituzione d'Atene, ne tien conto, presentando le


cose come se in Atene il più rigoroso rispetto della
legge non impedisca tuttavia ad alcuno di permettersi
poi in privato il piacer suo, senza che tutti ne arriccino
subito il naso 119). Ma questo giusto equilibrio tra rigore
nella vita pubblica e tolleranza nella vita privata, per
quanto genuini suonino questa · e quello sulle labbra
di Pericle e per quanto umani siano, non erano certo
da tutti, e la nuda franchezza d' Antifonte parla pro·
babilmente per la maggioranza segreta dei suoi concit-
tadini, quando egli fa dell'utile, e in ultima analisi
del gradevole o dilettevole, l'unica regola naturale d'ogni
azione umana 120). Qui s'inserì più tardi la critica di
Platone, per creare più saldo fondamento alla ricostru-
zione dello Stato. Non tutti i Sofisti avranno profes-
sato cosi apertamente e radicalmente l'edonismo e il
naturalismo. Protagora non può averlo fatto, ché quando
Socrate, nel dialogo platonico, cerca di trascinarlo su
una china pericolosa, egli nega nel modo più reciso
d'aver mai sostenuto siffatta opinione, e ci vogliono
tutti i raffinati accorgimenti dialettici di Socrate per
riuscire infine a cogliere in flagrante il valent'uomo, di-
mostrando che si è tenuta aperta in segreto una porti-
cina per lasciar entrare l'edonismo respinto dal portone
principale 121).
Questo compromesso, ad ogni modo, deve distin-
guere i contemporanei di tipo migliore. Antifonte non
appartiene a questi; in compenso il suo naturalismo
ha il pregio della coerenza. La sua distinzione « con o
senza testimoni» coglie in realtà il problema fondamen-
tale della morale dell'epoca. I tempi erano maturi per
una nuova ed interiore motivazione della condotta mo-

119) Thue. II 37, 2.


120) Fr. A, col. 4, 9 ss.
121) PI. Prot. 358a ss.
562 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

rale. Questa sola poteva conferir nuova forza all'auto·


rità della legge. Il mero concetto dell'obbedienza alla
legge, che per il vecchio Stato secondo il diritto, nei
primi tempi della sua esistenza, aveva rappresentato
già una grande azione liberatrice 122), non bastava più
ad esprimere la più profonda coscienza morale. Tale
concetto, come ogni etica della legge, era esposto al
pericolo d'esteriorizza:te l'azione, anzi d'educare alla
mera ipocrisia sociale. Già Eschilo dice dell'uomo vera-
mente saggio e giusto - e gli ascoltatori dovettero pen·
sare ad Aristide: - « Ché egli buono non vuol parere,
.ma essere» 123). Gli spiriti più profondi ben intendevano
di che si trattasse. Ma il concetto ordinario della giu·
stizia non conosceva che la condotta corretta e legale,
e per il volgo il timor della pena era pm sempre il
movente primo dell'osservanza della legge. illtima co·
lonna della sua intima autorità era la religione; ma la
critica del naturalismo ardiva attaccare anche questa
a viso aperto. Crizia, il futuro tiranno, scrisse un dram·
ma, Sisifo, nel quale si ·declamava in piena scena es·
sere gli dèi un'accorta invenzione degli uomini di
Stato, per procacciare rispetto alle proprie leggi l24).
Ad impedire che gli uomini, quando agivano senza te·
stimoni, calpestassero la legge, coloro avevano creato
gli dèi come testimoni onnipresenti invisibili e onni-
scienti d'ogni azione umana, tenendo il popolo in ob-
bedienza mercé il timore di essi. Ciò fa intendere per-
ché Platone, nella Repubblica inventi la favola del-
)' anello di Gige, che rende invisibile agli uomini chi
lo porti 125). Esso deve distinguere colui che agisce retta·
mente per intima rettitudine dall'uomo soltanto este·
122) V. p. 206 e n. 23.
123) Aesch. Sept. 592; per la lezione, v. WILAMOWITZ, Aristo-
teles und Athen I, 160.
134) Crit. fr. 25 (Diels).
125) PI. Resp. 359d.
CAP. III: I SOFISTI 563

riormente conforme alla legge, che ha per unico movente


il riguardo alle apparenze sociali. È il problema posto
da Antifonte e da Crizia, ch'egli tenta cosi risolvere.
Né d'altro si tratta quando Democrito, nella sua etica,
eleva a nuovo valore l'antico concetto greco dell'aiOOs,
dell'intimo rispetto, ponendo in luogo dell'aidos verso la
legge, che i Sofisti dello stampo d'Antifone, di Crizia e
di Callicle avevano demolito, l'idea mirabile dell'aidOs
dell'uomo verso se stesso 1 26).
Da tale nuovo sviluppo il pensiero così d'lppia e
d' Antifonte, come di Callfole, era ben fontano. Non tro·
viamo in loro un vero cimentarsi coi problemi ultimi
della certezza religiosa e morale. Alle idee dei Sofisti
circa l'uomo, lo Stato e il mondo manca serietà e pro-
fondità di motivazione metafisica., quale aveva avuto l'età
che diede allo Stato attico la sua forma e quale la gene-
razione seguente ritrovò nella filosofia. Sarebbe tuttavia
ingiusto cercare da questo lato l'opel'.a loro originale;
questa stava., come dicemmo, nella genialità della loro
arte educativa formale. La loro debolezza proviene dalla
discutibilità della sostanza intellettuale e morale onde la
loro educazione attinge il suo ·intimo contenuto; ma la
condividono con tutta l'epoca loro, circa la cui precaria
situazione non v'è splendore d'arte né potenza dello
Stato che possa farci illusione. È naturalissimo che ap-
punto una genez;azione così individualistica affacci la
consapevole esigenza dell'educazione con insistenza non
mai veduta e l'attui con virtuoaismo. Ma con eguale ne-
cessità essa deve giungere un giorno a riconoscere che a
nessun'epoca più che ad essa medesima fa difetto la
suprema forza educativa., perché, con tutte le sue ricche
doti, le manca ciò che più importa per tale missione:
l'intima certezza del fine.

lH) Democr. fr. 264 (Diels).


CAPITOLO QUARTO.

EURIPIDE E L'ETÀ SUA

La crisi dell'epoca non appare in tutta la sua esten-


sione che nella tragedia d'Euripide. Lo ahhiam-0 sepa-
rato da Sofocle mediante la sofistica, ché nei drammi
pervenutici, tutti .spettanti peraltro al periodo più
tardivo d'Euripide, il « poeta dell'illuminismo greco »
- co-me ci si compiace di chiamarlo - si inspira alle
idee e all'arte retorica dei Sofisti 1 ). Ma, per quanta luce
egli ne riceva, relemento sofistico non è che por·
zione limitata del suo spirito, ed è altrettanto giustifi-
cato il dire che i Sofisti non risultano :iriteramente intel-
legibili se non sullo sfondo psicologico ri~elato dalla
poesia d'Euripide. La sofistica ha una testa di Giano:
l'una faccia è rivolta a Sofocle, l'altra ad Euripide.
L'ideale dello sviluppo armonico dell'anima umana, i
Sofisti l'hanno in comune con Sofocle: esso è affine alla
legge plastica fondamentale dell'arte sua 2). Ma nell'iri-
descente incertezza della motivazione etica fondamen-
tale 3), l'educazione sofistica tradisce la propria deriva-
zione dal mondo scisso, in contrasto con se stesso,

1} PAUL MASQUERAY, Euripide et ses idées (Parigi 1908);


WILBELM NESTLE, Euripides, der Dichter der griechisclz.en Auf-
kliirung (Stuttgart 1901).
2 ) V. pp. 484 ss. e 531 s.
8) V. pp. 548-563.
566 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

che ci si schiude nella poesia d'Euripide. I due poeti,


e tra loro la sofistica con gli sguardi rivolti da ambo
i lati, rappresentano la medesima Atene; non sono rap-
presentanti di due età diverse. I tre lustri circa che
ne separano le nascite, non bastano, nemmeno in
quell'epoca dal passo rapido, a determinare un diva-
rio di generazioni. Fu la diversità dell'indole loro, a
predestinarli ad esprimere _uno stesso mondo, nell'opera
loro, in maniera così diversa. Sofocle procede sulle
ardue cime dei tempi. Euripide dà l'impressione della
rivelazione della tragedia della civiltà, che travaglia
quell'epoca. Ciò gli assegna il suo posto nella storia
dello spirito e gli conferisce quell'incomparabile legame
col tempo suo, che ci costringe a considerarne l'arte
del tutto quale espressione di quell'età 4).
La società che ci si mostra nei drammi d'Euripide,
e alla quale essi si rivolgono, non va qui descritta per
se stessa. Le fonti storiche, e sopr~ttutto le letterarie,
sono per la prima volta assai abbondanti in questo
periodo, e il quadro che ci permettono di tratteggiare
di quella società richiederebbe un libro a sé, che biso-
gnerà scrivere. Il panorama dell'esistenza umana, dalle
banali bassure quotidiane alle sue sommità, nella vita
sociale, nell'arte e nel pensiero, ci si stende dinanzi
variopinto. La prima impressione è quella di una ric-
chezza imponente e di una vitalità fisica e creativa dif-
ficilmente eguagliata nella storia. Se la vita greca,
ancora al tempo delle guerre Persiane, si ripartiva per
stirpi, i cui rappresentanti più cospicui spiritualmente
erano press'a poco pari, dall'età di Pericle in poi tale

") Non sarebbe giusto far derivare le idee di Euripide dall'uso


di « fonti» sofistiche, anche se è probabi!i.smo che egli abbia co-
nosciuto la letteratura del suo tempo. La sua importanza è così
straordinaria per la storia del suo tempo, perché egli fa vedere
come queste idee sofistiche nacquero dalla vita reale e come la
cambiarono.
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 567

rapporto è alterato, e il predominio d'Atene si fa sem-


pre più manifesto 5). Mai, in tutta la sua storia, il
popolo frammentario degli Elleni, che tardi soltanto
diede a se stesso questo nome collettivo, aveva veduto
una concentrazione di forze politiche, economiche e
intellettuali come quella che ebbe sull'Acropoli per mo-
numento, perdurante sino al secolo nostro, il miracoloso
edificio del Partenone, eretto in onore della dea .Atena,
la quale divenne sempre più spiccatamente l'anima,
adorata quale divinità, dello Stato e del popolo suo. Il
destino di tale Stato risentiva tuttora il benefico influsso
delle vittorie di Maratona e di Salamina, anche se la
generazione testimone di quelle giornate era in massima
parte estinta da tempo. Le sue gesta, inculcate senza
tregua, spronavano l'ambizione dei posteri alla più in-
tensa emulazione. Erano il segno sotto il quale la ge-
nerazione presente aveva conseguito i suoi mirabili
successi nell'incessante accrescimento della potenza po-
litica e commerciale attica, sfruttando con tenace co-
stanza, con intraprendenza indefessa e con sagace avve-
dutezza i vantaggi che que~a grande eredità rappre-
senta va per lo Stato democratico in espansione e per
la sua potenza marinara. Certo, il riconoscimento panel-
lenico della missione spirituale d'Atene non era un
credito inesauribile, come mostra già Erodoto, il quale è
costretto a sostenere con tanto zelo tali rivendicazioni
storiche dello Stato di Pericle appunto perché il rima-
nente mondo ellenico non ne vuol più sapere. Ai giorni
in cui Erodoto scriveva, non molto prima che scop-
piasse l'immenso incendio della guerra peloponnesiaco-
attica, che investi tutta la grecità, quel fatto inconte-

6) V. Thuc. II 41, 1 per l'Atene del tempo di Pericle come


scuola della civiltà greca (cfr. p. 688). Nel IV sec. questo tema
fu svolto nel Panegirico di Isocrate; cfr. « Paideia» Ili 130 ss.
568 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

stabile si era da tempo trasformato nella famigerata e


già assai frusta ideologia della politica imperialistica
ateniese, la quale, consapevolmente o meno, includeva
la pretesa del dominio d'Atene anche sulla pa...'"te ancor
libera dell'Ellade 6).
Il compito ch'era toccato alla generazione di Pericle
e ai suoi eredi non poteva paragonarsi, per alato slancio
religioso, a quello d'Eschilo. Ci si sentiva, a ragione,
piuttosto successori di Temistocle, nel quale quell'età
eroica aveva mostrato già un volto molto più moderno 7 ).
Ma anche nella realistica concretezza con la quale si
perseguiva il fine dei tempi nuovi, i contemporanei,
che sacrificavano volenterosi gli averi e il sangue per
la grandezza d'Atene, sentivano un pathos singolare,
nel quale si mescolavano e si stimolavano a vicenda il
freddo e avido calcolo del successo e l'abnegazione del
sentimento civico. Lo Stato sapeva riempire ogni cit-
tadino del convincimento che il singolo non prospera
se non cresce e prospera la comunità. Esso faceva
cosi del naturale egoismo una delle molle più forti
della condotta politica 8). Su di esso, peraltro, lo Stato
poteva far leva solo sinché il profitto evi,dente sopra-
vanzasse la consapevolezza dei sacrifizi. In guerra tale
atteggiamento divenne un grave pericolo, quanto più
quella durava e quanto minor vantaggio materiale se
ne poteva ottenere. Il predominio degli affari, del con-
teggiare e calcolare, dalla sfera privata sino alla più
alta sfera pubblica, caratterizza l'età di Euripide. Il
delicato senso ereditario della decenza esteriore obbli-
gava d'altronde a mantener l'apparenza del bene, anche
là dove moventi reali dell'azione erano il mero utile
o godimento. Non senza fondamento sorge in quell'età

6) Cfr. pp. 659-665.


1) V. il famoso ritratto di Temistocle in Thuc. I 138, 3.
8 ) V. Thuc. Il 60, 3 (discorso di Pericle).
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 569

la distinzione sofistica tra ciò che è buono «secondo


la legge» e ciò che è buono «per natura» 9), e non v'era
punto bisogno dello stimolo della teoria e della rifles-
sione filosofica, per spronare gli uomini a sfruttare in
pratica, con tutte le forze, tale distinzione in difesa
del proprio vantaggio. L'incrinatura di tale ambiguità
ideai-naturalistica, mantenuta ad arte, attraversa tutta
la morale privata e pubblica dell'epoca, dalla politica
di violenza senza scrupoli, cui lo Stato in una situa-
zione siffatta si vede sempre più spinto, sino alle minime
manipolazioni affaristiche del singolo. Quanto più gran·
diosamente lepoca si presenta esteriormente nelle co-
spicue proporzioni di tutte le sue imprese, qrianto più
elastica, consapevole e intensa è la ·maniera in cui cia-
scun individuo intende il suo compito particolare ed
il generale, tanto più triste è l'impressione dell'immane
incremento della menzogna e dell'illusione, a prezzo del
quale si ottiene quello splendore, e della precarietà
della vita interiore dalla quale si richiede tale inaudito
impegno di tutte le forze per l'opera esteriore.
L'anarchia del pensiero~ che metteva sossopra ogni
fondamento, fu terribilmente accelerata dalla guerra
·durata interi decenni. Tucidide, lo storico della tra·
gedia dello Stato ateniese, interpreta la rovina della
sua potenza esclusivamente quale effetto del dissolvi·
mento interno. La guerra non c'interessa qui in qnanto
fenomeno politico: come tale avremo ad apprezzarla
poi, trattando di Tucidide. È invece qui al suo posto
la diagnosi del grande storico in presenza della deca·
denza sempre più manifesta, estendentesi sempre più
rapida, dell'organismo sociale 10). Nel suo atteggiamento
puramente medico, oggettivamente conoscitivo, que·
st'analisi del male forma un riscontro impressionante
9) Cfr. p. 557 ss.
10) Thue•. III 82.
570 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

alla sua famosa descrizione della peste che, sin dai


primi anni della guerra, minò la salute e la resistenza
:fisica del popolo. Tucidide accresce ancora il nostro
interesse per il processo, da lui descritto, della dissolu-
zione morale della nazione causa gli orrori della lotta
di parte, premettendo che tali avvenimenti non sono
fenomeno unico, ma si ripeteranno sempre, sintan·
toché la natura umana rimanga quella che è 11).
Riferiamo il quadro ch'egli fa della situazione conser·
vando per quanto è possibile le sue parole stesse.
Nella pace, la ragione ottiene più facilmente ascolto,
perché gli uomini non sono soggetti a costrizione; ma
la guerra restringe all'estremo le possibilità dell'esi-
stenza e insegna alla moltitudine, con la costrizione,
ad adattare via via alla situazione l'animo proprio.
Nel corso dei rivolgimenti cui la guerra diede luogo,
avvennero continuamente salti d'opinione, complotti e
vendette, e il ricordo delle rivoluzioni precedenti e
delle loro sofferenze inasprl il carattere d'ogni nuovo
rivolgimento.
Tucidide parla a questo proposito del capovolgi-
mento di tutti i valori vigenti, che si manifestò persino
nella lingua, quale totale cambiamento di significati.
Vocaboli che avevano indicato ab antiquo valori sommi,
decaddero nell'uso parlato quotidiano a qualifiche di
intenti e condotta spregevoli, ed altri, che sino allora
significavano biasimo, fecero carriera e assursero a pre·
dicati laudativi. L'insensata irruenza passò ora per ge·
nuino valore e cameratismo, l'attesa previdente per
viltà che si cela dietro sonanti parole. Il senno parve
mera maschera della fiacchezza; la riflessiva cautela,
mancanza d'energia ed inerzia. Si tenne la furia fre-
netica per segno di vera virilità, la matura pondera-

ll) Thuc. III 82, 2.


CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 571

zione per atteggiamento da scansafatiche. Quanto più


uno denigrava e insultava, tanto più era ritenuto fidato,
e chi lo contradiceva era già sospetto. Ordire astuti
intrighi passava per senno politico, subodorarli per ge-
nio anche maggiore. Ma a chi cercava di provvedere,
per non aver da ricorrere a mezzi siffatti, si rinfac-
ciava difetto di spirito di corpo e paura degli avver-
sari. La consanguineità era vincolo da meno che l'ap-
partenenza ad una fazione, ché il compagno di parte
era più pronto a sfrenati ardimenti. Tale aggrega-
zione, infatti, non suole servire, in armonia con le leggi
esistenti, a sostenerle, ma, contro ogni diritto vigente,
ad estendere la propria potenza e ad arricchirsi perso-
nalmente. Persino i giuramenti che tenevano unito il
proprio partito, vincolavano non tanto per la loro san-
tità, quanto per la consapevolezza dei delitti commessi
in comune. Da nessuna parte v'era più una scintilla di
fiducia tra gli uomini. Dove le parti in lotta, per il
loro esaurimento o per la sfavorevole situazione del
momento, erano costrette a stringer patti e a pronun-
ciar giuramenti, ognuno sapeva che ciò non andava ap-
prezzato se non quale sintomo di debolezza, ma non
doveva fidarsene, ben.si aspettarsi che il nemico risorto
non si servisse dei giuramenti che per aggredire alle
spalle con tanto maggior sicurezza l'avversario, indi-
feso e senza sospetto. I capi, democratici o aristocratici
che fossero, avevano sì sempre sulle labbra le parole
altisonanti della loro parte, ma in realtà non conosce-
vano alcuna mèta superiore per la quale lottare. Brama
di potere, avidità e ambizione erano unico motivo
dell'azione, e là dove ci si appellava ai vecchi ideali
politici, questi erano ridotti da tempo a mere parole.

La disgregazione della società non era che l'imma-


gine esteriormente appariscente dell'intimo dissolvi-
572 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

mento dell'uomo. Anche l'onere della guerra agisce


diversamente su un popolo internamente sano, che su
una nazione i cui concetti di valore siano minati dal-
l'individualismo. Eppure non Vi tlf. mai più alto li-
vello di cultura estetica ed intellettuale, che nell'Atene
di quei giorni. La tranquilla costanza dello sviluppo
interno dell'Attica da parecchie generazioni 12), la spon-
taneità della partecipazione generale alle cose dello
spirito, che ivi erano sempre state al centro dell'inte-
resse pubblico, predisponevano le condizioni più fa-
vorevoli. Vi si aggiungeva la prontezza, ognor crescente
con la complessità della vita, di una stirpe già per
se stessa straordinariamente intelligente e fine, estre-
mamente sensibile ad ogni bellezza e che provava
un dileuo inesauribile nel libero gioco delle forze
dell'intelletto. Quanto gli scrittori dell'epoca preten-
dono di continuo dall'intelligenza media degli Ateniesi
non può non riempire a prima vista d'incredula mera-
viglia noi moderni; ma non abbiamo alcun motivo
di porre in dubbio il quadro che ce ne dà ad esempio
· ia commedia d'allora. Ecco seduto nel teatro di Dio-
niso l'umile cittadino Diceopoli, che, s~anocchiando
parcamente la sua cipolla, monologando preoccupato,
sin da prima dell'alba attende d'udire il nuovo coro
di chissà quale gelido e pretenzioso drammaturgo nuovo,
mentre il suo cuore anela irresistibilmente ali' anti-
quatissimo Eschilo 13). Il dio del teatro, che, leggendo
annoiato, se ne sta a bordo della nave sulla quale. dice
d'aver partecipato alla battaglia delle Arginuse, e tiene
in mano ma esemplare d'un dramma d'Euripide, I' Àn.-

1 2) Per-le guerre minori del V sec. svoltesi tra la guerra persiana


e la guerra del Peloponneso, v. la lunga digressione di Tucidide
su questo periodo: I 89-118.
13) Aristoph. Ach. 10.
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 573

dromeda 14), ricordando nostalgicamente il poeta di re-


recente spentosi, incarna già una categoria « supe-
riore» del pubblico: una cerchia d'appassionati ammi-
ratori si è raccolta intorno a un poeta ancora molto
discusso e ne segue attentissima l'opera, anche indipen·
dentemente dalle rappresentazioni teatrali.
Per cogliere e aver agio di gustare la spiritosa ironia
della parodia letteraria nel breve istante in cui si
affaccia sulla scena comica, occorreva un numero non ·
troppo ristretto d'intenditori, i quali sapessero: qui si
allude a Telefo, il re mendico d'Euripide, qui a una
scena di Agatone, là a un canto di Cherilo. E quale
inesauribile interesse per tali cose presuppone l'agone
d'Eschilo ed Euripide nelle Rane 15) d'Aristofane, dove
i prologhi ed altri passi delle tragedie dei due poeti sono
citati a dozzine e dati per noti, dinanzi ad un uditorio
di molte migliaia di persone d'ogni ceto. Che se anche
agli ascoltatori più umili faceva forse difetto la cono·
scenza di taluni particolari, più importante e ben più
meraviglioso è per noi che ci si potesse aspettare~ da
parte della folla, quel senso stilistico cosi fine e sicuro,
senza del quale da tali raffronti diffusi non sorge né in·
teresse, né un elemento di comicità. Se si trattasse d'un
solo tentativo del genere, si potrebbe dubitare dell'esi-
stenza di tali requisiti di gusto; ma ciò è impossibile
di fronte all'inesauribile impiego della parodia quale
uno dei mezzi preferiti della scena comica. Dove po-
tremmo immaginare alcunché di simile nel teatro odier-
no? Certo, sin d'allora, una cultura che è patrimonio po-
polare si distacca chiaramente dall' élite intellettuale, e
spesso nella tragedia, come nella commedia, ci sembra
poter distinguere assai nettamente se questa o quella in·

14) Aristoph. Ranae 52 ss.


15) ib. 830 88.
574 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

venzione dell'autore si rivolga piuttosto alla categoria


intellettuale superiore o al gran pubblico. Ma la lar-
ghezza e popolarità d'una cultura non dotta, del tutto
viva, quale presenta l'Atene della seconda metà del se-
colo V e, in grado non minore, quella del secolo IV,
resta cosa unica, che forse non poteva svilupparsi se
non in una cosi perfetta compenetrazione d'intelletto e
vita pubblica, nella comunità d'uno Stato-città rac-
colta in uno spazio ristretto, da abbracciare con lo
sguardo.
Già il distacco, per quanto non assoluto, della cam-
pagna da quella vita, concentrata, nella città d'Atene,
nell'Agorà, nella Pnice e nel teatro, faceva contem-
poraneamente venire in contrasto il concetto di cam-
pagnolo (&:ypo~xov) con quello di urbano (&:cndov), che
diviene poi senz'altro sinonimo di colto 16). Si mani-
festa qui tutto il contrasto della nuova cultura citta-
dina e borghese con l'antica civiltà aristocratica, in
gran parte campagnola e terriera 17). Nella città v'erano
inoltre i numerosi simposii, vero ritrovo del tutto ma-
schile della nuova società borghese. La progressiva
celebrazione del simposio nella poesia, non quale sede
data al vino, all'amore e al mero divertimento, ma
centro della seria vita intellettuale, fa intendere chia-

16) Tanto i poeti drammatici quanto Platone, Senofonte, Iso-


crate e Aristotele spesso usarono la parola &ypoixoc; nel senso
di «ignorante», significato che evidentemente era comune in
quel tempo. V. la famosa descrizione dell'&ypoi:xoc; come tipo
umano nei Caratteri di Teofrasto.
17) Si ha un documento della. reazione sociale ed economica
della campagna contro il predominio della civiltà cittadina, du-
rante il IV sec., nell'Economico senofonteo prodotto interessantis-
sinio del tentativo di una civiltà di campagna di non capitolare
di fronte alla città e di tener saldi i propri valori ( cfr. « Paideia»
III 298 ss.). Senofonte fa un'ovvia obiezione all'esagerata im-
portanza che la città attribuiva alla sua cultura, e cioè che ogni
civiltà parte dall'agricoltura, come avevano ·notato i Sofisti stessi.
Cfr. p. 534 se.
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 575

ramente quale immensa trasformazione della vita so-


ciale si fosse compiuta dal periodo aristocratico in poi.
Suo fondamento è, per gli elementi borghesi, la nuova
cultura. Lo rivela l'elegia conviviale di quei decenni,
ch'è piena dei problemi dell'epoca 18) e partecipa pie-
namente alla intellettualizzazione generale; lo conferma
copiosamente la commedia. II contrasto mortale tra
la vecchia cultura e la nuova, sofistico- letteraria 1 9),
investe anche il simposio dell'età euripidea e dà a
questa l'impronta netta di un'epoca culturale decisiva.
Ed è sempre Euripide il nome significativo nel quale
si raccolgono i. fautori del nuovo 20).
Dalla contradittoria molteplicità delle forze storiche
e creative più diverse, sorge la vita intellettuale di
Atene di quell'epoca. Alla forza della tradizione, an-
cora ben radicata soprattutto negl'istituti dello Stato,
nelle sue costumanze riguardanti il culto e il diritto,
si oppone per la prima volta presso larghe masse un
impulso individuale illuministico-culturale d'una inau-
dita libertà di movenze, quale nemmeno la Ionia aveva
mai conosciuto. Cosa significa invero, in fin dei conti,
anche il più brusco ardimento d'un singolo poeta o
pensatore che si emancipa, in mezzo ad una cittadi-
nanza che vive nelle usate rotaie, al paragone di un'at-
mosfera cosi irrequieta come l'ateniese, già satura de!
germi di tutta quella critica della tradizione e dove
ogni singola persona, nel campo intellettuale, riven-
dica in massima la stessa libertà di pensiero e di pa-
rola che la democrazia gli accorda, quale cittadino,

18) Si pensa alle elegie scritte da uomini come Ione di Chio,


Eveno di Paro, Crizia il Tiranno e altri.
19) Le ardenti dispute della nuova età sulla vecchia e nuova
cultura (paideia) si riflettono nella commedia di Aristofane. V.
p. 623 ss
20) Per gli attacchi della commedia contemporanea contro
Euripide, v. p. 633 ss.
576 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

nell'assemblea del popolo ? Era cosa, questa, estranea


affatto all'indole dello Stato classico, anche democra-
tico, e allarmante, e più volte si venne all'urto fla-
grante tra questa nuova libertà di parola e di pensiero
individualistica, non garantita da veruna costituzione,
e le forze conservatrici trincerantisi dietro lo Stato,
come nel processo d'empietà di Anassagora o in ta-
luni attacchi ai Sofisti, la cui dottrina illuministica
presentava in parte un carattere manifestamente anti-
statale. Ma in generale lo Stato democratico era tolle-
rante verso tutti i movimenti intellettuali, era anzi
:fiero della nuova libertà dei propri cittadini. Bisogna
ricordare che fu la democrazia attica di questo e del
periodo immediatamente successivo, a fornire a Pla-
tone il modello della sua critica della costituzione de-
mocratica e ch'egli, dal suo punto di vista, qualifica
anarchia intellettuale e morale 21). Per quanto taluni
uomini politici influenti non nascondessero il proprio
odio contro i Sofisti corruttori della gioventù, questo
tuttavia non oltrepassava per lo più i limiti di un
sentimento privato 22 ). Nel filosofo della natura Anas-
sagora, l'accusa voleva colpire insieme il, suo protet-
tore e seguace Pericle 23). In realtà l'aperta propensione
dell'uomo, per tanti anni arbitro delle sorti dello Stato
ateniese, verso l'illuminismo filosofico, fu difesa incrol-
labile della novella libertà di spirito nell'ampia sfera
del di lui potere. Tale privilegio dello spirito, tanto
poco ovvio nel resto della Grecia quanto in ogni altro
paese del mondo e in ogni epoca, attrasse ad Atene

21) Cfr. « Paideia» II 594; v. tutta la parte pp. 583-596.


22) PL Meno 9lc. Ma il medesimo Ariito che in questo passo
mostra la sua antipatia verso l'educazione sofistica, fu poi uno
degli accusatori di Socrate. Su altre particolari critiche mosse
alla paideia sofistica e filosofica nei circoli politici di Atene, V.« Pai-
deia » II 232 (specialmente n. 61).
23) Plnt. Pericl. 32.
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 577

tutta la vita intellettuale. Si ripete ora, su larghissima


scala e spontaneamente, ciò che era accaduto sotto la
tirannide dei Pisistratidi. Lo spirito straniero, dap-
prima meteco, ottiene diritto di cittadinanza. Questa
volta non sono i poeti, che Atene attrae, sebbene non
manchino neanch'essi, giacché, in tutto ciò che ri-
guardasse le Muse, Atene stessa aveva un primato
indiscusso. La nuova piega decisiva è data questa
volta dai filosofi, dai dotti e dagl'intellettuali d'ogni
specie.
Accanto allo Ionio già citato, Anassagora di Cla-
zomene, che sovrasta tutti gli altri, e al suo discepolo
Archelao d'Atene, troviamo qui gli ultimi rappresen-
tanti della filosofia naturale ionica di vecchio stile,
come Diogene d'Apollonia, tutt'altro che insignificante,
sul modello del quale Aristofane disegnò, nelle Nuvol.e,
il suo Socrate. Come Anassagora dedusse per la prima
volta l'origine del mondo, anziché dal caso, dal prin-
cipio d'una ragione pensante, così Diogene univa l'antico
ilozoismo con una moderna e razionale concezione te-
leologica della natura. Ad Ippone di Samo, cui Aristo-
tele non assegna che un'importanza assai tenue quale
pensatore, toccò ad ogni modo l'onore d'essere motteg-
giato nei Pan6ptai del comico Cratino 24). L'eraclitèo
Cratilo ebbe per qualche tempo discepolo Platone gio-
vinetto. Dei due matematici ed astronomi Metone ed
Euctemone, il nome dei quali è legato alla riforma
statale del calendario del 432, il primo soprattutto
e:ra popolare in Atene, dove valeva quale personifica-
zione dello scienziato astratto, com'è portato sulla scena

24) Sui filosofi naturalisti eclettici: Diogene, Archelao, lp-


pone e Cratilo, vedi J. BuRNET, Early Greek Philosophy (4"' ed.)
352-361. Su Ippone cfr. Arist. Mel. I 3, 984 a 3. Per i Pan6ptai
di Cratino e la tendenza di questo dramma. cfr. KocK, Comi-
corum Atric. Fragm. vol. I, p. 60 ss. ·
578 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

negli Uccelli 25) d'Aristofane. Nella sua caricatura, Ari-


stofane pare assumesse anche alcuni tratti d'Ippodamo
di Mileto.
Questo riformatore dell'edilizia urbana, il quale
rinnovò la città portuaria del Pireo secondo l'ideale
geometrico dell'angolo retto, e sostenne inoltre un'uto-
pia politica altrettanto razionalistico-rettilinea, della
quale la Politica d'Aristotele 26) si occupa ancora seria-
mente, è particolarmente caratteristico dell'età sua,
insieme con Metone ed Euctemone, perché mostra
come il razionalismo incominci a invadere la vita.
Anche Damone, teorico della musica, di cui fu disce-
polo Socrate, trova qui il suo posto. L'andare e venire
dei Sofisti, il quale costituiva ogni volta un avveni-
mento cittadino che metteva in orgasmo le sfere intel-
lettuali ateniesi, è descritto da Platone nel Protagora
con la sua ironia magistrale. È necessario che noi de-
poniamo questo senso di superiorità della. generazione
seguente, la quale poté credere d'aver definitivamente
oltrepassato l'illuminismo sofistico, se vogliamo inten-
dere l'ammirazione del periodo precedente per quegli
uomini. Platone fa venire ad Atene, a tenervi lezioni,
anche i due eleati Parmenide e Zenone. Ciò può essere
un'invenzione poetica dello scenario del dialogo, come
tante altre del genere; ma doveva per lo meno non
essere assurdo, ed ha infatti carattere di verità tipica.
Di chi non viveva in Atene, o non vi si mostrava spesso,
non si parlava. La prova più curiosa ne è data dal-
l'esclamazione ironica di Democrito: «Venni ad Atene,
e là nessuno mi conosceva» 27). V'era infatti già non

liii) Aristoph. Av. 992 ss.


•) Arist. Pol. II, 8.
27) Democr. fr. 116 (Diels).
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 579

poca moda nella celebrità ateniese, e alla ribalta si


affollavano parecchie celebrità del momento, cui sol-
tanto più tardi la storia doveva assegnare il loro giu-
sto posto. Ma il numero dei grandi solitari dello stampo
di Democrito, la cui patria non era Ahdera, ma il
mondo, era diventato piccolo. Non certo a caso era
precisamente il puro scienziato a potersi ancora sot-
trarre alla forza d'attrazione del centro intellettuale.
Anche gli spiriti magni, infatti, che dovevano occu-
pare in avvenire il primo posto nella cultura del po-
polo greco, d'allora in poi, per tutt'un secolo, non
sorsero che in Atene.

Che cos'è, che appunto ai grandi Ateniesi, un Tu-


cidide, un Socrate, un Euripide, pur veri figli dell'età
loro, conferisce nella storia della nazione una posi-
zione cosi eminente che tutto il movimento che ferve
loro intorno, testé descritto, appare più che altro mera
scaramuccia d'avamposti prima della battaglia deci-
siva? Mercé loro lo spirito razionalistico, dei cui germi
è piena l'atmosfera, prende possesso delle grandi forze
della cultura: concezione dello Stato, religione, morale
e poesia. Nell'autocoscienza storica di Tucidide, lo
Stato, fattosi razionale, nel momento stesso del suo
tramonto compie l'ultima sua impresa spirituale, nella
quale eterna l'esser suo. Perciò lo storiografo rimane
più dei suoi due grandi concittadini limitato al tempo
suo. Alla ulteriore grecità egli aveva forse meno da
dire, appunto con le sue conoscenze più profonde, che
a noi, poiché il ricorso della situazione storica per la
quale egli scrisse l'opera sua non si ebbe così presto
com'egli probabilmente ebbe a credere. Rivolgendo lo
. sguardo al suo sforzo d'intender lo Stato e la sua sorte
chiuderemo l'esame di quest'epoca, la quale anche
intellettualmente si con.chiude con lo sfacelo del grande
580 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO AlTICO

Stato attico 28). Socrate non è già più rivolto allo Stato,
com'era stata sino allora la maggior parte degli Ate-
niesi di merito, bensì al problema dell'uomo, della
vita in generale. Egli è l'incarnazione del problema del-
l'epoca, la sua coscienza inquieta, profondamente agi·
tata da tutto quel nuovo indagare e scandagliare da
ogni parte. La sua figura, per quanto inseparabile egli
per l'appunto appaia dal tempo suo, appartiene tut·
tavia già agl'inizi di un'epoca nuova, nella quale la
filosofia si leva a vera rappresentante della cultura 29).
Euripide è l'ultimo grande poeta greco nell'antico senso
del termine. Anch'egli ha già un piede in un'altra
sfera, che non quella ond'era sorta un tempo la tra·
gedia. L'antichità lo chiamò il filosofo in teatro. In
realtà egli appartiene a due mondi. Noi lo collochiamo
nel vecchio mondo, del quale era destinato ad essere
il distruttore e che splende anche una volta, nell'opera
di lui, del suo splendore più vivo e seducente. Anche
una volta la poesia assume il suo antico ufficio di guida,
seppur soltanto per ·spianare la via allo spirito nuovo,
che dove•:a, scacciarla dal suo posto ereditario. t uno
di quei gr<\ndi paradossi di cui si compiace la storia.
Acch.ato a Sofocle restava posto per 'una seconda
specie di tragedia, perché era cresciuta :frattanto una
generazione capace di riprendere, in on senso nuovo,
i vecchi problemi del dramma eschilèo. L'elemento
problematico, in Sofocle temporaneamente eclissato da
forze plasmatrici d'altro orientamento, torna, in Euri-
pide, a rivendicare appassionatamente i propri diritti.
Sembrava giunta l'ora di riprendere il tragico processo
tra l'uom<> e la divinità. Essa era data dal destarsi
della nuova libertà di pensiero, che non cominciò a

118) V. il cap. su Tucidide p. 641 ss.


29) V. i1 cap. su Socrate in «Paideia» II 17-127.
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 581

dispiegarsi in modo generale se non quando Sofocle


aveva ormai oltrepassato il culmine della sua vita.
Quando si considerò con freddo occhio scrutatore
l'enigma della vita, che pareva esser rimasto celato
ai padri dal velo d'un pio ritegno, al . poeta, che ai
vecchi problemi applicava i nuovi criteri critici, dovette
sembrare di trovarsi in presenza dell'inizio d'una gigan-
tesca revisione di tutto quanto era stato scritto sin
d'allora. Il mito, cui i due primi grandi tragici avevano
insuffiato l'alito della propria vita, dal quale ogni
alta poesia aveva attinto sin ·dai primordi, era dato,
una volta per tutte, quale accolta di personaggi rice-
vuta in eredità dal poeta. Nemmeno l'ardita sete di
novità d'Euripide pensò a deviare da tale via presta-
bilita. Aspettarselo da lui significherebbe fraintendere
l'antica poesia greca nel suo carattere più profondo,
ché essa era legata al mito, e doveva vivere e perire
con questo. Ma Euripide non vive soltanto meditando
e creando in· tale sfera poetica tradizionale.
Tra questa e lui si affaccia ora la realtà della vita,
quale è sentita dall'età sua. Ha valore simbolico, per
l'atteggiamento di quell'età storica e razionalistica di
fronte al mito, il fatto che produsse lo storiografo
Tucidide, per il quale ricercare la verità equivale a
discacciare l'elemento mitico. È il medesimo spirito
che anima la scienza della natura e la medicina. La vo-
lontà di dar forma alla realtà personalmente vissuta
si leva per la prima volta nelle opere d'Euripide, con-
scia di se stessa, quale impulso artistico primordiale,
e il poeta, trovandosi di fronte il mito quale forma già
data, riversa in tale ricettacolo il suo nuovo senso della
realtà. Non aveva già Eschilo atteggiata la leggenda
secondo l'idea e il vagheggiamento del proprio am-
biente ? non aveva Sofocle umanizzati, in ragione del
piedesimo bisogno, gli eroi ? e il meraviglioso riup.ov3•
582 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

mento del mito, che pareva morto da tempo nel tardo


epos, nel dramma degli ultimi cento anni, non era
unicamente opera dell'ardita trasfusione del proprio
sangue e della propria vita nelle figure larvali di quel
mondo da gran tempo esanime ?
Tuttavia Euripide, ponendosi col suo dramma mi-
tico, esteriormente di stile rigoroso, tra i concorrenti
al premio della tragedia, non poteva dare a credere agli
ascoltatori che la tendenza ad una progressiva mo-
dernizzazione delle figure del mito, nel tentativo ch'egli
osava compiere, non ricevesse che un impulso graduale.
Egli dovette aver coscienza della temerità rivoluzio-
naria della sua impresa, che scosse nell'intimo gli
ascoltatori contemporanei o li fece scostare da lui con
orrore appassionato. Evidentemente la coscienza greca
meglio tollerava un ridursi del mito a formare un
mondo ideale e illusorio estetico-convenzionale, cui si
era già spesso avvicinato nel virtuosismo della lirica
corale del V1 secolo e nel tardo epos, anziché il suo
conformarsi alle categorie della comune realtà, che
agli occhi dei.'G-reci, a petto del mito, corrisponde al
nostro concetto del profano. Nulla caratterizza lo slan-
cio naturàlistico dell'età nuova verso il reale così net-
tamente come il tentativo dell'arte di proteggere il
mito dal pericolo di farsi estraneo e vuoto, con l'emen-
darlo commisurandolo alla realtà considerata senza
illusioni. Tale inaudita operazione non fu compiuta
da Euripide a sangue freddo, ma ebbe luogo con l'ap-
passionato impegno d'una forte personalità d'artista
e con tenace costanza contro decenni di sconfitte e
delusioni, procurate al poeta dal popolo, il quale per
la maggior parte non seguiva ancora affatto il poéta
progressista. Ma alla fine questi rimase vincitore e
conquistò non solo la scena d'Atene, ma tutto il mou.do
di lin~a 1:7eç~,
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 583

Non è nostro assunto passar qui in rassegna ad una


ad una le opere d'Euripide, o presentare un'analisi
della loro forma artistica per se stessa. Ciò che abbiamo
di mira sono le forze stilizzatrici dell'arte nuova. Fac-
.ciamo astrazione da quanto in essa è determinato
dalla tradizione. Il rendersi esatto conto appunto di
tale elemento è bensì condizione indispensabile ad in-
tendere minutamente il processo formativo poetico;
q:ui peraltro dobbiamo presupporla già adempiuta, e
possiamo così tentare di mettere in evidenza, in base
alle concordanze delle risultanze particolari, le tendenze
formali dominanti. Come sempre nella viva poesia dei
Greci, la forma sorge in Euripide organicamente da
un determinato contenuto, ne è ·inseparabile ed è da
esso condizionata spesso sino alla. conformazione lingui-
stica della parola e della sintassi. I contenuti nuovi
non trasformano soltanto il mito, ma con questo anche
il carattere del linguaggio poetico e la forma tradizio-
nale della tragedia, che del resto Euripide non dissolve
affatto arbitrariamente, ma è piuttosto incline a cri-
stallizzare nella rigidezza d'uno schematismo fisso. Le
nuove forze stilizzatrici del· dramma euripideo sono:
realismo borghese, retorica e filosofia. Questo mutamento
di stile è della più alta portata per la storia dello spi-
rito, giacché in esso si annuncia la futura signoria
delle tre forze culturali decisive della tarda grecità.
In ogni scena composta dal poeta, esse mostrano come
la sua creazione presupponga una atmosfera culturale
e una società determinate, cui essa si rivolge, e inver-
samente come questa poesia venga appunto a favorire
l'affermarsi della nuova forma dell'uomo, che si sta
affacciando, ponendogli sott'occhio l'immagine ideale
l'esser suo, della quale ha forse bisogno più d'ogni età
precedente per giustificarsi dinanzi a se stesso.
584 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

L' i m b o r g h e s i r s i della vita rappresenta per


l'età d'Euripide press'a poco lo stesso che, per noi, la
proletarizzazione, da quello a volte rasentata, quando
invece degli eroi tragici del passato porta sulla scena
mendicanti cenciosi. Appuntò contro tale profanazione
dell'alta poesia insorsero gli avversari 30). Già nella
Medea, che temporalmente e interiormente è ancora
la più vicina all'arte dei predecessori, si sente dapper-
tutto questo carattere. Con la crescente libertà poli-
tica e spirituale dell'individuo, l'aspetto problematico
della società umana e dei vincoli sui quali essa si basa
diviene più visibile, e l'Io affaccia i propri diritti umani
là dove si sente oppresso da ceppi che gli sembrano
artificiali. Con la riflessione e coi mezzi di ragione cerca
di procurare attenuazioni, espedienti. Si discute il ma-
trimonio. Il rapporto tra i sessi, da secoli noli me tan-
gere del convenzionalismo, è pubblicamente esaminato:
esso è lotta, come ogni cosa nella natura: Il diritto del
più forte non regna forse qui come dappertutto su
questa terra ? Cosi il poeta trova già nella leggenda
di Giasone, che abbandona Medea, le pene dell'età
sua, e v'inserisce problemi che la leggenda ignora, sì,
ma ch'essa· è atta a presentare con grandioso rilievo.
Le donne ateniesi de] tempo non erano Medee;
erano o troppo ottuse e oppresse, o troppo raffinate
per questa· parte. Perciò la barbara stralunata, che
uccide i propri figli per colpire· in essi il coniuge tra-
ditore, torna opportuna al poeta per tratteggiare, senza
l'impaccio del costume greco, l'elemento primordiale
della natura femminile. Giasone, eroe impeccabile agli
occhi dei Greci in genere, sebbene non sia certo un
modello di marito, diventa un vile opportunista. Non

30) Gli attacchi della commedia contemporanea contro di lui


mettono spesso in rilievo questo carattere: cfr., p, es., la :parodi3
4i :Euripide in t\ristoph. Açh. 41H·79, ·
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 585

agisce per passione, ma per freddo calcolo. Ma cosi


dev'essere, per rendere ammissibile quale personaggio
tragico la parricida della leggenda. A lei si rivolge
tutta la simpatia del poeta, sia perché egli trova mi-
serevole in genere la sorte delle donne e non la vede
quindi alla luce del mito, eclissata dallo splendore eroico
dell'uomo, giudicato soltanto secondo le sue gesta e
la sua fama; ma il poeta vuole soprattutto fare a bella
posta di Medea l'eroina della tragedia coniugale bor-
ghese, quale dovette svolgersi non di rado già nel-
1' Atene d'allora. È Euripide a scoprirla. Nel conflitto
tra lo sconfinato egoismo dell'uomo e la sconfinata
passione e sete di distruzione della donna, la Medea è
un vero dramma del tempo suo. E perciò da ambe le
parti si disputa, s'ingiuria e si argomenta in maniera
assai borghese. Giasone è riboccante di senno e no-
biltà, Medea filosofeggia sulla situazione sociale della
donna, sull'obbligo disonorevole d'abbandonarsi ses-
sualmente ad un estraneo, cui deve seguire nel matri-
monio, comperandolo per giunta con una ricca dote,
e proclama il partorire ben più pericoloso e coraggioso
che le gesta guerresche 31)~
Quest'arte, se non può destare in noi che sentimenti
contradittorii, fu peraltro indubbiamente novatrice ed
atta a mostrare il nuovo nella sua fecondità. Nei drammi
del principio della sua vecchiaia, Euripide non si ac-
contentò d'introdurre i problemi borghesi nei soggetti
mitici, ma alle volte ha addirittura avvicinata la tra-
gedia alla commedia. Nell'Oreste, a proposito del quale
bisogna ben guardarsi dal pensare ad Eschilo o
a Sofocle, i coniugi Menelao ed Elena, riuniti dopo
lunga separazione, tornano dal viaggio nel momento

Sl) Cfr. le riflessioni di Medea siilla sorl;ç Jnisll:rl\hile delle do:ime;


:f:Uf. Meq. 2:30 s1,
586 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

appunto in cui più grave è il pericolo per Oreste, còlto


da una depressione nervosa dopo il matricidio e mi-
nacciato di linciaggio dal p<1polo. Oreste implora aiuto
dallo zio. Menelao mette mano alla borsa, ma è troppo
vile per mettere a repentaglio la propria felicità, or
ora faticosamente restaurata, a pro del nipote e della
nipote Elettra, che gli fanno davvero pena; tanto più
che, a compiere il dramma di famiglia, compare anche
il suocero, nonno d'Oreste e padre dell'uccisa Cliten-
nestra, Tindareo, assetato di vendetta. Il popolo so-
billato, mal guidato, condanna a morte Oreste ed
Elettra. Ma ecco presentarsi il fido Pilade, il quale
complotta con Oreste d'assassinare la famosa Elena,
per vendetta del contegno di Menelao. Ciò peraltro
non riesce, giacché gli dèi involano tempestivamente
la signora, con la quale simpatizzano. In vece sua
dovrebbe allora essere uccisa sua figlia Ermione, e
incendiata la casa. Ma Apollo, deus ex machina, impe-
disce la catastrofe, e il dramma termina a lieto fine,
con la restituzione d'Elena all'impaurito Menelao e la
celebrazione di un doppio fidanzamento delle coppie
Oreste-Ermione e Pilade-Elettra. Il raffinato gusto lette-
rario dell'epoca si diletta specialmente della mescolanza
tra i generi letterari e dei fini passaggi dall'uno all'altro.
J1 riflettersi della tragedia borghese nel grottesco ca-
rattere tragicomico dell'Oreste rammenta la sentenza
di un contemporaneo, il poeta e uomo politico Crizia,
il quale trovava che le fanciulle non sono graziose se
non quando abbiano alcunché di maschile, e i giovi-
netti quando abbiano alcunché di femmineo 82). Ma
anche senza volerlo, le declamazioni dei non epici eroi
d'Euripide spesso, a nostro modo di sentire, rasentano
il comico, e già per gli autori comici del tempo suo

82) Crit. fr. 48 (DIELS, Vorsokratiker Il).


CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 587

furono ricca fonte d'ilarità. Al paragone del contenuto


originario del mito, il loro carattere borghese resta,
appunto per il senso stilistico, qualche cosa di scon-
certante, con la sua ragionevolezza realisticamente cal-
colatrice, col suo bisogno prammatico d'istruire, du-
bitare e moralizzare e col suo non celato sentimenta-
lismo.

L'irrompere della r e t o r i c a nella poesia è un


altro processo interno di non minor momento. Questo
cammino doveva necessariamente portare alla totale
risoluzione della poesia nell'eloquenza. La poesia non
è più considerata dalla teoria retorica della tarda Clas-
sicità se non come una sottospecie, un'applicazione
speciale della retorica. La poesia greca aveva ricavati
per tempo da se stessa gli elementi della retorica; ma
solo l'età d'Euripide creò la teoria del suo uso nella
nuova prosa artistica 33). E come questa, all'inizio,
aveva tratti i propri mezzi dalla poesia, così l'arte
della prosa reagì. alla sua volta sulla poesia. L'acco-
stamento del linguaggio poetico tragico alla lingua
parlata reale si trovava sulla stessa linea della traspo-
sizione del mito nel mondo borghese. Nel contempo il
dialogo e la rhesis della tragedia derivavano dalla evo-
luta eloquenza forense la nuova attitudine ad un'acuta
argomentazione logica, la quale, ancor più che la mera
arte della parola e le sue figure, tradisce in Euripide
l'alunno della retorica. Sentiamo dappertutto il nuovo
gareggiare della tragedia coi duelli oratorii forensi, di
cui gli Ateniesi si deliziavano, mentre anche in teatro

33} V. EDUARD NoRDEN, Antike Kunstprosa, voi. I. p. 52 ss.


Sull'elemento retorico nell'antica poesia greca, v. p. 180, 182.
Cfr. anche la mia analisi di passi retorici scelti nelle elegie di Tir-
teo e Solone,« Sitz. Bed. Akad. » 1926, p. 83 ss. e ib. 1931, p. 549 ss.
588 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

la battaglia oratoria diviene sempre più una delle attrat-


tive più vive del dramma.
Sebbene poco sappiamo di questi primordi della
retorica, anche le sue scarse reliquie mostrano chiara-
mente come vi si riconnetta l'eloquenza poetica d'Euri-
pide. I discorsi di personaggi mitici formano parte
integrante delle esercitazioni retoriche di scuola, come
mostrano il discorso di Gorgia in difesa di Palamede e
il suo elogio di Elena. Anche sotto il nome d'altri
sofisti famosi abbiamo consimili declamazioni scolastiche
date per modelli. Ad Antistene si attribuisce un duello
oratorio (ag6n) tra Aiace e Odisseo dinanzi a un tri-
bunale di capitani greci; ad Alcidamante un discorso
di accusa di Odisseo contro Palamede. Quanto più ar-
rischiato il tema, tanto più adatto era a servir di
prova dell'attitudine della sottile arte, insegnata dai
Sofisti, di far della cattiva causa la, migliore 34). Tutti
gli artifizi e i sofismi di tali giochi retorici d'acu-
tezza e di destrezza li ritroviamo nell'autodifesa di
Elena nelle Troiane 35) d'Euripide, contro la quale Ecabe
sostiene l'accusa, o nel grande discorso della nutrice
nell'Ippolito 36), dove ess:>_ dimostra a Fedra, sua signora,
che per una donna maritata non è iniquo cedere al-
l'amore di un altr'uomo, quando le sorga nel cuore.
Sono, questi, veri pezzi di bravura d'avvocato, la cui
scioltezza senza scrupoli suscitava tra i contemporanei
non meno ammirazione che· contrarietà. Né sorgono
soltanto da un virtuosismo formale.
La retorica sofistica si arroga di sostenere la tesi
soggettiva dell'imputato con ogni mezzo di persuasione.
Radice comune della eloquenza forense del temp'l e di
quella degli eroi tragici d'Euripide è la trasformazione

8 ~) "ò" finCù Àoyov xpe:lnro 7tote:Iv; cfr. Aristoph. N!l-b. !193.


35) Eur. Troad. 914.
li&) Ellf. Hippol. 43.3..
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 589

incessante dei concetti greco-arcaici di colpa e di re-


sponsabilità, la quale si compie in questo periodo sotto
l'influenza del progressivo individualismo. L'antica idea
della colpa era oggettiva; l'uomo poteva _esser colpito
da una maledizione, da una contaminazione, senza
saperlo o volerlo. Il demone della maledizione lo inve·
stiva con violenza di vina, ma ciò non lo sottraeva
alle fatali conseguenze delle sue azioni. Eschilo e So-
focle sono ancora imbevuti di quest'antica idea reli-
giosa, ma cercano di mitigarla, facendo collaborare più
attivamente alla propria sorte l'uomo che una siffatta
maledizione investe, per quanto senza perciò intaccare
il concetto oggettivo di tale Ate. I loro personaggi
sono « (;<>lpevoli » nel senso della maledizione che por-
tano seco, per il nostro pensiero soggettivo sono dunque
«innocenti»; ma la loro tragedia, nella mente di quei
poeti, non consiste nel soffrire senza colpa. Ciò è invece
euripideo e deriva dalla concezione di un'epoca che
basa essenzialmente il proprio atteggiamento sulla sog-
gettività umana. Se il vecchio Sofocle fa che il suo
Edipo a Colono si difenda dall'espulsione per parte
degli abitanti del suo asilo· col dimostrare la propria
innocenza e col presentare a ragione i propri delitti
- parricidio ed incesto - come commessi senza vo-
lontà consapevole 37), il poeta ha, sì, imparato qualche
cosa da Euripide, ma ciò lascia pressoché intatto il
fondo della sua concezione dell'essenza della tragicità
d'Edipo. Per Euripide, invece, tale problema _è sempre
d'importanza dominante, e la coscienza soggettiva del-
l'innocenza, che insorge appassionatamente nei suoi
eroi, si esprime nei suoi drammi come una molteplice
esasperata accusa contro l'ingiustizia stridente del de-
stino. Noi sappiamo come il soggettivarsi del pro-

17) Soph. O.C. 266 es., 537-538, 545-548.


590 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPmITO ATTICO

hlema della responsabilità giuridica, nel diritto penale


e nella difes~ giudiziaria dell'età di Pericle, minacciasse
talvolta d'obliterare del tutto i limiti tra colpa e inno-
cenza; che, ad esempio, gli atti commessi nell'impeto
della passione non erano considerati, da molti, quali
liberamente voluti. Ciò tocca profondamente il campo
della poesia tragica; e l'Elena· d'Euripide analizza il
proprio adulterio quale azione commessa sotto l'im-
pulso di ossessioni erotiche 38). Anche questo fa parte
del capitolo dell'arte invasa dalla retorica, ma è tut-
t'altro che questione di mera forma.

Infine la f i l o s o f i a . Tutti i poeti greci erano


veri filosofi, nel senso dell'unità ancora indivisa di
pensiero, mito e religione. Euripide non introduce quindi
nulla di nuovo nella poesia, quando fa parlare senten-
ziosamente i suoi eroi e i suoi cori. Ma in realtà si tratta,
nel caso suo, d'altra cosa. La filosofia, aii.cora quasi
sotterranea nei poeti greci arcaici, si era intanto affac-
ciata in piena luce quale voi3ç autonomo; il pensiero
razionale invadeva ogni campo della vita. Affranca-
tosi dalla poesia, esso si rivolge ora contro .di lei e vuol
dominarla. Udiamo continuamente questo forte ac-
cento intellettuale nei discorsi dei personaggi euripidei,
non confondibile col profondo tono religioso del pen-
soso Eschilo, anche là dove lotta coi dubbi più gravi.
Tale la prima impressione, suscitata già nell'immedia-
tezza sensibile dalle opere d'Euripide. Sottile e rare-
fatta è l'aura dell'atmosfera spirituale in cui respirano
i suoi personaggi. La loro intellettualità sensitiva, che,
paragonata alla salda energia vitale d'Eschilo, non è

38) Eur. Troad. 948. Nello stesso modo Elena è difesa da Gor-
gia Hel. 15. Secondo questa tesi l'apre sotto la spinta della pas-
sione (Eroi) e&Clude l'e1ercizio della libera volontà.
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 591

che fiacchezza, diviene strumento psicologico di un'arte


tragica che abbisogna d'incessante dialettica a sostegno
e sprone della sua nuova attitudine soggettiva al do-
lore. Ma anche a parte ciò, il raziocinare è per le crea-
ture d'Euripide un assoluto bisogno vitale. Di fronte
a questa constatazione della loro intima struttura es-
senzialmente mutata, è cosa secondaria sino a qual
punto il poeta sia da tener responsabile di quanto di-
cono i suoi personaggi. Già Platone, nelle Lep,gi 39 ),
ha preso le difese dei poeti contro codesta moda, cara
a tutte le epoche, osservando che un poeta è c?me
una fonte, la quale dà l'acqua che ad essa affiuisce:
imita la realtà e attribuisce quindi ai suoi personaggi
le opinioni più contrastanti, senza sapere egli stesso
quali di esse siano giuste. Ma anche se resta per sem-
pre impossibile ricavare per questa via la « prospet-
tiva. » del poeta, pure quegl'intellettualisti euripidei,
che sembrano l'un l'altro di famiglia nell'unicità della
loro fisionomia spirituale, rimangono testimonianza
imponente della parte preponderante· che spetta a
tale animus nell'indole propria del poeta.
Già dalla loro variopinta molteplicità ci sembra di
riconoscere il carattere piuttosto culturale dei sugge-
rimenti ch'egli ha ricevuti caso per caso, quali deter-
minate idee circa la natura e la vita umana, dai pen-
satori del presente e del passato; di fronte a ciò rimane
d'interesse secondario se sia Anassagora o Diogene
d'Apollonia od un altro, eh'egli segue qui o là. Vi fu,
anzi, mai per Euripide ciò che possa dirsi una salda
concezione del mondo ? e, se sì, tenne essa avvinta
più che momentaneamente il suo spirito proteiforme ?
Questo poeta, che tutto può, cui non è estranea al-

•) PL Legg. 719c.
592 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

cun'idea che mai germinasse in un cervello umano,


per quanto pia o frivola, non poté legarsi ad un dogma
illuministico, per quanto faccia elevare dalla sua
Ecahe in angustie questa preghiera all'Etere 40):

O tu, che reggi la Terra e sulla Terra bai il tuo trono,


chiunque tu sia, imperscrutabile,
Zeus, che tu sia spirito umano o legge di necessità universale,
a te s'indirizza la mia preghiera, giacché procedendo per silen-
fzioso sentiero
tu reggi secondo giustizia tutti i destini degli umani.

Quest'invocatrice non crede pm ai suoi vecchi dèi. In


ciò che lo scrutinamento filosofico circa l'eterno prin-
cipio dell'Essere ha loro sostituito, in questo cerca ri-
fugio, pregando, il suo cuore tormentato, che appunto
nell'abisso del dolore non può abbandonare l'umano
bisogno di un senso insito nel caos degli accadimenti;
come vi fosse un orecchio, chissà dove nell'universo,
a udire questa preghiera. Chi mai vorrebbe dedurne
che Euripide avesse nel cuore una religione cosmica,
la quale gli faceva credere alla giustizia del mondo?
Innumerevoli detti dei suoi personaggi attestano, con
pari o anche maggior nettezza, l'opposto-; e nulla ap-
pare più manifesto dell'esser per lui irrimediabilmente
distrutta l'armonia tra legge cosmica e legge morale.
Ma ciò non significa ancora ch'egli si accinga di pro-
posito ad insegnare questa nozione, per quanto poco
i suoi personaggi abbian ritegno a farlo, all'occasione.
A tali aspre dissonanze si contrappongono i drammi
dove, dopo violente accuse alla divinità, questa finisce
tuttavia per condurre ogni cosa a buon fine. Euripide
non è qui il difensore della fede tradizionale, né là
il profeta dell'ateismo. La critica spietata' che gli at-

'°) Eur. Troad. 884.


CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 593

tori dei suoi drammi esercitano sugli dèi, è bensì l'inin-


terrotto accompagnamento d'ogni evento tragico, ma
rimane qualche cosa d'accessorio. Euripide segue in
essa la linea che, dalla critica di Senofane ai miti degli
dèi d'Omero e d'Esiodo, conduce a quella di Platone 41).
Il paradossale è che tale critica, la quale costringe i
due filosofi a rigettare il mito come irreale e immorale,
in Euripide si mescola sempre, distruggendo l'illusione,
alla rappresentazione drammatica del mito stesso. Egli
annienta la realtà e la dignità degli dèi, nell'atto stesso
di ripresentarli quali forze operanti nel suo intreccio.
Ciò conferisce all'effetto della sua tragedia quella sin-
golare ambiguità che oscilla tra la serietà più profonda
e la frivolezza d'un gioco.
Non solo gli dèi sono colpiti dalla sua critica, ma
tutto il mito, in quanto esso rappresenta per il pen-
siero greco un mondo idealmente esemplare. Anche se
non è forse intento dell'Eracle frantumare l'ideale virile
dorico-arcaico dell'autarchia 42), nelle Troiane invece lo
splendore dei conquistatori greci d'Ilio è radicalmente
trasformato in tenebra e il loro eroismo, orgoglio della
nazione, è svelato quale mera brutale cupidigia ~ po-
tere e brama di distruzione 48). Ma lo stesso Euripide,
nell'Eteocle delle Fenicie, ha personificato in modo
impressionante, nella sua intima tragicità, la demonica
sete di potenza del dominatore nato 44), e quale poeta

41 ) Per la critica agli dèi omerici di Senofane v. p. 318 ss. Su


Platone, cfr. « Paideia » Il 372 ss.
' 2 ) Questa fu la profonda, ma un po' astratta interpreta-
zione che, di questo dramma, diede il Wilamowitz nel suo famoso
commento.
43 ) Questo fu dimostrato dalla libera traduzione di Franz W er-
fel, che è piuttosto una trasformazione delle Troiane di Euripide,
che accentuando l'elemento critico fondamentale del dramma, ne
esaltò l'effetto drammatico.
") Cfr. i versi che esprimono la passione demoniaca del vero
tiranno in Eur. Phoer.. 521-525.
594 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

delle grandi feste nazionali, nelle Supplici e nell'An-


dromaca, egli è tutt'altro che un tendenzioso pacifista 45).
La tragedia d'Euripide è stata detta non a torto il
parlatorio di tutti i movimenti del tempo suo. Nulla
mostra la dubbiezza di tutte le cose per la coscienza
di quella generazione. meglio che il dissolversi della
vita e della tradizione intera nel discutere e nel filoso-
fare. cui partecipano persone di ogni età e d'ogni ceto,
dal re al servo.

La riflessione cnt1ca, in Euripide, non è affatto di-


dascalica. ma è interamente espressione dell'atteggia-
mento soggettivo dei personaggi del dramma di fronte
al vigente assetto del mondo. Nel nuovo atteggiamento
naturalistico, retorizzante e raziocinante dello stile
tragico si manifesta l'immensa trasformazione in senso
soggettivo, che trascina nella propria orbita la poesia
e il pensiero. Con Euripide si rinnova intenso quel pro-
cesso che aveva culminato una prima volta nella li-.
rica ionico-eolica 46), ma che poi, con la creazione della
tragedia e con l'indirizzo politico assunto dalla vita
spirituale, si era arrestato. Esso sbocca o:ra nella tra-
gedia 47). Euripide sviluppa l'elemento lirico, sin dal-

"') Le Supplici sono un dramma di chiara tendenza patriot-


tica scritto durante la guerra del Peloponneso. La Andromaca,
secondo gli scolli, non era ricordata nelle Didascalie, conservate
negli archivi di quello degli arconti cui spettava allestire le rap-
presentazioni. Perciò deve essere stata scritta per una occasione
diversa dalle feste dionisiache ateniesi. L'eloquente esaltazione
della dinastia dei re dell'Epiro filoateniesi e la fine del dramma
e il legame di tutto l'intreccio con le origini mitiche di quella
dinastia rivelano il proposito di Euripide. Egli scrisse per una
festa nazionale alla corte di questo re, ammiratore di Atene, du-
rante la guerra del Peloponneso.
46) V. il capitolo sulla poesia Ionica ed Eolica e il sorgere del-
findividualità. p. 221 ss.
47 ) Cfr. WOLFGANG SCHADEWALDT, Der Monolog im Dramo
in « Neue -Philologische Untersuchungen» hrsg., v. W. Jae1er,
Bd. II, p. 143 H.
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 595

l'inizio essenziale nel dramma, ma trasferendolo, in


parte, dal coro ai personaggi. Esso diventa esponente
del pathos individuale. L' «aria» diviene elemento es-
senziale del dramma e sintomo di uua l i r ·i z z a -
z i o n e crescente. La commedia, col suo biasimo della
musica nuova nell'arte euripidea, dimostra ad ogni
passo che in essa è andato perduto per noi qualche
cosa d'essenziale. Ivi trova sfogo il sentimento elemen·
tare, la cui preponderanza è caratteristica della natura
del poeta non meno che la considerazione riflessa. Am-
bedue sono espressione della medesima interiorità sog-
gettivamente mobile e, nel loro continuo trapassar
l'uno nell'altra, ne costituiscono l'immagine perfetta.
_Euripide è uno dei più grandi lirici. Soltanto nel
canto la dissonanza, non risolubile quale problema del-
l'intelletto, gli si risolve in armonia. Certo le « arie»,
con l'andar del tempo, si fanno manifestamente più
manierate, e in parte peccano per una sensibile va-
cuità 48). Ma Euripide rimane ineguagliato nel cogliere
l'intonazione lirica della realtà, sia quella dell'in-
timo legame amorosamente delicato che lega la ri-
trosa anima d'Ippolito giovinetto con la vergine dea
Artemide nella scena dell'Ippolito in cui egli ne inghir-
landa l'immagine, sia nel canto mattutino di Ione,
che al primo raggio del sole levantesi sul Parnaso in-
comincia con pio raccoglimento la sua giornata consa-
>crata alla divinità, sempre eguale attraverso gli anni,

quale custode del tempio di Apollo delfico. Le voluttà


e i dolori della dedizione di un'anima inferma, satura
di mestizia, alla grandiosa solitudine della natura al-
pestre, quali prova Fedra, paiono superare già i limiti
dell'esperienza umana dell'età classica. Nella creazione

48) Difetto che fu criticato da Aristofane nelle sue parodie


delle arie. di Euripide. V. p. es. Ranae 1309 ss.
596 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

della sua vecchiezza, le Baccanti, la forza lirica ancora


intatta del poeta ha toccato il suo fastigio in quegli
sfoghi elementari di folle ebbrezza dionisiaca che fra
tutte le reliquie dell'antichità costituiscono l'unica ri-
velazione genuina ed intima di quello strano tumulto
orgiastico e fanno sentire ancor oggi con un brivido
il potere di Dioniso sulle anime che il suo furore afferra.
Questa nuova arte lirica sgorga dalle profondità
sino allora ignorate di una comprensione simpatica
che coglie ogni moto più tenue e segreto anche della
vita di un'anima estranea, giù giù sino alla zona del-
l'abnorme, da una delicata risonanza all'attrattiva inef-
fabile della personalità, sia d'esseri umani, sia di cose
o di luoghi. Come è còlto in pochi versi, nel coro della
Medea, il profumo dell'incomparabile atmosfera, tra
sensibile e spirituale, che spira la città d'Atene ! 49): la
la sua dignità storica, che ha radici profonde nelle me-
morie mitiche, la tranquilla sicurezza che avvolge qui
l'esistenza, la purità della luce in cui si respira, l'aura
spirituale che dà nutrimento agli uomini, là dove le
sacre Muse fecero sorgere primamente la bionda Har-
monia. Attingendo ai flutti del Cefiso, Afrodite spira
miti aure sul paese e, coronata di rose, manda _ad
.assistere la saggezza gli Erotes;, collaboratori d'ogni
più alta umana perfezione. Non possiamo tralasciare
qui questi versi, ché spirano l'orgoglio e il tono intel-
lettuale della cultura attica ne] momento gravido di
fati che precede di poche settimane lo scoppio della
guerra peloponnesiaca, la quale pose fine bruscamente
alla sicura tranquillità ivi vantata, coinvolgendo di

119) Med. 824. La descrizione della pura atmosfera dell'Attica


o i suoi e1fetti sull'armonica· anima ateniese ha_ un sapore ippo-
crateo e ricorda il libro Sulle arie, acque e luoghi che è la fonte
di tutte le speculazioni di questo tipo nella filosofia ed etnogra-
fia greca.
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 597

nuovo la cultura nella sorte complessiva dello Stato e


della nazione.

Euripide è il primo psicologo. È lo scopritore del-


l'anima in un nuovo significato del terinine, l'esplora-
tore dell'agitato mondo dei sentimenti e delle pas-
sioni dell'uomo. Egli non si stanca di presentarlo nella
sua espressione per se stessa, come nel suo conflitto
con le forze intellettu!lli dell'anima. È il creatore della
patologia dell'anima. Una poesia siffatta non si ren-
deva possibile che in un'età in cui l'uomo avesse ap-
preso a rimuovere il velo che celava tali cose e a ri•
schiarare il labirinto della psiche col lume di wi'inda-
gine che in tutte queste sofferenze ed ossessioni de-
moniche scorgeva fenomeni necessari e regolari del-
l'umana «natura» 50). La psicologia d'Euripide sorge
dalla coincidenza della scoperta del mondo della sog-
gettività con la conoscenza naturalistico-razionale della
realtà, che in quell'epoca conquista un campo dopo
l'altro. Questa poesia non è concepibile disgiunta da1-
l'indagine. Per la prima volta la follia, con tutti i suoi
sintomi, è portata sulla scena con naturalismo spregiu-
dicato. Euripide ritiene tutto lecito al genio, e indub-
biamente egli dischiuse alla tragedia possibilità nuove
affatto, col rappresentare le malattie dell'anima umana,
che traggono origine dalla vita degli appetiti, quali
forze fatali 51). Nella Medea e nell'Ippolito è svelato
l'effetto tragico della patologia dell'erotismo e anche
del difetto d'erotismo. All'opposto, l'effetto sfigurante
dell'eccesso di dolore sul carattere è rappresentato nel-

••) Per il concetto di «natura umana » nella medicina e nel


pensiero greco contemporaneo v. « Paideia» III 10, 34 s. e passim.
01) Al tempo di Euripide esistevano «medici dell'anima
umana». Tale fu Antifonte il sofista, che scrisse anche sull'inter-
pretazione dei sogni.
598 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

l' Ecabe, dove seguiamo con orrore la degenerazione


che fa imbestiare la donna eletta che tutto ha perduto.
In tale mondo poetico, che si risolve in riflessione
e sentimento soggettivi, non v'è alcun punto assolu-
tamente saldo. G-ià si è detto come la eritica euripidea
del vigente ordinamento del mondo e delle concezioni
del mito non sia sorretta da una filosofia ben deter-
minata. La rassegnazione, che iucombe sull'azione e
sul pensiero di tutti i personaggi, deriva da un pro-
fondo scetticismo. Non v'è più, qui, una giustifica-
zione religiosa del corso del mondo. La sete inestin-
guibile di felicità e il senso delicatissimo della giustizia,
che ha l'uomo individualista d'Euripide, non trovano.
mai appagamento in questo mondo. L'uomo non vuole
né può più sottomettersi ad una concezione dell'esi-
stenza che non prenda lui stesso, come diceva Protagora,
quale misura suprema 52 ). Tale evoluzione mette capo
così a questo paradosso: che l'uom~, nell'i~tante in cui
spinge al più alto grado la rivendicazione della li-
bertà, riconosce la propria totale mancanza di libertà.
« Niun mortale è libero: o è schiavo del rlanaro o della
propria sorte, oppure la folla, che comanda.- nello Stato,
o restrizioni di legge gl'impediscono di vivere a modo
suo». Queste parole della vecchia Ecabe 53) sono ri-
volte al vittorioso conquistatore della sua città, il re
dei Greci Agamennone, che vorrebbe accordarle il fa.
vore invocato eppure non può osarlo, per tema del-
1' odio inasprito del suo stesso esercito. Ecahe è il do-
lore personificato. All'esclamazione d' Agamennone 54):
« Ahi, ahi, qual femmina fu cosi infausta ? » ella ri-
sponde: « Nessuna, se ne togli la Tyche medesima».

")V. p. ;ilò.
U) Hec. 864.
H) Hec. 785.
CAP. rv: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 599

L'infausta potenza della Tyche è subentrata ai


fausti dèi. La sua realtà demonica aumenta, nel sen-
timento d'Euripide, di quanto svanisce per lui la realtà
degli dèi. Essa assume così, affatto naturalmente.
l'aspetto d'una nuova divinità, che domina quin.d'in-
nanzi il pensiero greco e soppianta sempre più l'antica
religione. L'indole sua è ambigua, cangiante e volubile.
La fortuna cambia da un giorno all'altro. Se la Tyche
fa sentire oggi la sua malevolenza, può domani risol-
levarti: è capricciosa e infida 55). In alcuni drammi
d'Euripide la Tyche si presenta infatti sotto l'aspetto
della potenza che tutto dirige, che si fa degli uomini
un trastullo. È il necessario complemento dell'imagine
della si::hiavitù e debolezza dell'uomo; la cui unica
libertà è quella di considerare con calma ironica
l'azione di essa, come avviene nell'Jone, nell'Ifigenia
in Tauride, nell'Elena. Non è certo mero caso che
questi drammi siano vicini tra loro anche per data.
Evidentemente il poeta, in quegli anni, si è applicato
con predilezione a questo problema, scegliendo di con-
seguenza i suoi temi. Egli fonda le sue trame su intri-
ghi. complicati, facendoci poi aeguire la gara dell'astu-
zia e del senno umani col volo fulmineo della Tyche,
con vertiginosa tensione interiore. L'Ione è l'esempio
più perfetto di tale tipo di dramma. In esso la nostra
attenzione è di continuo richiamata espressamente sul-
l'imperio della Tyche. Da ultimo essa è invocata quale
dea del perpetuo cangiamento, alla quale il protago-
nista deve la salvezza da una grave colpa involontaria,
la scoperta della propria sorte mirabile, a lui stesso
ignota, e il felice ricongiungimento con la madre, che
aveva perduta. Nel poeta sembra si sia destato ~

~) V. <ç Hepnes » XLVUI (l913) 442,


600 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

gusto singolare per il meraviglioso. Il paradosso d'ogni


felicità e infelicità umana si affaccia stridente. In
mezzo a scene tragiche spunta quindi sempre più
l'elemento comico. La commedia di Menandro è la
continuazione di tale indirizzo.

Una fecondità sconfinata, un indagare e tentare


senza tregua, un'abilità sempre maggiore sino all'ultimo,
caratterizzano l'opera di Euripide. Egli torna alla fine
alla tragedia vecchio stile. Nelle Fenicie crea un dramma
della fatalità, che per forma e soggetto torna a. risen-
tire spiccatamente della maniera d'Eschilo: un cupo
orrido affresco di grandiosa copia d'avvenimenti e di
figure, per quanto sovracarico. Nelle Baccanti, opera
postuma creata nella vecchiezza, si è voluto scoprire
come un trovar-se-stesso dell'autore, un voluto rifu-
giarsi dal razionalismo dell'intelletto autonomo nella
esperienza religiosa, nell'ebbrezza mistica. Anche qui
si è troppo voluto trovar leco di una professione di
fede personale. Per Euripitle la rappresentazione lirico-
drammatica dell'esperienza dionisiaca dell'estasi era
già per se stessa un soggetto infinitamente grato, e
dall'idea del conflitto tra questa suggestione religiosa
collettiva, suscitante in coloro che afferrava forze ed
istinti primordiali, e l'ordinamento razionale dello Stato
e della società civile sorgeva per lo psicologo Euripide
un problema tragico di efficacia è validità imperitura.
Ma nemmeno nella vecchiezza egli toccò il «porto»
sicuro. La sua vita si chiude nell'alacre studio di
questioni religiose. Nessuno ha còlto l'irrazionalità
dell'anima umana, anche sotto questo rispetto, più
profondamente del poeta della critica razionale. Ma il
mondo nel quale egli è immerso resta perciò privo di
fede. Non è forse comprensibile come egli, movendo
dalla sua comprensione qniversale e dalla sua scettica
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 601

conoscenza di se stesso e del tempo suo, imparasse ad


apprezzare, in tarda età, la felicità dell'umile fede in
una verità religiosa oltrepassante i limiti della ragione,
appunto non possedendola? Ancora non era venuto il
tempo in cui tale atteggiamento del sapere di fronte
alla fede potesse diventare fondamentale. Ma nelle
Baccanti ne sono già profeticamente anticipati tutti i
caratteri 56): il trionfo del meraviglioso e della conver-
sione sull'intelletto; l'alleanza dell'individualismo con
la religione contro lo Stato, che per la grecità classica
aveva coinciso, con la sfera religiosa; il deificarsi im-
mediato, vissuto, liberatore, dell'anima individuale,
sciolta dai limiti d'ogni etica meramente legata alla
legge.
Euripide è il creatore d~un tipo specifico d'artista
che non coincide più con la sua qualità di cittadino
e che lo fa star da sè nella vita. Il posto tradizionale
dell'arte sua nello Stato dell'Atene classica, il suo ca-
rattere educativo al modo dei, propri grandi predeces-
sori, egli non pote va più assumerli; ad ogni modo
esercitò questo in altro senso. Egli non manca affatto
di consapevolezza educativa; ma questa non si mani-
festa quale costruzione intellettuale d'un cosmo uni-
tario; si esprime piuttosto nella sua partecipazione,
che continuamente prorompe appassionata, a singoli
problemi dell'opinionè pubblica e della vita dello spi-
:i:ito. Tale critica del presente, la cui forza purificatrice
sta per lo più nella negazione del convenzionale e nella
rivelazione di quanto è dubbio, doveva appunto iso-
larlo. E tale è l'immagine che dà di lui la commedia 57);
così lo vedevano i contemporanei. Né è in contradi-
zione con ciò quel sentimento d'esser sostenuto da

53) V. ARTHUR D. NocK, ConveTsion 25 ss.


07 ) V. la scena cli Aristoph. Ach. 395 ss.
602 LIBRO II - APOGEO E OUSI DELLO SPIRITO A1TICO

un'~tmosfera incomparabile, quale sgorga entusiastico


dall'animo del poeta, nella Metl,ea, nell'elogio dello
spirito della cultura e della vita attica 58). Il fatto
ch'egli terminò i suoi giorni in Macedonia, lontano dalla
patria, conserva un valore simbolico. È un'altra cosa
che la morte d'Eschilo durante il suo viaggio in Sicilia.
II suo mondo è il suo scrittoio, e gli Ateniesi non nomi-
navano lui stratego, come Sofocle. Là, in pace, ben
protetto e difeso tenacemente contro le visite importune
degli estranei dall'attore Cefisofonte, suo collaboratore,
ce lo figuriamo immerso nei suoi libri e nel suo lavoro.
Solo il corpo è là; lo spirito spazia lontano e, se finisce
per tornare su questa terra, apostrofa il visitatore,
nella commedia, dicendo: « O creatura effimera ! » 59).
Egli è ritratto con la fronte incorniciata trascuratamente
da ciocche arruffate, nota caratteristica che la scul-
tura soleva dare alle teste dei filosofi. Eros e Sophia
furono più volte uniti strettamente da Euripide. Ciò
fa pensare proprio a lui, senza riuscire alla certezza,
quando ci i;'imbatte in un detto come questo: «.Eros
è maestro al poeta, anche se prima non era iniziato
alle Muse» 60). Vi sono artisti che furono -infelici nella
vita, ma nelle opere loro appaiono pienamente felici.
Sofocle attinse anche nella vita quell'armonia che ir-
raggia l'opera sua. Ma dietro le disarmonie della poesia
d'Euripide deve nascondersi anche una disarmonia sua
personale. Il poeta è anche in ciò il prototipo dell'in-
dividualità moderna. Egli l'impersona ancor più pie-
namente e profondamente di tutti gli uomini politici
e i sofisti dell'età sua. Egli solo ne conosce tutte le se-
~ete sofferenze interiori e condivide la pericolosa rie-

11&) V. p. 596 ss.


H) Aristoph. Ach. 454.
ISO) Eur. fr. 663 (Nauck),
CAP. IV: EURIPIDE E L'ETÀ SUA 603

chezza delle loro inaudite libertà spirituali. Per c.:i:uantQ


si ferisca le ali contro le strettoie delle condizioni sociali
e personali in cui si trova, il mondo è suo, e rivive
in lui in maniera singolare quel sentirsi aquila che
vedemmo in Pindaro: « L'etere tutto si offr~ libero
al volo dell'aquila» 61 ). Egli non sente soltanto, come
Pindaro, l'altezza cui si leva lo spirito, ma, con un
novissimo anelito appassionato, sente soprattutto la
sconfinata ampiezza della sua orbita. A che la terra
con tutti i suoi limiti ?
Ciò che verrà poi è presentito in misura stupefa-
cente nell'arte d'Euripide. Nelle sue nuove forze sti-
lizzatrici rilevammo le forze culturali dei secoli susse-
guenti: la società borghese (più nel senso sociale del
termine, che nel politico), la retorica e la filosofia.
Esse impregnano iJ mito del loro soffio, che gli riesce
mortale. Il mito cessa d'essere il principio organico
dello spirito ellenico quale era stato sin dalle origini,
la forma immortale d'ogni nuovo e vivo contenuto.
Lo sentirono gli avversari d'Euripide, e vi si opposero.
Ma egli non faceva che realizzare un destino storico
superiore nel processo vitale della nazione. Contro tale
riconoscimento non giova il senso romantico d'un pec-
cato contro il mito, che tanto peso ebhe nel giudizio
di questo poeta, dalla «Storia della Letteratura Greca»
di K ari Otfried Miiller in poi. Sul terreno dello Stato
scosso nelle sue fondamenta e della poesia classica
stessa, si prepara l'uomo nuovo dell'ellenismo. Gl'in-
successi d'Euripide sulle scene ateniesi furono cancel-
lati dalla sua influenza incalcolabile sui secoli seguenti.
Per questi egli fu il poeta tragico per eccellenza, e
soprattutto per lui essi edificarono tutti quei magni-
fici teatri di pietra, che ammiriamo tuttora nel terri-
torio della cultura ellenistica.
61 ) Eur. ft. 1047 (Nauck).
CA 'PITOLO QUINTO.

LA COMMEDIA D'ARISTOFANE

Una descrizione della cultura dell'ultimo trenten-


nio del V secolo non può trascurare il fenomeno della
commedia attica, per noi non meno strano che attraente.
Nell'antichità, chiamandola «specchio della vita», si
pensava alla natura eternamente eguale dell'uomo e
alle sue debolezze~ ma nella commedia si trova ad un
tempo l'immagine storica più completa dell'età sua.
Nessun'altra forma d'arte o di letteratura la pareggia
sotto questo rispetto. Chi voglia studiare soltanto il
comportamento esteriore degli Ateniesi, potrà appren-
dere certo non meno dalla pittura vasale, ma la facile
evidenza sensibile di questo genere, di cui scorriamo
il variopinto album come un'epopea della vita cittadina,
non giunge sino a quella sfera superiore di vibrante
movimento intellettuale onde sorsero le creazioni più
notevoli, a noi giunte, dell'antica commedia. Uno dei
pregi impareggiabili che questa ha per noi è che in
essa vediamo lo Stato, le idee della filosofia e le opere
della poesia collocati nella viva corrente di quel mo.-
vimento e avvolti da) suo fluire. Tolti così dal loro iso-
lamento, possiamo riviverli nel dinamismo del loro
effetto immediato nella situazione del tempo loro. Sol-
tanto per il periodo che conosciamo attraverso la com-
media, ·siamo in grado di osservare anche come pro-
606 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

cesso sociale la formazione della vita intellettuale, che


del rimanente non vediamo se non cristallizzata nel-
l'opera creativa, che ci sta dinanzi in sé conchiusa.
Si fa qui assai evidente come la storia erudita della
cultura, la quale vuol conseguire tale mèta per il tra-
mite della ricostruzione, sia in fondo impresa dispe-
rata, anche quando le notizie di fatto ci siano perve-
nute ben più copiose che per l'antichità. La poesia sola
è in grado, movendo dall'immediatezza della vita di
un'epoca, di cogliere questa vita stessa nel suo colorito
e nella sua forma sensibile ed insieme ne) suo eterno
nocciolo umano. Abbiamo così questo paradosso, in
realtà cosa affatto naturale, che non v'è forse altra
epoca della storia, anche d'un passato recente, la
quale ci sia così presente e interiormente quasi da toc-
car con mano, come quella della commedia attica.
Ma la sua forza artistica, che si manifestò allora
in un'abbondanza meravigliosa d'individUi di talento
diversissimo, non va qui soltanto sfruttata come fonte
della conoscenza d'un mondo scomparso, bensì intesa
come una delle più grandiose rivelazioni originali del
genio poetico ellenico. La commedia è legata come nes-
sun' altra arte alla realtà contemp(n·anea. Per quanto
d'alto interesse storico sia per noi questo oggetto, essa
peraltro mira unicamente a raffigurare, nell'elemento
effimero che presenta, taluni aspetti eternamente umani,
che alla poesia sublime, epos e tragedia, piace igno-
rare. Già la filosofia della poesia, prodotta dal secolo
dopo, è conscia della polarità fondamentale fra tra-
gedia e commedia, quali espressioni complementari del
medesimo bisogno umano primordiale d'imitazione. Essa
riconnette la tragedia,. come ogni alta poesia erede
dell'epos -·eroico, all'inclinazione delle nature elette a'd
imitare uomini grandi, gesta e casi insigni. Spiega i
primordi della commedia con l'impulso irresistibile delle
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 607

nature più volgari1) - noi diremmo: col bisogno del


popolo, osservatore e giudice realistico, il quale, per
oggetto da scimmiottare, ama scegliere ciò ch'è brutto,
biasimevole, spregevole. La scena di Tersite nell'Iliade
che dà in pasto alle maligne risa universali il laido e
vile sobillatore - una delle poche commedie fra tante
tragedie contenute nell'epos omerico - è una genuina
scena popolare. Essa conta sugl'istinti della folla; e
nella farsa tra dèi, che la coppia Ares-Afrodite è co-
stretta a rappresentare, gli stessi esilarati abitanti del-
l'Olimpo fanno da allegro pubblico.
Se persino i sommi dèi sono capaci di queste risa
spiccatamente comiche, in qualità sia di soggetto, sia
d'oggetto, ciò prova che, agli occhi dei Greci, in ogni
essere umano o antropomorficamente concepito, oltre
all'attitudine, al pathos eroico e alla grave dignità, è
insita la capacità e il bisogno di ridere. Taluni filosofi
greci definirono più tardi l'uomo l'unico animale ca-
pace di ridere 2) (per lo più era definito l'animale par-
lante, o pensante), ponendo cosi il riso, quale espres-
sione di libertà spirituale, allo stesso livello del pensiero
e della favella. Riallacciando i ridenti dèi omerici a
quest'idea filosofica dell'Umano, non si sarà tentati di
inferire, dall'origine meno elevata della commedia, un'in-
feriorità di tutto questo genere letterario e dei suoi mo-
tivi psicologici. La cultura attica non manifesta in
nessuno altro campo cosi chiaramente la larghezza e
la profondità della propria umanità, come nella diffe-
renziazione ed integrazione fra tragicità e comicità,
che ha luogo nel dramma attico. Platone fu il primo
ad enunciarlo, facendo dire a Socrate, alla fine del
Convito che il vero poeta dev' essere ad un tempo

1) Arist. Poei. 2, 1448 a l; 4, 1448 b 24.


1) Arist. Pan. An. III 10, 673 a 8, 28.
608 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO AlTICO

tragico e conrico3 ): esigenza soddisfatta da Platone


stesso nell'accompagnare al Fedone il Conviw. Tutto,
nella cultura greca, tendeva a realizzarla. Questa non
pone soltanto l'una in faccia all'altra, sul teatro, la
tragedia e la commedia, ma insegna - secondo un
altro detto platonico - a considerare tutta la vita
umana quale tragedia e commedia insieme .&). Tale
umana totalità è precisamente un segno della sua per-
fezione classica.
Lo spirito moderno non si aprì alla comprensione
del prodigio incomparabile della commedia d'Aristo-
fane se non quando ci si liberò del pregiudizio evoluzio-
nistico che in essa ravvisava il preludo, geniale ma
rozzo ancora, della commedia borghese 5 ). Fu neces-
sario rimettersi prima in grado d'intendere la commedia
arcaica, movendo dalle sue origini religiose quale sfogo
di una dionisiaca gioia di vivere, entusiasticamente
traboccante 6), ma per quanto necessario ·sia stato il
discendere alle sorgenti psicologiche per superare il
razionalismo estetico, che non sentiva in quest'arte le
forze generatrici naturali, pure dobbiamo risalire un
tratto di strada se vogliamo giungere alla ,pura eleva-

a) PL Symp. 223d.
') · PL Pkileb. SOb.
5 ) Questo fu il modo naturale di guardare la commedia di
Aristofane per gli ultimi secoli dell'antichità classica, nei quali
la prèferenza andò alla « Commedia nuova » di Menandro, più
vicina alla attuale condizione sociale e cultura intellettuale. Il
plutarchèo Parallelo di Aristofane e Menandro è un'espressione
eloquente di questa sentenza critica. che a noi appm:e antistorica
e ehe è stata prevalente attraverso i secoli :fino al XIX. Era un
atteggiamento fondato nel sistema della tarda paideia greca e
sulle sue regole morali e culturali.
6) V. P. FluEDLANDER, Aristopkanes in Deutschland in« Die
Antike » VIII (1932) 233 ss. sui principii di una ve:ra com-
prensione della commedia di Aristofane, specialmente in Ha-
mann, Lessing e Goethe.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 609

tezza ili cultura cui si nobilita, nella commedia d'Ari-


stofane, la primitiva forza dionisiaca.
Non v'è esempio più evidente dell'immediato di-
spiegarsi della più alta forma spirituale dalla radice
dell'elemento naturale e tradizionale presso il popolo
greco, che la storia della commedia. I suoi inizi erano
avvolti nell'oscurità, a differenza della tragedia, i cui
stadi di sviluppo, dall'antichissimo canto ditirambico
corale accompagnato dalla danza sino alla vetta del-
l'arte sofoclea, si erano impressi indelebilmente nella
coscienza dei contemporanei 7). Le ragioni di· ciò non
erano soltanto tecniche: su questo genere letterario,
sin dagl'inizi, si concentrò il più serio interesse pub-
blico. Esso era sempre stato lo strumento d'espressione
dei pensieri più elevati. L'ebbro komos della festa dioni-
siaca campagnola,. coi suoi canti fallici crudamente
osceni, non rientrava nemmeno nella sfera della crea-
tività spirituale, della poiesis. Gli elementi più svariati,
derivati interamente da antichissime costumanze delle
feste dionisiache 8), si fusero nella commedia fattasi
letteraria, quale la troviamo in Aristofane: oltre al
tumulto festoso del komos, onde prende nome, soprat-
tutto la parabasi, l'ingresso del coro, che dà libero
sfogo al suo mordace motteggio personale contro il
pubblico, ch'era in origine il popolo affollatosi a guar-
dare, e spesso continua, all'antica, a segnare a dito
questo o quello spettatore. Anche il costume fallico
degli attori e il travestirsi del coro, specialmente con
maschere animalesche, da rane, vespe, uccelli, sono
tradizioni antichissime: lo prova il fatto che ricorrono
già presso i comici arcaici, nei quali era ancor viva
la tradizione e debole l'originalità personale.

7) Arist. Poet. 5, 1449 a 37. ss.


B) A. W. PICKARD ·CAMBRIDGE, Dithyramb, Tragedy and Co·
medy (Oxford 1927) 225 ss.
610 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

La fusione artistica degli elementi formali raccolti


nella commedia attica, che è cosi caratteristica dell'in-
dole dello spirito attico e trova il termine di confronto
più prossimo nella struttura della tragedia, sapiente-
mente composta di danza, canto corale e recitazione
poetica, le conferisce la ricchezza scenica e l'intensità
interiore per la quale sopravanza tutte le analoghe
creazioni anteriori d'altre stirpi greche, nella misura
in cui ne erano sorte indipendentemente da essa, come
la commedia d'Epicarmo, cresciuta nella Sicilia dorica,
e il mimo di Sofrone. L'elemento drammatico più fe-
condo della commedia era il giambo ionico, derivante
anch'esso da un ambiente dionisiaco, che già due secoli
prima era stato sublimato da Archiloco a· forma poe-
tica. Il trimetro della commedia tradisce ancora, nella
sua sciolta costruzione metrica, come non derivi da
quel giambo fattosi letterario, ma direttamente dall'omo-
nimo ritmo schiettamente popolare e probabilmente
improvvisato, usato in ogni tempo per il motteggio.
Solo la seconda generazione di poeti comici e la se-
guente appresero dalla poesia satirica archilochea, se
non la struttura più rigorosa del verso, l'arte superiore
dell'attacco personale bene appostato, che osava sfac-
ciatamente prender di mira anche i personaggi più
altolocati della città 9).
La cosa acquistò importanza soltanto quando la
commedia si affermò politicamente e lo Stato ne af-
fidò la coregìa, quale funzione onoraria, a ricchi cit-
tadini; ché lo spettacolo comico divenne cosi faccenda
che interessava la città intera 10), e fu scatenata la

9 ) L'antico commediografo Cratino fu famoso per le sue sa·


tire politiche contro Pericle. Il titolo 'Apx;lJ..ox;oL di una delle
sue commedie prova che egli seguiva consapevolmente le orme
del grande maestro della satira.
10) Nell'anno 487. V. E. CAPPs, The Introduction of Comedy
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 611

gara con la tragedia. Sebbene il « coro» cormco fosse


ancora assai lontano dall'essersi levato ad un livello
paragonabile per dignità all'alta poesia drammatica,
pure i commediografi. erano costretti a tener cli mira
il modello cli questa. Non solo i singoli elementi for-
mali desunti dalla tragedia ne dimostrano l'influenza,
ma più ancora lo sforzarsi della commedia a costruire
un'azione drammatica conchiusa li), per quanto restasse
avviluppata, come da folte piante rampicanti, da episodi
farseschi che non volevano pi~garsi al nuovo rigore
formale. Anche un «eroe» non si ebbe nella commedia
se non sotto l'influenza della tragedia, ed anche le sue
forme liriche ne furono determinate in misura cospicua.
Al colmo del suo sviluppo, infine, ricevette poi dalla
tragedia anche l'inspirazione ~ll'ultimo perfezionamento
della sua natura, quell'alta missione educativa che
compenetra tutta la concezione che ha Aristofane del-
!'essenza dell'arte sua, e colloca la sua commedia
accanto alla tragedia contemporanea, quale creazione
artisticamente e spiritualmente condegna.
È questo, evidentemente, il punto dal quale dob-
biamo muovere per intendere la particolar situazione
e l'assoluta preminenza che la tradizione ha assegnata
ad Aristofane tra i rappresentanti dell'antica commedia
attica, conservandoci opere originali di· lui solo, e in
numero relativamente cospicuo. Difficilmente ci si potrà
indurre a ritenere mera e cieca opera del caso ch'egli
solo abbi.a potuto sopravvivere, della triade comica
Cratino-Eupoli-Aristofane 12), data per classica dai filo-

into the City Dionysia in « Decennial Puhlications of the Uni-


versity of Chicago>>. I Series, vol VI (Chicago 1904) 261 ss.
11) Questo non ci impedisce, naturalmente, di riconoscere l'ori-
gine indipendente dei principali elementi formali della commedia.
come è stata studiata da T. ZIELINSKI, Die Gliederong der altat-
tischen Komoedie (Lipsia 1885). · . ··
1 2) Hor. Serm. I 4; Quint. Xl, 66; De diff. Com. 3 (p. 4 Kaihel).
612 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

logi alessandrini. Tale canone, evidentemente calcato


sulla triade dei poeti tragici, non fu che una sotti-
gliezza d'eruditi, nella quale non si rispecchia il rap·
porto reale tra l'importanza viva di questi autori.
nemmeno nell'età ellenistica. Lo mostrano ineccepi-
bilmente i papiri ritrovati. Platone ebbe ragione di das·
sificare Aristofane, nel suo Convito, quale rappresen-
tante per eccellenza della commedia. Nulla era stato,
di sua natura, più estraneo alla commedia - anche ai
tempi in cui possedeva già poeti cospicui: della ge·
nialità dissoluta di Cratino e della ricchezza d'inven·
tiva drammatica di Cratete - che il subordinarsi ad
una missione culturale superiore. Essa non voleva altro
che far ridere gli ascoltatori, e persino i suoi autori
più in voga erano fischiati senza pietà quando, invec-
chiando, si disseccava in loro la sorgente prima della
loro efficacia, il brio, come è destino di tutti i clowns 13).
Il Wilamowitz, in ispecie, ha protestato vivamente
contro l'idea che la commedia volesse migliorare moral-
mente la gente. Nulla infatti, sembra più estraneo ad
essa d'ogni intento insegnativo, nonché moraleggiante.
Eppure l'obiezione non è radicale abbastanza, e non
rende giustizia allo sviluppo effettivo della commedia
nell'epoca in cui ci è nota.
A quanto pare, del resto, quel beone impenitente
di Cratino - per il quale Aristofane, nella parabasi dei
Cavalieri 1'), propone che lasci al più presto le. scene
ed ottenga vita natural durante libazioni ad honorem
nel Pritanèo - aveva ancora il suo nerbo essenziale
nel dileggio senza riguardi di noti e malvisti personaggi
cittadini. È il genuino giambo antico, elevato a satira
politic~.- Eupoli ed Aristofane, i radiosi Dioscuri della

18) V. la parabasi dei Ca11alieri di Aristof~e, 507 ss., special·


mente 525 ss.
H) Equ.il. 535.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 613

nuova generazione, che da annc1 incominciarono con


lo scrivere assieme i loro lavori teatrali, e finirono,
nemici accaniti, con l'accusarsi reciprocamente di pla-
gio, nella loro. invettiva personale contro Cleone ed
lperbolo sono i successori di Cratino. Ma Aristofane
ha coscienza, sin dal primo momento, di rappresentare
un livello artistico superiore. Sin dalla prima delle sue
commedie superstiti,. gli Acarnesi, la satira politica
s'intreccia ad un'azione di fantasia condotta con ge-
nialità somma, che unisce il consueto elemento bur-
lesco crudamente sensuale con lo spiritoso simbolismo
di un'alta utopia politica e per giunta l'arricchisce della
comica parodia letteraria d'Euripide. L'intreccio di
fantasia grottesca e di realismo vigoroso, entrambi ele-
menti fondamentali dello spettacolo carnevalesco dio-
nisiaco, genera quell'atmosfera singolarmente plastica,
eppure irreale, ch'era premessa necessaria di una forma
superiore di poesia comica .. Già negli Acarnesi 15) Ari-
stofane accenna ironico alle goffe grossolanità con -le
quali la farsa megàrea suscitava l'ilarità della folla
ottusa e cui anche i poeti della commedià si compia-
cevano tuttora di ricorrere. Certo, anche alla folla bi-
sognava offrir qualche cosa, e il poeia sa far conces-
sioni, al momento opportuno, agl'imprescindibili requi-
siti della vecchia arte comica: l'abusato motteggio delle
zucche pelate degli spettatori, il volgare ritmo di danza
del kordax e il gusto delle scene manesche, con che
l'attore nasconde l'insulsaggine dei propri scherzi. Ana-
loghi dovevano essere stati gli scherzi che - secondo
il giudizio bonariamente insolente dei Cavalieri 1 6) -
fiorivano sul muso, avvezzo ancora al rozzo cibo del-
1' Attica arcaica, del vecchio Cratete. Nelle Nuvole Ari-

15) Ach. 738.


16) Equit. 539.
614 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

stofane proclama ad alta voce quanto superiore egli


si senta ai mezzi dei suoi predecessori (né di questi
soltanto), quanto esclusivamente conti sull'arte e sulla
parola propria 17). Egli è fiero di presentare ogni
anno una nuova « idea », ponendo con questo nella
sua vera luce l'inventiva artistica della nuovissima
poesia coinica non solo di fronte all'anteriore, ma anche
di fronte alla tragedia, giacché questa lavora su temi
dati. Data la gigantesca competizione degli annui con-
corsi drammatici, l'originalità e la novità dovevano
acquistare sempre maggior peso. La loro attrattiva
poteva essere ancora accresciuta dall'eccezionale auda-
cia di un attacco politico, come quello d'Aristofane
contro l'onnipotente Cleone. Con un attacco siffatto,
un commediografo poteva destare l'attenzione generale,
a quel modo che i giovani politicanti solevano esordire
sostenendo l'accusa di un qualche clamoroso processo
politico. Ma ci voleva coraggio, ed Aristofane ritiene
di potersi più vantare per aver« dato una manata sui
ventre» 18) al grande Cleone, che i suoi colleghi, i quali
se la prendevano ogni anno col demagogo Iperbolo,
ben meno pericoloso, e con sua madre.,
Tuttociò non ha certo l'aspetto d'un miglioramento
dell'umana moralità. La metamorfosi spirituale della
commedia deriva da altra fonte. Sorge dalla graduale
trasformazione della sua concezione della propria mis-
sione critica.
Il giambo d'Archiloco, per quanto in parte perso-
nale, aveva già spesso assunto, in seno alla maggior
libertà\ dello Stato-polis ionico 19), l'ufficio della critica.
Ma, nel senso proprio e più alto, ciò non può dirsi che

i1) Nub. 537 ss.


18) Nub. 549.
19) V. p. 231 ss.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 615

della commedia attica, sua erede. Anch'essa era sorta


dal motteggio più o meno innocente contro persone
private; ma non conseguì la sua vera natura che col
fare ingresso nella pubblica arena della politica. Quale
la conosciamo nel suo fiore, si presenta come frutto
genuino della libertà di parola democratica. Già gli
storici della letteratura dell'ellenismo monarchico ri-
conobbero che l'ascesa e la decadenza della commedia
politica coincisero con quelle dello Stato attico 20).
Né mai più fiorì in nessun luogo, e meno che mai nel-
l'antichità stessa, dopo che - secondo il detto di Pla-
tone - si fu caduti dall'eccesso di libertà nell'eccesso
opposto 21). Ma non basta scorgere nella commedia
soltanto la quintessenza della libertà democratica. Nella
commedia, la libertà ipetrofica ricava, per così dire,
da se stessa un controveleno. Superando se stessa,
estende la libertà di parola, la parrhesia, anche a cose
ed istanze che sogliono essere tabù anche nella più
libera fra le costituzioni.
La commedia ravvisa sempre più il proprio com-
pito nel diventare il centro ove si raccoglie ogni cri-
tica pubblica 22). Non paga di, affrontare le cose della
politica nel ristretto senso odierno del termine, ne
abbraccia tutto il campo nel senso originario greco :
leva la sua voce a proposito di tutte le questioni che
agitano l'opinione pubblica. Biasima, ove le sembri
opportuno, non solo i singoli, non solo questa o quella
azione politica, bensì tutto quanto l'indirizzo dello
Stat-0 o il carattere del popolo e le sue debolezze. Con-
trolla lo spirito e si occupa d'educazione, filosofia,
poesia e musica. Per la prima volta, queste forze nel

20 ) De diff. Com. 3 (p. 4 Kaihel).


21) PL Resp. 564a.
Ili) V. ALFONSO REYEll, La critica. . llJJ la edad Atenieme
(Mexico 1941).
616 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

loro assieme sono considerate quale espressione della


cultura d'un popolo e misura della sua sanità interiore.
Esse sono chiamate alla resa dei conti, in teatro, di-
nanzi a tutta Atene. L'idea della responsabilità, inse-
parabile dal concetto di libertà, cui nella vita dello
Stato serviva l'istituto della euthyne, è qui quasi tra-
sferito a quelle forze spirituali preterindividuali, che
sono o dovrebbero essere al servizio del bene comune.
Così, secondo una necessità interiore, fu appunto la
democrazia, la quale aveva invocato la libertà, a porre
i suoi limiti alla libertà dello spirito.
D'altra parte, era tuttavia conforme all'indole di
questo Stato che la limitazione non fosse affare delle
autorità, bensì del pubblico contrasto delle opinioni.
In Atene, la censura è ufficio che la commedia riven-
dica a sé. Ciò conferisce allo scherzo d'Aristofane, che
tanto spesso passa il ·segno, quella straordinaria serietà
che si nasconde dietro la sua maschera ilarè. Platone 23 )
ha chiamato elemento fondamentale del comico il mot-
teggio malizioso delle innocenti debolezze ed illusioni
del prossimo. Forse questa definizione conviene meglio
alla commedia quale era al tempo di Platone, che a
quella d'Aristofane, la cui allegria, ad esempio nelle
Rane, sfiora il tragico. Ma di ciò a suo luogo 24). Il fatto
che oltre alla politica, non ostante i tempi bellicosi, i
problemi dell'educazione occupino nella commedia tanto
posto, vi siano anzi qua e là predominanti, dimostra
l'importanza eminente che spetta loro nella coscienza
contemporanea. La passione intensa con la quale è
condotta la lotta per la cultura, e le sue cause, non ci
sono note che attraverso la commedia. Cercando di
assumer la direzione di questa lotta mercé la potenza

a&) Pl Phileb. 49c.


")V. p. 635.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 617

della comicità, di cui dispone, diviene essa medesima


una delle maggiori forze culturali dell'età sua. Giova
mostrarlo nelle tre principali sfere della vita pubblica :
politica, educazione ed arte. Non è qui luogo per una
analisi di tutte le commedie d'Aristofane; ma vogliamo
illuminare ognuno dei campi suddetti in base alla
commedia che è per esso più caratteristica 26).

La s a ti r a p o lit i c a , che ancora prevale nei


primi lavori d'Aristofane, non s'era dapprima prefissa,
come vedemmo, scopi più alti. Assai spesso riusciva diffi-
cile distinguere la sua libertà dall'insolenza. Persino
nella democrazia attica si venne spesso a conflitti col
governo. Le autorità cercarono continuamente d'impe·
dire il dileggio di persone singole, indicate per nome,
privilegio antichissimo della commedia 26). Ma i divieti
non ebbero lunga vita. Erano impopolari, e nemmeno
la nuova coscienza costituzionale poté eliminare questo
avanzo di un senso sociale primitivo. Se la caricatura
degli uomini politici era fatta con una spregiudicatezza
artistica che anche soltanto si avvicinasse a quella del
ritratto che Aristofane delinea di Socrate nelle Nuvole,
non si può invero non trovare umano che le persone
colpite provassero la tentazione di valersi della propria
autorità per difendersi, mentre i privati come Socrate,
secondo attesta Platone, erano abbandonati indifesi
all'umor popolare alimentato dalla commedia. Nem-
meno dinanzi alla persona del grande Pericle s'era
arrestato il motteggio di Cratino. Nelle Tracie, egli gli
affibbiò il titolo di « Zeus a testa di scilla », alludendo
alla forma singolare del suo capo, di solito opportuna-

26 ) V. GILBERT MURRAY, Aristophanes (Oxford 1933) che tratta


le opere singole.
26) V. A. MEINEKE, Fragm. Com. Graec. I, 40 ss.; T:a. BERGK,
Kleine philologische Schriften II (Halle 1886) 444 sa.
618 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATilCO

mente celato dall'elmo. Appunto questo scherzo inno-


cente tradisce tuttavia l'intimo rispetto verso il mot-
teggiato, I' « Olimpio saettante e tonante», che «rime-
scolava l'Ellade intera» 27).
L'offensiva politica d'Aristofane contro Cleone è di
tutt'altro genere. Il suo motteggio non è quello della
libera schiettezza. Egli non dà alla sua vittima nomi-
gnoli semi-benevoli. La sua battaglia ha qualche cosa
di radicale. Cratino sente la superiorità di Pericle e di
fronte a lui resta il bonario buffone. Scambiar goffa-
mente il grande col piccolo, abbassar familiarmente
al proprio livello l'inattingibile, non è affatto la ma-
niera dello scherzo attico, che in .ciò conserva sempre
il suo senso infallibile delle distanze. La critica d'Ari-
stofane contro Cleone colpisce dall'alto in basso. Fu
necessario scendere a lui, e la discesa, dopo la morte
sciaguratamente prematura di Pericle, era giunta troppo
repentina per non esser sentita quale silltomo della
situazione dello Stato intero. Avvezzi ad esser diretti
con grandiosa elevatezza e superiorità, si insorgeva
impetuosamente contro il volgare conciatore, i cui modi
plebei si rispecchiavano in tutto lo Stato.
Non era difetto di coraggio civile a condannare
al silenzio la critica nell'assemblea popolare nel con-
trasto oggettivo delle opinioni. Colà trionfava l'incon-
testabile pratica degli affari e l'energia travolgente del-
l'oratore provetto. Eppure egli mostrava lati deboli
che facevano vergogna non a lui solo, ma ad A.tene
e alla nazione intera. Era un ardimento inaudito quello
del gicivanissimo poeta, che sùbito con la sua seconda
commedia, I Babil.onesi, che non ci è pervenuta, mo-
veva all'attacco contro l'onnipotente beniamino del
demos, stigmatizzando la sua brutale politica verso

17) Aristoph. A.eh. 530-531.


CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 619

gli alleati in pieno teatro, in presenza ai rappresentanti


di quegli Stati. Il miglior commento lo dànno i di-
scorsi che Tucidide fa tenere a Cleone 28), in occasione
della defezione di Mitilene, intorno al giusto metodo
da seguire di fronte agli alleati. Aristofane li rappre-
seniò in figura di schiavi condannati a far girare il
verricello. Ne venne un processo politico intentatogli
da Cleone. Nei Cavalieri il poeta contrattacca. Si ap-
poggia all'opposizione politica della piccola, ma influente
cricca feudale dei cavalieri, corpo di cavalleria salito
a nuova autorevolezza per via della guerra d'invasione,
dal quale Cleone è odiato. Il coro dei cavalieri illustra
l'alleanza difensiva tra distinzione e spirito contro
l'elemento plebeo, in auge nello Stato.
È chiaro che questa sorta di critica è qualche cosa
di profondamente innovatore nella storia della com-
media, tanto diversa dalle capriole politiche di Cratino
quanto l'accanimento d'Aristofane contro i Sofisti ed
Euripide, inspirato a motivi culturali, dalla parodia
del1'0dissea scritta dal medesimo suo predecessore. La
novità sorgeva dalla mutata situazione spiritual~. Nello
stesso momento in cui, col presentarsi d'un poeta di
genialità somma, lo spirito prende possesso della com-
media, esso è espulso dallo Stato. L'equilibrio che Pe-
ricle aveva stabilito tra la politica e la nuova cultura
dello spirito, e che egli stesso impersonava visibilmente,
era distrutto. Se questo fatto era definitivo, non rima-
neva altro che un ritrarsi della cultura dallo Stato.
Ma lo spirito era frattanto divenuto anche politica-
mente una potenza autonoma. Non era rappresentato
ancora da dotti privati, come nell'età alessandrina,
ma era operante in una poesia viva, la cui voce. col-
piva l'orecchio del pubblico. Accettò quindi la batta-

118) Thuc. Ili 37 ss.


620 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

glia. Per Aristofane non era una lotta contro lo Stato,


ma per lo Stato contro i governanti del momento. La
creazione d'una commedia non era un'azione politica
organizzata, ed è ben difficile che il poeta volesse dar
opera a spianare la via del potere a determinate per-
sone. Ma poteva contribuire ad acquetare l'atmosfera
carica d'elettricità e a ridurre entro i suoi limiti l'in-
sopportabile tirannia della brutalità materiale. Nei Ca-
valieri egli non vuole far propaganda pro o contro
una determinata politica, come nei Babilonesi e negli
Àcarnesi 29), ma sferza il popolo e il suo capo e mette
alla gogna la loro relazione reciproca come indegna
dello Stato ateniese e del suo grande passato.
La relazione tra popolo e demagogo è presentata
in un'allegoria grottesca, che nulla fa vedere invero di
quell'anemica squallidezza che è carattere tipico di
tale categoria di personaggi. Dalla vasta ed astratta
sfera dello Stato, lo spettatore è trasportato nella ri-
strettezza di una casa borghese, nella quale regna uno
stato di cose insopportabile. Il pad.I on di casa, il vecchio
Demos, brontolone, sordo, ingannato da tutti, simbolo
del sovrano policefalo della democrazia attica del tempo,
si lascia guidare passivamente da uno schiavo di nuovo
acquisto, un brutale e barbarico Paflagone, e i due
schiavi più anziani non hanno più pace. Sotto la ma-
schera del Paflagone si cela il temuto Cleone; gli altri
due schiavi, che piangono sulla propria sorte infelice,
sarebbero i capitani Nicia e Demostene. Ma l'eroe della
commedia non è Cleone, bensì il salumaio suo rivale.
Questi rappresenta un grado ancor più basso di vol-

29 ) Nei Babilonesi era affrontato l'attuaii1'simo problema del


trattamento dispotico usato da Atene verso i suoi alleati meno
potenti. Gli Acarnesi furono un'ardente invocazione alla pace,
diretta contro la politica ufficiale di Atene. come fu poi la Pace
pochi anni dopo.
CAP. V: LA COMMEDIA o' ARISTOFANE 621

garità e, senza alcun senno o ritegno, mercé la sua


insolenza più svergognata riesce trionfatore in tutto.
Nella gara a chi dei due sia il maggior benefattore del
Demos suo padrone, Cleone è superato dal salumaio,
che porta per il vecchio un cuscino da sederci su nel-
l' assemhlea popolare, un paio di scarpe ·e una camicia
ben calda. Cleone si accascia tragicamente. I1 coro
acclama il vincitore e, per compenso dell'aiuto presta-
togli, gli chiede con parecchia insistenza la nomina ad
un buon impiego statale. La scena seguente è di stile
solenne. Il vincitore procede anzitutto al ringiovani-
mento simbolico del vecchio Demos. Questi è messo
a bollire in un calderone da salsicce, per essere pre-
sentato al teatro acclamante, dopo tale procedura ma-
gica, inghirlandato e rinato. Demos torna ora ad aver
l'aspetto dei. gloriosi tempi di Milziade e delle guerre
d'indipendenza: è la vecchia Atene fatta persona, co-
ronata di viole, accompagnata dagl'inni, nella sua sem-
plice veste tradizionale, con gli aviti ornamenti nella
chioma acconciata all'antica, ed è proclamato re degli
Elleni. È ora purificato e trasformato anche interior-
mente e confessa pentito la sua vergogna per i vecchi
peccati. Ma il suo seduttore, Cleone, per castigo è ob-
bligato a vendere per la via la salsiccia di cane mista
a: sterco d'asino, che una volta andava offrendo il
suo odierno successore.
L'apoteosi dell'Atene rinnovata ha toccato cosi il
culmine e la giustizia divina ha compiuto l'opera sua.
Ciò che, in sede politica reale, era la quadratura del
circolo - cancellare i vizi di Cleone mediante una bas-
sezza anche maggiore - non costituiva un problema
per la fantasia del poeta. Se il salumaio sarebbe stato
davvero miglior successore di Pericle che il conciapelli,
.ben pochi tra i suoi ascoltatori se lo saranno. doman-
dato. Aristofane poteva lasciar agli uomini politici la ·
622 LIBRO II - APOGEO E CRISI DEILO SPIRITO ATTICO

cura di che dovesse farsi dello Stato rinato. Egli non


voleva che porre uno specchio dinanzi agli occhi
d'ognuno, del popolo e del suo capo: di farli cambiare,
difficilmente avrà avuto speranza. Per un eroe comico,
eroe di segno negativo, nel quale si accumulano tutte
le debolezze ed imperfezioni umane, Cleone era una
figura esemplare. È una trovata spiritosa· quella di
contrapporgli nd salumaio l' « ideale » che gli corri-
sponde, al quale persino quest'eroe rimane assai infe·
riore, per quanto faccia per eguagliarlo. Con la cru··
dezza con la quale è disegnato Cleone contrasta la
grazia indulgente e benevola con la quale le debolezze
del Demos son rivelate ed insieme accarezzate. Frain·
tenderebbe al massimo grado il poeta chi pensasse che
egli abbia creduto sul serio ad un possibile ritorno di
quei tempi andati dei quali evoca l'immagine con tanto
umorismo malinconico e con si puro amor di patria.
Bene esprimono l'effetto che ottengono in poesia sif·
fatti sguardi retrospettivi le parole di Goethe in
Dichtung und W ahrheit: « Quando ad una nazione si
rammenta con spirito la sua storia, tutti ne provano
piacere: essa gode della virtù degli avi e sorride dei loro
difetti, ritenendo d'averli superati da un pezzo». Quanto
meno si cerca di prendere per pedestre pedanteria
politica la magia della· fantasia poetica, che intesse
meravigliosamente realtà e fiaba, tanto più profonda
e ammonitrice giunge all'orecchio dell'ascoltatore la
parola del poeta.
Donde viene che questo genere letterario, consa-
crato all'attimo fuggente, orientato tutto verso l'ef·
fotto del momento, dimostra la propria immortalità
più che mai dal secolo scorso in poi ? In Germania l'in-
teresse pei la commedia politica d'Aristofane si destò
col destarsi della vita politica 30). Ma questa solo da
so) In Germania per primo lo storico antico J ohann Gustav
Droysen mostrò di capire veramente lo spirito politico che ani-
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 623

qualche decennio .in qua ha messo capo a quella con-


sapevole nettezza dei problemi che troviamo nell'Atene
dello scorcio del V secolo. I suoi dati fondamentali
restano sempre gli stessi: le opposizioni di collettività
e individuo, numero e intelligenza, ricchi e poveri,
libertà e vincolo, tradizione e progresso, determinano
il gioco oggi come allora. A ciò si aggiunge che, inti-
mamente appassionata della politica, la commedia d'Ari-
stofane la vede tuttavia da un'altezza e con una li-
bertà di spirito che toglie anche ai fatti del giorno il
loro carattere effimero. Quanto il poeta rappresenta,
spetta tutto alla rubrica immortale: «umano, troppo
umano». Senza siffatta interiore distanza, tale rappre-
sentazione non avrebbe potuto sorgere affatto. La com-
media d'Aristofane risolse sempre più la realtà indi-
viduale in una superiore verità fuori del tempo, fan-
tastica o allegorica. Essa dà l'impressione di maggior
profondità là dove, come negli Uccelli, si libera con
lieve serenità dalla cura opprimente del presente com-
ponendosi a suo talento un'immagine fantastica dello
Stato, un regno di Nuhicuculia, dove ogni peso ter-
reno è svanito, dove tutto ·è alato e libero.;. dove non
sono rimaste che tutte le sciocchezze e debolezze umane
e possono prodursi senza far danno, affinché non manchi
la cosa più bella, senza la quale non vorremmo vivere
nemmeno in quel paradiso: il riso immortale.

Accanto alla politica si presenta per temp.o in Ari-


stofane la c r i t i c a c u l t u r a I e , incominciando
sin dal suo primo passo, i Banchettatori. Il tema della
commedia, il contrasto tra la vecchia e la nuova edu-

. mava la commedia attica, nella sua famosa traduzione delle com-


m_edie di Aristofaile, e particolarmente nelle brillanti introdn-
zioni a ogni commedia, in cui egli le inquadrava nella situazione
ntellettuale e politica del loro tempo. La traduzione del Droy-
aen è stata ristampata recentemente (Winter, Heidelberg, s. d.).
624 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

cazione, è ripreso nelle Nuvole e ha trovato anche altri


echi molteplici nella commedia. Punto di partenza,
assai esteriore, della critica fu l'insolito e bizzarro aspetto
dei campioni della nuova educazione, che suscitava
l'ilarità degli Ateniesi, lasciando· intravvedere debolezze
che arricchivano opportunamente il vecchio repertorio
comico di stravaganze umane, già alquanto frusto.
Così, negli Adulatori d'Eupoli, si schermva il parassi-
tismo dei Sofisti che frequentavano le case dei ricchi.
Le loro relazioni con la classe abbiente pare fossero
elemento centrale anche dei Tagenistai * d'Aristofane,
in cui si metteva in ridicolo il sofista Prodico. Platone
si è giovato, nel Protagora, del motivo comico; ma di
un approfondimento dell'essenza della cultura sofistica,
quale si riscontra in lui, è evidente che non si trattava
affatto in quelle commedie 31). Nei Banchettatori Aristo-
fane aveva rappresentato l'effetto deformatore dell'in-
segnamento sofistico sulla gioventù mascolina, andando
così già assai più addentro. Un cittadino attico della
campagna ha educato l'un.o dei due figli in casa, al-
l'antica, e ha mandato l'altro in città, perché si av-
vantaggi dell'educazione nuova. Questi ritorna tutto
mutato, moralmente guasto e reso inetto alla profes-
sione d'agricoltore. Che gli giova qui, infatti, la sua
cultura superiore ? Il padre è purtroppo costretto ad
accorgersi che il figlio non sa nemmeno più cantare,
ne) simposio, i canti degli antichi poeti Alceo ed Ana-
creonte. Invece delle parole antiquate d'Omero egli
non comprende che le glosse del testo delle leggi di So-
lone, ché la cultura giuridica sta ora al disopra di tutto.

• (Da -.a;yl]vH;CLI, ' cuocere in padella» (N. d. T.)].


81) L'elemento comico nel Protagora di Platone è così forte
che non c'è dubbio sull'intenzione di Platone di gareggiare con
i poeti comici che prima di lui avevano trattato lo stesso arg-0-
mento.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 625

Il nome del retore Trasimaco è citato in un luogo in


cui si disputa sul vocabolario. Queste sottigliezze di
grammatici riuscivano particolarmente fastidiose agli
Ateniesi di vecchio stampo. In complesso, pare che la
commedia non oltrepassasse di troppo i limiti di una
satira innocente 32).
Ma nelle Nuvole, pochi anni dopo, si rivela da che
abisso d'estraneità e d'avversione contro il nuovo indi-
rizzo spirituale fosse sorto già quel primo saggio, che
presto non appagò più nemmeno l'autore. Egli aveva
ora scoperto il modello che pareva predestinato ad
esser l'eroe <l'una commedia della nuova cultura filo-
sofica. Era Socrate d' Alopece, figlio d'uno scalpellino
e d'una levatrice, il quale presentava il grande vantag-
gio, rispetto ai Sofisti, che di rado si trattenevano ad
Atene, d'essere un tipo notorio, adatto alla scena. Alla
maschera comica aveva provveduto il capriccio stesso
della natura, creando quella sua faccia da Sileno, col
naso camuso, le labbra tumide e gli occhi sporgenti.
Bastava caricarne la figura in grottesco. Aristofane
accumulò sulla sua vittima tutti i tratti della specie
cui egli evidentemente andava ascritto, dei sofisti, re-
tori e filosofi della natura o, come allora dicevasi, me-
teorologi. Sebbene Socrate in realtà trascorresse quasi
tutto il giorno in piazza, egli lo colloca, in un'acconcia-
tura di fantasia, nel mistero di un angusto pensatoio,
dov'egli, nel cortile, in una bigoncia sospesa a mez-
z'aria, a collo torto « scruta il sole», mentre i di_scepoli,
giacenti al suolo, ficcano le pallide facce nella sabbia,
per investigare il mondo sotterraneo. Si sogliono con-
siderare le Nuvole secondo la prospettiva della storia
della filosofia, tutt'al più scusandole. Summum ius,

32) V. i frammenti dei ~ix~-rocÀ'iji;; raccolti dal KocK, Frag.


Com. Att. I. 438 ss.
626 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATITCO

summa iniuria. Non è lecito citare il Socrate farsesco


della commedia dinanzi al tribunale della severa giu-
stizia storica. Nemmeno Platone, che svela il fatale
contributo dato da questa caricatura alla fine del suo
maestro, ha applicato un siffatto criterio di giudizio.
Egli ha unito nel suo Convito il personaggio trasfigu-
rato del savio con quello del poeta, e non credette of·
fendere i mani di Socrate attribuendo ad Aristofane
una parte così cospicua in quell'ambiente. Il Socrate
della commedia non ha nulla del risvegliatore morale
che descrivono Platone e gli altri socratici. Se Ari-
stofane ·lo conosceva tale, non poteva peraltro trarne
partito. Il suo eroe è un illuminista forestiero e un
ateo naturalista. La tipica comicità del dotto presun-
tuoso e stravagante è soltanto individualizzata in que·
sta figura per mezzo dei tratti presi da Socrate.
Per chi inuove dal ritratto platonico di Socrate,
tale deformazione deve necessariamente e~ser priva di
spirito. Il vero umorismo si basa sulla scoperta di so-
miglianze nascoste, ma qui non si scorge più alcuna
analogia. Per Aristofane, tuttavia, non si tratta della
forma e del contenuto dei dialoghi socratici, e i carat·
teri differenziali. stabiliti da Platone, delle mentalità
socratica e sofistica scompaiono, per il commediografo,
di fronte all'affinità generica: anatomizzarsi qui ogni
cosa e non esservi più nulla, per quanto grande e sacro,
che sia fuori d'ogni discussione e non abbisogni d'una
giustificazione mediante l'intelletto 33). Il razionalismo
socratico pareva persino andare anche più in là di
quello dei Sofisti. A chi trovava distruttore tutto il
eottilizzare allora di moda, in qualunque forma si pre·
sentasse, non bisogna chiedere che sentisse il bisogno

33) La somiglfa_nza fra Socrate ritratto secondo il convenzio-


nale modello comico e i tipici Sofisti del tempo fu messa in luce
da Platone nella Apologia.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 627

di distinguerne le sfumature. Molti avranno lamentato


questo o quel malo aspetto della nuova cultura; qui
essa è veduta per la prima volta quale fisionomia spi-
rituale dell'epoca, il grande pericolo che occorre allon-
tanare. Aristofane assiste con occhio vigile alla disso-
luzione di tutta quanta l'eredità spirituale del passato,
che non sopporta d'esser considerato con quei freddi
sguardi. V ero è che Aristofane, in privato, si trove-
rebbe anch'egli nell'imbarazzo, se interrogato del suo
« atteggiamento interiore» verso i vecchi dèi; ma da
commediografo egli trova ridicolo che i meteorosofisti
diano al loro etere il predicato di divino, e non può
far a meno di raffigurarsi con evidenza palmare So-
crate invocante il vortice che avrebbe formata la ma-
teria originaria, o le nuvole, quelle vacue e mobili
figure aeree, che hanno una così disperata somiglianza
con gli espedienti dei filosofi 34). Dopo due secoli di ar-
ditissime speculazioni della filosofia naturale, in cui
un sistema succedeva all'altro, l'aria era troppo impre-
gnata di scetticismo verso i risultati del pensiero umano
per accettare tranquillamente l'arrogante sicurezza con
la quale l'intellettualismo illuministico si atteggiava
di fronte alla folla incolta. L'unica cosa che costituisse
un risultato indubitabile era l'abuso che i discepoli
facevano tanto spesso del nuovo sapere nella vita pra-
tica, con la loro cinica arte di stravolgere le parole.
Aristofane ha così l'idea di portar sulla scena, perso-
naggi allegorici, il logos giusto e l'ingiusto, che la re-
torica sofistica distingueva in ogni cosa, per presentare,

34) Moderni studiosi sono riusciti a provare che qualcuno dei


lineamenti del Socrate aristofanesco nelle Nuvole, specialmente
. la sua divinizzazione dell'aria come principio primo, fu preso
dall'insegnamento di un filosofo naturale contemporaneo, Dio-
!(ene di Apollonia. V. H. DIELS in « Sitz. Berl. Akad. » 1891.
628 LIBRO II - APOGEO E CRlSI DELLO SPIRlTO ATTICO

quale tableau comico della moderna pedagogia, il trionfo


del discorso ingiusto sul giusto 35).
Dopo una scaramuccia introduttiva, in cui i due
oratori si scagliano in faccia le solite villanie, il coro
li invita ad esibirsi in una giostra pro vecchia e nuova
cultura. È caratteristico che non si enumerano astrat-
tamente singoli mezzi e metodi, per i quali l'una si ri-
tenga superiore all'altra, ma l'educazione vecchio stile è
presentata dal Logos Giusto 36), con evidenza concreta,
quale tipo umano. Soltanto mediante il tipo compiuto
ch'essa produce, può infatti raccomandarsi un sistema
educativo, non mai con considerazioni meramente teo-
retiche. Nel tempo in cui :fioriva ancora il Logos Giusto
e in cui si richiedeva un contegno decente, non si udiva
mai un fanciullo nemmeno :fiatare. Ognuno, per via,
andava ammodo per la sua strada recandosi a scuola,
e senza mantello anche se fioccava la neve. Là s'impa-
rava a cantare severi canti tradizionali su ·melodie anti-
chissime. ·Se uno avesse cantato leziosaggini tutte colo-
riture secondo lo stile dei musici odierni, botte sarebbero
state. Così si educò una generazione di soldati di Mara-
tona. Ma ora ci si affretta ad avvolgere i ragazzi in
mantelli che li ammolliscono, e c'è da soffocar di rab-
bia, a vedere con che goffaggine, nella dimza pirrica
delle Panatenee, i giovinetti si reggono lo scudo da-
vànti alla pancia 37). Il Logos Giusto promette al gio-
vanetto che si affidi a lui e alla sua educazione, d'in-
segnargli a odiare il mercato e le terme, a vergognarsi

35) Nub. 889 ss.


36 )Nub. 961 ss. Qui cominciano le lodi della &px_a;(a; 7ta:t3da:.
37 ) Più tardi Platone propose (Legg. 796b) di rinnovare le
antiche danze, compresa la danza di guerra, come quelle dei Cu-
reti in Creta, dei Dioscuri a Sparta, e di Demetra e Kore in
Atene, v.'"<< Paideia» III 442. Questo fa ricordare la critica di
Aristofane nelle Nuvole, che sembra essere più che un'espressione
di sentimenti personali e può rifiettere una più vasta tendenza
di quel tempo.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 629

delle cose indegne e ad insorgere se uno lo schernisce,


ad alzarsi dinanzi ai vecchi e a far loro posto quando
si avvicinano, ad onorare gli dèi, a non macchiare la
divina immagine del rispetto, a non frequentare dan-
zatrici e a non contradire al padre. Dovrà invece eserci-
tarsi, cosparso d'olio e forte, nelle palestre, non tenere
al mercato discorsi pungenti né lasciarsi trascinare in
tribunale per disputarvi maliziosamente di bagattelle.
Sotto gli ulivi dell'Accademia egli, coronato di giunco
bianco, correrà a gara con un bravo compagno ammodo,
odorante di convolvoli e di fronde di pioppo e d'ozio
delizioso e allietandosi, in piena primavera, quando il
platano mormora colà coll'olmo. Il coro chiama felici
coloro che vissero nel buon tempo antico, in cui que-
st' edu~azione imperava, e gode il dolce profumo della
sophrosyne, che aleggia sulle parole del Logos Giusto.
Contro di questo si leva ora il Logos Ingiusto 38),
che già scoppia quasi dalla stizza e arde di confondere
ogni cosa con la sua dialettica. Si vanta del proprio
uome di malaugurio, che si è guadagnato per essere
stato il primo a inventar l'arte di contradire alle leggi
in tribunale. Questa capacità, di sostenere la causa
peggiore e farla tuttavia trionfare, non c'è oro che la
paghi. Nella forma ora di moda, di domanda e risposta,
egli confuta l'avversario. Cosi facendo, si serve inte-
ramente, alla maniera della novissima retorica, delle
iugannevoli prove tradizionali fornite dagli esempi mi-
tologici. Gli oratori dell'epos li avevano adoperati esem-
plarmente quale norma ideale, e la poesia antica segue
tale uso 39). La sofistica ne approfitta, raccogliendo dal
mito gli esempi sfruttabili nel senso dell2 dissoluzione
e relativizzazione naturalistica ch'essa fa di tutte le

BB) Nub. 1036 ss.


aa) V. p. 80 ss.
630 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

norme vigenti. Se la difesa in giudizio tendeva in pas-


sato a provare che il caso era conforme alle leggi, ora
si attacca la legge e il costume stesso, cercando di di-
mostrarli manchevoli. L'asserzione che i bagni caldi
producano infiacchimento è contestata dal Logos In-
giusto appellandosi all'eroe nazionale, Eracle, giacché,
per ristorarlo, Atena fece zampillare dal suolo le s.or-
genti termali delle Termopili. Egli loda il trattenersi
al mercato e l'eloquenza disprezzata dal campione della
vecchia educazione, invocando testimoni l'eloquente
Nestore e gli eroi d'Omero. Il Logos Giusto ricorre
ora al medesimo espediente, quando gli si chiede cini-
camente a chi mai abbia giovato la sophrosyne, e cita
ad esempio Peleo. Gli dèi, in premio della sua virtù,
che lo condusse ad estremo pericolo, gli mandarono
un coltello fatato per sua difesa. Ma questo « grazioso
dono» non fa alcuna impressione al Logos Ingiusto.
Per illustrare quanto più innanzi si giung~ con la bir-
banteria, egli è costretto, peraltro, a lasciare per un
momento la sfera mitologica per ricorrere ad un esempio
pratico più recente: ai « più che molti » tal~nti che
il demagogo Iperbolo ha guadagnati con,tale qualità.
L'altro si difende: ma gli dèi diedero a Peleo un premio
ben maggiore ancora, gli diedero in moglie Tetide.
Disgraziatamente, questa lo ha piantato - ribatte
l'Ingiusto - perché non lo trovava abbastanza diver-
tente. E, vòlto al giovinetto, della cui anima la vecchia
e la nuova educazione si contendono il possesso, egli
lo invita a riflettere come il risolversi per la sophrosyne
implichi la rinuncia a tutti i piaceri dell'esistenza.
E per giunta sarà indifeso quando, per le « necessità
di natura», faccia un passo falso e non sia in grado
di difendersi. « Se sei in buoni termini con me, lascia
pur libero corso alla natura, salta e ridi, non ritener
nulla biasimevole. Se sei accusato d'adulterio, nega
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 631

ogni colpa e appellati a Zeus, che non sapeva tener


testa neanche lui ad Eros e alle donne. E tu, uomo
mortale, come dovresti esser più forte d'un dio ? ».
È la stessa argomentazione che, in Euripide, quella
d'Elena o della nutrice nell'Ippolito. Essa culmina in
ciò che il Logos Ingiusto, con la lode della propria mo-
rale rilassata, suscita le risa del pubblico e· dichiara
poi che quanto è praticato dalla gran maggioranza
del rispettabilissimo popolo è impossibile sia vizio.
Anche da questa confutazione dell'ideale della. vec-
chia educazione si affaccia evidente as~ai il tipo del-
l'uomo colto nuovo. Non va preso addirittura quale
testimonianza autentica degl'intenti educativi sofi-
stici 40); ma a molti contemporanei tale appariva, o
quasi, e non saranno mancate aberrazioni che in-
vitavano ad una generalizzazione in tal senso. Nel
contrasto tra la vecchia e la nuova cultura, che posi-
zione assume il poeta ? Erreremmo cercandolo netto
partigiano dell'una o dell'altra parte. Egli stesso è
beneficiario dell'educazione moderna, e nulla sarebbe
più assurdo che risospingere la sua commedia nel buon
tempo antico, cui appartiene il suo cuore e che cionon-
dimeno l'avrebbe fischiato. Il fresco incanto primave-
rile onde è avvolta la sua immagine nostalgica, analo-
gamente alla fantasmagoria del Demos rinato all'antica
prestanza alla fine dei Cava-lieri 41), s'intreccia mesta-
mente a una lieve comicità. L'evocazione della vecchia
paideia non è un invito a ritornare al passato. Aristo-
fane non è un reazionario di dogmatica rigidezza. Tut-
tavia la sensazione di essere trasportati dall'impetuosa
corrente del tempo e di veder dileguare il prezioso patri-

'°) Aristofane fa ampio uso della sua libertà poetica nel rap-
presentare la moderna educazione dei Sofisti come consapevol-
mente immorale.
u) v~ P· 621.
632 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO AlTICO

monio antico, prima d'essersi assicurati novità d'egual


pregio, si mostra assai saliente in questo periodo di
transizione, empiendo d'angoscia gli spiriti veggenti.
Non c'è ancora una conoscenza storica della trasforma-
zione nel senso nostro odierno, e -tanto meno la fede
generale nell'evoluzione e nel « progresso». L'espe-
rienza della storia reale non può quindi esser sentita
che come una scossa subita dal saldo edillcio dei valori
tradizionali, nel quale si stava tanto sicuri.
L'immagine ideale dell'educazione antica ha il com-
pito di mostrare che cosa non è la nuova. Nella raffi-
gurazione di questa, la comicità innocua e benevola
che avvolge l'immagine dell'antica trapassa in aspra
satira, diventando capovolgimento totale di quanto è
sano e giusto. In 'tale critica negativa sta il serio con-
cetto pedagogico che nessuno può negare a questa
commedia. L'indifferenza morale della nuova e supe-
riore capacità intellettuale, che non si serite più legata
ad alcuna norma, si fa qui particolarmente spiccata.
A noi sembra paradossale che sia appunto questo
aspetto della nuova cultura ad essere schernito in una
commedia che ha per protagonista Socrat~. Nella com-
posizione stessa della commedia, almeno nella forma
in cui ci è giunta, la scena_ della disputa fra il Logos
Giusto e l'Ingiusto ha poco a che fare con Socrate,
che non è nemmeno presente 42). Ma la chiusa delle
Ran~ dimostra che Socrate è ancora per il poeta il
tipo per eccellenza di uno spirito nuovo, che con la

42) Socrate lascia la scena (Nub. 887) per fare posto all'ag6n
del Discorso Giusto e dell'Ingiusto, che segue immediatamente.
Tutta l'invenzione di questo ag6n sembra appartenere alla se-
conda esecuzione delle Nuvole e fu evidentemente scritta per
arricchire --la commedia che non aveva avuto successo nella
prima esecuzione. La VI ipotesi delle Nuvole annovera esplici-
tamente questa scena fra le parti aggiunte da, Aristofane per
la seconda esecuzione.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 633

sua presuntuosa, cavillosa e astrusa sofisticheria am-


mazza il tempo e, schernendoli, perde inoltre i valori
insostituibili dell'elemento musico e dell'arte tragica 43 ).
Col senso infallibile di chi deve il contenuto ideale
della propria vita e la sua più alta cultura a tali fonti,
e le vede in pericolo, l'istinto del poeta volta le spalle
a un'educazione che ha la sua maggior forza nell'in-
telletto, e questa ostilità ha più che un'importanza
personale: ne ha una storico-sintomatica.

Tale spirito, infatti, si era già affacciato nella poesia


stessa. Quando Aristofane difende la tragedia contro
Socrate e contro l'illuminismo razionalistico, ègli ha
per nemico, alle spalle, Euripide. Con Euripide si era
compiuta l'irruzione della nuova corrente spirituale
nell'alta poesia. Perciò la battaglia intorno alla culiura
culmina per Aristofane in quella per la tragedia. Anche
qui troviamo la medesima tenace costanza d'Aristo-
fane che nella lotta intorno all'educazione nuova. La
crrtlca d'Euripide percorre tutta la sua opera poetica,
sino a diventar quasi una persecuzione 44). L'atteggia-

•a) Ranae, 1491 ss.


44) Uno dei principali aspetti del problema del decadere della
poesia fu la decadenza della musica, che è stato discusso parecchie
volte. È interessante osservare la precisa somiglianza fra gli at-
tacchi di Aristofane e degli altri poeti comici di quel tempo contro
la musica moderna e la famosa critica di Platone nelle Leggi
(v. « Paideia» III 418 s.). Cfr. questa somiglianza con altri tratti
della critica di Aristofane sulla moderna paideia, che egli condi-
vide con Platone (v. n. 37). Il più notevole passo contenuto nella
commedia sul declinare della cultura musicale è il lungo fram·
m.ento di una commedia di Ferecrate in cui « Donna Musica»
è introdotta in abito stracciato e col suo bel corpo malridotto.
Ella si lamenta con ~LXO'.LOGÙV1J di ciò che le è avvenuto e
muove gravi accuse contro alcuni dei musici moderni, come Me-
lanippide, Cinesia, Frinide e Timoteo. V. Ps. PLUT. De Mus. 30,
dove è attestato che Aristofane attaccò in modo simile il musico
Filosseno. I suoi attacchi contro Cinesia e altri sono ben noti.
L'accordo dei poeti comici con Platone nelle loro ripetute cri·
tiche non è in favore dell'opinione che tutto ciò fosse solo scherzo
634 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

mento di fronte alla politica era molto più cosa mo-


mentanea. La battaglia stessa contro Cleone o per la
pace, che pure era stata anch'essa d'importanza pri-
maria per Aristofane, non durò che qualche anno. Il
centro di gravità sembra spostarsi sempre più verso
la critica della cultura. Essa è, ad ogni modo, la que·
stione più scottante ancora suscettibile di discussione
pubblica. Forse l'ammutolire della commedia politica
si spiega col fatto che, verso la fine della guerra pelo·
ponnesiaca, la situazione era troppo disperata. La li-
bertà illimitata del pubblico contrasto d'opinioni pre-
suppone nello Stato una sovrabbondanza di forza che
esso allora non possedeva. Il crescente scetticismo po-
litico si rifugia negli amhieni:i privati e nei clubs. Non
molto dopo la sconfitta d'Atene muoiono successiva-
mente Euripide e Sofocle. La scena tragica è fatta or-
fana. Evidentemente un periodo storico si chiude.
I miseri epigoni, il poeta tragico Meleto, il ditirambico
Cinesia e il comico San.nirione, nella commedia aristo-
fanèa Geritade *, scritta qualche anno dopo, scendono
ambasciatori nell'Ade per chiedere laggiù consiglio ai
grandi poeti. Così l'epoca ironizza se stessa. Nelle Rane,
composte nel breve intervallo tra la morte dei due
poeti tragici e il tracollo d'Atene, l'atmosfera è un'altra
ancora, più tragica. Quanto più gravi sono le condi·
zioni dello Stato, quanto più insostenibile il peso che
grava sull'animo di tutti, tanto più desiderosi cercano
gli sguardi un sostegno e un conforto spirituale. Ora
soltanto appar chiaro che gran cosa avesse avuto il
popolo ateniese con la tragedia. La commedia sola po·

e non cosa seria. È la ininterrotta tradizione della critica dei kaloi·


kagathoi di Atene. Anche Platone nelle Leggi 700d chiama i mu·
sicisti moderni ocyvwµovEç m:pl TÒ 1Hxocrnv T"Ìjç Moucrl)ç, che ri·
corda la 6.txoctocruv7J del frammento musicale di Ferecrat~
(v. sopra).
* [Da yl)puew, «cantare» (N. d. T.)].
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 635

teva esprimerlo per tutti. Essa ne era anzitutto capace


per l'oggettività data dalla maggior distanza possibile,
che separa la musa comica dal suo opposto, la tragica.
Ed essa sola aveva ancora un poeta degno di questo
nome. Con gli anni, era salita all'alto posto di vedetta
donde poteva osare d'assumere nello Stato l'ufficio am-
monitore della tragedia, sollevando i cuori. Fu la sua
grande ora storica.
Aristofane evoca, nelle Rane, l'ombra della tragedia,
morta con Sofocle ed Euripide. Non v'era nulla che
unisse gli spiriti, guasti nella sfrenata lotta di parte,
più profondamente di questa rimembranza. Rinnovarla
era già un'azione politica. Dioniso in persona scende
nell'oltremondo per riportarne su Euripide. Che que-
sto fosse il più ardente desiderio del pubblico, deve
riconoscerlo persino il più fiero nemico del defunto.
Il suo dio Dioniso è il pubblico teatrale simbolica-
mente fatto persona, con tutte le sue grandi e piccole
debolezze comiche. Ma questa nostalgia generale porge
ad Aristofane l'occasione della sua ultima e più am-
pia critica dell'arte d'Euripide. Egli si eleva al disopra
della sua precedente ironia, per lo più soltanto accessoria,
che in questo momento sarebbe stata inopportuna,
investendo il problema con profondità basilare. Euri-
pide non è consideJ"ato in se stesso, a che, da grande
artista, avrebbe certo diritto, e tanto meno è ricono-
sciuto misura dell'età sua; ma è contrapposto ad
Eschilo, sommo rappresentante della dignità religiosa
e morale della tragedia. NeJla composizione delle Rane,
questo contrasto, semplice ma efficacissimo, dà luogo
ad una competizione tra l'antica e la nuova poesia,
analogamente a quello tra antica e nuova educazione
nelle Nuvole. Ma, laddove la competizione delle Nuvole
non ha importanza decisiva per il corso dell'azione,
nelle Rane essa sostiene tutto l'edificio. La discesa
636 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

nell'oltremondo era un motivo prediletto della comme-


dia; nella sua applicazione, le Rane si riallacciano ai
Demi di Eupoli, dove gli antichi uomini politici e
strateghi ateniesi erano tratti su dall'Ade per soccor-
rere la città mal guidata 46). Combinando quest'idea
con la competizione tra i poeti, Aristofane ottiene l'inat-
tesa soluzione che Dioniso, sceso nell'Ade per prendere
il suo beniamino Euripide, finisce, dopo la vittoria
d'Eschilo, col ricondur seco in terra il vecchio poeta,
invece del concorrente iuniore, per salvare la città
natale.
Non è compito nostro apprezzare la commedia quale
opera d'arte. Dobbiamo considerarla come la più impo·
nente manifestazione di tutto il secolo V circa il posto
della poesia tragica nella vita della comunità politica.
Emerge così, ai nostri occhi, quella parte della compe-
tizione (agon) delle Rane in cui Eschilo pone Euripide,
che vanta i propri meriti, di fronte al quesito:« Dimmi,
per che cosa si deve ammirare il poeta ? » 46). La critica
che segue, di carattere piuttosto estetico, dei partico-
lari comici nella costruzione dei prologhi, dei canti e
d'altre parti della tragedia, non può essei: qui conside-
rata fine a se stessa e deve quindi esser lasciata da
parte, non ostante la finezza e lo spirito che vi sono
profusi e che, con la loro ricchezza d'elementi concreto-
intuitivi, vengono a dare al tutto il suo vero colore.
Tale critica è peraltro d'importanza primaria per l'effi-
cacia comica del lavoro, facendo da contrappeso alla
precedente disputa intorno al significato etico d'ogni
vera poesia, di cui quella discussione, che sfiora conti-

") Estesi frammenti dei .6.ijµo~ di Eupoli furono scoperti in


un papiro qualche decina d'anni or sono. Essi hanno portato
nuova luce sulla scena dell'Ade nelle Rane di Aristofane, di cui
la commedia di Eupoli era evidentemente il modello letterario.
") Ranae 1008.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE 637

nuamente una tragica serietà, ha urgente bisogno.


Queste affermazioni contemporanee circa l'indole e la
missione del poeta hanno per noi tanto maggior peso,
in quanto ci mancano quasi affatto espressioni dirette
delle personalità creatrici di quell'epoca 47). Anche te-
nendo conto che le concezioni dell'indole propria del
poeta, poste da Aristofane sulle labbra d'Eschilo e
d'Euripide, sono già state in contatto con la consape-
volezza della teoria sofistica contemporanea e le deb-
bono questa o quella formula, pure l'enunciazione serba
per noi il suo valore insostituibile quale conferma
autentica dell'espressione che ricaviamo dalle opere
tragiche stesse.
Dimmi, per che cosa si deve ammirare il poeta ? -
Euripide concorda con Eschilo nella sua risposta, per
quanto le parole ch'egli sceglie ammettano un'inter-
pretazione sua propria: Per la sua eccellenza e per la
capacità d'insegnare altrui, giacché noi rendiamo mi-
gliori gli uomini negli Stati 48). - E se tu non lo hai
fatto, ma da retti e nobili li hai fatti birbanti, di che
allora ti rivelerai degno ? - Di morte, interrompe Dio-
niso: non chiederglieJo neppure. - E ora Eschilo, con
pathos c.omicamente parodistico, descrive com'erano
onorandi e marziali gli uomini che Euripide aveva rice·
vuti in consegna da lui. Essi non conoscevano altra
brama che di vincere i nemici. Sin da principio, i poeti
non hanno esercitata che questa missione: la parte
più eletta tra essi ha sempre poetato per il bene degli

47 ) La storia della antica critica letteraria si fonda genera!·


mente sulle teorie dei filosofi Platone e Aristotele. Ma la sua ori-
gine risale al V sec. Le Rane di Aristofane segnano il suo primo
apparire in tutta la letteratura greca superstite. Prima di lui c'è
certo il pensiero dei Sofisti sul problema della poesia, che è per
noi quasi completamente perduto. V. ALFONSO REYES, La cri-
tica en la edad Ateniense (Mexico 1941) che tratta esplicitamente
Aristofane, pp. 111-156.
48) Ranae 1009.
638 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

uomini. Orfeo ci ha rivelato le consacrazioni e l'asten-


sione dal sanguinoso assassinio, Museo la guarigione
delle malattie e le divinazioni, Esiodo la coltivazione
dei campi. le stagioni dei frutti e la semina, e il divino
Omero per che altro ottenne onore e fama, se non per
aver insegnato cose buone, l'arte della guerra, il valore,
l'armamento degli eroi ? Sul modello !'luo, Eschilo ha
foggiato molti veri eroi, lt> figure leonine di Patroclo
e di Teucro, per ~pronare il cittadino a calcarne le
orme quando la tromba chiami.

Ma non ho fatto cortigiane come Fedra e Stenebea,


e nessuno può dire ch'io abbia mai creata una figura di donna
[.... amante 49).

La mirabile oggettività comica d'Aristofane sa spesso


ristabilire l'equilibrio minacciato dopo un simile leg-
gero traboccare del pathos. Euripide si appella al fatto
che i temi dei suoi drammi femminili ·~li erano dati dal
mito. Ma Eschilo vuole che il poeta abbia a nascon-
dere il male, non a esibirlo in pubblico e ad insegnarlo.

Ché ciò ch'è per i fanciulli il maestro, che mostra loro la buona
' [strada,
lo stesso siamo, per gli adulti, noi poeti. Perciò dobbiamo sempre
dire soltanto quanto vi è di più nobile 50).

Euripide non trova, nelle parole eccelse d'Eschilo, que-


sta nobiltà, sembrando!";li che un linguaggio siffatto non
sia più umano. Ma l'avversario gli spiega che chi nutre
in sé alti pensieri e sentimenti, quegli deve partorire
anche parole analoghe, e che a semidei si addice un
linguaggio superiore al pari del paludamento solenne 51).
« Questo, tu l'hai distrutto. Dei re hai fatto mendicanti

49) ib. 1043-1044.


50) ib. 1054-1056.
51 ) ib. 1060 ss.
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOF,ANE 639

cenciosi ed hai insegnato ai ricchi Ateniesi ad aggi-


rarsi e lamentarsi come se non avessero più danaro
per armare le navi da guerra, come lo Stato loro do-
manda. Tu hai loro insegnato ad esercitarsi nel ciar-
lare e mentire, hai spopolate le palestre.... indotti i
marinai a ribellarsi ai comandanti » 52 ). Siamo così nel bel
mezzo delle miserie politiche presenti, delle quali, come
d'ogni malanno, è chiamato responsabilP Euripide.
La comica esagerazione di quest'omaggio negativo
si apprezza interamente soltanto tenendo presente che
sono parole non già rivolte ad un teatro pieno di filo-
logi classici, che prendono tutto alla lettera, per indi-
gnarsene, bensì al pubblico ateniese, che aveva in Euri-
pide il suo dio. Con un crescendo insensibile, la critica
più fine diviene caricatura deformatrice, e la carica-
tura si fa rozzo fantoccio comico, sinché alla fine il
« dio » ci sta dinanzi quale incarnazione di tutti i mali
di quest'infelice età, alla quale il poeta, nella patriot-
tica parabasi, rivolge poi parole d'ammonimento con-
fortanti e redentrici. Dietro il gioco spiritoso, v'è,
infatti, in ogni riga, ciò che qui prorompe impetuoso:
la cura dolorosa della sorte· dello Stato. Di questo si
tratta, dovunque si parla della vera e della falsa poe·
sia, e sebbene Aristofane in realtà sappia le cento vcdte
che Euripide non è un fantoccio, ma un artista im·
mortale, cui egli stesso nell'arte sua va infinitamente
debitore e cui per il proprio modo di sentire è in realtà
molto più vicino che non al suo ideale, Eschilo; pur·
tuttavia quest'arte nuova non è in grado di dare allo
Stato ciò che Eschilo aveva dato ai cittadini dell'età
sua e che, nell'atroce situazione odierna, solo potrebbe
salvare la patria. Perciò Dioniso, alla fine, è costretto

51 ) ib. 1069 88.


640 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

a decidersi pe.r Eschilo, e il re dell'oltretomba rimanda


il poeta tragico alla luce de) sole, con questo com-
miato 53 ):

Addio, Eschilo, va' dunque


e salva la città con salutare consiglio
ed educa gli stolti, ché molti son essi.

Da gran tempo la tragedia non era più stata capace


d'un atteggiamento e d'un linguaggio come quelli che
osa tener qui la commedia. La sua atmosfera è tuttora
l'(}pinione pubblica e quanto l'agita, laddove la trage-
dia, coi suoi problemi profondissimi, si è ritirata da
un pezzo nell'intimo della coscienza. Ma non mai la
sorte spirituale della comunità aveva commosso così
profondamente il .pubblico, mai era stata sentita così
fortemente quale fatto politico, come nel rammarico
per la perdita della tragedia classica. La commedia,
mostrando ancor una volta in questo momento l'intima
C(}nnessione dello Stat(} con la sorte dello spirito e la
responsabilità dello. spirito creatore di fronte al popolo
tutto, tocca essa medesima l'apice della sua missione
educativa.

0 , ib. 1500-1503.
CAPf'T'OLO SESTO.

TUCIDIDE PENSATORE POLITICO

Tucidide non rappresenta l'inizio della storiografi.a


greca; il primo passo necessario ad intenderlo è quindi
a che grado fosse giunta, prima di lui, la consapevo-
lezza storica. Risulta allora che non v'è, prima di lui,
nulla che gli sia paragonabile, così come, dopo di lui,
la storiografia seguì altre v:ie, ricevendo impronta e
criteri dall'indirizzo spirituale via via prevalente. Vi è
tuttavia un nesso con gli stadi anteriori. La storiografia
più antica, tcr-rop[1J, ci riporta, come dice già il nome,
alla Ionia, all'epoca delle origpn dello studio della na-
tura, che il nome stesso, del resto, comprende sempre
in greco e che era il contenuto primitivo suo proprio 1 ).
Per noi è Ecateo, come i primi grandi fisici nativo di
Mileto, centro della cultura ionica, il primo che dalla
fisica in generale passasse ad applicare la « esplora-
zione» specialmente alla terra abitata, la quale sino
allora non era stata trattata che in quanto parte del
cosmo e nella sua configurazione superficiale genera-

1 ) Per !cr-cop("I) come nome della più antica filosofia naturale,


v. p. 293. Anche Aristotele chiamò la sua zoologia 11Ept -e& çc;.cx
la-cop(cx, che noi traduciamo malamente « storia degli animali»
historia animalium. Così Teofrasto intitolò la sua opera botanica
!a-cop(cx delle piante. In questo esgi seguivano la antica tradi-
zione ionica.
642 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

lissima 2 ). La sua scienza dei paesi e dei popoli, miscu-


glio singolare d'elementi ipotetici ed empirici, va con-
siderata insieme con la sua critica razionalistica del
mito e con la sua genealogia; allora si inquadra da sé
nella situazione storica secondo la quale va intesa,
quale gradino del processo di dissoluzione critica e ra-
zionalistica dell'antico epos. Fu una premessa essen-
ziale del sorgere della storiografia 3 ), che, col medesimo
spirito critico, raccoglie e coordina quanto è tramandato
circa i popoli delle terre note, sin dove lo permette
l'esperienza.
Questo nuovo passo fu compiuto da Erodoto, il
quale mantiene ancora l'unità d'etnografia e geografia
come Ecateo, ma dà all'uomo il posto centrale. Egli
aveva percorso tutto il mondo civile d'allora, Asia
Anteriore, Egitto, Asia Minore e Grecia, aveva inve-
stigato e notato sul posto ogni sorta di usi e costumi
e la mirabile saggezza di popoli antichi, avèva descritto
la magnificenza dei loro palazzi e templi e narrato la
storia · delle loro dinastie e di molti personaggi singo-
lari e cospicui, e come vi si scorga il governo divino
e gli alti e bassi della mutevole fortuna µmana. Tale
molteplicità arcaicamente svariata aveva ricevuto in-
tima unità mercé il grande tema della lotta fra Oriente
e Occidente, svolto, dal primo urto che constasse dei
Greci col vicino regno . di Lidia sotto re Creso, sino
alle guerre persiane. Con omerica abbondanza ed arte

2) V. F. JACOBY, « Hekataios » in Pauly-Wissowa R E.


V. anche F. JACOBY, Griechische Geschichtsschreibung in « Die
Antike» II (1926) 1 ss.
3) F. Jacoby darebbe a Ecateo il titolo di «padre della sto-
ria», che è, secondo la tradizione, di Erodoto. Si potrebbe trovare
qualche argomento in favore di questa rivendicazione in quanto
per noi lo studio scientifico e razionale dei fatti della vita umana
è l'essenza della storia. Ma l'elemento religioso e drammatico
della storia si svolsero solo nella nuova visione storica di Ero-
doto e per questo veramente egli merita il suo titolo tradizionale.
CAP. VI: TUCTDIDE PENSATORE POLITICO 643

narrativa, Erodoto, nella sua prosa soltanto in appa-


renza dimessa ed ingenua, che va assaporata come età
anteriori fecero dei versi dell'epos, narra ai posteri la
fama delle gesta degli Elleni e dei barbari, secondo
egli indica, nella frase iniziale, essere scopò dell'opera 4).
Quasi fosse risorto lepos ucciso dalla critica intellet-
tualistica d'Ecateo, qui, in mezzo all'età dello studio
razionale della natura e della sofistica, dalla vecchia
radice dell'epos eroico spunta una cosa nuova. Il nudo
empirismo dello scienziato si fonde con l'elogio della
gloria proprio del rapsodo, e tutte le cose vedute o
udite s'inquadrano nella rappresentazione del destino
degli uomini e dei popoli. È l'opera della ricca, antica,
complessa cultura dei Greci d'Asia Minore, la quale,
oltrepassato da tempo il proprio periodo eroico, è inve-
stita anche una volta dal soffio potente dell'eroismo
quando il suo destino nazionale, segnato già da de-
cenni, è coinvolto nell'ascesa e nella vittoria inopinate
della madrepatria a Salamina e a Platea; senza la-
sciarsi peraltro distogliere, in fondo, dal suo rassegnato
scetticismo.

Tucidide è il creatore della storia politica. Questo


concetto non è applicabile ad Erodoto, sebbene le
guerre persiane segnino il culmine dell'opera sua. Ma
si può scrivere storia politica anche con spirito apoli-
tico. Nella sua quieta Alicarnasso, Erodoto non co-
nobbe vita politica, e quando per la prima volta ne
ebbe intorno a sé i flutti agitati, nell'Atene di dopo
le guerre Persiane, la contemplò più che altro, stupito,
dalla riva sicura. Tucidide è tutto immerso nella vita

4) Le stesse parole del proemio dell'opera di Erodoto ricor·


dano al lettore lo stile e il tono dell'epos omerico: lpyct e ~Àéot;
ùi particolare sono l'essenza del canto epico, come si è spesso
os!ervato.
644 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO AJTICO

dell'Atene di Pericle, e il pane quotidiano di quella


vita era la politica. Sin dai giorni in cui Solone, nel
disordine delle lotte sociali del VI secolo, aveva get·
tate le basi del saldo civismo che ammiriamo fin da
principio nei cittadini d'Atene a differenza dai loro
consanguinei ionici, la partecipazione di tutti gli uomini
più eminenti alla vita dello Stato aveva fatto matu-
rare qui una somma di esperienza politica e solide
forme di pensiero politico, che non possiamo cogliere
dapprima se non in vedute sociali che si affacciano
saltuarie nei grandi poeti attici e nella compattezza
politica della comunità ateniese, da poco liberata dalla
tirannide, durante l'invasione persiana; sino a che,
nella grande politica temistoclèa che incomincia da
Salamina, si ha la svolta decisiva verso l' « Impero»
attico.
La mirabile concentrazione del pensiero e della vo-
lontà politica, che Atene rivela in tale creazione, trova
nell'opera di Tucidide la sua adeguata espressione in-
tellettuale. Al paragone degli sconfinati orizzonti del
panorama di genti e paesi d'Erodoto, che, nella sua
pacata considerazione di tutte le cose um;rne e divine,
abbraccia tutta la terra conosciuta, la visuale di Tuci-
dide è limitata. Egli non oltrepassa il campo d'azione
della polis greca 5). Ma questo oggetto tanto più ri-
stretto, di che imponenti problemi è carico, con che

6 ) Tucidide nel suo primo capitolo (I l, 2) :ricorda, come ar-


gomento della sua opera Greci e barbari. Ciò può essere attribuito
non solamente all'imitazione di Erodoto, che giustamente deDnì
così la sua opera, ma anche alle grandi ripercussioni che la guerra
ebbe su molta parte del mondo non greco. Specialmente l'impero
Persiano fu sempre più coinvolto nella guerra nella sua ultima
fase, comç mostrano le Elleniche di Senofonte. Se Tucidide scrisse
il suo proemio non al ·principio della guerra, ma durante l'ultimo
periodo o poco dopo, come io credo, l'acce:rino ai barbari ha più
significato che se fosse applicato solo ai paesi come l'Epiro, la
Tracia e la Macedonia.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 645

alta intensità è indagato e rivissuto. Il nocciolo di tali


problemi è lo Stato - cosa quasi ovvia, nell'Atene
d'allora. Ciò che non è ovvio, si è che il problema
politico stesso tende evidentemente ad un più pro-
fondo intendimento di sé mediante la riflessione sto-
rica. L'etnografia erodotèa, di per se stessa, non avrebbe
condotto affatto alla storia politica 6); ma 1' Atene orien-
tata, per parte sua, esclusivamente e praticamente
verso il presente si trova d'improvviso ad una svolta
decisiva, dove il vigile pensiero politico abbisogna di
riftessione storica di fronte a se stesso e la produce,
ben inteso in un senso nuovo e con contenuto diverso
da quello di prima: quale riconoscimento della neces-
sità della grande crisi cui aveva portato l'evoluzione
statale d'Atene. Non è la storiografia a farSi, politica,
ma il pensiero politico che si fa storico: tale I~ natura
del processo spirituale che trova la sua espressione
nell'opera di Tucidide 7).
Se così è, l'idea della formazione di Tucidide quale
storico, messa innanzi di recente, è assurda 8). Si pre·
suppone, come cosa più che ovvia, che il concetto e la
sostanza dello storico costituissero per lui e per l'età
sua dati già elaborati, come per la moderna scienza
storica. Tucidide, in alcuni excuTsus dell'opera sua, ha
trattato isolatamente questioni del passato che l'inte-
ressano; del rimanente non si occupa che della guerra
Peloponnesiaca, ossia di storia contemporanea, oggetto

6 ) Nella concezione del mondo di Erodoto, gli avvenimenti

politici sono sempre parte della sua concezione teologica della


vita, che comprende la totalità delle cose umane e divine. In
Tucidide I' elemento politico predomina e non rimane nulla della
intelaiatura teologica di Erodoto.
7 ) In altre parole, il pensiero storico di Erodoto e degli altri
cosiddetti predecessori di Tucidide non conteneva i germi della
storia politica di Tucidide.
S) Cfr. KoNRAT ZIEGLER, Thukydides und die Welt~eschick1~
(Rektoraisrede, G:reifs~!lld 19~8),
646 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

della sua esperienza diretta. Egli stesso, nella prima


frase di lui che leggiamo, dice d'aver cominciato a la-
vorare alla sua storia al principio della guerra, essendo
convinto dell'importanza dell'avvenimento. Ma dove
aveva imparato a lavorare da storico - si chiede -
e donde attinge la sua scienza dei tempi anteriori ?
Ci si spiega la cosa in questo modo: prima, egli aveva
atteso allo studio del passato; l'interruppe la guerra
nella quale ravvisò sùhito il grande soggetto cui de-
dicarsi. Il materiale delle sue ricerche anteriori, che
troncò, lo inserì peraltro in dotti excursus nell'opera
sua, per non lasciarlo inutilizzato. Tale concezione mi
sembra degna piuttosto di un dotto moderno, che del
creatore della storiografia politica, il quale partecipò
in persona alla guerra, in qualità d'uomo politico mili-
tante e di comandante navàle ateniese, e non conosce
interesse più alto che il problema politico dell'ora pre-
sente. La guerra lo ha fatto storico, e ciò che egli vide
non si poteva apprendere da nessun'altra fonte, e
meno. che mai - come dice lo stesso Tucidide - da
un passato diverso affatto, alla cui esatta conoscibilità
egli poco credeva. Egli era dunque tutt'altro da ciò
che ci raffiguriamo di solito come uno , storico, e il
suo addentrarsi occasionalmente in questioni della sto-
ria anteriore non è, appunto, che cosa accessoria, per
quanta stima facciamo del giudizio critico che vi si
mostra, oppure ha luogo in base ·a criteri che rendono
importante per lui il passato secondo la prospettiva
del presente 9).

8 ) Tali excursus sono la cosiddetta « archeologia» al principio


del I libro col suo ricco materiale di antica storia greca, e la di-
gressione sul carattere leggendario della locale tradizione ate-
niese sui « tirannicidi» Armodio e Aristogitone VI 54 ss. Lo
Ziegler vede in queste digressioni la radice delle ricerche stori-
c~e di '.fqci<lide, che poi si volsero itl iempo presenie quando
CAP. VJ: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 647

Ne è esempio capitale la cosiddetta «archeologia»,


al principio del libro primo 10), che ha soprattutto lo
scopo di diµiostrare che il passato, in paragone del
presente narrato da Tucidide, fu assai insignificante,
per quanto è possibile giudicarne, giacché in fondo
non se ne sa nulla. Pure, appunto una siffatta conside-
razione del passato, quanto più sommaria è, tanto più
chiaramente può farci conoscere la misura che Tuci-
dide applica alla storia in genere e i criteri di ciò che
gli appare importante nell'età sua.
Insignificante gli appare il passato del popolo greco,
anche nelle imprese più grandi e famose che se ne
narrano, perché la vita di quell'epoca, per tutta la
sua struttura, non fu ancora capace affatto di costi-
tuire una potenza e un'organizzazione statale notevoli.
Commercio e traffici in senso moderno non v'erano
ancora. Con l'incessante fluttuare delle stirpi, che si
scacciavano reciprocamente dalle proprie sedi e non
giungevano a vera sedentarietà, non poteva sorgere
sicurezza, la quale, a parte la tecnica, è condizione
prima di uno stato di cose stabile. Appunto le regioni
economicamente migliori, secondo Tucidide, erano na·
turalmente le più disputate ed avevano più spesso cam·
biato d'abitanti. Non può sorger cosi né un'agricoltura
razionai~, né un accumulo di capitali, e città grosse
facevan difetto al pari degli altri elementi della civiltà
dei tempi recenti. È sommamente istruttivo vedere
come Tucidide scarti qui tutta l'antica tradizione,
poiché non gli fornisce risposta ai suoi problemi ll), per

scoppi?> la guerra. Ma esse sembrano piuttosto applicazione del-


1' esperienza politica di Tucidide, acquistata nell'età presente, al
problema del passato.
lO) Thuc. I 2-19.
11) Leggendo la trattazione di Tucidide sui secoli passati della
storia greca si ripensa all'atteggiamento di uno storico moderno
di Roma, ·Teodoro Mommsen. Della nostra principale fonte let·
648 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

sostituirla con Le proprie costruzioni ipotetiche, tutte


illazioni basate su una penetrante osservazione del nesso
regolare tra livello culturale e forma d'economia. Nel
suo spirito, questa storia dei primi tempi è affine alle
ipotesi dei Sofisti circa gl'inizi della civiltà umana,
ma è impostata secondo un'altra prospettiva. Vede il
passato con gli occhi dell'uomo politico nuovo, cioè
della pura idea di potenza. Anche la cultura, la tecnica
e l'economia importano per lui solamente in quanto
premessa necessaria dello sviluppo d'una potenza reale.
A tal fine occorre soprattutto, secondo Tucidide, La
formazione di grossi capitali e di Stati d'ampio territorio,
sorretti da una forte flotta. Anche qui è evidente l'in-
fluenza delle circostanze attuali. L'imperialismo d'Atene
fornisce la misura con la quale valutare la storia ante-
riore, e ben poco ne rimane 12).
Come nella scelta del criterio, cosi è dispotica I'« ar-
cheologia» tucididèa nell'applicazione di tale principio.
Omero è scrutato, senza pregiudizi e senza romanti-
cismo, con l'occhio del politico imperialista. Il regno
d' Agamennone è per Tucidide la prima cospicua po-
tenza dell'Ellade attestata dalle fonti 13),. Che il suo
regno si estendesse anche sul mare e ch'egli dovesse
quindi necessariamente appoggiarsi anche ad una grossa
flotta è dedotto con acume inesorabile da un unico
verso d'Omero, con interpretazione assai sforzata. Ciò
che più lo interessa è il catalogo delle navi dell'Iliade:
Tucidide, di solito cosi scettico di fronte alle notizie

teraria per il periodo imperiale di Roma, Tacito, il Mommsen affer-


mava che essa è inservibile, perché mentre racconta cose senza
importanza per un vero storico, non scrive nulla sni problemi
essenziali. Questo è esattamente il pensiero di Tucidide sulla co-
siddetta tradizione, poetica e storica, di cni è erede.
12) V. I 2, 2; I 7, 1; I IJ, 3; I 9; I 11, 1 ecc,, cioè tutta
la cosiddetta « archeologi~ »,
~s) T o
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 649

dei poeti, è incline a prestar fede ai suoi dati prec1s1


circa la forza dei singoli contingenti greci nella guerra
contro Iliò, perché confermano la sua concezione del-
!'esiguità delle forze di quell'epoca 14). Anche la tecnica
navale primitiva di quelle flotte è da lui dedotta dalla
medesima fonte. La guerra di Troia fu la prima im-
presa comune d'oltremare in grande stile, che la storia
greca registri. Prima non vi fu che il dominio marit-
timo di Minosse in Creta. Esso aveva posto fine alla
pirateria dei Greci, in quel tempo ancora semibarbari
e territorialmente dispersi. Tucidide immagina che la
flotta di Minosse esercitasse una severa polizia marit·
tima, come, ai suoi giorni, la marina attica. E cosi,
secondo i suoi criteri - formazione dei capitali, ~:lella
flotta, della potenza marinara - egli percorre tutta la
storia greca sino alle guerre Persiane, citando come
facente epoca questa o quella invenzione della tecnica
navale, mentre il ricco contenuto spirituale delle no·
tizie tramandate cade per lui nel nulla. Nelle guerre
Persiane d'Atene, questo Stato si presenta per la prima
volta come una potenza. Con l'accedere dei Greci insu-
lari e delle città greche d'Asia Minore alla Lega attica,
si crea nel mondo greco un contrappeso a Sparta, sino
allora predominante. La storia posteriore è una gara
d'armamenti, con incidenti e attriti continui tra i
due blocchi, sino a che incomincia la lotta finale, a
paragone della quale ogni precedente lotta d'imperio
sembra un gioco.
In quest'ammirata «archeologia», l'indole di st.o-
rico di Tucidide si esprime con nettezza insuperabile,
per quanto tutt'altro che esaurientemente 15). Il quadro

1.4) I 10, 3-4.


U) Non posso accettare l'opinione di W. ScHADEWALDT (Die
Geschichtschreibung des Thukydides, Be.rlino 1929), che segue
E. StBWARTZ {Das Geschichtswerk des Thukydides, Bonn· 1919)
650 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

concentrato del passato, disegnato a grandi linee eco-


nomico-politiche, rispecchia l'atteggiamento di Tuci·
dide di fronte agli avvenimenti dell'età sua. Solo perciò
io prendo qui le mosse dalla storia dei precedenti;
non già perché essa in Tucidide sta all'inizio. Nella
narrazione della guerra, i medesimi principii si pre-
sentano molto più vicini e meno evidenti, perché in
un campo più esteso; qui, invece, ci si fanno incontro
quasi puri e gravati d'un minimo di materia. Le pa-
role d'ordine della politica realistica attuale ricorrono
nella « archeologia}> con regolarità quasi stereotipa e
s'imprimono talmente al lettore, ch'eg.l.i abborda la
narrazione della guerra con la consapevolezza che si
tratta del maggiore dispiegamento ed urto di forze che
mai si sia avuto nella storia greca.

Quanto più attuale l'argomento, quanto pm vivo


l'interesse che ha per esso Tucidide, tanto più difficile
per lui trovare un criterio di giudizio. Il f i :Ò. e dello
storico va inteso tenendo presente l'intimo sforzo di
conquistare un criterio di giudizio dell'enorme evento
che divise l'età sua in due campi avvers~. S'egli non
fosse quell'uomo politico che è, questo sforzo d' ogget·
tività sarebbe meno meraviglioso, ma anche meno
grandioso. L'idea di dare circa i fatti del passato, a
differenza dai racconti esornativi dei poeti 16), la sola
e pura verità imparziale, ch'egli si propone di assodare

nel ritenere che la digressione archeologica sia una parte note-


volmente più antica del resto dell'òpera di Tucidide e che vorrebbe
ricostruire da essa il primitivo atteggiamento intellettuale di Tu·
cidide (scolaro dei Sofisti). Mi propongo di dare altrove le par·
ticolari ragioni del mio dissenso. (Dopo la 1" ed. di questo lavoro,
F. BIZER ha riesaminato il problema nella dissertazione Unter-
suchungen :dir Àrchiiologie des Thucydides, Tiibingen 1937, pren-
dendo posizione per la mia tesi). V. E. TXUBLER, Die Archiiologie
des Thucydides (Leipzig 1927).
ia) I 21, 1; I 22, 4.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 651

con la maggior precisione possibile, è sorta, per se


stessa, da una mentalità non politica, ma scientifica,
quale viveva nello studio della natura degli Ioni. Ma
appunto nel trasferire tale atteggiamento intellettuale
della Natura senza tempo alla sfera della lotta politica
attuale, agitata dalla passione e dalla partigianeria,
sta l'azione liberatrice di Tucidide. Ancora il suo con-
temporaneo Euripide aveva veduto queste due sfere
separate da un abisso 17). Una lcr't"op['Y), pacatamente
immersa nel suo oggetto « che non invecchia», non si
aveva che della natura. Chi varca la soglia della vita
politica, è coinvolto nell'odio e nella lotta 18). Ma quando
Tucidide trasferisce la fo-ropt'lJ al mondo politico, pone
nella ricerca della verità un senso nuovo 19). Dobbiamo
intendere il passo ch'egli compie tenendo ben presente
la concezione tipicamente ellenica dell.;azione, per la
quale la conoscenza è il vero motore. Tale fine pratico
distingue la sua ricerca della verità dalla serena theoria
dei filosofi naturali ionici. Non v'è Attico il quale co·
nosca una scienza che abbia altro scopo che condurre
all'azione appropriata. È questo il gran divario che
. divide Tucidide, come Platone, dalla scienza ionica,
per quanto differenti siano del rimanente i mondi ri-
spettivi. È impensabile che Tucidide fosse predesti-
nato alla sua oggettività da un'innata mancanza di

17) Eur. fr. 910 (Nauck).


. lB) La « storia » che Euripide loda come la suprema felicità
della mente umana è, in altre parole, non quella di Tucidide, ma
. quella di Lucrezio che poi lodò anche Virgilio nel famoso verso
"Feli% qui potuit rerum cognoscere causas (Georg. II 490).
1 9) V. C. N. COCHRANE, Thucydides and the Science o.f History
(Oxford 1929) che tratta in particolare l'affinità della posizione
'metodica di Tucidide con la medicina greca contemporanea. Que-
sta relazione ha il suo perfetto parallelo nell'influenza della me-
dicina sulla teoria filosofica ed educativa contemporanea (Socrate,
Platone, Aristotele); v. « Paideia» III cap. I «La medicina greca
come paideia ». Questo fatto prova che la medicina poté essere
intesa Il usl1ta come modello in modi molto diversi.
652 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

passione, a quel modo che si è potuto dire di certi sto-


rici ch'essi sono tutt'occhi. Che cosa desse a Tucidide
la forza di affrancarsi dalla mera passione e che cosa
egli si raffigurò quale pregio della conoscenza ogget-
tiva che cercava, ce lo dice egli stesso 2°), là dove pre-
cisa il compito dell'opera sua. «A _udirsi, la mancan.za
di belle storie nell'opera mia apparirà forse poco dilet-
tevole. Ma a quanti vogliano saggiare l'evidenza dei
fatti accaduti e di quelli che, secondo la natura pro-
pria degli nomini, torneran di certo ad accadere in fu-
turo, o nello stesso modo, o analogamente, essa gio-
verà per un giudizio adeguato sui fatti stessi. Essa è
composta per costituire un patrimonio che duri per
l'eternità, anziché un pezzo di parata per il godimento
momentaneo».
L'idea che le vicende degli uomini e dei popoli si
ripetono, perché la natura umana rimane la stessa 21),

20) I 22, 4. È il famoso capitolo del primo libro di Tucidide,


che tratta il problema del metodo storico.
21) Questa opinione è affermata proprio al principio dell'opera
nella discussione del metodo adottato dall'autore e del suo fine,
I 22, 4. Gli avvenimenti che si sono svolti nella presente guerra
si ripeteranno nello stesso modo o in modo sinlile ,llelle età future
perché la natura umana non cambia. L'idea, che la natura umana
rimane essenzialmente la stessa nonostante ogni cambiamento
storico, è espressa ancora in Tucidide nella famosa discussione
sulla natura delle crisi politiche, III 82, 2; e su di essa è fon-
data la concezione realistica della utilità della conoscenza storica.
Per la stessa ragione egli dà la famosa descrizione dei sintomi
della peste, II 48, 3 ss.; egli prevede che la stessa malattia possa
comparire di nuovo e che la conoscenza della natura di essa possa
rendere gli uomini delle future età capaci di riconoscerla dai
suoi sintomi. Questo sembra superare i limiti di ciò che noi con-
sideriamo compito dello storico: ma ha in comune con la sua analisi
dei fenomeni politici il concetto del compito del pensiero scientifico e
delle sue relazioni con la natura dell'uomo, sia fisica che psichica.
L'elemento più importante ne concetto di Tucidide dell'immutabile
natura dell'uomo si fa evidente in altri passi della sua opera,
p. es. I 76, 2-3; IV 61, 5; V 105, 2, dove si afferma conforme alla
natura umana che il più forte sempre domini il più debole.
L'umana natura è dunque per Tucidide in gran parte la immuta-
pije superiorità della passione in ~enerale e in .particolare dell"
CAP. VI: TIJCIDIDE PENSATORE POLmco 653

è stata più volte espressa da Tucidide. È tutto l'op-


posto di ciò che noi oggigiorno siamo soliti considerare
coscienza storica. Per la coscienza storica, nulla si ri-
pete nella storia. L'accadimento storico è assolutamente
individuale. Nemmeno nella vita del singolo si dà ri-
petizione. Eppure l'uomo fa espèrienze, e con le dure
esperienze si acquista saggezza - dice un'antichissima
sentenza, riferita già da Esiodo 22). Il pensiero greco
fu sempre orientato verso questa conoscenza e verso
l'universale. L'assioma di Tucidide, che le sorti degli
uomini e dei popoli si ripetono, non segna dunque la
nascita della coscienza storica; nel senso unilaterale
moderno. Pur includendola, la sua tcr-ropl1J tende, al
di là della mera aderenza all'evento unico e all'ele-
mento assolutamente estraneo e diverso, alla conoscenza
della legge universale ed eterna che bisogna cogliervi.
È appunto questo atteggiamento mentale, che confe-
risce al racconto storico di Tucidide l'attrattiva della
sua perenne attualità 23). Esso è essenziale per l'uomo
politico ch'è in lui, giacché un'azione preordinata, me-
todica non è possibile che se, nella vita umana, in
situazioni eguali, da cause eguali discendono eguali
effetti, rendendo possibile una esperienza e con essa

volontà di potenza sull'intelletto. Questo as·sioma del pensiero


storico di Tucidide è in accordo con l'idea del periodo sofistico
ed è condivisa da tutti i partiti politici e da tutte le nazioni in
guerra, nel quadro che lo storico ne dà. Contro questo assioma
Platone appuntava la sua critica dei fondamenti morali su cui
si fondava, allora come ora, quello che gli uomini intendono per
«politica». V. « Paideia» II 247, 265 ss., 269 s.
22) Hes. Opp. 218.
23 ) Si può chiamare « classico" questo atteggiamento di Tu-
cidide paragonandolo coll'interesse prevalente degli storiografi
moderni per il carattere individuale dei tempi, delle condizioni,
delle personalità e delle idee. La considerazione dell'individualità
ne la, storia è un prodotto dello spirito romantico della fine del
decimottavo e del principio del decimonono. V. FRIEDRICH
M~INECKE, Die Entstehung des Historismus (2 vol. Miinchen und
Berlin 1936).
654 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATIICO

una certa previsione dell'avvenire, per quanto circo-


scritta in limiti ristretti.
Con questa constatazione aveva avuto rmzio, in So-
lone, il pensiero politico greco 24). Trattavasi là della
conoscenza dei processi vitali interni dell'organismo
statale, che, nel caso di invadenze antisociali, risente
determinate alterazioni patologiche. In queste Solone
ravvisa ancora, religiosamente, un castigo della giustizia
divina, sebbene l'organismo della società, a parer suo,
produca i mali effetti dell'azione antisociale immedia-
tamente, per reazione propria. Dipoi, alla sfera in-
terna dello Stato era venuto ad aggiungersi un nuovo
immenso campo d'esperienza politica, dacché Atene
era diventata una grande potenza: le relazioni tra
Stato e Stato, ossia ciò che noi chiamiamo politica
estera. Il suo primo grande rappresentante fu Temi-
stocle, che Tucidide caratterizza quale tipo nuovo in
memorabili parole 25). Anche in questo profilo, hanno
parte cospicua la preveggenza e la chiarezza di giudi-
zio, cui Tucidide, come dice egli stesso, vuol educare
i posteri con lopera sua. Quel suo inculcare ripetuta-
mente le medesime idee fondamentali da ,un capo al-
i'altro dell'opera ci assicura ch'egli prese molto sul
serio tale scopo; e, ben lungi dallo scorgere, in questo
fine propostosi, soltanto una scoria dell'età dell'illu-
minismo sofistico 26); che dovremmo eliminare per rica-
vare l'immagine del puro storico, noi troviamo nello
sforzo di Tucidide per conquistare la conoscenza poli-
tica la vera grandezza del suo spirito. In questa cono-
scenza, non in una qualche etica, o filosofia della storia,
o idea religiosa, egli coglie l'essenza degli avvenimenti 27).

24) V. p.· 267 s.


•) Thuc. I 138, 3.
•) V. p. 649 e n. 15.
") Tali idee sono espresse da Erodoto e Senofonte.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 655

La politica è per lui un mondo conforme a proprie


leggi immanenti, che si notano soltanto quando si
considerino gli eventi non isolati, ma situati nel corso
complessivo. In questa profonda visione della legge e
della natura dell'accadimento politico, Tucidide è su-
periore a tutti gli storici della classicità. Ciò non po-
teva esser dato che a un Ateniese di quella grande
epoca che - per citare due creazioni diversissime d'una
eguale mentalità - ha prodotto l'arte di Fidia e l'idea
platonica. Non si può meglio definire il concetto tuci-
didèo della conoscenza della storia politica, che con le
parole famose del Novum Organum 28) di Lord Bacon,
nelle quali egli contrappone alla scolastica il suo nuovo
ideale della scienza: Scientia et potentia humana in
idem coincidunt, quia Ìf!noratio causae destituit elfectum.
Natura enim non nisi parendo vincitur. Et quod in
contemplatione instar causae est, id in operatione instar
regulae est.

È carattere proprio del pensiero di Tucidide circa


lo Stato, in contrapposto all'ideologia politico-religiosa
di Solone e alla filosofia politica sofistica o platonica,
il non esservi in lui insegnamenti generali, nessun Ja-
bula docet. La necessità politica è còlta immediata-
mente, nell'evento concreto medesimo. Ciò è possibile
sol perché,° per Tucidide, si tratta di un accadimento
di natura affatto speciale, dove gli effetti della realtà
e causalità politica si manifestano con incomparabile
densità. Assurdo sarebbe applicare senz'altro. intatto,
il concetto tucididèo della storia a qualsivoglia epoca.
Sarebbe lo stesso che volersi aspettare da qualsivoglia
età ch'essa avesse a produrre qualche cosa come la
tragedia attica o la filosofia platonica. Ma la mera

28) Bacone, Novum Organum I 3 (FOWLER na. ed. Oxford 1889).


656 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

espos1z1one di fatto d'un avvenimento, per quanto co-


spicuo, non sarebbe in grado di soddisfare l'intento
del pensatore politico. Egli ha bisogno di una parti-
colare possibilità di passare alla sfera spirituale ed
universale. Mezzo d'esposizione specialmente caratte-
ristico di Tucidide sono i numerosi discorsi in essa in-
seriti; e questi sono soprattutto portavoce di Tucidide
uomo politico. Nell'enunciazione dei suoi principii sto-
riografici è dato per ovvio che, come gli altri avveni-
menti, così pure i discorsi dei personaggi cospicui do-
vessero essere ricordati; ma, non essendo stato possi-
bile riferirli letteralmente, il lettore non dovrà saggiarli
con lo stesso criterio d'esattezza che la narrazione dei
fatti. Tucidide non vuole che fissarne il senso globale
approssimativo, facendo poi parlare i personaggi, in
particolare, così come la situazione sembrava a lui
esigere caso per caso 29). È una trovata gravida di
conseguenze, che non si può intendere inSpirata dalla
cura d'esattezza dello storico, bensì dal bisogno di pe-
netrare gli eventi sino agli ultimi moventi politici.
Alla lettera, era un assunto irrealizzabile. Non c'era
da attenersi nemmeno a ciò che i personl!ggi avevano
realmente detto, ché spesso ciò non era che la loro
maschera; avrebbe dovuto invece illuminare l'intimo,
che è impossibile. Tucidide credeva tuttavia che si po-
tessero individuare ed esporre le idee direttive delle
parti in presenza, e così venne a far esporre dai perso-
naggi Le loro mire e i loro moventi più reconditi, in
pubbliche oraziom m parlamento o tra quattro mura,
come nel dialogo dei Melii, nel modo in cui ciascuna

29 ) Thuc. I 22, 1. Sull'interpretazione di questo programma


dell'opera di Tucidide v. A. GROSSKINSKY, Das .Programm des
Thukydides, ( « N eue Deutsche Forschungen », Abt. Klass. Phil.,
Berlin 1936) e la dissertazione del mio scolaro H. PATZER, Das
Prolilein der Gcschichtsschreibung des Thukydides und die thukydi-
deische Frage (ib. 1937). -
CAP. VI: lUCIDIDE PENSATORE POUTICO 657

parte, stando al giudizio politico di lui, avrebbe dovuto


parlare secondo il proprio orientamento. Così Tucidide
parla ai suoi lettori ora da Spartano o da Corinzio, ora
da Ateniese o da Siracusano, ora in veste di Pericle,
ora d'Alcibiade. Per questa tecnica oratoria poteva
servir di modello, esteriormente, l'epos, e un poco
anche Erodoto 30). Ma Tucidide ha applicato tale mezzo
in grande stile, e a ciò dobbiamo se quella guerra, com-
battuta invero al tempo dell'apogeo intellettuale greco
e accompagnata da una discussione che agitò gli animi
nel profondo, ci si presenta anzitutto quale lotta degli
spiriti e soltanto secondariamente quale fatto militare.
Cercare nelle orazioni tucididèe le tracce di quanto
fu veramente detto allora, come si è anche tentato, è
impresa non meno disperata che se volessimo ricono-
scere,. negli dèi dell'arte fidiaca, determinati modelli
umani. Ed anche se Tucidide cercò d'informarsi delle
discussioni svoltesi, pure taluni dei discorsi, ch'egli ri-
ferisce, certo in realtà non furono pronunciati affatto,
e la maggior parte in tutt'altra forma. S'egli riteneva
di dire via via, in base al proprio ripensamento del
caso e della situazione, quanto era opportuno· (-rà
8Éov-roc), ciò si fonda sul convincimento che l'atteggia-
mento di ciascuna parte, in una lotta siffatta, abbia
la propria intima logica inflessibile, e che chi vede le
cose secondo un .osservatorio superiore sia in grado
di i svolgerla adeguatamente. Questa, con tutta la sua
soggettività, è pure, secondo l'intendimento di Tucidide,
la verità oggettiva dei suoi discorsi. Essa non s'intende
che apprezzando come merita il pensatore politico nello
storiografo. Quale linguaggio di codeste creature ideali
della sua mente, egli ha creato uno stile che, eguale in

30) V. /;... DEFFNER, Die Rede bei Herodot und ihre Weiterbil-
dung bei Thukydides (Miinchen, diss. 1933).
658 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

tutti i discorsi, si eleva, sempre a un modo, ben oltre


il greco parlato realmente nell'età sua, ed è ricco d'an-
titesi concettuali foggiate, a gusto nostro, con ecces-
siva abilità 31). Nella sua pesantezza in lotta con l'idea,
di fronte alla quale appaiono singolarmente estranei
gli espedienti stilistici figurati della nuova retorica
sofistica, tale stile è l'espressfone più diretta del pen-
satore Tucidide, che per difficoltà, come per profondità,
gareggia coi maggiori filosofi greci.

Uno dei saggi più grandiosi di ciò che sia il pensiero


politico conforme l'assunto enunciato da Tucidide, lo
abbiamo sùhito al principio della narrazione, dove si
tratta delle cause della guerra. Già Erodoto aveva
incominciato con la causa del conflitto tra l'Europa e
l'Asia, intendendola nel senso della responsabilità della
guerra. Come è ovvio, tale problema accalorò le parti
anche durante la guerra peloponnesiaca. Tutti i parti-
colari dell'origine del grande incendio erano stati di-
scussi cento volte, senza speranza di comporre la di-
sputa, nella quale i due avversari si palleggiavano la
colpa, quando Tucidide pose il problema in modo
nuovo 32). Egli distingue fin dal principio tra le que-
stioni per le quali era divampata la lotta e la « causa
vera» della guerra; e questa trova, come dice sùbito,
nella potenza d'Atene in continuo aumento, minac-
ciosa per Sparta. Il concetto di causa, come mostra il
vocabolo greco usato da Tucidide, 7tp6cpoccrn;, è preso

31) Che lo stile dei discorsi nell'opera di Tucidide come io ho


cercato di caratteri2zarlo, corrispQnda fino a un certo punto
al linguaggio della retorica politica di quel tempo, è la tesi di
uno dei capitoli del Thru:ydides di JoHN FINLEY (Cambridge,
Mass., 1942) 250 ss. Dello stesso autore v. The Origins of Thu-
cydides Style in « Harvard Studies in Classical Philology » 50
(1939), 35 ss. e anche il euoEuripides and Thru:ydides, ib. 49(1938),
23H.
•) Thuc. I 21, 6.
è.AP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLffiCO 659

dal linguaggio della medicina. In questa era stata fatta


primamente la distinzione scientifica tra la causa vera
d'una malattia e i suoi semplici sintomi 33). L'applica-
zione di tale giudizio organico-naturalistico al problema
dell'origine della guerra non è un atto meramente for-
male. Esso rappresenta l'oggettivazione totale di questo
problema mediante il suo distacco dalla sfera giuridico-
morale. La politica è, così, delimitata quale campo
d'una causalità autonoma, che opera in modo natu-
rale. La lotta occulta tra forze opposte conduce alla
fine, secondo Tucidide, alla crisi flagrante della vita
statale dell'Ellade. La conoscenza d'una c-0siffatta causa
oggettiva ha qualche cosa di liberatore, perché eleva
chi la possiede al disopra dell'odioso contrasto fra le
parti e della misera questione della colpa o non colpa.
Ha insieme, peraltro, qualche cosa di deprimente, giac-
ché fa apparire risultato di un annoso processo inces-
sante, determinato da una necessità superiore, quegli
avvenimenti che sino allora semhravan~ soggetti, quali
atti liberi, al giudizio morale.
Questo processo nella sua prima fase, precede:iite
lo scoppio della guerra, che· è di crescente sviluppo
della potenza d'Atene durante il cinquantennio dalla
vittoria sui Persiani in poi, è descritto da Tucidide in
un famoso excursus 34), ch'egli inserisce nella storia degli
antecedenti immediati della guerra. Tale . forma è per
lui 1 giustificata inquantoché egli è costretto a risalire
oltre la cornice temporale dell'opera. Il breve .disegno
di storia della potenza ateniese sta del resto anche a sé,
com'egli stesso ci dice, giacché prima di lui questa parte

33) L'origine medica di 7tp6cpa:cnç fu riconvsciuta e breve-


mente affermata da qualcuno dei più vecchi critici, Eduard .Schwartz
(v. n. 15) e altri. Ed è soggetto di una più ampia ricerca del
CoCHRANE nel libro citato a n. 19.
84) I 89-118.
660 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

importante della storia recente non era mai stata espo·


sta adeguatamente 35). Del resto si ha tuttavia l'impres·
sione che l'excursus, e così tutto ciò che Tucidide dice
della causa vera della guerra, non sia stato inserito
che dopo nella storia dell'antefatto, e che questa in
origine si fosse limitata agli avvenimenti diplomatici
e militari che precedettero immediatamente la guerra.
Tale impressione è determinata non solo dalla forma
singolare della composizione, ma anche dall'osservazione
che il principio appunto della guerra era stato certo
Ii.arratò da Tucidide sin dal suo primissimo abbozzo,
laddove l'excursus circa lo sviluppo della potenza ate·
niese cita già la demolizione delle mura (404), quindi
non fu scritto, almeno nella sua forma odierna, che
dopo la fine della guerra 36). La teoria della causa vera
di questa, motivata dall'excursus, alla sua volta, è
evidentemente il frutto delle meditazioni di tutta la
vita di Tucidide sulla questione, e non spetta che al-
l'ultimo suo periodo. Inizialmente, egli si atteneva
ancora assai più ai semplici fatti; più tardi il pensatore
politico si sviluppò in lui sempre più libero, cogliendo
sempre più arditamente il tutto nei suoi_ nessi intimi
e nella sua necessità_37). L'efficacia dell'opera nella forma

35) I 97, 2. Lo studio precedente di questo periodo, a cui chiara·


mente egli si riferisce, è quello di Ellanico nella 'A't"nx7j ~uyypcxcp1J.
Tucidide lo critica come insufficiente e cronologicamente impre·
ciso.
36 ) I 93, 5. Questa frase sulla larghezza delle lunghe mura di
Atene intorno al Pjreo, che si poteva osservare anche dopo la
sistematica distruzione delle fortificazioni di Atene da parte del
nemico, non deve parere come una aggiunta più tarda che si possa
facilmente togliere dal suo contesto sintattico. Probabilmente
tutto l'excursus sulla pentecontaetia fu scritto dopo la guerra
(v. n. 41).
3 7) L'opera fu evidentemente progettata, :fin dal principio,
come registrazione di dati di fatto (~u"("(pcxcp1J) e Tucidide man-
tenne anche in seguito la parola (I 1, l); egli usa questo termine
anche per indicare il tipo della narrazione composta da Ellanico
sulla storia di Atene prima della guerra (I 97, 2). Ma col pas•
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLmco 661

in cui ci è pervenuta si basa essenzialmente sul fatto


che rappresenta un'unica tesi politica di vastissime pro-
porzioni, la quale sin da principio trova chiara espres-
sione nella teoria della causa vera.
Sarebbe una petizione di principio antistorica quella
di pretendere che un « vero storico» avrebbe dovuto
intendere con tutta chiarezza sin da principio la causa
vera nel senso tucididèo d'una necessità superiore, da
tempo predisposta. L'analogia più singolare è offerta
dalla « Storia di Prussia » di Leopold von Ranke. Nella
seconda redazione, dopo il 1870, questi vide l'impor-
tanza storica dello sviluppo dello Stato prussiano con
occhi nuovi affatto. Egli medesimo dice d'avere conce-
pito allora soltanto quelle vaste idee generali delle quali,
nella prefazione al rifacimento, si crede in dovere di
scusarsi in piena regola presso gli storici suoi colleghi,
perché non si tratta di mero accertamento di fatti,
bensì dell'interpretazione politica della storia. Queste
nuove idee generali si manifestano soprattutto nella
descrizione, totalmente rinmlvata ed ampliata e appro-
fondita in cospicua misura, della genesi dello Stato
prussiano. Non altrimenti Tucidide, finita la guerra,
ha rifatto precisamente il principio dell'opera sua, che
comprende la storia della sua genesi.
Lo storico ha cercato d'intendere il problema della
potenza d'Atene, avendo riconosciuto in essa la causa
vera della guerra, anche dall'interno. Nella sua narra-
zione degli antecedenti della guerra va notato ch'egli
non presenta l'excursus circa lo sviluppo esteriore
della potenza d'Atene se non quale appendice alla con-
ferenza di Sparta, narrata con somma efficacia, dove

sare del tempo questa « registrazione » assorbì in sé tutte le rifles-


sioni politiche di Tucidide, che dànno il marchio distintivo alla
parte finita della storia, come noi ora la leggiamo. Questa opera
finita, non è più solamente ~uyypo:'\'.>-fi·
662 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

gli Spartani, dopo appassionate insistenze degli alleati,


si decidono per la guerra. Alla dichiarazione di guerra
non. si viene, è vero, che in un'ulteriore conferenza ple-
naria della Lega peloponnesiiica, ma Tucidide, bene
apprezzando l'importanza capitale di quella prima di-
scussione ufficiosa, cui non presenziavano se non alcuni
alleati che movevano lagnanze contro Atene, ne ha
fatta la decisione vera e proprià., mettendone in rilievo
l'importanza anche esteriormente con quattro orazioni
consecutive 38), esempio unico nell'opera sua. Non fu-
rono, secondo Tucidide, le ragioni degli alleati, le cui
lagnanze avevano costituito il contenuto principale delle
deliberazioni, a dare la spinta decisiva alla guerra,
bensi l'apprensione di un aumento anche maggiore
della preminenza ateniese in Grecia 39). Ciò non poteva
mostrarsi così apertamente nelle vere discussioni, ma
Tucidide mette energicamente da parte .le questioni
costituzionali che vi figurarono in prima linea, e di
tutti i discorsi colà tenuti non riferisce che lorazione
conclusiva dei Corinzi 40). Sono essi i nemici ,più acca-
niti d'Atene, perché rappresentano la seconda potenza
commerciale dell'Ellade e quindi i naturali concorrenti
d'Atene. Vedono gli Ateniesi con l'acume dell'odio,
sicché Tucidide fa loro impiegare lo stratagemma di
spronare gli irresoluti Spartani con l'illustrare compara-
tivamente l'intraprendenza e la brama d'espansione
degli Ateniesi. Vediamo delinearsi innanzi a noi un
ritratto del carattere del popolo attico, che mai ora-
tore ufficiale ateniese ne disegnò uno più efficace in
lode della sua città, se non forse Tucidide stesso nel-
!' orazione funebre di Pericle, ch'egli compose libera-
mente e donde trasse non pochi elementi per il discorso

18) Thuc. I 66-88.


39) I 88.
40 ) I 68-71.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 663

dei Corinzi 41 ). Non si può infatti mettere seriamente


in dubbio che non si tratta del discorso tenuto vera-
mente dai Corinzi a Sparta, bensì d'una creazione so-
stanzialmente autonoma di Tucidide. Questo elogio
del nemico, capolavoro letterario anche secondo la re-
torica del tempo 42), adempie per lo storiografo, a parte
il suo scopo propagandistico immediato, anche ad uno
scopo superiore: dà un'analisi incomparabile dei fon -
d a m e n t i p s i c o l o g i c i dello sviluppo della po-
tenza ateniese. In contrasto con lo sfondo della lentezza
e indolenza, dell'onestà d'antico stampo e della ristretta
perseveranza di Sparta, risalta la descrizione della vi-
vacità ateniese, in cui si mescolano l'invidia, l'odio
e l'ammirazione dei Corinzi: perpetua intraprendenza,
grande slancio nel concepir disegni come nell'osare, una
flessibilità che fronteggia ogni situazione e non viene

il) Questo non può essere dimostrato qui in particolare (v. an-
che n. 42). Ma se qui si deve darlo per dimostrato (e io spero di
dimostrarlo in un'altra occasione) e se inoltre è evidente che
l'orazione funebre di Pericle fu scritta dallo storico solamente
dopo la tragica fine della guerra, la stesura del discorso dei Co-
rinzi deve appartenere allo stesso periodo. La· stessa datazione,
a mio credere, deve essere fissata per gli altri tre discorsi tenuti
nella stessa occasione a Sparta, specialmente il discorso dei messi
Ateniesi (I 73-78). Come ho già detto (n. 36) l'excursus sulla pen-
tecontaetia (I 89-118) mostra tracce della stessa tarda origine.
Tutto questo favorirebbe la spiegazione per cui l'intera parte del
Libro I sulla« vera causa» (&Àl).&ecr-cci:-c'l} np6q>etcrLç) della guerra
che ora tien dietro all'esposizione delle discussioni diplomatiche
(ethlctL, cfr. I 66, 1), cioè la valutazione degli eventi storici da
un punto di vista più profondo e più generale, sarebbe stata ag-
giunta solamente quando Tucidide diede alla sua opera la forma
definitiva, negli ultimi anni della sua vita.
42) Cfr. PL Menex. 235d. Si concepiva come molto più dif-
ficile, da un punto di Vista retorico, celebrare una città davanti
ai suoi nemici, che lodarla in patria. Sembra, perciò, che Tu-
cidide abbia inteso il suo compito nel doppio senso di lodare
Atene in patria, nella orazione funebre di Pericle, e fu'Ori, fra
gli Spartani e i loro alleati, per bocca dei Corinzi. I due discorsi
sono solo parti differenti di un solo e identico disegno e l'idea di
combinarli è tipica del!' « obbiettività» di Tucidide. Senza il
discorso dei Corinzi, l'orazione funebre si sarebbe avvicinata
iii!' eit/l!s ·qel panegirico isqcra,tM. che è essenzi;.hnente soggettiyQ,
664 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

meno neanche nell'insuccesso, anzi ne è spronata a


più alte imprese - cosi l'energia di questo popolo si
espande sempre più, dando a ogni cosa un'impronta
nuova. Non è affatto un elogio morale d'Atene, quello
qui formulato, ma una semplice descrizione del dina-
mismo psicologico che ne spiega il successo nell'ultimo
cinquantennio.
A tale spiegazione psicologica della potenza d'Atene,
Tucidide con ardita architettura contrappone un se-
condo quadro analogo. La motivazione esterna di que-
sto discorso, ch'egli fa pronunciare a una delegazione
ateniese nel mezzo delle deliberazioni spartane circa la
guerra, come è ovvio col necessario cambiamento di
scena di un'assemblea del popolo appositamente con-
vocata 43), riesce alquanto oscura al lettore, e forse a
ragion veduta. Proposta e risposta non sono infatti
pronunciate sulla scena, bensì indirizzandosi al pubblico,
e compongono nel loro effetto un· tutto grandioso.
L'Ateniese aggiunge all'analisi psicologica l' analisi
s t o r i c a dello sviluppo della potenza ateniese, se-
guendola dalle origini sino al presente. Ma quest'analisi
storica non è mera enumerazione dei passi esteriori del-
l'espansione ateniese, quale è data poco dopo dal-
l'excursus 44), bensì il quadro dello svolgimento interiore
dei motivi che hanno costretto Atene ad uno sviJuppo
così conseguente della propria potenza. Vediamo dun-
que come Tuèidide affianchi tre esami del problema
concorrenti al medesimo fine. L'orazione dell'Ateniese
sulla necessità storica dello sviluppo della potenza di
Atene diventa nelle sue mani una giustificazione in
grande stile, quale solo la mente di Tucidide stesso
poteva concepire. Sono i pensieri suoi, quali egli non

43) Thuc.. I 73-78


'') V. l'excursus .sulla pent~çon~aetia, I 89-llS; cfr. sopra
r· 6~9 sii.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLffiCO 665

fu in grado di formulare che dopo il tracollo d'Atene,


nella dolorosa pienezza della sua esperienza politica,
quelli che fa qui profeticamente esprimere, anticipata
conoscenza, all'anonimo oratore ateniese già prima del-
l'inizio della guerra. Le radici della potenza d'Atene
stanno, per Tucidide, nella sua incancellabile beneme-
renza storica quanto all'esistenza e alla libertà politi-
che del popolo greco, nella parte decisiva da essa avuta
nelle vittorie di Maratona e di Salamina 45). Giunta poi,
per volontà dei confederati, all'egemonia, dovette ne·
cessariamente, per timore dell'invidia suscitatane in
Sparta, che si vedeva ora scacciata dal suo posto di-
rettivo tradizionale, .rinforzare di continuo la potenza
conseguita e tutelarsi dalla defezione dei confederati
mediante un'egemonia centralistica sempre più rigida,
la quale ridusse a poco a poco gli Stati confederati, da
principio liberi, a sudditi d'Atene. Al movente appren-
sione si aggiunsero, moventi accessori, ambizione e
interesse 46). .

Tale era il corso che lo sviluppo della potenza ate-


niese doveva necessariamente assumere 47) secondo le
leggi immutabili della natura umana. Se gli Spartani,
i quali ora credono di sostener le cause del diritto
contro la forza e l'arbitrio, dovessero mai riuscire ad

45) Per questo riguardo egli poteva soltanto adottare la tesi


.del suo precedessore Erodoto. Ma questa tesi era evidentemente
la formula della stessa politica ateniese con la quale Atene
giustificava la graduale espansione del suo potere durante i cin·
quanta anni che seguirono le guerre Persiane.
46) Thnc. I 75, 3; I 76, 2. I tre motivi sono così presentati
due volte alla mente del lettore.
47 ) V. le parole ~ °'ò-roii 8è -roii &pyou xa:-r11va;yxlicr.&ljµev, I
75, 3. Cfr. anche I 76, l, dove è ripetuta di proposito la parola
« costretti ». Se gli Spartani avessero assunto essi la parte che
agli Ateniesi fu offerta dagli alleati durante le guerre Persiane,
sarebbero stati «costretti » a sviluppare la loro egemonia nello
stesso modo degli Ateniesi. TI concetto di necessità politica ap·
l'licato qui risale al concetto di natlU'a umana in I 76, 2-3.
666 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

annientare A.tene, raccogliendo essi medesimi l'eredità


della sua egemonia, il capovolgimento delle simpatie
in Grecia mostrerebbe loro ben presto come la potenza
muti soltanto di detentori, non di forma politica, di
metodi e d'effetti '18 ). Per l'opinione pubblica A.tene fu,
sin dal primo giorno della guerra, l'incarnazione
della tirannia, Sparta la roccaforte della libertà '19),
Tucidide lo considera naturalissimo, data la situazione,
ma in queste parti, che la storia ha assegnato ai due
Stati, non ravvisa caratteri morali permanenti, bensì
appunto parti, che questi un giorno si scambieranno,
fra lo stupore degli spettatori, con l'avvicendarsi nel
possesso della potenza. Qui parla evidentemente la
grande esperienza che la Grecia dovette fare, dopo il
tracollo d'Atene, sotto la tirannica signoria di Sparta 50).
Quanto lontani, peraltro, fossero in genere i con-
temporanei da questo concetto di una legge politica
immanente ad ogni potenza, lo dimostra il continua-
tore di Tucidide, Senofonte. Per la sua schietta orto-
dossia, l'ulteriore rovina dell'egemonia spartana rap-
presenta, come quella dell'ateniese, un giudizio di Dio
contro la hybris umana 51). Questo raffronto viene a

48 ) I 77, 6.
49 ) Il 8, 4-5. Tucidide, sebbene ateniese, non nasconde il
fatto ehe la simpatia della maggior parte del popolo greco era
per gli Spartani e che Atene era generalmente odiata come po-
tenza imperialistica. Nessun risentimento personale è implicito in
questa franca ammissione da parte dello storico. Egli pensa che
ogni potenza imperialistica deve affrontare questa animosità e
che questo non doveva distogliere Atene dal suo compito.
50) Le parole (I 77, 6) « se voi ci vincerete e governerete al
nostro posto, presto perderete le simpatie che avete solamente
per il fatto che noi siamo temuti» si riferiscono a quanto real-
mente avvenne dopo la fine della guerra. La menzione di Pau-
sania e della parte che egli ebbe dopo la guerra Persiana è un'evi·
dente al:usione al caso para!lelo della tirannica politica di Lisan-
dro dopo-· la g;uerra del Peloponneso. Questo fissa la data della
stesura del discorso dell'ambasciata atimiese (I 73-78) nello stesso
tempo di quello dei .Corinzi (I 68-71); v. note 4l e 4~.
~~) V, <ç Pajdeil!» III 297 e n, 75.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 667

farci veramente apprezzare il contributo spirituale di


Tucidide. Soltanto col riconoscimento della necessità
immanente degli avvenimenti che condussero alla guerra,
egli attinge veramente la vetta dell'oggettiVità cer-
cata. Ciò vale tanto per il giudizio su Sparta, quanto
per quello su Atene. Invero, come il cammino che portò
Atene alla potenza, agli occhi ~di Tucidide, fu neces-
sario 52), così d'altra parte, dobbiamo gettare sulla bi-
lancia con tutto il suo peso quel detto dello storico,
che il timore della potenza ateniese «costrinse» Sparta
a venire alla guerra 53). D'imprecisione fortuita di lin-
guaggio non può trattarsi, né qui, né in alcun altro
luogo di Tucidide. Non è stato osservato ancora, a
quanto pare, che anche alla ripresa della guerra dopo
la pansa di più anni di pace malcerta, sono usate le
stesse parole: gli avversari, dopo un periodo di ostilità
latente, furono « costretti » ari prendere apertamente
la guerra 54). Tucidide lo dice nel cosiddetto secondo
proemio, dove, dopo la fine della guerra, espone la sua
idea novatrice che le due guerre vanno considerate
come un'unica grande guerra. Questo pensiero, e l'idea
dell'ineluttabile necessità della guerra, ch'egli espone
nell'eziologia, formano un gran tutto. Entrambe spet-
tano all'ultima fase del suo pensiero politico.

Con la questione dell'unità della guerra siamo g1a


passati dalle cause alla guerra stessa. La sua esposizione
mostra la stessa intensa compenetrazione dei fatti con

62 ) Cfr. n. 47.
63) V. I 23, 6, dove questa necessità politica, il puro rapporto
aritmetico in tennini di potenza, è definito come la vera causa
(à:À~e:cr-r<i·ni 7tp6q>cr.crLç) della guerra.
64) V 25, 3. Cfr. anche I 118, 2. Qui Tucidide constata che gli
Spartani non scendevano in guerra se non in caso di costrizione
assoluta. Ma anche se, a tutta prima, ' vessero pensato che que-
sto stato di costrizione non . >istcsse, essi sapevano pur vedere,
dandosi il caso, l'inevitabile necessità della guerra (cfr. n. 53).
668 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

un contenuto ideale politico. Come la tragedia greca


differisce ·dal dramma delle età posteriori per il suo
coro, i cui sentimenti riflettono incessantemente l'azione
e ne fanno risaltare il significato, cosi la narrazione
storica di Tucidide si distingue dalla storia politica dei
suoi successori per l'elaborazione concettuale che chia-
rifica la materia, e tuttavia non è presentata quale pe-
sante ragionamento, ma per lo più, mediante le ora-
zioni 55), è tradotta in azione spirituale ed è posta sotto
gli occhi del lettore che ne segua il pensiero. Le ora-
zioni sono una fonte inesauribile d'insegnamenti; qui
non possiamo tuttavia nemmeno tentare d'indicarne
la ricchezza di idee politiche. Queste sono presentate
sia in formule, sia in forma di deduzioni o d'acute di-
stinzioni. Espediente spesso usato è la contrapposi-
zione di due o più discorsi intorno alla medesima que-
stione, la cosiddetta antilogia dei Sofisti .. Tucidide dà
così la parola alle due correnti della politica spartana
nel dibattito circa la guerra imminente - la tempo-
reggiatrice, che vuole la pace, e quella che spinge alla
guerra - nei discorsi del re Archidamo e dell'eforo
Stenelaida; similmente, in Atene, prima' dell'impresa
di Sicilia, nei discorsi di Nicia e d'Alcibiade, che deb-
bono dividersi il comando, ma politicamente hanno di
fronte alla guerra atteggiamenti diametralmente op-
posti. A p_l'oposito della defezione di Mitilene, Tuci-
dide coglie l'occasione di fare svolgere i rispettivi cri-
teri alle correnti energica e moderata della politica
attica verso i confederati nel duello oratorio tra Cleone
e Diodoto nell'assemblea popolare d'Atene, e dimostrare
le immense difficoltà che presentava, appunto durante
la guerra, il problema del giusto trattamento dei con·

51i) V. A. W. GOMME, Essays in Greek History and Literature


(Oxford 1937) che esamina i . iscorsi cli Tucidide.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 669

federati. Nelle orazioni dei Plateesi e dei Tebani, dopo


la presa dell'infelice Platea, dinanzi alla commissione
esecutiva spartana; la quale, per salvare le apparenze,
dà al mondo lo spettacolo d'un dibattimento giudi-
ziario, in cui i confederati degli accusatori sono ad un
tempo giudici, è mostrata l'incompatibilità tra guerra
e giustizia.
L'opera di Tucidide è ricca di contributi alla que-
stione delle parole d'ordine politiche e della relazione
tra ideologia e realtà nella politica. Gli Spartani, quali
rappreseutanti della libertà e del diritto, stando al
loro assunto sono costretti a volte all'ipocrisia morale,
mentre in genere fanno ben coincidere le belle parole
d'ordine col· proprio interesse, sicché non è detto ab-
biano essi stessi coscienza di dove l'una cosa finisce
ed incomincia l'altra. Gli Ateniesi non hanno tanto
buon gioco; quindi la scappatoia della sincerità è fatta
per loro. Questa può apparire brutale, ma è talvolta
più simpatica del gergo morale dei << liberatori », i
quali hanno il lor.o rappresentante più intimamente
convinto e più amabile nella figura di Brasida.
IJ problema della neutràlità degli Stati più deboli
nella guerra tra le grandi potenze è esposto sotto varii
aspetti - quello del diritto come quello della politica
realistica - nelle orazioni pronunciate a Melo e a Ca-
marina. Il problema dell'unificazione nazionale dei varii
Stati, divisi dai loro contrasti d'interessi, sotto la pres-
sione del comune pericolo esterno, è esemplicato nei
Siciliani, i quali ondeggiano incerti fra il timore del
nemico di fuori e l'apprensione dell'egemonia del .mag-
giore fra gli Stati siculi, desiderando in fondo l'annien-
tamento d'entramhi. Il problema - pace di concilia-
zione o d'imposizione ? - è toccato dopo l'insuccesso
degli Spartani a Pilo, che li rende ad un tratto disposti
alla pace, laddove gli Ateniesi, da tempo stanchi della
670 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO. SPIRITO ATI1CO

guerra, tornano· sùbito ad esser contrari ad ogni con-


ciliazione. I problemi psicologici della guerra, in quanto
di natura militare, sono trattati nei discorsi dei capi-
tani, i politici in alcuni grandi discorsi degli uomini
di Stato, come la stanchezza della guerra e il pessi-
mismo degli Ateniesi per bocca di Pericle 6 6). ~ inoltre
descritto l'immenso effetto politico di un fatto natu-
rale quale la peste, che distrusse ogni disciplina e
recò danno incalcolabile; e gli orrori della rivoluzione
in Corcira offrono occasione d'illustrare ampiamente,
con evidente parallelismo con la descrizione della peste,
la disgregazione morale della società e il capovolgi-
mento di tutti i valori sociali causa la troppo lunga
guerra e la sfrenata lotta di parte 67). Il parallelo, ap-
punto, con la peste mette in evidenza· l'atteggiamento
di Tucidide di fronte a queste cose, che non è affatto
moraleggiante, ma, precisamente come nel problema
della· causa della guerra, è quello della penetrante dia-
gnosi medica. 11 decadimento della moralità politica
è per lui un contributo alla patologia della guerra. Uno
sguardo ~ommario basterà a mostrare come Tucidide
percorra tutto il complesso di problemi politici che la
guerra reca· in sé. Le· occasioni nelle quali egli esamina
tali problemi sono scelte con :cura ·e tutt'altro che
seinpre imposte dagli avvenimenti stessi. Eventi con-
simili sono trattati in maniera diversissima; talvolta
i sacrifici sanguinosi e gli orrori della guerra sono vo"
lutarnente messi in evidenza, tal'altra si passa oltre a
fatti ben più tremendi con una fredda enumerazione,
bastando illustrare con qualche esempio questo aspetto
della guerra 68).

1111)II 60-64.
17) III 82-84.
68) Questo metodo di Tucidide nel distribuire le luci sulla de-
scrizione della guerra è analizzato criticamente da Dionisio di
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 671

Come nella teoria dell'origine della guerra, cosl pure


nella narrazione vera e propria di questa occupa un
posto centrale il problema della potenza, al quale in-
fatti si riconnette la maggior parte delle suddette que-
stioni particolari. Tucidide, come è ovvio trattandosi
d'un pensatore politico di tale profondità, non lo
considera secondo un criterio di mero vituosismo impe-
rialistico. Egli lo inquadra espressamente nel complesso
della vita umana, che non si esaurisce nell'aspirazione
alla potenza, ed è tipico come appunto i più esperti
e intransigenti campioni dell'imperialismo, gli Ateniesi,
nell'interno del loro Stato riconoscano nel diritto la
norma suprema e siano fieri di non conoscere dispoti-
smo di tipo orientale, ma d'esser invece uno Stato
costituzionale moderno. Ciò· è detto persino nello stesso
discorso in cui l'Ateniese difende in politica estera
l'imperialismo attico dinanzi agli Spartani 59). Il dege-
nerare della lotta politica entro lo Stato in una guerra
di tutti contro tutti è per Tucidide una grave malattia
politica 60). Ma altro è il caso nelle relazioni da Stato
a Stato. Infatti, per quanto anche qui esistano trat-
tati, alla fine, per risolvere, è decisiva la forza e non
il diritto. Se gli avversari sono di forze non troppo di-
spari, si· ha ciò che si chiama guerra; ma se uno è senza
paragone più forte, si chiama sopruso. ~ questo il caso
che Tucidide esemplifica 61) nella violenza usata all'iso-
letta neutrale di Melo per parte d'A.tene, signora del
mare. Fatto per se stesso insignificante, esso tuttavia
occupò ancora I'opinione pubblica greca un secolo dopo,
e la volse contro Atene 62), facendo cadere a zero, nella

Alicarnasso nello scritto Su Tucidide (come scrittore), c. 10 sa.;


v. specialmente c. 15, p. 347, 15 ss. (Usener-Radermacher).
lii) I 77, 1.
80) III 82-84.
61 ) V 84-116.
") Cfr. hocr. Paneg. 100; 110; Panath. 6S, · 89.
672 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

guerra stessa, le simpatie per Atène, già di per sé assai


esigue 63 ).
Abbiamo qui un esempio classico del modo in cui
Tucidide, indipendentemente dall'importanza di fatto
di un avvenimento, coglie in esso il problema generale
e ne fa un capolavoro di spirito politico. Egli ricorre
alla forma dialogata dell'antilogia sofistica, che del ri-
manente non incontriamo nell'opera sua, dove gli av-
versari si misurano, opponendo argomento ad argo-
mento, nella tenzone intellettuale di domanda e rispo-
sta, per fissare i) tormentoso contrasto tra forza e di-
ritto nella sua necessità permanente 64). Nessuno porrà
in dubbio che Tucidide ha finto con mirabile libertà, a
guisa di dibattito ideale tra due principii, tale col-
loquio che si sarebbe svolto entro le mura del palazzo
del Consiglio di Melo. I valorosi Melii si rendono sù-
hito conto di non potersi appellare al diritto, giacché
gli Ateniesi non riconoscono per norma che il proprio
tornaconto politico 65). Essi cercano di persuaderli che
anche per Atene è vantaggioso osservare certi limiti
nel giovarsi della propria superiorità, giacché può ve-
nire un giorno in cui anche una sì grande potenza
debba richiamarsi a quest'umano dovere d'equità 66).
Ma gli Ateniesi non si lasciano intimidire da ciò e di-
chiarano che il proprio interesse esige l'annessione del-
l'isoletta 67), la cui neutralità ostinatamente mantenuta
non può che sembrare al mondo un segno della debo-
lezza d'Atene; ad .annientarla non hanno alcun inte·
resse. Ammoniscono i Melii a non fare inopportuna-

63) Cfr. Thuc. II 8, 4, sulle simpatie della Grecia durante la


guerra. Cfr. p. 666.
64) È questa necessità che Tucidide afferma energicamente
in tutta la sua opera. Cfr. note 53 e 54.
66) V 89.
66) V 96.
67} V 97.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLmco 673

mente gli eroi; di fronte alla ragion di Stato di una


grande potenza moderna, l'etica cavalleresca più non
vale. Ammoniscono a non far cieco assegnamento su
Dio e sugli Spartani: Dio è sempre dalla parte del più
forte, lo mostra la natura ad ogni passo, ed anche gli
Spartani non si astengono da ciò che gli uomini chia-
mano « obbrobrioso» se non dove ciò corrisponda al
loro interesse 68).
Il fondare il diritto del più forte sulla legge di na-
tura e il trasformare il concetto della divinità da tu-
trice del diritto in prototipo d'ogni violenza e prepo-
tenza terrena porta il naturalismo dell'orientamento
imperialistico ateniese alla profondità d'un principio
filosofico. Gli Ateniesi cercano di eliminare il conflitto
con la religione e la morale, con l'aiuto delle quali i
loro avversari, più deboli, sperano di vincere. Tucidide
mostra qui l'imperialismo d'Atene nella sua logica
estrema e all'apogeo della sua consapevolezza. Ch'egli
non voglia né possa dare una risoluzione di tale contra-
sto è cosa voluta dall'indole stessa della forma da lui
prescelta, giacché la forza dei discorsi antitetici sofi-
stici sta appunto nel dare dialetticamente la consape-
volezza della duplicità d'un problema, e non nella sua
soluzione. Ma è poi soprattutto impossibile, in base a
tutto l'assieme del suo atteggiamento, ch'egli volesse
fare qui da inquisitore larvato. La vera novità sta evi-
dentemente nella rappresentazione senza veli della pura
ragion di Stato, ch'era estranea affatto ai pensatori
greci anteriori ed era un'esperienza politica nuova di
quel tempo. S'egli la contrappone alla morale corrente,
al v6µ6,> 8(xcuov, come una sorta di legge di natura
o di diritto naturale del più forte, ciò significa che il
principio della potenza si stacca qui dal nomos tradi-

") V 105.
674 UBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

zionale come sfera soggetta a una legge di tutt'altra


natura, senza sopprimer quello né subordinarglisi. Non
dobbiamo considerare la scoperta di questi problemi
nel concetto dello Stato dell'età sua, per parte del pen-
satore politico, col criterio filosofico di Platone, né
pretendere che Tucidide dovesse apprezzare l'imperia-
lismo degli Stati secondo il criterio di una « idea del
Bene». Appunto nei momenti idealmente culminanti
dell'opera sua, come nel dialogo dei Melii, egli è un
alunno dei Sofisti 69); ma con l'applicazione ·delle loro
antinomie teoretiche alla realtà storica egli ha reso il
quadro di tale realtà così contradittorio e pieno di
contrasti, che sembra già celare in sé le aporie di Pla-
tone 70).

Volgiamo ora lo sguardo al corso reale della poli-


tica imperialistica ateniese in guerra. È inutile seguirlo
nelle singole sue oscillazioni; prendiamone invece solo
il momento critico dov'essa tocca l'apogeo: la spedi-
zione contro la Sicilia nel 415. Questa non è soltanto
rapice incontestato dell'arte narrativa di Tucidide, ma
anche un punto focale del suo giudizio politico. Tuci-
dide prepara l'impresa di Sicilia sin dal primo libro.
Già l'annessione della forte flotta di Corcira ad Atene,
prima dell'inizio della guerra, è raccomandata politi-
camente agli Ateniesi adducendo che chi tiene Corcira
domina l'accesso alla Sicilia 71). Il primo intervento
degli Àteniesi in Sicilia con poche navi sembra insignifi-
cante, ma Tucidide già poco dopo (424) fa fare al grande
statista siracusano Ermocrate il tentativo di appianar'!
i dissidi tra le città siciliane in una conferenza a Gela,
unendole sotto la guida di Siracusa, in previsione di una

•e) Cfr. p. 553 ss.


70) V. « Pai.deia» II, cap. sul Gorgia di Platone.
71 ) I 36, 2.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLIDCO 675

futura invasione ateniese. Le ragioni con le quali egli


raccomanda la sua proposta sono le stesse che espone
poi a Camarina, durante la guerra di Sicilia 72 ). Senza
dubbio Tucidide non introdusse nell'opera sua tali pre-
liminari che alla fine della guerra, quando sèrisse la
campagna di Sicilia. Per Tucidide, Ermocrate è l'unico
politico nazionale della Sicilia che sia preveggente, è
lui che vede venire di lontano il pericolo, perché d e v e
venire: gli Ateniesi non potranno far a meno d'esten-
dere il proprio domini~ alla Sicilia; nessuno può farne
loro una colpa, se sono Stati della Sicilia stessa ad in-
vocarne l'intervento. Questo calcolo di Ermocrate mo-
stra che anche fuori d'Atene si è appreso a conce-
pire realisticamente la politica. Ma, per quanto giusta
fosse la visione che aveva il Siracusano dell'attrattiva
dell'avventura di Sicilia secondo la prospettiva ateniese,
molt'altro doveva aggiungervi5i per renderla suscetti-
bile d'esser presa in considerazione da Atene.
Il momento in cui sorge realmente sull'orizzonte
ed è iniziata, sono gli anni dopo la pace di Nicia, in-
speratamente propizia ad Atene. Appena rimessosi alla
meglio, ·il popolo cede alla preghiera della sicula Se-
gesta, in guerra con Selinunte, di un intervento ate-
niese. È il momento più drammatico di tutta l'opera
di Tucidide, quando Alcibiade, contro ogni mònito di
N:_icia, freddo e prudente fautore d'una politica di pace,
svolge dinanzi all'assemblea popolare il disegno verti-
ginoso della conquista di tutta la Sicilia e del dominio
su tutta la Grecia, dichiarando che lo sviluppo d'una
potenza come quella d'Atene non si può «razionare»:
.chi la detiene, non può conservarla che con l'estenderla
sempre più, giacché la sosta significa pericolo di deca-
denza 73). Dobbiamo rammentare, in questo momento,
12) IV, 59; VI, 76.
73) VI l8, 3.
676 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

tutto ciò che si era detto allo scoppio della guerra sul-
l'incessante estendersi della potenza d'Atene 74), ma
anche sull'indole del popolo ateniese 75) e della sua
perpetua intraprendenza, che dinanzi a nulla arretra va.
In Alcibiade, tale carattere di tutta la stirpe è genial-
mente personificato~ ciò spiega la sua influenza irre-
sistibile sul volgo, sebbene a questo egli fosse inviso
per il suo atteggiamento presuntuoso e altezzoso nella
vita privata. In tale concatenazione di circostanze, nel
fatto che odio e invidia suscita~a appunto l'indole del
capo che solo sarebbe stato in grado di districare sicu-
ramente lo Stato da un'impresa siffatta, Tucidide rav-
visa una delle cause principali della rovina d'Atene 78).
Era infatti impossibile ad Atene portare a buon fine
il programma siculo di Alcibiade avendone messo al
bando l'ideatore e il capo spirituale poco dopo iniziata
la campagna. Il lettore assiste così a quel massimo
sforzo d'Atene, che con la rovina della flotta, dell'eser-
cito e dei capitani scrolla lo Stato fino alle fondamenta,
peripezia fatalmente minacciosa, per quanto non de-
cida ancora per nulla la catastrofe finale 77).
La narrazione dell'impresa di Sicilia- è stata detta
una tragedia, ma tale essa non è di certo nel senso
estetico d'una posteriore storiografia ellenistica, che
gareggiando volutamente con gli effetti della poesia
intende di sostituirsi alla tragedia e suscitare nel lettore
compassione e timore 78). Si avrebbe maggior ragione

1') I 75, 3 e 76, 2.


76) I 70.
76 ) V.. le osservazioni di Tucidide sulla posizione sociale di Al-
cibiade e sulla sua condotta privata VI 15. Cfr. per le sue qua-
lità come capo VIII 86, 4-5, la più vasta e comprensiva raffigu-
razione di Alcibiade nell'opera di Tucidide.
") V. il giudizio di Tucidide sulla spedizione di Sicilia e l'im-
portanza di quella disfatta per l'esito della guerra.
78) Per configurarsi in una vera tragedia,· nel senso classico
greco della parola, l'accento che Tucidide pone sui risultati morali e
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLmco 677

di basarsi sul fatto che Tucidide stesso parla una volta


di una hybris dell'ottimistica intraprendenza della mol-
titudine, avendo evidentemente di mira appunto im-
prese arrischiate 79 ), come quella di Sicilia. Ma anche
in questo caso lo interessa non tanto il suo aspetto
morale o religioso, quanto il problema politico. È escluso
affatto che nel rovescio di Sicilia si debba scorgere
qualche cosa come il castigo celeste per la politica im-
perialistica d'Atene, ché dall'idea che la potenza per
se stessa sia male, Tucidide è lontano quanto mai è
possibile. L'impresa di Sicilia fu, a suo giudizio, peggio
di qualsiasi delitto; fu un errore politico o meglio una
serie d' errori. L'inclinazione alla hybris (cioè ad un
illusorio architettar disegni senza basi concrete) ap-
pare, a Tucidide uomo politico, cosa data, una volta
per tutte, nella psiche della folla. Indirizzarla retta-
mente è compito di chi è al potere~). Egli non riconosce
un'oscura necessità storica né nell'esito della campagna
di Sicilia, né nell'esito complessivo della guerra. Pos-
siamo raffigurarci un pensiero assolutamente storico,

sull' ate implicita nella sorte della guerra di aggressione contro Siracusa
non è abbastanza forte, anche se l'arte retorica dello storico non si
astiene, nel parlare della catastrofe, da quello che l'antica teoria
estetica chiamava Èx't"pcxyci>iìsrv (cfr. p. es. VIII 1). Né si deve
dimenticare che Tucidide nega espressamente ciò che in una tra-
gedia vera e propria ci si dovrebbe aspettare, cioè l'esistenza di
uno yvCÒ[Llj<; «[Lcip't"lJ!J.CX nel progetto della spedizione di Sicilia
in sé e per sé (II 65, 11). Secondo lui, essa fallì solo perché il
popolo era troppo miope per scegliere i mezzi giusti per il fine
rhe pur sperava di raggiungere. In un senso più largo, certo,
I' ~sposizione strettamente oggettiva di Tucidide sulla grandezza
dell'impresa militare ateniese e le sue deficienze politiche, ha un
effetto veramente tragico sul lettore, anche se gli manca lethos
religioso di Eschilo, ma ci si può domandare se questo effetto
non superi l'intenzione di Tucidide.
79) II 65, 9.
so) Secondo Tucidide, la catastrofe siciliana fu il risultato delle
particolari difficoltà in cui si dibatte il potere supremo in una
grande democrazia. V. n. 78. Egli pensava che la disfatta non
fosse dovuta a difetti nella condotta di guerra. ma all'incapacità
di esecuzione di una buona condotta.
678 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

il quale trova inammissibile il vedere, precisamente


qui, non una necessità, bensì l'effetto di un errore di
mente o il gioco poco confortante d'un mero caso.
Hegel ha respinta con aspre parole la critica saccente
di una certa specie di storiografia, la quale a cose fatte
sa appuntino in che momento si siano commessi errori
e che, beninteso, avrebbe saputo far meglio. Egli di-
rebbe press'a poco che l'esito infelice della guerra pe-
loponnesiaca non dipese da errori singoli, ma fu una
profonda necessità storica, perché la generazione d' Al-
cibiade, nel suo individualismo che, dominando del
pari nei capi e moltitudine, minava se stesso, non era
più in grado di padroneggiare le difficoltà della guerra,
né all'interno, né all'esterno. Tucidide è di diverso pa-
rere. Per l'uomo politico, ch'egli è, questa guerra rap-
presenta un compito determinato, proposto al suo spi-
rito. Nel risolverlo furono commessi pareèchi errori
fatali, ch'egli scruta acutamente daÌ suo alto osserva-
torio critico. V'è per lui una prognosi post factum;
rinunciare ad essa sarebbe rinunciare ad ogni politica.
Essa è agevolata dal fatto che suo criterio non è la
mera sensazione di vedere, dal canto proprio, più
rettamente, ma ch'essa era in grado di desumere tale
criterio dal grande uomo di Stato che aveva la respon-
sabilità della decisione d'Atene per la guerra, e che,
secondo il fermo convincimento di Tucidide, sarebbe
anche stato capace di condurla vittoriosamente a com-
pimento: Pericle 81).

In qual misura l'esito della guerra dipenda per


Tucidid~ dalla direzione politica, dalla quale la mili-
tare rimane per lui assai ·eclissata, lo mostra quel
luogo famoso del II libro 82 ), dove dopo il discorso col

81 ) II 65, 13.
82 ) II 65.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITTCO 679

quale Pericle rianima il popolo scoraggiato dalla guerra


e dalla peste e lo rincuora a resistere ancora, egli,
anticipando gli eventi, contrappone questo grande
capo a tutti gli ulteriori uomini politici d'Atene. In
pace e in guerra, sinché fu al potere, tutelò sicura-
mente lo Stato, guidandolo con misura sull'esiguo li-
mite che corre tra gli estremi opposti. Egli solo. intese
rettamente il compito che imponeva ad Atene la guerra
contro i Peloponnesii. Fu sua politica non impegnarsi
in grande imprese, sviluppare la flotta, non cercare
ampliamenti territoriali con la guerra e non accollare
allo Stato alcun rischio non necessario. Ma i suoi suc-
cessori - dice severamente Tucidide - fecero tutto
l'opposto. Per ambizione personale e per arrischiarsi
fecero disegni grandiosi, che nulla avevano a che fare
cori la guerra e che, se riuscivano, davano loro rino-
manza, se poi fallivano, ledevano la resistenza dello
Stato in guerra 83). Chi non pensa, a CJUesto pUn.to, ad
Alcibiade, che il suo saggio e integerri,mo avversario
Nicia caratterizza appunto così ne1 duello oratorio
circa la campagna di Sicilia 84 ) ? Ma appunto questa di-
scussione deve mostrare al lettore come il possedere
la giusta veduta ed un carattere probo non basti an-
cora; se no, Nicia, che Tucidide presenta con sì calda
simpatia personale, dovrebb'essere il capo nato. In
realtà Alcibiade gli è molto superiore quanto a doti
di capo nel vero senso del termine, sebbene attragga il
popolo su una via pericolosa e nulla faccia senza pensare
a sé. Ma è l'uomo capace di «tenere in pugno il po-
polo», come Tucidide dirà in altra occasione 85), lo-

!13) Il 65, 7.
80) VI 12-13. Cfr. VI 17, 1.
86) VIII 86, 5. Questa abilità di xoc-roccrxe:rv !!xÀov fa parte
della antica idea di Solcine della capacità di governo; cfr. Sol
fr. 24, 22; 25, 6 (Diehl); v. n. 86.
680 LIBRO Il - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

dando sommamente le benemerenze d'Alcibiade nel


momento in cui incombe la minaccia della guerra
civile.
Anche nel profilo di Pericle è messa in rilievo pre-
cisamente la sua capacità di conservare il proprio
ascendente sul popolo e di « non lasciarsi guidare, ma
guidare egli stesso» 86). Ciò che faceva superiore la sua
posizione a quella d'Alcibiade e di tutti gli altri era
ch'egli era, anche nelle questioni di danaro, un carat-
tere politico inattaccabile; ciò infatti gli dava l'auto-
rità di dire al popolo la verità, anziché piaggiarlo.
Egli ebbe sempre le redini in pugno: se la moltitudine
voleva romper la cavezza, egli sapeva imporlesi e inti-
midirla; se era abbattuta, sapeva rianimarla. Così
Atene, sotto di lui, « non era più una democrazia ~he
di nome, ma in realtà era l'imperio del primo uomo » 87 )
(?tpinoç &v-fip) che fosse nello Stato, la monarchia della
capacità politica eminente. Dopo la morte di Pericle,
Atene non possedette più un capo siffatto. Ognuno
avrebbe sì. voluto diventare il primo, come lui, ma
nessuno poté ottenere un'influenza simile nemmeno
momentaneamente, senza cedere alle passioni della
moltitudine e adularla. Per la mancanza d'un uomo
simile, che non ostante la forma democratica dello
Stato seppe eliminare l'influenza del popolo e dei suoi
istinti, dirigendolo regalmente, falli secondo Tucidide
la guerra di Sicilia 88), a parte il fatto che Pericle non
l'avrebbe mai intrapresa, giacché era diametralmente
opposta alla sua politica bellica difensiva. Per se stessa,
infatti, la potenza d'Atene era ben sufficiente - in ciò

86) II 65, 8. In questo profilo di Pericle come capo torna la


stessa frase xcx..-e'txe: ..-ò 7tÀ 'ìj&o~, che Tucidide usa nel descrivere
Alcibiade come un capo nato. Cfr. n. 85.
87) II 65, 9.
88 ) II 65, 11.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POIJTICO 681

non era errato il giudizio d'Alcibiade - a spezzare


quella dei Siracusani, se l'odio di parte all'interno
dello Stato non avesse causata la caduta del capo ge-
niale. Pur dopo perduta la guerra di Sicilia, Atene
resistette infatti ancora dieci anni, sinché alla fine fu
tanto indebolita dalla continua discordia interiore, da
non poter più opporre resistenza 89). Sotto la guida di
Pericle - tale, alla lettera, la quintessenza di questo
esame dello storico - Atene avrebbe anzi vinta la
guerra agevolmente 90).
L'immagine di Pericle, che Tucidide pone qui in
così viva luce mediante il confronto con gli uomini
politici posteriori, è più che il ritratto di un uomo am-
mirato. Tutti coloro che sono presi a confronto sono
misurati alla stregua di un medesimo compito: la di-
rezione dello Stato nella lotta più severa per. la propria
esistenza; ma solo Pericle è all'altezza del compito.
Tucidide non vuole affatto dare un'immagine dell'ac-
cidentale individualità umana di lui, come fa la com-
media, almeno in caricatura. Il suo Pericle è l'immagine
esemplare del capo e del vero uomo di Stato, limitata
strettamente a quei lineamenti che sono propri del-
l'uo:qio politico. Se a noi ciò. appare manifesto special-
mente dalle ultime fasi della guerra, l'apprezzamento
complessivo che è dato di Pericle, nell'opera di Tuci-
dide, dopo l'ultima sua apparizione, mostra che anche
lo storico è giunto per questa via al suo concetto 91).
Il Pericle di Tucidide è veduto con quella distanza
con la quale va veduto ciò che è grande. È difficile
stabilire se il programma di politica bellica ch'egli gli
attribuisce fosse stato già così formulato da lui mede-
simo punto per punto, o se per esempio l'astenersi

go) II 65, 12.


00 ) II 65, 13.
•1) II 65. 6. Cfr. 65, 12.
682 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

da aumenti di territorio durante la guerra sia una


formula che Tucidide, avendo presente l' opp'osta po-
litica degli anni posteriori, ha cosi coniata conforme
l'effettivo atteggiamento di Pericle. Appare tuttavia
assai evidente che quel caratterizzare il senno politico
di Pericle quasi esclusivamente in base a ciò ch'egli,
a differenza dai successori, n o n fece, non poteva
darsi che secondo l'orizzonte retrospettivo che si of-
friva a Tucidide alla fine della guerra. Altrettanto di-
casi della lode, che altrimenti riuscirebbe singolare,
non aver egli preso danaro né fatto guadagno alcuno 92 ).
Tucidide fa ben.si formulare dal suo Pericle sin dal di-
scorso pronunciato allo scoppio della guerra l'assioma:
- Niente annessioni! Nessun rischio assunto senza
necessità ! 93) - , ma non suona qui appunto chiara la
voce de) Tucidide più recente, che guarda già retro-
spettivamente all'esito della guerra, quand'egli fa mo-
tivare da Pericle quegli assiomi con le parole: « Io
temo più i nostri errori, che i colpi dei nemici» ? Inoltre
la motivazione delle sue sicure direttive in politica
estera in base alla sicurezza della sua situazione in
politica interna è vista tenendo presente l'incertezza
della situazione d'Alcibiade. Il venir meno della sua
autorità nel momento decisivo, quand'e·gli pensava di
spianar la via .di grandi successi esteri a sé e ad Atene,
aveva fatto riconoscere a Tucidide, il quale già con-
siderà la politica interna principalmente secondo l'estera,
l'immensa importanza, in politica interna, d'un capo
nell'antico senso solonico, anche appunto per condurre
una guerra vittoriosa.

A quest'immagine di Pericle quale uomo di Stato


per eccellenza, cui ci siamo accostati movendo dal suo
92 ) II 65, 7.
98 ) T 144, 1.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLmco 683

ritratto conclusivo, spettano anche suoi discorsi, il


primo ) dei quali svolge il programma della politica
94

beJlica, laddove l'ultimo 95) mostra il capo che anche


nella situazione più difficile tiene in pugno il popolo.
Lo stretto nesso dei due discorsi col quadro finale
riassuntivo suggerisce l'ipotesi che tutto quanto il ri-
tratto di Pericle, anche i discorsi, siano creazione uni-
taria dell'ultimo periodo di Tucidide, come si ammette
generalmente per il terzo e maggiore discorso 96), la
commemorazione degli Ateniesi caduti nel primo anno
di guerra.
La commemorazione, più d'ogni altra orazione tu-
cididèa, è libera invenzione dello storico. La si è in-
terpretata quale elogio funebre di Tucidide per la
vecchia Atene gloriosa, a ragione in quanto la morte
ha appunto virtù di far apparire purificata l'idea di ciò
che fu. Nelle commemorazioni dei guerrieri caduti,
tradizionali in Atene, era uso presentare un'immagine
luminosa del loro valore. Tucidide, ponendo ciò in
seconda linea, disegna un quadro ideale di tutto lo
Stato ateniese. Non poteva farlo esporre da. alcun
altro che da Pericle, giacché questo solo uomo poli-
tico aveva posseduto quell'elevatezza che il genio di
tale Stato richiedeva dall'assertore del s110 spirito.
Nell'età di Tucidide la politica si avvia a diventare do-
minio degli arrivisti e degli opportunisti- che attrae la
caccia al potere e al successo. Ma per Tucidide la gran-
dezza di Pericle, che lo eleva al disopra di Cleone, ma
anche d'Alcibiade, sta appunto in ciò ch'egli incarnava
un ideale dello Stato e dell'uomo, la cui attuazione
assegnava un fine ai suoi sforzi. Nessuna imitazione
può gareggiare con la maestria con la quale Tucidide

94) I 140-144.
96) II 60-64.
98) II 35-46.
684 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

ha risolto l'arduo compito di liberarsi da tutte le ba-


nalità dell'eloquenza cerimoniale, plasmando ad unità
l'immagine reale del moderno Stato-polis nella spoglia
grandiosità della sua energia di imperio e ad un tempo
nell'ineffabile pienezza di spiritualità e di vita del
suo contenuto umano.
Per chi aveva coscienza della recente trasforma-
zione dello Stato, dovevano affacciarsi qui, nella strut-
tura della comunità, complicazioni ignote all'ideale
politico dei padri, creato in tempi più semplici e tenuto
in onore sino allora: l'eunomia di Solòne e l'isonoinia
di Clistene. Non si era ancora avuto un linguaggio
atto a cogliere concettualmente tale struttura. Ma
l'occhio di Tucidide, avvezzo a considerare il dina-
mismo delle relazioni da Stato a Stato quale lotta d' op·
posizioni dovute a una necessità naturale, le scopre
con la medesima nettezza, anche nell'intima struttura
della vita ateniese, quale recondito principio in essa
operante. Basta, per saggio, la sua concezione dell'es-
senza della politeia ateniese, che è per lui cosa origi-
nale, non copiata da alcun modello, anzi degna d'essere
imitata da altri. La teoria filosofica posteriore, della
costituzione mista 97 ) quale ottima forma dello Stato,
è qui anticipata da Tucidide. La « democrazi,a » ate-
niese non è per lui la realizzazione di quell'esteriore
eguaglianza meccanica che gli uni esaltano quale apice
della giustizia, gli altri condannano quale suo opposto.
Lo ha già mostrato la definizione della situazione di
Pericle, n:pÙ>'t"oç &.v-fip praticamente sovrano 98). La sen-
tenza emessa in quell'occasione, essere stata Atene sotto
il suo reggimento « una democrazia solo di nome »,

97 ) Spero di dare di ciò la dimostrazione in uno studio parti-


colare sull'idea della costituzione mista e la sua storia nel
mondo antico.
98 ) II 65, 9.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLIDCO 685

assume nell'orazione commemorativa, sulle labbra del


1tpÙ> -.oç otVl)p medesimo, questa forma generale: in
Atene tutti sono eguali dinanzi alla . legge, ma nella
vita politica impera l'aristocrazia del merito 99). Ciò
implica in massima, nel caso dell'eccellenza di un sin-
golo, il riconoscimento di esso quale Primo 100). Tale
concezione riconosce, da un lato, un vantaggio per la
comunità nella politizzazione dell'individuo, ma ad un
tempo . rende giustizia al fatto, ammesso in Tucidide
anche da parte di un demagogo così estremo come Cleo-
ne, che il popolo in quanto tale non può esercitare la
sovranità su uno Stato cosi vasto e difficile a gover-
narsi 101). Il problema del rapporto tra la singola perso-
nalità eminente e la comunità politica, che si fa acuto
appunto nello Stato della « libertà ed eguaglianza»,
cioè della moltitudine 102), è felicemente risolto, per
Tucidide, nell'Atene di Pericle.
La storia insegna che tale soluzione dipende dal-

89) II 37, 1.
100) Il regime stesso di Pericle e la democrazia ateniese sotto
di lui è detta da Tucidide ù11:ò "ou 11:p&>"ou &:vlìpòç &:p)(lJ• Il 65, 9.
Nel Menesseno di Platone, Aspasia, la moglie di Pericle, pronun-
cia nel suo salotto letterario, un esempio di discorso funebre,
che vuole evidentemente essere un arguto parallelo alla famosa
orazione funebre di Pericle nella storia di Tucidide. Quivi (238c)
Aspasia chiama la politeia ateniese sotto Pericle una aristocrazia
e cerca di provare che questa è e sempre fu « il governo del mi-
gliore col consenso del popolo» (11-n' e:ulìo!;l~ç rrHt&ouç &:pia·rn·
xpoc"l~). Ma v. n. 102.
101 ) III 37.
102) Per il lettore non specialista è forse bene ricordare che
la democrazia di Atene era «governo del popolo» in senso lette-
rale: <(democrazia diretta»; non era solamente «governo rappre·
sentativo » come nel caso delle democrazie moderne, in cui la più
importante funzione del popolo è solamente di eleggere delegati
al corpo legislativo. Era piuttosto la massa stessa del popolo,
il corpo legislativo, e anche giudiziario. Questo era possibile solo
nell'antica città-stato. La democrazia moderna ha fatto un gran
passo .avanti rispetto ai suoi antichi predecessori abolendo la schia-
vitù; ma è solo indirettamente democratica perché il popolo oggi
esercita i suoi diritti legislativi e giudiziari solo attravers!J rap·
presentanti eletti.
686 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

l'esistenza del capo geniale, che nella democrazia ri-


mane altrettanto rara cosa quanto nelle altre forme
politiche, e che anche la democrazia non offre garanzie
contro i pericoli della mancanza d'un capo. D'altra
parte il regime politico d'Atene offriva ad un capo
quale Pericle ogni sorta di possibilità di liberare l'ini·
ziativa del cittadino singolo, menzionata da lui con
tanta lode 103), e di farla intervenire quale forza mo-
trice politica. La tirannide del secolo seguente falll
per non essere riuscita a trovare, per assolvere questo
compito, mezzi nuovi, diversi da quelli che la costitu-
zione democratica aveva forniti a suo tempo a Pericle.
La tirannide di Dionigi di Siracusa non riuscì ad in-
serire realmente i cittadini nello Stato, sicché ciascuno,
come vuole Pericle, avesse a dividere la propria vita
tra la sfera della sua professione privata e quella dei
suoi doveri politici, ciò che non era possibile senza un
certo grado d'interesse attivo e d'intendimento perso-
nale di fronte alla vita dello Stato.
La Politeia in senso greco non abbraccia soltanto
ciò che è designato dal nostro concetto moderno di Co-
stituzione, ma tutta la vita della polis, in quanto de-
terminata da quella; e sebbene ciò in Atene non abbia
luogo alla maniera della disciplina spartana, che re-
gola da mane a sera l'esistenza dei cittadini, pure l'in-
fluenza dello Stato, quale spirito della comunità, pe-
netra ben addentro in tutta la vita umana. Se, in greco
moderno, politeuma equivale a cultura, ciò è un'ultima
eco di quel tale carattere unitario della vita classica.
Perciò l'immagine periclèa della politeia ateniese ab-
braccia tutto quanto il contenuto della vita privata
e pubblica quale economia, costume, civiltà, cultura.
Soltanto ip.tesa in questa piena concretezza, l'idea dello

1os) II 40, 2.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLITICO 687

Stato-potenza, propria di Tucidide, acquista colore e


forma. Essa ha sua radice nell'immagine della politeia
quale era concepita da Pericle. Senza ta1e contenuto
vivo, sarebbe incompleta. La potenza, di cui parla lo
storico, non è mai la mera pleonessia, materiale e mec-
canica. U carattere sintetico dello spirito classico, im-
presso in tutte le sue espressioni letterarie, artistiche,
filosofiche e morali, con la creazione dello Stato di Pe-
ricle getta consapevolmente il ponte costruttivo tra
la rigorosa struttura della comunità propria dell'accam-
pamento spartano e il principio ionico della libera atti-
vità econoinica e intellettuale del singolo. Tucidide
non concepisce più la nuova struttura dello Stato quale
costruzione statica che riposi sopra se stessa, quale edi-
ficio giuridico dell'antica eunoinia. Così quale Costitu-
zione e struttura politica, come quale fondamento
econoinico e spirituale, lo Stato è una sorta d'armonia
eraclitèa d'opposizioni fondamentali e necessarie, e si
regge sulla loro tensione e sul loro equilibrio. Le oppo-
sizioni elasticamente oscillanti tra produzione diretta
e compartecipazione ai prodotti del mondo intero, tra
lavo:ro e ricreazione, affari e festa, spirito ed ethos,
riflessione e attività, appaiono in un concerto ideal-
mente equilibrato nel quadro periclèo dello Stato 104).

10 ') Se io ho ragione nell'affermare che l'idea che si fa Tucidide


del carattere originale della politeia ateniese (Il 37, 1) si basa
sull'idea della costituzione mista (v. p. 684), è vero anche che lo
stesso principio « sintetico» di struttura, è alla base non solo
della vita culturale, ma anche della vita politica dell'Atene di
Pericle. Sul principio che si manifesta nella cultura ateniese, v. le
famose parole di Pericle (II 40, 1) qnÀoxcxÀouµe:v µe:-r' e:Ò-re:Àdcxç
xcxl cptÀocrocpoi:iµe:v &ve:u µcxÀcxxlcxi;, che riassume il perfetto equi·
librio di ideali opposti. Che Tucidide pensi a un simile equilibrio
di opposti come alla più desiderabile forma di vita politica è af.
fermato chiaramente in VIII 97, 2, passo molto importante,
sebbene sia trascurato da molti studiosi come l'intero libro ot-
tavo, di cui fa parte.
688 LIBRO II - APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

Esso non deve tuttavia rivestire tale carattere di


norma per i soli Ateniesi, cui il grande capo lo fa pre-
sente con somma eloquenza, per animarli nel momento
fatale con la piena consapevolezza del sommo valore
per il quale combattono e far di loro ardenti « amatori»
della propria città. Tucidide colloca lo Stato, come
internazionalmente, così pure spiritualmente in un am-
biente storico. Lo vede. in feconda tensione spirituale
non solo in se stesso, ma anche col mondo circostante.
« Riassumendo, chiamo la nostra città l'alta scuola
della cultura greca», njç 'EMoc~oç 1t1Xlaeucnv 105). Con
questa idea dell'egemonia spirituale d'Atene, degna del
grande storico, si presenta per la prima volta al suo
sguardo dinamico il fatto e il problema dell'influenza
storica della cultura attica. L'idea greca di cultura,
cui l'età appunto di Pericle aveva dato nuova ahezzil
ed ampiezza, si riempie della più alta vita e del più
alto contenuto storico. Si fa quintessenza della forza
più sublime che popolo e Stato, nella loro esistenza
spiritualmente formata, irradiano esemplare all'esterno
e la cui potenza attrae anche altri nella loro orbita.
Non v'era più alta giustificazione a. posteriori dell'im-
perialismo politico d'Atene in Grecia, tanto più dopo
il suo fallimento esteriore, di quest'idea della paideia,
nella quale lo spirito attico attinge l'alta consolante
consapevolezza della propria perennità.

106) Thuc. II 41, l.


IJBRO TERZO
ALLA RICERCA DEL DIVINO
CAPITOLO PRIMO

IL QUARTO SECOLO

Con la caduta di Atene, nel 404 a. C., la guerra


delle città greche, durata quasi trent'anni, ebbe ter-
mine e con essa anche si chiuse, nella più tragica fine
che la storia conosca, il secolo della più splendida
fioritura greca. L'impero Ateniese nella struttura da-
tagli da Pericle era stato la più imponente formazione
statale che sia stata mai fondata su terra greca, ed
era parso, per un certo tempo, destinato a costruire
una duratura dimora terrena alla civiltà ellenica. An-
cora nell'immediato dopoguerra, quando Tucidide scrisse
l'elogio di Atene contenuto nel suo « Epitafio di Pe-
ricle», le sue pagine sono illuminate dal ricordo di
un sogno, breve ma degno del genio attico: il sogno
che mirava ad attuare, nella sapiente costruzione di
quello stato, un equilibrio perfetto di spirito e di po-
tenza. Quando lo storico scriveva quelle pagine egli
era già arrivato a riconoscere - conclusione storica
paradossale riserbata alla sua generazione - che anche
il più potente congegno di forza terrena è perituro e
che solo il fiore dello spirito, così vulnerabile in appa-
renza, dura e non appassisce. La vita della città vinta
sembra da ora, all'improvviso, ritornata, nella sua evo-
luzione, indietro di un secolo; respinta al tempo delle
arcaiche città-stato isolate, prima della vittoria sui
692 [rr4] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Persiani. Proprio quella vittoria, insieme col compito


storico· di combattente in prima linea, àveva conferito
ad Atene il diritto di aspirare all'egemonia sulla Grecia;
ed ora Atene era caduta, un istante prima di cogliere
la meta.
Il mondo greco fu scosso a fondo dal repentino
precipizio di Atene. Il vuoto che essa lasciava, tra gli
stati greci, non era tale da potersi colmare. Ma la
connessione spirituale con essa doveva durare e durò
finché il senso e la realtà dello stato durarono in qualche
modo per i Greci. Inseparabile fin dalle origini la cul-
tura greca dalla. vita della polis, in nessun luogo aveva
intrecciato con questa più stretti legami che in Atene:
sicché l'effetto della catastrofe non poteva limitarsi
alla sua portata politica,_ ma doveva implicare il nu-
cleo morale e religioso dell'esistenza umana. E se una
possibilità di risanamento esisteva, solo da questo nu-
cleo essa poteva .derivarsi. Questa la conclusione che
s'impose cosi nella speculazione filosofica come nella
vita pratica di ogni giorno, in tal modo che il IV se-
colo fu necessariamente un periodo di tent~tivi di ri-
costruzione, spirituale e materiale. Certo~ il colpo era
penetrato c·osi a fondo che, a guardar le cose dall'alto
e da lontano, .sembra senz'altro dubbioso che l'innata
:fiducia dei Greci nel mondo, la loro ottimistica volontà
di attuare nella realtà dell'oggi« lottimo stato»,« l' ot-
tima vita», potesse mai riaversi da una tale prova e
ritrovar mai la propria. naturale spontaneità e schiet-
tezza. E, in real~ quel ripiegamento su se stesso che
lo spirito greco attua nei secoli seguenti, comincia pro-
prio in questo tempo della prova. Ma in ogni modo
nella coscienza dei contemporanei, anche di un Pla-
tone, il compito essenziale rimane un compito reale,
pratico - anche se non si pe~sa di poterlo attuare
immediatamente - , e cosi proprio lo concepiscono -
CAP. I: IL QUARTO SECOLO [IIS] 693

anche se in senso un po' diverso - i pratici uomini


di stato.
Esteriormente lo stato ateniese si rialzò dalla sua
.rovina con rapidità stupefacente e seppe mirabilmente
procurarsi mezzi di rinascita di ogni natura, spirituale
e materiale. Il quel tempo di sciagura apparve chiaro
come non mai che la vera forza di Atene, anche quella
politica, riposava nella sua civiltà spirituale. Questa
la illuminò .nel suo sforzo di risalire la china, questa
le riconquistò le anime degli uomini che si etano sviate
da lei e fondò e fece riconoscere il suo diritto a soprav-
vivere in un tempo in cui ancora le mancava la forza
di imporsi da sé. Perciò il processo spirituale che si
svolge nell'Atene dei primi decenni del nuovo secolo
viene naturalmente a porsi in primo piano, nella nostra
considerazione, anche dal punto di vista politico. Aveva
visto bene Tucidide quando, nel suo sguardo d'insieme
ai· tempi della più alta potenza ateniese sotto Pericle,
aveva ravvisato nello spirito il centro e il nucleo di
quella. Atene rimaneva ancora - o forse proprio ora
lo diventava - il centro di cultura, la paideusis deJ-
l'Ellade. Tuttavia tutti i suoi sforzi si concentravano
nel compito che la storia aveva posto alla nuova ge-
nerazione: la ricostruzione dello stato e della vita in
ogni forma, su un fondamento solido e resistente.

Già fra le mutate condizioni dì vita del tempo di


guerra, e anche prima del suo dichiarato inizio si era
iniziato questo processo per cui tutte le superiori ener-
gie spirituali si indirizzavano consapevolmente allo
stato. Non solo i Sofisti con nuove teorie pedagogiche
e metodi nuovi, si erano diretti in questo senso, Dia
anche la poesia, l'eloquenza, la storiografia, erano state
sempre più fortemente attirate nella corrente generale.
L'esito del grande conflitto trovò una gioventù prepa-
694 [n6] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

rata dalle terribili esperienze dell'ultimo decennio di


guerra a porsi con tutte le sue forze al servizio delle
necessità del momento. Ma poiché lo stato, nella sua
realtà diminuita, la chiamava sempre meno a com-
piti veramente alti e degni, questa gioventù doveva
necessariamente cercare sempre più uno shocco alla
sua attività dal lato della vita spirituale. Si è già ri-
levato e seguìto il continuo accentuarsi dell'elemento
educativo nell'intero svolgimento artistico e spirituale
del V sec., :fino all'opera di ~ucidide che tentò di trarre,
dal complesso dei fatti politici di tutto l'ultimo secolo,
conclusione e ammaestramento. Ora questa corrente
d'idee si riversa in questo tempo di ricostruzione,
sicché l'impulso verso i valori educativi si trova im-
mensamente rafforzato e fatto urgente dal problema
del presente e riceve dalla ·sofferenza di tutti una pro-
fondità impensata. In tal modo il concetto di ·paideia
diventa la più propria espressione delle mete spm-
tuali proposte alla nuova generazione. Il quarto se-
colo è l'età classica della paideia se noi intendiamo
con ciò la formazione di un ideale consapevole di edu-
cazione e di cultura. Non senza ragione una tale for-
mazione viene a compiersi in un secolo éosi ricco di
problemi. Questa vigile sensibilità ai problemi è pro-
prio quello che più distingue lo spirito greco dagli
altri popoli; e appunto la piena consapevolezza con
la quale i Greci vissero il crollo del luminoso mondo
del V sec. in tutti i suoi valori intellettuali e morali,
li rese atti a concepire l'essenza della propria disci-
plina educativa, della propria civiltà con una intima
chiarezza tale che i posteri dovevano, in ciò, rimanere
per sempre i loro discepoli.
Perciò, m~ntre da un lato il IV secolo appare come
il compimento delle premesse o poste o già in via· di
attuarsi nel V o nei se~oli precedenti, dall'altro lato
CAP. I: IL QUARTO SECOLO [II 7j 695

esso rappresenta uno sconvolgimento profondo e una


svolta decisiva. L'essenziale per il secolo precedente,
il segno sotto cui era vissuto, era stata l'attuazione
della democrazia; e, se è vero che molto si è potuto
obbiettare contro l'attuabilità politica di questo ideale,
non mai compiutamente realizzato, di una aristocra-
zia che arrivi ad accogliere tutti i cittadini liberi,
resta che il mondo deve ad esso la scoperta della per~
sonalità umana responsabile di fronte a se stessa.
La nuova Atene del I"Y secolo, anch'essa, non
aveva altro fondamento su cui costituirsi, all'infuori
ru quello, divenuto ormai classico, dell'Isonomia, sep-
pure era venuta meno ormai la magnanimità dell'età
eschilea . alla quale non era parsa troppo audace una
tale rivendicazione di nobiltà da parte della comunità
intera. Lo stato ateniese, come tale, non prende atto,
apparentemente, del fatto che il suo ideale era rimasto
soccombente nella lotta, nonostante una grande sli-
periorità di mezzi e di forze. La genuina impressione
che la vittoria spartana produsse sugli animi non si
riflette sul terreno delle istituzioni politiche, ma piut-
tosto in quello della filosofia è della. paidefa. Intellet-
tualmente il vivo contatto con Sparta dura per tutto
il IV secolo fino a che la città~stato democratica non
perde la sua sovranità. E in tale contatto, il problema
non è tanto quello di arrendersi dinanzi alla forza
dei fatti, alla vittoria spartana e di mutare esterior-
mente le libere istituzioni dello stato ateniese. Questa
fu, certo, la prima reazione alla sconfitta, ma fu rea-
_zione passeggera bruscamente annullata dal crollo del
governo dei « Trenta », un anno dopo la fine della
guerra. Eppure, con la cosiddetta restaurazione della
democrazia e con la generale « amnistia» che l' accom-
pagnò, il problema, come tale, non fu né dimenticato
né risolto, iii.a fu solo trasferito su un altro terreno.
696 [n8] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Dalla sfera dell'azione politica immediata esso passò


a quella dello sforzo spirituale per la rigenerazione
interiore. Ché Sparta - cosi parve allora - non con·
sisteva tanto in una particolare forma di reggimento
politico, quanto piuttosto in una concezione educativa
attuata con estrema consequenzialità. La sua forza
era nella sua !;!evera disciplina. D'altro canto era chiaro
che anche la democrazia presupponeva un alto livello
di formazione spirituale, nella sua ottimistica valuta·
zione della capacità dell'uomo a reggersi da sé. Da tutto
ciò, facile conseguenza, il pensiero di far dell'educa·
zione il punto d'appoggio, come nel detto di Archi·
mede, con cui muovere il mondo, il mondo politico.
Non era certo, questa, una specie di ricetta da appli·
carsi a tutta la massa del popolo, ma tanto più intima
e profonda era, perciò, la presa che questo pensiero
esercitava sulla fantasia degli individui chiamati, per
più alta capacità intellettuale, alla funzione di ·guide
spirituali. Questo pensiero si trova attuato in tutti i
suoi gradi e sfumature nella letteratura del IV secolo,
. dall'ingenua e non critica ammirazione del principio
spartano dell'educazione collettiva fino a~a negazione
assol.uta di tale principio, e alla sostituzione di esso
con un ideale più alto della formazione dell'uomo e
dei rapporti tra individuo e comunità. Altri, ancora,
non cerca il suo modello né in un pensiero politico
straniero e alieno, proprio dell'avversario vitto·
rioso, né in un ideale filosofico frutto di sola elabora·
zione mentale, ma si volge invece al passato del suo
paese, di Atene, «5 tenta, nel pensiero e nell'azione,
di risalire la corrente della storia, fino a quel passato,
anche se, spesso, sotto la forma del modello storico,
non altro si cela che una tendenza politica attuale.
Una gran parte di queste idee di restaurazione è sogno
romantico, ma non è da negare che a questo romanti·
CAP. I: IL QUARTO SECOLO [II9] 697

cismo va congiunto un accento realistico, cioè la cri-


tica del presente e delle sue idee, per lo più assai pene-
trante, dalla quale tutti questi sogni prendono l'avvio.
E questi sogni si atteggiano tutti nella forma dell'at-
tiVità educativa, della paideia.
In questo secolo, dunque, si vuol fondare su basi
nuove lo stato partendo dall'uomo morale; ma non è
questa la sola ragione per cui la relazione tra uomo e
stato è affrontata con tale consapevolezza. Anche il
procedimento inverso si attua, e non è meno pene-
trante lo sguardo che si affonda nell'esistenza indiVi-
duale umana, in quanto essa riceve le sue condizioni
dalla Vita sociale e politica: il che era naturale in un
popolo in cui la Vita politica era stata quella della
città-stato. L'educazione, con la quale si pensava di
migliorare e rafforzare lo stato, era problema che .si
prestava meglio di ogni altro a . chiarire la relatiVità
scambievole di indiViduo e comunità. Guardato da
questo punto di vista tutto l'antico sistema educativo
ateniese, col suo carattere indiViduale e privato, appa-
riva ·fondamentalmente sbagliato e inefficace e do-
veva cedere il passo all'ideale dell'educazione a cura
dello stato. Non che lo stato, di propria iniziativa,
fosse capace di venire incontro in qualche modo a
questa esigenza. Fu la filosofia soltanto che, acco-
gliendo questo pensiero, finì col farlo universalmente
accettare ed anche il tramonto dell'indipendenza po·
litica della città-stato non valse che a porne il signi-
ficato in luce più chiara. Accadde allora quello che la
storia ci· mostra così di :frequente, che l'idea buona e
salvatrice giunge troppo tardi. Soltanto dopo la cata-
strofe, dopo Cheronea, noi vediamo farsi strada il
concetto che lo stato ateniese debba compenetrarsi
dell'ideale di una paideia, di una cultura sua, corri-
spondente al suo spirito. È documento di questo ten-
698 [1110] LIBRO lii - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tativo di riforma interiore l'unico discorso conservato


dell'oratore· e legislatore Licurgo, lorazione contro Leo-
crate. In essa egli tenta di trasferire la virtù di educa-
tore del popolo di un Demostene dallo stadio della
improvvisazione a quello della precisa formulazione
legale. Ma, per quanto valga questo tentativo estremo,
resta il fatto' che i grandi sistemi di paideia, creati du-
rante il IV secolo, pur nati sotto la protezione di ·quella
libertà di pensiero che la democrazia ateniese garan-
tiva, non crebbero però sul suo terreno spirituale.
La dura sorte della guerra perduta e i problemi ine-
renti alla forma democratica in se stessa, dettero certo
al pensiero il primo impulso, ma una volta messo in .·
moto, esso non si lasciò confinare nelle forme politiche
tradizionali e non accettò come limite quello di trovare
per esse una legittimazione teorica, ma batté nuove vie
e si mosse libero alla sua meta. Come in religione e
in etica cosi anche nel pensiero politico ·e in quello
educativo, il genio greco, nel suo libero sviluppo, ·si
sciolse dai vincoli dell'esperienza immediata e si creò
un suo libero mondo interiore. Partito, nel suo cammino
verso la nuova paideia, dal riconoscere necessaria ùna
nuova più alta idea dello stato e della convivenza
umana, si trovò, alla :6.ne, a ricercare un nuovo Dio.
Cosi la paideia del IV sec. fonda la sua dimora nel re·
gno eterno, quando le crolla dinanzi agli occhi il regno
di questa terra.

Anche il quadro della letteratura, nei suoi linea-


menti più esterni, mostra b.en chiara una fine, e ·un
nuovo principio. t vero che le grandi .forme poetiche,
tragedia e commedia, che avevano improntato. ~ sé
il V secolo, seguitano a essere coltivate nelle linee tra"
dizionali, impersonate da un numero grandissimo di
notevòli poeti. Ma, scomparso dalla tragedia il suo
CAP. I: IL QUARTO SECOLO [Il 11] 699

respiro possente, la poesia non è più la guida della


vita spirituale. Ora si ricerca sempre di più e si finisce
con l'or~are per legge la. regolare ripresa dei drammi
degli antichi maestri del secolo precedente. Essi in
parte divengono un classico patrimonio di cultura, usati
come sono, al pari di Omero e degli antichi poeti,
nell'insegnamento scolastico, citati a far testo in di-
scorsi e dissertazioni; in parte se ne impadronisce
l'arte dei moderni attori drammatici, sempre più do-
minatrice esclusiva della scena, e li fa oggetto di espe-
rimenti, in cui non si bada più ai loro valori di conte-
nuto o di forma, ma solo all'effetto scenico. La com-
media è infiacchita ormai, scomparso o oscurato quel-
!' elemento politico che ne era stato il centro. È troppo
facile, certo, per noi, dimenticare che la produzione
poetica, specialmente di commedie è ancora, in que-
sta età, gigantesca, perché tutte queste migliaia di
opere non ci sono state conservate. La tradizione ci
ha conservato solo i grandi prosatori, Platone, Seno-
fonte, Isocrate, Demostene, Aristotele e accanto a loro
anche non pochi minori. Ma in complesso questa sele-
zione ha pure le sue ragioni, giacché la produzione
veramente creativa di questo secolo è in realtà la
prosa, e il suo predominio spirituale sulla poesia è così
decisivo che si compremle come essa finisca col fate
scomparire la rivale dalla ricordanza dei posteri. Certo,
la commedia nuova di Menandro e dei suoi coetanei
della seconda metà del secolo ebbe veramente im-
portanza grande fra i contemporanei e sulle gene-
razioni successive. Essa fu l'ultima manifestazione
della poesia greca rivolta a un gran pubblico; non
più alla Polis, come la commedia antica e la tra-
gedia del gran secolo, ma almeno alla « buona so-
cietà», di cui rispecchiò idee e costumi. Non qui,
però, non· nelle parlate e nei dialoghi, tutti pervasi
700 [II 12] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

di umanità, di quest'arte decorosa e raffinata, si di-


batte il vero e proprio conflitto spirituale del se-
colo, sihhene in rappresentazioni di verità più pro-
fonda, in quei dialoghi della nuova prosa d'arte filo-
sofica, in cui Platone e i suoi compagni svelano al
mondo l'intimo significato della ricerca socratica sul
fine della vita. Accanio si pongono Demostene e Iso-
crate con le loro orazioni che ci chiamano a parteci-
pare alla dura vita di passioni e di problemi della
polis greca nell'ultima fase della sua vita. E, infineJ
con gli scritti dottrinali ·di Aristotele, la scienza e la
:filosofia greca sembrano aprire alla posterità il se-
greto dei loro laboratori di ricerca.

Queste nuove forme della prosa letteraria non rap-


presentano soltanto le personalità dei loro autori. Esse
sono espressioni di grandi e feconde scuole filosofiche
e retoriche e di forti movimenti politici e morali, in
cui si accentrano le energie degli uomini più consape-
voli. In questo anche si distingue la vita spirituale
del IV secolo dal precedente. Essa è organizzata, pro-
grammatica e si :fissa scopi precisi. E la letteratura
rappresenta ed incarna tutti i contrasti · di scuola e
di tendenza del tempo. Scuole e tendenze sono ancora
nel periodo del primo fiorire, fresco e appassionato,
e il loro valore presso la generalità del pubblico è an-
cora accreseiuto dal fatto che i loro problemi nascono
dalla vita contemporanea. Il tema. comune di questa
intensa lotta di tendenze è la paideia, e in esso le di-
verse manifestazioni spirituali del tempo, filosofia, re-
torica e scienza, trovano una superiore unità. Ma anche
i cultori di attività pratiche come la politica, l'econo-
mia, il dirj.tto, l'arte della guerra, l'agricoltura, gli
scrittori di viaggi e di avventure, i dotti di scienze
speciali, matematica e medicina e gli artisti e musi-
CAP. I: IL QUAIITO SECOLO [II13) 701

cl$ti, !li aggiungono alla schiera e si ·accingono a por-


tare il loro contributo al problema che tutti interessa.
Tutti pretendono di avere, in qualche parte, titolo a
formare caratteri e intelligenze e cercano di giustifi-
care tale pretesa in maniera esauriente. Si attua cosi
un'intima organica unità tra le manifestazioni sphi·
tuali del tempo che non può essere colta da una storia
letteraria, del tipo praticato fin quasi ai notitri giorni,
partente dalla considerazione della pura forma, del-
1'eidos o modello stilistico. D'altra parte, proprio nella
lotta, aspra quanto entusiastica, per la determinazione
di quel che sia veramente paideia, trova la sua espres-
sione caratteristica la vita reale di quest'epoca e la
letteratura partecipa della realtà, solo quando ed in
quanto partecipa a questa lotta. La vittoria della prosa
sulla poesia fu ottenuta per la congiunzione delle po-
tenti forze educative, che avevano operato in misura
sempre crescente già nella più antica poesia greca, col
peni;iero razionale proprio di questa età, che ora fa
sempre più suoi gli interrogativi essenziali della vita
umana. Siamo giunti al punto in cui il contenuto
filosofico e normativo che era stato della poesia
si spoglia della sua forma poetica, e si crea, nel
parlare . sciolto della prosa; una nuova forma più
confacente ai suoi fini, che scende in gara con la
poesia e, anzi, sembra riuscire a una nuova più alta
maniera di poesia.

Che~ come in questo tempo avviene, la vita in-


tellettuale venga sempre più concentrandosi in scuole
chiuse o in ristrette cerchie, è cosa che, certo, con·
ferisce a queste scuole e gruppi una sempre mag-
giore capacità formativa e una maggiore intensità
di. vita. Ma, al. plU'Sgone col tempo più antico, quando
la più alta norma del costume s'incarnava in in,teri
702 [II 14] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

strati sociali, come l'antica nobiltà dominante, oppure


si comunicava a tutto il popolo, nella immagine viva
della grande poesia, in parole musica danza e mimica,
si vede profilarsi un pericoloso isolamento dello spi-
rito ed un fatale oscuramento della sua funzione forma-
trice rispetto alla società intera. È un fatto questo
che sempre si produce quando la poesia cessa di essere
la forma essenziale della creazione spirituale e l'inter-
prete pubblica di alte norme sui problemi della vita
per far posto a forme più attinenti al pensiero razio-
nale. Il fatto è facile a constatare dopo l'evento: Dia
sembra che il processo per cui esso si produce sia re-
golato da leggi precise e non consenta di essere arbi-
trariamente percorso ·in senso inverso, una volta com-
piutosi. Di conseguenza, la capacità di formare il po-
polo nella sua totalità, che era stata in grado cosi
eminente propria dell'antica cultura dei poeti, non
crebbe affatto di pari passo con la crescente consape-
volezza del problema educativo e delle attività edu-
cative. Al contrario, noi sentiamo che, col declinare
di · quelle forze che erano state alle origini fortemente
unificatrici, come la religione, il costume, la « musica»
- che presso i Greci incluse sempre in sé la poesia -
la gran massa sfugge sempre più alla presa dei valori
spirituali, e, incapace ormai di attingere impulso crea-
tore delle fonti più pure, si contenta di prodotti secon-
dari e di surrogati a buon mercato. Senza dubbio,
ancora si seguitano a bandire le stesse norme, gli stessi
ideali che avevano un tempo saputo raggiungere il
popolo in tutti gli strati e classi; cresce anzi e si esalta,
in questi bandi e proclami, leffetto retorico; ma, la
reale e:fficac~a si fa sempre più superficiale e passeg-
gera. Si ascoltano ancora volentieri le vecchie parole
e si gode della momentanea ebbrezza che esse produ-
cono; ma esse non valgono a penetrare a fondo se non
CAP. I: IL QUARTO SECOLO [Il 15] 703

in pochi, e la loro virtù vien meno nei momenti deci·


sivi. È troppo facile dire che la classe colta avrebbe
dovuto prendere essa l'iniziativa e colmare l'ab_isso
che la divideva dal popolo. Il più grande degli uomini
di questa età, colui che più di alcun altro si era posto
con chiarezza il problema della ricostruzione della co-
~unità e dello stato, Platone, intervenne esplicita-
mente da vecchio in questa questione e spiegò perché
egli non aveva potuto portare un « messaggio per tutti >>.
E, su questo punto, non c'è differenza tra Platone e
il suo grande avversario Isocrate, non ostante l'oppo-
sizione tra la formazione filosofica che il primo rappre-
senta e l'idea educativa puramente politica del secondo.
In nessun tempo, si può dire, si è data una più seria
e consapevole volontà di dedicare il meglio delle energie
spirituali alla creazione di una nuova società unitaria.
Eppure una tale volontà si dirige primamente al pro-
blema di come si possano formare reggitori e guide
del popolo, e solo in secondo luogo ai mezzi che deb-
bono esser messi in opera da questi capi per formare
il popolo nella sua totalità.
Si è prodotto come uno spostamento nel punto di
attacco, e questo fatto, che in fondo si era già còmin-
ciato ad a~erare coi Sofisti, · distingue il nuovo se-
colo dal precedente, e segna anche· il principio di una
nuova epoca storica. Le accademie e le scuole superiori
nacquero da questa posizione di problemi e di scopi,
è se esse furono, relati~amente, cerchie chiuse, tale
caratteristica si può spiegare solo da questo punto
di vista, e appare, cosi, inevitabile. Rimane, natural-
mente, difficile dire quale efficacia esse avrebbero po-
tuto esercitare in questo senso di educazione politica
e sociale, se la storia avesse concesso più tempo ai
loro tentativi. Ma la storia assegnava loro un compito
del tutto diverso da ·quello che alle origini si era con-
704 [II 16) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

cepito éome loro proprio; ché, dopo il definitivo crollo


della polis, esse divennero le creatrici della filosofia
e della scienza dell'occidente. Ed è questo il signifi·
cato essenziale del IV secolo per la storia del mondo.
Filosofia, scienza e, in continua contesa con esse, la
potenza formale della ~etorica, sono i canali attraverso
i quali è stata. trasmessa a tutti gli altri popoli, ai
contemporanei e ai posteri, l'eredità spirituale della
Grecia, e ad esse più che a ogni altra forma di atti-
vità spirituale, noi dobbiamo di avercela conservata.
Esse ci hanno trasmesso questa eredità nella forma
e con la motivazione che la contesa per la paideia del
IV secolo le aveva conferito, cioè come la somma della
cultura e della civiltà intellettuale greca, e sotto questo
segno la Grecia ha compiuto la conquista spirituale
del mondo. Se anche, da un punto di vista strettamente
nazionale greco, può sembrare che il titolo di questa
gloria sia stato pagato troppo caro da quel popolo,
noi dobbiamo, però, ricordarci che lo stato greco non
peri per la sua cultura; ché, anzi, filosofia scienza e
.retorica furono la forma nella quale soltanto ·poteva
sopravvivere quello che era immortale nella creazione
dei Greci. Cosi, mentre su tutto il IV secolo si distende
la tragica ombra della fine, vi _traluce anche un rag·
gio di una sapienza provvidenziale, al cui cospetto,
il viaggio terreno di un popolo, anche del popolo più
benedetto, è solo una giomata dell'opera intera, del
suo creare nella storia.
CAPITOLO SECONDO

SOCRATE

O iiv~i;(XaTOç ~[oç
oò ~16)-i;èç à:v&p©mi>

La figura di Socrate è di quelle, imperiture, che,


nella storia, sono state assunte a simbolo. Dell'uomo
reale, del cittadino ateniese nato intorno al 469 a. C.
e condannato e ucciso nel 399, pochi tratti soltanto
accolse e conservò l'umanità nell'elevarlo, nella me-
moria, all'altezza di uno dei suoi «rappresentanti»
eterni. Si formò di lui un'immagine in cui ebbe rilievo,
più che la vita e la dottrina - in quanto di una dot-
trina di Socrate si possa parlare - la sua . morte,
patita per quella fede di cui egli era vissuto. In era
cristiana, ma molto tardi, si 'giunse a considerarlo
degno della corona di un martire precristiano, e il
grande umanista del secolo della Riforma, Erasmo da
Rotterdam, osò accoglierlo tra i s:aoi santi invocan-
dolo: Sancta Socrates, ora pro nobis. Pure, in questa
invocazione che sa ancora, formalmente, di chiesa e
di medioevo, si an11.unzia già lo spirito dell'età nuova
iniziatasi col Rinascimento. Mentre nel medioevo
Socrate era stato poco più di un nome di quelli tra-
mandati da Aristotele e Cicerone, ora s'invertiva bru-
scamente il rapporto dei valori e il nome di Socrate
saliva mentre cadeva di altrettanto quello di Aristo-
706 [II 18] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tele, il principe della Scolastica. Socrate divenne la


guida di ogni moderna filosofia apportatrice di luce,
l'apostolo della libertà morale che, non legata ormai
da alcun dogma o tradizione, consisteva in se· stessa
ed obbediva solo ai dettami interiori della coscienza,
il banditore della nuova religione « dell'al di qua»,
e di una beatitudine raggiungibile, per intima forza,
in questa vita, non fondata su una grazia, ma so-
pra uno sforzo indefettibile verso la realizzazione
piena del proprio essere. Nemmeno con tali formule,
però, si riesce a esprimere a pieno il significato di So-
crate nei secoli che vennero dopo la fine del medioevo.
Si può dire che nessun nuovo pensiero, etico o reli-
gioso, venne in luce, nessun movimento spirituale poté
svilupparsi, senza richiamarsi in qualche modo a lui.
E questa risurrezione di Socrate non fu l'effetto di
un puro interesse dottrinario ma nacque da un imme-
diato entusiasmo per la sua figura spirituale, quale
essa appariva nelle riconquistate fonti greche, e, in
primo luogo, negli scritti di Senofonte 1).
Niente tuttavia sarebbe più erroneo che l'immagi-
narsi tutti questi tentativi di fondare una humanitas
tutta terrena sotto la guida spirituale di Socrate,
come diretti contro il Cristianesimo, analogamente e
inversamente a quanto il medioevo aveva fatto, po-
a
nendo Aristotele fondamento della filosofia cristiana.
Al contrario, anche questa volta toccò alla filosofia
pagana il compito di contribuire alla creazione di una
civiltà nuova, nella quale il contenuto indistruttibile

1) Tracciare la storia dell'in6.uenza di Socrate sulla poste-


rità sarebbe impresa gigantesca. La maggiore probabilità di riuscirvi
sta nell'affrontare il problema separatamente, periodo per periodo.
Un tentativo di tal genere è il libro di BENNO BoEHM, Sokrates
im avhtzehnten Jahrhundert. Studien zum Wer.degang des modernen
Personlichkeitsbewusstseins, Lipsia 1929.
CAP. II: SOCRATE [II 19] 707

della religione di Gesù si fuse con alcuni elementi es-


senziali dell'ideale umano dei Greci. Questa fusione
esigeva ormai quel concetto radicalmente nuovo della
vita che veniva facendosi strada sotto l'impulso
di forze destinate a imporsi: la fiducia crescente nella
ragione umana e il rispetto della legge di natura or
ora scoperta, quella ragione e quella natura che erano
stati i principii maestri della cultura antica. Quello
che ora la fede cristiana tentava, di compenetrarsi
con questi principii, non era diverso da ciò che aveva
fatto fin dai primi secoli della sua espansione. Ogni
nuova epoca cristiana è sempre venuta a un'intesa, in
un suo proprio modo, con l'idea antica dell'uomo e di
Dio. Il compito che ora toccò alla filosofia greca, in
questo sempre rinnovato e non esauribile processo di
adattamento, fu quello di difendere intellettualmente,
. con la propria chiarezza ed acutezza concettuale, le
parti della ragione e della natura e i loro diritti, cioè
di prender la funzione di « teologia razionale » o « teo-
logia naturale». Quando la Riforma ebbe fatto il primo
radicale esperimento di un ritorno alla forma « ·pura»
dell'Evangelo, ne segui come contraccolpo e a com-
penso il culto di Socrate proprio della età illumini-
stica, un culto che non si proponeva di cacciar di nido
il Cristianesimo, anzi gli conferiva forze che a quella
étà apparivano indispensabili. Perfino il pietismo, que-
sto espandersi del puro sentimento cristiano· contro
l'irrigidita religione intellettuale dei teologi, poté ri-
chiamarsi a Socrate e credere di trovare in lui una
parentela spirituale. Più di una volta si istitui il pa-
ragone di Socrate con Cristo. Noi siamo in grado di
misurare, oggi, il significato di quella possibile riconci-
liazione della religione cristiana e dell' «uomo natu-
rale» ad opera della :filosofia antica, e ci è chiaro il
contributo che a una tale riconciliazione poteva por-
708 [n20] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tare un'immagine della civiltà antica al centro della


quale stesse la figura di Socrate.
Il savio ateniese doveva scontare ai nostri giorni
laltissima fama e potenza spirituale raggiunta dal prin-
cipio dell'età moderna, come modello di anima naturaliter
christiana, doveva scontarla quando Federico Nietzsche
si staccò dal Cristianesimo e proclamò l'avvento del
Superuomo. Socrate appariva così indissolubilmente le-
gato, di un vincolo secolare, con l'idea cristiana dua-
listica di anima e corpo in conflitto, che anch'egli
sembrò dover cadere con quella. In pari tempo, nella
avversione di Nietzsche contro Socrate riviveva in forma
nuova l'antico odio dell'umanesimo di Erasmo per la no-
zione scolastica dell'uomo tutta concettuale e astratta.
Per lui, ora, non più Aristotele, ma Socrate si presentò
come l'assoluta personificazione di quell'irrigidimento
intellettualistico della filosofia di scuola, che, dopo
aver tenuto in catene per più di un mezzo millennio
lo spirito europeo, faceva ancora sentire, per il disce-
polo di Schopenhauer, i suoi ultimi echi nei sistemi
teologizzanti del cosiddetto idealismo tedesco 2). In
realtà questo giudizio su Socrate aveva i suoi presup-
posti nell'immagine del filosofo che Edoardo Zeller
aveva disegnato in quella «Storia della filosofia Greca»,
che allora teneva il campo, e questa, a sua volta, era
2 ) L'avversione di NmTZSCHE per Socrate appar già nel suo
libro giovanile, Die Geburt der Tragodie aus dem Geist der Musik;
per lui Socrate è assolutamente il simbolo di« ragione e scienza».
La stesura prùna del manoscritto della «Nascita della Trage-
dia» (pubblicata da H. J. Mette, Miinchen 1933), nella quale
mancano ancora le parti relative a Wagner e all'opera moderna,
rivela già nel titolo, Sokrates und die griechische Tragodie, che
per Nietzsche il problema capitale era il contlitto tra lo spirito ra-
zionale della Socratica e la concezione del mondo propria della
tragedia greca~ Questo modo di impostare la questione si può
intendere solo nel quadro di tutto il pensiero nietzschiano che si
svolse in un contatto, durato l'intera vita, col mondo greco. Cfr.
ora En. SPRANGER, Nietzsche ii.ber Sokrates, in 40. Jahrfeier Theo·
pkil Boreas, Atene 1939.
CAP. II: SOCRATE [rr21] 709

c~struita su un fondamento hegeliano, su quella con-


ce.zione dialettica dello svolgimento spirituale dell'Occi-
dente, culminante alla sintesi di civiltà antica e civiltà
cristiana. Ed ecco. ora il nuovo umanesimo, in rivolta
contro questa schiacciante tradizione, riallacciarsi alla
grecità presocratica, che, si può dirlo, fu da questo
movimento spirituale veramente scoperta. Presocratico
volle dire prefilosofìco; poiché i pensatori dell'età arcaica
apparvero allora, insieme con la grande poesia e mu-
sica del tempo, fusi in un'unica immagine che si no-
minò : « I'età tragica dei Greci» 3). In questa età, nelle
sue creazioni, I'elemento « apollineo» e il« dionisiaco»,
alla cui unificazione era diretto lo sforzo di Nietzsche,
si equilibravano ancora mirabilmente. Anima e corpo
erano ancora una cosa sola. In quell'alba della civiltà,
l'armonia ellenica, così conclamata e tanto superficial-
mente concepita dalle generazioni posteriori, era stata
reale: specchio calmo e terso di acque velanti il mi-
stero di abissi insondabili. Socrate~ nell'atto stesso di
proclamare la signoria dell'elemento apollineo-razionale,
aveva turbato il rapporto - di tensione - in cui esso
si trovava con l'altro,- dionisiaco-irrazionale, e distrutto
così l'armonia stessa. Egli, perciò, era venuto a defor~
mare la tragica visione antica dei Greci primitivi nel
senso di un moralismo intellettualistico da maestro di
scuola 4). Tutti gli idealismi, i moralismi, gli spiritua-

3 ) Caratteristico per questa nuova valutazione dei pensatori


greci più antichi è il saggio giovanile di NIETZSCHE, Die Philoso-
phie im tragischen Zeitalter der Griechen. La base per questo nuovo
pensiero era dàta più che dall'esposizione storico-erudita dello
Zeller nel primo volume della « Filosofi.a dei Greci», dalla filoso-
s-0na di Hegel e di Schopenhauer. La teoria hegeliana della con-
traddizione si riallaccia a Eraclito e quella di Schopenhauer della
volontà nella natura è, come tipo di pensiero, affine al mondo
presocratico.
4) In questo punto Nietzsche si associa e:lfettivamente alla
critica che la commedia aristofanesca rivolge a. Socrate, il « so-
fista» (cfr. vol. I, pp. 625 ss.).
710 [rr22] LIBRO III - ALLA RJCERCA DEL DIVINO

lismi, in cui venne a dissiparsi più tardi la civiltà greca


debbono essere imputati a lui. Con lui, che per l'età
cristiana aveva rappresentato la massima misura tol-
lerabile di « natura», la natura, secondo ·il nuovo con-
cetto di Nietzsche, era stata in realtà cacciata via dalla
vita greca e l'anti-natura posta in suo luogo. Cosi av-
venne che Socrate, rimosso dal posto sicuro, se anche
non di primissimo piano, che la filosofia idealistica
del secolo XIX gli aveva assègnato, fosse precipitato
di nuovo nel gorgo della polemica attuale: ancora una
volta simbolo, come nei secoli XVII e XVIII, ma que-
sta volta in senso negativo, come segno e misura di
decadenza.

L'avversione di questo grande spirito fu, dopo tutto,


sempre un onore reso a Socrate e per essa, la disputa
sul vero significato di lui acquistò intensità e vitalità
nuova. Non cerchiamo ora se quell'appassionato giudi-
zio rivoluzionario fosse o no sostenibile: certo è che l'at-
tacco di Nietzsche è il primo segno dopo lungo tempo,
della non infranta forza dell'antico lottatore. Anche il
moderno superuomo si sente minacciato. da lui nella
sua sicurezza di sé. Del resto, nel caso di Nietzsche,
non si può neppure parlare di una vera raffigurazione
di Socrate, convinti come siamo; in questa età della
consapevolezza storica, che una tale raffigurazione do-
vrebbe essere proprio l'opposto di quell'isolamento spre-
giudicato di una grande figura dallo sfondo storico del
suo tempo. E nessuno più di Socrate potrebbe preten-
dere di essere giudicato movendo dalla sua « situa-
zione», di Socrate che sdegnò di lasciare alla posterità
una sola parola scritta, preso tutto nel compito che
l'immediato .presente gl'imponeva. Questa situazione
storica di Socrate, per la quale Nietzsche, lottatore
senza quartiere contro l'eccesso di razionalismo deÌ
CAP. II: SOCRATE [rr23] 711

vivere moderno, non ebbe né interesse né volontà di


comprensione, è quella che noi abbiamo ampiamente
descritta come « la crisi dello spirito attico». A questa
svolta, su questo sfondo, Socrate è stato collocato
dalla storia. Ma anche chi di tutto questo si proponga
2i tener conto con atteggiamento di storico, non è,
i'crciò solo, liberato dal pericolo di fraintendimento,
co11;e mostra la serie dei ritratti di Socrate che, in
temp: recenti sono stati disegnati su tali presupposti
di fede~tà alla storia. In nessun campo, si può dire,
della st011a de) pensiero antico, si ha a che fare con
incertezze maggiori, ed è perciò inevitabile cominciare
dai dati e dalle circostanze _elementari.

Il problema socratico. - Socrate non scrisse nulla;


quindi anche il più elementare punto di partenza per
la ricerca, non è lui, in ogni caso; ma un certo numero
di scritti tra loro contemporanei, nati nella cerchia dei
suoi discepoli diretti. La questione se questi scritti,
in parte, siano stati composti ancora lui vivo, non è
propriamente solubile, anche se la negativa è la ri-
sposta più verosimile 5 ). Più volte è stata rilevata la
somiglianza delle condizioni in c~ si formò la lettera-
tura socratica con quelle della più antica tradizione
cristiana sulla vita e sulla dottrina .di Gesù; ed è cosa,
in realtà, evidente. Come per Gesù, l'influsso di Socrate
sui discepoli cominciò a configurarsi in un'immagine
di rilievo pieno solo dopo la sua morte, quella morte
tragica che incise profondamente sulla vita di tutti
loro. È, quindi, sommamente verisimile che solo sotto
5) Fra gli studiosi moderni che fanno risalire la formazione
del dialogo socratico come forma letteraria ancora al tempo della
vita di Socrate, basti qui nominare COSTANTINO RrrTER, Platon,
l\iiinchen 1910, I, p. 202 e WILAMOWITZ, Platon, Berlin 1919,
I, p. 150. Questa datazione precoce dei primi dialoghi platonici
·e connessa col concetto che questi dotti hanno dell'indole e del
contenuto filosofico di tali scritti. Su ciò vedi infra p. 145.
712 [1!24] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

il colpo di quella catastrofe essi abbiano cominciato


a ritrarre il maestro negli scritti 6), dando principio,
essi contemporanei, a quel processo storico, per cui
l'immagine di Socrate, :fino a quel momento di contorni
fluidi e vaghi, venne a fissarsi e come a cristallizzarsi.
Platone gli fa dire, già nella difesa dinanzi ai giudici,
che i suoi seguaci ed amici, anche lui morto, non avreb-
bero dato pace agli Ateniesi, ma avrebbero proseguito
la sua opera di incomodo interrogatore e ammonitore 7).
In queste parole è il programma del movimento socra-
tico 8), e la letteratura socratica che ora sboccia improv-
visa è al servizio di questo movimento. Essa nacque
dal proposito dei discepoli di annientare la sentenza
della giustizia terrena, e mentre questa aveva ucciso
quell'uomo per abolire lui e la sua parola nella memoria
degli Ateniesi, i discepoli vollero farlo eterno, nella
sua caratteristica inobliabile, in modo tale che l'eco
del suo monito non cessasse più, né ora né in futuro,
di riso.nare all'orecchio degli uomini. Così l'inquietu·
dine morale, che :fino a quel momento era stata confì·
nata nella piccola cerchia dei seguaci di Socrate, co·
mincia a farsi problema e turbamento di tutti. La So-
cratica diventa il centro letterario e spirituale del
nuovo secolo e il movimento che nasce da essa diventa,
dopo la caduta della potenza mondana di Atene, la
prima fonte del suo domìnio spirituale sul mondo.
Dai resti della produzione socratica a noi giunti
- i dialoghi di Platone e di Senofonte, i Memorabili

6) Questa conclusione è stata sostenuta con buoni argomenti,


contro il Ritter, da HEINBICH MAIER, Sokrates, Tiibingen 1913,
p. 106 ss., trad. it. G. Sanna, Firenze 1943, I, p. 109 ss. Anche
A. E. TAYLOR, Socrates, Edimburgo 1932, p. 11, si dichiara, con
ragione, in favore di essa.
7 ) Àpol. 39c.
&) Cosi interpreta giustamente il MAIE:a, op. cit., p. ·106, trad.
it., I, p. 109.
CAP. II: SOCRATE [II25) 713

di Senofonte e infine i frammenti dei dialoghi di Anti-


stene e di Eschine di Sfetto - una sola cosa risulta,
per tutti, assolutamente chiara, per diversi che essi
possano essere sotto ogni altro rispetto: lo scopo prin-
cipale degli scolari fu il ritrarre l'incomparabile perso-
nalità del maestro che, come essi sentivano, aveva
operato nelle loro vite una decisiva e ·totale trasfor-
mazione. In servigio di questa esigenza furono create
nella cerchia socratica, le nuove forme letterarie del
dialogo e delle« memorie» 9), ambedue nate dalla con-
vinzione che l'eredità spirituale del maestro fosse inse-
parabile dall'immagine dell'uomo. Per quanto difficile
potesse sembrare il proposito di comunicare ai lontani
un'esperienza viva di lui, il tentativo doveva esser
fatto ad ogni costo. Ed era tentativo davvero difficile,
del quale non si metterà mai abbastanza in rilievo la
singolarità rispetto all'abito mentale greco. Nei Greci
il modo di guardare uomini e qualità umana, e insomma
la vita stessa, erano in tutto governati dalla ricerca
del tipico. A dare un'idea di come si sarebbe at-
teggiato un elogio di Socrate, dentro questa conce-
zione dell'umano propria dell'età classica, può servire
un altro genere letterario nuovo parallelo, ai precedenti,
della prima metà del IV sec., l'encomio: forma, an-
ch'essa, che trova origine appunto in una fede nella
preminenza decisiva dei valori individuali e nell'esal-
tazione di individui eminenti, ma che può apprezzare
tali valori solo a patto di rappresentare l'uomo og-
getto di lode, come ornato di tutte le virtù apparte-
nenti al modello ideale del cittadino o del capo. Non
·era davvero questa la via per giungere a cogliere l'es-
senza di Socrate. Ne ·aprì un'altra, per la prima volta,

9) Cfr. Ivo BRUNS, Das literarische Portrat der Griechen, Ber-


llilo 1896, p. 231 ss.; RUDOLF HIBZEL, Der Dialog, I, Lipsia 1895,
p. 86.
714 [n26] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

lo studio dell'umanità di Socrate, e nacque cosi, presso


gli antichi, la psicologia individuale che ebbe in Pla-
tone il suo più grande maestro. Il ritratto letterario
di Socrate rimane l'unica pittura dal vero di una grande
originale individualità, che l'età greca classica abbia
prodotto. Ed essa non nacque da fredda curiosità psi-
cologica o da compiacenza di analisi etica, ma da un'espe-
rienza viva di quello che noi chiamiamo personalità,
anche se, della personalità, non esisteva ancora, nonché
la parola, il concetto. E tanta fu l'efficacia di questa
personalità esemplare che ne risultò cambiato il con-
cetto stesso di areté, e, cosi mutato si espresse nell'in-
teresse inesauribile dedicato alla persona di lui.

Però l'umanità di Socrate si manifestava prima


di tutto nella sua influenza sugli altri: suo strumento
era la parola viva, che egli non aveva mai voluto
fissar nello scritto; tanto era per lui capitale il rap-
porto tra il detto e la persona vivente a cui esso si
dirigeva in un particolare momento. Ed ecco, in questo,
un ostacolo quasi insuperabile per chi si accingeva
alla rappresentazione di lui; tanto più che la sua ma-
niera di conversare per domanda e risposta non si
adattava ad alcuna delle forme letterarie tradizionali,
anche nell'ipotesi che si· possedessero, dei suoi colloqui,
rapide notazioni e appunti, da cui ne potesse essere,
in parte, ricostruito, con qualche libertà, il contenuto,
come mostra l'esempio del Fedone platonico. Fu que-
sta difficoltà che stimolò Platone a èreare la forma del
dialogo sulla quale si modellarono i dialoghi degli
altri scolari di Socrate lO). Ma, per quanto questa forma
valesse, e specialmente i dialoghi platonici, a presentare

10) Cfr. HIRZEL, op. cit. p. 2 ss., sui precedenti storici del dia-
logo socratico, e p. 83 ss., sulle sue forme e sui suoi cultori let-
terarii. ·
CAP. II: SOCRATE [rr27] 715

viva e vtcma la personalità di Socrate, per il· conte-


nuto invece dei suoi colloqui, si manifestò tra gli scolari
una cosl radicale diversità di concezione che subito si
venne tra loro ad aperto conflitto e il distacco fu defini-
tivo. Ci mostra Isocrate, nei suoi primi scritti, come lo
spettacolo di questa contesa divertisse il pubblico mali-
zioso, e quanto da ciò risultasse facilitato il lavoro
dei rivali e concorrenti della filosofia, agli occhi della
gente comune. Pochi anni appena erano trascorsi dallà
morte di Socrate. e la cerchia socratica era già in fran-
tumi.· E, rimanendo ognuno degli scolari ostinatamente
fermo sulle sue posizioni, ecco, già sorgevano diverse
scuole socratiche. Tutto ciò ha avuto per noi una con-
seguenza paradossale: mentre non c'è alcuna persona-
lità di pensatore antico, su cui la tradizione sia così
copiosa, noi non siamo, fino ad oggi in condizione di
giungere a una qualche unità di vedute su Socrate,
sul suo reale significato. Certo, oggi, col perfeziona-
mento attuato nel metodo e nell'attitudine storica,
con la cresciuta capacità di indagine psicologica, sem-
brerebbe che un più sicuro fondamento fosse posto
alle nostre ricerche. Ma a chi rifletta che gli scolari
di Socrate, da cui deriviamo ogni nostra informazione,
non sapendo più separare in se stessi il proprio da
quello che solo l'influenza del maesto aveva prodotto
in loro, fusero intimamente tutto il proprio nella me-
moria di lui, par lecita la domanda se, a distanza di
millenni, possa riuscire a noi di sceverare gli elementi
aggiunti dal nucleo realmente socratico.
Il dialogo socratico di Platone, come forma lette-
raria, ha, senza dubbio, il suo punto di partenza in
un dato storico, in una circostanza di fatto, cioè nel
metodo insegnativo di Socrate, per domande e risposte.
Questa maniera di conversazione, egli la praticava come
la forma genuina del pensare filosofico e come l'unica
716 [n28] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

via per la quale, si può giungere a intendersi con gli


altri; chè era questo, il capirsi, il suo scopo essenziale.
Platone, drammaturgo nato, aveva scritto tragedie,
prima d'incontrarsi con Socrate e, secondo la tra-
dizione, le aveva bruciate, quando sotto l'impressione
che il maestro aveva prodotto in lui, si era rivolto
alla ricerca della verità filosofica. Quando poi, dopo
la morte di Socrate, egli pensò a un modo di far rivi-
vere il suo maestro, nella sua precisa caratteristica,
egli trovò, nella riproduzione artistica dei discorsi di
Socrate, un compito che gli dava modo di porre il
suo genio drammatico a servizio della filosofia. Ma,
nel dialogo così nato, non la forma soltanto è socra-
tica. Il ripetersi di certe caratteristiche, paradossali
massime nei discorsi del Socrate. platonico, la coinci-
denza di queste con _le notizie senofontee, rendono certo
che, anche per il contenuto, i dialoghi platonici hanno
in qualche misura il loro nucleo germinale nel pen-
siero di Socrate. Ed il problema è appunto nella misura
di questo elemento socratico. Senofonte coincide solo
per un breve tratto con Platone e poi ci abbandona,
lasciandoci nell'impressione che egli dica. troppo poco,
e Platone troppo. Già Aristotele pensava che la mas-
sima parte di quel che Socrate ragiona in Platone,
non è dottrina di lui, ma di Platone. Ed anche altre
affermazioni fa Aristotele a questo proposito, sul valore
delle quali dobbiamo soffermarci in seguito. In quanto
genere letterario, Aristotele vede il dialogo platonico
come qualcosa di nuovo, come un genere intermedio
tra poesia e prosa ll). Ciò si riferisce, naturalmente, in
primo luogo alla forma che ····è qnella di un dramma
intellettuale in prosa. Ma, dato il giudizio di Aristo-
tele sulla libertà con la quale Platone aveva trattato

11 ) Arist. ap. Diog. L. LIII, 37 (RosE, Arist. fr. 73).


CAP. II: SOCRATE [rr29] 717

il Socrate storico, si deve supporre che Aristotele


vedesse nel dialogo platonico, anche per il conte~uto,
una mistione di poesia e prosa: esso era per lui «Verità
e Poesia» 12).
I dialoghi socratici di Senofonte e quelli degli altri
discepoli offrono naturalmente il fianco agli stessi dubbi,
appena ci si prova ad usarli come fonti storiche. L'Apo·
logia di Senofonte, la cui autenticità, molto contestata,
è stata recentemente più volte ammessa, è senz'altro
infirmata dalla sua evidente tendènza esaltatrice 1 3).
I Memorabili di Socrate sono passati lungamente per
opera storica. E, fosse questa la realtà, essa ci libe-
rerebbe una volta per sempre da tutta quell'incertezza
che ad ogni passo ci imbarazza nell'uso dei dialoghi.
Ma le ricerche moderne hanno mostrato che anche
quest'opera è di colorito abbondantemente soggettivo 14).
Senofonte, da giovane, conobbe e onorò Socrate, ma
non appartenne mai al gruppo dei veri e propri scolari.
Lasciatolo quasi subito, per prender parte, da avven-
turiero, alla spedizione militare del ribelle principe
persiano Ciro contro il fratello .Artaserse, non lo ri-
vide più, e solo decenni dopo la sua morte scrisse le
sue opere socratiche. Solo quei capitoli che sono stati
chiamati la « difesa» sono, verisimilmente, di origine
più antica 15). Essi costituiscono una difesa di Socrate
scritta in opposizione ad una « accusa di Socrate»
- pura :finzione letteraria - nella quale si è ricono-
sciuto un libello del sofista Policrate. Ad essa rispo-

12 ) Così pensarono anche i filosofi ellenistici. seguiti da Cice-


rone, De Rep. I 10, 16.
13} K. v. FRITZ, « Rheinisches Museum » N. F. LXXX, pp. 36-38,
mi sembra che abbia dimostrato con nuove ragioni la non auten-
ticità dell'Apologia senofontea.
14) Cfr. MAIER, op. cit. pp. 20-77, trad. it., I, pp. 23-79.
16) Con questa parola intendiamo, seguendo il MAIER (op. cit.
p. 22 ss., trad. it. I, p. 25 ss.) e altri, i primi due capitoli dei Me-
morabili senofontei (I 1-2).
718 [n30] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sero per primi Lisia e Isocrate, ma si può concludere


dai Memorabili di Senofonte, che anch'egli prese allora
la parola 16). A quel che appare, con questo scritto,
quell'uomo, già quasi dimenticato nella cerchia dei di-
scepoli di Socrate, fece il suo primo ingresso nella
letteratura socratica, per ritornare poi, per molti anni,
al silenzio. Lo scritto fu da Senofonte, più tardi, posto
al principio dei Memorabili, ma l'unità di composi-
zione e la completezza, oltre all'evidente motivo occa-
sionale, mostrano che esso fu, originariamente, qual-
cosa di a sé stante 17).
Il proposito dichiarato di questa « difesa», come dei
Memorabili in complesso, è di mostrare che Socrate
fu un cittadino in sommo grado patriottico pio e giu-
sto, un uomo che. sacrificava agli dei, interrogava gli
oracoli, era sollecito di aiuto agli amici, e aveva sempre
fatto il suo dovere nella vita pubblica. C'è una sola
obbiezione da fare a questa tesi senofontea: ed è che
non si capisce come un tipo di bravo borghese come
questo avrebbe potuto destare il sospetto dei suoi
concittadini, e, tanto meno, ess.ere condannato a morte
come pericoloso allo stato. Ancor più sospetta si è
rivelata questa raffigurazione senofontea di Socrate.

16 ) Senofonte, in Mem. I 1-2 parla sempre solo dell'« accusa-


tore» al sing., Platone nell'Apologia di« accusatori», al plnr., con-
forme alla situazione del processo reale; Senofonte, ·è vero, si n·
ferisce in principio all'accusa giudiziaria, ma poi passa a ribat-
tere accuse, che, come sappiamo da altre fonti, son quelle che
a Socrate, dopo la sua morte, furono mosse da Policrate in un
suo libello.
1 7) Cfr. la convincente dimostrazione del MAIER, op. cit. p. 22 ss.
(trad. it., I, p. 25 ss.), che affronta anche la questione del rap-
porto tra la« difesa» e l'Apologia. Un esempio di come Senofonte
poté incorporare in un'opera più grande, uno scritto concepito
in origine come- a sé, è il principio delle Elleniche (I 1-2, 2). Que-
sta parte originariamente doveva essere il completamento del-
!' opera di Tucidide. Perciò, come è naturale, essa termina con la
fine della guerra peloponnesiaca. Più tardi Senofonte allacciò a
questo suo scritto la narrazione della storia greca dal. 404 al 362.
CAP. II: SOCRATE (II31) 719

in seguito a ricerche recenti tendenti a dimostrare che


Senofonte, a così grand2 è.istanrn o tempo dagli av-
venimenti che riferisce e a causa della sua modesta
attitudine :filosofica, dové necessariamente rivolgersi a
fonti scritte, e tra queste usò speciaimente gli scritti
di Antistene. Una volta dimostrato, ciò sarebbe di
grande interesse per la ricostruzione di questo scolaro
di Socrate e avversario di Platone, la cui opera è quasi
del tutto perduta; ma allora il Socrate senofonteo si
ridurrebbe a un semplice portavoce della filosofia mo-
rale di Antistene. Senza dubbio in quest'ipotesi c'è
molto di esagerato; ma le ricerche a cui essa ha dato
luogo hanno, in ogni modo, richiamato l'attenzione
sul fatto che Senofonte, non ostante la sua ingenuità
filosofica o proprio a causa di essa, si è appropriato
in qualche misura un'immagine di Socrate che non è
meno soggettiva di quanto si suole supporre per quella
di Platone 18).
Cosi stando le cose, è possibile sottrarsi al dilemma
in cui ci pone lo stato delle nostre fonti ? Fu Schleier-
macher il primo a fissare in una formula penetrante
tutta la complessità .di questo problema storico. An-
ch'egli si era convinto che non si può appoggiarsi esclu-
sivamente né a Senofonte né a Platone, ma si deve
fare come una parte di mediazione diplomatica tra
questi due grandi partiti. Il problema fu posto da lui
in questi termini: « che cosa può essere stato Socrate,
oltre a quello che Senofonte dice di lui, senza tut-

' 8 ) La relazione della raffigurazione senofontea di Socrate con


Antistene, dopo che la strada fu aperta da F. DUJllMLER (nei due
saggi Àntisthenica e Academica, è stata studiata soprattutto da
KARL J o:EL, in una grande e dotta opera in tre volumi: Der echte
und der unophan.tische Sokrates, Berlino 1893-1901. I resnltati
di quest'opera sono un. po' troppo gravati d'ipotesi, per riuscire
convincenti nell'insieme. Il MilER, op. cit. pp. 62-68 (trad. it.,
I, pp~ 65-70) cerca di sceverare in quest'indagine del Joel, gli ele-
menti sostenibili dalle esagerazioni.
720 [1132] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tavia contraddire i lineamenti caratteristici e le mas-


sime di vita che Senofonte determina esplicitamente
come socratici, e che cosa deve egli essere stato perché
Platone si sia sentito in diritto di rappresentarlo così
come fa nei suoi dialoghi ?» 19). Queste parole, s'in-
tende, non sono affatto una specie di formula magica
per lo storico. Esse vogliono soltanto delimitare con
la maggiore precisione possibile i confini dentro i quali
la nostra sensibilità critica ha da esercitarsi e da ri-
manere ·sveglia. Esse ci lascerebbero, senza dubbio,
in preda a pure impressioni soggettive, se non ci fosse
ancora qualche altro criterio a dirci :fino a qual punto
si possono seguire le nostre fonti. Per lungo tempo
questo criterio si è trovato in Aristotele. Sembrava
che in questo caso dovesse avere una particolare auto-
rità la parola di lui, del dotto e ricereatore obbiettivo,
non più, come gli immediati scolari, mosso da interesse
appassionato e personale per la figura e per l'opera di
Socrate, ma ancora abbastanza vicino a lui nel. tempo
per saperne di più di quanto non sia possibile a noi 20).
I ragguagli aristotelici su Socrate hanno per noi
un particolare valore in quanto sono esposti in con-
nessione alla cosiddetta teoria platonica delle idee e
insieme alle relazioni di Platone con Socrate. Era stata,
quella teoria, un problema capitale molto discusso nel-
l'Accademia platonica, e nei vent'anni spesi da Ari-
stotele alla scuola di Platone si dové spesso trattare
anche la questione dell'origine di essa. Origine, che
nei dia.loghi platonici è senz'altro attribuita a Socrate
che in essi l'espone da filosofo e la presuppone nota

19) FRIEDBJCH ScHLEIERMACHER. Ueber den Wm des Sokrate11


ala Philosophen (1815), Sàmtliche Wetke III 2, pp. 297-298.
20) Questa era stata la posizione di EDOARDO ZELLER nella
sua trattazione della questione socratica, Philosophie der GriecheR
Il, !5, pp. 107 e t26.
CAP. II: SOCRATE [rr33] 721

alla cerchia dei suoi discepoli~ Pertanto, la questione


dell'attendibilità storica di Platone su questo punto
è d'importanza decisiva per la ricostruzione del pro-
cesso spirituale per cui dalla socratica si formò la filo-
sofi.a di Platone. Ora, Aristotele che, diversamente da
Platone nella teoria delle idee, non attribuisce realtà
obbiettiva, distinta dall'esistenza delle singole appa-
renze sensibili, ai concetti universali, fa, sui rapporti
di Platone con Socrate in questo punto, tre importanti
affermazioni: 1) Platone era stato dapprima scolaro di
Cratilo, filosofo eraclitèo, la cui dottrina era che« tutto
scorre» in natura e niente ha consistenza durevole.
Conosciuto Socrate, gli si apri un altro mondo. Socrate
si limitava strettamente alle questioni etiche e cer-
cava di cogliere concettualmente l'essenza permanente
del giusto del buono del bello e così via. Ora, poiché
la concezione dell'eterno fluire e il presupposto di
una verità immobile evidentemente si escludevano l'un
l'altro, e poiché d'altra parte Platone era stato· così
persuaso da Cratilo del flusso delle cose che nemmeno
l'ostinata ricerca socratica di un punto fermo nel
mondo morale era riuscita a scuoterlo in questa con-
vinzione, egli finì col concludere che Cratilo e Socrate
avevano ragione ambedue, in quanto parlavano di
due mondi assolutamente diversi. L'affermazione di
Cratilo che « tutto scorre», si riferiva all'unica realtà che
Cratilo conosceva, le apparenze sensibili, e Platone,
anche in seguito, tenne fermo ·questo punto che la
teoria del flusso valga per il mondo dei sensi: Socrate,
invece, col suo investigare l'essenza concettuale di
quei predicati come buono bello giusto ecc., sui quali
riposa la nostra esistenza di esseri morali, aveva I' oc-
chio a un'altra realtà, che non scorre, anzi veramente,
« è», cioè è immutabile e identica. 2) In questi con-
cetti universali che egli aveva imparato da Socrate,
722 [n34] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Platone riconobbe da allora in poi il vero « Essere»,


un« essere» di cui è privo il mondo dell'eterno fluire:
e queste essenze, concepibili solo dal pensiero, sulle
quali è costruito il mondo del vero essere, egli le chiamò
idee. Così egli andò molto al di là di Socrate che non
aveva né parlato di idee, né affermato una distinzione
di idee e di cose sensibili. 3) Quello che si può legitti-
mamente attribuire a Socrate e che, insieme, non gli
si può togliere in nessun modo è, secondo Aristotele,
da una parte la determinazione dei concetti universali,
dall'altra, il metodo induttivo di ricerca 21).
Se questa esposizione è esatta, essa rende possibile,
a un grado di approssimazione_ assai elevato, la sepa-
razione dell'elemento socratico dal platonico, nel So-
crate dei dialoghi platoni~i. In tal caso la formula
metodica dello Schleiermacher non rimane più allo
stato di esigenza ideale, ma può avvicinarsi ad essere
attuata. Così nei dialoghi che per le indagini condotte
ai nostri tempi sono da considerare opera giovanile
di Platone, il terreno in cui si muove l'investigazione
di Socrate è realmente quello soprattutto della ricerca
dell'universale: che cos'è la fortezza?, la santità?, la
temperanza ? Anche Senofonte rileva espressamente,
sebbene in modo un po' marginale, che Socrate faceva
continuamente inchieste di questo genere e cercava di
fissare i concetti 22). Così si aprirebbe una via di uscita

21) I ragguagli di .Axistotele su Socrate, che in parte si ripetono


l'un l'altro, in parte si completano sono, Met. A6, 987 a 32-b 10;
M4, 1078 b 17-32; M9, 1086 b 2-7. Part. An. I 1, 642 a 28. Il
Taylor ha cercato di attenuare la portata dei rilievi aristotelici
sulle differenze tra Socrate e Platone, e ciò in evidente connes-
sione con la sua propria teoria sui rapporti tra i due. Di contro,
v. un nuovo accurato esame del significato e del valore delle te-
stimonianze amtoteliche fatto da W. D. Ross, Aristotle's Meta-
physics, Oxford 1924, I, p. XXXIII ss. Cfr. pure dello stesso
autore The Problem of Socrates. Presidential Address delivered to
the Class. Assoc. of Nottingham, Londra, John Murray, 1933.
22) Xen. Mem. IV 6.
CAP. II: SOCRATE [u35] 723

dal nostro dilemma, Platone o Senofonte, e Socrate


apparirebbe come il fondatore della filosofia del con-
cetto. E così lo caratterizzò Edoardo Zeller, dando se-
guito al programma di ricerca indicato dallo Schleier-
macher, nella sua «Storia della filosofia greca »23). So-
crate rappresenterebbe, dunque, il più modesto stadio
preparatorio della filosofia platonica, uno stadio a cm
sono estranee le audacie metafisiche di Platone, e che,
fuori di ogni interesse per la nàtura, del tutto limitato
al campo della moralità, appare come il tentativo di
fondare una nuova saggezza indirizzata tutta alla vita
pratica.
Questa soluzione fu tenuta a lungo per definitiva,
posta com'era sotto la grande autorità di Aristotele
e poggiante sopra una solida base metodica. Ma, alla
lunga, essa doveva rivelarsi insoddisfacente, perché
essa faceva apparire in Socrate e nella sua dottrina
del concetto qualcosa di troppo povero e moncQ. Quel-
l'uomo tutto concettuale era proprio l'astratta figura·
zione pedantesca contro cui si erano indirizzati gli
strali di Nietzsche. Gli attacchi del quale, in coloro
che non si erano da essi lasciati scuotere nella loro
fede in Socrate come in un grandissimo scopritore e
novatore, valsero soltanto a far dubitare del valore
storico della testimonianza aristotelica. Ma veramente
Aristotele era stato così disinteressato e obbiettivo nella
questione del formarsi della dottrina platonica delle
idee, di quella dottrina che egli, per parte sua, contra·
:stava così vivacemente ? N.on aveva egli, anche in
altri casi, errato nel suo apprezzamento di circostanze
,_storiche ? E, insomma, non era egli sempre stato do-
23) ZELLER, op. cit. II P, 107 e 126. La fiducia dello Zeller
·ndle testimonianze aristoteliche è condivisa fondamentalmente
da K. JOÉL, up. cit. I, p. 203 e da T. GOMPERZ, Griechische Den•
ker, 114, p. 42 ss. (trad. it. di L, Bandini, Firenze, 19508, II,
p. 449).
724 [rr36] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

minato dalla sua propria concezione filosofica; e spe-


cialmente nelle sue opinioni di storia della :filosofia ?
Era, in sé, assai comprensibile che egli nel contrapporsi
a Platone si fosse richiamato a Socrate, e se lo fosse
rappresentato meno alato e più positivo; insomma,
più aristotelico. Eppoi, che cosa sapeva realmente
Aristotele di lui più di quanto s'immaginava di poter
ricavare dai dialoghi platonici ?
Da questi dubbi, da questi problemi è nata tutta
la più recente ricerca su Socrate 24). Certo, era ormai
perduta quella terraferma che si credeva di aver
conquistato, si ritornava ormai ad avventurarsi in
incertezze, come mostra in maniera luminosa il con-
trasto radicale, constatabile tra le raffigurazioni di So-
crate apparse da quando ·quei dubbi cominciarono ad
essere sollevati. . Questo contrasto è perfettamente
esemplificato dai due tentativi più efficaci, e più
scientificamente coerenti, che in tempi recenti si siano
fatti per attingere il Socrate storico: da un lato il libro
imponente del filosofo berlinese Enrico Maier, su So-
crate, dall'altro i lavori della scuola scozzese di St. An-
drews, ad opera, specialmente di J. Burnet filologo
e del filosofo A. E. Taylor 25).
Comune ad ambedue le opinioni è il punto di par-
tenza : Aristotele deve essere scartato come testimo-
nianza storica. In ambedue le opinioni Socrate è uno
dei più grandi uomini che siano vissuti. Il contrasto,
~ 4 ) Cfr. soprattutto la critica del MAIER, op. cit. pp. 77-102
(trad. it., I, pp. 80-105) e del TAYLOR, Varia Socratica. Oxford
1911, p. 40.
21') Cfr. l'opera del liAtER già più volte citata e i lavori di ten-
denza opposta di A. E. TAYLOR, Varia Socratica, Oxford 1911 e
Socrates, Ediip.burgo 1932. li Taylor si accorda in èomplesso con
la teoria del Burnet e la sviluppa ulteriormente. Cfr. J. llURNET,
Greek J>hilosophy, Londra 1924 e il suo articolo Socrates in Ha-
stings' Encyclopaedìa of Reli.gion and Ethics, voi. XI. Coi negat•Hi
del valore della testimonianza aristotelica si schiera anche C. HIT·
r.ER, Sokraics, Tiihingen 1931.
CAP. II: SOCRATE [rr37] 725

invece, culmina in questa domanda: Socrate fu real-


mente un filosofo ? E se le due tendenze di nuovo
concordano ad affermare che egli non meriterebbe
questo nome, se fosse esatta l'immagine fin qui cor-
rente che ne fa una specie di figura secondaria deco-
rante il portale dell'edificio platonico, assai diversa e
opposta è la risposta finale. Secondo Enrico Maier la
solitaria grandezza di Socrate non è misurabile col
metro valevole per un pensatore teoretico.· Egli fu il
creatore di un atteggiamento umano che segna il cul-
mine di una lunga ardua ascesa alla liberazione morale
dell'uomo, culmine insuperato e non superabile: egli
bandi il vangelo del dominio di sé e dell'autosuffi-
cienza della personalità morale. Con ciò egli si presenta,
nel mondo occidentale, come il contrapposto di C~sto
e della filosofia orientale della redenzione. Con lui,
app~to comincia la contesa tra questi due principii.
Però, Platone soltanto è il fondatore dell'idealismo filo-
sofico, il creatore della logica e del concetto, genio tutto
originale e incommensurabile con la tempra della perso-
nalità socratica, pensatore sistematico, formatore di
teorie. Queste teorie. egli trasferi a Socrate nei suoi
dialoghi, con libertà d'artista, e .·solo nei suoi scritti
più antichi egli dette un'immagine del Socrate reale 26).
Anche i dotti della scuola scozzese vedono in Pla-
tone l'unico espositore geniale delle idee del maestro,
.ma questo giudizio estendono a tutti i dialoghi, in cui
Socrate appare. Senofonte non è, per loro, che il
filisteo per eccellenza, che non ha capito nulla del si-
gnificato e dell'importanza di Socrate. In fondo, egli

26) Il MAIER, op. cit. p. 104 ss. (trad. it., I, p. 107 ss.) considera
come fonti storiche per la conoscenza del Socrate reale prima di
tutto gli scritti « personali» di Platone su Socrate, cioè l'Apolo-
gia e il Critone; inoltre egli reputa pitture fedeli nell'essenziale,
sebbene libere creazioni, un certo numero di piccoli dialoghi, come
.il Lachete, il Carmide, il Liside, !'Ione, l'Eutifrone e i due Ippia.
726 [n38] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

è anèhe consapevole dei suoi limiti e altro non si pro-


pone che di completare con qualche aggiunta quello
che gli altri hanno scritto su Socrate. Laddove sfiora
il problema propriamente filosofico, rapide allusioni gli
bastano, destinate a mostrare al lettore che Socrate
era qualcosa di più di quel tanto che egli ne. ritrae.
Il più grande errore della concezione dominante è,
secondo questa opinione, di credere che Platone non
abbia voluto ritrarre Socrate com'era stato, ma pre-
sentado invece come il creatore delle sue Idee, che
sarebbero estranee al Socrate storico. Si tratterebbe
insomma, di una specie di mistificazione dei lettori,
che in Platone non è concepibile. A coloro poi che sta-
biliscono un'artificiosa differenza tra il primo e il tardo
Platone, quasi che il primo abbia si pensato a dare
un ritratto di Socrate, e Platone vecchio, invece, abbia
usato la sua figura come una mera maschera della
propria filosofia nel suo formarsi graduale, a costoro
è da obbiettare l'intima inverosimiglianza del proce-
dimento. Per non dire, seguitano i dotti di questa
corrente, che anche i primi dialoghi di Platone pre-
suppongono le dottrine delle opere più tarde e più
costruttive (Fedone, Repubblica). In realtà, appena
Platone ebbe in animo di non esporre più la dot-
trina di Socrate, ma la sua propria, egli smise anche,
coerentemente, di porre Socrate come protagonista
dei suoi dialoghi, e si volse ad altri personaggi, perfino
a personaggi anonimi. Socrate, dunque, fu nella realtà
quello che Platone lo ritrae: il creatore della teoria
delle idee, della· teoria della reminiscenza e della pree-
sistenza, il teorico della immortalità dell'anima e della
repubblica ideale, in una parola, il padre della metafi-
sica occidentale 27).

27) Cfr. le opere del Taylor e del Burnet citate sopra (li. 25)'.
CAP. II: SOCRATE [1139] 727

Queste le due conclusioni estreme raggiunte dalla


ricerca. O Socrate appare essenzialmente, non come
un pensatore filosofo, ma come un suscitatore, un eroe
della vita morale, oppure egli diventa il ,creatore della
filosofia e;peculativa, in lui personificata da Platone.
Porre una tale alternativa val quanto dire che i di·
versi motivi i quali, subito dopo la morte · di Socrate,
produssero la scissione del movimento socratico in
varie scuole in contrasto tra loro, hanno ripreso vita
e stanno di nuovo per dar luogo ciascuno a una sua
immagine di Socrate. Da un lato Antistene, con la
sua negazione della scienza, col suo porre l'accento
sulla « fortezza socratica» cioè sull'inflessibile volontà
morale, dall'altro :elatone, che considera la socratica
affermazione di ignoranza come semplice stadio tran·
sitorio alla scoperta di una conoscenza di valori più
profonda e incrollabile, in quanto latente nello spirito
stesso, si riaffacciano a rivendicare per sè il diritto
di rappresentare il vero Socrate, e il merito di aver
pensato fino in fondo il pensiero di lui. Non sembra
possa essere un caso che questo contrasto radicale
si presenti e alle origini del movimento socratico e
ai nostri giorni, né si può pensare a spiegare un tale
rinnovarsi di posizioni col fatto che anche le nostre
fonti sono divise tra queste due tendenze. No: questa
possibilità di doppia interpretazione deve aver la sua
radice in qualcosa di reale e di profondo, nell'intimo
della personalità di Socrate. E deve essere questo il
punto di partenza a cercar di superare quello che c'è
. di unilaterale in ciascuno dei due punti di vista, che
· sono ambedue, in certo senso, logicamente e storica·
mente legittimi. Per quanto una trattazione sia con·
dotta con atteggiamento e metodo di storico, sempre
la posizione teoretica del ricercatore è presente con la
.sua influenza nel modo di concepire i fatti tramandati.
728 [rr40] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Perciò i rappresentanti delle due interpretazioni di cui


si è fatto parola, debbono aver sentito l'impossibilità
di acquietarsi in un'immagine di Socrate che, riguardo
al problema per loro decisivo, rimaneva ancora inde-
ciso. Lo storico, però, deve, per parte sua, concludere
da tutto questo che Socrate portava ancora in sé con-
viventi posizioni in contrasto, che già allora o poco
dopo stavano necessariamente per scindersi e prendere
ciascuna la sua via. Qw.esto lo rende per noi più interes-
sante e complesso, ma anche più difficile a capirsi.
La sua grandezza incontestabile, sentita da tutti
i suoi contemporanei di maggiore altezza spirituale,
non sarà forse in qualche modo connessa proprio con
questo senso di processo non compiuto che la sua figura
ci dà? Non si sarà in lui attuata per l'ultima volta
un'armonia che già al suo tempo si avviava rapida-
mente a dissolversi? In ogni modo egli appare posto
a1 confine tra l'antica forma greca dell'esistenza e un
mondo sconosciuto, nel quale non gli fu dato di metter
piede anche ee spettò a lui di fare, verso di essa, il
passo decisivo.

Socrate come educatore. - È segnato ormai da tutta


la nostra precedente trattazione il quadro entro cui
verrà a collocarsi, in quel che segue, la figura di So-
crate: egli rappresenta il centro di questa storia della
formazione dell'uomo greco, giacché egli è la più grande
personalità di educatore apparsa nella storia del mondo
occidentale. Chi cerca la sua grandezza nel dominio
della teoria e del pensiero sistematico, sarà tratto o a
fargli troppo credito a spese di Platone, o a dubitare
in maniera· radicale della sua importanza. Ha ragione
Aristotele a considerare la filosofia che Platone pro-
clama per bocca del suo Socrate, come ope·ra essen-
zialmente di Platone, nella sua struttura teoretica.
CAP. II: SOCRATE [rr41] 729

Però Socrate è ben di più di quel tanto di « spunti »


filosofici che rimane, quando dalla rappresentazione
platonica di Socrate si sia sottratta la teoria delle idee
e il resto del contenuto dogmatico. Il suo significato
è da cercare in un'altra dimensione. Non legato, come
continuatore, ad alcuna tradizione scientifica, non dedu-
cibile da alcuno dei sistemi della storia della filo-
sofi.a, Socrate è, nel più semplice senso, l'uomo .deL!!.:P..!L
tempo. L'aria in cui è avvolto--e .che respira è la schietta
aria della storia. Il piano da cui egli s'innalza ad una
fisionomia spirituale autonoma è quello della classe
media ateniese, di quel ceppo di cittadini, intimamente
immutabile, coscienzioso e pio, al cui robusto sentire
avevano potuto fare appello i « capi del popolo»,
gli aristocratici Solone e Eschilo. Ora è giunto per
questa classe il momento di parlare da sé, per bocca
di uno dei suoi, il figlio dello scalpellino e della leva-
trice, del demo di Alopece. Solone ed Eschilo, nel
-~
passato, erano venuti al momento giusto, per acco-
gliere, far proprio e rielaborare il meglio di idee rivo-
luzionarie venute dal di fuori, e le avevano cosi intima-
mente assimilate, che esse poterono, anziché essere
elemento dissolvente del carattere ateniese, aiutare lo
sviluppo delle sue energie più vigorose. Non è dissi-
mile la situazione s irituale nel mo n m. cui So-
crate appar~ '.A.tene di Pericle, signora di grande
impero, è come inondata, in questo momento, da in-
fluenze di ogni sorta e origine ed è perciò, in pericolo,
non ostante la sua splendida p:rova in ogni dominio
dell'arte e dell'azione, di sentirsi sfuggir di _sotto l'an-
tico solido terreno, nel momento in cui tutti i valori
tradizionali, dati in preda a un'attivissima innata lo-
quacità, vanno dileguando con moto rapidissimo. A que-
sto punto viene avanti Socrate, il Solone del mondo
morale. Giacché il pericolo era ll, 11~1 mutarsi del senso
730 [rr42] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DfVINO

morale; di lì si venivano minando le fondamenta dello


stato e della società. Così, per la seconda volta nella
storia greca, lo spirito attico riuscì ad eccitare le ten·
denze centripete dell'anima greca contro le forze cen·
trifughe, col porre di fronte al cosmo fisico in cui si
armonizzano le forze di natura - ed era stata questa
la creazione .dello spirito di ricerca ionico - un saldo
ordine di valori umani. E come Solone aveva scoperto
la legge naturale della vita in comune, sociale e poli-
tica, così ora Socrate s'inoltra nell'intimo dell'anima
a scoprire il cosmo morale.
La sua giovinezza coincise col periodo della rapida
ascesa dopo la grande vittoria sui Persiani, dalla quale
uscirono, all'esterno, l'impero di Pericle, all'interno,
l'affermazione piena della democrazia. Le parole di
Pericle nell'epita:fio per i caduti in guerra, secondo le
quali in Atene un autentico merito o talento personale
non si trovavano mai sbarrata la via a venire in luce
per il pubblico bene 28), trovano conferma nella sorte
di Socrate. In sé, né per famiglia o classe sociale,
né per doti esteriori egli non pareva destinato a ra·
dnnarsi intorno i figli dell'aristocrazia avviantisi a una
carriera politica, o a far parte del fior fiore dei kaloka-
gathoi ateniesi. Le prime notizie che di lui si abbiano
ce lo presentano sulla trentina, nella cerchia di Ar-
chelao, scolaro di Anassagora, in compagnia del quale,
nell'isola di Samo, lo trovò il poeta tragico Ione di
Chio, come questi raccontava in un suo diario di viag-
gio 29). Ione, pratico di vita ateniese, amico di Sofocle
e di Cimone, riferisce anche che Archelao era tra i
familiari di Cimone. È probabile che proprio Archelao
abbia introdotto il giovane Socrate nella casa princi-

28) Thuc. Il 37, 1.


29) Diog. Laert. II 23.
CAP. II: SOCRATE [n43] 731

pesca del vincitore dei Persiani, capo del partito no-


biliare fìlospartano 30). Ma, se le sue opinioni politiche
siano state in qualche modo determinate dal contatto
con questo ambiente, non possiam dire. Nel pieno
dell'età, egli fu testimone dell'apogeo della potenza
ateniese e vide l'età classica della poesia e dell'arte
ateniese nel suo splendore. Si trovò anche a frequen-
tare la casa di Pericle e Aspasia, e uomini politici
assai discussi come Alcibiade e Crizia fiuono tra i suoi
scolari.
Lo stato ateniese, in quel periodo di tensione mas-
sima di forze, volte a consolidare l'egemonia sulla
Grecia da poco raggiunta, esigeva grandi ·sacrifici dai
suoi cittadini. Ed anche Socrate si trovò più volte
a servire la patria sul campo, e vi si distinse. Questo lato
della sua vita, la sua esemplare condotta di soldato,
fu messa in molto rilievo nel suo processo allo scopo
di equilibrare l'evidente deficienza dal lato politico 31).
Ché Socrate, grande amico del popolo 3 a), era però
notoriamente un democratico assai mediocre e non
aveva il minimo gusto per tutta quell'attività che i
cittadini ateniesi spendevano con molto zelo nell'as-
semblea popolaze o come giudici nei tribunali 33). L'unico
suo intervento politico, fu, come huleuta e pritano in

30) Plutarco, Cimon, c. 4 (al principio e alla fine) ricorda carmi


di Arch~ao a Cimone, che probabilmente fu per lui quello che
C. Memmio fn per Lucrezio.
31) Àpol. 28e.
32) Sull'amicizia di Socrate per il popolo cfr. Xen•.Mem. I 2, 60.
33) Cfr. le parole di Socrate nell'Apologia platonica 3le: «Non
c'è uomo che possa sopravvivere quando si opponga generosa-
mente a voi o a ogni altra massa popolare e cerchi di impedire
ehe si facciano in città molte ingiustizie e illegalità. No, chi ve-
ramente combatt<e per la giustizia, se vuol sopravvivere sia pure
per poco, bisogna che viva da privato e non faccia politica».
Il pathos di queste parole è tutto platonico ed è spiegabile solo
dopo la morte di Socrate. Ma naturalmente esse valgono a spie-
gare e giustificare la condotta effettiva di Socrate, nella realtà.
732 [n44] LIBRO lJI - ALLA RICERCA DEL DIVINO

carica; in quell'assemblea popolare, nella quale furono


condannati a morte in blocco, senza istruttoria, gli
strateghi vincitori della battaglia delle Arginuse, per
non aver salvato i naufraghi dei vascelli ateniesi, a
causa dello stato del mare. Socrate fu l'unico dei pri-
tani ad opporsi a che la proposta, illegale, fosse messa
in votazione 34). Se anche più tardi questo poté valergli
come un merito patriottico, non si può negare che in
complesso egli fu contrario al principio del prevalere
di una maggioranza, a sua volta dominata dai parla-
tori abili, e che il suo ideale fu, invece, il governo in
mano agli uomini più saggi e più intendenti di affari 35).
È ovvio supporre che questo modo di vedere si sia
format? in lui per la sempre crescente degenerazione
della democrazia ·durante la guerra del Peloponneso.
Per chi come lui era venuto su nello spirito della vit.
toria sui Persiani, e aveva visto compiersi l'ascesa
della patria, il contrasto era troppo stridente per non
dar luogo a dubbi e a critiche di ogni sorta 36). Si capisce
anche come queste opinioni procurassero a Socrate la
simpatia di parecchi giovani concittadini di tendenza
oligarchica, la cui amicizia doveva essergli rimproverata
più tardi, in occasione del processo. La massa, non si
rendeva conto della differenza sostanziale tra l'atteg-
giamento indipendente di Socrate. e quello di ambiziosi
cospiratori come Alcibiade e Crizia e non vedeva che
quell'atteggiamento nasceva da un tessuto spirituale
che trascendeva di molto la pura politica. Comunque
è bene capir chiaramente che, nell'Atene di quel tempo,
anche chi si teneva lontano dal travaglio politico

84) Pl. Àpol. 32a, Xen. Mem. I, I 18.


a&) GoTg. 454e ss., 459c ss. e passim.
81) Cfr. Xen. Mem. III 5, 7 e 14, dove Socrate parla della
6ne dell'antica virtù (<Xpx«l« <ipe:TI]) ateniese. V. anche PL Gorg.
517b ss.
CAP. Il: SOCRATE [n45) 733

attuale, esercitava, proprio con questa astensione, un'at-


tività politica e che i problemi dello stato pesavano
in maniera decisiva, senza eccezione, su ogni uomo,
nell'azione come nel pensiero.
Socrate crebbe in quel tempo in cui si videro per
la prima volta in Atene :filosofi e studi :filosofi.ci. Anche
se non avessimo notizia dei suoi rapporti con Arche-
lao, dovremmo supporre che egli, il contemporaneo di
Euripide e di Pericle, fosse venuto presto in contatto
con la :filosofia della natura di Anassagora e di Dio-
gene di Apollonia. Non c'è ragione di dubitare sulla
notizia che Socrate dà nel Fedone 3 7) sulla propria storia
intellettuale. Essa ha valore storico almeno in questo:
che parla di un attivo interesse di gioventù per le dot-
trine dei fisici. E, se è vero che Socrate, nell'Apologia
platonica 38) si dichiara risolutamente incompetente in
questo campo, egli aveva pur letto, come ogni Ateniese
colto, il libro di Anassagora che, come è detto proprio
in quel luogo, si poteva comprare per una dramma dai
venditori ambulanti, nell'orchestra del teatro 39). Cosi
pure Senofonte riferisce che Socrate, anche in seguito
in casa sua coi suoi giovani amici, soleva percorrere
le opere dei «saggi antichi» cioè dei poeti e dei filo-
sofi per estrarre da essi qualche passo notevole 40).
Sicché non è forse poi così lontana dal vero come si
suol pensare generalmente, la rappresentazione aristo-

37) Pl. Phaedo, 96a-99d.


38 ) Apol. 19c.
39 ) Apol. 26d.
41') Xen. l\Iem. I 6, 14. Quel che siano i « libri degli antichi
saggi», può esser chiarito dalle parole di IV 2, 8 ss., dove con
questa espressione sono designate le opere dei medici, matematici,
fisici e poeti. Da quest'ultimo luogo si potrebbe esser tentati di
concludere che Socrate facesse poco conto di ogni specie di studio
libresco, ma ciò è contraddetto da ./Uem. I 6, 18. Quello poi che
Socrate bia•ima in IV 2, 11, è solo che il lettore tutto preso nella
varietà enciclopedica delle sue lettur1>, trascuri la più importante
di tutte le arti, l'arte politica, che contiene in sé tutto il resto.
734 [n46] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

fanesca che gli fa esporre dottrine fisiche ·di Diogene


sull'aria come elemento primo e sul vortice cosmogo·
nico. Ma fino a che punto egli si curò di far sue queste
dottrine?
Secondo l'esposizione del Fedone egli si era messo
alla lettura di Anassagora con una grande aspettativa 41).
Qualcuno glielo aveva dato facendogli intravvedere
che avrebbe trovato ll quello che andava cercando.
Il che significa che anche precedentemente egli aveva
guardato scetticamente le spiegazioni che della na-
tura davano i fisici. Ma anche Anassagora lo deluse
sebbene il principio dell'opera gli avesse destato qual-
che speranza. Là si parlava, dapprima, della Mente
(votic;) come principio informatore dell'universo, men-
tre in seguito Anassagora non faceva alcun uso di
questo metodo di spiegazione, ma riconduceva tutto,
come gli altri' fisici, a cause materiali. Socrate invece
si era aspettato una spiegazione dei fenomeni e del
loro modo di prodursi fondata sul principio che « cosi
era meglio», giacché gli sembrava caratteristica nel
procedere della natura la ricerca del benefico e del-
1'adatto allo scopo. Nel racconto del Fedone Socrate
giunge, attraverso questa critica della :filosofia della
natura, alla teoria delle idee, la quale però, secondo
la convincente affermazione di Aristotele, non può es-
sere attribuita, storicamente, a Socrate. Ma, senza
dubbio, Platone poté sentirsi in diritto di fare esporre
al suo Socrate la teoria delle idee come cause finali,
proprio in quanto questa teoria era sorta in lui per
diritta via dalla ricerca socratica del Buono (&ya:&6v)
in tutte le cose.
Anche la natura, dunque, volle affrontare Socrate,
con questa su~ domanda, « che cosa è buono». E ciò

u) PI. Phaedo, 97h ss.


CAP. II: SOCRATE [II47] 735

mostra il discorso che gli è attribuito nei Memorabili


di Senofonte riguardo alla struttura del cosmo e alla
sua conformità ad un fine. In questo discorso egli. va
in traccia del Buono e di tendenze finalistiche nella
natura, allo scopo di mostrare l'esistenza nel mondo
di un principio intelligente e costruttore 42). A quel
che sembra, tutta l'esposizione, cui egli si dilunga,
della struttura tecnicamente perfetta degli organi nel
corpo umano, deriva da un libro di filosofia naturale
di Diogene di Apollonia 43). Non c'è davvero ragione,
per questa mancanza di originalità, di dubitare del
valore di testimonianza storica di questo discorso,
nel suo complesso, giacché lo stesso Socrate, con ogni
probabilità, non teneva affatto ad essere originale nelle
particolari considerazioni che veniva usando neJ suo
argomentare, e comunque, se derivazioni vi sono, si
tratta sempre di elementi mirabilmente confacenti al
modo di trattazione socratico. Nel libro di Diogene
egli trovava, conforme all'esigenza che egli afferma
nel Fedone «), l'unico principio di Anassagora appli-
cato al molteplice delle azioni naturali. Il discorso;
però, non fa di Socràte un filosofo naturalista, ma si
limita a mostrare qual era il suo punto ·di vista nel-
l'accostarsi alla cosmologia. Punto di vista che era
stato sempre naturale e ovvio per l'uomo greco, que-
sto di ricercare anche nel cosmo, e di dedurlo da esso,
il principio dell'ordine umano, come più volte già ab-
biamo constatato prima di riscontrarlo di nuovo in
Socrate 45). Cosi questa critica socratica dei filosofi na-
42) Xen. Mem. I 4; IV 3.
43) Mem. I 4, 5 ss. Per il problema delle fonti vedi ora lo stu-
dio penetrante di W. THEILER, Geschichte der teleologischen Na-
turbetrachtung bis auf Aristoteles, Zurigo 1925, che contiene un
apprezzamento critico di precedenti lavori.
44) PI. Phaedo, 98h.
45) La coordinazione, caratteristica del pensiero greco, fra l'or-
dine etico-sociale e l'ordine del cosmo è stata da noi messa in .ri-
736 [n48] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

turalisti non fa altro che mostrare, indirettamente, che


l'attenzione di Socrate, fin da principio, fu rivolta al
problema etico e religioso, senza che ci sia stato nella
sua vita di pensiero un periodo propriamente natura-
listico. La filosofia della natura non dava alcuna ri-
sposta all'interrogativo che egli portava· in sé, dal
quale, per lui, tutto dipendeva. E per questo egli po-
teva metterla da parte. Questa infallibile sicurezza con
la quale, fin da principio, egli si mise in cammino è
il segno della sua grandezza.
Eppure, oltre. ed accanto a questo atteggiamento
negativo rispetto alla filosofia della natura sempre
messo in rilievo da Platone e da Aristotele in poi,
c'è anche qualche altra cosa da osservare, su cui si
sorvola con troppa facilità. ~d è quello che appare fin
dall'argomentazione riferita da Senofonte sulla costru-
zione finalistica dell'universo, cioè che Socrate, al-
l'inverso della più antica filosofia naturalistica, pro-
cede nel trattar della natura, secondo una tendenza
antropocentrica: il suo punto di partenza è l'uomo e
la struttura del corpo umano. E anche il fatto che,
come è sommamente probabile, le considerazioni che
egli fa sue derivino dall'opera di Diogene, è di parti-
colare importanza, perché Diogene non era stato .sol-
tanto u:n filosofo naturalistico, ma insieme un medico
famoso. Perciò in lui, come del resto in qualche altro
dei filosofi naturalistici della generazione più giovane,
- si pensi a Empedocle -,--, la fisiologia dell'uomo si
era fatta una parte tanto grande da non aver riscontro
in alcuno dei sistemi presocratici più antichi di fisica.
Questo nuovo elemento veniva naturalmente a incon-
trarsi con gli interessi di Socrate e con la sua proble-
lievo particolarmente per ognuna delle tappe dello svolgimento
storico, cfr. « Paideia» I, p. 33; p. 108-110; 118; 288; 301 s.;
338 ss.; 465; 552.
CAP. II: SOCRATE [u49] 737

matica. E qui si presenta, nell'atteggiamento di So-


crate rispetto alla « scienza della natura» del suo
tempo, quel lato positivo sopra accennato, su cui
spesso a torto si sorvola. Non si deve dimenticare che
alla « scienza della natura» di quel tempo apparten·
gono non solo la cosmologia e la meteorologia, alle
quali sole si pensa il più delle volte, ma anche l'arte
medica che proprio allora, sia nel campo teorico che
in quello pratico, prende grandissimo impulso, come
sarà chiarito nel terzo volume di quest'opera. Anche
un medico contemporaneo, l'autore del libro Sulla me-
dicina antica (trasmessoci nel corpus ippocrateo ), con-
sidera l'arte medica quale l'unica parte - fino a quel
momento - della scienza naturale che poggi su una
effettiva esperienza ed esatta osservazione. Egli pensa
che i filosofi naturalisti con le loro ipotesi non hanno
nulla da insegnargli e che, semmai, sono loro che avreb·
bero qualcosa da imparare da lui 4 6 ). Tale atteggiamento
antropocentrico è in generale caratteristico del tempo
della tarda poesia tragica e dei Sofisti, ed è legata
con esso, come mostrano Erodoto e Tucidide, questa
medesima tendenza empirica che si rivela nell'emanci-
pazione della medicina dalle ip.otesi cosmologiche dei
filosofi naturalistici.
Nella scienza medica, dunque, si trova il più cal-
zante termine di paragone per il disdegno di Socrate
per le alate speculazioni della cosmologia, con lo stesso
positivo proposito di esaminare i dati di fatto della
vita umana 4 7). Anch'egli, come i medici del suo tempo,
trova nella natura dell'uomo, come nella parte a noi
meglio nota del mondo, il saldo fondamento per la
sua analisi della realtà e la chiave per penetrarla. Come

46) Hipp. De vet. med. cap. 12 e 20.


47 ) Ciò è messo in rilievo da Senofonte, Mem. I l, 12 e da
Aristotele (cfr. supra, n. 21); cfr. Cic. De Rep. I 10, 15-16.
738 [rrSO] UBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

disse Cicerone, Socrate fece scendere la filosofia di


cielo in terra e la introdusse nelle città e nelle case
degli uomini 48 ). Ciò significa, come ora si rivela, non
solo un cambiamento dell'oggetto di studio e uno
spostamento d'interessi, ma anche un più rigoroso
concetto del sapere, semmai un sapere si dia. Quello
che gli antichi fisici avevano chiamato conoscenza era
una visione totale del mondo, vale a dire, agli occhi
di Socrate, una grandiosa fantasmagoria, una vacuità
sublime 49). Se egli mostra qua e là di rendere omaggio
a questa forma di sapienza per lui inaccessibile, questa
non è che ironia 50). Per parte sua egli procede, secondo
l'esatta osservazione di Aristotele, in mod.o assoluta-
mente induttivo 61), un modo che ricorda il procedere
positivo· del medico pratico. Il suo ideale di sapere è
la 't"~V"fl, un ideale che l'arte terapeutica incarna in
maniera esemplare, anche in quella subordinazione del
sapere a uno scopo pratico che le è propria 52). Del
resto, non essendovi ancora una scienza« esatta» della
natura - la filosofia naturale di quel tempo era la
quintessenza dell'inesatto - , non essendovi neppure un
empirismo filosofico, ogni seria riflessione sull'esperienza
come fondamento di una esatta conoscenza del reale,
rimase sempre connessa, nell'antichità, con la medicina,
la quale, per ·questo, venne a prendere nel complesso
· della vita intellettuale una posizione e un ufficio più
alti e più propriamente :filosofici. E fu essa che trasmise
questo complesso di concetti alla filosofia moderna:
ché il moderno empirismo filosofico è figlio della medicina
greca, non della filosofi.a greca.
È di somma importanza per comprendere la posi-
U) Cic. Tusc. Disp. V 4, 10.
' 9)PL Apol. 18b, 23d.
50) PL Apol. 19c.
51) Cfr. supra n. 21.
..) Xen. Mem. IV 2, 11. PL Gorg. ·465a e frequentemente.
CAP. II: SOCRATE [n51] 739

zione di Socrate nella filosofia antica e il suo atteggia-


mento antropocentrico, che non si perda mai di vista
il suo rapporto con quella grande forza intellettuale
che fu ai suoi giorni la medicina. I suoi richiami a
quest'arte, gli esempi che egli vi cerca, sono straordina-
riamente frequenti, e non accidentali, ma in qualche
modo connessi con la struttura del suo pensiero, con
la consapevolezza che guida tutto il suo operare, con
l'ethos che lo pervade. Egli è veramente un medico.
Egli lo è tanto che, secondo Senofonte, si preoccupava
della salute fisica dei suoi amici non meno che del
loro benessere spirituale 53). Ma prima di tutto è
un medico di anime. La sua dimostrazione che la
strutturà dell'universo è appropriata a un fine fa ca-
pire chiaramente, per la maniera in cui Socrate con-
sidera a questo punto la natura fisica dell'uomo, che
anche la tendenza teleologica si connette strettamente
in lui con l'::Ltteggiamento medico-empirico. Essa di-
venta veramente comprensibile se la si. mette a fronte
di quella concezione teleologica della natura e del-
l'uomo che si afferma consapevolmente per la prima
volta nella medicina di quel tempo e, fissandosi da
allora in poi sempre più precisamente, trova la sua
finale espressione filosofica nella concezione vitalistica
dell'universo propria di Aristotele. Certo, l'assidua ri-
cerca di Socrate sull'essenza del Buono si sviluppa
da nn modo di porre il problema che è assolutamente
suo proprio, non imparato da alcuna scuola: anzi a
considerar le cose con gli occhi di un filosofo natura-
lista professionale del tempo, si dovrebbe dire: questo
è il problema di un dilettante al quale la scepsi eroica
del puro scienziato non ha risposta da dare. Ma questo
dilettante si rivela un creatore, nel problema che pone,

63) Mem. I 2, 4; IV 7, 9.
740 [rr52] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

e non è per noi senza importanza constatare, dalla me-


dicina di «Ippocrate» e di Diogene, che, con quel suo
problema, egli venne a dare una formulazione defini-
tiva al più intenso sforzo di ricerca di tutta la sua epoca.
Non è noto a che età Socrate cominciò a esercitare,
nella sua città, quell'attività che i dialoghi dei suoi
scolari ci mettono sotto gli occhi. Platone fa risa-
lire la data :fittizia di alcuni suoi dialoghi fino ai
primi tempi della guerra peloponnesiaca; così nel
Carmide, p. es., dove Socrate appare appena tornato
dalla dura campagna di Potidea. In quel momento
egli aveva quasi quarant'anni. Ma gl'inizi della sua
attività è probabile che risalgano ancora più ad-
dietro. Platone ritenne così importante il vivo sfondo
delle .sue conversazioni che lo ritrasse più volte, nella
più dilettosa delle pi!!~~ L'ambiente di Socrate non
è l'astrattezza senza teni.po d'un'aula di scuola, ma il
vivo tumulto della palestra ateniese, del ginnasio, dove
egli :finl col diventare~acc-;~o al maestro e al medico,
un personaggio immancabile, come loro 54). Ciò non
vuol dire naturalmente che i partecipanti alle sùe
conversazioni, presto famose in Atene, vi intervenis-
sero in quella nudità spartana che era normale negli
esercizi atletici, anche se ciò poté avvenire frequen-
temente. Ma, comunque il ginnasio non è, per quella
drammatica lotta di pensiero in cui si spese la vita
di Socrate, un qttalunque fondale, neutro o generico.
C'è veramente un'intima affinità tra il conversare so-
cratico e lo spogliarsi dinanzi al medico o al maestro
per essere esaminati prima di entrar nell'arena, in
gara; e il paragone è messo da Platone in bocca di
Socrate 55). Nel ginnasio l'ateniese di quel tempo

64) Cfr. anche Xen. Mem. \I 1, 10, sul genere ,di vita giorna-
liero di Socrate. '
66) Charm. 154d-e, Gorg. 523e, Theaet. 169h.
CAP. II: SOCRATE [n53] 741

era a casa sua più che tra le quattro mura di una


piccola abitazione, che gli serviva solo per dormire
e per mangiare. Là, nella chiara luce del cielo greco,
s'incontravano ogni giorno vecchi e giovani per al-
lenarsi negli esercizi fisici"). I momenti vuoti delle
pause erano riempiti dalla conversazione. E, più o
meno alto che possa essere stato il livello medio
di questa, è ad ogni modo notevole che le più
famose scuole filosofiche del mondo, l'Accademia
e il Liceo, traggano il nome da rinomate palestre
ateniesi. Chiunque in Atene aveva qualcosa da dire
o da. domandare che fosse di interesse generale
e che non fosse affare da assemblea o da tribunale,
andava al ginnasio, in cerca di amici o conoscenti.
Ed era una costante attrattiva l'andare immaginan-
dosi chi si sarebbe potuto incontrare. Né mancava la
possibilità di variare, dato il buon numero di queste
palestre, di ogni grandezza ed importanza, private e
pubbliche che esistevano in città 57). Un frequentatore
abituale come Socrate, che negli uomini non altr.o
cercava che la loro umanità, conosceva ogni singolo,
sicché non appariva faccia nuova, specialmente tra i
giovani, senza che egli se ne incv.riosisse e ne doman-
dasse. Nessuno, nella facoltà di osservatore acuto della
gioventù, stava a pari di lui, leccezionale conoscitore
di uomini che, a detta di tutti, col suo interrogare
penetrante, come con infallibile pietra di paragone,
non si lasciava sfuggire alcuna attitudine, alcuna forza
latente, sicché i cittadini più in vista richiedevano il
suo parere per l'educazione dei figli.

66) Sul tempo da dedicarsi giornalmente agli esercizi fisici


cfr. la letteratura medica sulla dieta di cui si parla in« Paideia»
III 72-76.
67 ) E. N. GARDINER, Greek Athletic Sports a.nd Festiva.ls, Lon-
dra 1910, p. 469 ss.
742 [n54] LIBRO lli - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Solo i simposii 58 ) in virtù di un'antica tradizione, si


potevano in qualche modo paragonare alle palestre,
per importanza nella vita intellettuale, e, per questo,
Platone e Senofonte scelgono queste due situazioni
come scena dei dialoghi di Socrate., Ogni altra oc-
casione, di cui essi fanno cenno, era più o meno ac-
cidentale: cosi le conversazioni intelligenti del salotto
di Aspasia, così gli incontri nelle botteghe del mercato,
dove si usava intrattenersi, o la conferenza di un
sofista famoso in casa di qualche ricco mecenate. Ma
le palestre, come luogo d'incontro regolare, rima-
nevano più importanti di ogni altro. Accanto al
fine che era loro proprio, esse, con l'intensità dei
contatti spirituali di cui davano l'occasione, favo-
rivano nei frequentatori lo sviluppo di certe loro
caratteristiche, che erano il terreno più adatto per la
semina di ogni nuova idea o aspirazione. Luoghi di
agio e di distensione, i ginnasii non erano fatti perché
vi attecchissero temi o propositi di attività speciali, e
nemmeno gli affari trovavano in essi il posto adatto.
Tanto più perciò si aprivano a problemi di largo
respiro umano. Né questa favorevole condizione si li-
mitava al contenuto delle conversazioni: anche la po-
tenza formale dell'intelletto poteva qui far le sue
prove di sottigliezza e di elasticità sorretta dall'inte-
resse di una cerchia di uditori tesa alla critica. Crebbe
così una sorta di ginnastica del pensiero che, non meno
di quella fisica, fu coltivata e ammirata e che, al pari
di quella, fu presto ammessa come una nuova forma
di paideia. La « dia.lettica » socratica era qualcosa di
assolutamente singolare, era la pianta di un solo ter-
reno, l'estremo opposto dei metodi insegnativi dei con-

68) Sul simposio come centro di vita intellettuale c.fr. infra.,


pp. 303-305.
CAP. Il: SOCRATE [1155] 743

temporanei Sofisti. Questi sono maestri ambulanti stra-


nieri, recinti dal nimbo inaccessibile della fama, cir-
condati da lina stretta cerchia di discepoli. Essi inse-
gnano per mercede, professando discipline e arti spe-
ciali, e si rivolgono a un pubblico stretto, per lo più
figli di ricchi possidenti desiderosi di cultura. La sede
della loro cattedra, da cui trionfano in lunghe dicerie
« a solo », è la casa di un privato o una improvvisata
sala di conferenze. Socrate, invece, è un semplice cit-
tadino che tutti conoscono. La sua efficacia di maestro
non è immediatamente percepibile; con lui si lega
discorso su qualunque argomento che si offra casual-
mente, un discorso libero e sciolto e, apparentemente,
senza tesi. A sentirlo, egli non insegna neppure, e non
ha scolari, ma solo amici e compagni. La gioventù,
affascinata dalla tempra di lama tagliente, irresistibile,
del suo ingegno, gode da lui uno spettacolo sempre
nuovo, un dramma del più genuino stile attico, e lo
ascolta rapita, ne festeggia i successi, e comincia per-
fino a cercare di imitarlo, mettendo a prova la gente,
allo stesso suo ~odo, nella cerchia familiare o tra i
conoscenti. Il meglio, intellettualmente, della gioventù
ateniese si affolla intorno a Socrate, e nessuno si li-
bera più, una volta avvicinatolo, dalla forza di attra-
zione del suo spirito. Anche chi pensa di potersi chiu-
dere, di fronte a lui, in un contegno duro o altezzoso,
anche chi si sente urtato dalla forma pedantesca del
suo interrogare, dalla voluta umiltà dei suoi esempi,
si trova presto giù, costretto a discendere dall'altezza
del suo piedistallo immaginario.
,Non è facile ridurre a chiarezza concettuale, a un
unico elemento essenziale, questa complessa figura.
Platone, col suo indugiare amoroso a ritrarne accu- .
ratamente tutti i lineamenti, sembra voler dire che
essa non può, infine, essere definita, ma solo compresa
744 (II56] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

per immediata esperienza. D'altro lato, si capisce che


le storie della filosofia professionali vogliano sfrondare
tutto questo dal ritratto platonico di Socrate, come
una mera aggiunta poetica, come qualcosa che non
raggiunga quel livello di puro pensiero sul quale do-
vrebbe rimanere e muoversi un filosofo. Non si tratta
di altro, sembra, che di un modo del tutto indiretto
di caratterizzare la potenza intellettuale di Socrate,
col sussidio della rappresentazione drammatica del suo
potere, più che intellettuale, su uomini vivi. Ma, in
realtà, tolto questo sentire socratico, questo suo darsi
pena .del bene del singolo uomo col quale egli ha che
fare di volta in volta, non si può più nemmeno esporre
c h e c o s a dica Socrate. Tutto quello che la filosofia
può considerare non essenziale, nel senso delle sue de-
finizioni e concetti di scuola, Platone lo afferma, per
Socrate, essenziale. E ciò sveglia in noi, il sospetto,
di trovarci sempre in pericolo di travedere Socrate,
attraverso quel mezzo che n o i chiamiamo filosofia.
È vero, Socrate stesso definisce la sua« attività» (1tp«y-
µ.cx, caratteristica parola), come « filosofia» e « filoso-
fare». Egli afferma, nell'Apologia platonica, dinanzi ai
giudici, che egli non cesserà mai di esercitarla, finché
gli rimanga vita e respiro 59). Ma a noi non è lecito
cercare in questa parola quel senso che in essa si è
formato nel corso di un lungo sviluppo: il senso, cioè,
di metodo dèl pensiero concettuale~ .o di edificio dottri-
nale consistente di proposizioni teoretiche e del tutto
indipendente dalla persona che lo ha creato. Contro
questa indipendenza della dottrina dal maestro si leva
ad una voce tutta la letteratura socratica.
Che cos'è dunque questa « filosofia» di cui il mo-

") Àpol. 29d.


CAP. II: SOCRATE [rr57] 745

dello, per Platone, è Socrate e che questi dichiara di


professare nella sua difesa ? Platone ne ha spiegato
la natura in parecchi dialoghi: Platone, è vero, si dà
cura sempre più di mettere in primo piano i resultati
delle ricerche che Socrate conduce con i suoi interlo-
cutori; ma, pur così facendo, egli ha certamente la
convinzione di rimaner sempre fedele, nella sua esposi-
zione, all'essenza dello spirito socratico. Questo spi-
rito doveva, per lui, in tutte queste ricerche, dimostrare
sempre di nuovo la propria fecondità. Pure, poiché
per noi è difficile ·determinare il punto in cui il So-
crate di Platone è ormai più Platone che Socrate, si
deve cercare il punto di partenza nelle più precise e
e semplici - e di tali ce ne sono - tra le formula-
zioni platoniche. Nell'Apologia, ancor Sotto il colpo
della mostruosa ingiustizia perpetrata con la condanna
di Socrate, e nella speranza di guadagnare a Socrate
altri seguaci, Platone espose la sostanza e il senso del-
!'attività di lui, in forma breve e semplicissima. E, se
anche l'arte sapiente della struttura vieta di ritenere
quest'opera come una riproduzione della difesa reale,
improvvisata da Socrate dinanzi ai giudici 6 8), quello
che in essa è detto di lui è mirabilmente rispondente
alla sua vita reale. Sgombrato il ·campo dalla carica-
tura dei comici e dalle deformazioni dell'opinione pub-
blica, Socrate prosegue con quella commovente pro-
fessione di fedeltà alla « :filosofi.a» che Platone concepi
in cosciente parallelismo ad un famoso passo euripi-
deo, la professione di fedeltà del poeta al servizio delle

00) Tra quelli che vedono nell' Àpok>gia una meditata opera
d'arte merita speciale menzione ERWIN WoLF, Platos Apologie
(«NeuePhilologische Untersuchungen» hrsg. von W.Jaeger, vol. VI),
che con una fine analisi della forma artistica dell'opera, dimostra
efficacemente che essa è un geniale ritratto di Socrate, che Pla-
tone · vuol presentare come un autoritratto.
746 [rr58] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVlNO

Muse 61), Ma la professione di Socrate è pronunziata


in cospetto della morte imminente. La virtù che egli
serve non è solo datrice di bellezza alla vita e lenitrice
del dolore; ma è virtù di dominio sul mondo. Se-
gue poi, immediatamente, a questa affermazione « io
non cesserò mai di filosofare», un esempio tipico
del modo socratico di parlare e di insegnare. Per ca-
pirne il contenuto, anche noi, come Platone c'insegna
a fare in questo e in molti altri luoghi, dobbiamo par-
tire dalla forma.
Platone riconduce, qui, la maniera propriamente so-
cratica a due forme principali: l'esortazione (protrep-
ticòs wgos) e la confutazione (élenchos); ambedue nella
forma dell'interrogazione. Questa forma interrogativa
si riallaccia alla più antica_ forma della parenesi, che
ci è dato rintracciare attraverso la tragedia fino all'epos.
L'avvicendarsi di questi due aspetti del discorso so-
cratico s'incontra ancora una volta nel colloquio con
cui si apre il Protagora platonico 62). In questo dialogo
che pone Socrate di fronte al grande sofista, tutte le
forme ormai :fisse nelle quali si attuava il metodo di-
dattico dei Sofisti - mito, dimostrazione, interpreta-
.zione di poeti, procedimento a domanda e risposta -
si spiegano· dinanzi a noi, in tutta la loro varietà, come
in parata. Ma anclie le forme proprie di Socrate sono
ritratte con altrettanto senso di umorismo e con pari
evidenza in tutta la loro bizzarra. pedanteria, in tutta

61) Eur. Her. 673 ss.:


oÙ 7ttx:UO"O[LOCL -rècç )(.&pL-rocç
MouaocL<; auyxoc-rocµe:Lyvuç,
&lìta-rocv aul:uy[ocv.
Cfr. PI. Àpol. 29d: ec.>a7te:p av €µ=éc.> xocl ot6ç n ~. o?i µ1]
7tocuac.>µocL qn)..Òaocpwv.
62 ) Nel Protagora 3llh precede un dialogo confutatorio di
Socrate col giòvane Ippocrate a cui poi si ·attacca il dialogo pro·
trettico, 313a ss.
CAP. II: SOCRATE [u59] 747

la loro ironica ruvidezza. In tutti e due i componi-


. menti, Apologia e Protagora; Platone mostra come
quelle due forme principali de~a maniera socratica,
la protrettica e la confutatoria, siano essenzialmente
collegate tra loro, cQsÌ da risultare, in realtà, due sem-
plici stadii dello stesso processo spirituale. E basti
qui l'esempio dell'Apologia dove Socrate descrive cosi
la sua maniera 63) : « Io non cesserò mai di filosofare e
di esortarvi e di provar le mie ragioni a chiunque di
voi io incontri, parlando, al mio solito modo, così:
• carissimo, tu che sei ateniese, di quella città che è
famosissima per saggezza e potenza, non ti vergogni
di darti cura delle ricchezze, e di averne il più che po-
trai, e così della rinomanza e dell'onore, mentre poi
della saggezza, della verità, e dell'anima insomma,
tu non ti curi affatto - che essa sia più buona che è
possibile - e non ci pensi nemmeno ? ' E se uno con-
testerà il mio dire e dirà che se ne cura, non sarà mai
che io lo lasci stare senz'altro e me ne vada per i fatti
miei, ma mi metterò a interrogarlci e a esaminarlo,
e a discutere con lui, e se mi apparirà che egli non pos-
siede la virtù, ma soltanto dice di averla, gli farò rim-
provero di far pochissimo conto delle cose che più
valgono e di dar più peso a quelle che valgono meno.
E questo lo farò con chiunque io incontri giovane o vec-
chio, forestiero o cittadino, ma più certo, con voi cit-
tadini,. che mi siete più vicini di sangue. Ché, questo,
me lo comanda il Dio, sappiatelo bene, e, anzi, io credo
che non ci sia mai stato per voi, in questa città, un
· beneficio più grande di questa mia opera in servizio
del Dio: ché non per altro io vado attorno se non per
persuadere voi tutti, giovani e vecchi, a non curarvi
prima di tutto e con tanta premura dei vostri corpi

83) Àpol. 29d ss.


748 [u60] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

e delle vostre ricchezze, ma prima e più dell'anima,


che essa sia il meglio possibile».
Questo « filosofare» di cui Socrate, qui, fa profes-
sione, non è. dunque, un pensare puramente teoretico,
ma si trova invece sullo stesso piano dell'esortazione
morale e dell'educazione, ed in servizio di queste atti-
vità è posto anche il metodo socratico di esaminare e
confutare, come ogni sapere di pura apparenza, così
ogni virtù (areté) posticcia. Questo modo di esaminare
è solo una parte dell'intero processo, come Socrate lo
concepisce, anche se esso appare, di solito, come l'aspetto
veramente originale della sua opera. Pertanto, prima
di addentrarci a cogliere l'essenza di questo «esame
degli uomini» per via dialettica, che si suole conside-
rare il centro della filosofia socratica come quello che
contiene l'elemento più fortemente teoretico, si deve
guardare ancora un po' più da vicino la parte esor-
tatoria del discorso socratico che apre la via al proce-
dimento dialettico. Il paragone tra il modo di vita
dell'uomo d'affari tutto teso alla. caccia del denaro
e dei beni materiali, e le più alte aspirazioni di Socrate,
si fonda su questo pensiero: l'uomo suol prendersi la
massima cura e preoccupazione per quei beni che stima
di più. Ora Socrate vuole che al posto della preoccupa-
zione del guadagno stia nell'uomo la cura dell'anima
(~uz1ji; .&e:poc:7tdoc:) •. Questo il concetto che apre il di-
scorso di Socrate e che ritorna alla fine 64). Ma, nell'in-
terno· di esso, non si trova nulla con cui si voglia dimo-
strare il più alto pregio dell'anima rispetto ai beni
esteriori o del corpo: un tal pregio è presupposto
come evidente, anche se gli uomini, nel loro pratico
comportamento, mostrano di darsene cosi poco pen-
siero. Per l'uomo moderno, affermazioni del genere non

") Cfr. Apol. 29d e 30b.


CAP. Il: SOCRATE [n61] 749

hanno nulla di singolare, almeno in teoria; tengono


anzi, piuttosto, del luogo comune. Ma era, tutto ciò,
così ovvio per i Greci come per noi, eredi di una tra-
dizione cristiana bimillenaria ? Anche nel Protagora,
nel discorso introduttivo col giovinetto Ippocrate, l'esor-
tazione di Socrate parte dalla considerazione dell'anima
e del pericolo in cui essa si trova 65). Il motivo del peri-
colo in un contesto di questo genere è tipico di Socrate
e saldamente connesso col richiamo a curarsi dell'anima.
Egli parla come il medico, ma il suo paziente non è
l'uomo fisico, bensì l'anima dell'uomo. Sono straordi-
nariamente numerosi, negli scritti dei Socratici, i luoghi
in cui si parla dell'assistenza e della cura dell'anima
come della più alta esigenza umana. Eccoci di fronte,
con c10, al punto essenziale di queJla consapevolezza
che Socrate ebbe del suo compito e della sua missione:
missione educatrice, attuar la quale è per lui servizio
di Dio 66). E proprio in quanto essa è cura di anime,
essa ha questo carattere religioso: ché l'anima è quel
eh.e di divino è nell'uomo. Che cosa poi sia «cura del-
l'anima» 67), Socrate lo determina più da vicino, caratte-
rizzandola come conoscenza dei valori e della verità,

85) Prot. 313a.


86 ) Il concetto di « servizio di Dio» affiora già prima nella
letteratura greca e acquista poi in Platone l'impronta particolare
che qui si accenna. Socrate dice, Apol. 30b, 'ÌJ ȵ.'ÌJ 't'éi> &eéi>
U7:'"1Jpe:cr(o:. La parola U'ltljpe:crlo: è sinonimo di &e:po:r.do:.
&e:po:r.e:Òe:Lv .&e:ouç vale deos colere, ed ha sempre senso cultuale.
L'attività di Socrate ha per lui il valore di una forma di culto.
87) Cfr. n. 64. L'espressione« cura dell'anima» ha per noi un
senso specificamente cristiano, perché l'idea da essa espressa è
divenuta parte della religione cristiana. Ma questa stessa accet-
tazione dell'espressione da parte del cristianesimo è dovuta al
fatto che l'atteggiamento cristiano coincide con quello socratico
nel concepire la paideia come il vero servizio di Dio e la cura
dell'anima come la vera paideia. Il cristianesimo, nel formulare
questa concezione, ha subito la diretta infl.uenza della disciplina
socratica, così come Platone la presenta.
750 [1162] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Phronesis e Aletheia 68). In questa concezione l'anima


è staccata dal corpo con lo stesso taglio netto che la
divide dai beni esteriori, ed è cosi già fondata, con que-
sta separazione di anima e di corpo, la gerarchia socra-
tica dei valori e insieme una teoria dei beni che pone
i beni dell'a:r,rima al gradino più alto, al secondo quelli
del corpo e al più basso i beni esteriori, come ricchezza
e potere.
C'è un grandissimo divario tra questa scala di va-
lori formulata con tanta indipendenza di pensiero da
Socrate e quella dominante e popolare che aveva tro-
vato espressione nel bel canto conviviale della Grecia
più antica 69) :

La salute è il primo bene per l'uomo mortale,


il secondo è essere bello e prestante,
il terzo è una ricchezza senza colpa
e il quarto è fiorir di giovinezza, tra gli amici.

Ed ecco ora qualcosa di nuovo che viene ad aggiun-


gersi a questa lista, portatovi dal pensiero di Socrate:
ed è il mondo interiore. L'areté della quale egli pa:i;la,
è un valore proprio dell'anima. Ma, che cos'è« l'anima»
o, con la parola greca e socratica, che cos'è« psyche » ?
Si consenta, per il momento, di porre questo problema
solo in un senso puramente filologico. Quello che
colpisce è che quando Socrate, in Platone come
negli altri Socratici, pronuncia questa parola « anima»
vi pone sempre come un fortissimo accento e sembra
avvolgerla in un tono appassionato e urgente, quasi di
evocazione. Labbro greco non aveva mai, prima di
lui, pronunziato così questa parola. Si ha il sentore
di qualcosa che ci è noto per altra via: e il vero è che,

6") Apol. 29e.


69) Scol. Anon. 7 DiehL
CAP. Il: SOCRATE [n63] 751

qui per la prima volta nel mondo della civiltà occi-


dentale, ci si presenta quello che noi ancora oggi tal-
volta chiamiamo con la stessa parola, anche se gli
psicologi moderni non associano ad essa la nozione di
sostanza reale. La parola « anima», per noi, in grazia
delle correnti. spirituali per cui è passata nella storia,
suona sempre con un accento etico o religioso; come
altre parole: « servizio di Dio» e « cura d' anime» essa
suona cristiana. Ma questo alto significato, essa lo ha
preso per la prima volta nella predicazione protret-
tica di Socrate. E, si badi, noi prescindiamo qui dalla
questione, quanto il concetto socratico di anima abbia
influito, immediatamente o per il tramite della più
tarda :6.losofia, sul cristianesimo nelle sue varie fasi,
o fino a che punto esso coincida col concetto cristiano:
quello che prima di tutto c'importa è di segnare la svolta
capitale che il concetto socratico di anima rappre-
senta in seno allo svolgimento spirituale greco in sé
considerato.
Rivolgiamoci ora a un'opera classica; al capolavoro
cÌi Erwin Rohde, « Psyche ». Ne ricaveremo l'impres-
sione che Socrate, in questo svolgimento spirituale,
non abbia alcuna importanza ? significato. Il Rohde
lo passa del tutto sotto silenzio 70). Ciò è, da una
parte, dovuto alla prevenzione che il Rohde, fin dalla
giovinezza aveva, in comune con Nietzsche, « contro
Socrate, il « razionalista», dall'altra, e ancor più, era
d'ostacolo al Rohde l'impostazione stessa del suo libro;
giacché egli, in questo ancora orientato involontaria-
mente in· senso cristiano, pone il culto delle anime e
la fede nell'immortalità al centro di quella sua vasta

70) ERWIN RoBDE in Psyche, II P· 263 (78 e 88 ed.), unico luogo


in cui nomina Socrate, non altro sa dire di lui se non che egli
non credeva nell'immortalità dell'anima.
752 [Il 64] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

storia del concetto di anima che libera si muove attra·


verso ogni altezza di pensiero. Che Socrate non abbia
contribuito in modo essenziale né all'una né all'altra
di quelle due concezioni, è cosa che si può senz'altro
concedere. Ma, nel constatare ciò, avvenne al Rohde
un fatto singolare, cioè di non vedere dove e quando
e per opera di chi la parola « anima » « psyché » venne
a configurarsi in quell'aspetto che le permise di signi-
ficare per sintesi, per gli uomini della civiltà occiden·
tale, tutti i ~alori intellettuali ed etici della persona·
lità. Ora, questo avvenne nei discorsi protrettici di
Socrate educatore, ed è cosa, questa, che basta enun·
ciare per metterla fuori discussione. Già i dotti della
scuola scozzese avevano posto in rilievo questo punto,
rimasti immuni, quasi del tutto, nelle loro osserva-
zioni, dall'influenza del. Rohde. Il Burnet, in un suo
bel saggio, ha seguito lo svolgimento del concetto di
anima attraverso la storia dello spirito greco, ed ha
mostrato come né l'eidolon omerico-epico, l'ombra del-
l'Ade, né l'anima aerea della filosofia ionica, né l'anima·
demone dell'orfismo, né la Psyche della tragedia attica,
bastano a spiegare il senso nuovo che Socrate associò a
quella parola 71 ). Io stesso, in passato, partendo dal-
l'analisi della caratteristica forma del discorso socratico,
al modo che anche qui ho seguito, ero giunto a un re·
sultato identico. Una forma come quella del discorso
esortatorio di Socrate non poteva uscire se non da
quel pathos e da quel senso dei valori che è intimo
alla parola anima, come Socrate la usa. Se noi ri-
leviamo che i suoi discorsi protrettici sono la forma

71 ) J. BUBNET, The Socratic Doctrine of the Soul in «Procee-

dings of the British Academy» 1915-1916, p. 233 ss. C'è appena


bisogno di dire che io non mi accordo tanto col Burnet nel desi-
gnare il pensiero socratico sull'anima come «dottrina», quanto
piuttosto nel rilievo che egli dà, nel suo ritratto di Socrate, al·
l'importanza del problema dell'anima.
CAP. TI: SOCRATE [n65] 753

germinale della diatriba dei filosofi popolari del-


1'età ellenistica, e che questa, per parte sua, contribui
a far nascere la« predica» cristiana 72), non si tratta sol-
tanto di indicare un passaggio e .una continuità nella
forma letteraria esteriore. In questo senso ha già molto
lavorato la filologia trattando delle relazioni tra queste
forme e seguendo i singoli motivi e temi del discorso
esortatorio attraverso l'intero svolgimento storico. Si
tratta, molto più, di affermare che a base di tutte e
tre le fasi del discorso .esortatorio sta una fede: che
cosa giova all'uomo guadagnare tutto il mondo, se
poi perde l'anima sua? Giustamente Adolfo Harnack,
nella sua «Essenza del Cristianesimo ))' indicò come uno
dei pilastri fondamentali della religione di Gesù, que-
sta fede nell'infinito valore dell'anima individuale 73).
Ma essa era stata già fondamento della « filosofia»
di Socrate e del suo sforzo educativo. Socrate predica
e converte. Egli viene a « salvare la vita 74) ».

Siamo giunti a un punto in cui è necessario soffer..


marci, in questo nostro tentativo di rilevare, più sem-
plici e chiari che sia possibile, gli elementi fondamentali
della coscienza socratica, giacché. essi esigono da parte
nostra una valutazione e una presa di posizione, per

72) L'origine della forma del discorso esortatorio o diatriba


risale natnralmente all'età primitiva. Ma la forma educativa e
morale della predica, che domina, accanto alla forma dogmatica
e a quella esegetica, nell'omiletica cristiana, ebbe la sua specifica
impronta letteraria dalla socratica, che a sua volta risale all'in-
segnamento· protrettico orale di Socrate.
73) Wesen des Christentums, Dritte V orlesung, p. 33.
74) Cfr. Prot. 356d, 356e, 357a. Il luogo natnralmente è da
intendere come una parodia della salvezza della vita (~(ou a<»·
't"l]pl°') nel vero senso socratico, la quale consiste nella scelta
han fatta (°'tpEaLç) del bene. Ancora nelle Leggi X 909a Pla-
tone parla con lo stesso tono socratico di « salvezza dell'.anima ».
Ma il mezzo che egli raccomanda a questo fine (una vera e propria
_, inquisizione contro gli atei) è tutto meno che socratico.
754 [Il66] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

l'importanza, ancora attuale e diretta, che essi hanno


sulla nostra stessa vita. Fu, dunque, la Socratica un
presagio greco della primavera cristiana? O, è vero
che con Socrate uno spirito straniero, orientale, in-
fluisce nello sviluppo del mondo greco, uno spirito
che, tramite la grande forza educatrice della filosofia
greca, produce infine effetti di proporzioni mondiali
e spinge all'unioue dell'occidente con l'oriente? Si
potrebbe, sembra, in relazione a ciò, richiamarci al
movimento orfico nella religione greca, di cui si possono
in qualche misura seguire le tracce a partire dal VI se-
colo. L'orfismo separa l'anima dal corpo e ritiene che
essa abiti, come un demone decaduto, nella prigione
della carne, per ritornare poi, dopo la morte di que-
sta, e attraverso un lungo errare di una in un'altra
form.a corporale e per nature diverse, alla 8iua patria
divina. Ma - per non parlare dell'oscurità che avvolge
le origini di questa religione che molti considerano
orientale o « mediterranea» - sono assenti dal con-
cetto socratico dell'anima tutti questi elementi esca-
tologici e demonici. Fu Platone, più tardi, che abbellì
di essi la sua mitica rappresentazione della Psiche
socratica e del suo destino. Si è, certo, tentato di at-
tribuire a Socrate. la teoria dell'immortalità del Fedone
o, perfino, la dottrina della preesistenza del Menone 75),
ma queste due concezioni, a vicenda integrantisi, sono
evidentemente di origine meramente platonica. La po-
sizione genuina di Socrate di fronte al problema della
sopravvivenza dell'anima fu, con ogni probabilità,
quella dell'Apologia, dove, in cospetto della morte,
egli lascia indeciso quale possa esserne la sorte finale 76).
Ciò conviene· alla sua tempra intellettuale, critica, po-

76) J. BUR."IET, Greek Philosophy, p. 156. A. E. TAYLOB. So·


crates, p. 138.
76) Apol. 40c-4lc.
CAP. II: SOCRATE [Il 67] 755

sitiva, aliena dal dogmatismo, meglio assai della dimo-


strazione dell'immortalità nel Fedone 77); sebbene sia da
pensare, d'altro canto, che egli, così alto estimatore del
l'anima, si sia posto questo problema e vi abbia riflet-
tuto; pur senza trovarvi risposta. In ogni modo, il pro-
blema non fu per lui d'importanza decisiva. Per le stesse
ragioni manca in lui ogni asserzione sul modo di realtà
dell'anima: sostanza, come per Platone, essa non è,
per lui; ché egli non sa decidere se si possa separarla
dal corpo o no. Il servirla è servire Dio, perché essa
è intelletto pensante e ragione morale - i più alti
valori che siano al mondo ~ non già perché essa sia
un ospite demonico gravato di colpa e caduto dalle
lontananze del cielo.
Non si sfugge dunque a questa conclusione: tutti
gli elementi che nella predicazione socratica ci sorpren-
dono con una risonanza cristiana, sono di origine elle-
nica schietta e, in seno al mondo greco, vengono dalla
filosofia. È questo un resultato evidente che solo una
visione totalmente erronea della filosofia greca può
rifiutare di. riconoscere. Il più alto grado di sviluppo
religioso lo spirito greco lo raggiunse non già nei culti
degli dei, ma principalmente nella poesia e nella filoso·
:fra, anche se proprio i culti si sogliono considerare
per lo più come il contenuto principale della storia
della religione greca. Certo, la filosofia è uno stadio
della coscienza relativamente tardo e ci fu, prima,

77 ) Di particolare importanza per la questione se Socrate ahbia


o no professato l'opinione dell'immortalità dell'anima è il fatto
che nell'esposizione platonica del Fedone (che il Burnet e il Tay-
lor prendono sul serio come fonte storica) la preesistenza del-
l'anima e l'immortalità sono dedotte dalla teoria delle idee. Pla-
tone afferma in quel luogo che teoria delle idee e immortalità
o stanno insieme o insieme cadono (Phaedo, 76e). Quindi, finché
si terrà fermo, dietro Aristotele, che la teoria delle idee è tutta
platonica, la stessa cosa si dovrà pensare anche della dottrina
dell'immortalità del Fedone.
756 [II 68] LIBRO III - ALLA RICERCA DÈL DIVINO

quello del mito; ma per ehi ha imparato a vedere di


quali fili s'intessa la vita dello spirito non può esservi
dubbio che, anche con Socrate, la filosofia greca non
rinnega la legge storico-organica della sua formazione.
Essa è soltanto l'espressione fattasi consapevole, del-
l'intima fondamentale struttura dell'uomo greco e come
tale è dato seguirla nei suoi rappresentanti più alti.
Certo la religione dionisiaca e orfica dei Greci fornisce
qualche elemento preparatorio e presenta certe ana·
logie; ma ciò non è da spiegare ammettendo che ra·
gioni o immagini socratiche derivino da quelle reli-
gioni iniziatiche che si sogliono, secondo i gusti, o bol-
lare come « non greche» o esaltare come « orientali».
Sarebbe stato senza senso per Socrate, l'uomo per
eccellenza positivo e terra. terra, piegarsi all'influsso
di questi culti orgiastici operanti proprio nel fondo
irrazionale delle anime. Quei culti e quelle sette non
altro sono, e rimangono, che forme di antica devo·
zione popolare, le uniche, presso i Greci, che conten·
gano germi apprezzabili di un'esperienza religiosa in·
dividuale, e, in corrispondenza di questa, esigano, pa·
rimente individuali, condotta di vita e forme di pro·
paganda 78). Nella filosofia, regno dell'intelletto pensante,
si formano, talvolta, atteggiamenti paralleli a tali
stati emotivi, ma essi o nascono indipendentemente
da situazioni spirituali analoghe, o non sono che im·
prestiti di. espressioni da forme religiose diffuse, sem·
plici metafore del linguaggio filosofico, che in esso
appaiono rinnovate e, per ciò &tesso, spogliate della

18) Aristotele, fr. 15 (Rose), no:arl,na esattamente questo tipo


di esperienza riyligiosa caratteristico dell'iniziato ai misteri, come
un 7rct.&e:rv (cfr. il mio Aristoteles, p. 167 [trad. it. Calogero, Firenze,
s. d. ma 1935, p. 212]). In contrasto con la religione ufficiale questa
esperienza investe la personalità umana e determina una parti•
colare disposizione ( 1hiX.&e:1nç) nel auo intimo.
CAP. II: SOCRATE [1169] 757

loro primitiva natura 79). Espressioni di tal genere, di


:i;isonanza religiosa, nascono spesso nel discorso so-
cratico anche dall'analogia della sua opera con quella
del medico. E questo conferisce al suo concetto di
anima il. suo speciale colorito greco. Un abito di
pensiero di più secoli e una clisposizione fondamen-
tale . dello spirito greco concorrono a produrre quel
modo socratico di rappresentarsi il mondo interiore
come una parte della « natura» .dell'uomo. Ed è qui
proprio il punto in cui la psyche di Socrate si differenzia
dal concetto cristiano di anima. Il solo modo di farsi
un'idea esatta· dell'anima, nel senso di Socrate, è di
assumerla insieme col corpo, ma in modo che i due
elementi risultino due lati distinti dell' u n i c a na-
tura umana. Nel pensiero di Socrate non c'è opposi-
zione tra psichico e fisico. Per lui l'antico concetto di
physis, della filosofia naturalistica, accoglie in sé lo
spirituale e per ciò stesso, si trasforma essenzialmente.
Socrate non può piegarsi a credere che solo l'uomo
abbia in sé lo spirito, che ne abbia fatto come un suo
monopolio 80). Una natura in cui alberghi, in una e
qualunque sede, lo spirito, come certamente alberga
nella phronesis dell'uomo~ deve essere, in assoluto, ca-
pace di energie spirituali. Ma se il concepire insieme
anima e corpo come due parti distinte dell'unica na-
tura umana conduce da un lato a spiritualizzare in
certo modo la natura corporea, dall'altro lato un ri-
flesso di esistenza corporea viene ad investire anche
l'anima. All'occhio dello spirito essa si rivela nella sua
:essenza, partecipe in qual_che modo delle proprietà pla-
stiche della physis e pertanto suscettibile di forma e

79) La connessione tra il linguaggio della filosofia e quello della


religione. il processo di trasformazione di concetti religiosi in filo-
sofici meriterebbero un'indagine sistematica.
SO) Xen. Mem. I 4, 8..
758 [n70] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

di ordine. Come il corpo, essa è una parte del cosmos,


anzi è essa stessa un cosmos in sé, anche se per l' atteg-
giamento mentale greco era fuor di dubbio che il prin·
cipio manifestantesi nei due distinti ordini, fisico e
spirituale, fosse per ogni dove uno e identico. Perciò
l'analogia tra anima e corpo si deve estendere anche
a quello che i greci chiamano areté. Le aretai o «virtù»,
quelle che nella polis greca s'intendevano solita·
mente con .questo nome, fortezza, saggezza, giust.Izia
e pietà verso gli dei, sono pregi dell'anima a quel
modo che salute forza e bellezza sono « virtù» del
corpo, cioè sono le forze proprie a ciascuna parte del·
l'anima o anche al loro insieme cooperante, nel grado
più alto e nell'attuazione più piena di cui l'uomo sia,
per natura, capace. Virtù corpcir,ale o spirituale non
sono altro, data la natura di cosmos dei due ordini,
che « simmetria delle parti», sulla cui cooperazione
poggiano corpo e . anima. Da questo punto di vista,
il concetto socratico di « buono», il più intraducibile
dei suoi concetti e assai facilmente esposto a esser
frainteso, si delimita e si distingue dal corrispondente
concetto dell'etica moderna. Perché il concetto socra·
tico si chiarisca nel suo schietto senso greco, sarà forse
meglio renderlo anziché letteralmente « il buono », con
l'altro vocabolo di cui disponiamo, «il bene», in
un senso affine a quello .in cui si usa questa parola nel
linguaggio dell'economia, cioè in relazione a colui che
possiede questo « bene» e per cui esso è «buono». *)

•) [Si è cercato di adattare questo periodo ai mezzi di cui


dispone la nostra lingua, diversi dal greco più ancora di quelli
del tedesco. In quest'ultima lingua difatti l'aggettivo sostantivato
« das Gute », «il Buono » differisce dal sostantivo « das Gut »solo
nella desinenza, e la parentela tra i due vocaboli resta evidente.
Inoltre, il senso 'economico in« das Gut », «possesso », podere»,
è il senso prevalente e non occorre sottolinearlo come in italiano,
dove il senso economico spetta specialmente al plurale « i beni ».
N. d. T.].
CAP. II: SOCRATE [n71] 759

Certo anche per Socrate il buono è ciò che noi facciamo


o abbiamo il dovere di fare per se stesso, ma immedia-
tamente egli scopre che esso è anche ciò che è vera-
mente utile e salutare, e perciò anche causa di letizia
e di felicità, in quanto conduce la natura umana al-
i' attuazione piena di se stessa.
Una volta accettato questo principio, un altro pre-
supposto socratico ci diventa senz'altro evidente: la
natura umana, per chi rettamente la comprende, si
esprime essenzialmente nell'eticità e questa trova il
suo carattere radicalmente distinto dalla semplice esi-
stenza animale nella capacità razionale dell'uomo, il
solo elemento che renda possibile l'ethos. L'anima ha
da formarsi all'attuazione di questa legge etica, ma,
ciò facendo, essa non fa che seguire la via naturale
all'uomo per la quale esso si pone col Tutto, in una
consonanza che dà felicità, o, in termini greci, rag-
giunge l'eudaimonia. In questo profondo senso della
consonanza fra esistenza morale dell'uomo e ordine
naturale del mondo, Socrate si trova perfettamente
a coincidere con la coscienza greca di tutti i tempi,
prima e dopo di lui. La novità di Socrate è che, men-
tre nelle altre concezioni l'uomo raggiunge questa ar-
monia con l'Essere àttraverso l'affinamento e il sod-
disfacimento dei sensi e della sua natura corporea,
sia· pur contenuta da vincoli ed esigenze sociali, per
lui esso la coglie nell'attuato dominio di se stesso,
conforme alla legge che egli trova, ricercandola, nella
sua propria anima. Schiettamente greco, l' eudemoni-
smo. di Socrate trae, da questo additare l'anima agli
uomini come il loro più vero e più proprio dominio,
un e'emento nuovo, una forza nuova di affermazione
contro la natura e il destino sempre più minaccianti
la libertà dell'uomo. La parola di Goethe: che scopo
avrebbe questo dispiegamento di soli e di pianeti nel
760 [n 72] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

cosmo, se tutta questa mirabile ordinanza non valesse


infine alla felicità di un solo essere umano, questa
parola, nella concezione che essa implica, non sarebbe
apparsa a Socrate « empia», come essa è potuta appa-
rire - in questa età di profonda disarmonia tra realtà
ed eticità - alla sensibilità moderna. Fino a che punto
Socrate, « il razionalista», abbia saputo accordare que-
sta eudaimonia etica con i fatti di quella realtà che
spinge l'uomo moderno nell'abisso di un intimo con-
flitto col mondo, lo mostra la lieta serenità con la
quale Socrate vuotò la tazza del veleno.
L'anima si è fatta per Socrate la fonte dei più
alti valori umani, e, con questo, è dato all'esistenza
quell'indirizzo di _ripiegamento verso la vita interiore
che è caratteristico di tutta la tarda antichità. Virtù
e felicità hanno sede ormai nell'interno dell'uomo. Socrate
si rese ben conto della importanza e delle conseguenze
di questo suo passo decisivo: e ciò mostra in modo
significativo il fatto che, perfino dalle arti figurative,
egli abbia preteso non solo la riproduzione della bel-
lezza corporea, ma l'espressione della vita spirituale
(&1toµ_Lµe:fo&ocL -r1j.:; IJiuxJi.:; ~&o.:;). Nel dialogo col pit-
tore Parrasio riferitll da Senofonte è sottolineata l'as-
soluta novità di questa esigenza, laddove il grande
artista manifesta i suoi dubbi sull'attitudine della pit-
tura a penetrare il mondo dell'invisibile e dell'asim-
metrico SI). Sembra, dall'esposizione di Senofonte, che
Socrate per primo, col suo guardare all'anima, abbia
dischiuso questo regno all'arte del suo tempo. Per lui
il corpo dell'uomo, e prima di tutto il volto, è specchio
dell'anima e delle sue qualità, mentre solo a stento
ed esitante, il pittore si accosta a questa grande sco-

B') Xen. Mem. III 10, 1-5.


CAP. II: SOCRATE [rr73] 761

perta. Questo racconto ha valore di simbolo. Qualun-


que cosa si possa pensare delle relazioni tra arte e
filosofia in questo periodo, è certo che, secondo Seno-
fonte, è la filosofia che ha aperto il cammino e guida
gli uomini in questa terra ignota dell'anima. Non è
facile per noi valutare in tutta la sua portata storica
questa rivoluzione spirituale. Conseguenza immediata
ne fu l'instaurarsi di quel nuovo ordine di valori che
trovò la sua base dialettica nei sistemi di Platone e
Aristotele, per divenire, raggiunta questa forma, la
fonte di tutte le civiltà spirituali eredi della filosofia
greca. Ma, per quanto si ammirino le architetture
concettuali elevate da quei due grandi, che valsero a
porre in luce più chiara la rivelazione socratica e a
farne il centro di un ben composto quadro dell'universo,
una cosa riman ferma:« in principio era l'azione».
Il grido socratico chiamante a « prendersi cura del-
!'anima», segnò il preciso momento in cui lo spirito
greco shoccò nella sua nuova forma di vita. Della. vita
stessa si forma un nuovo concetto e viene a prendere
nella filosofia e nell'etica una posizione assolutamente
dominante, il concetto del bios, che non più indica l'e-
sistenza umana nel suo scorrere puramente temporale,
ma la esprime come un'unità, chiara e ricca di signi-
ficato, come forma consapevole di vita: e, in questo
concetto, è dato scorgere la traccia della vita reale di
Socrate. Del nuovo bios, tutto fondato sul vàlore spi-
rituale dell'uomo, egli era stato precursore e modello,
ed ehhèro ragione i suoi scolari a riconoscere che in
questo rinnovamento dell'antico concetto della vita
esemplare e ideale, ormai incarnato dal :filosofo, stava
la forza più grande della paideia socratica.
Bisogna tentare ora di descrivere più precisamente
questa maniera socratica di educazione. Quando So-
crate, nell'Apologia platonica designa la cura dell'anima
762 [rr74] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

come « serviz10 di Dio» 82), non ha _di mira un qua-


lunque contenuto specificamente religioso, nel senso
usuale della parola. Anzi, di fronte ai concetti cri·
stiani, la via che egli prende sembra diretta a mete
molto mondane e di mera natura. E, intanto, la cura
dell'anima non implica affatto per lui il rifiuto della
cura del corpo. Come, del resto, ciò sarebbe stato pos·
sibile in chi come lui aveva imparato dal medico del
corpo la necessità di un particolare « trattamento»
dell'anima, della sana, come di quella malata? La sua
scoperta dell'anima non importa la separazione di que·
sta dal corpo, come tanto spesso si afferma a torto,
ma solo la sua supremazia sul corpo: il quale, anzi,
deve essere sano per poter servir l'anima a dovere.
Mens sana in corpore sano, è motto di genuino spirito
socratico. Socrate stesso né trascurava il proprio corpo
né approvava quelli che così facevano 83). Ai suoi amici
insegnava a tener sano il corpo temprandolo dura-
mente e ragionava con loro a: fondo sul regime confa-
cente alla salute. Condannava il riempirsi di cibo,
come nocivo e opposto alla cura dell'anima. Per parte
sua menava una vita di semplicità spartana. Quanto
poi all'esigenza etica di« ascesi» del corpo e al signi·
ficato di questo concetto socratico, la trattazione re·
lativa può essere rimandata a più tardi.
Si comprende bene che tanto Platone che Senofonte
trovino la spiegazione dell'efficacia educatrice di Socrate
nel suo contrapporsi ai Sofisti. Erano questi i maestri ri-
conosciuti in quest'arte dell'educare, che, nella forma
da loro introdotta, era un'assoluta novità. Anche So-
crate appare continuamente in relazione coi Sofisti e con
essi lo vediamo·più volte intrattenersi. Se pure egli mira
a uno scopo più alto, si può ben dire che egli prende
8 2 ) V. supra, p. 59.
33) Xen. Mem. I 2, 4; IV 7, 9.
CAP. II: SOCRATE [n75] 763

le mosse dal piano in cui essi si muovono. La paideia


che essi promovevano era un singolare prodotto in
cui si mescolavano elementi delle più varie prove-
nienze, un variopinto tessuto di sapere. Lo scopo era,
per tutti, l'addestramento della mente, ma l'accordo
veniva meno riguardo alla qualità di sapere che meglio
valesse a tale addestramento; ché ognuno di loro aveva
discipline che coltivava più specialmente e ·giudicava
naturalmente che la propria fosse la più adatta. Per
parte sua, Socrate non negava, radicalmente e in blocco,
il valore di tutte le discipline che essi insegnavano.
Ma il suo appello alla cura dell'anima implicava, nel-
l'accostarsi alle conoscenze da loro inculcate, un cri-
terio di scelta e, soprattutto, di limitazione 84). Così,
per esempio, alcuni Sofisti riconoscevano grande va-
lore educativo alle dottrine dei filosofi naturalisti, di-
versi, in questo, dagli stessi antichi pensatori che, pur
sentendosi certamente maestri in un più alto senso,
non avevano accampato alcuna pretesa propriamente
pedagogica: il problema della formazione della gio-
ventù attraverso studi scientifici era qualcosa di ve-
ramente nuovo. Ora, Socrate ebbe scarso interesse per
gli studi naturalistici, e ciò provenne, come si è visto,
non tanto da incompetenza, quanto dalla incommensu-
rabilità del problema socratico con quello che quegli
studi ponevano. E se egli trattenne anche altri dallo
studiare a fondo teorie cosmologiche, lo fece perché
credeva che questo dispendio di energia intellettuale,
meglio si sarebbe rivolto alla conoscenza delle « cose
umane» 85). Eppoi la regione del « cosmico» era sen-
tita, in generale, dai Greci come demonica e inacces-
sibile alla ricerca umana. Socra:te partecipa a questo
sacro orrore del suo popolo contro il quale dové rivol-
84 ) Su quel che segue c.fr. Xen. Mem. IV 7.
85) Cfr. Xen. Mem. I 1, 16; PI. Apo!. 20d.
764 [rr76] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

gersi ancora Aristotele all'inizio della sua Metafisica 86).


Riserve dello stesso genere Socrate faceva riguardo
agli studi matematici. e astronomici praticati da sofisti
di indirizzo più realistico, del tipo di Ippia dell'Elide.
Socrate, che pure aveva praticato queste scienze con
passione, riteneva si che la conoscenza di esse fosse,
fino a un certo grado, necessaria, ma questo grado era
per lui piuttosto modesto 87). Da taluno, è vero, si è
pensato che un utilitarismo di questo genere sia sol-
tanto una falsa presentazione, da attribuirsi tutta alla
fonte da cui ci derivano le notizie su questo punto,
a Senofonte e al suo interesse limitato al pratico, e
si è contrapposto a questo Socrate, quello di Platone,
che nella Repubblica proclama la formazione matema-
tica unica vera via alla filosofia 88). Ma, in realtà,
questo concetto ha radice nello svolgimento proprio
di Platone che lo condusse ad essere un dialettico e
un teorico della conoscenza, tanto è vero che, da vec-
chio,· Platone, nelle Leggi, dove non parla di alta cul-
tura ma di educazione elementare, fa suo l'atteggia-
mento del Socrate senofonteo 89). Uno è dunque il cri-
terio di scelta socratico di fronte ai valori di cultura
in auge al· suo tempo: l'interesse che essi possano of-
frire per le « cose umane», le più importanti per lui.
La questione: fino a che punto si deve spingere lo
studio di una disciplina? rimanda a un'altra, più
grave questione: a che cosa quesia disciplina è« buona»?
qual è lo scopo della vita? L'educazione è impossi-
bile, se, prima, non si risponde a queste domande.

86) PL Apol. 20e; Xen. Mem. IV 7, 6; Arist. Met. A2, 982 b 28 ss.
8 ?) Xen. Mem. IV 7: èlH8cto-xe: 8è xctt µtxin o-cou 8éoi
lµ7te:Lpov e:Ì:VocL txcio--cou 7tpciyµoc-coç -còv òp&&ç 7te:7tctd~e:uµÉvov.
Sullo studio. della geometria, cii:. IV 7, 2; sulla astronomia IV
7, 4; sull'aiitmetica IV 7, 8; sulla dietetica IV 7, 9.
88) PI. Resp. 522e ss.
89 ) Pl. Legg. 818a: -cctihct 8è o-uµ7tctnct oòx &>ç àxpi(3dotç
èx6µe:vot 8e:i: 8Lct7tove:i:v -coùç 7tOÀÀoÙç à)..)..ci nvotç ò)..(youç.
CAP. II: SOCRATE [Il 77] 765

Ecco così, di nuovo, l'elemento etico al centro,


donde era stato respinto dal movimento educativo so-
fistico, nato dalla necessità di· una più alta cultura
per gli strati dirigenti e dal maggior pregio conferito
ai valori intellettuali dell'uomo 91>). Lo scopo pratico
dei Sofisti era stata la formazione di uomini di stato
e di capi, e ciò, in un'epoca tutta volta all'ammira-
zione del successo, aveva favorito questo spostamento
dell'accento dai valori etici a quelli intellettuali. So-
crate ristabilisce il legame tra la formazione intellet·
tuale e quella morale. Non già, però, che egli contrap·
ponga allo scopo educativo-politico dei Sofisti, una
sorta di ideale, non politico, di pura formazione del
carattere. Lo scopo dei Sofisti in sé, non poteva provo-
care obiezioni e doveva rimanere inalterato in una
polis greca. Platone e Senofonte concordano almeno
in questo: che fanno di Socrate un maestro di politica 91).
E così soltanto, del resto, si può capire il suo conflitto
con lo stato e il suo processo. Le « cose umane» che
stavano a cuore a Socrate, culminarono sempre, per
i Greci, nel bene del complesso sociale, da cui dipende
la vita del singolo 92). Un Socrate il cui sistema educa-

90) Cfr. vol. I, p. 496 ss.


91) Quest'idea fondamentale percorre da un capo all'altro la
raffigurazione socratica dei due autori. Su Platone cfr. infra
p. 157. Senofonte vede nella formazione politica il fine di So-
crate: Mem. I 1, 17; II l; IV 2, 11. Anche gli avversari con-
siderano fondamentale l'elemento politico nell'educazione socra-
tica, quando cercano di dimostrare che Alcibiade e Crizia erano
stati autentici scolari di Socrate. Cfr. Xen. Mem. I 2, 47 e tutto
il cap. I 2. Senofonte non contesta ciò ma si limita a tentar di
dimostrare che Socrate intende per 7tOÀLnx&; qualcosa di di-
verso d;i quel che comunemente s'intende. Fu l'aspetto politico
dell'educazione socmtica che, sotto il dominio dei Trenta, dette
ad essi il motivo di estendere anche a Socrate il divieto, Àoyro'I
-:ézyYJ'I µ'Ìj lhlì&.crxeL'I, sebbene egli non insegnasse retorica (Xen.
Mem. I 2, 31).
92) Il luogo classico che mostra come le « cose umane» ( &.'1-
.&p ci>Tt L'la:), .oggetto dell'insegnamento di Socrate, sian tutt'uno
con le ,. cose politiche» (7toÀLnx&.) è Xen. Mem. I 1, 16. Vi si
766 [1178] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tivo non fosse stato « politico» non avrebbe trovato


scolari in Atene. La sua grande novità fu di cercare
il centro vivo dell'esistenza umana e, perciò, della vita
associata, nella personalità morale, ma non fu certo
questa la ragione per cui Alcibiade e Crizia andarono
a lui e si fecero suoi scolari. Travagliati dall'ambi-
zione di avere iina parte dominante nello stato, essi
sperarono di trovare nella sua scuola, i mezzi per sòd-
disfarla 93). E proprio questa fu l'accusa che si rivolse
a Socrate, accusa da cui Senofonte cerca ~ giustifi-
carlo affermando che l'uso fatto poi da essi, in politica,
della educazione ricevuta era stato in contrasto con le
mire di Socrate 94). Comunque, scolari come questi fu.
rono profondamente stupiti e scossi, quando, conosciu-
tolo più a fondo, scoprirono in lui il grande uomo teso
con tutta la sua passione al possesso del «Buono» 95).

Ma che cos'era questa educazione politica di So-


crate ? Noi non possiamo attribuirgli l'utopia politica
di cui Platone, nella Repubblica lo fa banditore, né è
verosimile che Socrate, come fa nel Gorgia platonico,
abbia considerato se stesso, nella sua attività educa-
tiva, come l'unico vero uomo politico del suo tempo,
al cui confronto i politici professionali, con le loro
imprese e i loro piani miranti solo alla potenza este-
riore, non sarebbero che vani faccendieri d'illusioni 96).
Questi sono soltanto i toni appassionati di cui l'opera
di Socrate è stata colorita in seguito, da Platone,
nella sua opposizione recisa a tutto l'indirizzo politico

chiarisce il legame indissolubile di quel che noi consideriamo a


parte come « etica» con la politica, legame valido anche per Pla-
tone e Aristotele.
93) Ciò dicè con 11ssoluta chiarezza Senofonte, Mem. I 2, 4 7.
9 ' ) Il magistero politico di Socrate mirava al fine di guidare
i giovani alla kalokagatkia;. cfr. Xen. Mem. I 1, 48.
•6) Cfr. soprattutto la confessione di Alcibiade in Pl. Symp.
215e ss.
98) Pl. Gorg. 52ld.
CAP. II: SOCRATE [1179] 767

che aveva condotto alla condanna di Socrate. Pure,


ci fu, nell'atteggiamento politico di Socrate, qualcosa
di realmente paradossale - e in ciò sta il nodo del
problema - come mai, cioè, Socrate si astenesse dal
prender parte, lui, alla vita politica ed educasse poli-
ticamente gli altri nello spirito dei suoi postulati 97).
Senofonte ci consente abbastanza bene di dare uno
sguardo ai temi dei suoi discorsi politici nella loro
ricca varietà, mentre solo a Platone si può ricorrere,
nei dialoghi sull'essenza dell'areté, per coglierne il senso
più profondò. Secondo Senofonte, Socrate trattò coi
suoi scolari questioni politiche di ogni specie: la diffe•
renza delle forme politiche 98), l'origine delle leggi e
delle istituzioni politiche 99), lo scopo dell'attività del-
l'uomo di stato e la migliore preparazione ad essa 100),
il valore della concordia in politica lOl) e l'ideale della
obbedienza alle leggi come la più alta virtù civile 102).
Oltre poi che del governo dello stato, Socrate usò
discorrere anche, coi suoi amici, del governo della casa,
della oikia, d'accordo in questo con una tendenza ge-
nerale dei Greci ai quali politica ed economica parvero
sempre strettamente congiunte. Al modo dei Sofisti,
nelle cui lezioni occorrevano questi stessi argomenti,
Socrate spesso prendeva le mòsse da passi di poeti,
di Omero specialmente, per sviluppare o per chiarire,

97 ) Xen. Mem. I 6, 15 (accusa del sofista Antifonte contro


Socrate).
98) Xen. Mem. IV 6, 12. Cfr. anche I 1, 16, dove, enumeran-
dosi i temi principali dei dialoghi socratici, accanto ai dibattiti
sulle &pe:-rod, che sono da intendersi appunto come virtù civi-
che (7'l:'oÀLnx01:l &:pe:-r01:(), sono addotte questioni come queste:
che cos'è lo stato ? che cos'è un uomo politico ? che cos'è domi-
nio degli uomini ? chi è il buon capo ? Cfr. IV 2, 37: che cos'è un
demos? e IV 6, 14: qual è il compito di un buon cittadino?
•9) Xen. Mem. I 2, 40 ss.
100) Xen. Mem. IV 2, ss. Cfr. III 9, 10.
101) Mem. IV 4, 16 ss.
i 02 ) Mem. IV 4, 14 ss. Cfr. anche il dialogo di Alcibiade con
Pericle su legge e governo in Mem. I 2, 40 ss. Sulla legge non
scritta IV 4, 19.
768 [rrSO] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sulla base di essi, nozioni politiche. In questo tempo


un buon interprete e conoscitore di Omero era chia-
mato '0µ1jpou È7tCXtVé-r"1)ç, perché la sua attività di mae-
stro consisteva, appunto nel rilevare e lodare deter-
minati detti del poeta 103). E appunto nella scelta di tali
luoghi omerici, si credé di poter rimproverare a So-
crate di aver rivelato tendenze antidemocratiche 104).
Abbiamo già fatto cenno delle sue critiche al sistema
di scelta dei magistrati per sorteggio, a causa della sua
meccanicità, e al principio democratico della maggio-
ranza 105). Tuttavia un tale atteggiamento non fu mai
informato a tendenze di partito. La prova migliore di
ciò si trova nella indimenticabile scena con cui si aprono
i Memorabili, dove Socrate, sotto il governo dei Trenta,
è chiamato nella sede del governo, da Crizia, un tempo
suo scolaro, ora il più potente dei dominatori di Atene,
per sentirsi interdire, proprio da lui, sotto minaccia
di morte, l'esercizio del magistero, sebbene la sua
forma particolare di attività non ricadesse sotto il
divieto generale dell'insegnamento retorico, al quale,
anche in quel caso, si fece ricorso 106). Evidentemente, gli
uomini al potere erano ben certi che egli avrebbe parlato
chiaro sulle loro malefatte, . esattamente come aveva
fatto prima, per gli eccessi della tirannia di massa.
Le nostre principali testimonianze si accordano nel
dire che Socrate usò parlare volentieri anche di que-
stioni militari, in quanto esse avessero attinenza col
complesso dei problemi etico-politici. Certo, noi non
siamo più in grado di determinare nei particolari in
che misura questa notizia delle nostre fonti sia esatta:
ioa) Cfr. PI. Ion: 536d, Resp. 606e. In Prot. 309a si pensa a
un conoscitore di Omero, non a un lettore..
104) Mem. I 2, 56 ss.
105) Cfr. supra, p. 43 s. L'elezione per sorteggio criticata in
Xen. Mem. I 2. 9.
106) Xen. Mem. I 2, 31-38.
CAP. II: SOCRATE (II 81) 769

ma, essa non è assolutamente inconciliabile col Socrate


storico, se Platone poté rappresentarlo nella Repub-
blica in atto di trattare in modo esauriente e minuto
di etica militare e di preparazione militare del citta-
dino 107). Nel Lachete platonico due cittadini importanti
vengono a chiedere il suo consiglio, se essi debbano,
o no, fare istruire i loro figli nella novissima arte della
scherma e due famosi capi militari ateniesi, Nicia e
Lachete, si mostrano desiderosi di sentire il suo parere
su questo punto. La conversazione, però, si leva su-
bito a un piano più alto, a quello della discussione
filosofica, che cosa sia il coraggio. Tutta una serie poi
di colloqui sull'educazione del futuro stratego, si trova
in Senofonte 108). Questa parte della pedagogia politica
aveva una particolare importanza in Atene, in quanto
non esisteva alcuna scuola militare tenuta dallo stato,
e la preparazione dei cittadini chiamati dalle elezioni
a uffici militari, era, per buona parte, di livello molto
basso. Erano, cosi, venuti fuori in quel tempo maestri
privati di strategia, prodotto, evidentemente, del per-
durante stato di guerra. Socrate, per la sua rigida con-
cezione della necessità di una competenza specifica, si
guardava bene dal mettersi, lui stesso, a impartir nozioni
tecniche su cose di cui non possedeva un suo proprio sa-
pere, e; in tali casi, noi lo vediamo spesso occupato a ri-
cercare, per gente desiderosa d'imparare che a lui si era
rivolta, il maestro che facesse al caso. Cosi mandò
una volta uno scolaro a Dionisodoro, un professore am-
bulante di arte militare, da poco giunto in Atene 1 09).
In seguito, però, egli lo criticò aspramente, quando
sentì che il maestro aveva soltanto dato al giovane
101) Naturalmente i particolari delle proposte che Platone fa
nella Repubblica, su questa materia, appartengono in tutto a
lui. Per la trattazione completa di questo punto cfr. infra, p. 433 ss.
1Gs) Cfr. Xen. Mem. III 1-5.
1oa) Mem. III 1, l, ss.
770 [1182] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

discepolo precetti tattici, senza insegnargli il modo


di applicarli, e che gli aveva bensì dato regole per lo
schieramento dei soldati migliori e di quelli peggiori,
ma aveva trascurato di dirgli chi era il migliore e chi il
peggiore. Un'altra volta egli si richiamò all'epiteto
omerico di Agamennone, « pastore di popoli», per mo-
strare che cosa veramente fosse virtù di comandante.
Anche qui egli combatte la concezione puramente tec-
nica, esteriore, del compito di un generale. Do-
manda, per esempio, a un ufficiale di cavalleria, da
poco nominato, se consideri tra i compiti del suo uf-
ficio, quello di migliorare i cavalli delle sue truppe, e
se è così, quello di migliorare anche i cavalieri, e se
ancora è così, anche se stesso, giacché i cavalieri sa-
ranno pronti e volenterosi a seguire il migliore 110).
È poi significativo, e in ciò l'ateniese si rivela, che
Socrate dia molto peso alle virtù oratorie del capo mi-
litare, concetto, questo, che trova conferma nei di-
scorsi dei generali in Tucidide e in Senofonte 111). 11
paragone del buon generale col buon uomo d'affari
e buon amministratore ha il fine di ricondurre le due
forme di eccellenza ad un solo principio: la capacità
di dirigere 112).
Esce dal campo dei temi generali uno di questi
colloqui, quello con Pericle il giovane, sulle cui capa-
cità militari Socrate mise qualche speranza negli ultimi
anni della guerra peloponnesiaca ll3). In questo periodo
della vita d'Atene, di declino inarrestabile, Socrate
che aveva vissuto, in giovinezza, il rigoglio e l'ascesa,
si rivolge indietro e riguarda gli anni della grandezza
dileguata. Appare così un quadro dell'antica virtù

i10) Mem. III 3.


111) Mem. III 1, 11.
112) Mem. III 4. Sull'areté del buon capo cfr. anche III 2.
113) Mem. III 5.
CAP. II: SOCRATE [n83] 771

(&:pxodix &:p!:..fi) tale che, nemmeno, più tardi, la :reto-


rica di Isocrate o di Demostene ne tracciò uno più
luminoso e più ammonitore 114). Questo quadro, nella
t;a:rda opera senofontea, in cui noi lo leggiamo, sarà
~'oltanto un riftesso delle idee di filosofia della storia
esposte nei discorsi di quei. due oratori, oppure quel
contrapporre il presente degenere alla vittoriosa fo:rza
dei padri av:rà :realmente origine nel pensiero dei tardi
anni di Socrate ? Non si può disconoscere che la co-
lo:ritu:ra senofontea della situazione storica da lui de-
scritta, fa fortemente pensare alle circostanze del tempo
in cui i Memorabili furono composti. Tutto il dialogo
di Socrate col giovane Pericle ha un significato attuale
pe:r Senofonte. Ma tutto questo non prova ancora
che pensieri del genere siano stati estranei al Socrate
reale. Parecchio tempo prima che Isocrate scrivesse
il suo sogno idealizzante del passato, il Menesseno di
Platone fa pronunziare a Socrate un elogio assai simile
della areté e della paideia dei padri, nella forma di
un'orazione pe:r soldati ateniesi caduti sul campo, che
egli dice di ave:r ascoltato da Aspasia e che si muove,
in parte, nello stesso giro di pensieri 115). Contro il pes-
simismo e la sfiducia che il figlio di Pericle - e ciò
si capisce bene - esprime, Socrate fa appello a quel
che di« spartano» vive nell'anima popolare ateniese 116).
Egli non crede ad un male inguaribile nella sua patria,
travagliata dalla discordia. Egli adduce la severa di-
sciplina che gli Ateniesi sono stati capaci di imporsi
volontariamente, nei cori musicali, nelle gare ginniche,
nella marina, e vede nella autorità che l'Areopago
non ha cessato di esercitare, un segno di speranza per
l'avvenire, per quanto nell'esercito siano pe:r il mo-

114) Xen. Mem. III 5, 7 e III 5, 14.


115 ) Pl. Menex. 258h; cfr. 239a e anche 24le.
116 ) Xen. Mem. I 5, 14 e 15.
772 [u84] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

mento dominanti dissoluzione della disciplina e mise-


rabile improvvisazione. La restaurazione della autorità
<lell' Areopago doveva divenire, nella generazione suc-
eessiva, un punto essenziale del programm.a di Isocrate
diretto al risanamento della democrazia degenerata
nell'estremismo, e il cenno alla disciplina dei cori come
modello per l'esercito in disordine ritorna nella la Fi-
lippica di Demostene ll7). Se veramente Socrate espresse
questi, o pensieri simili, allora lo sviluppo di quella
opposizione contro la progressiva degenerazione poli-
tica della democrazia risale, in parte, nei suoi inizi,
fino alla cerchia socratica US).

Il problema della formazione dei capi, che è in


primo piano in Senofonte, è il soggetto di un lungo dia-
logo con colui che doveva divenire il :filosofo dell'edo-
:.aismò, Aristippo di Cirene ll9 ). Il contrasto di atteggia-
mento spirituale tra maestro e discepolo, che dové ri-
velarsi fin da principio, vi è ritratto in maniera diver-
tente. Socrate parte dal principio che ogni educazione
è educazione politica, e deve perciò formare gli uomini·
o come dominatori o come dominati. La differenza tra
i due generi di educazione · comincia fin dal modo di
nutrirsi. Il futuro capo deve imparare fin da bambino
ad anteporre l'adempimento dei suoi urgenti doveri

117) Sull'Areopago: Xen. Mem. III 5, 20. Cfr. su questo punto


l'esigenza espressa da Isocrate che all'Areopago fosse restituita
la sua piena autorità educativa. V. « Paideia» III, cap. VI. In
Senofonte, Mem. III 5, 17, si trova addotto l'esempio dei cori
sacri, modello di ordine e disciplina. Similmente Demostene, Phil.
I 35 loda il buon ordine che dominava nelle Dionisie e nelle Pa·
natenee e nella preparazione di queste festiVità.
118) Verisimilmente Senofonte trovò in Socrate gli elementi
iniziali di questa sua critica, ma li svolse in maniera tutta sua.
Cfr. a proposi'to di certi tratti del dialogo con Pericle, che ri·
specchiano la fase più tarda della seconda lega marittima ate·
niese, e sulla tendenza educativa dei Memorabili, « Paideia»
III 298.
119 ) Xen. Mem. Il I.
CAP. II: SOCRATE [II 85] 773

al soddisfacimento anche di bisogni fisici, deve saper


dominare fame e sete, abituarsi a dormir poco, an-
dando tardi a letto e alzandosi presto; non deve co-
noscere svogliatezza o pigrizia, non può lasciarsi pren-
dere alle lusinghe dei sensi, deve essere temprato al
caldo e al freddo; deve esser pronto, sempre, a dormire
all'addiaccio. Chi a tutto questo non riesce, viene
senz'altro a far parte della classe dei soggetti. Socrate
chiama questo addestramento con la parola che in
greco significa « esercizio »: &cnnicnç 120). Siamo di nuovo,
come è avvenuto per il concetto di«cura dell'anima»,
alle origini di una concezione educativa schiettamente
greca che, in seguito, fondendosi con atteggiamenti
religiosi di origine orientale, ha avuto un'influenza
enorme sulla civiltà posteriore. Ma la « ascesi» socra-
tica non è virtù di monaco, bensi virtù di capo. Essa,
certo, non ha alcun valore per Aristippo, che non
vuol essere né signore né schiavo, ma libero, con l'unico
desiderio di farsi una vita la più piacevole possibile 121).
Questa libertà egli non la trova attuabile dentro nes-
suna costituzione politica, ma solo fuori di ogni esi-
stenza civica, nella vita di quelli che rimangono sem-
pre stranieri, dei meteci, immuni da ogni obbliga·
zione o dovere 122). In contrasto a questo moderno e
raffinato individualismo, Socrate rappresenta la conce-
zione classica del cittadino, saldamente piantato nella
sua terra, che vede il suo compito politico e la sua
felicità nell'educarsi all'ufficio di capo a mezzo di
un'ascesi liberamente scelta 123), Ché gli dei non danno

120) Mem. II 1, 6.
121) Mem. II 1, 8 e 11.
122) Mein. II 1, 13.
123) Mem. II 1, 17: ot d.; 't"'Ìj'll ~ci:atÀLx'Ìjv -réxv'IJ'll nci:t8e:u6-
µe:vot lìv Soxe:i:.; µot aù [scìl. Socrate] voµE~e:w e:òSci:tµovEci:v e:!vci:L.
L'« arte regale» appare fine della paideia socratica anche nel
dialogo con Eutidemo, IV 2, 11.
774 (II86] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

ai mortali alcun bene .vero senza pena e senza duro


lavoro. E, alla maniera di Pindaro, Socrate aggiunge, a
chiarire questo suo concetto della paideia, un esempio
mitico, la famosa novella del sofista Prodico di « Eracle
al bivio» in cui si mostra l'eroe educato da Areté 124).
Il concett.o di « autodominio » è ·divenuto per opera
di Socrate un motivo centrale del nostro mondo etico.
Esso postula che l'agire morale sia già concepito come
nascente nell'intimo dell'individuo, e non solo come la
sottomissione esteriore alla legge, secondo il concetto
allora dominante di giustizia. Ma siccome il pensiero
etico greco si muove dalla vita associata e dal concetto
politico di governo o' dominio, esso venne a concepire
e significare il fatto di coscienza raffigurando l'anima
dell'uomo come una città ben governata. Si coglie
bene il significato e il valore di questo trasferirsi del-
l'ideale politico nell'intimo dell'anima, soltanto se si
pensa alla dissoluzione dell'autorità delle leggi al tempo
dei Sofisti. Il resultato ne fu la comparsa in primo piano
della legge interiore 125). Nel momento in cui Socrate

lH) Si tratta qui di un discorso epidittico di Prodico, pubbli-


cato come libro (cruyypotfLµoc), nel quale l'eroe mitico era concepito
come incarnante ogni sforzo umano verso l'aret6. Il racconto
allegorico dell'educazione di Eracle ('Hpot>tÀéouç itotL8e:ucrLç} per
opera di « Madonna Virtù», costituiva in quel discorso una tappa
importante nel cammino dell'eroe verso la grandezza. Cfr. Xen.
Mem. II 1, 21 ss. Sul titolo e sulla forma stilistica dell'opuscolo
di Prodico, cfr. Mem. II 1, 34. Non ostante lo spirito tutto mo-
ralizzante e razionalistico in cui l'allegoria è concepita, traspare
ancora in essa qualche traccia di comprensione per il mito di
Eracle nel suo significato autentico. Cfr. WILAMOWITZ, Herakles,
I, p. 101. Il Wilamowitz mette a confronto con essa la storia del-
l'educazione dell'eroe nel romanzo contemporaneo di Erodoro.
125) Cfr. vol. I, p. 548 ss. dove si discorre della dissoluzione
dell'autorità della. legge. Là alla p. 563 si fa cenno di un
atteggiamento dell'etica di Democrito analogo a questo volgersi
di Socrate verso l'intimo dell'uomo; Democrito sostituisce al-
l'ott1>6iç nell'antico senso sociale, di rispetto di fronte ai compagni
di umanità, il rispetto dell'uomo di fronte a se stesso (otl8e:fo.&ot~
!otuT6v), che è una creazione concettuale di notevole significato
per lo sviluppo della coscienza etica.
CAP. II: SOCRATE [rr87] 775

drizza il suo sguardo alla natura del problema morale,


compare in greco, in attico anzi, la parola nuova ÈyxpcX-
-re:ioc, che significa autodominio etico, temperanza e
fermezza. Per il fatto che essa compare contempora-
neamente nei due scolari di Socrate, in Senofonte e
in Platone, e qua e là in Isocrate, che della soératica
ha subito fortemente l'influenza, bisogna concludere
che questo concetto nuovo ha la sua origine nel pen-
siero etico di Socrate 126). La parola deriva dall' agget-
tivo è:yxpoctjç, che indica colui che ha potere o diritto
di disporre su qualche cosa. Poiché il sostantivo si
trova solo nel senso di autodominio morale e compare
solo da questo tempo in poi, esso fu, evidentemente,
coniato per questo nuovo pensiero e non esisté mai
prima come concetto puramente giuridico. La« enkra-
teia » non è una particolare virtù, ma, come ben dice
Senofonte 127), il «fondamento di tutte le virtù», poiché
essa significa ragione emancipata dalla tirannide della
natura animale dell'uomo, e legittima signoria dello
spirito sugli istinti 128). Poiché l'elemento spirituale è
per l'uomo il vero « se stesso», la parola può essere
ben resa senza che nulla le si aggiunga, in lingue ger-
maniche, con Selbstbeherrschung, self control, parole che
di essa son calchi *). In fondo, in questa parola è già

126 ) Cfr. i passi relativi a questo concetto raccolti in F. W. STURZ,


Lexicon Xenophonteum, II, p. 14 e in F. AsT, Lericon Platoni-
cum, I, p. 590. Vedi anche Isocr. Ad Nic. 44 (e anche 39), dove
l'ideale del dominio di sé, di cui si fa portavoce, appunto, un
uomo di governo, è socratico. Una parte importante ha il con•.
Cetto di enkrdteia anche in Aristotele.
1 27 ) Xen. Mem. I 5.
12s) Xen. Mem. I 5, 5-6.
*) [Alla formazione ibrida italiana «autodominio », o alla più
corretta, ma meno spedita, « dominio di sé», non si può appli-
care l'osservazione dell'autor~, poiché la prima parte del com-
posto è sentita come oggetto e non come soggetto, come ben
chiarisce .la forma svolta. Abbiamo poi dovuto rinunziare, per
non rendere ancora più inapplicabili alla parola le considera-
776 [rr88] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

il primo germe della Repubblica di Platone e di quel


concetto che è base di essa, di una giustizia puramente
interiore, come accordo dell'uomo con la legge che
in lui stesso è 129).
Nel principio socratico dell'autodominio dell'uomo,
è implicito un nuovo concetto della libertà. È degno
di nota che l'ideale della libertà, che domina, come
nessun altro, l'età moderna, dalla rivoluzione francese
in poi, non ha una parte di pari o simile importanza,
nel periodo classico della Grecia, sebbene non le sia
ignoto o estraneo. La democrazia greca tendeva prima
di tutto all'eguaglianza (-rò foov) in senso civile e giu-
ridico. Quello di libertà è un concetto troppo complesso
e molteplice, per esser posto in servizio di una tale esi-
genza egualitaria. Esso può designare, infatti, tanto
l'indipendenza dell'individuo come quella dell'intero
stato o della nazione. Accade, è vero, anche ai Greci,
di parlare di una costituzione libera o di chiamar liberi
i cittadini di uno stato di tal genere, ma con questo
non altro si vuol significare se non che essi non sono
schiavi di alcun uomo. Ché, nella parola « libero»
(Èì..e:u.&e:por;) si sente espressa, prima di tutto, l'antitesi
con« schiavo» (iìouA.or;). Essa non ha il senso univer-
sale, indefinibile, etico e metafisico proprio del moderno
concetto di libertà, che alimenta e penetra del tutto
nel secolo XIX, arte, poesia e filosofia 130). Questo fu,
alle origini, un concetto di diritto naturale, e ha con-
dotto, per ogni dove, alla soppressione della schiavitù:

zioni dell'autore, a tradurre, secondo la tradizione scolastica


italiana, derivante dal linguaggio filosofico latino (così classico
come medievale e cristiano), Èyxpche:ioc con «temperanza».
N. d. T.J.
129) Cfr. infra, p. 414.
130) V. BENEDETTO CROCE, Storia d'Europa nelsec. XIX, cap. I:
« La religione della libertà».
CAP. II: SOCRATE [n89] 777

il concetto greco di« libero», nel senso dell'età classica,


è, invece, un concetto positivo di diritto pubblico, ed
ha proprio nella schiavitù il suo presupposto neces-
sario, concepita questa come istituzione permanente,
anzi come fondamento della libertà di quella parte
della popolazione che è costituita di cittadini. Il deri-
vato ~ì-.e:t>Wp ioç « liberale», designa il contegno pro-
prio del libero cittadino, cosi nell'uso del denaro, come
nella franchezza della parola, disdicevole allo schiavo,
o nel decoro esteriore del vivere. Sono arti « liberali»
quelle che appartengono alla formazione liberale, cioè
alla paideia del libero cittadino in contrapposto alla
incultura o alla formazione puramente meccanica, « ba-
nausica» del non libero, dello schiavo.
Soltanto con Socrate la libertà si eleva a problema
etico, che poi si sviluppa, con varia intensità, nelle
diverse scuole socratiche. Non si giunge neanche ora,
beninteso, a una critica radicale della divisione sociale
degli abitanti di una polis in liberi e schiavi. Benché
fondamentalmente non scossa, questa divisione, però,
perde il suo più profondo significato, in quanto il con-
trasto di libero e schiavo è trasportato da Socrate su
un piano diverso, il piano della interiorità morale. Con-
forme allo svolgimento, che abbiamo tracciato, del-
l' autodominio come signoria della ragione sopra gl'istinti,
si forma ora un nuovo concetto: il concetto della libertà
interiore 131). Esso esprime il contrapposto alla condi-

1 31 ) Sulla formazione e svolgimento di questo ideale nella filo-


sofia greca dopo la Socratica, cfr. HEINRICH GOllrPERZ, Die Le-
bensauffassung der griechischen Philosophen und das Ideal der
inneren Freiheit, Jena 1904. Il Gomperz, col considerare da que-
sto punte.'° di vista tutto lo svolgimento dell'etica filosofica greca,
ha messo chiaramente in rilievo la grande importanza storica del
concetto di libertà interiore e in pari tempo ha portato un con-
tributo essenziale alla comprensione di Socrate. Però, da questo
punto di vista, l'intera figura di Socrate non si riesce a scorgere.
E ciò risulta chiaro se si riflette su due circostanze: I 0 che esso non ci
778 [n90] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

zione di un uomo che è schiavo delle sue passionil32).


Rispetto all'idea di libertà politica, questo concetto
ha qualche rilievo, solo in quanto include in sé la pos-
sibilità che un libero cittadino e anche un sovrano
sia in senso socratico, uno schiavo. Ma ciò non con-
duce più in là che alla conclusione che un tal uomo
non è un vero libero e un vero sovrano. È interessante
notare che il concetto di autonomia, che la filosofia
moderna ha fatto suo per usarlo in stretta connes-
sione con quello di libertà, e che ha tanta importanza
nel pensiero politico dei Greci, significando l'indipen·
denza di una polis da altri stati, non fu trasferito sul
piano morale come gli altri concetti che abbiamo or
ora chiarito. Evidentemente, quello che a Socrate stava
a cuore non era la pura e semplice indipendenza da
una qualunque norma esistente fuori dell'individuo,
ma la reale, effettiva signoria dell'uomo su se stesso.
Se, in senso socratico, si parlasse di autonomia morale,
si verrebbe prima di tutto a significare l'indipendenza
dell'uomo dalla parte animale della sua natura. Que-
sto però non è in contraddizione con l'esistenza di una
superiore legge cosmica nella quale anche questo feno-
meno morale dell'autodominio dell'uomo trovi il suo
luogo,
Con questo ideale è strettamente connesso un altro
lineamento socratico: il concetto e la pratica dell.a autar-

mette in grado di capire. lo sviluppo logico-scientifico che Pla-


tone ha dato al problema di Socrate, 20 che se questo punto di
vista fosse sufficiente, l'etica dei cinici, cirenaici e stoici che fa
dell'autarchia etica il problema centrale, diventerebbe il momento
culminante della storia della filosofia greca. Il Gomperz anticipa
col suo libro, in parecchi punti importanti, la concezione di So-
crate propria del Maier, il quale, egli pure, giunge nell'ultimo
capitolo alla . stessa mutazione di prospettiva storico-filosofica.
Anche per hii Socrate è il profeta della libertà morale.
132) Cfr. Xen. Mem. I 5, 5-6; IV 5, 2-5. In ambedue i luoghi
risulta ben chiara la connessione del nuovo concetto di libertà,
e di uomo libero, col concetto socratico di dominio di sé (enkrateia).
CA.P. II: SOCRA:rE [1!91] 779

chia, cioè della mancanza di bisogni e frugalità. In


molto rilievo soprattutto in Senofonte, forse per in-
fluenza degli scritti di Antistene 133), in Platone questo
elemento è meno accentuato, ma, in ogni modo, non
è da dubitare della sua storicità. Ebbe sviluppo, più
che altro, nella tendenza . cinica dell'etica postsocra-
tica, nella quale esso diventa il segno distintivo del
vero filosofo: ma non è assente neppure nelle immagini
dell'eudaimonia filosofica disegnate da Platone e Aristo-
tele 134). Nell'autarchia del sapiente rivive, sul piano spi-
rituale, un tratto essenziale dell'antica concezione greca
di eroismo, realizzata soprattutto, per i Greci, nella
figura di Eracle e nelle sue« fatiche» (7t6vot), cioè la
capacità di « aiutarsi da sé». Mentre nella forma pri-
mitiva di questo ideale, il pregio dell'eroe era tutto
nella forza di cui faceva prova nell'affrontare vitto·
riosamente potenze ostili, incantesimi e mostri di ogni
guisa 135), questa forza, ora, si fa interiore. Essa si av·
vera soltanto se desideri e tendenze dell'uomo si con·
tengono e si limitano nell'ambito di quello che è in
suo potere. Il saggio soltanto, che ha schiacciato i
mostri selvaggi delle passioni che gli si agitavano in
petto, è veramente sufficiente a se stesso: egli si ac·

133) Il sostantivo« autarkeia» non si trova in Senofonte. L'agg.


« nutarkés» si trova una volta nella CiTopedia, e quattro volte
nei Memorabili, ma solo in Mem. I 2, 14 ha il significato di« as-
senza di bisogni». Ed appunto in questo luogo è riferito a ·so-
crate.
134) Platone menziona l'autarchia come elemento della perfe-
zione e beatitudine del cosmo nel Timeo, 68e (cfr. anche 34b),
come proprietà essenziale dell'uomo buono nel Filebo, 67a. «L'uomo
come si conviene» (bne:txl]ç) significa, in Resp. 387d, «l'uomo
che basta a sé stesso». Anche per Aristotele «indipendente» e
«perfetto» son sinonimi. Sull'autarchia del saggio cfr. Eth. Nic.
X 7, 1177 b 1. Sulla prosecuzione che Cinici e Cirenaici fecero della
mancanza di bisogni di Socrate v. ZELLER, Phil. d. Griech. II,
1 6 , 316; v. anche· H. GOMPERZ, op. cit. alla n. 131, p. 112 ss.
1 36) Cfr. le osservazioni del WILillOWITZ in Euripides' Herades,
12, pp. 41 e 102.
780 [rr 92] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

costa al massimo alla divinità, all'essere che non ha


bisogno di niente.
Questo ideale« cinico», Socrate lo esprime con molta
precisione nei dialoghi col sofista Antifonte, che cer-
cava di alienare da lui gli animi degli scolari, con ac-
cenni canzonato.rii alla meschina condizione economica
del maestro 136). Ma non sembra che il pensiero dell'au-
tarchia sia stato portato da Socrate a quegli estreini, in
sen~o individualistico, a cui lo portarono poi i Cinici.
La sua autarchia non partecipa dell'apoliticità di quelli,
del loro ritrarsi in se stessi, della loro ostentata indif-
ferenza di fronte ad ogni cosa che venga dal di fuori.
Socrate si muove ancora del tutto nella polis. E, per
di più, egli comprende sotto il concetto di « politico »
ogni altra forma di comunità umana, e vede l'uomo
situato nella vita della fainiglia e nella cerchia di
parenti e ainici. Sono, queste, le più ristrette forme
della vita associata, senza le quali non è possibile
la nostra esistenza. Egli, quindi, estende l'idea di
concordia dalla cerchia della vita politica, che le
aveva dato origine, alla famiglia., e dimostra la neces-
sità di cooperazione nella fainiglia e nello stato, con
l'esempio del corpo, in cui né mani né piedi, né alcun
altro organo, può aver vita, separato dagli altri 137).
D'altro canto, però, egli fu· accusato di avere, nella

136) Cfr. Xen. Mem. I 6. 10, dove Socrate parla della mancanza
di bisogni della Divinità. Il pensiero appare anche in Euripide,
Her. 1345, e deriva evidentemente da quella critica :filosofica alla
rappresentazione antropomorfica della divinità, che si trova per
la prima volta in Senofane (v. vol. I, p. 319). La punta umoristica
del luogo di Senofonte sta nel fatto che Antifonte. a cui Socrate
si rivolge, e che ha rimproverato a lui di essere senza bisogni. aveva
fatto l'elogio della mancanza di bisogni della Divinità, quasi con
le stesse parole (v. fr. 10 Diels).
137) «Concordia» (oµ6votcc) come ideale politico: Xen. Mem.
IV 4, 15; cfr. anche III 5, 16. Cooperazione dei membri della fa-
miglia: Il 3; esempio tratto dalla cooperazione delle parti del-
1'orgauismo: Il 3, 18 ss.
CAP. II: SOCRATE [rr93] 781

sua opera di educatore, minato l'autorità della famiglia,


il che dimostra, se non altro, che la sua influenza
sui giovani poté, in certe condizioni, indurre una crisi
nella vita familiare d'antico stampo 138). IJ vero è che
egli cercava un fermo criterio di valutazione delle
azioni umane; la rigida affermazione dell'autorità pa-
terna non poteva tener le veci di un tale criterio,
in un tempo in cui ogni antica tradizione era scossa
e vacillante. Così, parecchi pregiudizi ancora dominanti
al suo tempo furono sottoposti a critica nelle sue con-
versazioni. Non si deve però dimenticare, in contrasto
con ciò, il gran numero di padri di famiglia che a So-
crate si rivolsero per consiglio riguardo all'educazione
dei figli. Il dialogo col suo proprio figliuolo adolescente,
Lamprocle, che lamenta il carattere bisbetico della ma-
ch-e Santippe, fa vedere quanto Socrate fosse lontano
dall'ammettere giudizi precipitosi e intolleranza irri-
verente, di fronte al carattere o anche a vere e proprie
debolezze dei genitori 139). A Cherecrate, che non riesce
a stare in pace col fratello Cherefonte, egli dimostra
che il rapporto fraterno è una specie dell'amicizia, per
la quale noi abbiamo in noi stessi la disposizione na-
turale, giacché anche le bestie mostrano di possederla 14°).
Per fare di essa un vero valore per il nostro bene, c'è
bisogno di un sapere, di un'intelligenza, proprio come
intelligenza è necessaria per far buon uso di un ca-
vallo. Questo sapere non è qualche cosa di nuovo o
di complicato: chi vuol bene dagli altri deve cominciar
lui a far bene a loro; e questo principio, la necessità
di prevenire, vale per l'amicizia come per l'inimicizia
e per la lotta 141).

138 )Mem. I 2, 49.


1 39)Mem. II 2.
140) Mem. II 3, 4.
10.) Mem. II 3, 14.
782 [1194] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

È qui il luogo di dire una parola più di proposito


e più precisa sulla concezione socratica dell'amicizia.
Non si tratta di pura teoria, ma di qualcosa che ha
radice nel modo stesso di vita di Socrate. In esso filo-
sofia e sforzo intellettuale sono legati all'amichevole
contatto con altri uomini. Le nostre fonti concordano
nel rilevare questo fatto come nel riferire, attribuen-
doli a Socrate, un gran numero di nuovi e profondi
pensieri sulle relazioni tra uomo e uomo. In Platone,
il concetto socratico di philia è elevato a un piano me-
tafisico nel Liside, .nel Simposio e nel Fedro. A queste
concezioni speculative, che dovremo esaminare in se-
guito, limitiamoci per ora a contrapporre il quadro
disegnato da Senofonte, nel quale il problema ha un
posto non meno dominante.
Un buon amico è un bene del pitl alto valore per
ogni condizione di vita. Ma il valore degli amici è
vario quanto è vario il prezzo degli schiavi. Chi sa
questo, domanda a se stesso, una volta per sempre,
quanto egli stesso significa e vale per i suoi amici, e
si adopera per aumentare, al massimo possibile, il pro-
prio pregio 142). Q~esto nuovo valore conferito all'ami-
cizia è caratteristico degli anni della grande guerra e
continuò sempre a crescere fino a dar luogo, dopo So-
crate, nelle scuole filosofiche, a una vera e propria
letteratura dell'amicizia. Ma il pregio dell'amicizia è
già un motivo dell'antica poesia. In Omero essa è
cameratismo di soldati; nella regola educativa aristo-
cratica di Teognide, il suo compito diviene di pro-
tezione e riparo scambievole nei rischi della vita pub-
blic~ e in tempi di rivolgimento politico 143). E proprio
questo è l'aspetto che in Socrate ha particolare rilievo.

142 ) Mem. Il 5.
143) Cfr. vol. I, p. 364.
CAP. Il: SOCRATE [II 95] 783

Egli consiglia a Critone di farsi un amico che sia per lui


come un cane da guardia 144). In questo tempo in cui la
società e ogni forma di relazioni umane, perfino la fa-
miglia, si vanno disgregando per il moltiplicarsi delle
parti politiche, e per l'insidia sempre temuta dei sicofan-
ti, la mancanza di sicurezza dell'uomo isolato giunge a
un grado non più tollerabile. Ma quello che fa di Socrate
il maestro di una nuova arte dell'amicizia è il con-
cetto, che l'intimo valore degli uomini, e non il van-
taggio esteriore; è fondamento di ogni vera amicizia;
Senza dubbio l'esperienza mostra, scoraggiante espe-
rienza, che anche tra i buoni, tesi a mete elevate, non
solo non regnano amicizia e benevolenza, ma spesso
contrasti più acuti e violenti che tra gli esseri da
nulla 145). In realtà gli uomini sono per natura disposti
a sensi di amicizia come al contrario. Essi hanno bi-
sogno gli uni degli altri, bisogno di collaborare,
hanno il dono della compassione, conoscono beneficio
e gratitudine. Ma anche tendono agli stessi beni e per-
ciò vengono a conflitto, sia che si tratti di nobili scopi
o soltanto di raggiungere il piacere; basta, a dividere,
una differenza di opinioni; la rivalità e l'ira portano
alla guerra; l'avidità di ricchezZe maggiori genera
inimicizia; l'invidia è odio. Eppure, a traverso tutti
questi ostacoli, l'amicizia passa intatta, e lega insieme
gli uomini migliori, sicché essi preferiscono questo bene
interiore a un acquisto d'oro o di fama e, senza invidia,
mettono a disposizione degli amici i beni e l'opera, a
quel modo che essi stessi si compiacciono di godere
dei beni e dell'opera degli amici. E perché mai l'aspira-
zione di un uomo ad alte mete politiche, agli onori
nella sua città o ad una segnalata attiyità in pro di

144) Mem. II 9.
140) Per ciò che segue v. Mem. II 6, 14.
784 [u96] LIBRO III • ALLA RICERCA DEL DIVINO

essa, dovrebbe impedirgli di legarsi con un altro uomo


dello stesso sentire invece di tenerlo per avversario ?
L'esigenza iniziale dell'amicizia è il completamento
della propria personalità. Ma, in seguito, c'è bisogno
di possedere la qualità dell'uomo « erotico», dell'ama-
tore, quella qualità che Socrate ironicamente ama at-
tribuirsi, dell'uomo, cioè, che desidera gli altri uomini
e va a caccia di loro, e che si è fatto un'arte del dono
ricevuto da natura, di piacere a quelli che piacciono
a lui 146). Quest'uomo non fa come la Scilla di Omero
che subito gettava agli uomini le mani addosso, sicché
tutti, a vederla da lontano, fuggivano. Piuttosto egli
somiglia alle Sirene che, coi loro canti di magica
virtù, allettavano gli uomini da lontano ad acco-
starsi a loro. Socrate ha il -genio dell'amicizia e
questo genio egli adopra anche in servizio dei suoi
amici, quando essi hanno bisogno della sua opera
mediatrice per farsi degli amiei. Egli riconosce nell'ami-
cizia non solo il cemento indispensabile della collàhora-
zione politica, ma anche la forma vera e propria di ogni
altra colleganza produttiva tra uomini. Perciò egli non
parla, come i Sofisti, di scolari, ma solo di amici 147).
Questo modo di dire, dalla cerchia socratica trapassò
più tardi nel vocabolario delle scuole filosofiche, del-
l'Accademia e del Liceo, dove seguita a vivere, quasi
irrigidito, in espressioni del senso di « amici iscritti»
o «immatricolati» 148). Ma per Socrate questo non è un
146) Mem. II 6, 28.
U?) Socrate non parla di suoi « scolari» e rifiuta di esser chia-
mato « maestro» di qualcuno: Pl. Apol. 33a.. Egli ha solo con gli
uomini rapporti di associazione e convivenza (cruvoucr(oc, ol cru'l6v-
TE<;), senza riguardo all'età, e con essi «conversa» (lhocì-t-
YEO".&oct}. Per questo non riceve denaro, come invece fanno i
Sofisti; Apol. 33h; 23c (sulla povertà di Socrate).
UB) L'espressione « amici iscritti», si trova usata nel testa-
mento di Teofrasto, Diog. L. V 52, ol yqpcr.µµé'lot qi('.ì-ot. Si-
milmente in età postsocratica si trovano irrigidite in una ter-
minologia scolastica le altre espressioni, 01)'1oucr(cr., 8tcr.Tp t~-fi
CAP. !I: SOCRATE [n97] 785

modo di dire. Lo scolaro gli sta dinanzi agli occhi nella


sua totalità di uomo, e il miglioramento della gioventù,
nel quale i Sofisti si spacciavano maestri, è realmente
per lui, cosi sdegnoso di simili forme di autoesalta-
zione, il più profondo senso del suo contatto d'ami-
cizia con gli uomini.
È fatto sommamente paradossale che questo educa-
tore grandissimo evitò di parlare di paideia riferendosi
alla sua propria opera, sebbene tutti vedessero in lui
la vivente incarnazione di essa. Certo, alla lunga, la
parola non era evitabile, tanto che Platone e Seno-
fonte la usano di continuo per designare l'attività di
Socrate e per caratterizzare la sua filosofia. Ma Socrate
si trovava davanti questa parola appesantita dalla
pratica e dalla teoria « pedagogiche» dell'età sua 149) e
dové sembrargli che essa da un lato promettesse troppo,
dall'altro dicesse troppo poco. Così, di fronte all'accusa
di corrompere la gioventù, egli si soffermò a spiegare
di non aver mai preteso di educare nessuno 150), eviden-
temente volendo dire, di non aver mai sottoposto nes-
suno ad esercitazioni specifiche al modo dell'insegna-
mento professionale dei Sofisti. Socrate non è « un mae-
stro», ma egli è senza posa alla cerca del vero mae-
stro e non lo trova mai. Quello che egli trova, tutt'al più,
è un abile specialista in questo o quel campo, un uomo
che merita di esser raccomandato per la sua specia-
lità 151). Ma, il maestro, nel pieno senso della parola,
«associazione»,« trattenimento»,« le?..ione»; lìtixÀÉye:cr.&ixt «con-
versazione», «lezione»; crxo À1j «tempo libero», « otium »,«scuola».
Esse furono trasferite all'attività didattica professionale, quando
Socrate le aveva usate proprio in opposizione a essa. Così la tecnica
educativa dei Sofisti vinse snllo spirito e sulla peroonalità su cui
si fondava la missione educatrice di Socrate.
1 49) Per lni erano rappresentanti tipici della f,aideia moderna
Gorgia, Prodico e lppia: Pl. Àpol. 19e.
150) PI. Apol. 19d-e: oùlìé ye: e:r ·nvo<; &x1pc6ix't's Ù>t; èyoo 7t"IXL-
8sustv èmxe:tpw &v.&p<imouç ••. oùlìè 't'Ou't'o &À'lj.&éç.
151) Xen. Mem. IV 7, l, III 1, 1-3.
786 [rr98] LIBRO ill - ALLA !UCERCA DEL DIVINO

egli non lo trova; davvero il maestro è un animale


raro. Sicuramente, da ogni parte, si leva qualcuno e
rivendica il suo diritto a collaborare alla, grande opera
della paideia: la poesia, le scienze, le arti, le leggi, lo
stato; e poi sofisti retori e filosofi, tutti; fino ~ ogni
bravo cittadino ateniese che veglia sulla conservazione
della legge e dell'ordine in città, tutti si figurano, per
parte loro, di far migliore la gioventù 152). Socrate non
crede di esser proprio lui a intendersi di quest'arte.
Ma quello che lo stupisce è di essere fra tanti il solo
a corrompere gH uomini. Egli, mentre commisurando
le grandi pretese degli altri con un nuovo concetto
della paideia è costretto a dubitare della loro ammis-
sibilità, sente d'altra parte che anche lui stesso non
si adegua al nuovo ideale. Così, in questa ironia schiet-
tamente socratica, si svela una consapevolezza del
compito della vera educazione e della sua immensa
difficoltà, di cui la gente comune non ha neppure un
sospetto.
Se si tien presente l'atteggiamento ironico di So-
crate di fronte alla sua stessa attività educatrice, ci si
spiega l'apparente contraddizione, che egli, ad un tempo,
sostenga la necessità della paideia e neghi valore ai
più seri sforzi di altri per ·attuarla 153). Il suo eros di
educatore si volge soprattutto alle nature privilegiate,
a quei giovani che son ben disposti ad accogliere la
più elevata formazione intellettuale e morale, cioè l'areté.
La loro prontezza nel capire, la buona memoria e l'avi-
dità di sapere esigono la paideia. Socrate è convinto per-
ciò che essi possono raggiungere le più alte mete per sé
e in pari tempo fare altri felici, solo a patto di trovare

162) PL Apòl. 25a; Meno, 92e.


isa) Cfr. PL Apol. 19c. Qui Socrate afferma che sarebbe bello
in sé che uno sapesse« educare uomini», ma poi aggiunge «come
Gorgia, Prodico e lppia», e questo è un tratto d'ironia socratica.
CAP. II: SOCRATE [rr99] 787

f' educazione che fa veramente per loro 1M). A coloro, poi,


che disprezzano il sapere, per fiducia nelle sole doti natu-
rali, egli dimostra che proprio loro, più degli altri, abbiso-
gnano di una buona disciplina educativa, allo stesso
modo che, di cani e cavalli, i migliori son certo quelli
che hanno migliore razza e tempra naturale, purché però
siano fin da piccoli domati e ammaestrati con metodo
severo, mentre lasciati indomiti a se stessi riescono
i peggiori di tutti. Proprio i meglio dotati abbisognano
di addestrarsi alla perspicacia e al giudizio critico, se
vogliono che la loro opera risulti in effetto pari ai
talenti naturali 155). Infine, ai ricchi che pensano di
poter fare a meno della cultura, egli cerca di aprire
gli occhi, col mostrare l'inutilità di una ricchezza che
si dissipi senza giudizio e per cattivo fine 156).
Con pari vigore, però, egli affronta un altro, e ben
diverso vizioso atteggiamento di fronte alla cultura;
cioè la vanità culturale di quei giovani che, orgogliosi
e compiaciuti di cognizioni letterarie e di interessi in-
tellettuali, si sentono supe,riori ai loro coetanei e sono
sicuri, in p:;irtenza, del più splendido successo nella
vita politica. Un rappresentante, non privo di tratti
simpatici, di questo tipo, è il giovane blasé Eutidemo 157).
La critica di Socrate alla sua vasta cultura generale
coglie subito il suo punto debole. La ricchezza e varietà
degli interessi di cultura di questo giovane sono straor-
dinarie, a giudicare dal catalogo della sua biblioteca,
dove si può dire non ci sia arte o specialità che non sia
rappresentata, dalla poesia alla medicina, dalla matema-
tica all'architettura; ma una lacuna c'è: non si vede un

154) Xen. Mem. IV 1, 2.


155) Mem. IV 1, 3-4.
156) Mem. IV 1, 5.
1 57) M em. IV 2.
788 [rrlOO] LIBRO Ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

manuale, una guida alla virtù politica. Eppure questa,


per un giovane ateniese, deve essere lo scopo naturale
di ogni cultura generale e formazione. Ma, forse, la po-
litica è l'unica arte in cui possa dettar leggi un auto-
didatta 158), mentre se si accosta alla medicina, tutti,
subito, gli danno del ciarlatano ? Oppure, nell'arte
della politica, invece di dover nominare, come nelle
altre, i propri maestri e mostrare le buone prove già
fatte, occorre unicamente fornire la dimostrazione della
propria ignoranza, per attirarsi subito la :fiducia di
ognuno ? Alla fine Socrate persuade Eutidemo che la
professione alla quale egli pensa è l'arte « regale» 159 ),
e che nessuno può diventar grande in essa senza essere
giusto. E come quelli che trascurano la propria cultura
sono incitati da Socrate a mettersi all'opera per il pro-
prio bene, così, questa volta, colui che si era immagi-
nato di possedere una cultura, è condotto a riconoscere
che gli manca l'essenziale. Eutidemo si lascia avvilup-
pare in un interrogatorio sull'essenza della giustizia e
dell'ingiustizia che gli mostra che non ha capito nulla
né dell'una né dell'altra. Ed ecco che, iii luogo dello
studio libresco, un'altra via si disegna, che conduce
alla « virtù politica»; la via che comincia dalla visione
della propria ignoranza e dalla conoscenza di se stesso,
che è quanto dire conoscenza delle proprie forze".
Le nostre fonti non ci consentono di dubitare éhe
questa fu la via propriamente socratica e che la meta,
a cui si volse il suo appassionato sforzo di educatore
fu, appunto, questa virtù politica. Su questo punto
laccordo è pieno tra le testimonianze di cui dispo-
niamo. Che cosa, poi, si debba intendere con quel ter-
mine, ce lo dicono con la maggior chiarezza i primi dia-

158) M em. IV 2, 4.
uu) Mem. IV 2, 11 (cfr. Il 1, 17 e III 9, 10).
CAP. II: SOCRATE [II 101) 789

loghi socratici di Platone. Queste operette si sogliono


per lo più, sull'esempio di Aristotele, chiamare « dia-
loghi etici» 160), ma l'espressione si presta assai facil-
mente, per noi moderni, ad essere fraintesa, giacché non
è senz'altro evidente e ovvio per noi, come era ancora
per Aristotele 1 61), che il concetto di « etico» sia uno
degli elementi che costituiscono la vita della comunità;
anzi di frequente noi riteniamo connotato essenziale
dell'eticità la sua separazione e immunità dalla sfera
della politica. E questa separazione del dominio
proprio all'individuo interiore da quello del comune e
pubblico, non è soltanto un'astrazione della filosofia
moderna, ma è qualcosa che molto, veramente, si
profonda in noi. Essa è nata da quella tradizione se-
colare del mondo cristiano-moderno, che induce a te-
nere, come in due partite distinte, da un lato la stretta
regola del V angelo, valevole per la vita morale dell'in-
dividuo, dall'altro altri criteri e misure «naturali», da
applicare allo stato e all'azione politica. Con ciò non
solo si è separato ciò che fu unito, un tempo, nella
vita della polis greca, ma gli stessi concetti di« etico»
e di « politico» hanno mutato significato: ed è un
fatto, questo, che più di ogni altro rende difficile ca-
pire esattamente la situazione spirituale greca. Giacché,
per esso, anche il dire che le « virtù» di cui Socrate
parlava erano « politiche» ci diventa facilmente frain-
tendibile. Quando si designa come «politica», nel senso
di Socrate e di Aristotele, tutta la vita dell'uomo greco
e la sua moralità, deve essere chiaro che s'intende qual-
cosa di molto diverso, in ogni caso, dagli odierni con-
cetti, di sapore tecnico, di politica e di stato. E basta

160) Arist. Met. A 6. 987 b I.


161 ) Cfr. Arist. Eth. Nic. I 1, 1094 a 27 e X 10, in particolare
la fine.
790 [rr102J LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

pensare, perciò, alla differenza di significato delle stesse


parole: l'astratto concetto di « stato », status della tarda
latinità, da una parte, e dall'altra la concreta parola
greca, polis, con la quale ci si spiega dinanzi agli occhi,
in tutta la sua ricchezza di vita, l'intera convivenza
umana, includente, in organica struttura, nella vita della
comunità, l'esistenza del singolo. In questo antico
senso, dunque, i dialoghi socratici di Platone, sulla pietà
verso gli dei, sulla giustizia, sulla fortezza e sulla sa-
pienza, si possono dire ricerche sull'essenza della virtù
politica. Come abbiamo precedentemente mostrato,
questo numero fisso di quattro delle cosiddette virtù
cardinali platoniche, è traccia sicura, da solo, della
loro origine storica dall'ideale civico della polis greca
arcaica, giacché lo stesso canone delle virtù civili si
trova già menzionato in Èschilo 16~).
I dialoghi platonici rivelano un lato dell'attività
socratica, che nell'esposizione senofontea si ritrae quasi
del tutto di fronte all'atteggiamento di svegliator di
coscienze e di ammonitore: il dialogo, cioè, nel quale
l'interlocutore è esaminato e confutato, l'elenchos. Ma
questo è, come ha già mostrato il modo platonico di
caratterizzare le forme tipiche del discorso socratico
(v. p. 58), il complemento necessario del discorso am-
monitore, in quanto vale a preparare e dissodare il
terreno in cui cada il seme dell'ammonizione, con la
conoscenza di sé, col riconoscimento, da parte dell'inter-
rogato, che il suo sapere è puramente immaginario
I dialoghi confutatorii si svolgono sempre in una
tipica forma: quella del tentativo, più volte vano e
più volte ripreso, di cogliere, il concetto generale che
sta sotto ~a certa parola comunemente usata per de-
signare questo o quel pregio morale, come la fortezza

182) Cfr. vol. I, p. 208, n. 27.


CAP. II: SOCRATE [rr103] 791

o la giustizia. La forma in cui la domanda è posta:


« che cos'è la fortezza ?», sembra dimostrare che lo
scopo a cui si tende sia la definizione. Anzi, espressa-
mente Aristotele considera la definizione dei concetti
come una conquista di Socrate 163), e Senofonte del
pari 164). Ciò aggiungerebbe un lineamento nuovo al ri-
tratto di Socrate fin qui tracciato e ne farebbe l'inven-
tore della logica. Di qui, infatti, discendeva la vecchia
opinione che vedeva in Socrate il fondatore della filoso-
fia del concetto. Ma in tempi recenti, Enrico Maier ha
contestato la validità della testimonianza arist~telica e
senofontea, e creduto di poter dimostrare che questa
non ha altro fondamento che i dialoghi di Platone,
i quali, a loro volta, espongono la particolare dottrina
·di lui 185). Per il Maier, Platone, preso l'avvio da una
nuova concezione del sapere che trovava in Socrate,
ne sviluppò la logica e in essa, il concetto; Socrate era
stato solo il protrettico, il profeta dell'autonomia mo-
rale. Sennonché questa teoria va incontro a difficoltà
altrettanto gravi, della sua opposta, quella per cui
già Socrate avrebbe professato la teoria delle idee 188).
Che la testimonianza di Aristotele e Senofonte sia stata
ricavata solo dai dialoghi di Platone è indimostrabile,
e, in sé, non verosimile 187). La tradizione di cui dispo-

163) Arist. Met. A 6, 987 b I; M 3, 1078 b 18, e anche b 27.


184) Xen. Mem. IV 6, I.
1 85) Il MAIER (Sokrates, p. 98 ss.: trad. it. I, p. 100 ss.) fa de-
rivare le affermazioni aristoteliche su Socrate scopritore dei con-
cetti universali e sui tentativi defì.nitorii di lui, da Senofonte (Mem.
IV 6, 1), e giudica che quest'ultimo abbia ricavato di che for-
mare la sua opinione dai dialoghi dialettici tardi di Platone,. Fe-
dro, Sofista e Politico (cfr. anche p. 271, trad. it. I, p. 279).
188) È questa l'opinione di J. Burnet e di A. E. Taylor; v.
1upra, pp. 36, 37 s.
1 67 ) V. la critica all'ipotesi del Maier sulle fonti aristoteliche
e alla sua negazione dell'aspetto logico della filosofia socratica,
nella recensione da me fatta del suo libro in « Deutsche Literatur-
zeitung », 1915, p. 333-340 e 381-389. Nello stesso senso si orien-
tarono le critiche di E. Hofl'mann e K. Praechter.
792 [II 104] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

niamo è univoca nel rappresentare Socrate come il


maestro invincibile nell'arte di dissertare per domanda
e risposta, nella dialettica, se pure questo lato, in Se-
nofonte, resta in ombra die:tro l'elemento protrettico.
Quale sia stato il senso e lo scopo di tali tentativi di
definizione concettuale, è altra questione; ma del fatto,
in sé, non è lecito dubitare. Ammettiamo pure, che
quando s'accetti la visione tradizionale di un Socrate
puro filosofo del concetto, non si capiwa più come il
suo discepolo Antistene si sia potuto volgere, intera-
mente, all'etica e alla protrettica: resta però vero, in-
versamente, che quando si limita l'opera di Socrate
all' « evangelo della volontà etica», diventa inspiega-
bile la formazione della teoria delle idee e la stretta
connessione, in cui essa è posta dallo stesso Platone
col« filosofare» socratico. C'è una sola via per liberarsi
di questo dilemma: riconoscere che l'atteggiamento
socratico nell'affrontare il problema morale non fu,
semplicemente, quello della profezia o della predica,
volta a scuoter moralmente le coscienze, ma che I'esor-
tazione sua a« curarsi dell'anima» si attuò nello sforzo
di cogliere l'essenza della moralità, per forza del logos.
Il movente essenziale del dialogo socratico è il pro-
posito di venire, insieme con altri uomini, a una con-
clusione che s'imponga all'accettazione di tutti, su un
argomento che sia per tutti i partecipanti al dialogo
d'interesse inestimabile, su uno, insomma, dei più alti
valori della vita. Per giungere a questo fine Socrate
parte sempre da una proposizione o principio accettato
dall'interlocutore, o .generalmente da tutti tenuto per
vero. Da questo principio, posto coine base o «ipotesi»,
si traggono le conseguenze che via via si mettono di
fronte ad altri principi, ritenuti universalmente validi,
della nostra coscienza. La scoperta che in tal modo
si fa delle contraddizioni in cui si viene a cadere per
CAP. II: SOCRATE [Il 105] 793

aver posto a fondamento certe. proposizioni, è fattore


essenziale del processo dialettico. Esse, infatti, co-
stringono a rinnovare l'esame dei fondamenti e tal-
volta a emendarli, talvolta ad abbandonarli del tutto.
Scopo del procedimento è il ricondurre i singoli fe-
nomeni di valore morale, a un valore universale su-
premo. Socrate, però, non parte, in queste sue ricerche,
dal problema di questo universale « buono in sé»,
ma da una qualunque « virtù» singola, in quanto l'uso
linguistico la caratterizza con particolari aggettivi di
qualità morali, cioè, per es. da ciò che noi chiamiamo
forte o giusto. Così nel Lachete si fa un certo numero
di tentativi per dire che cosa è « fortezza», ma le con-
clusioni raggiunte si debbono lasciar cadere una dopo
l'altra perché risultano o troppo ristrette o troppo ge-
neriche rispetto all'essenza di questa virtù. Anche il
dialogo con Eutidemo nei Memorabili, sulle virtù, pro-
cede in questo modo 168). È questo, dunque, il« metodo»
del Socrate della storia. Certo, questa parola« metodo»
non arriva a indicare con chiarezza tutto il significato
etico del procedimento; ma si può usarla, come pa-
rola di origine socratica che ben caratterizza la ma-
niera di questo gran « virtuoso » .della disamina, fat-
tasi, di natura, arte consapevole. Esteriormente que-
st'arte poté sembrare simile, al punto di essere scam-
biata con essa, a quella maestria nella schermaglia
verbale, che era stata elevata anch'essa, pericoloso pro-
dotto deJla vita culturale, proprio in quel tempo, al
rango di un'arte. E, certo, non mancano nei dialoghi
socratici pezzi di bravura disputatoria che fanno pen-
sare ai lacciuoli e trabocchetti di questa « eristica»,
come fu chiamata. Anche nella dialettica di Socrate si
deve far la sua parte all'elemento del puro piacere della

168) Xen. Mem. IV 6.


794 [Il 106) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

disputa per la disputa. Questo elemento è stato


con fedeltà reso da Platone, sicché si comprende come
contemporanei estranei alla scuola o rivali, Isocrate
p. es., rappresentino senz'altro i socratici come eri-
stici professionali 169). Ciò mostra quanto fosse, per gli
estranei, in rilievo questo aspetto della Socratica, ma,
nei dialoghi socratici di Platone, domina e prevale,
non ostante il gusto per il brio di questa nuova atle-
tica intellettUale, e l'entusiasmo sportivo per il colpo
sicuro e vittorioso di Socrate, una profonda serietà e
un'adesione perfetta alla cosa di cui si tratta, che si
pone sempre al di sopra del gioco.
Il dialogo socratico non si propone di applicare a
questioni etiche 'un qualunque nuovo _artificio di lo-
gica definitoria, ma è solo la via, il « metodo », offerto
dal logos, per giungere a un retto operare. Nessuno dei
dialoghi socratici di Platone giunge al resultato di de-'
finire realmente il concetto morale investigato; e, di-
fatti, per lungo tempo è stata opinione universale
che tutti questi dialoghi termininQ, senza alcun resul-
tato. In realtà un resultato esiste, anche se noi lo scor-
giamo soltanto quando paragoniamo più dialoghi tra
loro, nel loro svolgersi, e ci mettiamo così in grado di
scorgere in essi l'elemento tipico. Tutti questi tentativi
di« definire» l'essenza di una singola virtù shoccano
alla fine nella conclusione che essa deve essere un sa-
pere, una conoscenza. Tuttavia non tanto importa a
Socrate ciò che distingue la singola virtù, cioè la sua
definizione, quanto ciò che essa ha in comune con le
altre virtù, la « virtù in sé». Il presupposto o, si di-
rebbe, il present~ento, che questa sia da cercare in
un sapere ispira, inespresso, la trattazione, da un capo
all'altro; poiché, a che cosa servirebbe, alla- fine, tutto

169) Cfr. « Paideia» III 96, n. 37.


CAP. II: SOCRATE [11107] 795

questo dispendio di energia intellettuale rivolto alla


soluziòne del problema etico, se il ricercatore non
sperasse di avvicinarsi, praticamente, alla meta, al
raggiungimento del bene? Eceo, però, che questa con·
vinzione socratica contraddice direttamente quella che
è stata, in tutti i tempi, l'opinione dominante. I più
hanno sempre pensato che il problema stia pl·oprio in
questo: che troppo spesso l'uomo si appiglia al peggio,
benché conosca il meglio 170) e hanno dato comunemente
a questo contegno il nome di fiacchezza morale 171).
Perciò quanto più sembra stringente la dimostrazione
di Socrate, che l'areté alla fine debba essere un sapere,
e quanto più lo sforzo dialettico è stimolato dall'al-
tezza e dal pregio della meta, tanto più il sentimento
reagisce dubbioso a questo metodo paradossale.
Questi dialoghi ci fanno assistere alla più alta
prova a cui si sia spinta e tesa la sete di conoscenza
dei Greci, la loro fede nella conoscenza. Con loro, la
mente, dopo avere, col suo potere ordinatore, dato
legge al mondo esterno e fatta luce nella sua
struttura, si accinge ora, con ardimento più grande,
a sottoporre al dominio della ragione la vita umana
uscita dall'ordine. Già ad Aristotele, che pure con-
divideva la fede ardimentosa nel potere costruttivo,
« architettonico» della mente, l'affermazione socratica
« la virtù è scienza», parve un'esagerazione intellet·
tualistica, e, in contrapposto ad essa, egli cercò di
porre in giusto rilievo, l'importanza delle passioni e
del dominio su esse, nell'educazione morale172). Ma. So-

170) Ciò è mirabilmente formulato da Platone, Prot. 355a-b.


111) In greco questo si dice: «farsi vincere dal piacere>>. -fi-r-
-ricr.&aL -r&v -fil:ìov&v (p. es. Prot. 352e). Socrate in Prot. 353c
rivolge la sua attenzione proprio su questo punto, cioè sul pro-
blema, di che natura sia una tale debolezza.
172) Cfr. Eth. Nic. VI 13, 1144b17 ss. La« virtù etica» si eser-
cita specialmente riguardo a piacere e dispiacere: Il 2, 1104 b 8.
796 [n108] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

crate, con quella sua affermazione, non pensa affatto


di proclamare una verità di ordine psicologico. Se nel
suo paradosso si ricerca il nucleo veramente fecondo,
che pur vi si intravvede, lo si ravvisa facilmente nel ri-
fiuto . di tutto quello che fino allora si era chiamato
scienza, e che si era rivelato, alla prova, privo di effi-
cacia etica. La conoscenza del Buono, che Socrate
trova al fondo di tutte le cosiddette « virtù» umane,
singolarmente prese, non è un'operazione dell'intel-
letto, ma come ben vide Platone, l'espressione, fattasi
consapevole, di un « essere» intimo all'uomo. Essa ha
radice in uno strato profondo dell'anima, dove l'es-
sere penetrato dalla conoscenza e il possesso del cono-
sciuto non si possono più scindere, ma sono, essenzial-
mente, uno. La filosofia platonica è il tentativo di
scendere a questa profondità, rivelata dal concetto so-
cratico di sapere, e di portarne alla luce tutta la ric-
chezza l73). Per Socrate non ha alcun valore, in que-
sta sua convinzione, l'obiezione dei più affermanti,
con richiamo all'esperienza, che conoscere il bene
e farlo non sono la stessa cosa: questo vorrà dire
soltanto che il vero sapere è raro, tanto raro che So-
crate non crede davvero di potersi vantare di posse-
derlo. Ma, dimostrando l'ignoranza di coloro che pre-
tendono di sapere, egli prepara la via per un concetto
del sapere che adempie il suo postulato ed è realmente
la più profonda forza dell'anima. Per Socrate, l'esi-
stenza di un tale sapere è una verità primaria, incon-

173) Il concetto platonico di phr6nesis, che significa insieme co-

noscenza del bene e dominio di questo sull'anima (cfr. il mio


Aristoteles, p. 82, trad. Calogero, p. 101 ss.) vuol soddisfare al-
l'esigenza socratica che la virtù sia scienza. Evidentemente que-
sta parola phr6nesis era già stata usata prima da Socrate. Essa
si trova infatti non solo in Platone, che l'adopra appunto in
luoghi di manifesto colorito socratico, ma anche negli altri socra-
tici, Senofonte e Eschine.
CAP. II: SOCRATE [u 109] 797

dizionata, giacché la si trova al fondo di ogni pensiero


o azione etici, non appena essi si riportano, con l'ana-
lisi, ai loro presupposti. Così fu per Socrate: ma per
i suoi discepoli, la massima che « virtù è sapere»,
non fu più soltanto un paradosso, come era sembrato
in principio, bensì la descrizione di una altissima capa-
cità umana che in tanto poteva dirsi esistente in
quanto si era, una volta, realizzata in Socrate.
La scienza del Bene, nella quale vien sempre a
shoccare, alla fine, l'esame di ciascuna delle virtù
particolari, è qualcosa di assai più comprensivo
della fortezza o giustizia o di qualunque altra
singola areté. Essa è la « virtù in sé», e solo i modi
in cui si rivela son diversi. E qui, di nuovo, un
paradosso psicologico. La fortezza, o coraggio, p. es.,
è la scienza del Bene con riguardo a ciò che realmente
è temibile op pur no: ma ciò, evidentemente, suppone
che nella singola virtù della fortezza sia presente l'in-
terà scienza del Bene 114). Essa, dunque, deve essere in-
dissolubilmente legata con le altre virtù, giustizia, pru-
denza, pietà, e, se non sarà con esse identica, sarà in
ogni modo ad esse sommamente vicina. Ora, non c'è.
esperienza che ci sia più familiare del fatto che un
uomo può. eccellere per forza e coraggio personale di
altissimo grado, ed essere, a un tempo, ingiusto al
massimo, smodato e empfo, mentre un altro è si del
tutto prudente e giusto, ma non è coraggioso 115). Ed
anche se si vuole seguir Socrate fino a considerare le

174) Ciò è dimostrato nel Lachete 199c, ed è il punto a cui So-


crate mira quando, nel Protagora 33lb, 349d, 359a-360e, cerea
di dimostrare che tutte le virtù sono essenzialmente una cosa sola,
cioè una scienza del Bene.
176) Questa è l'obiezione che Protagora muove a Socrate in
Prot. 329d, 330e, 33le, 349d e altrove, mettendosi con ciò dal
punto di vista del sel;l.So comune e facendo apparire Socrate in .
radicale contrasto con questo.
798 [rr 110] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

singole virtù come « parti» dell'unica virtù, che tutto


abbraccia, non sembra che gli si possa concedere che
questa virtù, nella sua totalità, sia presente ed ope-
rante in èiascuna delle sue parti. Si tratterà, tutt'al più,
di figurarsi le virtù come le parti, i lineamenti di un
viso, che potrà avere .begli occhi e un brutto naso.
Eppure, no. Su questo punto Socrate è irremovibile
precisamente come nel tener fermo alla convinzione
che virtù è sapere. La vera virtù è una e indivisi-
bile 176); non si può averne una parte e un'altra no.
Il coraggioso, che è nello stesso tempo imprudente,
smodato e ingiusto, sarà un buon soldato sul campo,
ma forte non è, forte contro se stesso, contro i suoi
nemici interni, le sue passioni sfrenate; il pio, che
compie con scrupolo tutti . i suoi doveri verso gli dei,
ma è ingiusto contro i suoi simili e smodato nel suo
odio, nel suo fanatismo, non può avere in sé la vera
pietà 177). Socrate fa stupire i due strateghi Nicia e La-
chete esponendo qual sia l'essenza della vera fortezza;
ed essi devono riconoscere di non averla mai, nonché
posseduta e praticata, ma neppure compresa a fondo
in tutta la sua grandezza. E il pio interprete della
legge sacra, Eutifrone, si vede smascherato nella po-
chezza della sua orgogliosa e vendicativa religiosità.
Quel che gli uomini chiamano convenzionalmente virtù,
non è, in realtà, che un aggregato in cui si accostano
i prodotti di varie, e tutte unilaterali, maniere di for-

1 76) L'indagine s~ rapporto tra le parti della virtù., che ritorna


più volte in Platone come motivo socratico, appartiene certo al
Socrate storico. L'affermazione dell'unità di esse si presentava
del tutto naturalmente a chi poneva la domanda: che cos'è la
virtù in sé?
. 177 ) Il Lac[iete platonico solleva dubbi sulla concezione tradi-
zionale e puramente militare della fortezza, in quanto mostra che
la fortezza interiore è altrettanto importante (19ld). In modo
analogo Platone nell' Eutifrorie critica il concetto convenzionale
della pietà religiosa.
CAP. II: SOCRATE [Il 111] 799

mazione, di disciplina umana, ed è tale, per di più,


che i componenti sono tra loro in un contrasto etico
inconciliabile. Socrate, invece, è pio e forte, giusto· e
temperante in una sola persona: la sua vita è lotta
e insieme servizio di Dio. Egli non trascura i suoi do-
veri e pratiche cultuali verso gli dei, e per questo
può mostrare a chi non conosce se non questa pietà
esteriore, che c'è pure un altro timor di Dio, e più
alto, di questo. Ha combattuto per la patria, con
segnalato onore, in tutte le guerre, e per questo
può spiegare ai più alti uomini d'arme e capi dell'eser-
cito ateniese, che ci sono altre vittorie oltre quelle
che si conqui,stano con la spada in pugno. Perciò Pla-
tone distingue la virtù civica comune dalla più alta
perfezione filosofica 178). Questo ideale del superuomo
etico è per lui incarnato in Socrate; ma non altrimenti
Platone avrebbe espresso una tale supremazia se non
dicendo che Socrate solo possiede la « vera», umana,
areté.

A considerare la paideia socratica nell'esposizione


senofontea, alla quale ci siamo affidati per un primo
sguardo d'insieme al vario contenuto di essa 1 79), sem-
bra che essa consista in una quantità di particolari
problemi pratici della vita umana. A guardarla invece
nella luce della concezione platonica, si rivela di colpo
l'intima unità che stringe tutti questi particolari, e si
giunge a concludere che il sapere o la phr6nesis di So-
crate, ha un solo oggetto ed è la « scienza del Bene».
Ma se ogni sapienza culmina in un'unica conoscenza
alla quale necessariamente ci riconduce ogni tentativo
.di determinare con precisione un qualunque bene umano,
c1 deve el!sere, tra l'oggetto di questo sapere e la più
178) PI. Resp. 500d, Phaedo 82a. Legg. 710a.
179) Cfr. supra, p. 79 ss.
800 [rr 112] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

intima natura di ogni tendenza e volontà umana, una


relazione essenziale. E solo a patto di scorgere una tale
relazione, ci si fa chiaro come l'affermazione socratica
la virtù è sapere, affonda le sue radici nell'intera con-
cezione socratica dell'essere e dell'uomo. Socrate non
pensò, è vero, a svolgere una completa antropologia,
che fu poi l'opera, esclusivamente, di Platone. Ma, per
Platone, una tale antropologia c'era già nel pensiero
di Socrate: non altro occorreva che svolgere in tutte
le sue conseguenze una massima delle più familiari
a Socrate. In questa, come nelle altre due sulla virtù
come scienza, e dell'unicità della virtù, era implicita
una metafisica intera, in tre parole: nessuno fallisce
volontariamente. 180).
Con questa massima il paradosso della sapienza
educativa di Socrate raggiunge il suo culmine, e, insie-
me, chiarisce la direzione a cui Socrate guida ogni suo
sforzo .. L'esperienza del singolo, c.ome quella dellà
società, depositata nella legislazione vigente e nelle
teorie del diritto, sembra ritenere per vero il contrario
dell'affermazione socratica, in quanto correntemente si
distingue tra volontarietà e involontarietà di ogni
azione e violazione del diritto 181 ). Distinzione che,
anch'essa, certo, si basa sul momento del sapere

180) È questa un'idea che ù :;ocrate platonico ripete continua-


mente. Essa, come del resto è çomunemente ammesso, è uno di
quegli elementi della prima ·dialettica platonica che risalgono al
Socrate storico. Cfr. Prot. 345d, 358c, Hipp. Min. 373c, 375a-b.
181) Su questo punto Aristotele, Eth. Nic. III 2-3, rappre-
senta in complesso la concezione dominante nel diritto greco.
Egli definisce il concetto di « volontario» (éxoua&ov) nel largo
senso in cui lo contempla la legge in vigore: come un'azione, il
cui principio sta nell'agente stesso e nel compiere la quale l'agente
è consapevole delle circ<iStanze di fatto in cui essa si svolge (-rà:
xa:.&' b<IXO"'t"IX èv o!ç ii '"P~ &ç). Ne segue che è « involontaria»
soltanto un'azione che sf CO'.!l'.lpie O sotto la pressione di una vio-
lenza (~!'F) o per ignoranza (13&' &yvota:v).
CAP. II: SOCRATE [rr 113] 801

nell'azione umana e valuta in modo del tutto diverso


una violazione del diritto a seconda che sia consa-
pevole o inconsapevole. Ma Socrate nega il presupposto
in sé di questa distinzione, nega che si possa dare
una violazione consapevole, poiché ciò significherebbe
che si dà una violazione volontaria. La contraddi-
zione di questa concezione, con quella, dominante da
molto tempo, sulla colpa e sull'errore umano, si ri-
solve solo a patto di desumere, anche qui, dal para-
dosso di Socrate - come si è fatto per il paradosso
della scienza - che il concetto di « volontà» di cui
egli parla è tutt'altro da quello che adoprano comu-
nemente giuristi e moralisti. I due concetti sono su
due piani distinti. Socrate non può riconoscere la di-
stinzione tra atto ingiusto volontario e involontario,
per la semplice .ragione che l'atto ingiusto è un male
e la giustizia un bene, e che è nella natura del bene
che esso sia voluto da colui che lo riconosce come
bene. È la volontà umana che si pone, così, al centro
della disputa. Tutte le catastrofi che la volontà ac-
cecata e la brama producono nel mito e nella trage-
dia greca, sembrano levarsi con forza incontroverti-
bile, contro questa massima socratica. Ma tanto più
Socrate la mantiene ferma, e in pari tempo viene
così a criticare, nel suo nucleo essenziale, la concezione
della vita propria della tragedia, giudicandola, ormai,
superficiale. Per Socrate è intima contraddizione che
la volontà possa volere, consapevole, il male: egli,
pertanto, presuppone che il volere umano abbia un
senso, un senso che non è di autoannientamento o
danno di se stesso, ma, certo, di conservazione e di
edificazione di sé. La volontà è dunque, in quanto diretta
al bene, ragionevole in se stessa. Gli esempi innume-
revoli di brame e passioni deliranti non sembrano a
Socrate va~evoli argomenti in contrario. Platone gli fa
802 [II 114} LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

esporre una rigorosa distinzione tra brama e volontà,


in quanto la vera volontà ha luogo solo sul fonda-
mento di una conoscenza verace del Bene, scopo del
volere, mentre il puro desiderio o brama, è una
tendenza diretta a un'apparenza di bene 182). Un pen-
siero in cui la volontà è concepita così intimamente
volta a un fine positivo, deve naturalmente conce-
pirla come fondata sulla conoscenza, e raggiungere
una tale conoscenza, se ciò è possibile, significa, per
esso, l'umana perfezione.
Dal tempo in cui Socrate concepì questo pensiero,
gli uomini hanno cominciato a parlare di una « deci-
sione» dell'uomo, e di un fine ~lella vita e dell'azione
umana 183). Fine della vita è quello che la volontà vuole,
conforme alla sua essenza, il Bene. Il concetto di « fine»,
« meta» suggerisce e presuppone quello della « via»,
immagine, questa, che è molto più antica nel pensiero
greco, e ha tutta una sua storia 184). Ma se in Socrate
rimane l'immagine, ben diverso è il contenuto, e pa-
recchie vie si dovevano battere, prima che si trovasse
quella che conduceva al fine socratico 185). Da Socrate il
Bene è ora rappresentato come il « punto terminale»

1.82) Sulla distinzione tra « volere» e « desiderare», v. p. es.


PI. Gorg. 467c. L'oggetto del volere non è quello che gli uomini
fanno, ma quello per cui lo fanno (oiS !ve:xix).
183) Il fine (wÀoç) è il termine naturale dell'azione al quale
guarda (ci.,.o~Àérre:L) l'agente. Il concetto appare per la prima
volta nel Protagora 354a, c-e. Cfr. anche Gorg. 499e.
1 84) Cfr. il lavoro originale, anche se spesso arbitrario nell'inter-
pretazione, di 0TTFRIED BECKER, Das Bild des Weges und ver-
wandte Vorstellungen im griechischen Denlren (Beihefte des « Her-
mes», Heft IV, Berlino 1937).
1 86) Nel luogo in cui il concetto di « telos », cioè di fine ideale,
appare per la prima volta in Platone (Prot. 354a-b) esso è spie-
gato con l'idea comune dei più, che ritengono il piacere come·
il « telos » di ogni sforzo umano, cioè come il« bene», per il fatto
che ogni sforzo termina in esso (ci.rroi;e:Àe:UT~). Contro chi, frain-
tendendo, ha creduto che questa idea fosse quella propria di Pla-
tone, v. infra, p. 243 s. Il suo pensiero Platone lo· esprime nel Gor·
CAP. II: SOCRATE [rrll5] 803

a cui convergono tutte le vie dell'azione umana, come


telos o teleuté, ora come « mira» (scop6s) 186), a cui l'ar-
ciere drizza la freccia e che può cogliere o fallire. Ma
in queste immagini la vita si configura diversamente.
Essa diventa, da corso che era, moto consapevole e
volontario verso un punto terminale posto in alto,
un mirare ad un obbiettivo; diventa, cioè, intima-
mente una, prende forma ed energica tempra. L'uomo
vive, ormai, « con l'occhio alla mira», come usa dire
Platone. Fu lui che, disegnando il ritratto di Socrate,
dette logico sviluppo e concretezza d'immagini a tutti
questi pensieri impliciti nella concezione socratica, sic-
ché ora ci riesce difficile segnare una precisa linea di
confine tra lui e il maestro. Comunque, la massima
« nessuno fa male volontariamente » ha per presup-
posto che la volontà è indirizzata al Bene come al suo
telos, e poiché non solo Platone, ma anche gli altri
socratici attestano questo concetto, esso è indubbia-
mente di Socrate. L'opera di Platone fu di obbiettiva-
re in teoria filosofica e in figurazione d'arte il nuovo at-
teggiamento di vita che sul quel concetto poggiava. Sul
criterio del telos proprio di ciascuno, Platone fondò una
sua classificazione degli uomini secondo varii tipi di vita
ed estese l'idea stessa di telos a tutti i campi dell'essere.
Sicché può dirsi che Socrate, con questa idea, aperse la

gia, 499e, dove dice che il « fine di tutte le azioni» è il bene.


In altri passi la parola appare legata con genitivi, in nessi come
« fine della virtù., della felicità» o « fine della vita», non già nel
senso di fine cronologico, ma di meta ideale. Fu questa una con-
cezione del tutto nuova che dette un avviamento nuovo alla sto-
ria dello spirito umano.
186 ) Platone, Gorg. 507d, defo"'sce questa scoperta, secondo
cui la beatitudine consiste nella giustizia e nel dominio di sé, come
il segno (crxoJtéç) guardando al quale si deve vivere. La meta-
fora del« mirare» (cr-roxocC:e:cr.&°'~), presa dall'arte dell'arciere, di-
venta simbolo della vita buona ( cfr. ·i singoli luoghi in AsT, Le-
xicon Platonicum, III, p. 278.
804 (II 116] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

via a quel fecondo svolgimento di pensiero che cul-


mina nella visione teleologica di Aristotele.
Di somma importanza, dunque, questo svolgimento
per la storia della scienza; ma, in quella della paideia,
il pensiero socratico dello« scopo» della vita è addirit-
tura decisivo. Per esso; infatti, il compito dell'educa-
zione, è visto in una nuova luce: essa non consiste nel
coltivare questa o quella facoltà, non nella comuni-
cazione di questa o quella cognizione; o, almeno, tutto
ciò decade a mezzo, a gradino del processo educativo.
Propriamente suo ed essenziale è che essa fa l'uomo
capace di raggiungere lo scopo della sua vita, e, perciò,
s'identifica con lo sforzo socratico di attingere la scienza
del bene, la phronesis. Questo sforzo non si può li-
mitare ai pochi anni di ·quel che si suol chiamare
la scuola superiore. Lo scopo si raggiunge in un'in-
tera vita umana o non si raggiunge affatto. Si muta
cosi del tutto il concetto di paideia. Formarsi, nel
senso socratico, vuol dire tendere attivamente a una
forma di vita, :filosoficamente consapevole, tesa al
fine di realizzare la definizione di uomo, nei suoi
aspetti intellettuale e morale. In questo senso l'uomo,
in quanto tale, è nato per la paideia. Essa è tutto
quello che l'uomo veramente possiede. In questo
modo di vedere tutti i socratici son d'accordo;
esso deve, dùnque, essere stato creato da Socrate,
sebbene egli dicesse di sé di non sapere educare uomini.
A far sentire. quanto il concetto e il significato di pai-
deia abbia acquistato in ampiezza e profondità, per
essere stato così interiorizzato da Socrate, e come sia
stato, per lui, elevato al grado più alto il pregio di
questo hen\:), potrebbero essere addotti in buon numero
detti e sentenze antiche; ma basterà citare un motto
del :filosofo Stilpone, uno dei rappresentanti più in
vista della scuola socratica fondata da Euclide a Me-
CAP. II: SOCRATE [II 117] 805

gara. Demetrio il Poliorcete, espugnata Megara, volle


dare al filosofo prova del suo favore e si disse disposto
a indennizzarlo per il saccheggio della sua casa. Lo
pregò, quindi, di presentargli conto complessivo di
tutti i suoi beni perduti. E Stilpone sorridendo: «ma
nessuno mi ha rubato la paideia » 187). Il motto è, adat-
tato a circostanze nuove, una nuova edizione del famoso
detto di uno dei sette sapienti, Biante di Priene, che,
nella forma latina, è ancora vivo: omnia mea mecum
porto. Per l'uomo socratico la paideia è, così, diventata
la totalità· di quello di cui si dice:« è mio»: essa è la
sua vita interiore, la sua essenza spirituale, la sua cul-
tura. Nella lotta dell'uomo per la sua libertà interiore,
in mezzo a un mondo di forze elementari minacciose,
essa rimane il punto della resistenza invincibile.
Eppure Socrate non si pone ancora al di fuori,
come il filosofo dell'ellenismo incipiente, da una co-
munità patria ormai caduta in rovina. Egli sta dentro
uno stato ricco di vita intellettuale, e, fino ai suoi ultimi
anni, di potenza, e quanto più aspra si fa, negli ultimi
decenni, la lotta che la città deve sostenere per tener
testa a una folla di nemici, tanto più importante
diventa per essa il compito educativo di questo uomo
solo, che si propone, appunto, di guidare i cittadini
alla « virtù politica» e di indicare una nuova via a
che essi prendano consapevolezza del loro vero essere.
Mentre al di fuori di lui lo stato si avvia a dissolversi,
con l'animo egli è ancora del tutto immerso nell'antica
tradizione greca, per cui la polis era la fonte d'ogni
bene e delle supreme norme di vita, come testimo-
nia, con alta commozione, il Critone platonico 1 88). Ma,
per quanto fermo rimanga, anche per lui-, il significato

ia1) Diog. L. II 116.


l88) Vedi il bel saggio su questo dialogo dato da R. HARDER,
Platos Kriton, Berlino 1934.
806 [II 118] UBRO III - ALLA RICERCA DEL DfVINO

politico dèll'esistenza umana, la posizione di lui, nella


sempre più malferma autorità della legge dello stato, non
è davvero più quella dei grandi credenti antichi nella
legge, quella di un Solone o di un Eschilo. Una educa-
zione alla virtù politica, quale egli se la propone, ri-
chiede come condizione prima la restaurazione della
polis nel suo signifìcato etico. Certo, Socrate non sembra
ancora, come Platone, profondamente convinto della
insanabilità dello stato nelle sue condizioni attuali;
egli non è ancora, con la miglior parte di sé, il cittadino
di uno stato ideale, ma rimane tenacemente un citta-
dino di Atene. Ma da lui e solo da lui, Platone imparò
quella che fu sua convinzione sicura, che il risanamento
dello stato non può avvenire per la semplice instaura-
zione di un governo materialmente forte, ma deve
cominciare nella coscienza di ogni singolo, come di-
remmo noi, o, come si dice in greco, « nella stessa
anima». Solo da questa interiore sorgente può attin-
gersi, passata al vaglio purificatore del logos, la norma
vera incontestabile e vincolante per .ognuno.
Dato ciò, non ha, per Socrate, alcuna importanza
che l'uomo chiamato ad aiutare il nascimento di que-
sta norma, si chiami Socrate o in altro modo. Quante
volte egli batte su questo punto:« non sono io, Socrate,
che dico questo, ma il logos: a me, voi potete dir no;
non a lui». Ma questo compito normativo che la scienza
e la fi.losoiìa ora si assumono, abbandonando il campo
della ricet"ca naturalistica per quello delle« cose umane»,
cioè dello stato e della areté, scambiando, insomma,
l'eredità di Talete con quella di Solone, contiene già
in sé tutto quel conftitto con lo stato che da questo
momento s'inizia. Platone riconobbe la necessità di
questo conflitto tra lo stato che ha l'effettivo potere
e il filosofo, che, fu.or dei pubblici uffici, attende a ela-
borar norme d'azione, e tentò di eliminarlo facendo
CAP. II: SOCRATE [rr 119] 807

dei filosofi i reggitori del suo stato ideale. Ma Socrate


non vive in uno stato ideale. Per tutta la vita egli rimane
il cittadino di una democrazia nella qua-le ciascuno ha
lo stesso suo diritto di prender la parola di fronte ai pro-
blemi più importanti posti dal bene comune. E perciò
egli è costretto a spiegare che il suo particolare com-
pito gli è imposto soltanto da Dio 189). Ma i custodi
dello stato sentono, nell'autoelezione di questo uomo
fuor dei ranghi, la rivolta dell'individuo intellettual-
mente superiore contro quello che la maggioranza giu-
dica giusto e buono, e vi scorgono un attentato alla
sicurezza pubblica. Lo stato, anche. così com'è, vuol
essere il fondamento di ogni cosa, e crede di non aver
bisogno di alcun' altra base o sostegno. Esso non tol-
lera norme che si pongano come assolute e non ri.esce
a vedere in esse se non l'arroganza di un singolo, che
cerca di ergersi a giudice della comunità. Un uomo
dell'altezza di Hegel negò alla ragione soggettiva il
diritto di criticare la moralità dello stato, che anzi
per lui è la fonte e il fondamento di ogni concreta mo-
ralità sulla terra; e con questo egli eoncepi un pensiero
di timbro antico, che ci aiuta a capire la posi-
zione dello stato ateniese di fronte a Socrate. Da que-
sto punto di vista, Socrate è un illuminista astratto
e un visionario. Ma non meno caratteristicamente antico
è il pensiero di Socrate che, allo stato com'è, ·contrap-
pone lo stato come deve essere - o meglio, come
« era » - per riportarlo di nuovo in accordo con se
stesso, con la sua vera essenza. Da qiiesto punto di
vista, lo stato in decadenza· è un vero e proprio apo-
stata e Socrate non rappresenta meramente la « ra-
gione soggettiva», ma, servitore di Dio 190), è l'u-

189 ) Questo è il vero signifìcatQ della coscienza di una divina


missione che Platone attribuisce a Soçrate (Apol. 20d ss., 30a. 3la).
190) PI. Apol. 30a.
808 [n120] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

nico che, in un'età vacillante, posa il piede su so-


lido terreno.
Gli scolari di Socrate presero pos1z10ne in modo
diverso di fronte a quel conflitto tra Socrate e lo stato
che è ben noto a ognuno dall'Apologia platonica. Quello
che meno soddisfa, tra questi atteggiamenti, è quello
di Senofonte, perché egli non vede il nodo essenziale
di quella vicenda. Bandito anche lui dalla sua città
per tendenze aristocratiche, si dà da fare per rappre-
sentare la condanna e lesecuzione di Socrate come
l'effetto di un fraintendimento assoluto dei propositi
di lui per la salvezza dello stato, e, insomma, come
un disgraziato accidente 191). Tra quelli che, invece, ri-
conobbero la profonda necessità storica del fatto, più
d'uno prese la via che, come s'è visto, Aristippo in-
dica nel dialogo col suo maestro Socrate, sopra la vera
paideia 192). Per questi, la vicenda è l'urto inevitabile
dell'individuo spiritualmente libero con la comunità
e con la sua fatale tirannia, a cui non ci si può
sottrarre, :6.nche si vive da cittadini in un nesso
statale. Uomini come questi si ritirarono in se stessi,
non sentendosi la vocazione del martirio e solo volendo
rimanere inosservati e assicurarsi un certo grado di go-
dimento di vita o di ozio intellettuale. Essi, vivendo
da metèci in città straniere per esser liberi da ogni
dovere civico, si costruirono, sul fondamento di questa
vita vagabonda di ospiti, un mondo artificiale, tutto
loro 193). È un contegno, questo, che meglio si comprende
191) Cfr. specialmente la conclusione riassuntiva alla fine della
cosiddetta «difesa» di Xen. Mem. I 2, 62-64.
1&•) Cfr. Xen. Mem. II 1.
. 193) Mem. II 1, 11-13. Cfr. le ultime parole di Aristippo: «Per
sottrarmi a tutto questo io non mi lascio aggiogare in uno stato,
ma rimango dappertutto uno straniero» (~évoi; 'ltlXY't'IXJ(OU etµ~).
Aristotele, Pol. VII 2, 1324 a 16, designa perciò questo ideale
di vita apolitico, come« vita di straniero» (~loi; ~ev~x6i;), ct>n
allusione a filosofi. del tipo di Aristippo. Nella sua Politica, questa
CAP. II: SOCRATE (II 121) 809

quando si osserva che ben diverse furono le condi-


zioni storiche della loro vita da quelle di Socrate.
Le parole che Socrate, proprio nell'Apologia, rivolge
ai suoi concittadini, quando li richiama all' areté appel-
landosi alla loro fierezza nazionale, quelle parole « tu,
figlio della più grande città e della più famosa per sag-
gezza e potenza ..... », non sono affatto un particolare
secondario o inefficace, nella motivazione del suo am-
monimento 194). Con esse Platone vuol caratterizzare
indirettamente la precisa posizione di Socrate. Come
era possibile che un Aristippo sentisse qualcosa di
simile nel rifarsi alla sua origine dalla ricca città colo-
niale africana di Cirene ?
Soltanto Platone fu abbastanza ateniese e politico
da capire a fondo Socrate. Nel Gorgia egli delinea
come la tragedia si preparò. Da questo dialogo noi
ci rendiamo conto come mai, non già i retori e sofisti,
stranieri senza coscienza, che tiravano su gli scolari
per avventurieri volti a far dello stato il loro profitto,
ma proprio il cittadino ateniese tutto pieno di ansia
profonda per la patria, tutto compreso di responsabi-
lità di fronte a lei, dovesse affrontare il destino di
essere eliminato, come intollerabile, della sua propria
città 1 95). La· sua critica della polis degenerata apparirà
come ostilità allo stato, mentre tutti i suoi sforzi ten-
dono a riedificarlo; i rappresentanti dello stato, mise-
rabile come è attualmente, si sentiranno offesi, sebbene
egli trovi parole di scusa per la loro impossibilità di
agire, e veda nell'attuale sciagurata condizione della
pntria soltanto la crisi di un morbo serpeggiante da

differenza di atteggiamento di fronte allo stato, appare come un


problema già chiaramente impostato: « È da preferire la vita at-
tiva di cittadino legato alla polis, oppure la vita da straniero,
svincolata da ogni comuDiU politica?».
m) PL Apol. 29d.
tes) PI. Gorg. SHh.
810 [n122] LIBRO m - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tempo 1 96). Ma questo stesso suo ricercare la radice del


male nei tempi che, nella visione storica dominante,
apparivano quelli della splendida grandezza, questo suo
giudicarli severamente, non fa che aggravare l'impres-
sione che la gente riceve da lui, di una negazione
totale e preconcetta 197). A noi non è più possibile distin-
guere qual sia precisamente la parte di Socrate e quella
di Platone e come l'una, forse per gradazioni insen-
sibili, trapassi nell'altra; né possiamo contentarci di
impressioni soggettive. Ma qualunque sia stato il pre-
ciso contenuto del pensiero di Socrate, nessuno può
discono11cere che la -concezione rinnovatrice dello stato,
da cui nacquero le più grandi opere di Platone, prese
forma dall'esperienza del tragico conflitto con lo stato,
nel quale Socrate fu travolto dalla sua missione edu-
catrice e rinnovatrice del mondo. Quello di cui si
tratta in Platone, non è di sapere se Socrate
avrebbe potuto agire altrimenti in questo o in quel
punto, o se i giudici sarebbero potuti essere più intel-
ligenti o più buoni. L'uno e gli altri furono quel che
dovevano essere e il destino doveva trovar la sua via.
Platone non altro fece che trarre da ciò una conse-
guenza: che lo stato doveva essere riformato a fondo
perché ci potesse vivere l'uomo vero. Per parte sua,
chi giudica con occhio di storico deve limitarsi a ricono-
scere . che lo stato aveva ormai perduto la forza di
stringere e comprendere in sé la moralità e la reli-
gione, come era avvenuto nel tempo dell'antica tota-
lità di vita. Platone mostra come sarebbe dovuto
essere lo stato per potere ancora realizzare questo suo
ongmario significato nel tempo in cui Socrate si fece
banditore di un nuovo ideale di vita umana. Ma que-

191) Gorg. 519a.


191) Gorg. 517 a H.
CAP. JI: SOCRATE [11123] 811

sta non era la realtà dello stato, e mutarla non si po-


teva. Lo stato era troppo di questo mondo. Così la
scoperta del mondo dell'anima e del suo valore, invece
che al rinnovamento dello stato, conduce, nell'opera
di Platone, all'instaurazione di un nuovo regno ideale,
la patria eterna dell'uomo.
È questo il significato eterno della tragedia di So-
crate, come esso si rivela specialmente nello sforzo
filosofico di Platone intorno al problema che essa inclu-
deva .. Socrate, per sé, rimane ancora molto lontano
dalle conseguenze che Platone trasse dalla sua morte.
E ancora più lontano egli fu dal valutare l'importanza
che, nella storia dello spirito, doveva avere la vicenda
di cui fu vittima. L'intelligenza storica, quand'anche
in quel tempo essa fosse stata possibile, avrebbe di-
strutto il senso tragico del suo destino: ché quella
vicenda, vissuta con la passione dell'esperienza asso-
luta, incondizionata, si sarebbe atteggiata nella rela-
tività e nella necessità di uno svolgimento naturale.
V edere il proprio tempo, e perfino la propria vita,
nella luce della storia è un privilegio assai discutibile.
Un conflitto come quello non poteva esser vissuto
e sofferto se non con quella semplicità con cui Socrate
seppe stare in campo per la sua verità e morire per
essa. Perfino Platone non sarebbe stato più in condi-
zione di tenergli dietro nella sua via. Egli sostiene sì, la
politicità dell'uomo nella idealità filosofica, ma proprio
per questo si ritrae dalla realtà politica, oppure cerca
di realizzare il suo ideale in qualche altra parte del
mondo in cui le condizioni siano più propizie. Socrate,
invece, è tanto intimamente legato ad Atene che
non se ne aJlontana in tutta la vita, neppure una volta,
tranne che per andare soldato in guerra 1 98). Egli non

us) PL Crit. 52b.


812 [rr 124] LIBRO III - ALLA RlCERCA DEL DIVINO

fa, come Platone, l~glri viaggi; anzi, non passa neppur


le mura del sobborgo, perché la campagna e gli alberi
«non hanno nulla da insegnargli» 199). Parla, sì, di« cura
dell'anima», e la inculca. a concittadini e stranieri, ma
aggiunge: « prima di tutto io mi sono rivolto a quelli
che mi sono più vicini di sangue» 200). Il suo « servire
Dio» non è consacrato « all'umanità», ma alla sua
polis. Perciò egli non scrive, ma solo parla con quelli
che gli stanno innanzi in persona; perciò non impartisce
lezioni di astratte proposizioni, ma cerca d'intendersi
con i concittadini, su qualcosa di comune, presup-
posto necessario di un tale modo di conversazione,
che ha radice nella comunità di origine e di patria,
di passato e di storia, di legge e di ordinamenti civili.
Questo elemento comune dà . concretezza di contenuto
a quell'universale di cui è in cerca il suo pensiero.
Di stampo ateniese· sono, in lui, lo scarso conto
fatto di scienza e di dottrina, il gusto della dialettica,
e della discussione sui problemi dei valori umani, ate-
niese il senso dello stato, della moralità, della religio-
sità e, infine, come pregio e sapore sottile di tutto, la
grazia dell'intelligenza. Il pensiero di evadere dal car-
cere, le cui porte si sarebbero aperte al danaro dèi suoi
amici, e di passare il confine alla volta della Beozia 201),
non è, per quest'uomo, prospettiva allettante. Nel mo-
mento in cui questa tentazione lo assale, egli vede le
leggi della sua patria, di cui i suoi giudici hanno fatto
malo uso, apparire davanti a lui e ricordargli 202) tutto
quel che da foro ha ricevuto dalla fanciullezzà, il vin-
colo matrimoniale dei suoi genitori, la sua nascita,
l'educazione, tutti i beni dei quali ha avuto parte nel-

199) PI. Phaedr. 230d.


200) PL Apol. 30a.
201) Pl. Phaedo, 99a.
202) PL Crit. 50a.
CAP. Il: SOCRATE [n125] 813

l'età più matura. Egli nl)n è emigrato prima da Atene,


quando ne avrebbe avuto facoltà, se ·qualcosa nelle
leggi della sua patria non gli fosse piaciuto; per set-
tant'anni, invece, si è sentito a suo agio in essa. Con
questo egli ·ha riconosciuto, accettato le leggi e non può,
ora, ritirare ·l'assenso. Quando Platone scrive· queste
parole egli, probabilissimamente non è più in Atene,
ma, insieme con gli altri scolari di Socrate, si è rifu.
giato a Megara 203), dopo la morte di lui, e là o durante
i suoi viaggi, scrive le sue prime operette socratiche.
Egli poteva in questo tempo aver qualche dubbio sulla
sua possibilità di ritornare in Atene; e ciò contrappunta
di una risonanza sua personale la descri:i!ione di Socrate
che sostiene di compiere l'ultimo suo dovere di citta-
dino, quello di bere la tazza del veleno.
Socrate è, dunque, uno degli ultimi « cittadini»,
nel senso che dette a questa parola l'antica Grecia
della polis. Ma, in pari tempo, è l'incarnazione, nel
grado più .alto, di una nuova forma di vita: l'indivi-
dualismo etico-intellettuale. Questi due aspetti furono
in: lui unificati senza compromessi. Col primo egli si
richiama a un grande passato, col secondo è volto
all'avvenire. Perciò la sua è apparizione unica, nel
tempo e nella qualità, nella storia dell'anima greca 204).
La sua idea educativa risulta dalle scambievoli attra-
zioni e reazioni di queste due componenti. Di qui
viene a quell'idea l'intima profonda tensione, la realtà
del suo punto di partenza, l'idealità del suo fine. Il

203) Diog. L. III 6.


20') Cfr. supra, p. 40 ss. Socrate è profondamente radicato nella
vita ateniese e nella comunità dei suoi concittadini; a loro, prima
che a ogni altro, egli rivolge il suo messaggio (cfr. supra, p. 59).
Eppure egli deve pregare i giudici (Apol. 17d) di permettergli
di parlare nella propria lingua e non nella loro. Si paragona dun·
que appunto a uno straniero, al quale non si potrebbe negare,
quando si dovesse difendere dinanzi a un tribunale ateniese, di
servirsi della propria linii;ua.
814 [n 126] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

problema che doveva cercar soluzione attraverso i se-


coli successivi, il problema di« stato e chiesa», emerge
qui, per la prima volta, nella nostra civiltà. Giacché
esso non è affatto, come mostra il caso di Socrate, un
problema specialmente cristiano, e neppure è legato
a forme organizzative ecclesiastiche o a fedi rivelate,
ma torna a presentarsi, in analoghe condizioni, anche
nello svolgimento « dell'uomo naturale» e della sua
civiltà spirituale. In questo caso esso non ha l'aspetto di
conflitto di due società conscie di una propria forza,
ma di una tensione fra lappartenenza del .singolo uomo
alla società terrena e il legame immediato che egli
sente con Dio. Questo Dio, al cui servigio Socrate
dirizzò la sua opera di educatore, era diverso dagli
« dei» ai quali credeva la città, e se l'accusa contro
Socrate 205) puntò prima di tutto su questo elemento,
bisogna ammettere che la mira era scelta bene. C'era,
è vero, un errore in essa: quello di vedere un'opposi-
zione alla religiosità comune nel famoso « daimonion »
che soleva trattenere Socrate, con intima voce, da questa
o quella azione 206 ). Il e< daimonion » può, tutt'al più,
significare che Socrate accanto alla creativa tendenza
al sapere, a cui diresse, ben più che altri, i suoi sforzi,
possedé anche in altissimo grado quelle energie irra-
zionali, istintive, che fanno difetto al cieco razionalismo.
Ché questo, e non la voce della coscienza, fu il signi-
ficato del démone socratico, come si vede conside-
rando in quali casi Socrate si richiami ad esso. Ma,
insomma, una volta che la scienza del Bene, della na-
tura e della potenza di esso, si fu impadronita con
forza soverchiante dell'anima sua, essa divenne per
lui una via nuova alla scoperta del Divino. Non im-

2os) Cfr. PL Apol. 24b, Xen. Mem. I 1.


20 6 ) Xen. Mem. I 1. 2.
CAP. II: SOCRATE (II 127] 815

porta che, per la sua tempra intellettuale, egli sia stato


fuori di ogni possibilità di professione dogmatica: chi
vive come lui e muore come lui ha in Dio il suo fonda-
mento. La sua parola, che a Dio si deve .dare ascolto
più che agli uomini 207), è veramente una nuova reli-
gione, come lo è la sua fede nel valore supremo del-
l'anima 208). La religione greca prima di Socrate, sebbene
non sia stata senza profeti, non conobbe un tale lddio,
che ordina all'uomo singolo di resistere a ogni pressione
o minaccia di un mondo intero. Nasce in Socrate, dalla
fiducia in questo Dio, una forma nuova di quello spirito
eroico che impronta di sé, fin dal principio, l'ide~ greca
di areté. E perciò Platone può, nell'Apologia, rappre-
sentare il maestro come l'incarnazione della magnani-
mità e fortezza supreme, e, nel Fedone, celebrare la
morte di lui come atto eroico di superamento della
vita. Così la greca areté, anche giunta a spiritualizzarsi
nel grado sommo, rimane fedele alla sua origine e dal
combattimento socratico, come dai fatti degli eroi
d'Omero, si sprigiona la forza educatrice di un nuovo
esemplare umano, di cui il banditore, il poeta, sarà
Platone 209).

207) PL. Àpol. 29d, cfr. 29a, 37 e.


•OS) Cfr. supra, p. 62.
209) Il Socrate platonico paragona se stesso, nell'intrepidezza
di fronte alla morte, con Achille, Àpol. 28b-d. 'Similmente Ari·
stotele pone la morte del suo amico Ermia, a causa dell'ideale
filosofico di lui, sullo stesso piano della morte di un eroe omerico,
nell'Inno per Ermia, fr. 675. Cfr. il mio Àristoteles, p. 118 ss. (trad.
Calogero, p. 152 ss.), e, per la megalopsychia degli eroi omerici,
« Paideia » I, p. 43 ss. Socrate è nominato come il « magnanimo»
per eccellenza, accanto ad Achille, Aiace e Lisandro , da Arist.
Analyt. Post. II 13, 97 b 16-25.
CAPITOLO TERZO

PLATONE NELLA STORIA

Dopo più di due mila anni da che Platone si pose


al centro della vita intellettuale Greca, e gli occhi di
tutti si volsero alla sua Accademia, il carattere di ogni
filosofia appare ancora oggi :fissato dalla sua posizione
rispetto a Platone. Tutti i secoli seguenti dell'evo antico,
furono in qualche modo segnati dall'impronta di lui,
per quanto alterata, e talora fortemente, nei singoli
tratti, :finché negli ultimi secoli dell'antichità il mondo
si. trovò :finalmente unificato nella religione filosofica
del neoplatonismo. La civiltà classica, che accolse la
religione cristiana, fondendola in sé per trapassare
unita con essa al Medio Evo, è civiltà tutta pervasa di
pensiero platonico. Solo partendo di qm è possibile
capire una figura come quella di Agostino, che nella
« Città di Dio » trasformò cristianamente la Repubblica
di Platone e creò in essa quella filosofia della storia
in cui doveva inquadrarsi la concezione medioevale
del mondo. Ancora nel solco platonico, forma nuova
e diversa del platonismo, fu la filosofia di Aristotele, acco-
gliendo la quale la civiltà dei popoli medioevali, sì
d'Oriente che d'Occidente, poté, nel suo apogeo, far
propria la concezione dell'universo che era stata della
filosofia antica. Ma il vero Platone doveva rinascere
con la rinascita dell'antichità classica nell'umanesimo,
818 [Il 130] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

e dovevano essere riscoperti gli stessi suoi scritti, che,


si può dire, il Medio Evo non aveva conosciuto. Però,
come le vene platoniche della scolastica medievale
avevano avuto origine dal neoplatonismo cristiano di
Agostino e dai libri del teologo mistico che si cela
sotto il nome di Dionigi lAreopagita, cosi, anche
quando il Rinascimento ebbe riscoperto Platone, l'in-
terpretazione di lui rimase in principio legata alla tra-
dizione cristiano-neoplatonica viva ancora nelle scuole,
che, al tempo della caduta di Costantinopoli, trapassò
in Italia, insieme ai dotti profughi e ai codici. L'im-
magine di Platone che il teologo e mistico bizan-
tino Gemisto Pletone comunicò agli italiani del quat-
trocento, quella che Marsilio Ficino ritraeva nel-
!'Accademia di Lorenzo de' Medici, era quale l'aveva
vista Plotino, e tale rimase essenzialmente anche nei
secoli seguenti fino alla fine del secolo decimottavo.
Platone fu, prevalentemente, per chi cosi lo vide, il
profeta religioso, il ·mistico: perciò, col cedere di tali
aspetti della vita sprntuale di fronte allo spirito ra-
zionalistico, scientifico, matematico della cultura mo-
derna, anche l'influenza di Platone sulle correnti teo-
logiche ed estetiche venne di pari passo a ridursi.
Il rivolgimento di questa concezione, per cui si
venne alla scoperta del vero Platone, .si produsse solo
alla fine del secolo decimottavo, con lo Schleiermacher,
teologo, si, anche lui, ma in vivo contatto con lo spi-
rito, di fresco svegliatosi, della nuova poesia e :filosofia
tedesca. È vero che ancora si cerca in Platone prima
di tutto il metafisico delle idee; è vero che ci si volge
di nuovo alla sua :filosofia come all'immortale ,pi.odello
primigenio di quella concezione speculativa universale
sempre più declinante, di cui la kantiana critica della
conoscenza aveva scosso il diritto a vivere come scienza;
e, anche nel periodo, che ora succede, dei grandi si-
CAP. UI: PLATONE NELLA STORIA [11131] 819

stemi idealistici della filosofia tedesca, Platone rimane


la polla viva della nuova energia metafisica che animò
i costruttori di quei grandi edifici d'idee. Ma, nel-
!'atmosfera favorevole che cosi venne a crearsi, di
una nuova rinascita dello spirito greco, nella quale
Platone appariva non come un filosofo, ma come il
filosofo, cominciò uno studio ardente ed assiduo degli
scritti platonici, condotto coi mezzi che la moderna
scienza dell'antichità, allora in formazione, assicurava.
Così, per questo lavoro d'indagine, si giunse a rimettere
nel suo tempo questa figura ormai assunta a grandezza
extratemporale e a darle i precisi contorni di una de-
terminata personalità storica.
Il compito che così si pose alla ricerca interpreta-
tiva si rivelò uno dei più difficili che un antico scrit-
tore possa presentare. Fino a quel momento si era ten-
tato, alla maniera del secolo XVIII, di ricostruire la
filosofia di Platone, semplicemente adoprandosi ad
estrarre - ed astrarre - dai singoli dialoghi quel tacito
contenuto dogmatico, che ciascuno di essi, più o meno,
racchiudeva. Dalla serie di proposizioni, così messa
insieme, si era cercato di ricomporre, sul modello delle
più tarde filosofie, una metafisìca, una fisica, un'etica
di Platone, ordinate in un edificio sistematico, l'unica
forma nella quale si riuscisse a concepire un pensatore.
Rimane merito dello Schleiermacher l'aver ravvisato,
col vivo senso di un romantico per la forma come
espressione della individualità spirituale, l'elemento spe-
cifico del filosofare platonico nel fatto che esso appunto
non tende al sistema chiuso, ma si presenta come ri-
cerca filosofica in atto, come dialogo. Ciò facendo,
lo Schleiermacher non si lasciò sfuggire la differenza
esistente tra i vari dialoghi rispetto alla misura e al
grado di contenuto costruttivo; anzi divise secondo que-
sto criterio i dialoghi, considerandone alcuni come più
820 [n 132] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

filosofici in senso sistematico, altri come di carattere


meramente introduttivo e formale. Ma, insomma, seb-
bene egli accettasse l'esistenza di intime scambievoli
relazioni tra i dialoghi, e il loro riferirsi tutti a una
totalità ideale che più o meno in ciascuno si svela,
la caratteristica di Platone rimase per lui questa:
l'importanza data ad esporre la :filosofia nel vivo moto
della dialettica, più che nella forma di un edificio dogma-
tico concluso. In pari tempo lo Schleiermacher rintrac-
ciò nelle singole opere le allusioni polemiche a contem-
poranei ed avversari e mostrò come il pensiero platonico
si fosse intrecciato in varia guisa nel tessuto della vita
:filosofica del suo tempo. Cosi, per le copiose esigenze
che un tale lavoro di commento platonico imponeva
ai ricercatori, venne a formarsi, dell'interpretazione,
un concetto più elevato di quello che la :filologia mera-
mente grammaticale e antiquaria aveva conosciuto
fino allora, tanto che, si può dire, come nell'antichità
la :filologia alessandrina si era formata i metodi nella
ricerca omerica, cosi la scienza storica del secolo XIX,
raggiunse il più alto grado di affinamento nel cimentarsi
ad intendere il problema di Platone.
Non è questo il luogo di rifare nei particolari la
storia del problema, così controverso :flno ai nostri
giorni. Questa storia non è rimasta tutta e sempre
all'altezza del primo, grandioso tentativo fatto dallo
Schleiermacher, di abbracciare la mirabile mole di quel-
1' opera filosofica e letteraria applicando in egual mi-
.sura la cura filologica del particolare e l'intuito di
un pensatore e di un artista per l'organicità del tutto.
La spiegazione minuta del testo e l'indagine sull'auten-
ticità delle singole opere tramandate col nome di Pla-
tone apersero la via a una serie innumerevole di ri-
cerche speciali, fino al punto che l'intero problema
platonico parve sempre più frammentarsi e disperdersi;
CAP. III: PLATONE NELLA STORIA [II 133] 821

ciò particolarmente avvenne, da quando per l'impulso


di C. F. Hermann ci si abituò a considerare le opere di
Platone come l'espressione di uno sviluppo graduale
della sua filosofia. Giacché, di qui in poi, si pose in
primo piano, e divenne d'importanza decisiva, un pro-
blema fino allora poco considerato, il problema della
data di composizione dei singoli dialoghi. Nella quasi
completa mancanza di mezzi per una datazione ob-
biettiva degli scritti platonici, si era fino allora cercato
di fissarne la cronologia, sul fondamento del contenuto,
principalmente cercando di dimostrare l'esistenza di
una specie di piano didattico che giustificasse la succes-
sione. Questo criterio di trattazione, in sé naturale e
ovvio, che era stato principalmente rappresentato dallo
Schleiermacher, sembrò fortemente scosso dalla suppo·
sizione che i dialoghi potessero essere quasi il rlllesso,
immediato e originario, di uno sviluppo involontario
del pensiero platonico, del quale si potessero ricono-
scere, in ciascuno di essi, le singole tappe. Ma le con-
clusioni contradittorie alle quali era giunta l'analisi del
contenuto, rispetto alla successione dei dialoghi, con·
dussero al tentativo di :fissare una cronologia coi soli
mezzi di una osservazione . esat~a dello stile, nel suo
variare da dialogo a dialogo, e della precisa determi-
nazione di certe particolarità linguistiche formanti la
caratteristica distintiva di alcuni gruppi di dialoghi.
Qualche successo iniziale non ha salvato questo in-
dirizzo di ricerca da un certo discredito, dovuto alle
sue esagerazioni, giacché, alla fine, si era giunti a im·
maginarsi di poter fissare la. data di ogni opera con un
processo assolutamente meccanico di statistica lingui·
stica. Sarebbe però ingiusto dimenticare che la svolta
più decisiva che si sia data nell'interpretazione plato·
nica, dallo Schleiermacher in poi, si deve a una sco-
perta puramente filologica. Uno studioso scozzese, Lewis
822 [n134] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Camphell, osservò felicemente che un certo numerò


di dialoghi maggiori è collegato da caratteristiche stì-
listiche, che si ritrovano identiche nell'opera della vec-
chiaia platonica, nelle Leggi, lasciate incompiute dal
filosofo. Il Camphell trasse da ciò la giusta conseguenza
che quelle caratteristiche contraddistinguono lo stile
di Platone vec~hio. In conclusione, anche se, con que-
sto metodo, non è possibile determinare le relazioni
cronologiche di tutti i dialoghi tra loro, si possono però
chiaramente segnare tre gruppi principali, ai quali al-
meno i dialoghi più importanti possono, con grande
verisimiglianza, essere assegnati.

Un tale resultàto della ricerca filologica doveva de-


finitivamente scuotere la concezione, ormai classica,
dello Schleiermacher; giacché parecchi dei dialoghi
da lui tenuti per antichi e di carattere introduttivo,
in quanto concernenti problemi di metodo, si posero
come mature opere della vecchiaia. Ciò diede la spinta
a un completo rivolgimento dell'interpretazione com-
plessiva della filosofia platonica, che, per circa mezzo
secolo, era rimasta essenzialmente invariata. Il punto
focale della discussione fu preso ormai, da quei dia-
loghi « dialettici» come il Parmenide, il Sofista, il Po-
litico, nei quali il vecchio Platone sembra aottoporre
a nuova discussione e interpretazione la sua stessa
teoria delle Idee. Anche la filosofia del sec. XIX, al
tempo appunto di questa scoperta, dopo il crollo
dei grandi sistemi metafisici dell'idealismo tedesco, si
accingeva già, . a ritornare, in atteggiamento autocri-
tico, al prohlem~ della conoscenza e ai suoi metodi,
e ad orientarsi di nuovo, almeno in parte, alla critica
kantiana. Non meraviglia, quindi, che questo neo•
kantismo rimanesse sorpreso e affascinato quando, ina-
spettatamente, il suo proprio modo di por~e i problemi,
CAP. m: PLATONE NELLA STORIA [11135] 823

veniva come a rispecchiarsi nella fase tarda dello svol-


gimento platonico, ormai rivelata d'alla nuova cro-
nologia dei dialoghi. Cosi, mentre alcuni videro nelle
opere di Platone vecchio una rinunzia alla sua pre-
cedente metafisica (Jackson, Lutoslawski), altri pensa•
rono che fin da principio le Idee fossero state non altro
che metodi in senso neokantiano (e fu questa l'opinione
della scuola di Marburg). Ma in ogni caso, secondo
queste nuove vedute, il significato di Platone fu, dalla
filosofia moderna, riposto tutto nell'atteggiamento me-
todico: concezione, questa, altrettanto unilaterale,
quanto quella dei filosofi del precedente cinquantennio
orientati alla metafisica, che, polemizzando contro la
critica kantiana, avevano cercato appoggio nella me-
tafisica platonica e aristotelica, e su tali elementi
metafisici avevano, interpretando, posto l'accento.
Un punto, però, rimaneva comune, nonostante il
contrasto, alla nuova interpretazione di Platone, scor-
gente il nucleo del pensiero di lui nel problema meto-
dico, e alla più vecchia interpretazione metafisica: am-
bedue ravvisavano nella teoria delle Idee l'elemento
propriamente sostanziale della :filosofi.a platonica. In
fondo, già Aristotele aveva fatto così, in quanto aveva
concentrato su questo punto tutta la sua critica alla
dottrina del maestro. Ora, è vero, la nuova interpreta-
zione platonica culminava nello sforzo di dimostrare
che le critiche aristoteliche alle Idee platoniche non
avevano valore,· come fraintendimenti che erano; ma
· con ciò stesso, in questo far centro di tutta l'interpre-
tazione su questo punto, la nuova scuola dava segno
di dipendere da Aristotele, per quanto da lui differisse
nelle conclusioni. Senza dubbio, già dm-ante la vita
di Platone, negli ultimi suoi anni di magistero nell' Ac-
cademia, la discussione critica si era più volte accen·
trata sul problema ontologico-metodico, come mostrano
824 [rr136) LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

i dialoghi dialettici: proprio da queste discussioni


sorse· la critica aristotelica alle Idee. Ma tutto ciò ri-
mane una parte e un episodio, e non si può pensare
ad identificarlo col complesso della filosofia platonica,
come basta a chiarire uno sguardo ai dialoghi che vanno
dal Critone alla Repubblica. Perfino nella vecchiaia di
Platone, accanto ai documenti di questa discussione,
stanno le Leggi, più di un quinto, cioè, di quel· che
scrisse Platone, e ·in quest'opera la teoria delle ·Idee
non ha parte affatto. Con tutto ciò, ben si comprende
come, per la filosofia del sec. XIX, la dottrina plato-
nica delle Idee ritornasse nuovamente in primo piano,
e che questo interesse accentrato su un sol punto, traesse
sempre maggior forza da quella limitazione al problema
logico che sempre più la filosofia stessa s'imponeva.
Sempre così si era comportata la filosofia delle scuole
di fronte a Platone, nell'intento di spremere dai dia-
loghi tutto il contenuto dottrinale in essi racchiuso,
scegliendo prima di tutto, s'intende, quello che, in cia-
scuna epoca, passava per filosofia e, perciò, per essen-
ziale.

Ma un altro passo importante doveva essere fatto


nella ricerca e fu, anche questa volta, una scoperta filo-
logica che aiutò il progresso e che, pur senza alcuna
pretesa di natura filosofica, condusse ad ampliare il
troppo limitato orizzonte della concezione dominante.
Il campo non fu più, questa volta, il problema crono-
logico, ma la questione della autenticità. Sebbene
si fosse sempre saputo, fin dall'antichità, che la nostra
raccolta di scritti platonici comprendeva anche opere
non autentiche, pure, solo nel sec. XIX, la critica
aveva raggiunto vera importanza e profondità su
questo te~reno. Essa era, anzi, com'è naturale, andata
troppo oltre nel suo scetticismo, finché aveva trovato
CAP. lII: PLATONE NELLA STORIA [II 137] 825

il suo punto d'arresto. Le questioni che essa aveva


lasciato non chiarite e non risolute parvero non essere,
fortunatamente, rilevanti per l'interpretazione com-
plessiva della filosofia platonica, come tale, giacché
le opere maggiori erano insospettabili per chiunque fosse
fornito di giudizio e la contestazione, in massima, ver-
teva su opere di dubbio valore. Ma c'erano, inoltre,
e ritenute non autentiche, le lettere di Platone. Nella
raccolta epistolare tramandataci dagli antichi sotto il
suo nome figuravano alcune falsificazioni evidenti. Que-
sta constatazione aveva avuto come conseguenza la
condanna di tutta la raccolta. Quanto poi al fatto che
alcune lettere contenevano, per riconoscimento di tutti,
un pregevole materiale storico sulla vita di Platone e
sui suoi viaggi alla corte del tiranno Dionisio di Sira-
cusa, ci si era contentati, per spiegarlo, di un'ipotesi:
che, cioè, il falsario si fosse procurato, per il suo lavoro,
un'ottima documentazione. Però, dopo che storici come
Edoardo Meyer erano già scesi in campo per l'auten-
ticità di queste lettere in considerazione del loro alto
valore di fonte storica, anche la filologia tenne dietro
ed il Wilamowitz riconobbe autentiche nella sua grande
biografia platonica, la sesta, la settima, e l'ottava
lettera, cioè i pezzi più importanti della raccolta. In
seguito, il lavoro è stato quello di trarre le conseguenze,
relativamente alla figura di Platone nel suo complesso,
di questo riconoscimento; e le conseguenze ne sono
state d'importanza ancora maggiore di quanto non
fosse sembrato al momento stesso della scoperta.

Il Wilamowitz, per parte sua, non si era proposto


di dare, col suo lavoro, un'esposizione della filosofia
di Platone, ma solo di narrarne la vita. Egli, perciò.
valutò le notizie che Platone dà nella settima lettcr=<
sui viaggi da lui fatti in Sicilia per convertire il tiranno
826 [Il 138] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

. e sulla propria evoluzione politica. principalmente da


questo punto di vista, cioè come una fonte autobio-
grafica di primissimo ordine. L'avvincent~ rappresenta-
zione che Platone fa dei suoi ripetuti tentativi di im-
mergersi attivamente nella politica, non solo forniva
al narratore della sua vita I' opportunità di scene mosse
e colorite, atte ad interrompere drammaticamente il
racconto di una esistenza di maestro nel ritiro dell'Ac-
cademia, ma svelava, in pari tempo, in quella vita
un complesso fondo psicologico. In essa, l'atteggia,
mento contemplativo del pensatore, si rivelava ora
il risultato di un conflitto prodottosi in una schietta
natura di dominatore sotto la tragica pressione dei
tempi avversi. Certo, anche da questo punto di vista,
i ripetuti tentativi di Platone di farsi uomo politico,
si atteggiavano come sfortunati episodi di una vita
dedicata alla conoscenza pura, episodi nei quali Pla-
tone aveva cercato di attuare alcune fondamentali
idee etiche della sua filosofi.a. Eppure questo dover
riconoscere che quell'uomo che, nella lettera VII, parla
del suo svolgimento. spirituale e dello scopo della sua
vita· e, da questo punto di vista, prende a rivedere e
giudicare il suo proprio pensiero teoretico, è il Pla-
tone della realtà storica, questo è cosa d'importanza
decisiva anche per la comprensione di tutta la sua
opera filosofica. Vita e opera non si possono separare
in questo pensatore, e per lui" vale, se mai per altri
è valso, il concetto che tutta la sua filosofia è espres-
sione della sua vita e che la sua vita, è la sua filosofia.
Non a caso le sue opere capitali sono la Repubblica e
le Leggi; la politica per lui non fu solo l'occupazione
di certi periodi della sua vita nei quali egli si si..~
sentito in4otto a scendere all'azione, ma il solido fon-
damento di tutta la sua esistenza spirituale, l'oggetto
di tutto il suo pensiero, includente in sé ogni altr:i
CAP. III: PLATONE NELLA STORIA [Il 139] 827

cosa. In lunghi anni di lavoro ininterrotto volto ad


afferrare la realtà essenziale di Platone, io ero già
arrivato a formarmi l'idea che ho esposto della sua
filosofia, senza prendere in vera considerazione le Let-
tere, giacché anch'io condividevo, fin dalla giovinezza,
il preconcetto dominante fra i filologi contro la loro
autenticità. Quel che mi indusse a cambiar parere e a
credere alla genuinità delle notizie autobiografiche della
lettera settima non fu la brillante personalità di ricer-
catore del Wilamowitz e neppure la forza dei suoi
argomenti, da cui molti erano stati convinti e trasci-
nati, ma prima di tutto il fatto, che il modo platonico
di concepir la propria opera, nella lettera da me tra-
scurata, sembrava presupporre, per ogni rispetto, quella
interpretazione della filosofia di lui, alla quale io ero
giunto, indipendentemente dalle Lettere, per la labo-
riosa via dell'analisi di tutti i dialoghi.

È evidentemente impossibile ripercorrere qui quella


via con la stessa minuzia di analisi. Pure, appare indi-
spensabile mettere in chiara luce la struttura filosofica
della dottrina di Platone sulla paideia e sulla areté
umana, come essa si rivela a chi segua, di gradino in
gradino, la . serie dei suoi dialoghi. È necessario, cioè,
mettere il lettore in grado di intendere da sé la posizione
dominante che Platone assegna a questo problema nel
mondo del suo pensiero, e dove esso affondi le sue ra-
dici, che forma esso prenda sul terreno della sua filo-
sofia. E questo non è possibile se non a chi segua dal-
!'origine lo svolgersi del pensiero platonico, fino ai
punti culminanti rappresentati dalle due opere capi-
tali, la Repubblica e le Leggi. I dialoghi minori potranno
essere trattati in gruppo, mentre gli scritti più estesi,
il Protagora, il Gorgia, il Menane, il Simposio e il Fe·
dro, richiederanno una valutazione a sé stante, anche
828 [II140] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

per la loro speciale importanza rispetto· al nostro pro-


blema. Ma, naturalmente, la Repubblica e le Leggi
dovranno costituire il nucleo essenziale di una tale
trattazione. Nostra cura costante dovrà essere di inse-
rire la figura di Platone, quale essa risulta da que·
ste opere, nel complesso della storia spirituale greca.
A noi, per il tema che ci siamo proposti, la sua filosofia
deve apparire come uno dei vertici raggiunti da una
civiltà spirituale (paideia) nel suo divenire storico, e
perciò essa dovrà in misura maggiore di quanto di
solito non si faccia, esser vista non puramente come
un isolato sistema concettuale, ma nella funzione or-
ganica che ebbe all'interno dell'intero svolgimento del
pensiero greco, e nel formarsi della tradizione greca.
I particolari tecnici della sua struttura dovranno quindi
cedere talvolta il passo, alla delineazione, nei tratti
essenziali e formativi, dei problemi che la storia stessa
impose al pensiero di Platone e sui quali, ade-
rendo, presero forma le sue opere. Se, con ciò,
avverrà di porre l'accento sullo scopo «politico» e
sulla sostanza « politica» della filosofia platonica, è
chiaro che il concetto di« politica» sarà, in questo caso,
definito da tutta la st~ria della paideia e, in parti-
colare, da quello che già si è detto su Socrate e sul si-
gnificato «politico» dell'opera di lui. La storia della
paideia, come descrizione genetica del rapporto di
uomo e polis, è terreno germinale, inesauribile, di
elementi filosofici necessari per la compreruiione di Pla-
tone. Per lui ogni sforzo· di conoscere il vero si giusti-
fica alla fine non già, come per i grandi presocratici,
col desiderio di sciogliere l'enigma del mondo, in sé
e per sé, ma con la necessità di conoscere per conser·
vare la vita e per dare ad essa una forma. Egli
vuole realizzare la vera comunità umana, cioè l'am-
biente necessario a che la più alta virtù umana si
CAP. III: PLATONE NELLA STORIA [Il 141] 829

realizzi. La sua opera, quindi, è opera di riformatore


animata dallo spirito eduèatore della Socratica, volto
non solo a contemplare la realtà, ma a un'opera crea-
tiva, di bene. Le due grandi opere, in cui culmina
la sua attività di scrittore, la Repubblica e le Leggi,
sono due grandi sistemi educativi, e in generale il suo
pensiero si muove costantemente intorno al problema
dei presupposti :filosofici di ogni forma di educazione,
nella consapevolezza di essere, ess<> stesso, il più alto
fattore di formazione di uomini.
Così Platone accede all'eredità di Socrate e prende
il primo posto riel dibattito inaugurato dal maestro
con le grandi forze educative proprie del suo tempo e
della tradizione del suo popolo: con· la sofistica e la
retorica, con lo stato e la legislazione, la matematica
e l'astronomia, la ginnastica e la medicina, la poesia
e la musica. Socrate aveva ravvisato lo scopo nella
scienza del bene, e posta la norma. Platone tenta di
trovar la via che porti a questa meta, ponendo il pro-
blema dell'essenza del sapere. Egli, passato attraverso
il fuoco purificatore dell'« ignoranza» socratica, si sente
ora capace di penetrare, al di là di essa, a' quella cono-
scenza del valore assoluto che Socrate aveva cercato,
e di restituire, per essa, la perduta unità di scienza e
vita. Dal q:>~Àoaoq:idv socratico sboccia la «filosofia» di
Platone. La posizione di questa nella storia dei sistemi
:filosofici greci, è caratterizzata da questo suo essere
una paideia e dal tentativo imponente di risolvere il
problema dell'educazione umana. D'altro canto, la sua
posizione nella storia della paideia greca è definita dal
fatto che essa ravvisa la forma più elevata di educa-
zione nella filosofia e nella conoscenza. Essa pone il
problema tradizionale, di come sia da formare un tipo
migliore di uomo, sul fondamento di una nuova gerar-
chia di realtà e di valori. E questo nuovo ordine prende,
830 [Il 142] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

in Platone, il posto di quel terreno su cui si era in an-


tico impiantata ogni educazione umana della reli-
gione: o, piuttosto, è .esso stesso una nuova religione.
In ciò esso si differenzia da un sistema naturalistico
come quello di Democrito, che appare nella storia del
pensiero come l'antitesi perfetta délla. filosofia plato-
nica, ed è giustamente messo a fronte ad essa nella
storia della filosofia, come una delle più originali crea-
zioni dello spirito greco. Infatti, la greca filosofia della
natura, di cui i pionieri sono stati già da noi passati
in .rivista nella parte che, come creatori del pensiero
razionale, ebbero nella storia della paideia, diventa,
questa :filosofia, con Democrito e Anassagora, sempre
più affare di dotti· e ricercatori. Soltanto con Socrate
e Platone si afferma un tipo di filosofia che interviene
energicamente nel dibattito, aperto dai Sofisti, per la
vera educazione, decisa e sicura di poterlo risolvere.
Sebbene il tipo scientifico-naturalistico torni a farsi
valere più fortemente nella filosofia postplatonica, e
già fin da Aristotele, pure Platone comunicò a tutti i
sistemi della tarda antichità qualcosa del suo affiato
di educatore e valse perciò a fare della filosofia la più
grande energia educativa .del declinante mondo antico.
Il fondatore dell'Accademia è a buon diritto ricono-
sciuto un classico, dovunque filosofia e scienza sono
ritenute forze formatrici di esseri umani e come tali
insegnate.
CAPITOLO QUARTO

I BREVI DIALOGHI SOCRATICI


IL PROBLEMA DELL'« ARETÉ »

Nella lunga serie delle opere platoniche, si rilevano


come un gruppo a sé, distinti da comuni caratteristiche,
quelli che si sogliono chiamare i « dialoghi socratici »:
in senso stretto, giacchè anche in altre opere Socrate ap- ·
pare figura centrale. Questo gruppo, infatti, rappresenta,
si può dire, la forma originaria del dialogo socratico nel
suo aspetto più semplice, ancora del tutto aderente alla
realtà. Sono tutti di breve estensione, non più lunghi
di quan~o potrebbe essere nella realtà una conversa-
zione occasionale. Nel punto di partenza e nello scopo,
nell'uso del procedimento induttivo. e nella scelta degli
esempi, in tutto insomma il loro svolgimento, essi
mostrano una somiglianza di tratti tipici, che si spiega,
evidentemente, col modello reale a cui cercano di ade-
rire. Linguisticamente, scorrono leggeri nel facile tono
della conversazione, e l'attico schietto in cui sono
scritti, non ha il compagno in tutta la letteratura
greca per naturale grazia e scioltezza, come per verità
di colorito. Anche se non ci fossero, di contro a essi,
opere di maggiore ricchezza linguistica e di complicata
struttura, come il Simposio, il Fedone o il Fedro, noi
sentiremmo in questo gruppo del tipo del Lachete,
dell' Eutifrone, del; Carmide, per nitore e freschezza,
832 [11144] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVJNO

l'opera di Platone giovane. Era nella natura delle


cose, che l'arte del dialogo, nelle mani del filosofo-
poeta che se l'era foggiata per intima esigenza del-
l'opera sua, si sviluppasse nel corso degli anni e finisse
con l'accogliere intricati ragionamenti e dimostrazioni,
agoni oratori e cambi di scene. Senza dubbio il desi-
derio di rappresentare il maestro in atto di dar prova
della sua famosa arte dialettica, fu per Platone motivo
essenziale per mettersi a comporre questi quadri 1).
Il suo ingegno di drammaturgo nato dové sentire l'at-
trattiva di riprodurre tutte le vicende e peripezie lo-
giche che lo svolgersi della disputa importava. L'Euti-
frone accenna già al processo di Socrate, e poiché I' Apo-
logia e il Critone che sono strettamente legati con la
fine della sua vita, si inseriscono naturalmente, per co-
muni caratteristiche, nello stesso loro gruppo, è del
tutto verosimile che tutti questi dialoghi non siano
stati composti se non dopo la morte del maestro. Non
tutti, è vero, parlano di questo avvenimento, ma ciò
non è argomento contro chi pensa che questi squisiti
saggi di ritrattistica ·non siano soltanto la lieve crea-
zione di un gioco mimetico, ma che la .morte di Socrate,
con tutto il suo dolore, si rifletta in essi, in un tenta-
tivo di eternare l'immagine vera di lui.
In tempi recenti si è sostenuta l'opinione che l'at-
tività letteraria di Platone non aVI"ebbe avuto, in prin-
cipio, alcun fine filosofico di una qualche profondità,
ma sarebbe improntata a un carattere puramente poe-
tico, cioè, in questo caso, a un carattere di gioco 2).

' .
1) Sull'importanza della forma in Platone cfr. J. STENZEL,
Literarische Fonn und philosophischer Gehalt des platonischen Dia-
logs, ristampato in Studien ZUT Entwicklung der platonischen Dia-
leTaik, Breslau 1917, Anhang, p. 123 ss.
2 ) Questo modo di vedere è stato sostenuto specialmente dal
WILAMOWITZ, Platon, I, p. 123 ss.
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI [Il 145] 833

Ed è anzi questa la ragione per cui si tende ad asse-


gnare questi « tentativi drammatici» a un tempo pre-
cedente alla morte di Socrate 3). Con ciò questi dialoghi
verrebbero ad apparire meramente coine prodotti di
ozio giovanile e come schizzi impressionistici in cui
Platone avrebbe cercato di cogliere il vivo moto del-
l'intelligenza di Socrate, la grazia e l'ironia del suo dia-
logare. Si è tentato cosi di contrapporre al gruppo degli
scritti più antichi chiaramente attinenti alla morte o
al processo di Socrate, cioè all'Apologia e al Critone,
all' Eutifrone e al Gorgia, un altro gruppo privo di ogni
allusione a quei fatti, e si è creduto di trovare nella
serena letizia del tono un criterio di dimostrazione per
l'anteriorità di queste opere alla morte di Socrate 4).
Si è stati poi cosi larghi nell'ammettere dialoghi in
questo gruppo di opere, prive, a quel che si pretende,
di contenuto filosofico, da includervi anche un dialogo
come il Protagora, cosi ricco di pensiero e di problemi 5 ).
Le opere di questo periodo sarebbero, dunque, sl, do-
cumenti importanti dello svolgimento di Platone, non
però del suo sviluppo di pensatore, ma solo dello sboccio
delle sue facoltà di scrittore, ben prima che si formasse
la sua filosofia. In questo perio~o come di transizione
noi, certo, vedremmo già Platone avvinto dal dramma
filosofico del discorso socratico, e allettato a renderlo

S) Il WILAMOWITZ, op. cit. I, p. 150, assegna r Ione, l' lppia mi-


nore e il Protagora agli anni 403-400, « il tempo nel quale Platone
si vien formando nel contatto con Socrate, senza avere ancora
un'idea precisa dell'indirizzo da dare alla vita».
') Il WILAMOWITZ cerca di cogliere l'unità di questo gruppo
di opere vive e gaie, da lui ritenute le più giovanili, intitolando
«Rigoglio di giovinezza» (op. cit. I, p. 122) la trattazione ad esse
dedicata.
6) H. v. ARNnr in Platos Jugenddialoge und die Entstehungs-
seit des Phaidros, Lipsia 1914, p. 34, andò ancora più oltre di
quanto doveva fare più tardi il Wilamowitz nel suo libro, e fece del
Protagora la più antica delle opere platoniche, però con una mo.ti-
vazione diversa da quella del Wilamowitz (cfr. infra, p. 178 n. 2).
834 [II 146) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

artisticamente, ma, sempre, tuttavia, allettato più dal


dramma in sé, che dalla serietà del suo significato.
In realtà, a non contare che questa interpretazione
puramente estetica dei primi dialoghi platonici tra·
sferisce troppo facilmente le idee del moderno impres-
sionismo sulla natura dell'artista, nell'età classica dei
Greci, essa va troppo oltre nello sforzo di rivendicare
in Platone il poeta, di fronte al pensatore. Legittimo
sforzo, ché, senza dubbio, il lettore filosofo di Platone,
in ogni tempo, è stato tentato di trascurare la forma
a vantaggio del contenuto, sebbene l'importanza altis-
sima della forma in Platone sia a tutta prima evi-
dente. Solo un grande poeta poteva assegnarle l'altis-
simo rango, che -Platone le dà, di rivelatrice immediata
delle cose, nella loro essenza. Ma è pur vero che l'oc-
chio del critico non coglie, nell'intera opera platonica,
alcun punto in cui forma poetica e contenuto filoso-
fico non siano perfettamente compenetrati. Fin da
suoi esordii noi lo vediamo avvinto, con tutte le sue
forze di artista, ad un soggetto solo, a cui rimarrà
fedele fino alla vecchiaia 8). Non è facilmente pensa-
bile, che questo soggetto, Socrate e la sua opera di tra·
sformatore di anime, fosse ancora privo, al tempo dei
primi tentativi di rappresentarlo, del significato pro-
fondo che Platone gli dà nelle opere posteriori. Anzi:
noi ci aspetteremmo di trovar fin da queste prime opere

') Da vècehio, Platone, fa ancora una volta di Socrate il pro-


tagonista di un dialogo, il Filebo, ment:e nelle altre opere della
vecchiaia, i cosiddetti dialoghi dialettici. Parmenide, Sofista e
PolitU:o, e nel dialogo di filosofia della natnra, il Timeo, Socrate
non ha che una parte secondaria, per finire alle Leggi, dove è sen-
z'altro sostituito dall'ospite ateniese. Platone poté nel Filebo con-
cedersi un'eccezione poich6 il tema etico del dialogo era d'indole
socratica, anche se il metodo di trattazione doveva allontanarsi
parecchio dal modo della dialettica di Socrate. La medesima os-
servazione può applicarsi al Fedro, sulla cui datazione cfr. « Pai·
deia » Ili 315 ss.
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI [II 147] 835

il senso di·quel4 scoperta di Socrate e del suo travaglio


di ricerca che certo si produsse in Platone e che poi
si dispiega in mille forme nelle opere posteriori. Già
prima che Platone si legasse con Socrate, cioè in età
molto giovanile, egli aveva gustato l'insegnamento di
Cratilo, l'eracliteo, e nel passare dalla dottrina del
flusso eterno alla ricerca etica di Socrate, si era tro-
vato preso, se crediamo alla testimonianza attendibile
di Aristotele, in un dilemma :filosofico. Da questo di-
lemma non trovò via di uscita, se non quando ebbe
concepito la fondamentale distinzione tra il mondo
sensibile e il mondo intelligibile, vale a dire la teoria
delle Idee 7). È impossibile che quando un tale conflitto
era ancora irrisolto, Platone si sia sentito spinto a
una pura attività poetica, di ritrattista senza interessi
filosofici. I primi dialoghi platonici non sono venuti
fuori dal dubbio. Basta, perché ciò si debba escludere,
osservare la sicurezza sovrana con cui è tracciàta l'in-
tima linea di questi dialoghi, per chi li guardi non solo
uno per uno, ma, soprattutto, nel loro insieme. Giac-
ché in essi tutti, contro la possibilità di una composi-
zione puramente occasionale, un solo fondamentale
tema si presenta, nelle variazioni che il fine partico-
lare suggerisce, il problema che, quanto più si leggono
queste opere, s'impone con sempre maggiore chiarezza
come il « problema » per eccellenza: qual è l'essenza
dell'areté.

A prima vista, i dialoghi minori degli inizi ci appaiono


come una serie di ricerche particolari sui concetti di
fortezza, pietà verso gli dei, temperanza, nelle quali
Socrate ci si presenta affaccendato, coi suoi interlocutori,
a definire ciascuna di queste virtù. Identico, in tutti,

7) Arist. Met. A6, 987 a 32.


836 [Il 148] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

il procedimento di Socrate. Egli provoca l'interlocutore


a esprimere un'opinione, e ciò finisce col mettere in
luce, con umoristica grazia, tutta l'inesperienza e la
goffaggine di costui, in questo genere di investigazioni.
Non uno dei tipici errori logici, che in casi simili si
sogliono fare, è evitato,. e Socrate, pazientemente, tutti
li corregge. Ogni nuovo tentativo di soluzione contiene
una certa dose di verità e corrisponde a una qualche
reale esperienza, che qualcosa pur chiarisce sulla na-
tura della virtù esaminata; ma nessuna delle risposte
è soddisfacente, nessuna si adegua all'oggetto. Si ha
quasi l'impressione di assistere a un corso di logica
elementare diretto da un maestro d'eccezione; e l'im-
pressione, in fondo, non inganna, poiché il riprodursi
di errori analoghi e il ripetuto uso degli stessi artifi.zi
metodici, mostra chiaramente che l'aspetto metodico,
in questi dialoghi, è espressamente accentuato. Platone
non è il registratore di un dialogo che, sbandato,· balzi
a caso di domanda in risposta, ma, consapevole a pieno
della regola del gioco, .cerca chiaramente di richiamare
su essa l'attenzione del lettore e di iniziarcelo con l'esem-
pio pratico. L'autore di questi dialoghi non è uomo
che abbia aspettato fino al momento di scriverli per
capire che non è una definizione corretta, p. es.: della
fortezza, quella che comincia : « la fortezza è quando
uno'. ... ». Anche se non lo possiamo dimostrare, noi
sentiamo subito che ogni passo, ·giusto o falso, fatto
dai personaggi del dialogo, è stato disposto da Pla-
tone con un fine preciso. Solo a condizione di un'in-
genuità totale, si potrebbe pensare che, per il fatto di
non giungere a una scolastica definizione del soggetto
in esame, questi dialoghi "si rivelino come l'opera di
un principiante, che azzardi qui i suoi p:rimi passi infe-
lici su terreno inesplorato. In realtà il resultato cosid-
detto negativo di questi dialoghi «confutatori» o
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI [n 149] 837

« elenctici» è di tutt'altro significato. Quando Socrate


ci lascia, alla fine, con la consapevolezza che, mentre
si credeva di sapere che cos'è «fortezza» o «tempe-
ranza», in realtà non si sapeva nulla, l'impressione che
si ricava di esserci affaticati senza frutto, non produce
però l'effetto scoraggiante di un semplice riconoscimento
della propria incapacità, bensì ha in sé qualcosa di sti-
molante, qualcosa che accende a cimentarsi di nuovo
con lo stesso problema. Di fatto, più di una volta, So-
crate dice espressamente che la questione sarà ripresa
un'altra volta, cosa che, anche nella realtà, sarà avve-
nuta abbastanza spesso. L'osservare che, non solo
in un dialogo isolato, ma regolarmente in tutti questi
dialoghi minori, manca la soluzione aspettata, e la do-
manda si ripropone intatta alla fine, mette il lettore
in uno stato di tensione filosofica, che ha la più alta
efficacia educativa.
Platone aveva fatto su se stesso, assistendo alle
conversazioni di Socrate, esperienza sempre nuova del
potere del suo maestro nel guidare le anime degli uomini,
ed è naturale che egli sentisse il più e il più difficile
del suo compito di artista, nel raggiungere sui lettori
quella stessa efficacia che aveva sentito operante in
se stesso. Ciò non poteva riuscirgli mediante la pura
riproduzione e quasi registrazione del gioco di domanda
e risposta; ché un tale procedim "nto può stancare enòr-
memente, quan,do sia privo di v .ta e di nerbo dramma-
tico. Egli sentì, invece - e fu qui una sua grandè sco-
perta di artista - che il senso genuino della ricerca scien-
tifica, quell'avanzar grado a grado sospinti e come pre-
muti da energica tensione, per vie e svolte sempre nuove
e sorprendenti, in vista -di un fine, aveva in sé una for-
tissima attrattiva drammatica. Nessuna forìna di co-
municazione del pensiero raggiunge il potere di sug-
gestione del dialogo, specie del dialogo euristico - se
838 [n 150] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

condotto'\ con sicurezza di metodo - nel quale, chi


vi partefiipa è chiamato a un'attiva collaborazione.
Bastano' 1i ripetuti tentativi dei dialoghi socratici di
sempre più aderire, in un comune lavoro dei parteci-
panti, e quasi conformarsi al soggetto, a mostrare la
maestria di Platone nell'arte pedagogica di chiamarci
a questa attiva partecipazione. Il nostro pensiero è
mosso a prevenire il corso della discussione, e quando
poi, a un certo punto, Platone sembra che ci lasci senza
nulla di fatto, egli mira ad ottenere che si prosegua
oltre, a pensare per conto nostro nella direzione in cui
il dialogo ci ha guidato. Se si trattasse di conversazioni
reali, il resultato negativo potrebbe esser caso; ma
quando uno scrittore filosofo ed educatore ci conduce
sempre, alla fine, a questa constatazione d'ignoranza,
egli deve avere avuto la mira ben oltre la fedele
pittura della «ignoranza», divenuta proverbiale, di
Socrate. Un problema da risolvere, un enigma, è
quello che egli ha voluto presentarci, ma nella con-
, vinzione che la soluzione di esso era in qualche
modo nei limiti del nostro potere.

In questi dialoghi, riguardanti tutti il problema


qella natura di singole virtù, noi siamo, prima o poi,
condotti ad ammettere che quella tale virtù deve es-
sere un sapere; e questo sapere, poi, quando ci si do-
manda quale sia il suo oggetto, ci si scopre come cono-
scenza del Bene. In questa equazione virtù-sapere, noi
riconosciamo il ben noto paradosso di Socrate; ma
anche sentiamo, ad un tempo, ·che nei dialoghi socratici
di Platone si fa valere una forza nuova, che non tende
solo a ritrarre il maestro, ma fa suo il problema stesso
di lui, per andare con esso più oltre e più a fondo.
Questa forza è immediatamente percepibile, per il let-
tore attento, nel fatto stesso che il Socrate platonico
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI [II 151] 839

si dedica soltanto ed esclusivamente a discutere il pro-


blema della virtù. Che Socrate, nella realtà, fosse
stato prima di tutto un ammonitore di virtù e della
«cura dell'anima», lo sappiamo dall'Apologia, ma da_
essa anche abbiamo imparato che l'elemento dialet-
tico-confutatorio, sempre congiunto all'esortazione, col
fine di convincere l'interlocutore della propria igno-
ranza, era in servigio dell'esortazione stessa; esso mi-
rava· a inquietare gli uomini e a spingerli a far qual-
cosa in pro di se stessi. Invece, negli altri dialoghi
platonici di questo periodo iniziale, l'elemento protret-
tico della disciplina socratica si fa decisamente indietro,
di fronte a quello dialettico e confutatorio. Evid~nte­
mente, quello che import<·. a Platone è di arrivare
una buona volta alla conoscenza della virtù, e di non
rimanere nelle secche dell'ignoranza. La mancanza di
una via d'uscita, che per Socrate era stata condizione
permanente, per Platone vale. come incitamento e pun-
golo a liberarsene, a sciogliere questa «aporia». E gli
cerca una risposta positiva alla domanda: che cos'è
la virtù; e la cerca con un piano, sistematicamente,
come si vede prima di tutto in quel suo prendere,
una dopo l'altra, le virtù come tema e problema dei
suoi dialoghi. In apparenza, egli, in questi dialoghi,
non va oltre l'ignoranza socratica, ma solo in apparenza.
Giacché, se nel corso di questi tentativi, e nel punto
culminante della ricerca, sempre s'impone la conclusione
che la· virtù ricercata deve consistere in una scienza
del Bene, appare chiaro, da questa specie di avanzata
convergente da più punti, che la strategia dell'assalto
è diretta, con tutte le forze, su un solo· punto, su un
solo problema: qual è la natura di questa scienza che
Soc:rate cercò invano tra gli uomini, e che deve pur
essere in qualche modo riposta nell'anima, se è vero
che l'uomo non può, senza di lei, raggiungere la sua
840 [rr152] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

vera perfezione; e qual è la natura del suo oggetto, dcl


«Bene» ?
L'una e l'altra domanda restano dapprima senza
risposta. Con tutto ciò, pure in questa oscurità, noi
non ci sentiamo abbandonati, ma avvertiamo la guida
di una mano sicura. Platone, da un lato sembra riu-
scito, con istinto e occhio mirabili, volti ali' essenzia e
a ricondurre a pochi tratti fondamentali ben segnati
la figura, così multiforme, di Socrate; e a ricavare da essi
un ritratto di stile ben netto e fermo. D'altro canto,
però, per veri che siano questi tratti nel tracciare la vita
e l'essenza del Socrate reale, essi hanno ricevuto forza
e decisione per effetto di un problema unico, a cui
Platone è rimasto avvinto. Nel primo momento Pla-
tone, come il suo maestro, perseguì la soluzione di que-
sto problema, per l'importanza e il valore di vita che
esso aveva. Ma in quell'elaborazione del problema nelle
sue conseguenze teoretiche, che si svolge, così chiara-
mente, nei dialoghi giovanili di Platone, si scorge che
esso affonda largamente le sue radici in un vasto ter-
reno filosofico, ben presente all'autore, anche se nor-
malmente esso non appar chiaro alla vista, ma si svela
soltanto a chi ha l'occhio sui dialoghi seguenti, dal
Protagora e dal Gorgia alla Repubblica. Così, fin dalle
prime opere di Platone, non si sfugge al problema fon-
damentale che ha agitato gli interpreti, dallo Schleier-
macher in poi, se cioè, una singola opera si possa per-
fettamente spiegare con se stessa, o se sia da intendere
solo nella sua connessione col resto. Per lo Schleier-
macher è evidente la seconda soluzione. Per lui era
acquisito che le opere di Platone, se anche in esse il
pensiero non si sviluppa in forma sistematica, ma nella
forma pedagogica del dialogo, presuppongono però,
fin da principio, una totalità· teoretiw che in esse dia-
letticamente si svolge e si articola, di gradino in gra-
dino. Diversamente pensano coloro che cercano di se-
CAP. IV: l BREVI DlALOGIIl SOCRATICI [II 153] 841

guire la storia interna del pensiero platonico, il suo


svolgimento: per loro, quei gradini, sono gradini cro-
nologici e come tali determinabili nel divenire di quel
pensiero, ed ogni gruppo di opere rappresenta per-
fettamente lo stadio di pensiero raggiunto di volta
in volta. Chi pensa così, crede fermamente che non sia
lecito, di fronte a un'opera platonica in cui un pro-
blema sia formulato per la prima volta, adoprare per
interpretarla, opere posteriori, nelle quali lo stesso
problema appaia approfondito nel significato e nel
:fine, e posto in luce diversa dalla maggiore quantità
d'implicazioni B).
La questione diventa acuta subito, fin dai dialoghi
giovanili. S'intende che quelli per cui questi dialoghi
non sono che un gioco poetico, un'espressione della gioia
di ritrarre del giovane Platone, li tengono nettamente
distinti da tutti i posteriori 9). Ma anche studiosi che
scorgono in essi contenuto :filosofico, sogliono conside-
rarli còme documenti di un periodo puramente socra-
tico di Platone, con poco o niente ancora di veramente
suo 1°). Per loro, la prima opera in cui si profilano li-
neamenti di un mondo di pensiero propriamente pla-

8) Schleiermacher, il fondatore della moderna indagine su


Platone, fondò la sua interpretazione delle opere del filosofo sul
convincimento che in esse si rivelasse l'unità interiore del pensiero
platonico. Dopo di lui, C. F. HERMANN, nel libro Geschichte und
System der platonisçhen Philosophie, Heidelherg 1839, si fece ini-
ziatore del criterio interpretativo, cosiddetto « di storia dello svol-
gimento». Per la storia dell'interpretazione moderna di Platone
cfr. l'invecchiato ma ancora utile libro di FRIEDRICH UEBERWEG,
Untersuchungen uber die Echtheit und Zeitfolge platonischer Schriften
etc., Vienna 1861, Ja parte; cfr. inoltre, nel mio libro Platos
Stellung im Aufbau der griechischen Bildung, la conferenza intro-
duttiva, Der Wandel des Platobildes im 19. Jahrhundert, apparsa
prima in« Die Antike», IV, p. 85 ss., e anche in fascicolo a parte
(Berlino 1928); e infine, HANS LEISEGANG, Die Platondeutung dtir
Gegenwart, Karlsruhe 1929.
») E così fa soprattutto il Wilamowitz, cfr. supra, pp. 144-146.
10) Di questo gruppo siano nominati: H. RAEDER, Platons
phifosophische Entwicklung, Lipsia 1905; H. MAIER, Sokrates, Tii-
bingen 1913; M. PoHLENZ, Aus Platos Werdezeit, Berlino 1913.
842 (II 154] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tonico, è il Gorgia; e questo dialogo è anche il primo


che sembri accennare al problema politico che trova
svolgimento pieno, intorno al 370, nell'opera monu-
mentale della Repubblica. In questa opinione, dunque,
i dialoghi minori socratici non sono che ricerche di
etica, del genere che è caratteristico di Socrate. Per
lo più va congiunta a questo modo di vedere anche
l'ipotesi, che sarebbe, se vera, di grandissimo peso in
. suo favore, che Platone, al tempo in cui componeva i
· suoi giovanili scritti socratici non fosse ancora giunto
a edificare la teoria delle Idee. Non trovandosi, nel
gruppo delle opere giovanili, accenni espliciti a questa
teoria, si preferisce pensare che essa sia frutto di un
periodo posteriore, quando· Platone si sarebbe volto
alla logica e alla gnoseologia, come appare per la
prima volta con una certa chiarezza in un dialogo del
tipo del Menone. Così, i dialoghi del primo gruppo,
a prescindere dal loro valore poetico, avrebbero soprat-
tutto valore di opere storiche, e in particolare di fqnti
per la ricostruzione della figura di Socrate.

Questo modo d'interpretazione e di storia interna


degli scritti platonici ha senza dubbio il merito di
aver fatto riflettere ·per la prima volta a una quantità
di circostanze importanti, non ben valutate fino a
quel momento. Senza di che, del resto, non s1
sarebbe imposto per decenni, tenendo vittoriosamente
il campo contro ogni altra sorta di interpretazione.
Platone scrisse dialoghi per tutta la vita, ma il muta-
mento formale, per lingua, stile, arte di composizione,
è, dal Lachete e dall'Eutifrone alle Leggi, enorme ed
evidentemente non trova la sua ragione soltanto nella
diversità degli scopi che Platone si propone di volta
in volta. Una più attenta considerazione ci ha permesso
di capire che proposito consapevole da un lato, e~
CAP. IV: I BREVI DIALOG!Il SOCRATICI [II 155] 843

dall'altro, mutamento spontaneo dell'atteggiamento ar-


tistico, cooperarono a uno svolgimento stilistico che
scorre in preciso parallelismo coi principali periodi
della vita di Platone, e che ci consente di parlare
di uno stile giovanile, di uno della maturità, e di
uno che è evidentemente della vecchiaia. Se, d'altra
parte, si pensa che, in due opere imponenti, Repub-
blica e Leggi, Platone trattò due volte gli stessi pro-
blemi dello stato e dell'educazione, e li trattò in modo
profondamente diverso nell'opera della maturità e in
quella della vecchiaia, si deve riconoscere che non il
poeta, non la forma soltanto, si mutarono, ma anche
il pensatore e il suo pensiero. Ogni ricerca orientata
esclusivamente all'unità sistematica del pensiero pla-
tonico e che non si dia pensiero di un fatto storico
come lo svolgimento del pensatore, si avvolge neces-
sariamente in difficoltà, appena cerca di esporre quella
sistematica unità, usando contemporaneamente e indif-
ferentemente tutti i suoi scritti. Edoardo Zeller, tro-
vandosi di fronte la. singolarità delle Leggi, da prin-
cipio tentò di dimostrarle non autentiche; poi nella
« Storia della Filosofia Greca », si vide costretto ad am-
metterne l'autenticità, ma ne relegò la trattazione in una
appendice, in quanto esse erano assolutamente aber-
ranti e inconciliabili coll'immagine platonica ricavata
dalle opere maggiori.
Ammettere e riconoscere tutto ciò, non vuole ancor
dire, però, sottoscrivere tutte le conseguenze partico-
lari che si son tratte da questo concetto dello svolgi-
mento platonico. E proprio l'interpretazione dei dia-
loghi più antichi, che abbiamo or ora delineato, va
soggetta ai dubbi più gravi, anche se da lungo tempo
dominante. Possiamo permetterci di non parlare, dopo
quanto già si è osservato, della interpretazione che vede
in queste operette soltanto i documenti di un gioco
844 [II 156] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

di poeta 11) : ma neppure l'interpretazione di esse come


frutto di un periodo puramente socratico in Platone
è accettabile 12). Come abbiamo rilevato più e più volte,
il caratterizzare questi dialoghi come etici e il credere
che la fase giovanile del pensiero platonico sia pura-
mente etica, non è che un fraintendimento moderno,
il quale si dissipa non appena questo tipo di ricerche si
considera su quello sfondo più vasto in cui Platone
stesso le pone nelle sue opere più tarde. Le virtù di
cui si tratta nei dialoghi giovanili sono le stesse che
costituiscono il fondamento dell'edificio politico con-
cepito da Platone. Fortezza, giustizia, temperanza e
pietà sono le antiche virtù politiche della città-stato
e dei suoi cittadini13). Di queste, fortezza temperanza
e pietà sono sottoposte ad esame nei dialoghi minori,
una per dialogo. La giustizia, che fra tutte è la più
strettamente congiunta all'essenza dello stato, che, si
può dire, ne è l'anima, è esaminata da Platone nel primo
libro della Repubblica. Si è più volte affermato che que-
sto libro introduttivo della grande opera presenta,
nella sua forma conclusa, una precisa analogia con i
dialoghi socratici del gruppo più antico di scritti pla-
. tonici, e si è giunti perfino a vedere in esso un dia-
logo di quello stesso ciclo giovanile, originariamente a
sé stante, che Platone poi av-rebbe immesso nell'opera
più grande, per potere svolgere da esso, cioè dal pro-
blema della giustizia, la costruzione del suo stato ideale.
Quest'ultima opinione, oggi accettata da molti, non è,
certo, più che un'ipotesi intelligente. Ma,. vera o falsa
che sia, essa mette in luce l'organica connessione dei
dialoghi giovanili con fa cerchia di pensiero da cui è

11) Cfr. supra, p. 144 ss.


12) Cfr. p. 153 s.
18) Vedi chiarito questo punto in« Paideia» I 207.
CAP. rv: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI [II 157] 845

nata la Repubblica, il lib:ro in cui il mondo spirituale


di Platone ci si presenta per la prima volta nella sua
interezza. Non solo il dialogo del primo libro della
Repubblica, sulla giustizia, ma anche il Lachete, il
Carmide e l'Eutifrone, sulla fortezza, temperanza e
pietà, hanno radici, pur essendo liberi da ogni legame
strutturale con la Repubblica, in questo mondo d'idee.
Già nell'Apologi,a l'attività di Socrate, la sua opera
di educatore alla vera aretè, è riportata alla « polis
stessa» e la sua missione riceve così un'impronta poli-
tica 14). Il tono che qui si accenna è poi mante-
nuto da Platone, se prestiamo attento l'orecchio, in
tutti questi brevi dialoghi. Superfluo soffermarci, per
questo rispetto, sul Critone, il dialogo in cui Socrate,
nella prigione, discorre col suo vecchio amico del do-
vere civico di perseverare, ad ogni costo, nell'obbedienza
alla legge 15). Il Lachete rileva il significato politico del
suo problema, il problema della vera fortezza; in quanto
questo si pone in una conversazione di due cittadini
sul miglior modo di educare i :figli, alla quale parteci-
pano attivamente due generali ateniesi di gran nome,
Nicia e Lachete 16). Il Carmide è legato da più di un
:filo alla Repubblica e alle dottrine che le stanno a fon-

14) Cfr. Apol. 36c, dove Socrate chiude ancora una volta, in
una breve ed esauriente formula, tutta l'essenza della propria
attività. Egli dice di sé di aver cercato di persuadere ogni uomo
a non dedicarsi alla cura di propri interessi, se non dopo essersi
curato a sufficienza di se stesso, così da essere il più possibile
buono e saggio, e non alla cura degli interessi dello stato, se non
dopo essersi curato dello stato in se stesso ( odi-r'ij:; -r'iji; 'lt6Àe:<ili;).
Con questa distinzione tra cura per gli interessi della polis, e cura
per la polis s1essa, sicché essa sia il più possibile buona e sag-
gia, è immediatamente posta la differenza fondamentale tra po-
litica in senso socratico e politica nel senso usuale. Allusioni alla
missione di Socrate in vantaggio della polis, si trovano anche ni
.1pol. 30e, 3la e altrove. Cfr. supra, p. 77 s.
15) Cr-it,. 50a.
18) Lach. l 79c, ss.
846 [II 158] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

damento. Per la prima volta appare in esso, come


qualcosa che tien dell'«enigma», il concetto, non fa-
cilmente traducibile, di- -riX ~ixu-rou 7tp<i't'UW *), cioè
attendere al proprio lavoro e dedicarsi ad esso e a
null'altro 1 7); ed è proprio questo il concetto su cui
si basa la distribuzione- delle funzioni tra le classi nella
Repubblica di Platone 1 8). E, inoltre, è più volte messa
in rilievo nel Carmide l'importanza che il problema
della temperanza e dell'autodominio, che è il soggetto
del dialogo, ha direttamente per il legislatore e per il
governo dello stato 19). Come nel Gorgia, la scienza po-
litica vi appare già l'omologo della scienza medica 26).
Connessa con uno sfondo politico appare anche la
pietà di cui si discute nell' Eutifrone, specialmente per-
ché questa virtù è presa .in esame a proposito di un
problema di diritto sacrale. Ma, del resto, il concetto
di pietà è essenzialmente un concetto politico nel pen-
siero dell'età classica, poiché si tratta dell'onore da
rendere agli dei dello stato, quegli dei a cui è com-
messa la tutela delle· leggi e degli ordinamenti della
polis. Con tutto questo siamo ormai già nell'atmosfera
del Protagora, il dialogo che è come il punto d'interse-
zione in cui vengono a riunirsi tutte le linee fin qui
tracciate singolarmente, in quanto esso caratterizza la
direzione di tutte queste ricerche col comprenderle

•) [La traduzione in italiano c'è, ma è propriamente dialettale


e non si presta ad accogliere neppure un barlume di significato
etico: «fare i fatti suoi » o « farsi i fatti suoi». È anzi l'oppostò
di ogni significato etico-politico. N. d. T.].
11 ) Charm. 16lb (cfr. 161c). ,.
IB) Resp. IV 433b (cfr. infra, p. 412).
19) Charm, 17ld-e, cfr. 175b.
20) Charm. 170b, 173b, 174c, dove l'arte sanitaria è asso-
ciata all'arte del nocchiero come nel Gorgia, nella Repubblica e
nel Politico; la medicina è paragonata con la scienza del bene,
(li m:pt 't"Ò àyoc&òv èma't"fi(J.71). ma è ad essa subordinata.
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATJCT [II 159] 847

sotto il concetto di arte politica {1toÀmx"Ìj 't'q,V"IJ) 21).


Arte o scienza politica è quella di cui gli elementi sin-
goli si trattano nei dialoghi giovanili di Platone, in
quanto essi cercano di fissare la natura delle fonda-
mentali virtù politiche, e di ogni virtù ravvisano l'es-
senza nella conoscenza del Bene. Qui comincia l'opera
di fondazione della vera politeia sulla base di queste
stesse virtù, e il problema centrale dello stato, che ap·
parirà più tardi come il culmine dell'opera educativa
di Platone, cioè la conoscenza dell'idea del .Bene, già
traluce fin nei primi scritti platonici.
Considerandoli in questa cornice, e soltanto così,
si afferra il significato che questi dialoghi hanno per
Platone, nel senso totale della sua filosofia. Questo senso,
che già fin da principio gli è presente al pensiero, è lo
stato. Platone, nella sua massima opera politica, fonda
il diritto dei filosofi a regger lo stato sul fatto che essi
posseggono la scienza del Bene, e, in essa, la conoscenza,
fondamentale per ledificazione della società umana,
della norma suprema a cui tutta la vita deve infor·
marsi. Il fatto che già le sue prime opere, diverse tra
loro per punto di partenza, conducano tutte, con ma·
tematica precisione, a questo centro, rivela, elemento
fondamentale di tutto il pensiero platonico, una ca-
pacità architettonica, a. cui sempre è presente il fine
di tutta la struttura. Per tale dote l'opera letteraria
di questo filosofo poeta si distingue, radicalmente, da
quella di ogni poeta non filosofo 22). Il fine gli sta in-
nanzi, ben fermo, e l'insieme gli è presente, .nei suoi
contorni, già fin dal momento in cui mette mano al

21) Prot. 319a. Anche nel Protagora l'esame dell'essenza di


quest'arte politica conduce immediatamente all'indagine sulle co-
siddette . virtù civili.
22) Questo punto non è stato osservato dal WILAMOWITZ, nella
railìgurazione di Platone poeta (Platon, I, p. 122 ss.).
848 [11160] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

primo dei suoi dialoghi socratici. L'entelechia della


Repubblica è già percepibile, con piena chiarezza, nei
dialoghi giovanili. Questo modo di dar forma al pen-
siero è cosa assolutamente nuova e unica, una delle
rivelazioni più grandi della potenza organicamente co-
struttiva dello spirito greco. Questa facoltà formatrice,
guidata da un'intelligenza sovrana, che, fermo lo sguardo
ad altissima mira, sembra, nel foggiare i particolari, ab-
bandonarsi come giocando alla libertà del suo estro
creatore, ha, nel suo insieme, tutta la ~icurezza infal-
libile di una pianta nel suo _crescere. Sarebbe frain-
tendere nel modo peggiore e più grossolano una tale
forma creativa, il credere che quel che appare- di volta
in volta in primo piano, nel succedersi di queste scene,
coincida con la vastità di orizzonte che Platone aveva,
in tutto e per _tutto, raggiunta in un dato momènto.
In questo consiste il più grave difetto di intelligenza,
poetica e filosofica, che si può rimproverare ad alcuni
rappresentanti dell'indirizzo di storia interiore dello
svolgimento platonico: questo di supporre, inizialmente,
che Platone, in ogni momento, sappia non più di qua~to
precisamente dice 23). Al contrario, l'incomparabile pro-
fonda suggestione del più breve dialogo platonico nasce
proprio da questo, che la discussione di un problema
singolo, che, rigorosamente limitata a pochi concetti
precisi, ha in sé qualcosa di arido e terra terra, si
muove su un ampio sfondo filosofico e ad esso rimanda
sempre, oltre se stessa.
Anche Socrate aveva già considerato quella educa-
zione all' areté, che egli persegW.va, come un compito
politico, giacché quella virtù era virtù politica. Per
questo rispetto Platone non ebbe bisogno di alcuna

23) Cfr. su questo punto la mia argomentazione in Platos Stel·


lung im Aufbau der griechischen Bildung, « Die Antike », IV ( 1928)
p. 92.
CAP. IV: I BREVl DIALOGHI SOCRATICI [II 161] 849

nuova elaborazione della dialettica socratica, ma poté


riattaccarsi immediatamente alle intenzioni del mae·
stro, nel considerare, fin dal primo dei suoi dialoghi,
l'opera educativa morale di lui, come opera di costru·
zione dello stato. Nell'Apologia quest'opera appare
in servigio della patria, di Atene 24), e anche nel Gor·
gia la grandezza di Socrate, come uomo politico e
maestro;, dà la misura a cui rapportare l'attività degli
uomini politici ateniesi 25). .Pure, già fin da queste
lontane origini, Platone, secondo quel che egli stesso
dice nella lettera VII - ed è testimonianza di valore
inestimabile a questo proposito, - è giunto alla
conclusione radicale che gli sforzi di Socrate non
potrebbero ottenere il loro pieno effetto in nessuno
degli stati come attualmente sono 26). Platone e i suoi
fratelli Glaucone e Adimanto, che egli fa intervenire
- ed è cosa significativa - proprio nella Repubblica,
scolari e interlocutori di Socrate, appartenevano evi-
dentemente, come Crizia e Alcibiade alla nuova gene-
razione della vecchia nobiltà attica, che per tradizione
familiare si sentiva chiamata alla direzione dello stato
e in Socrate cercava il maestro della virtù politica.
Erano giovani cresciuti in un'a;ria di aspra critica alla
democrazia ateniese, com'era allora costituita, e, come
tali, era naturale che prestassero ·facile orecchio a un
messaggio inteso a una riforma morale dello stato. Per
·Alcibiade e per Crizia, però, animi vogliosi soltanto di
potere, quel messaggio non era stato altro che olio
sul fuoco dei loro ambiziosi piani sovvertito:ri; Platonè
invece, che pure era stato invitato a collaborare . da
Crizia, suo zio, dopo il rovescia?t1-ento della democrazia,
al nuovo regime autocratico, si accorse subito di come

24) Cfr. supra, p. 157, n. 14.


2&) Gorg. 517c. .519a, 521d.
26) Ep. VII 326a-b.
850 [n162] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

questo regime fosse incompatibile con le idee di So-


crate e si trasse indietro 27). Ed il conflitto a cui Socrate
stesso venne col governo dei Trenta, il divieto a lui
fatto di continuare la sua opera di maestro, furono
per lui sintomi sicuri della malattia morale di cui sof-
friva il nuovo stato 28). Una seconda volta, restaurata
la democrazia e caduti i Trenta, egli si accingeva a
partecipare attivamente alla politica, ma il nuovo con-
flitto di Socrate con lo stato, lo sbocco tragico in cui
esso si risolse, lo fermarono dopo poco su questa via, e
lo indussero a ritrarsi del tutto dalla vita politica 29).
Questo ripetersi degli eventi gli aveva dato la certezza,
che non questa o quella forma di governo, l'oligarchica
o la democratica, ma la degenerazione dello stato
com'era in quel momento, era stàta la ragione del
conflitto mortale tra esso e il più giusto di tutti i suoi
cittadini.
Platone era giunto, ora, alla conclusione che, per
quanto saggio e acuto fosse il giudizio di un singolo,
esso non poteva produrre reale miglioramento, se quel
singolo· rimaneva senza amici e compagni del suo stesso
sentire, che lo aiutassero a far breccia e a imporsi.
Nella lettera VII egli pone nel tempo di questa dolo-
rosa esperienza l'origine di quella profonda rassegna-
zione che rimase, di li in poi, la nota fondamentale
della sua vita rispetto al problema per lui più impor-
tante, il problema dello stato. Egli si era convinto
che per lui, tutto compreso della volontà educatrice
di Socrate, l'immergersi attivamente nella vita poli-
tica di Atene sarebbe stato uno spreco insensato delle
proprie facoltà, poiché, non lo stato ateniese soltanto,

21) Ep. VII 325d.


28) Ep. VII 324d-e; e si veda anche un più minuto racconto
degli avvenimenti in Xen. Mem. I 2, 31-37.
29) Ep. VII 325a, ss.
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI (II 163) 851

ma ogni stato attuale gli sembrava perduto, senza un


prodigio divino che lo salvasse 30). Socrate si era de-
dicato unicamente alla sua passione di educatore, senza
cura alcuna per il potere a cui altri dava la caccia;
g.iacché quello stato ( C'lÙTIJ ~ 7t6À.Lç) per cui egli viveva
e operava era una ·struttura, un ordinamento pura-
mente etico 31). Platone, invece, possedeva original-
mente un genuino istinto politico, e la conversione
morale che investi in lui pensiero e volontà per opera
di Socrate, non arrivò tanto oltre da potere svigorire
un impulso così nativo. Perciò mentre Socrate si astiene
da ogni attività politica perché il suo potere di contri-
buire al- bene dello stato sta altrove 32), Platone si ri-
trae perché sente di non aver nelle mani la forza che
sarebbe necessaria all'attuazione di quel che egli giu-
dica il bene 33). Ma con tutto ciò il suo sforzo rimane
teso al fine di realizzare in qualche mòdo l'ottima
forma di stato e di associare una volta potere e sag-
gezza, che per lo più, sulla terra, non vanno insieme 34).
Così l'aver vissuto il conflitto di Socrate con lo stato
lo aiutò a concepire per tempo il pensiero base della sua
vita: che non ci possa essere miglioramento nell'esi-
stenza della comunità umana, se non qu'ando i filosofi
siano diventati governanti o i governanti filosofi.
Secondo quel che attesta la lettera VII, in cui
Platone vecchio descrive il suo sviluppo p~litico-filo-

80) Ep. VII 325e-326b. Cfr. il famoso luogo parallelo, Resp.


473b. Che questa opinione non sia stata solo il resnltato del-
·l'nlteriore sviluppo platonico, ma sia stata viva in lui fin da prin-
. cipio, lo dimostra Àpol. 3le, e la ricapitolazione che si trova
in 36b.
81) Àpol. 36c.
32 ) Àpol. 36b.
38) Ep. VII 325e, ss.
84) Ep. VII 325e•326a. Cosi Platone sostiene, anche nella
Repubblica. 473b, la possibilità di realizzare lo stato perfetto,
se anche per il momento difettano le circostanze opportune
(x~tp6i;).
852 [rr164] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

so:fico, egli si era visto costretto a concepire questo


princ1p10 e già ne aveva parlato, prima di iniziare il
suo primo viaggio in Italia meridionale e in Sicilia,
cioè prima del 389-388 35). Questo dato cronologico
non è però da intendere nel senso che egli avesse
concepito quel suo pensiero soltanto nell'imminenza
di quell'avvenimento. La menzione dell'inizio del viag-
gio, come momento in cui egli era già arrivato a que-
sta convinzione, è da intendersi in relazione alla ten-
denza, che vive in questo luogo di Platone, che è di
mostrare perché la sua venuta a Siracusa, alla corte
del tiranno, il suo incontro col nipote del tiranno,
Dione, che appassionatamente abbracciò quel· principio,
dovessero, dopo gli event~, apparire come disposizioni
di un fato divino, giacché la sua venuta aveva dato
la prima spinta alla caduta, che poi si produsse,
della tirannide siciliana. Platone vuole spiegare come
in Dione si fosse formata quell'idea a cui egli si man-
-tenne fermo per tutta la vita: l'idea di educare il ti-
·ranno e di fame un :filosofo. Come autore di questa
teoria - per cui il governo spetta ai :filosofi - come
colui che convertì ad essa Dione, Platone presenta
se stesso, e perciò ha raccontato prima come egli
fosse pervenuto ad essa. Quanto poi all'origine della
teoria stessa, essa non tanto è collegatà, secondo
questo racconto, col viaggio in Sicilia, quanto con la
morte di Socrate 36), e deve, quindi, esser riportata
notevolmente più addietro nel tempo. Essa viene così
a coincidere con la composizione dei primi dialoghi;
circostanza, questa, sommamente importante a chi
voglia, di essi, ricostruire lo sfondo :filosofico. In essa
trova confèrma quello che già si è concluso a mezzo

35) Ep. VII 326b.


36) Ep. VII 325c-e.
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI [rr165] 853

di analisi e di interpretazione, cioè che quei dialoghi


sono in diretta relazione con la costruzione di una
scienza politica, che si propone di edificare 1'ottimo
fra tutti gli stati. Questa è la soluzione, semplice ma
convincente, delle difficoltà che si sono volute trovare
nella testimonianza di Platone sulla propria storia,
riel tempo che va dalla morte di Socrate al primo·
viaggio in Sicilia.
Il detto che, perché lo st~to diventi . migliore, o i
filosofi debbono essere governanti o i governanti filo-
sofi, ci è, prima di tutto, familiare dalla Repubblica
e precisamente dal luogo in cui Platone si accinge a
descrivere l'educazione, filosofica, dei futuri reggitori.
Il detto, come paradosso non dimenticabile, è così
strettamente associato con quel luogo famoso, che
quando Platone si riferisce ad esso nella lettera VII, si ha
l'impressione di una vera e propria autocitazione. Si ca-
pisce perciò che, finché la lettera si riteneva un falso,
ci si servisse proprio di questo come di un indirlo evi-
dente di tale falsità; il falsario, si credeva, aveva vo-
luto imprimere all'opera sua il sigillo dell'autenticità
col ripetere uno dei pensieri platonici più noti, anche
se, ciò facendo, si era lasciato sfyggiré un grosso errore,
quello di far risalire la composizione della Repubblica
al primo decennio del IV sec., mentre essa è, secondo
i risultati delle ricerche moderne, del decennio 379-70.
Ristabilita di nuovo l'autenticità della lettera, la dif-
ficoltà è diventata un'altra. Non si può dubitare che
si tratti di un'autocitazione: d'altra parte, Platone
deve aver saputQ quando aveva scritto il suo libro.
Quindi, taluno concluse, la Repubblica doveva essere
già stata composta, prima del 39.0 31). Ora ciò è impos·
sibile: non si può pensare che quest'opera imponente

87) Così conclude A. E. TAYLOR, Plato, p. 20.


854 [Il 166] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

e, con essa, tutte le altre che essa presuppone e in cui


si suol vedere il frutto di trent'anni di attività lette-
raria ininterrotta., siano state scritte fin dal tempo
del primo viaggio in Sicilia. Perciò altri, abbandonata
questa ipotesi, ricorse al tentativo di supporre una
prima edizione della Repubblica, più breve dell'attuale,
dalla quale Aristofane avrebbe elaborato il motivo
della repubblica delle donne, per la sua commedia delle
Eccksiazuse, messa in iscena verso il 390 38). Ma questa
ipotesi non è più verosimile della precedente. In realtà
Platone nella lettera VII non dice affatto di avere
esposto in un libro il suo principio, ma solo di averlo
« detto», di averlo «espresso», e non c'è cosa più
verosimile del fatto che i concetti da lui espressi nei
dialoghi siano stati frequentemente esposti e discussi
a voce, nella sua scuola, prima di uscire scritti in pub-
blico 39). L'elaborazione delle principali dottrine plato-
niche nella forma letteraria del dialogo richiese decenni,
ma, nella sua attività di maestro, non si può pensare
che egli abbia aspettato trent'anni, prima di venire a
parlare della meta a cui tendevano tutte le sue inda-
gini sull'essenza dell'areté. E, d'altra parte, non c'è
bisogno di dimostrare minutamente - sebbene di que-
sta circostanza non si faccia, per lo più, il conto che
merita - che Platone non aspettò l'Accademia per
cominciare il suo insegnamento in Atene, ma che già
le opere del primo decennio, dai dialoghi minori fino
al Protagora e al Gorgia, sono in servigio di un pro-

38 ) M. Pom.ENZ, Àus Platos Werdezeit, p. 227.


39 ) Che queste parole dell'Ep. VII 326a, ).éye;w '°'"e; 'i]vrty>tcX-

a.&"IJv x. "'"· À. (da riferirsi, secondo il TAYLOR, op. cit; p. 20, alla
già esistente Repubblica) siano invece da riportarsi all'insegnamento
orale, credo di aver chiarito in una recensione al libro del Taylor
in« Gnomon» IV, p. 9. Anche le coincidenze che si trovano nelle
Ecclesiazuse aristofanee con la Repubblica si spiegano nello stesso
modo.
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATIO [II 167] 855

gramma educativo che Platone veniva sviluppando, al


genuino modo di Socrate, nella conversazione coi di-
scepoli.
Questo, dunque, lo sfondo su cui si staccano gli
scritti minori socratici dei primi anni del IV sec. Per
noi esso è ancora ricostruibile solo se si riportano questi
dialoghi nel gran quadro realizzato appieno dalla Re-
pubblica e si tien conto della testimonianza stessa di
Platone contenuta nella lettera VII. Ma, per i contem-
poranei, questi scritti rimandavano soprattutto a un'at-
tività di insegnamento orale, che era la continuazione
delle indagini dialettiche di Socrate 40), e che Platone
iniziò, con estrema probabilità, al suo ritorno dal viag-
gio fatto subito dopo la morte di Socrate. Questi dia-
loghi minori mostrano con che intendimento egli diri·
geva le discussioni, quali erano i punti essenziali in
cui si accentrava il suo interesse teoretico. A quel che
sembra, egli fin dal principio affrontò il compito di
portare a chiara consapevolezza i postulati presupposti
dalle operazioni logiche che occorrevano in tali inda-
gini dialettiche,. e di stabilire le forme tipiche e regolari
in cui queste operazioni si realizzavano. Fino a che
punto già Socrate era proceduto in questa direzione ?
e, perciò, fino a che punto Platone, in quanto logico,
è suo discepolo? 41). Le fonti di cui disponiamo non
ci consentiranno mai di :fissare questo confine. È dif-
fusa oggi, e troppo diffusa, la tendenza a sottovalutare
l'opera di Socrate in questo campo e ad attribuire
tutto a Platone, nella cui scuola si compì, nel corso di
due generazioni, tutto il progresso di cui doveva vi-

40) Questa continuazione della missione socratica è promessa


formalmei;ite già nell' Apol. 39c-d.
41) Cfr. A. DIÈS, Autour de Platon, Parigi 1927, p. 156 s.
856 [Il 168] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

vere la logica, per due millenni di storia 42). In realtà,


però, l'uomo che aveva fatto un'arte raffinatissima
dei « discorsi in contraddittorio», dedicando ad essa
tutta la vita, deve aver già saputo molto, e molto di
essenziale, in fatto di logica e non può essere stato
soltanto un empirico qualunque. Pure, se si mettono
insieme i resti degli altri Socratici, si vede. che il loro
interesse teoretico per il problema logico, è, nel mi-
gliore dei casi, molto modesto, ed anche il breve ac-
cenno di Senofonte, secondo cui Socrate era instanca-
bile nel definire concetti, non ci aiuta gran che a farci
una più precisa idea di Socrate come logico 43). Non
resta, anche qui, che Platone, ed è certo che la sua de-
scrizione della dialettica socratica ha per sé le più alte
probabilità di verisimiglianza, purché, beninteso, non
si dimentichi che, in questo campo, anche il genio di lui
intervenne, straordinariamente dotato di qualità for-
mali e sistematiche, e fece sua la materia e la svolse
da ogni lato.
Ma anche nella questione di come valutare i dia-
loghi giovanili in quanto testimonianza della dialettica
platonica e dello stadio da essa raggiunto in quel mo-
mento, ci si presenta lo stesso problema che ci ha fer-
mato in quel che riguarda il loro contenuto etico-poli-
tico. Il metodo della« storia interna» o dello « sviluppo»
scorge in essi la prova che l'autore possedeva già con
piena consapevolezza, alcuni elementi fondamentali della
logica formale, come la definizione, l'induzione, il. con-
cetto: ma dichiara di non trovar~ come si è già accen-

42 ) Così specialmente H. MAIER, Sokrates, p. 264 (trad. it., I,


p. 272); la reazione del Burnet e del Taylor contro questo tenta-
tivo di negazione dell'aspetto logico in Socrate, è giustificata,
ma si va troppo oltre e si semplifica oltremisura il problema quando
si pretende di attribuire al Socrate reale tutto ciò che di Socrate
dice Platone.
43) Xen. Mein. IV 6, 1.
CAP. IV: I BREVI DIALOGIIl SOCRATICI [Il 169) 857

nato di sopra, alcuna chiara indicazione della teoria


delle Idee, dell'elemento caratteristico, cioè, della dia-
lettica platonica delle opere posteriori 44). Per chi pensa
così, d'altra parte, il problema diventa di sapere come
abbia fatto Platone, da questi inizi di pura astrazione
logica a giungere alla teoria delle Idee, entità reali.
Secondo Aristotele, Platone avrebbe visto nei concetti
universali etici, oggetto della ricerca di Socrate, un
mondo di essenze distinto da quello visibile in preda
all'eterno fluire, un mondo di realtà permanenti. Ora,
questo appare quel che c'è di più naturale a chi ha fa-
miliarità col modo proprio e caratteristico in cui il
pensiero greco si atteggia, per quanto estraneo si riveli
al pensiero moderno e al suo nominalismo 45). Platone
doveva, in virtù di tutta la tradizione della filosofia
greca precedente, essere incline a presupporre, che là
dove è una conoscenza, ivi debba essere anche un og-
getto che essa conosce. Cratilo, il suo primo maestro,
lo aveva persuaso - come dice Aristotele - che noi
viviamo nel mondo del flusso incessante, del divenire
eterno, del passare di ogni cosa. Quando egli -poi si
unì a Socrate, un mondo nuovo gli si scoprì. Socrate
interrogava sull'essenza della giustizia, pietà, for-
tezza ecc. e presupponeva che tutti questi oggetti da
conoscere fossero di natura durevole e inalterabile 46).
Ma, potremmo dir noi a questo punto, le domande so-
cratiche sulla giustizia, pietà, fortezza, miravano al-
l'universale, al concetto. In verità, questo modo di

U) Vedi le opere del Raeder, del Wilamowitz, del Pohlenz e di


altri.
45) P. es. C. RITTER (Platon, I, p. 577) trova inconcepibile che
si sia potuto trovare in Platone qualcosa di simile alla famosa
esposizione aristotelica delle idee platoniche, come realtà a s6
stanti. Alla comprensione di questo aspetto dell'Idea ha contri-
buito in modo decisivo J. STENZEL (op. cit. nella n. 1).
46) Arist. Met. A 6, 987 a 32 ss.
858 [II 170] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

concepire, così ormai connaturato a noi, non era stato


ancora scoperto in quel tempo. Assistiamo noi, nei dia-
loghi posteriori di Platone, a tutto lo sforzo di arrivare
a questo pensiero, e solo Aristotele, infine, si rende
pienamente conto, per via teoretica, dei processi lo-
gici dell'astrazione. Nel problema socratico: che cosa
è buono? o, che cosa è giusto?, non era assolutamente
già contenuta la conoscenza teoretica dell'essenza lo-
gica del concetto universale. Quando Aristotele dice
che Socrate non aveva ancora, come Platone, iposta-
tizzato i concetti generali che ricercava in un « es-
sere » distinto da quello della conoscenza sensibile,
ciò non è da intendere nel senso che la dottrina aristo-
telica dell'universale fosse già stata di Socrate, e che
Platone, con errore inconcepibile, a questi concetti uni-
versali già scoperti da Socrate nella loro natura astratta,
avesse aggiunto una specie di doppione, facendo cor-
rispondere al concetto del Giusto, l'idea, in sé esistente,
del Giusto. È bensì vero che le Idee, in quanto Pla-
tone le concepisce come un mondo di entità a sé stanti,
distinto da quello dell'apparenza. sensibile, fecero l' ef-
fetto ad Aristotele di un inutile doppione di questo
mondo sensibile. Egli le giudicò superflue perché aveva
scoperto la natura astratta del concetto universale.
E appunto da ciò balza più sicura la conseguenza
che Platone, per non dire di Socrate, non poteva esser
giunto cosi lontano, quando creava la teoria delle
Idee. Platone fu il primo a porsi, col suo genio di logica,
il problema della natura di quel « qualche cosa» a cui
- mirava l'indagine socratica, sul buono, sul giusto ecc.
Per.., lui la via dialettica, che Socrate aveva· cercato
di percorrere per giungere al buono, al giusto, al bello
in sé, era là via della vera conoscenza. E quando So-
crate, per questa via, era riuscito a penetrare al di là
del mutevole, fino a ciò che permane, al di là del mol-
CAP. IV: I BREVI DIALOGID SOCRATICI [rr171] 859

teplice, fino all'unità, egli, per Platone, aveva ravvi-


sato appunto in questa unità, in questo permanere, il
vero essere.
Se questa nostra interpretazione è esatta, Platone,
con la teoria delle Idee, credette di cogliere il significato
essenziale della dialettica di Socrate, e cercò di formu-
lare con chiarezza i presupposti teoretici di questa.
In essa è implicito un nuovo concetto della conoscenza
radicalmente diverso dalla percezione sensibile e un
nuovo concetto di « quel che è », o del « reale», diverso
da quello degli antichi :filosofi della natura. Il metodo
dialettico cerca, come realtà, l'uno nel molteplice. Pla-
tone chiama« forma» (in greco eidos o idea) quest'uno,
e, con ciò, egli non fa çhe riallacciarsi, quanto all'espres-
sione, alla medicina del suo tempo, a cui si richiama
così frequentemente come a modello metodico 47). Come
il medico prende un certo numero di casi individuali
differenti, ma fondamentalmente dello stesso carattere
e li riporta e riunisce tutti in un'unica forma morbosa,
o eidos della malattia, così quello che il dialettico fa
nell'investigare un problema etico, il problema p. es.
della fortezza, è di ricondurre ad unità tutti i diversi
casi ai quali questo predicato di «forte» si suole appli-
care. Da questo punto di vista ci si spiega come il
processo dialettico, già nei dialoghi giovanili, sia pro-
cesso sempre più ascendente, fino alla virtù in sé,
nella quale Socrate contempla, riunite in una, le di-
verse singole virtù. La ricerca su una singola virtù,
invece che a distinguerla dalle altre, come ci si aspet-
terebbe, conduce a questa superiore unità di tutto
quello che è virtù, al Bene in sé e alla conoscenza del
Bene. In un dialogo posteriore, Platone designa la na-
tura del processo dialettico del conoscere come una

&7) Cfr. « Paideia » III 34, 40 ss.


860 [Il 172] LIBRO fil - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sinossi, un «vedere insieme» il molteplice nell'unità


dell'idea 48). Proprio questo è il processo che si compie
nei dialoghi minori socratici. La questione esaminata
nel Lackete: che cos'è fortezza ?, sembra mirare a una
definizione di questa unica virtù, ma non è questo
di definir la fortezza, il resultato che in realtà si rag-
giunge, bensì quello di sentirci condotti a riconoscere
l'unità della fortezza con le altre virtù, o, semplice-
mente, la virtù. Quella che si suol chiamare « soluzione
negativa» del dialogo è dunque strettamente connessa
eon la natura sinottica dell'indagine dialettica in quanto
tale. Quella domanda, non mirava, veramente, alla de-
finizione del « concetto» di fortezza, ma alla virtù in
sé, cioè all'idea_ del Bene. Ma questo carattere della
dialettica dei primi dialoghi, di tendenza alla visione
complessiva del molteplice nell'idea, questo carattere
sinottico, non viene in luce soltanto nel procedimento
metodico all'interno del singolo diah;>go, ma ancora
più fortemente si incontra, come già si è rilevato, in
quel modo «convergente» con cui avanza il pensiero
di Platone in tutto questo gruppo di dialoghi. Da
qualunque problema di virtù singola Platone prenda
le mosse, egli mostra che ogni tentativo di definirne
una, conduce inevitabilmente a ricondurle tutte al-
l'unica virtù in sé, e a comprenderle tutte i.a essa e
da essa.
Di fronte a ciò, è di scarsa importanza il vedere ·se
la parola «idea» o « eidos », che è la parola tecnica
di Platone per questo concetto, sia già usata in que-
sti dialoghi 49). A quel modo che Platone, in queste

. 48) Resp. II 537c: il vero dialettico è il sinottico che sa vedere


fusi.eme le cose. La medesima descrizione del dialettico in Phaedr.
265d. .
411) L'indagine sull'apparir dei concetti « eidos» e «idea» nei
dialoghi platonici dovrebb~ per giungere a reswtati definitivi,
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI [nl73] 861

sue opere introduttive, non lascia, o ben poco, trape-


lare che la ricerca sulle virtù singole e il pensiero,
che si viene elaborando, del Bene in sé, mirano a dar
le linee essenziali di una ricostruzione dello stato su
questo fondamento, così non ci si può aspettare che
egli, proprio sul principio, intimorisca il lettore pre-
sentandogli, intero ed esplicito, un resultato, un dogma
come la teoria delle Idee; sul principio, quando non
altro gli sta a cuore che di richiamare la sua atten•
zione sul problema, nel suo insieme. E ciò tanto più
che egli, in nessuna delle sue opere, nòn diede mai
un'esposizione completa, in questo· senso dogmatico,
della teoria delle Idee, nemmeno nelle epoche in cui
consta, per ripetute menzioni, che essa esisteva. Anche
nei dialoghi del periodo centrale, la teoria o è appli~
cata a esempi particolari e presupposta nota ai perso-
naggi del dialogo da un lungo contatto d'idee, o solo
alcune grandi linee ne sono accennate, accessibili anche
all'intendimento del lettore non iniziato. Pochi sono
i luoghi in cui Platone si addentra nei problemi più
difficili della teoria. Quanto, poi, alla cosiddetta fase
matematica del pensiero platonico, nella quale Platone
tentò di spiegare le Idee come numeri, solo Aristotele
ce ne riferisce ampiamente e da lui sappiamo, con
molta meraviglia nostra, che, nell'Accademia, Platone
e i suoi scolari avevano elaborato una dottrina, la cui
esistenza non arriveremmo neppure a sospettare dalla
lettura dei dialoghi contemporanei: solo con l'aiuto
di Aristotele si riesce a scoprire in essi alcune tracce
sparse di questa dottrina 50). Si rivela qui, tipicamente,
la rigida distinzione della discussione esoterica, di scuola,
da quel lato della :filosofia platonica che si rendeva acces-

includer!' anche altre locuzioni designanti l'uno nel molteplice,


come 6 "ITO't"e: !cr-rlv, a:1hò lS ècr'l"tv, e simili.
•o) Arist. Met. M e N.
862 [Il 174] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sihile al pubblico. Rispetto, però, alla teoria delle


Idee, il riserbo di Platone nei primi dialoghi non poteva
giungere fino a questo punto. Ché egli dové èssere ben
consapevole della necessità di rivelare al mondo nelle
opere future i tratti fondamentali di questa teoria,
per il momento ancor sottoposta alla discussione eso-
terica, nella quale pur consisteva il fondamento teore•
tico del suo pensiero etico-politico. D'altra parte non
è. neppure esatto che i primi dialoghi non contengano
traccia alcuna dell'esistenza della teoria delle Idee:
I'Eutifrone, p. es., uno dei dialoghi che generalmente
si giudicano più antichi, chiama ripetutamente « Idea»
l'oggetto dell'indagine dialettica, ed altri accenni si
trovano in altri dialoghi dello stesso periodo 51 ).
Questa ricostruzione dell'attività letteraria plato-
nica negli anni subito dopo la morte di Socrate, mette
in chiara luce l'unità organica di tutta la sua produzione
e del suo pensiero :filosofico. I brevi dialoghi di questo
periodo appaiono come l'introduzione al problema cen-
trale del pensiero platomco, sia sotto l'aspetto del con-
tenuto, sia per· quello,. formale-dialettico. Il problema
è quello dell'ottimo stato e ad esso Platone riferisce
l'affermazione socratica, che la virtù è scienza del
Bene. Se questa affermazione è la verità, ne deriva,
conseguenza necessaria, che la comunità umana può
essere edificata solo per mezzo dell'educazione e che
in questa si deve spendere ogni forza. Ancor prima
di indicare chiaramente la meta al lettore, Platone
lo conduce, attraverso i suoi primi scritti, a formulare
qnel problema che, per raggiungere la meta, è il pre-
s~pposto, il problema socratico di virtù e scienza.
Ma solo nei .~ue dialoghi immediatamente successivi,

61 ) Euthyphro 6e. Vedi raccolti gli esempi di « eidos» e


«idea» in: C. RITTER, Neue Untersuchungen iiber Platon,
Miinchen 1910, pp. 228-326.
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI [n175] 863

Protagora e Gorgfo, egli ci consente di giungere alla


conoscenza piena del significato di questo problema,
e in essi soltanto lo colloca nel vasto sfondo in cui lo
vede. Il lettore, rimasto impigliato nelle aporie dei
primi dialoghi, non è, certo, ancora iniziato, ma si
sente· sc:1spinto avanti e cerca, in una trattazione più
comprensiva, la soluzione che ancora gli manca. Si
avrà modo in seguito, nel considerare le opere immedia-
tamente successive, di trovar conferma a questo concetto
che ci siam fatti dell'attività di· Platone. Egli, lavorando
ai suoi dialoghi, . dall'Apologia al Gorgia e da questo
alla Repubblica, deve aver avuto presente un piano,
col quale condurre gli uomini, di grado in grado, fino
all'altissima vedetta, da cui avrebbero dominato tutto
l'orizzonte della sua filosofia. Eccessivo sarebbe affer-
mare che ogni opera fosse già :6n dall'inizio concepita
col suo preciso posto nel piano svolgentesi in questo
periodo di tempo. Ma una cosa è chiara:·che il metodo
di storia interna o dello svolgimento, proprio del sec.
XIX, ha fatto troppo poco conto dei numerosi legami che
Platone aveva stretto e segnato tra mi' opera e 1'altra,
coi quali egli ci avvertiva che tutte le opere, passo per
passo, svelano un unico grande complesso, e che il primo
passo si chiarisce a pieno soltanto con l'ultimo 52).
Se si percorre tutta questa attività di scrittore nel
suo progresso e si torna poi a riguardarne il prùicipio,
il movente che la sospinge si scopre in un pensiero fon-
damentale : di far penetrare il lettore, attraverso il
dialogo socratico, sempre più a fondo nella filosofia e

62) Sta qui la verità permanente dell'interpretazione platonica


di Schleiermacher, di fronte ai successori. Ed è merito di P. Suo-
REY (The Unity of Plato's Thought, Chicago 1904) aver tenuto
fermo questo puntò di vista, in un tempo in cui la teoria dello
<<Sviluppo» minacciava di dis.solvere totalmente l'unità. D'altra
parte lo Sho:rey stesso ha espressamente chiarito (op. cii. p. 88)
come l'unità non escluda lo sviluppo.
864 [Il 176] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

di fargli scorgere l'intreccio vicendevole di tutti i sin-


goli problemi. Alla base di un tale proposito sta un
concetto del metodo filosofico che è di natura educa-
tiva, e di questo concetto le opere di Platone sono mo-
dello artistico e mezzo di attuazione. Il momento
educativo non consiste soltanto nell'efficacia dialogica
per cui il lettore è stimolato a cooperare, e a prevenire
il corso del pensiero, liberando cosi anche la propria
energia produttiva. Virtù educativa è anche nel veder
fallire l'un dopo l'altro i tentativi di cogliere il vero,
facendosi consapevoli, vià via che si procede, della
difficoltà di una vera conoscenza, e nel dover riflettere
sui principii fin allora accettati come ovvi e posti a
fondamento de.-ia propria esistenza. Si comincia a ba-
dare alle cause di errore del proprio pensiero, si scorge
quanto poco sia solida l'opinione dominante e si impara
a riconoscere la prima regola dell'onestà intellettuale,
nel rendersi conto esatto dei propri giudizi e nel chie-
derlo agli altri. Tutto ciò i~ lettore impara a tenere
in conto, non solo limitatamente al dialogo filosofico,
ma nella sua importanza per tutta la vita e lazione
dell'uomo. Deve in lui maturare il desiderio di impian-
tare la propria vita su questo terreno e dare così ad
essa intima coesione e indirizzo preciso. La virtù edu-
catrice di Socrate, che Platone aveva sperimentato
in sé, deve, nei suoi dialoghi, prender figura e conqui-
stare il mondo, nell'atto di chiarire a se stessa, in una
visione più larga, la propria natura e meta.
CAPITOLO QUINTO

IL PROTA GORA
PAIDEIA SOFISTICA O SOCRl\.TICA?

Nel Protagora Platone solleva per la prima volta


il velo che ancora copre i suoi primi dialoghi. In esso
si raggiunge un punto di vista più elevato e lo sguardo
spazia più libero sui problemi trattati nelle opere
precedenti. Qui anche il lettore che in queste, prese
a sé, non riesca a vedere la linea unitaria di sviluppo,
intende con chiarezza che quei problemi sono stati
raccolti in un problema unico. La figura di Socrate
educatore ci sta davanti agli occhi fin dall'Apologia,
e nei dialoghi minori il problema di tutta la sua vita,
il rapporto «virtù-scienza» è svolto per ogni singola
virtù 1 ). Ora questo. problema Viene introdotto, mercé
un'opera di maggior mole e di stile più alto, nel vasto

1 ) Ci sia concesso di usare quando occorra, per semplicità,


le espressioni «virtù» e «scienza», con le quali si sogliono tra-
durre tradizionalinente le parole greche « areté » e « epistéme »,
non ostante che tali parole convenzionali si pl'estino ali' equivoco,
in quanto evocanti significati accessori moderni, del tutto alieni
dal greco. Chi non ha tanta indipendenza intellettuale, dopo tutto
quel che si è detto nel corso della trattazione, fin dal principio
del I voi. sull'indole dell'areté greca, da scorgere sempre in «virtù»
il suo senso greco, e da vedere nella parola «scienza», non già il
suo significato moderno, ma quel senso per i valciri che il greco
chiama phr6nesis, non ricaverebbe alcun vantaggio neanche se si
usassero dappertutto le due parole greche invece delle nostre.
866 [Il 178] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

campo di quella discussione sull'educazione, di cui ri-


suona tutta l'età di Socrate e dei Sofisti. Il Socrate
platonico cerca di superare questo tumulto di voci
per fare i conti, una buona volta, con le pretese della
paideia sofistica e contrapporre ad esse la sua esigenza,
a noi nota ormai, facendo di essa il suo proprio pro-
gramma educativo.
Diversamente dai dialoghi più antichi 2) il Prota-
gora non si svolge, modestamente, in una strettissima
cerchia, corrispondente all'ambiente in cui operò ef-
fettivamente Socrate. Questa volta Platone mette il suo
maestro di fronte, in pubblica disputa, alle personalità
più famose nella vita intel'ettuale del tempo, i sofisti
Protagora, Prodico e Ippia. La scena è in casa di un
gran signore ateniese, di Callia, dove gli illustri stra·
nieri sono ospiti, e dove si raccoglie, in ammirazione
e in ossequio, tutto quel che c'è di meglio in Atene,
per posizione sociale e per interesse alle cose dell'in-
telletto- Domandarsi se un tale incontro e tratteni-
mento ci sia stato davvero, nella vita del Socrate sto-
rico, è questione senza importanza per noi, giacché
è chiaro quel che Platone vuol significare scegliendo
cosi i personaggi del suo dialogo. Per lui Socrate non
è un puro e semplice originale dell'ambiente locale
ateniese, ma, pur con. tutti i legami che I'avvincono
indissolubilmente alla città, non ostante la sua ben
nota ironica modestia che, agli occhi dei più, gli è di

2) Che il Protagora già presupponga i dialoghi minori, è cosa


che si cercherà di dimostrare .nel corso della nostra interpreta-
zione. Il Wilamo.witz lo mette tra i lavori più antichi, l' Arnim
lo ritiene addirittura il primo. Questa datazione precoce si fonda
per il Wilamowitz sulla persuasione, che i più antichi dialoghi
socratici di Platone, e così anche il Protagora, non abbiano carat-
tere filosofico (cfr. supra, p. 144 s.). L'ARNIM (Platos Jugenddialoge
und der Phaidros; pp. 24-35) c.erca di dimostrare che il Lachete
presuppone il Protagora: di qui la sua conclusione. Per me, né
l'una né l'altra tesi sono affatto sostenibili.
CAP. V: IL PROTAGORA [rr 179] 867

pregiudizio, egli per Platone sovrasta di molto, per


originalità e potenza d'intelletto, tutte le celebrità del
suo tempo. L'incontrarsi di Socrate con la paideia dei
Sofisti, riesce, nel dramma filosofico del Protagora, a
una vera e propria battaglia decisiva di tutta un'età, a
una lotta di due mondi opposti per il primato nell'edtt·
cazione. Però, non ostante gli elementi che rilevano
l'importanza del momento, come l'elevata raffinatezza
dell'ambiente in cui il dialogo si svolge, l'entrata, su
cui spira una sorta di suggestiva maestà, dei sofisti
e del loro seguito di scolari e di ammiratori, non
ostante tutto ciò, su questo dialogo è diffusa una lu-
minosità di gaiezza giovanile, un umorismo estroso
e sbrigliato, in misura che non ha pari in alcuna opera
platonica. Ci sono dialoghi di lingua più ricca, dialoghi
capaci di scuotere più a fondo sentimento e pensiero,
ma nessuno ce n'è che superi il Protagora, nella compo-
sizione agile e tesa, nella penetrante e sicura pittura di
caratteri o nell'efficacia drammatica.
Di tutto il colore di questa vita, dell'immediato
vigore artistico del dialogo, poco o niente potrà pas-
sare nella nostra esposizione, e, perciò, verrà a perdersi,
del modo col quale Platone caratterizza, paragonandole,
l'arte educativa socratica e quella sofistica, l'aspetto,
che direttamente parla al nostro sentimento, e che in
Platone è avvertibile in ogni rigo. Lo storico non può
gareggiare con l'artista o tentare di impadronirsi della
sua virtù. Anche la parafrasi più ingegnosa e più dut-
tile rimarrebbe troppo in difetto, di fronte all'origina-
lità inimitabile di quest'opera. Perciò, qui, non si
farà altro che riassumere il contenuto del dialogo,
e darne un'immagine che appena ne segni i contorni
e i punti più salienti.
Un giovane scolaro e amico di Socrate lo sveglia,
di mattina prima dell'alba, battendo furiosamente alla
868 [II 180] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

porta, e si fa aprire. Ha sentito dire, tornando la


sera avanti ad Atene, che c'è Protagora in città, e il
grande evento lo ha messo in grande eccitazione.
Sua ferma intenzione è di prender lezioni da Protagora,
come molti altri giovani ateniesi, ed ora è venuto da
Socrate così presto, perché lo vuol pregare di intro·
durlo presso il maestro 3). I due restano ad aspettare
che sorga il sole passeggiando su e giù nel cortile della
casa e qui si svolge, prologo del dialogo vero e proprio,
un colloquio di pretto stile socratico, in cui Socrate
mette a prova la saldezza del proposito del . giovane
Ippocrate e gli dimostra in che avventura sta per
cacciarsi 4). Il giovane, per il contegno così umano e
senza pretese di Socrate, si sente assolutamente sullo
stesso piano con lui e no:q si rende mai conto che il
vero maestro è quello che con tutta semplicità gli pas-
seggia accanto; tanto più che Socrate è rappresentato
in questo dialogo, ancor giovane, nella piena maturità,
in contrasto con la maestosa vecchiaia di Protagora.
In Socrate il giovane vede solo il consigliere e l'amico
che deve facilitargli l'accesso a quel Protagora fin qui
ammirato da lontano, di un'ammirazione senza riserve.
Con poche domande precise Socrate lo conduce a ren·
_dersi conto che egli né conosce Protagora, né ha la
minima idea di quel che un sofista propriamente è e
del risultato che ci si possa aspettare dal suo insegna·
mento. Con ciò si tocca già un punto che si dimostrerà
importante nel dialogo principale tra Socrate e Pro·
tagora : se il giovane volesse prepararsi per medico,
egli andrebbe a scuola dal suo omonimo Ippocrate
di Cos, se per scultore, da Policleto e da Fidia. Se dun-
que vuole andare da Protagora, si dovrebbe dire che

3) Prot. 310 a ss.


4) Prot. 311 a ss.
CAP. V: IL PROTAGORA [Il 181) 869

egli ha deciso di diventare sofista. Ma Ippocrate nega


energicamente che questo sia il suo proposito 6), ed
ecco~ perciò, profilarsi una differenza essenziale tra
l'educazione sofistica e l'insegnamento di tutti quelli
che professano un'arte: solo alcuni, speciali, allievi
del sofista studiano la sua arte per fare di essa, in
seguito, la loro professione 6 ); i giovani ateniesi di
classe elevata, invece, vogliono ascoltare le sue lezioni
«solo per la cultura», come s~ conviene a un non spe-
cialista e a un libero. In che cosa consista questa cul-
tura è quello che il giovane non sa, e noi ci accorgiamo
che in questo egli rappresenta tipicamente tutta que-
sta gioventù affaccendata a procurarsi una «cultura».
Questa confessione d'ignoranza dà modo a Socrate
di passare ad ammonire e a mettere in guardia. Nello
stesso modo in cui nell'Apologia esorta gli uomini a
curarsi «dell'anima» 7), egli qui fa presente al suo
giovane amico a che rischio egli esponga «l'anima»,
appunto, mettendola nelle mani di un uomo di cui
egli stesso ignora i propositi e le mire 8). E qui un
primo spiraglio di luce comincia ad aprirsi sulla natura
della educazione sofistica. Vista con gli occhi di Socrate
essa appare piuttosto sospetta. _Chi è Protagora? Uno
straniero che viene ad Atene e
offre, a pagamento,
cognizioni di ogni sorta 9); egli è, insomma, realisti-
camente considerato, sullo stesso piano sociale del ven-
ditore ambulante che smercia derrate di fuori. C'è però
fra i due ancora una grande differenza, ma a svantag-

6) Prot. 312 a.
6 ) Studio a scopo professionale si dice ~7tl Té)(v1J µacvlMvetv.
I xctì.ol x&yct.&o( vanno a scuola da Protagora solo bd 'n"et~IMq:
(312 b).
7 ) Cfr. supra, p. 61.
8) Prot. 313 a. Schiettamente socratici in questo lungo sono
il motivo del «rischio» e il motivo dell' « anima». Cfr. anche
314 a 1-2, 314 b 1.
9 ) Su questo aspetto della nuova cultura; cfr. infra, p. 184 s.
870 [n182] LIBRO fil - ALLA RICERCA DEL DIVINO

gio del sofista: mentre il mercante vende vettovaglie


che si possono mettere in recipienti e portarsele a casa,
e assaggiarle prima di. usarle, Protagora vende un ciho
dell'anima che il giovane Ippocrate dovrà, li sul posto
e senza assaggiarlo, mettere, non in un recipiente,
ma « nella sµa propria anima», senza sapere se fa bene
o male lO). Già fin di qui, prima de) dialogo principale,
due tipi di educatore ci si disegnano, ben distinti, alla
mente: il sofista che iinhottisce l'intelligenza umana
di ogni sorta di cognizioni prese a caso, e rappresenta .
.cosi la concezione media dell'educazione, in ogni tempo
fino ai nostri, e Socrate, il medico dell'anima, per cui
«Sapere» è «nutrimento» dell'anima 11) e che, prima
di ogni altra cosa, si domanda quello che ad essa giova
o fa male 12). Socrate è ben lontano, certo, dal conside-
rare se stesso un medico di questo genere e darsi per
tale, ma quando egli osserva che, riguardo al cibo cor-
porale, nei casi dubbi, il medico o il maestro di ginna-
stica è l'intenditore a cui si deve rivolgersi, egli fa si
che una domanda s'imponga: e chi è l'intenditore, in
grado di giudicare il nutriniento dell'anima, se è buono
o no ? Se mai ci sia un tale intenditore, questo vivido
paragone permetterà di ravvisare s.ubito in lui l'edu·
catore genuino .nel senso di Socrate.
La mente occupata da questa domanda, i due si
avviano al palazzo di Callia, ché frattanto si è fatto
giorno, e a chiedere udienza a gente come questi sofisti,
assediati da mattina a sera dai visitatori, non si rie-
sce mai ad arrivar troppo presto 13). Il portiere della

Prot. 313 a-314 b. _


lO)
Prot. 313 d-e, sulla necessità di un medico per l'anima;
ll)
313 c 6 sulla scienza come nutrimento dell'!lllima. Il motivo della
cura medica dell'anima (tjiu:x;1j; 3-epomela:) è elaborato sistema-
ticamente nel Gorgia.
12) Prot. 313 d 2, d 8, e 3, 314 b 3.
lB) Pròt. 314 e ss.
CAP. V: IL PROTAGORA [n 183] 871

magnifica casa è già di umor brusco, segno che Socrate


e Ippocrate non sono i primi che vengono ad aspettare
di esser ricevuti. Quando finalmente riescono a pas-
sare, trovano dentro Protagora che, con un gran co-
dazzo di gente, passeggia su e giù nel portico, conver-
sando. Ai suoi lati, da una parte Callia, il padron di
casa, il suo fratellastro Paralo, figlio di Pericle e Car-
mide di Glaucone, dall'altra, l'altro figlio di Pericle,
Santippo e, accanto all'ateniese Filippide, un alunno
di Protagora e futuro sofista, Antimoiro di Mende, la
grande speranza della giovane generazione sofistica.
Dietro questi, in una seconda fila, seguono stranieri
di diverse città che Protagora peregrinante per la
Grecia si tira dietro come un Orfeo, con l'incanto della
sua musica. Fanno grandi sforzi,. costoro, per seguire
il dialogo della priuia fila, e, quando giunto alla fine
del portico Protagora si volta, prima e seconda fila
si voltano anch'esse, con una bella conversione mili-
tare, mantenendo la disposizione, e tutti' ripigliano ·il
.cammino 14). Nel portico opposto troneggia Ippia dell'E.-
lide, assiso in mezzo ad altri noti Ateniesi e ad alcuni
forestieri, .che, come scolari, seggono su sgabelli intorno
a lui; sta insegnando su questioni astronomiche 15). Il
terzo, Prodico di Ceo, che è stato alloggiato per man-
canza di posto m . una dispensa a d attata a camera perI
gli ospiti, non si è ancora alzato, e se ne sta a
letto avvolto in coperte di lana: intorno, su lettucci,'
. alcuni visitatori; di che tratti la lezione che essi ascol•
tano, i nuovi venuti non riescono a capire perché lo
impedisce il rimbombo che la voce di basso del sofista
produce nello spazio chiuso 16).

14) PTot. 314 ec315 b.


l&) PTot. 315 c.
16) PTot. 315 d.
872 [rr184] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Socrate si fa avanti a presentare il suo amico a


Protagora e gli parla del proposito di lui di mettersi
alla sua scuola. Ricorda che Ippocrate pensa di darsi
alla carriera politica in patria, e si ripromette molto,
a tal fine, dall'insegnamento di Protagora; glielo rac-
comanda come figlio di una famiglia ricca e in vista
e come giovane di buone attitudini e ambizioso. Pro-
tagora dà spiegazioni sull'indole del suo insegnamento.
Un tale epanghelma (professio) era di prammatica nel
mestiere di sofista vagante, e, in mancanza di una
categoria professorale stabile, a stipendio ~sso, era
una forma, necessaria, di autoréclame 17). Anche altre
professioni ambulanti, come quella del medico, biso-
gnavano, si è già visto, di una simile dichiarazione della
propria capacità 18), e la cosa ad ascoltatori antichi
non faceva lo stesso effetto ridicolo che sui lettori mo-
derni. Noi dobbiamo, oggi, fare un certo sforzo per
pensare che nell'età dei Sofisti, prima che si fondassero
scuole stabili, come quelle di Platone e di Isocrate, il
maestro viaggia, si può dire, in cerca di scolari ed offre
alla gioventù la possibilità di ascoltarlo nelle città in
cui si ferma (èma71µ.e!v, èma"l]µ.Eoe). L'epanghelma è uno
dei segni più manifesti del formarsi di una nuova classe
di maestri professionali della gioventù. La formazione
dei giovani di età, diremmo noi, universitaria fino allora
era consistita soltanto in contatti di carattere privato
(auvoucrEoe) dei giovani con uomini maturi della loro
cerchia di conoscenti: di .questo genere erano anche le
relazioni di Socrate coi suoi giovani amici. Questo

Prot. 319 a.
17)
18) Prot. 319 a. imxyyùµix è la «promessa» che il maestro
fa allo scolaro -di impartirgli un certo insegnamento. n verbo è
incxyysÀÀEa.8-ixt, ed anche ùmaxvEia.&ix, (cfr. n. 22), il che
vale a dire «annunciare». In latino i:nixyyéÀÀEcr.!.l-cx~ TS)".V'ljV si
rende con profiteri, donde viene, in età romana imperiale, la de-
signazione del sofuta ambulante come professor.
CAP. V: IL PROTAGORA [Il 185] 873

tipo di· relazioni privo di ogni carattere professionale


era ormai cosa nettamente vecchio stile, come appare
dalla rappresentazione, tutta ironica grazia, del gio-
vane entusiasta Ippocrate, così preso dal fascino della
novità. Potrebbe sembrare contraddittorio che Pla-
tone, fondatore egli stesso di una scuola, attacchi così
aspramente latteggiamento «professionale » dei Sofisti.
Si tratta, in r.ealtà, di cose diverse. La scuola di Platone
ebbe il suo fondamento nell'amicizia (cptÀ(oc) e si pro-
pose di proseguire, su altro piano, l'antica forma del-
l'insegnamento superiore fondata sul contatto per-
sonale. Protagora, si badi, non raccomanda la sua arte
come cosa nuova, conforme alle esigenze dei tempi nuovi,
anzi, la proclama antica e sperimentata da tempo 19).
Con questo egli vuol prevenire la diffidenza con la quale
ancora da molti si guardava al nuovo tipo del sofista
e alla sua attività nelle città, e che aveva indotto più
di un sofista ad evitare questo nome per la propria
professione e a presentarsi sotto qualche altra insegna,
p. es. come medico, ginnasta, o musicista 20). Proiagora,
abituato a sfruttare il prestigio educativo dei grandi
poeti antichi, da Omero a Simonide, e a vivere della
eredità della loro sapienza, che i sofisti trasformavano
nelle massime spicciole di una saggezza moralizzante
di scuola, inverte, ora, le parti e rappresenta quegli
eroi dello spirito come gli antenati della sua arte, i
quali si sarebbero serviti della poesia come di un man-
tello per coprire, di fronte alla diffidente società del
loro tempo, la loro qualità di sofisti belli e buoni 21).
Al contrario di loro Protagora, non avendo da temere
la luce, anzi, pensando che un sotterfugio di quel ge-
. nere provocherebbe una diffidenza maggiore, dichiara

1 9)Prot. 316 d.
20) Prot. 316 d-e.
21) Prot. 316 d.
874 (II 186] LIBRO !Il - ALLA RICERCA DEL DIVINO

(«professa»), pubblicamente, dinanzi a tutti, che egli


è un sofista, .un maestro professionale dell'alta cultura
e che la sua arte è di educare gli uomini 22). E coglie
volentieri l'occasione di diffondersi un poco coi suoi
ascoltatori, sulla natura di questa istruzione e forma-
zione. Socrate si accorge che Protagora è fiero dei nuovi
ammiratori che si è fatti e gli propone di invitare alla
sua confer.enza anche Ippia e Prodico, coi loro seguiti;
il che Protagora fa con grande compiacimento 23). Gli
ammiratori, servizievoli, radunano in fretta sedie e
sgabelli per fare una specie di platea e, quando tutti
si sono raccolti, lo spettacolo comincia; e comincia con
la dichiarazione, ancora una volta ripetuta formalmente
da Protagora, che Ippocrate, alla sua scuola, diventerà,
di giorno in giorno, sempre migliore 24).
A questo punto interviene Socrate con una do-
manda: in che cosa l'educazione di Protagora faccia
migliori i suoi scolari. Con ciò egli riprende il problema,
rimasto insoluto, del dialogo introduttivo, sulla na-
tura e sullo scopo dell'educazione sofistica 25). Se un
giovane andasse a scuola da Zeusippo e questi gli pro-
mettesse di farlo migliore, ognuno saprebbe che ciò
significa: migliore nella pittura. Se lo stesso giovane
andasse da Ortagora di Tebe, con 10 stesso proposito~
ognuno saprebbe che egli ambisce a farsi flauti-
sta 26). In che cosa, allora, farà egli progressi e diverrà
migliore, se usufruirà dell'insegnamento di Prota-
gora? Questo modo con cui Socrate spiega ra sua
domanda, mostra che egli ha di mira un'arte (techne)

22) Prot. 317 b òµoÀoyw 'te: cro<ptcrTiji; dvcxt :M:cxt 1tcxt3e:ue:w


&v.&pC:mou.;. Y. la parola òµoÀoye:rv anche in 317 b 6, e e I.
2aì Prot. 317 c-d.
24) Prot. 318 a.
25) Prot. 312 e.
26 ) Prot. 318 c.
CAP. V: IL PROTAGORA [II 187] 875

e una competenza intorno a un determinato oggetto


che il sofista rivendichi come suo proprio. Ma Prota-
gora non può rispondere su questo punto, in nome di
tutti quelli che si chiamano sofisti, perché su questo
essi stessi non si accordano tra loro. Ippia, p. es.,
n presente, è famoso come rappresentante delle «arti
liberali» soprattutto di quelle che si dovevano chia-
mare, più tardi, le àrti del Quadrivio, .Aritmetica, Geo-
metria, Astronomia e Musica'. E, certo, questi rami
dell'insegnamento sofistieo, avrebbero potuto meglio
soddisfare . alla domanda di Socrate, giacché sono,
queste, discipline che hanno il richiesto carattere tec-
nico. Ma Protagora, da parte sua, dà un'assoluta prefe-
renza nel suo insegnamento, alle discipline di contenuto
sociale. Egli pensa che i giovani i quali hanno compiuto
il corso consueto degli studi elementari, desiderano
ora di completare la loro educazione con una cultura
superiore, che prepari, non a una determinata profes-
sione, ma alla carriera politica. Perciò essi vogliono
qualcosa di diverso che essere di nuovo cacciati a oc-
cuparsi di studi speciali e tecnici 2 7), e questo che essi
vogliono egli lo può insegnare : r abilità di consigliar bene
se stessi e gli altri nel reggere la propria casa e di me-
nare a buon fine gli affari di stato, con la parola e
con l'azione 28).
Sebbene Protagora non chiami disciplina speciali-
stica o techne la trasmissione di questa abilità, e ciò
per contrapporla alle discip~e matematiche, tuttavia
egli risponde di sì, quando Socrate gli domanda se
non sia «l'arte politica» quella di cui egli si dichiara
maestro, e se non prometta di educare gli uomini per

Z7) Prot. 318 e. Qui P-.:otagora critica di passaggio i Sofisti


del tipo di Ippia, insegnanti le cosiddette « arti liberali», come
corruttori dei giovani (Àro~ &nc:u 'rOÙt;; viouç).
ti) Prof. 318 e 5 - 319 a 2.
876 (II 188) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

farne buoni cittadini 29). Socrate riconosce Ì'altezza della


meta, ma manifesta il suo dubbio riguardo all'appren-
dibilità di un'abilità simile, riferendosi, per confer-
marlo, a fatti d'esperienza comune. Nell'assemblea po-
polare e, in genere, nella vita politica, quando si tratta
di provvedere a faccende di edilizia o di costruzioni
navali, o, insomma, di materie che siano oggetto di
una certa scienza speciale o arte, quello che vale è
esclusivamente il consiglio dei competenti più riputati,
e se un profano si mette in testa di dire il suo parere
su cose di questo genere, si fa buttar giù dalla tribuna
fra le risa di tutti 30). Invece, in questioni nelle quali
non esistono specialisti, perché non esiste una scienza
speciale su esse., chiunque, nella stessa assemblea, si
crede in diritto, calzolaio, falegname o fabbro che sia,
mercante o marinaio, ricco o povero, nobile o plebeo,
di presentarsi in pubblico come consigliere e nessuno
lo rimprovera o gli grida abbasso, per il fatto che
egli parla di qualcosa che non ha imparato da nessun
maestro. E -ciò evidentemente, perché si pensa che
quella materia non sia oggetto d'apprendi.mento 31). E
non avviene altrimenti nella vita privata. Gli uomini
eminenti, intellettualmente e moralmente, non sono ca-
paci di trasmettere ad altri le qualità che li distin-
guono, la loro areté. Pericle, il padre dei due giovani
qui presenti, li ha fatti educare egregiamente in tutte
le discipline di cui ci sono maestri, ma in quella qualità,
che fa la sua vera grandezza, non li educa lui né li
dà a educare ad altri, ma essi possono scorrazzare
dove loro piace, come «a pascolo brado», quasiehé
fosse loro possibile di scoprire da sé, da qualche parte,

29) Proi. 319 a.


80) Prot. 319.h-e.
81) Pror. 319 d.
CAP. V: IL PROTAGORA [II 189] 877

l'areté 32). È questo il problema su cui Socrate ritorna


molto di frequente: come avvenga che i figli di grandi
uomini, di solito non somigliano ai padri. Egli, qui,
si sofferma ancora su qualche altro esempio, preso
dalla storia di note famiglie contemporanee, scegliendo
di preferenza quelle dei presenti 33). Su tutti questi fatti
egli fonda la sua tesi che la virtù non è insègnabile 34).
Con questa tesi egli viene a rinnovare in forma
filosofica, un pensiero proprio e fondamentale del-
l'etica nobiliare pindarica, che era stato non tanto
combattuto, quanto piuttosto messo da parte e igno-
rato dalla pedagogia razionalistica dei Sofisti 35). Il loro
ottimismo educativo sembrava non conoscere confini 36),
favorito com'era da una concezione, tutta intellettuale,
dello scopo di ogni educazione, e sembrava in accordo
con lo spirito dei tempi, specialmente con l'evoluzione
della maggior parte delle città verso la democrazia 37).
Ma nell'antico sospetto, proprio della paideia nobiliare,
verso l'onnipotenza dell'educazione non agivano sol-
tanto pregiudizi di classe. Era, in esso, anche una lunga
dolorosa esperienza fatta da quello strato sociale fiero
di virtù e tradizioni avite, dal quale un tempo aveva
preso l'avvio tutto il più alto pensiero educativo della
nazione 38). Lo scetticismo di Socrate di fronte all'edu-
cazione sofistica coglie esattamente il punto nel quale
questa non aveva risposto all'antica domanda di Pin-
daro sull'educabilità degli uomini. Il dubbio di Socrate
non è sugli evidenti successi dei Sofisti nel campo del-

32) Prot. 319 e.


33) Prot. 320 a.
34) Prot. 320 b.
35 ) Cfr. vol. I, pp. 389, 397 s., 497 ss.
36) Cfr. vol. I, p. 527 ss.
3 7 ) Cfr. vol. I, p. 543 ss.
38 ) Dubbi sul potere dell'educazione si rilevano già in Omero.
Cfr. vol. I, p. 72 s.
878 [II 190] LIBRO llJ - ALLA RICERCA DEL DIVINO

!;educazione intellettuale 39). ma ~ulla possibilità di tra-


smettere per la stessà via le virtù del cittadino e del-
l'uomo .di stato. E, per questo, solo la figura di Prota-
gora si adattava a protagonista di un dialogo come
questo, non quella di lppia dell'Elide, rappresentante gli
studi matematici o quella di Prodico di Ceo, col suo
interesse per le ricerche grammaticali. Giacché Prota-
gora era propriamente il capo della tendenza che giu-
dicava fondamentali tutti i problemi della formazione
etico-politica. Egli credeva di poterli risolvere con
lo studio della « scienza della società». Senza. dubbio.
Protagora, in questo suo tentativo di trovare. su base
razionale, un surrogato moderno della antica severa
disciplina aristocratica. aveva dato prova di sensibi-
lità sveglia alle esigenze de~ presente. alla mutata con-
dizione di cose; ma proprio in questo punto era anche
venuta più in luce la debolezza della paideia sofistica.
Nelle parole di Socrate «io avevo creduto fin qui che
non fosse cura o preveggenza umana quella per cui i
buoni divengono buoni» è un'immediata risonanza del
credo. pindarico che l'areté sia dono degli Dei 40), e
questa concezione religiosa· si mescola in modo singo-
lare col solido realismo dell'esperienza a cui si rivela
l'inutilità di tanti sforzi umani e di tante buone in-
tenzioni.
L'obiezione di Socrate è di tanto peso e fondamento
da costringere Protagora a riprendere da principio il
dibattito trasferendolo dal campo puramente tecnico-
didattico a un piano spirituale più alto. Non ogni so-

39 ) Socrate designa le cose che si possono insegnare mediante


istruzione intellettuale, come "& &v "~XVTI llVT<X. Così, Prot. 319 c 7;
cfr. anche Gorg. 455 b, LQ.{;h. 185 b. La caratteristica di questa
specie di sapere e di cultura è l'esistenza di maestri e di esami;
cfr. Gorg. 313 ss.
40) È questa l'obiezione capitale, e Socrate la propone tanto
prima che dopo il discorso di Protagora. Cfr. Prot. 319 b 2, 328 e.
CAP. V: IL PROTAGORA [II 191] 879

fista sarebbe stato in grado di seguire il critico delle


sue teorie educative su questo terreno, ma P:rotagora
era proprio l'uomo adatto per questo. Nella copiosa
esposizione con cui egli risponde a Socrate, Platone
ha disegnato con grande arte un avversario degno. Pro-
tagora sarebbe stato un ben misero rappresentante di
quell'età per eccellenza pedagogica, se non avesse avuto
una sua precisa posizione di fronte a quel problema
fondamentale di ogni attività educativa e non fosse
stato in grado di sostenerla. Lo scetticismo sul-
1'educabilità dell'uomo era sorto da esperienze indivi-
duali sulle quali non si poteva obiettare niente. Perciò
Protagora, con un abile spostamento del punto di par·
tenza, chiarisce il problema movendo dalla sua nuova
teoria. sociologica e cerca di mostrare, con l'analisi
della vita associata degli uomini, delle sue iStituzioni
ed esigenze, come tutte queste realtà perderebbero senso
e ragione, tolto che fosse il presupposto dell'educahilità
umana. Da questo punto di vista, l'educazione appare un
incontestabile postulato sociale. e politico; tanto più in
una moderna democrazia, che sul senso sociale dell'indi-
viduo, sulla sua collaborazione attiva alla vita d~llo
stato fa un assegnamento essen~ale. Sono teorie, que-
ste di Protagora, riguardo al fondamento sociologico
dell'educazione che noi abbiamo già, in quest'opera,
esaminate con maggior precisione, nella trattazione
dedicata ai Sofisti 41). Platone, ora, ne1la lunga, solida
esposizione che fa pronunziare a Protagora, coglie l' oc-
casione di rappresentare il grande sofista, che era anche
un maestro della forma, in tutto lo splendore della sua
arte oratoria, ·e in tutti i generi di essa. Socrate si con•
fessa colpito e soggiogato 42), ma questo, che vorrebbe

il) Cfr. voL I, p. 528 ss.


42) Prot. 328 d·e.
880 [rr 192] LIBRO lII - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sembrare il muto stupore di chi rinunzia alla critica,


è piuttosto un ironico modo di significare il proposito
di non seguire Protagora su questo terreno, che non
è fatto per Socrate. La forza di Socrate non sta nel-
l'amabile narrazione di miti e in lunghe conferenze,
ma nell'esercizio e nel gioco dialettico di precise do-
mande alle · quali non si sa rispondere. E anche qui
l'arte dialettica di Socrate fa le sue prove, nel vitto-
rioso tentativo di attirare l'avversario sul proprio ter-
reno. Così la contrapposizione delle due parti in con·
trasto è completa; essa non risiede solo nel chiarimento
della loro posizione di principio di fronte al problema,
ma presenta un paragone evidente, in atto, dei loro
metodi d'insegnamento.
Socrate, apparentemente, si associa al compiaci-
mento di tutti i presenti; soltanto, chiede schiarimento
su un particolare 43). Protagora, nella sua esposizione,
aveva, fra l'altro, dato la forma del mito alla propria
convinzione dell'educabilità umana, dicendo che Zeus
aggiunse al dono della civiltà tecnica fatto da Prome-
teo, l'unica conseguenza del quale era stata la minaccia
di un vicendevole totale sterminio, anche il dono ce·
leste del senso sociale e della virtù politica, cioè della
giustizia, temperanza, pietà e così via. Per questo dono,
dice Protagora, si conservano gli stati sulla terra;
esso appartiene non solo a singoli, come una specialità
qualsiasi, ma ugualmente a tutti gli esseri umani,
sicché l'educazione alla virtù politica ha solo il compito
di sviluppare nell'uomo questa disposizione naturale 44).
La menzione della virtù in generale e poi delle parti-
colari virtù, giustizia, temperanza, pietà, offre a So-
crate opportunità di venire ai problema che è più suo,

'8) Prot. 329 b.


") Prot. 329 e; cfr. 322 h • 323 a.
CAP. V: IL PROTAGORA [II 193] 881

il problema della natura di .queste virtù singole e del


}.oro rapporto con la« virtù» in generale 40). Egli, rivol-
gendosi a Protagora, dà alla domanda questa forma: la
virtù è soltanto una e giustizia, temperanza, pietà sono
parti di essa, oppure esse sono solo nomi diversi per
una identica cosa 48) ? Eccoci di nuovo, a un tratto, nel-
l'ambiente di pensiero dei primi dialoghi socratici del
tipo del Lachete, Cannide, Eutifrone. Sembra che So-
crate, lasciandosi riprendere dall'amore per il suo tema
favorito, si sia completamente dimenticato del punto
di partenza cioè del problema dell'educabilità dell'uomo
e dell'apprendibilità della virtù, e Protagora, fatto si-
curo dal gran successo or ora avuto, gli va dietro sul
terreno a lui poco familiare di queste sottili distinzioni
logiche, . di cui, sul primo momento egli, come il let·
tore, non vede ben chiaro il senso.
Nei dialoghi minori Platone aveva investigato le
virtù una per una, e il suo esame poi era venuto a
culminare, a un certo punto, nel problema della virtù
in sé e della sua natura. Anche il concetto delle« parti »
della virtù era già venuto ad affiorare. Nel PTotagora
Socrate comincia l'indagine in :modo simile, avendo
come punto di partenza una singola virtù. Ma qui,
la questione del rapporto tra la singola virtù e la «virtù»
in generale non aspetta, per po;rsi, il punto centrale, o
la fine della ricerca, ma si presenta senz'altro al -prin-
cipio, come la vera e propria proposizione del tema e
della meta 47). Questo Socrate rende chiaro fin da
principio. Egli cerca, appena Protagora gli ha concesso
che la relazione di giustizia e temperanza .con la virtù

41 ) Cfr. supra, p. 150 ss.


66) Prot. 329 c 6.
17) È questo un punto· da rilevare per :fissare la caratteristica
del Protagora rispetto ai dialoghi minori. Il Protagora si richiama
ad essi e li prosegue.
882 [II 194] LIBRO IIl - ALLA RICERCA DEL DIVINO

in sé è relazione di parti col tutto, di determinare più


precisamente questo concetto di «parte», con un'altra
domanda: queste singole virtù sono parti della virtù,
nel senso in cui lo sono le parti del viso, o come lo
sono le parti dell'oro, vale a dire sono parti diverse
qualitativamente tra loro e dal tutto, o solo quantitati-
vamente sono diverse ? Protagora, che in questo rap-
presenta indubbiamente l'opinione del senso comune,
si dichiara per la prima alternativa 48 ). Domanda ancora
Socrate se, con la virtù, se realmente la si possiede, si
debbano necessariamente possedere tutte le sue parti.
E qui Protagora risponde decisamente di no, perché
molti son coraggiosi che non son giusti, e molti giusti
che non son saggi. La domanda viene così a compli-
carsi, per questo apparire anche della saggezza (O'orpfot)
come parte della virtù, cioè per l'aggiunta di una virtù
o areté intellettuale a quelle morali 49). È però del tutto
giustificato, storicamente, che sia proprio il sofista ad
accentuare questo lato della virtù. Egli non sospetta
di favorire assai, in questo modo, la causa del suo av-
versario, che, per l'appunto, ritiene che la virtù sia
una scienza. In realtà, non ostante questo apparente
accordo dei due contendenti sull'alto pregio del sapere,
noi sentiamo già :fin da questo momento, che il loro
conflitto profondo deve venire in luce propno su que-
sto punto, nella immensa differenza delle loro conce-
zioni riguardo alla natura della scienza. La tesi di So-
crate, che la virtù è scienza, non è nota a Protagora,
ed egli non !!ospetta nemmeno che l'avversario tenda
a qualcosa di simile. Socrate, per parte sua, durante
tutto il dialogo che segue, lo tiene all'oscuro su questa
sua mira :finale, che noi conosciamo già dai primi dia-

") Prot. 329 d,


' 9 ) Prot. 329 e.
CAP. V: IL PROTAGORA [Il 195] 883

loghi. Al modo in cui l'uomo di stato, quando si pro-


pone una meta lontana, nasconde agli occhi della gente
i suoi motivi profondi e i suoi ultimi scopi nel momento
in cui muove i primi passi per la sua via, così anche
quella domanda di tono un po' da pedante sulle parti
e sul tutto della virtù, Socrate la pone in primo piano,
e, da principio, essa sembra esser fine a se stessa.
Lo svolgimento' del dialogo su questo tema si di-
stingue da quello dei primi dialoghi, in quanto Socrate,
questa volta, non indica la relazione di parte e tutto in
una particolare virtù, ma la chiarisce a mezzo di una
comparazione di tutte le virtù tra loro, con lo scopo
di dimostrare la loro unità. Che egli proceda più rapi-
damente, nei particolari, di quanto faccia nei dialoghi
minori, non si spiega soltanto pensando che il suo
proposito di una completa rassegna delle virtù gli
impone un cammino più lungo, e che perciò le tappe
debbono essere più brevi. Inoltre, certo, una maggiore
minuzia di esposizione avrebbe portato anche a ripe-
tizioni, non evitabili del tutto anche senza di ciò.
Ma è anche vero che qui sono chiaramente presupposte
le ricerche particolari sulle virtù condotte nei primi
dialoghi, seppure la conoscenza di esse non si possa
dire assolutamente necessaria alla comprensione del
Protagora 50). La questione se possedendo la virtù si
posseggano di necessità le sue parti, è divisa da So-
crate in più qilestioni: se la giustizia sia necessaria-
mente legata con la pietà, che rapporto ci sia fra tem-
peranza e sapienza e, infine, fra temperanza e giusti·

56) Così p. es. il paragrafo che segue, 349 d ss., è reminiscenza


evidente del Lachete, nel qual dialogo si cerca di cogliere l'essenza
della fortezza. Che poi qui non si ripetano in modo pedantesco
tutte le distinzioni del Lachete, in tutte le sfumature, non è ra-
gione sufficiente per affermare che il Lachete rappresenti uno sta-
dio più progredito dell'indagine dialettica e pertanto sia poste-
riore al Protagora (ciò contro ARNIM, op. cii., p. 24 s.).
884 [II 196) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

zia 51). Cominciando da quelle virtù che più si somi-


gliano tra loro, Socrate cerca d'indurre l'interlocutore
ad ammettere che giustizia e pietà sono essenzialmente
la stessa cosa o almeno sono molto simili e stretta-
mente affini, il che Protagora, pur riluttando, concede.
Socrate si accinge poi a fare la stessa dimostrazione
per l'altra coppia, temperanza e .giustizia, riserbando
per ultima la fortezza, virtù che psicologicamente
sembra la più nettamente distinta dalle altre. Tutto ciò
se:mhra a Protagora enormemente strano: egli, come
chiunque rappresenti il punto di vista del senso comune,
tende naturalmente, nel paragonare più virtù, per de-
signare le quali la lingua disponga di più parole, a
mettere in rilievo, non la loro affinità, ma le loro dif-
ferenze. E ad ogni momento egli tenta di far prevalere
questo punto di vista 52). Ma in questo non ha fortuna
con Socrate, che sa dovunque ritrovare ciò che appa-
renta le cose, il fondamento comune di ciò che appare
diverso. Sembra perfino che Socrate non si preoccupi
se una volta o due gli capita d'incorrere in qualche
inesattezza di ragionamento, nella sua marcia inarre-
stabile sulla via che conduce all'immedesimarsi delle
parti e del tutto, del molteplice e dell'unità. Già si
è detto del carattere sinottico della dialettica socratica
nei primi dialoghi platonici 53), ed ora, in questa visìone
complessiva di tutte le virtù, questo carattere viene
in chiara luce in tutto il suo dinamismo spirituale.
Pertanto quegli interpreti moderni, che fanno colpa a
Platone di sorvolare con troppa facilità sulle differenze
delle cose che mette in confronto, non hanno capito
il significato complessivo del suo procedimento.
Col procedere della discussione su questa via, vanno

51 )Prot. 330 e ss.; 332 a ss.; 333 d ss.


52) Prot. 331 b 8, 332 a 1, 333 e, 350 e - 351 b.
58) Cfr. supra, p. 172.
CAP. V: IL PROTAGORA [II 197] 885

crescendo il disagio e il malumore di Protagora, finché


Socrate si vede costretto a interrompersi prima di aver
raggiunto la meta M). La forza intima, la tensione del
dialogo si fonda in gran parte sulla tenacia con cui
Socrate resta fisso a questo suo scopo e si rifiuta di
abbandonare il terreno della discussione dialettica. Tut-
tavia egli accorda a Protagora un lungo momento di
respiro, di cui questi approfitta per trasferire su altra
scena il dibattito sulla virtù e sulla sua apprendihilità:
e la nuova scena è l'interpretazione di testi poetici,
una delle forme principali della paideia sofistica 55).
Ma anche qui .Socrate gli dà il fatto suo. Si tratta
di interpretare il famoso carme simonideo. sulla vera
virtù virile, scelto da Protagora per dar -prova della
sua arte 56), e Socrate prende subito la direzione della
disputa facendo vedere con apparente perfetta serietà,
per mezzo di un_ abile travisamento del senso, che in
questa maniera si può dimostrare tutto quel che si
vuole, tanto è vero che a lui riesce di tirar fuori dai
versi di Simonide la sua famosa tesi, che nessuno fa
il male volontariamente 57). Dopo questo episodio di-
vertente, in cui Protagora non fa precisamente una
figura brillante, Socrate lo riconduce, con qualche fa-
tica, al dialogo rimasto in sospeso sulla virtù e le sue

114) Prot. 335 b-c.


61i) Prot. 338 e. Protagora afferma qui che la conoscenza dei
poeti (m:pt b:oov 8e:wòv e!von) è« il punto capitale della pai-
deia».
5&) Sceglie questo carme perchi! tratta della natura dell' aret~
anche se non ha niente che fare col problema sollevato da Socrate,
delle« parti» dell'areté e dei loro rapporti col tutto. Platone pre-
senta qui la paideia sofistica. come immediatamente legata a
quell'aspetto dell'antica poesia che era di consapevole riflessione
sull'areté e perciò sull'educazione. Simonide era particolarmente
appropriato a questo scopo.
S7) Prot. 345 e. Socrate arrive. a questa interpretazione, falsa
storicamente, non tanto seguendo il senso delle parole di Simonide,
quando facendole principio di deduzioni logiche. Quel che egli
cerca, anche di fronte ai poeti, è la verità assoluta, come la vede lui.
886 [Il 198] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

part~ e prende a sostenere la tesi, apparentemente


molto ardita, che fortezza e saggezza sono la stessa
cosa 58). Protagora la respinge e muove appunti lo-
gici e psicologici varii al modo con cui Socrate giunge
a questa conclusione 59). Socrate, allora, prende una via
traversa per arrivare alla meta. Egli parte dalla distin-
zione di vita felice e vita miserabile definendo la prima
come vita comoda e piacevole, l'altra come piena di
sgradevolezza e di dolore 60). I più probabilmente con-
verrebbero in questa definizione, ma non Protagora
che ritiene più sicuro distinguere tra piaceri buoni e
cattivi 61). Sentita la sua opinione su questo punto,
Socrate passa a un'altra domanda: e della ragione e
della scienza che cosa pensa Protagora? 62). Per
Socrate esse sono «la forza. suprema» di cui l'uomo
disponga, ma egli teme che Protagora, pur lontano
dall'edonismo dei più sotto il rispetto etico, sia, nell'ap-
prezzamento dell'intelletto, del parere dei più, che non
attribuiscono alla scienza la capacità e la forza di
dirigere e guidare veramente la vita, ma più forti ri-
tengono gli impulsi delle passioni. La questione decisiva
è questa: possono scienza e conoscenza aiutar l'uomo
ad agir bene ? sapere ciò che è bene rende l'uomo inat-
taccabile ad ogni influenza che lo voglia muovere a
fare il male ? 63) Anche su questo punto, però, Prota-
gora non osa dichiaiarsi per l'opinione comune, questa
volta per un certo orgoglio di uomo d'intelletto. E, in
realtà, chi altri mai potrebbe associarsi a Socrate, nel

68 ) Prot. 349 d ss.: Socrate deve appellarsi alla fama che Pro-
tagora ha di rappresentante massimo della paideia, pe:r indurlo
a prendere ancora parte al dialogo.
H) Prot. 350 C SS.
&o) Prot. 351 b ss.
61) Prot. 351 d.
62 ) Prot. 352 b.
63) Prot. 352 c 3-7.
CAP. V: IL PROTAGORA [Il 199] 887

pregio sommo accordato alla scienza, per la vita, se


non un sostenitore appassionato come Protagora delle
esigenze· di una cultura superiore ? &1.)
Ma ecco che Socrate si fa ora, contro se stesso e
Protagora, rappresentante del pensiero dei più, obiet-
tando che, sì gli uomini conoscono spesso il meglio,
ma non lo fanno, quando anche siano in condizione
di farlo. E quando poi si domanda loro il perché, ri-
spondono di avere agito così per essersi fatti vincere
dal piacere (o dal suo contrario) 65). Chi, dunque, è
·persuaso che la conoscenza del bene ha, di per sé,
la forza di realizzarlo deve fare i conti con questa
universale esperienza umana; Socrate e Protagora de-
vono adattarsi a che i più chiedano a loro una spiega-
zione del fatto che gli altri uomini designano con la
frase «farsi vincere dal piacere» 6~. Protagora comincia
a sospettare che dalla sua ammissione di un alto va-
lore della scienza come forza morale, possano derivare
quesiti che egli non ha ancora mai affrontato. Egli
sente, certo, che in fondo il suo pensiero si accorda
con quello «dei più», per i quali dalla conoscenza del
bene a fare il bene ci corre parecchio. Pure, ormai ha
acconsentito e giudica, anzi, che la parte per cui si

64) Prot. 352 d. Protagora dice:« Sarebbe vergogna (ataxpov)


per me, se mai per alcun altro, non ritenere che saggezza e scienza
sono le più potenti delle forze umane». E si sente bene che non
è tanto una sua certezza interiore a farlo convenire con Socrate,
quanto piuttosto il timore della vergogna che sarebbe per lui,
rappresentante supremo della paideia, dubitare della potenza del
sapere. Socrate che si accorge bene di tutto questo, se ne vale per
porre il suo avversario in contraddizione con se stesso. Lo stesso
atteggiamento - usare come mezzo di confutazione il timore del-
!' avversario di fronte allo spiacevole effetto sociale del suo con-
tegno (ataxpov) - vedilo ancora in Prot. 331 a, 333 c, Gorg.
461 b e soprattutto . 482 d ss., dove Callicle smaschera questo
«t:ru,cco » di Socrate.
65 ) Prot. 352 d-e.
66 ) Prot. 353 a.
888 [rr200] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

è schierato è del tutto in armonia col suo sentire alta-


mente di se stesso, uomo d'intelletto, che si guarda bene
dallo schierarsi con la massa. Comunque, egli sospende-
rebbe volentieri il dibattito di questo problema e tenta
di lasciarlo cadere dicendo in tono distante: « Ma che
costrutto c'è a star dietro ai discorsi dei più, che di-
cono la prima cosa che vien loro in mente ? » 67). Ma
Socrate insiste che è dovere di un campione della cono-.
scenza, e del valore di essa nell'agire umano, di con-
trapporre alla visione comune di tali argomenti, una
sua spiegazione: egli pensa, infatti, che un'esatta ri-
sposta a questo problema sia d'importanza decisiva
per la determinazione del rapporto della fortezza con
le altre parti della virtù. Protagora deve arrendersi a
Socrate e lascia a lui il .compito di parlare, in nome
di tutti e due, di fronte all'opinione dei più, il che
Socrate fa assumendosi tutte le parti del dialogo,
quella dei più e la sua propria, mentre Protagora,
sollevato, può limitarsi a far l'ascoltatore 68).
Socrate affronta ora l'opinione dei più e mostra
che essi, con la frase « farsi vincere dal piacere» inten-
dono quel processo psichico per cui ci si lascia allet-
tare a soddisfare un desiderio sensuale, sebbene lo si
riconosca cattivo; vale a dire, si preferisce un godi-
mento momentaneo all'astensione, sebbene da .esso in
seguito debba venir danno. Socrate conduce un inter-
rogatorio stringente coi più per stabilire la ragione per
cui essi, in tali casi, ritengono dannoso, alla fine, quel
piacere che hanno cercato 69), e li costringe ad ammet-

87 ) Prot. 353 a.
88 ) È chiaro perché Platone faccia qui usare da Socrate l'ar-
tificio di fare intervenire « i più» al posto di Protagora. Così So-
crate ottiene che Protagora convenga più facilmente con lui. men-
tre nel rispondere in proprio nome potrebbe rimanere incerto p·er
paura di 111m far bella figura. Cfr. n. 64.
89 ) Prot. 353 e ss.
CAP. V: IL PROTAGORA [n201] 889

tere che non sanno addurre altra ragione se non questa:


che la conseguenza di quel piacere goduto è un dolore
più grande 70). In altri termini lo scopo ultimo (~Ào~).
guardando al quale i più fanno differenze di valore
fra sensazioni di piacere, è sempre il piacere e non
altro che il piacere 71). Quando essi considerano buono
l'amaro o cattivo il dolce, la ragione è che, nel caso
in questione, l'amaro avrà per conseguenza finale un
piacere e il dolce un dolore. Se questo è esatto, il
fatto che qualcuno « si fa vincere dal piacere», come
dicono i più, non altro significa se non che egli ha fatto
un errore di calcolo e ha scelto, invece del più grande,
il piacere più piccolo, perché questo, nel momento,
era più vicino 72 ). Socrate rende evidente il fatto con
l'immagine di un uomo che, nell'atto di decidersi ad
un'azione, potesse valersi di una bilancia su cui pesare
piacere contro piacere, dolore contro dolore o piacere
contro dolore 73 ). Inoltre egli spiega il senso dell'im·
magine con due altri paragoni presi dal campo della
quantità. Se il benessere e la salvezza della nostra vita
dipendessero dal fatto di scegliere tra estensioni pren-
dendo sempre le più lunghe ed evitando le più
brevi, tutto consisterebbe nello scoprire un'arte della
misura che ci guardasse da errori sulla vera lun-
ghezza e eliminasse dalla nostra decisione il fattore
dell'apparenza ingannevole. Senza quest'arte la nostra
scelta sarebbe instabile e vacillante, molte volte
tratta in errore dalla mera apparenza, e bene spesso

70) Prot. 353 d·e, 354 b.


71) Qui compare per la prima volta in Platone il concetto fon-
damentale di telos; cfr. 354 b 7, d 2, 8 e così pure l'uso del verbo
affine CÌ.1'0'l"EÀEU'l"iiV (e:t.; ij8ovci.;) 354 b 6 e Te:ÀEU'l"iiV 355 a 5.
Come equivalente al telos è presentato il «bene» (à.yot.&6v), in
355 a 1. Nel Gorgia 499 e è menzionato anche il concetto di « re-
gione per cui» (itve:xot), come equivalente al« bene».
72) Prot. 356 a.
73) Prot. 356 b.
890 [!!202] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Ci sarebbe da pentirsene. L'arte della misura, invece,


eliminerebbe quegli errori e darebbe alla nostra vita
un fondamento sicuro 74). E se la nostra salvezza dipen-
desse dallo scegliere il pari o il dispari, in senso arit-
metico, l'aritmetica sarebbe l'arte su cui dovrebbe fon-
darsi tutta la vita umana 75). Ma poiché secondo l'opi-
nione dei più lo scopo finale della vita è un avanzo nel
bilancio dei piaceri, la questione è tutta nell'evitaré le
illusioni ottiche prodotte dalla distanza, le più fre-
quenti e pericolose in questo campo, mediante la crea-
zione di un'arte della misura che c'insegni a distin-
guere apparenza da verità 76). Quale sia quest'arte e
in che propriamente consista, prosegue Socrate, lo ri-
cercheremo in un altro momento; per ora stia ben
fermo che quel che ci dà ~riterio e misura del nostro
agire è una scienza e una conoscenza, il che basta a
dimostrare l'opinione che Protagora ed io rappresen-
tiamo 77). Voi ci domandaste, dice Socrate ai più, in
che cosa, per noi, consiste il processo psichico che voi
designate con la frase ·«farsi vincere dal piacere». Se
vi si fosse allora risposto senz'altro: « consiste nell'igno-
ranza», voi vi sareste messi a ridere; ecco che ora,
invece, è chiaro ed evidente che questo processo,
essenzialmente, non è altro che la più grande « igno-
ranza » 78).

74) Prot. 356 c-e.


7&) Prot. 356 e - 357 a.
76) Prot. 357 a-b.
17 ) Prot. 357 b. Il concetto di misura e di arte della misura,
sul quale qui si insiste ripetutamente con la più grande energia
(cfr. 356 d 8, e 4, 357 a 1, b 2, 4), è d'importanza fondamentale
per la concezione platonica della paideia e della scienza. Esso
emerge qui per la prima volta solo come esigenza e per di più
associato a una definizione del bene supremo che non è assolu-
tamente quella 'che Socrate vorrebbe. Ma in seguito . nelle opere
più tarde di Platone questo concetto svelerà tutto il suo vero
contenuto e valore.
78) Prot. 357 c-d.
CAP. V: IL PROTAGORA [II 203] 891

Data ai più questa risposta, Socrate domanda, in


nome proprio e di Protagora, ai sofisti presenti se con-
sentono con essa. E poiché tutti se ne dichiarano con-
vinti, egli passa a ·constatar.e espressamente che essi
tutti si accordano nell'opinione secondo cui ciò che
piace è il Bene ed è, pertanto, la misura del volere e
dell'agire umano 79). Anche Protagora si associa taci-
tamente, fatto sicuro dal consenso generale, a questa
conclusione che aveva guardato in principio con dif-
fidenza 80). Ed ecco che così, tutte quelle celebrità del-
l'educazione raccolte in quella casa, si ritrovano alla
fine concordi sullo stesso piano dei poll6i, dall'opinione
dei quali Socrate ha preso le mosse. Socrate li ha presi
tutti, e li tiene, con un laccio solo. Giacché non è certo
sfuggito al lettore attento che Socrate, per parte sua,
non si è associato mai al principio edonistico, ma non
ha fatto altro che rilevare che questo è l'opinione
generale dei più, la base logica necessaria del loro
pensiero. Ma egli non si attarda su questo punto, che,
piuttosto, gli serve come maniera indiretta di caratte-
rizzare i Sofisti in quanto educatori, e passa immediata-
mente a trarre il massimo profitto dall'ammissione che
essi hanno fatto, sul terreno in cui si son lasciati
attrarre da lui. Poiché, appunto, se ciò che piace,
come crede la gente, è il criterio di tutte le decisioni
e azioni umane, è chiaro che nessuno, coscientemente,
sceglie il più piccolo bene, quello, cioè, che è meno pia-
cevole, e che la pretesa fiacchezza morale di colui che
« si fa vincere dal piacere» è in realtà soltanto una
mancanza di sapere 81). Nessuno volontariamente si getta
verso uno scopo, che egli ritiene un male 82). Con questo,

79 ) Prot. 358 a.
so) •••• qui tacet con.sentire videtur.
81) Prot. 358 b 6.
82) Prot. 358 d.
892 [n204] LIBRO IIl - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Socrate ha condotto i Sofisti ad accettare il suo ben


noto paradosso, per cui nessuno erra volontaria-
mente 83), e non si cura di sapere se essi diano o
no alla parola « errare» lo stesso senso che vi scorge lui.
Giacché, dopo questa ammissione, è cosa facile per
lui rispondere alla questione rimasta in sospeso sul
rapporto di fortezza e scienza, ed incastrare così l'ul-
timo anello, che ancora mancava, alla catena della
dimostrazione, affermante l'unità della virtù. La sua
tesi era che fortezza e scienza sono una sola cosa. Pro~
tagora aveva accettato che le altre virtù sono tutte
più o meno strettamente affini tra loro. Sola eccezione,
la fortezza; e su questa eccezione si arenava -
aveva detto Prot_agora - tutta là dimostrazione di So-
crate 84). In realtà, c'erano uomini assolutamente empi,
dissoluti, incolti e rozzi, ma straordinariamente corag-
giosi. Chiamato poi a definire gli uomini forti e corag-
giosi, Protagora aveva detto che son quelli che affron-
tano audacemente i pericoli, di fronte ai quali gli altri
hanno paura 85). Ma, una volta che)a paura sia defi-
nita, come Socrate vuole e gli altri accettano, aspet-
tativa di un male 811), Protagora, con la sua concezione
della fortezza come la capacità di affrontare ciò
che è oggetto di paura, viene a cadere in contrad-
dizione con la proposizione or ora accettata da tutti,
per cui nessuno volontariamente si getta verso un
fine che egli ritiene male 87). Secondo quest'ultima affer-
mazione, si deve, piuttosto, pensare che . il forte e il
vile siano pienamente conformi tra loro in questo, che
non si gettano volontariamente verso qualcosa che,

88) Cfr. supra, p. 197 e n. 57.


84) Prot. 349 d.
85 )Prot. 349 e.
M) Prot. 358 d 6.
87) Prot. 358 e.
CAP. V: IL PROTAGORA [n205] 893

secondo loro, è da temere 88). La differenza tra loro con-


siste in ciò che essi temono : il forte teme il disonore,
il vile teme, per ignoranza, la morte 89). Il profondo
significato del concetto socratico di scienza si rivela
ora :finalmente in piena luce perché scorto insieme col
suo contrario, con la forza di una repentina visione.
È la scienza di ciò che veramente vale, quella che de-
termina la scelta della nostra volontà, inevitabilmente.
La fortezza è dunque la scienza di ciò che è veramente
da temere e da non temere 90).
In questo dialogo, il moto dialettico del pensiero
socratico, che ci apparve, nei dialoghi minori, riprender
sempre il suo corso e non giunger mai al fine, co-
glie finalmente la sua meta e, pertanto, le parole con
cui Socrate nel Protagora formula il resultato. ci danno
in pari tempo il senso e la tendenza anche di. quei dia-
loghi: « lo non faccio tutte queste domande se non allo
scopo di vedere come stanno le cose riguardo alla virtù,
e che cosa, insomma, è questa virtù. Ed una volta
chiarito questo punto, della « virtù», io so bene che
si farà manifesto quello per cui tu ed io abbiamo fatto
un cosi lungo discorso, dicendo io che la virtù non si può
insegnare, tu, che si può» 91). E veramente il problema
dell'essenza della virtù è il necessario presupposto
all'altro problema della sua apprendibilità. Ma il re-
sultato a cui Socrate è giunto, che la virtù è una scienza
e che anche per la fortezza si riesce ad una tale defini-
zione, non è importante soltanto come presuppo,.;to
logico-formale dell'altro problema se la virtù sia in;;e-
gnahile, ma vale anche nel suo contenuto. giacché
l'insegnamento della virtù rientra ora nel campo della

88) Prot. 359 d.


119) Prot. 360 b-c.
90 ) Prot. 360 d 5.
91 ) Prot. 360 e 6.
894 [n206] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

possibilità. Così, alla fine, si assiste ad un perfetto


scambio di posizioni: Socrate che riteneva la virtù
non insegnabile, si affatica ora a dimostrare che la virtù
è una scienza, mentre Protagora che aveva espresso
l'opinione che essa si potesse insegnare, si adopra ora
a mostrare che essa è tutto piuttosto che scienza, ra-
gione per cui la sua apprendibilità diventa problema-
tica 92). La vicenda drammatica del dialogo termina con
la meraviglia di Socrate per questo singolare contrad-
dittorio resultato, ma la meraviglia è chiaramente per
Platone, anche qui, il principio di ogni vera filosofia 93).
Il lettore si separa dal libro, certo ormai che la scoperta
socratica, per cui la virtù è ricondotta al sapere 94),
sarà la pietra angolare di tutta l'educazione umana.

Anche in quest'opera Platone, certo, rimane fe-


dele al suo principio socratico di non insegnare dogma-
ticamente, ma di ·farci partecipi del problema dal-
l'interno e di renderlo un nostro problema col mostrare
come, sotto la guida di Socrate, la scoperta venga gra- .
datamente a prender forma in noi stessi. Perciò, anche
considerato in sé, il dialogo può svegliare il nostro in-
teresse per questo particolare problema; ma se giunti
alla fine del Protagora, dal piano cosi raggiunto,
ci si volta a riguardare le indagini di virtù singole dei
primi dialoghi, ci appare chiaro che il lettore a cui il
filosofo pensava scrivendo doveva essere sorretto dalla
stessa pertinacia di ricerca che aveva animato lui
stesso, quando in un' intera serie di opere, una dopo
l'altra, aveva isolato sempre un solo e identico pro·

92 ) Prot. 3n a, cfr. supra, p. 190 ss. e «Paideia »I, p. 528 s.


93) Cfr. Theaet. 155 a.
94) Prot. 361 b 2; cfr. 358 e 5, dove I'« ignoranza» è definita
da Socrate come errore riguardo ai veri valori (bjie:\ia.&otL 1te:pl
-rii>v 1tpotyµ.1X..oov 1tOÀÀoii · ò#oov).
CAP. V: IL PROTAGORA [n207] 895

hlema e rilevato di esso aspetti sempre nuovi. Ora, alla


fine del Protagora, si vede che, benché Platone, con
arte stupenda, abbia saputo sempre incatenare ed ec-
citare la nostra attenzione con imprevedibili muta-
menti di scena e giochi sempre nuovi di luci, il problema
è sempre lo stesso, ed è ancora il problema dei primi
dialoghi. Ma noi proviamo altresì un senso di libera-
zione, nell'accorgerci che, via via che si ascende, si
scopre sempre di più del paese. in cui ci siamo avventu-
rati e n1eglio lo si comprende in tutto l'articolarsi
della sua struttura. Nel leggere i primi dialoghi s'indo-
vinava sì, ma non ancora si vedeva chiaro, che tutti
quei tentativi erano linee convergenti a un unico punto,
e, in ogni modo, si sentiva ancora di muoverci sullo
stesso piano di esse; alla fine del Protagora invece, si
ha la sorp;resa di guardarle dall'alto, tutte quelle vie,
e di accorgerci che· tutte conducono al culmine dove
ora noi ci troviamo, cioè alla affermazione che tutte
le virtù umane sono essenzialmente un'unica virtù,
la cui essenza è fondata sulla scienza di ciò che· ha vero
valore. E ormai tutti gli sforzi fatti fin qui per giun-
gere a questa scoperta, si chiariscono nel loro vero
significato e nella loro import~~za, in quanto sono,
come ora si rivela, diretti al problema dell'educazione.
La paideia si elevò alla consapevolezza di un pro-
blema per la prima volta nell'età dei Sofisti, ed occupò
un posto centrale tra gli interessi spirituali del tempo
in virtù tanto della vita stessa quanto della evoluzione
intellettuale, che sempre influiscono l'una sull'altra.
Si formò così una « cultura superiore», di cui furono
rappresentanti i Sofisti, vera e propria categoria pro·
fessionale che si assunse il compito di «insegnare la
virtù» 95). Ma ora si vede che, nonostante tutte le ri-
85) Questa è la definizione del sofista in Platone ( cfr. Prot. 349 a
1tctt8tuae6>ç xcxl ttpe-.'ijç 8tMaxcxÀoç). I Sofisti si rendono ga-
896 [rr208] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

flessioni su metodi pedagogici e su forme d'insegna-


mento, non ostante la sbalorditiva molteplicità di scienze
e discipline di cui questa cultura superiore dispone,
nessuno si era reso veramente conto dei presupposti
dell'impresa a cui ci si accingeva. Socrate non aveva
preteso, come Protagora, di educare gli uomini - tutte
le nostre fonti insistono su questo punto 96) - , ma
noi sentiamo subito, quasi d'istinto, come sentirono gli
scolari, che egli fu l'educatore vero, quello che l'età
aspettava.. Platone nel Protagora fa di questa intui-
zione una dimostrata certezza e chiarisce che il segreto
di questa virtù educativa non è solo in una qualche
singolarità di metodo o nella forza misteriosa della
personalità, ma, soprattutto, nel fatto che egli, ricondu-
cendo il problema morale al problema del sapere, trovò
per la prima volta quel presupposto di cui mancava
la pedagogia sofistica. L'esigenza di un primato della
cultura intellettuale, fatta valere dai Sofisti, non po-
teva essere legittimata soltanto dal buon successo nella
vita. Quell'età, non più salda sui suoi fondamenti, cer-
cava altro: la scoperta di una norma suprema, vincolante
per tutti, in quanto sia espressione della più profonda
natura umana, una norma sul cui fondamento l'educa-
zione potesse accingersi al suo compito più alto, cioè
a formare l'uomo alla sua vera areté. Non conduce-
vano al fine le cognizioni e l'addestramento dei Sofisti,
ma solo quel più profondo « sapere » a cui è volta l'iny
dagine di Socrate.
Ma come il moto dialettico dei primi dialoghi si
quieta soltanto nel Protagora, quando la ricerca socra-
tica sull'essenza della virtù si collega col problema edu-

ranti di «educare uomini» ( 7ta; ~ae:ùe:w &v&pw7touç), cfr. Apol. 19 e,


Prot. 317 b. Il che è identificato in Àpol. 20 b con« possedere la
scienza dell'aretli umana e politica».
96) Àpol. 19 e-20 c. Xen. Mem. I 2, 2. Cfr. ·supra, p. 96 s.
CAP. V: IL PROTAGORA [Il 209] 897

cativo, cosi il Protagora, a sua volta, conduce a nuovi


problemi, che lascia senza risposta, pur formulandoli,
e rimandando cosi alle opere a venire. Socrate, è vero,
pensa che· la virtù non sia insegnabile e non fa profes-
sione di educare gli uomini, ma Platone, sotto questo
ironico atteggiamento scorge celata una profonda con-
sapevolezza delle vere difficoltà del compito. A risol-
verle, Socrate è, in verità, assai più vicino dei Sofisti.
Quello che occorre, ora, è solo di pensare fino in fondo
i problemi da lui posti ed è questo il tema che Pla-
tone ci propone di qui innanzi. Uno di quelli che più
urgentemente aspettano la discussione è il problema
~ell'apprendibilità della virtù, il quale sembra· essersi
accostato alla soluzione con· la dimostrazione socratica
che la virtù è sapere 97). Ecco, però, che ora si fa ne-
cessario esaminare più da vicino questo concetto
socratico del sapere; ché, evidentem_ente, esso .non
coincide con ciò che i Sofisti e i più degli uomini
intendono con questa parola 98). La ricerca si svol-
gerà nel Menone e in parte nel Gorgia. Ma anche ri-
spetto ad altri elementi il Protagora accenna più volte
all'ulteriore esame dei problemi che vi si trovano ab-
bozzati. Primo fra questi, il problema del «ben vi-
vere» (~ 'C:;jv) che Socrate introduce nel Protagora,
non come fine a se stesso, ma solo come mezzo di rap-
presentar con chiarezza, una volta ammessa l'opinione
97) Prot. 361 c. Quanto questa idea abbia agitato il pen-
siero dei coetanei di Socrate, si ricava non solo dalla testimo-
nianza di un sofista del tempo, l'autore delle cosiddette Dialeuis
c. 6 (DIELS, Vorsokratiker, IP, p. 405 ss.), ma anche, p. es., da
un'argomentazione che si trova nelle Supplici di Euripide
(vv. 911-917), dove si sostiene che la virtù della fortezza è inse-
gnabile nello stesso preciso modo in cui a un bambino s'insegna
a udire e a dire quel che ancora non sa. La conclusione, in Euri-
pide, è che tutto consiste in una retta paideia.
98) Un'indagine più minuta, che cosa sia, come conoscenza e
scienza ('t'é)(.VlJ xc:t l;.matjµl)), una tale «arte della misura»,
è rimandata ad altra occasione (Prot. 357 b).
898 (II210j LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

volgare per cui è il bene ciò che piace, l'importanza


della scienza per il retto operare degli uomini. E gli
dimostra ai più che se quel criterio di valore è giusto,
l'uomo, per potere scegliere il maggior piacere possi-
bile, abbisogna di uri' arte della misura che lo abiliti
a distinguere il maggior piacere dal più piccolo; sicché
in questo caso la conoscenza è indispensabile a rag-
giungere il ben vivere. Con ciò Socrate ha ottenuto
19 scopo inim.ediato e momentaneo della sua djmo-
strazione, ma anche ci costringe a domandarci se
ridentifìcazione del bene col piacere, che egli sa ren-
dere tanto accettabile ai Sofisti, non meno che a molti
moderni ricercatori, rappresentò veramente il suo pro-
prio pensiero 99). In ogni modo, una volta che. il
problema dello «scopo , del vivere» (':ÉJ..oç} è venuto
alla superficie è impossibile che esso cada di nuovo
in oblio. Si ha l'impressione, su questo punto, che
Socrate, con quell'umor lieto e libero che lo anima
nel Protagora, abbia voluto farsi gioco, si, dei Sofisti,
ma anche un poco di noi e si desidera che ora, su un
problema così serio, parli con noi sul serio. Questo
avverrà nel Gorgia, che è il gemello perfetto del Prota-
gora e che, con la sua profonda serietà, fornisce
all'amabile buonumore di questo il necessario com-
plemento.

99 ) Cfr. infra, p. 212.


CAPITOLO SESTO

IL GORGIA
L'EDUCATORE COME UOMO POLITICO

Il primo passo per capire la relazione tra il Prota-


gora e il Gorgia sta nel liberarsi di un infelice criterio
interpretativo, oggi molto diffuse:>, Esso consiste in una
fallace applicazione del concetto- di «poetico» ai ilia-
loghi di Platone, per cui in ciascuno di essi si vuol
vedere, alla maniera in cui parlò Goethe delle pro-
prie opere, una sorta di confessione e di liberazione
platonica dal premere di intime esperienze e di perso-
nali umori. Su tale fondamento il serio e appas-
sionato Gorgia viene spostato a tutt'altro periodo
della vita di Platone, da quello a cui si assegna il se-
reno gioco del Protagora 1). Chi, in base a ciò, considera
il Protagora come la prima opera di Platone, facendola
anteriore alla morte di Socrate e poi spiega il Gorgia
come nato dall'acerbo dolore della catastrofe, disconosce
il carattere assolutamente obiettivo della forma arti-
stica del dialogo platonico. Una tale obiettività non

1 ) Queeto atteggiamento appare nel suo aspetto estremo nella


trattazione che U. von Wilamowitz dedica, nel voi. I del suo
Platon, ai singoli dialoghi. Così p. es. egli mette l'esposizione del
Fedro, un'opera in cui si sottopone a profonda indagine il rap-
porto di retorica e dialettica, sotto un titolo liricizzante: «Un
bel giorno d'estate».
900 [n212] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

è dato cogliere a chi usa la formula coniata per la


poesia lirica moderna di« esperienza e poesia» 2). È vero
che il dialogo platonico, come ·nuova forma e genere
d'arte, deve la sua origine a un'unica grande espe-
rienza, quella che Platone visse della personalità So-
cratica. Ma ciò non si può estendere alle singole opere,
nel senso che in. ciascuna di esse si abbia a cercare
l'espressione di una nuova situazione biografica e di
stato d'animo del suo autore. Lo vieta appunto la
natura di quella stessa esperienza che sta a base della
forma dialogica: la connessione di essa con quell'ele-
mento obiettivo che è la persona di un altro uomo.
Certamente, anche la vita e il sentimento di Platone
influiscono in questo ritratto di Socrate e in qualche
misura lo informano, ma non fino al punto che la
profonda serietà del Gorgia si spieghi col senso doloroso
di un particolare momento, che in esso si ri:O.etta .
.Non è necessario pensare alla immediata prossimità,
nel tempo, della morte di Socrate per darci ragione
del pathos grandioso di quest'opera, più di quanto
ciò sia necessario per il compianto di morte di quel
Fedone, che i medesimi interpreti allontanano crono-
logicamente dalla morte di Socrate· per metterlo vi-
cino al sereno Simposio. Considerare il Protagora come
la prima, assolutamente, delle opere platoniche è im-
possibile per chi, segulta la nostra interpretazione in
tutto il suo svolgersi, si sia convinto che in esso i
problemi dei dialoghi socratici minori, appartenenti
agli inizii di Platone, sono abbracciati in una visione
complessiva, su piano più alto e in un quadro più
ampio, e si illuminano, visti di qui, della luce che

2 ) È evidente la connessione dell'atteggiamento del Wila-


mowitz di fronte a Platone. col libro del DILTHEY intitolato ap-
punto: Erlebnis und Dichtung («Esperienza e poesia»).
CAP. VI: IL GORGIA [II 213] 901

si riverbera da esso, come, del resto, avviene sempre


in Platone. In seguito, poi, avremo ancora occasione
di dimostrare che proprio il falso apprezzamento del
contenuto :filosofico del Protagora ha fortemente coo-
perato a questa datazione troppo precoce del dialogo,
che lo dissocia dal Gorgia, ad esso strettamente affine.
Il parallelismo del Gorgia e del Protagora è cosa
evidente. Gorgia di Leontini, il creatore della retorica
in quella forma che s'impose nel corso degli ultimi
decenni del v· sec. 3), è per Platone la personifica-
zione di quest'arte, come Protagora, nel dialogo omo-
nimo, incarna la sofistica. Il Gorgia, come il Prota-
gora, mira al :fine di rappresentare. la disciplina socra-
tica, che nei dialoghi minori era stata ritratta piuttosto
nella sua struttura interna, come volta all'esterno,
nei l!noi contatti con i grandi corifei intellettuali del
tempo. Accanto alla sofistica, puro fenomeno di edu-
·cazione, la retorica rappresenta quel lato della nuova
cultura che si volge alla pratica della vita politica•
«Retore», nell'età classica, è ancora la parola con
cui si designa l'uomo politico, che in una democrazia
doveva essere prima di tutto oratore; e questo è il
senso .in cui Gorgia si propone di formare « retori».
Questo proposito Socrate prende a spunto di una di-
scussione sull'essenza della retorica, analoga a quella
del Protagora sull'educazione. Ma l'esame prende una
via un po' diversa. Gorgia non tiene, come Protagora,
una lunga conferenza sulla sua professione e sulla ne-
cessità. sociale di essa; perché su questo argomento
non c'è molto da dire, in linea teoretica. Egli non può

8 ) Che Gorgia non possa ritenersi in senso assoluto il crea-


tore della retorica e nemmeno l'unico che l'abbia importata in
Atene, è stato ben dimostrato da JOBN FINLEY, « Harvard Clas-
sical oStudies», 1939.
902 [II 214] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

definire la propria arte oratoria altrimenti che con la


capacità che le è propria di persuadere gli uomini.
Il tentativo di definirla sulla base di un contenuto
reale specifico, come è possibile per altre discipline che
ugualmente si valgono della. parola come mezzo, non
riesce, perché la retorica è esclusivamente arte della
parola e del discorso, arte che si propone di raggiungere
l'effetto di persuadere col mezzo della forma oratoria •.
Nel Protagora Socrate aveva contestato l'appren-
dihilità della virtù politica, in quanto non esiste per
essa un competente, nel senso in cui ne esistono per
le scienze speciali 4). Ma quello che a Socrate appare
difetto nell'istruzione politica impartita dai Sofisti, e
in particolare nella retorica 5), per Gorgia è invece
la principale e più alta dote di questa. Egli vede una
dimostrazione della grandezza della sua arte, in questa
forza conferita alla pura par9la, che ne fa l'istanza de-
cisiva sul terreno più importante della vita umana,
quello della politica 6). E questa è per Platone la ca-
ratteristica essenziale della retorica: il fatto che l'uomo
che la impersona, non può darne una definizione og-
gettiva, ma sente che I'elemento essenziale di essa è
in un potere da lei conferito a chi la possiede 7). Gorgia
racconta perfino di casi nei quali la parola del retore
è riuscita, con un malato a fargli prendere la medicina,
o a far si che si sottoponesse all'operazione che il com-
petente, il medico, aveva prescritto inutilmente 8).
E quando si tratti, nell'assemblea del popolo o in
qualche altra adunanza pubblica, di decidere chi debba
essere eletto a un posto di comando, in un campo

') Prot. 319 a-d.


6) Gorg. 449 d, 451 a.
8) Gorg. 450 a. 451 d, 454 h.
7) Gorg. 456. a. ss.
8) Gorg. 456 h.
CAP. VI: IL GORGIA (II 215) 903

qualsiasi, non sarà il competente a imporsi, ma l'ora-


tore valente 9). La sua arte è quella che indica a ogni
sorta di intenditori e specialisti il fine a cui debbono
tendere i loro sforzi riuniti, a cui il loro sapere si deve
subordinare. Non sono stati gli architetti o gli inge-
gneri navali, di cui Socrate fa gran conto e che porta
ad esempio, a costruire le fortificazioni e i porti di
Atene, ma Temistocle e Pericle, che hanno persuaso
il popolo a questi lavori, e la potenza di persuadere
l'ha data a loro la retorica 10). Questi sono i fatti evi-
denti che Gorgia addita, quando Socrate si accinge
a misurare la retorica col metro dei suo rigoroso con-
cetto di scienza e la definisce come la facoltà, non di
convincere gli uditori col vero, ma di insinuare in
loro con la parola un vano sembiante di scienza e di
menare a modo loro la massa ignorante con la magia
di questa seducente apparenza ll). E se poi Socrate
vuole, caratterizzando così la retorica, alludere al peri-
colo che si abusi di questa potenza oratoria, Gorgia
gli oppone, come maestro di retorica, che dal fatto
di tali abusi non consegue che si debba condannare
il mezzo di cui si è abusato 12). Se un pugilista adopra
la sua forza a battere suo padre o sua madre o ad as-
salire i suoi amici, non si può, di questo, far respon-
sabile l'allenatore; questi ha dato la sua arte all'al-
lievo per il retto uso. Da biasimare o da punire è solo
colui che perpetra l'abuso.
Con questo, però, è piuttosto dissimulato che ri-
solto un problema che a Socrate sta sommamente a
cuore. Quando Gorgia dice che il maestro di retorica
trasmette la propria arte agli scolari «per il retto

9) Gorg. 456 b 6-c.


10) Gorg. 455 d-e (v. anche b).
11) Gorg. 454 e-455 a.
12) Gorg. 456 d-457 e.
904 [II 216] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

uso» 13), presuppone, a quel che pare, di sapere lui


stesso, il maestro, che cosa sia buono e retto e sup·
pone anche che gli scolari o posseggano già per conto
proprio questo sapere o lo ricevano da lui 14). Gorgia
è disegnato nel dialogo come un vecchio signore che
fa gran conto del decoro borghese, non meno di Pro-
tagora. E come questi, sul principio, si era rifiutato
di concedere a Socrate che « buono» e « piacevole»
fossero la stessa cosa, così ora Gorgia crede di sottrarsi
alla domanda imbarazzante sul fondamento morale
della propria attività di maestro, ammettendo che,
certo, in caso che ciò sia necessario, quando uno sco·
laro non abbia già di suo questa scienza del giusto
e dell'ingiusto, egli può istruido anche in essa 15). Ma
così, naturalmente, egli viene a cadere in contraddi-
zione con ciò che si era affermato sull'abuso che con·
tinuamente si fa della retorica 16). Ecco, però, che, a
liberarlo dall'impiccio, si fa avanti il suo discepolo
Polo, che appartiene a una generazione più giovane e
non si fa tanti scrupoli per dichiarar quello che dopo
tutto ognuno .sa, e cioè che la retorica è indifferente
a questioni morali, e per far notare a Socrate come
egli abbia mancato di tatto nel mettere on vecchio
maestro come Gorgia in un imbarazzo di questo ge·
nere. Secondo questa spregiudicata concezione, re· la
torica tacitamente presuppone che la cosiddetta mo·
rale della comunità umana non sia altro che conven·
zione e apparenza mera, che senza dubbio si deve
mantenere in vita, ma senza lasciarsene sviare nelle
faccende serie 17), quando si tratta di usare senza icru·

18) Gorg. 456 e, 457 c.


14) Gorg. 459 d-e.
16) Gorg. 460 a. Per il modo in cui è caratterizzata la rispetta•
bilità borghese di Protagora v. supra. p. 199, n. 64.
18) Gorg. 460 d.
17) Gorg. 461 b-c, cfr. supra, p. 199, n. 64.
CAP. VI: IL GORGIA [II 217) 905

poli quello strumento di potere che è la retorica. In


questo quadro, nel quale a una generazione anziana -
quella che aveva inventato la retorica - sicura sì della
sua forza, ma ancora inviluppata di qualche pudore e
di moralistico decoro, si contrappone il cosciente, cinico
amoralismo dei più giovani, l'arte superiore di Plat-0ne si
manifesta nella sua facoltà di svolgere dialetticamente
1lÌl, tipo spirituale in tutte le sue forme caratteristiche,
attraverso i piani di una scala di variazioni. Così dallo
svolgersi del tipo del retore in tre forme principali,
il dramma del dialogo trae la sua stessa struttura
e si articola come in tre atti, nei quali, via Via che un
nuovo carattere entra in scena la contesa si fa più
aspra e sempre più si addentra nell'essenziale. Ai carat-
teri di Gorgia e del suo scolaro Polo si aggiunge poi,
terzo e più di tutti consequenziario, tra i rappresentanti
dell'uomo « retorico», Callicle, un uomo della politica
attiva 18), che apertamente proclama, come una morale
superiore, il diritto del più forte. Questi tre tipi for-
mano una climax, in cui la vera essenza della retorica,
grado per grado, si discopre. L'elemento di distinzione
fra i tre è la loro diversa posizione circa il proh!ema
del potere, che resta tutta"'1-a per tutti e tre, tacita-
·-mente o per aperta ammissione, nella esaltazione pu-
ramente teorica o nel pratico sforzo, l'oggetto vero e
proprio di quest'arte.
La critica di Socrate nella seconda parte del Gorgfo
si appunta alla pretesa della retorica .di essere una
teckne 19). Il nostro concetto di « arte» non rende ade-
guatamente il senso della parola greca. Questa ha si
in comune con « arte» la tendenza a significare l'ap-

18) Gorg. 461 b ss.


19) Gorg. 462 b.
906 [Il 218] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

plicazione e la pratica, ma, d'altra parte, in pieno con-


trasto col senso di «individuale», di «libero da regole »
che per noi è insito nella parola «arte», essa accentua
proprio il momento del fondato sapere e della capa-
cità, quel momento che per noi si lega piuttosto col
concetto di «mestiere» o «professione». La parola
techne ha in greco un'estensione molto più vasta che
la nostra parola «arte». Per essa si pensa a una qua-
lunque at.tività professionale fondata su un sapere
specializzato, cioè, non solo a pittura, scultura, archi-
tettura e musica, ma anche, e anche di più, ad· arte
sanitaria, arte della guerra e perfino all'arte p. es. del
nocchiero. E, giacché la parola esprime che quella
tal consuetudine o attività pratica non poggia solo su
una routine, ma su regole generali e su cognizioni si-
cure, essa arriva facil~ente al. significato di «teoria»,
significato che ha correntemente nella terminologia filo-
sofica di Platone e di Aristotele, specialmente là dove
si tratta di contrapporla alla pura empiria o « pra-
tica» 20). D'altra parte, techne si distingue da epistème,
la «scienza pura», in quanto la teoria della techne è
pensata sempre in servigio di una praxis 21).
Quando, dunque, Socrate domanda a Polo che cosa
sia la retorica, egli ha in mente di applicare ad essa
questo concetto di arte e su esso misurarla. Già dal
Protagora si sa che è questo l'ideale di scienza del So-
crate platonico, nella sua ricerca di norme dell'azione
umana, giacché là il concetto del ben vivere e la possi-
bilità della sua attuazione erano stati collegati all'esi-
stenza di un'« arte della misura» di fronte alla quale

:IO) Aristotele, Met. A 1, 981 a 5, intende per techne una sorta


di conoscenza congetturale (ux6À7)q1L<;) venutasi a formare in se-
guito a molteplici osservazioni dell'esperienza.
21) La techne ha in comune con l'empiria il carattere pratico.
Cfr. Arist. loc. cit., 981 a 12.
CAP. VI: IL GORGIA [II219] 907

l'educazione politica di Protagora era apparsa priva


a Socrate del rigoroso carattere di techne 22). E vi sono
anche altri dialoghi socratici di Platone in cui la techne
appare criterio e modello delle ricerche socratiche di
che cosa sia scienza; il che, del resto, si comprende
bene da chi non perda di vista che lo scopo ultimo
di questa ricerca di un sapere esatto è, per Platone,
uno scopo pratico e, precisamente, è la scienza dello
stato 23). Talvolta, se il contesto vi si presti, può com-
parire in Platone, al posto di techne, la parola episteme,
quando si debba specialmente rilevare che questa scienza
politica è fondata su una intera teoria dell'essere. Ma
qui, nel caso che c'interessa, dove si tratta di chiarire
il carattere di questa nuova scienza politica, metten-
dola in contrasto con la contemporanea retorica, an-
ch'essa pQlitica, il concetto di techne si offre da sé
come termine di paragone.
Socrate nega assolutamente alla retorica il carattere
di techne e la definisce come una pura empirìa, tutta
fondata sulla pratica e volta a produrre nei più gradi-
mento e piacere. Ma, se cosi è, in che cosa mai essa
differisce dalla cucina, che, anch'essa, è volta a otte-
nere il gradimento altrui, producendo piacere ? 24) E So-
crate si fa a spiegare allo stupefatto Polo, che tutte
e due, la retorica e la cucina, non sono che rami diversi
della stessa identica faccenda. Anche la cucina difatti
non è un'arte, ma solo un'abilità prodotta dalla pra-

22 ) Dell'arte della misura si tratta in Prot. 356 d-357 b. E con


questa trattazione si ribatte la pretesa di Protagora (319 a) che
la sua paideia sia «l'arte politica».
23) Cfr. la dissertazione di laurea, il cui tema fu da me sugge-

rito, di F. }EFFRÉ, Der Begriff der Techne bei Plafo (1922). Non è
stampata: il manoscritto si trova alla Biblioteca Universitaria
di Kiel.
24) Gorg. 462 b-d.
908 [11220] LIBRO 111 - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tica. Ma il colmo dell'umoristico si raggiunge quando


Socrate indica, come concetto più comprensivo sotto
cui sussumere le due così diverse attività, l'adulazione,
e procede poi a distinguere sistematicamente, dentro
questo genere così importante, le varie specie di cui
esso si compone. Egli divide, così, l'adulazione, fon-
dandosi sugli oggetti di essa, in quattro specie, sofistica,
retorica, cosmetica, e cucina 25). Il rapporto scambie-
vole di queste quatiro specie si fa immediatamente
chiaro nell'istante in cui Socrate designa la retorica
politica, come la falsa immagine di un'arte vera,
la quale, a sua volta è una parte della vera arte
dello stato 26). Anche le tre altre specie dell'adulazione
si svelano ora come false immagini di arti vere e neces-
sarie alla vita degli uomini. Come la vita umana si
articola in quella dell'anima e ~ quella del corpo,
cosi per ciascuna di queste sezioni occorre un'arte spe-
ciale, la cura dell'anima e la cura del corpo. La cura
dell'anima appartiene alla politica o arte dello stato
(questa per noi inaspettata correlazione getta un raggio.
di luce sullo scopo finale di Platone, l'arte dello stato,
e sul senso del tutto nuovo che egli associa a questa
parola) mentre l'arte della. cura del corpo non ha un
nome corrispondente. Tutte e due queste arti, la cura
del corpo e quella dell'anima si dividono a loro volta
ciascuna in due specie subordinate, delle quali l'una
cura l'anima sana e rispettivamente il corpo sano,
l'altra l'anima malata e rispettivamente il corpo ma-
lato. La branca della politica che serve all'anima sana
è la legislazione; l'anima malata, invece, è l'oggetto
del diritto applicato, della giustizia. Là cura del corpo
sano è affare della ginnastica, quella del corpo malato,
della medicina. Tutte e quattro le arti servono al bene
21i) Gorg. 463 b.
26 ) Gorg. 463 d.
CAP. VI: IL GORGIA [II 221] 909

e alla conservazione dell'anima e del corpo 27). Ad esse


corrispondono, come parti dell'adulazione, quattro im·
magini contraffatte: alla legislazione la sofistica, alla
giustizia la retorica, alla ginnastica la cosmetica e alla
medicina la cucina. Tutte queste non servono il bene
dell'uomo, ma solo si adoperano a procurargli piacere.
Pe.r ciò esse tutte procedono da una pura pratica empi·
rica e non, come le arti vere, da saldi principi e dalla
conoscenza di ciò che è salutare alla natura dell'uomo 28).
Con ciò è fissato il posto della retorica; essa è per l'anima
quello che la cucina è per il corpo. Dal paragone delle
false immagini con le arti vere risulta, in pari tempo,
che la retorica non è una techne 29). Giacché le note es·
senziali del concetto di techne si vedono essere le se-
guenti: in primo luogo, che essa è un sapere fondato
sulla conoscenza della vera natura del suo oggetto,
in secondo che essa è capace di render- conto della sua
azione, in quanto possiede la conoscenza di ciò per cui
agisce, e infine che essa serve al bene del suo oggetto 30) :
nessuna di queste note conviene all'eloquenza politica.
Nel Protagora il paradosso della dialettica socra-
tica si dispiegava nei suoi aspetti di serena gaiezza;

27) Gorg. 464 a-e 5.


28) Gorg. 464 e 5-d.
29) Gorg. 464 d, 465 b-d.
80) Gorg. 465 a. Qui Platone in breve tira le fila di tutta la
sua analisi del concetto di techne. Un li.Àoyov 1tp0éyµa; non ha di-
ritto a questo nome. È importante non perdere di vista, in questa
fissazione dei connotati essenziali di una techne, l'elemento per
cui una techne mira al Bene, cioè si riferisce a un valore e, in ul·
lima analisi, al più alto di tutti i valori. Essa opera per la rea-
lizzazione del più alto valore in quel campo della r~altà a cui la
sua attività è rivolta. Per questa analisi della natura di una vera
techne, il modello platonico è la medicina. Cfr. 464 a, d. Dalla me-
dicina è preso il concetto di terapia e l'immagine del tendere (a't'o-
;cci~e:a.S-a;L) al Bene, come pure la definizione di questo «bene»
come benessere o «buona disposizione» (e:ue:~Ca:). Cfr. qui sopra.
L'-« arte politica», scopo di quella nuova filosofia e cultura di cui
si va in cerca, è concepita coine medicina dell'anima.
910 [rr222] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

qui esso si rivela in tutta la sua serietà. Esso non è


di quel genere ·soltanto brillante che tende ad abba-
gliare con affermazioni sorprendenti come fuoco d' ar-
tificio che s'innalza d'un tratto, magnifico, e d'un tratto
anche si spenge; e ciò anche se Socrate si rende ben
conto dell'effetto psicologico stimolante, eccitante alla
contraddizione, che si ottiene con lenunciare l'inaspet-
tato, ciò che è opposto alla esperienza comune. Molto
più profondo è il vero motivo del suo paradosso, ed è
di eccitare alla riflessione filosofica 31). È vero, la realtà
di fatto non cambia, per questo paragone socratico
della retorica con la cucina, per cui, questa signora
incontrastata della vita politica del tempo, sembra
scendere dal suo trono e degradarsi a un rango servile;
ma il pregio che a questa realtà si dava, subisce
una crisi i cui effetti si propagano all'intero mondo
delle nostre idee. Il paragone socratico non nasce dal
desiderio di pungere o di ferire. Esso è ciò che ve-
ramente e realmente si presenta a un occhio di veg-
gente per il quale la gerarchia delle cose è ben di-
versa da quel che appare alla visione esteriore della
folla. È come se essere e apparenza si staccassero
nettamente l'un dall'altro e da questo punto in poi
una nuova maniera di valutazione di tutti i beni
umani s1 nnponesse. La cultura politica dei Sofisti
sta all'educazione dei vero legislatore, come ta cosme-

ai) Il paradosso è il mezzo principale di espressione filosofica


in Platone. Di questo si accorge già chiaramente il suo contem-
poraneo Isocrate, con qliel fine senso che gli è proprio dell'indole
e dell'effetto di ogni forma artistica. Credo infatti di poter dimo·
strare ( « Paideia» III 114 ss. ), ed è cosa già osservata da altri, che
Isocrate nell'EZelUI (1-3) pensa soprattutto a Platone. È interes-
sante vedere come Isocrate cerchi di intendere questo fenomeno
ponendolo sullo sfondo della filosofia greca più antica e di additare
in esso un difetto generale e permanente di ogni filosofia. Certa-
mente però egli non vede chiaramente la ragione essenziale del
fatto.
CAP. VI: IL GORGIA [II223] 911

tica e i suoi belletti stanno alla bellezza di un corpo


sano formato dall'esercizio della ginnastica, e la reto-
rica, che si adopera a mettere il torto al posto della
ragione, sta agli atti del vero giudice e uomo politico
come le ricette di intingoli e di pasticci di un cuoco
raffinato stanno alle norme e prescrizioni salutari del
medico 32). L'arte dello stato che qui ci si presenta è
enormemente lontana da tutto quello che il mondo
suol concepire sotto questo nome. Già fin da ora, la
costituzione di uno stato e il dare a esso le leggi, quello
che Platone farà nelle due maggiori sue opere, si annun-
ziano come ·i due grandi compiti positivi della socra-
tica « cura· dell'anima» 33). Seppure ancora non si scor-
gono tutte le conseguenze radicali del nuovo concetto,
si sente però che i segni, ai quali lo riconosciamo,
accennano a una trasformazione totale della dominante
visione della vita. E, difatti, proprio ·come « un sov-
vertimento di tutta la nostra vita» è, anche in questo
dialògo, .designato da Callicle, e come tale respinto 34),
il rovesciamento di valori operato da Socrate. Sono
appunto i pensieri svolti da Socrate nel precedente
dialogo con .Polo,· a provocare l'appassionata irruzione
di Callicle con la quale si inizia la terza parte.
L'obiezione più ovvia e più forte mossa da Polo
a Socrate per il poco conto che egli fa della retorica
è che, di fatto, essa esercita una potenza enorme nella
vita politica 35). La tendenza al potere è passione troppo

32) Gorg. 465 c.


33) Cfr. supra, p. 60 ss.
34) Gorg. 481 c «Se tu (scil. Socrate) parli sul serio e quel
che dici è vero, che altro si deve dire se non che la vita di noi
uomini è sovvertita, e che noi facciamo, evidentemente, tutto
l'opposto di quel che dovremmo fare?».
35) Gorg. 466 b ss. Gorgia aveva già rilevato la capacità della
retorica di dare una potenza in mano a quelli che la conoscono:
451 d., 452 d, 456 a ss. •
912 [rr224] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

profondamente radicata nella natura umana, perché


si possa passarci sopra con tanta facilità; e se vera-
mente il potere è gran cosa, ne consegue che anche
la forza o facoltà con la quale il potere si ottiene· viene
ad assumere importanza altissima. Per tal modo il
problema, a prima vista puramente interno alla scienza
e in essa limitato, se la retorica possegga o no un con·
tenuto di esatta conoscenza di valori, si fa grave di de-
cisioni di vasta portata. Infatti, ci costringe a pren-
der posizione nel problema sulla natura e valore del
potere. In questo problema la posizione di Polo non
è diversa da quella della folla : il che è notabile
qui come nel Protagora, dove già si osservò la tendenza
platonica a mostrare come sofisti e retori, per quanto
abbiano condotto ad alta raffinatezza i mezzi tecnici
di istruire' gli uomini e di influire su essi, sono estrema·
mente primitivi nel rappresentarsi il fine a cui in·
dirizzare i loro sforzi 36). Il modo di concepire questo
fine dipende per Platone dall'idea che ci si fa della
natura umana. E questa idea, implicita e praticamente
presupposta dai grandi signori · della retorica, è che
l'uomo 'sia tutto senso e passione. Il sogno più alto
di costoro è di poter fare coi loro compagni di umanità
assolutamente tutto quel che loro talenta. Sebbene
agiscano, per lo più, in stati democratici, il loro ideale
è sempre lo stesso di quello del tiranno che esercita
un potere illimitato sulla vita e sulla morte dei suoi
concittadini 37). Anche il più piccolo dei cittadini ha
m sé qualche traccia di questa brama di potere ed è

S6) Cfr, supra, pp. 207-208.


87) In Gorg. 466 b 11 ss. è data da Polo questa definizione del
concetto di « potenza» che Socrate confuta. La parola greca per
questo concetto era lìuvixµL<; (IJ.éya: Mva:a.&a:L), cfr. 466 b 4, d 6,
467 a 8, 469 d 2. Nella Repubblica Platone contrappone potenza
e ragione, dynamis e phr6nesis. Dynamis è forza in senso fisico,
kratos forza in senso legale, di diritto pubblico.
CAP. VI: IL GORGIA [u 225] 913

compreso di celata ammirazione per colui che sa ele-


varsi a questo altissimo gradino del potere 38). Il fale-
gname filosofo di Archiloco, che messosi una mano
sul cuore, dice a se stesso: «non bramo la potenza
dei tiranni», è evidentemente la singolarissima eccezione
che conferma la regola 39). Quando Solone, condotta a
termine la sua opera di legislatore, rimette nelle mani
del popolo i pieni poteri, dice nella sua autodifesa
che non solo i nobili della sua stessa classe, affamati
di potere, ma anche il popolo sospiroso di libertà lo
giudica stupido, e non riesce a capire perché mai egli
non si sia fatto tiranno 40). Questa è anche lopinione
di Polo che si rifiuta di credere, che Socrate non giu-
dichi desiderabile la potenza del tiranno 41). Quando
proprio Polo non sa più che dire, ricorre, come a ultima
istanza, a domandare se Socrate non creda felice,
almeno, il re dei Persiani. «Non lo so» risponde So-
crate, «perché non so come sta il re dei Persiani, in
fatto di giustizia e di formazione spirituale» (paideia}.
E Polo, allora, esce nella domanda stupefatta di chi
non capisce: « Ma come ? Tutta la felicità consiste in
questo ? » 42 ).
I concetti di paideia e di potenza sono, dunque,
recisamente contrapposti, in questo scontro di due
visioni della vita diametralmente contrarie: e non
sen~a ragione. A prima vista essi non hanno molto
da spartire l'uno con l'altro~ ma, come si rivela in
questo luogo essi rappresentano per Platone due con-
cezioni opposte della felicità umana; che è quanto

38) Platone esprime ripetutamente questo pensiero: cfr. Gorg.


466 b 11, d 7, 467 a 8, 469 e 3, d 2, etc.
3 9 ) Archil. fr. 22 Diehl. Cfr. vol. I, p. 238.
40) Sol. fr. 23 Diehl.
41) Gorg. 469 c.
42 ) Gorg. 470 e.
914 [11226] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

dire della natura umana. L'uomo deve fare una scelta


decisiva tra la filosofia della potenza e la filosofia del-
1' educazione. Il passo è particolarmente adatto al chia-
rimento di ciò che Platone intende per paideia. Non è,
essa, soltanto stadio di transizione nello sviluppo del-
l'uomo, in cllj. vengano formate certe facoltà del suo
spirito 43), ma la sua importanza si estende fino ad espri-
mere la perfezione dell'uomo, in assoluto, conforme alla
sua natura. Quanto alla filosofia della potenza, essa è
una dottrina della violenza. Essa vede per ogni dove,
nella natura e nella vita umana, lotta e oppressione
e ciò le basta per dare alla violenza la sua sanzione.
Il suo principio essenziale può consistere solo nel rag-
giungimento della più grande potenza possibile"). Di
contro, la filosofia dell'educazione, pone all'uomo un
altro fine, la kalokagathia. La sua natura è definita
da Platone mediante l'opposizione ad ingiustizia e mal-
vagità, quindi essa è concepita in maniera essenzial-
mente etica 45). Ma il formarsi. alla kalokagathia non gli
pare affatto uno sforzo contro la natura, bensì corri-
sponde a una diversa concezione della natura, che So-
crate svolge minutamente. Con ciò si chiarisce il fon-
damento della ·sua critica alla retorica. Per questa
concezione, il vero senso della natura umana non è la
violenza, ma la cultura, la paideia.
Se si definisse la filosofia della violenza come na-
turalismo, come sarebbe ovvio dal punto di vista cri-

48) Questo punto è rilevato in maniera particolarmente espli-


cita in Resp. 498 a ss.
44) Ciò si trova espresso con la più spregiudicata franchezza
nel discorso dei delegati ateniesi agli abitanti della piccola Melos,
per costringerla a uscire dalla neutralità: Thuc. V 104·105; cfr.
voi. I, p. 671 ss. Qualcosa di simile nel discorso del messo ateniese
a Sparta: Thuc. I 75-76, efr. voL I, p. 664.
'5) Gorg. 470 e 9.
CAP. VI: IL GORGIA [rr227] 915

stiano, noi le faremmo, secondo Platone, troppo onore 46).


Sarebbe in.concepibile per un pensatore greco il porsi
~ontro la natura che per lui costituisce la norma e la
direzione suprema. Ma anche quando si dicesse che
nelle più elevate concezioni dei Greci il compito della
educazione è, non di piegare la natura, ma di nobi-
litarla, non si coglierebbe, neppure con questa inter-
pretazione, il significato che Platone ha in mente.
Per lui la natura non è, come per la pedagogia dei So-
fisti, la materia grezza da cui l'opera d'arte dell'edu-
cazione debba essere estràtta e formata 47), ma anzi solo
in lei si ravvisa la perfezione dell'areté, che, negli in-
dividui umani, si riscontra sempre incompleta 48). Anche
rispetto alla potenza, l'atteggiamento di Platone non è
quello di chi senz'altro la condanna come cosa malva-
gia. Anche in questo caso la dialettica platonica esa-
mina dall'interno il concetto sottoposto alla sua critica,
e, mentre lo trasforma, pur ne coglie l'aspetto positivo
e il valore. Polo intende per potenza la facoltà dell'ora-
tore politico, o di colui che ha la forza, di fare tutto
quel che gli pare e piace in uno stato 49). Ebbene: So-
crate parte dall'affermare che, se l'uomo deve mirare
alla potenza, bisogna che essa sia· un bene; ora il fare
ciò che talenta, sia l'oratore politico a farlo o il tiranno,

") Sarebbe però falso storicamente identificare senz'altro il


punto di vista cristiano, che si esprime in tante differenti forme
e aspetti, con questa concezione che abbassa e tiene a vile la« na-
tura» dell'uomo.
'7) Cfr. voi. I, p. 537 s.
'8) Citare tutti i luoghi in proposito ci porterebbe troppo lon-
tano. Il luogo fondamentale per l'identificazione platonica di areté
con ciò che è conforme alla natura umana (xocTIÌ <pucrtv) e di mal-
vagità con ciò che è contro natura (1tocp1Ì <pucr~v) è Resp. 444 c-e.
L'areté è la salute dell'anima; quindi è lo stato normale, la vera
e propria natura dell'uomo. In ciò lelemento decisivo è il concetto
di indole medica, che la natura è una realtà che porta in sé la
propria norma.
49) Gorg. 466 c.
916 [11228] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

bene non è, perché è cosa che si fa senza l'intervento


della ragione 00). Socrate, infatti, distingue tra il desi-
derare, arbitrario, e il volere. Chi fa solo quel che gli
talenta, va dietro un simulacro di bene, che è l'oggetto
del suo desiderio; mentre l'oggetto del volere può
essere solo un bene vero. Giacché, mentre il concetto
del « desiderare» ammette che ci si possa illudere sul
valore dell'oggetto, nessuno può, scientemente, «vo-
lere» ciò che è cattivo e dannoso. Socrate distingue inol-
tre tra fine e mezzo 51). Chi agisce non vuole quello che
fa, ma quello per cni lo fa. Ma questo fine è, per na-
tura, il buono e salutare, non il cattivo e dannoso.
Condanne a morte, esilii, confische di beni, gli atti
cioè in cui principalmente si manifesta il potere di chi
dispone della forza, non possono essere che mezzi,
non fine, e noi non li possiamo «volere» nel pieno
senso della parola, se essi non importano un bene, ma
sono dannosi. Perciò chi, a suo arbitrio, condanna,
bandisce e confisca, non fa quel che vuole, ma solo
quello che gli appare desiderabile. Se dunque il potere
è un bene per colui che lo possiede, il dominatore tiran-
nico non ha un vero potere 52 ). Anzi, egli è del tutto
infelice, se è vero che la felicità vera (eudaimonia) con-
siste nella pienezza della natura umana e del valore
che le è proprio. E più infelice ancora è l'uomo ingiusto
se, per l'ingiustizia commessa, rimane impunito 53). Ché
l'ingiustizia è uno stato morboso dell'anima, come la
giustizia è la salute di lei. La giustizia punitiva che

60) Per ciò che segue cfr. Gorg. 466 b ss. e specialmente 467 a
61) Gorg. 467 c 5-468 c.
62) Un simile trasferimento sul piano morale del concetto di
potenza e di tendenza alla potenza, lo troviamo in Isocrate, nel
Di.3curso per la Pace, 33 (cfr. « Paideia» III 260 s.). È miele-
mento che deriva, come, del resto, tutto il contesto di cui fa
parte (31-35), dal Gorgia e dalla Repubblica.
68) Gorg. 472 e.
CAP. Vi: IL GORGIA [n 229] 917

chiama il delinquente al rendimento di conti, nella


concezione platonica dell'arte di governo, ispirata dalla
medicina, sta alla legislazione, come la cura del ma-
lato sta alla dieta del sano. La pena è cura o rimedio,
non compensazione come voleva l'antica concezione
giuridica greca 54). L'unico vero male è l'ingiustizia;
ma essa colpisce solo l'anima di colui che la commette,
non quella di chi la patisce 55). Perciò a coloro che affer-
mano essere il potere necessario in quanto serve a
«proteggerci contro l'ingiustizia», Socrate oppone nel
Gorgia, la teoria, inaudita per i Greci, che patire in-
.giustizia è minor male che commetterla.
La sconfitta di Polo è la sconfitta di Gorgia: ché
Polo è entrato nella disputa in soccorso del maestro
e ne rappresenta la causa con più disinvoltura di quella
che a Gorgia sarebbe sembrata conveniente. Qui non
è possibile seguire Platone nei particolari della sua
costruzione dialettica, e solo si può, a grandi linee~
profilare il procedimento di pensiero che egli fa esporre
a Socrate con tanta agilità mentale e calore di pas-
sione etica. Già durante la discussione con Polo, So•
crate manifesta l'impressione - ed è lineamento fon-
damentale, che Platone vuole ·resti impresso nel let-
tore, del. ritratto da lui fatto degli avversari - che i
Sofisti siano, si; sufficientemente armati in retorica, ma
deficienti del tutto in dialettica 56). Questa, che è larte
socratica, viene cosi ad apparire come la forma più

64) Cfr. Prot. 324 a-b, dove è detto che già nell'età dei Sofisti
era stato abbandonato l'antico concetto della pena come com-
penso alla colpa ('i:òv 8p&crocv't"<X rr<X.&dv) e la pena si concepiva
ormai come mezzo di educazione (teoria penale teleologica, non
più causale). Platone atteggia questa teoria in armonia con la
sua concezione d'ispirazione medica, e concepisce la pena come
cura risanatrice.
65) Gorg. 477 a ss.
&&) Gorg. 471 d 4.
918 [rr230] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

elevata della paideia. Al suo assalto concentrato, la


tecnica di combattimento della retorica, abituata a
vincere dinanzi alla massa con la sua capacità di stor-
dire, non tiene testa. E non soltanto le fa difetto l'acu-
tezza logica e la scioltezza operativa data dal metodo, ma
- ed è la manchevolezza più grave - non c'è dietro
le sue parole alcun sapere obiettivo, alcuna salda filo-
sofia o concetto della vita, non c'è un'esigenza morale
che l'animi, ma solo i motivi dell'amor proprio, della
brama di successo, della mancanza di scrupoli.
Però, prima che la sconfitta della retorica si possa
ritenere definitiva, e perché possa convincerci vera-
mente, la sua causa deve esser difesa da nn campione
più forte. Ed è, questi che ora entra in campo, Callicle,
oratore consumato ormai, che per di più può contare
su una certa cultura filosofi.ca e su un'esperienza di
politica attiva. Anche come vigore di personalità, egli
supera di molto i due retori, uomini di scuola in fondo,
fin qui disegnati, così il maestro come il discepolo.
Egli fa la sua entrata, deciso a metter fuori combat·
timento l'arte cavillosa di Socrate. Dalla difensiva,
da cui i due predecessori non avevano osato uscire,
egli passa all'attacco. Quella rete di motivi dialettici,
di cui Socrate ha avviluppato gli avversari, egli cerca
di rimuoverla, disposto anche a strapparla di forza,
perché altrimenti anche lui stesso ci si troverebbe un
po' impigliato. E si prende, brusco, la parola, per un
discorso lungo, il terreno su cui si sente sicuro 57). La
sua forza è tutta di vitalità, non di finezza intellettuale.
Accortosi, con orrore, che Socrate, con la sua ben nota
quasi vertiginosa rapidità mette al segno, un dopo
l'altro, i colpi dei suoi paradossi - che per lui non sono

57) Gorg. 481 b-c.


CAP. VI: IL GORGIA [ll 231] 919

altro che trucchi eristici - Callicle lascia la sua parte


di ascoltatore e si accinge a folgorarlo d'un colpo solo.
Alla profonda stringente convinzione etica con la
quale Socrate è riuscito a paralizzare ·moralmente i di-
fensori della retorica, egli non si limita a opporre argo-
menti, come avevano fatto i suoi predecessori, retori e
maestri di scuola. Uomo della vita attiva, egli, per la
prima volta, prende di mira l'intera personalità del
sno avversario. Egli vede quel che i dne precedenti
difensori non avevano visto, cioè che a forza di Socrate
consiste nellà solidità, nell'immunità da contraddizioni,
del suo atteggiamento interiore. Durante tutta la vita
Socrate si è costruito come un baluardo spirituale, ed è
questo che 10 protegge ora, nelle sortite e negli assalti.
Ma quello che, dal punto di vista logico, è il suo vantag-
gio, è anche, secondo Callicle, la sna rovina, se il suo pen-
siero, di tanta apparente consequenzialità, si commi-
sura all'esperienza reale. Socrate, durante tutta la vita,
si è sottratto a questa esperienza e si è ritirato nella
pace di un angolo appartato, in sommesso colloquio
con pochi zelanti ammiratori 58} a intessere una sua
rete di sogni, nella quale ora vorrebbe avvolgere tutto
il mondo. Ma la rete si strappa appena è portata in
piena luce e trattata con mano da uomo. Si scorge
chiaro in questa rappresentazione che Platone, assa-
lendo la retorica, questa potenza di primo piano nella
vita spirituale del tempo, sa perfettamente che non si
tratta soltanto di un combattimento contro i profes-
sori che della retorica fanno il loro interesse; egli pre-
vede anche l'ostilità del ben radicato realismo attico,
contro l'ipertrofia, la fioritura esuberante della nuova
cultura 59). Anche la retorica, certo, ne faceva parte,

58) Gorg. 485 d-e.


69 ) È caratteristica per l'opposizione di tutto un settore vec-
chio stile ·della cittadinanza ateniese contro la cultura sofistica,
920 [rr232] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

ma essa si era imposta più presto deg i e ementi pu-


ramente teoretici rappresentat dalla sofistica e dalla
Socratica, ed era penetrata a fondo nella pratica della
vita politica. L'intervento di Callicle mostra che la re-
torica ha ormai dalla sua tutti gli uomini politici e
cittadini che scorgono il vero e grande pericolo nel
crescente estraniarsi dalla vita della cultura superiore.
Già Euripide nella Antiope aveva portato sulla scena,
facendone un problema tragico, il conflitto degli uomini
d'azione e di pensiero. Callicle cita ripetutamente versi
di questo dramma 60) e riconosce con ciò il carattere
tragico del conflitto che ora divide lui e Socrate. Egli
sente della propria razza il personaggio euripideo . di
Zeto, l'uomo di azione che tenta di risvegliare il fratello
Anfìone, l'amico del'e Muse, da un'esistenza di sogna-
tore ozioso ·a una vita ad occhi aperti, da uomo d'azione.
Platone ha vigor~samente incarnato nella figura
di Callicle questa ostilità contro la :filosofia che fu
molto diffusa. A quel che Socrate accenna nel dialogo,
più di una volta Callicle, in un crocchio di amici, tutti
noti uomini politici ateniesi, aveva esaminato la que-
stione dei :imiti nei quali convenisse contenere questa
moderna cultura filosofica. e Socrate era stato testi-
mone delle conversazioni 61). Una risonanza del pro-

opposizione ritratta anche dai comici, la :figura di Anito, alla :fine


del Menone. Questi fu tra gli accusatori di Socrate, il quale si di-
fende nell'Apologia, dall'esser messo in un fascio coi Sofisti.
SO) Gorg. 484 e, 485 e-486 c.
61) Gorg. 487 c. Socrate localizza questa discussione sulla pai-
deia, di valore schiettamente politico, in una cerchia di persone che
crede di poter caratterizzare coi nomi di tre noti cittadini ate-
niesi. Androne figlio di Androzione fu nel 411 membro dei Quat-
trocento, che attuarono il colpo di stato oligarchico. Platone lo
nomina come scolaro di Protagora: Prot. 315 c. Suo :figlio Andro-
zione è l'uomo politico oligarchico e scrittore di storia, noto spe-
cialmente per il discorso contro di lui pronunziato da Demostene.
Su Nausicide di Colargo e Tisandro di Afidna non si sa niente;
CAP. VI: IL GORGIA [11233] 921

blema si sente anche nell' Epitafio di Pericle, dove que-


sti loda il favore di cui gode la cultura nello stato ate-
niese, ma segna, cauto, il confine all'amore di quella,
certo nell'intenzione di giustificarsi con l'opposizione.,
solita a scorgere un danno politico nel troppo d'intel-
ligenza della vita ateniese 62). Il problema era stato
sollevato dalla sofistica, ma sembrò prendere nuova
urgenza di fronte a Socrate, tanto più quanto si faceva
p".ù manifesto che questi aveva sul e opinioni politiche
della gioventù un'influenza assai più diretta dei puri
teorici politici della sofistica.
Durante la vita di Platone, dopo la morte di So-
crate, quest,a reazione realistica contro la pretesa estra-
ne:tà -alla vita della filosofia socratica, la vediamo rap-
presentata da Isocrate e dal suo ideale di cultura,
fino a costituire il fondamento della scuola di !ui 63).
Ma le parole più forti che siano state prestate a que-
sta reazione sono proprio guelle che Platone stesso
le ha dato. Egli dové vera~ente addentrarsi :n que -
l'atteggiamento di pensiero e viverlo, per potere ri-
trarlo con quella verità cosl persuasiva, con quel a
forza cm;~ avvincente, a cui giunge nel Gorgia il suo
personaggio Callicle. Certamente Platone aveva sen-
tito fin dalla giovinez~a, nella stretta cerchia dei fa-
miliari e degli amici, formulare critiche di questa sorta.
Si è parecchie volte fatta 'ipotesi che dietro il nome
di Callicle si celi una personalità storica determinata,
dell'alta società attica di quel tempo; e ciò è po~si-

però sui discendenti del primo di questi due ci sono testimonianze


come di ricchi cittadini (cfr. KIRCHNEB-KDEBS, Prosop. Att., II,
113-114).
62) Thuc. II 40, 1 (cfr. vol. 1, p. 545).
68) Sul suo scritto programmatico, Contro i Sofisti, cfr. « Pai-
deia» III 94 ss.
922 [u234] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

bile e perfino verosimile psicologicamente 64). Ma quello


che importa e basta è il dover sentire che Platone ha
posto un certo amore. nel disegnare l'avversario. og-
getto del suo attacco appassionato, e che si è messo
con tutte le forze a cercar di capirlo, prima di an-
nientarlo. Forse non si è pensato abbastanza alla pos-
sibilità che Platone abbia avuto nel suo carattere una
buona dose di questa indomabile volontà di potenza
e che in Callicle egli abbia saputo cogliere una parte
di se stesso. Questa parte noi non la vediamo più,
sepolta com'è sotto le fondamenta della repubblica
platonica. Ma, se Platone fosse stato per natura proprio
e soltanto un altro Socrate, questi non avrebbe potuto
agire su lui in maniera cosi decisiva e soverchiante.
I ritratti dei grandi sofisti retori e uomini di stato, che
Platone disegna con animo cosi congeniale, dicono ben
chiaro che egli portava nella sua anima tutte quelle
energie, con le loro attrattive affascinanti e coi loro
rischi terribili, ma disciplinate e costrette da Socrate,
esse si fusero nell'opera di Platone, come avvenne per
la sua natura di poeta, in una superiore unità con lo
@pirito socratico, e per esso si fecero operanti.
Callicle è, nel dialogo, il primo dei difensori della
retorica che contrapponga all'assalto socratico mosso
tutto da valori etici, una passione energica, tutta realtà
viva. Egli, quindi, riprende la discussione sulla retorica
come strumento della volontà di· potenza, che Sc;1crate
aveva portata, .a proprio favore, stil terreno etico, con
la sua interpretazione dialettica del concetto di po-

64 ) Platone si dà cura di individualizzare il suo Callicle non


solo con la sua arte di ritrattista, ma anche in quanto lo descrive
appartenente a quella cerchia di notabili ateniesi di cui si è fatta
più precisa menzione di sopra (cfr. n. 61). Callicle, sia egli perso-
'naggio reale o pseudonimo, ha per lo meno tanta consistenza
storica quanta ne ha l' Anito nemico di Socrate e avversario dei
Sofisti nel Men.one.
CAP. VI: IL GORGIA [II 235] 923

tenza 65). A differenza di Polo, Callicle non pone in-


genuamente, come dato evidente, che il fine di tutti
gli uomini sia il potere, l'influire sugli altri, ma egli
cerca per il potere un fondamento più profondo e più
saldo, derivandolo dalla natura stessa, che è sempre,
per il modo greco di pensare, la fonte di ogni norma
dell'azione umana 66). Prese le mosse dalla distinzione
sofistica della giustizia che è tale per convenzione e
legge, e di quella che lo è per natura 67), egli rimprovera
a Socrate di usare indifferentemente, secondo che gli
torna comodo, ora l'uno ora l'altro di questi dne SÌ·
gnificati del concetto di gi.ustizia e di metter cosi i
suoi interlocutori nella condizione di doversi contrad·
dire. Secondo natura, pensa Callicle, è vergognoso ogni
danno grave e perciò il patire ingiustizia, secondo legge,
il fare ingiustizia. Il patire ingiustizia egli lo rigetta
come non virile e da schi~vo; ché lo schiavo non può
« dare aiuto a se stesso». Questo « aiutar se stesso» è
per Callicle il carattere distintivo del vero uomo e di-
viene, in qualche modo, una specie di giustificazione
etica della volontà di potenza, in quanto, per lui, le
condizioni naturali e primitive dell'uomo seguitano in
qualche modo a verificarsi fin nel presente es).
Ma laddove nelle condizioni naturali, il forte si fa
valere usando la propria forza, ecco che la legge crea
condizioni artificiali, dalle quali il forte è impedito
nel libero esercizio di questa sua facoltà. Giacché le
leggi son fatte dalla maggioranza, cioè dai deboli, i

65) Cfr. supra, p. 225 ss.


86) In questo caso la natura e la sua legge prendono il posto
del Divino, da cui in origine si era stati soliti di dedurre ogni po•
tere e ogni legge umana. Cfr. vol I, p. 552.
67) Gorg. 482 e.
88) Per colui che non è capace di« aiutare se stesso» (ct1h·òç
ct>'.iTé{> ~O'IJ.&e:i:v), quando gli vien fatto torto, meglio sarebbe mo·
rire. Cfr. Gorg. ·483 b. Si vede poi, 485 c 5, che la capacità del forte
di difendere se stesso è per Callicle l'essenza della libertà.
924 [rr236] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVlNO

quali spartiscono lodi e biasimi, secondo l'interesse


proprio. A mezzo della legge sancita dallo stato e
della morale dominante, essi fanno una politica di
continua intimidazione dei forti, tendenti per natura
ad avere di più dei deboli. e vanno dicendo che que-
sta «sopraffazione» (7tM:ove:ç(oc), è ingiusta e turpe.
L'ideale dell'uguaglianza è, infatti, l'ideale della massa,
contenta solo se non c'è nessuno che abbia più d'un
altro 69). E che sia legge di natura la tendenza del più
forte a far uso della sua forza contro il più debole,
Callicle lo prova richiamandosi ad esempi della natura
e della storia 70 ). Certo, la legge degli uomini mette in
catene il forte, cercando di ammansirlo e d'incantarlo
a forza di educazione e di ammaestramento, e impri-
mendogli in mente, per tenerlo basso, gli ideali conce-
piti a vantaggio ~ei deboli: ma che sorga una volta
un uomo forte davvero, e si metterà sotto i piedi
tutto quel ciarpame di parolette che sono le nostre
leggi e le nostre istituzioni innaturali e all'improvviso
rifulgerà di nuovo la scintilla del diritto di natura.
E Callicle prosegue citando il detto di Pindaro, sul
nomos che, re di mortali e d'immortali, fa g i u s t a
con braccio sovrano, la violenza più
dura, come Eracle che rubò l'armento di Gerione
e mostrò così che i beni del debole sono, per natura,
la preda del forte. Callicle dunque intende il nomos del
carme pindarico nel senso della sua «legge di natura» 71).
In questo abbozzo di una dottrina del vivere umano
fondata sulla teoria della lotta per. l'esistenza, l'educa-

69) Gorg. 483 h-e. . -


70) Gorg. 483 c 8-d. L'~empio preso dall'esperienza ha ormai
sostituito, nei procedimenti dimostrativi di quest'età, il paradeigma
mitico dell'antica poesia parenetica.
n) Gorg. 483 e-484 c. Sulla teoria sofistica del diritto del più
forte cfr. A. MENZEL, Kallikles (1923).
CAP. VI: IL GORGIA [11237] 925

zione ha una parte da poco. Socrate aveva contrap-


posto la filosofia dell'educazione alla filosofia della vio-
lenza; la paideia era stata per lui il criterio della fe-
licità umana, che consiste nella kalokagathia dell'uomo
giusto 72). Callicle non conosce l'educazione che come
un ammaestramento per cui si deviano e s'ingannano le
nature forti, col fine di tenere in piedi la signoria dei
deboli. L'opera formativa (nì-.&.nc:iv) si inizia nei gio-
vani anni, come si fa per le fiere che si vogliono addo-
mesticare. Proprio perché questa formazione è di na-
tura morale, l'uomo forte non può volere che una cosa:
scuotersela di dosso, una volta che egli abbia aperto
gli occhi e capito che essa è contro natura 73). Ma ciò
riesce solo a pochissimi.
Con quest'odio parla Callicle della legge e dell'edu-
cazione, queste due alleate al servizio dei deboli or-
ganizzati: in confronto, il trattamento che egli accorda
alla filosofia, è da chiamarsi condiscendente e quasi
benevolo. Egli ha sentore di qualcosa di elevato e di
bello che è in essa, purché però la si pratichi con mi-
sura: ché, al di là di questi limiti, essa diventa la ro-
vina degli uomini 74). Callicle pensa certamente all'istru-
zione sofistica, quella di cui lui st.esso si è imbevuto,
e riconosce la efficacia metodica, formativa dello spirito,
che emana da essa. Non ha mai dovuto rimpiangere,
Callicle, il tempo che ci ha speso. Egli pensa, però,
che colui che seguita a dedicarcisi oltre una certa età,
anche se abbia le migliori doti naturali, ne riesce in-

72) Gorg. 470 e, cfr. supra, p. 226.


73) In questo concepire la legge come vincolo (3caµ6ç) con-
tro natura, Callicle si incontra con la teoria di nomos e physis
del sofista Antifonte. Similmente il sofista lppia, in Platone (Prot.
337 c) chiama la legge tiranno dell'uomo. I due sofisti però, non
concludono da ciò, come Callicle, al diritto del più forte, ma anzi
in senso opposto. Cfr. voi. I, p. 557.
74) Gorg. 484 c.
926 [n238] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

fiacchito e meno uomo. Costui non conosce le leggi


dello stato in cui vive, si sente disorientato nei rapporti
d'affari, privati e puhhlici e ne conosce poco lo stesso
linguaggio, non conosce i desideri e i piaceri degli
uomini; in una parola: è straniero alla vita. E sic-
come si accorge di far ridere ogni volta che si accosta
all'azione, privata o politica, egli si rinchiude sempre
più nei suoi studi, l'unica sede in cui si sente sicuro 75).
Di conseguenza, è bene dedicarsi alla filosofia, per un
certo periodo di tempo, all'unico scopo della cultura,
della paideia; ma oltre questo limite questo studio
liberale diventa illiberale, dà allo spirito una piega
servile e toglie all'intero carattere nerbo e vigore 76).
In questo modo di intendere il concetto di paideia
meramente come uno stadio di formazione che investe
solo pochi anni, viene ad esprimersi il più diretto con-
trasto contro l'alto concetto platonico per cui essa si
adegua all'intera vita dell'uomo. Ma, ogni qualvolta
la paideia diventa filosofia e in essa consiste, essa tende
per intima necessità a quello di cui Callicle rimpro-
vera la filosofia, a volere per sé, interamente, la vita
dell'uomo 77).
Il discorso. di Callicle conclude con un appello per~
sonale a Socrate: lasci da parte la filosofia, poiché lo
studio immoderato che egli ne fa, sciupa le grandi doti
del suo intelletto. E congiunta con l'ammonimento
appare la minaccia appena velata del conflitto col pub·
blico potere. A che gli servirebbe la sua filosofia del
soffrire il torto e non farlo, se un giorno egli fosse get·
tato in prigione e incolpato innocente ? Si potrebbe
accusarlo di accusa capitale, senza che egli potesse
7~) Gorg. 484 e 4-485 a.
76) Gorg. 485 a.
77 ) Vedi in Gorg. 484 e la censura al nepa:LTÉpc.> -toii 8iov-ro.;
èv8La:-rpt{3eLv e al n6ppc.> -rij.; 7jÀLxla:i; qnÀoaoipei:v. Cfr. Resp.
498 a-e.
CAP. VI: IL GORGIA [n239] 927

«aiutare se stesso». Uno potrebbe colpirlo in piena


faccia, e poi andarsene impunito 78). L'accenno alla fine
di Socrate, gettato là, tanto tempo prima, in questa
atmosfera quasi di gioco, fa gravemente pesare, sui
lettori di questa scena, le parole del duro realista.
Ma Socrate si dice lieto di aver trovato, finalmente,
un avversario che gli dice schietto quello che pensa.
"ché se ora gli riuscirà di mettere anche lui in contrad-
dizione con se stesso, non potrà più nessuno obiettare
che Callicle non abbia osato dire la sua vera opinione,
come Polo e Gorgia. A Callicle non manca neppure la
benevolenza per Socrate, come mostra il suo amiche-
vole ammonimento finale, e in terzo luogo egli può
contare come un rappresentante validissimo di una
buona cultura 79), « come molti Ateniesi potrebbero te-
stimoniare». Per questi tre motivi si potrà considerare
definitivo, il resnltato finale della sua difesa della reto-
rica. L'ironia· amara di questa lode anticipata al me-
rito che Callicle avrà involontariamente, nella struttura
drammatica dell'intero dialogo, permette di cogliere l'in-
tenzione dello scrittore, di contrapporre a lui, dopo la
sconfitta sicura che già si disegna, l'immagine di So-
crate, come quella della vera franchezza, della vera
benevolenza e della vera paideia.
La concezione che Callicle ha della natura dell'uomo,
e su cui si fonda la sua teoria del diritto del più forte,
ha radice nell'identificazione del bene con ciò che piace.

18) Per Callicle (Gorg. 485 c) la conseguenza di questo pericolo


di perdere la posizione sociale a cui è esposto il debole è che i
seguaci della filosofia di Socrate sono «non liberi» (ò:ve:Àe:&lh:pa~).
È nn rimprovero questo di cui si sente tutta la portata solo se
si ·tien bene a mente che la vera paideia è concepita sempre dai
Greci come paideia dei liberi. Quanto a sé Callicle vuol far sen-
tire di esser ben fornito di ogni cultura e sfoggia perciò citazioni
da Euripide e da Pindaro, intessendole, alla moda del tempo,
nella sua dimostrazione (486 b-c).
19) Gorg. 487 b 6.
928 [rr240] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Questo fatto non risulta in pieno rilievo nella esposi-


zione che egli fa della teoria, ma è scoperto da Socrate
e dimostrato dialetticamente come il presupposto es-
senziale di essa. Ma può essere dimostrato con la te·
stimonianza di altri rappresentanti di quella teoria,
che questo elemento era in essa stabile e fisso. Cosi il
sofista Antifonte, che fa, nel suo libro Della Verità,
la medesima distinzione tra giustizia secondo natura
e giustizia secondo legge, adduce come segno distin·
tivo della giustizia secondo natura il fatto che essa
coincide con ciò che dà piacere all'uomo 80). Il medesimo
criterio appare in Tucidide nel dialogo degli Ateniesi
e dei Melii, nel quale lo storico fa esporre agli Ateniesi
!a teoria del diritto del più forte 81). Non è chiaro,
sulle prime, che cosa intenda Callicle col suo concetto
del più forte, ma Socrate. lo costringe a determinarlo
con maggior precisione- Dopo che Callicle ha dovuto
lasciar cadere, una dopo l'altra, parecchie definizioni,
egli tien fermo al concetto che il più forte è il più sag-
gio nelle cose politiche e insieme il più virilmente ar-
dito, quello la cui anima non è ancora infiacchita; e che
perciò spetta a lui la signoria 82). Ma c'è un punto in
cui le vie di Callicle e di Socrate si separano definiti-
vamente ed è la questione se quest'uomo nato al do-
minio debba dominare anche se stesso 83). È un tratto
corrente nel modo greco di rappresentarsi il tiranno o

Antiphon, fr. 44, A 4, 1 ss., in DIELS, VorsokTatiker, 115, 349.


80)
In Tucidide (V 105, 4), gli Ateniesi nel colloquio coi Melii
81 )
formulano così il principio del naturale egoismo degli stati sovrani:
ciò che piace è il buono (-r!X ~~€rie xricM:). Che è poi l'opinione dei
più e quella dei Sofisti nel Protagora (cfr. supra, p. 201). «Un tale
principio», dicono gli Ateniesi, «non siamo noi soli a seguirlo,
ma anche gli Spartani».
82) Gorg. 488 b 8-489 a, 491 b.
83) Gorg. 491 d. È questa la questione fondamentale di tutta
la «politica» socratica. Cfr. supra, p. 86.
CAP. VI: IL GORGIA [n241] 929

l'uomo al potere, l'immaginare che questi possa lasciar


libero corso alle sue brame più selvagge, senza doversi
miserabilmente nascondere, come fa la massa servile.
In questo consiste la sua libertà, in questo poter essere
come l'uomo «è realmente». Pertanto Callicle, di
fronte all'asserzione di Socrate, per cui il vero domina-
tore deve prima di tutto dominare se stesso, si dichiara,
in aperto contrasto con la morale borghese, per un
ideale di libertà assoluta, la libertà di fare pienamente
tutto quel che si desidera; e ciò gli merita da Socrate un
ironico elogio per la sua «non ignobile franchezza» 84).
La ricerca è così giunta ad un punto sul quale ci
siamo fermati altra volta, a proposito di quel luogo del
Protagora in cui Socrate metteva in discussione il con-
cetto del ben vivere e proponeva al sofista la domanda
insidiosa, se egli potesse addurre a questo proposito
un criterio diverso da quello del piacevole 85). Ma la
tonalità lieve, di commedia, che là dominava, nel
Gorgia ha ceduto il passo alla gravità fatale del dramma
tragico. La vanità dei Sofisti, le loro esagerate pretese
erano, nel loro ridicolo, innocue e come tali potevano
essere trattate; ma il contegno hru~alm.ente minaccioso
di Callicle denunzia la serietà profonda della situazione
e :inostra quanto, realmente, siano inconciliabili i prin-
cipii che son qui venuti a contesa. In quella scena del
Protagora il motteggio velava ben più di quanto sco-
prisse la grandezza del contrasto tra l'eticità appassio-
nata di Socrate e i Sofisti: qui, nel Gorgia, Socrate
incide a fondo e d'un colpo rivela tutta la profondità
dell'abisso che lo separa dall'edonismo. Egli ricorre a
paragoni e a simboli religiosi e ci fa sentire per la prima
volta che dietro le capillari distinzioni dialettiche di

84) Gorg. 491 e-492 d.


e&) Prot. 354 d, 355 a; cfr. supra, p. 203.
930 [n242] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

cui si rivestono i suoi principii etici, sta una nuova


interpretazione metafisica della vita. « Chi sa mai se
il nostro vivere non sia morte, e la morte, vita ? » 86).
Egli ricorda il linguaggio immaginoso della religione
orfica che chiama lo stolto « il profano » o parla
dello « staccio» come simbolo dell'anima dell' insa·
ziabile uomo sensuale, e gli assegna per pena nel-
1'aldilà di attingere eternamente acqua in un reci-
piente forato. Callicle disprezza una vita senza gioie;
« è la vita di un sasso», dice 87). Ma non è vero. che So·
crate rappresenti qui l'ideale di una vita d'insensibilità,
come non è vero, più tardi, per il Filebo platonico:
qui come là egli esige che si distinguano le sensazioni
di piacere, in buone e cattive. Con un'analisi precisa
delle sensazioni piacevoli e non piacevoli di un asse-
tato, egli induce il contraddittore a concedere, alla fine,
che il buono non si identifica col piacevole, e il cattivo
con lo spiacevole, e lo costringe a riconoscere che il
criterio con cui egli stesso qualifica i piaceri buoni e
cattivi è di natura etica 88). In connessione con ciò è
svolto il concetto che il volere è una scelta, e che ogni
volere ha uno scopo finale che, come si dimostra, è il
bene 89).
Interpreti moderni di Platone hanno più di una
volta rilevato il contrasto, tra la definizione del telos
che qui appare e quella edonistica del Protagora e di
questo contrasto hanno fatto il punto di partenza di
tutta la loro concezione dello svolgimento platonico, af-
fermando che nel Gorgia, per la prima volta, Platone rag·
giunge l'altezza etica del Fedone 90), col quale il Gorgia
coincide anche nella tendenza all'ascesi e nel valore

86) Gorg. 492 e.


87 ) Gorg. 494 a.
88) Gorg. 494 b-499 c.
89) Gorg. 499 d-500 a.
80 ) Così il Wilamowitz e il Pohlenz. La posizione giusta, invece,
è rappresentata dal •Raeder, dall' Arnim, dallo Shorey e dal Taylor.
CAP. VI: IL GORGIA [II243J 931

etico positivo dato al« mòrire » 91). E, si pensa, il Pro-


tagora si dimostra uno degli scritti più giovanili di
Platone, anche per questo, che lo mostra ancora ade-
rente al punto di vista dei più, per i quali il buono e
il piacevole sono la stessa cosa 92). In realtà, è difficile
immaginare un più completo fraintendimento del modo
in cui si svolge il filo di pensiero del Protagora. In esso
Socrate cerca di mostrare ai Sofisti che, proprio nel-
l'ipotesi che sia esatta la opinione volgare per cui il
bene non è altro che il piacere, si riesce con particolare
facilità a provare la sua tesi, così aliena dal senso co-
mune, relativa alla fondamentale importanza che ha
il sapere nel retto operare 93) : ché, allora, si tratta solo
di scegliere sempre il piacere maggiore invece del mi-
nore e di non fare, in questa scelta, nessun errore .di
calcolo, prendendo per il maggiore il piacere più vicino.
La salvezza, in questo caso, starebbe tutta in una
« arte della misura», sulla quale però Socrate, nel Pro-
tagora, non crede di dover dire niente di più preciso 94).
Il suo scopo, .egli lo ha raggiunto pienamente, anche
senza di ciò, e per di più i Sofisti, che finiscono col con-
sentire calorosamente con lui, sono stati da lui scoperti
in tutta la pochezza teorica della· loro visione etica.
Infatti, non si può non rimanere colpiti dal fatto che
Socrate, e non una volta sola, ma ripetutamente, con
una sorta di sospettosa ostinazione, cerchi di condurre
il lettore del Protagora a rendersi conto che l'identifi-
cazione del buono col piacevole, non è l'opinione sua,
ma quella dei più. Egli spiega che i più, sottoposti a
domande precise, non riescono a dare, del loro agire

91) Phaedo, 68 c, cfr. Gorg. 495 a, 499 c.


·92) Anche l'Arnim sostiene per il Protagora una datazione pre-
coce, ma p!lr altri motivi; cfr. supra, p. 178 n. 2.
U) Cfr. supra, p. 201 ss.
94 ) Prot. 356 d-357 h.
932 [rr244] LIBRO UJ - ALLA RICERCA DEL DIVINO

o non agire, nessun altro motivo all'infuori del piacevole


e del suo contrario; eppure egli non fa che invitar~
generosamente, a nominare un altro telos, se appena ne
abbiano qualche consapevolezza. Ma essi evidentemente
non sono - così egli conclude trionfalmente - in
condizione di far ciò 95). Il pensiero, poi, che Platone,
quando nel Fedone rifiuta, con accenti di canzonatura,
questo concetto appunto dell'agire umano come una
specie di scambio commerciale fra piaceri di diverse
grandezze, voglia prendere in giro se stesso, .questo
pensiero non è seriamente concepibile 96). D'altro canto
«l'arte della misura » alla quale nel Protagora si riduce
la scienza normativa che si ricerca, non è affatto un
puro espediente di scherzo: basta soltanto che, come
misura, si introduca al posto del piacere il bene, quel
«bene » che Platone nel Filebo, e il giovane Aristotele
nel Politico, opera ancora del tutto platonizzante, de-
signano come la più esatta di tutte le misure. Si tratta,
però, di un modo di misurare qualitativo, non quantita·
tivo. Ed è questo, appunto, che separa fin da principio
Platone dai più e dal loro senso dei valori. Questo è
il telos che il Gorgia proclama presupponendo il Pro-
tagora. Fin dai primi scritti di Platone, i dialoghi mi-
nori socratici, questo telos sta al fondo della sua ricerca
dell' areté come scienza del bene, e questo bene,
come il Gorgia mostra· senza possibilità di equivoco,
è « ciò la cui presenza fa sì che i beni siano buoni» 97),
cioè è l'idea, il modello primo di ogni bene 98).

95) Proi. 354 b 6 ss.; 354 d 1-3; d 7-e 2; e 8-355 a 5.


96) Phaeclo, 69 a.
9'1) Gorg. 498 d. .
9S) Già in Prot. 349 b Platone aveva sollevato la questione
se le diverse virt-::t (&pe't()(L) posseggano ognuna una sua propria
essenza (tSioc; -oùala:) oppure siano modi di designare un'unica
cosa (ènt èvt npiiyµa;-.' fonv). Questo ev npii.yµcx o oua(a;
comune è il Bene (-:-ò à.ycx&611), come si vede in Gorg. 499 e, il
quale è il fine di ogni volere e agire umano.
CAP. VI: IL GORGIA [rr245] 933

La conversazione con Callicle ha condotto a un


resultato che è diametralmente opposto. al suo punto
di partenza, la teoria del diritto del più forte. Se pia-
cere e dispiacere non possono esse:re la misura del
nostro agire, la retorica deve abbandonare la suprema-
zia che i suoi rappresentanti le avevano assegnato
nelle circostanze più importanti della vita umana 99), e
con essa si dileguano tutte le altre specie di adulazione
che hanno per fine non il bene dell'uomo, ma il suo
compiacimento 100). La retta scelta di piaceri e dispia-
ceri, che si domanda solo se ciascuno di essi è buono
o cattivo, diventa il compito essenziale della vita.
E ciò «non è cosa del primo venuto», come Callicle
laconicamente concede a Socrate 101). Con brevità essen-
ziale è qui espresso un principio fondamentale dell'etica
di Platone e della sua teoria dell'educazione. Giacché
Platone, in questo punto, non indica agli uomini come
istanza suprema il loro personale senso morale, ma
esige da loro un sapere, una techne, ai resultati della
quale il singolo è; secondo lui, vincolato 102). Cosi, il
dialogo viene a ricondursi al suo inizio. Quella domanda
che là fu posta sul carattere di scienza della retorica
rivela ora soltanto il suo pieno significato. Due generi
di vita (bioi) si danno 103). L'uno si fonda sulle arti adu-
latorie, non arti, in verità, ma solo contraffazioni di
quelle, e può esser chiamato dal nome di una di queste
false arti, l'ideale di vita della retorica. Suo scopo è
produrre piacere, ottenere dagli altri séguito e appro-
vazione. Contrapposto ad esso è l'ìdeale :filosofico della
vita. Esso si fonda su una scienza della natura umana

99) Gorg. 451 d.


100) Gorg. 462 e, 463 b.
m) Gorg. 500 a.
102 ) Gorg. 500 a 6.
103) Gorg. 500 b.
934 [n246] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

e di ciò che per gli uomini è il bene, ed è perciò una


vera techne volta alla terapia dell'uomo in tutto il ·signi·
ficato del termine, cosi per il.corpo come per l'anima 104);
terapia· che esiste non solo per l'individuo, ma anche
per la collettività. Corrispondentemente esiste anche
un'adulazione per il singolo e una per la massa. Esempi
di quest'ultima sono per Platone diversi generi di poe·
sia e musica, l'arte -del :flauto, la poesia corale e diti-
rambica e la tragedia. Il piacere è il solo fine di questi
generi e, se da essi si toglie ritmo metro e melodia,
quello che resta non è nient'altro che demegoria, elo-
quenza per il pubblico 105). È la prima volta quèsta che
viene in luce la teoria divenuta comune nella tarda
antichità della poesia come parte dell'eloquenza, ma
in senso ben diverso di quello posteriore, in un .senso
di chiaro biasimo che già indica, nella critica a fondo
della poesia in quanto mezzo di educazione, una parte
essenziale della filosofi.a platonica. Questa critica ha il
suo vero e proprio posto nella Repubblica e nelle Leggi,
collegata com'è strettamente col tema della paideia
platonica, svolto a fondo in quelle due opere. Colà il
dibattito sulla poesia è sulla stessa linea in cui si svolge
quello con la sofistica e la retorica nel Protagora e nel
Gorgia. Anche il poeta ha dinanzi a sé un demos a cui
si rivolge come oratore; solo che questo demos non è la
parte maschile della cittadinanza, ma una mescolanza
di bambini, donne e uomini, di schiavi e di liberi.

104) Platone riprende .qui :il suo paragone con l'arte medica
che gli sta sempre innanzi come modello della sua arte politica.
Cf:r. supra, p. 220 s.
105) Gorg. 501 d-502 d. Platone si richiama alla poesia corale e
diti:ramhica del suo tempo, e nomina come esempio Cinesia, che
già la commedia aristofanesca prendeva in giro. Anche Callicle
non riesce a trovare alcun pregio educativo nell'arte di lui. Si
può credere perciò, che nel giudizio negativo di Platone abbia
avuto parte la degenerazione, propria dei suoi tempi, dell'arte
in virtuosismo.
CAP. VI: IL GORGIA [II 247] 935

Il che, d'altronde, non significa che la retorica di alto


rango, quella che si rivolge agli uomini nelle città,
la retorica politica, sia migliore di quell'altro ge-
nere che noi chiamiamo poesia; ché anch'essa ha di
mira non il bene, ma l'applauso della folla, e non si
domanda se essa la rende migliore o peggiore 106).
A questo punto Callicle fa l'ultimo tentativo di
salvare la dignità spirituale della retorica. Egli abban-
dona alla critica demolitrice di Socrate gli oratori po-
litici moderni e presenta come modello di un'arte ve-
ramente educatrice l'eloquenza dei grandi uomini di
stato del passato, accettando con ciò tacitamente il
criterio di valutazione di Socrate 107). I soli nomi di
questi uomini, Temistocle, Cimone, Milziade, Pericle,
dovrebbero bastare, sembra, a fare ammutolire ogni
contraddittore. Ma Platone, senza batter ciglio, lascia
cadere, anche su di loro il suo giudizio severo. Se la
grandezza di un uomo di stato consiste nel sapere egli
soddisfare i desideri della massa e i propri, essi meritano
del tutto la fama che loro assegna la storia. Ma se il
compito del politico è, invece, quello di conferire alla
sua opera una forma determinata, un « eidos » · il più
perfetto possibile, e .di orientare la propria azione se-
condo questo « eidos », come deve fare ogni pittore,
ogni architetto, ogni ingegnere navale, ogni uomo in-
somma che pratichi un'arte, se questo compito è di
disporre le parti del tutto in un ordine intelligibile,
sicché l'una si accordi con l'altra, allora essi non furono
che guastamestieri. Come ogni prodotto· di un'arte ha
la sua forma e il suo ordine, dalla cui attuazione dipende
la perfezione dell'oggetto e come il corpo dell'uomo ha
l'ordine che gli è proprio - e che noi chiamiamo sa-

106) Gorg. 502 e.


107 ) Gorg. 503 b.
936 [II 248) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Iute - così esiste anche un ordine, un cosmos del·


l'anima, e noi lo chiamiamo legge. Quest'ordine si fonda
sulla giustizia, sul dominio di sé, su tutto quello a cui
noi diamo il nome di virtù. A questo supremo ordine,
nel regno dello spirito, terrà fissi gli occhi il vero uomo
politico e oratore e guardando ad esso sceglierà le sue
parole, compirà le sue azioni, largirà i suoi doni 108).
Egli volgerà sempre ogni sua cura a che negli animi dei
concittadini venga la giustizia e l'ingiustizia scompaia,
a che senno e moderazione sorgano e si parta la li-
cenza, a che sia ricercata ogni sorta di virtù e sradicato
ogni vizio. E come il medico si guarda dal riempire
il corpo malato dei più squisiti cihi e bevande, che non
gli giovano affatto, così il vero uomo politico regge con
severa disciplina l'anima malata e non indulge alle
sue voglie.

Callicle, frattanto, è caduto in uno stato di apatia


nel quale quel che Socrate dice non gli importa più,
quand'anche non riesca a contraddirlo, e a stento par
che lo oda 109). Egli non si può sottrarre alla consequen-
ziarietà logica del discorso di Socrate, ma nel suo in-
timo non è convinto, come espressamente dice più
sotto; e Platone gli fa dire: «come avviene ai più» 110).
Perciò, ora che l'avversario è ammutolito, Socrate porta
a fine da solo le sue deduzioni, rispondendo da sé alle
proprie domande. Dato un breve sguardo riassuntivo
ai resultati già raggiunti, egli stabilisce che il fonda-
mento di ogni considerazione sul retto agire umano,

l08) Gorg. 503 e-505 h. L'eidos guardando al quale l'uomo poli-


tico mette ordine ('t"cil;tç) nell'oggetto del suo operare, l'anima
umana;· è il Bene che come sì è già dimostrato (499 e) è il fine di
ogni azione.
l09) Gorg. 505 d.
110) Gorg. 513 c.
CAP. VI: IL GORGIA [u 249] 937

è che il piacevole non s'identifica col buono e salutare.


Si deve procurare il piacevole solo in grazia del buono,
non viceversa. E l'uomo, come ogni altro essere, è
buono, in questo, che in lui abita o in lui si costituisce
una areté, un pregio o virtù 111). Ma questo pregio, sia
esso di un arnese o di un corpo o di un'anima o di
un essere vivente nella sua interezza, non si costituisce
a caso, ben.si soltanto ad opera di un retto ordine
e di un'arte consapevole. Ogni essere divien buono
quando e per il fatto che in lui si afferma e si realizza
quella qualità di ordine che gli è propria, il suo proprio
« cosmos » 112). È bensì vero che la lingua greca, prima
di Platone, non _usa la parola « cosmos » in questo
senso di un'intima legge e ordine dell'anima, ma essa
conosce il qualificativo cosmios, per designare un con-
tegno assennato e disciplinato. Anche la legge di
Solone parlava di eucosmia, per il contegno del citta·
dino nella sua vita pubblica, e specialmente per la
gioventù. A questo si riallaccia Platone e definisce
«buona» l'anima assennata e ben disciplinata 113); al
qual proposito è da ricordare che la parola «buono»
(&yoc:-&6ç), non ha in greco solo il limitato significato
etico, come per noi, ma è l'aggettivo del sostantivo
areté, e quindi designa ogni specie di eccellenza o pregio.
Il significato etico, è, secondo questo modo di vedere,
solo un caso speciale della tendenza, che è di tutte
le cose, alla loro perfezione. Socrate dimostra, inse-
rendo a questo punto il problema dei dialoghi minori
e del Protagora, il problema dell'unità della virtù ll4 ),
che quando si dà la vera sophrosyne, è senz'altro data
ogni altra sorta di virtù, come la pietà religiosa, la

111 ) Gorg. 506 d.


112 ) Gorg. 506 e.
113) Gorg. 506 d-507 a.
114 ) Gorg. 507 a-e.
938 [II250] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVlNO

fortezza, la giustizia n°). Quello che l'uomo greco chiama


eudaimonia, cioè prosperità, riuscita felice, dipende in-
teramente da questa eccellenza dell'essere umano, e,
in conformità di ciò, il modo di dire della lingua greca
per « star bene », che propriamente suona « far bene »
(eiS 7tpoc't"t'e:Lv), contiene secondo Platone una saggezza
più profonda di quanto si pensino quelli che lo pronun-
ziano: il « far bene» nel senso di prosperare ed essere
felice, si fonda unicamente su « lagire rettamente» ll 6).
Raggiungere questa areté e fuggire il suo contrario
deve essere il preciso e fermo scopo della nostra vita : ad
esso deve tendere tutta la forza del singolo come quella
dello stato, e non alla soddisfazione dei desideri ll7).
Questa non può che condurre a una vita di predoni
e rendere odioso a uomini e dèi colui che per essa vive,
giacché nessuna vita di comunità è possibile su fonda-
menti come questi, e senza vita di comunità non può
sorgere amicizia. E invece per il saggio, quello che
lega e tiene insieme cielo e terra, uomini e dèi, è la
comunità, l'amicizia, la disciplina, la moderazione e la
giustizia, tutto quello, insomma, per cui il Tutto· me-
rita di essere anche chiamato il cosmos ns). Non è la
pleonexia, il voler sempre più degli altri, la forza che
veramente domina tra uomini e dei, ma .la Je.,gge geo-
metrica della proporzione, anche se Callicle non intende
nulla di geometria 119). Così si dimostra vero quello
che fin qui era apparso come un paradosso, che il su-
bire ingiustizia è male minore che fare ingiustizia.

:U&) Cfr. supra, pp. 172, 192 ss.


Gorg. 507 c.
1.1 6 )
117 ) Gorg. 507 d 6. Qui Platone introduce il concetto della
« meta» o « scopo», del punto, cioè, a cui si deve mirare nella
vita, in greco axo7t6c;. Si identifica col TÉÀoc; in cui si è già rico-
nosciuto (499 e) il Bene.
118 ) Gorg. 507 e ss.
119} GorJ(. 508 a.
CAP. VI: IL GORGIA [rr251] 939

Il vero oratore e uomo politico deve essere giusto e


possedere la conoscenza del giusto. L'ignominia più
grave non è, come dice Callicle 120), che uno non sappia
« aiutare se stesso» contro l'ingiustizia e la violenza
esteriori, ma quella di non potere aiutarsi contro il
danno più grave che si possa incontrare, il danno che
l'uomo accoglie nella propria anima., quando l'ingiustizia
se ne impossessa 121)~ A tener lontano questo danno
il buon-volere non basta; occorre il potere, la capacità
(lìuvoq.uç). Come il politico e l'oratore tendono a posse-
dere la forza esteriore, per difendersi dal sopportare
ingiuria, così Socrate proclama necessaria una difesa
interiore contro il pericolo del fare ingiuria. Una tale
difesa può essere data solo dalla scienza e dalla cono-
scenza del bene, da «l'arte politica», ad esclusione
di ogni altro elemento, poiché non c'è nessuno, per
natura, che fallisca volontariamente 122).
Se, invece, si trattasse di guardarsi dal sopportare
ingiuria, se questa fosse l'arte necessaria, l'unica solu-
zione possibile sarebbe l'adesione incondizionata al si-
stema politico dominante nel momento 123). Quando è
padrone dello stato un tiranno crudele che non abbia
paideia, è naturale che egli debba aver paura di chiun-
que valga spiritualmente più di lui 124), e che di un tale
uomo egli non possa essere amico, pur disprezzando,
d'altra parte, quelli che sono peggiori di lui. Perciò
non rimane, come possibile amico del tiranno, se non
colui che sia di natura uguale alla sua, che lodi le
stesse cose e le stesse biasimi e che sia disposto a la-
sciarsi dominare da lui. Un tale uomo sarà, in uno

120) Gorg. 483 b, 486 b.


121) Gorg. 509 b-d.
122) Gorg. 509 d 7-510 a.
123) Gorg. 510 a.
124) Gorg. 510 b. La paideia è stata considerata (470 e) come
il segno distintivo del reggitore buono e felice.
940 [rr252] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

stato come questo, il p1u potente e chiunque gli farà


torto non avrà da compiacersene 125). I giovani
vogliosi di farsi strada, in uno stato di questo
genere, non tarderanno ad accorgersi che l'unica
via per ottenere qualcosa consiste nel farsi, fin dai
primi anni, il più possibile somiglianti al loro tiranno,
nel trovar piacere in quello che dà piacere a lui e di-
spiacere in quello che a lui dispiace12 6). Ma quand'anche
questa docilità riesca a garantire chi ad essa si acco-
moda dal s o f f r i r e ingiustizia, essa non sarà sal-
vaguardia contro il f a r e ingiustizia, cioè contro il
male più grande, che si dovrà portare nella propria
anima. L'anima, cosi, sarà corrotta e sfigurata dall'imi-
tazione del dominatore 127). Certo, esiste realmente il pe-
ricolo del quale Callicle ha parlato, che un .bel giorno
gli imitatori del loro signore e padrone ammazzino
colui che non vuol sapere di imitarlo. Ma di fronte . a
ciò Socrate si sente sicuro, perché egli sa che il vivere
non è il bene supremo 128). Tuttavia egli esorta Callicle,
risoluto a non seguirlo nella sua via · solitaria, a non
atteggiarsi secondo la propria morale di dominio, di
cui si compiace nella ristretta cerchia degli amici -
ché una tale morale non è tollerata in Atene - ma
piuttosto ad accomodarsi ai giudizi e capricci del suo
signore, del demos ateniese, si da imitarlo non solo
esteriormente, ma da farsi intimamente il più possi-
bile simile a lui; ché ogni altro partito è pericoloso 129).
Ecco che, tutto a un tratto, Callicle, che un momento

126) Gorg. 510 c.


126) Gorg. 510 d.
127) Gorg. 510 e-511 a. Questa imitazione del tiranno sarà gran-
dissimo impedimento all'educazione, il che Platone dimostrerà
minutamente nella Repubblica svolgendo sistematicamente la teo-
ria secondo cui l'educazione si conforma dappertutto allo spirito
che domina la realtà politica attuale.
1211 ) Gorg. 511 b.
129 ) Gorg. 513 a-e.
CAP. VI: IL GORGIA [n253] 941

prima aveva ammonito Socrate a non provocare con-


flitti con la gente al potere, si trova ora, lui, in una
situazione simile a quella di Socrate. Ambedue si tro·
vano di fronte allo stesso problema, di come ·compor·
tarsi di fronte al «tiranno » del loro stato, che chiede
a loro I'osservanza incondizionata dei suoi desideri: di
fronte al popolo ateniese. Socrate ha mostrato di essere
ben consapevole delle conseguenze della propria fran·
chezz~ ed è pronto ad accettarle per il bene della pa·
tria. Egli, il rappresentante della «virtù» è~ fra i due,
l'eroe; laddove Callicle, il propugnatore di una «mo·
raie di signori» e del diritto del più forte, è in realtà
il debole che si adatta esteriormente al volere altrui,
per dominare con l'accorta pieghevolezza dell'uomo da
tribuna.
È questo per Socrate il giusto momento di richia-
marsi alla distinzione fondamentale, fatta al principio
del dialogo, fra due sorte di sistemi per il trattamento
del corpo e dell'anima, l'una volta al piacere e
all'approvazione, l'altra diretta al vero bene del-
l'uomo, runa che lusinga gli elementi inferiori della
sua natura, l'altra che intraprende con essi la
lotta 130). Di questi due sistemi, Callicle e Socrate, ap·
paiono in questo momento i perfetti rappresentanti,
l'adulatore e il lottatore. Ora si deve scegliere, e non
si possono invocare per lo stato le arti fallaci dell'ap·
parenza, ma si deve volere solo la severa terapia della
verità, che rende i cittadini i migliori possibili. Né il
possesso di denaro o di beni, né l'accresciuto potere
sono valori, per colui che non è informato, nell'animo

1 30) Gorg. 513 d µ.-lj xomxx1Xpt?;:6µ&Vov &noc lh1Xµ.1Xx.6µ.cvov. Cfr.


521 a dove ritorna la parola «lottare», in questo significato:
lh1Xµ.0Cxca.&1Xt . A.&'l)VGdotc;, 07'Wç wc; (30.na-;:-ov iaov't'IXt, còc;
tixTp6v. Si pensa qui nlln lottn che il medit:'o deve spesso affron-
tare col paziento> imprudente e indocile. Il paragone con la medi-
cina corrisponde bene anche in questo ponto.
942 [n254] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

e nella mente, alla vera kalokagathia 131). L'educatore


filosofo che indirizza la polis a questa virtù è l'unico
vero benefattore di essa, come osserva Socrate con una
allusione a quegli uomini politici i cui meriti furono ri-
conosciuti in pubblici decreti e eternati in iscrizioni 132).
Il tentativo di portare la città su questo piano di ele-
vazione etica deve cominciare con la scelta dei capi
politici. Conforme al carattere di techne della scienza
politica di Socrate, il metodo di una tale scelta prende
la forma di un esame regolare 133). Quando _si trattasse
di un esame per l'ammissione all'impiego di architetto
militare, o navale, o di templi pubblici, si dovrebbe
saggiare se il candidato sa o non sa il suo mestiere,
vedere con quale maestro ha studiato, e se egli ha da
addurre qualche notevole prova già fatta nell'arte,
che gli valga di raccomandazione. Similmente si proce-
derebbe per l'ammissione all'ufficio di medico 134). Poi-
ché, dunque, anche la politica è un.a vera arte, il fu-
turo uomo politico deve essere parimente esaminato
sulle prove che egli ha dato fin qui, nel campo che è
per essa importante. E poiché essa è l'arte di far mi-

131) Gorg. 513 e. Qui, come nel passo fondamentale Gorg. 470
e, il possesso della paideia è considerato criterio unico per il giu-
dizio di valore, tanto sulla ricchezzza come sul potere. Infatti
la kalokagathia di 514 a 1 non significa altro che paideia, come
mostra l'uso promiscuo e sinonimico delle due parole nei luoghi
paralleli 470 e 6, e 9.
132) Il concetto eÙEpye:crlcc di Gorg. 513 evoca quel significato
concreto del termine che noi conosciamo dalle iscrizioni onorarie:
infatti si tratta di servizi resi dall'educatore alla polis.
133) Gorg. 514 b ss. Il concetto di« esame» nell'istruzione supe-
riore è stato introdotto proprio da Platone in coerente applica-
zione dell'abitudine socratica di sottoporre a prova dialettica.
Nella Repubblica Platone edifica su questo fondamento tutta l'edu-
cazione dei reggitori. È un concetto preso dalle « arti» degli spe-
cialisti, medici, architetti ecc., come Platone stesso fa capire con
gli esempi che sceglie.
13 ~) Gorg. 514 a-e.
CAP. VI: IL GORGIA [rr 255] 943

gliori gli uomini, Socrate domanda a Callicle, come al-


l'unico uomo politico presente, quali siano gli uomini
che egli abbia fatti migliori, come privato, prima del
suo ingresso nella carriera politica 135). La domanda è
poco più che uno scherzo, ma da essa Socrate trapassa
all'esame dei grandi uomini di stato della storia ate-
niese, Pericle, Cimone, Milziade e Temistocle. Quanto
a Pericle egli ha - lo dicono tutti i giorni i suoi cri-
tici - rèso gli Ateniesi fannulloni, vili, ciarloni, e avidi
di denaro, in quanto li ha abituati a servire lo stato,
in assemblee e tribunali, per mercede. Dopo averli
ricevuti relativamente docili dai suoi predecessori, egli,
come mostra la sorte che gli è toccata, è riuscito solo
a renderli più ribelli. Cimone e Temistocle, poi, furono
dagli Ateniesi mandati in esilio e Milziade fu condan-
nato a esser gettato nella fossa dei traditori. Tutti
questi capi, insomma, fanno la figura di quei guidatori
che, presa in mano una coppia di bestie da tiro che
prima era docile, la trattano in modo che alla fine
si fanno rovesciare giù dal carro 136).
Un uomo politico, nel senso socratico della parola,
non c'è ancora mai stato 13 7), ché i famosi reggitori Ate-
niesi non furono che servi dello stato, invece che edu-
catori del popolo 138). Essi si fecero strumenti delle de-
bolezze umane e cercarono di sfruttarle invece di modi-
ficarle con la persuasione e con la forza; non furono
maestri di ginnastica e medici, ma una specie di pa-
sticceri che gonfiarono di grasso il corpo della nazione
e sfiancarono i suoi muscoli un tempo robusti. La con-
seguenze di quella nutrizione erronea e soverchia, si
faranno sentire soltanto col tempo. Frattanto noi con~

136) Gorg. 515 a·h.


136) Gorg. 515 c-516 e.
137 ) Gorg. 517 a.
1 38 ) Gorg. 517 b.
944 [u256] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tinuiamo a lodare gli uomini che ci servirono quei


pranzi e andiamo dicendo che essi hanno fatto grande
la città, senza accorgerci che la città è, per colpa loro,
gonfia e malsana 139). Giacché essi l'hanno riempita di
porti e di arsenali, di fortificazioni e di tributi, e di
altrettali superfluità, non l'hanno nutrita di saggezza
e di giustizia. Quando poi verrà la crisi della malattia,
se ne renderanno responsabili non già i colpevoli, ma
quelli che in quel tempo saranno al potere, anche se essi
saranno in realtà soltanto dei colpevoli secondari 140).
Però, ci si guardi, allora, dal parlare di ingratitudine
del popolo, che suol rovesciare e perseguitare i suoi
governanti. :)}: la solita scusa dei Sofisti, di coloro che
professano di educare gli uomini alla virtù, questa con
cui si lamentano d'ingratitudine, quando gli scolari
fanno loro torto e non vogliono pagare l'onorario pat-
tuito 141). E fra i Sofisti e l'oratore politico non c'è
una differenza sostanziale, se anche l'oratore, che pure
guarda dall'alto in basso il sofista, è in realtà inferiore
a questo, a quel modo che il giudice sta, per dignità,
sotto il legislatore e il medico sotto il maestro di gin~
nàstica. Sicché un oratore come un sofista che biasima
coloro che egli ha, come pretende, «educato», non fa
che accusare se stesso e la propria opera educativa 142).
Per tutto ciò, quando Socrate deve decidere per
uno dei due sistemi di trattamento degli uomini, per
quello che serve, adulandolo, il popolo ateniese, o per
quello che affronta la lotta con lui per farlo migliore,
egli non può esitare a scegliere il secondo, anche nella

139) Gorg. 517 c ss.-518 e. La concezione medica e educativa


dello stato viene qui applicata per. la prima volta come criterio
di valutazione allo stato della realtà storica.
140) Gorg. 519 a.
Hl) Gorg. 519 h-c.
142) Gorg. 519 e-520 b.
CAP. VI: IL GORGIA [u257] 945

consapevolezza piena del rischio a cui espone, così, la


sua vita 143). Se uno lo accuserà, questi non potrà essere
che un malvagio. E che meraviglia, allora, se Socrate
dovrà soccombere e sarà ucciso ? Socrate si aspetta
un tale esito alla sua opera di educatore, e ciò per i
seguenti motivi: «Io credo», gli fa dire solennemente
Platone, «di essere uno dei pochi Ateniesi, per non
dire il solo, che cerco di praticare la vera arte dello
stato, e il solo dei miei contemporanei, che faccio real-
mente politica». Se egli quindi sarà accusato, il suo
processo si svolgerà come quello di un medico dinanzi
a un tribunale di ragazzi, in cui l'accusatore fosse un
cuoco. Il cuoco direbbe: «Quest'uomo vi ha afllitto
con medicine amare, con la fame e con la sete, mentre
io vi ho dato ogni sorta di deliziose leccornie». Chi
darebbe retta al medico quando egli replicasse: «Tutto
questo io l'ho fatto, ragazzi miei, perché per voi era
salutare» ? Così non si darebbe retta neppure a So-
crate, quando egli dicesse ai giudici: «Tutto questo,
giudici, io lo dico perché è salutare per voi, e tutto
quello che faccio lo faccio per voi» 144). La prospettiva
di questa fine non spaventa Socrate. Per lui c'è una
via sola di « aiutare se stesso» ed è di tenersi lontano
dall'ingiustizia. Giacché il male più grande, l'unico che
è da temere, è di «andarsene nell'aldilà» con un'anima
piena d'ingiustizie 145).

143) Gorg. 521 a. Quello di cui Socrate parla qui è la « scelta


della vita» (~lou octpe:cnç), che, secondo la sua filosofia, è il vero
senso dell'esistenza umana e lo scopo della ricerca del vero. La
scelta della sorte, anteriore all'esistenza, nell'aldilà, figurata da
Platone nel mito finale della Repubblica (617 b-620 d) vale da
sfondo metafisico a questa scelta terrena. A sua volta il luogo
del Gorgia prosegue un motivo dell'Apologia (29 d), là dove So-
crate, anche di fronte alla morte imminente, mantiene la scelta
~ià fatta del bios filosofico.
• 144) Gorg. 521 c-522 a.
145) Gorg. 522 a. Questo ~07J&ei:v é:ocuTéi), questa preservazione
del vero «se stesso» è contrapposta a ciò che Callicle aveva in-
946 [II 258] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Nel Gorgia, Platone esce per la prima volta dall'at-


teggiamento del puro processo dialettico dominante
nei dialoghi precedenti, e mostra il filosofo nel punto
in cui questa ricerca, in apparenza puramente intellet-
tuale, a cui è conferito un cosi alto valore di norma ·
d'azione, svela tutta la sua profondità, dove il giuoco
che egli ha condotto con una cosi inesplicabile pas-
sione, diventa a un tratto una lotta col mondo intero,
una lotta di cui è pòsta la vita. Se nei primi dialoghi
platonici, dopo il Critone, vibrano, di questa musica
filosofica, i toni chiari e sereni, dilettosi per ogni
amico delle Muse, nel Gorgia improvvisamente risuo-
nano dal profondo - e un brivido ci scuote ad
udirli - i timbri di più grave ~etallo della sinfonia
socratica, e dalla compiuta serena leggerezza erompe
la risolutezza di una morte eroica.
Per la prima volta, dopo il rapido schizzo dell'Apo-
logia, la dottrina e la vita di Socrate ci si presentano
come un tutto compiuto. Dalla apparente indecisione
logica del dialogo socratico, balza qui in luce l'incon-
dizionata risolutezza etica dell'esistenza socratica, che,
sicura del proprio fine, deve, per ciò stesso, già posse-
dere in qualche modo il sapere a cui tende, quel sapere
che esclude ogni errata decisione della volontà. Visto
da questo punto, riceve un nuovo senso anche il con-
centrarsi della ricerca socratica nell'idea del bene. Lo
sforzo del logos, di cogliere la sua meta, diventa l'espres-
sione immediata di questa esistenza che pone in quella

teso con la stessa espressione, cioè alla forza di preservare l'Io


fisico. Cfr. supra, p. 235. E se è vero che la scienza di Socrate,
identica con la stessa areté, è la possibilità di aiutare se stesso
(in senso elevato), s'intende subito perché Socrate già nel Prota·
gora (352 c) insista nell'affermare che la phr6nesis è capace di ve-
nire in aiuto all'uomo. Il significato di questo [30'1).&ei:v è lo stesso
che la parola ha in medicina, cioè di soccorrere l'uoD".O e di ripor·
tarlo alla salute: cfr. « Paideia» III 9, n. 11.
CAP. VI: IL GORGIA [rr259] 947

meta tutta se stessa._ Là dove per gli altri non si tratta


che di parole, che si ascoltano senza giungere per esse
a pienezza di convinzione 146), proprio qui si rivela la
realtà vera di Socrate. E Platone la rappresenta nella
certezza, natagli dall'unità di parola e di esistenza
nella figura del maestro, che quella meta socratica è,
senz'altro, l'essere 147). Cosi il Gorgia ci discopre una
valutazione nuova della vita che ha la sua origine
nella scoperta socratica dell'essenza dell'anima.
Questo contenuto metafisico della battaglia socra·
tica contro l'ingiustizia, è quello che Platone rende
immediato all'occhio del lettore coi mezzi concreti
del poeta, nel mito che chiude il Gorgia 148). Egli
cerca in ogni modo di rendere accessibile alla parteci-
pazione del sentimento tutto quello che il logos ha
dimostrato. Ché la forma del mito non significa che
Platone faccia appello a una nostra energia irrazionale
come a una particolare, o all'unica, fonte di conoscenza,
ma che egli vuol farci ancora una volta riconoscere,
in un quadro complessivo e concluso, le linee che l'ana·
lisi razionale ha prima tracciate, quasi che esse appa·
rissero per trasparenza in un insieme significativo di
figure e di azioni. Il mito ha, pèrtanto, nell'interno
dell'opera d'arte una funzione di conclusione e di sin-
tesi. Con esso Platone fa sua una delle forme del me·
todo insegnativo sofistico, ma elaborandola e renden-
dola, organicamente, parte vitale del dialogo socratico.
Non però parte a sé, ché anzi l'essenziale del mito
platonico sta nel suo cooperare col logos, allo stesso
fine. Quando il tortuoso procedere del pensiero logico
si è dileguato da un pezzo dalla memoria del lettore, il

146 )Gorg. 513 c. Platone dice che questo è «l'effetto solito»


mx.&oc;) del messaggio socratico.
("t'Ò "t'Ù>V 7'0ÀÀÙ>v
147) Cfr. supra, p. 111.
148) Gorg. 523 a ss.
948 [n260] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

quadro del mito riman vivo e si fa simbolo del conte-


nuto filosofico di tutta l'opera, anzi di tutta la dottrina
e dell'atteggiamento di Platone.
Il mito del Gorgia si riannoda a immaginazioni re-
ligiose di una vita dopo la morte, che Platone, chiara- ·
mente, atteggia ai suoi fini con libertà di poeta. Con
ogni probabilità, il Socrate storico non poté essere
l'inventore di una tale fiorita elaborazione di miti re-
ligiosi, anche se, occasionalmente, egli poté interes-
sarsi ad essi. D'altra parte anche l'ipotesi assai dif-
fusa che Platone, nel corso dei suoi viaggi o in altro
modo, abbia subito l'influsso di misteri orfici o di mi-
steri simili e abbia associato le immaginazioni proprie
di questi con l'etica socratica, è un modo un po' troppo
grossolano di concepire i processi spirituali. I miti
platonici sul destino dell'anima dopo la morte non
sono i prodotti dogmatici di un sincretismo che inte-
ressi la storia delle religioni 149). Chi li volesse concepire
così si lascerebbe sfuggire quasi del tutto la potenza
creatrice, poetica, di Platone, che proprio . in essi rag-
giunge uno dei suoi vertici. Ma è vero che rappresen-
tazioni dell'aldilà di quelle che si sogliono complessi-
vamente designare col nome di orfiche, gli servirono
di materiale grezzo. L'impressione che certamente
esse fecero su di lui, si spiega col fatto che il suo senso
di artista provava l'esigenza di uno sfondo trascen-
dente, in cui l'anima socratica, eroicamente sola nella
sua lotta, trovasse un complemento.
Senza un tale punto d'appoggio in un mondo invi-
sibile, l'esistenza dell'uomo che vive e pensa come So-

149) Di questo errore si rende responsabile la più parte di que-


gli studiosi che con mente di storici della religione affrontano
il problema dell'elemento orfico in Platone, Più in là di tutti,
in questa direzione, va il Macchioro che riduce senz'altro quasi
tutta la filosofia di Platone a una derivazione dall'orfismo.
CAP. VI: IL GORGIA [Il 261] 949

crate avrebbe perduto il suo equilibrio, almeno a con-


siderarla in una visione limitata di creature sensibili.
La verità del concetto socratico della vita poteva esser
compresa solo se lo si riferiva a un.« aldilà», come quello
che era ritratto dall'immaginoso e concreto linguaggio
delle concezioni orfiche: una sede di giudizio definitivo
su ogni valore o viltà, su ogni felicità o rovina del-
l'uomo, dove «I'anima in se stessa» è giudicata « dal-
1'anima in se stessa » senza il velo difensivo e ingan-
nevole di bellezza e di rango, di ricchezza e potere 150).
Questo « giudizio», che la fantasia religiosa pone in
una seconda vita, che ha principio con la morte, si
eleva per Platone a una più alta verità quando egli
cerca di pensar fino in fondo il concetto socratico della
personalità umana, come valore puramente interiore
che ha in se stesso il proprio fondamento. Se l'anima
ha la sua salute nell'immunit& da ingiustizia e la sua
rovina e malattia nella contaminazione della colpa, que-
sto giudizio nell'aldilà diventa una sorta di esame me-
dico dell'anima. L'anima nuda si presenta in cospetto
del giudice, nuda anima anch'egli, che spia su di lei
ogni cicatrice, ogni ferita, ogni macchia, che la malat-
tia dell'ingiustizia, di cui essa soffrì in vita, le abbia
lasciato 151). È questo un elemento della sua rappresen-
tazione che Platone non derivò da miti orfici; e in esso
egli espresse uno dei pensieri fondamentali di Socrate,
cioè che l'ingiustizia commessa rimane nell'anima e
impronta di sé la sua essenza, con la conseguenza di
una diminuzione permanente del valore della persona-
lità. Ed è questo il principio su cui si fonda l'identità
teorizzata nel Gorgia, di felicità e perfezione morale.

150 ) Gorg. 523 e: a:u"'ìl -r'ìi IJiux'ìi a:ùTl]v ..-~v 1Jiux7Jv -lteC»poiiv-ra:.
I «veli illusorii » in 523 b-d.
m) Gorg. 524 b-d.
950 [n262] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Nel giudizio le anime che non sono state trovate sane


sono separate dalle altre e ad esse non è dato, come alle
altre, l'accesso alle Isole dei Beati. Esse sono, ancora,
divise in curabili ed incurabili. Per le prime è aperta
una via di risanamento attraverso lunghe sofferenze e
cure dolorose 152). Le insanabili, in maggioranza tiranni
e despoti ai quali non può più giovare alcuna terapia,
sono esposte per tutta l'eternità come «paradigmi»,
ad esempio profittevole, per le altre 153).
Il Gorgia si chiude con l'ammonimento a guardarsi
dall'apaideusia 154), cioè, « dall'ignoranza dei beni su-
premi della vita» e con l'esortazione a rimandare la
partecipazione alla politica attiva, a quando ci si sarà
liberati da questa ignoranza. Per tal modo Platone
ci riporta alla linea fondamentale del dialogo, che è linea
educativa, e alla :filosofia socratica tutta improntata
in questo senso, imprimendo indelebilmente nella no-
stra memoria la sua concezione, diversa da ogni altra,
della paideia. Questa è per lui uno sforzo che l'anima
deve compiere, durante tutta la vita, per liberarsi
dall'ignoranza riguardo ai beni più grandi 155), della
quale è prigioniera e che le sbarra la via alla vera salute.
Queste parole · ci riportano alla conclusione del Prota-
gora, nella quale questa ignoranza cioè « la falsa opi-
nione e l'errore sulle cose che più valgono» era già
designata come la fonte di ogni male 156). Là era detto

152) Le isole dei Beati, 524 a; peccatori sanabili e insanabili,


525 h-c.
163) Gorg. 525 c-d. Fra essi si trova anche Archelao, re di Ma-
cedonia e gli altri tiranni sulla cui felicità Socrate (570 d-e) aveva
sospeso il giudizio in quanto non sapeva « come stavano a educa-
zione e a giustizia». Con evidente derivazione da concetti medici.
si fa vedere che nell'aldilà le anime di coloro che sono «allevati
senza verità» non hanno più membro che sia diritto, ma son
tutte storte e deformi.
154) Gorg. 527 e.
155) Gorg. 527 d 7.
158) Prot. 358 c.
CAP. VI: IL GORGIA [rr263] 951

soltanto che non è proprio della natura umana lo sce-


gliere volontariamente il male, senza che si precisasse
la natura di quella scienza di cui si affermava la neces-
sità, e che sarebbe stata il tema di una ricerca ulte-
riore 1 57). Il Gorgia è la prima completa rivelazione del
programma che là si annunziava, il programma della
paideia socratica, nel suo contenuto etico e nella meta-
.fisica in esso implicita. Si comprende da ci9 come
il Gorgia rappresenti un gradino d'importanza decisiva
in quel grande colloquio con Socrate che si attua attra-
verso i dialoghi platonici, e che noi abbiamo definito
come la progressiva presa di coscienza dei presupposti
filosofici sui quali poggiano la vita e il pensiero di So-
crate 158). Questo processo è assai multiforme, diretto
com'è a cogliere in Socrate sia l'elemento logico e meto-
dico, sia la sua eticità e la sua vita. Il Gorgia è la prima
opera in cui tutti questi elementi siano messi in va-
lore insieme, sempre però con un accento particolare
sull'elemento etico. E in ciò consiste anche il suo
valore di documento riguardo alla paideia platonica.
Nei primi dialoghi platonici, il valore pedagogico
del modo di conversazione socratico era visto essen-
zialmente nell'eleménto metodico, e anche nel tema
stesso, il problema della virtù. Il Protagora, poi, aveva
dimostrato le fondamentale importanza dell'indirizzo
socratico, volto alla scienza dei valori supremi, rispetto
al problema dell'educazione umana, pur senza ancora
discendere al chiarimento di come doveva configurarsi
l'educazione, sulla base di quell'indirizzo. Il resultato
del Protagora era solo la scopert!l del valore del sapere
come via all'areté e la riconosciuta esigenza di una
techne del retto operare. Se questa techne è possibile,

167) Prot. 357 b 5.


158) Cfr. supra, pp. 112, 170 s.
·952 [rr264] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

l'educazione dei Sofisti è fondamentalmente superata,


o almeno relegata in una posizione secondaria. Il Gor-
gia riprende il problema a questo punto e svolge
il tema cli questa techne descrivendone i tratti
essenziali e distintivi e indicandone i presupposti.
Il che si attua nella forma di un dibattito con
la retorica che, comè mostra la chiusa del clialogo, è
considerata, essenzialmente, come una sola cosa con la
sofistica. Tuttavia la scelta della retorica in particolare
come bersaglio della critica, si spiega non solo con
la ragione della varietà formale, ma in quanto essa è
forza direttiva della vita politica e, come tale, attira
la nostra attenzione sul collegamento dell'educazione
con lo stato~ In questo contesto di idee ci sono apparsi,
per ragioni interne, inseribili già i primi dialoghi pla-
tonici; nel Protagora esso viene chiaramente in luce
ed ora, nel Gorgia, esso è esplicitamente ragionato, e
definito più precisamente. Anche la cultura sofistica
aveva tentato, come mostra il Protagora, di prepa-
_rare i cittaclini alla vita politica. Non solo essa aveva
impartito un complesso di co~zioni sullo stato, ma
si era anche occupata teoreticamente del problema so·
ciologico dell'educazione, in quanto questa riceve le
sue condizioni dalla vita e dalla forma dello stato. Ma
il suo scopo era stato solo cli formare capi della vita
pubblica destinati al successo, capi che sapessero pra·
ticamente accomodarsi alle circostanze esistenti e ope-
rare con esse. E, perciò, dal punto cli vista cli Socrate,
la relazione di stato ed educazione era stata nei Sofisti
assolutamente unilaterale, in quanto essi accettavano
lo stato così com'era, come dato, e quincli considera·
vano norma e criterio dell'opera educativa le esigenze
di una vita politica ormai del tutto degenere.
Di contro a ciò il Gorgia svolge la radicale opinione
· platonica, che il problema fondamentale dell'educarione
CAP. VI: IL GORGIA [n265] 953

è il problema della norma suprema, alla quale essa


debba adeguarsi, e della conoscenza del suo fine. So-
crate nel Gorgia appare il vero educatore perché è il
solo che conosca il suo telos. Nell'Apologia e negli altri
scritti giovanili fino al Protago~a incluso, il Socrate di
Platone, in evidente conformità col Socrate della storia,
rinunzia ancora, ironicamente, a ogni pretesa di edu-
care uomini, anche se Platone già lo disegna come il
vero educatore. Nel Gorgia, invece, non solo egli pone
la paide·a, nel senso etico che egli le dà, come il bene
più alto e il culmine della beatitudine umana, ma
anche rivendica a sé il possesso di questa paideia. Pla-
tone ora attribuisce a lui quella che è la sua propria
appassionata convinzione, che Socrate sia il vero edu-
catore di cui lo stato ha bisogno, e fa che Socrate, con
un appassionato orgoglio, che non è socratico ma del
tutto platonico, si dica, in virtù della sua opera edu-
cativa, l'unico nomo politico del suo tempo 1 59). Il vero
compito dell'uomo di stato non è quello di accomo-
darsi alla massa, come lo intende la falsa paideia di
retori e sofisti 160), ma è appunto di natura educativa,
poiché consiste nel fare gli nomini migliori. Nel Gor-
gia, però, non si apprende ancora quale forma ecJ.
aspetto dovrebbe avere uno stato che ·volgesse a que-
sto scopo ogni sua energia. Il compito di questo chia-
rimento sarà assegnato alla Repubblica. Il Gorgia si
limita a bandire, con profetico affiato, lo scopo in se
stesso, cioè il ritorno dello stato al suo compito educa-
tivo. In uno stato come questo, e certo soltanto in esso,
appar possibile e giusto che una forma educativa, in-
tesa, come la socratica, a scoprire la norma assoluta

169) Gorg. 521 d.


160) Questa critica della paideia contemporanea è svolta più
a fondo nella Repubblica 492 b ss., e sopra tutto 493 a-e. Cfr.
infra pp. 454-55.
954 [n266] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

della perfezione umana, pretenda di porsi come il


centro e l'essenza dell'arte di governo.
Fino da quest'opera, la prima in cui Platone svolga
esplicitamente la paideia socratica in una techne politica.
egli la pone nel contrasto più netto con lo stato esi-
stente. Anche fra l'educazione sofistica e rappresen-
tanti della politica c'erano, come sappiamo, elementi di
divergenza e di tensione: ma il conflitto che si rivela
nel Gorgia è di ben altra qualità. I Sofisti furono un'ap-
parizione innovatrice, una nuova moda, e come tali
provocarono l'attenzione e la diffidenza degli ambienti
conservatori; pertanto essi furono sempre in un at-
teggiamento di difensiva, ma sempre si tennero stret-
tamente nei limiti di questa. Anche là dove essi davano
armi all'opposizione con atteggiamenti teorici quali la
teoria del diritto del più forte o la critica del princi-
pio egualitario della democrazia, essi erano costretti
a conciliare questi principii professati in cerchie ri-
strette con il conformismo esteriore. Socrate non ebbe
certo tanti riguardi, e Platone pone un particolare im-
pegno nel dipingere la sua franchezza, oggetto degli
ammonimenti di Callicle 161). Ma il Gorgia va anche più
in là, esaltando questa franchezza in una imponente
opera letteraria e portando il contrasto dell'educazione
socratica con la realtà politica nella piena luce della
pubblicità. Già lApologia aveva avuto il compito,
mostrando Socrate in conflitto · col pubblico potere,
di .porre questo problema al centro dell'attenzione, ed

161) Callicle scambia le critiche rivolte da Socrate allo Stato


ateniese per l'atteggiamento di opposizione filospartana proprio,
in Atene, della minoranza, Gorg. 515 e. Egli crede Socrate spi-
ritualmente legato a questo ambiente. Ma Socrate sottolinea espres-
samente che il suo giudizio riguarda solamente quello che lui stesso
come ogni altro può vedere e sentire da sé. Con ciò evidentemente
Platone vuole appartarsi da ogni politica meramente di partito,
e mettere la sua critica su ben altro piano.
CAP. VI: IL GORGIA [II 267] 955

era riuscita in questo senza togliere al conflitto nulla


della sua gravità. Per essa, anzi, l'urto di Socrate con
lo stato, era apparso, come già si è mostrato, non
un caso, ma una necessità ineluttabile 162). Nei primi
dialoghi platonici, invece, con l'apparire in primo piano
dell'indagine socratica, in quanto forma e in quanto
contenuto, la tensione tra questa nuova scienza poli-
tica e lo stato sembra quasi dimenticata. Ma ecco il
Gorgia a mostrare che questa calma era apparente e
solo di superficie. In quest'opera, in cui Platone per
la prima volta espone la paideia socratica come un
programma concluso, egli la concepisce radicalmente,
essenzialmente, in contrasto con la politica dominante
e con lo spirito che informava la vita pubblica, fino al
punto che, per rivelarne interamente il carattere, basta
la discussione critica con la retorica, rappresentante
autentica, come a lui sembra, con la sua brillante
apparenza, della politica contemporanea. Davvero sem-
bra che egli ammassi le nuvole minacciose da cui non
tarderà a scatenarsi la tempesta.
Ma la novità vera nel Gorgia è che l'accusato non è
più Socrate, ma lo stato. Nello svolgere dal messaggio
socratico, incitante i concittadini' a darsi cura del-
l'anima loro, una compiuta filosofia dell'educazione,
tt
Platone accetta, di quel messaggio, tutta la passività,
accetta in pieno il grave conflitto con lo stato in cui
si era conclusa la vita di Socrate. Nell'Apologia, più
di un lettore, ancora, avrebbe potuto ravvisare la ca-
tastrofe irripetibile di una particolare congiuntura; ma
nel Gorgia appare di assoluta evidenza che il pensiero
stesso di Platone rimane permanentemente sul fronte
di quel conflitto. Quello che è vero per la sua filosofia
m generale, che, cioè, essa si svolge nella ricerca dei

162) Cfr. supra, p. 120 ss.


956 [u268] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

presupposti di vita e pensiero socratici, è particolar-


mente vero in questo punto essenziale: ché il momento
germinale di tutta la sua filosofia dell'educazione è il
tentativo di capire nella sua necessità il conflitto che
aveva condotto alla morte « del più giusto di tutti i
cittadini» 163). La lettera VII mostra in una luce chia-
rissima l'impòrtanza duratura che quell'evento ebbe
nel pensiero filosofico di Platone, sicché, si può dire,
l'opera e la testimonianza autobiografica si completano
mirabilmente a vicenda 164). Nel Gorgia è rappresentato
iJl atto quel conflitto radicale con lo stato de] presente
che Platone, secondo la lettera VII, aveva giudicato
insanabile. In pari tempo, però, si fa manifesto con
quanta concretezza d'interessi politici, Platone, più di
ogni altro scolaro di Socrate, avesse fin da principio
interpretato la missione educativa del maestro. Il ri-
fiuto di quello stato che aveva giudicato intollerabile
la presenza di Socrate non importa per Platone il ri-
fiuto di ogni stato, dello stato in sé. Anzi, proprio il
fallimento di Socrate, «l'unico vero uomo politico del
suo tempo»~ chiarisce perfettamente il compito che
ora s'impone: il compito di mettere lo stato in armonia
con le esigenze socratiche. Non è qUindi l'educazione
che debba mutarsi, come avevano creduto gli accusa-
tori e i giudici di Socrate, ma è lo stato che deve rin-
novarsi dalle radici. Ma che significa questo per Pla-
tone ? La critica del Gorgia è esclusivamente diretta
contro i politici ateniesi del presente e del passato,
sicché può sembrare che Platone, nella sua volontà
riformatrice, facesse ancora assegnamento su un rove-
sciamento politico all'interno della sua patria. Sennonché
la lettera VII mostra che in quel tempo Platone non

168) Cfr. Ep. VII 324 e, e il Fedone, alla fine.


184) Ep. VII 324 e, 325 b, 325 b-326 b.
CAP. VI: IL GORGIA [II 269) 957

pensava già più a questa possibilità 165). In realtà come


avrebbe potuto lo spirito socratico far brecc·a nello
stato ateniese, lo stato, per eccellenza, «retorico» ?
Al fondo del Gorgia, dunque, sta già il nuovo pensiero,
il pensiero della repubblica dei :filosofi. La critica, in
tutto negativa, che è svolta nel dialogo di fronte allo
stato quale era dato dalla realtà storica non mira ad
una rivoluzione violenta 166), e non è neppure il frutto
un cupo fatalismo, di un senso dj rovina totale; i] che,
de] resto, sarebbe pur comprensibile dopo il crollo
materiale e spirituale di Atene nel quale finì la guerra
peloponnesiaca. 11 senso di quella dura negazione della
realtà è ben diverso. Con essa Platone si apre la via
all'edificazione di quell'«ottimo stato». a cui mira e
di cui si prepara ad abbozzare le linee, senza preoccu-
parsi della possibilità di realizzarlo ora o più tardi.
Il primo passo in questo cammino che ora s'inizia, è
l'esposizione, contenuta nel Gorgia, della paideia so-
cratica e del suo :fine, e ciò indica chiaramente che
anche idealmente essa è per lui l'unico punto da cui
possa prendere l'avvio la sua volontà di costruzione
politica, l'unico punto fermo e stabile in un mondo
sociale in rovina.
Il principio paradossale che l'arte della politica
debba fondarsi su una scienza sicura dei beni umani
più alti, ed avere l'unico fine di rendere i cittadini
buoni e felici, nasce evidentemente dalla sintesi del
proposito politico proprio di Platone e della sua fede
nella missione politica di Socrate. Ma questa, che è
spiegazione personale, psicologica, n~n basta per dar
pienamente ragione della concezione platonica di una
techne che sia nello stesso tempo edificazione dello
stato e cura dell'anima. Per il modo di sentire moderno,

ies) Ep. VII 325 e ss.


166 ) Ep. VII 331 d.
958 [n270] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVJNO

qui ci si trova di fronte ad una mescolanza di due com-


piti, tra i quali noi, almeno fino a non molto tempo fa,
usavamo 'distinguere rigorosamente. La nostra politica
è realismo politico, la nostra etica è morale individuale.
Sebbene lo stato moderno, in molte parti del mondo, si
sia attribuito il compito dell'educazione dei giovani,
rivendicando con ciò una parte del compito dello stato
antico, pure rimane difficile per noi accettare, anche
solo come ipotesi, a concezione greca antica, che per
"Platone è ancora, assolutamente, l'ideale, secondo la
quale la legge dello stato è anche la fonte di ogni norma
di vita e la virtù dell'uomo coincide con quella del
cittadino. Questa unità soffrì un primo serio colpo
proprio nell'età di Socrate. Ragion di stato e sentire
morale dell'individuo cominciarono a trovarsi sempre
meno coincidenti, quanto più la vita politica si faceva
aspra e dura e quanto più di fronte al « bene » si affi-
na va e si di1ferenziava, autonomo, il sentimento etico
dell'individuo. Questa frattura, da noi già descritta,
nella primitiva armonia di virtù umana e virtù ci-
vica è il presupposto storico del pensiero politico di
Platone. Era ormai divenuto chiaro che il potere dello
stato di vincolare lo spirito, che era cosa ovvia per lo
stato-città della Grecia più antica, aveva il suo lato
pericoloso. Date le circostanze del momento, quel po-
tere doveva necessariamente portare a una di queste
conseguenze: o che l'individuo di cultura superiore si
ritraesse dalla vita politica, o che tentasse di
applicare ad essa la sua ideale misura etica, e perciò
venisse a trovarsi in una continua insanabile tensione
con lo stato quale era nella realtà. Dalla prima solu-
zione, dalla fuga di fronte ai compiti politici, Platone
è, in linea di principio, assolutamente alieno, cresciuto
in una · tradizione familiare e sociale per cui era indi-
scutibile che i migliori dovessero dedicare la loro vita
CAP. VI: IL GORGIA [n271] 959

allo stato. Del resto, la critica di Socrate non avrebbe


fatto su lui una cosi profonda impressione se egli non
avesse in origine condiviso l'antica concezione secondo
cui lo stato era il legislatore etico per i cittadini. Anche
il conflitto di Socrate col pubblico potere non viene
interpretato da Platone nel senso che sia venuto il
tempo di dare allo stato quel che è dello stato e a Dio
quel che è di Dio. Egli non pensa a sottrarre al dominio
dello stato la parte migliore dell'uomo. Per lui individuo
e comunità formano un tutto e la norma che regoli il
loro rapporto spetta allo stato e solo allo stato di deter-
minarla. Però dall'affermazione di un tale diritto dello
stato al possesso indiviso dell'anima umana, scaturisce
il più difficile dei problemi, nel momento in cui
l'anima scopre nell'intimo della sua coscienza morale
il criterio universale del valore e della felicità umana.
A questo punto lo stato non può rimanere in una posi-
zione inadeguata al grado di sviluppo in.orale raggiunto
e deve divenire, per Platone, l'educatore e il medico
delle anime: e se poi esso non si rivela pari a un tal
compito, si dovrà ritenerlo degenere e indegno della
autorità che si arroga. Nel Gorgia, insomma, si pro-
clama il fermo proposito di sacrificare al compito etico-
educativo tutte le altre funzioni dello stato.
Inoltre, accanto alla concezione tradizionale dell'alta
importanza della polis per la vita del singolo, anche
un secondo motivo ci fu che condusse a questo nuovo
e singolare atteggiamento politico. Ed era un motivo
implicito nella stessa teoria socratica della virtù. Nel-
l'atto in cui Platone, d'accordo con Socrate, fonda la
rettitudine dell'azione in una scienza dei valori su-
premi. l'attuazione di tali valori si fa, di cosa mera-
mente soggetta all'opinione e al sentimento soggettivo,
compito della conoscenza più alta a cui possa elevarsi
l'intelletto umano. Socrate stesso aveva, di questa
960 [n272] LIBRO lii - ALLA RICERCA DEL DIVINO

. scienza del bene, indicato l'altezza e la difficoltà, quando,


con la sua ironica confessione d'ignoranza, aveva signi-
ficato che essa non era cosa di tutti. Non si interpreta,
quindi, rettamente la libertà, rappresentata da Socrate
di fronte alla tradizione, quando si vuol vedere in essa
la conquistata indipendenza della «coscienza» indi-
viduale. Quando Platone dà al concetto di questo sa-
pere socratico il rigoroso senso della sua « arte poli-
tica», egli ne accentua con energia il carattere obiettivo.
È un sapere, questo, che non si contrappone al sa-
pere dell'uomo di scienza, dello specialista; anzi fa il
suo ideale e modello del sapere di questo. Per ciò un
tale sapere non è accessibile alla massa ma è oggetto
della più alta conoscenza filosofica. Proprio in quel
punto del processo .di pensiero, dove noi aspetteremmo
di veder nascere il concetto moderno della coscienza
individuale e della libera scelta etica del singolo, que-
sto concetto è di nuovo scartato ed al suo posto è ri-
stabilita l'autorità di una verità filosofica obiettiva,
che si arroga di reggere tutta la vita della comu-
nità umana e, per essa, dell'individuo. Se esiste una
scienza nel senso socratico essa non può, secondo Pla-
tone, realizzarsi pienamente se non nel quadro di una
comunità associata, che egli concepisce, nella maniera
tradizionale, come una civitas.
CAPITOLO SETI'IMO

IL MENONE
IL NUOVO CONCETTO DELLA SCIENZA

Nei primi dialoghi Platone aveva tentato per varie


vie di accostarsi alla conoscenza della virtù, e tutte
avevano condotto a scoprire che le cosiddette virtù
singolarmente prese, fortezza, sapienza, pietà religiosa
e giustizia, non erano che parti di un tutto, dell'unica
«virtù», e che questa, nella sua essenza era un sapere.
Nel Protagora e nel Gorgia, questa conclusione, presup·
posta valida, era stata assunta a nucleo essenziale del
problema educativo, e si era delineata per la prima
volta in maniera precisa una paideia basata su questo
fondamento. Platone, in quei dialoghi, aveva mostrato,
mediante un dibattito a fondo coi rappresentanti del-
!'educazione del tempo, che gli unici fra essi che des-
sero al sapere una vera importanza, i Sofisti, non sa-
pevano poi trarre dalla loro premessa la legittima con-
seguenza, che su una scienza si dovesse fondare anche
la formazione morale e politica dell'uomo. Quanto poi
ai rappresentanti dell'educazione tradizionale, essi erano
completamente al di fuori, perfino dalla posizione di
questo problema. In sostanza Socrate, nel Protagora,
aveva tentato di tirar dalla sua i Sofisti. Ma, quanto
più egli, nello sforzo di pensar fino in fondo la sua fa.
mosa proposizione per cui la virtù si riduce alla fine
962 [11274] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

a conoscenza, si era trovato imbarazzato dalla sua ne•


gazione iniziale che la virtù sia insegnabile, tanto più
fortemente Protagora si era rifiutato di riconoscere
che l'unico modo di salvare la sua pretesa di essere
maestro di virtù era di accettare lassioma socratico,
secondo cui la virtù è scienza.
Per questo, era fin: da quel momento apparso chiaro
che quella scienza del bene di cui parlava Socrate era
qualcosa di diverso da ciò che s'intende usualmente
con quella parola, senza che però si fosse giunti a ri·
cercare la natura particolare di quella scienza. Il Pro·
tagora si limita - voluta limitazione - a dimostrare
che la virtù è insegnabile, solo nel caso che Socrate
abbia ragione nell'affermare che la virtù è una scienza.
Tutt'al più, c'è nel Protagora una suggestione riguardo
a questa scienza, che essa sia, cioè, un'arte della mi-
sura; ma di che specie di arte si tratti, e quale sia il
metro che le appartiene, è questione che resta in so-
speso e che si rimanda a un'altra occasione 1). Ciò non
significa necessariamente che si alluda a un determi-
nato dialogo. Platone tratta parecchie volte il problema
della scienza, e non lo conduce mai a una soluzione
del tutto acquietante. Ma comunque l'accenno a una
discussione ulteriore del problema significa chiara~ente
che, una volta posta questa equazione virtù-scienza, e
chiarita l'importanza di questa scienza della virtù
rispetto all'educazione, s'impone ormai urgentemente
la ricerca di che cosa sia scienza in questo senso. Ed
è il Menone il primo dialogo nel quale sia affrontato
il problema, un dialogo che anche cronologicamente è
tra i più prossimi a quelli trattati fin qui, tale, perciò,
da potersi considerare come il primo tentativo di ri-
sposta alla domanda posta nel Protagora: che specie

1) Prot. 357 b.
CAP. VII: IL MENONE [rr275] 963

di s~ienza è quella che Socrate considera fondamentale


per l' areté ?
Si sa qu~to sia importante il problema della scienza
nella filosofia platonica. Ma è stato un esagerare questo
giusto riconoscimento, quello di chiamare, come si è
fatto, il Menone, il programma dell'Accademia. Con que·
sto si è mostrato soltanto di fraintendere Platone per
piegarlo a significati moderni. Nessun programma di
una scuola platonica avrebbe mai potuto limitare la
:filosofia al problema della scienza, specialmente se que-
ste parole s'intendono nell'astratta universalità della
moderna teoria della conoscenza e logica. Nello stesso
Menone, anzi, dove per la prima volta questo compl~sso
di problemi è trattato con relativa compiutezza e auto-
nomia, Platone si dà cura di mostrare come per lui
il problema della scienza si svolga organicamente dal
complesso della sua indagine etica e riceva da essa si~
gnificato. Anche qui egli parte dalla domanda: come
si può giungere al possesso dell' areté? 2) La questione,
senza dubbio, non viene sottoposta nel Menone allo
stesso minuto esame che si ha in altri dialoghi, dove
fa capo all'affermazione consueta, essere l'areté rag-
giungibile solo attraverso il sapere. TI punto centrale
ed essenziale è occupato, questa volta, dal problema
della scienza e dell'origine di essa. Bisogna, però, non
perdere di vista, che in tutta la discussione di questo
problema, Platone intende per scienza, la scienza
della virtù e del bene, la nuova scienza socratica.
E questa non è separabile dal suo oggetto e non è
intelligibile se non si parta da esso. Platone comincia
il dialogo ponendo a tema di discussione, ma in forma
succinta e quasi da scuola, le varie possibili risposte
al problema della genesi dell'areté: è insegnabile la virtù

2) Meno, 70 a.
964 [rr276] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

oppure la si acquista con l'esercizio? oppure nessuno


di questi due mezzi è valido, ma essa è largita all'uomo
o per natura o in altra diversa maniera ? Questa era
la forma tradizionale del problema, la forma in cui
esso ci è familiare già fin dai poeti antichi, da Esiodo,
Teognide, Simonide e Pindaro, e in essa lo troviamo
anche nei Sofisti, che a quella tradizione si riallaccia-
rono. Quello che, per Platone, è nuovo, nella maniera
socratica di porre il problema, è che ora, ci si domandi
per prima cosa che cosa sia, in sé, l'areté, prima di
avventurarsi a dire come si viene a possederla 3).
Il significato logico di questo problema, al quale
continuamente riportavano le discussioni sulle singole
virtù, contenute nei dialoghi minori, è chiarito con
particolar cura e con ampiezza nel Menone. Più che in
qualsiasi dei dialoghi minori, Platone rende evidente
al lettore tutta la portata della domanda: che cosa è
la virtù, in sé ? Prima di tutto è chiarito il significato
di questo «in sé» e la distinzione tra la virtù in sé
e le singole particolari forme fenomeniche della virtù;
giacché Menone ha imparato dal suo maestro Gorgia
a far differenza tra la virtù dell'uomo e quella della
donna, tra la virtù dell'adulto e del fanciullo, del libero
e dello schiavo 4). Socrate ~on sa che farsi di tutto
questo «sciame di virtù» che Menone gli presenta, in-
vece dell'unica virtù che sta a fondamento di tutte

3 ) Meno, 71 a. Dal punto di vista scientifico sembra che que-


sto ordine nella posizione dei problemi sia l'unico logico e natu-
rale. Ma gli antichi poeti erano stati ben lontani dal porre il pro-
blema della natura dell'areté in una forma così generale, anche
se essi, p. es. Tirteo, Teognide, Senofane, credettero di dover
dare la preferenza a u n a vlliù di fronte alle altre. Il fatto che
Socrate faccia dipendere l'acquisto dell'areté dalla soluzione del
problema della sua natura, cioè da un difficile e complesso proce-
dimento intellettuale, mostra che l'areté in se stessa è divenuta
problematica per Socrate e per il sno tempo.
') Meno, 71 d-e.
CAP. VII: IL MENONE (II 277] 965

queste apparenze 5). Una classificazione delle virtù. se-


condo il sesso, l'età, la posizione sociale, potrà risultare
utile ed appropriata da altri punti di vista, ma perché
essa stessa si possa attuare è necessario considerare la
virtù unica nella relazione che passa tra essa e i di-
versi uomini che la posseggono e i modi diversi di rea-
lizzarla. Questo, però, sarebbe in ogni caso il lato re-
lativo della virtù, mentre ci si era mossi a ricercare
la sua essenza assoluta 6). Questo « qualche cosa » per
cui le virtù non più appaiono distinte e varie, ma sono
una e identica cosa, Platone lo chiama eidos 7). Esso
è « quello per cui» esse tutte sono viitù 8). Questo
nome di eidos Platone lo sceglie, perché solo g u a r -
d a n d o a questo « qualche cosa» 9 ), si può dare una
chiara ed esatta risposta a chi domandi che cosa è
virtù. Le parole« guardando a qualche cosa» (&:no~ÀÉ'ltCùV
e:tç ·n) si trovano continuamente in Platone ed
esprimono efficacemente e plasticamente la natura di
ciò che egli intende per eidos o idea. Come per I'areté,
esiste un eidos anche per altri « concetti» affini (« con-
cetti» diremmo. noi ; ma Platone non ha ancora né la
consapevolezza di questo « qualche cosa» logico, né
un nome adatto per esso, e perciò meglio si farebbe
a chiamarle «entità»). Tali sono gli eide o idee della
sanità, della grandezza e della forza 10). Già nel Gorgia
e altrove queste entità si vedono contrapposte come
virtù (aretai) del corpo alle virtù dell'anima 11). Tutti
questi esempi, quindi, non sono scelti a caso e mostrano

5) Meno, 72 a.
6 ) Meno, 72 b, dove si indica come scopo dell'indagine l'es-
senza (oùa(ci:) di una cosa; ma cfr. già nel Protagora 349 b.
1) Meno, 72 e 8.
B) Meno, 72 e; cfr. l'esempio di 72 b.
Il) Meno, 72 c-d.
1°) Meno, 72 e.
ll) Gorg. 499 d, 504 b, dove Platone «tra l'altro» nomina la
966 [rr278] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

una volta di più che l'eidos platonico prende concreta


forma sempre e soltanto in relazione al problema
della virtù. Come, quando si vuol sapere che cosa è
sanità, non ci si cura di precisare se essa si manifesta
in maniere diverse nell'uomo, nella donna e così via,
ma di cogliere l' eidos sempre identico della sanità, e
nello stesso modo ci comportiamo con la forza, la
grandezza e con tutte le altre virtù del corpo, così,
trattandosi di virtù dell'anima, non fa alcuna diffe-
renza che la giustizia p. es., o la sapienza, si riscontri
in un uomo o in una donna. Essa è sempre la stessa 12).
L'esame di questi problemi logici si mantiene di
proposito in un terreno elementare e vuol solo chiarire
i passaggi essenziali del pensiero socratico. Platone
stesso designa il dialogo di Socrate con Menone come
un «esercizio (µi::ìhni) f~tto a fine di rispondere alla
domanda sull'essenza dell'areté» 13). Questa essenza,
però, non è soltanto caratterizzata dal fatto che essa
si contrappone, come ciò che è semplice ed assoluto,
alle varie relazioni della virtù con esseri umani diversi,
ma anche dal suo contrapporsi a quel che Platone
chiama le parti della virtù, cioè giustlzla, pru-
denza, e simili 14). Si è detto di sopra che riguardo
all'unità della virtù, non fa alcuna differenza che
si tratti, p. es., della giustizia di un nomo o di
una donna. Ma, con tutto ciò, non sarà la virtù, in
quanto essa è giustizia, diversa dalla virt~ in quanto è
prudenza? E la divisione della virtù nelle varie forme

salute e la forza come esempi delle « virtù del corpo» ( &pe:-r0tl


<H~µ0t-roi;). Nelle Leggi 631 c si trovano associate salute, bellezza
e forza. La stessa triade era menzionata. anche da Aristoteìe nel-
l'Eudemo (fr. 45 Rose), scritto in un tempo in cui egli si muove
ancora su terreno platonico ed è ancora valido testimonio della
dottrina accademica ufficiale.
12) Mena, 73 c.
13) Meno, 75 a.
1 4) Meno, 74 a.
CAP. VII: IL MENONE [n279] 967

speciali, nelle quali si manifesta, non è tale da mettere.


in pericolo quell'unità di cui si va in cerca ? In altri
termini: non sarà la .giustizia realmente diversa dalla
prudenza ? Dai dialoghi socratici minori e dal. Prota-
gora noi già sappiamo che l'unità essenziale di tutte
queste parti della virtù è il problema fondamentale di
Socrate 15). Colà egli aveva chiamato questo oggetto
della sua ricerca «tutta la virtù» o «tutto quel che
è virtù». Qui. nel Menone egli identifica la oòa(oc,
l'essenza della virtù, con la somma di ciò che si può
predicare non solo di una qualunque delle singole parti
della virtù, ma della virtù « come un tutto » o « in
co,mplesSO» (xoc-roc oÀou) 16). Ecco ormai, per la prima
volta, coniata l'espressione per la nuova idea logica
dell'universale (xoc.&6Àou) e in un modo che la rende
mirabilmente evidente. L'eidos del bene o dell'areté,
del quale Platone parla, non è altro che questa visione,
appunto, del bene «come un tutto» 17). Ma ciò
che è proprio e singolare di questa concezione è che
questo bene « come un tutto», xoc-roc liÀou, è descritto
da Platone anche come ciò che veramente è reale ed
esistente, e ciò impedisce di identificarlo col nostro
« concetto» logico, con «l'universale». Come nei dia-
loghi precedenti, cosi neppure nel Menone non si giunge
ad una vera e propria definizione dell'areté, ~d è chiaro
che quando la domanda s~'essenza della virtù fu
posta da Platone, egli non pensava affatto che si do-
vesse rispondere con una definizione. In luogo di ciò
si prendono di nuovo in esame le parti della virtù,
e queste sono di nuovo ricondotte al problema della

15) Cfr. Prot. 329 c·d., 349 h.


16 ) Meno, 77 a.
17 ) Anche in questa maniera di designare l'atto logico è espresso
quel senso della «visione» che si trova anche nelle espressioni
dì eidos o idea, indicanti proprio il vedere, l'immagine.
968 [n280] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

virtù in sé, cioè all'idea. La domanda «che cosa è»


non si risolve in una definizione, ma nell'idea. L'idea
è il fine del processo dialettico del pensiero platonico.
Questa è la conclusione che il lettore ricava fin dalle
prime opere di Platone, e il Menone la rende ancora
più chiara 18).
Se si cerca .d'intendere, nel suo chiaro senso lette-
rale, questa analisi del processo logico della dialettica
socratica, come l'intese Platone, il suo più autorevole
interprete, e come egli la conduce, un passo dietro
l'altro, nel Menone, ci sembra quasi impossibile cadere
negli errori in cui critici e interpreti filosofici antichi
e moderni sono incorsi nel giudicarla. Comincia la
serie, in qualche maniera, già Aristotele con la sua
famosa affermazione, secondo la quale Socrate sarebbe
stato il primo a tentar la definizione dei concetti uni-
versali, mentre Platone, poi, avrebbe ipostatizzato que-
sto concetto logico dell'universale in una realtà onto-
logica, creando cosi un inutile doppione 19). L'idea
platonica, quindi, presupporrebbe già avvenuta la sco-
perta dell'universale logico. Ed effettivamente., se ciò
si crede vero, l'idea non può che apparire uno strano
doppione del concetto, che è nell'intelletto umano.
Ciò hanno creduto vero la maggior parte degli studiosi
moderni di logica, i quali hanno seguito Aristotele in
questa ricostruzione del processo che condusse Platone
a stabilire la teoria delle idee 20). Però, anche am-

1 8 ) Il concetto di eidos era già venuto alla luce con gli inizi
dell'attività letteraria di Platone, nell'Eutifrone, 5 d, 6 d-e; nel
Gorgia poi (503 e; cfr. 499 e) è ormai del tutto chiaro che I'eidos
è al centro del pensiero platonico. Nel Menane (72 c-d) viene in
primo piano il problema logico dell'« uDico eidos» nella moltepli-
cità dei fenomeni. Sul Liside cfr. infra, p. 301, n. 7.
1 9) Arist. Met. A 6 987 b l; M 4 1078 b 17-33 (cfr. A 9 990 b 1).
20) La « scuola di Marburg » che attraverso numèrose pubbli-
cazioni rappresentò per un certo tempo, e con molto vigore,
una nuova corrente d'interpretazione platonica, prese recisamente
CAP. VII: IL MENONE [rr281] 969

messo che quello che noi chiamiamo concetto sia già


in potenza racchiuso nella domanda socratica «che
cosa è questo», è certo che Platone, nell'interpretare
quella domanda sull'essenza della virtù, prese tutt'altra
via da quella che sembra naturale ai logici moderni.
Per il moderno l'universale logico è qualcosa di
così ovvio, che quel di più che c'è, oltre esso, nel-
l'idea platonica, è sentito soltanto come un'aggiunta
perturbatrice e problematica. Si assume, cioè, sen·
z•altro, che la virtù in sé debba essere stata concepita
come concetto logico, prima che si potesse attribuire
inoltre, a questo concetto un'esistenza in senso onto·
logico. Ma, in realtà, di questo doppio significato della
parola, non c'è traccia nel Menane e, se anche noi riu-
sciamo a distinguere nelle parole di Platone questi due
aspetti, l'universale logico e il reale ontologico, pure,
per lui, essi sono assolutamente la stessa cosa. La
domanda: che c<Js'è l'areté, mira direttamente al·
l'oùalot, alla sua essenza reale, e questa è appunto
l'idea 21). Solo nei dialoghi più tardi la relazione del-
l'idea col molteplice fenomenico, designata fino allora
da Platone, un po' vagamente, come «partecipazione»
del particolare all'universale, dive~ta per lui un pro-

posizione contro la concezione di Aristotele: in questo senso operò


specialmente P AUL NATORP con la sua Platos IdeenlehTe, Mar-
hurg 1910. Questa reazione, però, non poté condurre immediata-
mente alla chiarificazione della situazione storica reale dei due
grandi pensatori, per il fatto di essere andata troppo oltre in di-
rezione opposta. Si disse dai seguaci di questa tendenza che Ari-
stotele aveva, a torto, trasformato le idee platoniche in «cose»
(verdinglicht), e si prese a difendere Platone, ma piuttosto nel
senso della logica moderna che in quello schietto di Platone, in·
quanto si dette alle Idee un carattere puramente logico. Fu Juuus
STENZEL, nel suo libro giovanile, Studien zur Entwù:kl.ung der pla-
tonischen Dialektik, Breslau 1917 che, mettendo a profitto la le-
zione fornita dal fallito tentativo della scuola di Marhurg, trovò
la chiave della situazione storica reale della logica platonica del-
.I' essere.
21) Cfr. supra, n. 6.
970 (II282) LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

blema, e, con ciò, affiorano talune difficoltà logiche, di


cui· egli non aveva avuto ancora coscienza, nel primo
concepimento dell'Idea.
Perciò, i fraintendimenti dei moderni espositori
non tanto derivano da false interpretazioni - non fa-
cili, in sé, a verifìcarsi - delle parole platoniche, quanto
dal fatto che ·nelle interpretazioni si venivano intro-
ducendo alcuni concetti logici posteriori. Aristotele,
partendo dalla formulazione, a lui familiare e ovvia,
del concetto universale logico, riscontrava, da un lato,
e con ragione, che questo è incluso e implicito . nel-
ride~ platonica; ma, d'altro canto, constatava che
Platone aveva concepito, nella sua Idea, questo uni-
versale, anche· come CIO che veramente e pro-
priamente « è», come il reale. Questo secondo passo
era, secondo Aristotele, l'origine degli errori in cui Pla-
tone era incorso nel determinare la relazione dell'uni-
versale col particolare. Secondo Aristotele, egli aveva
trasformato i concetti uuiversali in entità meta:fì.si-
che, dando loro, cosi, un'esistenza indipendente di-
stinta dal mondo sensibile; ma, in verità Platone non
aveva fatto il secondo passo (l'ipostatizzazione dei con-
cetti), semplicemente perché non aveva ancora .fatto
il primo, cioè l'astrazione dei concetti universali, come
tali. 11: da dir piuttosto che il concetto logico è in lui
ancora avviluppato e involto nell'idea; esso è, come
Platone lo descrive, il processo di penetrazione dalle
apparenze all'essenza della virtù, un atto, cioè, di vi-
sione intellettuale che concepisce nel molteplice l'uno.
Platone stesso designa, nella Repubblica, la natura del
processo dialettico come « sinossi», cioè come visione
sintetica degli elementi comuni in una molteplicità
di apparenze che vengono a cadere sotto un'unica e
identica idea. Questa di « sinossi» è l'espressione più
propria a caratterizzare l'atto logico descritto nel Me-
CAP. VII: IL MENONE [n283] 971

none 22). D'altro lato il metodo dialettico è definito


qui come un « render conto » di qualcosa e un « accor-
darsi, convenire» in qualcosa. Ciò è essenziale, perché
vieta di pensare che quell'atto di visione spirituale sia
qualcosa di ineffabile, che si sottragga assolutame~te
all'esame altrui. Una risposta dialettica, insiste Pla-
tone, deve non solo esser vera ma poggiare su quello
che l'interlocutore ha ammesso 23). Si viene cosi a pre-
supporre che, riguardo all'oggetto di una tale visione
intellettuale, si può arrivare ad intendersi con altri
mercé un colloquio nella forma di domanda e risposta.
Più tardi, nella Repubblica e nella lettera VII, apparirà
chiaro che il lavoro paziente di questa intesa dialettica
è la lunga e faticosa via che bisogna percorrere per
accostarsi a « vedere» l'idea 24).
È difficile dire se e fino a qual punto, dietro all'ana-
lisi condotta nel Menone del contenuto logico della
dialettica socratica, stia già un edificio di regole gene-
rali logiche. Che sia cosi è assai verosimile, anche se,
come si è visto, le conclusioni a cui si giunge, proven-
gono tutte dallo studio di un problema solo, il problema
della virtù. È significativo in questo senso, per non
dire dell'alto grado di consapevolezza logica che Pla-
tone dimostra in ogni parte di questo dialogo, soprat-
tutto il largo uso che Platone fa di espressioni tecniche

22) Il sostantivo aòvo<jnç si trova in Resp. 537 c, il verbo


auvopéiv in Phaedr. 265 d, dove compare insieme con la parola
«idea» («vedere insieme in una sola «idea» il disperso molte-
plice»). Nel luogo citato della Repubblica Platone deriva da que-
sto verbo l'agg. « sinottico», con cui caratterizza la natura e la
capacità dell'uomo dialettico. Anche nel M enone Socrate cerca
di cogliere l'unità del molteplice: cfr. 72 a-b, 74 b, 75 a.
23) Meno, 75 d.
24) Cfr. infra, p. 548 s. e Ep. VII 341 c. Il rapporto di questi
combinati sforzi dialettici con latto della visione intellettuale, in
cui vengono a risolversi, è chiarito nella lettera VII col paragone
dello sfregamento di due pezzi di legno, dal quale alla fine sprizza
fuori la scintilla.
972 [11284] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

nel descrivere i singoli procedimenti metodici. Per im-


postare un «esercizio», come Platone fa in questo
dialogo 25), bisogna esser padroni delle regole su cui
si vuole che l'esercizio si svolga. Particolarmente istrut-
tivo, a questo proposito, è osservare con quanta consa·
pevole maestria Platone chiarisca procedimenti logici
a mezzo di esempi (paradeigmata), mettendo in luce
ripetutamente la loro funzione. Cosi la domanda: «che
cos'è la virtù» è chiarita con l'esempio della domanda:
«che cos'è una figura» e la domanda se la giustizia
sia I a virtù o u n a virtù è spiegata con la domanda
parallela, se il circolo sia l a figura o u n a figura 26).
Quando in un luogo si dice che gli altri colori non sono
meno colori del bianco e che la curva non è figura
in misura maggiore della retta 2 7), ciò tende a spie-
gare logicamente quello ·che Platone intende parlando
di essenza (oùaEoc); ché l'essenza, come p. es. mostra
anche il Fedone, non ammette un più o un meno, e nes·
suna figura è figura in misura maggiore di un'altra 28).
Un più e un meno si danno, invece, rispetto alla qualità
o relazione. Queste stesse conclusioni si trovano espresse
più tardi nella teoria delle categorie di Aristotele, ma
erano già familiari a Platone e, come mostra il Menane,
fin dalla giovinezza 29). Una analisi dei processi logici
nei primi dialoghi sarebbe di grande interesse da que-
sto punto di vista. Si vedrebbe allora che nel Menone
non si tratta dei primi incerti tentativi di giungere a
penetrare la natura logica della dialettica socratica, ma
che Platone parla come chi possiede pienamente questa

25) Cfr. supra, n. 13.


26) Meno, 74 b.
27) Meno, 74 d.
28) Meno, 74 e. La curva non è «più» (oòl>È:v µii),J,ov) figura,
di quanto lo sia la retta. Cfr. Phaedo, 93 b-d.
29) Cfr. il mio «Aristotele» (p, 52-54 trad. Calogero) dove di-
mostro la stessa cosa per il Fedone platonico.
CAP. VU: IL MENONE [11285] 973

conoscenza della logica. Nel dialogo, Socrate si trova


dinnanzi, per il suo esperimento, uno scolaro che rap·
presenta intellettualmente la media dei buoni studenti
dell' Accade:inia 30). Questa è la forma in cui Platone
rende i suoi lettori consapevoli dei proble:ini elemen·
tari della logica, senza la comprensione dei quali non
è dato capire i suoi dialoghi. Egli ha piena coscienza
dei limiti che gli sono posti dalla forma letteraria,
nel compito di spiegare una materia così tecnica.
Ma gli riesce, in ogni modo, di dare anche ai· non
iniziati un'idea cosi della difficoltà come dell'attrat-
tiva di questo nuovo campo di problemi.
La matematica ha nel Menone una parte tutta sua.
Senza dubbio Platone ebbe per essa, fin dagli inizi,
un interesse vivissimo, giacché anche i primi dialoghi
rivelano cognizioni matematiche precise. A quel modo
che nel GoTgia, dove si trattava dì segnare i lineamenti
della nuova techne etico-politica, l'ufficio di modello era
stato tenuto piuttosto dalla medicina, così nel Menone
fa da modello la matematica. Ciò vale prima di tutto
rispetto al metodo. Così, fin dal primo tentativo di
determinare l'essenza dell'areté, si ricorre, in via di
esperimento e modello, a .cercar di .-dire che cosa è una
figura 31). Nella seconda parte del dialogo dove Socrate
e Menone riprendono di nuovo dal principio la ricerca
di che cosa sia l'areté, ancora si ricorre per aiuto alla
matematica. Non sanno ancora, essi, che cosa sia areté,
ma poiché per motivi di etica educativa la questione
che prima di ogni altra li interessa è se la areté si possa
insegnare, Socrate ora atteggia in nuovo modo il pro-
blema, domandando come deve esser fatta l'areté per-

30) Menone è rappresentato scolaro di Gorgia, di cui ha udito


le lezioni in Tessaglia (cfr. 70 b, 76 b ss.); è quindi fornito di pre-
.parazione adatta.
31) Meno, 74 b.
974 [Il 286] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

ché si possa insegnarla. Con questo egli mira al suo


noto postulato che la virtù sia un sapere. Ma è signifi-
cativo che egli per questo metòdo della «ipotesi»
faccia appello al geometra 32). Quanto, poi, ai partico•
lari dell'esempio addotto (quello del triangolo da iscri·
versi in un cerchio) ci si può dispensare dal parlarne qui.
Non soltanto; però, la matematica appare nel Me·
none come modello metodico, applicato a questo o quel
particolare, bensì si ricorre ad essa anche per ..chiarire,
in generale, quella sorta di scienza a cui Socrate mira.
Questa ha in comune col sapere matematico la carat-
teristica di partire da apparenze sensibili, le quali rap·
presentano l'oggetto .della ricerca, senza appartenere,
però, essa stessa, al mondo dei sensi. Essa può essere
appresa solo nell'anima, e .l'organo dell'apprendimento
è il logos. Socrate dimostra ciò a Menone, rivolgendosi
a uno schiavo di lui, un giovane non privo d'intelli·
genza ma ignorante, e facendogli scoprire da sé, in
presenza del padrone, la soluzione del problema della
duplicazione del quadrato, su uua figura disegnata alla
meglio 33). Questo esperimento pedagogico rappresenta
il culmine del dialogo. Per esso Platone ci consente di
gettare uno sguardo sulle riflessioni che lo condussero
a riconoscere l'origine puramente intellettuale, assoluta·
mente distinta dall'esperienza sensibile, della certezza
scientifica. Lo schiavo, naturalmente, non sarebbe riu·
scito, senza l'aiuto di Socrate, a fare i passi necessari
per giungere alla conoscenza di quella complessa realtà
matematica, ed infatti non ha evitato nessuno degli
errori che un intelletto ingenuamente impigliato in una
visione puramente sensibile necessariamente commette,

32) Cfr., sul metodo dell'ipotesi, 86 e-87 a. Similmente nel Pro-


tagora si è dimostrato che se l'areté è una scienza, deve essere in-
segnabile.
33) Meno, 82 b ss.
CAP. VII: IL MENONE [rr287] 975

prima di capire la vera ragione delle cose. Ma la cer-


tezza che le cose stanno in quel modo e non altrimenti
non gli viene, in.fine, da ness~ altra fonte che dalla
sua visione interiore, e, una volta che egli si è chia-
ramente reso conto della natura di quelle tali relazioni
matematiche, la sua visione assume una forza di con-
vinzione assoluta, che esclude ogni dubbio. Questa forza
di convinzione, conferita cosi alla cognizione, non viene
dall'istruzione che gli è gtata impartita, ma dal suo
stesso intelletto, ormai penetrato della necessità in-
tima alla cosa appresa 34).
Al fine di chiarire più precisamente la natura di
questa visione interiore, Platone ricorre al mondo d'hn-
magini del mito religioso. Poiché una visione non è,
per il modo di pensare schiettamente greco, concepibile
senza un oggetto reale a cui si rivolga, e poiché, d'altra
parte, l'intelletto dell'uomo - e lo ha mostrato l'esem-
pio dello schiavo e della dimostrazione geometrica da
lui eseguita - non ha visto, non ha conosciuto mai
niente di simile a questa visione nella sua esistenza
presente, Platone interpreta la conoscenza delle verità
matematiche, potenzialmente esistente nell'anima, come
una visione che l'anima deve avere avuto in una vita
anteriore 35). Il mito dell'immortalità dell'anima e del
suo migrare per più forme corporee dà colore e consi-
stenza, appropriati alla nostra fantasia di esseri finiti,
a questa preesistenza cosi postulata e supposta 36). Nel
Menone l'idea dell'immortalità dell'anima, come fon-
damento necessario del concetto della personalità mo-
rale, non è la cosa che sta più a cuore a Platone 37) ;

34) Meno, 85 b-d.


35) Cfr. il concetto di« reminiscenza» (andmnesis), Meno, 85 d.
36 ) Meno, 86 b.
81 ) Come invece gli sta a cuore uel Fedone.
976 [rr288] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

. di più gli preme la possibilità, che quell'ipotesi gli offre,


di far risaltare su uno sfondo appropriato la sua nuova
teoria di un sapere innato nell'anima dell'uomo. Senza
questo sfondo la caratterizzazione di questo sapere ri-
marrebbe una pallida e vaga figurazione. Essendo essa
invece collegata con la preesistenza, prospettive inso-
spettate si aprono in varie direzioni e la conoscenza del
bene in sé, di cui si andava in cerca, si rivela del tutto
indipendente dall'esperienza esteriore e si eleva a di-
gnità quasi religiosa. Questa conoscenza è, da un lato,
di evidenza matematica e, dall'altro, è come un fram-
mento di un mondo superiore che s·inserisca nell'esi-
stenza umana. È caratteristica di tutta l'opera di
Platone questa posizione della scienza matematica, quasi
di ausiliaria della teoria delle idee. Essa appare dap-
pertutto come un ponte .di passaggio alla conoscenza
delle idee 38), e questa funzione essa deve avere avuto
per Platone stesso quando si accinse a fissare per via
logica quella conoscenza che Socrate aveva cercato, e
il suo oggetto.
Con quest'opera Platone poté credere di avere as-
solto il compito trasmessogli da Socrate; ma, in realtà,
egli fece anche un gran passo oltre il punto in cui si
era fermato il maestro. Questi non era uscito dalla
sua professione d'ignoranza, e Platone, invece, non
rallenta mai l'impulso animoso che lo porta avanti,
al sapere. Né ciò toglie pregio all'ignoranza socratica,
in cui, anzi, Platone scorge il segno della vera gran-
dezza d Socrate, interpretandola come la doglia natale
di una scienza tutta nuova, di cui era pregna l'anima
di lui. Una tale scienza è proprio quel conoscere tutto
interiore, tutto della. mente, che il Menone si adopra,
per la prima yolta, a formulare e a descrivere con qual-

38) Cfr. infra, p. 522 i;s.


CAP. VII: IL MENONE [rr 289] 977

che precisione; è la V1s10ne delle Idee. Non è, quindi,


caso che, proprio nel Menone, Platone faccia apparire
l'ignoranza, l'«aporia» del maestro in una luce nuova
e positiva. Certo, Platone, per parte sua, non ehhe bi-
sogno di giungere a questo dialogo per scoprire questa
positività. Ma egli doveva dimostrarla agli altri e
questo non poté fare finché non si accinse a rivelare la
mirabile natura di questa scienza che dall'interno
dell'anima, soltanto, si crea la sua certezza.
Quando il giovane Menone, richiestone da Socrate,
fa il primo tentativo di definir l'areté e arriva a una
definizione fallace, che viola, come Socrate gli dimostra,
una regola fondamentale della dialettica, egli racconta,
deluso, di aver già udito dire da altri della pericolosa
arte di Socrate, di p~rtare la gente a tali passi da non
sapere andar più né avanti né indietro 39). Socrate, per
lui, è da paragonar con la torpedine (narke), il pesce
fornito di qualità elettriche, che paralizza la mano che
lo tocca. « Sta bene», dice Socrate, «il paragone sa-
rebbe da accettare, purché però il pesce che produce
la paralisi la subisse anche lui e anche lui restasse im-
mobile». Anche Socrate si sente sempre vittima ttel-
l'aporia in cui induce gli altri 40). Ma è proprio l'aporia,
come Platone mostra nell'esempio matematico, la vera
fonte dell'apprendere e del capire 41). Nella matematica,
evidentemente, Platone cerca, e trova un esempio per-
fettamente aderente all'aporia socratica, un esempio
che gl'insegna, una volta per sempre, l'esistenza di
aporie che sono la condizione essenziale per la vera so-
luzione di una difficoltà.
L'episodio matematico del Menone serve, dunque,
a dimostrare la fecondità educativa dell' aporéin e a far

39) Meno, 80 a.
40) Meno, 80 c.
41 ) Meno, 84 c.
978 [rr290] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

.vedere che esso è il primo passo sulla via della cono-


scenza della verità positiva. C'è un graduale processo
per il quale lo spirito va progredendo verso la piena
coscienza di sé, e la parte che, in tale processo, spetta
all'esperienza sensibile è di svegliare nell'anima il ri-
cordo dell'essenza delle cose contemplate «fino dal-
l'eternità» 42 ),, Questa funzione è propria dell'esperienza
in quanto le cose che cadono sotto i sensi non sono
che copie delle idee, secondo la concezione che Platone
chiarisce e fonda in altri luoghi. Nel Menone la teoria
che il sapere in senso socratico è reminiscenza è solo
accennata, come avviene anche per la teoria· dell'im-
mortalità e preesistenza, che viene svolta ampiamente
nel Fedone, nella Repubblica, nel Fedro e infine nelle
Leggi. Qui, quello che a Platone importa è di affermare
che «la verità su ciò che è, è racchiusa nell'anima» 43).
Questa affermazione mette in moto il processo della ri-
cerca e della metodica formazione dell'autocoscienza.
Lo sforzo verso la verità non è altro che un aprirsi
dell'anima, un dispiegarsi di un contenuto esistente in
essa per natura 44), e ha origine, come già si accenna in
questo dialogo, in una profonda nostalgia 45). Perciò
Socrate più volte rifiuta la parola «insegnare » (3 ~31*­
axitw}, come non adatta a designare questo processo, in
quanto suggerisce l'immagine di un'anima che venga
riempita, dal di fuori, di cognizioni 46). Lo schiavo non
ha certo riconosciuta per vera quella tale proposizione
matematica, perché essa gli sia stata insegnata, ma

42) Men.o, 8lc, d, e, 82 h, e, 84 a, 85 d, 86 b.


") Men.o, 85 c, 86 h.
") Meno, 86 h-c. La ricerca del vero appare qui come l'essenza
non solo della« filosofia» socratica, ma della natura umana in ge-
nerale.
41i) Meno, 84 c 6.
16) Meno, 84 c 11, d l, 85 d 3, e 6.
CAP. VII: IL MENONE [rr291] 979

solo perché egli l'ha prodotta da sé dalla sua mente 47).


Come nel Protagora e nel Gorgi.a Platone chiarisce il
significato etico della ·nuova paideia col contrapporla
alla educazione sofistica, così egli nel Menone sviluppa
il profondo concetto di scienza latente in germe nel
messaggio socratico, mettendolo di fronte alla meccanica
concezione sofistica del processo di apprendimento. Il
vero apprendimento non è alcunché di passivo, non è
una ricezione, ma è un atto di energica ricerca, possibile
soltanto se ha luog~ una spontanea partecipazione
del discente. In tal modo, dal complesso dell'esposizione
platonica risulta con immediata chiarezza la virtù etica,
formatrice del carattere, che l'attività scientifica pos-
siede 48). E una nota fondamentale dello spirito greco
raggiunge qui la sua più completa espressione: la qua-
lità attiva, energica, di quello spirito, il suo sforzo di
trovare solo in se stesso i motivi determinanti di ogni
pensiero e azione.
Dal concetto platonico di scienza che è chiarito
nell'episodio matematico del Menone, viene ad illu-
minarsi anche la parte finale del dialogo in cui si ri-
prende il vecchio problema: che cos.a sia l'areté 49 ). Si è
già detto che il problema della scienza e della sua es-
senza, sorge essenzialmente in Platone dal problema
dell'areté: non meraviglia, pertanto, che, chiusa la di-
scussione sopra la scienza, si cerchi di ricavare da

' 7) Meno, 85 d 4 &vtXÀIX~oov tXÙTÒç ~ tXÒ-rou -rl)v im<rrfiµ71v.


L'interesse di Platone è volto al caso particolare del sapere ma-
tematico, perché questo ha in comune l'origine con la scienza dei
valori. Ma, in questo momento, il vero e proprio problema è quello
di quest'ultima.
48) Meno, 86 b. Il segno della vera forza d'animo è visto qui
nel coraggio della ricerca. Evidentemente è questo un modo di
ribattere il rimprovero di critici del tipo di Callicle, per i quali
il persistere in studi filosofici ha è:lfetto debilitante e rende imbelli
(cfr. supra, p. 237 s.).
&9) Meno, 86 c 5.
980 [Il 292] LIBRO !Il - ALLA RICERCA DEL DIVINO

essa qualche elemento istruttivo per quel problema


dei problemi della disciplina socratica 50). Nella parte
introduttiva del Menone, precedente la vera e propria
indagine sulla scienza, si era data dell'areté una defi-
nizione volutamente ingenua, in cui la si considerava
come « la facoltà di procurarsi i beni di qualunque ge·
nere» 51). La soluzione cosi avventurata si mantiene
ancora sul piano dell'antica etica inizialmente popolare
greca, al modo solito di Platone che sempre inizial-
mente si fonda sulle condizioni che la realtà storica e
la tradizione gli offrono. Questa definizione provvisoria
è poi in qualche modo integrata e avvicinata al rigore
del pensiero etico con l'aggiunta delle parole« in ma-
niera giusta» 52). Ma neppure con questo si definisce
la relazione della giustizia con la virtù pura e semplice,
e, in ogni caso, non si chiarisce, con quella definizione,
l'essenza della virtù, giacché nel definire si commette
l'errore logico di spiegare l'essenza della virtù con una
delle sue parti, con la giustizia, cioè si dà per cono-
sciuto quello che appunto si tratta di conoscere 53).
Fino a questo punto della ricerca, dunque, siamo
ancora lontani dalla definizione socratica di virtù come
scienza né se ne fa menzione; ma, quando, nella parte
centrale del dialogo, si pone il problema « che cosa è
scienza>>. diventa subito chiaro che l'esame di esso
serve a introdurre il concetto socratico di scienza che
servirà poi alla definizione dell'areté. A questa infatti
si arriva nella forma, di cni si è fatto menzione più
sopra, della definizione ipotetica: se la virtù è insegna-
bile essa deve essere un sapere MJ. Ora si rivela che nes-
suno di quei beni che il mondo brama cosi ardentemente,
60) Cfr. supra, p. 274.
61 ) Meno, 78 c.
52) Meno, 78 d.
53) Meno, 79 a-b.
64) Meno, 87 b.
CAP. VII: IL MENONE (II 293) 981

quelli che la gente chiama salute bellezza ricchezza e


potenza, è un bene reale per l'uomo se non lo accom-
pagni la conoscenza e la ragione 55). E perciò, la scienza
di cui andiamo in cerca sarà questa ragione, sarà la
phr6nesis, che saprà dirci quali sono i beni veri e i
falsi, e quali tra essi si debbono scegliere 66). Nella
Repubblica Platone chiama questa scienza, « la scienza
della scelta», appunto, e dimostra come nella vita
l'unica cosa che veramente importi è di acquistare
questo genere di scienza 5 7). Una scienza che poggia
sopra la conoscenza sicura di quelle Idee, esemplari
eterni dei più alti valori, che l'anima si trova innanzi,
in se stessa, quando riflette all'essenza del buono, del
giusto ecc., e che ha la forza di determinare e guidare il
volere. E quando pure a questa conoscenza non si giunga,
è questa la direzione in cui si ha da cercare la rispo-
sta alla domanda di Socrate sull'essenza della virtù.
Platone, però, preferisce che il dialogo si chiuda
con un'aporia schiettamente socratica, nella quale noi
riconosciamo il vecchio dilemma che già si è incontrato,
parte essenziale e culminante nel Protagora: se la virtù
è insegnabile bisogna che essa sia un sapere e in tal
caso Socrate, che proprio questo ·afferma, possederebbe
la chiave per giungere a un'educazione nel più vero
senso della parola 58). Ma l'esperienza sembra dimostrare
che non esiste un maestro di virtù, dato che finora nep-
pure i più grandi ateniesi, del passato e contempora-
nei, non sono stati capaci di trasmettere ai propri figli

65) Meno, 87 d ss.


66) Meno, 88 c 5.
5 7 ) Resp. 618 c. Noi «dovremmo trascurare ogni altro genere
di scienza, e andare in cerca di questa sola », che egli descrive
(618 c 8-e 4) come la scienza (etaév<Xt) che ci mette in grado di
fare la iriusta scelta fra il bene e il male (<Xlpe:fo.&<Xt, a.tpeat~).
58) Cfr. supra, p. 205. ·
982 [n 294] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

abilità e carattere 59). Quegli uomini - Socrate è disposto


a concederlo - hanno posseduto, per conto proprio,
l'areté; ma se essa fosse una scienza, essa avrebbe
dovuto valere come potenza educatrice. Poiché così
non è stato, non resta, evidentemente, che ammettere
che l'areté di quegli uomini fosse fondata, soltanto su
una «retta opinione» 60), largita all'uomo per un «:vo-
lere divino» (.&e:f~ µotp~) 61), ma non tale da metterlo
in grado di render conto della propria azione, non pos-
sedendo egli «la conoscenza della causa» 82). Cosi, alla
fine del Menone non siamo andati, apparentemente,
oltre il Protagora. Ma è proprio solo un'apparenza, giac-
ché in verità si è raggiunto nella parte centrale del
Menone, con l'aiuto dell'esempio matematico, un nuovo
concetto del sapere, di una conoscenza che, non inse-
gnabile nel senso di una dottrina trasmessa da altri,
si accende però da se stessa nell'anima del ricercatore,
quando, e purché, il suo pensiero sia indirizzato e gui-
dato per la retta via. La grande arte di Platone nel
ritrarre la maniera dialogica di Socrate, è proprio questa:
di non darci, neppure qui, dove finalmente ci sentiamo
vicini ad afferrarlo, il resultato bell'e fatto, ma di far-
celo. trovare da noi. Quando, però, il dilemma posto da
Platone nel Protagora 63), sia avviato a una tale solu-
zione, si giustifica in modo perentorio, che Socrate, come
fa nel Protagora e nel Gorgia, rivendichi il diritto di
considerarsi educatore. La nuova paideia, è vero, non si

69) Meno, 89 e-91 h, 93 a ss.


80) Meno, 97 h ss.
61) Meno, 99 h ss. &&Lx µoipoc, 99 e, 100 e cbtò ..Ux7Jc; ·nv6c;,
99 a. Sul concetto cli divina Tyche o Moira v. la disserta-
zione cli EDMUND G. BEBBY, The History and DB11elopment of the
Con.cept of .&elce µotpoc and .&ela: ..Ux7J down to and in.cluding
Plato, Chicago 1940, dove si troverà anche citata la letteratura
precedente sull'argomento. Cfr. inoltre infra, p. 463.
&Z) Meno, 98 a.
68) Prot. 361 h. Cfr. supra, p. 205 ss.
CAP. VII: IL MENONE [Il 295] 983

può insegnare nel senso in cui questa parola era intesa


dai Sofisti, e Socrate aveva con ragione negato di edu-
care gli uomini per mezzo della pura istruzione. Ma,
in quanto egli fece valere l'esigenza logica, per cui la
virtù si identificava con una scienza, aprendo anche
a questa scienza la via, egli divenne l'unico vero edu-
catore e cacciò di nido i falsi profeti di una sapienza
di scuola. Con questa paideia sofistica, Socrate è posto
esplicitamente in. contrasto nell'ultima parte del Me-
none. Ciò avviene mediante l'intervento di un nuovo
personaggio, Anito, per il quale il discorso s'indirizza al
problema della vera educazione. Naturalmente questo è
un problema al quale si aveva l'occhio fin dal principio
del dialogo, fin da quando si poneva la questione, da
cui si è svolto il concetto socratico di scienza: come
si origini nell<'uomo l'areté. Questa questione, qui come
nel Protagora, sbocca in un dilemma: i Sofisti che in-
segnano una dottrina, non sanno, per essa, produrre
l'areté, e gli uomini politici, che per natura (q>Uae:L)
posseggono l'areté non sono capaci di trasmetterla ad
altri, sicché l'areté sembra esistere nel mondo soltanto
per gratuito dono divino, a meno che non si trovi
un uomo politico che sappia rendere anche gli altri
simili a sé. Questo «a meno che», su cui è facile pas-
sar sopra, è la cosa più importante e racchiude, in
realtà, la soluzione del dilemma. E noi la conosciamo
già dal Gorgia. Socrate è, secondo la paradossale tesi
platonica, questo unico vero uomo politico capace di
far migliori gli uomini. Il sapere, come egli lo concepisce,
può essere ridestato nell'anima umana, e come ciò
possa farsi, lo ha mostrato il Menone. E cosi risulta
chiaro, alla fine, che l'areté, come Socrate la intende, è
tanto «per natura», quanto è« insegnabile », mentre, se
queste parole s'intendono nell'usuale senso pedagogico
essa non è né insegnabile né esistente per natura, se
984 [rr296] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

non, tutt'al p1u, come un talento e una disposizione


naturale che non può dare alcuna ragione di sé.
Ma la virtù educativa di Socrate non dipende soltanto
da quel carattere metodico, proprio della sua concezione
di scienza, che Platone mette in rilievo nel Menane, mercé
l'analogia con la dialettica e la matematica. Questa
teoretica scienza delle Idee, nascente dalla riflessione
della mente sul suo cosmos interiore, è sempre anche,
per Platone, attraverso le varie luci in cui egli la· pre·
senta nei dialoghi, l'attuazione vera e piena della
disposizione naturale dell'uomo. Così nell' Eutidemo la
phr6nesis di Socrate è descritta come via all' eudaimonia,
alla prosperità vera M), sicché il messaggio del maestro
suona qui di un suono tutto mondano e non è, in ogni
modo, concepibile se non animato dalla coscienza di
dare all'uomo, in questa vita stessa, una condizione
stabile e sicura mercé la scienza dei beni supremi. Nel
Fedone, invece, questa scienza disvela, nella raccolta
visione dell'ora estrema, la sua vittoriosa superiorità sul
mondo, apparendo per il filosofo come la preparazione
di ogni giorno e di ogni ora alla morte 65). Ed è questa
instancabile meditazione di morte che conduce al trionfo
supremo, all'apoteosi di Socrate che si diparte dai suoi
in serena letizia, come chi, veramente, è libero. La
scienza qui è vista come «raccoglimento» dell'anima
- uno degli immortali concetti psicologici creati da
Platone - 66) quando dalla dissipazione dei sensi, che
sempre la premono verso l'esterno, essa<< si concentra»
su quello che è più suo, sulla sua attività interiore. Nel
Fedone, il contrasto tra la natura spirituale e sensuale
dell'uomo trova la sua espressione più incisiva.

"') Cfr. specialmente il discorso protrettico di Socrate, Euthyd.


278 e-282 d.
66) Phaedo, 64 b.
66) Phaedo, 67 c, 83 a.
CAP. VII: IL MENONE [Il 297] 985

Pure, questa «ascesi» dell'uomo filosofico, che con·


sacra l'esistenza intera al conoscere e, perciò, al racco-
glimento costante, non è concepita da Platone come
il significato esclusivo e unilaterale della vita; ma, con
tutta l'enorme prevalenza che essa conferisce all'ele-
mento spirituale su quello corporale, essa si presenta
del tutto conforme a natura. Colui che ha abituato la
sua anima, in questa vita, a separarsi dal corpo, e si
è per tal modo fatto certo dell'eternità che egli porta
in sé, nell'anima, non ha più paura della morte. Cosi,
mentre nel Fedone l'anima di Socrate spicca il volo,
come il cigno apollineo, ancor prima di lasciare il corpo,
per i campi del puro essere 57), nel Simposio, Platone
rappresenta il filosofo come l'incarnazione più alta del-
l'uomo dionisiaco, e la scienza dell'eterna bellezza, a
cui esso s'innalza è l'attuazione perfetta dell'impulso
primigenio della vita umana, di Eros, il gran demone
che compenetra il cosmos e lo tiene unito. Nella Re-
pubblica, infine, la scienza del filosofo si rivela fonte
di tutte le facoltà legislatrici e sociali dell'anima. In
tal modo, la filosofia di Platone non è solo una nuova
teoria del conoscere, ma è universale visione (&e:Còp(oc)
del cosmos, di tutte le energie umane e demoniche.
In questo quadro il sapere occupa il centro, perché
la conoscenza del significato delle cose è anche la forza
creatrice che tutte le guida e le ordina. La scienza è
perciò per Platone colei che addita la via al mondo
del Divino.

61) Phaedo, 85 b.
CAPITOLO OTTAVO

IL SIMPOSIO
EROS

Platone si pose per tempo, in uno dei più amabili


dei dialoghi minori, il Liside, il problema dell'amici-
zia:, annunciando cosi uno dei motivi fondamentali
della sua filosofia, che doveva trovare svolgimento pieno
nelle grandi opere della maturità dedicate al tema di
eros: il Simposio e il Fedro. Come l'indagine sulle virtù
singole, condotta negli altri dialoghi del primo periodo,
così anche questa sull'amici.zia si inserisce nel maggior
co~te8to della filosofia politica di Platone. La teoria
dell'amici.zia costituisce il nucleo di una trattazione
dello stato che lo concepisce, prima di tutto, come
forza educatrice. Nella Repubblica e nella lettera VII
Platone attribuisce la sua rinunzia alla politica attiva
alla mancanza di amici e compagni fidati, che potes-
sero aiutarlo nel lavoro di rinnovamento della polis 1).
Egli sembra pensare, cioè, che se la comunità nel com-
. plesso è organicamente ammalata o guasta il risana-
mento può venire solo da una comunità, più ristretta
ma sana, di persone concordi, la quale sia cellula ger-
minale di un organismo nuovo. E questo è sempre il

1) Resp. 496 e 8. Ep. VII 325 d.


988 [II 300) LIBRO !II - ALLA RJCERCA DEL DIVINO

significato dell'amicizia (<ptÀ(a;) per Platone: la forma


fondamentale della comunità umana, in quanto que-
sta è non solo vincolo naturale ma colleganza etica e
spirituale.
Il problema perciò si estende molto al di là di quel
campo che si vuol circoscrivere con la parola « ami-
cizia», in questa forma nostra, estremamente indivi-
dualistica, di vita sociale. Si riesce a scorgere più esat·
tamente il vero ambito del concetto greco di filia solo
se si segue il suo ulteriore svolgimento fino alle fini
analisi dell'Etica Nicomacliea di Aristotele, che deriva
direttamente dalla teoria platonica. In quest'opera,
Aristotele espone una completa sistematica di tutti i
modi concepibili di comunità umana, dalle più sem-
plici forme di vita familiare fino ai diversi tipi di co-
stituzione politica. È, questa, una vera e propria filo-
sofia della vita associata, le cui ·radici sono da trovare
nella speculazione specialmente di Platone, ma anche
di tutta la cerchia socratica, che aveva dato sempre
a questo problema una importanza singolare 2). Come
tutto il movimento etico che prese l'avvio da quella
cerchia, così in particolare l'approfondito concetto di
amicizia che essa aveva rappresentato, fu sentito come
diretto contributo alla soluzione del problema politico
e come tale fu proclamato.
La psicologia volgare, che aveva pur fatto al tempo
di Platone qualche insoddisfacente tentativo di sta·
bilire la genesi dell'amicizia, la riconduceva o all'affi-
nità dei caratteri o all'attrazione dei contrari 3). Siamo
qui in un campo del tutto esteriore di mera compara-
zione di anime. Nel Liside si cerca per la prima volta
di andare audacemente più a fondo, giungendo al con-

1) Cfr. supra, pp. 94-97.


8) Lys. 215 a, e. Cfr. Arist. Etk. Nic. VIII 1155 a 33 ss.
CAP. VIII! IL SIMPOSIO [Il 301] 989

cetto nuovo di« ciò che prima è caro» (7tp6>-rov q>LÀov),


che è, secondo Platone, la fonte e l'origine necessaria:
di ogni legame amichevole tra uomini 4). In grazia di
questo universale oggetto primo dell'amore, quello a
cui si rivolge essenzialmente il nostro desiderio, si ama
tutto quello che nel particolare si ama 5). È questo
il :fine che noi cerchiamo di raggiungere o realizzare in
ogni legame cbe si stringa con altri uomini, qualunque
sia il particolare carattere di questo legame. In altri
termini, l'oggetto dell'indagine di Platone è il prin-
cipio che dà senso e scopo a ogni forma di umana so-
cietà, e a questo principio si riferisce il Liside ponendo
come guida il concetto di « ciò che prima è caro».
Siamo, con ciò, in accordo pieno con quel che si dice
nel Gorgia, dove si professa non essere possibile una
vera società tra uomini che vivono una vita di banditi;
ché società non si dà se non tra buoni 6). ·Quell'idea del
bene che appare, negli altri dialoghi socratici, punto
fisso di orientamento, si rivela misura assoluta e ultima
istanza anche rispetto al problema dell'amicizia; poiché,
anche senza che Platone fo dica espressamente, è chiaro
per il lettore intelligente, che dietro « ciò che prima
è caro», per cui tutto il resto si ama, si cela il valore
supremo, il «buono in sé» 7). Cosi già nel Liside s'in-

4) Lys. 219 c-d.


5) Lys. 219 c-d. La formulazione fa pensare al luogo del Gorgia
(499 e), dove Platone indica il Bene come meta finale di ogni azione
e definisce il Bene come ciò per cui si fa ogni altra cosa. Anche nel
Liside è chiaro da 220 b, che egli vuole affermare la stessa idea.
L'allusione al concetto di telos, oltre che in 220 b -raÀitUTro•nv,
è anche in 220 d tTltÀEUTOC. Ciò che è <p(Àov in grado supremo
è quello a cui si cuovono (come a causa finale) tutte le amicizie.
8 ) Gorg. 507 e.
7) Con ciò si raggiunge la prova definitiva che l'idea dcl bene
è in realtà la meta di tutte le ricerche che si svolgono nei primi
dialoghi platonici (cfr. supra, p. 159). Anche il Lisitk, infatti,
appartiene a questo gruppo, sia per forma letteraria, sia per at-.
990 [Il 302] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

travede la prospettiva che le due opere capitl;\)i dedi-


cate al concetto di eros spiegheranno a pieno: ogni
comunità si fonda e si giu5tffica in quanto la norma
intima all'anima e la legge di un bene supremo costi-
tuiscono il legame vicendevole delle nature umane,
quella norma e quella legge che, come il mondo umano,
così tengono unito il cosmos intero. Già nel Liside,
del resto, la forza del primo principio d'ogni amore
è estesa al di là del mondo umano: esso è il bene a
cui tendono e che desiderano tutte le cose, non noi
soltanto. Similmente, anche nel Gorgia, il problema
della società umana s'inserisce, mediante l'energica ne-
gazione del diritto del più forte, nel quadro di una su-
prema simmetria cosmica, vale a dire dell'accordo di
tutte le cose con una misura ultima, la cui essenza
e il cui valore, per altro, non sono ancora, in quel dia-
logo, :fissati più precisamente 8).

Nel Simposio si rivela la perfezione somma dell'arte


platonica, tale che nessuna parola umana può preten-
dere di renderle giustizia coi mezzi dell'analisi critica
o di una parafrasi per quanto accurata e aderente.
Quello che qui si può e si deve tentare è solo di :fissare
nelle grandi linee il contenuto dell'opera dal punto di
vista della paideia. Già fin dal titolo Platone significa
che il dialogo non è, come i più dei suoi, costruito tutto
su una figura centrale. Esso non è un dramma dialet·

teggiamento filosofico, il che trova conferma anche nei resultati


dell'analisi linguistica. La data del dialogo, e l'importanza di
esso per il problema dello svolgimento del pensiero platonico,
furono il tema di una interessante polemica tra M. POBLENZ (« Got-
tinger Gelehrte Anzeigen», 1916, N. 5) e H. v. ARNDI (« Rheini·
sches Museum», N. S~. LXXI [1916], 364). Per una datazione
alta del Luide, mi associo all'opùiione dell' Arnim.
8 ) Gorg. 507 e-508 a. Comunione e amicizia (q:iiÀ(a:) tengono
insieme il cosmos, e si fondano sulla supremazia del Bene, ricono·
scendone il valore di misura suprema.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [Il 303] 991

tico, come il Protagora o il Gorgia. Meno che mai poi;


può essere paragonato con opere di timbro puramente
scientifico, col Teeteto e col Parmenide, esposizioni
asciutte di un'indagine metodica su una determinata
questione. Anzi, il Simposio non è neppure un dialogo,
nel senso usuale, ma piuttosto un agone oratorio tra
uomini di alta e insigne personalità. Alla mensa del
poeta tragico Agatone, ospite e festeggiato insieme,
si trovano raccolti rappresentanti di ogni ramo della
cultura e dell'intelligenza, per solennizzare la splen-
dida vittoria del poeta nelle gare drammatiche. In
questa cerchia ristretta, però, è Socrate colui che ri-
porta la vittoria nell'agone oratorio, una vittoria che
val di· più dell'applauso tributato il giorno prima ad
Agatone da più di trentamila spettatori nel teatro 9).
La scena è simbolica, giacché, accanto al poeta tragico
è presente anche il più gran poeta comico del tempo,
Aristofane, e poiché i discorsi di questi due rappresen-
tano senza dubbio il punto culminante del dialogo prima
che, per ultimo, prenda a parlare Socrate, il Simposio
viene ad essere la realizzazione visibile di quel primato
della filosofia sulla poesia che Platone sostiene nella
Repubblica. Ma la filosofia non poteva sollevarsi a di-
gnità cosi alta, se non diveniva essa stessa poesia, o
almeno, non creava opere poetiche di qualità altis-
sima, che mettessero dinanzi agli occhi degli uomini,
in tutta la sua forza immortale, la sua vera essenza,
oltre ogni lotta di opinioni.
Con la scelta del luogo dove è posta la scena, Pla-
tone nel Simposio riesce a dare una cornice adatta al
problema di Eros. Dai tempi più antichi i simposiierano
stati le sedi in cui si conservava la tradizione della
più schietta areté virile e dove essa si . celebrava

9) Symp. 175 e.
992 [rr304] LIBRO lii - ALLA RICERCA DEL DIVINO

nel canto dei poeti. Cosi il simposio ci apparisce


già presso Omero 10). Ma anche un riformatore, appar-
tenente al declino dell'età arcaica, il poeta filosofo
Senofane, pensa va alle cerchie intelligenti dei sim-
posii e ad esse si rivolgeva, quando formulava le sue
critiche alla religiosità omerica 11). Cosi pure furono fatte
per esser reçitate nei conviti le massime di aristocra-
tica saggez~a educativa di Teognide Megarese. Teo-
gnide afferma che il suo canto sopravviverà, fidando
nel perdurare di esso nei simposii dei secoli avvenire;
e in questa speranza egli non s'ingannava 12). Il legame
tra la paideia nobiliare di Teognide e l'amore del poeta
per il nobile giovinetto Cimo, a cui son rivolte le su.e
massime, chiarisce la connessione tra simposio e Eros,
come energia educatrice; connessione, questa, che fu.
la base su cui Platone concepi il suo Simposio. Special-
mente· vicina, poi, alla tradizione e al costume dei
conviti è l'educazione delle scuole filosofiche, nella quale
i conviti divennero una delle forme stabili di relazione
tra maestro e discepolo, assumendo così un'impronta
tutta nuova. Le numerose opere filosofiche o di eru-
dizione che traggono il loro titolo dal simposio, di cui
è ricca la letteratura greca dopo Platone 13), testimo-
niano dell'efficacia rinnovatrice esercitata dallo spirito

1°) a: 338 e passim. Il cantore, nel banchetto, onora la virtù


degli eroi
u) Cfr. Xenoph. fr. 1 (Diehl) e « Paideia», I, p. 322. La (LV"IJ·
µocruv"IJ &µ~' &pe"t''ìjç, cioè il ricordo vivace della eroica virtù del
passato ha il suo luogo proprio nel simposio.
12) Teognìde, v. 239, dice che Cimo, a cui si rivolge nel suo
canto, sopravviverà tra i posteri, nei conviti; vivrà, cioè, perché
vivrà il canto.
13) Sul simposio come forma letteraria e su ciò che di questa
produzione rimane, esiste una trattazione di J. MAfl.TIN, Sympo-
sion. Die Geschichte einer literarischen Fonn, Paderbom 1931.
Tra gli scolari di Platone, Aristotele scrisse un Simposio e di
Speusippo si citano narrazioni di dialoghi conviviali (da Plutarco,
nell'introduzione delle Quaestiones Convivales I).
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [n305] 993

6.loso:fìco, con la sua problematica più ricca e complessa,


su questa istituzione di vita sociale che fu per i Greci
il convito.
Platone è il fondatore della nuova forma :filosofica
del simposio. In lui l'antico costume raggiunge elabo-
razione letteraria e nuovo significato filosofico, e que-
sto processo si accompagna di pari passo con quello
in cui egli viene organizzando la vita intellettuale
della sua scuola. Nell'ultima epoca della vita di Pla-
tone il simposio diventa sempre più chiaramente lo
sfondo della vita Cli pensiero. Così, tra i titoli delle
opere perdute di Aristotele si trovano menzionate « Re-
gole» destinate ad essere applicate nel simposio, del
tipo di quelle che Platone nelle Leggi aveva auspi-
cate 14). Al principio di quest'opera egli dedica un libro
intero al valore educativo del bere e dei conviti, di-
fendendone l'ùso contro accuse di varia provenienza.
Tutto questo codice di regole per i banchetti - sul
quale si dovrà tornare in seguito - sorse certamente
dal costume, ormai fissato nell'Accademia, di tenere
regolarmente trattenimenti del genere 16). Platone, che
nella Repubblica si dichiara in favore del costume spar-
tano dei syssitia 16), nelle Leggi h.iasima la mancanza

14) Cfr. Legg. 641 a. Secondo Ateneo, furono composte da Se-


nocrate, scolaro e successore di Platone, « Leggi per il Simposio»
(voµo' auµ7to·nxol) in uso dell'Accademia e lo stesso fece Ari-
stotele per la scuola peripatetica Quest'ultima testimonianza è
confermata dai cataloghi a noi giunti degli scritti di Aristotele,
nei quali si trova menzione di un libro «Leggi per i sissizii» (ci-
tate talvolta come «Sui sissizii o simposii»), e di« Problemi sui
sissizii» in tre libri. Le «leggi regali» (v6µoL ~a:aLÀ~xol), che
Ateneo pure menziona (I 3 ss.) sono evidentemente la stessa
cosa delle «leggi conviviali», e si riferivano al « re» o presi-
dente del simposio ((3a:a~Àeùi; -rou auµ7toatou). In questo luogo
di Ateneo è fatta menzione, tra i compositori di tali libri di
regole, oltre che di Senocrate e di Aristotele, anche del succes-
sore immediato di Platone, Speusippo.
15) Cfr. << Paideia » III, 385 ss.
1 6) Resp. 416 e.
994 [rr306] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

dei simposii come uno dei lati più manifestamente


deboli dell'educazione spartana, volta a promuovere
solo il coraggio, non il dominio di sé 17). L'educazione.
come la praticava l'Accademia, doveva colmare anche
questa lacuna. È notevole che, di fronte a tutto ciò,
la scuola d'Isocrate prendesse l'atteggiamento opposto,
rispecchiando cosi la moralistica sobrietà del maestro,
che vedeva la rovina di Atene nel troppo bere dei
giovani ateniesi 18). Anche su Eros, il pensiero d'Iso-
crate non sarà stato molto diverso. Platone, invece,
costringe tutte e due queste forze, Dioniso ed Eros,
al servizio della sua idea. Vive in lui la certezza che
la :filosofia riempie di senso nuovo, e trasforma in un
valore positivo, tutto ciò che è vita, anche quello che
sta ai confini oltre i quali il pericolo comincia. La sua
fiducia è di poter compenetrare di questo spirito la
realtà tutta, sicché vengano necessariamente a con-
fluire nella sua paideia tutte quelle energie naturali
ed istintive che, altrimenti, essa cercherebbe invano
di combattere. Tra Apollo e Dioniso egli getta auda-
cemente un ponte. Gli sembra impossibile, quando s'ina-
ridisca quella fonte perenne di slancio e d'entusiasmo
che sono nell'uomo le energie irrazionali, che si tocchi
mai la vetta di quella suprema illuminazione che investe
lo spirito nel contemplare l'idea del bello L'unione ini-
ziale di Eros e Paideia è il pensiero fondamentale del
Simposio. E, se questo pensiero non è nuovo, come
si è visto, ma già solidamente_ radicato nella tradizione,
veramente nuovo e ardito è che, in un tempo di arido
illuminismo moralistico, che era destinato, come ogni
sintomo faceva credere, a travolgere nella condanna
e nell'oblio il mondo greco antico dell'amore maschile,

17) Legg. 637 a ss., 639 d. 641 a ss.


18) Areop. 48-49.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [11307] 995

con tutta la sua tr1st1zia, ma anche con tutte le sue


idealità, che in un tempo come questo, Platone faccia
rivivere ancora quel mondo e ne foggi una figurazione
pura di scorie e più nobile. Con quella sua figurazione
del volo di due anime intiniamente unite, al regno
della bellezza eterna, Platone ha dato a Eros l'immorta-
lità. Noi non conosciamo le esperienze personali che
furono al fondo di questo cammino di purificazione.
Sappiamo solo che da esse fu ispirato uno dei più grandi
capolavori poetici della letteratura del mondo. La sua
bellezza non è racchiusa solo nella perfezione della
forma, ma nella fusione di passione vera col puro li-
brarsi della speculazione e con la forza di una libera-
zione morale, che si esprime con audacia trionfante
nella scena finale.
Tutta la nostra ricerca ha mostrato che la :filosofia
e la facoltà poetica di Platone sol!l.o dappertutto l'espres-
sione di una sintesi in cui si legano, da un lato, lo
sforzo di attingere un ideale di universale validità,
e dall'altro, la più precisa concretezza dell'esistenza
reale. Questa qualità si esprime prima di tutto nella
forma dialogica stessa che sempre prende l'avvio da
situazioni e persone determinate, anzi, in realtà, da
un'unica situazione spirituale vista nella sua spirituale
unità. Nel quadro di questa Socrate cerca, mercé la
dialettica, di arrivare a intendersi con gli altri, uomini
come lui, su ogni sorta di beni comuni a tutti. Comuni
sono perciò i problemi che sorgono e gl'interlocutori
sono tratti a sperare dalla collaborazione una so-
luzione comune che sintetizzi tutte le tendenze in con-
trasto. Il Simposio realizza per eccellenza. la condizione
di nascere da una situazione spirituale determinata : esso
è, in realtà, un coro di voci reali di una data età, dal
quale alla fine ;;i leva vittoriosa, a guidarlo, la voce di
Socrate. Il principale pregio drammatico di esso sta nella
996 [rr308] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

maestria della pittura di caratteri, che ha saputo com-


porre in una sinfonia di ricchezza inimitabile, i di-
versi tipi di teoria su Eros, in quel momento dominanti.
È impossibile qui rendere perfettamente questi di-
versi aspetti che il tema assume; eppure essi son tutti
indispensabili per la comprensione del discorso di Dio-
tima, che Socrate dice. di ripetere. Questo discorso di
Socrate-Diotima, Platone. stesso lo designa come il
fastigio dell'edificio, e veramente pare appropriata l'im-
magine, che alcuni hanno usato per definire i discorsi
che precedono, quasi di terrazze che di grado in grado
conducono a questa vetta. Platone abbandonò del
tutto per il Simposio la forma usuale del dialogo socra-
tico, e preferl di comporlo come una serie di ch"scorsi
indipendenti. Perché ciò gli sia piaciuto, si capisce
subito sol che si provi a· trasferire mentalmente in
quella forma consueta, sequela ininterrotta di tentativi
definitori.i, questo dibattito su Eros. Naturalmente la
forma prescelta comporta la rinunzia al rigore del pro-
cedimento dialettico. Socrate non è più, come al solito,
la guida di tutta la di~cussione, ma solo uno, l'ultimo
anzi, degli interlocutori, una parte, questa, che sem-
bra fatta apposta per la sua ironia. Perciò la dialettica
entra in gioco solo alla fine del Simposio, come con-
trapposto alla colorita retorica e alla poesia degli altri,
Il tema proposto, l'elogio di Eros, giustifica pienamente
questa struttura del dialogo, e, a· sua volta il tema è
giustificato dal luogo e dall'occasione dei discorsi, che
non ammettono una forma serrata e puramente ogget-
tiva di trattazione. Un «encomio» è opera di retorica,
tanto più un encomio di soggetto mitico, di quel ge-
nere cioè che spesso e volentieri si sceglieva nelle scuole
di retorica del tempo. Al tempo del Simposio appar-
tiene un'altra opera di Platone, dello stesso genere, il
Menesseno. Con opere tali, Platone par che si voglia
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [II 309) 997

cimentare, una volta tanto, con le scuole rivali di Atene,


scuole di retorica, nelle quali fra i temi favoriti era
anche l'elogio funebre dei caduti in guerra, il tema del
Menesseno.
Fedro, che per primo prende la parola nel Sim-
posio, il vero e proprio «padre» dell'idea di lodare
Eros 19), intende proprio in questo senso la propria
proposta, cioè come un esercizio retorico, del quale egli
pensa di venir bene a capo coi mezzi dell'eloquenza
sofistica. Più volte gli è avvenuto di biasimare i poeti 20)
perché essi, di cui è compito celebrare gli dei negli
inni, hanno sempre trascurato Eros, e ora si propone
di colmare questa lacuna con un encomio di Eros in
prosa. È un tratto, questo della consapevole compe-
tizione coi poeti, assolutamente caratteristico della re-
torica dei sofisti. Qui, come nei discorsi che seguono,
si rivela uno degli aspetti dell'arte di Platone: la mae-
stria sicura nell'imitazione e nella parodia degli atteg·
giamenti intellettuali contemporanei e dello stile con-
forme a ciascuno ..Cosi Fedro, al modo dei Sofisti, si
diffonde in citazioni di antichi poeti e dà una genea-
logia mitica di Eros, «il più antico di tutti gli dei»,
rifacendosi a Esiodo e ad altre autorità in fatto di
teogonie 21). Motivo fondamentale del suo discorso è
l'aspetto che si può dir politico di Eros. È lui che desta
negli uomini il desiderio di onore, lui che genera l' areté,
senza di che, non può esistere né amicizia, né società,
. né stato 22). Già con questo primo discorso, dunque, il
dibattito s'indirizza a cercare una superiore giustifi-
cazione etica di Eros, anche se non si precisa per ora
la sua natura né se ne distinguono gli aspetti.
19) Symp. 177 d. Così pure, nel Fedro (257 b), Lisia è chiamato
« padre del discorso».
20) Questo racconta il suo amico Eriesimaco (Symp. 177 a).
21) Symp. 178 b.
21) Symp. 178 d.
998 [Il 310] UBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Questo tenta di fare il secondo oratore, Pausania,


che, rilevata l'impostazione troppo vaga del tema, cerca
prima di tutto di formularlo con la necessaria preci-
sione. Si approfondisce cosi, e si fa più chiara, la ten-
denza, che fin da principio ha animato la ricerca, a
cercare una giustificazione ideale del rapporto erotico.
Pausania, senza allontanarsi dal tono mitologizzante
di Fedro, comincia col distinguere, conforme alla dop-
pia natura di Afrodite, di cui Eros è ministro, un Eros
Pandemio e un Eros Uranio 23). Vien fatto di pensare,
in analogia a questo doppio Eros, qui escogitato, a
quel che fa Esiodo, negli Erga, quando al posto del-
1'unica Eris della tradizione, introduce una coppia di
dee, contrapposte, della discordia, la buona e la cat-
tiva 24) e si direbbe che qui Platone segua il suo esempio.
L'eros dell'uomo volgare,' il desiderio cieco, è dappoco
e spregevole, perché volto alla sola soddisfazione dei
sensi; l'altro amore è, invece, di origine divina ed è
pronto-a prodigarsi per il bene vero, per il perfeziona-
mento dell'amato 25). Questo secondo Eros si presenta
come un'energia educatrice, non solo in quel senso ne-
gativo di cui ha parlato Fedro, in quanto, cioè, allon-
tana l'amante da azioni vili 26), ma nella positività
della sua essenza, in quando si pone al servizio del-
1'amato e l'aiuta a sviluppare la propria personalità 27).
Secondo questa concezione ci deve essere « coincidenza»
tra desiderio sensuale e motivi · ideali, e ciò è detto
sicuramente al fine di difendere Eros anche nel suo

23)Symp; 180 d.
24) Cfr. vol. I, p. 134.
25) Symp. 181 b se.
26 ) Cfr. il motivo della vergogna (a:tcry:{l'll"J)) nel discorso di
Fedro: Symp. 178 d.
27 ) Syrnp. 184 d-e; per i concetti di areté e di paideusis come
scopi di un tale amore.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [II311] 999

elemento fisico 28). Ma il fatto stesso che Pausania,


patrono di questa teoria erotica, si trova in evidente
difficoltà nel tentativo di far coincidere i due aspetti
dell'amore, mostra a sufficienza che la teoria non è più
di un compromesso. Il quale ebbe, probabilmente, più
di un partigiano, in. quel tempo, sì da indurre Pla-
tone a esporlo con tanta compiutezza. Se, però, si
confronta il discorso di Pausania con quello di Dio-
tima la differenza radicale salta agli occhi, ed è che
Pausania ricava la sua distinzione di un Eros elevato
e di uno volgare, da criterii che sono esterni ad Eros,
e non riposano originariamente in lui.
Particolarmente istruttivo è il tentativo di Pausania
di volgere a profitto della propria teoria l'incertezza
dei criteri morali dominanti il costume in questo campo.
Di questa incertezza egli dà una prova con un para-
gone tra varii paesi, rispetto al modo con cui, in ognuno
di essi, è giudicato l'àmore maschile 29). Nell'Elide e in
Beozia, cioè nei paesi intellettualmente meno svilup-
pati della Grecia, rimasti a un grado arcaico di civiltà,
l'amore omosessuale è cosa accettata e indiscutibile.
Tutto il contrario avviene nell'Ionia, cioè, così inter-
preta Pausania, in quella parte ·del mondo greco che
è più in contatto coi barbari, dove Eros è severamente
condannato. Di questo fatto, secondo l'oratore, la spie-
gazione è da c~rcare nell'influenza dei barbari e delle
loro concezioni politiche. Ogni regime dispotico è per
necessità diffidente, ed è naturale che in un paese cosi
governato, le salde amicizie sappiano un po' sempre di
congiura. Del resto, non si può negare che la democra-
zia ateniese, secondo la leggenda storica, sia stata
creata dalla coppia dei tirannicidi Armodio e Aristogi-

28) Symp. 184 e crutJ.{3a.Àeiv e!c; -ra.u"t'òv, e 184 e 0'1J[L1l:(JM"et.


2e) Symp. 182 a:-d.
1000 (II312] LIBRO llI - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tone, legati da Eros per la vita e per la morte. E il


culto che, dai tempi più antichi, si presta in Atene alla
coppia eroica, non sarà anche una legittimazione nel
loro amore? L'oratore si preoccupa di dimostrare che
è il senso di idealità che anima tali amicizie, l'elemento
che le distingue, nel costume ateniese o spartano, dal
mero soddisfacimento di desideri sensuali e le rende
accettabili all'opinione. Ché l'atteggiamento di Sparta
e di Atene non è così semplice e unilaterale, nell'ac-
cettazione o nel ripudio, come quello delle altre città,
ma è circostanziato e complesso, e segue, si può dire,
una via di mezzo tra quei due estremi. Perciò Pausa-
nia crede di poter rendere accessibile il suo Eros, idea-
lizzato e pedagogico, alla comprensione della colta so-
cietà ateniese, dando valore, in esso, agli impondera-
bili politici ed etici.
È importante che egli non parli solo di Atene, ma
le associ Sparta. La testimonianza della severa Sparta
è sempre considerata specialmente · autorevole in que-
stioni etiche. In realtà, in questo caso, la testimonianza
è di scarso valore, giacché la tesi che Pausania sostiene
è essenzialmente di origine spartana, come lo stesso
costume della pederastia (nel senso originario del ter-
mine). II costume era sorto nella vita soldatesca, di
accampamento, al tempo delle migrazioni di stirpi,
età da cui i Dori erano meno lontani degli altri Greci,
e, perpetuandosi nella casta guerriera spartana, era
giunto fino al presente. Da Sparta si era diffuso anche
in altre contrade della Grecia, ma in quella città era
stato sempre più forte che in ogni parte del mondo
greco. Quando · Sparta cadde, quando venne meno il
suo prestigio di modello di. vita sociale - e ciò comin-
ciò ad avvenire poco dopo il tempo in cui fu scritto
il Simposio - la pederastia, almeno come ideale etico,
scomparve rapidamente, e visse solo nei secoli della
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [u313l 1001

tarda antichità, nel malcostume infamante dei cinedi.


Già fin dall'etica e politica di Aristotele, essa non ha
più alcuna parte, come fattore positivo, e Platone
vecchio, nelle Leggi, la condanna senz'altro perché con-
tro natura 30). Tra l'antico sentire e il nuovo, il Simposio
si pone come segno di frontiera, come si rivela in par-
ticolare anche dalla maniera storico-comparativa pro-
pria del discorso di Pausania~ Nel problema di Eros,
si può dire, si riproduce l'atteggiamento di Platone di
fronte alla polis e all'antica fede ellenica che nella
polis si era incarnata: sono tutti valori sentiti in una
forza e purezza che a pochi spiriti di quel passato stesso
era stato dato di attingere, ma di essi soltanto l'es-
senza ideale può essere salvata e trasferita in un nuovo
mondo di cui diverrà il centro metafisico. Il compro-
messo che avrebbe voluto conciliare, nella loro partico-
larità contingente, il vecchio e il nuovo, si rivela troppo
inefficiente. Platone non può rimaner fermo a Pausania.
Ed ecco ora a prender la parola Erissimaco, e, con
lui, una terza forma di tradizione intellettuale. È un me-
dico Erissimaco, e come tale egli parte dall'osserva-
zione della natura 31) ed è pertanto costretto a non li-
mitarsi, come i suoi predecessori, agli uomini. Tuttavia
egli non si diparte dalla formulazione retorica del tema
e loda, anche lui, Eros come divinità potente, nono-
stante, · anzi proprio per questo significato universale
del suo potere. L'interpretazione cosmica di Eros era
cominciata già con Esiodo, che nella Teogonia lo aveva
posto al principio del mondo, ipostatizzando in lui
quella originaria forza creatrice che aveva operato in
tutte le creazioni delle seguenti generazioni divine 32).
Da Esiodo i filosofi più antichi, come Parmenide ed

SO) Legg. 623 b ss.


31) Symp. 186 a.
82) Cfr. voL I, p. 137 e n. 31.
1002[u314] LIBRO fil - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Empedocle avevano derivato il concetto dell'Eros co-


smico, e avevano cercato di valersene per la spiega-
zione dei singoli fenomeni naturali, ritrovando in Eros
la forza che collega tra loro gli elementi e da essi com-
pone. le varie forme fisiche. Già Fedro, nel suo discorso,
ha dottamente citato questi pensatori antichi, e si è
servito di loro, per abbozzare, anche lui, in. una sorta
di gioco mitologico, la sua genealogia di Eros 33). Ma
Erissimaco ora opera, nella stessa tendenza, siste-
maticamente e fa valere la forza creatrice di Eros
come principio del divenire in tutto il mondo corporeo,
come energia efficiente di quell' «amore» primigenio
che tutto penetra e avviva col suo ritmo regolare di
pienezza e vacuità 34). A prima vista non sembra pos-
sibile, partendo da questa considerazione, tutta na-
turalistica, mantenere una .qualunque distinzione tra
forme varie di Eros in base a un valore morale di
ciascuna, al io.odo che Pausania aveva tenuto partendo
dal nomos della società umana. Invece, anche il medico
riconosce espressamente la distinzione tra un buono e
un cattivo Eros 35). Il criterio per lui è da trovare nella
differenza, riscontrabile ovunque in natura, tra sano e
malato; ad essa, come a denominatore comune, è da
ricondurre ogni distinzione morale. Salute è la giusta
mescolanza dei contrari nella natura, malattia è la
perniciosa perturbazione del loro equilibrio e della
loro armonia, nella quale è da vedere, secondo Eris-
simaco, l'essenza di Eros 36).
Si comincia a capire, ora, perché Platone abbia
scelto proprio un medico a rappresentante della con-

83) Symp. 178 b. Fedro rion nomi.tÌa Empedocle; cita però le


Genealogie di Acusilao.
") Symp. 186 b; ripienezza e vuoto: 186 c.
85) Symp. 186 a-e.
38) Symp. 186 d-e.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [n315] 1003

cezione naturalistica 37). La ragione è che anche nella


medicina domina una distinzione, una considerazione
valutativa, affine a quella· a cui Eros deve essere su-
bordinato. Fin da principio Platone aveva concepito
la sua dottrina etica dei valori, la sua paideia, come
corrispondenti alla teoria medica della natura sana e
malata e alla terapia che ne deriva, come si è visto
dal Gorgia. Il concetto medico della physis corporea
ha questo in comune col concetto di physis spirituale-
etica proprio di Platone, .di essere un genuino concetto
normativo. Erissimaco, infatti, vede nel mantenimento
e nell'osservanza di un amore sano, in tutte le parti
del cosmos come nelle operazioni umane, il principio
di ogni benessere e di ogni vera armonia. Egli fonda il
suo concetto della concordia: armoniosa sulla teoria
eraclitea dei contrari 38), che, del resto, ha una note-
vole parte anche in altri elementi del pensiero medico
del tempo, come si vede, prima· di tutto dal trattato
pseudoippocrateo Della Dieta 39). Come l'arte sanitaria
ha il compito di attuare l'armonia delle forze fisiche
opposte, così la musica deve procurare la corretta me-
scolanza e unione dei toni alti e bassi in una superiore
consonanza. Certo, nei fondamentali rapporti di toni
e di ritmi tra loro, non è difficile riconoscere le affinità
e le complementarità scambievoli degli elementi sem-
plici che li costituiscono, né in questo campo si può
parlare di un « duplice» Eros. Ma, anche in questo
campo, quando ci si accinge a .una vera opera di com-
posizione, o anche all'effettiva pratica di fronte agii
uomini, di canti e di ritmi, cioè «a quello che chia-
miamo paideia », c'è bisogno di una grande arte e di

37 ) Accenni alla medicina si trovano in 186 a, b, c, d e passim.


38) Symp. 187 a ss.
3 9) Cfr. soprattutto De Victu, libro I.
1004 [rr316] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

grande intendimento 40). Si deve esser compiacenti verso


gli uomini a modo (x6crµ.tot) e tener di conto il loro
amore; di più, si deve valersi di questo Eros come di un
mezzo per infondere decenza e misura in quegli uomini
che ancora non le posseggono. Questo è l'Eros uranio,
che è amore per la musa Urania. Ma l'Eros pandemio,
quello che ama la musa Polinnia, si deve accogliere
con precauzione; si deve, cioè, concederne agli uomini
il godimento, ma star bene attenti a che essi non ne
siano corrotti a quel modo che il medico deve saper
usare, ma anche controllare, le abilità del cuoco 41).
In questo discorso di Erissimaco Eros diviene una
potenza universale, un simbolo allegorico, in cui la sua
natura minaccia di sperdersi nel vago della genera-
lità. Ma ecco Aristofane, il gran comico, col suo di-
scorso tutto humour geniale, a ricondurlo alla con-
cretezza del fenomeno amoroso umano e a tentare ·di
significarne la natura in un'audace visione di poeta.
A lui importa prima di tutto di spiegare la misteriosa
potenza di Eros sugli uomini, quella potenza a cui
nulla si può paragonare 42). Questo impulso tormentoso
e onnipotente. si potrà capire soltanto da chi conosca
la speciale natura della schiatta umana. E Aristofane
narra, a svelarla, il mito bizzarro degli uomini primi-
tivi, che erano sferici di forma, prima che gli dei spa-
ventati dalla forza titanica con la quale minacciavano
il cielo, li tagliassero in due metà, e avevano quattro
braccia e quattro gambe e si muovevano rotando ve-
locissimi su esse. In questo mito la profonda fantasia
comica di Aristofane esprime il significato che noi ab-
biamo cercato invano nei discorsi precedenti. Eros è
nato dal desiderio metafisico dell'uomo di una totalità

'°) Symp. 187 c-d.


'1) Symp. 187 d-e.
42) Symp. 189 c-d.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [11317] 1005

dell'essere che all'individuo è negata per sempre. La


natura individuale si dimostra per questa innata no-
stalgia, niente più di un frammento che, finché esiste
da solo, miseramente staccato, non fa che tendere alla
riunione con l'altra sua metà 43). L'amore per un altro
essere umano è considerato qui elemento di un processo
per cui l'io si completa e si perfeziona. Perfezione si dà
soltanto nel rapporto con un'altra persona, per il quale
le energie del singolo, bisognose d'integTazione, vengono
inserite nella totalità originaria e acquistano perciò
capacità effettiva· d'azione. Questo simbolo, dunque,
significa l'inserimento di Eros nel processo di formazione
della personalità. E Aristofane concepisce il problema
in tutta la sua estensione, non solo come amore di due
esseri dello stesso sesso, ma in tutte le forme in cui si
presenta "). La passione degli amanti è tale che essi
non si possono separare neppure per un breve tempo;
eppure gli uomini che son pronti a consumare così
una vita intera, non saprebbero dire quello che vera-
mente desiderano l'un dall'altro. Non basta l:'icura-
mente runione sessuale a spiegare perché l'uno abbia
così gran gioia dallo stare insieme con l'altro e lo de-
sideri con tanto ardore: l'anima di tutti e due vuole
certamente qualche altra cosa che non sa dire, qual-
cosa in cui oscuramente intuisce la risposta all'enigma
della propria vita 45 ). L'immaginazione, con cui Ari-
stofane prosegue, di una restaurazione della primitiva
unità fisica, quando il dio fabbro, Efesto, proponesse
di ricongiungere le due metà, non è che la figurazione,
comica e grottesca, di quella indicibile armonia e to-
talità dell'anima, che il poeta qui rivela come il vero
fine di Eros. Come la scienza nel Menone fu interpretata

'3) Symp. 191 a, 192 b ss.; 192 e-193 a.


44) Symp. 191 d ss.
~) Symp. 192 c-d.
1006 [n318] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

come reminiscenza della visione pura dell'Essere in


un'esistenza anteriore, così ora l'amore si manifesta
come nostalgia di una totalità della natura umana ori-
ginaria, esistita agli albori del mondo, come un segno
che chiama e incita verso un eterno irraggiungibile.
Questa meta è concepita qui nel mito di Aristofane
soltanto come· ciò che si è perduto e perciò si ricerca
ancora, ma se noi la consideriamo in raffronto al di-
scorso di Diotima, si vede chiaro che essa già prean-
nuncia oscuramente quella norma del bene, in cui trova
adempimento ogni amicizia, ogni amore degli uomini.
Parla dipoi, ultimo prima di Socrate, il giovane
Agatone. Il suo discorso in voluta antitesi col capric-
cio brillante e barocco del poeta comico, è un encomio
c;li raffinata fattura in cui si fondono le più morbide
tonalità di colorito. Se iià nel mito aristofanesco, il
tema di Eros era stato allargato oltre l'amore maschile
al problema dell'essenza dell'amore, nel discorso del
fortunato poeta alla moda (di cui, per l'appunto, ride
la commedia contemporanea come di un effemminato)
il tema della pederastia passa del tutto in secondo
piano, ed Eros è considerato nel suo aspetto univer-
sale. Agatone non vuole, come i suoi predecessori, lo-
dare i benefici che Eros largisce agli uomini, ma prima
raffigurare il dio stesso, nella sua essenz11, e poi lodare
i suoi doni 46). L'immagine di Eros che Agatone disegna,
ha in sé pochissimo di verità psicologica, il che colpi-
sce, specie in confronto col discorso or ora finito di
Aristofane di cui il principale motivo era stato la
forza di amore sull'anima umana. Proprio per questo
il discorso di Agatone è così altamente idealizzante.
Agatone prende molto sul serio il suo compito di
descrivere la perfezione di Eros, che, secondo lui, è

' 6) Symp. 194 e.


CAP. VIII: IL SIMPOSIO [rr319] 1007

necessaria conseguenza della sua natura diV:ina. Tut·


tavia l'interesse psicologico ha modo di affermarsi
anche qoi: · e ciò. in . riguardo alla persona del de·
scrittore: giacché in un elogio di Eros, personificato
come potenza divina, le qualità che gli si attribui-
scono devono necessanamente essere quelle stesse degli
uomini in cui egli manifesta la propria potenza,
ed è perciò interessante osservare se tali caratte-
ristiche sono prese dall'amato o dall'amante. Nella
descrizione di Agatone si tratta del primo caso.
La sua natura di bien-aimé gli detta caratteristiche
di Eros, che sono più quelle dell'essere amabile
che dell'uomo ardente d'amore 47). In Eros egli vede
riflessa, Narciso innamorato, la propria immagine. Sotto
questo rispetto lo scopo del suo discorso e il significato
che esso assume proprio a questo punto del Simposio,
si chiariranno in seguito. Nell'elogio di Agatone, Eros
è di tutti gli dei il più beato, il più bello, il migliore 48).
È giovane, grazioso e tenero, e solo dimora in luoghi
:fioriti e profumati. La violenza non lo tocca mai; il
suo è il regno della pura libertà· e spontaneità. Pos·
siede tutte le virtù, giustizia, temperanza, fortezza e
sapienza. È grande poeta e insegna agli altri a poetare.
Da quando Eros entrò nell'Olimpo, ne fuggì la crudeltà
che vi dominava e vi entrò la bellezza. Da lui quasi
tutti gli immortali impararono le loro arti. Così loda
il $0, Agatone, nel trasporto della sua adorazione, e
chiude il suo dire con un vero inno in prosa sui doni
di Eros che, nei parallelismi della raffinata struttura
e nella musicale armonia, sfida qualunque bravura di
versificazione 49).
Platone ha voluto che questo discorso fosse, im-

f.7) Cfr. Symp. 204 c.


48) Symp. 195 a ss.
") Symp. 196 a-19'1 e.
1008 [n320] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DMNO

mediatamente~ lo sfondo di quello di Socrate. Cosi


l'esteta sensualmente raffinato fa da contrapposto al-
l'asceta della filosofia, che però supera infinitamente
l'antagonista nell'intensità della passione, come nella
profondità della _conoscenza d'amore. Socrate si ac-
cinge al suo compito non diversamente da tutti quelli
che l'hanno preceduto; lo svantaggio di dover parlare
dopo tanti oratori egregi, egli oorca di compensarlo,
col concepire diversamente il suo tema. Se, in linea
di logica, egli approva il procedimento di Agatone, che
ha voluto prima di tutto definir .l'essenza di Eros 50),
e poi parlar dei suoi effetti, per quel che riguarda il
modo di trattazione del tema egli si diparte, radical-
mente, da quello fin qui tenuto da tutti gli altri. Non
l'esagerata esaltazione retorica o l'ahhellimento del suo
soggetto gli sta a cuore; ma, qui come sempre, egli
vuole conoscere la verità. Così, fin dalla prima presa
di contatto, le brevi battute introduttive tra Socrate
e Agatone, in cui, per la prima volta in questo dia-
logo, e come per gioco, si fa uso dei mezzi dialettici,
ci si sente ricondotti dai superlativi del discorso di
Agatone sul terreno della realtà psicologica. Eros è
sempre, dice Socrate, un desiderio di qualcosa, di qual-
cosa che non ha e di cui è difettoso 51). Se dunque Eros
è attratto verso il bello, non può essere lui hello, come
dice Agatone, ma è bisognoso, difettoso di bellezza.
Questo è il nucleo dialettico negativo da cui Platone
svolge la teoria erotica di Socrate e di Diotima. Non
però dialettica è la forma dello svolgimento, ma è
quella di un mito, che si contrappone a quello di Aga-
tone, il mito della nascita di Eros da Porose Penia 52).
Platone ha, questa volta, evitato con mirabile sicu·

Il>) Symp. 199 c.


b1 ) Symp. 199 d.
52 ) Symp. 203 b.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [n32IJ 1009

rezza di tocco, di far trionfare l'arte critica di Socrate


in una vittoria schiacciante, che non sarebbe stata in
tono in una sede, come questa, di libera gaiezza e di
arditi voli della fantasia. Quan.do Agatone, appena alle
prime domande, ha confessato, con elegante accentua-
zione di debolezza, che tutt'a un tratto gli sembra di
non saper più niente di quel che ha discorso un mo-
mento prima 53 ), Socrate lo lascia in pace; ed è evitato
così quell'atteggiamento di chi ha ragione, che non sta
bene nella buona società. Platone però trova un mezzo
di non rinunziare al.la discussione dialettica, e lo trova
col riportare a un lontano passato questa discussione,
e col fare apparire Socrate non più nel solito aspetto
di molesto e temibile esaminatore, ma come l'esami-
nato, con tutta la sua ingenuità. Egli racconta un
colloquio sul tema di Eros, da lui avnto molto tempo
prima con. la profetessa mantineese Diotirii.a 54). Quello
che egli sta per dire, quindi, non è dato come il frutto
della sua propria superiore saggezza, ma come rivela-
zione della veggente. Questa immagine della mista-
gogia, Platone l'ha scelta e sviluppata a ragion veduta.
Nella gradualità del procedimento istruttivo, col quale
la divina Diotima introduce i suoi adepti alla pro-
fonda conoscenza di Eros, il lettore deve ravvisare i
gradi inferiori e superiori dei riti iniziatici che lo gui-
dano alla suprema contemplazione. La religiosità mi-
sterica era nella religione greca la forma più personale
della fede; Socrate ritrae appunto come una visione,
a lui personalmente largita, l'ascesa del filosofo alla
più alta v~tta dove si appaga la nostalgia della bellezza
eterna, insita sempre nell'eros.
Dalla conclusione raggiunta che Eros non è bello,
egli stesso, ma non è neanche l'opposto del bello, si
63) Symp. 201 b.
H) Symp. 201 d ss.
1010 [II322] UBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

arriva subito a riconoscere la sua posizione mediana


tra bello e brutto. Non diversa è la sua relazione con
scienza ed ignoranza. Non ha nessuna delle due, ma,
tra le due, sta in mezzo 55). Stabilita questa sua me-
dietà tra perfetto e imperfetto, se ne ricava immedia-
tamente che egli non può essere un dio. Non possiede
né bontà né bellezza, né perciò beatitudine, i segni es-
senziali della divinità 56)~ Tuttavia non è neanche un
mortale e sta in mezzo ha il mortale e l'immortale,
grande demone che fa da interprete tra uomini e dei 57).
Il suo posto, in ogni modo, è d'importanza essenziale,
nell'organismo della teologia platonica. Per lui si colma
la lacuna che separa i due regni, del terreno e del di-
vino; egli è il legame, il sjndesmos che tiene unito il
Tutto 58). Che la sua natura sia fatta di due elementi
in dissidio, è l'eredità lasciatagli dall'impari coppia dei
suoi genitori, il ricco Poros, e Penia, la povera 59). Eter-
namente unito all'indigenza egli è anche sovrabbon-
dante di ricchezza e opera in una tensione continua,
gran cacciatore, pioniere audace e insidiatore, fonte
inesausta di ogni energia spirituale, eternamente at-
tivo, grande incantatore e mago. Nello stesso giorno
può vivere e fiorire, morire e risorgere; riceve dagli
altri e crea per gli altri, dà e dissipa e non è mai né
ricco né povero 60). Così la genealogia allegorica di Eros,
che Socrate sostituisce a quella esiodea, è come con-
fermata dall'esame della sua natura. Ma ecco che di
questa posizione mediana tra bellezza e bruttezza, sag·
gezza e ignoranza, divinità e mortalità, povertà e rie·

60) Symp. 201 e-202 b.


116)Symp. 202 b.
57 ) Symp. 202 e.
68 ) "Symp. 202 e. In Gorg. 508 si afferma la stessa cosa dell'ami·
cizia: essa ti'.ene in sé unito il cosmo.
69 ) Symp. 203 b-c.
60 ) Symp. 203 c-e.
CAP. vm: IL SIMPOSIO [II323] 1011

chezza, Socrate si serve per costruire un ponte tra


Eros e la filosofia. Gli dei non filosofeggiano e non si
educano, perché già possiedono ogni sapienza. Gli stolti
e gl'ignoranti, a loro volta, non tendono alla cono-
scenza, essendo difetto specifico di una tale rozzezza,
il non sapere, eppure ritenersi sapienti. Solo il filosofo
si affatica dietro la conoscenza perché sa di non pos-
sederla e se ne sente bisognoso. Posto a metà tra sa-
pienza e ignoranza, è il solo che sia capace d'istru-
zione, e ad essa si dedica con impegno onesto e serio.
Alla sua schiera appartiene anche Eros, conforme a
ogni elemento della sua natura. Eros è il vero filosofo,
che, a mezza via tra sapienza e stoltezza, si tormenta
in perpetuo sforzo e desiderio 61). Così Platone contrap-
pone all'immagine di Eros ritratta da Agatone, che
era immagine dell'essere amabile e amato, un altro
ritratto, il suo, che desume i tratti essenziali dall'ama-
tore 62). All'essere immobile, quieto in se stesso, beato
e perfetto, egli contrappone quello che mai non ha
pace e sempre si affatica e combatte per giungere alla
perfezione e alla beatitudine eterna.
A questo punto Diotima passa, dalla trattazione
della natura di Eros, a illustrare il valore che egli ha
per gli uomini 63), ma fin da ora è chiaro che tale valore
non sarà da ricercare in qualche particolare effetto di
natura sociale, come quelli che sono stati, in parte,
attribuiti a lui nei discorsi precedenti, cioè la capacità
di ispirare senso d'onore e di verecondia (Fedro) o di
disporre l'amante a contribuire all'educazione dell'amato
(Pausania). Non che quelle osservazioni fossero del
tutto inesatte. Esse, piuttosto, non andavano al fondo
delle cose. Diotima dà una interpretazione schietta-

61) Symp. 204 a-b.


62) Symp. 204 c.
68) Symp. 204 e ss.
1012 [rr324] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

mente socratica del desiderio del bello - ché questo


e non altro è Eros - ravvisando in esso la tendenza
umana alla beatitudine, alla eudaimonia 84). A questa
deve essere riferito, come a ultima istanza, ogni desi-
derio forte e profondo della natura umana, e in que-
sto senso il desiderio deve essere guidato e informato
con azione cosciente. Il desiderio porta in sé l'indica-
zione e come la rivendicazione di un possesso ultimo
e supremo, di un bene perfetto ; e, del resto, la volontà
umana .è, per Socrate, sempre, volontà di bene. Per-
ciò Eros, dall'essere semplicemente .un caso particolare
del volere, diventa l'espressione più chiara e più con-
vincente di quel principio fondamentale dell'etica pla-
tonica, ·per cui l'uomo non può mai desiderare se non
cosa che ritenga per sé bene. Se poi la lingua, con tutto
ciò, non designa con eros o con eran ogni atto del vo-
lere, ma riserba queste parole a una particolare forma
di desiderio, questo è un fatto che, secondo Platone,
si avvera anche per altre parole, come « poesia», che
significa genericamente l'atto del fare, ma nell'uso lin-
guistico designa solo una ·determinata forma di « fatti-
vità ». In realtà, questa nuova consapevolezza di quanto
siano arbitrarie « limitazioni» di questo genere nel
significato di parole come « eros» o « poesia», non è
che un aspetto accessorio di quell'estensione, che Pla-
tone operò, di tali concetti, da lui riempiti di signifi-
cato universale 65).
Cosl il concetto di eros diventa per Platone il con-
cetto comprensivo di tutte le tendenze umane al bene.
Ed ecco, ancora una volta, che da questo più alto
punto di vista ora raggiunto, una delle osservazioni
di un oratore precedente, esatta e penetrante in pro-

64) Symp. 204 d-205 a.


85) Symp. 2-05 b-c.
CAP. vm: IL SIMPOSIO [rr325] 1013

fondo, viene a collocarsi nel posto che le compete, e


s'invera. Eros non è soltanto, come aveva detto Ari-
stofane, un tendere all'altra metà di noi stessi, cioè
a una totalità, anche se per totalità s'intende ciò che
è buono e perfetto 66). Soltanto se questa totalità di
un essere si concepisce non come mera individualità
contingente ma come l'Io vero dell'uomo, cioè se quel
che è pròprio e pertinente alla nostra natura si identi-
fica col bene, e quel che alla nostra natura è estraneo,
col male, soltanto allora l'amore per quello che fu« un
tempo» proprio della nostra « antica natura» (come
hà detto Aristofane), può essere considerato il signifi-
cato profondo di ogni forma d'amore. L'amore è dun-
que il desiderio « di avere sempre per sé il bene» 67).
Ed è questo un pensiero molto vicino alla definizione
che Aristotele, nell'Etica Nicomachea, dà dell'« amor
di sé» {~LÀOCu't'fot), in senso elevato, quando riconosce in
esso la forma suprema del perfezionamento morale 68).
Aristotele deriva da Platone questo principio, e la sua
fonte è il -Simposio. Le parole di Diotima sono il più
breve e il migliore commento del concetto aristotelico
dell'amor di sé. Eros, inteso come amor del bene, è
in pari tempo l'impulso della natura umana all'attua-
zione vera e piena di sé stessa e, perciò impulso edu'-
cativo nel più profondo senso della parola.
Aristotele segue Platone anche in un altro corol-
lario: nel derivare, cioè, tutte le altre specie d'amore

66 ) Symp. 205 e.
67) Symp. 206 a ~O"'t'W &pix o è:pw; -roii -rò &yix.&òv éixu-réj>
dVIXL &;e;l.
68) L'uomo che ha il vero amor di sé (cpEJ.ixu-roc;) è rappresen-
tato da Aristotele (Eth. Nic. IX 8) come l'opposto preciso del-
l'egoista. È colui che fa sua ogni cosa buona e nobile (1168 b 27,
1169 a 21) e - si comporta di froute al suo vero Io come col suo
amico migliore. E l'amico migliore è colui a cui si desidera ogni
bene (cfr. 1166 a 20, 1168 b 1). Il teorizzamento della jilautia è
uno degli elementi schiettamente platonici dell'etica aristotelica.
1014 [rr326] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

e d'amicizia, da questo ideale amor di sé 69). È il caso


di ricordarci, ora, di quel che si è detto poco fa del
discorso di Agatone e del suo apparirci «innamorato»
di sé 70). La parlata di Agatone è, anche per questo ri-
spetto, il contrapposto perfetto del discorso di Socrate.
L'amor di sé di cui parla Socrate, scoprendo al fondo
di ogni eros questa tendenza alla nostra vera natura,
non ha niente che fare con la soddisfazione o con l'am-
mirazione di sé stesso. Non c'è nulla che sia cosi alieno
dalla jìlazaia socratica, come il narcisismo, al quale· una
falsa interpretazione. psicologistica la potrebbe impa-.
rentare. L'eros socratico è l'impulso di chi conosce la
propria imperfezione, alla formazione spirituale di se
stesso, sul modello, sempre presente, dell'Idea. Ed è
proprio questo, quel che Platone intende per « filoso-
fia»: il tendere a che nell'uomo prenda forma il vero
uomo 71).
Cosi, con questo porre l'oggetto di Eros in un sommo
bene da lui desiderato, quello che appariva un mero
impulso irrazionale, è da Platone spiritualizzato e riem-
pito di significato profondo. D'altra parte, però, sem-
bra che con questa interpretazione vada perduto il
significato limitato, proprio e primo, di Eros, cioè il
desiderio di un bello individuale, particolare. Anche
a questo Platone cerca di render giustizia nella parte
seguente del discorso di Diotima. Il problema che,
in questo senso, deve esser affrontato per primo è:
quale specie di attività o di tendenza merita, consi-
derata dal superiore punto di vista ora raggiunto, il
nome di Eros. La risposta platonica a questo quesito
può sorprenderci, perché essa non sa affatto di

69 )Eth. Nic. IX 4, 1166 a l ss., cfr. 1168 b I.


?O) Cfr. supra, p. 318 s.
71) Questa è la formulazione platonica nella Repubblica; cfr.
infra, pp. 478, 616 s.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [11327] 1015

moralismo o di elevata metafisica, ma è del tutto


dedotta da un processo di natura, dall'amore fisico.
Il nome di Eros spetta al desiderio di «generare nel
bello» 72). Il modo volgare di veder le cose sbaglia
solo in quanto limita questo impulso generativo al
corpo, laddove, in verità, esso trova un'analogia
perfetta nella vita spirituale 73). Il modo volgare è,
però, limitato ma non del tutto erroneo, ed è bene
partire dalla considerazione dell'atto generativo fisico,
perché esso chiarisce la natura del corrispondente
atto spirituale. La volontà generatrice :fisica è fe-
nomeno che si estende molto oltre il mondo umano 74).
Se si tiene per fermo che Eros è sempre, per ogni vi-
vente, il desiderio di favorire la realizzazione del più
proprio e più vero sé stesso 75), allora l'impulso genera-
tivo e riproduttivo di animali e di uomini si rivela
in sostanza come il desiderio di lasciare dietro di sé
qualcosa di identico a sé stesso 76). Durare eterna-
mente, nella sua individuale essenza è interdetto a ogni
vivente dalla legge della natura finita. Neppure l'Io
umano, che pure ha coscienza di rimanere identico
attraverso le varie fasi della vita, non possiede un'iden-
tità di tal sorta, un'identità assoluta, ma soggiace a
un rinnovamento incessante, fisico e spirituale 77 ). Solo
il Divino è sempre lo stesso, in senso assoluto. Per-
ciò la generazione di un essere identico nella specie, o
di specie identica, è l'unica via, per il mortale e finito,
di conservarsi immortale. Questo è il significato di Eros
che, come impulso fisico, è appunto la tendenza alla
conservazione della nostra specie fisica 78).

•2) Symp. 206 b.


73) Cfr. Symp. 206 h·c.
n) Symp. 207 a ss.
75) Cfr. supra, p~ 325.
76) Symp. 207 d.
77) Symp. 207 c.
78) Symp. 208 a-b.
1016 [rr328J LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

La stessa legge vale, secondo Platone, per la natura


spirituale dell'uomo 79). L'identità, la personalità spiri-
tuale è costituita dall'areté che s'irradia, sotto l'aspetto
di« fama», nella vita della comunità. Tutto ciò l'aveva
già visto Omero e Platone seppe scavare in questa
originaria e schiettamente greca concezione dell'areté SO).
Era dunque assolutamente accettabile quel che Fedro
aveva accennato nel suo discorso sull'amor dell'onore
(cptÀo·nµ.loi:) come uno degli effetti di Eros 81); solo
il significato di questa idea era molto più ricco di quanto
egli non pensasse. L'eros spirituale è sempre genera-
zione, desiderio di eternare se stesso in un atto o in
un'opera d'amore, che duri nella memoria degli uomini
e seguiti ad operare. Tutti i grandi poeti e artisti sono
esseri forniti di questa virtù generante; ma tali sono
nel grado massimo i creatori e i formatori di comunità
statali e domestiche 82). Chi è gravido nell'anima di
forza generatrice cerca un essere bello, per generare
in lui. Se incontra un'anima bella nobile e di buona
natura, fa festa dell'incontro e sente sovrabbondare
in sé una piena di discorsi da farsi all'amato sulla areté,
e sui costumi che deve avere un uomo onesto, e su
quel che deve fare e desiderare; intraprende, insomma,
a educarlo (èmx.e:tpe:~ "lt1Xt3e:ue:tv). E nel contatto e
conversando con lui, egli dà alla luce e genera quello
di cui era gravido. Presente e assente, egli ha l'altro
sempre nella mente, e, in comune con lui, alleva ed
educa il nato. Il legame che per questa creatura si
stringe è più forte di quello dei figli di carne e l'amore
è più durevole di quello dei coniugi, poiché i due amici
hanno parte in una creatura più bella e immortale.

•9) Symp. 208-209 a.


80) Cfr. voi. I, p. 39 e l'intero capitolo.
81) Symp. 178 d.
B2) Symp. 209 a.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [11329] 1017

Omero ed Esiodo, Licurgo e Solone sono per Platone


i più alti rappresentanti in Grecia di questa sorta
d'amore, perché, con le loro opere, generarono negli
uomini ogni maniera di virtù. Poeti e legislatori sono
pari nella virtù educativa, che nelle loro opere s;incarna.
Per questo rispetto, Platone vede la tradizione spi-
rituale greca, da Omero e Licurgo fino a se stesso,
come un'unità. Poesia e :filosofia, per quanto i concetti
che l'una e l'altra possiedono di verità e realtà siano di-
versi, sono però strette da un vincolo unificatore, dal-
l'idea della paideia, che si genera dall'eros per l'areté 83).

Il discorso di Diotima, con questo porre ogni atti-


vità spirituale creatrice nella luce di Eros, è rimasto :6.n
qui sul terreno della più alta tradizione greca. L'inter-
pretazione di Eros come forza educatrice, che connette
tutto questo cosmos spirituale, appare una conquista,
una rivelazione adatta per Socrate, nel quale questa
forza stessa si incarna ancora una volta in tutta la
sua purezza. Ma Diotima si domanda dubbiosa se egli
sarà davvero capace di ricevere i gradi più alti del-
l'iniziazione e di elevarsi alla vetta della contempla-
zione suprema 84). Poiché l'oggetto di una tale con·
templazione è l'idea del bello, sembra ovvio pensare
che Platone abbia voluto significare in questo accenno
il punto fino al quale è arrivata l'indagine propriamente
socratica e donde comincia la sua, superatrice. Già in
quel che fin qui è stato esposto si poteva chiaramente
ravvisare un processo graduale dal corporeo allo spi-
rituale. Nella parte finale del discorso, questo processo
diventa il principio fondamentale di tutta la struttura
teorica. Platone, seguitando a valersi dell'immagine dei

sa) Symp. 209 b-e.


84) Symp. 210 a.
1018 [!1330] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

misteri, traccia tutto un sistema di gradi (èmltvcx.~ix&µo(),


sui quali ascende, o per intimo impulso, o condotto
da altri, l'uomo vinto dal vero Eros 85). A questa ascesa
spirituale egli dà, alla fine, il nome di «pedagogia» 86).
Qui non è più il caso di pensare alla virtù educat~ce
dell'amante sull'amato, di cui si è parlato fin qui e
di cui, anchè qui, Platone fa cenno 87): Eros è
descritto, ora, come forza educatrice anche per l'a-
mante, come quella che lo conduce di grado in grado,
in alto. Questa ascesa comincia nella prima giovinezza
con l'ammirazione della bellezza corporea di un essere
umano. L'ammiratore, cosi, è infiammato e ispirato a
«nobili discorsi» 88). Egli si accorge ben presto, però,
se veramente- è servo di Eros, chiamato ad amare,
che la bellezza di un corpo è sorella di quella di un
altro, ed ama la bellezza in tutti e la riconosce come
identica sempre. Cosi il vincolo di dipendenza da un
solo individuo perde a poco a poco di forza. Ciò non
significa, naturalmente, una vita di indiscriminate av-
venture amorose, ma soltanto il formarsi e il crescere
del suo senso per la bellezza in sé. Ed ecco che egli
comincia a notare anche la bellezza dell'anima e a
pregiarla più della corpo~ea e a preferire, perfino, la
bellezza e l'incanto dell'anima, quand'anche essa non
dimori in un corpo fiorente 89). È questo il grado in cui
il suo amore diventa forza educatrice anche per l'altro
e ispira all'amatore discorsi capaci di far migliori i
giovani 90). Ora egli può riconoscere il bello, come unica
essenza, in tutte le operazioni e leggi umane - nn

86 ) Symp. 211 c.
88) Symp. 210 e.
87) Cfr. il discorso di Pausania e inoltre 209 e (discorso di
Diotima).
88) Symp. 210 a.
89 ) Symp. 210 b.
90) Symp. 210 c.
CAP. vm: IL SIMPOSIO [n331] 1019

chiaro accenno, questo, alla funzione sinottica della


dialettica che Platone ha descritto altrove. A ritrarre
questo processo dialettico, per cui dal bello molte-
plice e visibile si ascende alla sintetica visione dell'in-
visibile « l.>ello in sé», mira tutta la descrizione della
iniziazione graduale ai misteri di Eros. Il processo
termina con la conoscenza della bellezza di ogni scienza.
Ora l'amante è liberato dalla schiavitù che lo legava
con le catene della passione a una singola persQna
umana. o a una singola attività prescelta 91). Egli si
volge orinai all' «infinito mare del bello» finché, :final-
mente, percorsa interamente tutta la via del sapere,
attraverso ogni forma di scienza, egli mira la divina
bellezza nella sua forma pura, sciolta da tutte_ le singole
apparenze fenomeniche e relazioni 92 ).
Platone contrappone alle «molte belle scienze»,
Punica scienza (µ.cf.\hiµ.ot), il cui oggetto è il bello in sé 93).
«Belle» sono dette da lui le scienze, non certo nel
senso in cui, in tempi moderni, si è parlato di « belle»
lettere. Le scienze tutte, di ogni genere, hanno per lui
la loro propria bellezza, il loro valore e significato par-
ticolare. Ma ogni conoscenza del particolare deve trovar
conclusione nella conoscenza del bello in sé 94). Anche
questa affermazione suona strana per noi, inclinati a
intendere «bello», in senso estetico, prima di tutto.
Ma Platone, con parecchi chiari accenni, ci ammonisce
di guardarci da una tale interpretazione, puramente
estetica. Per lui è veramente degna di esser vissuta
soltanto una vita che si spenda nella contemplazione
continua di questa bellezza eterna 95). Non si tratta, è

91) Symp. 210 d.


92) Symp. 210 e.
93} Symp. 211 c.
9 •) Symp. 211 d.
96) Symp. 211 d.
1020 [n332J LIBRO I!I - ALLA RICERCA DEL DIVINO

chiaro, di una vetta isolata di contemplazione, di un


momento solo di esaltazione estatica, ma di un'in-
tera esistenza umana da trascorrersi con quel « fine»
(-tiÀoç) dinanzi agli occhi 96). Ma è chiaro altresi che Pla-
tone pensa ancora meno a una vita che sia un solo inin-
terrotto sogno di bellezza, sottratto a ogni realtà. Ri-
cordiamo, a questo punto, quel che Diotima ha detto
prima sull'essenza di Eros, definendolo come la ten-
denza ad avere« sempre» per sé il Bene 97). Anche là
si parla di un possesso duraturo, di una virtù efficace
che compenetra di sé una vita intera. Il« bello in sé»,
o, come Platone lo chiama proprio in quel luogo 98),
il« divino bello in sé» non è fondamentalmente diverso
di significato dal Bene, di cui ll si parla.
La scienza (µoc.&"IJ!J.OC) del bello, posta come meta
finale di quel viaggio nel regno delle scienze partico-
lari che si descrive nel Simposio 99), corrisponde all'idea
del bene e alla sua posizione dominante nel sistema
della paideia descritto nella Repubblica, dove anche
l'espressione che Platone usa è simile: «il massimo
oggetto di scienza» (µ1yLa't'ov µoc&"l]µoc) 100). Il Bello e
il Buono sono soltanto due aspetti, strettamente affini,
di una e identica realtà, che perfino il comune uso lin-
guistico, in greco, fonde in un concetto unico, desi-
gnando la suprema areté umana come « l'esser bello
e buono» (xccÀox&yoc&Ecc). In questo « Bello» o in que-
sto « Buono»; in questa kalokagathia contemplata nella
sua pura essenza, noi scorgiamo il supremo principio
di ogni volere e agire llÌD.ano, la sua causa motrice ul-
tima, agente per intima necessità, che è al tempo

•6) Symp. 211 h.


97 ) Symp. 206 a.
98) Symp. 211 e.
99 ) Symp. 211 c.
100) Resp. 505 a.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [n333J1021

stesso la causa motrice di ogni accadimento della na·


tura. Ché per Platone esiste un'assoluta armonia tra
il cosmos fisico e quello morale.
Già nei primi discorsi su Eros era stata rilevata
questa tendenza, a lui insita, al bello morale, manife-
stantesi nel desiderio d'onore dell'amante, nella cura
che egli si prende della eccellenza e perfezione del-
1'amato. Così Eros ha avuto il suo posto nell'edificio
etico della convivenza umana. Cosi pure, quando Dio-
tima descrive i vari gradi dell'iniziazione d'amore, essa
fa cenno, fin dal grado più basso, quello dell'amore
per la bellezza corporea, ai « discorsi belli » che un
tale amore ispira. E per « discorsi belli» sono da in-
tendere quelli che rivelano senso e gusto di cose alte,
di idealità, di onore. Le attività e le scienze belle, che
rappresentano il grado seguente sono, anch'esse, non
puramente di natura estetica, ma comprendono il buono
e il perfetto, tutto quello cioè che dà significato a ogni
sorta di scienza e di azione. Il progresso dunque rivela
sempre più chiaramente che il bello non è solo un rag·
gio di luce che cada a illuminare un punto solo del
mondo visibile, ma è la tendenza, insita in ogni cosa
e in ognuno, al buono e al perfetto. Quanto più si ascende,
quanto più ci si spiega dinanzi agli occhi il quadro di
un mondo tutto dominato da questa forza, tanto più
cresce in noi il desiderio di contemplarla nella sua pu-
rezza e di comprenderla come causa motrice della vita.
Però, questa liberazione dell'idea universale del bello
dalle sue finite apparenze non ha per conseguenza, nella
vita pratica, che l'uomo giunto alla conoscenza debba
liberarsi dal mondo e straniarsi da esso. Anzi per essa,
e per essa soltanto, egli diventa capace di compren-
dere a pieno tutta la realtà concreta, in quanto è do-
minata dalla forza onnipresente del principio del bello,
e di realizzare consapevolmente nella su~ stessa esi-
1022 [rr334] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

stenza questo principio. Giacché, quello che l'uomo


ha scoperto, nel mondo esteriore, coni.e causa univer-
sale dell'essere, egli, nell'atto in cui lo spirito si affi.sa
in se stesso ael raccoglimento supremo, lo riscopre in
sé, come la sua più vera natura. Se coglie nel segno
la nostra interpretazione di Eros, per la quale l'impulso
ad «avere sempre per sé il bene» è il·vero e rettamente
inteso amor di se stesso, l'oggetto di questo impulso
cioè l'eternamente Bello e Buono, non può essere che
il cuore vero di questo «se stesso». Cosi, il signifi-
cato profondo di quel processo graduale che Platone
chiama qui «pedagogia» è che per esso si forma la
vera natura umana, dalla materia grezza dell'indivi-
dualità, e viene a fondarsi, su quel che in noi è eterno,
la personalità. Lo splendore di cui Platone circonfonde,
nel descriverla, questa invisibile idea del «bello» ir-
raggia dalla luce intima allo spirito, che ha trovato in
essa il suo centro, la sua causa essenziale.

Non c'è bisogno di diffondersi sul significato urna.


nistico di questa teoria di Eros, che lo concepisce come
l'impulso innato dell'uomo allo spiegamento e sviluppo
del suo io superiore. Il pensiero ritorna nella Repub-
blica, quando si afferma che senso e scopo della pai-
deia è di condurre l'uomo a dominare nell'uomo 101). La
distinzione dell'uomo, come individualità intesa natu-
ralisticamente, e della umanità superiore che costi-
tuisce il vero io, è la base di ogni umanesimo. Che
questa base si sia potuta porre e con tale consapevo-
lezza 6losofica, si deve a Platone, che nel Simposin,
per la prima volta, svolse questa concezione. Ma l'uma-
nesimo, in Platone, non rimane astratta teoria. Come
ogni altro elemento della sua filosofia, esso si sviluppa

101) Resp. 589 a., cfr. infra, p. 616.


CAP. VIII: IL SIMPOSIO [rr335] 1023

dalla meditazione sulla straordinaria e unica personalità


di Socrate. Perciò è troppo ristretta ogni iriterpreta-
zione del Simposio che miri solo a sceverare il nocciolo
dialettico dall'insieme delle parlate e soprattutto dalla
rivelazione :filosofica di Diotima. Questo nocciolo esiste,
senza dubbio, né Platone si preoccupa mai di dissi-
mularlo. Ma sarebbe errato credere che il vero scopo
di Platone sia stato di offrire al lettore esperto di dia-
lettfoa, la soddisfazione di scoprire il puro contenuto
logico, di sotto a un cosi vario e molteplice velame di
figurazioni sensibili. Infatti, il dialogo non si conclude
con lo svelarsi dell'idea del bello e con l'interpretazione
filosofica di Eros. Esso culmina nella scena iri cui Alci-
biade, alla testa di una schiera di compagni avvinaz-
zati, irrompe nella casa, ed esalta Socrate, iri un di-
scorso audacissimo, come maestro di Eros, iri quel
senso altissimo che il discorso di Diotima ha svelato.
La serie degli encomii di Eros si chiude dunque con
l'encomio di Socrate. Eros s'iriearna iri lui, Eros che è
anche filosofia 102). Socrate è attratto dalla sua passione
di educatore 103), verso i giovirietti belli e di alte doti,
ma, nel caso di Alcibiade, la profonda forza attrattiva
che emana da Socrate rovescia il rapporto consueto di
amante e amato, sicché, alla :fine è Alcibiade che in-
vano desidera l'amore di Socrate. Per il modo di sen-
1°2 ) Quest'ultimo passo è preparato dal discorso di Diotima.
204 a.
1 03) Socrate costituisce l'esempio tipico di quell'impulso edu-
cativo (è1nxs:tps:t: 1toctlìs:us:w, 209 b), in cui Diotima vede il
sintomo infallibile dell'amore per ogni bella e nobile anima. Egli
incarna appunto quello stato intermedio dell'aninla tra conoscenza
e ignoranza, in cui essa è affaticata in una perpetua ricerca di cono-
scenza. E, pertanto, il discorso di Diotima è da capo a fondo·
un'analisi dell'indole socratica. Questa è in tutto e per tutto
mossa da Eros. Ma quando Eros viene ad abitare in un'anima
di tale altezza. Eros stesso appare mutato e sottoposto alla legge
di Dio. Certo Platone direbbe che occorreva un Socrate perché
Eros manifestasse la sua vera natura di forza capace di innalzare
la natura umana alla divina.
1024 [u336] L LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVJNO

tire greco è proprio il colmo del paradosso che il giovi-


netto bellissimo, oggetto dell'ammirazione di tutti, si
metta ad amare quell'uomo di grottesca bruttezza; ma si
esprime potentemente nel discorso di Alcibiade il nuovo
senso, proclamato dal Simposio, per il valore della bel·
lezza interiore, quando egli paragona Socrate con le
statuette dei Sileni che gli scultori tengono nelle loro
botteghe, che quando uno le apre, son piene di belle
immagini di dei 104). Alla fine del Fedro, Platone fa
pronunziare a Socrate una preghiera, in cui egli chiede
la bellezza interiore; ché d'altro non ha bisogno. Ed
è l'unica preghiera, questa, in tutto Platone, il mo·
dello e l'esempio di come prega il filosofo 105). In
Alcibiade, nel suo amore per Socrate c'è un'alta tra·
gicità. Lo ama ma pur rilutta a lui e cerca di sottrar-
glisi; perché Socrate è la: sua stessa coscienza accusa·
trice 106). È il tragico, questo, di un'anima altamente
disposta al filosofare che degenera poi, per ambizione,
in quell'uomo bramoso di successo e di potenza, che
Platone ritrae nella Repubblica 107). La sua compli-
cata psicologia - ammirazione e venerazione per So-
crate, ma mescolate di paura e d'odio-egli la mette a
nudo nel superbo discorso-confessione alla fine del Sim-
posio. È in essa l'ammirazione istintiva del forte per
quello che egli vede in Socrate di vittoriosa fortezza,
e l'avversione del debole, dell'ambizioso, del geloso per
la grandezza morale di una personalità vera, che, egli
lo sente, non raggiungerà mai. Qui Platone volle anche
rispondere tanto a coloro che, come il sofista Policrate
nella sua « accusa», avevano imputato a Socrate un

104) :Symp. 215 a-b.


105) Phaedr. 279 h-c.
1os) Symp. 215 e-216 c.
107) Resp. 490 e ss.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO [n337] 1025

discepolo come Alcibiade, quanto a Isocrate che tro-


vava ridicolo fare di un uomo così grande uno scolaro
di Socrate 108). Alcibiade avrebbe certo voluto essere
scolaro di Socrate, ma la sua natura non era capace di
dominare sé stessa 109). L'eros socratico poté accender·
glisi, un istante, nell'anima, ma non si affermò fiamma
duratura.

io•) lsocr. Busiris 5 ss.


l09) Alcibiade rappresenta il tipo di uomo più adatto perché
Platone possa chiarire col suo esempio il vero e specifico intento
di Socrate: è il giovane geniale che « si affaccenda per gli affari
degli Ateniesi e non si occupa di se stesso (&µe:ì.e:'L) sebbene ne
abbia tanto bisogno» (Symp. 216 a). Questo contegno è l'opposto
del precetto socratico, èmµe::ì.e:i:a.&ix~ -r'ijc; tjiux'ijc; (cfr. supra,
p. 60 ss.). Alcibiade vorrebbe edificare lo Stato, prima di avere
edificato « lo Stato in se stesso» ( cfr. Repubblica, alla fine).
CAPITOLO NONO

LA REPUBBLICA

I.

Introduzione. - Il pensiero di Platone è voltò fin


dagli inizi a risolvere il problema dello Stato. Dissi-
mulato dapprima, questo problema viene sempre più
chiaramente in luce come il fine di tutto lo sforzo dia-
lettico delle opere giovanili platoniche. Le indagini so-
cratiche sulle virtù, come si è visto, mirano, già nei
dialoghi minori, alla virtù politica 1), e nel Protagora
e nel Gorgia la scienza socratica del Bene in sé, è pre-
sentata come l'arte politica, l'arte sanatrice per eccel-
lenza 2). Chi non perde di vista questo fatto, non ha
neppure bisogno della testimonianza autobiografica
offerta dalla lettera Vll 3), per ravvisare nella Repub-

l-) Cfr. supra, p. 160 s.


2 ) Cfr. supra, pp. 187, 217 8S.
8) Cfr. p. 163 ss. Nella immensa letteratura sulla Repubblica
sono da citare, come i libri che più specialmente interessano lo
storico della paideia: E. BAllKER, Greek Political Theory, Londra
1905; R. L. NETTLESlllP, Lectures on the Republic of Plato, Lon-
dra 1901; e, dello stesso autore, The Theory of Education in the
Republic of Plato, Chicago 1906. Inoltre, J. STENZEL, Platon der
Erzieher, Lipsia 1928, contenente penetranti interpretazioni di
passi scelti della Repubblica e concetti di fondamentale portata
filosofica, e P. FRIEDLANDER, Die platonischen Schriften, Berlino
1930, p. 345 88.
1028 [n340] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

blica l'opera centrale di Platone, quella in cui conflui-


scono le linee essenziali delle opere precedenti.
Per lungo tempo, commisurando l'opera platonica
a schemi di pensiero posteriori, si è andati cercando
in essa il « sistema», finché si è creduto di acquetarsi
nel constatare, che il filosofo, o per motivi artistici o
per motivi di natura critica, non tendeva, al modo
di altri pensatori, alla salda struttura di un edificio
dottrinale, ma voleva mostrare la conoscenza nel suo
farsi. Non sfuggì però agli interpreti più acuti che,
anche riguardo al contenuto costruttivo, sussistono dif-
ferenze grandi tra i varii dialoghi platonici. Tra. tutti
il più costruttivo è quello che s'intitola alla Repub-
blica, allo Stato. Il che porta a concludere, appunto,
che la forma espositiva più fortemente unitaria parve a
Platone, non quella astrattamente logica del sistema, ma
quella del quadro, plasticamente efficace, dello Stato che
gli consentiva di abbracciare tutto l'ambito dei suoi
problemi etico-sociali, al modo stesso che nel Timeo
la fisica non è svolta come sistema logico della natura,
ma come l'immagine, di immediata e plastica ~videnza,
di tutto il cosmos nella sua origine e formazione 4).
Che cosa, però, significa, per Platone, lo stato ?
La sua Politeia non è una trattazione di diritto pub-
blico o di arte di governo, di legislazione o di politica,
nel senso moderno. Platone non prende le mosse dallo
studio di una nazione, storicamente data, coine l'ate-
niese o la spartana, e, benché egli tenga presenti di
proposito situazioni e circostanze greche, non si sente

') La parola« sistema» (aua-.riµoc) per designare un edificio


dottrinale, scientifico o filosofico, non s'incontra prima dell' elle-
nismo ed è c~atteristica della visione della scienza propria di
quell'età. La parola non è usata con questo significato neppure
da Aristotele, nel quale siamo soliti di vedere il sistematico per
eccellenza.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [Il341] 1029

però legato a nessuna regione; a nessuna città in par-


ticolare. Nemmeno menzionate sono le condizioni :fisico-
geogra:fiche dello stato; Platone, non s'interessa ad esse,
in questo contesto, né dal punto di vista geologico né
da quello antropologico. L' « allevamento» del quale
Platone parla non prende affatto in considerazione la
totalità del popolo come razza. La gran massa della
popolazione, i suoi movimenti di persone o di merci,
i suoi costumi e le condizioni di vita, tutto ciò è escluso
dalla trattazione, o tutt'al più, periferico. Traccia di
tutto ciò si cercherà forse nella trattazione del « terzo
stato» platonico, il quale, però, è soltanto oggetto
passivo di governo 5 ) e non è, neppur come tale, sot·
toposto a studio particolare.
Sono tutti aspetti questi, della vita di uno stato,
per i quali Platone, come non stabilisce, così non re-
gistra una norma; ma li lascia, semplicemente, da parte
come privi d'importanza essenziale. Per contro, si stende
per libri interi la discussione sulla poesia e sulla mu-
sica (Il. 2-3); la questione del valore. delle scienze
astratte occupa il centro dell'opera (5-7), e, infine, nel
10° libro si ritorna ancora alla poesia per esaminarla
da nuovi punti di vista. Sembra fare eccezione l'inda-
gine condotta nei libri 30 e 90 sulle varie forme di co-
stituzione. Ma, anche qui, si rivela ad una più attenta
osservazione, che le forme di costituzione sono vedute
dal filosofo soltanto in funzione di atteggiamenti e
forme dell'anima, che in esse si esprimono. Le cose
stanno così anche per il problema della giustizia, il
problema iniziale di tutta la trattazione e da cui si
sviluppa tutto ciò che segue. Un tema, questo, di va-

i;) Questo fatto è strettamente connesso col rigoroso paralle~


lismo istituito tra stato e anima: il« terzo stato» interessa Pla-
tone solo come immagine dell'elemento istintivo dell'anima umana.
1030 [II342] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

stità incomparabile per il giurista, e non per il giurista


del nostro tempo soltanto, ma anche per il tempo di
Platone, nel quale venne al mondo, per la prima volta,
la scienza politica comparata. Eppure, anche qui, nes-
sun interesse per la vita giuridica reale; l'esame del
problema : « che cos'è la giustizia ? » sbocca nella teoria
delle «parti dell'anima» 6 ). E, in realtà, è questo, del-
l'anima dell'uomo, il tema vero e l'interesse fondamen-
tale di Platone nella Repubblica. Quel che egli dice,
propriamente, sullo stato e sulla sua struttura, quella
che si suol chiamare la concezione organica dello stato,
nella quale molti vedono il nucleo della Politeia pla-
tonica, è introdotta soltanto come immagine ingran-
dita dell'anima e della sua struttura. Anzi: nello stesso
problema dell'anima l'interesse primo di Platone non
è teoretico ma pratico : è l'interesse del formatore di
anime. La formazione dell'anima è la leva che il suo
Socrate adopra per sollevare l'intera mole dello stato.
Il significato dello stato, svelato da Platone nell'opera
capitale, non è diverso da quello che ci facevano aspet-
tare i dialoghi precedenti, il Protagora e il Gorgia.
Esso è educazione, nella parte essenziale, e più alta,
della sua natura 7). Dopo tutto quel che si è visto fin
qui, questo modo platonico di descriver lo stato, non
dovrebbe sembrarci strano. Platone chiarisce, con la
sua trattazione filosofica, come la_ comunità statale sia
una delle condizioni permanenti per la paideia del-

6 ) Cfr. infra, p. 413. Platone pensa alle diverse attitudini


«morali» dell'anima, alle varie forme (etal)) assunte dalla sua
attività morale.
7 ) Il ,commentatore neoplatonico Porfirio osserva giustamente
che in Platone la teoria delle parti dell'anima non è psicologia
in senso genetico, ma psicologia morale. Questa teoria non è
adottata da Aristotele nella sua opera sulla psicologia, mentre
egli se ne serve nelle sue opere etiche. Ha un valore « pedago-
gico». V. il mio Nemesios von Emesa. Berlino 1913, p. 61.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n343J 1031

l'uomo greco 8). In pari tempo però, egli, ponendo in


primo piano la paideia, intende mostra.re un aspetto
dello stato: aspetto ormai infiacchito, la cui .decadenza
è per lui causa prima della progrediente degenerazione
nella vita statale del suo tempo. Cosi, paideia e poli-
teia, delle quali, anche al suo tempo, ben pochi ve-
devano chiari i rapporti d'interdipendenza, diventano
i punti focali della sua opera.
Una volta che le cose si son cominciate a vedere
sotto questo aspetto, non c'è nulla di più sorprendente
dell'osservazione, fatta da un eminente storico della
filosofia di formazione positivistica, che trova, sì, nella
Repubblica, copia di pensieri affascinanti, ma si adom·
bra perché in essa si parla tanto di educazione 9 ). Tanto
varrebbe dire che la Bibbia è, si, un libro geniale, ma
che in essa si parla troppo di Dio. Ma non è il caso di
sorridere, perché questo atteggiamento non è un caso
isolato. Esso anzi è tipico di quella mancanza di inten-
dimento che il sec. XIX ha mostrato di fronte a que-
st' opera. La scienza, che si era elevata a superba al-

8 ) Più di una volta si è già messo in rilievo questo aspetto


educativo della polis; cfr. vol. I, pp. 155, 206, 548. Ma per Pla-
tone, a questo proposito, non si tratt<t del rapporto della paideia
con uno stato storicamente dato che la riduca a mezzo della pro-
pria politica, bensì dell'essere la paideia diretta a una meta divina,
all'Idea del Bene, che sta al centro dello Stato ideale.
9 ) Cfr. T. GOMPERZ, Griechische Denker, 114, p. 382; trad. it.
«La Nuova Italia» Firenze, 1953 2 , p. 360 Il Gomperz considera la
parte della Repubblica dedicata all'educazione dei reggitori (libri
VI-VII), come un puro pretesto letterario di cui Platone si sarebbe
valso per esporre la sua critica della conoscenza e la sua onto-
logia. Parimente sarebbe un pretesto l'educazione dei guerrieri
(libri II e III) per motivare l'ampia discussione su mitologia, reli-
gione, musica, poetica e ginnastica. La realtà è l'inverso di questa
interpretazione. Come verremo dimostrando in seguito è la paideia
platonica che si fonda su tutti quegli elementi che il· Gomperz
enumera: era indispensabile un approfondimento filosofico di tutti
quei problemi perché essa potesse essere fondata. La paideia non
è affatto un legame puro e semplice destinato a dare all'opera una
connessione esteriore, ma costituisce di essa la vera e propria
unità interna.
1032 [IJ344] LIBRO 111 - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tezza liberandosi dallo scolasticismo dell'umanesimo,


aveva preso a sprezzare ~ e ciò pareva segno di di-
stinzione intellettuale - tutto ciò che sapesse di« pe-
dagogico »; col risultato che essa era divenuta incapace
di intendere le sue proprie origini 10). Quel problema
dell'educazione umana, che ancora al tempo di Lessing
e di Goethe aveva avuto significato altissimo, la scienza
non era più in grado di vederlo nel suo valore antico
e .platonico di centro della vita spirituale, dal quale
l'esistenza umana deriva il suo più profondo significato.
Quanto più vicino all'intelligenza della Repubblica era
stato, un secolo prima, Gian Giacomo Rousseau, quando
aveva detto che quest'opera non era un libro di scienza
dello stato, come pensano quelli che giudicano i libri
soltanto dal titolo, ma era il più bel trattato sull'educa-
zione che fosse mai stato scritto.

n problema della gi,usfizia come guida allo stato ideale.


- La tesi paradossale posta alla fine del Gorgi,a -
che Socrate fosse il più grande uomo politico del suo
tempo 11) - prometteva e faceva aspettare un ulteriore
svolgimento.' Non che in fondo, non sia già chiaro fin
dal Gorgia quel che vuol dire il Socrate platonico, con
quella sua autodefìnizione. Ma resta un altro problema:
questo trasferimento della « politica» dal terreno del-
l'egoistica brama di potere a quello socratico dell'edu-
cazione e formazione di anime, quale effetto avrebbe
praticamente se si attuasse in uno stato reale ? come,
per esso, si trasformerebbe la natura· di questo stato ?
Tanto l'esigenza poetica di Platone di una visione con-

10) Questo ideale di scienza si è foJ,"JD.ato in seno alla scienza


della natura, e la filologia accettandolo da essa, ha dato prova
di disconoscere totalmente la propria natura e origine.
ll) Gorg. 521 d; cfr. supra, p. 257.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [JI345] 1033

creta, quanto la sua politica volontà di rinnovamento


esigevano una risposta a questa domanda e vennero
a unirsi nel grandioso tentativo di istituire su questo
fondamento, almeno in ispirito, lo « stato perfetto »
e di proporlo come paradigma in cospetto dell'umanità.
Il pensiero di un « ottimo stato » o« stato perfetto »,
non era, in sé, cosa nuova. La tendenza innata dei Greci,
che li spingeva alla più alta perfezione in ogni ramo di
arte o scienza, operò anche nella loro vita politica,
come pungolo a non contentarsi delle condizioni date
e a rilevarne l'insufficienza, sicché non valse neppure la
norma severa della legge, minacciante di morte chi
tentasse di rovesciare l'assetto politico della patria,
a tener lontana la fantasia politica dall'immaginare
condizioni diverse dalle attuali 12). E soprattutto le con-
dizioni sociali erano, da molti decenni, oggetto di fer-
vida speculazione. Già i vecchi poeti, in tempi antichi
e caotici, avevano dato forma all'immagine ideale del-
1' « Eunomi~ ». Così lo spartano Tirteo aveva,· da con-
servatore, identificato l'ordine perfetto con la tradi-
zione spartana 13), mentre Solone, procedendo più oltre,
aveva dedotto la concezione della retta polis dai po-
stulati eterni della ragione morale 14). Nell'età dei So-
fisti si era andati anche più in là: essi avevano sentito
l'esigenza di proposte più concrete per la rimozione,
dalla vita dello stato, dei mali sociali, e Ippodamo e
Falea, delle Utopie dei quali si conoscono, attraverso
la Politica di Aristotele, le grandi linee 15), avevano dise-
gnato, in conformità dello spirito razionalistico del
tempo, un ordinamento sociale giusto e duraturo. Ten-

12) Cfr. la mia conferenza Die griechische Staatsetik im Zeital-


ter des Plato • ristampata in Humanistische Reden und Vortriige.
Berlino 1937, p. 95.
lS) Cfr. vol I, pp. 186-189.
H) Cfr. vol I, pp. 267-269.
U) Arist. Pol. II 7-8.
1034 [u346] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tativi, questi, la cui forma schematica fa proprio pen·


sare, in qualche modo, alla figura geometrica dei pro-
getti urbanistico-architettonici dello stesso Ippodamo.
Falea, tra l'altro, nel suo progetto di costituzione, aveva
proposto l'uguaglianza di educazione per tutti i cit·
tadini, considerandola come vincolo efficace di unione
della comunità 16). Uno sconosciuto sofista, che scri-
veva dopo la fine della guerra del Peloponneso, in un
suo trattato sulla ricostruzione dello stato, considerava
centrale il problema della virtù civile e dell'autorità
della legge 17). Il suo punto di vista è molto diverso
da quello della Politeia platonica, giacché per lui tutto,
anche il problema della morale e dell'autorità pubblica,
è collegato alla realtà economica. Secondo lui, dipende
da fattori economici la fiducia, il credito, sia all'interno,
sia nelle relazioni coi cittadini degli altri stati, e l'in·
capacità dello stato di fondare una tal forma di auto·
rità con forze proprie porta alla tiran.Ilide. Questo scrit-
tore è, dunque, principalmente orientato a fini pratici,
ben fermi innanzi alla sua mente fin da principio, i
quali probabilmente corrispondono alle opinioni do·
minanti nelle città greche democratiche, dopo la fine
della guerra devastatrice e rivoluzionaria. Ma, in ogni
modo, uno scrittore come questo è significativo per
l'ambiente in cui venne a svilupparsi la dottrina pla-
tonica dello stato perfetto.
Platone non si limita a dar come presupposta una
determinata forma di stato, e poi a proporre questo o
quel miglioramento di struttura; e neppure, come i So-
fisti, a discutere comparativamente sulle varie forme

1s) Arist. Pol. II 7, 1266 b 29-33.


17) ANONYMUS IAMBL1cm, in DIELS Vorsokratiker, IJ&, p. 400 ss.
Su questa figura così interessante e caratteristica del suo tempo
cfr. R. RoLLER, Untersuchungen zum Anonymus Iamblichi, Tu·
hingen 1931.
CAP. IX: LA REPUBBUCA, I [rr347] 1035

cli stato 1 8). Egli' procede radicalmente e prende come


punto di partenza il problema della giustizia nella sua
universalità. Se la Politeia è quasi una grande sinfonia,
il motivo che la inizia ci è familiare; è il motivo so-
cratico dell'areté, impostato non differentemente dai
dialoghi giovanili. Sul primo momento qui, come ll,
non si parla di stato. Apparentemente Socrate comin-
cia, anche questa volta, con l'esame di una singola
virtù, ma ora esiste, invisibilmente presente, uno sfondo
storico rilevante, dietro l'indagine. Per capire la parte
iniziale dell'opera platonica bisogna tener presenti i
dibattiti che erano stati agitati nei secoli precedenti,
sull'ideale di giustizia. La giustizia era la virtù poli-
tica nel senso più alto; essa comprendeva in sé, come
dice l'antico poeta, tutte le altre virtù 19). Questo verso,
che un tempo, ai primordi di un ordine statale giuri-
dico, era stato l'espressione pregnante di un nuovo
significato dato al concetto di virtù, ritorna ad essere,
in nuova guisa, attuale nel pensiero di Platone. Ma il
senso ne è mutato e si è fatto più profondo. Per lo
scolaro cli Socrate esso non può più significare l'obbe-
dienza pura e semplice alla legge dello stato, la lega-
lità, che una volta era stata baluardo dello stato di
diritto di fronte a un mondo di forze indipendenti,
feudali o rivoluzionarie 20). Il concetto platonico di giu-
stizia trascende ogni istituzione umana e si rifà all'ori-
gine di esse tutte, nell'anima stessa. Nell'intima natura
dell'anima deve aver fondamento tutto quello a cui
il :filosofo può dare il nome di « giusto».

1.8 ) Un noto esempio di questa trattazione comparativa delle


principali costituzioni politiche è la discussione ritratta da Ero·
doto (III 80 ss.), come avvenuta nel consiglio reale persiano.
19) Cfr. vol. I, p. 207.
20) Cfr. voi. I, p. 206, n. 23.
1036 [n348] LIBRO ffi - ALLA RICERCA DEL DIVJNO

Il pensiero che il cittadino fosse vincolato ad una


legge scritta di validità universale, aveva; due secoli
prima, indicato ai Greci la via di liberarsi dal groviglio
di secolari lotte di fazioni 21) : ma questa soluzione chiu·
deva in sé, come aveva mostrato lo svolgimento sto·
rico ulteriore, un grave problema. La legge, che si era
pe".!lsata durevole a lungo o anche per sempre, si . di-
mostrava talvolta bisognosa di correzione o . di esten·
sione. Ma l'esperienza veniva mostrando che tutto
consisteva, in questo caso, in quel particolare elemento
della compagine staiale che si assumeva quest'opera
di riforma legislativa. Fosse, questo, una minoranza
di possidenti o una maggioranza· popolare oppure un
singolo detentore del potere, sembrava. necèssità inde-
rogabile che l'elemento di volta in volta dominante
procedesse, nel mutare le leggi, a suo modo, cioè nel
suo interesse. Le grandi differenze che da stato. a stato
esistevano in ciò che si considerava « diritto» mostra·
vano chiaramente la relatività di questo concetto 22).
Quando poi si voleva, al di là di tutte. queste differenze
e oscillazioni, pervenire a un'unica ultima istanza,
sembrava che non si potesse ravvisarla se non in una
definizionè, .assai poco soddisfacente, per la quale il
diritto in vigore era espressione in ogni luogo della
volontà e dell'interesse del partito .volta a volta più
forte. Còsì concepito il diritto . si riduce ad una mera
funzione della forza, del tutto priva· in sé di ogni prin·
cipio morale. Giacché il principio per cui l'utilità ge·
nerale ha la precedenza su quella del singolo, è, sì,
riconosciuto da tutti i regimi di tutti i tempi, ma è

21) VoL I, p. 200.


22) A proposito di questa relatività che sempre più viene ad
easere conferita al concetto di nomos, è caratteristica l'antitesi con·
sueta e famosa di v6µ<i> a <pUcre:t, per la quale si contrappone quel
che è giusto per natura a quel che lo è per definizione e conven•
zione umana. Cfr. vol. I, p. 557 s.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n349J 1037

sempre interpretato nel proprio senso da ogni deten-


tore di potere. Ma se giustizia equivale a prevalenza
del più forte, ogni sforzo e lotta degli uomini per un
più alto ideale di diritto non è che un illudere sé stessi,
e l'ordine statale che pretende di realizzarlo non è che
uno schermo dipinto, dietro cui si dibatte, senza quar-
tiere, la lotta degli interessi. E proprio questa era la
conseguenza estrema che avevano tratto alcuni sofisti
e molti uomini politici dell'età sofistica; rompendo con
ciò ogni intimo vincolo con la legge, anche se, come è
naturale, di questo non si era accorta la media dei
bravi cittadini. Era dunque necessario che Platone,
nell'accingersi a un esame profondo del problema
dello stato, affrontasse prima di tutto questo atteg-
giamento naturalistico, giacché se esso aveva ragione,
era inutile seguitare a specnlare.

Nel Gorgia, Platone aveva personificato la politica


di potenza e senza scrupoli nella figura di Callicle, e
aveva caratterizzato costui come l'avversario di So-
crate per eccellenza 23). Là egli aveva descritto il con-
flitto· in cui potenza ed educazione si contendevano
l'anima dell'uomo come il problema essenziale della
vita spirituale del suo tempo 24). Nella Repubblica, ora
che Socrate si accinge ad esporre la propria arte poli-
tica, noi ci aspettiamo che egli si riattacchi a questo
problema. NeJ primo libro, infatti, è scelto come rap-
presentante della filosofia di potenza di Callicle, un
sofista combattivo, Trasimaco; ed anche altrove, nono-
stante tutta la raffinata arte di variazione di cui Pla-
tone è maestro, s'incontra più d'una ripetizione di si-
tuazioni del Gorgia. La teoria del diritto del più forte

28) Cfr. supra, p. 237.


24) Cfr. supra, pp. 225 s., 237.
1038 [rr350] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

è evidentemente considerata da Platone come la più


appropriata a dar rilievo per contrasto alla sua propria
posizione teorica di fronte allo Stato 25). Ma tra il Gorgia
e la Repubblica c'è, su questo punto, una differenza,
ed è che nell'opera maggiore Platone non presenta
più la tesi dell'educazione semplicemente in un con•
trasto iniziale è programmatico con la tesi della vo-
lontà di potenza, ma giunge a proporre le sue esigenze
educative solo con un lungo giro. La discussione intro-
duttiva sulla concezione, di sapore machiavellico, dello
stato e della giustizia come pure espressioni di potenza
serve soltanto di sfondo, nella Repubblica, mentre il
vero e proprio tema dell'opera è l'esposizione positiva
del sistema educativo di Platone.
Nel primo libro Socrate controbatte la teoria per
cui giustizia è solo l'espressione del volere del partito
di volta in volta più forte; e ciò fa a1 suo solito modo,
ponendo, cioè, in luogo del diritto positivo, di validità
contingente, il « giusto in sé» nella sua essenza : e con
questo la discussione sembrerebbe finita 26). Ma Glaucone
e Adimanto, i fratelli di Platone, due splendidi rap·
presentanti dell'élite giovanile ateniese, nelle loro doti
di ferma tenacia, acutezza d'intelletto e slancio ideale,
non si lasciano sfuggir di mano Socrate e pretendono
da lui molto di più di quanto ha dato fin qui. A tutto
quel che ha detto essi danno semplicemente il valore
di proemio, e dichiarano di non essere ancora convinti
sul serio che la giustizia in sé e per sé, fuori di ogni
riguardo per vantaggi sociali o convenzioni borghesi,
sia un bene eccelso. Essi pronunziano, l'un dopo l'altro,
due discorsi, di vibrato accento polemico, in cui svol-
gono il problema in quella rigorosa forma che sola può

25) Resp. 338 c.


28 ) Resp. 357 a.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr351] 1039

soddisfare i giovani della loro generazione: è la giu-


stizia un bene che si cerca per se stesso o è un puro
mezzo che procura un preciso vantaggio ? oppure essa
appartiene a quel genere ~ cose che si amano e per sé
e per i foro benefici effetti ? 27) Glaucone assume per
il momento la difesa di quelli che sostengono essere
beno in sé il fare ingiustizia, e male il subirla, ma che,
privi della forza di vivere in conformità di questa mo-
rale da forti, accolgono la salvaguardia della legge
come un compromesso, una via di mezzo tra il mas-
simo dei beni, fare ingiustizia e restare impunito, e il
massimo dei mali, soffrire ingiustizia 28). Egli illustra
l'idea secondo cui la giustizia è imposta e non spon·
tanea all'uomo, con la storia dell'anello magico di
Gige che dava a chi lo portava la facoltà di rendersi
tutt'a un tratto invisibile, girando il castone all'in-
dentro 29). Chi di noi, se avesse questo anello, sarebbe
di così adamantina forza d'animo da resistere a una
tale tentazione ? Chi non cercherebbe di soddisfare
tutte le sue brame celate, che l'ordine inorale della
società costituita giudica malvagie e condanna ? Glau-
cone scende così alla radice del problema. Si è già os-
servato qual parte spetti nelle discussioni sofistiche
sulla validità obiettiva della legge morale e statale alla
questione, perché l'uomo di fronte a testimoni si com-
porti di solito ben diversamente di quando è solo.
Si soleva attribuire il comportamento di fronte agli
altri alla costrizione artificiosa della legge e si credeva
di scorgere, nel contegno dell'uomo solo con se stesso,
la vera norma della natura, che consisteva soltanto
nella tendenza a ciò che piace e nell'evitare ciò che di-

27 ) Resp. 357 b·e.


28) Rf'sp. 359 a.
29 ) Resp. 359 d.
1040 [n 3521 LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

spiace 30). E Platone nella novella dell'anello di Gige,


ha foggiato un simbolo geniale per questa concezione
naturalistica della forza e delle tendenze umane. Il
vero valore della giustizia per la vita dell'uomo, noi
lo possia:mo scorgere con esattezza, solo paragonando la
vita di un uomo ingiusto quanto. si voglia, di cui però
rimanga celata la vera natura, con la vita di un uomo
veramente giusto, ma che non sappia o non si dia pre-
mura di salvare sempre scrupolosamente l'apparenza
esteriore, molto più importante,- della giustizia. Questo
paragone non si concluderà di gran lunga a favore del
genere di vita che l'ingiusto conduce ? E non sarà il
giusto perseguitato e martirizzato, insomma, infelice ?
Ma questa suggestiva rappresentazione simbolica
del problema del puro valore interiore della giustizia
non basta ancora a Platone. Egli introduce il fratello
di Glaucone, Adimanto, a rendere ancora più chiaro,
con un altro discorso, il punto di vista di Glaucone 31).
Dopo i moderni e troppo esperti lodatori dell'ingiustizia,
debbono essere ascoltati anche i suoi avversari, i lo-
datori della giustizia, tutta la schiera dei grandi poeti
da Omero ed Esiodo, fino a Museo e a Pindaro. Essi
tutti pregiano, è vero, l'ideale della giustizia, ma per
la sola ragione del premio che gli dei riserbano al giu-
sto 3Z), e altrove, poi, esaltano si l'austera maestà della
giustizia, ma insieme la presentano come causa di
pene e dolori, mentre raffigurano l'ingiustizia come
giovevole spesso a chi la commette, e gli dei stessi come
dispo'sti a lasciarsene corroDi1pere 33). Se anche gli as-

ao) VoL I, p. 559•


. 81) Resp. 362 e 88.
82) Resp. 363 a-e, 366 e. Cfr. anche quel che si è detto, in voi. I,
pp. 142. 185 ss. e 267 sulle liste di pregi dell'areté e dei difetti della
kakfa e dell' hybris nei carmi di Esiodo (Opp. 225), di Tirteo
(fr. 9,30 Diehl) e di Solone (fr., 1, 32 Diehl).
83) Resp. 364 a ss.
CAP. DC: LA REPUBBLICA, I [II 353] 1041

sertori della suprema virtù umana, i 'poeti educatori del


popolo, giudicano così, qual genere di vita sceglierà
un giovane, posto dinanzi ·alla definitiva decisione ?
È chiaro che Adimanto parla premuto da un'intima,
sincera perplessità; le sue parole appaiono ispirate,
specialmente sul finire del suo discorso, da un'espe-
rienza personale autentica 34). Platone fa di lui il rap-
presentante di quella generazione di giovani alla quale
egli stesso ha appartenuto, e proprio con questo inten-
dimento egli sceglie, a interlocutori del dialogo, i suoi
fratelli, che sospingono innanzi l'indagine e propon-
gono a Socrate, in formulazione precisa, il vero e pro-
prio problema: due grandi e belle figure di base per
il monumento, che, nella sua grande opera, Platone
sta per elevare a Socrate educatore. Il fondamento
su cui esso s'innalza è il tormento morale di questi
giovani, schietti rappresentanti dell'antica kal-Okagathia
attica, che vedono in quell'uomo l'unico da cui possano
sperare una risposta.
Adimanto descrive lo stato di coscienza suo e dei
giovani come lui, con la più spregiudicata franchezza:
in ognuna delle sue parole è una punta contro l'educa-
zione tradizionale impartita appunto per mezzo dei
poeti antichi e delle celebrate autorità della morale,
che lasciano il pungiglione del dubbio nell'anima di
giovani dal pensiero netto e senza compromessi. Di
questa antica ·educazione Platone e i suoi fratelli erano
i prodotti, e, più volentieri essi avrebbero detto, le
vittime. Dei loro educatori, veramente, qualcuno aveva
creduto al valore intimo e assoluto della giustizia, a
quel valore che la nuova gioventù esigeva, per potere
ancora credere all'ideale ? 35) Se ascoltavano o si guar-

34) Resp. 366 e, 367 b ss.


35) Adimanto insiste espressamente a non considerare affatto,
1042 [II 354] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

davano intorno, nella vita pubblica e nella privata,


non trovavano che la più genuina mancanza di scrupoli
drappeggiata alla meglio di frasi idealizzanti. Ed è
grande per un giovane la tentazione di venire a patti
con un mondo come questo. Qualche debole ammoni-
mento di una voce interna - così dice Adimanto -
è messo presto in tacere dall'esperienza, facile a farsi,
che molto spesso il male non si scopre, e contro l'im-
maginazione religiosa che avverte« Dio ti vede» giova
un po' di ateismo, o, semmai, qualche formula rituale
di una religione misterica che prometta purificazione 36).
Perciò egli chiede a Socrate, d'accordo in questo col
fratello, di dimostrargli persuasivamente, non che la
gi'1Stizia è socialmente utile, ma che è un bene, in sé
e per sé, per l'anima di colui che la possiede, un bene
come la vista e l'udito, come l'intelligenza, e che l'in-
giustizia è infelicità: egli vuol sapere, insomma, che
cos'è, dell'una e dell'altra, che opera nel più intimo
della personalità umana, rimangano esse nascoste o
no. Con questa formulazione del problema, l'indagine
ha raggiunto un'altezza, dalla quale ogni significato
della vita, sia valore etico, sia felicità, appare riposto
esclusivamente nell'interiorità dell'uomo. Come sia pos-
sibHe dimostrare ciò, i giovani che pongono il problema

nell'esaminare la giustizia, l'aspetto dell'utilità sociale (367 h, d)


come già Glaucone (361 h) aveva richiesto che si facesse. Il van-
taggio della giustizia sotto l'aspetto sociale si esprime con la pa-
rola doxa. Questa corrisponde sempre, anche nell'etica greca più
antica, all'areté; ne è anzi l'equivalente (cfr. voi. I, p. 40 s.).
Un esempio che ben chiarisce questo valore di doxa è in Solone,
fr. 1, 4 (Diehl). Platone quindi cerca a qnesto punto di sciogliere
l'areté da qnesta radicale connessione con la doxa. Proprio al-
1'opposto di lui, il suo contemporaneo sofista Anonymus Iamblichi
tenta (c. 2) la restaurazione della virtù civile sul fondamento della
doxa. Cfr. DIELS, Vorsokratiker, IP p. 400. Per Platone in que-
st:a df>xa di valore sociale si annida già un po' di qnel senso di« ap-
parenza» mera che compete alla parola nella sua dottrina critica
:della conoscenza.
38) Resp. 365 c-e.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr355] 1043

non riescono a dire, da sé; essi vedono con chiarezza


una cosa sola: che questa sarebbe l'unica via per sot-
trarsi al radicale relativismo ·che la teoria del diritto
del più .forte include in sé. La giustizia deve essere
qualcosa che stia nell'anima stessa, una specie di salute
interiore dell'uomo, della cui realtà sia impossibile du-
bitare, se non si vuole che essa sia soltanto un riflesso
delle mutevoli influenze di partiti al potere, come è la
legge scritta dello stato 3 7). Ed è bello, che non sia que-
sta volta Socrate a b&ndire dall'alto, come un dogma.
questo principio, di fronte a tm uditorio incredulo,
come avviene nel Gorgia 38), ma che una gioventù tesa
a segnare la linea del proprio contegno morale, tragga
da sé questa conseguenza dalla propria disperata situa-
zione spirituale, e si volga a Socrate al solo fine di ri-
covere dall'intelletto superiore di lui la soluzione del
suo enigma. Con ciò fin da ora ·si apre uno spiraglio
sulla concezione platonica di uno stato che nell'idea
di giustizia deve avere le radici: questo stato dovrà
t.royare il suo centro nell'intimo della personalità.
L'anima dell'uomo è il modello ideale dello stato pla-
tonico.
La_ relazione stretta dello stato éon l'anima è prean-
:nunziata dalla singolare maniera con la quale Platone
viene a parlare dello stato. II titolo dell'opera ci faceva
caspettare, che ora almeno si dichiarasse lo stato scopo
, essenziale · e tema vero della lunga indagine sulla giu-
stizia fin qui condotta. Ed ecco che invece Platone lo
introduce soltanto, questo tema, come un mezzo di
rendere evidente l'essenza e la funzione della giustizia
.nell'anima dell'uomo. Poiché giustizia esiste tanto nel-
Ì'anima del singolo come nel complesso statale, si deve

. 87) crr.
supra, p. 350.
38) Cfr. supra, p. 247.
1044 [II 356] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

poter apprendere la natura di lei da questa sua im-


magine, lo stato, più grande anche se più lontana, meglio
che dall'anima individuale, come meglio si legge una
scrittura più grande e più chiara 39). A prima vista,
certo, si ha da tutto ciò l'impressione che sia piuttosto
lo stato a servire di modello all'anima, ma in realtà
l'uno e l'altra . sono per Platone fatti e organizzati
nello stesso modo, sia nelle condizioni di salute che in
quelle di malattia. Di fatto, l'iin.m.agine che egli ritrae
della giustizia e della sua funzione nello stato ·perfetto
non è derivata dalla realtà sperimentale della vita pub-
blica, ma è una proiezione della teoria platonica del-
1'anima e delle sue parti, ingrandita in quella dello
stato e delle sue classi. Platone ci fa assistere alla for-
mazione · dello stato dai suoi elementi più semplici
perché si scopra qual è il punto della formazione, in
cui sorge in esso e si fa valere l'esigenza della giusti-
zia 40). Questa esigenza non si rivela espressamente che
piuttosto tardi, ma il principio su cui essa poggia è
già operante in maniera inconsapevole ai primi albori
dello stato, in quella divisione di lavoro che s'impone
necessariamente non appena alcuni artigiani e lavora-
tori della terra si radunino in una, sia pur rudimentale,
forma di comunità '1). Questo principio - che ognuno
faccia il suo lavoro (-rà: éau-rou 7tpiXnetv) - è connesso
per Platone con l'essenza stessa dell'areté, che consiste
nella perfezione dell'attività specifica a ogni essere e
ad ognuna delle sue parti 42). t; facile capire questa

39) Resp. 368 e.


'°) Resp. 369 a.
il) Il problema di determinare il momento preciso in cui la
giustizia compare, nella polis di cui si descrive la formazione, è
sollevato fin dal principio (371 e), ma non può avere là la sua SO•
luzione. Tuttavia anche là si accenna che la giustizia è già ·con·
tenuta in qualche modo nelle regole disciplinanti i mutui rapporti
degli individui che nello stato collaborano.
42) Resp. 370 a ss.
CAP. IX: LA REPUBl!LICA, I [II 357] 1045

verità osservando la cooperazione degli uomini nella


comunità sociale, mentre è meno semplice rendersi
conto della sua validità anche per la cooperazione delle
«parti dell'anima». L'essenza della giustizia si farà
chiara solo più tardi quando Platone raccoglierà le
:fila del suo confronto fra stato e anima.

La riforma della paideia antica. - Con quel che


precede si è un po' anticipato il corso dell'indagine;
rit_orniamo ora alla descrizione di come si forma lo
stato. Essa distingue due fasi di ·sviluppo, quella della
società originaria, semplice e risultante solo dai me-
stieri e professioni più necessarie, che Platone chiama
lo. « Stato sano » e quella della « città gonfia e ma-
lata» che si forma necessariamente col progredire del
benesserè e del lusso 43). In quest'ultima non ci sono
soltanto contadini, muratori, fornai, sarti e calzolai, ma
esiste anche una quantità di gente che producono tutte
le superfluità della vita. La conseguenza inevitabile
di questa morbosa ripienezza dello stato - che in-
vece è più sano in condizioni ristrette - è l'impulso
all'ampliamento territoriale, vale a dire quel procedi-
mento per cui uno stato taglia viii' un pezzo di uno stato
vicino e se lo annette. Ecco scoperta l'origine della
guerra, che nasce sempre da cause economiche 44 ). Qui
Platone prende la guerra come una realtà di fatto; il
gran ·problema se essa sia buona o cattiva, egli lo ri-
serva espressamente a un'altra trattazione 45). Contrap-
ponendosi al principio democratico, valido in tutti gli
stati greci, del dovere di ogni cittadino di servire la

CS) Re11p. 372 e ss.


«).Resp. 373 e.
") La discussione avrà luogo nelle Leggi, 625 e-628 d, 629 a.
Da ciò però non segue che Platone avesse già pensato alle Leggi
quando scriveva la Repubblica.
1046 [1!358] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

patria in armi, e in base al suo principio che ognuno


debba fare solo il p:roprio mestiere, Platone afferma
la necessità di una classe di soldati professionali. i
« custodi» 46). Con ciò egli anticipa l'idea- degli eserciti
professionali di età ellenistica, anche se la strategia
del suo tempo aveva già fatto passi decisivi in questo
senso con l'istituzione, proprio allora molto criticata,
del mercenariato 47). Platone preferisce di levare dalla
cittadinanza stessa una apposita classe di guerrieri.
Nel definire, poi, questi guerrieri come « custodi» è
insita una limitazione del loro scopo alla difesa. Il
quadro che Platone ritrae è un ~ingoiare illiscuglio;
in parte è descrizione, impregnata .di giudizio morale,
del processo naturale della realtà, nel quale l'appari-
zione della guerra è sintomo di turbamento di un or&e
originario, in parte è costruzione ideale, che, da questa
classe di guerrieri, impossibile ad eliminarsi, si sforza
di trarre il meglio possibile. Dei due motivi è il secondo
che prende subito il sopravvento; ~ noi ci trqviamo su·
bito a far con Platone la parte di artisti, che abbiano
il compito di scegliere le nature più adatte e di ed..icarle
bene fino a formare con mano maestra il tipo del~ cli·
sto de» coraggioso e intelligente 48).
L"importanza di una scelta rigorosa, perchél'educa·
zione riesca a buon fine, è rilevata qui, come sempre in
Platone, con la massima energia 49). Nel caso dei .~er·
rieri essa non sembra comportare un procedimento par·
ticolare o specialmente complicato. Evidentemente, in
essa, si tratta soprattutto, per l'ed~catore di possedere

46) Resp. 374 a-d.


47) Cfr. la critica di Isocrate (De Pace 44-48) e di Demostene
(Phil. I, 20, 47 e passim).
48) La parola 1tÀlXTTS:W occone: più volte in un contesto come
questo. Cfr. 377 b, c.
49) Resp. 37 4 e.
CAP. IX: LA REPUBBIJCA, I [n359J 1047

il colpo d'occhio: e Platone dà di questa qualità uno


splendido esempio nel suo ritratto della natura di un
vero « custode». Per quel che è dell'attitudine fisica,
il guerriero deve essere acuto nelle percezioni sensibili,
agile a raggiungere l'oggetto della sua percezione, forte
nel comhattere per esso, una volta afferratolo. Per com-
battere è necessario il coraggio, che ha bisogno di un
sostrato fisico in quell'elemento fortemente emotivo,
che è proprio anche di ca valli e cani di razza. È note-
vole che un paragone del genere ritorni anche quando
si tratta della scelta spirituale di guerrieri e anche a
proposito dell'educazione femminile 50). Si sente qui il
senso sicuro dell'aristocratico per il valore della_ buona
razza, il piacere che egli prende di cani e cavalli, com-
pagni fedeli nella caccia e nello sport. L'anima del
guerriero, se vuol essere davvero buon custode dei
suoi, deve, come quella del buon cane, riunire in sé
due qualità -in apparenza contrarie: mansuetudine per
i suoi e pugnacità contro -gli stranieri. E in questa qua-
lità Platone addita scherzosamente un tratto filoso-
fico, giacché tanto i cani che i guerrieri giudicano di
ciò che è loro proprio o straniero secondo un solo cri-
terio: secondo, cioè, che lo conoscano o no 51).
Trattato questo argomento della scelta, Platone,
passa all'educazione (7tocL3doc) dei guerrieri 52). Questo
tema gli si amplia sotto mano in una estesa tratta-
zione che va a finire poi in una serie an~ora più lunga
di discussioni sull'educazione femininile e sulla for·
mazione dei governanti nello Stato ideale.
Per dar ragione del suo trattenersi così a lungo e
a fondo sull'educazione dei [;uerrieri, Platone rileva

60 ) Cfr. Resp. 375 a-e; v. anche 459 a, b.


01 ) Re3p. 375 e. -
02 ) La paideia dei guerrieri comincia con 376 c-e.
1048 [11360] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

che ciò servirà a chiarire il tema fondamentale, cioè la


posizione di giustizia e ingiustizia nello stato; e il suo
giovane interlocutore acconsente espressamente a que-
sta osservazione. Noi, però, anche non dubitando del-
l'utilità di questa trattazione, abbiamo l'impressione,
e tanto più quanto più ci si addentra nei particolari
dell'educazione dei guerrieri, di perdere completamente
di vista questo ·cosiddetto tema fondamentale della giu-
stizia. Certo, in un'opera come la Repubblica, che ha
la forma di un dialogo di grande complessità, c'è molto
che è occasionato del modo di composizione, e per tale
si deve accettare, anche se mette a dura prova la nostra
abitudine all'or.dine sistematico; ma, con tutto ciò,
la triplice indagine sull'educazione dei guerrieri, sul-
l'educazione femminile e su quella dei governanti, fa
un tale effetto di valere in sé e per sé, e d'altra· parte,
la risposta alla questione della giustizia e della felicità
del giusto, vien data così frettolosamente e di pas-
saggio, che a questo punto noi siamo costretti a pen-
sare che questa apparente rottura di equilibrio fra i
due temi connessi e intrecciati risponda a un'inten-
zione precisa dell'artista. Insomma, la ricerca sulla giu-
stizia è la principale solo in quanto tutta r opera si
svolge da essa e in quanto la questione della giustizia
mira, come a punto decisivo, al problema della norma.
Ma il nucleo vero e il centro dell'opera intera è .da rav-
visare, e proprio per la prevalenza esterna ed interna
che Platone gli ha dato, nel problema della paideia:
giacché questo è connesso indissolubilmente con la co-
noscenza delle norme e diventa perciò necessariamente
il problema principale in uno stato che tende essen-
zialmente all'attuazione della norma suprema.
L'educazione dei guerrieri secondo un sistema fis-
sato per legge dallo stato è una novità rivoluzionaria
di conseguenze imprevedibili. Ad essa in sostanza si
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n 361] 1049

riallaccia lo stato moderno con la sua pretesa - pro-


pria di stati di ogni tipo, specialmente dall'età del-
l'illuminismo e assolutismo in poi - di regolare legal-
mente l'educazione dei cittadini. Anche in Grecia, è
vero, e nella democrazia ateniese, lo spirito che in-
formava la costituzione politica si rifletteva fortemente
in campo educativo, ma educazione di stato, a mezzo
di funzionari, non ci fu, per testimonianza di ·Aristo-
tele, in nessun luogo tranne che a Sparta 53). E se Ari-
stotele si richiama a questo esempio, si può esser certi
che tanto lui quanto Platone ebbero dinanzi agli occhi
il modello spartano nel formulare la loro esigenza di
un'educazione di stato. Come poi una tale educazione
pubblica debba essere organizzata e attraverso quali
precisi istituti, è questione che Platone non tratta nella
Repubblica e che affronterà più tardi da vicino nelle
Leggi 54). Ora il suo interesse è volto esclusivamente
al contenuto della cultura, a stabilire di essa le linee
fondamentali; giacché la discussione di queste basta
a condurre al problema· che più gli sta a cuore, di come
si possa conoscere la norma suprema. Di fronte al du-
plice compito dell'educazione, formazione del corpo e
dell'anima, Platone giudica conforme a natura la so-
luzione dell'antica paideia greca, con la sua partizione
in · ginnastica e musica; e pertanto la mantiene come
fondamento 55). Questo fatto deve essere valutato alla
luce di quel che Platone altrove dice sul danno prodotto
da ogni innovazione in un sistema educativo che si
sia una volta accettato. In tal modo non ci sfuggirà
l'elemento conservatore delle idee educative platoniche,
quel suo attaccamento a ciò che è passato al vaglio

53) Èth. Nic. X, 10, 1180 a 24.


H) Cfr. « Paideia » III 434 ss.
") Resp. 376 e.
1050 (II 362] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

dell'esperienza, non ostante la critica radicale a cui


egli sottopone nei particolari il contenuto dell'educa-
zione antica. È comprensibile che il più delle volte si
metta in maggiore rilievo dai critici l'elemento nega-
tivo; ché, senza dubbio, in questo specialmente si ri-
vela la novità di Platone, in quanto filosofo. Ma quella
che in lui è, psicologicamente, l'attrattiva maggiore
- ed è anche cosa di decisiva importanza nella storia
della cultura - consiste proprio nell'intimo fecondo
dissidio tra il radicalismo concettuale e il rispetto
conservatore per una tradizione di cui egli scorgeva
l'unità e il significato spirituale. Perciò, prima di pre-
stare orecchio alla sua critica, si deve riconoscere ben
chiaramente che Platone costruì la sua nuova conce-
zione filosofica della cultura sulla base dell'antica pai-
deia greca, per quanto rielaborata.
Questo suo atteggiamento, che fu tenuto a mo-
dello dalla filosofia più tarda, è di notevole conse-
guenza storica. In primo luogo esso assicurò la con-
tinuità e l'unità organica, nel rispetto formale come
del contenuto, dello svolgimento culturale greco ed
evitò il taglio netto con la tradizione nel momento
in cui essa era più minacciata dal razionalismo filoso-
fico, passato ormai dallo studio della natura, alla
ricostruzione concettuale della cultura.
In secondo luogo l'ammirazione per l'antica pai-
deia, cioè per l'eredità vivente della nazione greca, con-
feris.ce al nuovo pensiero filosofico di Platone, la sua
precisa impronta storica. Questo pensiero, infatti, si
attua in un continuo contatto critico con _la poesia
e con la musica, le forze dominanti, fino a quel mo-
mento, dello spirito greco. E non è, questo elemento
critico, qualcosa di secondario filosoficamente, come
pensano spesso i critici moderni, ma è per Platone
parte essenziale e di primo piano.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n363] 1051

La critica della « musica ». - Platone vuole che


si cominci con l'educazione dell'anima cioè con la
« musica» 56). Questa, intesa nel senso comprensivo
della parola greca µoucr~x-fi, non è cosa soltanto di
suono e di ritmo, ma anche, anzi per fiatone in primo
luogo, cosa che riguarda la parola parlata, il logos.
Se anche Platone nel descrivere l'educazione dei
suoi « custodi» non svela ancora il principio essen-
ziale della sua :filosofia, egli accenna però . fin dalla
prima frase in che direzione si debba cercarlo. L'in-
teresse che il :filosofo prende a qualunque sorta di
espressioni verbali è diretto a un'unica questione:
se, cioè, una proposizione espressa sia vera o falsa.
Anche il valore educativo della parola, non il solo va-
lore conoscitivo, dipende dalla sua verità. Per questo
è paradossale, che Platone cominci con lo stabilire che
l'educazione s'inizia, non con la verità, ma con la« fal-
sità» 57). Egli pensa alle favole che si raccontano ai fan-
ciulli e non vede neppur lui un mezzo che le sostitui-
sca. Ma se è vero che egli, qui come altrove nella Repub-
blica, assegna un ufficio e un posto anche all'illusione,
quando sia consapevolmente usata come mezzo di edu-
cazione o di cura, egli fa anche subito una limitazione
essenziale che importa una seria accusa ai metodi tra-
dizionali. Le storie che si raccontano ai bambini non
sono vere, nel complesso, ma pur contengono una
qualche misura di verità. Ora, nell'educazione più che
in ogni altra cosa, gli inizii sono d'importanza grandis-
sima, giacché essa coglie l'uomo nello stadio iniziale e
più delicato. L'uomo è in questa età estremamente ri-
cettivo e prende per sempre l'impronta o « tipo» che
s1 vuol dargli. Non c'è niente dunque di meno con.ve-

06) Resp. 376 e, 377 a.


•7) Resp. 377 a.
1052 [n364] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

niente della facilità con la quale si lascia che il primo


venuto racconti favole ai fanciulli. Le. immaginazioni
che in questo modo si insinuano in loro sono spesso
lopposto assoluto delle convinzioni che essi dovranno
un giorno professare da adulti. Platone dunque vuole
che siano sottoposti. a sorveglianza i narr.atori dì miti
e di novelle, ·perché l'anima del bambino è informata
da tali narrazioni con effetto più durevole 58) di quel
che lo è il suo corpo dalle mani del maestro di gin-
nastica.
Quello che Platone esige è che in tutte le storie
grandi o piccole che si raccontano ai fanciulli, sia se-
gnata la stessa impronta o «tipo» 59). Naturalmente
un fondatore di stato, in quanto tale, non può essere
poeta lui stesso; ma egli deve almeno possedere la vi-
sione chiara dei «tipi» più generali che i poeti debbono
prendere a fondamento delle loro narrazioni. Platone
parla ora di un «tipo» ora di «tipi» al plurale. Con ciò
egli non pensa che il poeta creatore debba rimanere
attaccato a un certo numero di schemi prestabiliti, a
una rigida tipologia; quello che solo gli importa è che
tutte le rappresentazioni implicanti un valore morale
e specialmente quelle della divinità e dell'umana areté,
destinate per l'opera del poeta a imprimersi nella mente
dei fanciulli, siano nelle grandi linee conformi all'ideale
che esprimono. D lettore moderno di Omero e di Esiodo
si trova di fronte a scene che egli non giudicherebbe
in modo diverso da Platone, se le valutasse alla stre-

68) Con questa metafora del« foggiare» o« formare» (7tÀoca~ç,


7tÀOC't"'t"e:~v)
Platone mette dinanzi agli occhi del lettore, con ge-
niale perspicuità, la funzione essenziale dello studio di poesia e
musica, così come lo aveva praticato la più antica paideia greca.
Anche qui, non si tratta di qualcosa di assolutamente nuovo, ma
di una cresciuta consapevolezza rispetto a elementi preesistenti,
d'importanza già da lungo tempt> sperimentata.
69 ) Resp. 377 c.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n365] 1053

gua del proprio senso morale. Ma è abituato a consi-


derarle dal punto di· vista della loro dilettosità, e del
resto cosi si soleva considerarle già al tempo di Platone.
Nessuno però affermerebbe che esse siano adatte a
fanciulli. Neppur noi metteremmo, p. es., in un libro
da ragazzi la storia di Crono che mangia i figli. Libri
per ragazzi non c'erano a quel tempo: i ragazzi erano
abituati presto a ber vino, e cosi, per il nutrimento
dell'anima, alla poesia autentica. Ma, se anche Pla-
tone prende come punto di partenza le fa vole che si
raccontano ai fanciulli, la sua critica della letteratura
poetica non è fatta da un punto di vista cosi angusta-
mente ·pedagogico. Essa non ha di mira adattamenti
delle favole ad usum Delphini. Alla base di questa cri-
tica sta la fondamentale contrapposizione di poesia e
filosofia· che domina tutta la concezione educativa di
Platone e che in questo punto si fa acuta.
Platone non è tra i filosofi greci il primo censore
della poesia. Anzi, egli s'inserisce in una lunga tradi-
zione; e se anche non è possibile collegare ogni partico-
lare aspetto della sua critica ai suoi predecessori, sarebbe
però antistorico non tener conto del peso di questa
tradizione sul suo atteggiamento. , La sua accusa co-
mincia da Omero e da Esiodo per la loro troppo umana
rappresentazione degli dei, che era stata per l'appunto,
anche per la poesia satirica di Senofane, la mossa iniziale
di un attacco contro la poesia· epica 60). Anche Eraclito
era stato dello stesso parere e aveva usato lo stesso
tono, ed anche la poesia moderna si era, con Euripide,
messa dalla parte di questi filosofi accusatori 61). E per-
fino Eschilo e Pindaro avevano pensato diversamente
da Omero sugli dei d'Olimpo, ed avevano, con tutto

BO) ;Cfr. voi. I, p. 318 ss.


61) Cfr. voi. I, p. 593.
1054 [u366] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

il peso della loro serietà morale e della ·loro fede vi-


gorosa, sostituito una più pura e loro propria imniagine
del Divino a quella antica, anche se erano stati più
ritenuti e prudenti nell'esprimere il lato negativo della
critica. Una linea ininterrotta cotte da questi antichi
rappresentanti della critica etica su. Omero, fin:o ai
padri della chiesa cristiana che· trassero argomenti,
e spesso perfino le parole, per la loro· polemica contro
l'antropomorfismo degli dei greci, dalle opere di' que-
sti filosofi pagani. In fondo si può .dire che la serie co-
mincia col poet,;a dell'Odissea, evidentemente preoccu-
pato di dare ai suoi dei, e specialmente .a Zeus, un
atteggiamento più nobile di quel che noi conosciamo
dall'Iliade· 62). Da Senofane Platone prende· diretta-
mente argomenti per alcune critiche 'particolari;' come
quella alle guerre tra dei e giganti e all'odio e discordia
tra gli immortali in Omero 63). Il nucleo originario del
suo .atteggiamento è quello stesso dei suoi predecessori:
come loro egli applica il metro del suo senso morale
alle figurazioni dei poeti antichi e li trova inadeguati
al suo concetto di divinità· e, .pertanto, non ·veri. Già
Senofane se l'era presa con Omero« perché fin da prin-
cipio tutti sono andati a scuola da Omero» M) · e perché
sapeva di possedere ·una verità nuova e più alta.
L'opposizione platonica è nella stessa linea ma va
molto più oltre. Platone non è solo il cénso:re occasio-:
nale della cattiva influenza dei poeti sul pensiero del
popolo, ma vede in se stesso il rinnovatore di. tutto
il sistema della paideia greca. Poesia e mlisica, i fon-
damenti della formazione spirituale,·· avevano. sempre
incluso in sé anche l'educazione religiosa e morale.

•I) Cfr. voi. I, p. 115 s.


88) Resp. 378 c-d, cfr. Xenophanes, fr. 1, 21 DiehL
") Xenoph. fr. 9 Diehl.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n367] 1055

Questa concezione della poesia è per Platone qualche


cosa di così ovvio che egli non sente mai il bisogno
di esaminarla un po' più da vicino e fondarla razio-
nalmente. Ma ogniqualvolta gli tocca di parlare della
poesia nella sua essenza,. egli presuppone tale concezione
o la riferisce espressamente nella sua definizione. L'uomo
moderno trova difficile comprendere questo atteggia-
mento; e ciò perché la moderna « arte» impigliata P"'r
lungo tempo nei lacci moralistici dell'età illuministica,
ha potuto solo da poco e con grande sforzo trarsene
finalmente fuori. Per molti di noi, perciò, non c'è as-
sioma più sicuro di questo: che il godimento di un'opera
d'arte è indifferente moralmente. La \•erità di questo
assioma per il momento non ci riguarda. Dobbiamo
soltanto dir ben chiaro ancora una volta che esso non
corrisponde al senso greco della vita e dell'arte. Se
anche non si possono ~ ·e ciò evidentemente - esten-
dere a tutti i Greci tutte le severe conseguenze che
Platone trae dal concetto di missione educatrice del
poeta, è pur certo che questo concetto, di per sé, non
è affatto proprio e particolare di lui. Non solo egli lo
ha in comune con la più antica tradizione greca, ma
anche coi suoi contemporanei. Gli oratori attici so-
gliono in tribunale citare distesamente le leggi dello
stato, quando si debba aver ben precisa dinnanzi la
norma del diritto scritto ; ma accanto ad esse, e con
altrettanta naturalezza, essi citano anche i detti dei
poeti, quando in mancanza di norme legali scritte, si
appoggiano alla legge non scritta, quella legge di cui
Pericle esalta orgogliosamente la potenza nel suo en-
comio della democrazia ateniese 65). La legge cosiddetta
« non scritta» è in realtà codificata nella poesia. Un
verso d'Omero è sempre, quando mancano argomenti

85)
.
Aeschin. ~. Tim. 141; Lycurg. c. Leocr. 102.
1056 [u368] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

razionali, il testo più autorevole, a cui neppure i filo-


sofi si riguardano di fare appello 66), Questa autorità
è paragonabile con quella della Bibbia e dei padri della
chiesa nei secoli cristiani.
La critica platonica alla poesia· si potrà dunque in-
tendere solo partendo da questo valore universale· della
poesia, come totalità. della cultura, poiché in questa
concezione la parola del poeta è norma. Ma proprio
per questo Platone si sente autorizzato a commisu-
rare questa norma a una norma superiore che egli sa
di possedere mercé la conoscenza filosofica. Un elemento
normativo è già alla base della critica di Senofane,
quando egli dice che le rappresentazioni omeriche ed
esiodee della divinità sono a questa «inadeguate» 67).
Ma Platone rimane il pensaiore di cui tutta l'indagine
da capo a fondo è espressamente indirizzata alla norma
suprema dell'agire. Alla stregua .di questa norma gli
ideali dei poeti antichi sono in parte irraggiungibili, in
parte spregevoli. Portata su un piano ancora più alto,
la critica platonica della poesia assumerà necessaria-
mente una forma anche più radicale. Giacché se il
mondo che i poeti ritraggono come realtà si commisura
a quella conoscenza del pnro essere a cui dà adito la
filosofia, esso si svaluta in un mondo di pura apparenza.
La poesia cambia d'aspetto per Platone secondo che
egli· ne saggia il valore come norma dell'azione o come
conoscenza della verità assoluta.· Questo secondo esame
si compie nella trattazione conclusiva dedicata alla
poesia nel 10° libro, dove il filosofo non ravvisa in

66) Come è noto, furono gli stoici che più degli altri si valsero
dei poeti, come di autorità. Essi ·perciò giunsero a un tutt'altro
atteggiamento da quello di Platone nella questione del valore della
poesia. E poterono sostenere, insieme, i diritti dei poeti, specie di
Omero, e quelli della vera paideia mediante l'interpretazione al.
legorica.
&7) Cfr. supra, n. 64.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n369] 1057

essa che la copia di una copia. Là egli la guarda dall'alto


del supremo gr;1do della conoscenza. Per ora, invece,
trattandosi di delineare la paideia dei guerrieri, egli
si pone sul piano della semplice opinione retta, della
doxa, sul quale si mantiene tutta l'intera educazione
musicale, e assume perciò un atteggiamento più tol-
lerante. Qui egli mantiene .la poesia come un mezzo di
altissima efficacia formativa e come espressione di una
più alta verità 68); ma appunto per questo deve mu-
tare o sopprimere rigorosamente tutto quello che in
essa è inconciliabile col criterio filosofico.
La connessione della critica platonica sulla poesia
con la particolare posizione, che il poeta aveva avutQ
presso i Greci, di educatore del suo popolo, non è sempre
stata vista dai critici moderni con la necessaria chia-
rezza e consapevolezza. Anche il pensiero « storico»
del XIX sec. non fu del tutto capace di liberarsi, nella
considerazione del passato, dai presupposti ideologici
contemporanei. Si cercò, perciò, o di difendere Platone
o di presentare i suoi precetti come molto più ingenui
di quanto in realtà non fossero. Si vide, con una consi-
derazione soltanto psicologica, nel suo atteggiamento
la ribellione delle forze razionali del filosofo contrò la
sua stessa natura di poeta, oppure si attribuì la sua
svalutazione dei poeti al progressivo decadimento della
poesia del suo tempo. Ma queste spiegazioni, se anche
contengono qualche elemento di verità, non rendono
giustizia a ciò che vi è di fondamentale, di principio,
nell'atteggiamento di Platone. Si tendeva con esse
troppo a veder la questione dal punto di vista politico
della libertà dell'arte. Nella lotta, per cui la nuova
poesia e filosofia si erano liberate dalla tutela di
Stato e Chiesa, ci si era appellati spesso al. modello
, GB) Cfr. Resp. 377 a. Il mito nel suo complesso è falso; ma pur
contiene in sé anche un elemento di verità.
1058 [11370] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

dei Greci; ma in questo modello l'atteggiamento di


Platone stonava. Si tentò così di ritoccare un po' il
quadro platonico perché Platone non venisse a tro-
varsi in troppo stretta dimestichezza con la « polizia
artistica» della burocrazia moderna. In realtà, l'in-
teresse del pensatore non è rivolto al problema di come
si possa org8.ni.zzare un ufficio di censura col miglior
risultato pratico possibile, e, posto che il tiranno Dio-
nisio avesse voluto realizzare lo stato platònico, egli
sarebbe fallito su questo punto· o avrebbe dovut(), per
sentenza di Platone, cominciare col 'proibire i drammi
suoi propri. Il vero significato della riforma platonica
della poesia è di natura spirituale, ed è .politico soltanto
nel senso che in ogni programma spirituale è insita
una forza creatrice politica. Per questo valore spiri-
tuale Platone si sente in diritto di chiamare alla costru-
zione della comunità statale, anche la poesia, al se-
guito dell'Idea e in conformità ad essa, oppure di pe-
sarla ,e di trovarla deficiente, quando non possegga una
tale forza costruttiva. Platone non vuole affatto levar
di mezzo la poesia che non corrisponde alla sua mi-
sura di giudizio, e non nega le qualità estetiche che
essa può avere. Soltanto, essa non conviene ·a quel-
1' organismo statale asciutto e nervoso che egli vien
costruendo, ma a quell'altro troppo ricco e grasso.
Così avvenne che la dignità altissima di cui i Greci
avevano rivestito la poesia si risolvesse per essa in
ragione di condanna. Accadde come per lo stato, a cui
la p:çetesa a una au'torità etica divenne fatale nel mo·
mento stesso in cui Platone gli applicò ·la misura della
norma etica di Socrate, per esso irraggiungibile per il
fatto stesso della sua natura mondana. Poesia e stato,
certo, non si possono scartare, né l'uno né l'altro, come
fattori educativi, ma nello stato di Platone è la :filo-
sofia, la conoscenza del vero, che toglie ad essi la po-
CAP. IX: LA REP;JBBLICA, I [n371J 1059

sizione di comando fin qui tenuta, e intanto mostra


loro come si debbano trasformare per non essere im-
pari alla missione educativa a cui pretendono. Nella
realtà non si produrrà la trasformazione e in tal modo
un solo fatto sembra rimanere incontestabile, resul-
tato imponente della critica platonica, ed è l'abisso
incolmabile che è ormai scavato nell'intimo dell'anima
greca. Ma un frutto doveva pur maturare da questa
che appar vana aspirazione di Platone ad una ricon-
ciliazione piena dell'arte in quanto bellezza con la sua
missione educatrice, e fu la poesia filosofica dei suoi
dialoghi. Essa, commisurata alle esigenze espresse nella
Repubblica, appare, in senso elevato, di assoluta attua-
lità, e tale da poter prendere il posto dei modi più
antichi di poesia, anche se, nonostante ogni tentativo
d'imitazione, essa rimane qualcosa di irripetibile. E al-
lora, perché mai Platone non dice francamente che si
devono dare a tutti, educatori ed educandi, le sue
opere, come poesia, unica vera poesia? L'unica ra-
gione che glielo impedisce è la finzione dialogica. Ma
nell'opera della vecchiaia egli ahbandona questa finzione
e prescrive le sue Leggi al mondo degenerato come l'unica
forma di poesia che faccia per lui 69). Cosi la poesia af-
ferma ancora una volta, morendo, il suo primato nel-
1'opera d.;l suo grande accusatore.
La parte principale dei precetti per l'educazione dei
guerrieri è costituita dall'enumerazione dei« tipi» che
debbono essere banditi di qui in poi dalla poesia. Con
questo Platone ha di mira due scopi. Mentre attua
una purificazione a fondo della educazione« musicale»
da tutte le rappresentazivni religiosamente o moral-
mente sconvenienti, egli ci F - ,de in pari -tempo consa-
pevoli della sua esigenza, che l'educazione debba sem-

89) Cfr. « Paideia » III 454.


1060 [rr372] LIBRO lil - ALLA RICERCA DEL DIVINO

pre essere dominata da una norma suprema. La sua


critica dei miti, il suo criterio di scelta, dato dal loro
contenuto di verità morale e religiosa, presuppongono
un principio incontrovertibile. Questo principio si mostra
qui solo indirettamente, nella sua pratica applicazione,
e il consenso degli ascoltatori, sul quale Socrate si
fonda, è solo di sentimento, non di ragione; ma proprio
per questo si fa sentire la necessità che il principfo sia
reso valido da una più profonda dimostrazione filoso-
fica, sicché questo gradino della ricerca accenna già
ad un gradino più alto, dal quale la norma posta qui
dogmaticamente da Platone si svelerà nella sua verità.
Stanno al primo posto della serie i« tipi della teologia»
vale a dire i modelli per ogni forma di espressione ver·
baie riguardante l'essenza e l'opera di dei ed eroi 78).
Il modo di rappresentarli fui qui tenuto dai poeti viene
paragonato a un ritratto infedele 71). Ché i poeti, hanno
sì la buona volontà di dire su tali soggetti qualcosa che
si accosti alla verità, ma non ne sono capaèi. Raccon.·
t:ano essi, infatti, di violenze e raggiri degli dei, gli
uni contro gli altri, mentre per Platone è verità e cer·
t;ezza suprema che Dio è perfettamente buono e libero
di difetti. Perciò. tutti i lineamenti demoniaci, di gioia
maligna nel far male, che il mito attribuisce alla divi-
nità sono in verità estranei alla sua natura. Non può
quindi essere Dio la causa del male che si trova nel

70 ) Resp. 379 a -r6TtoL Ttept .&eoÀoylccç. Qui per la prima volta


appare il vocabolo teologia. ·
71) Resp. 377 e. Platone pa:ragona il poeta che narra cattive
azioni di dei a un pittore che faccia ritratti «non somiglianti»
ai soggetti. Le parole µ7]1>&v èotx6-ret sono scelte bene perché espri-
mono insieme la non rassomiglianza e la sconvenienza, sentita
da Platone, di una tale rappresentazione di divinità. Parimente
già Senofane aveva· detto (f:r. 22 Diehl) che non è cosa « che
rassomigli» a 'Dio il muoversi da un luogo all'altro. La parola
-itpé7tetv esprime in origine, come l'omerico èotxévcct, l'esser si-
mile. La tragedia del V sec. la conosce ancora in questo signi-
ficato.
CAP. DC LA REPUBBLICA, I [n373] 1061

mondo. Ne consegue, ancora, che Dio, solo in misura


limitata può dirsi autore del destino umano; egli non
è, insomma, colui che invia ogni sventura nella nostra
vita, come insegnano i poeti 72). L'antica credenza greca
che gli dei facciano cadere nella colpa il mortale, per
annientare lui e tutta la sua casa, è empia e blasfema.
Ecco, però, che con la caduta di questa fede, crolla
anche tutto il mondo della tragedia greca. Per Platone
non è Iddio che fa soffrire l'innocente, e quando soffre
un colpevole, questa non è infelicità ma è bene per
lui. Tutta questa esposizione è accompagnata da esempi
numerosi e da citazioni di poeti. Nella stessa maniera
è condannato ogni mito che rappresenta il divino, cioè
il perfetto l'immutabile ed eterno come mutevole ed
assumente aspetti varii di esseri finiti, o che attribuisce
a Dio l'intenzione di illudere e di ingannare. Poesie
di questo genere non solo non possono aver posto nel-
l'educazione giovanile, ma debbono assolutamente es-
sere escluse dallo stato di Platone 73).
C'è una buona ragione perché il più aspro assalto
di Platone alla poesia abbia luogo. proprio a questo
punto: qui si tratta delle concezioni dei poeti su Dio e
sul governo divino del mondo. Da Omero alla tragedia
attica, è caratteristica delle più essenziali di tutta la
poesia greca più antica, il considerare il destino umano
dipendente dal potere degli dei. Il corso della nostra
vita non si può spiegare per se stesso soltanto, con mo-
tivi puramente psicologici, ma è sempre legato con
invisibili fili al potere che domina l'universo. L'uomo
può tentare di dar compimento all'ideale, e questo suo
sforzo culmina nell'areté eroica; ma sopra noi sta sem-
pre, inflessibile e inevitabile, la moira divina, alla cui

72) Resp. 379 e.


73) Resp. 383 e.
1062 [rr374] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

ultima istanza son sottoposte La volontà e la riuscita


dei mortali. In questo sta il tragico dello spirito che
anima la poesia greca, nel vedere cioè ogni evento,
anche la più nobile e pura delle azioni umane, legata
indissolubilmente dal nostro destino mortale alla legg;_'
del cielo. Certo, già nel corso del sesto secolo, il senso
della vita si era venuto sempre più razionalizzando e i
Greci cominciavano a sentire che gli uomini son re-
sponsabili del loro agire e patire. Ma anche un tal
mutamento d'intuizione non pervade il senso morale
di pensatori come Solone o Teognide, Simonide o
Eschilo, fino al punto di distruggere il nucleo più in-
timo e più forte della fede nella Moira, quella fede
che è ancora operante nella tragedia del V sec., e per
la q:ù.ale « a colui che vogliono perdere, gli dei tolgono
prima il senno». Miseria ·meritata o miseria immeri-
tata, l'una _e l'altra è« moira degli dei», perché Dio
è la causa di ogni cosa che accade, buona o cattiva
che sia.
Il conflitto tra questa concezione religiosa e l'idea
etica per cui l'uomo è pienamente responsabile dei re-
sultati delle sue azioni, si propaga per tutta la poesia
greca, anche se talvolta non viene alla superficie. Questo
conflitto doveva giungere a una soluzione, quando So-
crate predicò la sua dottrina radicale, per cui ogni
vita umana deve essere giudicata su criteri etici. Il
mondo dell' areté nel quale Platone costruì il suo ordine
nuovo è fondato sul principio che è l'individuo che
informa e foggia il corso della propria vita morale
volgendolo alla meta del Bene, in quanto e nella misura
in cui lo ha scorto. Con ciò è escluso assolutamente
l'imper~ della moira, Quello che è chiamato con questo
nome, da co~oro che la pensano come gli antichi poeti,
non è il volere divino. Se Dio fosse capace di condurre
gli uomini al, male, contro ogni loro sf9rzo in contrario,
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n375] 1063

noi vivremmo in un mondo in cui la paideia non


avrebbe più alcun significato. Cosi, attraverso la cre-
denza di Socrate, che gli uomini vogliono « natural-
mente» il bene e son capaci di apprenderlo, Platone
fu condotto a trasformar grandemente la concezione
presocratica del mondo. Nell'età più antica, i Greci
avevano pensato Dio come il potere, essenzialmente,
che è causa di ogni cosa: e qui poeti e filosofi erano
stati d'accordo. Platone non si spaventa delle conse-
guenze che avrà l'abbandono di una tale credenza.
Egli ammette che il regno del bene, e della libertà,
ha un suo contrappeso in quel regno della necessità
(ananke) che i suoi predecessori avevano descritto come
«natura». Ma (come mostra il Timeo) egli ritiene che
il mondo della natura è puramente materia, in cui la
forma, che è la divina idea del Bene, si realizza in una
più alta natura. Tutto ciò che non si accorda col Bene
è eccezione, manifestazione imperfetta del puro essere
e, per tanto, anormalità. La paideia di Platone non
potrebbe esistere in un mondo come lo aveva concepito
Democrito. Il mondo di Democrito era, pensatò fino
in fondo, fino all'estremo rigore scientifico, il mondo
degli antichi poeti, dominato dalla moira. Platone pensò
che il suo grande proposito di educare uomini sarebbe
stato impossibile se maestri e scolari non avessero avuto
un concetto nuovo dell'universo, come di un vero co-
smos, un mondo di ordine nel senso platonico - cioè
se non fossero stati guidati gli uni e gli altri da un
unico principio di bene - e se tutta l'opera dell' edu-
cazione non fosse stata in armonia con la legge dell'uni-
verso. In un mondo di questo genere la paideia è vera-
mente opera di Dio, come la chiama Socrate nell'Apo-
logia, dove egli afferma fieramente di essersi a lei de-
dicato come a « servizio di Dio», e a lei consacra la
sua vita.
1064 [n376] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Ai precetti sulla rappresentazione della divinità se·


gue una critica della poesia, anch'essa appoggiata su
numerosi esempi, tendente a mostrare il pericolo che
essa rappresenta per la formazione della fortezza e del
dominio di sé. Del resto, tutta la critica della paideia
antica è fondata sul principio classificatorio platonico,
per cui quattro sono le fondamentali virtù civili: pietà
religiosa, fortezza, temperanza e giustizia. Della giu-
stizia, però, a questo punto non si tratta e di ciò, alla
fine, si dà la spiegazione col fatto che non si è ancora
stabilito che cosa propriamente sia la giustizia e che
importanza essa abbia per la vita e felicità dell'uomo 74).
Anche in questa parte Platone tratta piuttosto dura-
mente gli antichi poeti. Per lui la spaventosa descri-
zione omerica dell'oltretomba è capace di infondere
nei guerrieri la paura della morte. Platone, natural-
mente, non vuole bandire del tutto Omero; si limita
a proporre cancellature di versi (è~otÀdq>eLV, 8~ocypci­
q>etv}, vorrebbe soppresse intere parti dell'epos, e non
si farebbe scrupolo di rifare qua e là i poeti, al modo
di cui dà dimostrazione pratica più tardi, nelle Leggi 75).
A chi è filologicamente educato al rispetto e alla con-
servazione della tradizione, tutto ciò fa l'effetto del
più deplorevole arbitrio e violenza. La parola origi-
nale del poeta è sacra per lui. Ma questo .modo di ve-

74) Platone comincia con una critica dei miti relativi agli dei
ispirata alle esigenze di una pietà (e:ùai~e:tci:) autentica (da 377 e
fino alla fine del secondo libro). Col libro terzo comincia la critica
di quei luoghi dei poeti che offendono l'ideale della fortezza, e
a questa si attacca (389 d) la critica relativa al dominio di sé.
Tutte e due queste parti si riferiscono alla rappresentazione poe-
tica degli eroi. Sembra poi che dehha immediatamente seguire la
critica alla rappresentazione degli uomini: e quest'ultima dovrebbe
essere esaminata in confronto all'ideale della giustizia (392 a. c),
che è l'unica virtù di cui ancora rimanga da trattare. Ma Platone
rimanda questa parte della sua critica, giacché è necessario prima
che si ven11:a in chiaro sulla natura della giustizia.
71) Cfr. « Paideia» III 382, n. 31 e 384.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I (II 377] 1065

dere in noi connaturato e ormai istintivo è il prodotto


di una cultura giunta all'epilogo che conserva le opere
del passato come tesori, salvi per fortunato caso, e
non vede che un'unica ragione per operare in essi un
cambiamento: che si possa, mercé una fonte testuale
più pura, ricostruire nella forma originaria la scrittura
dei poeti. Non cosi nei tempi in cui la poesia era ancora
operante nella vita. E, a guardar meglio, si scorge che
c'era stato prima di Platone buon numero di spunti
e tentativi, nel senso dell'esigenza platonica di rifare
i poeti, che fanno apparire in una luce meno cruda la
violenza che egli vorrebbe esercitare sui testi. Solone,
p. es., invita il suo contemporaneo Mimnermo a rifare
un verso, ormai già di pubblico dominio, perché vi
era espressa la sentenza, ispirata a un morbido pessi-
mismo, che l'uomo dovesse morire raggiunti i sessan-
t'anni: «Leva sessanta», gli dice Solone «e mettici
ottant'anni » 76). E tutta la storia della poesia greca
mostra parecchi esempi di poeti che volendo ribattere
o correggere le idee di un predecessore sulla più alta
areté umana, si tengono sensibilmente aderenti alla
poesia di lui e mettono · nelle vecchie botti il vino di
un nuovo pensiero 77). Si tratta. spesso di un vero e
proprio rifacimento dell'antico. Anche nella tradizione
:rapsodica orale della poesia omerica ed esiodea, e molto
più spesso di quanto noi oggi si possa dimostrare,
questo motivo dové condurre ad alterazioni e rifaci-
menti nel senso che più andava a genio ai poeti.
Questo singolare fenomeno è comprensibile, na·
turalmente, solo nel quadro del valore, conferito alla

73) Sol. fr. 22 Diehl. .•


77 ) lo stesso, nella memoria Tyrtaios. Uber die wahre Arete (« Sitz.
Ber!. Akad >>. 1932, p. 556) ho esaminato un certo numero di esempi
significativi di un tal modo di ritrattare poesie famose e di gi:ande
autorità•.
1066 [rr378] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

poesia, di autorità educativa, valore che, come fu ovvio


per gli uomini di quella età, cosi è divenuto estra-
neo al nostro pensiero. Rifacimenti di questo ge-
nere servono, in modo ingenuo, ad adattare tutto ciò
che è divenuto classico al mutato sentire etico, e con
ciò gli fanno in qualche modo il più grande onore.
Questa epart6rthosis fu accettata poi universalmente
dai filosofi. nelle loro interpretazioni di poeti, e dai
filosofi. passò in eredità agli scrittori cristiani: «Conia
a nuovo la moneta» fu la massima di una tradizio:tte non
ancora estinta, ma rimasta attiva nell'opera di crea-
zione finché i suoi rappresentanti ebbero la coscienza
di partecipare ad essa, come cooperatori e conser-
vatori di vita 78). Perciò il rimprovero che si suol
fare a Platone di una razionalistica inintelligenza dei
poeti del passato non va esente esso stesso da una
certa mancanza d'intendimento storico, per il signifi-
cato che ebbe P.er Platone e per i contemporanei la
tradizione poetica del popolo greco. Quando egli, p. es.,
nelle Leggi vuole che l'antico poeta· spartano Tirteo,
rimasto ·sempre la Bibbia del popolo spartano, poeta
che aveva esaltato la fortezza come il coronamento
supremo della virtù virile, sia accomodato in modo
che la giustizia prenda il posto della fortezza 79}, noi
sentiamo immediatamente qual potere di suggestione
debba avere avuto la poesia di Tirteo sull'animo di
colui che credeva, proponendo di correggerlo, di com-
piere un doppio dovere, verso il poeta e verso la verità.
Platone, però, non procede con quella ingenuità
che era stata propria dei più antichi rifacitori della
sapienza poetica. Sulla sua severa maschera censoria
aleggia un fiato d'ironia. Egli non si mette a discutere

78) Cfr. in proposito, ED. NoRDEN, Agnostos Theos, p. 122 (e


Nachtriige, p. 391).
79) Legg. 660 e-f.
CAP. IX: LA REPUBBUCA, I [n379] 1067

con quelli che vogliono dar la sua parte al godimento


estetico e argomentano che la pittura omerica dell'Ade,
facendo più poetica la poesia, la rende di maggior
godimento per i più. Quanto più quelle scene sono
poetiche, tanto meno è opportuno che le ascoltino
ragazzi e uomini destinati ad essere liberi e decisi
sempre a preferire la morte alla servitù 80). Così pure
Platone taglia da Omero, senza misericordia, tutti i
lamenti funebri per gli eroi, ma anche è spietato per
il riso infinito degli dei d'Olimpo, perché esso induce
gli ascoltatori ad indulgere eccessivamente al piacere
di ridere. Descrizioni di illegalità, di brama di godi-
mento, di avidità, di corruttibilità sono espunte da
lui, come rovinose. Lo stesso genere di critica si ap-
plica ai caratteri dell'epos 81). Achille che per il corpo
di Ettore accetta il prezzo del riscatto e. il risarcimento
da Agamennone, ferisce il senso morale di un'età più
tarda, come il suo Fenice che gli consiglia di riconci-
liarsi, a prezzo, con Agamennone. Così non meritano
fede· te parole di sfida che Achille rivolge· al dio fluviale
Sperchéo, i suoi insulti ad Apollo, lo strazio del corpo
del nobilissimo Ettore, l'uccisione dei prigionieri sulla
pira di Patroclo. O la morale degli eroi omerici induce
ad escludere la loro divinità, o le descrizioni che li
ritraggono non sono veraci 82). Platone non trae da
da tutto ciò la conseguenza. che l'epos ha in sé molto
di arcaico e di rozzo, in quanto rispecchia il modo di

80 ) Il IUogo è istruttivo per il rapporto di quel che noi chia-


miamo godimento artistico col compito della -poesia, nel senso
dei Greci, di formare anime umane. L'uno non esclude l'altro;
anzi quan:to più intenso è il godimento tanto più grande è la po-
tenza. formatrice di un'opera d'arte su chi la osserva. Perciò è
comprensibile che l'idea del potere formativo della poesia sia nata
proprio nel popolo più artista del mondo, nei Greci, che ebbero
in grado supremo la capacità del godimento estetico.
Bl) Resp. 387 d ss., 389 e.
82) Resp. 390 e ss.
1068 [n380] LIBRO Ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

pensare di un'età primitiva, ma insiste nell'affermare


che, mentre i poeti debbono, e vogliono, presentare
esempi della più alta areté, gli uomini d'Omero spesso
non sono affatto esemplari. Di fronte a una tesi come
questa, chi si mettesse a spiegare storicamente il di-
fetto omerico sarebbe assolutamente fuori strada e
riuscirebbe inefficace, perché una tale spiegazione pri·
verebbe del tutto la poesia del valore normativo su
cui si fonda ogni suo titolo ad ammaestrare e guidare
gli uomini. È necessario un metro di valore assoluto
per valutarla, e perciò alla poesia non rimane che ce·
dere il campo o sottomettersi all'impero della verità
che Platone le contrappone 83 ). Questa verità è l'op·
posto assoluto di quel che noi chiamiamo realismo
artistico, atteggiamento che la generazione precedente
a Platone aveva già conosciuto. La rappresentazione
di malvagità o debolezze umane o di apparenti defi·
cienze nel divino ordine del mondo concerne solo il
lato fenomenico della realtà, non la sua essenza, t:ome
la concepisce la filosofi.a platonica. Con tutto ciò non
viene in mente a Platone, neppure un momento, che
la poesia possa esser sostituita, nel. suo potere edu-
cativo, dalla conoscenza astratta propria della filosofia.
Anzi l'aspra energia che anima tutto il dibattito si
spiega solo con la convinzione profonda che niente possa
sostituire la potenza formatrice delle immagini poetiche
provate dai secoli. E, posto che la filosofia riesca a
cogliere la conoscenza liberatrice di una norma suprema,
Platone sente che, con questo, il compito educativo è
assolto sol 0 per metà, finché la verità nuova non ha in-
formato di sé, come anima un corpo, una nuova poesia.
L'e:Qicacia delle opere musicali e poetiche non
sta sofo nel contenuto, ma nella forma, prima di

83) Resp. 391 d.


CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [II381] 1Q69

tutto. E con ciò sì giustifica che la critica platonica


della educazione musicale tradizionale consti di due
parti principali: critica dei miti e critica di lingua e
stile 84). Di particolare interesse è la trattazione del-
l'elocuzione poetica (ì..&;Li;) perché essa mette in luce
per la prima volta certi fondamentali concetti che s'in·
contrano svolti sistematicamente in un più vasto con·
testo, solo nella Poetica aristotelica. Non però da un
interesse per l'arte poetica in se stessa è animata la
teoria di Platone: la sua poetica è critica della poesia
in quanto paideia. Mentre egli precedentemente dedu-
ceva tutte le arti dalla comune radice del diletto pro-
dotto dall'imitazione 85), si nota ora che il concetto
della mimési viene limitato, nella classificazione dei
modi di discorso poetico, alla imitazione drammatica
in senso stretto. La classificazione è la seguente: 1 o at-
teggiamento puramente narrativo, come quello p. es.
del ditirambo, 20 rappresentazione per mezzo di imita-
zione drammatica, 30 rappresentazione mista di nar-
razione e imitazione, nella quale l'Io del narratore si
cela, come avviene nell'epos, dove narrazione e di-
scorso diretto, elemento drammatico, si alternano 86).
Platone illustra con esempi particolareggiati tratti dal-
l'Iliadè questa sua trattazione: evidentemente egli non
può fare assegnamento sulla familiarità dei lettori con
tali criteri. Essi sono ancora una novità.

84) La trattazione sui miti si conclude con 392 c. Ad essa suc-


cede la critica dello stile.
85) Ciò è rilevato, sia pur di passaggio, in 373 b; cfr. anche quel
che è detto, 377 e, sul« ritrarre» (dx~~etv), che è compito co·
nmne del poeta come del pittore.
86 ) Resp. 392 d. Il concetto di imitazione di cui Platone fa uso
in questa classificazione dei generi poetici non significa copia fatta
dall'uomo di questo o quell'oggetto naturale, ma quel processo
per cui la personalità del poeta o dell'attore, quando egli parla
non in persona propria ma altrui, si configura a simiglianza della
personalità aliena (oµotouv Éo:u-r6v).
1070 [11382] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Anche qui sorge la questione quali di questi vari


modi possano essere ammessi nello stato ideale. Il
criterio decisivo per risolverla è unicamente questo:
che cosa si richiede per l'educazione dei guerrieri. Te-
nendosi strettamentè al principio che ciascuno debba
conoscere a fondo il proprio mestiere e non occuparsi
di niente altro, Platone chiarisce che la tendenza e la
capacità di imitare molte altre cose non si concilia con
le qualità di un vero « custode» della patria. Anzi nor-
malmente neppure un attore tragico è buono inter-
prete di commedia, e un declamatore raramente è
adatto a una parte drammatica 87). I «custodi» sono
una categoria professionale che deve intendersi di un
solo mestiere: quello di difendere la libertà dello stato 88).
L'antica paideia non si era proposta di formare spe-
cialisti, ma solo buoni cittadini, muniti di una con-
veniente preparazione generale ai loro compiti. Anche
Platone, certo, prende esplicitamente in considerazione
per la formazione dei guerrieri quell'antico ideale di
kalokagathia 89). Ma, valendosi di un confronto, natural-
mente sfavorevole, fra i tentativi di dilettanti d'arte
drammatica e l'alto grado di specializzazione degli
attori professionali del suo tempo, egli ravvisa nel
problema dell'ammissibilità della poesia drammatica
nell'educazione dei guerrieri un punto di conflitto tra
due diverse attitudini speciali, che meglio farebbero,
secondo lui, a nQn impacciarsi a Vicenda. In un genio
universale come Platone sembra strana questa dichia-
rata predilezione per i limiti della specializzazione;
strana ma psicologicamente comprensibile. Essa è un
segno chiaro di un conflitto intimo, di un dissidio che,
qui come in altri punti, condusse Platone a soluzioni in

87) Resp. 395 a.


88) Resp. 395 h-c.
89 ) Resp. 396 h.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [!1383] 1071

qualche modo sforzate. Dal fatto che la natura umana« è


divisa in parti minute» egli trae la conseguenza che per
un soldato è meglio essere deliberatamente unilaterale 90).
Però, accanto a un argomento come questo, di ri-
gida ed esagerata astrattezza, sta un'affermazione pro-
fonda di verità, cioè che l'imitazione, specialmente se
prolungata, influisce sul carattere dell'imitatore. L'imi-
tazione è sempre una mutazione spirituale, un abban-
dono temporaneo della propria forma spirituale, e un as-
similarsi alla natura del modello, migliore o peggiore
che questo sia 91). Perciò Platone limita i contatti d.ei
guerrieri con le rappresentazioni drammatiche, col non
permettere che essi interpretino se non personaggi rap-
presentativi di genuina areté. Vieta assolutamente l'imi-
tazione di donne, di schiavi, di uomini di carattere o
di contegno volgare e di persone « banausiche», di
ogni genere, che non possono pretendere alla kaloka-
gathia. Anche le voci degli animali, il rumore di un fiume
scorrente, il fragor del mare, il tuono, il fruscio del
vento, lo scricchiolar delle ruote, son tutti suoni che
un giovane di contegno elevato non deve imitare, se
non talvolta per scherzo 92). C'è una lingua dell'uomo
nobile e una dell'uomo ordinario, e, se colui che vuol
essere soldato imita ·qualche cosa, soltanto la prima

90) Resp. 395 h.


111 ) È eVidente che questo carattere non compete a quella imi-
tazione in senso lato che si è distinta (v. sopra n. 86), dall'imi-
tazione del poeta o dell'attore drammatico, ma solo a quest'ul-
tima, che per Platone comprende anche i discorsi dei poemi epici.
Questo genere d'imitazione che impronta fortemente corpo, voce,
carattere dell'imitante e fa dell'oggetto imitato una sua seconda
natura (395 d), è la sola in cui Platone veda una categoria etica,
mentre l'imitazione di una realtà qualsiasi come la praticano le
arti in generale è moralmente indifferente per il carattere dell'imi-
tatore. Il concetto di mimesi in quanto rinunzia alla propria per-
sonalità è concetto paideutico, quello dell'imitazione della natura
in generale, concetto tecnico.
92) Resp. 395 d-396 e.
1072 [n384] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

può essere oggetto della sua imitazione 93). Il suo stile


sia semplice, come si conviene al ni.odo di pensare di
un onest'uomo, e non gli piaccia una lingua policroma,
ricca di variazioni, la quale, quando debba essere ri-
vestita di note musicali e di ritmo, esiga un'arte di va-
riazione altrettanto sapiente nelle tonalità e nei mo·
vimenti 9'). Ai virtuosi di questa moderna sorta sarà reso,
nello Stato di Platone, ogni onore, sarà pagato ogni
tributo di ammirazione; ma, cosparso loro il capo di
profumi e recintolo di bende di lana, saranno, in que·
sta pompa solenne, ricondotti ai confini perché va-
dano in altra città; ché nello Stato della educazione
pura non c'è posto per loro. In questo Stato può aver
luogo solo un poeta più austero e meno dilettoso 95).
Platone, anzi, arriva :fino a posporre nel giudizio la
poesia drammatica a quella narrativa e vorrebbe che,
anche nell'epica, l'elemento drammatico, il discorso
diretto, fosse il più possibile ridotto 98). Il suo modo di
trattar questo punto, è, naturalmente, in relazione
con la passione dei giovani del suo tempo per il teatro
e la poesia drammatica. Del pericolo di una tale pas·
sione, Platone, che si era dilettato di comporre trage·
die prima di conoscere Socrate, dové aver fatto espe-
rimento in se stesso e in altri. Si sente l'esperienza viva,
nell'umore asprigno con cui ne parla.

Nella cultura dei Greci poesia e musica erano so-


relle inseparabili, e nella !oro lingua una sola parola
le designa iilsieme ambedue. Perciò dopo le regole per
contenuto e forma della poesia, segue !a trattazione

93) Resp. 396 c-d.


") Cfr. Resp. 3?.7 a. e la descrizione delle due forme (etllr,)
o tipi (~u~o~) di stile (ì..~~i;).
96) Rup. 398 a.
86) Resp. 396 e.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [!1385] 1073

della musica, nel senso nostro della parola 97). Questa


nella poesia lirica, caso limite, si fonde in una supe-
riore unità con l'arte della parola. Ciò_ che riguarda
contenuto e forma della poesia è già tstato trattato con
esempi tratti essenzialmente dalle forme poetiche par-
late, epos e dramma, e si capisce perciò che non sem·
hri più necessaria una trattazione speciale deaa lirica,
in quanto poesia: per essa valgono gli stessi principii
che per gli altri due generi 98). Ma tanto più è neces-
sario che ora si parli di tonalità e armonie, in se stesse,
scio!te dalla parola. Ad esse si congiunge, altro ele-
mento della poesia cantata e insieme della musica dan-
zata, il ritmo. Legge suprema della cooperazione di
questi tre elementi, Logos, Armonia, Ritmo, è per Pla-
tone il principio che suono e ritmo siano subordinati
alla parola 99). Con ciò i principii stabiliti per la poesia
vengono senz'altro a essere validi anche nel mondo
dei suoni, e si rende possibile trattare complessiva-
mente, da un unico punto di vista, parola armonia e
ritmo. La parola è diretta espressione dell' intelligenza.
e all'intelligenza spetta il posto di comando. Non que-
sta però era la -condizione di cose che la musica còn-
temporanea presentava a Platone. Come sulla scena
l'elemento spettacolo aveva sopraffatto la poesia, pro-
ducendo quello che Platone chiama « teatrocrazia » 100),

91) Cfr. Resp. 398 b-c. Contenuto e. forma sono & n: Àe:xtto11
wxl wi; Àe:>e't"éo\I. Il primo punto ( &) si identifica con la tratta-
zione particolare dedicata ai miti, il secondo (wi;) con quella dello
stile (ÀÉ~t<;). La. terza parte dell'esame critico della poesia, de-
dieata alla musica (7te:pl <f.IHjç 't"p67tou xizl µe:Àùi11) comincia.
con 398 c. Questa partizione della poesia nei suoi vari elementi
anticipa in parte la struttura della Poetica di Aristotele. Il carat-
tere normativo della trattazione è significato nel ripetuto Àe:>e't"éo11.
La norma platonica è la perfezione« paideutica» dell'opera poe-·
tica, non quella meramente tecnica.
98) Resp. 398 d.
911) Resp. 398 d, cfr. anche 400 a, d.
100) Legg. 701 a.
1074 [rr386] LIBRO IIl - ALLA RICERCA DEL DIVINO

cosi nelle produzioni musicali la poesia era ancella del


suono. Le descrizioni della vita musicale del tempo
sono concordi nel biasimare l'invadente sentimenta-
lismo e l'eccitazione di ogni forma di passionalità io1).
La musica non si è solo emancipata, ma è divenuta il
demagogo della repubblica artistica.
Il più forte argomento in favore della censura pla-
tonica è il fatto che essa fu trovata vera e accettata
da tutti i teorici musicali dell'antichità. Ma, in ogni
modo, il proposito di Platone non è quello di mettere
i freni al nostro mondo degenerato. La sfrenatezza, è,
di questo mondo, la caratteristica essenziale, e Pla-
tone lascia che esso vada per la sua strada. Il rimedio
nascerà dall'eccesso stesso, e, quando il tempo sarà
venuto, la reazione si produrrà, per legge di natura,
fino all'eccesso contrario. Non si deve dimenticare che
l'oggetto della ricerca platonica è la città sana, snella,
tutta nerbo, che fu «un ;tempo», non la città grassa
e gonfia, che venne «poi», nella quale c'è bisogno di
cuochi e di medici. La semplificazione operata da Pla-
tone è radicale. Egli non pensa a percorrere a ritroso
un'evoluzione avvenuta, ma semplicemente comincia
da principio. D'altra parte non è suo proposito dare
una completa teoria dell'arte· e ciò appare ancora più
chiaro qui che nella trattazione della poesia, ricondotta
a determinati «tipi» ideali. Nessun ingombro di par-
ticolari tecnici, ma solo il colpo sictiro del legislatore
che con un paio di segni ben netti determina i confini
oltre i quali non è lecito andare. 11: questo un segno
della sua sapienza d'artista, anche se a noi, come sto-
rici, vien fatto di dolerci di una tale discrezione, giac-
ché quel poco che si apprende dalla sua critica è il
fondamento di tutto quel che si sa sulle armonie della

101) Ps. Plut. De Mus. c. 27; Hor. Àr•. 202 ss.


CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [II 387] 1075

musica greca. Tanto della ginnastica, quanto della mu-


sica greca, i fondamenti della paideia in età arcaica
e classfoa, ·10 stato della nostra tradizione non ci per-
mette di dare una descrizione particolareggiata. Perciò
nella nostra trattazione esse non formano un capitolo
separato, ma se ne parla dovunque la loro presenza
affiora dai documenti e dai dibattiti antichi; e di que-
sto ci si può consolare pensandò che per noi, come per
Platone, l'elemento tecnico è accessorio. Platone stesso
più di una volta., a proposito d_ell'elemento tecnico
delle teorie tonali, rimanda agli specialisti e accenna
alla conoscenza che Socrate ebbe della teoria musicale
di Damone, un innovatore, in quel tempo 102 ). Così
tutto quel che da Platone si ricava è che le tonalità
(armonie o modi) mixolidia e iperlidia debbono essere
vietate come adatte a gemiti e pianto, che sono stati
già prima vietati nella critica della poesia. Del pari
sono ·interdette le armonie languide adatte ai conviti,
la ionica e la lidia, perché rilassatezza ed ebbrezza non
convengono ai custodi dello stato 103). L'interlocutore
di Socrate, il· giovane Glaucone, che rappresenta le
tendenzé della gioventù colta, fiero di poter dar prova
di cognizioni teoriche di musica, osserva che in questo
modo si salvano solo le armonie dorica e frigia. Ma
Socrate non si lascia trasportare a parlare di tali par-
ticolarità. Platone ritrae in lui, di proposito, l'uomo di
cultura vera, che ha, sì, il senso dell'essenziale in quella
tal materia, ma non reputa conveniente mettersi a
discutere con specialisti. Per chi s'intende della cosa,
la precisione è un'evidente necessità, ma per l'uomo
colto essa sarebbe pedanteria, non degna di un li-
bero 104). Perciò Socrate si limita a dire in generale che

162) Resp. 400 b.


163) Resp. 398 e, ss.
164) Cfr. infra, p. 389, e cfr, Arist. Mee. I 3, 995 a 9 ss.
1076 [n388] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

egli manterrebbe soltanto quel tipo di armonia che imita


la voce e l'intonazione di un uomo d'armi in cospetto
del pericolo, dèlle ferite, della morte, o quella di un
uomo di carattere assennato e. temperante, in tempo
di pace 105). Oltre che alla ricchezza di tonalità si rinun-
zia anche alla copia e varietà di strumenti musicali.
Gli strumenti non si debbono giudicare dalla varietà
di armonie che possono produrre ò dal numero delle
corde. Flauti, arpe e ~imhali sono senz'altro da bandire:
lira e cetra soltanto si ammettano, perché adatte solo
per musiche semplici, Nella campagna, poi, risuoni
soltanto la zampogna del pastore 108). Ci torna a mente
il racconto del governo di Sparta che avrebbe inter-
detto l'accesso a Timoteo, il novatore geniale, il mae-
stro della musica moderna, perché abbandonata la ce-
tra a sette corde, la cetra di Terpandro consacrata
dalla tradizione, aveva adottato uno strumento di
molte più corde e di maggiore rièchezza armonica.
L'aneddoto non sarà vero; ma è in ogni caso inven-
tato bene e serve a chiarire che a orecchi greci una
mutazione radicale dell'armonia musicale sonava ri-
voluzionaria anche politicamente, giacché per essa si
mutava lo spirito informatore dell'educazione, e sul-
l'educazione poggiava lo stato 107). Che un sentimènto
come questo non sorga da una speciale meschinità
spirituale spartana, ma che si sia affermato anche in
uno stato democratico come Atene, nella stessa misura
o anche più fortemente, è dimostrato dalla rivolta
contro la musica moderna testimoniata da tutta ·la
commedia attica contemporanea.
Inseparabile dall'armonia è il ritmo, l'ordine nel

lOS) Resp. 399 a-e.


lOG) Resp. 399 e-e.
1 61 ) Ps. Plut. De Mus. c. 30; Ath. 636 e.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I (11389] 1077

movimento 108). Si è già spiegato in quest'opera che la


parola greca originariamente non contiene in sé il si-
gnificato di movimento, ma anzi in parecchi luoghi
esprime il momento della stabilità o dell'ordinamento
di un certo numero di oggetti 109). L'occhio del Greco
scopre quest'ordine tanto nella quiete che nel moto,
nel tempo della danza, del canto, del discorso, parti-
colarmente della parola legata nel verso. A seconda
del numero delle lunghe e delle brevi di un ritmo e
dei loro legami vicendevoli, si forma un ordine parti•
colare nello scorrere del movimento, sia del passo,
sia della voce. Anche qui Socrate si riguarda dall'en-
trare in questioni tecniche da specialisti, ma prende
da essi. un'espressione che ha colpito la sua imma-
ginazione di educatore: la teoria per cui esiste un ethos
nell'armonia e nel ritmo. Da essa deriva quel che
Platone dice sulla scelta delle armonie, e cioè che sono
da ammettersi soltanto tonalità che esprimano l'ethos
dell'uomo forte o quello dell'uomo temperante uo).
lOS) Resp. 399 e.
109) Cfr. vol. I, p. 240 s.
uo) Socrate lascia anche qui (Resp. 400 a) al giovane Glaucone,
ben fornito di cultura tecnica musicale, la cura di fissare, come
aveva fatto per le armonie, i generi e il numero dei ritmi. Ma
si rivela. in costui un tratto caratteristico del tecnico, cioè il non
saper n-rilla del contenuto espressivo-etico dei singoli generi. Un'ec-
èezione, fra i teorici della musica, è però Damone; e con lui So-
crate derma di volersi « consigliare» ( 400 b ), per sapere quali
modi ritmici ([joccre:tç) siano convenienti (1-cpsr.oucra:t) a ogni sin-
golo ethos. Questo particolare è istruttivo, perché anche in Ari~
stotele .e in Orazio la trattazione dei metri è svolta dallo stesso
punto di vista: qual metro sia ritmicamente conveniente per que-
sto o quel contenuto. Siamo di fronte qui a una tradizione che
deve risalire al di là di Platone, anche se la nostra tendenza spon-
tanea ·sarebbe a ravvisare in lui il rappresentante primo e tipico
di questo modo paideutico di trattar di musica. Il fatto che, in-
vece, egli faccia sì che Socrate si appelli a Damone, come a una
grande autorità nella teoria del« conveniente» (7tpÉ7tov) è cosa
del tutto insolita in Platone e ha tutta l'aria di una indicazione
e precisazione di fonte. In tutto ciò non tanto è da vedere il fatto
che Socrate sia stato scolaro di Damone - antica tradizione che
certamente è nata da questo solo luogo della Repubblica - ma
1078 [n390] LIBRO III • ALLA RICERCA DEL DIVINO

Così anche nella folla dei ritmi, egli sceglie solo quelli
.che riproducono la qualità essenziale di questi due at-
teggiamenti di volontà; sicché la teoria dell'ethos si
rivela principio comune alla paideia musicale e a quella
ritmica. Questa· teoria è più presupposta che dimo-
strata da Platone. E basta il fatto che il filosofo la de-
rivi dal più grande teorico musicale dell•età socratica,
Damone, a mostrare che non si tratta qui di qualcosa
di specificamente platonico, ma di un modo di conc&.
pire la musica proprio dei Greci, il quale, consapevol-
mente o no, fu fin da principio elemento decisivo nello
stabilire la posizione dominante di musica e ritmica
nella cultura greca.
Nell'ottavo libro della Palitica Aristotele, tracciando
le linee principali di una teoria dell'educazione, elabòra
ulteriormente la dottrina dell'ethos nella musica. Egli
segue in ciò le orme di Platone, ma. come spesso gli av-
viene, egli è l'interprete del comune modo di pensare
greco, in misura ancora maggiore del suo maestro. So-
stiene Aristotele che musica e ritmo hanno un contenuto
di ethos, e proprio da ciò deduce la loro importahza per
l'educazione 111). Vede nell'ethos di tonalità e ritmi il
riflesso di atteggiamenti spirituali di vario valore, e
solleva la questione se tali valori spirituali percepiti pe:r
mezzo dell'udito e chiamati complessivamente ethos, si
riscontrino in forma analoga anche nel tatto, nel gusto,
o nell'odor.ato, Per queste sensazioni egli lo nega asso-
lutamente ll2); e certo non sarebbe facile dargli torto
su questo punto. Ma egli nega anche che si possa attri-
buire, in generale, un ethos alle impressioni della vista,
come quelle trasmesse dalle arti :figurative. Solo a de-
piuttosto ·-il riconoscimento che Damene era stato il vero autore
della teoria dell'ethos nella musica, posta da Platone a base della
sua educazione dei guerrieri.
111) Arist. Pol. VIII 5.
112) Arist. Pol. VIII 5, 1340 .a 18-30.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n391] 1079

terminate figurazioni della pittura ·e della scultura, e


anche a queste in misura limitata, egli concede qualche
capacità di simili effetti ll3). Per Aristotele anche in
questi casi non si tratta di vere e proprie immagini di
ethos, ma di semplici segni da cui l'ethos traspare,
nelle figure e nei colori. P. es.: ethos non si troverà
nelle opere del pittore Pausone, ma ~1 in quelle di Po-
lignoto e in alcuni scultori ll&). Invece le opere della
musica sono tutte dirette e aderenti espressioni di ethos.
A chi ammira le arti figurative dei Greci può venir
fatto cl: pensare che una valutazione cosi parziale del
contenuto etico, in favore della musica, sia da attri-
buire in Aristotele solo alla mancanza di senso artistico
figurativo, di occhio 115). Ma resta il fatto che a nessun
greco è mai venuto in mente di dar posto nell'educa~
zione alle arti figurative e alle teorie che le riguardano,
mentre il pensiero educativo di quel popolo, in ogni
tempo, è stato dominato da poesia musica e ritmica.
Che poi Aristotele parli del valore del disegno è cosa
che non ha che fare col gusto e senso di arti figurative
e non è perciò obiezione valida a quanto si è detto 118).
Anche ·Platone sfiora con qualche parola e .in ma-
niera accessoria il tema della pittura (finito l'esame
dell'educazione musicale) e la mette. sullo stesso piano
. con la. tessitura, l'arte della decorazione e l'architet-
tura, mentre non fa parola della scultura 117). Non è
neppure ben chiaro fino a che punto egli attribuisca
a queste arti un ethos, nel senso della musica e poe-
sia 118); evidentemente la loro menzione è fatta più che
lla) Arist. Pol. VIII 5, 1340 a 30 s.
11') Arist. Pol. VIII 5, 1340 a 36.
115) ..lrist. De sensu, 1, 437 a 5. Il pregio che ha l'occhio per
Platone si rivela in epiteti come« solare» (Resp. 508 b), e in meta-
fore come« occhio della mente» (Symp. 219 a).
111) Arist. Pol. VIII 2, 1337 b 25.
l.17) Resp. 401 a.
l.18) Secrate tende a dare un valore più generale a quel che ha
1080 [II 392] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

altro per ragioni di completezza, apparendo esse forme


espressive di uno spirito generalmente diffuso o di de-
coro e sobrietà o di lussuoso cattivo gusto. Come tali
esse sono fattori che· contribuiscono a creare una certa
atmosfera sociale, in buono o in cattivo senso 119).
Ma non sono i veri e propri pilastri della paideia 120).
Il senso del. valore educativo di una tale atmosfera è
elemento specificamente greco, ma il grado di affina-
mento a cui esso è condotto qui, è, anche in questo caso,
cosa del solo Platone. Lo riscontreremo ancora là dove
si parlerà dell'educazione del governante filosofo 121).
Per quanto l'educazione si venga facendo sempre più
intellettualistica, l'uomo greco non dimentica mai del
tutto che essa è un processo di organico sviluppo. Le
parole «educazione» e «allevamento», in origine di
quasi identico significato, rimangono sempre parenti
strette 1 22). Certo, poi esse si vengono differenziando, e
il concetto di paid~ia si precisa sempre più nel senso
della formazione intellettuale, mentre l'allevamento
viene a significare lo stadio prerazionale dello sviluppo
infantile. Ma Platone ravvicina di nuovo i due con-
cetti su un piano più alto, non vede più isolato, come
facevano i Sofisti, il processo di educazione spirituale
dell'individuo, ma scopre· che esistono anche per la
formazione dello spirito, precise condizioni climatiche

detto sull'ethos nella musica, cioè ad andare al di là della teoria


di Damone. Se questi aveva scoperto l'ethos in armonie e ritmi,
Socrate giunge a domandare se i giovani cpuÀ(XY.E<; non debbano
« inseguire» (grazioso gioco di parole sulla funzione propria dei
cpuÀcocEc;) questo elemento per ogni dove (n-°'n°'xou), se vera-
mente vogliono far bene il loro ufficio. Cfr. però 400 d, sulla su-
periorità della musica di fronte alle altre arti, nell'elemento etico.
119) Resp. 401 b-d.
1 20) Resp. 401 d.
121) Cfr. infra, p. 467 s.
122) n-°'t8di:x e -.pocpfi sono in origine pressoché sinonimi. Cfr.
Aesch. Sept. 18.
CAP.· IX: LA REPUBBLICA, I [u393] 1081

e di accrescimento 123). Il concetto platonico di forma-


zione, pur così singolarmente spiritualizzato, ricon-
quistò un elemento. naturalistico e vegetativo, che era
andato perduto nella concezione individualistica dei
Sofisti. Si tocca qui uno dei motivi profondi e radicali
del proposito, costante in Platone, di attuare una
vita di comunità statale; esso consiste nel constatare
che l'uomo alligna, non nell'isolamento, ma solo in un
mondo circostante appropriato alla sua natura, alle
sue tendenze. Lo Stato è necessario perché si dia edu-
cazione, necessario non solo come autorità legislativa,
ma come atmosfera in cui l'individuo respiri. Non basta
che il nutrimento spirituale della educazione musicale
sia puro; bisogna anche che i prodotti di ogni lavoro,
tutto quel che ha una forma, rispecchi un solo spirito
di nobiltà e concordemente tenda a una perfezione
suprema, a una misura altissima di dignità. Questo
mondo circostante deve essere per ognuno, fin dalla
prima puerizia, come l'aria che si respira in un paese
ben esposto e sano 124).
Però, anche se da tutto quello che l'arte e l'indu-
stria producono si forma un clima spirituale, la musica
riman sempre il « nut;rimento principalissimo » 125). An-
che su questo punto, non è soltanto il peso della tra-
dizione che opera sul pensiero di Platone. Espressa-
mente egli si pose il problema se fosse legittimo quel
predominio della musica sulle altre arti che la tradi-
zione della paideia aveva consacrato, e lo risolse affer-
mativamente, perché ritmo e armonia «s'insinuano in
fondo all'anima più di ogni cosa e più fortemente l'af-
ferrano inducendovi e producendo nobiltà.di contegno».
123) Cfr. infra, p. 467 ss.
124) Resp. 401 e &crn:ep «i>pot <pépoucra: &n:ò XP'l)<r't"Ù>V T6n:oov
ùyle~cxv.
125) Resp. 401 d xup LCù't"ct't"'l) iv µ.oucnx'ij Tpo<pi]. Parimente
il vero essere è chiamato xuptCù't"ct't"'l) oùcr[cx.
1082 [!1394] UBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Non però solo a causa di questa qualità dinamica della


musica, egli l'antepone a ogni altra arte; bensì anche
perché essa educa incomparabilmente alla precisione
nel riconoscere in una bell'opera e nella sua esecuzioneJ
quel che c'è di veramente buono o di manchevole 126).
Chi nella musica è stato bene educato. sviluppa, per
il fatto stesso- di accoglierla nell'anima, fin dai primi
anni ancora inconsapevoli, un senso infallibile di gioia
del bello e di ripugnanza del contrario che gli con·
sente poi, quando sopraggiunge la conoscenza riflessa,
di accoglierla gioiosamente come qualcosa di stretta-
mente a sé affine e parente 127). In realtà l'educazione
che Platone vuole sia data ai guerrieri, comunica den-
tro quella forma intima e inconsapevole che le opere
delle Muse inducono negli uomini, la conoscenza delle
verità supreme, che poi l'educazione filosofica svelerà
in modo consapevole alla classe dci reggitori. Platone
adombra cosi un secondo, più alto, modo di educa-
zione, e con ciò rende chiaramente visibili fin da ora
i limiti dell'educazione musicale, l'unica forma di edu-
cazione superiore che la Grecia antica avesse cono-
sciuto. A questa, nello stesso tempo, vien conferito
nuovo significato, di grado preparatorio indispensa-
bile alla pura conoscenza filosofica, destinata, senza
di lei, a rimanere campata in aria.
Non sfuggirà a chi conosce Platone che qui non si
tratta di una semplice notazione di tipo psicologico,
acuta sì, ma più o meno accidentale, bensì di una con-
seguenza pedagogica, di fondamentale importanza, della
teoria platonica della conoscenza. Secondo Platone non
esiste per l'intelletto, per quanto acuto esso sia, possibi-
lità di accesso immediato a quel mondo di conoscenza
dei valori che è l'oggetto vero e finale della sua filo-
126) Resp. 401 e.
127) Rcsp. 402 a.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n395] 1083

sofia. La lettera settima descrive il processo del co-


noscere come un processo col quale l'anima gradual-
mente,· durante una vita intera, si assimila ai valori,
alla cui conoscenza essa tende. Il Bene non può essere
appreso in modo formale-concettuale come qualcosa
di esterno a noi, senza che prima non si sia parteci-
pato intimamente alla sua natura; la conoscenza del
bene cresce nell'uomo solo in quella misura in cui esso
si realizza e prende forma in lui 128). Perciò il mezzo di
render più acuto l'intelletto è, per Platone, l'educa-
zione del carattere, che cambia, senza che egli se ne
avveda, la natura dell'uomo, per mezzo delle potenti
forze spirituali che sono la poesia; l'armonia e il ritmo,
in modo tale, che egli alla fine può comprendere il prin-
cipio supremo per essersi realmente formato in esso.
Socrate paragona, con la consueta maniera alla buona,
questo lungo e faticoso processo educativo col primo ap-
prendimento del leggere e scrivere 129). Soltanto quando
si riesce a riconoscere, in tutte le combinazioni e pa-
role possibili, le lettere dell'alfabeto che sono elementi
di quelle, soltanto allora si può dire veràmente di saper
leggere e scrivere. Così noi siamo veramente educati
alla musica soltanto. quando abbiamo imparato a ri-
conoscere e ad apprezzare, in qualunque cosa, grande
o piccola, se ne trovi l'impronta, le « forme » del do-
minio di sé e della temperanza, della fortezza, della
liberalità, della nobiltà e delle virtù affini, e tutto ciò
che di esse è riflesso 130).

Critica della ·ginnastica e della medicina. - Ac-


canto alla musica, Platone si accinge ora a costruire
l'altra metà della paideia, la ginnastica 131). Il suo
128) Ep. VII, 343 e-344 b.
129 ) Resp. 402 a.
130 ) Resp. 402 c.
1 31) Resp. 403 c.
1084 [11396] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

interesse p1u vero va naturalmente alla musica, ma


per I'educazione dei guerrieri anche l'idoneità :fisica
è di somma importanza, e a questo scopo deve essere
usata la ginnastica, fin dalla prima età. Si chiarisce
ora, che la precedenza data nella trattazione alla cul-
tura musicale non si spiega solo, come in principio Pla-
tone aveva fatto apparire, col fatto che essa sia da
iniziarsi prima nel tempo 132). Essa è anche idealmente
anteriore alla ginnastica, giacché un corpo· ben dispo-
sto non può con la sua sola efficienza rendere buona
e ben disposta l'anima, mentre, all'inverso, un'anima
pregevole può giovare al perfezionamento del corpo 133).
Su questo concetto si basa l'economia strutturale del
sistema platonico, esigendo che prima si formino gli
uomini dal lato spirituale e poi si lasci a loro la cura
del corpo in tutte le sue particolarità. Per parte sua
Platone si limita qui, come aveva fatto per l'educa-
zione musicale, a segnare alcune linee fondamentali 134),
si da non incorrere in prolissità. Per l'uomo greco il
modello della forza fisica era sempre stato l'atleta, e
poiché i guerrieri sono chiamati a essere «gli atleti
del più grande agone», sembrerebbe ovvio che si pren-
dessero a modello per la loro formazione, i raffinati
metodi usati per l'allenamento degli atleti 135). Anche
i guerrieri, p. es., non debbono, naturalmente, essere
dediti al bere. Ma, in complesso, Platone ritiene che le
regole dietetiche, che l'atleta deve osservare durante
l'allenamento, non siano affatto applicabili; per esse
l'atleta .diventa troppo sensibile e schiavo della dieta;
la sua abitudine, · poi, ai lunghi sonni non conviene
a gente che deve essere vigile per definizione. I guer-

182) Resp. 376 e, 377 a (cfr. supra, p. 363).


133) Resp. 403 d.
184.) Resp. 403 e -roùç; ..U7touç; ùqn;yefo.S-oct.
1 36) Resp. 403 e.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [11397] 1085

rieri debbono potere adattarsi a ogni mutamento di cibo


e bevande, a ogni vicenda di stagione; la loro salute
non dev'essere sempre «sulla lama di un rasoio» 13 6).
Perciò Platone richiede per loro una tutt'altra, sem-
plice, specie di ginnastica, (oc'ltÀlj yuµvlXG'r~x-fi), analoga
a quella musica che egli ha prescritto per educarli 137).
Come là si semplificarono strumentazione e tonalità 138),
così ora il regime fisico deve essere liberato da ogni
superfluità e ricondotto al necessario 139). Due sono per
Platone i sintomi sicuri di una paideia malsana: tri-
bunali e ospedali. L'alto grado di sviluppo di queste
istituzioni non è cosa di cui la società abbia ragione
di andar fiera. Lo scopo dell'educatore deve essere di
renderle superflue nel suo Stato 140). L'analogia tra l'arte
del giudice e quella del medico ci è familiare fin dal
Gorgia. Richiamandosi ad essa a questo punto, Pla-
tone dimostra che essa è parte costitutiva essenziale
della sua teoria educativa 141). Fa il paio con essa l'ana-
logia del legislatore e del maestro di ginnastica, che
si occupano dell'anima e del corpo sani, come giudice
e. medico hanno che fare con corpo e anima malati. 142).
Nella Repubblica si tratta in complesso della stessa
cosa; soltanto qui la formazione musicale viene a con-
trapporsi alla ginnastica occupando il posto che nel Gor-
gia teneva la legislazione; la ragione è che la musica
include in sé tutte le norme più alte della condotta
umana, sicché l'uomo che l'ha assimilata non ha più

138) Resp. 404 b.


137) Resp. 404 b.
138) Cfr. Resp. 397 b, 399 d.
139) Alla sophrosyne, nella musica, corrisponde, nella ginnastica,
la salute, Resp. 404 e.
UO) Resp. 405 a.
141) Resp. 405 a, Gorg. 464 b. (cfr. supra, p. 221).
1 42) Gorg. 464 b.
1086 [rr398J LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

bisogno di legislazione, nel senso gimidico 143). La fun-


zione della giustizia nella società corrisponde a quella
della medicina riel campo :fisico, funzione questa che
Platone chiama col nome canzonatorio di « pedagogia
delle malattie» 144). In realtà, quando l'organismo si
ammala è troppo ·tardi perché intervenga un'azi~ne
veramente educativa. Lo sviluppo della medicina al
tempo di Platone e la sempre maggiore importanza
che si veniva attribuendo alla dietetica (che in parec-
chi sistemi di medicina di quel tempo comincia ad
avere una parte addirittura dominante) dimostrano
che la :filosofia; col suo precetto di curarsi prima di
tutto dell'uomo sano, rappresenta lo stadio più pro-
gredito della conoscenza, anzi, che essa è un fattore
importante del progresso stesso 145). L'educazione dei
guerrieri dà occasione a Platone di occuparsi con molta
cura dei modi di preservare la salute, poiché la ginna-
stica, a cui spetta questo compito, prende un gran po-
sto a causa della professione stessa, nella vita di que-
sta classe. Quello dei guerrieri è il caso ideale della cura
preventiva della salute. È cosa nota. a ogni lettore della
letteratura medica greca, quanto l'arte medica dipen-
desse dalla posizione sociale o dalla professione del pa-
ziente. Si può dire che molto spesso le prescrizioni del
medico antico si rivolgono solo ai ricchi, che hanno
abbastanza tempo e denaro da vivere solo per la pro-
pria salute o, se si vuole, per la propria malattia 146).
Ma un tal modo di viver~ è inconciliabile col principio

1411) Resp. 404 e-405 a. La proporzione µouc:nx-fi: yuµvoca-rLx-f]=


= 8LxttvLxij: toc-rpLxij, non è data, è vero, in questa forma ma-
tematica. ma è effettivamente presupposta a base di questo ra-
gionamento;
144) Resp. 406 a.
146) Cfr. « Piiideia» III, cap. I, sullo sviluppo della scienza die-
tetica nel IV sec.
148) Cfr. « Paideia», III ibidem.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [11399] 1087

platonico della divisione, e dell'obbligo, del lavoro.


Come farebbe un falegname, ammalatosi, a sottoporsi
a una cura che lo allontanasse per lungo tempo dal suo
lavoro ? Per lui si tratta o di lavorare o di morire 147).
Ma neppure il benestante, se è malato, può più dedi-
carsi a quell'opera che il poeta Focilide, in un suo
detto di sapor.e realistico, gli prescrive: « Quando hai
fatto denaro che basti, esercita la virtù» 148). Quale
virtù mai potrà egli esercitare o nel reggere la sua casa
o nella vita dello stato, se deve continuamente occu-
parsi del suo corpo, con 'una cura maniaca, ben al di là
della misura normale della ginnastica ? Prima di tutto
diventerà incapace di attendere alla cultura intellet-
tuale, all'apprendimento, alla riflessione, perché altri-
menti sarà costretto a incolpare la filosofia dei suoi
mali di capo, dei suoi stordimenti e capogiri 1'9). In
realtà c'è un'affinità naturale tra la filosofia platonica
e un corpo che, con una severa disciplina, si è conqui-
stato una salute perfetta. Niente le è più alieno di
quella morbida ·disposizione che più di un interprete
ha voluto vedere in essa. Se nel Fedone, il filosofo de-
sidera la dipartita dell'anima da questo mondo del
corpo e dei sensi, a che essa si· raccolga a contemplare
le pure astratte verità, è pur vero che, nella Repubblica,
lo spirito della paideia nella ginnastica dà a questa
concezione il necessario complemento. La visione to-
tale di Platone si ha solo con la riunione dei 4ue ideali.
Non è nelle intenzioni di Platone di abbassare l'arte
medica o di affermare la sua inefficienza. Ma, com'è
naturale, il medico gli appare sotto luce diversa, se-
condo che egli lo considera rispetto alla posizione che
occupa nella società del suo tempo oppure rispetto

147) Resp. 406 d.


148) Resp. 407 a.
i&D) Resp. 407 b-c.
1088 [u400l LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

allo Stato ideale. Per la società primitiva ma sana che


egli ricostruisce nella Repubblica col tocco magico della
fantasia poetica, egli non prende a modello la raffinata
scienza medica contemporanea, ma. l'età eroica del-
l'arte risanatrice, come Omero la descrive. Il buon reg-
gitore e legislatore sanitario è, per lui, il dio stesso,
Asclepio 150), ·che aveva scoperto l'arte medica adatta
ad uomini sani, i quali si trovassero a soffrire qualche
temporaneo disturbo o danno fisico locale. Quanto
agli uomini i cui corpi fossero malati internamente o
infetti, i poemi omerici non mostrano che né hri né
i suoi :figli se ne occupassero. Per un ferito grave, Euri-
pilo, l'infermiera che lo cura prepara un beverone
che oggi sarebbe capace di ammazzare un sano. La
ferita di Menelao prodotta dalla freccia avvelenata di
Pandaro è curata dall'Asclepiade Macaone col succhia-
mento del sangue, e poi con un balsamo spalmatovi
sopra. In tutto ciò, secondo Platone, è incluso il retto
principio rappresentato dalla medicina ippocratica, che
la natura sana ha in sé la sua difesa in caso di ma-
lattia, e che il rimedio appropriato è quello che faci~
lita il risanamento naturale. Ma i corpi malati a fondo
il medico deve lasciarli morire, come il giudice manda
a morte gli uomini di cui l'anima è insanabilmente
malata nel vizio o nel delitto 151). E il colmo, poi, del-
l'assurdo si ha, quando invece di trasferire sempre più
l' uso della medicina alla formazione dell' uomo sano,
si adopera, all'opposto, la ginnastica come regime risa-
natore in malattie croniche, come fece Erodico, che
divenne famoso, o meglio infame, per una tale conta-
minazione della ginnastica con la medicina. Con ciò
egli riusci soltanto a martirizzare se stesso e gli altri
anche se, col tirarla in lungo e rendendosi difficile il
160) Resp. 407 e. ss.
151) Resp. 408 b, 410 a.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, i [u401J 1089

morire, finì per raggiungere una tarda età 152). Ma i


guerrieri dello stato perfetto, come per la loro educa-
zione alla musica non avranno bisogno di aver che fare
con giudici e leggi, così, per la loro educazione ginna-
stica, si sottrarranno alla necessità di consultare i
medici.
Lo scopo della ginnastica, a cui devono adattarsi,
nel particolare, tutti gli esercizi e tutti gli sforzi dei
guerrieri, non è la forza fisica dell'atleta, ma la forma-
zione del coraggio 153). Perciò non è esatto quel che molti
credono e che Platone stesso, in principio, sembra am-
mettere, che la ginnastica debba educare solo il eorpo, e
la :musica, l'anima 154). Tutte e due, invece, hanno prima
di tutto il compito di formare l'anima. Questo compito
esse svolgono da due lati diversi, e l'opera educativa
è squilibrata e unilaterale se una di esse è curata a
spese dell'altra. Un'educazione di pura ginnastica ge-
nera durezza esagerata e selvatichezza, come, d'altra
parte, un eccesso di formazione musicale rende l'uomo
troppo molle e mansueto 155). A chi lascia che melodia
di flauti spiri continuamente sulla sua anima, avviene
dapprima come a duro acciaio, che solo se ammorbi-
dito, diventa adatto a essere l~vorato. Ma alla lungà
fonde e si dilegua, e cosi l'anima non ha più nerbo e
tensione 156). Chi, al contrario, si sottopone ad allena-
mento ginnastico e segue un accorto regime di nutri-
zione, senza, però, occuparsi in alcuno studio musicale
o filosofico, dapprima, a causa della forza fisica rag-
giunta, abbonderà di energia e fierezza e sentirà cre-
scere 1n sé il coraggio guerriero. Ma, anche se in prin-
cipio esisteva in lui naturalmente una qualche sete di
152) Resp. 406 a.
163) R11sp. 410 b.
lH) Resp. 410 e, cfr. 376 e.
165) Resp. 410 d.
156) Resp. 411 a.
1090 [1!402] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sapere, questa si ottunderà alla fine, e la mente si farà


sorda e cieca a forza di astenersi da ogni cognizione o
studio. Ed ecco che egli diventerà sprezzatore dell'in-
telletto, nemico delle muse, « misologo »; non più ca-
pace di · persuadere con la parola, ricorrerà, come a
unico mezzo di raggiungere i suoi fini, alla violenza
brutale, come una fiera 157). Perciò, fu un dio che dette
agli uomini ginnastica e ·musica costituenti l'unità in-
scindibile della paideia, e non affatto mezzi separati
di educare distintamente anima e corpo: insieme esse
sono le forze formatrici della natura:_ umana nei due ele-
menti che la costituiscono, la parte affettiva e quella
che tende alla sapienza. Chi sapesse fonderle in una
ben connessa armonia sarebbe il prediletto delle muse,
ben più di quel mitico eroe degli antichi tempi, che
per primo connesse e intonò le corde della lira 158). Pla-
tone non poteva trovare immagine più appropriata di
questa, per chiudere l'esposizion~ dell'educazione dei
suoi guerrieri 159). Questa educazione è un istrumento
musicale pluricorde di alta raffinatezza. Muto per colui
che non lo conosce, genera una insopportabile mono-

U 7) Resp. 411 c.
\58) Resp. 411 e, ss. Le parole che Platone usa per questa
armoniosa fusione sono au11otpµ61;cw e xcpot""Ò"otL. Quest'ultima
è presa dalla medicina. Secondo la dottrina medica greca, la sa-
lute è sempre il i:esultato di una giusta mescolanza; cfr.: « Pai-
deia» III, cap. I, dopo la n. 11 a. L'armonia della paideia atle-
tica e di quella musicale è educazione sana. Cfr. anche Resp. 444 c.
Ma Platone pensa alla salute della natura umana nella sua inte-
rezza, non alla salute del solo corpo.
169) .Alla fine del paragrafo concernente la ginnastica (412 b)
Platone ripropone, ancora una volta, espressamente il principio
metodico su cui si fonda tutto l'edificio dell'educazione dei guer-
rieri. Egli infatti rjleva ancora una volta che ogni trattazione di
questo genere può dare soltanto le grandi linee della paideia (•ÒTCOL
"r'ijc; mn8dotc;), che però valgono a dare una netta caratteristica
spirituale della cultura da lui disegnata, e insieme si rifiuta decisa-
mente di trattare a parte di tutte le singole forme dell'educazione
cioè di danza, agoni ginnici e ippici, caccia e simili (« perché mai
si dovrebbe trattare anche di questo ? » e « è pur chiaro che tutto
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr403J 1091

tonia se se ne fa vibrare una sola corda. Ma toccare


più corde insieme e non, per questo, produrre disso-
nanze stridenti, ma creare un hell'accordo, questa è
l'arte difficile della vera paideia.

Il posto dell'educazione nello stato della giustizia.


Perché lo stato si conservi è necessario che non man-
chi mai tra i reggitori uno che sia padrone di que-
st'arte armoniosa 160), o, come dice in un .altro luog<>
Platone riprendendo e svolgendo questo motivo, che
ci sia sempre nello stato un elemento in cui seguiti a
vivere lo spirito del fondatore 181). In tale esigenza, è
incluso un altro e più grave problema, il problema del-
l'educazione dell'educatore, che si risolve nella educa-
zione del reggitore filosofo. La trattazione di questa
non è stata dallo scrittore immediatamente congiunta
all'educazione dei guerrieri, come sarebbe avvenuto in
un'esposizione sis,tematica, ma gli è parso opportuno
di separare queste due forme intimamente connesse
di paideia, con un lungo intermezzo, che ha l'effetto
di accrescere e stimolare l'interesse. In ogni modo Pla-
tone non lascia in dubbio il lettore, neppure un mo-
mento, sulla direzione in cui l'indagine proseguirà~
col porre immediatamente la questione, chi dei guer-
rieri deve reggere lo stato 1 62). Che i reggitori debbano
esser presi esclusivamente da questa classe, rapptesen-
tante delle più alte virtù per la guerra e per la pace,

ciò deve essere praticato in modo conforme a ciò che si è detto»).


Diversamente, anche in questo, la pensò nell'opera della vecchiaia.
le Leggi, dove trattò espressamente di queste forme della paideia.
Specialmente la posizione assegnata alla danza corale è nell'opera
più tarda completamente diversa e si è fatta del tutto dominante.
Cfr. « Paideia » III. 399 ss.
10°) Resp. 412 a.
161) Resp. 497 d.
162) Resp. 412 b.
1092 [rr404] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

è cosa che non ahbisogn~ per Platone, di speciale di-


mostrazione. Ma l'esercizio del potere supremo si può
consentire soltanto a chi è fornito dell'educazione mi-
gliore e questa, d'altra parte, non è già raggiunta con
la preparazione dei guerrieri. È necessaria, perciò, per
il compito di reggitore un'altra selezione, che, in prin-
cipio è considerata qui solo in quanto essa la attua
nel quadro della educazione dei guerrieri 1 63). Fra essi,
mercé un'osservazione e un esame costante fin dalla
giovinezz~ si cerca di stabilire chi ha in grado emi-
nente le doti essenziali di un reggitore, attitudine e
accortezza pratica e sollecitudine del bene comune.
La loro incorruttibilità, il dominio di sé vengono posti
alla prova con esperimenti di ogni genere e solo chi ha
resistito fino alla fine a questo esame che si prolunga per
decenni, viene. riconosciuto come «custode », nel più
proprio e stretto senso del termine mentre gli altri in
loro confronto sono .da considerarsi soltanto aiutanti lM) •
.Questo sistema di esame dei caratteri sottintende
che Platone, nonostante tutta l'importanza che attri-
buisce all'influenza educativa, non crede alla ugua-
glianza meccanica dei suoi resultati, ma fa molto conto
delle differenze individuali di temperamento. Dal punto
di vista politico, poi, il principio della scelta rigorosa
ha pure grande importanza nella struttura dello Stato
platonico, giacché su esso si basa la conservazione del
sistema sociale delle tre classi. Questo esige e presup-
pone, è vero, una certa costanza ereditaria nelle qua-
lità necessarie per l'appartenenza a una delle tre classi.
Ma Platone crede anche che in ogni momento possa
darsi la possibilità di un peggioramento della prole
nelle classi superiori e della nascita di individui di alta
qualità nella •terza, e per facilitare l'ascesa e la discesa
183) Resp. 412 d-414 a.
164) Resp. 414 b.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [11405] 1093

di questi elementi insiste su una attenta selezione ed


eliminazione 166). Il compito di reggitore richiede, a base,
una gran forza di carattere. Il che, se è vero per ogni
forma di governo, ·è vero al massimo grado nello «Stato
perfetto» di Platone. Ché questo non conosce guaren-
tigie costituzionali dirette a prevenire l'abuso di quel
potere straordinario e quasi senza limiti che sta in
mano ai suoi reggitori. L'unica garanzia reale contro
il pericolo che essi si facciano di reggitori, signori dello
stato, di cani da guardia, lupi selvaggi che sbranino il
loro gregge, è data dall'educazione della loro anima l66).
Dalla nostra interpretazione dovrebbe risultare abba-
stanza chiaro, l'errore di chi giudicasse questa «ca-
renza di garanzie» ponendosi essenzialmente dal punto
di vista del diritto costituzionale e dell'esperienza po-
litica, e pertanto biasimasse l'ingenuità di Platone,
nell'aver creduto di poter reggere uno stato senza il
complicato apparato di una moderna costituzione. Ci
sembra ben chiaro invece, che Platone ha di proposito
evitato di discutere seriamente questo problema, perché
quello che l'interessa non è lo Stato come problema
tecnico o psicologico, ma lo Stato soltanto come qua-
dro e sfondo dell'educazione. Si potrà, di ciò, biasi-
marlo, si potrà rimproverargli di aver dato, a torto,
all'educazione, un valore assoluto e totale, ma sul fatto
in sé, che il suo vero ed essenziale problema sia la pai-
deia, non si può dubitare. Essa è per lui la soluzione
di tutte le questioni insolubili. E se egli accumula
nelle mani dei suoi reggitori la più gran somma possi-
bile di illimitato potere, non lo fa certo per una ra-
gione di pura politica. I suoi reggitori sono il più pre-

166) Cfr. Resp. 414 d-415 d.


166) Resp. 416 a-b. La parola· greca per « garanzia » qui è eU-
l~&:LGt. Questa consiste solo nel fatto che i reggitori sono •éì>
!iv•t xa:ì..wt; 7t&:7tc.tt8e:uiiévoL, 416 b 6; bp.&7J 7tc.tL8cta:, 416 c 1.
1094 [n406] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

zioso prodotto della sua educazione e debbono essere


essi stessi i più alti educatori.
Platone lascia per il momento insoluta la questione
se l'educazioue dei guerrieri, il cui scopo primario è
la formazione di una media di cittadini del più alto
livello possibile, sia sufficiente anche a quest'altro scopo
di farne dei' reggitori ed educatori 167). Ma anche se il
contenuto speciale dell'educazione dei reggitori rimane
ancora indeterminato, viene però in luce subito, in una
descrizione del loro modo di vita, il valore prepon-
derante dell'idea educativa nel nuovo stato, mentre
dell'elemento puramente politico si fa appena parola.
La vita esteriore dell'uomo di governo dev'essere tutta
astinenza, povertà, severità. Egli, si può dire, non co-
nosce una vita privata, non ha neppure abitazione pro-
pria, neppure per prendervi i pasti: tutto della sua
vita si svolge in pubblico. Dalla comunità i reggitori
ricevono lo stretto necessario in fatto di vitto e di ve-
stiario, né possono possedere denaro o altra proprietà
di alcun genere 168). Non è compito di un vero Stato far
felice al massimo la classe dominante della popolazione,
ma servire alla felicità dell'intero complesso, la quale
poi dipende dal fatto che ognuno attenda il meglio pos-
sibile alla funzione che gli compete e a quella sola.
Giacché la vita del singolo trae contenuto, diritto, li-
miti, per Platone, dal servigio da lui reso come mem-
bro del complesso sociale, assimilato a un organismo
vivente. Perciò il bene supremo che si possa attuare è
l'unità del complesso statale 169). Ma ciò, si badi, non è
da intendere come se, con questa limitazione dei di-
ritti dell'individuo, fosse lo stato a prenderne il posto,

1 87) Resp. 416 c.


188) Resp. 416 e ss. Queste regole di vita per i reggitori sono
date in aggiunta alla loro paideia.
169) Resp. 419 a-420 b; 421 b.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr407J 1095

per divenire esso il più ricco e potente possibile. I fini


a cui tende un tale stato non sono la potenza, la :llori-
dezza economica, o l'accumulo smodato di ricchezze; il
suo sforzo per procurarsi potenza e ricchezza si limita
a quella misura di tali beni esteriori che può contribuire
all'esigenza suprema dell'unità sociale interiore 170).
Platone non pensa affatto che questo sia un ideale
irraggiungibile; anzi lo ritiene di agevole attuazione,
purché però si avveri una sola condizione: che i cittadini
conservino la retta disciplina educativa su cui lo stato
si fonda 171). Essa susciterà, fedelmente conservata, per-
sonalità di alto pregio nella comunità, e queste a loro
volta la faranno propria con ogni ardore, e. diverranno
così migliori dei predecessori 172). La forma che Platone
dà all'ordinamento sociale non ha che fare, secondo i
suoi principii, con preferenze o arbitrii individuali;
essa ha per lui valore assoluto di una norma dedotta
dalla natura dell'uomo come essere sociale e morale.
Perciò un tale ordinamento deve essere statico e non
conoscere sviluppo; ogni deviazione da esso è degene-
razione e decadenza. Nel concetto stesso di «ottimo
stato» è insito che tutto ciò che se ne differenzia non
può essere che peggiore. Il «perfetto» assoluto non
consente di aspirare al progresso, ma ammette solo il
desiderio di conservarlo. E conservarlo si può soltanto
con gli stessi mezzi che l'hanno una volta prodotto.
Tutto consiste allora nel procurare che nulla sia inno-
vato iJi fatto di educazione 173). Non dal di fuori potrebbe
venire il pericolo per uno stato come questo; ma quando
si mutasse lo· spirito informatore della «musica», si

170) Resp. 423 ~.


171) Resp. 423 e.
172) Resp. 424 a.
173) Resp. 424 b.
1096 [rr408] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

altererebbe anche il carattere delle leggi 174). Perciò i


guerrieri debbono edificare la cittadella vera dello stato
su un'altura eccelsa, nella« musica>) 175). Se essa dege-
nera, da lei discende, tacitamente e come per un gioco
innocente, lo spirito d'illegalità nel costume dei singoli
e nella vita pubblica~ Da essa perciò si deve e si può
rifarsi per ristabilire il costume antico nella sua pu-
rezza, il rispetto dei vecchi, la pietà filiale, la decenza
nelle mode, della capigliatura, del vestito, dei calzari,
la convenienza e dignità del portamento 176). Platone
deride una legislazione che scenda troppo a partico-
lari, come ingenua esagerazione dell'importanza della
parola formulata e scritta. Lo scopo che il legislatore
persegue si può raggiungere solo per la via dell'educa-
zione, né occorre la legge quando l'educazione è vera-
mente efficace. È pur vero' che Platone stesso, nella
Repubblica, chiama più volte leggi i precetti che dà
per l'organizzazione della sua comunità; ma tali leggi
si riferiscono tutte soltanto alla struttura dell'educa-
zione. Questa libera lo stato da quell'eccesso di legi-
ferazione, e conseguenti mutazioni di leggi, che era nor-
male al tempo di Platone, e rende superflua ogni di-
sposizione speciale, relativa a polizia, mercati e porti,
commercio, oltraggi ~ violenze, come pure a tutto ciò
che riguarda diritto civile e procedura 1 77). I politici,
che ciò non sanno, si affannano in una lotta senza spe-

174) Resp. 424 c.


175) Resp. 424 d.
l.76 ) I tristi effetti sociali di un sovvertimento della paideia
sono minutamente descritti in 424 d-e, e, a contrasto, Platone
enumera poi ( 425 a-b) le conseguenze salutari di una ferma e
fedele conservazione di essa. Le due descrizioni sono contrapposte
con l'uso delle due parole contrarie 1'oi:pocvoµ.loi:-e:ùvoµ.loc, che ci
richiamano all'elegia di Solone, fr. 1 (Diehl). Là 1'oi:poi:voµ.[oc e
e:ùvoµ.Ea: sono le cause ultime (cfr. vol. I, p. 271 ss.). Qm esse sono
soltanto gli effetti: la loro origine è nella mutazione o nella con-
servazione della paideia (cfr. 425 e).
177) Resp. 425 e, cfr. anche 427 a.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [u409l 1097

ranza con le cento teste dell'idra, e curano i sintomi,


invece di ricorrere al trattamento naturale dell'educa-
zione retta e stroncare così il male alla radice.
Con lineamenti simili a questi, gli antichi ammira-
toci dell'eunomia spartana la descrivono come un si-
stema statale di educazione che rende superflua una
legislazione speciale, mediante una rigida osservanza,
dominante ogni atto della vita, della legge non scritta.
Si è notato di sopra, che quest'immagine di Sparta si
formò soltanto per l'influenza di idee riformatrici come
quella della paideia platonica e di analoghe correnti di
problematica politica del IV sec. 178); ma ciò non esclude
che Platone stesso nell'abbozzare il suo stato dell'edu-
cazione abbia derivato, o creduto di derivare, elementi
di complesso e di particolare, dal modello spartano.
Il disprezzo per i macchinosi congegni dello stato mo-
derno e della sua legislazione, la forza del costume e
di un sistema di pubblica educazione, dominante ogni
atto della vita, messa al posto della legislazione spe-
ciale, l'istituzione proposta di pasti in comune per i
guerrieri, la vigilanza statale della «musica» e il va-
lore datole di baluardo dello stato, tutti questi sono
elementi spartani. Ma solo un filosofo cresciuto nei
tempi della decadente democrazia ateniese e nell'op-
posizione ad essa poteva interpretare cosi la costitu-
zione spartana; interpretarla, cioè, come quella forma
di stato che era riuscita ad evitare gli estremi dell'in-
dividualismo. Il vanto d'Atene era lo stato costitu-
zionale fondato sul rispetto della legge scritta, sul prin-
cipio della parità di diritti per tutti i cittadini, umili
o grandi, su un complicato e delicato congegno ammini-
strativo. Platone abbandona conquiste come queste,
ed è il suo, certo, un atteggiamento estremo, che solo

178) Vol. I, p. 160 ss.


1098 [ll410] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

può spiegarsi con la disperata situazione spirituale del-


1'Atene del suo tempo. Egli giunge alla tragica consta-
tazione che legge e costituzione sono, anch'esse, sol-
tanto forme che hanno valore finché esiste nel popolo
una sostanza morale che in esse sia racchiusa e per
esse si conservi. Spiriti conservatori credettero di poter
osservare proprio nella democrazia che l'elemento per
cui questa forma statale si era sostenuta non era in
fondo, l'ideologia politica ~ gli istituti che ne deriva-
vano, ma altra cosa: non tanto la conquista e la cu-
stodia gelosa della libertà, quanto la forza unificante,
spesso particolarmente efficace· proprio nella democra-
zia, del costume e della tradizione, forza di cui non si
rende ben conto il cittadino stesso, e che gli stranieri
molto raramente sospettano. La persistenza ininter-
rotta di questa legge non scritta era stata la forza della
democrazia ateniese nell'età eroica; la sua dissolu-
zione fece sì che libertà si mutasse in anarchia, nono-
stante il moltiplicarsi delle leggi. In una educazione
severa, al modo di quella di Licurgo, Platone vede
l'unica via alla restaurazione, non già dell'aristocrazia
ereditaria, come molti membri della sua stessa classe
sognavano, ma del costume antico, unico atto a cemen-
tare lo stato in una nuova unità. Ciò posto, chi si aspet-
tasse da Platone un quadro di vita statale risultante
di elementi esattamente proporzionati e bilanciati, mo-
strerebbe di non avere inteso su quale sfondo di sen-
timenti e di condizioni storiche si levi la costruzione
educativa di Pl~tone. E, la sua, un'appassionata con-
vinzione etica, che gli fa porre al centro della sua inda-
gine sullo Stato una grande verità rivelatagli dalla soffe-
renza del suo tempo e dal martirio dell'uomo più grande
che in esso .fosse vissuto. Nell'aspetto esteriore l'educa-
zione platonica può sembrare non ateniese; in realtà il
suo deliberato accento etico spartano è concepibile solo
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n411] 1099

in Atene; anzi, profondamente considerato, è quello


che c'è di più lontano da Sparta. Esso è l'ultimo sforzo
della volontà educatrice della democrazia ateniese, che
nello stadio finale del suo svolgimento, si volge in·
dietro a far fronte alla roVina.
Se, a questo punto del cammino, ci si domanda che
cosa ha che fare I'educazione dei guerrieri, come l' ab-
biamo descritta, con la natura della giustizia, alla cui
ricerca ci si era mossi, si trova avverata l'afferma-
zione di Platone, che lo studio dell'educazione sarebbe
stato utile anche per la scoperta della giustizia 179).
Rimane certo legittimo il nostro dUhbio iniziale, se
un'indagine così lunga possa essere stata solo un mezzo
per risolvere un problema diverso o non piuttosto sia
stata fine a se stessa 180). È risultato, infatti, che tutto
l'edificio dello stato poggia sulla vera educazione, o,
più esattamente, s'identifica con essa 181). Però, se ciò è
vero, noi abbiamo nell'atto di attingere la vera educa·
zione, realizzato ad un tempo la vera giustizia, e solo
ci resta da prender di ciò più chiara coscienza.
A questo fine Platone si rifà alla ragione che lo ha
indotto, in principio, a introdurre la trattazione dello
stato; all'utilità cioè di questa ,trattazione per l'inda-
gine sulla giustizia 182). S'intende che fin dal primo mo-
mento Platone non dubita, e non consente di dubitare,
che questa virtù sia qualità o disposizione intima al-
l'animo umano, ma gli sembra di poter rendere più
evidenti natura e attività di essa nell'anima, valendosi
dell'analogia dello stato. Evidentemente è proprio la
concezione «organica» che egli ha dello stato che gli

1 19) Resp. 376 c-d.


180) Cfr. supra, p. 360.
181) Resp. 423 d-425 c.
182) Resp. 427 d, cfr. 368 e.
1100 [n412] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

suggerisce il paragone. Giustizia nello stato è per lui da


scorgersi in quel principio in virtù del quale ogni mem-
bro del corpo sociale deve compiere con la massima per-
fezione possibile la funzione che gli è propria 183). I reg-
gitori, i guerrieri e gli artigiani hanno tutti un preciso
compito specifico, e se ognuna di queste tre classi vi
adempie secondo le sue forze, lo stato risultante dalla
cooperazione dei tre elementi, sarà senz'altro il mi-
gliore stato concepibile. Ognuna delle classi è caratte-
rizzata da una sua propria virtù: i reggitori dalla sa-
pienza 18'), i guerrieri dalla fortezza 185), e, se la terza
virtù, la temperanza o dominio di sé (crCùcppom)v'Yl) non si
può dire virtù, nello stesso senso delle altre, in quanto
cioè sia propria esclusivamente del terzo stato, certo è
che essa ha per questo un'importanza particolare. Essa
è concordia tra le classi riposante sulla volontaria subor-
dinazione di chi meno vale per natura a chi per natura
ed educazione è migliore. E se l'uno come l'altro ne
deve essere compenetrato, maggiore è però l'obbliga-
zione che essa impone alla parte cui spetta l' obbe-
dienza 186). Ognuna, dunque, delle quattro virtù cardi-
nali dell'etica antica, ad eccezione della giustizia, ha
nello stato un posto speciale e spetta a una classe spe-
ciale. Quale, allora, il posto della giustizia, cui a non
ne rimane nessuno che sia solo suo ? La risposta è di
evidenza immediata: la giustizia la perfezione con
cui ogni classe nello stato attua la virtù che le è pro-
pria e ·adempie la propria .funzione 187).
Dobbiamo, però, ricordare che questa ideale situa-
zione non è realmente la giustizia, ma ·è solo la sua

1 83)Resp. 433 a.
184) Resp. 428 b-e.
186) Resp. 429 a-e.
18&) Resp. 430 d-432 a.
187) Resp. 433 a-d, cfr. 434 c.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n413J 1101

immagine ingrandita e proiettata nella struttura della


comunità, e ci tocca perciò di ricercare la natura di
es~a e_ l'origine nell'anima dell'uomo 188). Nell'anima
esistono le stesse parti che nello stato; alla sapienza
dei reggitori corrisponde la ragione, alla fortezza dei
guerrieri l'elemento coraggioso dell'animo, e alla tem-
peranza della terza classe tendente a guadagni e
godimenti, corrisponde la parte istintiva purché si
sottoponga al giudizio supremo della ragione 189). Nel-
l'esporre e giustificare questa teoria delle parti del-
1'anima, Platone accenna che essa è data qui in
modo piuttosto schematico, ma aggiunge che, per il
momento, non gli pare opportuno investire il problema
con metodi più raffinati che lo porterebbero troppo lon-
tano dal tema 190). Come, del resto, si sarebbero formate
le differenze di qualità psichic.he tra le diverse classi
dello stato se esse non esistessero anche nell'anima come
~lementi distinguibili? 191). Come il corpo riesce a muo-
versi con una parte e contemporaneamente a star
fermo con un'altra, cosi in noi l'elemento istintivo è
mosso dai desideri, mentre la ragione gli pone dei li-
miti, e l'elemento del coraggio può, in questo dissidio,
imporsi ai desideri facendosi alleato della ragione 1B2).
Anche nell'anima esistono potenze tendenti a erom-
pere e potenze raffrenanti: solo dalle loro azioni e

188 ) Resp. 434 d.


189 ) Resp. 435 b-c.
1 90) Resp. 435 c-d. Il problema è ripreso poi in 504 b. Per de-
signare gli aspetti o parti dell'anima Platone usa la parola d31j
tjiu:x;ijç, 435 c. È un concetto di origine medica. Anche l'espres-
sione affine .&u!J.Oe:~8-fiç è formazione verbale presa dal cosiddetto
«Ippocrate». Cfr. De aere, c. 16, dove è usata per caratterizzare
certe stirpi barbariche nelle quali lelemento del coraggio e della
·forza emotiva predomina sull'intellettuale.
191 ) Resp. 435 e.
1 92) Resp. 436 c ss. Sulla necessità di distinguere, accanto al- .
l'intelletto e all'elemento bramoso, anche un terzo elemento,
quello dell'emotività coraggiosa, cfr. Resp. 439 e-441 a.
1102 [rr414] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

reazioni scambievoli sorge l'unità conclusa, armoniosa,


della personalità. E questa unità intima si può instau-
rare solo quando ogni parte dell'anima fa il compito
che è « suo». La ragione deve comandare, l'elemento
coraggioso deve obbedire e prestarle man forte 193). Il
loro accordo è il prodotto di una giusta mescolanza
di musica e ginnastica l 94). Questo genere di educazione
tende l'arco dell'intelletto e lo nutrisce di bei pensieri
e di conoscenza, mentre lascia libero ma sotto con-
tinuo controllo, l'elemento forte e animoso e lo ingen-
tilisce con l'armonia e col ritmo. Educati in tal modo,
l'uno e l'altro, a far bene la propria parte, essi possono
uniti reggere le passioni. Queste costituiscono, in ogni
uomo, la parte maggiore dell'anima e sono per natura
insaziabili. Non c'è da pensare, perciò, di indurle, col
soddisfarne le richieste .imperiose, a far solo il loro uf-
ficio. Questo sarebbe anzi il modo di renderle così
grandi e forti da impadronirsi, loro, del governo, scon-
volgendo tutta la vita 195).
Perciò la giustizia non è semplicemente quell' organiz-
zazione statale per cui il calzolaio fa il suo mestiere
di calzolaio, e il sarto fa il sarto 196). Ma, anche, è una
disposizione intima dell'anima, per cui ogni parte di
essa fa il compito suo e l'uomo si fa capace di regger
se stesso e di ridurre a unità la molteplicità delle sue
energie in conflitto 197). È questa una visione organica
dell'anima come cosmos, analoga alla visione organica
dello stato. E con questa visione siamo giunti, alla
fine, al punto in cui si rivela il centro vero e dello stato

193) Resp. 441 e-e.


1 94) Re.sp. 441 e.
195) Resp. 442 a-b.
196 ) Resp. 443 c. Quest'ordine esteriore è soltanto un e:!8c.>Ào11
della vera giustizia.
197) Resp. 443 d-e. L'areté è dlinque «l'armonia delle potenze
dell'anima», come nel Fedone.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr415) 1103

e dell'educazione, secondo Platone. Il paragone tra


medico e uomo politico, che già nel Gorgia aveva tanto
rilievo, ritorna di nuovo, in questo luogo culminante 198).
La giustizia è la salute dell'anima, quando con queste
parole s'intende il valore morale della personalità 199).
Essa non consiste in questa o quella attività, ma nel-
l'abito interiore (~~e;}, in una retta e durevole dispo-
sizione della volontà 200). Come la salute è il più gran
bene del corpo, così la giustizia è il più gran bene del-
1'anima. Ed è superata ormai, fino a parere assurda e
ridicola, la questione se essa sia salutare e utile per la
vita 201), perché la giustizia è la salute stessa dell'anima,
ed ogni deviazione da essa non è che malattia e degene-
razione 202). Senza di essa la vita non merita di esser
vissuta, come la vita senza la salute fisica non franca
la pena dell'esistenza 203). Non qui si esaurisce, però, la
fecondità dell'analogia tra il problema politico e il
problema medico, non in questo assegnare alla giu-
stizia un'esistenza tutta sua e intima, indipendente
da poteri esterni, che ne fa il regno della vera libertà.
Platone trae anche da quell'analogia un'altra conse-
guenza; cioè che mentre c'è una forma sola di giustizia,
molte sono le forme in cui essa si corrompe e degenera.
All'unico stato « naturale» della giustizia e all'anima

l98) CD:. p. 220 s.


199) Resp. 444 c-e; l'aretli è salute dell'anima.
200) Resp. 443 c-e. La concezione di. tipo medico, dell'~~r.ç in-
forma tutto il paragrafo riguardante la giustizia.
201) Resp. 445 a.
202) Cfr. l'applicazione, molto importante e feconda, dei due.
concetti medici di xoi:TÒ: tpucnv e 7toi:p&: <puatv in Resp. 444 d.
L'avere accolto il concetto che la salute è lo stato normale (areté)
della natura corporea rende possibile a Platone di concepire il fe-
nomeno morale della giustizia come vera natura dell'anima, come
suo stato normale. Attraverso il concetto medico di physis ·viene
ad obiettivarsi ciò che in apparenza è puramente soggettivo, e
diventa per ciò stesso inimediatamente elemento normativo.
ll03) Resp. 445 a.
1104 [!!416] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

giusta, corrisponde una quantità di forme corrotte di


stato e d'anima 204). Così, all'educazione limitata, a quel
che sembrava fin qui, alla formazione del tipo normale
e «naturale» dell'anima sana, viene ad aprirsi, d'un
tratto, un nuovo vasto compito: la conoscenza delle
forme fenomeniche di stato che contravvengono alla
norma, e dei corrispondenti modi degenerativi della
formazione individuale 200). Questo collegamento, di una
fisiologia della virtù con una patologia, a formare
un'unica filosofia dell'educazione, è cosa essenziale nella
composizione della Repubblica platonica, e può spie.
garsi e giustificarsi solo da chi tenga presente il mo-
dello della scienza medica. Però Socrate, per il momento,
non si addentra nella minuta indagine, per quanto al-
lettante, di una siffatta eidologia patologica 206), ma pro·
cede oltre al problema educativo della donna, e della
sua posizione nel suo stato. Si apre cosi un altro atto
nel gran dramma filosofico della paiqeia.

L'educazione delle donne e dei fanciulli. - Non


c'è, si può dire, in tutta la Repubblica ·un punto che
abbia fatto, presso contemporanei o posteri, tanto
scalpore come la parte dedicata alla comunanza di
donne e di figli dei guerrieri. Anche Socrate, nella
Repubblica, non è senza riluttanza nell'esporre la sua
paradossale opinione su questo punto, e teme lo scop-
pio d'indignazione che le sue idee provocheranno 267).
Pure, quello che sta per dire sembra a lui conseguenza
logica della paideia dei guerrieri 208). Chi è educato come

20•) Resp. 445 c.


206) Resp. 449 a.
206) Vedi come il problema della patologia dello stato e del-
1'anima è ripreso poi nei libri VIII-IX.
llO'I) Resp. 450 e, 452 a e passim.
208) Resp. 451 d.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n417] 1105

loro a una dedizione assoluta al servizio della comunità,


chi non ha una casa, una proprietà, una vita privata,
come farebbe a essere il capo di una sua famiglia ?
Poiché l'accumulazione di ricchezza individuale è con-
dannabile, in quanto favorisce l'egoismo economico
della famiglia e si oppone, perciò, all'attuazione della
vera unità nella cittadinanza, Platone non può arre-
starsi neppure di fronte alla famiglia, come istituzione
giuridica ed etica. Anzi, la conseguenza logica, a cui
egli arriva, è l'abolizione della famiglia.

Se c'è un punto che mostri chiaro il carattere uto·


pistico della Politeia platonica, è proprio questo estremo
di consequenziarietà. Ma il pensiero politico di Pla-
tone, ispirato a un senso quasi mistico del pregio del-
l'unità nella vita sociale, non ammette compromessi.
Che una tale rivoluzione morale sia possibile, Platone
promette più di una volta di dimostrarlo, ma non adem·
pie la promessa 209), e l'unico argomento addotto a mo-
strare che essa è desiderabile è che essa è necessaria
come mezzo di fondare l'unità assoluta dello stato,
con la limitazione dei diritti del singolo. Di fatto, ogni-
qualvolta si tenti di porre l'individuo in un servizio
permanente dello Stato 210), i conflitti con la vita di fa.

209) Cfr. Resp. 501 e, dove Platone definisce come «mitologia»


la sua costruzione teorica dello stato. Il problema della possibi-
lità di attuazione delle concezioni platoniche è bensì p«;>sto (450 c),
ma riceve una risposta solo per quel che riguarda l'educazione
ginnica e musicale delle donne (cfr. 452 e-456 c). Sui matrimoni in
comune si discute se ed in quanto siano opportuni e desiderabili,
ma si sfugge più volte al compito di esaminarne l'attuabilità.
L'esame di questo punto viene rimandato ad altro momento in
458 b e in 466 d; in 471 c sembra che ci si accinga ad affrontarlo,
ma subito esso si dilegua assorbito nella più generale questione
dell'attuabilità dell'intero ideale politico di Platone.
no) Non si deve dimenticare che Platone qui ha in mente solo
quegli individui che sono destinati a dominare e governare.
1106 [n 418] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DMNO

miglia sono inevitabili. Anche in Sparta, dove l'uomo


della classe dominante si dedicava, per tutta la vita,
quasi soltanto ai suoi doveri militari e civili, la vita
di famiglia aveva una parte assai secondaria, tanto
che i costumi delle donne, in uno stato cosi severo in
tutto il resto, erano malfamati in Grecia, come troppo
liberi. Di tali critiche al costume matrimoniale spar-
tano si ha primamente notizia da Aristotele 211), ma esse
saranno certamente più antiche, giacché fin dal tempo
dell'invasione tebana nel territorio spartano, dopo Leut-
tra, la mancanza di disciplina delle eroiche donne di
Sparta, in quella occasione, aveva richiamato su di
loro- l'attenzione della Grecia 212). A Platone non poté
sfuggire che il paragone del suo stato con Sparta do-
veva presentarsi tanto più spontaneo, anche sull'ar-
gomento della difettosa vita- familiare nella classe do-
minante, in quanto egli aveva derivato di là l'istitu-
zione dei pasti in comune degli uomini 213). E fu questa,
forse, per lui una ragione di più per risolvere in un
modo un po' diverso da quello spartano il problema
della posizione della donna e delle sue relazioni con
marito e figli. Egli limita - ed è cosa significativa -
la comunità di donne e di prole, alla classe dei guer-
rieri, posta alla dipendenza diretta e al servizio dello
stato, senza estenderla alla massa della popolazione
lavoratrice. La Chiesa-, più tardi, di fronte alla propria
classe dominailte, il clero, risolse lo stesso problema
col celibato obbligatorio dei preti. Ma per Platone,
che del resto per parte sua visse celibe, la soluzione
non poteva esser questa, non solo per la ragione nega-
tiva, che il matrimonio non era ancora per lui- inferiore

211) Arist. Pol. II 9, 1269 b 12 s.


2U) Arist. Pol. II 9, 1269 b 37.
211) Resp. 416 e.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr419] 1107

moralmente al celibato, ma perché la minoranza do-


minante nel suo stato rappresenta, :fisicamente e spi-
ritualmente, l'élite della.· popolazione, ed è necessario
che proprio da essa venga la nuova élite. Così il
motivo del divieto di ogni possesso individuale, anche
del possesso di una moglie, si comhina col principio
della selezione razziale, nel condurre alla teoria della
comunanza di donne e figli, per i guerrieri.
Riguardo alle donne, la prima cosa di cui Platone
si occupa è la questione di come debbono essere edu-
cate le future mogli dei guerrieri. La donna, nel suo
stato, deve essere non solo la donna del guerriero,
ma la cooperatrice nell'ufficio di lui 21'). Platone crede
alla capacità della donna di collaborare attivamente
alla edificazione della società, ma non ripone questa
capacità là dove l'aspetteremmo, nella famiglia. Cosi
egli si oppone all'opinione generale secondo cui la
donna è per natura destinata. soltanto a partorire e
allevare la prole, e a tenere la casa. Pur concedendo
che in complesso la donna sia più debole dell'uomo,
egli non vede in questo alcun ostacolo a che essa par-
tecipi ai compiti e doveri dell'ufficio di guerriero 215).
Ma, se comune è il compito, gli stessi devono anche
essere allevamento (-rpocp-/i) e formazione spirituale (7t~-
8eloc). Quindi la donna della classe dominante deve
essere educata, come l'uomo, in musica e ginnastica,
e come lui formata alla guerra 216). ·
Platone ha piena coscienza delle probabili conse-
guenze di questa sua idea; la sua rivoluzionaria inno-
vazione sembra fortemente esposta alla minaccia mortale
del ridicolo. Le donne, dunque, dovranno· esercitarsi
nude con gli uomini nella palestra, e non le ··giovani

21') Resp. 451 d.


m) Resp. 451 d.
Resp. 452 a.
216)
1108 [rr420] LIBRO IIl - ALLA RICERCA DEL DIVINO

soltanto, ma anche le vecchie grinzose, come avviene


che anche molti uomini anziani si esercitino ancora re-
golarmente nei ginnasi ? Tuttavia, quanto alla morale,
Platone pensa che la norma da lui ideata non la metta
affatto in pericolo; ed abbia egli torto o ragione, il
solo fatto che una norma simile possa essere stata con-
cepita dimosira chiaro l'enorme cambiamento di sen-
tire prodottosi rispetto alla donna dal tempo di Pe-
ricle, ·quando Erodoto, nella novella di Gige e Can-
daule, poteva scrivere che la donna depone, insieme
con le vesti, anche il pudore 217). Osserva Platone che
i barbari ritenevano disonorevole la nudità anche per
l'uomo; e affine era il sentimento morale dei Greci
d'Asia, sottoposti a ll;tfl.usso barbarico 218). Anche nel-
l'arte greca arcaica, e ancora nel V sec., il nudo fem-
minile, in complesso, non è rappresentato. Invece, per
effetto della ginnastica e del suo ideale dell'areté cor-
porea, ma anche per il senso esprimentesi nella ginn,!l-
stica e poggiante su una lunga tradizione per il pregio
morale della convenienza e del decoro, il corpo nudo
dell'atleta era ormai da lungo tempo ·il soggetto prin-
cipale dell'arte plastica 1119). ~ proprio questo soggetto
il punto in cui l'arte greca si differenzia più a fondo
da qnella orientale. Se la paideia, in quanto ginna-

1117) Ber. I 8.
118) Resp. 452 c.
219) L'altro soggetto principale sono le figure degli dei. Questi
fatti sono talvolta erroneamente interpretati, come se la scelta
degli artisti greci si fosse fermata sugli atleti, perché solo nella
11alestra.il c(lrpo umano poteva esser colto nella sua nuda bellezza.
È un fraintendimento, che è tipico di un certo modo moderno
di intendere l'artista come lo specialista del nudo; concetto che
comincia già a,d .apparire nella tarda aMichità. Ma, la realtà è di-
versa per l'antica arte greca. In essa la figura dell'atleta impersona
la suprema areté ginnica dell'uomo giovane nella ·pienezza della
sua formazione. Quando Platone definisce l'areté del corpo eor
forza, salute e bellezza, egli non fa altro che esprimere la -
zione comune greca.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [II421] 1109

stica, era valsa a dare all'arte contenuto ed ethos,


l'esigenza fatta ora valere da Platone, che anche il
corpo fe:mnrinile si liberi sui campi di gioco, è segno
di quella mtk'"' ~one di spiriti per cui l'arte del IV sec.
si volse alla figurazione del nudo femmineo 220). Questo
passo dové essere sentito dall'opinione comune come
non meno rivoluzionario della teoria platonica della
ginnastica femminile. Platone si rende conto dell'ef-
fetto· urtante di questa teoria, ma finisce col doman-
darsi: quanto tempo è che il costume della nudità nei
giochi, anche dei maschi, fu introdotto tra noi e pro-
vocò la stessa tempesta di risa e di sdegno ? Secondo
la tradizione che egli· segue quel costume nacque in
Creta e di ll passò a Sparta, per essere poi, alla fine,
accolto in tutte le città greche 221). Secondo Tucidide
(nella parte della sua opera nota col nome di Archeo-
logia) un resto della riluttanza ad accettare la nudità
completa del lottatore nei giochi olimpici, era rimasto
fino a tempi assai recenti, nella fascia lombare di cui
si cingeva l'atleta, uso che gli Ioni non avevano ancora
abbandonato 222). È poi probabile che Platone, anche
in· questa sua proposta di ginnastica ·a corpo nudo per
le donne, si sia fatto ispirare· dal modello spartano;
giacché la nostra tradizione conosce esercizi di questo
genere in uso presso le fanciulle spartane.
Ma c'è da domandarsi: questo ammettere le donne
nel campo tipico della vocazione maschile non contrad-

220) Certo, il tipo femminile nudo· che finisce eon l'imporsi


nell'arte non è quello della do~a-atleta di Platone, ma quello
di Afrodite. La plastica più recente si interessò all'elemento spe-
cificamente femmineo in contrasto con la forma mascolinizzante
dei corpi di donna, propria dell'arte classica più antica. L'idea
platonica della bellezza è un'altra: o-ri -rò &i<p~:>..iµo'il xotÀ6'11. Le
donne dei guerrieri debbono portare come vestito invece dell'hi-
mation, l'aret6 (457 a).
221 ) 452 c ss.
222) Thuc. I 6, 5.
1110 [rr422] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

dièe proprio al principio platonico per cui 1a giustizia


in uno stato organicamente costituito, sta in ciò, che
ognuno, in esso, adempie alla funzione affidatagli dalla
natura ? Per .quest.o principio non sembra lecito a es-
seri, naturalmente disposti in modo diverso, attendere
allo stesso compito 223). Platone nou accetta questa ap-
plicazione del suo principio e vi scorge un ' errore dia-
lettico, in quanto in essa il concetto di disposizione
uguale o diversa è preso in senso assoluto, mentre sa-
rebbe da considerare la speciale attività relativamente
alla quale noi parliamo di uguaglianza o diversità di
disposizione. Chi non ha la disposizione adatta per fare
il calzolaio non dovrà mettersi in quel· mestiere, come
un altro che la possiede. Ma due uomini, uno dei quali
abbia una bella chioma e ~ altro tenda alla calvizie,
possono, nonostante questa diversità . di natura, avere
tutti e due disposizione al mestiere di calzolaio. È vero
che la differenza tra uomo e donna incide ben più a
fondo di. quella di questo esempio, ma, ciò nonostante,
di fronte a un dato compito, essi possono ambedue avere
la stessa disposizione 224). È hensi vero che una certa
superiorità dell'uomo sulla donna di fronte allo stesso
compito, è constatabile proprio in quei lavori che i
patroni della donna da casa considerano specificamente
femminili, come la cucina, il fare il pane, il tessere;
ma insomma non esiste un lavoro che sia accessibile
esclusivamente alla donna o all'uomo 225). Se la donna
fa buona prova nella medicina o nella musica, perché
dovrà fallire nella ginnastica o nell'uso delle armi ? 226)
L'educazione musicale e ginnastica della donna non
è, dunque, contro natura; innaturale è, piuttosto, la

223) Resp. 453 b-d.


224) Resp. 454 a ss.
225) Resp. 455 c-d.
226 ) Resp. 455 e.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr423J 1111

condizione attuale che le rende impossibile far fruttare


i suoi doni naturali 227). e ol porre una tale esigenza,
Platone trae l'ultima logica conseguenza da uno svol-
gimento cominciato già nei tempi di Pericle e di Euri-
pide. Nell'Aten:e arcaica la donna, com'è noto, era
quasi sempre :fisicamente e spiritualmente incolta e
rimaneva confinata nella vita domestica. Ma poi i
segni di una certa partecipazione delle donne al pro-
gresso intellettuale e specialmente alle attività educa-
tive, si vengono facendo via via più frequenti. La tra-
gedia, facendosi sempre più ricca di personaggi fem-
minili fortemente significativi, mostra che si è scoperta
nella donna la creatura umana e arriva, anzi, a discu-
tere espressamente il suo diritto alla cultura 228). Pla-
tone, .infine, aggiunge nel quadro della cultura intel-
lettuale femminile alcuni tratti più propriamente spar-
tani. Il resultato è, che, tolti dai precetti di lui quelli
che mirano a fare, delle compagne dei guerrieri, delle
vere e proprie B:mazzoni, il resto è conforme essenzial-
mente al programma che si propone l'educazione fem-
minile moderna. L'attuazione di questo programma
non solo è possibile, secondo Platone, ma desidera-
bile in sommo grado, poiché in. quanto attua perfet-
tamente una cultura unica per uomo e donna, questa
educazione rafforza l'unità dello stato, e conferisce a
coloro che debbono comandare quella superiorità sugli
altri che il compito esige.

Selezione razziale ed educazione dell'élite. - Pla-


tone definisce lo stato «ottimo» come il governo

Resp. 456 b·c.


227)
Cfr. Ivo BRUNS, Vortriige und Aufsiitze, Miinchen 1905,
228 )
p. 154: « l<'rauenemanzipation in Athen ».
1112 [11424] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

degli « ottimi». Con ciò egli vuole formulare un prin-


cipio conforme alla natura e, pertanto, di valore asso-
luto e perentorio. Egli vuole una «aristocrazia», nel
senso letterale della parola 228 6 ). Ma in che rapporto
sta, di somiglianza o differenza, una tale aristocrazia con
le forme di costituzione politica esistenti nella realtà ?
Non è ancora il momento di dar risposta a questa do-
manda, poiché lo stesso concetto di «ottimo» non è
ancora pienamente determinato, né si potrà determi-
narlo se prima non si svolge il criterio di selezione,
cioè se non si tratta il tipo di educazione che spetta
a quel gruppo ristretto, in seno ai guerrieri, che è
chiamato a regger lo stato. Giunto però nella tratta-
zione dell'educazione delle donne, al punto in cui esse,
compiuta l'educazione musicale e ginnastica, sono or-
mai mature per essere, secondo il loro destino, le madri
della nuova generazione, Platone opportunamente in-
serisce le sue norme sulle relazioni nuziali e sulla gene-
razione della prole. Queste norme sono qui a loro posto,
non soltanto perché così vuole la successione tempo-
rale, ma perché, si tratta qui della selezione in senso
razziale degli uomini destinati al comando 229 ) - condi-
zione indispensabile, per Platone, per la forni.azione
educativa dei guerrieri - e questo argomento si lega
nella maniera più naturale col discorso sulle donne e
sull'educaziome femminile. Questa «aristocrazia» pla-
tonica, non è una nobiltà del sangue, nel senso che i
suoi componenti abbiano fin dalla culla titolo a occu-
pare nello stato posizioni direttive. Come sappiamo
(v. p. 404 s.), gli incapaci o indegni debbono essere re-
spinti alla classe inferiore, a quel modo che, inversa-

228 &) Resp. 445 d.


2Z11) Resp. 457 c.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [u425J 1113

mente, è possibile che individui della terza classe, spe-


cialmente degni e capaci, siano di quando in quando
promossi alla classe dominante. Con tutto ciò la nascita
ha sempre, per Platone, una parte essenziale nella for-
mazione dell'élite. Egli è convinto che, di massima, le
nuove generazioni della classe dominante saranno pari
in bontà ai genitori, purché, beninteso, si attui la
scelta più accurata dei coniugi. È bensì vero che la
signoria dei migliori si fonda sull'educazione migliore,
ma questa, a sua volta, esige il miglior terreno, per
attecchire, la migliore disposizione naturale. Era questa
un'idea corrente nell'età di Platone, soprattutto per
la teoria sofistica dell'educazione 230). Ma i Sofisti non
si erano preoccupati dei mezzi di ottenere, deliberata·
mente, la migliore physis, paghi di valersene, se e dove
la trovavano. L'esigenza di un «allevamento» è piut·
tosto eredità di un passato più lontano, dell'antica etica
nobiliare. Quanto più profonda era nella nobiltà la
persuasione di possedere la qlU<i, la qualità innata, ra·
dice di ogni vera virtù, tanto più doveva essa darsi
cura di preservare la preziosa eredità del sangue. D
vecchio Teognide nelle sue elegie ammonitrici, dirette
alla nobiltà impoverita della sua patria, che cercava
di restaurare le proprie fortune con matrimonii plebei
ma ricchi, aveva predetto pessimi resultati, per la
conservazione dell'antica areté, da questa mescolanza di
razze. Per quel che la nostra tradizione ci consente di
sapere, era stato lui il primo a addurre lesempio della
scelta razziale che si opera sugli animali, come argo·
mento della necessità di preservar la purezza della razza
dei dominatori, anche tra gli uomini 231). Platone acco·

280) Cfr. voL I, p. 535 s.


181) Cfr. voi. I, p. 371 s.
1114 [rr426l LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

glie in sostanza questo principio, anche se nella forma


lo spiritualizza, affermando che i migliori possono esser
generati soltanto dai migliori 232 ), e, al fine di mantener
la purezza nella prole eletta così generata, giudica
necessario per questa prole un allevamento speciale sot-
toposto a controllo da parte dello stato. Che dai suoi
principii si potessero trarre tali conseguenze, non era
certo neppur passato per la mente del vecchio Teo-
gnide. Tra la sua etica razziale e il sistema platonico
di controllo e regolarmento statale, sta, mediatrice,
la paideia spartana, con la sua preoccupazione per
l'allevamento di una prole sana nella classe dominante
degli spartani. Gli aristocratici ateniesi, proprio nel
tempo in cui Platone si formava, si erano occupati a
fondo della teoria educativa spartana. Senofonte re-
gistra come elemento specificamente spartano il fatto
che il regime severo di allevamento cominci fin dalla
concezione e dalla nascita 233). E già Crizia, Ìll un suo
opuscolo sullo stato spartano, in cui lo presentava ·a
modello, aveva preso le mosse da questo stesso principio.
Esso imponeva che ambedue i genitori, prima del con-
giungimento e della gravidanza, si sottoponessero a
esercizi ginnastici e a una dieta corroborante 234). Questo
scritto ci porta nell'immediata pr9ssimità di Platone.
Senza dubbio egli sentì ben presto discutere queste
idee nella cerchia di Crizia, suo zio, e conobbe il suo
scritto, il quale è probabile abbia contribuito anche
altrove, in più d'un punto, alla Repubblica platonica.

282) Anche Teognide naturalmente aveva pensato a un alleva-


mento selettivo degli &.ya:&ol, ma per lui. poeta della nobiltà. le
parole ciycx&6ç e xcxx6ç hanno sempre anche il senso di nobile
e non nobile. Cfr. vol I, p. 363.
2811) Xen. Lac. resp. I.
13') Critias fr. 32 (Diels).
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [1!427] 1115

Certo, l'idea che poi rinasce durante la Riforma in


un umanista aristocratico come Ulrico di Hutten, se-
condo la quale la nobiltà di sangue deve provare il
suo diritto col possesso della vera virt~s, non era estranea
al partito nobiliare di opposizione nella democrazia ate-
niese. Come, altrimenti, i nobili avrebbero potuto giu-
stificare la propria esistenza ? Platone va più in là,
in quanto ammette anche lui, come i contemporanei
della sua stessa classe, che solo il più alto pregio umano
è titolo per una posizione dominante nello stato, ma
non vuole educare all'areté una nobiltà di nascita già
esistente, bensi richiede che si generi una nuova élite,
mercè la scelta di coloro che incarnano la più alta
areté.
Questa esigenza induce Platone, giacché egli non
riconosce, anche all'infuori di ciò, ai custodi del suo
stato diritto a proprietà personale e a vita privata,
alla risoluzione di abolire assolutamente, per la classe
dei guerrieri, il matrimonio inteso come durevole con-
vivenza di uomo e donna, e di sostituirgli unioni tem-
poranee dei sessi, come impersonale istituzione diretta
alla conservazione della razza. Tra le istituzioni che
egli disegna, non ce n'è alcuna in cui il sacrificio ri-
chiesto al singolo di fronte allo stato sia con più chia-
rezza significato, e che più appaia urtante al nostro
sentire. È un assalto che annienta l'ultimo resto di
esistenza dell'individuo, il diritto dell'uomo al proprio
corpo, che nessuno stato aveva ancora mai contestato.
Giacché, se in un altro punto Platone per significare
la povertà assoluta dei suoi guerrieri si vale dell'espres-
sione che essi non posseggono letteralmente nulla al-
l'infuori del corpo, quest'espressione si rivela ancora
troppo ottimistica rispetto a queste disposizioni sulle
relazioni tra uomo e donna, a meno che con essa non
si debba intendere il puro «avere» un corpo, e non la
1116 [11428] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

facoltà di usarne liberamente. Platone, è vero, descrive


come, per la coeducazione di giovani e di fanciulle,
si formino legami d'amore 235), e ciò presuppone che di
sentimenti personali si ammette l'esistenza. Ma è vie-
tato ai giovani abbandonarsi a questi sentimenii e
stringere vincoli, che _non siano consentiti dai magi-
strati 236). L'espressione volutamente non chiara di Pla-
tone non lascia dubbio, però, che non si tratta solta_nto
di una domanda di consenso formale ai superiori.
Spetta a questi di. fare, in base a conoscenza delle per-
sone la scelta che essi :ritengono la «più salutare».
Questa è la definizione che Platone dà di quel che egli
chiama le « sacre nozze» 237). È evidente che egli vuole
circonfondere di un nimbo arcano d'iniziazione questa
unione dei sessi che deve sostituire la durevole co-
munanza di vita del matrimonio. A questo scopo serve
anche la prescrizione di feste speciali, nelle quali si
dovrà, con solennità di sacrifici e di inni, procedere al-
l'unione delle coppie 238). Ma la scelta delle spose si
compie al di fuori di ogni sentimento, di ogni volontà
personale. Platone permette perfino ai magistrati di
usare qualche trucco sapiente e discreto per arrivare
a congiungere i migliori maschi con le donne migliori, i
peggiori con le peggiori 239). Il numero delle unioni deve
essere in proporzione del numero di uomini di cui lo
stato ha bisogno 240). Poiché lo stato perfetto, per Pla-
tone, si attua in una comunità modesta, tale da potersi
tutta tener sott'occhio con facilità, molto meglio che
in una confusa massa umana, sicché il numero degli

236 ) Resp. 458 d"


236) Resp. 458 d-e.
2 31 ) Resp. 458 e.
1138) Resp. 459 e.
23•) Resp. 459 c-d.
24°) Resp. 460 a.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [u429] 1117

abitanti deve rimaner entro certi confini, questa dispo-


sizione mira piuttosto a limitare che a incrementare
le nascite. La politica demografica di Platone non è
diretta all'aumento quantitativo, ma al miglioramento
qualitativo dei cittadini.
Per la medesima ragione sono fissati limiti di età
a uomini e donne, per la generazione. Solo donne tra
i 20 e i 40 anni debbono partorir figli per lo stato, e
per gli uomini l'età generativa è stabilita solo tra i 30 e
i 55 anni 241). Sono gli anni, questi, del pieno vigor della
vita (&xµ1J); ai troppo giovani o ai vecchi non è dato
il diritto di aver figli 242). In questi precetti eugenetici
· Platone segue tendenze della medicina greca, per la
quale il problema del momento migliore per la genera-
zione è sempre stato di particolare interesse. L'unione
degli uomini e donne migliori è sempre, nello stato pla-
tonico, favorita dalle autorità; quella dei meno buoni è
resa meno facile per quanto si può 242). La cura dei nati
deve esser del tutto sottratta alle :madri. In località
appartata della città sono stabiliti asili, serviti da bam-
binaie, dove si allevano i lattanti sani. Le madri vi
hanno accesso solo per allattare i bambini, tra i quali
.non conoscono il proprio, perché debbono dare a tutti
i bambini l'amore che sentono per quello che è loro 244).
Il senso e l'istinto familiare sono forti tra i Greci. Pla-
tone lo sa bene, e vuole perciò che una tal forza non
vada perduta, ma diventi mezzo di rinsaldare la comu-
nità. Egli vuole soltanto impedire il particolarismo a

241) Resp. 460 d-e.


242) D'altro canto Platone (Resp. 461 c) concede liberta d'amore
e di relazioni sessµali anche agli appartenenti alla classe domi-
nante una volta passato il limite d'età legalmente stabilito per
la generazione di figli (cioè, quarant'anni per le donne e cinquan-
tacinque per gli uomini).
243) Resp. 459 d.
2" ) Resp. 460 c.
1118 (II430] UBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

cui quei sentimenti danno .luogo ed estendere alla cit-


tadinanza intera quel senso di solidarietà che la fami-
glia produce nei suoi membri. Egli vuole cementare
.tutto lo stato come in un'unica famiglia, in cui tutti
gli anziani si sentano genitori ed educatori di tutti i
giovani, e i giovani guardino con uguale pietà filiale
a tutti gli anziani, come a loro genitori 945). Fine ultimo
di Platone è che gioia e dolore del singolo siano anche
gioia e dolore di tutti gli altri 246). Il suo assioma è che
Io stato migliore, perché in sé più unito, è quello in
cui il numero più grande di cittadini non intende,
quando pronunzia la parola «mio», nulla di distinto
individualmente, ma una sola e identica cosa con. tutti
gli altri ~7). Il paragone del corpo, che, quando duole
un dito, è intero nel sentire il dolore di quel suo mem•
hro, ·rende evidente questo pensiero unitario di Pla-
tone, e, in pari tempo, mostra efficacemente come il
suo radicale atteggiamento di fronte a famiglia e a in-
dividui si colleghi con la concezione organica dello stato
che gli è propria 1148). Senso e valore vengono ad ogni
membro, nel suo vivere e operare, solo dal tutto. La
comunanza (x.otvc.>v(cr:) lega, il particolarismo (t8k.>atç)
separa MD). Platone, però, non pensa ad estendere le
conseguenze di questo principio relative al matrimonio,
agli strati lavoratori e produttivi dello stato: esse- ri-
mangono limitate ai governanti e difensori. Questi dun-
que costituiscono la ragione prima dell'unità di esso.
La seconda ragione è data dalla subordinazione volon-
taria alla quale, come Platone spera, la classe infe-
riore sarà persuasa dall'esempio di disinteresse dell:o

1" ) Resp. 461 d.


H11) Rnp. 462 b.
247) Resp. 462 c.
248) Rnp. 462 c-d.
-> Rnp. 462 b.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n431] 1119

più elevata. In questo stato i reggitori non saranno per


il popolo i padroni, ma i cooperatori, e il popolo non
sarà per loro il servo ma il produttore dei mezzi di sus-
sistenza 250).

M~ a sua volta, la totalità, lo stato di dove de-


riva il suo valore, il suo titolo alla supremazia ? Non
è il concetto di totalità e comunità de:fìnihile in parec-
chi e diversi significati, di maggiore o minore esten-
sione ? Per il pensiero moderno la risposta più ovvia
è che sia la nazione, formata dalla natura e dalla storia,
la rappresentante di questa totalità, e che lo stato sia
la forma in cui la nazione esiste e opera politicamente.
In tal caso la selezione fisica dei futuri reggitori tende-
rebbe a formare, mediante un adatto allevamento, una
nobiltà di razza in cui si attuassero in maniera eminente
le caratteristiche etniche di una determinata nazione.
Ma non è questo il pensiero di Platone. Il suo stato
perfetto egli lo concepisce come stato-città, accordan-
dosi in ciò con la realtà della vita politica, come si era
svolta nel corso della storia greca. E se anche qua e là
egli chiama «città greca» questo suo stato 251), esso
non rappresenta la nazione dei Greci; ché gli stanno
accanto altri stati, anch'essi greci, coi quali, può aversi
pace o guerra 252). Che i suoi abitanti siano di stirpe
greca non è, dunque, la sua ragione di essere come
stato. Lo stato perfetto di Platone può essere realiz-
zato altrettanto .bene tra barbari; anzi è possibile che
tra essi sia esistito una volta in passato, senza che ne
sia giunta notizia 253). Non è il materiale etnico da
250 ) Resp. 463 a-b.
251) Il carattere «greco» della sua polis è messo consapevol-
mente in rilievo da Platone nelle prescrizioni relative alla guerra
di Greci contro Greci; cfr. Resp. 469 b-c, 470 a. c, 471 a ( cfr. p. 441).
In 470 e è detto espressamente che la città che Socrate si accinge
a fondare deve essere città greca.
252) Cfr. i luoghi addotti nella nota precedente.
248) La possibilità che lo stato ideale si sia realizzato presso
1120 [u432] UBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

cui risulta, quello che conferisce il suo pregio a


questo complesso statale, ma è la sua interezza,
l'unità delle parti nel tutto 254). Questo è il punto di
vista che solo permette di capire il carattere di stato-
città dello stato platonico. Il fatto che Platone non
abbia concepito la sua Politeia come un grande stato
nazionale o come un impero mondiale, ma come polis,
non si spiega affatto, come pur potrebbe sembrare
a tutta prima al cosiddetto pensiero storico, come una
pura e semplice aderenza del filosofo alle circostanze
offertegli accidentalmente dall'esperienza e dalla tra-
dizione, ma si fonda sul suo ideale assoluto. Uno stato
cosi limitato in grandezza, ma in sé fortemente stretto
e concluso, deve costituire per Platone un'unità più
perfetta di qualunque altro stato più esteso o più po-
poloso 255). La «vita politica» nel senso che i Greci da-
vano a questa espressione, poté svolgersi nella sua
incomparabile intensità solo in una polis e con la polis
tramontò. Ed anche per Platone lo stato come egli lo
concepisce è più stato di qualunque altro. Egli fu con-
vinto che in esso gli uomini avrebbero potuto realiz-
zare la più alta forma della virtù umana e della feli-
cità 256). Anche la selezione razziale che egli sostiene è
posta, come l'educazione alla quale deve offrire il fon-
damento, al servizio assoluto di questo ideale.

altri popoli è affermata in 499 c. Il passo testimonia in Platone


un'alta considerazione dei barbari, per l'antichità della loro civiltà
e sapienza.
254) Questo concetto è ripetuto con insistenza. Cfr. special-
mente Resp. 462 a-b. Nel passo si coglie una reminiscenza delle
Eumen.idi di Eschilo, v. 985, dove l'unità della cittadinanza nel-
l'amore e D,ell'odio è lodata come il bene supremo.
266) In questa opinione Aristotele, Pol. VII 5, 1327 a 1, si ac-
corda con Platone.
256 ) Cfr. sulla felicità della polis intera, che per Platone è la
meta suprema, Resp. 420 b: sulla felicità dei guerrieri, 419 a ss.
Il problema è poi ripreso e finalmente risolto in 466 a. I guer-
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [1!433] 1121

Educazione e legislazione militare. - Anche se


l'appartenenza dei suoi abitanti alla medesima na-
zione non è fattore determinante per l'esistenza dello
stato platonico, pure la crescente importanza del
sentimento nazionale tra i Greci del IV sec. si fa chia-
ramente sentire anche nella Repubblica 257). E, prima
di tutto, esso diventa fonte di nuove norme etiche
sulla condotta della guerra. .A questo riguardo Pla-
tone espone una serie di principii, che oggi si ve-
dono piuttosto come norme di diritto internazionale,
in quanto la guerra è per noi, normalmente, conflitto
tra stati di_ nazionalità diversa, e quindi le regole che
la disciplinano non si basano sul diritto pubblico dei
singoli popoli, ma su accordi internazionali. Il caso
normale per i Greci, invece, finché conservarono la
libertà politica, fu sempre la guerra tra più stati greci,
e se anche avvenne che non greci venissero a trovarsi
implicati nei loro conilitti, assoluta:çiente eccezionale
rimase la guerra diretta unicamente contro una na-
zione straniera. Perciò le norme di Platone per la con-
dotta della guerra prendono prima di tutto in consi-
derazione la guerra fra Greci 258). Ma neppure in questo
campo limitato esse si fondano su rapporti tra stati;
Platone le dà semplicemente come prescrizioni per il
suo stato ideale, e non può certo presupporre che
per ciò solo esse debbano essere accettate dagli altri.
Così le sue regole per la condotta della guerra tra Greci
vengono a essere piuttosto parte di mi codice etico
della guerra, posto da lui a fondamento dell'educazione
dei suoi guerrieri 259).

rieri staranno al posto più alto anche nella gerarchia delle feli-
cità, sebbene il loro ufficio esiga dedizione assoluta.
257) Cfr. « Paideia » III, cap. III, sul panelleuismo del quarto
secolo.
258) Cfr. i luoghi citati. nella n. 251.
269) Resp. 469 b.
1122 [rr434] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

A dire il vero, non è molto lo spazio che nei libri


della Repubblica dedicati all'educazione musicale e gin-
nastica è assegnato all'educazione guerriera in senso
specifico. Platone si limita, a questo proposito, a espun-
gere da Omero i passi che potrebbero, secondo lui,
ispirare al futuro guerriero il terrore della morte, e
poi, trattando della ginnastica, a rilevare che lo scopo
essenziale della formazione fisica è l'addestramento
militare, sicché deve evitarsi che essa degeneri in al-
lenamento atletico 260). Ma in che modo si possa eccitare
nei guerrieri lo spirito bellicoso non è mai detto, in
quei libri. Solo molto dopo che l'argomento della educa-
zione musicale e ginnastica è esaurito, dopo la tratta-
zione dell'educazione femminile e del regime nuziale,
Platone inserisce l'educazione militare dei guerrieri. Egli
la connette alla descrizione dell'allevamento ('t'flQ(p-fi) dei
fanciulli, i quali per tempo debbono essere assuefatti
a impressioni di guerra 261). Ma ciò è soltanto un'oc-
casione che gli serve a esporre da capo a fondo la sua
etica della guerra, la quale, in sé avrebbe ben poco
che fare con lo studio della puerizia 2 62). In realtà, si
tratta propriamente di un'appendice, e il fatto che
essa sia separata dalla trattazione principale dell'edu-
cazione dei guerrieri rimane singolare e degno di ri-
flessione 263). Una tale partizione della materia include
in sé un problema che è ben più che un problema di
struttura letteraria. Platone evita intenzionalmente di
collegare strettamente tra loro educazione musico-gin-

280 ) In Resp. 403 e Platone chiama ironicamente i suoi phylakes


«atleti del più grande degli agoni», cioè della guerra.
281) Resp. 466 e.
282) Già in Resp. 468 a, la descrizione dell'educazione guer-
riera della gioventù si svolge e si trasforma in una serie ·di precetti
sull'etica di guerra in generale.
283) L'educazione musicale e ginnastica dei guerrieri è esposta
nei libri II-III, l'educazione militare nél libro V, 468 a-471 c.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr435] 1123

nastica e preparazione militare dei guerrieri, e la ra-


gione non è nella circostanza esteriore, che l'educazione
militare deve cominciare anche prima che s'inizi.i la
paideia in senso specifico. In realtà, Platone concepiva
l'educazione musico-ginnastica come unità organica che
la tradizione aveva formato e la ragione giustificava,
e non volle, perciò, inserire nella trattazione di essa
alcun elemento che non fosse strettamente di sua per-
tinenza. Le virtù guerriere del mondo greco non erano
nate da questo tronco, ma si riallacciavano ad altra
tradizione. Però, come già occupandosi della paideia
musico-ginnastica Platone si era dato cura di unifi-
care in una superiore armonia spirituale le due forme
naturalmente distinte della cultura greca, la forma
spirituale e quella corporale 264), così egli ripete ora su
un piano più alto il medesimo tentativo nello stabilire
il rapporto dell'educazione musico-ginnastica dei guer-
rieri con la loro preparazione militare. Fino a quel mo-
mento in Grecia nessuno era pienamente riuscito ad
attuare tra esse unione e compenetrazione scambievole.
Cosi, a Sparta la disciplina militare prevaleva su· ogni
altra forma di educazione, e in Atene l'addestramento
degli efebi, limitato a due anni di servizio militare ob-
bligatorio per tutti i cittadini, era cosa secondaria di
fronte all'educazione nella musica e nella ginnastica.
Nell'educazione della classe dei guerrieri Platone vor-
rebbe riunire in una sola corrente questi due rivi
della tradizione educativa.
L'educazione militare che Platone immagina per i
suoi guerrieri è destinata a non soddisfare un militare
di professione dei nostri tempi, a quel modo che inade-
guata parrà l'educazione musicale a un musicista e

26 4 ) Sulla giusta armonia di formazione musicale e di ginna-


stica, come meta della paideia, cfr. Resp. 410 e-412 a e supra.
p. 402.
1124 [n436] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

l'educazione ginnastica a un allenatore sportivo. E sì


che anche nell'età di Platone l'arte della guer:ra, come
tattica, strategia, apprestamenti tecnici, era già molto
evoluta, anzi l'elemento meccanizzato prendeva, di de-
cennio in decennio, sempre maggiore importanza nella
condotta della guerra. .Axistotele, più moderno anche
in questo punto, rileva espressamente, contro Platone,
questa nuova realtà 265). Platone invece, qui come nel
caso della musica e ginnastica, scarta tutto ciò che è
puramente tecnico e tutto concentra in ciò che è paideia
in senso proprio 266). Il suo licopo è di trarre dagli uomini
e dalle donne della classe militare dei guerrieri veri.
E in questo caso la questione principale non è la loro
destrezza nell'uso delle armi, ma l'esistenza di una
precisa impronta spirituale che investa l'intera perso-
nalità •. Anche nella paideia musicale, come si è visto,
l'essenziale è che essa è formazione interiore. E perciò
deve cominciare per tempo, finché l'anima è ancora
fa.cilmerite plasmabile, e darle, senza che essa se ne
accorga, quella impronta che diventerà più tardi forma
consapevole 267). Nello stesso modo procede Platone nel-
l'educazione' guerriera dei soldati del suo piccolo ma
scelto esercito. Essi devono fare esperienza di guer:ra
fin dalla fanciullezza, come i figli dei vasai imparali.o
l'arte stando ·accanto ai padri e guardandoli lavo·
rare e dando qualche volta una mano. I figli dei guer-
rieri non debbono essere educati peggio dei figli degli
artigiani 268). Ma non debbono neppure essere esposti
al pericolo, pur essendo condotti in guerra insieme coi
grandi; e perciò Platone prende speciali misure per
la loro sicurezza. Vuole che si diano loro, come guide

266) Arist. Pol. VII 11, 1331 a 1.


266) Cfr. supra, p. 387.
267) Cfr. supra, p. 363 s.
268) Resp. 466 e-467 a.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n437] 1125

«pedagoghi», i più capaci e sperimentati soldati an-


ziani e pensa a render possibile il loro allontanamento
sollecito dalla zona di battaglia nel caso che eventi
improvvisi dovessero metterli a contatto immediato
col fronte di combattimento 269). Può sembrare a prima
vista che il semplice assistere alla battaglia come osser-
vatori sia, come mezzo di educazione :militare, meno
appropriato di esercitazioni regolari dei giovani in gio-
chi guerreschi ai quali essi stessi prendano parte 210).
Ma anche in questo caso lo scopo di Platone non è
l'abilità tecnica, bensi la formazione del carattere, un
processo, çioè, in cui lo spirito s'indurisca, con l'assue-
farsi allo spettacolo terribile della guerra vera. Pla-
tone ha certo in mente il carme di Tirteo che esalta il
pregio dell'antica virtù guerriera spartana. Il poeta
la mette in confronto con ogni altro pregio personale
e sociale che un uomo possa avere, e non ne trova nes-
sun.o che possa starle a pari quand«? si tratti della sal-
vezza della patria, poiché nessuno rende l'uomo ca-
pace «di guardare la strage sanguinosa» e di rimanere
imperterrito sul posto «mordendo coi denti le labbra».
Il « sostenere la vista » pa~e a Tirteo la prova più sicura
della capacità di tener duro coraggiosamente in bat-
taglia 271). In questo, e non in una collezione di cogni-
zioni militari, consiste quella « esperfonza » della guerra
di cui parla Platone.

28 9) Resp. 467 d.
270) Resp. 467 e .&e:<i>pe:i:v T&: ite:pt TÒv it6:bµov, .&e:ropoòr,; itoÀÉ-
µou Toòr,; mxi:lìc:r,; itote:i:v.
271) Tyrt. fr. 7. 31, 8. 21, 9. 16; a questo proposito, v. « Pai-
deia», I, p. 180 88. Il v. di Tirteo sulla vista del ip6vor,; cxlµcxT6e:Lr,;
è citato due volte nelle Leggi, 629 e e 699 a. Perciò è probabile
che Platone avesse in mente Tirteo nei luoghi della Repubblica
467 e, e, dove il concetto di « osservare», «guardare», .&écx, &e:ei>-
pe:i:v, .&e:ciaovTott è ripetuto con insistenza. Tirteo e Platone sono
gli psicologi della battaglia, che vedono il problema reale che
essa rappresenta per ogni essere umano.
1126 [rr438] LIBRO !Il - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Quest'unico princ1p10 esaurisce per Platone tutta


l'educazione guerriera dei giovani; l'istruzione nell'uso
delle armi e nelle altre attività soldatesche non è trat-
tata espressamente, come cosa ovvia. Se la ·nostra in-
terpretazione etica del «sostenere la vista» (.&eù)pe~v)
è esatta, è facile capire perché Platone, in connes-
sione immediata con questo punto, impianti tutta
un'etica militare, tutta una serie di norme sul conte-
gno dei guerrieri tra loro e contro il nemico. Onta
suprema è abbandonare il posto di combattimento o
gettar via le armi o commettere altre simili mancanze
per viltà. Il guerriero che se ne renda colpevole, Pla-
tone vuole che sia degradato a membro della classe
inferiore diventando artigiano o contadino. Questo ge-
nere di punizione, invece dell' atimia, che era in Grecia
la pena normale, corrisponù~ alla posizione privile-
giata che spetta ai guerrieri nello «stato perfetto» 272).
Giacché i membri della classe lavoratrice sono sl de-
signati anch'essi come cittadini, ~a, come mostra ap-
punto questa pena, non sono che cittadini di seconda
classe 273). Chi poi cade vivo in mano del nemico non
deve essere riscattato, nìa lasciato come preda al ne-
mico 274), il che significa, secondo l'antica legge di guerra,
che deve essere o venduto schiavo o ucciso .. Chi invece
si è distinto in battaglia sarà festeggiato e premiato
con corone. E un certo privilegio gli spetta anche in
amore, come del resto suole avvenire in tempo di guerra.
Non che Platone pensi a una specie di« nozze di guerra»;
anche in guerra l'unione sessuale resta vincolata alle
regole tendenti a produrre una razza eletta. Ma, ap-
punto per questo, il guerriero coraggioso è preferito,

272) Resp. 468 a.


213) Qualcosa di simile in Arlst. Pol. VII 8-9.
17') Resp. 468 a.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr439] 1127

e sono ammesse concessioni alle sue inclinazioni per-


sonali, di cui Platone non fa parola in alcun altro luogo
della Repubblica 275). Per questo caso eccezionale Pla-
tone spiritosamente invoca, ancora una volta, l'auto-
rità etica di Omero che, dopo un combattimento glo-
rioso, fa sì che venga assegnato al suo Aiace il dono
onorifico e corroborante di un'intera spalla di bue 276).
Ed anche l'eroe platonico, nei sacrifici solenni e nelle
feste, sarà onorato con inni di gloria, e avrà i com-
pensi di cui si è. parlato e inoltre posto d'onore, be-
vanda e cibo più scelti e copiosi. Chi poi cade gloriosa-
mente in battaglia è annoverato «nell'aurea progenie»,
cioè diventa eroe e gli si consacra una tomba oggetto
di religiosa venerazione 277). Lo stesso onore spetta alla
fine a chi, sopravvissuto al cimento, muore di vecchiaia
dopo una vita spesa tutta in servizio dello stato 278).
Tutta questa etica della guerra, richiama, nella strut-
tura come nel contenuto, la poesia di Tirteo, che cele-
brando come virtù suprema la fortezza del guerriero
di fronte al nemico, enuncia compiutamente quel si-
stema di premi per gli eroi caduti e per i superstiti,
che era sostegno e vincolo della struttura statale spar-
tana. Si è già trattato, al suo posto, di questo carme
valutandolo come documento dell'educazione di stato
a Sparta 279). Platone non prende da esso soltanto l'ele-
mento del «sostener la vista della strage», ma ne de-
riva, per farne elemento costruttivo del suo stato, tutto
il sistema di etica della guerra in esso incluso. Non però
- :si può dirlo fin da ora - ne accoglie il principio
che fa della fortezza la virtù suprema. Glielo vieta la

275 ) Resp. 468 b-c.


276 ) Resp. 468 d.
277 ) Resp. 468 e.
27 8) Resp. 469 b.
279) Cfr. voi. I, p. 180 ss.
1128 [n440] LIBRO lll - ALLA RICERCA DEL DIVINO

posizione dominante da lui data alla giustizia, consi-


derata origine prima e fondamento di tutto l'edificio
statale. Ma a una più minuta trattazione del problema
Platone verrà nelle Leggi, dove si troverà discussa que-
sta supremazia della fortezza nell'etica spartana 280).
Se letica platonica della guerra è, per necessità
naturale, arcaica in quel suo aspetto che riguarda le
relazioni dei guerrieri tra loro e la concezione di onore
e disonore militare, moderna è nelle norme che si ri-
feriscono alle relazioni col nemico 281). Tali norme non
si possono ricondurre che a una fonte: il vivo senso
del diritto dei più elevati e colti spiriti della Grecia di
quel tempo. Questo, per Platone, è il punto in cui il
sentimento nazionale, se pur non opera come forza for-
matrice dello stato, deve affermarsi come freno morale
di fronte alla lotta senza quartiere degli stati greci fra
loro. Era stata appunto la politica di sterminio condotta
dalle città greche durante la guerra peloponnesiaca e
nei decenni seguenti, durante i quali si era venuto sem-
pre più dissolvendo il mondo degli stati greci, che aveva
nutrito nei migliori la nostalgia della pace e concordia
tra i Greci. Questo desiderio sembrava certo ancor
molto lontano da una realizzazione pratica, in un mondo
in cui legge suprema di ogni concezione politica era
l'autonomia statale e l'interesse particolare delle sin-
gole città, ma esso aveva tuttavia rese sensibili le
coscienze contro la brutalità annientatrice che era
ormai la regola .nelle guerre tra Greci. La coscienza
della comunità di lingua, costumi, stirpe faceva apparir
contro natura così il fine come i mezzi di conflitti come
questi. Che i Greci si massacrassero a vicenda, mentre
il loro paese, la loro civiltà erano sempre più esposti

2so) Cfr. « Paideia» III 382 se.


:a1) Cfr. Resji. 469 b ss.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [11441] 1129

alla pressione di nazioni straniere e nemiche, era follia


suicida. E il pericolo tanto più cresceva quanto più
s'indebolivano gli stati greci. Platone scrive queste
sue norme di una legge di guerra panellenica negli
anni del risorgimento della potenza ateniese e della
seconda lega marittima, la quale poté imporsi alla fine
solo con una lunga guerra contro Sparta e i suoi alleati.
Perciò la sua parola ha un fortissimo accento di attua-
lità, e un valore di ammonimento agli stati della na-
zione greca in lotta tra loro.
Formalmente le norme di Platone sulla guerra sono
esposte in una maniera generica come se dovessero
valere in ogni specie di guerra, sia contro Greci, sia
contro barbari. Ma in realtà non c'è a sorreggerle un'idea
universale di umanit~ giacché in esse si fa una diffe-
renza di principio nel trattamento da usare con gli
avversari, secondo che siano greci o non greci. L'uma-
nità di cui qui si parla vale unicamente, o almeno
principalmente, per i Greci. I Greci sono per natura
affini tra loro e amici, i barbari, stranieri e nemici 282).
È la stessa idea su cui si fonda il panellenismo di
Isocrate, l'idea a cui si ispirò Aristotele quando dette
ad Alessandro il consiglio di governare i Greci da ege-
mone e i barbari da signore 283). Non si trova, però, in
Platone, almeno all'inizio, un'affermazione del principio
generale; più opportuna gli sembra, per immediata virtù
persuasiva, un'osservazione particolare: è ingiusto che

Resp. 470 c.
282)
Cfr. per l'atteggiamento panellenico di Isocrate, vol. III,
28 3)
cap. III. L'espressione di Aristotele, fr. 658 Rose, ci è conservata
da Plutarco, De Fort. Alexandri, 1, 6. La formulazione è eviden-
temente reminiscenza da Isocrate, De Pace, 134. L'atteggiamento
pratico di Aristotele di fronte alla democrazia ateniese come alla
politica panellenica segue la linea di Isocrate, come spero di poter
dimostrare altrove. Aristotele professa un platonismo moderato
solo nell'edificazione dello stato ideale.
1130 [!1442] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Greci riducano in schiavitù città greche 284). Ma anche


questo precetto, che si risparmino i Greci, è da lui
giustificato col timore della schiavitù da parte dei bar-
bari. Perciò egli vieta il possesso di schiavi greci nel
suo stato e vorrebbe che questo si adoperasse presso
gli altri stati perché osservassero lo stesso divieto 285).
L'effetto che egli da ciò si ripromette è che i Greci im-
parino a volgersi piuttosto contro i barbari che contro
la loro stessa gente 286). In questo punto Platone si avvi-
cina a Isocrate 287), tranne che egli si limita a formulare
la sua tesi in generale e non parla, come il retore, della
guerra contro i Persiani come di un mezzo per l'uni-
ficazione dei Greci. Più tardi, nelle Lettere, egli applicò
lo stesso pensiero politico· alla situazione dei Greci di
Sicilia di fronte al pericolo cartaginese e dette come
ragione della loro unificazione la necessità della difesa
contro i barbari 288). La linea del suo pensiero è dunque
cQerente, per quel · che riguarda relazioni di Greci e
barbari, e considera sempre fondato in natura che i
rapporti tra gli uni e gli altri siano di guerra, mentre
di una «guerra» tra Greci egli preferirebbe che non si
parlasse, potendosi dar guerra solo tra stranieri e ne-
mici, non tra congiunti. Gli soccorre qui un argomento
di cui gli oratori politici di quel tempo fanno largo
uso; la distinzione, cioè, tra guerra (7toÀe:µoç) e lotta
civile o sedizione (cr-r&cnç). Solo la seconda delle due
espressioni gli pare appropriata per i conflitti tra El-
leni 289). Egli li pone, dunque, sullo stesso piano con
le lotte interne a una città ed applica ad essi la stessa
284) Resp. 469 b.
285) Resp. 469 c.
286) Resp. 469 c.
287) Cfr. Isocr. Paneg. 3, 133 s.
288) Ep. VIl; 331 d ss.; 336 a; VIII, 353 a s.
2 89 ) Resp. 470 b, 471 a. Cfr. il lavoro del mio scolaro W. WoESS-
NER, Die synonymische Unterscheidung bei Thukydides und den
politischen Rednern d. Griechen, Wiirzburg 1937.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr443] 1131

regola e disciplina giuridica. In base a questa è da vie-


tare, per lui, che si devastino i campi, che si brucino
le case, forme tutte di ostilità che non sono consuete,
egli dice, nelle lotte tra cittadini di una città civile
del suo tempo, ma tali da chiamare su chi se ne rende
colpevole. la maledizione degli dei e da segnarlo col
marchio del nemico della patria 290). In una contesa
tra Greci, perciò, non è da considerat come nemica
la popolazione intera dello stato avversario; i vin-
citori si devono limitare ad esigere che i colpevoli
siano chiamati a render conto 291). Il massimo di danni
materiali che, secondo Platone, è lecito infliggere al-
i' avversario è la distruzione del raccolto dell'anno 292).
Infine, in tutti gli atti d'ostilità che avvenga di com-
piere in una guerra tra stati della stessa ·nazionalità,
un pensiero deve essere sempre presente: che lo scopo
naturale di essa è la riconciliazione con l'avversario,
non il suo annientamento 293).
Accanto, però, a queste norme sulla guerra contro
Greci si trovano disposizioni d'indole generale desti-
nate a valere per ogni specie di guerra. Cosi il divieto,
come di cosa indegna di un libero, di spogliare i nemici
caduti sul campo, pe.r puro amor di preda; nello stesso
modo è disonorante che s'impedisca al nemico di rac-
cogliere i suoi morti. La sola cosa che un guerriero
può prendere a un nemico caduto sono le sue armi 294).
Tuttavia deve cessare l'uso di appendere armi predate
come doni .votivi ai templi degli dei tanto più se sono
armi greche, poiché c'è da temere che esse siano, piut-
tosto che ornamento, profanazione del santuario 295).

290) Resp. 470 d, 471 a.


291) Resp. 471 a-b.
292) Resp. 470 b, d-e.
293) Resp. 470 e, 471 a.
294) Resp. 469 e-e.
295) Resp. 469 e-470 a.
1132 [n444] LIBRO lii - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Sono, queste, prescrizioni che in parte derivano da


un senso morale, di rispetto di se stesso, in parte da
una fede religiosa purificata. Esse formano il comple-
mento alle norme sul trattamento dei :qemiei della stessa
nazionalità, in quanto le une come le altre mirano a
una umanizzazione dei metodi usuali di guerra, che,
come Platone stesso ammette, erano, presso i Greci,
ben lontani dai suoi postulati. Esse non sono, perciò,
un semplice sommario degli usi di guerra in vigore;
anzi costituiscono un attacco audace alle condizioni
reali. La realtà, in questo campo, è· barbarica per Pla-
tone, e questo egli dice indirettamente quando pro-
pone che si limitino i costumi di guerra attualmente
praticati dai Greci, alla guerra contro i barbari 29 6). Si
pensi, per valutare il progresso della sensibilità etica
che queste norme rivelano, che al tempo di Platone
era ancora diritto di guerra fare schiavo il nemico
prigioniero. Ancora nel sec. XVII Ugo Grozio, il grande
umanista, il padre del moderno diritto internazionale,
nella sua opera De iure belli acpacis, dichiara non es-
sere contro natura il ridurre in schiavitò. il nemico pri-
gioniero. Egli stesso, però, alla fine del capitolo De iure
in captivos cita lo storico bizantino Gregoras a testi-
mone del fatto che Romaici e Tessali, Illiri, Triballi
e Bulgari, sul fondamento della loro comunità nella
fede cristiana, osservavano per antica tradizione la
norma di limitarsi, nelle guerre tra ·loro, a depredare
il nemico delle robe, senza ridurre in schiaviru le per-
sone, e di non uccidere alcuno fuorché sul campo di
battaglia. Secondo Grozio, dunque~ soltanto il cristia-
nesimo poté raggiungere quel fine che il Socrate pla-
tonico aveva vanamente cercato di indicare ai Greci,
come imposto dal solo istinto di conservazione nazio-

296 ) Resp. 471 b.


CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr445l 1133

nale 297). Lo stesso Grozio, però, nota che i maomet-


tani osservano, nelle guerre contro correligionari, le
stesse norme di diritto internazionale. Si deve perciò
generalizzare ed estendere la sua affermazione, nel
senso che né lo Stato antico né l'idea nazionale del
IV sec., avevano in sé di che render possibile l'at-
tuazione delle idee di Platone su questo punto, e che
solo poté attuarne una parte la comunità di molte
genti in una fede, propria delle posteriori religioni uni-
versali. Una tale comunità fondata su base religiosa
era senza dubbio più vasta e comprensiva di quella
su base nazionale, alla quale Platone aveva diretto
le sue norme. Essa tuttavia era in qualche in.odo af-
fine allo schema platonico, in quanto anch'essa non
ahbracciava un'astratta umanità universale, ma s'iden-
tificava con la concreta comunità dei credenti, cri-
stiani o maomettani, il. cui nesso, anche nella guerra,
non cessa di vincolare· le genti che la compongono.

La repubblica ideale come sede perfetta dell'uomo filo-


sofico. - Il disegno dello Stato perfetto è ormai tutto
ahbozzato. Platone non ha, su questo tema, più nulla da
dire, prima ancora di essere arrivato a metà dell'opera
e senza che questa abhia raggiunto il punto culminante.
Ora s'impone un'altra questione: questo Stato perfetto
testé ·disegnato può realizzarsi ? e come ? 298) Siamo a
una svolta del discorso, in cui Platone si ferma a ri-
guardar la sua opera con certo distacco di giudice.
« Socrate» si paragona a un pittore che abbia appena

287) De iure belli ac pacis p. 557 (ed. Molhuysen, Leyden 1919).


Grozio, naturalmente, considerava il capitolo della Repubblica
sul diritto di guerra, come un'autorità di prim'ordine.
298) Resp. 471 c-e.
1134 [!1446] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

levata la mano da un meraviglioso dipinto: l'immagine


ideale dell'uomo perfettamente giusto, della sua natura
e della sua beatitudine 299). E l'immagine cosi disegnata
prende ancora maggior rilievo e determinazione dalla
figura che le è contrapposta dell'uomo assolutamente
ingiusto nella sua infelicità. Questo ritratto Platone
lo chiama paradigma; esso è cioè ritratto e modello
nello stesso tempo 300). Dal paragone della costruzione
ideale socratica con l'immagine dell'uomo più bello
risulta chiaro quale è per Platone il tema vero della
sua Repubblica: non soltanto né prima di tutto lo stato,
ma l'uomo nella sua facoltà di edificatore dello stato.
E se anche Platone adopera lo stesso termine di « pa-
radigma» anche per lo stato, questo tuttavia non può
essere direttamente raffrontato, con paragone imme-
diato, all'uomo più bello 301), a cui piuttosto corrisponde
il tipo ideale del vero giusto, il soggetto vero, come
dice Platone, del suo quadro 302). Perciò lo stato perfetto
è solo lo spazio adatto perché egli possa farvi campeg-
giare la figura che intende disegnare, la figura del-
l'uomo, giusto. Questo modo platonico di definire la
propria opera concorda col risultato della nostra analisi.
La Repubblica di Platone è un'opera di formazione
della personalità umana; opera politica, pertanto, ma
nel senso che a questa parola dà Socrate, ben lontano
dal senso usuale 303). Tuttavia la grande verità nuova
che la Repubblica rende evidente, anche in quel campo
educativo che le è proprio, è l'esistenza di una corre-

2 99 ) Resp. 472 c-d.


800) Resp. 472 c, 472 d.
301 ) Resp. 472 d 9.
302) Resp. 47.2 d 5, cfr. c. 5.
. 303) Cfr. supra, pp. 100-102, 220. La politica socratica è «cura
dell'anima» (<jiux.'ìjç huµ.éÀeLoc). Chi si prende cura dell'anima,
si prende cura, con ciò, della « polis in se stessa».
CAP. IX: LA l,UPUBBLICA, I [11447] 1135

lazione precisa tra figura e spazio, principio sicuro nelle


arti, che è anche legge del mondo morale. L'uomo per-
fetto può essere formato solo all'interno di uno stato
perfetto, e, inversamente, la formazione di un tale
stato è problema di formazione umana. Qui è la ra-
gione della corrispondenza che in ogni momento si
constata, nella Repubblica, tra l'interna struttura del~
l'uomo e quella dello stato, tra tipi umani e tipi di
stato, qui il chiarimento migliore del perché Platone
insista tanto sull'importanza dell'atmosfera di vita
pubblica per la formazione dell'uomo.
Ma Platone suggerisce anche allo spettatore il retto
atteggiamento da assumere di fronte al quadro :filoso-
fico dipinto da Socrate. Chi guarda un «paradigma»
guarda una perfezione assoluta, e questa .merita la sua
ammirazione, sia che possa attuarsi nella realtà sia
che non lo possa 304). Nel concetto stesso di perfezione
è implicito che la completa attuazione non è possibile,
e che 'al massimo sono consentite approssimazioni 305).
Ciò, beninteso, non significa che l'imperfezione debba
diventare essa l'ideale. L'ideale nella sua purezza, come
filosofica opera d'arte mantiene sempre, come il ri-
tratto dell'uomo perfettamente_. bello, il suo valore di
bellezza, che non dipende da consideraziòni pratiche.
Però quando Platone definisce come modello il quadro
dipinto da Socrate egli si riferisce anche, oJtre che alla
bellezza in sé, all'insopprimibile istinto imitativo del-
l'uomo. I due concetti di paradigma e di mimesi, di
modello e d'imitazione, costituiscono una coppia in-
dissolubile di formazione antichissima, su cui si fonda
tutto l'edificio della paideia· greca. In questo edificio,

30&) Resp. 472 d, cfr. e.


305) Sul rapporto di ideale e realtà e sulla «approssimazione»
all'ideale, cfr. Resp. 472 e, 473 a, b.
1136 [11448] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

come un nuovo piano, una nuova fase di sviluppo,


Platone inserisce la sua «Repubblica». La retorica
del suo tempo gli parlava di paradigmi, mitici e storici,
e se ne valeva, come di modelli esemplari per lazione,
nell'arte dell'eloquenza suasoria. Come si è mostrato
in pagine precedenti, questo modo greco di pensare
per paradigmi risale fino alla poesia dei tempi più
antichi che in questo spirito aveva esposto gesta e fi-
gure del mito 306). E tutto l'ethos educativo che informa
l'antica poesia poggia appunto su questo modo di ve-
dere il mito. Perciò quando Platone designa il suo fin-
gersi uno stato ideale o un uomo ideale come un «far
miti» 307), egli, più chel'irrealtà di essi, significa la loro
esemplarità. Anche nell'arte figurativa è parallelo e
sinonimo di tali concetti quello di « canone», cioè di
figura umana che deve valer di modello estetico in
tutte le sue forme e proporzioni 308). Ma nel concetto
platonico di paradigma è contenuto in più il momento
del modello etico. Con ciò Platone si riallaccia imme-
diatamente alla poesia antica e scende in gara con
essa. Consapevole dell'attrattiva emanante dalle figure
della. poesia, · del loro potere di chiamare l'imitazione,
egli sente che un tal potere non compete al pensiero
filosofico volto all'universale. Ed ecco che al suo oc-
chio di poeta il concetto universale di ciascuna virtù
si trasforma subito nel tipo umano che la incarna e la
giustizia gli si presenta nella figura dell'uomo perfet-
tamente giusto 309). E non è, questo, l'unico caso in

806) Cfr. vol. I, p. 94 s.


307 ) Resp. 501 e.
806) Cfr. Polyclitus, fr. A 3 Diels.
3119) Cfr. Resp. 472b-c, dove la giustizia e l'uomo giusto appaiono
l'una accanto all'altro. In seguito, l'etica aristotelica specialmente
sviluppò questo metodo di tipizzare i concetti universali etici,
e usò rappresentare il magnanimo accanto alla magnanimità,
l'uomo generoso accanto alla generosità, e così via.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n449] 1137

cui ciò avvenga. L'esigenza di formar paradigmi è


costante nel suo spirito a produrre sempre nuovi tipi
umani, tipi ideali di ogni atteggiamento etico e forma
di vita. Questa personificazione tipizzante diventa per
lui radicata abitudine di pensiero. Questo è lo sfondo
su cui si debbono porre, per capirli, lo « stato perfetto»
e « l'uomo veramente giusto» della Repubblica, modelli
ispiratori che aspettano di divenir realtà per mezzo
dell'imitazione.
Per realizzarli, però, qual è l'adatto punto di par-
tenza ? Se è vero che la figura ideale dell'uomo giusto
può sorgere e affermarsi solo in uno stato perfetto,
allora l'educazione, cui spetta di creare questo tipo,
diventa, alla fine, una questione di potenza. Certo,
anche gli stati della realtà attuale tendono alla po-
tenza, ma essi ne fanno uno scopo per se stessa, come
ha mostrato il Gorgia 310), e, pertanto, non sono atti al
compito educativo in cui sta, per Platone, l'essenza
dello stato. Quindi una soluzione costruttiva del pro-
blema greco della formazione dell'uomo, una soluzione
in senso socratico, che porti con sé un alleviamento
dei mali sociali del presente, sembra a lui impossibile
finché potenza politica e spirito filosofico non ven-
gano a coincidere. Di qui viene la famosa sentenza di
Platone, che la miserabile condizione politica del mondo
non avrà fine finché i filosofi non diverranno re o i
reggitori non prenderanno veramente a filosofare 3ll).
Proposizione, questa, in cui consiste il vero centro
dello stato platonico. Essa non è il motto acuto e bril-
lante destinato all'effetto del momento. È l'espres-
sione adeguata di una soluzione ideale di quel conflitto
tragico tra stato ed educazione filosofica, che noi siam

310) Cfr. supra, p. 224 ss.


311 ) Resp. ·473 c-d.
1138 (II450] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

venuti mostrando nelle prime opere di Platone 312). Que·


sto conflitto si era sinteticamente simbolizzato nel pro-
blema della morte ·del giusto, problema ·che era stato
il centro del pensiero platonico nella sua prima fase.
Allora era sembrato che la rottura tra spirito e stato
dovesse essere totale 313); ora invece, nella Repubblica,
si eleva sopra il tumulto di questo conflitto di giganti
la visione di un nuovo cosmos, che assorbe i valori
positivi dell'antico ordine e si vale delle antiche forme~
La necessità del governo dei filosofi risulta per Pla-
tone dalla consapevolezza che la forza costruttiva di
questo nuovo mondo è la :filosofi.a, cioè lo spirito, che
lo stato aveva voluto distruggere nella persona di So-
crate. Essa sola, dopo aver prodotto nel pensiero lo
stato perfetto, è capace di tradurlo nella realtà, pur·
ché per questo le venga dato il potere.
Questo è il primo momento nella Repubblica, in cui
la filosofia si pone nel primo piano della trattazione.
Rimasta finora celata dietro la propria opera, dietro
il quadro ideale dello stato che si veniva formando,
essa proclama ora apertamente il suo diritto alla su-
premazia. Non si tratta di volontà di p~tenza nel senso
solito, e se un contrasto sembra profilarsi tra questa
pretesa di supremazia e l'atteggiamento platonico pre·
cedente di critica allo stato e alla sua potenza, questo
contrasto è proprio soltanto apparente 314). Già quando
Platone. nel Gorgia biasimava la pkonèssia del potere
statale, egli sottintendeva chiarament~ il diritto della
:filosofia di assumere essa il potere. Nel Gorgia non era
condannata la potenza .come « malvagia in sé»; sol-
tanto che il concetto di potenza era sottoposto là a una
radicale purificazione dialettica che gli toglieva la mac·

812) CTr.
suprb., pp. 120, 161.
al&) Cfr. supra, p. 267.
81') Cfr. supra, p. 225.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [II451] 1139

chia della passione egoistica 315) •. Platone aveva cosi li-


berato la potenza dall'arbitrio e l'aveva ricondotta al
puro volere, il cui fine immutabile è per natura il bene.
Nessun essere umano può volere ingannarsi nel rite-
nere qualcosa buono e salutare. La vera potenza può
consistere solo nella capacità di soddisfare la tendenza
naturale a questo fine, ed essa, perciò, presuppone la
conoscenza reale del bene. Così la filosofia diventa, in
maniera paradossale, la via alla potenza vera. Anche
nella Repubblica Platone deduce il diritto della :filosofia
alla supremazia, immediatamente dal concetto di essa.
Certo, è .necessario che questo concetto sia più precisa-
mente definito, e ciò tanto più che qui esso è intro-
dotto inaspettatamente. Platone comincia col sorpren-
dere il lettore con quella sua tesi paradossale, stimo-
lante, della supremazia dei filosofi e solo dopo si ac-
cinge a giustificarla con una discussione sulla natura
del filosofo, nella quale dimo&tra per qual ragione
proprio il filosofo sia l'uomo adatto per natura alla
funzione di reggitore 316). Basta che questa proposizione
sia pronunziata perché subito affiorino alla nostra me-
moria tutte le lunghe complicat~ discussioni dei primi
dialoghi sul problema dell'azione retta, cioè della vera
virtù e del genuino sapere, e d'un tratto ci si fa chiaro
che tutto quel ricercare era diretto unicamente a quel
fine che ora ci si svela. È impossibile che Platone, in
questo luogo della Repubblica, creda davvero di poter
dare con poche parole un'idea chiara dell'essenza della
filosofia, un'idea che possa pareggiare in efficacia l'im-
pressione dei suoi primi dialoghi. Qui, come altrove e
spessissimo nella sua opera, egli, piuttosto, li presup-

Cfr. supra, p. 228.


81&)
L'esposizione del concetto di filosofia riempie il resto del
316 )
LI da 474b in poi.
1140 [II452] UBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

pone. Pure, on criterio di economia artistica, nell'in-


terno della Repubblica, esigeva che il lettore avesse
l'illusione di esser costretto, a dir così, per la prima
volta a riflettere seriamente sulla filosofia; e in certo
senso, è davvero cosi, perché la filosofi\l con questo
suo affermato diritto a regger lo stato, è . investita
di una nuova, sorprendente luce, sicché anche il più
ortodosso e candido dei suoi ammiratori e seguaci si
sente incitato a rinnovare il punto di vista da cui è
solito guardarla, a prender di nuovo posizione di· fronte
ad essa.
Non c'è cosa che più colpisca e avvinca il lettore
moderno, di questa incrollabile fiducia di Platone nel
vigore della filosofi.a, che lo conduce a immergerla nel
vivo della realtà e a porla dinanzi ai compiti pratici
più imponenti. La filosofia, nell'isolamento in cui at-
tualmente vive, stenta essa stessa a rendersi conto,
come soltanto i cimenti che le furono imposti da quei
compiti gravi, le impressero quel carattere di gran-
dezza che distingue la sua prima fase creativa. Senza
dubbio, il motto rassegnato di Hegel, per cui la ci-
vetta di Minerva vien fuori a volo soltanto al crepu-
scolo, coglie nel segno, e il senso di questo crepuscolo
diffonde la sua ombra tragica sull'eroico sforzo di Pla-
tone, tentativo estremo dello spirito di salvare il va-
lore ·dello stato. Pure anche le civiltà che invecchiano
hanno una loro giovinezza, e la filosofia di Platone sente
di essere, del suo tempo, la forza giovanile. Perciò
le si accompagna l'entusiasmo della generazione gio-
vane, che Platone si compiace d'immaginare raccolta
intorno a Socrate per instaurare una nuova fede di
fronte allo stato invecchiato e scettico, alla civiltà
troppo matura del suo tempo. A questo compito la
filosofia si sentiva· chiamata non, tanto perché era essa
stessa n.na potenza fondata su una grande tradizione
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n453] 1141

storica che poteva allineare i nomi p1u venerandi di


pensatori di ogni tipo: ricercatori della natura, solutori
dell'enigma del mondo, esploratori del cosmo; non
tanto per tutto ciò, quanto · per la consapevolezza di
possedere la nuova forza emanante da Socrate, la
forza di dare alla comunità. umana la conoscenza rinno-
vatrice delle vere norme della vita.
Questo è l'aspetto in cui Platone presenta la na-
tura della filosofia, nella Repubblica. In poche righe
egli dà come un catechismo della filosofia, in cui de-
finisce la sua natura dall'oggetto di quel sapere che
è propriamente filosofico. Filosofo è colui che non
si abbandona alla molteplicità d'impressioni dei sensi
per essere sbattuto per tutta la vita per l'incerto
mare dell'opinione, ma che tiene lo spirito rivolto sem-
.pre all'unità di ciò che è 317). Egli solo possiede cono-
scenza e sapere nel vero senso; nel multiforme indivi-
~uale delle apparenze, egli solo coglie la forma fonda-
mentale, costante, universale deile cose, «l'idea». A lui
solo compete di definire quel che è beJlo e giusto in sé;
i giudizi dei più, su queste cose e su tutto il resto, oscil-
lano continuamente in una penombra, tra il non .es-
sere e il vero essere 318). Né gli uomini di stato sono in
questo diversi dalla massa. Essi hanno si gli occhi ri-
volti, come a modelli, a costituzioni politiche e leggi
d'ogni sorta, ma costituzioni e leggi non sono, come
Platone dice nel Politico, che imitazioni della verità 319 ).
Quindi, chi non sa fare nulla di meglio che imitarle, non
è altro che un imitatore di imitazioni. Solo il filosofo è
l'uomo che ha in sé, nell'anima propria, un chiaro pa-
radigma 320). In un'età di universale incertezza egli tiene
817) Resp. 476 a ss.
318) Resp. 479 d.
819) Politicus, 300 c.
s20} Resp. 484 c. Cfr. 540 a, dove il paradigma è più preci!.o.-
mente definito come idea del bene.
1142 [n454J LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

fermo l'occhio a questa norma. La capacità di ricono-


scerla è quella facoltà di visione che il vero « custode»
dello stato deve possedere prima di tutto. Se il filo-
sofo unisce ad essa esperienza e tutte le qualità di or-·
dine pratico necessarie alla guida dello stato, supera
egli di molto la statura dei politici usuali 321).
Questa descrizione del filosofo illumina la situa-
zione spirituale da cui prende le mosse la teoria pla-
tonica dello stato. Il male di cui soffre il mondo poli-
tico e morale è per Platone la mancanza di un'istanza
suprema, che indichi la meta e ponga la legge. La crea-
zione di una tale istanza era stato il problema dell'età
più antica, e da esso si era sviluppata la democrazia,
che lo aveva risolto col riconoscere, come potere legi-
slatore, la volontà della maggioranza. Questo sistema,
che si fondava su un'alta stima dell'individuo, rappre-
sentò per lungo tempo la forma più progredita dell'or-
ganizzazione statale. Ma, come gli altri, esso aveva le
sue umane imperfezioni. Nelle principali città della
Grecia, il sistema si svolse in modo da divenire sempre
più strumento in mano di agitatori senza scrupoli, la
·cui educazione era stata opera di quella classè di per-
sone che è nota col nome di Sofisti. Platone descrive
questi demagoghi come una specie di domatori di belve,
intenti in tutta la vita a un solo studio, quello degli
umori della «gran bestia», della massa, e capaci d'in-
tendere, al vario suono del suo ruggito, la lingua della
sua soddisfazione come quella del suo corruccio. L'arte
loro consiste nel saper come prendere questa fiera e
nel dominarla, col blandirla e accomodandosi ai suoi
mutevoli umori 322). In questo modo il beneplacito della
messa viene innalzato a criterio supremo dell'azione poli-

811) Resp. 484 d.


Hl) Resp. 493 a-e.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [II455J 1143

tica, e lo spirito di conformismo penetra a poco a poco


ogni manifestazione della vita. Un'educazione reale de-
gli uomini, un'educazione orientata sul criterio di va-
lori durevoli è resa impossibile da questa generale ten-
denza a soddisfare sempre i gusti della massa 323). Da
tali considerazioni è animata la critica socratica - che
ha parte così importante, fin da principio, negli scritti .
di Platone - rivolta all'incompetenza degli oratori po-
litici nella trattazione dei pubblici affari. Già nel · Gor-
gia Platone confronta questa retorica politica con l'at- .
teggiamento mentale del filosofo, subordinante ogni
azione alla conoscenza del bene, fine supremo 324), e
nella Repubblica, coerentemente, egli considera la co-
noscenza della norma suprema, che il filosofo ha in
sé quale modello esemplare~ come pietra di paragone
del vero reggitore 325).
La struttura della Repubblica tutta si spiega a chi
si mette da questo punto di vista. La filosofia appare
a Platone salvatrice nella sventura, come colei che pos-
siede la soluzione dei problemi più urgenti della so-
cietà umana. Supposta l'esistenza di una tale scienza
suprema della norma, nel senso platonico 326), è natu-
rale e necessario che di n si debba partire, chi si mette
a ricostruire lo stato pericolante. Il seggio regale nello
stato, spetta alla conoscenza del vero, che non è cosa
di tutti, ma solo di alcuni pochi. Platone non parte
dal problema psicologico di come si debbano ma-
neggiare le masse, ma si dalle esigenze che l'uomo
intellettualmente e moralmente elevato deve far va-
323) Resp. 493 a 7, e 8.
324) Cfr. pp. 217 ss., 253.
820) Cfr. la nota 320.
3 26) Per lo storico ed espositore della teoria platonica della
paideia non è nna petizione di principio, l'accettar come vero il
punto di partenza, per mostrar poi come, dato questo presupposto,
doveva conftgµra:rsi la soluzione. Quanto al presupposto in sE,
è compito della filosofia sistematica, saggianie l'esattezza.
1144 [11456] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

lere sullo stato per potersi dedicare a esso con tutte


le forze della sua anima 327). In nome di ciò che
nell'uomo è di più alto, Platone afferma la necessità
di dare il potere al filosofo, e tutte le caratteristiche
più singolari della sua repubblica - l'organica strut-
tura per classi, il carattere autoritario del governo -
nascono unicamente dall'esigenza fondamentale che nello
stato domini la conoscenza della verità assoluta. È que-
sto un edificio semplice e logicamente concluso da cui
non si può togliere alcuna pietra, né cambiarne una
con un'altra. Tolta al reggitore la sua qualità di filo-
sofo, possessore della conoscenza assoluta, gli si è tolto
anche il fondamento della sua autorità, che poggia,
non su qualche innata e mistica grazia, ma sulla forza
persuasiva della verità, alla quale tutti, in uno stato
come questo, saranno pronti a sottostare, educati come
sono nel suo spirito. La conoscenza della norma su-
prema, chiusa nell'anima del filosofo, è la pietra ango-
lare dello stato platonico, che è lo stato dell'educazione.

Ma ammesso tutto questo, o, almeno, concessa tutta


l'importanza che essa merita alla conoscenza della
norma suprema in uno stato ideale, c'è pure un'altra
difficoltà che sembra opporsi alla conclusione di Pla-
tone, a questa sua pretesa che solo al possessore di
una tale scienza spetti di diritto il· dominio: ed è quel-
l'incapacità nella vita pratica che, come l'esperienza
insegua, è piuttosto comune nei :filosofi 328). Questa obie-
zione, che Platone si accinge ora ad affrontare, non è
nuova. In fondo essa s'identifica con quella avanzata
già nel Gorgia da Callicle, quando sosteneva che, sì,
la filosofia serye a qualcosa, nell'educazione, quando la si

327) Resp. 497 h.


328) Resp. 487 d 88.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n457J 1145

pratica in giovinezza, per qualche anno, ma che, come


occupazione duratura, ha effetto debilitante e rende
l'uomo inutile per la vita 329). Anche qui come nel
Gorgia Platone rifiuta questo concetto meschino della
paideia, che la intende come un limitato periodo di
studio. E risponde all'obiezione con un'immagine
(e:1.xc1v) che, senza grande sforzo di fantasia, si preste-
rebbe a esser tradotta in un disegno di testata per un
giornale di satira politica 336). S'immagini un capitano
di nave, grande e grosso e forte, ma piuttosto duro
d'orecchio e che ci veda poco, e che, anche di naviga-
zione, poco s'intenda. Questo è il popolo. Intorno a
lui, i marinai intenti a disputarsi sul pilotaggio della
nave e a pretendere, ciascuno, che il timone sia affi-
dato a lui; immagine allegOl'foa dei politicanti in con-
tesa tra loro per il più alto posto dello stato. Essi
non credono che quella deTpilota sia un'arte, e che
la si possa imparare; ciascuno di loro s'immagina di
poter guidare, senz'altro, il vascello. Se qualcuno non
li ascolta, se non consente a lasciar loro il timo~e,
diventano violenti e lo buttano subito fuori bordo;
quanto poi al timoniere vero, il solo che saprebbe
tener bene in mano la barra, lo ubriacano o lo narco-
tizzano, insomma gli impediscono di far l'arte sua; e
c:osì se ne vanno, in festa e baldoria, per l'alto mare.
Come pratico e intenditore di nautica, lodano chi dà
loro una valida mano nel lavoro di terrorizzare il ca-
pitano e di appropriarsi la condotta della nave. E in-
vece, com'è naturale, l'unico che s'intenda davvero di
navigazione, l'uomo che ha imparato il suo mestiere,

329 ) GoTg. 485 a o!ov 7tcxdìdcxç x&p~v. Platone affronta l'ac-


cusa di cive:Àe:u&e:plcx, mossa da Callicle nel Gorgia all'educazione
filosofica, in Resp. 486 a. Questa difesa è rivolta anche contro Iso-
crate, che, di fronte al problema della :filosofia platonica come
paideia, ha un atteggiamento assai vicino al Callicle del dialogo.
330) Resp. 488 a-f.
1146 [u458] LIBRO IIl - ALLA RICERCA DEL DIVINO

lo scherniscono e lo chiamano acchiappanuvole e chiac-


chierone perdigiorno.
La cura di Platone, in questo punto, è di distin-
guere molto nettamente tra la formazione da richie-
dersi al :filosofo, adombrato dall'immagine del vero
pilota, e quella « paideia » a cui pensava Callicle, buona
a occupare per qualche anno di buon tempo i figli
di gente come lui, di signori distinti e colti, prima che
debbano affrontare la cosiddetta « serietà della vita».
È chiaro che, in paragone con questa « paideia >>, la
scienza attraverso la quale si è formato il pilota fa
la figura d'essere una povera disciplina tecnica, senza
alcun. respiro umanistico. Essa è esplicitamente edu-
cazione professionale, che nell'esercizio della profes-
sione trova applicazione e in esso si continua. Sembra
dunque che Platone non si associ al grido d'allarme
di sofisti e umanisti contro il professionalismo nell'edu-
cazione. Ciò suona come un paradosso, detto dell'uomo
che assegna pregio cosi alto al sapere per se stesso 331).
In realtà il paradosso si chiarisce pensando che la
paideia platonica doveva esser difesa dall'accusa di
assoluta mancanza di scopo, accusa mossale dagli edu-
catori contemporanei, soprattutto da Isocrate 332). Essa
ha uno scopo e serve a un compito preciso; al più alto
compito che possa darsi per l'uomo, e che è di con-
durre a salvazione coloro che sono col «timoniere»,
nella stessa barca. L'immagine del timoniere è scelta
con appropriatezza per mettere in rilievo due ele-
menti: l'indispensabilità, nell'interesse di tutti, della
scienza che lo distingue, e l'incapacità del resto della
ciurma a capire la superiorità dell'arte di lui. Sia il
suo sapere necessario quanto si voglia a condurre la

331) Cfr. p; es. Resp. 499 a, dove « la ricerca della verità per la
conoscenza» è considerata nota caratteristica del filosofo.
88 2) Cfr. « Paideia» III, capp. II e VI.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [1145911147

nave; egli rimarrà sempre per gli altri l'acchiappa-


nuvole e il chiacchierone perdigiorno 338), perché l'opera
sua richiede teoria e metodo troppo superiori a quel
che essi possano concepire. Un altro elemento notevole
di questo quadro allegorico è la ripetuta affermazione
della appzendibilità dell'arte nautica in contrapposto
all'illusione dei marinai, che si tratti di cosa di pura
pratica 334). Qui Platone riprende dal Gorgia il concetto
di arte politica 335), e si sente anche nelle sue parole un
ricordo dei dubbi iniziali di Socrate nel Protagora,
sull'apprendihilità della virtù politica 336). Già, però, alla
fine di quest'ultimo dialogo, i suoi dubbi erano venuti
meno, ip quanto la virtù gli era apparsa scienza del
bene 337). Ora, nella Repubblica, Platone non consente
più al suo Socrate, dubbi di sorta, su questo punto.
Cosi egli ci prepara, con l'immagine della vera arte
nautica, che è insegnabile, all'esposizione seguente della
sua arte di navigazione politica, che è l'educazione filo-
sofica del reggitore 338).
Ma questa « immagine» non basta ancora a Pla-
tone per confutare l'accusa di inutilità rivolta al filo-
sofo; essa, anzi, funziona soltanto da . battuta intro-
duttiva, ben chiara e segnata, per una approfondita
analisi della situazione del filosofo nella comunità po-
litica 339). Lo scetticismo generale sulla capacità poli-
tica del :filosofo si fonda soprattutto su motivi psicolo-

333) Resp. 488 e.


334) Resp. 488 b, e.
335) Gorg. 462 b, 464 h.
336) Prot. 319 a 8.
337) Prot. 361 a.
338) Sull'origine dell'educazione in generale dall'educazione
politica cfr. « Paideia », I, p. 216 ss.
339) Platone anticipa spesso, con un'immagine (e:txc!:iv) come
questa, il resultato di un'indagine razionale. Di cib l'esempio più
not~vole è la similitudine della caverna al principio del VII della
Repubblica, la quale anticipa tutto il significato e la tendenza del
sistema della paideia svolto nel libro stesso.
1148 [rr460] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

gic1; è perc10 necessario per affrontarlo, addentrarsi


nella psicologia dell'uomo filosofico. L'analisi, però, non
è condotta come su un fenomeno isolato. Essa è un ca-
polavoro di descrittiva tipologica che, non limitandosi a
una pura enumerazione astratta delle qualità di un certo
genere d'uomini, cerca di comprenderfo nel gioco di
azioni e reazioni con l'ambiente sociale che lo circonda.
Platone prende molto sul serio i dubbi che si elevano
sulla vocazione politica del filosofo. Questi gli servono
d'occasione per liberarsi, come di inutile zavorra, di
molte qualità che di solito al nome di filosofo sembrano
necessariamente congiunte. La filosofia, cosi ridotta al
vero e all'essenziale, può essere da lui più risoluta-
mente difesa. Ma, proprio per questo, ogni apparente
concessione che egli faccia ai suoi critici, gli si tra-
muta in accusa contro il mondo. Il quadro che egli
disegna del destino del filosofo si conclude in un senso
di tragicità profonda. Questa, se altra mai, è nelle
opere di Platone, una pagina scritta con tutto il cuore,
con tutta la vita. Non è più solo a muoverlo, il de-
stino, fattosi simbolo ormai, di Socrate. Con esso si
mescola la storia del suo proposito più alto, la storia
di una rinunzia, di un cedere delle forze di fronte al
. compito che un giorno gli era apparso « il suo».
Ad esser precisi, la difesa comincia già prima che
siano esposte le critiche solite a muoversi contro i filo-
sofi. Fin qui Platone ha definito il filosofo solo in base
all'oggetto della scienza di lui 340). Ora, egli procede a
dare una descrizione caratterizzante la natura del filo-
sofo Ml), che è indispensabile a che si comprenda la
sua tesi del governo ai filosofi; e ciò tanto più per il

HO) Così nella chiusa del L V,


841) Resp. 485 e ss., efr. la breve ricapitolazione delle proprietà
dell'indole filosofica in 487 a.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [!1461] 1149

lettore moderno che, con quella parola greca accolta nei


nostri linguaggi, associa facilmente l'idea di « studioso
professionale». Il philosophos di Platone non è nn pro-
fessore di filosofia o un altro qualunque tipo di scien-
ziato universitario, il quale pretenda a un tal titolo
per l'assidua coltivazione di un suo campicello di sa-
pere (-rexvuap~ov) 342). Ancor meno è un «pensatore ori-
ginale», ché non sarebbe possibile che esistessero in-
sieme, in un solo tempo e luogo, tanti pensatori quanti
ce ne vorrebbero per la repubblica di Platone. Sebbene,
come tra poco si vedrà meglio, la parola, nella lingua
di Platone, implichi la presenza di un grande addestra-
mento dialettico, essa mantiene ancora, e prima di
ogni altro, il più comprensivo significato originario di
« amico della sapienza», designante il tipo più elevato
e più colto di personalità umana. Il « filosofo » che
Platone ha in mente è uomo di memoria tenace, di
comprensione rapida, di gran qesiderio di sapere. Alieno
da ogni piccineria e minuzia, il suo occhio è volto sem-
pre, in ogni cosa, all'insieme e abituato a guardare dal- .
l'alto l'esistenza e il tempo. Della vita non fa gran
conto e poco si cura dei beni .esteriori. Ogni suo atto
spira dignità e grandezza, ma ·congiunte ad amabilità.
È amico e « congiunto » di verità, giustizia, fortezza,
temperanza. Quanto alla possibilità che un tal tipo
di uomo si realizzi, Platone crede ~he essa si dia, quando
concorrano selezione precoce e continua, educazione
ottima e maturità di anni 343). Questo suo ritratto del
filosofo non somiglia al tipo dello scolaro dei Sofisti. Il
tipo poi di « intellettuale», di colui che, senza impe-
gnarsi in nulla, non fa che criticare tutt~ e tutti, gode

342 ) Resp. 475 e, cfr. 495 c 8-d.


343) Resp. 487 a 7. Il valore dell'esperienza è fortemente rile-
vato anche in 484 d: essa ha importanza uguale alla formazione
filosofica.
1150 [!1462] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

la più sovrana disapprovazione da parte di Platone


e non ha accesso al suo tempiò 344). Il punto essenziale
per Platone è l'armonia tra intelletto e carattere. Per-
ciò egli chiama anche il suo :filosofo •semplicemente
con l'espressione comprensiva di kalokagath6s 345).
L'accusa di inutilità rivolta a quest'uomo ricade
in realtà su coloro che non sanno renderlo utile. Carat-
teri di questo genere, che già per natura non possono
essere frequenti, sono poi esposti, vivendo in mezzo
alla massa, a innumerevoli pericoli e costantemente
minacciati di rovina 346). Il pericolo in parte sta in ag·
guato in loro stessi. Infatti ciascuno dei pregi sopra
nominati, fortezza, dominio di sé ecc., può trasfor·
marsi, se sviluppato unilateralmente e non insieme con
gli altri, in un ostacolo a una formazione veramente
:filosofica 341). Altro genere di ostacoli sono bellezza e
forza fisica, parentela influente, e beni dello stesso ge-
nere 348). La buona crescita dipende da appropriato nu·
trimento, dalla stagione, dalla località : ora, questo
principio generale, valevole per ogni pianta e animale,

844) Cfr. Resp. 500 b. L.e parole di Socrate suonano:« Non sei
d'accordo anche in questo, che della cattiva disposizione dei più
verso la filosofia hanno colpa quei tali che, come una brigata in
baldoria, le sono piombati in casa importuni, ingiuriandosi a vi-
cenda, nemici l'uno dell'altro, non d'altro occupati che a parlar
di persone, che è cosa sconvenientissima alla filosofia ?».
346) Resp. 489 e. Anche nell'Etica Eudemia di Aristotele, che,
in questo punto come in altri, è ancora vicina a Platone, l'uomo
fornito della virtù perfetta, che aduna in sé tutte « le parti della
virtù», è designato col predicato della kalokagathia (VIII 3,
1248 h 8). Più tardi, nella Nicomachea, Aristotele sopprime anche
questo come altri elementi platonici. ~ importante, speciaJmente
per chi ha imparato, con Platone, a concepire la sua filosofia come
paideia, il notare come il « filosofo» platonico non sia che I'antico
kalokagath6s, il supremo ideale di formazione spirituale della
Grecia classica, rinnovato nello spirito socratico.
HB) Resp. 490 d ss.
847) Resp. 491 h: cfr. il catalogo delle singole virtù in 487 a;
v. pure supra, p. 402.
BCS) Resp. 491 c.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [11463] 1151

vale in maniera specialissima per le nature umane


privilegiate e più forti 349). Le anime più dotate diven-
tano peggiori delle anime comuni, quando sono gua-
state da un'educazione cattiva 350). Così la natura filo-
sofica, che fa riuscite meravigliose nel buon terreno,
dà frutti opposti alle sue primitive disposizioni quando
è coltivata sul terreno di una cattiva educazione, se
non viene in soccorso una « tyche diYina » 351).
Quest'idea di tyche, di una virtù incomprensibile
all'intelletto umano, in cui l'animo pio vede, non già
il caso cieco, ma il miracoloso disegno di una potenza
salvatrice, s'incontra più volte in Platone, in un con-
testo analogo a questo 352). In essa si esprime un'inter-
pretazione religiosa di eventi che appaiono a un tempo
stranamente paradossali e altamente significativi. Anche
nelle Lettere platoniche si incontra questa «divina ty-
che ». Come tale, p. es., Platone interpreta il fatto che,
al tempo del suo primo soggiorno in Sicilia, Dione, il
nipote del tiranno, si fosse dichiarato seguace entusia-
stico della sua concezione educativa dello stato, e Paltro
fatto che più tardi quell'uomo si trovasse alla testa del
moto rivoluzionario che abbatté la dittatli:ra di Dio-
nisio 353). Platone dunque, senza saperlo o volerlo, si
era trovato ad essere, con la sua dottrina, causa di un
evento storico cosi grave di conseguenze, ed il problema,
perciò, s'imponeva se ciò fosse stato opera del caso
oppure se egli fosse stato strumento nelle mani di una
potenza superiore. Questa concatenazione di eventi
prese decisamente per lui, negli ultimi anni, dopo quello

349 ) Resp. 491 d.


350) Resp. 491 e.
351 ) Resp. 492 e.
352 ) Cfr. la tesi per il dottorato, da me suggerita, di E. BERRY,
The history and development of the Concept of .&e:!cx µorpcx and
.&e:(cx 't"U)(7j down to Plato, Chicago 1940.
353) Ep. VII, 326 e.
1152 [u464] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

che era sembrato il fallimento di tutti i suoi tentativi


pratici di realizzare l'idea, il significato di Un. problema
religioso. Ed anche nella Repubblica è qualcosa di que-
sto senso di esperienza vissuta, nella descrizione della
preservazione miracolosa delle nature filosofiche da tutti
i rischi con cui le minaccia, fin da principio del pro-
cesso di formazione, l'ambiente corrotto. Il carattere
tragico che, nell'opera di Platone, impronta la vita del
filosofo in questo mondo consiste proprio in questo:
che essa può venire a compimento solo per una spe-
ciale grazia o per una sorte divina, e che le più delle
personalità cosi dotate son condannate a perire prima
di aver raggiunto il punto del pieno sviluppo.
Il pericolo più grande per tali personalità consiste
per Platone, in una educazione inadeguata 354). Se così
è, può sembrare che egli si metta dalla parte dell'opi-
nione pubblica nell'accusa dell'influenza corruttrice dei
Sofisti, quell'accusa di cui anche Socrate era stato la
vittima. Ma in realtà nulla è più alieno del suo modo
di concepire l'educazione, nulla vi contraddice più di-
rettamente, di questo attribuire a individui, quali si
siano, un'azione decisiva su essa. L'educazione, sia re-
golata dallo stato o «libera», è sempre per lui funzione
della comunità. A quel modo che egli non riesce &
concepire educazione buona se non nello Stato perfetto,
e perciò si accinge a costruirne uno idealmente in quanto
vuol p.rima creare l'adatta cornice per l'educazione
perfetta, cosi, anche di fronte alleo deficienze dell'educa-
zione attuale, egli non considera responsabili gli edu-
catori, ma la comunità. Quelli che danno ai Sofisti
la colpa del guasto della gioventù, sono, essi, i maggiori
c più veri sofisti 355). Ché, in realtà quella che educa gli

354) Resp. 491 e.


305) Resp. 492 a 5-h.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [II 465] 1153

uomini e li fa essere come si vuole che siano, è l'in-


fluenza dello stato e della società. Assemblee popolari,
tribunali, teatro, esercito, e ogni altra specie di raduno,
dove masse eccitate si raccolgono a sentire oratori,
sia per approvarli col fragor degli appla11si, sia per
fischiarli, tutti questi luoghi son quelli dove veramente
si formano gli uomini d'ogni età, e non c'è un giovane,
non c'è forma di educazione privata (rntCi>'t'LXlJ TConasEc.c:)
che possa resistere a tutto ciò 356). Il singolo, in questa
condizione, non può far nient'altro che trovar buono
o cattivo quello che buono o cattivo pare alla massa,
e considerare il suo giudizio norma della propria azione,
se, almeno, gli preme di vivere. Nessun carattere,
nessuna personalità si può forma1 '~ altrimenti che in
conformità di questa« paideia », esercitata dalla massa,
tranne il caso che la salvezza sia disposta da partico-
lare provvidenza divina 357). Gli individui mercenari (µ.L-
cr.&ocpvouv't'e:t; rnLW't'OCL), che si soglionl} chiamare mae-
stri o educatori, non possono educare a niente altro
che a quel che loro prescrive la massa dominante.
La terminologia che essi adoprano riguardo a ciò che
è. onesto o vergognoso, è, a guardarla bene, quella
stessa dei più 358). E qui consiste la debolezza vera del-
l'educazione dei Sofisti, che pur pretendono di creare
gli uomini di cultura superiore, in questo dover deri-
vare ogni loro giudizio di valore da una fonte impura,
dalla massa. Questi « educatori» sono la classe di per-
sone che meglio s'intende di quali suoni e parole piac-
ciono alla « gran bestia » 359) ; sono gli uomini che della
docilità ad essa si son fatti una professione. Cosi per
Platone l'educazione e la pedagogia dominanti. non

Resp.
356 ) 492 h·c.
35 7)Resp. 492 d-e.
358) Resp. 4.93 a.
359) Resp. 493 a-b.
1154 [11466] LIBRO IIl - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sono che la caricatura della vera paideia 360). Anch'essa


può prodursi in questo mondo - come la salvezza
delle indoli :filosofiche, che solo per essa è possibile -
soltanto isolatamente e per uno speciale. miracolo di-
vino 361). Questo miracolo, Platone lo sentiva, era avve-
nuto anche per lui, nel suo incontro col vero educatore,
con Socrate; e il riferimento a questa esperienza è il
sottinteso, inespresso ma evidente, di tutta questa parte
del discorso platonico. Quello era stato il caso ecce-
zionale in cui una singola personalità aveva comuni-
cato ai discepoli beni di valore eterno. Ma, per quella
sua indipendenza dall'opinione dei più, il maestro dei
maestri, nonché ricever mercede, aveva dovuto, lui,
pagare con la vita.
Senza dubbio, lo sfondo storico su cui si leva que-
st'immagine, è la democrazia ateniese del IV sec., ma
la « massa» di cui parla Platone è da ·lui concepita
in un senso più generale. Non è proprio il demos ate-
niese, quello a cui egli pensa, ma la «massa» senza
ulteriori determinazioni, quando la definisce come quella
che non sa nulla di ciò che è buono, e giusto · in s é 362).
La conoscenza di ciò che in sé è buono è il segno di-
stintivo del filosofo, ed è intima contraddizione par-
lare di una massa :filosofica ( qnì..6crorpov 'ltÀ lj&oç) 363).
L'atteggiamento naturale della massa verso la :filosofia
.è di ostilità, e tale, per necessità, deve essere anche
l'atteggiamento naturale degli individui che hanno per
compito e fine di lusingare la massa. Come è possibile
che, di fronte a tutto ciò, un'indole nata alla filosofia
si affermi e giunga al pieno sviluppo della sua voca-
zione? Essa è esposta allo sfruttamento da parte di

360) Resp. 493 c.


3&1) Resp. 492 e.
36 ) Resp.
2 493 h 7.
363) Resp. 494 a.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [rr467] 1155

uomini che intuiscono le sue magnifiche possibilità di


successo e sanno lu8ingare i suoi istinti deteriori. Alla
fantasia del giovane essi fanno balenare la signoria su
Greci e barbari e lo empiono d'ogni sorta di speranze
insensate 364). Platone ha certo in mente caratteri come
quelli di Alcibiade e di Crizia, i cui falli erano stati
messi a carico dell'educazione socratica 365). Platone,
non fa come Senofonte, e non cerca di disfarsi di loro 366);
li riconosce, anzi, come adepti., un tempo, della :filosofia
e li eleva ad esempio delle indoli filosofiche che, chia-
mate alle mete più alte, sono poi rovinate dal mondo
circostante. In queste grandi figure di avventurieri
politici, c'è davvero qualcosa di« filosofico», lo slancio
alle grandi cose, la luce dell'intelletto, che li fanno su-
periori alla massa. Ché la massa non è fatta per la
grandezza, né in bene né in male. Solo l'uomo di in-
dole filosofi.ca ne è capace; egli solo si trova di fronte
alla scelta di divenire uno dei benefattori più grandi
degli uomini, o uno fil quei malfattori geniali che inflig-
gono ai popoli le rovine più gravi 367).
Questo confronto fra le indoli « alcihiadee » e la
natura del filosofo platonico - che dal confronto prende
forza e colore - ci aiuta meglio di ogni altra cosa a
penetrare il sogno del governo filosofico, nel suo tim-
bro e tono psicologico. Il confronto .è fatto da un uomo
che aveva e.onosciuto per consuetudine familiare figure
come quelle, e si sentiva con esse dello stesso livello
intellettuale, ma pur sapeva bene in che punto la sua
via si era divisa dalla loro. Il loro problema egli lo
vede dall'intimo, come può esser vista, da chi se ne
senta egli pure colpito, la tragedia morale di un mem-

3 6 4) Resp. 494 c.
365) Cfr. supra, pp. 44, 78.
386) Cfr. Xen. Mem. I 2.
387 ) Resp. 495 b.
1156 [rr468] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

hro della sua famiglia. L'apostasia di giovani come


questi aveva defraudato la filosofia di quelle persona-
lità che erano destinate, anziché a essere i diabolici
oppositori della verità, a stare come arcangeli accanto
al suo trono. Al loro posto, ormai erano penetrati
degli intrusi, indegni e incapaci di una cosi alta ini-
ziazione e non certo fatti per rafforzare nella gente
la :fiducia nella supremazia dei filosofi 368). Tali gli
epigoni da cui Platone si vedeva circondato. Solo
pochissimi uomini, di più alto ingegno e spiritualità
sfuggivano alla corruzione universale; forse un uomo
di profonda cultura e di nobile carattere, che, costretto
a vivere da straniero in esilio, fosse riuscito a sali
varsi per questo involontario isolamento dagli influssi
corruttori, forse una grande anima che, nata in una
piccola città, si fosse volta per disdegno di questa,
alla v.ita dello spirito, oppure uno che a causa di sa-
lute malferma si tenesse lontano dalla carriera politica
o forse il cultore di una disciplina speciale, che, facendo
giustamente scarso conto di questa, avesse trovato
la strada per la :filosofia 369). Rara e singolare galleria
di ritratti, questa accolta di superstiti, in cui chiara-
mente si ravvisano tratti di :figure individuali della
cerchia platonica 370) ; singolare anche, questo ironico
deprimere se stesso, proprio nello stesso momento in
cui seriamente si afferma il diritto della filosofi.a al do-
minio del mondo. È una nota di sentimento questa,
che apre la via alla confessione di rassegnata rinunzia,

388) Resp. 495 c-d.


3 ee) Vedi in Resp. 496 b-c enumerati i tipi umani che son salvi
per la filosofia, in quanto, trovandosi a vivere isolati, restano im-
muni dal contagio.
370) L'unico di cui sia detto espressamente il nome è Teagete,
uno scolaro di Socrate, a cui la eattiva salute vietava la vita
politica. I lettori contemporanei potero;no mettere un nome anche
sulle altre figure. Noi non lo possiamo più.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [u469J ll57

con la quale Platone conclude la sua difesa della filo-


sofia 371).
« Quelli che appartengono a questa piccola schiera
e hanno gustato una volta la dolcezza e la beatitudine
di quel bene, conoscono anche per esperienza la pazzia
della moltitudine e sanno che non c'è, si può dire, nes-
suno che faccia nulla di sano o di buono in politica,
e che non si trova neppure un compagno col quale
combattere in difesa del giusto, con una minima spe-
ranza di sfuggire a certa rovina, sì che l'uomo che a
questo si accinga è come chi piombi in mezzo a bestie
feroci, che non essendo disposto ad associarsi all'in-
giustizia altrui, e, d'altra parte, non avendo da sé
forze bastanti per opporsi a tutti quei furiosi, forza è
che perisca prima di aver appena cominciato a far
qualcosa di bene, e cosi non serve né a sé né agli altri:
tutto ciò ben considerato, l'uomo assennato se ne sta
tranquillo e fa il fatto suo, come chi, in mezzo a una
tempesta di vento e pioggia e a turbini di polvere, si
mette al riparo sotto un muretto; e vedendo gli altri
sguazzare nell'ingiustizia, si contenta se gli riesce di
rimanere, lui, puro d'ingiustizia e d'empietà in questa
vita, e di partirsi di qui tranquillo e di buon animo,
con buona speranza».
Ecco; il filosofo è disceso dall'altezza della rivendi-
cazione ideale del suo diritto al regno nel vero Stato,
ed è ritornato al quieto riserbo del suo angolo inosser-
vato 372), che il mondo reale ancora gli consente. Noi
ora sappiamo quale aspetto avrebbe lo stato che egli
edificherebbe, se ne avesse il potere. Ma in realtà il
:filosofo si trova ora, dopo questo volo sublime dello
spirito, sempre allo stesso punto in cui era nel Gorgia,

171) Resp. 496 e 5-e 2.


112) Cfr. Gorg. 485 d.
1158 [n470] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

dove lo vedemmo soggetto ad aspre tribolazioni ed


amaro biasimo da parte di retori e politici. Lontano
dall'immaginarsi di poter trasformare lo stato della
realtà contemporanea, non disposto a scendere nel-
1'arena della lotta politica, il filosofo rimane, ora come
allora, l'uomo vero che il mondo disconosce. n centro
di gravità della sua esistenza cade al di là della sfera
di successo, di pubblica influenza e potere, nella quale
si aggirano i grandi della realtà quotidiana. E così
il suo ritrarsi dalla effettiva azione politica diventa
la sua vera forza. Già ri.ell' Apologia Platone aveva dato
questi lineamenti al suo Socrate; i lineamenti dell'uomo
che si era reso ben conto, perché il suo demone lo avesse
per tutta la vita distolto dall'occuparsi di politica.
Egli esprime ben chiara dinanzi ai giudici questa con·
vinzione, che nessuno si può· sostenere a lungo di fronte
alla massa, se vuole opporsi apertamente alla sua ingiu·
stizia. Chi vuole realmente combattere per la giustizia
deve farlo soltanto da privato, non come politico 373).
Non è esatto perciò quello che molti studiosi dicono,
che, cioè, solo nelle rassegnate parole della Repubblica
sia da vedere espressa per la prima volta la rinunzia
agli originarli propositi di azione politica. La lettera
settima dice con ogni chiarezza che la morte di Socrate
era stata il punto di crisi della volontà politica di Pla·
tone 374), e l'Apologia lo conferma. La tragica confes·
sione della Repubblica non si distacca, nell'essenziale,
dallo scritto più antico, ma solo ne differisce nçl grado
di capacità d'espressione poetica, che Platone ilaggiunse
nella meditazione a lungo sofferta di questo destino.
La rinunzia dell'Apologia, chiara e pacata affermazione
di principio, si trasforma in un atteggiamento religioso,

873) Apol. 31 e.
81~) Ep. VII, 325 b s.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n471J l159

di quieto :raccoglimento, in cui il filosofo sembra pre-


pararsi a una prova suprema, quella prova che i miti
escatologici del Gorgia e di altri dialoghi descrivono.
L'uomo filosofico di Platone si distingue da tutti
gli altri ideali umani a cui i poeti avevano dato forma,
proprio per questo suo essere disconosciuto dal mondo.
Tutti quegli ideali erano stati espressione di virtù
che erano radicate in una polis della realtà. Nella loro
luminosa realizzazione poetica, la comunità dei citta-
dini aveva visto rispecchiata ogni sua più alta aspi-
razione e tutto il suo modo di intender la vita. Invece
il quadro esemplare platonico dell'uomo filosofico e
della virtù filosofica si pone in contrasto con la virtù
civica della comunità politica, la quale pertanto, cessa
di essere comunità. Quell'involontario isolamento del
filosofo nasce dalla coscienza di mirare più alto degli
altri, di posseder più profonda coscienza dei veri valori
della vita, anche se gli .altri sono ancora in maggio-
ranza così soverchiante. Dal danno della condizione
di minoranza il filosofo crea una virtù. Perciò la comu-
nità, quale esiste nella realtà politica, si degrada per
lui a pura massa. E, dal lato opposto, un'altra comunità
di coscienza unitaria comincia a profilarsi, nel piccolo
gruppo dei sopravvissuti, che hanno salvata e conser-
vata pura l'indole filosofica attraverso ogni rischio, la
comunità ristretta della scuola o setta.
L'avvio alla formazione di tali scuole è un fatto
storico d'importanza capitale, che determina in ma-
niera decisiva il carattere del rapporto fra individuo
e comunità, fino ai nostri giorni. Dietro la scuola, dietro
la piccola comunità di fedeli, sta sempre come forza
animatrice una singola personalità intellettuale, che
parla in nome di una sua verità e accoglie intorno a
.sé i partecipi della stessa convinzione. Se lo stato dise-
gnato da Platone è stato autoritario, ciò non deve però
1160 [rr472) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

farci dimenticare che la sua fondamentale esigenza


- inattuabile nella realtà politica - di fare della ve-
rità filosofica l'istanza suprema del potere, scaturisce
in realtà da un immenso valore dato alla libera perso-
nalità spirituale, non già da un disconoscimento di un
tale valore. Nella realtà pratica l'unico effetto di que-
sta sovranità. spirituale, sotto l'aspetto sociale, fu la
formazione dì' comunità di scuola, come quella che Pla-
tone fondò in Atene con la sua Accademia. Ogni tempo,
naturalmente, ha conosciuto maestri e scolari; ma sa-.
rebbe anacronismo l'immaginarsi che anche nella filo-
sofia presocratica i rapporti tra maestri e scolari ab-
biano potuto dar luogo a scuole, nel senso di Platone.
Il solo precedente e modello che egli si trovò davanti
fu il sodalizio dei Pitagorici nell'Italia meridio.nale; e,
indubbiamente, la fondazione dell'Accademia, avvenuta
subito dopo il suo ritorno dal primo viaggio nell' occi-
dente greco, durante il quale egli aveva praticato assai
da vicino cerchie pitagoriche, fa pensare a una connes-
sione tra le due istituzioni. Il sodalizio pitagorico era
retto da una precisa regola di vita, che sembra, in
qualche modo, il presupposto del (3(oc; filosofico di
Platone, seppure è da ritenere sicuramente leggendaria
la tradizione che riporta a Pitagora il concetto di un
ideale filosofico di vita nel senso platonico, e perfino
la parola « filosofia» 375). D'altra parte, non ostante il
contenuto speculativo della teoria politica di Platone,
la sua scuola non ebbe alcuna attività di gruppo poli-
tico nella vita della sua, patria, come invece avvenne

8'16 ) Cfr. il mio « Aristotele », p. 99 (trad. Calogero, p. 128).


J. L. STOCKS tentò di provare fa validità storica della tradizione
rappresentata da Cicerone (Tusc. disp. V 3, 8), secondo la quale
già Pitagora avrebbe usato e attribuito a se stesso il nome di
« filosofo». Ma io ·non ho mai potuto cqndividere gli argomenti
addotti dall'amico eminente, troppo pre11.~.o mancato ai vivi.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n473J l161

per i Pitagorici, prima che il loro sodalizio venisse di-


strutto. Nella lettera settima, commentando l'avven·
tura politica del suo scolaro prediletto Dione, a Sira-
cusa, egli si ferma di proposito a spiegare la propria
radicale astensione da ogni attività rivoluzionaria in
Atene. Con la patria egli si sente nello stesso rapporto
di un figlio ormai adulto e indipendente coi genitori,
che può non approvarne azioni e principii, può anche,
se necessario, esprimere la sua disapprovazione, ma non
per questo si sente svincolato dal dovere della pietà,
e tanto meno giustificato nel ricorrere alla violenza 376).
In realtà l'esistenza dell'Accademia non sarebbe
stata possibile in altro luogo che nella democrazia
ateniese, che lasciava parlare Platone, anche quando
faceva lo stato oggetto delle sue critiche. Da lungo tempo
si pensava ormai che la condanna di Socrate fosse stata
delitto, e nell'erede di lui si vedeva soprattutto la glo·
ria domestica, l'liomo che accresceva il· prestigio intel-
lettuale della città, sempre più avviata . a. diventare,
in tempi di mediocre situazione politica esteriore, il
centro spirituale del mondo greco. L'esistenza appartata
e estranea al mondo condotta dai filosofi dell'Accade-
mia, lontana anche spazialmente dal rumor cittadino,
sulla verde quieta collina di Colono, die' origine a quel
singolare tipo d'uomo che Platone descrive con affet·
tuosa ironia in una digressione del Teeteto 877). È gente,
questa, che dell'agorà non sa neppure la strada, e non
sa dove sono i tribunali, o gli altri luoghi di pubblica
riunione;. sulle parentele e genealogie delle famiglie
più importanti è altrettanto male informata che sulla
cronaca e il pettegolezzo cittadino. Sono cosi sprofon·
dati, costoro, in problemi matematici e astronomici,

876) Ep. VII, 331 b-d.


177) Theaei. 17 3 e a.
1162 [11474] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

il loro occhio è cosi fisso a regioni supreme, che in que-


sto mondo non si sentono a casa loro e inciampano in
cose che ·per uomini con occhi aperti e testa sana,
non sono ostacolo di sorta. Platone, però, è tanto per-
suaso dell'intimo valore di questi uomini, e sicuro della
presenza di una scintilla divina nel loro spirito, che il
constatare quanto sia inevitabile il disconoscimento del
loro pregio da parte dei più, gli vale solo di stimolo
a calcare i tratti del suo quadro fino alla caricatura.
E tanto meglio, se da ciò sarà eccitata l'indignazione
della gente filistea, il cui scandalo è causa d'intima
soddisfazione per l'intelligente amatore di quel raro
tipo di uomini, degli uomini :filosofici. Nel senso che
questi hanno della vita è una profonda nota di artistica
genialità, ma senza le esaltazioni artefatte e senza la
vanità che si accompagnano al deliberato proposito
di originalità. Questo ritratto ha qualche maggiore
probabilità di rassomigliare al :filosofo della vita reale,
di quante ne abbia quell'ideale di armoniosa educa-
zione fisica e spirituale, che Platone si foggia nella
Repubblica per i suoi guerrieri. Ma quello che Platone
dice nel Teeteto degli interessi spirituali del filosofo è
perfettamente conforme al corso di studi del reggitore
:filosofico, quale è disegnato nella Repubblica. In esso,
si può dire, si chiarisce e si attua la sentenza del Teeteto,
che la scienza del :filosofo non è qualcosa di facile come
la percezione sensibile che l'uomo possiede dalla nascita,
ma qualcosa che« cresce in lui» solo con lunga fatica
e per via di lunga educazione (7tot~~etoc) 378). La Repubblica
ci consente di gettare uno sguardo sulla struttura di
questa paideia all'interno dell'Acc~demia platonica; in
questa parte non è solo un ideale quello che Platone
ci propone, ma è un frammento della realtà.
378) Theaet. 186 e 8LÒ: 'ltOÀÀOOV 'ltpcxyµ.&-r<i>V xcci 'ltCtLBdccc; 'ltCt-
pcx:ytyve:-retL.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [n475] 1163

Ora che il filosofo è giunto a questo stato di rasse-


gnazione cli fronte all'incomprensione generale e alla
necessità di appartarsi dal mondo, non è facile per noi
ritornare alla concezione del :filosofo reggitore nello stato
·dell'avvenire. Il filosofo com'è nella realtà e come ora
ci si è rivelato, appare, di fronte a questa aspirazione,
perfino tlll po' ridicolo. Ma per Platone questa è sol-
tanto una prova di più in favore della sua teoria che,
istituendo un esatto confronto tra uomini e piante,
afferma l'influenza nociva sull'educazione dell'amhiente
malsano. Il filosofo è una creatura celeste, che, tra-
piantata nell'infelice terreno dello stato attuale, deve
per forza intristire o assimilarsi ad esso 379). Trasferita,
invece, nelle condizioni favorevoli dello stato perfetto,
farà chiaramente apparire la sua origine divina 3Bo). In
nessun luogo della Repubblica meglio e più chiaramente
che a questo punto, è espressa l'intima natura dello
stato perfetto platonico: che altro non è se non la
forma ideale di comunità, necessaria perché le dispo-
sizioni naturali dell'indole :filosofica possano piena-
mente svilupparsi e attuarsi. D'altro canto, col fare
del filosofo il reggitore dello stato, Platone immette in
questo lo spirito che garantisce la conservazione del si-
stema educativo e il formarsi di una tradizione. La
costruzione della repubblica ideale culminava alla fine
nell'esigenza che fosse posta una suprema autorità
educativa che della sua virtù creatrice informasse tutto
l'edificio; e a questa esigenza, soltanto il filosofo poteva
soddisfare 381). Però l'educazione :filosofica come si era
praticata fino a quel momento non poteva raggiungere
il suo fine più alto di essere educazione « politica»,

379) qrn-ròv oùpcivLov Tim. 90 a, « seme straniero» (~e:vLxÒv


cmÉpµo:) Resp. 497 b.
380) Rssp. 497 b 7- e 4.
381) Cfr. supra, p. 403.
1164 [rr476) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVlNO

perché l'età in cui s1 soleva praticarla non era l'età


adatta. Era essa soltanto « una paideia e una :filosofia
da ragazzi» 382). Con ciò Platone riprende la sua batta-
glia contro lo studio filosofico « per un puro scopo
di cultura», caratteristico della concezione sofistica 383),
e annunzia il programma suo, che dà al concetto di
cultura un senso molto più comprensivo, considerandolo
un processo che impegna tutto il corso della vita. Gli
uomini muteranno il loro giudizio sulla potenza edu-
catrice del sapere, se potranno una sola volta conoscere
e sperimentare che cosa sia il vero sapere, lontani come
sono, ancora, dal pensiero di un sapere libero, da ricer-
carsi solo per se stesso 384). Il sapere è conosciuto solo
nella forma di un complesso di artifici oratori, brillanti
e acuti, che in sé non hanno né scopo né importanza
e servono soltanto a soddi"sfare la passione personale
della litigiosa soperchieria 385). Gli uomini devono accor-
gersi una buona volta che non sono filosofi veri quelli
che essi chiamano con questo nome. La cosiddetta in-
capacità alla vita dei filosofi sembrerà meno ridicola
quando si sia compreso che è impossibile, per chi abbia
dedicato la vita alla considerazione delle supreme di-
vine armonie, partecipare alle troppo terrene gare e
rivalità, all'affaccendarsi astioso e maldicente di quella
classe di uomini che il mondo falsamente considera
dotti e intellettuali,· mentre non sono in realtà che in-
trusi impudenti nella casa della filosofia 386). Una divina
serena armonia deve riempire tutto lessere di colui,
che si volge a cQnoscere il mondo divino e ordinato
all'eterno dell'essere puro 387).

382) Resp. 498 b, cfr. a.


383) Cfr. supra, p. 238.
38&) Resp. 4'8 d-499 a.
886) Resp. 499 a-b.
•) Resp. SOO a-b.
387) Resp. 500 c.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [u477J 1165

Qui, come nel Teeteto, il tipo del :6.losofo, special-


mente se paragonato col Socrate dei dialoghi più an-
tichi, colpisce per la sua rassomiglianza al matematico
e all'astronomo. Ed anche l'idea che il :6.losofo viene
ad assimilarsi al suo oggetto, il divino, ritorna, in con-
testo analogo, in ambedue queste opere cronologica-
mente vicine 388); Nella Repubblica, tuttavia, la vita pre-
valentemente contemplativa a cui il filosofo è costretto
dal mondo circostante, non appare come la sua defini-
tiva vocazione. Nello stato perfetto egli trapasserà dalla
condizione della contemplazione pura a quella del-
1'azione. Diventerà « demiurgo» e cosi lascerà quello
che nelle circostanze presenti è l'unico lavoro creativo
a cui gli sia concesso di dedicarsi, la formazione di se
stesso (écxil't'ÒV 1tÀcX't"t'eLv), per l'altro lavoro di formare
caratteri umani (~-3-11), tanto nella vita privata quanto
in servigio della comunità 389). Egli diverrà. allora il
grande pittore, chl", l'occhio rivolto al modello divino,
dà forma dentro di sé all'immagine della polis per-
fetta 390). E se a questo punto ci torna a mente, come
già Socrate, compiuto il suo abbozzo dello stato, si
fosse paragonato a un pittore che avesse creato l'im-
magine dell'uomo hellissimo 391); c'è pure da notare una
differenza: ed è che questa volta l'immagine non è più
inodello da trasformare in realtà, ma è essa stessa la
nuova realtà che si viene attuando in conformità del
paradigma divino, posto nell'anima del :6.losofo. Il pit-
tore è, questa volta, l'uomo di stato, lo stato è il « pi-
nax », il quadro, sul quale, pulito che esso sia a fondo,

388 )Cfr. Tkeaet. 176 b òµ.oEroa~ç .&e;éi) x~-.a -.ò 3uvo;-.6v.


888)Resp. 500 d. Il luogo è molto importante, prima perché
appare qui per la prima volta, nella storia dell'educazione, il con-
cetto dell'autoeducazione, e poi perché esso chiarisce, con mira-
bile acutezza, idealità e realtà della paideia filosofica di Platone.
890) Resp. 500 e.
891) Resp. 472 d; cfr. supra, p. 446.
1166 [11478] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

prende contorno ·e colore il ritratto dell'uomo nuovo.


Dall'unione di note varie, da un lato della giustizia
eterna, della bellezza, della temperanza e di ogni altra
virtù e, dall'altro, degli elementi osservabili nell?uomo
reale, cioè da una fusione di Idee e di esperienza, ecco
che nelle mani dell'artista :filosofo, in luogo di quel
«simile agli dei» che Omero aveva :figurato negli uomini
del suo epos, sboccia, ad esso corrispondente, il «simile
all'uomo» ( !Xv8peExeÀov) 392).
Platone dunque imposta di nuovo qui, esplicita-
mente, quel parallelismo tra poesia e filosofia che per-
vade e don;rlna tutta la sua opera di pensiero e d'arte.
Il :filosofo può cimentarsi vittoriosamente con la paideia
del poeta, perché ha un nuovo ideale dell'uomo. A que-
sto punto la trasposizione platonica dell'immagine del-
l'uomo epico-eroica in quella :filosofica è perfetta, e
l'opera massima del pensatore è orientata a quel polo
umanistico a cui si muove tutta la storia dello spirito
greco. Ché di umanesimo si può parlare in ogni caso
in cui un'educazione sia consapevolmente condotta se-
condo un'immagine ideale della natura umana. Ma in
pari tempo Platone contrappone il suo umanesimo filo-
sofico al tipo di educazione sofistica, che non possedeva
alcun ideale umail.o di questa specie, ma che, secondo
la caratteristica da Platone stesso delineata, co~si­
steva :ill un conformismo spirituale alla forma di stato
di volta in volta vigente nella realtà. Questo umane-
simo platonico non è estraneo, in linea di principio,
alla politica, ma cerca il suo punto d'appoggio politico,
non già nella realtà, sihbene nell'Idea. Esso permane
in una tenace e quasi escatologica attesa e proposito
di attuarsi d'un tratto, come forza operante, in quel
regno divinamente perfetto che appartiene all'avve-

392) Resp. 501 b.


CAP. IX: LA REPUBBLICA, I [11479] 1167

nire. Ma non per questo rinunzia al suo diritto di cri·


tica di fronte ad alcuna forma di stato reale, poiché
non mira a un modello temporale, ma all'eterno 393).
L'immagine ideale dell'umano o del« simile all'umano»
è posta da Platone simbolicamente, come contenuto
e significato essenziale del vero stato, all'ingresso di
una nuova trattazione: quella della paideia dei reggi-
tori; ché non si dà formazione umana senza un'ideale
forma umana a cui affissarsi. La « formazione di se
stesso», alla quale per il momento deve limitarsi la
paideia del filosofo, ha anche un alto significato sociale,
che le viene dal suo riferirsi costantemente allo Stato
perfetto, a cui prepara la via. In questa relazione Pla-
tone non ~ede soltanto un « come se», una mera ipo-
tesi, ma anche qui coglie l'occasione di affermare rea-
lizzabile lo stato perfetto, seppure difficile a realiz-
zarsi 394). Con ciò egli previene il pericolo che il concetto
di « avvenire», di quel « futuro» in vista del quale il
filosofo si prepara, si dissolva nel mondo delle immagina-
zioni, e conferisce alla « vita teoretica » del filosofo,
sempre in procinto di trasferirsi in una possibile azione,
un senso stimolante, una tensione di cui difetta la
scienza « pura ». E proprio per questa sua posizione
di centro tra la ricerca pura ignara di ogni fine pratico-
etico, e la formazione meramente pratica e politica
dei Sofisti, l'umanesimo platonico trascende e supera
l'una e l'altra.

393) Il rapporto della filosofia con lo stato è, nel mondo greco,


l'analogo del rapporto dei profeti coi re d'Israele.
394) Resp. 499 c-d.
CAPITOLO DECIMO

LA REPUBBLICA

II.

LA P AIDEIA DEI REGGITORI

Essenza e valore della conoscenza suprema. - La


necessità di una speciale educazione per i reggitori,
ai quali spetta di vegliare a che la vera educazione
sia . conservata nello Stato ideale, era già emersa,
appena terminata la descrizione dell'educazione dei
guerrieri 1); ma il problema aveva dovuto cedere il
passo ad altre questioni, come quella dell'educazione
di donne e fanciulli, e della comunità delle donne 2).
Però, la tesi del «governo ai filosofi», che a prima vista
sembra introdotta solo come condizione preliminare
per la realizzazione di quei postulati, riconduce natural-
mente all'educazione dei reggitori 3), giacché la « pre-

1 ) Si tratta di una scelta dei migliori tra i guerrieri. Resp.


412 c. ·n primo accenno alla necessità di una formazione speciale
per i reggitori è in 416 c IS·n 8er a:1hoùç òp.&ljç -roxetv 1ta:~8eEa:ç
ij·rn; 7to"t"é: É:anv. Nella proposizione relativa è implicito il ricono-
scimento che la paideia di cui si parla è identica a quella già de-
scritta dei guerrieri, e un'allusione anticipante all'educazione dei
reggitori, materia dei libri VI e VII.
2) Resp. 449 e ss.
li) La trattazione dell'educazione dei reggitori comincia a
502 c·d.
1170 [1!482] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

servazione dell'indole filosofi.ca» si è risolta nel pro-


blema di come educare una tale indole.
L'educazione musico-ginn"astica dei guerrieri non è
che l'antica paideia ellenica, filosoficamente riformata:
come educazione e istruzione dell'intelletto essa si
fonda in tutto sulla consuetudine e sul costume 4).
Sicché gli argomenti in suo favore addotti da Platone
consistono in concezioni di ciò che è buono ed oppor-
tuno, che sono da lui piuttosto presupposte che dimo-
strate. Scopo di una tale educazione è creare nell'anima
euritmia e armonia, non quello di far conoscere la
causa, per cui quella sorta di ritmo e di armonia è
buona. La causa, a questo livello dell'educazione, non
può ancora essere conosciuta, mentre, invece, essa
deve essere ben posseduta da colui cui spetta di orga-
nizzare l'educazione e di sorvegliarla, cioè dal reggi-
tore. La conoscenza della causa è il fine dell'educa-
zione specifica di lui, che, pertanto, deve essere filo-
sofica. Essa,. se cronologicamente è posteriore alla for-
mazione musico-ginnastica, in realtà, idealmente e na-
turalmente, è la prima, è il punto di partenza dell'in-
tera opera edificatrice dell'educazione. TI concetto che
lega il primo piano educativo al secondo è quello di
« paradigma», posto da Platone tra i due come quel
pregio, il cui possesso destina il .filosofo al compito
· di reggitore e di educatore nel più alto senso· 6). La norma
suprema o il « modello», sul quale è stata disegnata
la paideia dei guerrieri, Platone lo chiama « la nozione
massima» (µÉj'LCl''t'OV µci.&'fjµoc), perché è la più difficile

') Cfr. supra, p. 363 ss.


') Resp. 484 c. L'apparizione del concetto di «paradigma»
In questo punto, è già preparata dall'uso che di esso è stato fatto
in 472 c-d, per caratterizzare l'immagine dello stato ideale e del-
l'uomo giusto. Ma queste stesse immagini ideali di stato e di uomo,
può possederle solo il filosofo, poiché ha in sé la conoscenza del
Bene. Per l'idea del Bene come paradigma dei reggitori cfr. 540 a.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [II483J 1171

a comprendersi e insieme la più importante che il reg·


gitore dello stato debba. possedere 6). Nell'espressione
mathema è insito l'elemento essenziale di novità pro·
prio della formazione filosofica rispetto agli stadii pre-
cedenti della paideia : il fatto che, cioè, il contenuto
paradigmatico, non sia racchiuso, · questa volta, in
una molteplicità di personaggi poetici o di precetti
staccati di morale, ma stia in una cognizione generale,
e per di più nella cognizione di un unico oggetto. Quella
fermezza inflessibile di carattere che Platone richiede
per il reggitore deve essere accompagnata dalle più
alte capacità intellettuali e addestrata nel sapere più
esatto (iixfa~cr"t"&TIJ r.oct8doc) 7). Anche di fronte alle
difficoltà del sapere, ora che dopo le fatiche dell'ad-
destramento fisico comincia la « ginnastica della
mente» 8), il reggitore mostrerà la stessa intrepidezza
di cui dà prova nel resto.
Disse Hegel una volta un motto famoso: la scor·
ciatoia dell'intelligenza è la via più lunga. In realtà,
mentre la via naturale sembra essere quella che punta
diritta al suo fine, avviene spesso che essa sia inter-
rotta da qualche profondo crepaccio invisibile a chi
guarda da lontano, o che ostacoli di altra sorta si pa-
rino dinanzi a impedire l'accostamento diretto. Supe-
rare tali ostacoli, mediante un accorto aggiramento,
e giungere così alla meta, sia pure, come spesso, a
prezzo di grandi difficoltà, è l'essenza di ogni proce-

6) Resp. 503 e; 504 a; 504 de; 505 a.


1) Platone richiede per i reggitori fermezza e sicurezza di ca-
rattere (Resp. 503 e) e subito dopo la più accurata ed esatta
formazione dell'intelletto (503 d; cfr. anche 504 be). Il concetto
di acribia o esattezza è il vero e proprio elemento distintivo del·
l'educazione dei reggitori di fronte a quella dei guerrieri. A pro·
posito delle Leggi, dove si fa la stessa distinzione cfr. « Paideia »
III 432, n. 240.
8) Resp. 503 e.
1172 [rr484J LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

dimento di ricerca metodica, e in particolare del pen-


siero filosofico. Quanto a Hegel e al suo motto, si ha
l'impressione che egli non abbia fatto altro che por-
tare a formulazione più generale un'intuizione che tro-
vava già espressa da Platone. Questi nella Repubblica,
là dove stabilisce la necessità di un'educazione speciale
per i reggitori 9 ), rammenta anche che prima, trattando
il problema delle quattro virtù, nel quale veniva a _ri-
solversi l'educazione dei guerrieri, aveva detto trat-
tarsi di uu cenno schematico e di passaggio, essendo
necessaria per la piena conoscenza del tema « una
strada più lunga». Addentrarsi in questa non gli_ era
parso opportuno, per il momento, in quello stadio in-
feriore dell'educazione dei guerrieri. Ma al principio
dell'educazione filosofica vera e propria ecco che egli
si rifà a quel punto, ed esprime l'esigenza che il futuro
reggitore si accinga ora a mettersi per quella « strada>>.
senza di che non potrà mai giungere alla conoscenza
della «cognizione massima». Si è discusso assai - su
quel che si debba vedere in questa «strada lunga»,
ma nonostante l'espressione un po' equivoca del luogo
in cui se ne parla per la prima volta 10), il modo con_cui
è ripresa l'immagine della « strada » o del « giro », al
ptj~cip_io della educazione dei filosofi, non consente
dubbio: con essa può essere soltanto significata la via
della formazione filosofi.ca, nella quale debbono en-
trare i reggitori. Proprio se questa si considera come
via di educazione per futuri uomini di stato, come
« educazione politica», è particolarmente appropriata,

9 ) Cfr, Resp. 503 e-504 h, dove Platone si richiama a una pa-


gina precedente, 435 d. Là si è parlato per la prima volta di una
µ1ucp0Tépot b66c;, che in 504 b è chiamata µotxpoTépot m:p!o3oc;.
Cfr. anche 504 c 9 µotxpoTépot11 (scil. 08611) T0(11u11 7>epL"CTéov Tij>
'tOtOÒ't'ro.
10) 0
Resp. 435 d.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [n485J l173

per. l'addestramento matematico-dialettico voluto da


Platone, l'espressione di «strada lunga» o «giro» 11).
È un'espressione che caratterizza precisamente tutto
quello che di nuovo e d'insolito c'è in questo programma:
l'esigenza che uomini destinati alla vita pratica con-
sumino lunghi anni in una formazione puramente intel-
lettuale. Così, poi, Platone formula il principio che lo
induce a ritener necessaria una strada come questa:
quanto più alto è il valore di cui si tratta, tanto più
alto deve essere il grado di esattezza e purezza della
nostra conoscenza dell'oggetto 12). È questa la vecchia
esigenza di Socrate, che il politico abbia una conoscenza
competente, esatta, del fine supremo di ogni agire
umano. Il mezzo di soddisfarla è per Platone quella
scienza della dialettica che egli svolse dall'arte dialo-
gica di Socrate.

Prima, • però, di dire qualcosa di pm preciso sulle


tappe di questa lunga strada, Platone c'invita a volger
l'occhio alla meta, alla vetta vertiginosa da conquistare.
E la meta, fin qui designata sempre col solo nome ge-
nerico di «cognizione massima», non. è altro che l'idea
del Bene, quello, cioè, per cui tu.tto ciò che è giusto,
bello, e così via, è utile e salutare 13). Ogni altro sapere
sarà inutile se questo non si conosce. Che valore infatti
avrebbe il possesso di qualcosa che, non partecipando

11) Non si dovrebbe trascurare il fatto che la concezione del-


l'educazione dialettica come« strada traversa» necessaria a per-
oorrersi per il futuro uomo di stato si trova anche nel Fedro. Anche
n, per Platone, si tratta di dimostrare che quella dialettica bia-
simata da avversari come Isocrate come remota dalla vita e per·
ciò di nessuna utilità, è invece indispensabile _per l'uomo politico,
per il« :retore». Cfr. vol. III 336 ss. Isocrate suol contrapporre
la paideia sua propria, alla ginnastica intellettuale platonica, come
l'unica che . sia propriamente politica. Cfr. vol. III 252 ss.
12 ) Resp. 504 e.
13) Resp. 505 a.
1174 [n486] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

del bene, non fosse buono a niente ? Il fatto poi che


Platone, pur adoprando per lo più l'espressione più
semplice,« il bene», intenda« l'idea del bene», signi-
fica prima di tutto, come sempre quando si usa la pa-
rola « idea», l'universalità del bene, l'unità di tutto
eiò che è buono preso nella sua totalità, in contrap-
posto alla molteplicità delle cose singole, di cui si pre-
dica la qualità di « buone», in quanto, come dice Pla-
tone,« partecipano» in qualche modo all'idea del bene.
Se è vero che una concezione di questo genere è aliena
dall'intendimento dell'uomo comune, è vero altresi che
anche i più riconoscono l'esistenza di un summum bo-
num, e ciò nell'atto in cui riconducono al piacere ogni
cosa che abbia per essi valore 14). Si è visto, però, già
:fin dal Gorgia, e indirettamente :fin dal Protagora, che
con questo concetto volgare - il piacere come bene
supremo - non si concilia la distinzione - che è pur
essa ovvia anche per i più - 15), tra piaceri buoni e
piaceri cattivi. In realtà anche tra i più, gli uomini
un po' più colti tendono piuttosto a considerare bene
supremo la saggezza e la ragione. Ma se si domanda
loro, qual genere di saggezza o conoscenza hanno in
mente, la risposta è: la conoscenza del bene 16). Ora,
come risulta da altri dialoghi, l'intenzione di Platone
non è affatto di rifiutare senz'altro tutte e due queste
contrastanti opinioni. Ambedue mirano al « bene
umano» e questo, considerato con verità, secondo la
teoria esposta ne] Filebo, consiste in una giusta e pro-
porzionata fusione e di piacere e di conoscenza razio-
nale 17). In sé e per sé, però, né iJ piacere né la ragione

U) Resp. SOS b.
16) Resp. 505 c. Cfr. la distinzione tra piaceri buoni e cattivi
nel Gorgia, su cui v. p. 249.
16) Resp. 50S b-c.
11) Phileb. 65 b-c. Il« bene umano» 'è diverso dal«bene in sé».
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [11487] 1175

sono il culmine supremo 18), come riconoscono, senza


rendersene conto, gli stessi sostenitori di ambedue le
opposte opinioni, i quali, come Platone mostra nella
Repubblica, di fatto pongono, gli uni e gli altri, il bene
al di sopra di ciò che a parole proclamano valore su-
premo, sia che antepongano il piacere buono al piacere
cattivo, sia che preferiscano la conoscenza del bene
a ogni altra conoscenza 19). Comunque, per il momento,
trattandosi di stabilire l'importanza dell'idea del bene
per l'educazione dei reggitori, non c'è bisogno di una
preliminare definizione di essa; basta che si tenga
presente quello che è, del bene, il segno distintivo più
wriversale, il segno che ognuno conosce, e cioè che il
bene è ciò su cui nessuno per nessuna ragione accette-
rebbe mai di ingannarsi volontariamente 20), per capire
che non si potrà affidare la guida dello stato a un cu-
stode che, su questo problema dei problemi, brancoli
egli stesso nel buio 21).
Platone non tenta, neppure nel seguito del libro, di
definir propriamente la natura del bene in sé. Anzi,
a rigore, questo tentativo non si trova mai nei suoi
scritti, per quanto spessissimo la discussione che in
essi si svolge porti a questo punto. Tra gli scritti più
tardi, il Filebo è quello dove si ricerca più di proposito
sul problema qui impostato, se cioè il piacere o la ra-
gione sia il bene supremo; ma anche là non si fa lo
sforzo finale per giungere a una definizione esauriente
del bene. In luogo di ciò, Platone si limita a operare
la deduzione di tre delle note di quel concetto, cioè
bellezza, simmetria e verità 22), per decidere in base a

18) Phileb. 22 b.
19) Resp. 505 c.
20) Resp. 505 d.
21) Resp. 505 e.
22 ) Phileb. 65 a.
1176 [n488] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

questi tre criteri, se il piacere o la ragione sia relativa·


mente più vicina al bene. Nella Repubblica, sul primo
momento, il Socrate platonico sembra ritornare alla
professione di «ignoranza» del Socrate storico, di fronte
alla richiesta di Glaucone, che non si limiti a esporre
i pensieri altrui, ma dica lui stesso la sua opinione
sul bene 23). Ma questa volta, dopo che Socrate in molti
luoghi della Repubblica ha abbandonato queste posi-
zioni di scetticismo, anzi ha affermato energicamente
che l'arte di navigazione politica è insegnabile 24), Pla-
tone non può più consentirgli il rifugio nella vecchia
«ignoranza». Gli fa quindi insinuare da Glaucone
che basterebbe che egli dicesse il suo parere sul bene
in una maniera sommaria, come quella che ha già usato
parlando della virtù civile25). A quel proposito, come
si ricorda, Socrate non aveva dato una definizione con-
clusiva della essenza delle quattro virtù, ma si era li-
mitato ad accennare schematicamente al loro posto
e funzione nell'anima, ponendole come parallele alle
classi e alla funzione di queste nello stato 26). In modo
analogo si comporta ora col problema del bene, evi-
tando ogni elemento troppo tecnico-:6.loso:fico, e chia-
rendo invece la posizione e il modo d'azione del bene
nel mondo con una figurazione sensibile. Così una simi-
litudine, in cui si uniscono la più alta forza poetica
e la più precisa acutezza logica, svela d'un colpo quello
che fin qui è stato di proposito, negli scritti platonici,
tenuto nell'ombra, o solo accennato come lontano punto
d'arrivo: il luogo e il significato dell'idea del bene
come principio supremo della filosofi.a.

23) Resp. 506 c.


24) Cfr. supra, p. 459. Nella similitudine del buon nocchiero,
Resp. 488 b-e,' sono soltanto i 7tOÀÀo( a pensare che l'arte della
navigazione politica non si possa insegnare.
25) Resp. 506 d.
26) Cfr. supra, p. 413.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n489] 1177

Nel corso della discussione è apparso dubbio che


un'adeguata conoscenza de] bene possa darsi, nella
forma della definizione concettuale: la similitudine,
che ora Platone offre al posto di questa, accenna a
un'altra via di accostamento. Il «vedere», nella dia-
lettica platonica, è l'espressione propria per designare
la funzione intellettuale sintetizzante che coglie nel
molteplice l'unità dell'idea. Platone stesso, occasional-
mente adopra, per caratterizzare tale funzione, l'espres-
sione « sinossi» 27). Dato però, che la via dialettica alla
visione dell'idea non è assolutamente esprimibile, nel
suo tratto estremo, con la parola scritta, egli la sosti-
tuisce con la visione sensibile di ciò che è il suo « ana-
logo » nel mondo sensibile. Il Bene eterno, cosi egli
dice 28), manifesta la sua natura nel suo :figliuolo, nel
massimo Dio visibile nel cielo, Helios, il sole. Platone
non dice subito che anche il padre di Helios è un dio; ciò
equivarrebbe a dare per noto quello che si sta cer-
cando, e perciò il simbolismo della sua teologia, sul
primo momento, non si spinge al di là del figlio. Glau-
cone è vero, esprime il desiderio di udire un'altra volta,
una « storia » dello stesso genere anche sul padre; ma
Socrate declina la richiesta osservando che egli sarebbe
ben contento di raccontarla, sol che ne fosse capace e
che trovasse ascoltatori capaci di comprenderla. Per
il momento, Socrate si richiama brevemente a ciò che
ha esposto, in compendio in questo dialogo e più pre-
cisamente in altre occasioni, sulla teoria delle idee 29),
e distingue, in conformità con l'opposizione ~- i~ea e

2 7) Cfr. supra, pp. 172, 282 s., 331.


28) Resp. 507 a.
29) Resp. 507 a, e precedentemente, 476 a s. Le parole &ÀÀo-re:
-!18"1) noll<ix~ accennano ai dialoghi nei quali Platone ha discusso
più a fondo la teoria delle idee, come il Fedone, il Simposio ecc.
Nella Repubblica dove egli delinea tutto il suo sistema di paideia,
gli manca il tempo per entrare in particolari come questi.
1178 [!1490] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

apparenza, due mondi, il mondo del pensiero o intelli-


gibile e il mondo visibile. Quest'ultimo è il mondo
della percezione sensibile, e, se noi lo chiamiamo vi-
sibile, ciò è perché, dei sensi dell'uomo, la vista è il
più nobile 30). Tale privilegio ha la sua ragione nel fatto
che l'occhio ha bisogno della luce, come mezzo perché
la visione si compia, e la luce è, in un senso specialis-
simo, cosa nobile e alta. Causa del fatto che l'occhio
veda, che il mondo esterno gli si faccia visibile, è quello
fra gli dei del cielo che manda la luce, Helios. (Ci si
ricorda, a questo punto, l'opinione di cui poco fa si
è fatta menzione, per rifiutarla, secondo la quale la cono-
scenza, per se stessa, sarebbe il bene 31) e si comincia
a caph'e a che tenda Platone con la sua similitudine).
Qual è, egli domanda, il rapporto tra la nostra facoltà
visiva e questa celeste diviirità della luce ? Né la no-
stra forza visiva né l'occhio che in sé chiude una tal
forza, sono, essi, Helios 32). Si potrà arrivare a dire che,
dei nostri sensi, questo della vista è il più solare, ma,
di vedere, esso non diventa realmente capace se non
per la luce che esso capta dal sole e che scende su lui
dal di fuori. Per mezzo di essa l'occhio riesce perfino
a guardare il sole, ma il sole non è il vedere, bensì la
fonte della luce e pertanto la causa del vedere.
Ormai siamo molto vicini a intendere il processo
della conoscenza e la parte che ha in esso l'idea del
bene. L'anima dell'uomo è comel'occhio 33). Quando
invece di volgersi alla regione che la luce del giorno
fa rifulgere nello splendor dei colori, si affigge al mondo
della notte appena soffuso dal pallido raggio stellare,
l'occhio è debole e come cieco, come se non avesse una

30) Resp. 507 c.


31) Cfr. Resp. 505 b.
82) Resp. 508 a.
33) Per quel che segue cfr. Resp. 508 b so.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [11491] 1179

vera forza visiva. Ma appena Helios rischiara il mondo,


ecco che vede chiaro e ha tutta quella sua forza. Così
è dell'anima: se il suo sguardo si drizza al mondo che
le si stende innanzi splendente nella luce della verità
e dell'essere, allora essa conosce e pensa e possiede la
ragione. Ma se si volge a guardare quello che è com-
misto di tenebra, quello che diviene e trascorre, essa
non produce che mere opinioni e, debolissima di vista,
vacilla come un essere che sia privo della ragione. Ciò
che dà verità al conosciuto, e, a chi conosce, capacità
di conoscere questa verità, è l'idea del bene 34). Anch'essa,
certo, la causa della conoscenza e della verità, è da
noi conosciuta (a quel modo che anche il sole è visto),
ma a lei compete una maestà più alta che alla cono-
scenza e alla verità (come più alta è la maestà del sole
di fronte alla nostra facoltà di visione). Come il sole
è la fonte della luce che fa visibile il mondo visibile,
cosi l'idea del bene è la fonte della verità, l'origine
del significato che fa intelligibile il mondo intelligi-
bile. La nostra conoscenza quindi, non si identifica
col bene in sé, nella stessa misura in cui la facoltà vi•
siva del nostro occhio non si identifica col sole 35). Ma
come locchio tra tutti i nostri sensi è il più solare (elioide)
così sapere e verità sono più di ogni altra cosa agathoidi,
strettamente a:ffiui · alla forma primigenia del bene 36).
Ma qui non si ferma la fecondità chiarificante della
similitudine platonica. Il sole dà al mondo visibile
non solo la sua visibilità, ma anche nutrimento, capa·
cità di crescere e di divenire, sebbene non sia esso il
divenire. Così anche il mondo del conoscibile riceve
dal bene, non solo la conoscibilità, ma anche la realtà,
sebbene non sia esso la realtà, ma stia, in maestà e

3') Resp. 508 d.


86) Resp. 508 e. Cfr. supra, n. 31.
86) Resp. 509 a.
1180 [rr492] LIBRO III - ALIA RICERCA DEL DIVINO

potenza, ancora p1u m alto della realtà 37). Per questo


duplice significato del bene, di causa di ogni cono-
scenza e di ogni realtà, il bene può essere chiamato
re del mondo invisibile e conoscibile, in corrispondenza
del seggio regale di Helios nel mondo visibile 38).
I pensatori greci prima di Platone, avevano sen-
z'altro chiamàto «Dio» o «il divino>>. il principio su-
premo, sia che lo concepissero come causa prima da-
trice della vita materiale, sia come spirito che guida
il mondo 39). D'altro canto fin da principio la filosofia
greca aveva volto lo sguardo alla natura (physis) della
realtà o « di ciò che è», e da questo atteggiamento era
nato tutto quello che noi chi5lmiamo scienza. Ma,
dal sec. XIX in po~ è andata prevalendo la tendenza
a sorvolare sul primo di questi due elemen~ sull'ac-

31) Secondo Resp. 509 il Bene è ancora al di là dell'Essere (!!·n


ènéxewcc 't'ijc; où11lccc;). Ma cfr. ·532 c, dove la contemplazione
dell'idea del Bene è detta contemplazione di ciò che è ottimo tra
le cose che sono ('t'ou à:pl11't'ou bi 't'o!c; oifo~ .&é:cc). L'idea del
bene è dunque anche il supremo Essere e dà l'essere a ciò che noi
conosciamo. Similmente Aristotele, in un frammento dell'opuscolo
Sulla preghiera (Dial. frag. ed. Walzer, p. 100 (49 Rose) dice
che Dio« o è Mente o è ancora al di là della Mente (èné:xewcc
't'OU vou)». Pertanto l'oscillazione che si riscontra nei due luoghi
ad~otti sopra, riguardo al rapporto tra il Bene e l'Essere, non è,
nel senso di Platone, una contraddizione, ma o essa ha valore di
altemativa, oppure ambedue gli enunciati sono veri.
38) Resp. 509 d.
89) Vedi R. K. HAcx., God in Greek philosophy in the time of
Socrates, Princeton 1931. Ho trattato distesamente di questo .
aspetto della filosofia presocratica nelle « Gifford Lectures » da
me tenute nel 1936 nell'università di St. Andrews. Esse saranno
pubblicate in un volume col titolo: « La teologia dei più antichi
filosofi greci». È poi mio intendimento di seguire, in un lavoro
a parte, questa seconda corrente fondamentale de] pensiero greco
(che fu d'importanza decisiva per la forma in cui il mondo antico
doveva sopravvivere e operare sulle età posteriori) fino a Platone
è oltre, fino a quando, cioè, la filosofia viene ad incontrarsi,· in
questo punto capitale, con la linea della paideia. Platone riconobbe
che ogni sforzo diretto alla formazione di un più. alto tipo umano
(cioè ogni paideia, ogni cultura) sbocca nel problema della na-
tura del divino. '
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n493J 1181

cento e funzione religiosa della filosofia greca, o a con-


siderare tutto ciò come puro involucro e paludamento,
sia pure maestoso e solenne. Così facendo in realtà ci
si preclude del tutto la comprensione di Platone, la
cui importanza, dal lato religioso, supera tutti i suoi
predecessori. Il punto centrale della sua teoria, la
teoria dell'idea del bene, non può essere giustamente
apprezzata che su questo sfondo religioso. Platone è
il teologo del mondo classico 40). Senza di lui non esiste-
rebbe, della teologia, né il nome né la. cosa: Per tutte
le opere di Platone sono sparsi pensieri di importaua
assai varia sull'essenza del divino, il cui complesso ha
dato luogo al problema molte volte trattato, della teo-
logia platonica. Di tale problema nori si potrà dare·
qui una trattazione completa, ma basterà toccarlo per
quel tanto che esso rientra nel quadro della paideia
dello stato platonico, limitandoci ad assegnargli il suo
posto nell'intero edificio della paideia e a mettere chia-
ramente in evidenza la funzione teologica del princi-
pio supremo al quale Platone ci ha sollevati 41).

40) Questo capÌ il più grande dei teologi dell'occidente cri-


stiano, Agostino. E nessuno, si può dire, meglio di lui era in grado
di capirlo. Nell'VIII libro del De Civitate Dei, di quell'opera che
è, consapevolmente, il contrapposto cristiano della Repubblica
platonica, egli assegna a Platone il trono della teologia prima di
Cristo. La teologia cristiana è il prodotto dei problemi della re-
ligione cristiana trattati coi concetti e metodi della teologia pla-
tonica.
41) Cfr., su questo punto, un vecchio lavoro, che conserva an-
cora valore, di KARL STUMPF, Verhiiltniss des Platonischen Gottes
zur Idee des Guien, Halle 1869. Si sa, come del resto si sarebbe
potuto anche facilmente supporre, che il lavoro nacque dietro
suggerimento di Franz Brentano. Fu accettato poi come tesi di
laurea da Hermann Lotze, il padre della moderna filosofi.a del«va-
lore». Una nota come questa non basta certo a delineare la sto-
ria del problema; e, comunque, questo r..mane un problema. Le
mie idee su questo punto le esporrò distesamente altrove, se tro-
verò il tempo di dare un seguito alla mia « Teologia dei più an-
tichi filosofi. greci» (v. nota 39), ricercando lo svolgimento del
problema nel periodo classico del pensiero greco. Studiando il
1182 [11494) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Con l'assegnare all'idea del bene nel mondo intel-


ligibile .una posizione regale pari a quella del sole nel
visibile, Platone già le conferisce per il modo di pensare
greco, dignità divina, anche se non adopra espressa-

pensiero di Platone si devono tener presenti le parole del Timeo


28 c: « È difficile scoprite il fattore e padre di questo universo
e, trovatolo, è impossibile svelarlo a tutti». Di qui quel carattere
solenne e misterioso di tutte le espressioni platoniche su Dio.
E principalmente a questo problema centrale del suo pensiero
si debbono riportare. i passi famosi del Fedro e della lettera VII
che parlano dell'impossibilità di mettere per iscritto lessenza della
:filosofia (platonica, s'inten!).e). Platone affrontò il problema di Dio
da più lati, come ha rilevato giustamente F. SoLMSEN nel suo
Plato's Theology (lthaca, Nèw York.. 1942). Quali sono, però, le
linee principali su cni si svolse un tale accostamento al problema ?
Le affermazioni esplicite su Dio nel Timeo e nelle Leggi, parte in
forma di mito, parte fondate su argomentazione filosofica, mo-
strano, certo, Platone sempre più occupato a risolvere l'aspetto
cosmogonico e :fisico del problema. E una trattazione esauriente
della materia - quale non può, naturalmente, farsi qui - do-
vrebbe tenere in seria co!!Siderazione quelle affermazioni. Su que-
sto punto il libro del Solmsen costitnisce l'esame più recente e più
accurato di tutto il materiale testuale esistente. Il Solmsen, per
quel che riguarda il problema dell'idea del· Bene e del rllÌlgo di-
vino che le spetta nella Repubblica si accorda con coloro che ne-
gano che« il principio dell'universo» (come Platone lo chiama)
sia Dio. Si veda anche il suo predecessore P. BovET, Le Dieu de
Platon (dissertazione di Ginevra del 1902), per non dire di molti
altri, tra i quali studio9i del valore di uno Shorey e di un Gilson.
Per parte mia trovo difficile credere che Platone agli inizi si ac-
costasse al problema centrale della sua filosofia etica e politica,
Dio, - come, del resto, a qualunque altro problema - dal punto
di vista della filosofia naturale e del moto :fisico, come fa poi nel
Timeo e nelle Leggi. Certo, egli gradualmente giunse a sentire,
in misura sempre crescente, l'importanza di questo problema:
Dio, egli pensò, era necessario a mettere gli astri in movimento.
Ma l'accostamento primo al problema fu di impronta socratica,
non presocratica. Ed è questa la. linea che noi lo vediamo seguire
nei dialoghi dall'Eutifrone alla Repubblica. In essi il problema
socratico - qual è la natura e l'unità dell'areté? - si rivela alla
fine come problema del· Bene divino, la « misura di ogni cosa»
(così nelle Leggi è definito Dio). In realtà non solo sono molte le vie
per cni Platone si accosta al Divino, ma molti sono, del Divino,
gli aspetti: Dio è il bene assoluto a cni tendono tutte le cose; Dio
è l'anima del mondo; Dio è il demiurgo e creatore; Dio è ragione,
notis; e ci son poi gli dei visibili, il sole, la luna, i pianeti ecc. E fu
proprio questa diversità di aspetti e forme del Divino nella :filo-
sofia platonica, che disorientò i critici ellenistici; non loro sol-
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n495] 1183

mente la parola« Dio» 42). Sembra che di proposito


egli l'abbia evitata, perché, mentre da un lato il con-
cetto di essa era così ovvio che ogni lettore era in grado
di supplirla, dall'altro doveva premere a Platone di
rilevare la differenza tra il suo proprio principio del
divino e gli dei della religione popolare 43). In· ogni
modo, in base ai principii da lui stesso esposti a pro-
posito dell'educazione dei guerrieri, nelle« grandi linee
di teologia» destinate ai poeti, non c'è nulla a cui il
nome di divinità spetti a maggior diritto che all'idea
del bene, giac".hé ad essa si applica nell~ maniera più
perfetta la massima là formulata, secondo la quale la
divinità non opera mai il male ma sempre e soltanto
il bene 44). Questa massima, posta da Platone a fonda-

tanto, però, ma anche, e più, gli studiosi moderni, che si aspetta-


vano di trovare in Platone un Dio, non già 1tct\ITOC nÀfiP"IJ .&e:ùi\I.
Lo stesso avvenne per il dialogo, perduto, di Aristotele, Della
F;.ìlosofia, il quale naturalmente rispecchiava su questo punto
la teologia platonica: si veda il mio Aristoteles, p. 140 (trad. Calo-
gero p. 182), e la critica, a questi concetti teologici, della
scuola epicurea, fr. 26 Rose (Cic. de nat. deor. I 13, 33).
'2) Nel concetto di « re» è insita la nota del « dominare». Pla-
tone (Resp. 509 d) parla di {3occnÀe:utL\I, mentre i pensafori pre-
socratici usano volentieri, per il loro principio supremo, la parola
xu{3e:pYCiv. Le due parole son sinonimi, con i quali i Greci raffi-
gurarono l'azione e il potere di Zeus". D'altro lato, anche prima di
Platone, parecchi filosofi avevano preferito, piuttosto che usare
la parola .&e:6c;, parlare del« divino» (Tò .&e:ioY), il che accennava
a una netta distinzione dalla concezione volgare della Divinità,
per la quale esisteva una molteplicità di singole figure divine.
43) D'altra parte, Platone definisce il sole, che occupa nel mondo
visibile la stessa posizione che ha il Bene nel regno dello spirito,
come il Dio che ne] cielo è signore della luce e del vedere. E ciò
non è una semplice espressione poetica, giacché il sole e ~E astri,
anche in altri scritti di Platone, nel Timeo, p; es., e nelle Leggi
come nell'Epinomide del suo scolaro Filippo di Opunte, sono chia-
mati gli « dei visibili» ( opocTOÌ .&e:ol) e sono perciò contrapposti
a una suprema divinità invisibile. È anche importante, per questo
riguardo, notare che Platone, nella similitudine della Repul>blica,
chiama figlio questo supremo dio celeste, il sole, e padre, il Bene.
") Cfr. le « grandi linee di teologia» ( Tuno L T'ìjc; .&e:oÀoy(occ;)
in Resp. 379 a. Il principale assioma di questa teologia è che Dio
è nell'esse.nza buono (&yoc.&òc; Téj'> 6Yn). L'espressione Téj) ilYTt è
il modo platonico di designare la realtà dell'Idea.
1184 [II496] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

mento della sua critica a poeti epici e tragici per il


modo di rappresentare le divinità, è in realtà fondata,
come ora si vede chiaramente, sul riconoscimento del-
l'idea del bene come principio supremo. E forse c'è un'al-
tra ragione per cui Platone evita di designarla espressa-
mente come «Dio», ed è che questo nome non avrebbe
aggiunto niente di essenziale alla sua definizione, men-
tre, al contrario, la massima che Dio può solo operare
il bene, subordina e condiziona l'essenza e l'azione della
Divinità all'idea del bene, come a suprema misura 45 ).
In realtà l'argomento capitale per a:ffer~re la dignità
« divina» del Bene è proprio il fatto che esso ha im-
presso nel concetto platonico del divino il suo proprio
carattere di « misura». Poiché Dio è, come è detto
nelle Leggi, la misura di tutte le cose 46), ed è tale perché
è il Bene. L'idea del bene nella Repubblica è la norma
assoluta .di quella concezione della :filosofia - che appare
assai presto nel pensiero platonico e che vi rimane fino
alla fine - che vede in essa una suprema «arte della
misura». Quest'arte, però, non può consistere, secondo
l'idea dei Sofisti e della massa espressa nel Protagora,
in un bilancio puro e semplice di piaceri e dispiaceri
soggettivi; quella che essa esige è una misura assoluta-
mente obbiettiva 47). E, a questo proposito, possiamo

41i) Certo, in termini di religione greca, la parola « dio » è un


predicato che converrebbe al Bene supremo operante in ogni
cosa, a maggior diritto che !!.d alcun'altra delle potenze di que-
sto mondo che i Greci venerano come dei. Ma naturalmente, quello
che interessa essenzialmente Platone, dal punto di vista :filosofico,
è il contributo che egli dà alla retta concezione del divino col
definire il principio del mondo come il Bene in sé.
46) L'affermazione di Platone nelle Leggi 716 e, che Dio è mi-
sura di tutte le cose, è, ovviamente, in consapevole antitesi col
famoso detto di Protagora: «l'uomo è misura di tutte le cose».
47) Prot. 356 d-357 h. Il vero criterio di misura è il Bene in sé.
L'idea che esista una suprema arte della misura e che la conoscenza
dei valori propria del filosofo (qip6v1jO't<;) ~a una capacità di mi-
surare, è un filo che percorre l'opera platonica fino agli scritti
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n497J 1185

addurre anche un'altra testimonianza, quella di Aristo-


tele, che, in uno dei suoi dialoghi giovanili, nel quale,
chiaramente, si moveva ancora sul terreno dellè con-
vinzioni platoniche, chiamava il Bene, « la misura più
esatta» 48). Questa formulazione mostra, da un lato,
lo stretto vincolo esistente tra il Bene e l'esatta arte
della misura voluta da Platone, dall'altra getta molto
opportunamente un ponte tra l'idea del bene nella
Repubblica e il Dio delle Leggi,, «misura di ogni cosa».
Per il realismo ontologico di Platone l'idea del bene
è, essa stessa, un'essenza buona, anzi è l'essenza buona
nella sua forma perfetta, a quel modo che l'idea del
bello è essa stessa bella, anzi la più bella delle cose
reali. Ma per Platone esser buono e essere beato sono
una, identica cosa 49). D'altra parte, per il pensiero
religioso dei Greci, non c'è alcuna nota che più stret-
tamente competa al concetto di divinità della beati-
tudine. In Omero, gli dei sono «i beati», semplice-
mente. Secondo la nostra interpretazione, dunque, se
veramente Platone considerò l'idea del bene come di-
vinità, ad essa, modello di tutto ciò che nel mondo è
chiamato buono, dové convenire, nel suo pensiero, an-
che il predicato della beatitudine, e l'attribuzione di
tale predicato dové anche essergli facilitata dalla sua
.dottrina della identità di areté (cioè « esser buono ») e
beatitudine. Essendo il Bene assoluto la causa dell'esi- .
stenza di ogni specie di areté nel mondo, esso deve

dell'ultimo periodo. È idea che s'incontra nel Politico, nel Filebo,


nelle Leggi, in applicazioni sempre nuove al problema dell'azione
retta, nell'etica, nella politica, nella legislazione. In questa linea
il punto culminante è il luogo delle Leggi in cui Dio è detto mi-
sura di tutte le cose (v. n. 46). Ma fin dal Gorgia Platone afferma
chiaro ed esplicito che il Bene solo è il vero telos.
4S) Arist. Dial. frag. ed. Walzer, p. 99 (79 Rose).
U) Aristotele vede in questa formula l'essenza del platonismo:
cfr. l'Elegia dell'altare e l'interpretazione che ho dato di essa nel
mio Aristoteles p. 107 ss. (trad. Calogero, p. 137 ss.).
1186 [rr498] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

aver parte anche nella eudaimonia, o piuttosto deve


essere, di essa, la prima fonte. E in realtà, in un passo
successivo della Repubblica, al quale non si è data
tutta l'attenzione che merita in relazione a questo
punto, Platone dice proprio questo: che «l'idea del
bene è la più beata di tutte le cose che esistono» so).
Come ormai è chiaro il Bene è quel supremo paradigma,
di cui il filosofo porta ;nell'anima la conoscenza 51). In
luogo di quei modelli di areté, in figura umana, che
l'antica paideia metteva dinanzi agli occhi degli uomini
nelle opere dei poeti, la nuova paideia filosofica di Pla-
tone pone immediatamente . come paradigma, la divi-
nità del Bene. Così la formula del Teeteto, che chiama
la vita del filosofo conforme all'areté, « assimilazione
con Dio», diventa espressione pregnante per la pai-
deia platonica 52), e si fa evidente la connessione del-
l'idea del bene con l'educazione del reggitore filosofo,
nella quale essa deve essere la « cognizione massima»,

SO) Resp. 526 e. Platone parla qui del volgersi dell'anima del
filosofo alla regione in cui si trova« la cosa più beata dell'essere»
(-.ò e:ùlìocLµ.ovfo-.oc"t"ov "t"OU ovToç). Con ciò intende l'idea del bene.
P AUL SHOREY nel commento ad loc. svaluta come « retorico » questo
modo di rappresentarla; in realtà esso corrisponde perfettamente
alla definizione del Bene come "t"Ò &p Lcr"t"ov è:v "t"OÌç oi'icrL, Resp.
532 c 6; cfr. n. 37.
01) Resp. 484 c. Fino a questo punto è detto ·soltanto che gli
uomini privi della conoscenza di« ciò che è», i quali non hanno
nell'anima alcun p ara di g ma chiaro, non differiscono quasi
dai ciechi, poiché non hanno alcun punto di riferimento a cui af-
fissarsi nel pensare, e con cui orientarsi in ogni azione. Si vedrà
poi che l'antitesi perfetta di tali uomini è data dai reggitori filo-
sofi dello stato platonico i quali danno ordine a se stessi e alla polis
proprio in quanto rivolgono la· parte dell'anima desiderosa di
luce a ciò che dà luce a tutte le cose,.e contemplano il ·Bene in sé,
nella sua purezza. per usarlo poi come paradigma (Resp. 540 a).
Questo paradigma supremo è la « misura di tutte le cose» di cui
parla Platone nelle Leggi (716 c), identificandolo con Dio.
62 ) Theaet. 176 b· oµ.o(w<rn; .&Eéj); cfr. anche già in Resp. 613 b
dç iScrov lìuvoc"t"Òv &.v.&pw7tCf> .oµ.ow\icr.&ocL .&e:éj>. Se Dio è il Bene
in sé, l' oµ.o[(,)crt'C; .&céj> diventa la formula della conquista deirareté.
Cfr. infra, p. 514, n. 87.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [II499] 1187

la dottrina capitale. Se infatti Dio è per essenza buono,


anzi se è il Bene in sé, la più alta areté che l'uomo
possa raggiungere è veramente un processo conducente
a somigliare a Dio. Giacché, come già si è visto nei
dialoghi minori, a fondamento comune di tutte le sin-
gole virtù sta il Bene in sé. Quei brevi scritti mirano
tutti con le loro indagini sulle virtù, a un solo scopo,
che non è quello di definire le singole virtù, ma di av·
viare al principio del Bene in sé, che nella Repub-
blica si chiarisce come la divina causa prima di ogni
pensiero e di ogni realtà 53). A prima vista sembra che
ciò non si _accordi col fatto, già da noi rilevato, che
Platone, là dove s'inizia l'esame della paideia più alta,
ha posto espressamente come fine e compito del pit·
tore filosofo quello di ritrarre l' « umano» 54). Ma, a
guardar meglio, già allora egli stabiliva un paralle-
lismo tra questo «umano» e l'esser« simile a un dio»
dell'uomo omerico e osservava che la nuo'"a immagine
umana deve essere èosì commista di lineamenti ideali
e reali da essere il più possibile cara a Dio 55). Anche
là quindi non è l'uomo, nella contingenza della sua
individualità, la norma suprema, come lo è invece per
la paideia dei Sofisti, che fa dell'uomo la misura di tutte
le cose. L'umanità vera e piena si realizza solo nello
sforzo di avvicinarsi al divino, cioè alla « misura»
eterna 56 ).

Queste considerazioni ci hanno condotto ad antici-


pare alquanto i resultati della ricerca platonica. Giac-
ché, apparentemente, Platone qui si trattiene solo sul-

03) Resp. 511 b; vedi pure 508 e.


64) Resp. 501 b TÒ &:vòpe:lxe:)..ov; cfr. supra, p. 478.
55) Resp. 501 b TÒ .&e:oe:Loeç "e: xcxt .&e:oe:lxe:)..ov e 501 e e:tç
l5crov ivòtxe:TcxL .&e:oqn)..ij ::rotdv (scil. &:v.&pw7te:tcx 'ij.&71).
56) Cfr. nota 46.
1188 [n500] LIBRO III - ALLA RJCERCA DEL DIVINO

l'aspetto metafisico dell'idea del bene, sì da far sem-


brare, sul primo momento, che egli abbia perduto com-
pletamente di vista il rapporto di essa col compito
dell'educazione umana. E questa apparenza ha sempre
indotto gli espositori a sciogliere dal contesto la simi-
litudine del sole e a intenderla come simbolo, a sé stante,
della metafisica o della dottrina della conoscenza di
Platone, anche perché con essa termina il VI libro e
pertanto essa può apparire (contro l'intenzione dello
scrittore) come un punto culminante dell'esposizione,
separato da ciò che segue. In realtà, quello che la si-
militudine vuol chiarire è certo una scienza, ma questa
è pur la scienza del B e n e ed è perdò intimamente
connessa col problema della virtù. Anche quando Pla-
tone svolge dai presupposti socratici conseguenze me-
tafisiche estreme, fa struttura del suo pensiero seguita
a mostrare le tracce di quel terreno educativo in cui
affonda le radici. Una ontologia che culmina nell'idea
del bene è la metafisica della paideia. L'Essere di cui
Platone parla non è senza connessione con l'uomo, con
la volontà dell'uomo. L'idea del bene, che riempie di
senso e di valore il mondo platonico delle Idee, appare
come la natural meta di ogni sforzo umano, e la cono-
scenza di essa esige dall'uomo, nell'azione, un atteg-
giamento che le corrisponda. Questa meta sta però
al di là del dato immediato, del mondo dell'apparenza,
ed è come nascosta all'occhio dell'uomo, in quanto es-
sere di sensi, da veli di varia natura. Il primo passo
a che la luce del Bene investa nel suo pieno fulgore
l'occhio dell'anima, è quello di dissipare l'ostacolo di
questi veli. .
Platone, perciò, a chiusa della similitudine del sole,
ricorre ad un'altra immagine, significante i piani di
conoscenza che di grado in grado 'conducono dalla più
illusoria apparenza fino alla visione della più alta realtà.
CAP. X: LA REPUBBLICA, li (II501J 1189

L'immagine è di natura matematica. D grado di appros-


simazione della nostra conoscenza alla realtà può essere
rappresentato da una retta divisa in due segmenti
ineguali.

A / B
/
Ciascuno dei due segmenti a sua volta è diviso in
due parti, secondo lo stesso rapporto secondo il quale
è divisa la linea intera 57).

Ai / Az / B1 / B2
/
I due segmenti maggiori A e B rappresentano rispet-
tivamente il mondo visibile e il mondo intelligibile,
o (dal punto di vista della teoria delle idee) il mondo
della mera opinione e il mondo della verità e cono-
scenza. Delle due parti in cui si suddivide il segmento
che indica il mondo visibile, Al e A2, là prima sta ad
indicare ogni sorta di fenomeni di puro riflesso o copia,
come le ombre, le immagini speculari di cose riflesse
nell'acqua o su superfici solide lucide; la seconda sud-
divisione rappresenta tutto il mondo di piante e di
animali che ci circonda e inoltre ogni sorta di cose fab-
bricate artificialmente. Gli oggetti della prima sezione A1
sono i riflessi di quelli della seconda sezione A2 • Si tratta
cioè sempre degli stessi oggetti che, sui due piani, ci
si presentano in due diversi gradi di chiarezza e di
realtà. Ma un rapporto corrispondente deve sussistere
anche tra gli oggetti indicati dalla terza sezione B1
e quelli della quarta B 2 , giacché la divisione della linea

57 ) Resp. 509 d.
1190 [n502J LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

intera e la suddivisione di ciascuno dei due segmenti,


in cui essa si divide, secondo lo stesso rapporto, signi-
fica che Platone pensa a una vera proporzione. Natural-
mente il significato vero e proprio di questa non è ade-
guatamente esprimibile per mezzo di linee geometriche,
in quanto non si tratta qui tra gli oggetti messi a con-
fronto, di rapporto quantitativo, bensi del loro rela-
tivo grado di realtà e dell'esattezza della conoscenza
che noi abbiamo di essi. Solo con la seconda delle due
sezioni principali (B} si giunge, fuor dal regno della
mera opinione, in quello della conoscenza e ricerca scien-
tillca, in quello della verità, cioè nella regione in cui
deve muoversi, secondo Platone, l'educazione del reg-
gitore filosofo. Qui per la prima volta è chiaramente
espresso il fondamento metodico-pedagogico su cui essa
riposa. Anch'essa a sua· volta è concepita come un
processo graduale, che, elevando il discepolo al di sopra
del mondo sensibile, lo innalza finalmente al culmine
supremo del vero.
La prima sezione B1 del secondo segmento B rap-
presenta le discipline speciali ("téx_von) 58), che, come la
matematica, partono da ipotesi, e sviluppando fino
alla fine tutte le conseguenze di queste, giungono a
nuove conoscenze 59). Esse si servono nel loro lavoro,
come di modelli, di figure visibili, ma le verità che esse
dimostrano non sono propriamente valevoli per quei
modelli, bensì per il Triangolo- in sé, per il Cerchio
in sé, che esse si vedono davanti come oggetto, nel
pensiero 60). In quanto esse si sforzano di astrarre dal
sensibile e di concepire il vero in sé di triangolo, cir-
colo, angolo ecc., esse sono strettamente affini al più

68) Resp. 511 c 6, dove le scienze, a questo livello, sono chiamate


« le cosiddette -.éxvccL ».
59) Resp. 510 b.
!IO) Resp. 510 d; cfr. 510 b.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n503] 1191

alto metodo di conoscenza :fìloso:fica. Ma d'altro canto


rimangono legate al mondo sensibile e al piano di co-
noscenza che gli corrisponde, la doxa., in due modi:
1° partono da ipotesi costruite sul fondamento di im-
magini sensibili, di :figure visibili, anche se le proposi-
zioni che dimostrano, non propriamente a tali imma-
gini si riferiscono; 2° non si elevano mai al disopra
del piano dei loro presupposti, accettati come veri
(«postulati»), mentre non altro fanno che rimanere
in essi, addentrandovisi con lo svolgimento logico di
tutte le loro conseguenze; sono costrette a trattarli,
questi postulati ipotetici, come « principii» (à:px.cx() 61).
Solo nell'ultima sezione del secondo segmento rappre-
sentante il mondo intelligibile (B2) si giunge a una sorta
di conoscenza, che muove, anch'essa, da ipotesi, ma
non le accoglie, come la matematica, con valore di prin-
cipii, bensì secondo il preciso significato della parola,
come fondamenti e basi, da cui si leva in alto per pe-
netrare :fino all'incondizionato, al principio del Tutto 62).
Questa specie di conoscenza è il vero, o puro logos.
Esso si solleva a comprendere il principio supremo;
raggiuntolo poi, ne discende di grado in grado, da quello
che è ad esso più vicino, giù giù :fino alla :fine, senza
ricorrere all'aiuto di alcuna percezione sensibile, sicché
passando sempre da Idee a Idee, nelle Idee alla :fine
si ferma 63).

Più di una volta Platone stesso rileva la difficoltà


di fare intendere, in forma cosi compendiosa, questo
processò graduale, facendo che l'interlocutore di So-
crate, del resto assai bene addestrato :filosoficamente,
da principio non capisca affatto, e all~ :fine ·capisca

61 ) Resp. 511 c-d.


6Z) Resp. 510 b (cfr. anche nota seguente).
63) Resp. 511 b.
1192 [rr504] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

solo a un dipresso, ciò di cui si tratta 114). Ma, evidente-


mente, per Platone non si tratta qui di svolgere in una
pagina la parte più riposta della sua dottrina del me-
todo e della sua logica - come sembra credere la più
parte degli espositori che hanno sempre trovato in
questo passo il loro paradiso - ; quel che egli vuole
è solo chiarire, à grandi linee, il processo graduale del
conoscere giungente :fino alla dialettica liberata da ogni
immagine sensibile, la quale conduce al principio del
Tutto, all'incondizionato, e con ciò si fa capace di
comprendere tutto il resto, come derivato da quello.
Solo una tale conoscenza merita il nome di ragione
(nous); paragonato con essa il grado matematico del sa-
pere non è che intelletto (dianoia); il grado della perce-
zione sensibile del mondo delle cose · è solo una opi-
nione, ferma ed evidente, ma non dimostrata (pistis);
il quarto grado infine è pura e semplice congettura
(eikasia) 65) e il suo oggetto, considerato dal gradino im-
mediatamente precedente della percezione sensibile delle
cose reali, appare come mera copia 66). Nello stesso
modo però, il reale sensibile (p. es. una sfera di legno)
è a sua volta una mera copia di quel tipo di realtà con
la quale ha a che fare il matematico (la Sfera in sé) 67).
Platone non dice che anche la realtà concepita nella
conoscenza matematica sta in un rapporto di copia a

64) Resp. 510 b 10, 511 e 3.


85) Resp. 511 d. Il criterio base del confronto qui istituito da
Platone tra i quattro piani di conoscenza è il grado maggiore
o minore di aa:cp1Jveta: (e rispettivamente di &.a&cpe:ta:) che ciascuno
di essi rappresenta: aa:cp1Jve:La: è da intendere tanto come intel-
ligibilità quanto come oggettività reale; Cfr. 510 a 9 cXÀ'l).&d~
66) elxci>v vale« copia» non solo nel senso di «ripetizione»
o « riproduzione», ma anche nel senso di « attenuazione» dell'iin-
magine rispetto al modello, come mostrano gli esempi. Così Pla-
tone chiama etx6ve:ç le ombre e le immagini speculari delle cose
sensibili: 509 e-510 a.
67) Resp. 510 e, 511 a.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n505] 1193

modello con la realtà della dialettica. Pure egli deve


avere in mente' qualcosa di simile, quando dice che le
proposizioni più generali, che il matematico assume
come principii, non sono che ipotesi per il :filosofo, dalle
quali egli soltanto risale al vero e proprio principio 68).
La proporzione matematica che rappresenta i quat-
tro gradi conduce dalla comparazione del sole, termine
e punto culminante del sesto libro, alla similitudine
della caverna, che configura simbolicamente, con altis-
sima forza poetica, l'ascensione, :fin qui descritta solo
astrattamente, della conoscenza all'idea del bene.
« Dopo ciò» - cosi comincia Socrate il famoso rac-
conto degli uomini della caverna 69)-« paragona la nostra
disposizione naturale, in quel che riguarda paideia, e
apaideusia, a una condizione di vita di questo genere:
uomini vivono in una caverna sotterranea, che per
mezzo di una larga e lunga galleria ascendente si apre
alla luce esterna. Questi uomini son vissuti :fin da fan-
ciulli incatenati, per le gambe e per il collo, sicché
non possono né muoversi né girarsi, e sono. costretti
a guardar sempre davanti a sé, rivolti con le spalle al-
l'uscita. Dietro di loro, a grande distanza e presso allo
sbocco della galleria, divampa un fuoco, e il riverbero
di questo, passando sulle teste dei prigionieri va a col-
pire la parete di fondo della caverna. Tra loro e il fuoco
corre una strada ascendente, e lungo questa un muric-
ciolo paragonabile a una di quelle ribalte di teatro di
marionette sulle quali i burattinai fanno agire i loro

68) Resp. 511 h 5.


89) Resp. 514 a: la parola &7tdxa:crov mette espressamente la
similitudine che segue sullo stesso piano delle altre dx6veç a
cui Platone è ricorso in questo contesto, cioè la similitudine del
sole e quella della proporzione matematica. Anche quest'ultima,
infatti, è una dx©v di tipo regolare, come mostrano il sinonimo
òµo~6Tljç (509 c 6) e l'uso del verbo fo1xe, connesso con dx©v
(510 a 5; 510 d 7).
1194 [11506] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

fantocci. Dietro il muretto sono uomini che portano,


lungo di esso, oggetti usuali d'ogni genere e figure di
legno e di pietra, ,talvolta in silenzio, tal altra anche
parlando tra loro. Questi oggetti sporgono al di sopra
del muretto e il fuoco proietta le loro ombre sulla pa-
rete di fondo della caverna., I prigionieri che non pos-
sono volgere il .capo verso lo shocco· della caverna, e
che, perciò, non hanno mai visto nulla in vita loro se
non ombre, le prendono, naturalmente, per la realtà,
e quando nello stesso tempo sentono l'eco delle voci
dei passanti, credono che siano le ombre a parlare.
Immaginiamo ora che uno di costoro sia sciolto
dalle catene e, da un momento all'altro, salga in alto
e veda la luce: non sarà certo capace di scorgere, in
tutto il lòro variopinto splendore, le cose di cui fin qui
ha visto le ombre e non crederà a chi gli assicuri che
tutto· quel che ha visto fin qui è come nulla, e che ora
il suo occhio scorge un mondo di superiore realtà 70).
Al contrario, sarà fermamente convinto che quelle
fono.e umbratili alle quali è abituato· sono la vera realtà,
e finirà per rifugiarsi, con occhi doloranti, nel buio
della caverna. Una lunga assuefazione sarà necessaria
prima che egli sia in grado di mirare il mondo di sopra.
Da principio riuscirà. soltanto a vedere ombre e poi
immagini rlllesse nell'acqua degli uomini e delle altre
cose, e solo a stento, alla fine, vedrà le cose stesse.
Poi riuscirà a guardare il cielo . e gli astri della notte,
in tutto il loro splendore, finché sarà capace di volger
l'occhio al sole, non più al suo riflesso nell'acqua o
in altro luogo, ma al sole stesso nella purezza della sua
luce· e proprio là dove esso è. Poi si renderà conto che
il sole è quello che produce la vicenda delle stagioni
e degli anni e che dom.i:Ila e regola ogni accadimento

?O) Resp. 515 c.


CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [rr507] 1195

del mondo visibile, che, insomma, esso è la causa di


tutto quello che egli stesso e gli altri hanno sempre
visto, anche come mera ombra. Se egli allora si ricorderà
della sua primitiva abitazione e delle sue opinioni d'al,
lora, e · dei suoi compagni di prigionia, stimerà felice
se stesso, per la mutazione avvenuta, e compiangerà
quegli altri. Supposto che ·tra quegli incatenati esista
qualche forma di onore o di riconoscimento per colui
che meglio e più acutamente riesca a vedere le ombre
trascorrenti e meglio tenga a mente quali di quelle ap-
parenze " sogliono " venir prima e. quali dopo e· quali
contemporaneamente, sicché a lui meglio riesca di pre-
dire in qualche modo il futuro imminente [Platone
ha in mente qui l'uomo politico che si fonda puramente
sull'esperienza], allora quell'uomo sciolto dalle catene
non penserà con rimpianto a tali onori e non invidierà
i compagni che ancora li godono, ma vorrà piuttosto,
come l'Achille omerico, aver la sorte del più umile
lavoratore a giornata nel mondo superiore della ragione,
che quella di re nel mondo delle ombre 71 ). E se egli
poi dovesse ritornare nella caverna e là mettersi come
prima a gareggiare con gli altri, a chi meglio riesce a
distinguere le ombre, non riuscirebbe più in questo
lavoro e desterebbe il riso, perché non sarebbe più in

11 ) Resp. 516 c 9. Evidentemente Platone contrappone qui la


politica come conoscenza delle Idee, culminante nella visione del
Divino, alla politica della pura esperienza. È significativo, a questo
proposito, l'uso di d~e:L (516 d) per caratterizzare l'uomo poli-
tico nel senso convenzionale, non socratico. Giacché ogni propo-
sizione o giudizio fondato solo sull'esperienza può, nel migliore
dei casi, giungere solo alla percezione di ciò che di regola suole
avvenire in un certo modo e non altrimenti. Sull'uso della formula
y[yvccr-&1n (o cruµ~a[ve:Lv) e:tro-&e:, caratteristica del metodo
empirico, in medicina come in politica, cfr., per la prima il mio
Diokles von Karystos, p. 31 e, per la seconda, il mio saggio The
date of Isocrates' Areopagiticus and the Athenian opposition in
« Athenian Studies» presented to W. S. Ferguson, Cambridge
1940, p. 432.
1196 [II508] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

grado di vedere al buio, cioè, come direbbero gli altri,


perché si sarebbe rovinati gli occhi nel suo viaggio al
mondo superiore. E se poi gli venisse in mente di libe-
rare uno degli altri e di portarlo su, allora gli altri lo
ucciderebbero se gli potessero mettere le mani addosso».
L'interpretazione della similitudine è data anche qui
dallo stesso "Platone. Essa risulta chiara quando la si
collega con la similitudine del sole e con la proporzione
matematica dei gradi dell'essere 72). La caverna corri-
sponde al mondo visibile, e il fuoco che la illumina è
il sole. L'ascesa verso l'alto e la visione del mondo su-
periore è immagine del viaggio dell'anima, su su fino
al mondo intelligibile. Tutto questo Socrate lo pre-
senta come una sua personale « speranza», che egli
ha esposto perché Glaucone l'ha voluto. Se essa sia
speranza verace lo sa Iddio; a lui, Socrate, pare che
lo sia 73). Questo concetto di speranza è quello stesso
che si suole usare nel linguaggio dei misteri per de-
signare l'aspettazione che l'iniziato alberga nell'animo
riguardo all'aldilà. Qui> dunque, il concetto di passag-
gio da questo mondo all'oltremondo è trasferito o as-
similato al passaggio che l'anima compie dal mondo vi-
sibile all'invisibile 74). E davvero anche la conoscenza del
vero Essere è un passaggio dal tempo all'eternità. Nella
regione del puro conoscere è quel termine estremo che l'a-
nima « con fatica» apprende a vedere, l'idea del bene.
Ma, una volta contemplatala, si deve concludere che essa
è la causa di tutto quello che nel mondo è vero e bello,
e che se si vuole agire secondo ragione, nella vita pri-
vata come nella pubblica, bisogna averla contemplata 75).

12 ) Resp. 517 L.
•.3) Resp. 517 b 6.
74 ) :Vedi la parola tÀ7tL<; nelle mlessioni del vecchio Cefalo
sulla vita dopo la morte, e le parole di Platone sulla « buona spe-
ranza» dell'uomo che ha vissuto la vita del filosofo, Resp. 496 e.
75 ) Resp. 517 c.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [u509] 1197

La riluttanza del vero filosofo all'affaccendarsi tra le


vicende umane, l'impulso che lo anima a dimorare là,
nella regione suprema, non è cosa che debba parere
strana, se è esatta e conveniente la similitudine ora
esposta, e se si capisce la necessità che il filosofo
appaia figura ridicola quando da quelle divine visioni
egli ritoma alle brutture del mondo umano e i suoi
occhi accecati da luce sublime non si sono ancora abi-
tuati all'oscurità. Ma l'accecamento che colpisce l'oc-
chio dell'anima quando essa discende dalla luce al~
l' O"Curità è ben diverso da quello che la coglie nel pas-
saggio dalla caverna, dall'oscurità ·dell'ignoranza, alla
luce: chi vede il fondo delle cose farà a meno di ridere
e stimerà felice l'anima per il passaggio alla luce e la
compiangerà per il suo opposto 7&).
Ci siamo fermati ad esporre questa parte della Re-
pubblica con molta aderenza perfino verbale, non solo
perché essa costituisce il culmine poetico dell'opera
intera, ma soprattutto per la sua fondamentale impor-
tanza rispetto al nostro tema. Di fronte a queste due
così profonde allegorie, che sono state interpretate in-
numerevoli volte, dall'antichità, ad oggi, e nei più di-
versi significati, noi ci troviamo in una situazione sin•
golarmente favorevole: Platone stesso ha apposto ad
esse la sua propria interpretazione, breve, chiara e com-
pleta. Questa dirige l'attenzione del lettore al punto
preciso che più sta a cuore a Platone e gli impedisce
di sviarsi in questioni, che per importanti che siano
in sé, non si prestano ad essere partfoolarmente svolte
in questo contesto, come, p. es., il problema del metodo
filosofico, che costituisce un particolare interesse della
filosofia moderna. In realtà, relativamente a questo
problema, il nostro testo piuttosto che contribuire al

76 ) Resp. 517 d.
1198 [rr510] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

chiarimento di esso, ha bisogno di essere commentato


essò stesso alla luce di altri dialoghi platonici. Perciò
in quel che segue ci si limiterà a riassumere brevemente
quel che Platone stesso dice sulla portata delle due si-
militudini, riguardo al suo tema fondamentale.
La similitudine del sole e quella della caverna, che,
come abbiamo chiarito, sono ridotte ad unità dalla
proporzione matematica istituita tra i quattro grad~
di realtà, costituiscono un'unica immaginosa e con-
creta rappresentazione della natura della paideia. Po·
chi, però, tra i moltissimi espositori della filosofia an·
tica, che pur riferiscono tutti le due similitudini come
i più efficaci simboli della concezione dell'essere pro-
pria di Platone, pochi pongono mente al periodo ini-
ziale del settimo libro? dove Platone, introducendo la
similitudine della caverna, dice espressamente che essa
è simbolo della paideia, anzi, più esattamente, la defi-
nisce come un'immagine della natura umana relativa-
mente a cultura ed inculttll'a, paideia e apaideusia.
In ciò, un lettore che sia capace di intendere più di
una proposjzione alla volta, in connessione logica, scorge
un richiamo in due direzioni, a ciò che precede e a
ciò che deve seguire. Giacché, non è la similitudine
della caverna il primo momento in cni si parli della
paideia; ad essa si riferiscono anche la precedente simi-
litudine del sole e la teoria della proporzione delle
quattro parti della realtà. Colà era stata fissata alla
paideia la sua meta suprema: la conoscenza dell'idea
del bene, della misura di tutte le misure. Ed era stato
anche detto, là dove l'idea del bene era stata chiamata
« la cognizione massima» 77), che questo deve essere il
primo passo ne]J.a descrizione dell'educazione del reg·
gitore filosofo. Viene ora la similitudine della caverna

71) Resp . 504 e, 505 a.


CAP. X: LA REPUBBUCA, Il [IISll] 1199

a mostrare come si comporta di fronte a questa meta


la nostra natura 78). In essa la paideia non è guardata,
come nella similitudine del sole, dal punto di vista del-
l'incondizionato, ma da quello dell'uomo; come la mu-
tazione, la purificazione dell'anima per giungere alla
visione dell'essenza suprema. Platone ci fa passare
dalla considerazione della meta a quella del « pathos »
di questo interiore processo educativo e ci apre cosi
la via alla descrizione del suo procedimento metodico
nell'insegnamento matematico e dialettico. Ancor prima
di chiamare il lettore alla severa discussione razionale
delle pagine seguenti, sul valore formativo di questo
studio, egli fa presentire la natura e il valore di que-
sto processo spirituale nella sua interezza, con la vi-
sione dell'anima che ascende alla regione della luce e
della vera realtà. Della forza di questo pathos egli ci
dà i1 senso vivo e rende visibile, nella trasformazione
che si attua nell'anima, quell'opera liberatrice della
conoscenza, che è per lui la paideia nel senso più alto.

È naturale, che ogni lettore dei primi dialoghi pla-


tonici stia in attesa del momento in cui, nella costru-
zione del sistema educativo contenuto nella Repub-
blica, si traggano le conseguenze di quella rivoluzione
del concetto di sapere, che è proclamata per la prima
volta nel Menone 79). In fondo, fin dai suoi primi scritti,
Platone si era preoccupato di presentare l'ignoranza
socratica come l'aporia di colui che già si avviava a
superare e approfondire il concetto dominante del sa-
pere. Quello che su questo problema espone a varie
riprese la Repubblica, non può, naturalmente, stare in
confronto, in fatto di precisione, coi dialoghi, ricerche

78 ) Resp. 514 a tX1te:bcctO"OV TOLOU'rcp mx%e:L T li V 'ÌJ µe; T €; p C( V


<pUO"LV 1rctL3e:lctc; TE: 1tÉpL Kctl tX1rctL3e:ucrlctc;.
79) Cfr. supra, p. 283.
1200 [rr 512] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

speciali sul problema della scienza, ma può soltanto


organizzare e inquadrare i resultati di quelli. L'inter·
pretazione che Platone stesso dà delle similitudini del
sole e della caverna è tale da fare escludere assoluta·
mente il concetto usuale di paideia, per il quale il sapere
è riversato in un'anima ignorante come se ci si provasse
a innestare la vista negli occhi di un cieco 80). Al con·
trario, l'educazione vera è il risvegliare facoltà che
nell'anima sono sopite. L'educazione mette in funzione
l'organo col quale s'impara e s'intende, o, per rima·
nere all'immagine dell'occhio e della facoltà visiva,
l'educazione dell'uomo è l'opera per cui l'anima è
messa nella posizione giusta di fronte alla sorgente
della · luce, della conoscenza. Come avverrebbe se il
nostro occhio non potesse volgersi alla luce se non con
la conversione totale del -corpo verso la fonte lumi-
nosa, cosi noi dobbiamo « con tutta l'anima» distac·
carci dal regno del divenire, finché essa si faccia capace
di sostener la vista della più luminosa profondità del-
l'essere 81).
La natura, dunque, dell'educazione filosofica è ve·
ramente di «conversione» (m:pLIXyeùyfj) nel significato
spaziale («volgersi», « voltarsi») originario di questa
parola. Essa è il «voltarsi» di « tutta l'anima» alla
luce dell'idea del bene, cioè all'origine del Tutto 82).

80) Resp. 518 h 6 ss.


81 ) Resp. 518 c.
&Z) Resp. 518 c-d. In questo passo la parola usata da Platone
è m:pLetyroy1]. ma non è espressione fissa. Si trovano anche µ.e-
't'eta't'po<p1J e i verbi 1te:pLa-.pé<pe:a-3-cn e µneta-rpé<pe:a-3-etL. Tutte
queste espressioni tendono a dare la stessa immagine sensibile;
l'immagine di chi volge la testa e dirizza gli occhi al bene divino.
Cfr. A. NOCK. Conversion, Oxford 1933. Il Nock ha rintracciato
nell'antichità c~ssica i precedenti del fenomeno religioso cri·
stiano della conversione e, in tale ricerca, ha menzionato anche
il luogo platonico che qni ci interessa. Quando si ponga il pro-
blema, non già del fenomeno« conversione» come tale, ma del·
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n513J 1201

Questo processo da un lato è diverso dall'esperienza


di fede del cristiano, alla quale il concetto :6.loso:6.co
della conversione fu più tardi trasferito, e la dift'e-
renza consiste nell'essere la conoscenza del filosofo an-
corata a un essere obbiettivo. Ma d'altro canto questo
processo,· cosi come Platone lo intende, è anche ·del
tutto esente da quell'intellettualismo, che a torto gli
si rimprovera. La lettera settima mostra che la scin-
tilla del conoscere si accende soltanto in un'anima che
attraverso un'opera di lunghi anni sia divenuta il più
possibile affine al suo oggetto, al Bene in sé 83). La vi-
vente attuazione di questa phronesis è una virtù che
Platone distingue dalla virtù civile, come virtù filoso-
fica, giacché essa si fonda sulla consapevole conoscenza
del principio eterno di ogni bene 84). Le «cosiddette
virtù» (temperanza, fortezza ecc.), al possesso delle
quali mirava l'educazione dei guerrieri, in confronto
con essa, appaiono piuttosto affini con le virtù del
corpo (forza, salute ecc.). Quelle virtù non esistevano
originariamente nell'anima, ma furono create in lei con
l'abitudine e l'esercizio 85). Invece, la virtù filosofica,
la phronesis è quell'unica, comprensiva, virtù che So-
crate era andato cercando per, tutta la vita. Essa
appartiene a una parte più divina dell'uomo, che in
lui è sempre presente, anche se il suo svilupparsi
dipende dalla direzione giusta a cui l'anh:na si volga,
dalla « conversione » totale, essenziale, d1 essa, al
Bene 86). L'educazione filosofi.ca e la virtù filosofica

l'origine del corn:euo cristi1U10 di conversione, si deve riconoscere


in Platone l'autore primo di questo concetto. Il trasferimento del
vocabolo all'esperienza religiosa cristiana ebbe luogo sul terreno
del primitivo platonismo cristiano.
sa) Ep. VII, 344 a, cfr. 341 c-e.
84) Cfr. Resp. 500 d, Phaedo, 82 b.
86) Resp. 518 d.
88) Resp. 518 e.
1202 [n514] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

che le corrisponde, sono un grado più alto dell'edu-


cazione e della virtù perché sono un grado superiore
dell'essere. E se nel cammino che l'anima compie
nello sforzo di formarsi alla sapienza, si dà un progresso
a un più alto grado di essere, cioè a una perfezione più
alta, allora questo cammino è veramente, secondo le
parole di Plàtone nel Teeteto, ·«assimilazione a Dio» 87).
Qui si placa quella incessante, riposta tensione che
aveva improntato gli sforzi di Socrate e dei suoi inter-
locutori, attraverso tutti i dialoghi platonici, per la
conoscenza della virtù in sé e del bene in sé. Si placa,
perché ha raggiunto qui la sua meta, anche se non può
mai realmente terminare in uno stato di possesso per-_
manente e di inerte soddisfazione. Si può infatti dire
che, se dal ·punto di vista dell'individuo, la filosofia è,
per essenza, lotta e sforzo continuo nella direzione di
quel« paradigma che sta in ciò che è » 88), nella conce-
zione ideale di uno stato, invece, fondato del tutto
su questa phronesis e di cui essa costituisce il princi-
pio architettonico, essa deve apparire come qualcosa
di definitivo e assoluto. La conoscenza del « principio
primo del Tutto» 89), che è la causa di tutto ciò che è

87) Cfr. supra, p. 498, n. 52. In altri tenmm: tra l'anima


umana e Dio, secondo Platone, sta . un lungo faticoso viaggio; il
viaggio durante il quale l'anima raggiunge la perfezione. Senza
perfezione non è possibile areté, Il ponte che Platone lancia dall'ani-
ma a Dio è la paideia. Essa è, pertanto, un accrescimento di essere.
88) Thea.et. 176 e. In questo luogo si parla di due opposti « pa-
radigmi che stanno nella realtà», l'uno divino, l'altro alieno dalla
divinità (l'uno buono, l'altro cattivo), dei quali il primo è di felicità
suprema, il secondo di assoluta infelicità. Tutto ciò ci richiama
a un passo della Repubblica, 472 c, dove Platone contrappone
l'uno all'altro r.:oi:poi:3e(yµ.oi:To~ !vocoi:, cioè come moduli esem-
plari, l'idea della giustizia e il perfetto uomo giusto e l'idea del-
l'ingiustizia e l'uomo assolutamente ingiusto. Si è poi già osser-
vato di sopra (p. 498 n. 52) che anche il concetto di areté come
« assimilazione a Dio», che ricorre nello stesso luogo del Teeteto,
si trova già nella Repubblica (613 b).
") Resp. 5ll b TÌJ'il -.ou nQW'rÒ~ à.px;iiv.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [II 515] 1203

bene nel mondo, diventa, in uno stato come questo,


fondamento e scopo del potere. Tra questo principio
e la massima fondamentale delle Leggi, che « Dio è. la
misura di tutte le cose», la differenza è solo di parole90).
Lo Stato delle Leggi è « teononio », ma non è tale in
opposizione a quello della Repubblica; anzi, proprio
sul modello di essa. Anche lo Stato delle Leggi tien
fermo a quel supremo principio, anche se in esso la
conoscenza filosofi.ca ha per sé un minor campo d'azione,
conforme al grado più basso di realtà sul quale esso è
costruito. Nel Fedone, Platone dice che la scoperta del
Bene e della causa finale- costituisce una svolta storica
capitale nella filosofia della natura, per la quale il
mondo presocratico si distingue da quello posteriore
a Socrate 91). Aristotele fa suo questo pensiero e lo
pone al centro di quella storia della filosofia che egli
disegna nel primo libro della Metafisica 92). Orbene, que-
sto pensiero non è meno vero per la filosofi.a dello Stato
di quanto lo sia per la filosofi.a della natura. Rispetto
alla natura, infatti, la svolta socratica conduce Pla-
tone a distinguere una filoso:fia suprema, la teoria delle
idee che si risolve in una teologia, dalla fisica. E nella
politica la conoscenza del Bene, come meta di ogni
azione, conduce alla signoria dei filosofi, cioè dei porta-
t~ri della nuova religione dello spirito, nello Stato
della pura Idea.
È fuor di dubbio, che gli scolari di Platone, come
mostra l'elegia di Aristotele per l'altare dell'Amicizia,
videro in quel suo proclamare il Bene causa ultima
del mondo, gli inizii di una nuova religione e ritennero
inoltre che la fede platonica nell'unità di virtù e feli-
cità si fosse almeno una volta realizzata in questo

• 0 ) Leggi 716 c.
91) Phaedo, 96 a ss., 98 a ss.
92) Cfr. Arist. Met. A 3, 984 b 8 ss. e A 6, 987 b 1.
1204 [rr516J UBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

mondo nella persona del maestro 93). Se poi Aristotele


chiamò teologia la sua « filosofi.a prima », ciò fece certo
seguendo la tradizione accademica e riallacciandosi
alla concezione platonica dello scopo della :6.loso:fia 94),
e teologia è anche quel dialogo sulla sapienza che Fi-
lippo di Opunte, un altro discepolo di Platone, aggiunse
come appendice alle Leggi, di cui fu l'editore (Epi-
nomide} 95). Il fatto che costui, in questa Teologia, che
non poté esser composta e pubblicata insieme con le
Leggi senza l'approvazione dell'Accademia 96), abbia
posto a principio fondamentale dello stato legale,
non già la teoria dell'idea del bene, che pure eviden-
temente gli sta innanzi come modello, ma la teologia
astronomica del Timeo 97 ). la teologia degli «dei visi-
bili», questo fatto si spiega semplicemente con la
differenza del piano di realtà più empirico in cui si
muovono le Leggi, da quello della pura phronesis
nella Repubblica. In sostanza, il fatto è questo: Pla·
tone è il creatore del concetto di teologia, e il luogo in
cui questo concetto rivoluzionario fa la sua prima
comparsa nella storia del mondo è la Repubblica, dove
il :6.losofo abbozza una « teologia per tipi fondamen-
tali» 98) allo scopo di applicare all'educazione la cono-

98) V. il mio Aristoteles, p. 109 (trad. Calogero, pp. 141-142),


e inoltre il mio articolo Aristotle's verses in praise of Plato, in« Clas-
sica! Quarterly», XXI (1927), p. 13 ss., nel quale ho minutamente
mostrato come la posizione che Aristotele; nell'elegia, assegna al
maestro, si possa paragonare solo a quella di un fondatore di re-
ligione. .
94) A.rist. Met. E 1, 1026 a 19; v. Arntoteles p. 138 (trad. Ca-
logero, 181 ss.).
9') L'Epinomide tratta in primo luogo dei cosiddetti« dei vi-
sibili», gli astri. L'aspetto di Dio di cni deve occuparsi la teolo-
gia (in Legg. 10) è « Dio come causa di mutamento e di moto».
96) Diog: L. III 37. Non posso qui addentrarmi a discutere
la letteratura esistente sull'autenticità dell' Epinomi<k. V. su que-
sto punto, « Paideia» -in 372, n. 12.
97 ) Cfr. Tim. 40 d.
98) Resp. 379 a.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [rr517J l205

scenza di Dio, cioè del Bene. La teologia, cioè la


trattazione, condotta per mezzo della ragione filoso-
fi.ca, dei problemi più alti, è creazione specifica dello
spirito greco. Essa è il prodotto di un supremo ardi-
mento spirituale, come appare dal fatto che i discepoli
di Platone ebbero da combattere contro il pregiudizio
greco comune o, meglio, volgare, per cui l'invidia degli
dei interdice agli uomini di fi.ggere lo sguardo in queste
cose sublimi. Essi condussero questa lotta non in virtù
e per l'autorità di una rivelazione divina di cui si
credessero depositari, ma in nome della conoscenza del
Bene, insegnata loro da Platone, del Bene che ha per
essenziale carattere l'assenza di ogni invidia B&).
Con questo la teologia viene a prendere L'aspetto
di un momento più elevato e più maturo dello spirito
di fronte a ciò che non è che « religione », vale a dire,
al senso di adorazione del divino, proprio della massa,
e fondato su rappresentazioni mitiche accettate per
fede. Su questo senso, lo stato aveva fondato il suo
ordinamento in uno stadio primitivo della civiltà umana.
La pietà religiosa, sebbene già min;ata dal duhbio del-
l'intelletto, era ancora tenuta al tempo di Platone
per una delle virtù cardinali del citt~dino della polis.
E Platone la accoglie, insieme con le altre tre virtù,
da questa salda tradizione politico-religiosa. Fino dai
suoi primi scritti essa diventa oggetto di un interesse
filosofico. Un dialogo apposito, l'Eutifrone, le è dedi-
cato, poco dopo la morte di Socrate. Già in questo
dialogo il concetto tradizionale della pietà è saggiato
sul metro del nuovo concetto socratico che ogni cosa,
non della terra soltanto, ma anche del cielo valuta uni-

118 ) Epin. 988 a, Arist. Met. A 2, 982 b 28-983 a 11, Eth. Nic.
X 7, 1177 b 30-33.
1206 [!1518] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

camente col criterio del Bene 100). Non a caso l'Euti-


frone è l'opera platonica in cui per la prima volta trova
espressione il concetto ~«idea» 101). Nella Repubblica,
l' eusébeia appare come una fra le « cosiddette virtù»,
sul primo gradino della paideia, nell'educazione dei
guerrieri 102). Ma quando si giunge a quel piano supe-
riore di realtà che è la formazione fi.loso:fica dei reggi-
tori, di essa non si parla più. Insieme con le altre tre
virtù civili essa è scomparsa qui, assunta nella superiore
unità della « sapienza» che, essendo essa stessa parte
divina dell'anima, conosce il divino nel suo aspetto
puro, come idea del bene 103). Al posto della pietà vol-
gare subentra, a questo punto, la forma :6.loso:fica della
pietà come i Greci l'hanno foggiata: la teologia, che
ora diventa principio fondamentale dello stato. La mas-
sima opera platonica, quellà in cui il filosofo pone i fon-
damenti ideali della paideia, è un Tractatus theologico-po-
liticus, nel più proprio senso del termine. Il mondo greco
non ha mai conosciuto, per intimo che possa essere
stato in esso il legame tra religione e stato, una signo-
ria sacerdotale fondata su d?gmi. Ma· con lo stato pla-
tonico, l'Ellade si è creata un ideale ardito, e di lei
degno, da contrapporre alle teocrazie sacerdotali del-
l'orienti'.: l'ideale di una signoria di :filosofi, costruita
sulla capacità dell'intelletto indagatore dell'uomo, di
giungere alla conoscenza del Bene divino. Si è già
accennato precedentemente come ·Platone concepisca,
sì, il suo stato come una polis greca, ma come, per
altro, l'elemento greco non sia che un materiale che

uio) Euthyph. 11 e. Cfr. anche l'alternativa recisamente posta


in 1O a: « il. santo, è caro agli dei perché è santo, o è santo (solo)
perché è caro agli dei ? ». Questa domanda mira all'identificazione
del divino col •Bene.
1•1) Euthyph. 6 d.
102) Cfr. supra, p. 376.
103) Cfr. supra, p. 513, n. 86.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n 519] 1207

egli usa a preferenza di un altro nella sua costruzione 104).


In questo materiale si attua, come principio forma-
tivo, la divina idea del bene; e pertanto quell'elemento
razionale, attivo sempre nella vita politica greca, fin
da quando era sorto il concetto di uno stato di diritto,
quell'elemento che di per sé tende a ciò che è univer-
salmente valido, raggiunge l'universalità suprema. Sim-
bolo visibile di questa virtù della ragione, è il para-
gone del Bene col sole che su tutto il mondo sparge
la sua luce.
Senonché, prima ancora che ci si accinga a prender
cognizione di que1 processo metodico che corrisponde
a questa concezione dell'educazione, un nuovo duhbio
ci assale di fronte alla possibilità di attuazione della
signoria dei filosofi. Se da principio il dubbio verteva
sulla capacità del filosofo di fronte a questo ufficio,
ora invece le ragioni di dubitare sembrano investire
la sua volontà, la sua disposizione a discendere dalle
sublimità contemplative del puro Essere, dopo averle
conquistate con tanta fatica 105). Sicuramente, per quel
che riguarda l'attitudine, i cosiddetti politici pratici
fanno, nella similitudine della caverna, una men che
mediocre figura. Sono proprio g~ empirici del potere,
gli uomini senza principii, nelle cui mani è attualmente
la direzione dello stato, quelli che Platone ritrae rap·
presentando quei tali che godono tra i loro compagni
di prigionia di una ridicola fama per il fatto che me-
glio di _tutti gli altri s'intendono delle immagini appa-
renti sul loro teatrino di ombre e ne conoscono le più
comuni sequenze 106). Se, in questa similitudine, è in-
colto (&:m:d8eu't'oc;) l'uomo che non ha nella sua vita

104) Cfr. supra, p. 431.


105)·Resp. 519 c. Platone ha già detto nel primo libro, 347 b·d.
che gli uomini migliori non desiderano governare.
106) Resp. 516 e 8 ss. Cfr. supra, p. 507.
1208 [rr520] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DfVINO

alcun fine :fisso 107), gli uomini politici sono l'incarna-


zione più insigne del tipo, giacché il « fine » soggettivo
posto loro innanzi dall'ambizione o dalla brama di po-
tere non merita, per Platone, questo nome. Perciò se
si accetta il principio platonico per cui il possesso del
fine assoluto è il criterio sommo per giudicnre della
vocazione all'ufficio di reggitore, il filosofo è, in virtù
della sua paideia, l'unico che sia veramente chiamato
a tal compito. Ma come si potrà indurlo a lasciare le
sue « isole dei beati » e a caricarsi le spalle di un far-
dello che deve rendergli più di ogni altra cosa impossi-
bile l'esercizio della sua specifica attività di ricerca ?1°8)
Le « isole dei beati» come immagine del paradiso della
vita contemplativa *) sono una così felice invenzione, che
si comprende come essa si sia imposta a molti scrit-
tori di età successive. La ritroviamo nell'opera della
giovinezza di Aristotele, nel Protrettico, dove il discepolo
di Platone si fa banditore del suo ideale di vita filo-
sofica, ed attraverso quest'opera essa si diffuse nelle
letterature antiche 109). Ma per quanto allettanti siano

Ul1) Resp. 519 b 8-c 2. Fin dal principio del VI libro, dove Pla-
tone contrappone ai reggitori filosofi « la gente che non ha nel-
!'anima sua nessun chiaro paradigma» (484 c), tutta la discus-
sione mira alla definizione dell'uomo incolto come colui che non
ha uno scopo unico (crxo7'ÒV &vci:) nella vita. Una tale unità si in-
staura nella vita solo in quanto questa si indirizza al bene asso-
luto come a meta naturale di ogni sforzo Uinano.
108) Resp. 519 c 5. Cfr. 540 b, dove è però da osservare che la
frase « andare alle isole dei beati e là abitare» significa la dipar-
tita del filosofo da questo mondo e la sua vita dopo la morte.
È questo il destino di un Eroe, che, compiuta l'opera sua, va a go-
dere, in questa sede appartata, della beatitudine. Così anche in
Gorg. 526 c. Invece in 519 c 5 l'immagine di colorito religioso si-
significa il .&erop"l)nxòi; ~lo.;, la vita contemplativa dello spirito
filosofico in questa vita. L'inimagine fu ripresa da Aristotele.
,gr. il mio Aristoteles p. 98 (trad. Calogero, pp. 125-126). Un ri-
flesso di essa è ancora avvertibile nella descrizione della beatitu-
dine della vita contemplativa nel.' Etica Nicomachèa X 7.
. *) [In lat. nel testo. N. d. T.].
109) Cfr. il mio Aristoteles, p. 73 (trad. Calogero, p. 102).
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [II 521] 1209

i colori di cui Platone e Aristotele dipingono la vita


della conoscenza pura, questa rimane pur sempre, ideal-
mente, riferita alla pratica e nella pratica trova la
propria giustificazione. Il significato politico originario
di tutta la paideia greca celebra il suo trionfo proprio
nel momento di tensione massima, nel conflitto col
nuovo contenuto intellettuale ed etico di cui Platone
la riempie. Come e quando il filosofo debba piegarsi
a questo suo dovere rimane ancora da determinare, ma
il principio che Platone pone fin da ora, è ben fermo:
il filosofo deve scendere di nuovo giù nella caverna 110).
Persuasione e costrizione debbono cooperare per in-
durlo ad aiutare quelli che gli furono compagni di pri·
gionia. È questo forte sentimento della responsabilità
sociale che distingue l'ideale platonico della più alta
cultura intellettuale, dalla filosofia dei pensatori pre-
socratici. Eppure - ed è questo un singolarissimo pa-
radosso storico - quegli antichi sapienti, molto più
occupati nella conoscenza della natura che in quella
dell'uomo, ebbero nella politica una parte molto più
attiva di Platone, il pensiero del quale si muove inte-
ramente nell'ambito dei problemi pratici 111). Il fatto è
che, a quel modo che l'educazi~ne e l'attività politica
del filosofo sono possibili, per Platone, solo nello Stato
ideale, cosi il suo dovere verso la collettività, nel suo
pieno significato, esiste per lui solo in un tale stato.
Di fronte allo stato degenere della realtà egli nou sente

110) Resp. 519 d-520 a •..


111) Cfr. la mia memoria Uber Ursprung und Kreislauf des phi-
losophischen Ideal..~ (« Sitzungsber. BerL Akad. » 1928, p. 414 ss.,
riprodotta in traduzione italiana in appendice all'Aristotele). In
essa ho mostrato che alcuni storici della filosofia peripatetici, in
particolare Dicearco, rappresentarono i pensatori più antichi pro·
prio come modelli di coerente collegamento tra pensiero e azione,
laddove i più tardi filosofi si sarebbero volti sempre più alla
dura teoria.
1210 [rr522] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

alcun debito di gratitudine attiva, poiché se anche il


filosofo ha potuto formarsi nei suoi confini, ciò non è
dovuto a uno stimolo che gli si <>ia fatto sentire da
parte della comunità o degli organi di questo stato 112).
Altrimenti anderanno le cose nello stato perfetto. In
esso il filosofo sarà debitore verso la comunità della
sua ·paideia, cioè di tutto il suo essere intellettuale, e,
pertanto, sarà disposto a « pagare quel che è costato
tirarlo su». Anche se riluttante, egli, per riconoscenza,
si sobbarcherà all'ufficio che si vorrà affidargli e gli
dedicherà il meglio delle sue forze. Lo stato perfetto si
potrà dunque sempre riconoscere a un segno: in esso
non dominano gli amanti del potere, ma proprio quelli
che meno vi sono inclinati ll3).

La matematica come propaideia. - Quale è, dun-


que, la conoscenza che può produrre la « conver-
sione dell'anima»? È chiaro, intanto, che per Pla-
tone essa .non può essere un'esperienza isolata, un
subitaneo moto dell'anima o un'improvvisa illumina-
zione largita all'uomo senza travaglio da parte sua.
Neppure può ottenersi, questa conoséenza, su quel
piano di cultura su cui rimane leducazione dei guer-

llB) Resp. 520 b. Come si è già rilevato più di una volta, gli
stati greci del IV sec. non provvidero mai all'istruzione superiore.
Si veda quel che dice Aristotele in Eth. Nic. X 10, ll80 a 26,
cioè che, in fatto di educazione e istruzione, nella maggior parte
delle città, vigeva ancora lo stato primitivo« ciclopico», del tempo
in cm ognuno dirigeva donne e figli a suo arbitrio assoluto. Nel
Critone Socrate esprime un senso di profonda gratitudine per lo
stato ateniese, per l'educazione da lui ricevuta sotto la tutela
delle leggi. Se questo fu realmente l'atteggiamento del Socrate
storico, l'affermazione, del tutto opposta, di Platone nella Repub-
blica diviene ancor più significativa.
118) Resp. 519 a-d, 521 b.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n523] 1211

rieri e, in generale, la paideia greca usuale, giacché


la ginnastica non ha a che fare se non col mondo
di ciò che diviene e passa, con la crescita e con il de-
clino, e la musica induce solo nell'anima ritmo e armo-
nia, ma non conferisce essa, sapere alcuno 114). Le arti
professionali {'t"É)c'llix.t) poi, tutte umilmente pratiche
(banausiche, come si diceva), non possono assolutamente
esser prese in considerazione quando si tratta della
formazione umana 115 ). Ma, all'infuori di esse, c'è pure
una sorta di sapere, al quale tutte più o meno ricor-
rono, e che più di ogni altra cosa è appropriato al fine
della conversione dell'anima dal mondo visibile al mondo
del pensiero: la scienza del numero o aritmetica 116). La
leggenda epica ne dice inventore l'eroe Palamede, che
prese parte alla guerra di Troia e là insegnò al coman-
dante supremo Agamennone, come si poteva applicare
la nuova arte a scopi strategici e tattici. Su questa
storia Platone si sofferma con qualche divertimento,
giacché, a prenderla alla lettera, Agamennone non
avrebbe saputo, prima d'imparar l'arte, contare nep-
pur~ i propri piedi, nonché i soldati dell'esercito o le
navi della flotta. In ogni modo, per l'uomo di stato e
reggitore, questa scienza è indispensabile, anche sol-
tanto per la sua importanza militare 117). E questo argo-
mento pratico non è affatto da prendersi in senso sol-
tanto ironico, giacché Platone in seguito lo estende dal-
l'aritmetica alle altre discipline matematiche, e, d'altra
parte, lo sviluppo dell'arte della guerra nel IV sec.
esigeva sempre più, come sappiamo, conoscenze mate-

114) Resp. 521 e-522 a.


115 ) Resp. 522 b.
llG) Resp. 522 c-d.
117) Resp. 522 e 1-3.
1212 [n524] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

matiche 118). Ma i'aritmetica, come Platone intende che


debba essere studiata, è qualcosa di più di una disci-
plina ausiliaria per uomini di guerra. È studio di uma-
nità, perché senza di essa l'uomo non è uomo 119). Certo,
ciò è detto, sul primo momento, in relazione a cogni-
zioni aritmetiche di grado piuttosto elementare : alla
numerazione, particolarmente, e alla differenziazione di
grandezze date. Ma, al di là di ciò, Platone vede . nei
numeri una scienza atta in modo particolare a con-
durre il pensiero in quel mondo che stiamo cercando:
una scienza che conduce l'anima all'Essere 12°).
Questo è il punto di vista del tutto nuovo, dal
quale egli considera il valore formativo dell'aritmetica
e della matematica in generale. Non è il caso di aspet-
tarsi, dal suo modo di trattare questo tema, che egli
si addentri in problemi singoli di contenuto matema-
tico e neppure eh@ si metta ad esporre un intero piano
di studio di questa scienza. Proprio come a proposito
di ginnastica e musica, anche qui Platone si limita a
semplicissime linee direttive, nello spirito delle quali
debba essere trattata la materia. Egli enumera le varie
discipline matematiche, e in questo breve sgu_ardo ge-
nerale vengono fuori alcune ripetizioni, giacché per
ogni disciplina egli ritorna ad insistere sul suo punto
di vista: che la matematica deve svegliare il pensiero.
È certo per lui che gli uomini non l'hanno usata finora
a questo :6.D.e. À questo proposito è il caso di ricordare
quel che si è detto di sopra sull'introduzione della ma-
tematica come mezzo di formazione culturale da parte
dei Sofisti che avevano dato a questo studio una giu-

118 ) Questa è la ragione per cui la matematica divenne la scienza


preferita di generali e monarchi ellenistici. Si veda, su Antigono
e Demetrio Pbliorcete il mio Dioldes von Karystos, pp. 81-32. Il
punto di vista militare è rappresentato anche in 525 b-c.
119) Resp. 522 e 4.
l:O) Resp. 523 a È:Àx'l"txòv 7tpÒ; oùalcr.v.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [n525l 1213

sti:ficazione realistica 121). Platone accoglie dai Sofisti -


per queJ tanto che essi se ne erano occupati - l'alta
stima della matematica, ma, diversamente da loro, non
vede il vero valore di essa nella applicazione pratica.
Riconoscerne l'importanza per l'arte della guerra è
solo una concessione a quella formazione del reggitore
che egli si propone. La lunga e difficile via che a que-
sta conduce passa per la :filosofia, ed esige, perciò,
dal futuro uomo di governo una misura altissima di
amore per la cultura pura, tanto che se anche si ac-
cenna all'importanza pratica eventuale degli studi ma-
tematici, tale accenno non rischia affatto di compro-
mettere la più vera ed essenziale giustificazione di
essi 1 22). La geometria in particolare dà occasiòne a Pla-
tone di polemizzare con quei matematici, che« in modo
ridicolo» conducono le loro dimostrazioni ·Come se le
operazioni geometriche fossero un « fare» (praxis) e
non un «conoscere» (gnosis) 123). E questo conoscere
appunto è da lui caratterizzato, ripetutamente e con
una sempre rinnovata ricchezza di metafore di signi-
ficato affine, come qualcosa che conduce o attira al
pensiero, qualcosa che purifica l'anima o la ravviva,
che provoca il pensiero o lo sveglia 124). I futuri reggi-
tori, quindi, debbono avere nell'aritmetica una pre-
parazione, non da semplici uomini colti, ma da specia-
listi 125). Essi debbono imparare .a capire la bellezza e

121) Cfr. vol. I, p. 543.


122) È tradizionalmente attestato che Platone prese molto sul
serio questo suo programma, quando fu richiesto cli educare come
principe filosofo il tiranno Dionisio II. Plutarco (.Pion, c. 13) rac-
conta che per qualche tempo, non il principe soltanto, ma tutta
la corte di Siracusa si mise a studiar matematica, sì che l'aria
era piena della polvere sollevata da tutta quella gente affaccen-
data a disegnar figure geometriche sulla sabbia.
123) Resp. 527 a.
124) Cfr. Resp. 523a2, 6; b l; d 8; 524 h 4; d 2; d 5; e l; 525 al;
526 h 2; 527 b 9.
126) Resp. 525 c &:v&&7'n:cr.&cx1 cx1h'iji; µ~ laLooTIXÙ>ç.
1214 [rr526] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

l'utile di questo studio, non ai fini del commercio e


degli affari, ma per preparare la via alla «. conver-
sione» dell'anima all'Essere. L'efficacia dell'aritmetica
consiste per Platone in questo, che in quelli che vi sono
più disposti per natura il contatto con essa acuisce la
capacità di comprensipne di qualunque altra scienza,
mentre i più tardi ad apprenderla, istruiti e addestrati
in essa, si trovano, se anche non ne ritraggano altro
vantaggio, ad aver aumentato le loro possibilità di
comprensione 126). Inllne, il grado elevato di difficoltà
della matematica la qualifica in modo specifico come
mezzo di formazione per on.a élite intellettuale.
Oltre all'aritmetica e geometria, il ramo scientifico
del sistema educativo sofistico comprendeva astrono-
mia e musica, costituendo quel gruppo di discipline
che ebbe più tardi il noni.e di« quadrivio» 127). Non è
chiaro se la m)zione di questo gruppo come unità, Pla-
tone l'abbia derivata dalla tradizione sofistica o da altre
fonti. Nella Repubblica, nel momento in cui passa dal-
l'astronomia alla musica, egli nomina i Pitagorici come
coloro che avrebbero concepito astronomia e musica
come scienze sorelle 128). Il che ci induce a pensare che
anche la colleganza di quelle due con aritmetica e geo-
metria fosse opinione .pitagorica o, almeno, opinione
già corrente nelle cerchie pitagoriche. Se poi si debba
andare tanto oltre da credere che tutta la vera e pro-
pria scienza esatta dei Greci derivi dalla scuola pita·
gorica che ebbe il centro in Archita, è altra questione;
e la risposta, probabilmente, deve essere negativa,
anche se è sicuro che da quella scuola venne un impulso
capitale allo sviluppo dei mathémata, e ~he Platone fu

126 ) Resp. 526 b.


127) Cfr. voi. I, p. 541.
128) Resp. 530 d 8.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II (II 527) 1215

in rapporto stretto con essa 129). Platone parla con molta


considerazione dei Pitagorici quando tratta del signi-
ficato dello studio matematico nel quadro della sua
paideia filosofica; . essi sono per lui, in questo campo
del sapere, l'autorità massima. D'altra parte, però,
egli li critica come gente che è rimasta ferma al sen-
sibile, senza penetrare fino al puro pensiero 13°). Essi
sono, insomma, per lui, puri e semplici specialisti,
e quindi, per grande che sia il suo debito verso di loro,
il punto di vista che egli considera decisivo, è lui il
primo a farlo valere, come egli dice espressamente
nella trattazione della musica (da intendersi non come
insegnamento musicale, ma come teoria dell'armonia);
I Pitagorici confrontano e commisurano armonie e
suoni udibili, e vanno in cerca dei numeri dentro que-
ste armonie 131), ma abbandonano la ricerca proprio dove
cominciano i « problemi » 132), quei problemi che Pla:.
tone, anche trattando di· geometria e astronomia, in-
dica come tema finale del suo studio delreducazione 133).
E si deve intendere qui la posizione di problemi che
conducano direttamente· alle cose «in sé», all'Essere
incorporeo. I Pitagorici non si domandano « quali nu-
meri sono armoniosi e quali' no e per quali ra-
gioni sono l'una o l'altra cosa» 134). Non ricercano, se-
condo l'esigenza che Platone pone come qualcosa di

129) La ricerca che va più in là nel tentativo di ricondurre tutta


la scienza esatta dei Greci ai Pitagorici è quella di EmcB FRANK,
Plato und die sogenannten Pythagoreer, Balle 1923. Ma vedi, più
di recente, W. A. HEIDEL, The Pythagoreans and greek mathematics
in« Amer. Journal of Philology», 61 (1940), pp.1-33, che riconduce
lo sviluppo degli studi matematici nella Grecia più antica, per
quanto lo consente il materiale esistente, a cerchie non pitagoriche.
specialmente della Ionia.
130) Resp. 521 a 5, cfr. 530 d 6.
131) Resp. 531 a 1-3.
1 32) Resp. 531 c.
133) Resp. 530 b 6.
184) Resp. 531 c 3.
1216 [n528] LIBRO m - ALLA RICERCA DEL DIVINO

nuovo, la parentela scambievole di tutti gli oggetti


della matematica né risalgono all'elemento comune ad
essi tutti 135), ma svolgono separatamente, volta a volta,
le loro osservazioni su numeri, linee e superfici, sulle
visibili apparenze celesti, sui suoni e sugli accordi udi-
bili. Saranno dunqué le concezioni astronomiche dei
Pitagorici quelle a cui egli pensa quando afferma che
è difficile credere all'eternità dei fenomeni celesti e al
loro compiersi secondo leggi immutabili e supporre,
nello stesso tempo, che si tratti solo di moti di gran-
dezze puramente corporee e visibili 136). Dietro queste
allusioni critiche, che preludono all'esposizione positiva
della teoria platonica in un libro apposito, si cela
la conclusione, nota dal Timeo e dalle Leggi, che la
regolarità matematica dei fenomeni celesti, presup-
pone nel loro prodursi l'esistenza e l'azione di esseri
dotati di consapevolezza razionale 137). Ma il :filosofo,
intento al suo compito di espositore della paideia, non
trova opportuno di addentrarsi qui in tali particolari
scientifici; egli si limita dappertutto alle grandi linee,
anche là dove si tratta della sua propria filosofia 138).

135) Resp. 531 d. Su questo programma di un'analisi filosofi.ca


delle scienze matematiche e sul modo in cui fu attuato nell'Ac-
cademia, vedi F. SoLMSEN, Die Entwicklung der aristotelischen
Logik und Rhetorik (« NeuePhil. Unters. »ed. da Werner Jaeger
voi. IV), p. 251 se.
136) Resp. 530 b.
137) Tim. 34 c-38 c, Legg. 898 d-899 b. Cfr. anche Epin. 981 e, es.
138) Un bell'esempio di quest'abitudine platonica di tagliar via
ogni elemento strettamente tecnico, da noi frequentemente rile-
vata. nell'esposizione della paideia nella Repubblica, è offerto
dal Timeo, 38 d. lvi Platone si rifiuta di addentrarsi nei partico-
lari astronomici della teoria delle sfere, con la ragione che, così
facendo, si verrebbe a considerar più importante l'elemento sussi-
diario (mxpepyov) in paragone del fine a cui esso deve servire.
Altrimenti si comporta Aristotele (Met. A 8) il quale critica le
ragioni degli astronomi riguardo al numero esatto delle sfere, e
poi sbaglia egli stesso il conto, come fu osservato da competenti
antfohi (vedi W. D. Ross. Aristotle•s Metaphysics, -II, p. 393).
CAP. X: LA REPUBBUCA, II [n529J 1217

Platone non trova difficoltà nell'attribuire al suo


Socrate tutte queste conoscenze speciali, che egli non
tanto espone, quanto piuttosto adombra. Socrate è
sempre l'uomo che sa tutto, su qualunque materia vada
a cadere il discorso, e, per quanto fisso e aderente
rimanga al suo tema, pure occasionalmente dà prova
di una competenza stupefacente in campi che, come è
ovvio, doverono essergli nella realtà assai poco fami-
liari. Ci deve essere, in qualche modo, un fondamento
storico in questo elemento; ma, d'altra parte, non c'è
cosa più sicura del fatto che la considerazione plato•
nica della matematica con tutte le sue discipline spe·
ciali, come via alla conoscenza del Bene, fu del tutto
estranea al Socrate reale. Per l'appunto, questa voJta,
possiamo verificare in modo preciso, con quale sovrana
libertà Platone faccia di Socrate, nei dialoghi, il rap·
presentante del suo pensiero. Dice Senofonte, con evi-
dente punta contro l'arbitraria rappresentazione pla-
tonica, che Socrate, certo, non era digiuno di matema-
tica, ma che, quanto al valore educativo di essa, lo con·
teneva in limiti assai stretti, in limiti cioè, di utilità pra·
tica 139). Il contrario preciso, come si vede, della conce-
zione platonica. Il fatto poi, che deliberatamente Seno·
fonte si distacca qui da Platone, può far concludere con
sicurezza, che è lui e non Platone il testimone più de-
gno di fede su questo punto. Il Socrate della storia non
avrebbe mai rimproverato il suo interlocutore - come
fa quello di Platone - quando questi avesse esaltato
il valo!'e dell'astronomia col motivo della sua utilità
per l'agricoltura, la navigazione e l'arte della guerra 140).

139) Xen. Mem. IV 7, 2 ss.


140 ) Xen. Mem. IV 7, 4 dice che Socrate legittimava lo studio
dell'astronomia proprio col rilevarne l'importanza per tali atti-
vità pratiche.
1218 [II 530] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

In questo la paideia di Platone riflette l'immensa im-


portanza che la matematica aveva avuto per lui, anche
nell'aiutarlo a dar nuovo atteggiamento teoretico al
pensiero di Socrate. Perciò è sospetta per lui ogni mo-
tivazione puramente utilitaria della matematica, anche
se proprio lui afferma l'indispensabilità di essa per lo
stratego. Quel « guardare in alto», a cui educa lastro-
nomia studiata matematicamente, è cosa radicalmente
diversa dal volgere gli occhi al cielo, come fanno gli
astronomi di professione 141). Quella parte dell'anima che
è accesa in pura fiamma dallo studio matematico con-
dotto come Platone intende, è « più importante di
diecimila occhi» 142).
Platone non segue, del resto, la tradizione che co-
nosce solo le quattro discipline matematiche sopra no-
minate, ma introduce nell'insegnamento una scienza
assolutamente nuova, come ·egli stesso dice, la stereo-
metria 143). Che l'astronomia seguisse immediatamente la
geometria doveva essere cosa già acquisita al suo
tempo; giacché egli da principio accetta come ovvio
di metterla al terzo posto e comincia a trattarne 144) ;
ma poi si corregge e preferisce di assegnare questo
posto alla scienza delle grandezze nèllo spazio, in quanto
logicamente questa deve seguire la geometria, scienza
delle linee e delle superfici, ma precedere l'astronomia,
che è sl anch'essa scienza di grandezze nello spazio, ma
di grandezze in movimento 145). L'introduzione della ste-
reometria è dunque una sorpresa che consente a Pla-
tone di apportare una qualche modificazione in questa
parte metodico-classllicatoria. Evidentemente, in que-

141 ) Resp. 529 a.


142) Resp. 527 e.
1 43 ) Resp. 528 h.
144) Resp. 527 d.
145) Resp. 528 a-h.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [rr 531] 1219

sto punto si fa sentire la diretta influenza della prassi


scientifico-didattica dell'Accademia. Di fatto, la tarda
tradiziOne storico-matematica, risalente all'opera fon-
damentale dello scolaro di Aristotele, Eudemo, nomina·
come creatore della stereometria, l'eminente matema-
tico Teeteto di Atene, fu memoria del quale Platone
compose il dialogo intitolato al suo nome, che pub-
blicò pochi anni dopo la Repubblica 146). Egli morì, come
ora generalmente si crede, nel 369, durante il servizio
militare in guerra, vittima di una epidemia 147). Il con-
tenuto dell'ultimo (XIII) libro degli Elementi di Euclide
- l'opera capitale e·imperitura della matematicà greca,
posteriore di ·una sola generazione a Teeteto - dedi-
cato alla stereometria, è fondato, con estrema proba-
bilità, negli elementi essenziali, sulle scoperte del ma-
tematico ateniese 148). Egli fu nell'Accademia una perso-
nalità di rilievo, come dimostra il suo ritratto di ama-
bile dotto, disegnato da Platone con tanta simpatia;
e si deve certo attribuire all'efficacia personale del padre
della stereometria, il fatto che Platone assegni un posto
così onorevole ·nella Repubblica alla disciplina da lui
fondata, e ciò mentre egli era ancora in vita.
È d'importanza essenziale per l'intelligenza della
paideia platonica che, in un punto cosi vitale, si riesca
a valutare il grado di interesse scientifico attuale che
i precetti per l'educazione filosofi.ca dati nella Repub-

t4&) Suda, s. v. 0eoc[T'l)'t"oc;; Schol. in Eucl. Elem. lih. XIII


(vol. V, p. 654, 1-10 Heiberg). Proclo, nel suo catalogo dei geo-
metri, attribuisce a Pitagora la scoperta dei cinque poliedri re-
golari. Ma ciò è ·pura favola, come hanno chiarito inconfutabil-
mente le ricerche moderne di G. Junge, H. Vogt e E. Sachs.
147) Cfr. EvA SACHS, De Theaeteto Atheniensi mathematico, Ber-
lino 1914, p. 18 ss.
148) Su Teeteto .come fonte del 1. XIII degli Elementi di Euclide,
vedi EVA $ACHS, Die funf platonischen Korper (« Phil. Unters.»
ed. da Kiessling eWilamowitz, voi. 24), p. 112;inoltre,T. L. HEATH,
À Manual of Greek Mathematics, Oxford 1931, p. 134.
1220 [rr532] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

blica ebbero per lo stesso Platone. A più di duemila anni


dal tempo in cui la matematica greca ebbe da Euclide
la forma divenuta classica e rimasta valida ancora, nei
suoi limiti, fino al nostro tempo, non è facile per noi
rimetterci nella situazione intellettuale di quando quella
forma era ancora in via di svolgimento o stava per
attuarsi. Se si riflette che essa fu l'opera di poche gene-
razioni, ci diventa comprensibile come il lavoro concen-
trato di un piccolo numero di ricercatori geniali, pronti
a profittare scambievolmente dei progressi che si ve-
nivano facendo, riuscisse a creare un'atmosfera di fi-
ducia, di vittoriosa sicurezza, da cui doveva sprigio-
narsi un impulso inestimabile al pensiero filosofico, in
un mondo tutto teso alla vita dell'intelletto, quale fu
l'Atene del IV sec. In questa eonquista, la filosofia
si vide sorger dinanzi un idèale scientifico di tale esat-
tezza e completezza, nelle singole dimostrazioni e nella
struttura logica dell'insieme, quale il mondo non aveva
neppur sognato come possibile ai giorni dei filosofi
naturalisti presocratici. Il fatto che allora i matema-
tici volsero la loro attenzione proprio all'elemento me-
todico, rese di valore incomparabile il modello del loro
lavoro per la nuova scienza della dialettica che Pla-
tone veniva svolgendo dai dialoghi socratici sulla virtù.
Come ogni grande filosofi.a, la filosofia di Platone non
è concepibile senza l'influsso fecondante della scienza
contemporanea, con le sue posizioni nuove di problemi,
con le nuove soluzioni. Cosi, accanto alla medicina,
di cui ad ogni momento si riscontra l'efficacia in Pla-
tone, l'incitamento e lo stimolo della matematica fu
per lui di particolare vigore. E se la medicina lo avviò
all'analogia dell'abito (hexis) fisico con quello spiri-
tuale, se gli mostrò la fecondità del concetto, a lei pro-
prio, di techne, in quanto applicabile alla scienza della
sanità dell'anima, la matematica gettò luce sulle ope-
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [u533J l221

razioni condotte su oggetti puramente mentali, quali


erano le Idee platoniche. A sua volta Platone poté,
per le sue scoperte logiche, dare ai matematici un for-
tissimo stimolo alla costruzione sistematica della loro
scienza, sicché venne a formarsi quel rapporto di dare
e avere del quale la tradizione ci dà notizia 149).
Teeteto cominciò relativamente tardi nella vita di
Platone a prendere importanza per il suo pensiero.
Egli era ancora nel fiore della virilità quando nel 369
lo colse la morte; quindi le sue scoperte dovevano es-
sere ancora recentissime quando Platone, varii anni
prima, se ne valse nella Repubblica 150 ). I primi contatti
di Platone con la matematica debbono essere anteriori
alle relazioni coi Pitagorici, giacché dialoghi come il
Protagpra e il Gorgia, che rivelano di già un interesse
preciso per questa scienza, sono anteriori al primo viag-
gio in Sicilia. L'Atene di quel tempo dové offrire suf-
ficiente possibilità di studio in quel campo 151). Disgra-
ziatamente, non è possibile a noi seguire la linea che
lega Platone con Cirene, non essendo sicuro il viaggio
di cui parla la tradizione, in quella · città, dopo la
morte di Socrate 152). Più tardi, quando Platone
scrisse il Teeteto, egli contrappose costui, come rap-
presentante della più giovane generazione di ma-
tematici, sensibile alla posizione filosofica dei pro-
blemi, al più anziano Teodoro di Cirene, scienziato
famoso, che, però, non aveva avuto alcun interesse

149) Vedi F. SoLMSEN, Die Entwicklung der aristotelischen Logik


und Rhetorik, p. 109 ss.
1 50) Secondo la cronologia più accreditata la Repubblica fu scritta
nel decennio 379-70.
161) Questa è la situazione supposta, e certo con esattezza sto-
rica, in Theaet. 143 e, ss., anche se l'incontro di Teeteto con So-
crate è verisimile sia solo una finzione letteraria di Platone, in
servigio del dialogo, come gli incontri di Socrate con Parmenide
e Zenone, nel Parmenide.
1 52) Diog. L. III 6.
1222 [11534] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

per problemi di questa sorta. Ciò farebbe sup-


porre una qualche conoscenza personale anche con
Teodor~ 153). Il viaggio del 388 in Italia meridionale
mise in contatto Platone coi Pitagorici di là, e, fra gli
altri, è probabile che già fin da questo momento cono-
scesse anche il matematico e uomo politico Archita
di Taranto, il principale rappresentante della scienza
pitagorica. Platone rimase con lui un certo tempo e
gli si legò di una amicizia che durò tutta la vita 154).
Platone vide in lui il modello vivente di quella forma-
zione matematica dei reggitori che era nel suo pro-
gramma. L'osservazione, assai degna di nota, di Ari-
stotele, secondo cui il sistema d'indagine e d'insegna-
mento platonico, seguiva essenzialmente quello dei Pi-
tagorici, ma aveva anche qualcosa di tutto suo, si
riferisce, con somma probabilità, alla ·parte matema-
tica dell'insegnamento platonico, parte che nei dialoghi
è piuttosto in ombra, mentre era in primo piano nel-
1'Accademia 155). Inoltre, da una notizia contenuta nella
biografia antica di Aristotele, secondo la quale egli
sarebbe entrato alla scuola di Platone« sotto Eudosso»,
si ricava di che spiegare la stretta relazione dell'Ac-
cademia con questo grande matematico e con la sua

na) Su un'ipotesi di questo genere si baserà la pretesa « tradi-


zione» di un viaggio di Platone a Cirene, dopo la morte di Socrate,
per visitare Teodoro (cfr. n. 152).
154) Secondo l'Epistola VII 338 e, Platone, nel secondo viaggio
in Italia meridionale (368) era stato intermediario di amicizia
ospitale tra Archita e il tirànno Dionisio; c perciò l'uno e l'altro
insieme IO avevano indotto al terzo viaggio. Secondo Plut. Dion,
c. 11 già al tempo del secondo viaggio i Pitagorici sarebbero
stati, accanto a Dione, elemento determinante a che egli si movesse,
circostanza, questa, di cui Platone stesso non fa cenno. Il rac-
conto plutarcheo potrebbe anche far l'effetto di una reduplica-
zione; sennonché a chi mai poté far visita Platone nel suo primo
soggiorno in Italia, prinia del viaggio a Siracusa (388), se non
ai Pitagorici ? V ero è che Diogene Laerzio, che dà notizia del
primo viaggio (III 6), nomina solo Filolao e Eurito, non Archita.
llili) Arist. Met. A 6.
CAP. X: LA REPUBBUCA, II [11535] 1223

scuola, relazione di cui appaiono tracce in tutta la


nostra tradizione, e di che spiegare altresi la cono-
scenza personale che di lui ebbe Aristotele, come egli
racconta nell'Etica: tutto questo deve avere il suo mo-
tivo in una piuttosto lunga permanenza di Eudosso
nella scuola di Platone, determinabile anche esatta-
mente nel tempo, dalla data 367 in cui entrò Aristo-
tele 156). D'altra parte il legame dell'Accademia con la
scuola di Eudosso, che aveva sede a Cizico, continuò
fino alla generazione seguente 157), e in esso è da vedere
un documento preciso della parte attiva presa dalla
scuola platonica al progresso della scienza matematica.
Infine, negli ultimi anni di Platone fu suo segretario
e braccio destro quel Filippo di Opunte, già da noi no-
minato come editore .dell'opera postuma delle Leggi,
che ebbe fama nell'antichità come matematico e astro-
nomo e compose parecchie opere 158). Questi, come sem-
bra, fu, accanto ad accademici come Ermodoro e
Eraclide, un'autorità di primo piano della scuola in
questo campo. E mentre Eraclide coltivò piuttosto
la speculazione astronomica, Filippo fu il tipo del
ricercatore esatto, anche se nell' Epinomide egli, come
tutti gli altri platonici, consideri l'astronomia fonda-
mento della teologia.
Questo complesso di fatti ci ammonisce a tener
sempre presente che quello che ci vediamo innanzi nelle
opere letterarie di Platone è soltanto la facciata del-
l'edificio dottrinale e didattico dell'Accademia, una
facciata che ne lascia intravedere l'interna struttura.
I precetti della Repubblica sull'insegnamento della ma-

156) Vedi il mio Aristoteles, p. 15 (trad. Calogero, pp. 18-19).


157) Troviamo .Aristotele, scolaro di Platone, in relazioni scienti-
fiche con l'astronomo Callippo, scolaro di Eudosso: Met. A 8,
1073 b 32. Cfr. Aristoteles, p. 366 (trad. Calogero, p. 467 ss.).
iss) Cfr~ Suda, s. v. <pLÀ6aocpo.;.
1224 [u536] UBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

tematica non fanno che riflettere la posizione che que-


sta scienza aveva preso nell'insegnamento filosofico
dell'Accademia. Evidentemente per Platone non esiste
distinzione tra compito di ricerca e compito educativo.
L'ambito, ancora relativa~ente modesto, della disci-
plina gli consente di esigere per la formazione dei suoi
reggitori lo studio dell'Intera scienza 159), senza alcuna
scelta, anzi di allargare ·il. programma accogliendo di-
scipline nuove, come la stereometria. S'intende .facil-
mente che altre scuole si facessero un'idea tutta diversa
della paideia dell'uomo politico. Là dove il fine di
questa si concepiva praticamente, come retorica - e
cosi lo concepisce Isocrate - , si doveva sentire. esa-
gerato il valore che Platone dava all'esattezza del
sapere matematico come fattore dell'educazione poli-
tica, e porre l'accento sull'esperienza 180). Ma quel che
importa rilevare è il fatto che la critica mossa a P~a­
tone si rivolgesse proprio contro l'ipertrofia dell'ele-
mento matematico: ciò mostra che in esso si scorgeva
la pietra angolare del suo sistema educativo.
Però, come nel grado della formazione dei guer-
rieri, cosi anche in questo grado più alto la paideia
platonica non scaturisce dalla pura teoria. Come là egli
accettava per farne sostanza della sua paideia tutto
·il contenuto storicamente dato délla cultura, che era
per lui la cultura greca, nella forma della _poesia e mu-
sica del suo popolo, e si poneva solo il compito di pu-
rificarlo subordinandolo a un fine superiore, così ora
egli immette la corrente . della scienza viva del suo
tempo nell'alveo della paideia, intento solo a trarne
quel che gli sembra più appropriato al suo fine filoso-
fico e a subordinarlo a questo. Di qui nasce per noi

159) Resp. 525 c.


180) Vedi « Paideia » III, cap. V~.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [II 537] 1225

un altro problema: quale fu l'atteggiamento di Pla-


tone di fronte alle altre scienze, che nel suo pro·
gram.ma non sono neppur menzionate ? Di fronte al
concetto moderno della scienza, che non conosce altri
confini da quelli dell'intera esperienza umana, l'onni-
potenza della matematica nella paideia platonica non
può non dar l'impressione di una, sia pur nobile, uni-
lateralità; e proprio per questo, forse, ci sentiamo tratti
a vedere anche in ciò l'effetto di una temporanea pre-
valenza della matematica nel pensiero scientifico di
quell'età. Ma, per quanto abbia potuto contribuire a
questa posizione· di predominio della matematica nel-
1'Accademia, la consapevolezza dei progressi operati
da grandi scopritori contemporanei, è pur da ricono·
scere che tale predominio era fondato nello stess9 ca-
rattere della filosofia platonica, nel suo concetto di
scienza, che escludeva dalla cultura le parti empiriche
del sapere. Le tendenze esistenti nei Sofisti verso una
cultura di « erudizione» non furono proseguite nella
scuola di Platone. E non è in contraddizione col qua·
dro che su questo punto ci damio i dialoghi platonici
il fatto che in frammenti dei comici .contemporanei
$Ì colgano canzonature su interminabili discussioni di
Platone e dei suoi scolari su definizioni e classificazioni
di piante e animali. Uno di questi scherzi, del comme-
diografo Epicrate, getta un vivo raggio di luce sui
segreti dell'insegnamento dell'Accademia; e per quanto
la sua descrizione possa essere esageratamente grot-
tesca, pure egli ha colto bene il punto essenziale : questi
filosofi s'intendono piuttosto poco di piante e il loro
sapere fa prova meschina in tentativi di classificazione,
per la gioia del pubblico, nel teatro 161). Nel frammento,
un famoso medico siciliano, un rappresentante cioè

161) Epicrates, fr. 2S7 Kock.


1226 [11538) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

del sapere empirico, presente per caso come ospite di


quell'Accademia, manifesta senza parole in modo piut-
tosto sconveniente come si addice a un« rozzo natura-
lista»;, la sua noia di assistere a tali tentativi. Si è
dedotto, a torto, dal contenuto zoologico e botanico
di queste ricerche che l'insegnamento dell'Accademia
dovesse essere notevolmente diverso da quello descritto
nella Repubblica, e che in esso la scienza empirica do-
vesse avere una parte molto più larga 162). Ma, anche
se ricerche sulla classificazione di animali e piante non
possono farsi senza. una qualche parte di osservazione,
tanto più se volte a raggiungere completezza sistema-
tica, il fine, tuttavia, in quel caso, non era la raccolta
di tutto il possibile mateTiale di esperienza su ogni
specie, bensì la distinzione delle specie tra loro, il loro
esatto inquadramento in nn grande sistema di divi-
sione (diairesis) concettuale «di tutto ciò che è»,
come quello che si attua per alt:ra materia, nei dialoghi
più tardi di Platone. La dialettica, questo è il signifi-
cato vero di questi tentativi condotti su oggetti con-
creti. Se dalla descrizione della Repubblica, non si ri-
cava, sui metodi d'insegnamento, la stessa impressione,
la ragione sta solo nella sommarietà di forma, con la
quale, come si è rilevato più volte, Platone caratte-
rizza i varii gradi della sua paideia. Le classificazioni
naturalistiche che Epicrate descrive sono da assegnare
a quella parte del programma educativo della Repub-
blica, che segue alla matematica, a quella parte che
tratta della dialettica.

La formazione dialettica. - All'interlocutore di


Socrate . sembra che la via sin qui percorsa nella

162) Cfr. su ciò Diokles van Kar:ystos, p; 178.


CAP. X: LA REPUBBUCA, II [rr539J 1227

descrizione dell'educazione, imponga gia un compito


estr~mamente difficile: e Socrate, questa così lunga
e difficile via la paragona al preludio di un canto
lirico, di un nomos, sicché si misuri il grado che ab-
biamo raggiunto e si segni il momento di passaggio
al grado supremo 163).· Lo studio della matematica
era solo preludio al canto; questo si deve tener pre-
sente. Chi si è istruito, fino a diventare uno specia-
lista . in questa materia, non è ancora un dialettico.
Con ciò Platone vuol significare che in vita sua egli
ha incontrato ben pochi matematici che fossero anche
dialettici. Uno di questi era stato senza dubbio Teeteto.
Nel dialogo che porta il suo nome, Platone non solo
descrive, come si è notato, il nuovo tipo del matema-
tico :filosofico, ma anche mostra, discutendo il problema
comune a matematica e :filosofia, cioè il problema del
sapere, in che modo colui che è addottrinato in mate-
matica sia condotto alla conoscenza filosofi.ca, per la
via della confutazione dialettica. Non è semplice cir-
costanza casuale che in questo dialogo l'interlocutore
più importante dopo Socrate sia un giovane matema-
tico di grandi disposizioni naturali e voglioso di ap-
prendere; ma è un elemento scelto apposta perché l'ef-
ficacia ·della paideia dialettica risulti evidente in chi
più di ogni altro è preparato ad accoglierla. E anche
nel Teeteto, appunto, si dimostra che la conoscenza filo-
sofica è legata con la matematica e viene considerata
come il frutto di una lunga e faticosa paideia 164). Il
.dialogo, di pochi anni posteriore alla Repubblica, riesce
nertanto una continuazione chiarificante dell'esposizio-
pe, contenuta nella Repubblica, di una educazione :filoso-

l&S) Resp. 531 d.


184) Theaei. 186 c.
1228 [rr540] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

fica mercé la dialettica. Il compito di legislatore della


paideia, che Platone si assume, non si presta a che la
natura della dialettica sia chiarita per via d'esempio;
e, del resto, un tale sistema esemplificante non ha luogo
neppure per i gradi precedenti della paideia. Invece,
esempi di questo genere s'incontrano a guardar bene
in tutti gli altri dialoghi platonici, nei quali que-
stioni singole e speciali sono sottoposte a . indagine
dialettica, sicché l'indole del procedimento risulta
del tutto chiara al lettore che lo segua con logica
consapevolezza. D'altro canto, quello che confe-
risce, nella Repubblica, attrattiva speciale all'espo-
sizione della dialettica come grado supremo della pai-
deia, è il fatto che Platone si metta in certo modo di
fronte alla sua propria creazione e che tenti di fissarne
il valore, di determinare la portata problematica di
essa in quanto strumento di educazione sulla base di
un'esperienza di ormai venticinque anni.
In quanto a definizioni, Platone, anche qui, non
sa dare di più di quanto già conosciamo dai dialoghi
anteriori. Proprio al principio infatti di quest'ultima
sezione, egli enuncia il contenuto della dialettica come
« capacità di dare e farsi rendere ragione di qualcosa»:
con ciò egli ne richiama I'origine 165). Giacché questa
definizione non è altro che il modo ormai convenzio-
nale di designare il vecchio metodo socratico di inten-
dersi con altri uomini nel dialogo confutatorio, l'élen-
clws, quel metodo da cui Platone aveva svolto la sua
teoria logica e l'arte della« dialettica» 166). Qui appar

186)Resp. 531 e.
188)Aristotele, Met. 4, 1078 b 25, si rende ben conto che l'ori-
gine della dialettica .'platonica si trova nelle conversazioni socra-
tiche, ma tiene a fare una chiara distinzione tra questo stadio ini-
ziale e il pieno sviluppo della « forza dialettica » ( 3LotÀ$K..-LKlJ
taxuç) come fu attuata nel periodo più tardo da Platone e poi
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n541] 1229

chiaro che Platone fonda ancora il diritto della filo-


sofi.a dialettica ad essere la vera paideia, sulla remota
esperienza giovanile dei colloqui socratici, della loro
straordinaria potenza nel rinnovamento intimo del-
l'uomo. Da questo punto di vista, il grado precedente,
la matematica, decade a mera preparazione (propai-
deia) 167). Ma qual è il «canto» che si accenna per la
prima volta in questo « preludio» e che si attua sol-
tanto nella dialettica ? Per intenderlo si deve ritornare
alla similitudine della caverna. In· quella similitudine,
il cammino del pensiero era significato dall'esperienza
visiva dei prigionieri: il loro occhio, dopo che essi si
sono voltati verso l'uscita della caverna e il mondo
reale, tenta di scorgere prima gli esseri viventi, poi
le stelle, e infine il sole. A quel modo che l'occhio im-
para a poco a poco, facendo a meno delle ombre a cui
era solito, a vedere le· cose stesse, cosi colui che adotta
la dialettica come vera via alla conoscenza, cerca, fa-
cendo a meno delle percezioni, di penetrare col pensiero
all'essenza di ogni cosa, e non desiste prima di aver con-
cepito nel pensiero « che cosa sia il bene in sé» e di
esser giunto cosi alla fine del pensabile, come il sole,
sorgente sublime della luce, è il limite estremo di tutti
i visibili 168). La dialettica è proprio questo viaggio
(7tÒpdcc) 1 69). 11 fine per cui sono state studiate le scienze
imparate fin qui è di «riportare la miglior parte del-
!'anima alla contemplazione del meglio di tutto ciò
che è» 170). Là giunta l'anima ha toccato la meta e il ri-

da lui stesso, col metodo a lui proprio, che era assolutamente


nuovo.
l67) Resp. 536 d.
168) Resp. 532 a-b.
169) Resp. 532 b 4.
170) Resp. 532 c.
1230 [11542] LIBRO !Il - ALLA RICERCA DEL DIVINO

poso 171). Certamente, anche Platone si accorge di quanto


c'è di dogmatico e forzato in questa breve descrizione
immaginosa, ma egli preferisce di esporla così, sem·
plicemente, come fosse qualcosa di dimostrato, tanto
più che egli sa di dovere ancora soffermarcisi più di una
volta 172).
Il carattere ('t'p67toç) della dialettica è determinabile
solo dalla relazione in cui essa sta con gli altri tipi
del sapere umano. Esistono varie vie di accostamento
metodico alla conoscenza delle cose e della lorò na·
tura. Le cosiddette technai o discipline empiriche ri-
guardano le opinioni e i desideri degli uomini e servono
alla pròduzione di cose o alla cura (&epot7tdot) di ciò
che cresce naturalmente o è fabbricato artificialmente 173).
Le discipline matematiche si accostano in certa maniera
maggiormente all'Essere vero e proprio, ma lo toccano
soltanto come in sogno; nella veglia non son capaci
di vederlo. Esse partono, come si è mostrato di sopra,
da ipotesi delle quali non possono dare alcuna ragione.
Il loro « principio», dunque, è qualcosa che esse non
conoscono, sicché anche tutto il resto, in esse, è « in-
tessuto» di qualcosa che non conoscono. Questo tipo
di« ammissione» ( òµ.oÀoy(ix) non si dovrebbe propria-
mente chiamare scienza (&mcn-fiµ1J), anche se l'uso della
lingua ci ha assuefatti a questa parola 174). La dialet·
tica è quella scienza che « toglie di mezzo» i presup·
e
posti degli altri tipi di sapere, « indirizza a poco a
poco in alto l'occhio dell'anima, che giace sepolto
nella palude della barbarie», e in quest'opera essa si
serve della matematica come di strumento ausiliario 175).

171) Resp. 532 e.


172) Resp.' 532 d.
173) Resp. 533 b 1-6.
174) Resp. 533 b 6-c 5; cfr. supra, p. 503.
176) Resp. 533 c-d.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n543J 1231

Il significato della proporzione istituita fra gradi del-


1'essere e del conoscere, con la quale Platone aveva
prima chiarito il :fine della sua paideia, è perciò il se-
guente: come l'essere sta al divenire, così sta il pensiero
·all'opinione, e come il pensiero sta all'opinione, così
sta la vera scienza ( btLaTijµ. -ri) alla mera evidenza data
dai sensi (1'(a·nç), e l'intelletto matematico alle ombre
degli oggetti visibili 176). In altri termini il sapere che
la dialettica dà è di tanto superiore in contenuto di
realtà al sapere matematico, di quanto nel mondo vi-
sibile le cose reali superano le loro ombre o immagini.
Così il dialettico è colui che comprende di ogni cosa
l'essere e sa render ragione di esso 177). Allo stesso modo
egli deve essere capace di astrarre (&(f>s:Às:i:v) da tutto
il resto l'idea del bene, cioè di separare il« Bene in sé»
dalle singole cose, persone, azioni e cosi via, che si
chiamano buone, e di delimitare quell'idea mercé il
logos, « passando», come in battaglia,« attraverso ogni
sorta di contradizioni e resistendo coraggioso :fino alla
fine della lotta, senza che il suo pensiero si smarrisca
mai» 178). La forza essenziale di questa paideia che in-
segna « a interrogare e rispondere da scienziato» 179) è
lo stato di veglia perfetta eh& essa attua nell'anima.
Perciò essa è per Platone l'educazione perfetta dei
« custodi» nel più alto senso della parola, cioè dei reg-
gitori. La denominazione, in sé singolare, di « custodi»
per la classe dominante è scelta da Platone, a quel
che appare, con allusione alla virtù filosofica di que-
sto supremo stato di veglia spirituale, al quale quella
classe deve essere educata 180). Il fatto che il nome « cu ·

176) Resp. 534 a.


177) Resp. 534 b.
178) Resp. 534 b 8-c.
179) Resp. 534 d 8-10.
180) Resp. 534 e 6.
1232 [n544] LIBRO !Il - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sto de», che da principio fu dato all'intera classe dei


guerrieri, sia poi, procedendo la selezione, limitato ai
reggitori 181) si spiega appunto pensando che questi sono
la piccola schiera a cui fu impartita leducazione più
alta. Chi non la possiede passa la sua vita in sogno e
prima di arrivare a svegliarsi in questa vita, egli è
già piombato nel sonno eterno dell'Ade 182). Ma nel si·
stema delle · scienze la dialettica costituisce la cornice
superiore dell'edificio (&plyxoç), che chiude dall'alto
il sapere umano e vieta l'aggiunta di ogni altro sapere
accessorio 183). La conoscenza del significato è la meta
finale della conoscenza dell'essere.
Ci si pone ora il problema di chi sia chiamato a
questo grado ultimo, al coronamento della cultura.
Si era già detto, parlandosi dell'educazione alla vera
virtù del reggitore, che si dovevano scegliere, come filo·
sofi reggitori, soltanto i giovani d'indole più ferma e
coraggiosa, e quelli che fossero il più possibile belli,
nobili e generosi 184). Ma questa kawkagathia deve essere
in loro associata a qualità che sono indispensabili per
la cultura superiore, acutezza d'ingegno, prontezza di
comprensione, memoria e tenacia. Colui che vuol pren·
der parte all'agile gara della dialettica, non è possibile
·•lie sia zoppo, che riesca, cioè, a muoversi e a stare
soltant9 su una gamba. Non basta quindi che egli
provi gioia dalla fatica fisica della ginnastica e della
caccia e mostri resistenza in questi esercizi, mentre poi
cede facilmente alla fatica intellettuale e ne rifugge.
Non gli è concesso, neppure, di essere amante del vero
a metà, di odiare cioè la menzogna consapevole e di
tollerare facilmente la falsità inconsapevole e involon·

181) Resp. 413 b; cfr. 412 c.


18:) Resp. 534 e 7.
183) Resp. 534 e.
184) Resp. 535 a, cfr. 412 d-e, 485-7, 503 e-e.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [11545] 1233

taria. Deve sentirsi malcontento di sé, quando si senta


convinto di non sapere, non già sentirsi a suo agio
nell'ignoranza, come il porco nel letamaio. Reggitore
può esser solo colui la cui anima abbia quella stessa
giustezza di proporzioni fra le parti, che si esige
come indispensabile requisito tra le membra del suo
corpo 1 85). Per tutto ciò, agli esperimenti già prescritti
per il futuro reggitore 186), deve aggiungersi un elabo-
rato sistema di selezione intellettuale, a che si possano
riconoscere, con lunga osservazione, gli ingegni atti alla
dialettica, e si possa metterli al posto che loro spetta.
Questi pensieri erano al tempo di Platone novità asso-
luta, e stanno in reciso contrasto con la fede cieca
nella validità dell'intelletto umano, che è caratteristica
di colui che non ha imparato nulla all'infuori della sua
quotidiana routine. Dal tempo di Platone in poi, si
può dire che non si sian fatti mancare agli uomini né
scuole né esami; pure chissà se egli ritornando in vita,
troverebbe che con tutto ciò le sue esigenze sono state
soddisfatte.
Per scoprire i pochi U(Hnini o donne (o anche un
solo) che possano un giorno ·stare al vertice dello stato,
bisogna che la selezione cominçi su larga base e pre~
sto. Il fatto che· Platone abbia preced~ntemente com-
battuto l'idea di una esclusiva concentrazione dello
studio filosofico in pochi anni della prima età virile 187)
(considerandolo invece necessario per tutta la vita),
non significa, come ora si vede, che egli rinunci a far
· cominciare la formazione intellettuale nella prima gio-
vinezza. L'insegnamento delle discipline matematiche,
la propaideia, deve avere inizio già nella fanciullezza 188).

186) Resp. 535 a-556 b.


186) Resp. 412 d ss.
187) Resp. 498 a.
188) Resp. 536 d.
1234 [n546J LIBRO III • ALLA RICERCA DEL DIVINO

È vero che l'inizio precoce della formazione intellet·


tuale urta contro un enorme ostacolo: la riluttanza del
fanciullo allo studio. Nulla si può ottenere contro di
essa, per mezzo della costrizione; ché non c'è cosa più
intimamente opposta alla cultura, che è libertà, di un
imparare per paura di una pena, come uno schiavo.
Se l'efficacia degli esercizi fisici non vien meno per l'ap·
plicazione di una costrizione, un sapere imposto con
la violenza all'anima non fa presa 189). Perciò Platone
auspica per questo grado dell'istruzione un procedi-
mento che comunichi ai fanciulli la conoscenza quasi
attraverso un gioco 190). Dietro questa esigenza plato·
nica, sta certamente già una triste esperienza fatta in
un tempo di incremento improvviso ed eccessivo di
lavoro scolastico, prodottosi per !"introduzione di nuove
discipline che si pensò di poter fare imparare non solo
ai meglio dotati e più volenterosi, ma anche alla media
dei ragazzi. Anche Platone deve, a questo grado, li-
mitare le esigenze e non tener troppo alto il livello;
e del resto basta, per lui, la forma di gioco del primo
insegnamento a fare scorgere le particolari attitudini
di ciascuno. Platone paragona il valore di questa forma
di apprendimento con la partecipazione dei ragazzi,
da farsi in questa stessa età, allo spettacolo della guerra:
come cuccioli di cani generosi, essi debbono « leccare
il sangue», e superare, cioè, la paura dinanzi al com-
pito formidabile dell'imparare llll). Fin da questo grado,
si deve non solo far imparare meccanicamente, ma si
debbono proporre (7tpo~cX.ìJ..e~v) ai ragazzi questioni
matematiche adatte alla loro età. E questo è un primo
accenno di quella tendenza ai « problemi» che deve

189) Re:ip. 536 e.


190) Resp. 537 a.
Ul) V. supra, p. 436 s.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [rr547] 1235

sempre più accentuarsi, per Platone, nell'insegnamento


della matematica 192).
La prima selezione dentro questo gruppo che ha·
eompiuto i primi studi si deve operare dopo la :fine della
istruzione obbligatoria nella ginnastica, e questa deve
avere una durata fra i due e i tre anni. Durante questo
tempo l'istruzione intellettuale tace completamente,
giacché la fatica fisica è nemica dell'apprendere. Inoltre
gli stessi esercizi ginnastici. costituiscono una parte
importante delle prove e della selezione che si fonda
su esse 193). Dal fatto che l'istruzione intellettuale deve
ricominciare al ventesimo anno, segue che l'istruzione
obbligatoria nella ginnastica, distinta dall'esercizio fisico
volontario da praticarsi sempre, viene a cadere tra il
diciassettesimo e il ventesimo anno. È questa l'età
nella quale i giovani ateniesi atti al servizio militare
venivano addestrati come efebi. Il. periodo di servizio
era biennale e cominciava col diciottesimo anno.
Platone accetta questo elemento ma avrebbe la ten-
denza ad aggiungere un terzo anno 194). Comincia poi
un periodo d'istruzione che si riallaccia alle cognizioni
matematiche apprese prima e deve mettere· in luce,
nello spirito del processo graduale descritto di sopra,
la connessione scambievole tra le discipline apprese fin
qui separatamente e tra i loro oggetti. Esse ora deb-
bono essere scorte insieme in uno sguardo sintetico
che attinga la« natura dell'essere». Questo grado del
sapere, sebbene si elevi sopra la matematica, non è,
esso, matematico, ma dialettico, ché il dialettico è.
anche il « sinottico», capace di vedere i legami e le
affinità tra gli oggetti e i campi del sapere 195). Quando

192) Resp. 536 d 7, cfr. 530 b 6.


193) Resp. 537 b.
194) Resp. 537 b 3.
1 95) Resp. 537 e ò µèv yd:p auvon-rLxòc;; 3LotÀe:x-rLx6c;;.
1236 [11548] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Platone esige soprattutto dai suoi eletti che es.si impa·


rino a « resistere» (µéve:Lv), nello studio come nella
guerra, egli sottolinea il suo· intento di trasferire nel
campo spirituale il supremo imperativo dell'antica etica
guerriera; e, del resto, può esser detto anche in gene-
rale che egli accettando sempre il costume spartano,
lo traspone in una dimensione superiore 196). Dopo un
addestramento decennale nella dialettica ha luogo tra
gli eletti stessi un'altra selezione (7tpoxp(ve:a.S-otL Èx 7tpo·
xph<ùv), dopo la quale gli eletti degli eletti sono fatti
segno dei più alti onori 197). I cinque anni seguenti, dal
trentesimo al trentacinquesimo, debbono provare chi
sia veramente capace di liberarsi dalla percezione sen·
sihile e di penetrare fino all'Essere stesso 198). Questo
periodo quinquennale è per Platone parallelo al periodo
tra i due e i tre anni dell'addestramento ginnastico,
ed è all'incirca il doppio di esso 199). È questa come una
palestra dialettica che sta con i dialoghi confutatorii
e con le sinossi del precedente periodo decennale a un
dipresso nella relazione in cui la dialettica sistematica
astratta del Sofista e del Politico sta con quella più
elementare dei dialoghi precedenti 200).
La lunga durata della formazione dialettica - quin·
dici anni in tutto, con i quali, del resto, essa non rag-
giunge un vero e proprio termine - fa capire meglio
di ogni altra cosa il concetto del sapere proprio di
Platone e il carattere della sua opera di scrittore, che
altro non è che l'esposizione di questo processo nei

196) Resp. 537 d.


1 97 ) Resp. 537 d 3.
198) Resp. 537 d 5.
199) Resp. 539 d 8- e 2; cfr. i ginnasi in Resp. 537 b 3.
·000) Nel Politico lo scopo dell'indagine è espressamente indi-
cato come esercizio nella dialettica. Cfr. anche Parm. 135 c-d;
136 a. c.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [11549] 1237

suoi diversi gradi. Questo esigere un così lungo ·periodo


di studi fa, a prima vista, l'effetto del sogno di uno
specialista, che non .riesce mai a ottenere, nei piani
di studi e programmi, per la sua disciplina, tanto tempo
quanto a lui sembra necessario per il pieno raggiungi-
mento dei suoi scopi, e che, potendo una volta tanto
permettersi di concepire una utopia pedagogica, si mette
a pretendere, per la sua scienza, tanti anni di studio
quanti, nella realtà, sono i mesi che· ha a disposizione.
Ma le ragioni vere dell'esigenza platonica non sono
di qliesta natura. Da lungo tempo egli ha detto e spie-
gato con la maggiore chiarezza, che da uno studio :filo-
sofico limitato a pochi anni, come era usuale al suo
tempo - e come ancora si fa - non c'è da ripromet-
tersi nulla né per la formazione filosofica né per l'edu-
cazione dei reggitori 201). La lettera VII descrive il for.:.
marsi della conoscenza del Bene - e di questa si tratta
per Platone, sempre ed esclusivamente - come un pro.-
cesso interiore che non si compie se non in una lunga
comunione di vita e di ricerca 202). Esso consiste in una
progressiva intima mutazione dell'uomo, proprio in
·quello che Platone nella· Repubblica designa come« con-
versione dell'anima all'essere». Nella lettera l'essenza
del contatto spirituale che si pone tra coloro che in-
sieme attendono a filosofare è caratterizzato come« un
accettare di essere benevolmente contraddetto» 203), il
che equivale perfettamente all'immagine usata nella
Repubblica del passaggio attraverso tutti gli stadi della
confutazione dialettica 204). La scienza del Bene, come
Platone la intende, presuppone un'affinità dell'anima
con l'oggetto, e perciò parallelamente al processo del

:Ol) Resp. 498 a-b.


=) Ep. VII 341 c.
ao3) Ep. VII 344 b.
:04) Resp. 534 c.
1238 [!1550] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

conoscere deve attuarsi uno svolgimento dell'ethos,


come frutto del quale appare alla fine la conoscenza 205).
Questa discesa in profondità in cui consistono l'impa-
rare e il capire può essere veramente compresa solo
gradualmente, da colui che vi si d~dica. È conforme
alla natura del concetto platonico di conoscenza, que-
sto avvicinarsi per gradi alla meta, come è rappresen-
tato fino dal' Simposio nell'immagine del primo e se-
condo grado d'iniziazione ai misteri. Ma, nel Simposio,
Platone ci dà solo un simbolo religioso di significato
generale; nella Repubblica, invece, egli· espone un me-
todo concreto di apprendimento, che si complica ancora
per il fatto che in esso deve essere compresa anche l'edu-
cazione ai compiti pratici del reggitore. In questo metodo
e piano di studio, l'istruzione nella dialettica, durante
i quindici anni dal ventesimo al trentacinquesimo, co-
stituisce la hase intellettuale nella preparazione del-
l'uomo di stato. Ma - ed è cosa estremamente notevole
- questo periodo non si chiude, come ci si aspetterebbe,
con la conoscenza dell'idea del bene, ma, prima che si
giunga a questo grado supremo, Platone inserisce un
altro periodo di apprendimento, anch'esso di quindici
· anni, dai trentacinque ai cinquanta 2()6). In esso ·l'uomo
ormai intellettualmente formato deve acquistare l'espe-
rienza, senza la quale l'alto livello. raggiunto non gli
servirebbe a niente, come reggitore. È il tempo della
scuola superiore di carattere e di azione. l due periodi,
di quindici anni ciascuno, l'uno per la teoria, l'altro
per la pratica, vogliono esprimere l'ideale di un equi-
librio tra i due aspetti dello spirito e della necessaria
unione di essi nella persona del capo. Essi corrispondono

206) Ep. VII 344 a.


206) Resp. 539 e-540 a.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [u551J l239

a quello che è sul· piano più basso dell'educazione dei


guerrieri l'armonia di ginnastica e musica 201).
La scuola di carattere del secondo quindicennio è
necessaria esigenza, non solo dal punto di vista della
formazione del reggitore, ma anche rispetto all'educa-
zione propriamente intellettuale e alla sua problema-
tica. Platone non si nasconde il pericolo della dialet~
tica, consistente nel formarsi di un sentimento di supe-
riorità intellettuale, che induca gli adepti ad usar
l'arte testé appresa nello sport di confutare gli altri
e a farne così scopo per se stessa 208). Questo pensiero
ricorre spesso in Platone, ma non è mai più aecen-
tuato e profondamente meditato che a questo punto,
dove è in questione il valore educativo della dialettica,
dove, anzi, l'ammonimento di fronte a un pericolo di
essa diventa un elemento della sua definizione, in quanto
con la scoperta di un lato apparentemente negativo
si chiarisce quello positivo che in esso si nasconde.
Giacché il fatto che la dialettica alletti i giovani a
trattarla come un puro gioco dell'intelletto non può
spiegarsi solo con la tendenza al gioco propria di quel-
!'età, ma è fondato, in parte, in essa, cioè nel suo ca-
rattere formale. Nelle critiche dei contemporanei, e so-
prattutto dei rappresentanti di altri ideali educativi,
l'affinità della dialettica platonica con l'eristica è posta
in forte rilievo, anzi si arriva a metterle semplicemente
sullo stesso piano 209). Di questa cattiva fama sono re-
sponsabili i discepoli. Lo sforzo di Platone è stato sem-
pre quello di separare nettamente la paideia dalla
paidià, cioè l'istruzione e la cultura dal puro gioco.
Ed è proprio nel pensiero di Platone che viene per la

207) Cfr. supra, p. 402 s.


20s) Resp. 537 e-539 d.
:OD) Cfr. supra, p. 106.
1240 [rr552) LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DIVINO

prima volta in luce il problema dei ~apporti tra gioco


e cultura, tra paidià e paideia, parole che, per di più,
si collegano alla stessa radice linguistica, in quanto
l'ana e l'altra sono originariamente in rapporto col
modo di vita del fanciullo 210). Ed era quasi inevitabile
che questo problema si ponesse,. in un tempo in cui
un • dei due concetti, la paideia, prendeva un signifi-
cato cosi vasto e comprensivo da farsi equivalente a
« cultura». Inoltre il problema del gioco accompagna
Platone per tutta la vita, e il suo interesse per esso
raggiunge. la massima evidenza nell'opera della vec-
ch1aia nelle Leggi, dove lo ritroviamo in forma nuova 211).
Il problema, ripreso poi da .Aristotele, diventa per lui
valido elemento a chiarire il suo concetto di cultura,
come« ozio» scientifico in contrapposto al puro gioco 212).
In Platone lo sforzo è diietto ad assorbire l'elemento
del gioco nella paideia. Già nel programma educativo
della Repubblica, Platone fa uso dell'apprendimento
attraverso il gioco, cerca cioè di far servire la paidià
alla paideia. Ma la dialettica è su un piano più ele-
vato, rispetto all'educazione dei giovanissimi, e non

210) J. HmzINGA, nel libro (di cui qui si ha presente la tradu-


zione. ·tedesca del 1939) Homo ludens: VeTsuch eineT Besrimmuno
des Spielelements [il libro è apparso in traduzione italiana pressa
l'editore Einaudi nel 1948], ha indagato questi legami con viva
sensibilità filo!io:fica. Ciò facendo egli ha· trattato anche dei Greci
e di Platone; anzi il suo modo di porre il problema è in realtà la
ripresa di una questione che, in questi termini. solo Platone avrebbe
potuto porre, ma con materiale moderno. Lo Huizinga va molto
al di là di Platone nella tendenza a ricondurre ogni forma di cul-
tura all'istinto umano del gioco. -È cosa notevole, in ogni modo,
che i Greci, prcprio nel momento in cui vollero andare più a fondo,
:filosoficamente, nell'essenza di quella paideia che fu per loro
cosa così seria, si imbattessero nel problema del gioco. Ma que-
sto trapasso da,l. gioco alla più profonda serietà è qualcosa di pro-
fondamente radicato, da ,.empre, nella natura delle cose.
211) Cfr. « Paideia» III 448 s.
212) Arist. Eili. Nic. X 6, 1176 b 23 ...
CAP. X: LA REPUBBLICA, li [n553J l241

è gioco ma cosa seria, spoudé 213). Poiché questa coppia


di concetti contrapposti è stata raccolta da parecchie,
anche se non da tutte, le lingue moderne di cultura*),
non è facile per chi parla queste lingue rendersi conto
di quanta astrazione e consapevolezza filosofica sia
racchiusa in espressioni come queste, a noi venute
dal mondo classico. Soltanto nelle Leggi il concetto
di « serio» o meglio di attività seria, spoudé, raggiunge
il suo significato più specifico ma esso balena già agli
occhi di Platone nel luogo della Repubblica che c'in·
teressa, dove egli paragona i principianti nella dialet·
tica, che abusano dell'arte nel gioco di contraddire gli
altri, con i cuccioli che godono soprattutto ad azzuf.
farsi con gli altri cani e a mordere 214).
Ma c'è nella dialettica un pericolo più serio di quello
di riuscir molesti alla gente: ed è che scompaia nei
giovani stessi il rispetto della tradizione. Abituandosi
attraverso la dialettica a criticare tutte le idee domi-
nanti è facile che essi cadano in una vera e propria
anarchia 215). Capita a loro come avverrebbe a un ra-
gazzo, che rubato da piccolo ai suoi, fosse cresciuto
nella fede che i suoi genitori siano quelli che l'hanno
tenuto; il quale poi, ritrovando un giorno i genitori
veri, comincerebbe a disprezzare tutto quello che :fin
allora ha onorato. La dialettica, in realtà, conduce,
come mostra, con esempio pratico, la stessa discus-
sione platonica del concetto di giustizia, alla confuta-
zione delle opinioni correnti, su ciò che è « giusto e

213) Platone Resp. 539 b, chiama abuso (xa:-.a:x.p'ija.&cxt) l'uso


fatto per gioco, dell'abilità dialettica nella disputa fine a se stessa
(&.\mÀoytcx). Il contrario logico di« gioco» è «serietà» (cr:.ouM1).
Cfr. anche 539 c 8.
*) [In it. p. es. nelle espressioni « sul serio » o « per is1:herzo »
o« per gioco». N. d. T.].
214) Resp. 539 b 6.
215) Resp. 537 e.
1242 [II554] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

bello», vale a dire sulle leggi e costumi attuali, dai


quali i giovani sono stati educati come da genitori 21a).
Come Platone, per parte sua, la pensi sull'obbedienza
alle leggi, lo ha chiarito egli stesso nel Critone, che rap-
presenta l'ossequio volontario di Socrate alla suprema-
zia dello stato, nel momento stesso di cader vittima
di una condanna capitale da lui ritenuta ingiusta. Lo
scolaro di Platone, Senocrate, vide l'essenza della filo-
sofi.a nel fatto che essa educa a fare volontariamente
quello che i più non fanno se non costretti dalla legge 217).
Certo, in questa. definizione, è del tutto oscurato quel
conflitto tra diritto positivo e giustizia assoluta che,
invece, è elemento cosi essenziale J:!.ella trattazione della
dialettica platonica 218). Ma anche Senocrate pensa, senza
dubbio, che la filosofi.a SÙI: attuazione di una giustizia
superiore, di una giustizi.a che esige più e non meno
di quel che la legge impone. Per Platone, la salvaguardia
fondamentale contro l'anarchia è nel porre il più lon-
tano possibile nel tempo la meta dell'educazione dia-
lettica - a cinquant'anni - e nel contrappeso
dell'educazione del carattere propria degli anni di
addestramento pratico. L'abuso della dialettica, ri-
-dotta dagli scolari a mero strumento formale, ricorda
all'ingrosso il rimprovero mosso da Socrate nel Gorgia
agli scolari di retorica 219). M.a la differenza è che la
retorica non s'impegna affatto in quello che per la
dialettica è il fine essenziale, nel problema del bene
e del male, del giusto e. dell'ingiusto. Perciò, l'abuso
della dialettica è negazione della sua vera natura, è
un segno che colui che se ne rende colpevole non è
giunto alla vera conoscenza.

218 ) Resp. ' 538 e ss.


217) Xenocrates, fr. 3 (Heinze).
218 ) Resp. 538 d.
219 ) Gorg. 46 e s.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [rr555] 1243

Solo dopo quindici anni di teoria e quindici di pra-


tica Platone conduce lo studioso della dialettica alla
meta suprema, all'idea del bene 22<1). Di qui in poi, egli
vuole che l'uomo volga lo sguardo dell'anima, l'intel-
letto, alla fonte di ogni luce e ritorni, dopo averla
contemplata, a « dar ordine» (xoaµei:v), secondo quel
paradigma, agli altri uomini, nella vita pubblica e
privata, e a se stesso. Il suo tempo sarà diviso tra l'at-
tività culturale e il servizio della comunità, con pre-
valenza del Ìempo dedicato al1o studio, ma tuttavia
in modo da esser sempre pronto, venuto il suo turno,
ad addossarsi le fatiche del governo, non come onore
ma come dovere 221 ). Dipoi, dopo che, nello stesso
modo, avrà atteso a forpiare altri uomini da poter la-
sciare al suo posto come custodi dello stato, egli se
n'andrà alle isole dei beati, che non saranno più figura,
questa volta, ma realtà. Ma la morte per lui, che già
nella vita ha scorto sempre in quelle isole il simbolo
dello studio sereno, è solo il passaggio alla beatitudine
della vita contemplativa *). Dopo la morte, Platone vuole
che gli siano tributati onori, uguali a quelli che gli
stati greci riserbavano agli eroi. Però la decisione su-
prema sull'assunzione del morto ad eroe è lasciata al-
l'oracolo delfico 222).
Questo è il quadro della personalità del reggitore
filosofo, il fine supremo della paideia platonica. Solo
p~r essa si potrà realizzare lo stato perfetto, se di que-
sto ci sia anche una sola possibilità, cosa di cui Pla-
tone,. contro ogni difficoltà, non dubita 228). Come capo
dello stato egli s'immagina o un uomo singolo o più

220) Resp. 540 a.


221) Resp. 540 b.
• ) [In lat. nel testo. N. d. T.].
222) Resp. 540 c.
128) Resp. 540 d.
1244 [n556J LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIV1NO

uomini della stessa indole e formazione, forniti di tutti


i poteri, cioè un re o un'aristocrazia. La questione del
numero non ha importanza poiché l'essenza della co-
stituzione non ne è toccata. Questa, in ogni modo,
può essere definita aristocrazia, ne] senso proprio della
parola. La cultura greca si era mossa, un giorno, e
aveva preso il suo primo impulso da una nobiltà di na-
scita; ora, alla fine del suo sviluppo, essa diventa, nella
visione di Platone, il criterio selettivo di una nuova
nobiltà dell'intelletto, abbia o non abbia questa effet-
tivamente il potere. Nella cultura di questa élite si
compenetrano i due elementi educativi, a cui la struttura
dello stato perfetto assegna posto e funzione di gradi
educativi: essa è « logos filosofico, misto con la mu·
sica» 224), e stringe perciò in uno le due forze supreme
del genio ellenico.
Questa nuova paideia rivendica a sé, nel mòndo, un
posto e un compito altissimi, in quanto afferma super-
bamente il suo diritto a dare alla nazione i "suoi veri
capi. Questi saranno sprezzatoci degli onori di cui di-
spone lo stato attuale, come quelli che conoscono un
solo onore: quello di fondare un governo, nel senso
vero -della parola, sulla base della giustizia 225). E se si
domandà quale sia il mezzo del quale questi reggitori,
formati dalla paideia, si varranno per edificare lo stato,
la risposta è ancora: la paideia. TI fine, infatti, è quel-
!'educazione etica di tutto il popolo, che Platone ha
già descritto, fin dal momento in cui concludeva la
trattazione del primo grado, come educazione alla giu-
stizia, cioè a quella hexis dell'anima che risulta dall'ar·
monia perfetta di tutte le sue parti. Giusta è ogni azione
che contribuisce a formare o a conservare questa he·

224) Resp. 549 b.


22&) Resp. 540 d.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [Il 557} 1245

xis - cosl allora egli definiva - e la saggezza è quella


scienza (episteme) che è capace di produrre azioni di
questo genere 226). Ora finalmente si sono scoperti i pos•
sessori di una tale saggezza. Poche parole bastano a
Platone per descrivere l'esecuzione del loro compito;
giacché tutti i particolari si possono lasciare alla loro
valutazione e discrezione. Il punto da cui Platone si
muove non è, come sarà poi nelle Leggi,, una città di
nuova fondazione, ma una polis già esistente, che si
tratta di rinnovare. Se in una tale città, i reggitori
vogliono riuscire a buon fine, essi devono prendere la
gioventù come materia della ricostruzione. Ogni essere
umano di più di dieci anni deve esser mandato fuori,
nelle campagne, ed i più piccoli devono essere educati,
non già nei costumi dei genitori, ma nello spirito dello
stato perfetto 227). Proprio come i libri di medicina assi-
curano, nella conclusione, salute e lunga vita a chi
seguirà le prescrizioni loro, cosi Platone promette a
quello stato che accolga il suo sistema educativo e lo
applichi a tutti i cittadini, la più rapida attuazione
della costituzione perfetta e il più felice avvenire per
il popolo 228).

LA TEORIA DELLE FORME POLITICHE


COME PATOLOGIA DELLA PERSONALITÀ UMANA

Con la descrizione dell'educazione del filosofo, de-


stinato a realizzare lo stato perfetto e ad agire in esso
come il supremo educatore, sembrerebbe che lo stato
platonico avesse dato intero il suo contributo alla

22'>) Resp. 443 e 5.


227) Resp. 540 e S s.
228) Resp. 541 a. A proposito dell'idea che lo Stato perfetto di
Platone sia un mito, vedi Resp. 376 d 9, 501e4.
1246 (11558] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

paideia: il quale consiste nella trasformazione dello


stato in una istituzione educativa per lo sviluppo della
personalità umana (r.Jrux!jjç &pe't"fi), supremo valore in-
~viduale e sociale. ·Ma, per Platone, l'indagine, non è
ancora esaurita. In principio egli si era proposto di
determinare la natura e ·il valore della giustizia, con-
siderata in se stessa, e poi di contrapporre il quadro
dell'ingiustizia a quello della giustizia, per valutarle
infine ambedue di fronte alla felicità 229)• Scoperto, ora,
l'uomo perfettameute giusto, rimane ancora· da definire
la natura dell'uomo assolutamente ingiusto 230). Non si
tratta, però, nella .parte che ora segue soltanto di un
semplice adempimento formale della promessa fatta
in principio: ogni _attento lettore potrebbe ormai arri-
vare da sé a compiere l'ultima parte del cammino.
Si tratta anche di un mezzo di transizione ad una delle
parti più interessanti della Repubblica: si sta per discen-
dere dallo stato naturale e buono allo stato difettoso
e aberrante dalla norma, o come direbbe chi non la
pensa come Platone, dal mondo ideale alla realtà della
vita politica. Stato perfetto, ce n'è uno solo; molte
sono invece le forme dello stato vizioso 231) ; tante e tanto
varie quante sono le forme politiche che l'esperienza
ci fa conoscere•. Imperfette tutte, esse differiscono solo
per il grado d'Imperfezione. Per stabilire questa grada-
zione di valori, Platone isola come tipi fondamentali
le più note forme di costituzione e le dispone in scala
discendente, secondo la distanza di ciascuna dallo stato
perfetto 232).
Anche Aristotele, nella Politica, collega . in unità

22•) Resp. 449 a. passo a cui Platone si richiama poi in


543 e 9.
230) Resp. 544 a.
231) Resp. 445 e 5.
232) Resp. 544 c.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [rr559J 1247

la teoria dello stato ideale con la teoria delle forme di-


fettose. Per lui è un problema - ed egli lo discute a
lungo -,- come· mai una sola, unica scienza debba assol-
vere questi due compiti, apparentemente cosi diversi 233).
Tanto il collegamento delle due parti quanto il pro-
blema di come un tale collegamento si giustifichi, egli
li prende dalla filosofia politica di Platone. Aristotele,
nell'ultima redazione della Politica, che è quella giunta
a noi, esamina prima di tutto, una per una, tutte le
forme costituzionali esistenti - e ne trova più d'una
buona 234) - per giungere infine a svolgere la teoria dello
stato ideale 235). Il procedimento di Platone è precisa-
mente l'inverso: partito dal problema della giustizia
assoluta e dello stato ideale in cui essa si realizza 238),
egli addita poi tutte le altre forme di stato come de-
viazioni dalla norma, e, pertanto, come fenomeni de-
generativi 237). E in realtà, una volta accettata la con-
cezione platonica della politica come rigorosa scienza
di norme, è pura e semplice conseguenza logica che
si stabilisca la norma prima di commisurare ad essa
l'inadeguata realtà. L'unica cosa che resta da discu-
tere è, semmai, una questione pregiudiziale: se cioè le
forme empiriche dello stato abbiano titolo a essere in-
cluse nella trattazione e possano costituire una parte
della scienza politica della norma.
La risposta di Platone a questo problema si ricava
dalla struttura del suo concetto di scienza politica.
Mentre la dialettica, nel suo aspetto logico, è in gran
parte modellata sulla matematica, essa, in quanto po-
litica o etica, è costruita, come si è più volte notato,

•33) Arist. Pol. IV 1.


234) Cfr. Arist. Pol. III 7.
236) Nei libri VII e VIII della tradizione manoscritta.
lroG) PI. Reap. libri II-VII.
'37) Pl. Reap. libri VIII-IX.
1248 [u 560] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sul tipo della medicina greca 238). Già nel Gor~a, dove
per la prima volta è abbozzato il piano costruttivo della
nuova techne politica, Platone aveva chiarito la forma
metodica e il :fine di essa sul modello dell'arte medica 239).
Il :filosofo là appariva non già come un puro teorico
di valori, ma come l'educatore, come l'omologo del
medico. Egli ha a che fare con la salute dell'anima,
come il medico con la buona disposizione del corpo.
Nella Repubblica questo parallelismo tra medicina e
politica appare in tutta la sua fondamentale impor-
tanza. Esso poggia sul presupposto, sviluppato siste-
maticamente nella Repubblica, che fine di ogni comu-
nità è il più pieno sviluppo dell'anima dell'individuo,
cioè la sua educazione di perfetta personalità umana.
Come la medicina, la politica ha come oggetto la na-
tura umana (physis). Quello che questo concetto signi-
fica per Platone diventa perfettamente chiaro alla fine
del quarto libro, dove la E;iustizia è definita come 'la
vera e propria natura dell'anima. Platone quindi ag-
giunge al concetto di natura un significato normativo,
proprio come fa il medico che considera lo stato di
salute come « normale». La giustizia è salute, e si
deve cercare di attuarla perché essa è l'unica condi-
zione conforme alla natura dell'anima (xO::'C'OC q>Uatv).
Dentro questa concezione, non si può porre sul serio
la questione se non si sarebbe più felici a operare ·fu.
giustamente, a quel modo che .non ci si domanda se la
malattia non sia più desiderabile della salute. La mal-
vagità è contraria alla natura dell'anima (1to::piX cpootv) 240).
Come la medicina riguardo al corpo distingue tra la
natura individuale e la natura generale, sicché per la

2as) Cfr. supra, p. 415.


239) Cfr. supra, pp. 220 s., 248.
240) Cfr. Resp. 444. e-e.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n 561] 1249

prima. n~l caso, p. es. di una costituzione debole, ven-


gono ad apparire normali molte caratteristiche che di
fronte al concetto generale, assoluto, di natura non
sono affatto normali, ma malsane 241), cosi anche il me-
dico dell'anima può talvolta usare il concetto di na-
tura, pensando all'individuo, per designare deviazioni
dalla norma generale; ma quello che Platone non con-
cepisce davvero, è che sia « normal~ tutto quello che
corrisponde alla natura di un qualunque individuo»;
e un tale fenomeno non diventerebbe per lui più« nor-
male», se si dimostrasse statisticamente che è _il più
comune. Il fatto che pochi siano gli uomini, gli animali,
le piante, perfettamente sani non basta ancora a tra-
sformare la malattia in salute e non può fare una norma
di quello che è soltanto una media insufficiente.
Se dunque lo stato è normale soltanto quando educa
uomini spiritualmente normali cioè giusti, le forme
dello stato che s'incontrano nella realtà non sono che
deviazioni dalla natura. Come tali Platone le avew
già designate alla fine del quarto libro; ora egli riprende'
il corso di questa trattazione appena iniziata ed inter-
rotta 242). Tutte Je forme attuali di stato sono fenomeni
di malattia e di degenerazione. E ciò non è soltanto
una paradossale conseguenza imposta a Platone dal
suo concetto di norma, ma è, come mostrano le nota-
zioni autobiografiche della lettera VII, il suo vero
punto di partenza, la convinzione fondamentale, cui
non venne mai meno il· vigore, di tutto il suo pensiero
politico 243). Se ciò è vero, il concetto platonico di poli-
tica comprende le forme degenerate dello stato ac-
canto a quella sana per la stessa necessità per cui la
medicina non è solo scienza dell'uomo sano ma anche

241) Cfr. « Paideia» III, cap. I. passim.


242) Resp. 445 e 9- d 6, cfr. 544 e ss.
248) Vedi specialmente Ep. VII 326 a.
1250 [n562] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

del malato, c1oe patologia e terapia 244 ). Ciò era chiaro


anche nel Gorgia, ma è nuova la trattazione con cui è
sviluppato nella Repubblica questo concetto di scienza,
secondo il quale con la conoscenza di una cosa si ha
immediatamente la conoscenza del suo contrario.
Il contrario dello stato buono è la molteplicità
delle forme· erronee di stato. L'indagine su esse esige
un altro procedimento, in parte sistematico, in parte
poggiante sull'esperienza, il quale in seguito, doveva
dare l'avvio ad Aristotele, per un ulteriore svolgimento
degli elementi empirici contenuti nel platonismo. Il
fatto che egli sviluppasse proprio questa parte della
politica platonica, dimostra a sufficienza la fecondità
della fusione platonica di idea e realtà. Ma il propo-
sito di Platone, nella teoria delle forme politiche dege-
nerate, è chiarito solo in parte dall'elaborazione che di
essa dette Aristotele. La teoria platonica delle forme
politiche non è principalmente una teoria delle costitu-
zioni. Essa è prima di tutto, come la teoria dello stato
perfetto, teoria dell'uomo. Sulla base di quel paralle-
lismo tra stato e uomo, da cui tutta l'opera è percorsa,
Platone distingue, in corrispondenza alle forme poli-
tiche della timocrazia, oligarchia, democrazia e tiran-
nide, un tipo d'uomo timocratico, oligarchico, democra-
tico e .tirannico ·e pone tra questi tipi, come tra le cor-
rispondenti forme politiche, una differenza di valore
in scala discendente, fino al tiranno, l'opposto estremo
dell'uomo giusto 245). Come nello stato perfetto, l'uomo
e lo stato non stanno solo nel rapporto di un paralle-

244) Aristotele svolge il paragone dei metodi della filosofia con


quelli di ginnastica e medicina al principio del IV libro della Po-
litica, nel momento in cui passa dalla trattazione delle costitu-
zioni politiche buone a quelle errate. L'idea tuttavia è platonica.
La definizione delle -l)µcxp"t"'l)µtvcxt 7t'OÀtTe!cxt, come forme mor-
bose, si trova in Resp. 544 c e già in 444 d-445 c.
24°) Resp. 544 d-545 a.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [rr563) 1251

lismo esteriore, ma lo stato è solo la superficie vuota


in cui deve iscriversi il ritratto dell'uomo giusto, così,
anche per le altre forme politiche, lo stato in sé non
è niente, senza l'uomo. Si parla, è vero, di uno « spi-
rito della costituzione», ma la fonte di questo spirito
è la qualità morale, l'ethos di quel tipo d'uomo che si
è foggiato dall'interno la forma di stato a lui conforme 246).
Ciò non esclude che la forma di vita statale, una volta
:fissata, imprima, a sua volta, il suo segno sugli indivi-
dui che vivono in essa. Ma quando si avvera che que-
sto stretto cerchio d'individuo e comunità si rompa e
e si trapassi ad un'altra forma politica, come l'espe-
rienza storica dimostra che può avvenire, la causa di
ciò non è da cercare in circostanze esteriori di alcun
genere, ma nell'interno dell'uomo, che muta la« strut-
tura della sua anima» (xcx:'t'cx:crxe:u"Ì} tjiux~ç) 247). Così la
teoria platonica delle forme politiche viene ad atteg-
giarsi come una patologia della personalità umana. Chi,
però, crede che la heris sana dell'uomo sia creazione
di una corretta educaziona 248 ), deve dare all'educazione
una responsabilità decisiva anche in ogni .deviazione
dalla norma. E se tutti gli abitanti di uno stato sono
aberranti dalla norma, in un certo senso, l'errore deve
consistere nell'educazione e non nella natura, la quale
in sé tende al bene. Si deve perciò intendere la teoria
delle forme politiche anche come una patologia del-
l'educazione 249 ).

Ogni mutamento nello stato procede, secondo Pla-


tone, non dai governati ma dai governanti, per il fatto

2.S) Resp. 544 d.


a47) Resp. 544 e 5.
248) Resp. 443 e 6, 444 e 1.
249) L'interpretazione che segue è fatta tutta da questo punto
di vista, al quale, credo di poter dire, gli espositori non danno
di solito la dovuta importanza.
1252 [n564J LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

che in seno alla classe o gruppo dirigente si forma un


dissenso o frattura (a-roccrn;) 250). Tutta la teoria di Pla-
tone e di Aristotele sulle mutazioni degli stati non è
altro che una teoria della stasis, la qual parola ha un
contenuto più vasto che il nostro concetto di rivolu-
z" one. ~ identica la causa della degenerazione della
natura umana a quella che opera in animali e piante:
è, questo, il fattore i;mponderabile della phorà e della
aphorw, del buono e d~l cattivo raccolto 251). Questo
pensiero, che ci è occorso per la prima volta nelle idee
di Pindaro sull'areté 252), deriva chiaramente dalla tra-
dizione di paideia della nobiltà greca arcaica. Quella
classe sociale così consapevole di problemi educativi,
come pratica di agricoltura, dové scoprire per tempo
che la riproduzione del tipo migliore, una volta rag-
giunto, è sottoposta a identiche leggi in tutta la na-
tura vivente. In Platone, però, si risc~ntra, di questa
esperienza, una formulazione più scientifica e una trat·
tazione sistematica, a causa della analogia fra etica e
medicina che gli sta costantemente dinanzi agli occhi.
Il luogo della Repubblica che ora ci interessa è il primo,
nell'opera di lui, in cui emerga la considerazione della
patologia animale e vegetale, come analoga al fatto
della decadenza dell'areté umana. Una tal maniera
di considerar la natura non ha la sua origine sul ter-
reno dell'antica filosofia naturalistica, sebbene questa
avesse indagato sul principio del nascere e del perire
e quindi anche sulla causa dei patke, ma sorse insieme
col problema dell'areté. Certamente, fin dai primordi,
non mancò una qualche nozione su queste materie,
in una società di allevatori e agricoltori. Ma l'edifica-
zione di _una patologia scientifica di animali e piante,

2soÌ Resp. 545 d •


.251) Resp. 546 a.
252) Cfr. voi. I, p. 390.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [n565] 1253

da questo fondo ereditario d'esperienza, è l'opera delle


due generazioni da Platone a Teofrasto. Sebbene una
tale scienza potesse sorgere soltanto sul terreno del-
1'osservazione empirica, cosi come la praticò la scuola
di Aristotele, è però evidente che quella sorta di bio-
logia dell' areté propria di Platone, dette ad essa un
importante impulso, col suo concetto teleologico della
natura e con la sua idea della norma 253). Ancora nella
patologia vegetale di Teofrasto, che trovò forma clas-
sica nel libro Sulle cause delle piante, è dato di cogliere
chiarissimo il conflitto tra il rigoroso concetto plato-
nico della norma, come forma delle piante la più per-
fetta e la più adeguata al fine, cioè come areté di esse,
e il concetto puramente statistico del normale, che rico-
nosce come « normali» anche le deviazioni da quella
norma ideale, quando siano molto frequenti 254). La pre-
scrizione platonica della comunità delle donne nello
stato perfetto, fu, come si è mostrato, concepita al
fine di sottoporre a un controllo eugenetico la casua-
lità dell'allevamento naturale nel matrimonio, nel quale,
inoltre, molti altri fattori intervengono 255). Pur tuttavia
la produzione di ogni essere vivente soggiace a miste-
riose ed inviolabili leggi aritmetiche, non accessibili
all'uomo 256) e se un accoppiamento non si trova a coin-
cidere con questa riposta armonia, se non coglie quel
~reciso kairos, in cui si collegano il divino volere e la
sua riuscita, la prole non raggiungerà l'optimum della
natura e fallirà l'eutychia 257 ), la buona sorte e la prospe-
rità. Inoltre. non si lega oro con oro, argento con ar-

2n) Cfr. Resp. 444 d 8-11.


254) Cfr. Theophr. De causis plant. lih. V, c. 8 s., e special-
mente la duplice definizione· di mxpà: cpua1v, al principio del ca-
pitolo.
205) V. supra, p. 427 ss.
256 ) Resp. 546 b.
257 ) Resp. 546 c.
1254 [rr566] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

gento, ferro con ferro, ma solo si mescolano metalli


non affini; e il resultato di questa dissimiglianza (ano-
malia) è la stasis, la discordia, l'inimicizia. Cosi co-
mincia la metabasis, il passaggio dallo stato perfetto
a un altro meno buono 258).
La descrizione platonica delle costituzioni è un ca-
polavoro di psicologia. È la prima descrizione generale,
non esteriore ma svolta dall'interno, delle forme di -vita
politica, che la letteratura del mondo conosca. L'analisi
platonica del· tipo democratico di . costituzione diffe.
risce dalla famosa esaltazione di Atene nell'epitafio di
Tucidide, per il maggiore realismo e per l'acuto senso
delle deficienze, e si distacca altresi dal pamphlet po-
lemico noto col titolo La costituzione degli Ateniesi,
per l'assenza di ogni ran~ore oligarchico. Platone non
parla come uomo di partito, ma si pone con lo stesso
atteggiamento critico di fronte a tutte le costituzioni. Lo
stato più vicino all'ideale è per lui lo spartano, che già
la teoria politica dei Sofisti aveva additato più volte,
a quanto sembra, insieme con lo stato cretese, come
modello di eunomia 259). L'esposizione di questo sistema
politico, per il quale Platone conia il vocabolo di ti-
mocrazia, perché esso è edificato tutto sul concetto di
onore 260), ha la particolare attrattiva della individua-
lità storica, mentre le altre forme politiche sono ca-
ratterizzate secondo una tipologia più ·astratta. Che

258) Resp. 547 e 5.


269) Aristotele, Pol. Il 1, 1260 b, nomina Sparta e Creta come
stati, la cui costituzione si suol considerare esemplare (11:6)..e:iç
e:òvoµe:fo-&oci Àe:y6µe:va:i): giacché le parole che si trovano in
principio del libro si riferiscono alla descrizione di questi due
stati e di Cartagine, che si trova poi ai capp. 9-11. Cfr. anche le
parole :finali del cap. 11; sullo stesso problema nel Protrettico,
vedi il mio Ar,istoteles p. 78 (trad. Calogero, p. 100, 101). Già Pla-
tone, Resp. 544 c chiama le costituzioni spartana e cretese « quelle
lodate dai più». E lo stesso fa Isocrate, riguardo a Sparta: Pa-
nath. 41; ma vedi 109, 200, 216.
26-0) Resp. 545 b 6.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [n567J l255

in più punti Platone, nel concepire il suo Stato, si sia


tenuto al modello spartano è cosa evidente; tanto che;
con grossolana esagerazione si è potuto considerarlo
un filolacone del tipo degli oligarchi ateniesi. Ma pro-
prio per questo il confronto della sua descrizione di
Sparta col suo stato perfetto, ci può illuminare su quello
che nello stato platonico si differenzia deliberatamente
dalla concezione spartana 261). La cattiva mescolanza dei
« metalli» ha prodotto nella composizione del tipo
umano spartano una quantità di contradizioni. Così,
l'elemento ferreo e di bronzo lo trae al possesso di de-
naro e di terre. Elemento meschino e povero, esso tende,
perciò, a colmarsi di ricchezza esteriore. L'oro e l'ar-
gento, invece, incitano lo spartano all'areté e lo ricon-
ducono alla condizione originaria 262). Giacché « per-
fetto» si identifica con « originario» in questa conce-
zione della metabasi, che sostituisce la visione storica,
non usa a risalire mai, alla vera « origine » di qualsiasi
trasformazione. Cosi gli elementi unificati nel carattere
spartano vengono tra loro a conflitto e alla fine si con-
ciliano in un compromesso tra aristocrazia (cioè signo-
ria della virtù vera) e oligarchia 263). Terra e case d\ven-
tano proprietà privata e toccano alla classe domi-
nante; quelli che prima erano i clienti di essa e da lei
protetti, chiamati fino allora amici e produttori di
alimenti, sono sottoposti a servitù e diventano di lì
in poi perieci e iloti. La sorveglianza su questi sudditi
diventa per la classe dei padroni, ormai divenuti tali
senz'altro da governanti che erano, un compito non

261) Cfr. 547 d. Ancor più importante, sotto questo rispetto, è


la critica precisa allo stato spartano che ha luogo nei ll. I e II
delle Leggi: v. « Paideia» III 378 ss.
282) Resp. 547 b.
283 ) Resp. 547 c.
1256 [n568] LIBRO llI - ALLA RICERCA DEL DIVINO

meno importante della protezione armata dello stato


contro i pericoli esterni 264).
Lo stato spartano in virtù della sua posizione me-
diana tra lo stato ideale e loligarchico, ha parecchi tratti
in comune con tutti e due, oltre ad alcuni elementi
tutti suoi. In comune con lo stato ideale, rispetto per
le autorità (che Platone non trovava nella democra-
tica Atene), astensione della classe dominante da ogni
attività lucrativa, uso di pasti in comune, ginnastica
e capacità militare: il che vuol dire che Platone approva
queste istituzioni e che le ha prese appunto da Sparta265).
D'altro lato la. diffidenza di fronte alla cultura impe-
disce agli Spartani di elevare ~Ile cariche uomini d'intel-
letto; anzi in questo stato uomini di intelletto puro
non esistono assolutamente. Si tende colà al tipo umano
semplice e coraggioso, disposto più alla guerra che alla
pace; si ammirano tutte quelle scaltrezze e raggiri che
il gioco della guerra esige; insomma lo stato si consi-
dera in condizione di guerra permanente 266) : elementi,
questi., tutti inconciliabili col carattere dello stat9 ideale,
e particolari a quello spartano. Con lo stato oligarchico,
poi, Sparta ha in comune il vizio dell'avidità di denaro.
Esteriormente si ostenta la più grande semplicità, ma
le case private sono veri ripostigli di tesori, veri nidi
nascosti di lusso e di spreco. A vari del proprio e pro-
dighi di ciò che hanno rapinato agli altri, come ragazzi
di nascosto al padre, si sfrenano nel segreto delle case
in piaceri vietati, di nascosto a quelle leggi, che la
loro patria impersona tra l'ammirazione universale 267).
Questa ipocrita religione dell'apparenza è l'effetto
inevitabile di un'educazione come quella spartana, non

264) Resp. 547 b-c.


265) Resp. 547 d.
286) Resp. 547 e-548 a.
267 ) Resp. 548 a-b.
CAP. X: LA REPUBBUCA, II [n569J 1257

opera di persuasione interiore, ma di addestramento


coattivo. Essa è la conseguenza del difetto di una for-
mazione alla vera« musica», la quale è sempre con·
giunta con la ragione e col desiderio di conoscenza.
La colpa di questa unilateralità dell'uomo spartano,
e perciò dello stato; è nel turbamento di quell'equi·
lihrio voluto da Platone per l'educazione dei suoi guer-
rieri, tra ginnastica e formazione musicale. Così Sparta
è un mi&to di buono e di cattivo. Una forza la domina
realmente e profondamente: la forza della sete di
onore 268).
Platone si rende conto della sommarietà del suo
quadro di Sparta; ma egli non ambisce che a segnare
un contorno espres~ivo, senza alcuna pretesa di esat-
tezza nel particolare. Egli richiama di nuovo, per tutta
qu.esta sezione dell'opera, il principio fondamentale che
deve esser guida al filosofo dell'educazione: di tenersi
al metodo di mettere in rilievo il tipico 269). Giacché i
particolari, nella loro mutevolezza infinita, non sono
così importanti per la comprensione della realtà, come
questo elemento fondamentale e permanente. Così
« l'uomo spartano», questo concetto ancora familiare
oggi, di cui si è fatta applicazicme in ogni aspetto, in
ogni periodo della storia, è una creazione di Platone.
Però l'interpretazione che di questo concetto si dà·
spesso, come l'immagine del tipo medio di una civiltà o
di un gruppo umano, non è conforme al senso di Platone.
Per lui il « tipo» ha valore di personificazione di un valore
o di un certo grado di valori. Il suo« uomo spartano»
impersona, in una forma d'uomo che gli serve di base, lo
stato ideale nel primo grado della .sua degenerazione.
Questo tipo d'uomo Platone lo descrive, riassumendo 270).

:68) Resp. 548 h-c.


289) Resp. 548 e 9-d,
t7D) Resp. 548 e 4.549 a.
1258 [n570] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

come padrone di sé, amante delle mu~e, ma per parte


sua non tanto musicale, buon ascoltatore, ma còmple-
tamente incapace di parlare. Aspro con gli schiavi 271),
amichevole coi liberi, obbediente ai superiori, ma de-
sideroso lui stesso di autorità e di distinzione, egli vuol
comandare non per mezzo della parola che convince,
ma con la disciplina e con l'azione militare. Inoltre
lo spartano è amante dello sport e della caccia 2 72}.
Platone abbozza poi un quadro dello sviluppo spi-
rituale di un giovane spartano, che illustra quali in-
fluenze educatrici operino su lui. In gioventù egli forse
disprezza il denaro, ma poi con l'età l'avidità di pos-
sesso prende sempre più il sopravvento su lui, perché
gli manca quella che è contro di essa la salvaguardia
migliore : la cultura intellettuale, necessaria per conser-
vare l'areté, per mantenere per sempre l'altezza con-
quistata 2 73). Egli ha forse un bravo padre, un uomo che
sa di vivere in una città politicamente non ben diretta
e che, perciò, sta il più possibile lontano da onori e
uffici, tenendo in qualche modo la sua fiaccola sotto
il moggio, per non attirar troppo ·l'attenzione. Ma la
madre, invece, è ambiziosa e non si contenta della po-
sizione politica del marito. Ha a noia che egli si dia
così poco da fare, che non faccia conto del denaro,
e se ne stia tutto ritirato in sé a occuparsi dei fatti suoi,

_ 2 71) Resp. 549 a 2. Fra questi due termini- dell'antitesi, Platone


inserisce a mo' di parentesi: «invece di essere incurante degli
schiavi, come è l'uomo veramente colto». Ciò vale a dire che l'uomo
lxocvù\ç 7tE1tct~~euµtvoç non si inquieta a fondo, quando rimpro-
vera gli schiavi per mancanze commesse, come invece fa lo spar-
tano.
212) È facile ritrovare tutti questi elementi spartani nell'ideale
di cultura senofonteo.
21a) Resp. 549 a 9-b 7. Proprio in questo contesto, nella critica
dell'uomo spartano, Platone crea la mirabile espressione J.6yoç
µoumx'ìj xexpocµi:voç («forze razionali e musicali in giusta pro-
porzione») per render comprensibile quel che manca a questo
tipo, così notevole per molti rispetti.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [II571] 1259

ed è forse anche insoddisfatta perché il marito, pur


senza mancarle di rispetto, non ia una gran stima di
lei. Eccola, dunque, a ispirare nel figliuolo l'idea che
suo padre è un debole, non è un uomo, a fare insomma
tutti quei discorsi che le donne son solite fare su uomini
di questo genere. E non basta: anche gli schiavi cer-
caµ.o di renderglisi grati, insinuandogli che suo padre
non è onorato come si converrebbe, ·perché gli uomini
come lui in genere sono ritenuti stupidi. Cosi la sua
anima viene a esser tirata in qua e in là, poiché -ora
il padre « irriga» in lui e fa crescere il lato ragione-
vole dell'anima, ora tutti gli altri della sua cerchia
eccitano il lato bramoso e passionale. Alla fine egli
lascia le redini alla parte« mediana» dell'anima, avida
di onore, e diventa cosi un uomo altero e ambizioso 214).
È necessario esporre, come facciamo, il procedimento
dimostrativo platonico nella sua interezza, non solo
per non disperdere tutta la sua ricchezza di partico-
lari incisivi, ma per chiarire con l'evidenza dell'esempio
il modo con cui Platone svolge la sua idea fondamen-
tale: la patologia dell'educazione. Egli comincia con
una ·descrizione di Sparta che caratterizza più lo
spirito della città, di quanto ne illustri le istituzioni 275) :

214) Resp. 549 c-550 b.


215) Questo nuovo metodo psicologico di descrizione di tipi di
stato costituisce uno dei più grandi meriti platonici verso la scienza
etico-politica. Esso scaturì per logica filiazione dal trasferirsi del-
l'interesse del filosofo dallo stato in quanto struttura di diritto
positivo alla sua funzione ed essenza educatrice. ·Per questa l'es-
senziale è lo spirito (lj&oc;) dello stato, ben più che le istituzioni
· dello stato, poiché è lo spirito dello stato, come totalità, che de-
termina la struttura tipica fondamentale dell'individuo. E quello
che prima di tutto importa a Platone, nella sua trattazione com-
. parativa. delle costituzioni, è di rendersi conto delle differenze di
stmttttra tipica nell'uomo individuo; giacché le distinzioni di
forme politiche, in sé e per sé, non erano più al suo tempo niente
di nuovo per nessuno. Ed è questa la ragione per cui egli poté
omettere del tutto la descrizione delle istituzioni particolari a
ciascuna forma di stato.
1260 [rr572] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

queste sono presupposte note. La sottopone poi


ad una analisi che separa gli elementi contrastanti
dello stato spartano, per raccoglierli intorno ai due
poli opposti di aristocrazia-oligarchia. Tra i due poli
si stabilisce una tensione in cui vive lo stato; esso è
attrattò da ciascuno di essi in direzioni opposte, finché
la tendenza peggiore prende il sopravvento. A questa
immagine dello stato spartano, Platone mette a fronte
quella dell'uomo spartano e del suo ethos. Le due
immagini si corrispondono punto per punto. Ma, se la
considerazione dello stato è quella che· precede, non si
deve dimenticare che questo ordine è voluto da Pla-
tone non perché lo stato venga, per natura, prima 276), ma
perché per noi esso è di osservazione più agevole. Come
nell'indagine sulla giustizia e sull'uomo giusto la na-
tura della giustizia era stata prima descritta nello
stato, perché in esso si può leggerla a caratteri più
grandi, e solo dopo fu riconosciuta nell'anima dell'uomo,
sebbene in questa abbia origine e solo in lei propria-
mente esista 277 ), così ora Platone, nella sua trattazione
patologica, ci fa prima constatare il quadro morbos~ nelle
grandi proporzioni dello stato, e poi ci riporta 'al mi-
croscopio della psicologia, a riscontrare gli stessi sin-
tomi nell'anima dell'individuo. In questa sta il germe
che, alla fine, ha avvelenato la vita della comunità
intera 278). Così Platone si accosta, partendo dal feno-

276) Questa è la nota definizione aristotelica della relazione tra


stato e individuo: Pol. I 2, 1253 a 19, 25.
277) La giustizia nello statò, secondo Platone, è che ognuno
esegua l'opera sua propria, la sua funzione sociale nel miglior
modo, ma egli dice anche (Resp. 443 c) che questa, in realtà, è solo
«una specie di immagine della giustizia» (d8(i)À6v ' ' -.ijç 8t-
xoi:toaUVl]c;), poiché la vera giustizia esiste s o I o nell'intimo .del-
l'uomo e nella giusta relazione delle parti dell'anima tra loro,
cioè nel fatto çhe ciascuna di esse faccia bene l'opera sua.
2 78) Resp. 544 d 6-e 2. Alle forme di costituzione politica cor-
rispòndono altrettante specie di uomini (e:t8l] &v&p6>m;iv), «per-
ché le forme politiche non nascono da se stesse (o, come dice Pla-
CAP. X: LA REPUBBUCA, II [1!573] 1261

meno visibile, alla causa nascosta. Essa consiste nel


turbamento di quell'armonioso equilibro fra le tre parti
dell'anima, che è la giustizia, la« salute» dell'anima 279).
Quando dunque Platone, con l'ultima frase della sua
descrizione, richiama espressamente l'immagine delle
tre parti dell'anima 280), sembra che egli voglia rendere
evidente al lettore il procedimento. metodico per cui
dal. fenomeno, in apparenza puramente politico, della
timocrazia spartana, risale al processo patologico in-
terno all'anima dell'uomo. La salute, cosl avevano sen-
tenziato i medici greci, dipende dall'impedire, con la
più scrupolosa cura, il predominio tirannico di uno· tra
i fattori fisici che la costituiscono 281). Platone non si
appropria questa idea; ché essa non gli servirebbe per
la sua « costituzione perfetta». L'essenza della salute,
anche della salute fisica, egli la vede, non già negativa-
mente nel non predominio di una singola parte, ma
positivamente nella simmetria delle parti, la quale gli
sembra perfettamente conciliabile col predominio della
parte migliore sulla peggiore. Nella assoluta signoria
della parte migliore, della ragione, egli vede la condi-
zione naturale dell'anima 282). Quindi la malattia ha per
causa il predominio delle parti dell'anima, o di una
di esse, che per natura sono destinate non a comandare,
ma ad obbedire.

tone éon una reminiscenza omerica, « non derivano da una quer-


cia o da ·una roccia») ma dai caratteri che sono nelle città» i
quali determinano in" questo o in quel senso la fisionomia dello
stato. E con le parole ,ix -r&v ij.&&v -rrov èv -roci~ 7t6ì..ecrw non si in-
tende qui l'ethos dellà politeìa, ma i caratteri degli uomini che vi-
vono nelle città. Perciò alle cinque forme costituzionali debbono
corrispondere (come causa) cinque strutture psicologiche (xoc-roc-
crxeuoct t!iu;('ij~, 544 e 4).
279) Cfr. supra, p. 412.
280) Resp. 550 b.
281) Cfr. « Paideia» III 9, 34.
882) Resp. 443 d-e.
1262 [II574] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Così, in ultima istanza, la causa di quella debolezza


di Sparta che Platone rivela, in contrasto con l'uni-
versale ammirazione dei contemporanei per questa città
ancora dominante in quel tempo, sta nei difetti della
celebratissima educazione spartana, sulla quale si fon-
dava tutta la vita dello stato 283). La cronologia più
accettata assègna, probabilmente a ragione, la Repub-
blica di Platone agli anni fra il 375 e il 370; La sua de-
scrizione di Sparta non dà. però il senso di essere stata
scritta sotto l'impressione della catastrofe di Leuttra
(371). Questo avvenimento aveva scosso l'universale
stima per Sparta, come si vede in ogni parte dalla Poli-
tica di Aristotele, non meno che nella critica degli altri
contemporanei, una volta tanto d'accordo tra loro 284).
Ma è una critica, questa, che nasce puramente dall'ado-
razione del successo, precisamente come da essa era
derivata l'ammirazione per lo stato che aveva vinto
la potente democrazia ateniese. Platone costituisce, a
quel che sembra, l'unica grande eccezione a questo at-
teggiamento. La çosa più verosimile è che egli scri-
vesse la sua analisi del costume e dell'uomo spartano
non molto prima del crollo, da tutti inaspettato, della
potenza di Sparta. L'evento di Leuttra fu non solo
una svolta nella storia della politica di egemonia degli
stati greci, ma anche un rovesciamento subitaneo di
valori nella paideia greca a cagione della posizione di
modello fin qui tenuta da Sparta. In ogni modo, tutta
la letteratura idealizzante su Sparta, venuta su nei
decenni precedenti a Leuttra, era stata essenzialmente,

283) Il giudizio di Platone su questa forma di educazione si


potrebbe riassumere con le sue stesse parole, Resp. 548 b 7: un' edu-
cazione attuata non per mezzo della persuasione, ma della forza
( oòx Ù'll:Ò 'll:e:t.&ouç &:n' \mò ~tocç 7l:e:'ll:oct8e:uµévou ).
2H) Cfr. Arist. Pol. II 9 ss. dove è chiaro il riferimento agli
insegnalllenti di Leuttra e al tempo dopo Leuttra. A proposito
di Isocrate v. « Paideia » Ili, 185 ss. e 219.
CAP. X: LA REPUBBUCA, li [11575] 1263

come si è mostrato, espressione di ammirazione per. il


sistema educativo spartano 285). Invece, nonostante. tutto
quel che di buono . Platone riconosce in Sparta, nono-
stante tutto quel che ne deriva, il suo« stato dell'edu-
cazione» non è affatto il modello spartano nel grado
più elevato che potesse raggiungere, ·ma anzi è il colpo
più duro che il valore di questo modello abbia sofferto.
Qui è riconosciuta, con spirito profetico, la sua debolezza,
e nel momento stesso in cui Platone ne deriva tutti
gli elementi fecondi, Sparta decade dall'altezza di un
ideale assoluto al rango della migliore tra le forme po-
litiche difettose.
Il posto immediatamente successivo, dopo la timo-
crazia, è assegnato da Platone all'oligarchia. La ra-
gione di ciò è da cercare, da un lato, nell'avversione
di lui per la degenerata democrazia ateniese del suo
tempo, che gli chiude gli occhi di fronte ai meriti sto-
riçi della patria 286). Certo, l'avversione più profonda
in Platone è quella contro la tirannide. Ma questo sen-
timento profondo che sembrerebbe legarlo alla demo-
crazia classica, in realtà lo separa da quella forma che
questa costituzione politica aveva ormai al suo tempo.
Già nel Gorgia una sensibilità intellettuale troppo acuta
per lasciarsi prendere dalle parole, gli aveva suggerito
di paragonare alla tirannide il terrorismo della massa 287 ).
E così la democrazia scende molto in basso riella scala
dei suoi valori. Non c'è solo opposizione tra libertà e

280 ) Vedi nel I voi. di quest'opera, p. 160 ss. tutto il paragrafo


intitolato « L'ideale spartano del IV sec. e la tradizione».
286 ) Il suo atteggiamento subisce qualche modificazione più
tardi, nelle Leggi. Cfr. « Paideia » III 417 ss.
2s1) Gorg. 481 d. In 510 b Socrate dice clie se nella polis domina
un tiranno rozzo e selvaggio, bisogna che chi vuol rimaner vivo
si adatti ai suoi costumi, e che si trova in guai chi è migliore di
lni. Platone non pensa soltanto, a questo punto, alla cosiddetta
tirannide, ma a tutte le forme di stato e, prima di tutto, ad Atene
e a Socrate:
1264 [rr576] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

oppressione; ma per la conversione -scambievole dei


contrari, gli estremi vengono a toccarsi 288). D'altro canto
lo svolgimento dello stato spartano contemporaneo
verso una forma di plutocrazia aveva messo in luce
la riposta affinità di esso con l'oligarchia 289), e ·si pre-
sentava p·erciò ovvio considerare un tale svolgimento
come nell'ordine delle cose, e, in tal caso, porre l'oli-
garchia dopo la timocrazia e prima della democrazia.
Infatti, l'essenza dell'oligarchia è scorta già da Platone,
prima che da .Aristotele, nella considerazione del de-
naro come criterio supremo del valore sociale della
personalità, e, pertanto, anche dei diritti civili che ad
essa competono 290). L'oligarchia è, per cosi dire, un'ari-
stocrazia fondata sulla fede materialistica che la ric-
chezza sia la ragione essenziale di un'alta posizione so-
ciale. Certo, anche per l'esistenza dell'antica nobiltà,
la proprietà era stata il presupposto indiscutibile 291),
ma la proprietà terriera aveva dato luogo a· un'etica
diversa da que'1a del denaro, e quando questo venne
a sostituire quella come base della vita economica o
anche ne fece una sua vassalla, la estimazione della
ricchezza, Plutos, ebbe, anche e precisamente nel modo
di pensare degli aristocratici, un colpo da cui non si
rialzò più. Ancora per Platone e Aristotele la nobile
liberalità è -qna virtù dello stesso valore e allo stesso
titolo che per l'età dell'antica supremazia nobiliare 292).
Ma se è virtù quest'arte di largir bene il denaro, come
può sorgere essa sullo stesso terreno etico in cui è arte
suprema il saper fare denaro ? Platone stabilisce

288) Resp. 564 a.


28 9 ) Resp. 548 a.
290) Resp. 550 e-551 a.
291) Cf:r. « Paideia » I, p. 59 n. 14 e 272. Cfr. anche Pind. Ol. II 53.
292 ) Per quel che riguarda Aristotele vedi i due capitoli sul-
l'~Àe:u.&e:i:i t 6't"'ljç (liberalità) e µe:ycxÀ07tOÉ:m:tcx (munificenza) in
Eth. Nic. IV 1-3 e IV 4-6.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [II 577] 1265

questo principio: là dove è pregiato il possesso del


denaro, l'estimazione della vera virtù è in declino 293),
Già nei tempi di Solone e di Teognide, rappresentanti
l'uno e l'altro dell'antica aristocrazia, la primitiva unità
di ricchezza ed elevatezza sociale era spezzata e Solone
poteva proclamare che egli non avrebbe mai dato la
propria areté in cambio della ricchezza 294). l\fa a Pla-
tone è perfino estraneo il pensiero che la capacità di
far denaro possa essere un criterio valutativo dell'abi-
lità umana, ed egli non ne fa neppure menzione: tanto
è· lontano il suo ideale dell'areté da questo concetto
volgare, seppure egli osservi di passaggio èhe, natural-
mente, la massa apprezza il tipo d'uomo che ha suc-
cesso 2 95). Certo, Platone conosce una sorta di ascesi nel
far denaro corrispondente · a quella della virtù. Ma il
culto di Mammona che anima quell'ascesi, e il connesso
disprezzo della povertà non sono per lui che sintoµU
della malattia dell'organismo sociale.
Per Platone lo stato oligarchico è definito da quat-
tro segni distintivi. Il primo è che tutto, in esso, di-
pende dal denaro. Che questo sia un difetto, non c'è
bisogno di dimostrarlo, giacché come non si darebbe
ad uno il posto di timoniere nella nostra nave per ·il
suo denaro, cosi non ha senso ·affidargli per la stessa
ragione la supremazia nello stato 29 6). Un secondo segno
è la mancanza di unità nello stato. In esso, iii verità,
gli stati sono due, i poveri e i ricchi, due stati che si
contrappongono diffidenti e ostili 297). La conseguenza
di ciò è che un tale stato ha scarsa possibilità di difesa.

293) Resp. 550 e-551 a.


Su Solone e il suo atteggiamento verso la ricchezza. v. voi.
29 ') T
p. 272; su Teognide, i11i, p. 366 ss.
295) Resp. 554 a S$.
298) Resp. 551 c.
291) Resp. 551 d-e.
1266 [rr578] LIBRO ffi - ALLA RICERCA DEL DIVINO

La classe dominante rilutta, a ragione, ad armare la


parte povera della popolazione, poiché la teme molto
più dei nemici. Ma in pari tempo essa si deve ben guar-
dare dal fare apparire questa paura e per di più dal
mettere in luce la scarsa buona volontà dei ricchi di
portare gli oneri della guerra. Un altro elemento per
cui questo tipò di stato è in antitesi col principio co-
stitutivo dello stato platonico è la necessità che esso
impone ai cittadini di occuparsi di molte cose insieme,
invece di far fare a ciascuno l'opera sua, giacché agri-
coltura, commercio e affari, servizio militare, tutto ri-
cade sulle stesse persone 298). Infine in un'oligarchia
ognuno può vendere il suo e ognuno lo può acquistare;
ma anche chi ha dato via tutto e, perciò, in realtà
non è più un membro dello stato, non è cioè né uomo
d'affari né artigiano, né cavaliere né oplita, mantiene
tuttavia il diritto di abitare nello stato come nulla-
tenente 299). In questo esame delle caratteristiche del-
l'oligarchia affiora un'assai penetrante e particolareg-
giata riflessione su problemi economici concreti, la quale
non aveva avuta parte alcuna nella costruzione dello
stato perfetto, in quanto questo era volto solo al compito
educativo, con esclusione di ogni altro problema. Tutto
ciò che a questo punto è esposto nella forma della
critica, o anche, occasionalmente, in linea di principio,
sarà poi :fissato da Platone in precise disposizioni, nelle
Leggi. Là egli tenterà di superare il dannoso contrasto
di ricchezza eccessiva e di povertà estrema mediante
disposizioni dirette a limitare da un lato e a rendere
dall'altro inalienabile la proprietà terriera 300); ma evi-
dentemente si tratta di idee che, almeno in linea di
principio, erano state familiari a Platone :fin da tempi

298 )Resp. 551 e 6.


" 8) Resp. 552 a.
800) Legg. 741 a se.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [!1579] 1267

molto anteriori alla formulazione delle Leggi, 301). Quello


che qui gli basta concludere è, che, in uno stato come
questo, il vizio più malsano è l'esistenza di numerosi
« fuchi», in parte miserabili, in parte malfattori pro-
fessionali, ladri e tagliaborse 302). Questo fenomeno è
secondo lui da riportare soltanto a una cattiva educa-
zione 303).

L'uomo oligarchico vien fuori dal timocratico


quando questi si accorge per esperienza - che il desi-
derio d'onore, che in Sparta domina su tutto, esige
per il bene comune troppi sacrifici, che « non francano
la spesa». Poiché Platone concepisce ogni mutazione
politica come fenomeno di educazione, egli prende,
anche qui, a considerare l'uomo oligarchico nel suo
sviluppo, :fin dai giovani anni. Questa volta egli si im-
magina un giovane, figlio di un uomo che sia l'in-
carnazione perfetta del tipo ambizioso e altero carat-
teristico della forma timocratica, un uomo che vi-
vendo in grandi posizioni politiche, o di generale o di
altissimo magistrato, sia solito a mettere, senza riserva,
persona e beni a disposizione della comunità. Ma que-
st'uomo, invece di onori e distinzioni, non ha altro
compenso che di rovesci e di sciagure; perdita del-
l'ufficio, calunnie di delatori, processi, perdita dei beni,
perdita dell'onore, esilio, morte. Il figlio vede tutto ciò
con orrore e fa giuramento a se stesso che non capi-
terà mai a lui una sorte simile 304). Perciò, quel desi-
derio d'onore a cui il padre lo ha educato, egli lo cac-
cia giù dal trono del suo cuore, ·e con esso la parte co-
raggiosa e combattiva dell'anima, da cui si muove ogni

301) Cfr. Resp. 552 a.


302 )Resp. 552 c.
soa) Resp: 552 e.
304) Resp. 553 a-b.
1268 [rr580] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

azione ambiziosa. Umiliato dalla pove~ si dà al


risparmio e al làvoro e, soldo su soldo, si rifà un gruz-
zolo. Ed ecco che nell'anima sua sale al trono l'elemento
avido e amante del denaro, e diventa il suo gran re,
col capo cinto dalla tiara, una catena d'oro al collo, e
la sdmitarra al fianco 305). L'immagine che qui ci si pre-
senta ha un preciso ed esplicito aspetto politico; ma
la metamorfosi che essa rappresenta ha un profondo
valore spirituale: quella conquista del trono per cui
al posto della ambizione spartana, pronta a ogni rinun-
zia, si pone come un despota orientale gonfio della sua
ricchezza, la crassa bramosia dell'oro, ha luogo nel•
l'intimo dell'uomo 306). In realtà essa è un processo pa-
tologico dell'anima, un turbamento della sana armonia
delle sue parti. Questo nuovo sultano degrada a schiavi,
rannicchiati ai piedi del suo trono, la parte pensante
dell'anima e quella appassionata di onore. All'uno, egli
non permette più di pensare ad altro che al modo di
ammucchiare sempre più denaro, all'altro non concede
di ammirare e onorare se non ricchezza e nomini ric-
chi 307). Platone è maestro nell'arte di evitare, per ognuna
delle successive trasformazioni e decadenze delle forine
politiche, la pedantesca ripetizione dei medesimi con·
cetti fondamentali e nel racchiuderli in immagini che
presentano sempre più vivamente evidenti le tre parti

30 ~) Resp. 553 h-c. Quella che Platone considera caratteristica


dell'uomo in cui si vien formando il tipo « oligarchico», cioè « ri-
sparmio e lavoro» (553 c 3) suona come uno slogan p9litico, e
certamente lo è. Lo ritroviamo in Isocrate, nell'Areopagitico (24),
dove è dato come titolo di gloria e fondamento della nchpLoc;
noÀLTe:fo:. E Isocrate, su questo punto, parla proprio come rap•
presentante del partito dei « democratici moderati», quelli che i
democratici radicali chiamavano« oligarchi ». Di ciò il passo della
Repubblica fornisce una nuova prova. Cfr. « Paideia» III 193 s.
306) Anchè. altrove in Platone l'avidità di denaro è presenlata co-
me caratteristica non greca e specialmente orientale. Cfr. Legg. 747 c.
307) Resp. 553 d.
CAP. X: LA REPUBBUCA, Il (II 581) 1269

dell'anima e il turbamento del loro rapporto normale.


Uno spostamento in tale rapporto aveva già prodotto
la decadenza dallo stato perfetto a quello timocra-
tico 308). Ora.appare chiaro che questo pr:mo mutamento
porta con sé inevitabilmente il secondo. Ecco, d'un
tratto, tutta disegnata dinanzi a noi, l'immagine del-
1'.uomo oligarchico : risparmiatore, lavoratore, frugale,
capace di subordinare, con arida disciplina, ogni altro
desiderio all'unico desiderio del denaro, disprezzatore
della bella forma, senza gusto di cultura, di paideia,
come si vede anche solo dal fatto che dà a un cieco
- e Plutos è cieco - l'ufficio di corifeo 309). La sua in-
cultura (apaideusia) nutre in lui gli istinti del« fuco>>.
cioè gli istinti, nascenti dalla stessa radice dell'avidità
di denaro, propri del pitocco e del malfattore 31°). Il
vero carattere dell'uomo oligarchico si riconosce bene,
ogni volta che egli abbia il potere di arraffare il bene
altrui senza rischio. Perciò è uomo da metter le mani
sul bene dell'orfano di cui sia tutore, ma nelle rela-
zioni normali, dove l'apparenza della giustizia è pro-
fittevole, egli si sa dominare, non già perché il ricono-
scimento dell'onesto mitighi le sue brame, ma per
paura, per il terrore di mettere · in pericolo il resto
del patrimonio 311). Così, visto di fuori, quest'uomo del
denaro sembra persona straordinariamente corretta e
a modo, ma in realtà non è che un fariseo, senza vera
virtù, senza interiore armonia 312). I grandi sacrifici di
denaro - in cui le antiche democrazie chiamavano i
ricchi a f~rsi onore. in speciali circostanze - gli bru-
ciano, ed egli si lascia volentieri, su questo punto,

308) Resp. 550 b.


ao•) Resp. 554 b 4.
810) Resp. 554 b 8.
8 11) Resp. 554 c.
81 2) Resp. 554 e.
1270 [n582) LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

superare da altri 313). Non ha egli quel fiero senso di


gara per scopi ideali, che era tanto ovvio per un cit-
tadino ateniese, tanto profondamente connaturato, che
a Platone non viene in mente di considerarlo un merito
singolare della sua patria.

Come l'esagerazione spartana della brama d'onore


ha condotto alla conversione della timocrazia in oligar-
chia, così l'insaziabile fame di denaro opera la tra-
sformazione dell'oligarchia in democrazia 314). Ancora una
volta è il pensiero medico che offre a Platone uno stru-
mento di acuta sensibilità per cogliere le cause delle
trasformazioni di forme morbose nell'animo umano.
La patologia medica opera coi concetti di isomeria
e simmetria 315), e la conservazione di queste condizioni
benefiche dipende essenzialmente dall'evitare la ripie-
nezza eccessiva 316). L'evidenza di questa verità ha la
sua ragione nel fatto che il ricambio organico è un ritmo
regolare di pienezza e di vuoto 317). Il segreto della sa-
lute è la riposta Inisura delle cose, quella Inisura che
è così facile alterare. Sempre, anche nel passato, si
era scorto il vero e proprio problema sociale della ric-
chezza nel fatto che « quelli che hanno di più vorreb-
bero il doppio» (Solone), giacché la ricchezza non ha
liiniti in se stessa 3IB). Per questa brama ogni debolezza
umana diventa un mezzo gradito di arricchirsi, e spe-
cialmente lo diventa la tendenza dei giovani allo spen-
dere, la quale negli stati oligarchici non trova limita-

313) Resp. 555 a.


314) Resp. 555 b.
811) Cfr. « Paideia» III 9 e cap. I passim.
316) Resp. 555 b 9. .
317) xévrocrn; e 7tÀ~procn~ sono concetti medici che hanno
influito anche altrove sul pensiero platonico: cfr. Phileb. 35 b,
Symp. 186 e, etc. Essi hanno parte importante negli scritti ip-
pocratei.
318) Cfr. « Paideia » I, p. 275.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [n583] 1271

zione nella legge, in quanto in essi l'unica preoccupazione


di ciascuno è la creazione di sempre nuove possibilità
di guadagno 319). Si forma così, e si fa sempre più nu-
merosa, una classe di gente impoverita a tutto pro-
fitto dei ricchi, e questo stato di cose, in cui l'usura
diviene sempre più dominante, è causa alla fine di
inquietudine pubblica e di sovvertimento 320). E quanto
più tra i non abbienti cresce di numero la gente di va-
lore - essendo d'altra parte pròprio dell'uomo d'af-
fari e di denaro trascurare in sé ogni àltra capacità a
profitto della capacità di lucrare - tanto più il con-
fronto tra le due classi diventa svantaggioso per i
ricchi. La vita sociàle offre occasioni a sufficienza, ad
ambedue i gruppi, di conoscersi scambievolmente. Rara-
mente il realismo di Platone raggiunge un'efficacia
maggiore che nel ritrarre la psicologia del poveruomo
che, abbronzato dàl sole e tutto nerbo, si trova àccanto
in battaglia uno di questi ricconi sedentari e molli
e Io vede sb~ffare sfinito sotto il peso del grasso super-
fluo, sicché alla fine deve dire a se stesso che· i ricchi
possono ringraziare soltanto la dappocaggine dei po-
veri, per la loro supremazia. Platone ci fa sentire con
vivezza tutto il processo per cui a poco a poco si insi-
nua e si afferma nell'animo degli oppressi una convin-
zione: « questa gente è finita; . ne possiamo fare quel
che vogliamo noi» 321).
Come in un corpo malato, basta un piccolo urto
esterno perché la malattia erompa, così in uno stato
come questo la discordia latente scoppia alla più pic-
cola occasione, per es. se i ricchi si mettono a simpatiz-
zare con una potenza estera, che segua, anch'essa,
una politica di oppressione del popolo, o se, al contra-

31 9 ) Resp. 555 c.
320) Resp. 555 d.
321 ) Resp. 556 c-d.
1272 [u584l LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

rio, i poveri vedano di poter trovare appoggio presso


uno stato estero democratico 322). In un batter d'occhio,
allora, lo stato oligarchico sparisce e s'instaura la demo-
crazia. Coloro che le si oppongono in parte sono am-
mazzati, in parte banditi. Si instaura uguaglianza di
diritti fra tutti i cittadini, gli uffici pubblici si asse-
gnano a sorte. Quest'ultimo elemento è per Platone
il vero e proprio segno distintivo della democrazia,
com'egli l'aveva sotto gli occhi nella sua patria. Per
lui, che pregiava sopra ogni cosa il sapere dell'uomo
competente, questo elemento doveva diventare il sim-
bolo di una forma politica che metteva sullo stesso
piano, nella decisione dei problemi politici più gravi,
le opinioni di tutti i cittadini e a tutte dava lo stesso
peso e valore 323). Storicamente parlando si deve dire
che Platone scambia per l'essenziale un particolare
momento e fenomeno di degenerazione; giacché la sua
critica a quell'applicazione meccanica del concetto di
uguaglianza, che consiste nell'assegnazione di uffici
secondo il capriccio della sorte, sarebbe stata sotto-
scritta anche dai fondatori e artefici della democrazia
ateniese 324). Aristotele, è noto, rifiutò il pensiero del
maestro su questo punto, come troppo sommario. Egli
riconobbe, in ogni costituzione, una forma buona e una
erronea; anzi, anche nell'ambito di quest'ultima vide
differenze, e, nella Politica, distinse le varie fasi di svi-
luppo storico della democrazia, come delle altre forme
costituzionali 325). Aristotele, senza dubbio, rende mag-

322) Resp. 556 e.


823) Resp. 557 a.
824) Ciò è specialmente rilevato da Isocrate (Areop. 21-22) il
cui ideale politico è la forma soloniana della democrazia, la « co-
stituzione .dei nostri padri».
325) Aristotele, Pol. III, 7, 1279 b 4-10, distingue la democra-
zia dalla politeia; in IV 4, 1291b15 ss. egli distingue di nuovo
varie sottospecie di democrazia.
CAP. X: LA REPUBBUCA, II (11585] 1273

giormente giusnz1a alla realtà. Ma non è propriamente


questo quello che importa a Platone, cioè il pagare
con assoluta esattezza il suo debito di storico alla
realtà, con tutte le sue differenze. Delle forme stesse
costituzionali gli importa soltanto in via subordinata,
e cioè in quanto può valersene per rappresentar chiara-
mente quel tipo morboso di anima che egli chiama,
generalizzando, l'uomo democratico, per rappresen-
tarlo in quel tipo di stato che esso produce.
È naturale perciò che, per dimostrare il suo prin-
cipio fondamentale secondo il quale tutte lè forme
politiche, eccetto lo stato dell'educazione, sono
patologiche, egli metta sempre in primo piano gli ele-
menti sfavorevoli. Nelle Lettere, invece, Platone, rivela
una certa comprensione perfino per la funzione nazio-
nale dei tiranni siciliani, per il loro compito di unifi-
catori delle città dell'isola contro il pericolo cartaginese,
a patto però che tutto ciò si compia senza violenza e
senza violazione della libertà della città nel darsi ordi-
namenti propri 32 6). Di tutto ciò non c'è traccia nella
Repubblica. In essa la tirannide è un fenomeno morboso,
assolutamente e senza riserve. Così è della democra-
zia. I meriti di essa, per la salvezza della nazione nelle
guerre Persiane, sono esaltati da Platone nel Menes-
seno, come era uso antico negli elogi funebri· dei com-
battenti 327), ma nella Repubblica di questi mer1t1
si tace. Cosi Platone non si cura affatto qui di un
dato di fatto storico, al quale pur doveva guardare

a2s) Ep. VIII 357 a; cfr. anche 353 e, 355 d.


827) Le virtù degli avi, vincitori dei Persiani a Maratona. Sa-
lamina e Platea, Platone le spiega (Menex. 238 h), non tanto con
la costituzione politica di cui godevano, quanto con la loro pai-
deia (cfr. anche Menex. 238 c); e vede il loro merito singo-
lare (241 c) nell'avere educato anche gli altri Greci nello stesso
spirito intrepido, che li indusse a tenere a vile la massa bruta
di uomini e di navi.
1274 [rr586] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

con simpatia, del fatto, cioè, che la democrazia era


venuta al mondo un tempo come impero della legge
e aveva messo fine perciò a quello stato di universale
anarchia che l'aveva preceduta. Egli non vede la na-
• tura profonda di essa né nell'educazione dell'uomo al-
l'azione responsabile, sotto la guardia e nello spirito
della legge, né in quel dovere di render .conto del pro-
prio agire, che per Eschilo, nei Persiani, distingueva
la forma politica ateniese dal dispotismo asiatico. ·Pla-
tone, invece, preferisce disegnare il quadro più cupo
della democrazia in dissoluzione del suo tempo. «La
città è ora» egli dice « piena di libertà, e ognuno può
fare in essa quel che ·gli piace» 328). La libertà è dunque
soprattutto un affr~camento da ogni specie di doveri,
non un vincolarsi autonomo a leggi interiori. «Ognuno
organizza la propria vita in quel modo che gli co-
moda» 329). L'individuo trionfa nella sua nuda acciden-
talità naturalistica, ma per ciò appunto« l'uomo_», nella
sua vera natura, è sacrificato, in questa emancipazione
dell'individuo, non meno di quanto lo sia da un si-
stema di costrizione e di esagerata ·disciplina, ·oppres-
sione dell'individuo. Quel che Platone, descrive col
nome di« uomo democratico» noi potremmo chiamarlo
il tipo dell'individualismo, che come il tipo dell'am-
bizione, il tipo deM.'avidità e quello tirannico, si rea-
lizza più o meno in tutte le forme politiche, ma è in
particolar modo il pericolo della. democrazia. L'indivi-
dualismo è. dunque una nuova forma morbosa della
personalità. Giacché la personalità non si identifica
con la mera individualità. L'uomo in quanto soggetto
dell'areté è natura formata dalla ragione. E che cosa
intenda Platone con ciò, egli lo ha mostrato descri-

328) Resp. 557 b.


829) Resp. 557 b 8.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [rr5871 1275

vendo la paideia del suo stato ideale. Vista da questa


vetta di libertà interiore, tale che per essa, nella Re-
pubblica platonica, possono essere omesse tutte le leggi,
tranne quelle che regolano la paideia, l'idea di libertà
nella rappresentazione media e corrente del nostro
tempo non è che un termine convenzionale con cui si
velano parecchie cose che meglio si farebbe a vietare.
Platone stesso, certo, si rende conto, sebbene non
lo dica, che la sua aspra critica· dello stato di cui è
cittadino e la dottrina « sovvertitrice » della sua filo-
sofia non sarebbero concepibili in nessun luogo~ fuor che
in Atene. Ma il valore di una tale libertà gli pare molto
compromesso dal fatto che di essa può godere ognuno.
Platone sente di possedere l'unica vera :filosofia; come
potrebbe allora consentire di concedere uguali diritti
all'errore? Sebbene il metodo della sua dialettica tragga
il nome proprio dalla « èonversazione », pure niente gli
ripugna come quel tipo di « discussione» che non im-
pegna a niente e che si acqueta sempre alla fine con
la formula:« questa sarà la tua opinione; la mia è que-
st'altra». A questo punto l'educatore, che si sente come
un pesce fuor d'acqua in una tale atmosfera di carenza
dell'obbligatorietà, si trova in conflitto con la tolle-
ranza politica, per la quale è preferibile lasciare esporre
un'opinione stravagante piuttosto che sopprimerla con
la forza. A Platone la democrazia fa l'effetto di uno
stato brulicante di uomini di ogni sorta, una specie di
« emporio universale » di tutte le costituzioni, dove
ciascuno va a scegliersi quel che corrisponde al suo
gusto personale 330). Perfino chi non vuole affatto prender
parte alla vita dello stato può farlo, come può fare
il contrario-. Chi non vuole partecipare alla guerra
quando gli altri la fanno, resta in pace per conto suo.

330) Resp. 557 d.


1276 [n588l LIBRO lil - ALLA RICERCA DEL DfVINO

Chi, per legge o per sentenza di un tribunale, è escluso


dalle cariche, seguita a tenerle indisturbato 331). Lo spi-
rito d'indulgenza domina la giustizia 332), e la morale
pubblica non guarda tanto per il sottile. Non si esige
cultura intellettuale alcuna come condizione preliminare
dell'attività politica; l'unica cosa che si pretende è
che chi prende' la parola si mostri benevolo al popolo 333).
L'esattezza di questo quadro può essere riscontrata
punto per punto, coi discorsi degli oratori giudiziari
e con la commedia. Proprio i patriottici difensori della
costituzione ateniese sono i riprensori più aperti della
debolezza di questo sistema, anche se essi non sareb-
bero in ogni caso disposti a privarsi~ insieme con le
debolezze, anche dei suoi pregi. Anche Platone, del
resto, rifiuta di porsi il problema di mutare la costitu-
zione ateniese per via rivoluzionaria; ma lo fa per altri
motivi. Egli è un medico preoccupato solo di coerenza
logica, un medico che.: esamina il paziente e ne trova
allarmano le condizioni, ma non sa più quale rimedio
proporre 334).
Secondo Platone, anche l'uomo democràtico, come
gli altri tipi, è l'effetto di un'educazione sbagliata, per
la quale, dalle manchevolezze del tipo precedente, vien
fuori un tipo ancora peggiore. L'uomo oligarchico è sì
parsimonioso; ma è anche incolto e rozzo nel più pro-
fondo dell'anima 335), e perciò stesso in preda a tutte le

831) Resp. 557 e.


83Z) Resp. 558 a.
383) Resp. 558 b.
83') !j)i veda tutto quel paragrafo della lettera settima in cui
Platone si trattiene sul proprio atteggiamento di fronte allo stato
della realtà, 330 d-331 d, e specialmente 331 c6 ss. dove si accenna
al giusto atteggiamento da tenere con la propria polis. Anche qui
il modello per l'educatore filosofo è il medico; cfr. 330 d.
335) Sull'importanza della paideia come causa di questo sviluppo,
cfr. Resp. 558 d 1, 559 b 9, 559 d 7, 560 b 1, 560 e 5, 561a3.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [11589] 1277

brame e passioni. Avviene dunque alla fine che questo


elemento bramoso, che in lui predomina, valica i li-
miti dentro i quali il suo istinto di risparmio e di pos·
sesso doveva mantenerlo. Incapace com'è di distin-
guere i desideri e le esigenze naturalmente necessari,
dai non necessari 336), specialmente nella gioventù, la sua
anima diventa teatro di risse faziose e di rivolte. (Qui
come nella descrizione del passaggio dall'uomo timo·
cratico all'oligarchico, Platone adopra questo linguag-
gio di allegoria politica, per cui lanima è come uno
stato in cui si compie una rivoluzione, al fine di ren-
dere immediatamente chiaro il significato e la conse-
guenza politica di tali ·trasformazioni interiori.) Mentre
l'uomo ambizioso era il prodotto della vittoria della
parte animosa sulla parte pensante dell'anima, e l'uomo
oligarchico a sua volta veniva fuori dalla vittoria della
parte bramosa su quella animosa e su quella pensante,
l'uomò democratico vien fuori da lotte che si svolgono
solo all'interno dell'elemento bramoso. Quello che ·c'è
in lui di oligarchico si prova sw primo momento a re-
sistere e cerca aiuto all'esterno, in elementi affini, p. es.
nel padre che lo educa, ma alla fine il potere raffrenante
dell'aid6s, cioè del rispetto e della vergogna, deve ce-
dere di fronte alla pressione dei desideri, sempre più
violenti, giacché il padre e educatore non conosce
affatto i modi di sviluppare e «nutrire» (trophé: paideia}
gli istinti migliori. Tutta l'opera educativa fallisce a
causa di questa anepistemosyne (« ignoranza», in senso
scientifico) del retto allevamento dell'anima 337). Così
cresce all'interno dell'anima giovanile una «massa»
(plethos, il vocabolo che designa la « massa», in senso

338) Resp. 558 d 9 ss.


837 ) Resp. 559 e-560 b. Allevamento (-.po«pi)) ha qui lo stesso
significato di paideia, ché sinonimi sono i due verbi, -.pé«pe:w
e ,;a: ~ae:ue: ~v.
1278 [II590] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

politico) di desideri insoddisfatti 338), i quali una volta


o l'altra si radunano e prendono d'assalto l'acropoli del-
l'anima, .la ragione, avendo. scoperto che i quartieri
della guarnigione sono vuoti di ogni scienza, di ogni
attività ideale e intellettuale 339). Il posto di tutto ciò,
nella cittadella, è ora preso da una massa. di false e
rozze immaginazioni, e l'uomo è ormai del tutto in
mano loro. I nuovi occupanti chiudono le porte, e non
lasciano passar più soccorsi dall'esterno e neppure le
ambasciate e i consigli di amici più anziani 340). Il ri-
spetto (aidos) è mandato in bando, .col nome di stupi-
dità, e la stessa mutazione di nomi si compie per tutti
i concetti di valore. La temperanza è chiamata impo-
tenza, la moderazione, l'economia bene ordinata prende
il nome di rozza spilorcerià, e, coi nuovi nomi infa-
manti, queste virtù son mandate in esilio 341). Al loro
posto son chiamate, coi nomi più lusinghieri e rivestite
di splendidi ornamenti, le qualità opposte: l'anarchia
si chiama libertà, lo strazio del denaro pubblico, ma-
gnificenza e l'impudenza si chiama coraggio.
Non è chi non veda che Platone a questo punto
mette a profitto un passo magnifico delle Storie di Tu-
cidide, nel quale la decadenza del costume è caratteriz-
zata appunto dal mutarsi del senso dei vocaboli 342).

338) Resp. 560 b 5.


339) Resp. 560 b 7.
340) Resp. 560 c.
341) Resp. 560 d. Atawç qui è evidentemente concepita come
la segreta consigliera della parte dell'anima che fin qui è stata
al governo. Essa è particolarmente odiata, per il potere che ha
avuto, dalle brame che vogliono la rivoluzione.
342) Thuc. III 82, 4. V. «Paideia» I, p. 570. Come Platone qui,
così Isocrate in ,Areop. 20, subisce evidentemente l'infiuenza del-
l'analisi fatta da Tucidide delle crisi politiche e dei loro sintomi.
Questa teoria delle crisi conveniva mirabilmente con la conce-
zione platonii;a, di tipo medico, dei processi che si svolgono nello
stato e nell'anima individuale. Nel voi. I, p. 658 s., si è chiarito,
con l'esempio del problema delle cause di guerra, come anche il
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [Il 591] 1279

Platone applica al suo problema la verità di quel pen-


siero. Egli vede, in questo processo che si compie nel-
l'anima, il segno dello sconvolgimento più radicale che
abbia mai avuto luogo nella storia della paideia, e,
conforme ai suoi presupposti, fissa lo sguardo sul
fatto che lo storico espone come deplorevole conse-
gucn:~a, per la Grecia tutta, della guerra peloponne-
siaca, e ne fa colpa esclusivamente all' «uomo demo-
cratico», in quanto tale. È evidente che, qui come dap-
pertutto, quello che era stato in origine un concetto
puramente politico diventa per Platone simbolo di un
determinato tipo psicologico. Quello che Platone ha in
mente è un uomo che cede a tutti i &uoi impulsi,
uno dopo l'altro, ai desideri necessari come a quelli
dannosi 343). Se quest'll;omo ha fortuna e riesce a
non rovinarsi completamente con le dissolutezze, è
possibile che, divenuto anziano e diminuita in lui la
piena dei tumulti passionali, egli richiami a sé una
parte delle tendenze migliori un tempo sbandite, e
passi un periodo di « equilibrio», dando ascolto ugual-
mente, ma a turno, a ciascuna delle inclinazioni con-
trastanti che lo dominano di volta in volta. Ora vive
in mezzo a canti e baldorie, ora ~ tutto sobrietà e beve
acqua; ora si mette a fare sport, ora passa il tempo
a non far nulla, ora si m~e. in testa di studiare. Ec-
cofo tutt'a un tratto nella ~litica, che salta su e im-
1
provvisa discorsi, e subito dopo ecco che parte per
la guerra, « una gran bella vita, dopo tutto», oppure
si mette negli affari. Nessun ordine nella sua vita, ma
proprio per questo egli la considera piacevole e libera,

pensiero di Tucidide abbia fortemente subito l'influenza della me-


dicina. Ultimo derivato del tipo di trattazione tucidideo è la teo-
ria delle crisi politiche di J AKOB BURCKHARDT, esposta nelle
Weltgeschichtliche Betrachtungen.
343) Resp. 561 a.
1280 [11592] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVJNO

insomma felice. In realtà non è un carattere, ma una


collezione di caratteri diversi e di ideali che si esclu·
dono a .vicenda 344).
Questa · critica che Platone fa dell'uomo democra•
tico è del tutto ispirata dalla strettissima connessione
psicologica tra questo tipo e l'origine della tirannide 345).
Senza dubbio, la tirannide, esteriormente, sembra av·
vicinarsi più d'ogni altra forma allo stato che per Pla·
tone è l'ideale, fondandosi, cosi come il regno del sag·
gio e del giusto, sulla illimitata signoria d'un uomo sin-
golo. Ma la somiglianza è del tutto illusoria. Il fatto
che uno solo sia quello che governa è, agli occhi del
filosofo, elemento tutt'affatto secondario per caratteriz-
zare la natura dello stato, non essendo altro, questo
elemento, che la forma della massima concentrazione
e unità del volere, ma potendo questo essere sempre mi
volere giusto, come uno del tutto ingiusto. Il principio
essenziale della tirannide è un altro; è, appunto, l'ingiu·
stizia. Questa opposizione radicale, fra essa e lo stato
ideale, unita alla somiglianza esteriore, ne fa proprio
la caricatura dello stato platonico; la somiglianza è
proprio quel che consente di cogliere subito la sua per•
versità. La tirannide è caratterizzata dalla mancanza
di libertà in grado massimo. E proprio questo fa ca·
pire come essa possa scaturire dalla democrazia, cioè
dal massimo di libertà, giacché l'accentuazione estrema,
eccessiva di una condizione, conduce alla conversione
di essa nel contrario. Cosi l'eccesso di libertà è la strada
più breve per l'assoluta illibertà 346). ~ questa una spie-
gazione di processo biologico, di tipo medico, alle cui
basi però sta certamente l'esperienza dell'ultimo quarto
di secolo dopo la guerra del Peloponneso. La vecchia

S") Resp. 561 c-d.


845) Resp. 562 a.
H6) Resp. 564 a.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [!1593] 1281

tirannide era stata fenomeno del trapasso dalla signo-


ria nobiliare alla democraz·a; la cosiddetta nuova ti-
rannide, quella del tempo di Platone, fu tipicamente
la forma di dissoluzione della democrazia, quasi avesse
questa raggiunto il grado estremo, insuperabile, del
proprio sviluppo. Perciò la teoria platonica, per quanto
unilaterale sia nell'occuparsi soltanto della forma attuale
della tirannide, sembra avere avuto ragione dalla po-
steriore esperienza storica, giacché di fatto, il più delle
volte, la tirannide successe alla democrazia Solo la
repubblica romana, proprio al fine di impedire un tale
trapasso, fece il fortunato tentativo di render legale
dentro la democrazia il dominio di un solo, a tempo
determinato e in circostanze di emergenza, creando l'uf-
ficio del dittatore. Ma non è solo un'esperienza storica
esteriore quella su cui si fonda la tesi platonica di una
connessione intima della tirannide con la democrazia.
Questa tesi riceve la sua logica necessità dalle consi-
derazioni psicopatologiche di cui è intessuta la teoria
platonica della paideia. Non è la tirannide politica il
fenomeno che Platone mette in nuova luce, per quanto
interessante possa essere per noi il suo modo di carat-
terizzare questa forma politica, ma è il processo in-
timo, l'origine psicologica dell'elemento tirannico - nel
più vasto ambito etico di questo concetto, il punto
a cui la sua ricerca si dirige, qui come in tutta
la sua descrizione delle forme statali. Nell'ambito
di tutti i fenomeni tirannici, il tiranno in senso poli-
tico rappresenta solo il caso estremo e quello che più
profondamente interessa la vita della comunità. A que-
sta gradazione d'importanza corrisponde il procedi-
mento metodico, per cui dalla descrizione della condi-
zione politica di tirannide si ascende all'analisi del-
l'uomo tirannico.
Causa della tirannide è, come si è detto, l'eccesso
1282 [n594] LIBRO ID - ALLA RICERCA DEL DfVINO

di libertà. Platone, però, non si contenta di questo


motto enunciativo ma dà ad esso vita concreta con
una descriz'.one dei sintomi dell'anarchia 347), che non ha
pari nel a letteratura de · mondo come pittura del-
l'intima scambievole efficac a di Stato e spirito. Si
sente in essa, punto per punto, che precise esperienze
della vita nella sua città prestano a Platone. ,i colori
più cupi e realistici, talvolta anche sarcasticamente ca-
ricati. Sparta e l'oligarchia sono per lui, in realtà,
cose molto più estranee di quelle che egli qui rivela; ed
egli riesce cosi bene a raffigurare l'anarchia perché essa
era l'esperienza di vita che fin dagli inizi aveva deter-
minato l'indirizzo del suo pensiero filosofico. Il suo
stato, come la sua paideia, noi li vediamo sorgere dalla
situazione che egli descrive. Cosi ogni cosa che egli
dica prende nello stesso tempo un senso di ammoni-
mento di fronte alla fase successiva, che deve avve-
rarsi con la logica inesorabile della realtà. Sembra ri-
petersi qui su un piano più alto l'atteggiamento pro-
fetico di Solone; ché, infine, ogni politica è profezia,
sia che abbia a fondamento l'osservazione puramente
empirica, tenuta a vile da Platone, del ricorrere dei
fenomeni 348), sia che poggi sulla più profonda necessità
interiore del processo spirituale. Certo, la sua teoria
del trapasso di una in un'altra forma politica non pre-
tende di valere come descrizione di una successione
reale, storica, di eventi, ma si deve pur dire che P1a-
tone, nell'atto in cui si pose a esaminare la crisi della
libertà negli anni dell'ultima apparente risurrezione
della sua patria, previde in sostanza il destino di Atene.
Quando egli scriveva era in corso un processo storico
che probabilmente, prima o poi, sarebbe realmente arri-
vato al punto da lui previsto, se l'evoluzione dello stato
347) Resp. 562 e.
848) Resp. 516 c-d.
CAP. X: LA REPUBBUCA, II [n595J 1283

ateniese si fosse potuta compiere autonomamente. Que-


sto, però, non fu: la tirannide non doveva nascere dal
grembo stesso della democrazia, ma essere imposta
da una potenza straniera. L'invasione macedone della
Grecia venne a interrompere nell'ultima fase la curva
febbrile, a dir così, segnata da Platone. Con ciò stesso
però un grande compito d'importanza nazionale veniva
ancora una volta imposto alla democrazia, e il fatto
che la democrazia non sia stata pari a questo compito
basta a confermare la diagnosi di Platone, nonostante
Ja diversità dell'effettivo accadimento storico.
I sintomi dell'anarchia si scorgono prima di tutto nel
campo dell'educazione, giacché, secondo l'ez"ologia pla-
tonica, tutto il processo trae origine dalla dissoluzione
educativa. La paideia della falsa uguaglianza manife-
sta i suoi effetti nei più strani e in.Ilaturali fenomeni.
I padri cercano di mettersi al livello dei :figli, di farsi
simili a ·oro e li temono; i :figli si sentono presto adulti~
e si comportano come tali. Non conoscono più rispetto
per i genitori né timidezza, sentimenti che urterebbero
il loro senso di vera libertà. Stranieri, di passaggio
o immigrati, s: arrogano posizione uguale a quella dei
cittadini, e i cittad"ni si comportano in patria come se
gli affari pubbl:ci non li riguardassero e gli stranieri
fossero loro. I maestri hanno paura dei loro almin.i e
li adulano, mentre gli alunni non hanno per loro al-
cuna considerazione. I giovani posano ad anziani men-
tre fra gli anziani è di gran moda la giovanilità ed ogni
apparenza di scarsa affabilità o di severità « dispotica» è
fuggita come la peste 349). Perfino nei rapporti tra pa-
droni e schiavi non c'è più di~erenza, per non parlare
dell'emancipazione delle donne. È questa una descri-
zione che si potrebbe leggere accanto alle scene vivaci

349) Resp. 562e-563 a.


1284 [n596] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

della commedia attica nuova. Specialmente la pittura


dei figli e dei liberi atteggiamenti degli schiavi trova
là abbondante materia di commento. Ma il finissimo
senso platonico per tutto ciò che è psichico si estende
perfino, oltre g:i uomini, agli animali. Cani, asini e
cavalli gli sembrano molto più liberi nei movimenti
e sicuri di sé in uno stato democratico che altrove.
Quando se ne vanno per le strade, sembra che vogliano
dire a quelli che se li trovano davanti: « Fatti in là,
tu: se non sei tu a muoverti, non sarò certo io » 350).
La conversione di ogni estremo nel suo contrario è
una legge di natura, valida nel campo dei fenomeni
atmosferici come in quelli della vegetazione e della
vita animale: non si riesce perciò a vedere perché le
cose dovrebbero andare altrimenti nel mondo della
politica 351). Ne' chiarire questa sua conyinzione Platone
più di una volta ne sottolinea l'origine anche con la
scelta delle parole. I numerosi qnÀe:~ e eXw&ev («suole
avvenire»,« è normale») sanno fortemente di patolo-
gia medica e biologica, di scienze in cui queste espres-
sioni sono d'uso corrente per indicare il grado relativo
di certezza delle cognizioni 352). E l'immagine tratta dalla
malattia si sviluppa coerente: come catarro. e bile tur-
bano la salute fisica, cosi nell'organismo sociale gli
elementi oziosi e buoni soltanto a spendere rappresen-
tano i!. centro dell'infiammazione 353). I« fuchi», di cui
si è già notata l'azione dannosa, trattandosi dello stato
oligarchico, sono anche per la democrazia il nucleo
originario della malattia mortale 354). Il buon allevatore
di api li taglia via a tempo, con tutti i loro favi, per

360) Resp. 5()3 h-c.


351) Resp. 563 e-564 a.
352) Cfr. Resp. 563 e 9, 565 e 9, 565 e 5.
353) Resp. 564 h 4-c.
354) Resp. 564 h 5, cfr. 552 c.
CAP. X: LA REPUBmCA, II [rr597J 1285

preservare l'intero a'.veare. I fuchi sono i demagoghi


che parlano e si agitano sulla tribuna circondati dalla
massa dei fautori che non permette a nessuno di espri-
mere una diversa opinione. Il miele rappresenta i pa-
trimoni dei ricchi, vero e proprio «pascolo dei fuchi».
La massa della popolazione politicamente non attiva,
che vive del proprio lavoro, non possiede molto, ma ha,
quando è riunita, il diritto di decidere e perciò riceve
in pagamento dai demagoghi un po' di miele ogni
volta, quando si confiscano i patrimoni dei ricchi,
mentre il grosso del bottino se lo tengono i fuchi per
sé. Ma la classe abbiente ricorre all'unica arma di di-
fesa che in uno stato come questo sia efficace; si mette
cioè a far politica. Questa resistenza ha lo stesso ef-
fetto di un grido di guerra per l'altro partito; la massa
dà un potere illimitato al suo capo, al prostates del po-
po' o. Ed ecco, ormai, già nata la tirannide 355).

Nelle valli remote d'Arcadia vive una gente sel-


vaggia di arcaico costume, che ha conservato fino ai
giorni della civiltà, in pieno IV sec., strani riti primi-
tivi. Là si offrono ancora tutti gli anni come nella fe-
roce età dei primordi, vittime m;nane a Zeus Lykaios.
Un cuore umano e viscere umane sono tagliati a pezzi
e mescolati nel pasto sacrificale, fatto per la maggior
parte delle viscere di animali. Ma colui cui tocca nella
sua parte un pezzo di carne umana e lo mangia, dhrenta
lupo, come dice la saga. E così diventa tiranno colui
che, anche una sola volta, abbia gustato con empia
bocca il sangue dei figli del s.uo popolo. Una volta che
egli abbia cacciato in bando o ucciso molti dei suoi
avversari, una volta che ab~ia imbastito piani di ri-
forme sociali sovvertitrici, non gli resta altra scelta

BM) R1Jsp. 564 e 6-565 d.


1286 [II 598] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

che o di lasciarsi ammazzare dai nemici, o di gover-


nare da tiranno e diventare così lupo, da uomo 356J.
Egli si mette in1:orno, per guardarsi la vita, una guar-
dia del corpo, che la massa, abbastanza sciocca per
preoccuparsi più di lui che di sé, gli concede volen-
tieri. I ricchi cercano di mettere in salvo all'estero gli
averi; ma alcwii si fanno cogliere e pagano con la vita.
Egli, intanto, si libera degli ultimi nemici, all'interno
dello stato, e, di capo del popolo, si fa ormai scoperta-
mente tiranno. Da principio procede da amico del po-
polo; tutti rimangono conquistati dalla benignità del
suo carattere. Che la sua supremazia abbia lontana-
mente a che fare con la tirannide egli lo nega ener-
gicamente; riempie il popolo di promesse, abolisce de-
biti, distribuisce terre al popolo e a gente del suo par-
tito 35 7). Ma, per rendersi .indispensabile come capo, è
costretto a escogitare continuamente imprese guerre-
sche. Così comincia a farsi odiare e l'odio cresce a poco
a poco, finché anche i satelliti più fidati e i consiglieri
più intimi, che lo hanno aiutato a conquistare il potere
ed occupano ora le posizioni più alte, lo criticano aspra-
mente. Egli è costretto _a metterli tutti da parte, se
vuole affermare il proprio potere 358). Gli uomini più
coraggiosi più nobili più saggi divengono necessaria-
mente suoi nemici e, lo voglia egli o no, bisogna che lo
stato sia «purgato», « epurato» dalla loro presenza.
Questa parola di cui egli fa sfoggìo, trasferendola dalla
medicina alla politica, acquista così in bocca sua il
significato opposto a quello ragionevole e normale:
egli è costretto a eliminare dal corpo del popolo i mi-
gliori elementi, anziché i peggiori 359). Quindi egli deve

356) Resp. 565 d-56,6 a.


357) Resp. 566 a-e.
358) Resp. 566 e 6-567 b.
31i9) Rcsp. 567 b 12-c.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [11599] 1287

sempre più rafforzare quella guardia del corpo con cui


si sostiene e cosi reggere la parte migliore del popolo
valendosi della peggiore. Nutrire la sua grossa masnada
non può, se non per mezzo di nuova ingiustizia, ma·
nomettendo e confiscando i beni sacri. Alla fine il
popolo capisce che mostro si è allevato in seno. Per
sfuggire un'ombra di schiavitù, da parte di uomini
liberi, è precipitato in un dispotismo che è in mano
di schiavi 360).
L'uomo tirannico sembra l'opposto del democratico:
ma il punto in cui quello comincia a formarsi è quella
stessa vita istintiva, di desideri, fattasi solo più forte
autonoma e imperiosa, da cui· per Platone deriva anche
il tipo democratico. Se quest'ultimo nasce dall'incre-
mento dei desideri superflui, l'anima tirannica erompe
da un genere di brame che ora si menzionano per la
prima volta, le brame peccaminose e bestiali (7tocp<X-
voµoi) 361). Per intendere il carattere di queste si deve
discendere nel regno del subcosciente. Nel sogno, quando
l'anima si libera dalle catene delle inibizioni impostele
dalla ragione, e nell'uomo si risveglia l'elemento sel-
vagg'.o e ferino, si rivela questa parte della sua natura,
il più delle volte sconosciuta all'uomo stesso. Platone
è il padre della psicoanalisi. È il primo che abbia sve-
lato come parte dell'io subcosciente la mostruosità
del complesso di Edipo, del desiderio dell'unione ses-
suale con la madre, valendosi, per metterla in luce, del-
!'esperienza del sogno, e indicando anche complessi
similari di desideri repressi che arrivano fino all'unione
sessuale con divinità, alla sodomia, alla libidine del-
l'assassinio 362). Platone giustifica la minuziosità della
sua indagine su questo problema con l'importanza di

360) Resp. 567 d-e.


361) Resp. 571 a-b.
362 ) Resp. 571 c-d.
1288 [n600] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

esso per l'educazione dei desideri, la quale è del tutto


negletta nél tipo dell'uomo t7rannico. Ognuno ha in sé
tendenze di cosi orribile e se:vaggia natura, come prova
il fatto che l'erompere di tali manifestazioni del sub-
cosciente nel sogno ha tuogo anche in uomini perfetta-
e
mente normali padroni di sé 363).
Da ciò Platone deduce che la paideia si deve esten-
dere a questa vita subcosciente dell'anima, al fine di
arginare queste forze sotterranee minaccianti di irrom-
pere nel mondo ordinato degli stimoli e delle tendenze
consapevoli. Egli espone perciò, per ammansire gli
istinti abnormi, un metodo fondato sulla teoria delle
tre parti dell'anima. La base di questo sta nel realizzare
un i:apporto sano e armonico dell'uomo col suo vero « se
stesso», il che naturalmente va inteso nel senso che
per Platone può avere il 'concetto di personalità. Que-
sto non è davvero identico al concetto moderno, indi-
viduale. dell' «lo», che, come è stato giustamente os-
servato, non es.ste ancora· ;n Platone. Per lui perso-
nalità è soltanto i' giusto rapporto dell'uomo istintivo
col suo vero « se stesso», che egli chiama la « virtù»
ovvero la forma perfetta dell'anima. L' «io», pertanto,
non è posto in rilievo come un valore, e, di fronte al
« se stesso», è soltanto ùn esistente qualunque. Si
ti-atta dunque ormai di estendere l'opera educativa
alle regioni istintive subcoscienti dell'anima e perciò
allo stato di sonno, l'unico canipo della vita non an-
cora toccato dalla paideia. Nell'includerlo nella sua
considerazione Platone usa dello stesso criterio che
lo ha indotto a includervi il periodo prenatale della
vita umana nel grembo materno e la vita stessa dei
genitori prima della concezione del :figlio 364). Come per

118) Resp. 572 b; cfr. anche 571 h.


'") V. 1upra, p. 426.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [Il 601] 1289

lui l'elemento razionale è preformato nell'irrazionale 365),


così a sua volta' l'irrazionale è preformato nell'incon·
scio. Da questa scoperta di Platone dei legami tra la
vita del sogno e l'agire della veglia Aristotele trasse
suggestioni importanti per le sue indagini sui sogni,
ma queste hanno un'impronta piuttosto naturalistica,
mentre Platone anche nella psicologia del sogno riman
sempre in intimo contatto col problema educativo.
Così egli prescrive che prima di andare a dormire
l'uomo risvegli in sé la parte pensante; l'uomo« deve»
imbandire ad essa un pasto abbondante di nobili pen-
sieri e riflessioni, al fine di rientrare in se stesso e con·
centrarsi. Il regime da seguire per la parte desiderosa
dell'anima si compendia nel precetto «né privazione
né ripienezza », sicché essa non abbia da turbare con
movimenti piacevoli o dolorosi la parte più nobile,
ma la lasci libera e pura alla quieta speculazione e
al tentativo di cogliere ciò che non sa, -nel passato,
nel presente o nel futuro. Nello stesso modo deve es-
sere quetata la parte coraggiosa dell'anima, sicché
l'uomo non vada al riposo con lo spirito concitato, o
per ira o per altra forma di esaltazione. Il sonno dun-
que devè avvolgere prima le due parti inferiori del-
1'anima e la ragione deve vegliare fino all'ultimo mo-
mento, sicché la sua influenza lenitrice si propagherà
anche durante il periodo della perdita totale della co-
scienza, nelle regioni inquiete dell'anima 366). Questa pla-
tonica pedagogia del sonno ebbe notevoli prosecuzioni
nella tarda antichità. Presso i neopitagorici, p. es.,
essa fu associata con la pratica dell'esame di coscienza
serale 367), d; cui Platone non fa menzione. L'igiene del

365 ) V. supra, p. 394 s. e Resp. 401 d-402 a.


88 6) Resp. 571 d 6-572 a.
887 ) Iambl. vit. Pytk. 35, 256 (p. 138, 3-5 ed. Deubner, don si
trGvano raccolti anche i passi paralleli di altri scrittori).
1290 [II 602] LIBRO fil - ALLA RICERCA DEL DIVINO

sonno che egli prescrive all'anima, non ha carattere


mora!e, ma piuttosto dietetico.
L'uomo tirannico nasce dal predominio nell'anima
di una massa di desideri abnormi. Egli è pertanto il
prodotto di una involuzione ad uno stadio preumano
della vita psichica, uno stadio che, confinato neUa
più parte dei casi nel subcosciente, seguita a vivere in
noi soltanto d. un'esistenza sotterranea 368). Anche in
questo caso - seppure in maniera che potrebbe pas-
sare a prima vista. inosservata - Platone, come ha
fatto a. proposito degli altri tre tipi patologici a cui
corrispondono le principali forme politiche, ritrova il
primo germe della progressiva degenerazione nel rap-
porto tra padre e figlio. In tutti· e quattro i casi l'esem-
pio che egli immagina per rendere evidente il muta-
mento in peggio di una fase rispetto alla precedente,
è quello di un giovane che si forma opinioni e ideali
in opposizione a quelli del padre 369). Si ammira qui
ancora una volta la penetrazione del'o psicologo e
dell'educatore che, parlando dei guasti prodotti nel-
1'anima da una cattiva educaz ·one, non pensa prima
di tutto alle cognizioni che la scuola infonde nell'uomo,
ma piuttosto al rapporto educativo del figlio col pro-
prio padre. Il padre appare sempre, nella tradizione
greca, come il modello offerto dalla natura perché il
figlio vi si conformi. La propagazione dell'areté, im-
personata dal padre, alla sua prole è il significato della
paideia nella sua forma più semplice e chiara 370). Ma, rag-

388) Resp. 572 b.


389) Platone si richiama qui espressamente al processo analogo
che ha luogo nell'educazione dell'uomo oligarchico, per il quale
questi diviene democratico: Resp. 572 b 10-d 3. Ma anche nel de-
scrivere le fasi precedenti egli spiegava la trasformazione con la
stessa causa. Cfr. supra, pp. 570, 579, 588 s.
370) V.« Paideia » I, p. 80, su Odisseo, modello di Telemaco,
in Omero; I, p. 392, su Senocrate, modello del :figlio Trasibulo,
lodato da Pindaro, Pyth. VI; I, p. 37, su lppoloco, maestro
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [rr603J 1291

giunto un grado più alto del processo educativo, in


questo rapporto r dato dalla natura s'inserisce la per-
sona dell'educatore, anzi, un intero sistema graduale
di educazione, per il quale il padre è ridotto a una
funzione più elementare o anche sostituito del tutto.
C'è però un aspetto nel quale egli rimane sempre l'edu-
catore per eccellenza, giacché in lui l'ideale appare agli
occhi del figlio come vita vissuta e pertanto è va-
lutato nei suoi effetti reali. Quando il padre per se-
guire l'ideale che ha in mente, accentua in maniera
unilaterale ed eccessiva la propria attività e maniera
di vita, che dentro certi limiti sarebbe legittima, la
resistenza naturale del giovane al vecchio, già viva
nell'animo de] figlio, riceve alimento e si trasforma in
a~ersione a conformarsi del tutto al tipo paterno di
« areté ». Così la timocrazia nasce dall' opposiz · one del
figlio al modo di vita d; un padre privo d'ambizioni
e tutto dedito al suo lavoro 371). Fin qui, però, la con-
dotta del padre era del tutto buona e in armonia con
la norma; e perciò, almeno in linea di principio, il
punto di partenza non sta tanto nell'unilateralità del-
l'ideale paterno - la quale non esiste in realtà sebbene
paia tale al figlio - quanto piuttosto nella tendenza
al peggioramento insita nella natura della generazione
più giovane. Ma via via che i rappresentanti di questa
diventano padri a loro volta, l'areté concepita come
ideale si fa di generazione in generazione più unilate-
rale e ristretta ed ogni padre contribuisce al progres-
sivo decadimento in misura maggiore, tanto maggiore
quanto più si scende verso i tipi inferiori. Il giovane
timocratico disprezza il riserbo del padre, la sua ripu-

del figlio Glauco, nell'Iliade, e su Peleo, maestro di Achille .. Dubbi


sulla capacità del -padre a educare i figli ebbe Socrate. V. supra,
p. 93.
371) Resp. 549 c-e.
1292 [rr604] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

gnanza ad ogni philopragmosyne 372), e si foggia un ideale


ambizioso. Ma ecco che il suo proprio figliuolo trova
troppo disinteressato questo stesso ideale e diventa
un uomo per cui conta solo il denaro 373). Il figlio di lui,
a sua volta, si scandalizza di quella grettezza che sacri-
fica ogni gioia, ogni desiderio all'unica brama di far
denari, e cosi" diventa da oligarchico, democratico 374).
Infine il figlio dell'uomo democratico non si ferma alla
soddisfazione dei desideri superflui, nella quale suo
padre vedeva un segno di libertà vera e di umanità,
ma diventa senz'altro un avventuriero in corsa sul
mare selvaggio degli istinti senza legge 375).
Questo ultimo passaggio Platone lo chiarisce in ri-
gorosa simmetria coi precedenti, facendo si che i ti-
pici fenomeni che sogliono svolgersi nella formazione
della tirannide in uno stato si riflettano punto per
punto nella repubblica dell'anima. Ma ·se anche egli
trae queste immagini dall'anarchia del mondo politico,
pure, conforme al suo principio esplicito, il vero invi-
sibile modello e principio di ogni analogo accadimento
politico è quel processo che hà luogo nell'anima. La
tirannide nell'anima del giovane si costituisce per que-
sto solo fatto: egli diventa il trastullo dei suoi propri
desideri. Suo padre e tutti coloro che in ogni modo
hanno su lui un'influenza educativa fanno di tutto per far
deviare i desideri di lui dalla strada dell'eccesso e della
mostruosità, per la quale si sono avviati, verso mete
meno pericolose. Di contro, tutti gli abili incantatori
e facitori di tiranni che gli stanno attorno per corrom-
perlo, cercano di suscitare e di fare allignare in lui
una grande passione dominatrice (~pwç), una specie di

372) Resp. 549 c.


873) Resp. 553 a 9-10.
814) Resp. 558 e 11-d 2.
876) R1J1p. 572 d 8.
CAP. X: LA REPUBBLIO\., Il [11605] 1293

grosso (< fuco» alato che s1 imponga capopo~o (7tpo-


cr-roc't'YJ~}
della massa dei desideri minuti, una massa
disoccupata e intenta solo a consumare quello che c'è 376).
Il punto sensibile, dunque, il luogo nel quale s'impianta
nell'anima il fenomeno della tirannide è '.o stesso che
nello. stato: è il «problema dei senza-lavoro». Quella
passione centrale e dominante, a cui ronza d'intorno
lo sciame dei desideri, e la punge e la irrita, si circonda
di una guardia del corpo di pazzie, e se c'è ancora
qualche altro impulso che abbia un certo potere di re-
sistenza, essa lo elimina e «purga» l'anima dell'ultimo
resto di temperanza e di misura 377). In effetto, l'espe-
rienza mostra che quel carattere che si può chiamare
tirannico è specificamente associato a tre forze distrut-
tive dell'anima: o all'erotismo, o all'alcoolismo, o alla
mania depressiva. L'anima tirannica si forma là dove
o per disposizione naturale o per ~ssuefazione o per
ambedue le cause, l'uomo diventa o alcoo.lizzato, o
erotomane o melanconico 378). Il processo comincia con
la ribellione ai genitori ; poi la violenza si dirige anche
contro altri ~79 ). La democrazia dell'anima cede, ed Eros,
il gran tiranno, la trascina con sé, come avviene a
un popolo nelle mani di un tal uomo, a ogni eccesso e
temerità 380). Quel che Platone intende per carattere
tirannico non è affatto soltanto il detentore di un po-
tere politico; ci sono tiranni di ogni misura, dal ladrun-
colo e scassinatore fino all'uomo che le picéole anime
tiranniche sospingono al potere supremo nello stato,
perché sentono che egli alberga in sé il più grande dei
tiranni, la passione p1ù selvaggia 381). E alla fine si ri-

376 ) Resp. 572 e.


317) Resp. 573 a-b.
3 78) Resp. 573 b-c.
379 ) Resp. 574 b-d.
380) Resp. 574 e·575 a.
381 ) Resp. 575 h·c.
1294 [u606] UBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

pete su un piano più alto l'atto di violenza che il ti-


ranno da principio aveva commesso in piccolo contro
i genitori, riel comportamento del tiranno fatto grande
contro quella che è genitrice suprema, contro la pa·
tria ss2) ..
L'uomo tirannico non conosce né vera amicizia
né libertà; è pieno di diffidenza e la sua vera natura
è l'ingiustizia. In lui e nella sua signoria si raggiunge
l'estremo opposto dell'uomo giusto e dello stato giu·
sto 383). Come questo è. felice, giacché felicità non è altro
che salute dell'anima 384), così è infelice il tiranno, per·
ché in lui è turbato l'ordine naturale. Apprezzare esat·
tam.ente questo turbamento riesce soltanto a colui che
sa con l'intelletto penetrare a fondo nell'animo di un
altro uomo e non si lascia,. come un ragazzo che guarda
solo l'esterno delle cose, accecare da una magnificenza
di parata 385). Qui, giunto alla fine della sua analisi pa·
tologica delle forme politiche e umane, Platone dise-
gna il carattere dello psicologo che, essendo nello stesso
tempo filosofo e scopritore di valori, costituisce il tipo
del nuovo educatore. «Immaginiamoci di essere noi»,
dice Socrate al suo interlocutore, con amabile ironia,
«un tale conoscitore di anime 386) e guardiamo nell'anima
del tiranno». Non è essa uguale alla città retta ti-
rannicamente ? non soffre essa degli stessi malanni ?
Fra tutte le forme dell'anima umana essa è/la più
schiava, essendo in balia assoluta di desideri pazza-
mente esasperati, senza una traccia di libertà. In lei,
quindi, non domina il meglio, ma il peggio. Continua-
mente oppressa da inquietudine e rimorso, essa è po-
vera e insaziabile, piena di terrori, di lamenti, di me-
382) Resp.,.575 d.
383) Resp. 575 e-576 a.
384) Cfr. supra, p. 415.
385) Resp. 577 a.
386) Resp. 577 b.
CAP. X: LA REPUBBUCA, II [n607] 1295

lanconia e di dolori 387). Ma il grado più alto a cui possa


giungere l'infelicità di un uomo tirannico è che gli
riesca di uscire dal rango di privato e di giungere per
un concorso di circostanze alla potenza del tiranno
vero e proprio 388). Già nel Gorgia si vide che al tiranno
manca il potere vero, non .ostante tutta la dispotica
autorità concessagli: ché non gli è possibile fare il
bene, in cui consiste il vero significato di ogni umano
volere 389). Proprio questo colpisce nella descrizione pla-
tonica della tirannide: che il tiranno non è mai de-
scritto come colui. che fa o non fa questo o quello, ma
come colui che deve --Cacciar via gli uomini migliori
e che si vede costretto a metter da parte i suoi stessi
compagni 390). Tutto gli è imposto, nel suo agire, ed egli
è il più vero e grande schiavo 3 91). Per la diffidenza in
cui vive egli è· solo, meno libero di muoversi di
qualunque altro, che può viaggiare e vedere il mondo 392).
Perciò egli, agli occhi del medico :filosofo, è in tutto
l'incarnazione perfetta dell'infelicità.

LO STATO IN NOI

Platone ha dato come motivo della sua minuta trat-


tazione delle varie forme politiche e delle forme umane
ad esse corrispondenti, il fatto che lo scopo vero e
proprio del dialogo è di scoprire se la giustizia in sé
è un bene e l'ingiustizia un male 393). Egli vuol mostrare
che l'uomo perfettamente giusto, che secondo la de:fi-

387) Resp. 517 c-578 a.


388) Resp. 578 h 6-c•
.389 ) Gorg. 466 b-468 e; cfr. supra, p. 225 ss.
890 ) Resp. 567 h.
381) Resp. 579 d-e.
392) Resp. 578 e-579 d.
398) Resp. 544 a.
1296 [u608J LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

nizione data prima, di questo concetto, è l'uomo in


cui l'areté è perfetta 394), possiede la felicità vera, e che
l'ingiusto è infelice. Poiché, per Platone, il vero senso
della parola greca eudaimonia è, non già che l'uomo
sia fortunato per condizioni esteriori, ma che realmente,
come dice la parola, « abbia un buon demone».
t; questo un concetto religioso suscettibile di inuu-
merevoli variazioni e approfondimenti. Demone è il
dio considerato nella sua importanza per l'uomo, nella
sua attività volta all'uomo. L'uomo che « ha un buon
demone» è nel conefetto primitivo e volgare dei Greci
l'uomo benedetto col possesso di beni esteriori e, in
questo senso, felice. Il pensiero che. Eschilo esprime nei
Persiani, secondo il quale il re ha messo leggermente
in gioco il suo vecchio demone, per ottenere nuova po-
tenza e ricchezza più grande, chiarisce conveniente-
mente il generico senso greco della parola 395). La quale,
infatti, ha in questo caso tanto un significato mate-
riale quanto l'antico e genuino senso di grazia divina.
Nel IV sec. il significato materiale della parola eudai-
monia si afferma sempre più e finisce col ·divenire do-
minante ed esclusivo 398), ma la parola in sé, in cui la
connessione con daimon è sempre viva e presente, è
suscettibile ad ogni momento di riallacciarsi alla con-
cezione religiosa da cui è nata. Il concetto di « de-
mone» si era per parte sua, indipendentemente dalla
speciale accezione apparente nel trito vocabolo eudai-
monia, svolto già da lungo tempo ad un significato più
spirituale, il quale ha il suo esempio più noto nel motto
famoso di Eraclito: « il carattere (*oc;) è per l'uomo
il demone». Qui il demone non è qualcosa di esterno

39~) Resp. 443 c-444 a.


395) Aesch. Pers. 825, cfr. 164.
396) Così p. es. nell'espressione frequente in Senofonte e altri
n6À~i; µ.&yii). 'Il xocL &Moc!µ.<o>v.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [11609) 1297

all'uomo, ma proprio per la stretta relazione in cm


questa concezione pone il divino col singolo uomo
e col suo destino, il demone viene a identificarsi con
l'intima natura dell'individuo e con le sue particolari de-
term·nazi.oni. A questo punto ormai non siamo più
lontani dalla concezione platoni !a, secondo cui l'in-
tima areté morale dell'uomo, la «personalità», come
diremmo noi, è l'unica fonte della sua eudaimonia :o,
come dice Aristote' e nell'elegia dell'.Altare sintetiz-
zando in una parola la dot.:rina platonica, l'uomo è fe-
lice unicamente per l'areté, cioè per il suo intimo va-
lore 397). In questa fede noi già vedemmo il significato
del mito finale del Gorgia, dove il giudice oltremondano
pronunzia la sua definitiva sentenza sull'uomo esami-
nando con« l'anima in sé»,« l'anima in sé» in tutta
la sua nudità 398). Nella prima parte della Repubblica
Platone ha definito la giustizia come la salute del-
l'anima, dimostrando cosi priva di senso la questione"
se valga la pena di essere giusto 399). Ora, una volta che
si è .riconosciuta l'assoluta infelicità del tiranno, la
giustizia cosi intesa si rivela come l'unica fonte di
vera felicità e di contentezza genuina. Ora che l'eudai-
monia è riposta nell'intima natur~ dell'anima, nella sua
salute, si è in pari tempo raggiunto, per Platone, i1
grado più alto di sicurezza obbiettiva e di indipen-
denza interiore che all'uomo sia dato cogliere nel suo
tendere alla felicità. Quando a base di ogni considera-
zione sia posta la gerarchia platonica di forme politi-
che e di tipi umani il problema della felicità del giu-
sto e della miseria dell'ingiusto è risolto, perché il ti-
ranno ci è apparso ora nella sua vera figura di infimo
schiavo, mentre l'uomo « regale», a cui corrisponde

397) Cfr. il mio Aristoteles, p. 107 (trad. Calogero, p. 141).


398) Cfr. supra, p. 261.
399) Resp. 444 e ss.
1298 [11610] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

lo stato perfetto, si è rivelato come l'unico veramente


libero. Questo è il resultato finale di tutta la ricerca,
che, come tale, è bandito con ogni solennità, quasi sen-
tenza del giudice proclamata dall'araldo alla fine della
gara 400).
Ma anche se si affronta direttamente l'esame del-
l'elemento« piacere», in sé e per sé, nella vita del giu-
sto e in quella dell'ingiusto, si giunge, per Platone,
agli stessi resultati e si consolida la posizione raggiunta.
Egli distingue, analogamente alle tre parti o classi
dello stato e alle tre parti dell'anima già fissate, tre
specie di desiderio e di piacere, e, analogamente, tre
specie di signoria (&pxa:C). Secondo l'oggetto a cui si
volgono i desideri e le tendenze di ciascuna di queste
tre parti, egli definisce la parte desiderosa come amante
del guadagno nel più largo senso di questa parola, la
seconaa, cioè la parte coraggiosa, come amante dell'onore,
e la terza, la parte pensante, come amante del sapere
(<pLÀ6croqioç). Conforme a queste tre direzioni fonda-
mentali dell'umano operare, egli stabilisce tre specie
di uomini e tre forme fondamentali di vita e pone il
problema in questi termini: quale di queste forme di
vita è la più ricca di piacere ? 401). La lingua greca ha
più di una parola per significare il nostro termine «vita».
Di queste, aion significa vita in quanto durata di tempo,
tempo della vita, zoé si riferisce piuttosto alla vita
in quanto processo naturale, alla condizione di vi-
vente, .e bios designa l'unità di una vita individuale
conclusa dalla morte, ed anche il modo di passare la
vita, la vita, cioè, in quanto si distingue qualitativa-

400) Resp. 580 h-c. L'uomo «regale» è qui ancora una volta
brevemente definito come l'uomo« che su se stesso regna» (~O!­
aLÀe:UCll\I O!U't"o\i). In lui la conoscenza razionale del Bene ha il
potere assoluto. Il motivo della libertà, qui, è socratico. Il filosofo
e re è l'uomo socratico.
401) Resp. 580 d-582 a.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [n 611] 1299

mente da quella degli altri uoID.l.Ill. Questo .aspetto


Ghe si esprime nella parola bios aderisce perfettamente
.al nuovo concetto della vita come esptessione di un
particolare ethos, come condotta o atteggiamento per-
manente di vita_. L'attitudine tipizzante del genio pla-
tonico vede sempre l'uomo come una totalità, non mai
soltanto nelle singole azioni o manifestazioni. Di qui
il concetto di bios, che da Platone doveva prendere
l'avvio per una lunga storia, di cui può seguirsi la
linea nella filosofia e nel pensiero religioso e etico fin-
ché quel concetto shocca nell'idea cristiana di « vita
dei santi» e nel sistema di tutte le forme e gradi della
vita cristiana.
Ciascuna delle tre forme di vita ora distinte è
caratterizzata da una sua forma di piacere, da una
sua eudaimonia. La questione è dunque, se ci sia un
mezzo di valutare con esattezza ciascuna di queste
specie di piacere. Il mezzo, Platone lo scorge soltanto
nell'esperienza interiore 402). La difficoltà sta in questo,
che ognuno decanta il pregio della propria vita, senza
conoscere quello dell'altrui. Ma Platone cerca di. ve-
nire a capo di tale difficoltà mostrando che l'uomo del-
l'ideale di vita filosofico è l'unico che conosca per pro-
pria esperienza tntte e tre le specie di piacere. Giacché
evidep.temente il desiderio dei sensi, lo stimolo dell'am-
bizione non possono essergli ignoti; egli li conosce altret-
tanto bene quanto gli altri due. La differenza è che essi
non riescono a concepir nulla all'infuori di quella sfera,
e che egli fondamentalmente ha superato e l'uno e
l'altro momento, con la sua forma di vita consacrata
alla conoscenza 403). Anche qui Platone parla dell'ideale
e non degli uomini come in realtà sono. Egli si sente

402 ) Resp. 582 a.


• 03) Resp. 582 a-d.
1300 [II 612] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

perciò in diritto di ritenere che nel suo uomo filoso-


fico si trovino riunite le condizioni necessarie perché
si abbia un criterio non soggettivo di valutazione delle
tre forme di piacere. Egli ha, come si -è visto, espe-
rienza effettiva di tutti e tre i generi di vita, ed ha
lo strumento specifico per apprezzare il valore morale
di queste esperienze, cioè il giudizio della ragione 404).
Perciò soltanto quel che il filosofo approva è vera fe-
licità, ed il suo giudizio è il criterio da seguire anche
per coloro che praticano UQ altro genere di vita 405).
Quindi l'ideale di vita filosofico è quello veramente
umano. L'esclusivo rigore di questa concezione fu mi-
tigato da Aristotele, che, nell'Etica, mentre riconosce
come forma suprema di eudaimonia la vita filosofi.ca,
ammette però inoltre una seconda forma di rettitu-
dine morale, fondata, anZiché_ sulla conoscenza pura,
sulla vita attiva 406). Egli distingue l'un dall'altro questi
due gradi come sophi.a rispetto a phr6nesis; questi
per Platone si uniscono in uno nell'ideale del filosofo,
come si chiarì descrivendosi la paideia del futuro reg-
gitore. Il filosofo, da quell'essere singolare dalle cui
stranezze aveva tratto materia l'aneddotica presocra-
tica, è divenuto, per Platone, l'uomo per eccellenza.
Né si tratta di un cambiato apprezzamento; è la na-
tura stessa del filosofo in cui si è compiuta la meta-
morfosi. Nel severo cimento dell'indagine socratica il
bios del filosofo è divenuto la meta di ogni formazione
spirituale e l'ideale della personalità umana 407).
Si potrebbe tuttavia obiettare che il giudizio del
filosofo, per Platone criterio Unico dell'obiettivo va-

404) Resp. 582 d 11 ~1à: À6yc.>v Kp(vEa&.0:1.


405) Resp. 582 e. -
408) Arist •. - Eth. Nic. X.?, e X 8.
407 ) Cfr. la mia memoria Uber Ursprung und Kreislauf des phi-
losophischen Lebensideals (« Sitz. Berl. Akad. » 1928; tradotta in
appendice all'Aristotele).
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [II 613] 1301

lore dei piaceri per ogni specie di uomini, $Offre di uni-


lateralità. Ed ecco che Platone cerca, perciò, di con-
validare il resultato raggiunto, da un altro fato, con
un'analisi della natura del piacere in !lé 408). Il suo scopo
è di raggiungere un punto di vista che consenta l'ap-
prezzamento comparativo dei vari piaceri. Qui come
nel Filebo la trattazione di questo problema, che più
di ogni altro sembra rifiutarsi alla presa del pensiero
e della valutazione razionale, shocca alla fine in una
domanda : se, cioè, tutti i piaceri, come tali, siano di
ugual valore, o se ne esistano di veri e di falsi e, in
tal caso, in che cosa gli. uni differiscano dagli altri.
Bisogna rinunziare qui a riprodurre i particolari
dell'argomentazione, della quale il punto essenziale
è che la maggior parte dei nostri sentimenti piacevoli
non è che il senso della liberazione da qualche
spiacevolezza, cioè qualcosa di negativo to!l). E sono pro-
prio i piaceri più grandi quelli che, a guardarli da vi-
cino, si rivelano di tale origine, cioè come l'acqueta-
mento ehe subentra al cessar d'una costrizione pro-
dotta da una condizione dolorosa o inquietante n°). Pla-
tone paragona questo processo, per il quale la quiete,
che è di mezzo tra piacere e dispiacere~ è sentita come
positivamente piacevole, all'impressione illusoria che è
possibile provare quando si va dal basso in alto e qual-
che volta, giunti solo a mezza via, ci sembra già di
esser su 411). Un'illusione simile si ha quando si fa
passare davanti agli occhi una gradazione di colori
e nel passare dal nero al bianco, già quando si giunge

•OB) Resp. 583 b ss.


409) Resp. 583 c-584 a.
410) Resp. 584 c.
411 ) Resp. 584 d-e. Similmente nel Protagora 356 c e nel FilebQ
41 e, Platone spiega la difficoltà di misurare l'intensità del senso
di piacere o dolore con le illusioni dei sensi prodotte dalla maggiore
o minore lontananza.
1302 [u 614] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

al grigio si ha la sensazione che sia bianco quel che


si vede 412). Ogni sensazione di piacere o di pena è
dunque qualcosa di relativo; qualcosa che dipende.,
come sarà mostrato più tardi nel Filebo, dal più o
meno che volta per volta si desidera 413). Supponiamo
ora che ogni piacere e ognì pena sia in qualche modo
in relazione con pienezza e vacuità - che è una con-
cezione comune nella medicina di quel tempo: - cioè,
p. es. che fame e sete siaÙ:o_ un vuoto corporeo, igno·
ranza e stoltezza un vuoto dell'anima. Allora sfamarsi
e dissetarsi saranno un riempire il corpo, conoscere
e imparare un riempire l'anima 414).
A prima vista, non sembra possibile paragonare
tra loro i due stati, fisico e psichico, e i due corrispon·
denti modi di· riempimento. Ma il paragone del passag·
gio fisico dal vuoto al pieno col passaggio spirituale
acquista immediatamente significato, appena si com-
misurano tutte e due i passaggi e i piaceri ad essi cor·
rispondenti al criterio metafisico, appena, cioè, ci si
èhiede quale dei due processi riempie l'uomo di un
più vero essere, di una maggiore realtà. Ché questo
sarà anche quello capace di riempire e soddisfare più
veramente. Nessuna cura che si abbia del corpo e
delle sue esigenze può mai essere soddisfacente nella
stessa misura del nutrimento e dell'acquetamento del-
l'anima mediante la conoscenza, giacché le cose di cui
il corpo si nutre non partecipano del vero essere nella
stessa misura di quella conoscenza della verità che è
cibo dell'anima 415). Se il vero piacere consiste nel sa·
ziarsi di cose convenienti alla propria natura, il sa-
ziarsi di ciò che è « essere » nel più alto grado sarà

412) Resp • .-585 a.


413) Phileb. 24 a 88.
414) Resp. 585 b. Cfr. supra, p. 582 n. 317.
416) Resp. 585 b-c.
CAP. X: LA REPUBBLICA, li [rr615] 1303

gioia in un senso più vero ed essenziale che il riem-


pirsi di cose che abbiano una misura minore di realtà 416).
Perciò i gaudenti del mero piacere sensuale non cono-
scono la vera « altezza », per restare nella similitudine
dell'illusione visiva, anzi non levanQ ad essa ;>neppure
gli occhi e non hanno mai gustato una gioia durevole
e pura. Con l'occhio rivolto « al basso» come bestie
in pastura, proni alla terra e alle tavole dei loro ban-
chetti, brucano e vanno dietro ai loro diletti, e per
averne di più, vengono ai cozzi tra loro, con corna e
zoccoli di ferro, e si uccidono senza potersi saziare,
perché ciò di cui si riempiono non è quello che vera-
mente « è». Del piacere non conoscono che ombre e
fantasmi, rimanendo ignoto a loro il piacere vero, con-
nesso alla parte intellettiva dell'uomo, alla phronesis,
tanto che, perfino, intelletto e ragione paiono a loro
opposti al piacere. La loro sorte è quella dei Greci
combattenti dinanzi a Troia per la riconquista di Elena;
frattanto l'Elena che era nella città non era che mi
fantasma ingannevole e la vera Elena era in Egitto,
come narrava Stesicoro 417). Così il filosofo, anche dal
punto di vista del contenuto di realtà del piacere, ri-
sulta essere il solo che prova un piacere vero 418). Il più
distante da lui è l'uomo tirannico, il più vicino, l'uomo
regale, il « giusto» dello stato perfetto. Platone spinge
il gioco della sua ironia fino a determinare con preci-
sione le distanze relative dei tipi umani corrispondenti
alle diverse forme politiche dal piacere vero, e trova,
calcolando, che il tiranno è settecento ventidue volte
meno felice dell'uomo regale. Ma se l'uomo buono e
giusto supera di tanto il tiranno nel piacere, di quanto

ll6 ) Resp. 585 e-e.


U?) Resp. 586 a-e.
41 8 ) Resp. 586 e.
1304 [II 616] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

mai non lo supererà in dignità, in bellezza, in pienezza


di umanità ! '19)
Non soltanto, però, è più felice l'esistenza del giu-
sto di quella dell'ingiusto, ma non è neppur vero che
sia più utile essere ingiusto con l'apparenza della giu-
stizia, secondo l'opinione di molti esposta al principio
del dialogo da Glaucone e Adimanto 420), Platone è arri-
vato a questa conclusione già prima, quando ha defi-
nito la giustizia come salute e armonia dell'anima 421).
Ed ora la conferma ancora una volta, v.iunto alla fine
della ricerca 422), col mezzo artistico del simbolci- -im-
maginoso, al quale egli ricorre così spesso nei momenti
decisivi. - Qui egli foggia una similitudine allegorica che
rappresenta la natura umana in tutta la sua compli-
cata struttura intima. Questa immagine dell'uomo, o
meglio, dell'anima, la presenta, conforme alla dottrina
psicologica di Platone, sotto tre diversi aspetti: in
primo luogo come mostro dalle molte teste, poi come
leone, infine come uomo. Quel che noi chiamiamo co-
munemente «l'uomo» è solo un illusorio involucro este-
riore che racchiude tutte e tre queste nature, dissimili
e indipendenti tra loro, e così produce l'impressione
che l'uomo sia un'unità tutta levigata senza scabrezza
di problemi 423). Il mostro, circondato da ogni lato di
teste di animali sia mansueti sia feroci, è l'uomo come
natura istintiva, è la parte bramosa dell'anima, che
Platone distingue dalla coraggiosa e da quella pensante.
Il leone è l'uomo come natura emozionale, quella che
si adira e si vergogna, che ardisce e si esalta. Ma l'uomo
vero, «l'uomo nell'uomo» come Platone dice con espres-

419) Resp. 587 a-e.


420) Cfr. supra, p. 350 ss.
421) Resp. 445 a; cfr. 444 e-e.
422) Resp. 588 b ss.
423) Resp. 582 c-d.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [n 617] 1305

sione mirabilmente illuminante· del suo nuovo pensiero,


è la parte intellettuale dell'anima 424).
Non occorrono parole per mettere in luce l'impor-
tanza di questo pensiero per la storia dell'umanesimo.
L'immagine illumina in un lampo la direzione e il si-
gnificato della paideia platonica, in quanto questa si
fonda su una valutazione nuova dell'uomo e della sua
natura. Il fine dell'opera educativa è lo sviluppo del-
l'uomo nell'uomo. Col subordinare rigidamente tutto
il resto all'elemento intellettuale si opera una muta-
zione totale nel quadro della vita e della vera perfe-
zione umana. E si chiarisce ancora una volta che tutto
questo complesso edificio dello stato perfetto non ha
alla fine altro scopo che di offrire uno sfondo su cui
venga a profilarsi questa immagine dell'anima umana,
a quel modo che anche la descrizione del digradare ·
progressivo delle forme' politiche serve solo di sfondo
a chiarire la decadenza progressiva nelle varie forme
dell'anima. Perciò chi approva l'ingiustizia non fa altro
che dare il sopravvento alla bestilJ selvaggia dalle cento
teste che è in noi. Il filosofo soltanto che rinsalda e
fa prevalere la parte buona della natura umana, subor·
dina tutto il resto a quello che jn no è divino. Fare
il contrario, subordinare il meglio al peggio, non può
mai essere profittevole, essendo contro natura. Infine,
nell'immagine del leone si chiarisce ancora una volta
ragione e significato del duplice sistema educativo della
Repubblica platonica; quello filosofico dei reggitori e
quello guerriero dei « custodi »: il leone saggiamente
domato, invece di far causa comune col mostro dalle
cento teste, si sottopone all'uomo che è nell'uomo e
lo aiuta a vincere la sua lotta con l'idra 425). È il compito

'24) Resp. 588 e-589 b.


425) Resp. 589 b. Il passo in pari tempo chiarisce anche la dif-
ferenza che passa tra ogni forma di educazione che voglia formar
1306 [Il 618] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

dell'educazione questo, di mettere gli elementi irra-


zionali più nobili dell'anima in un tale accordo con
l'elemento razionale, che questa in sé così debole parte
veramente umana, riesca, appoggiata dall'altra, a te-
nere in iscacco la parte men che umana.
Questo è lo stato che la paideia platonica mira a
fondare. I giovani non si possono licenziare dalla tu-
tela educativa finché nell'animo loro non sia formato
e durevolmente stabilito questo governo: la supremazia
del divino su ciò che è bestiale nell'uomo 426). L'uomo
che Platone chiama giusto, identico per natura allo
stato veramente giusto, non può trovare sostegno al-
cuno, né per leducazione né per altra attività, nello
stato reale, che è solo una copia deforme della supe-
riore natura umana. Come dice Platone in altro luogo,
egli provvederà prima di tutto, in mancanza di uno
stato perfetto in cui mettersi ad agire, a formare se
stesso (blu-ròv 1tÀOC't"'t"E:tv) 427). Ma egli porta in sé, nel-
l'anima sua, lo stato perfetto e vive guardando a quello
anche se non in quello. Egli si guarderà dunque dal-
l'apportarvi alcun cambiamento, e regolerà i propri
rapporti coi beni di questa vita terrena, denaro, pos-
sessioni, onori e simili sul criterio della conciliabilità
di essi con la legge dello stato che è in lui 428). Pertanto,
gli si presenterà anche il problema se debba o no
occuparsi attivamente di politica. Ma è questo un pro-
blema già risolto da tutto ciò che fin qui si è detto,
e, come ritiene non senza ragione il giovane interlocu-

l'uomo a essere uomo e il puro e semplice« ammansimento di :fiere».


Però, da un punto di vista sociale, il secondo non è meno neces-
sario del primo, in quanto la pura educazione umana non può
estendersi a tutti i membri dello stato, ma può esistere solo come
educazione di reggitori.
426) Resp. 590 e; cfr. 589 d, 590 d.
417) Resp. 500 d.
68) Resp. 591 e-592 a.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [II 619] 1307

tore di Socrate, in senso negativo. Ma Socrate ribatte:


nel suo stato egli farà politica e con tutte le sue forze;
non però nella sua patria, tranne che una divina Tyche
gli renda possibile di intervenire in maniera decisiva
secondo i propri principii 429) : il suo stato; cioè quello
che si è ora finito di fondare e che sta nel mondo delle
idee, ma non esiste in alcun luogo della terra. Però,
il fatto che esso esista o no - e con ciò Platone con-
clude la sua indagine - non ha importanza per la con-
dotta da seguire. Quello stato sarà forse in cielo, para-
digma eterno per chi lo contempla e, ·tenendolo a mo-
dello, vuol fondare se stesso come vero stato 430).

Partiti con Platone alla ricerca dello stato, abbiamo


trovato, invece, l'uomo. Possa o no attuarsi nel fu-
turo lo stato ideale, noi possiamo e dobbiamo lavorare
instancabili all'edificazione dello« stato che è in noi».
Di tutti i paradossi e le inaspettate allegorie a cui ci
ha abituato l'approfondimento metafisico e la mutata
interpretazione della natura umana che hanno luogo
nella filosofi.a platonica, questo è certo il paradosso più
grande e l'allegoria più sorprendente. Fin dai primis-
simi scritti di Platone si è potuto seguir lo sviluppo di
un nuovo atteggiarsi della volontà di fronte allo stato,
e più di una volta, certo, ci è venuto spontaneo di do-
mandarci se veramente la strada indicata da Platone
ci avrebbe condotto a quella che egli asseriva essere la
sua meta: e ciò perché, nel fatto, Platone si trova in
contrasto permanente con tutto ciò che' secondo l'opi-
nione comune è indispensabile per l'esistenza esteriore
di uno stato 431). Giunti alla meta, ci rendiamo finalmente

Resp. 592 a.
12")
Resp. 592 b.
430 )
Già Aristotele, Pol. I. II, critica lo Stato di Platone da que-
431 )
sto punto di vista, valutandolo col criterio della possibilità di
1308 [rr 620] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

conto che, se lo stato è per il pensatore una delle con-


dizioni primarie della vita umana - e ciò in armonia
con la più genuina tradizione del pensiero greco ...:.._
tuttavia il criterio col quale egli valuta lo stato è esclu-
sivamente il suo compito educativo e morale. Già nel-
1'opera storica di Tucidide questo aspetto dell'attività
statale ci è apparso in conflitto con lo stato concepito
come potenza, sebbene lo storico si dia cura, nel suo
quadro ideale di Atene, di conciliare ed equilibrare an-
cora i due aspetti 432). Ed anche altrove abbondano nel-
l'età di Platone i segni di un turbamento nell'armonia
originaria. Da . questo punto di vista si comprende bene
quella scissione dello stato in due parti che si attua
con inesorabile consequenziarietà tanto nella vita po-
litica reale di quel tempo quanto nella filosofia poli-
tica di Platone. Mentre in quei decenni si viene accen-
tuando la tendenza ad uno stato concepito come forza,
e la pura ragion di stato sembra imporsi spregiudicata-
mente, ad opera di notevoli personalità politiche, di
tiranni e simili, dall'altro lato si annunzia, nella con-
cezione educativa .dello stato creata dai filosofi, la
volontà etica di pervenire ad una nuova forma di co-
munità. Per essi l'unico criterio normativo - l'ha mo-
strato già il Gorgia - non è la potenza, ma l'uomo,
l'anima, il valore interiore 433). Ora, nell'atto in cui Pla-
tone sembra applicare coerentemente questo criterio
per purgare lo stato attuale da ·tutte le sue brutture,
non altro gli resta nelle mani alla fine se non lo « stato
interiore dell'anima». Originariamente, nello sforzo di
rinnovamento della polis, questo rinnovamento dell'in-

realizzazione. Ma Platone stesso aveva dichiarato del tutto secon-


daria, per il fine che egli si poneva, questo problema. E il fatto
che poi egli facesse a Siracusa un tentativo di educazione filoso•
fica di un tiranno, non cambia le cose.
432) Cfr. « Paideia» I, p. 687.
433) Cfr. supra, pp. 225, 248.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II [Il 621] 1309

dividuo era stato concepito come cellula germinale


di un ordine nuovo totale, ma poi è l'interiorità del-
!'anima che finisce per apparire come il rifugio ultimo
di quell'infrangibile volontà legislatrice che aveva ani-
mato gli uomini dell'antica polis greca e che ora non
trovava più una patria nel mondo.
Così alla fine Platone enuncia, in risposta alla do-
manda se il suo stato ideale possa essere «realizzato »,
un principio sorprendente, degno del più grande degli
educatori: «realizza il vero stato nell'anima tua». In-
terpreti antichi e moderni, che si aspettavano di trovare
nella Repubblica un manuale di scienza politica concer-
nente le varie forme costituzionali esistenti, hanno più
e più volte tentato di scoprire qua e là su questa terra
lo stato platonico, e lo hanno identificato in questa o
quella forma reale di stato che sembrasse avvicinarglisi
nella struttura. Ma lessenza dello Stato di Platone non
sta nella struttura esterna - se pur ne abbia una - ma
nel suo nucleo metafisico, nell'idea di realtà assoluta e
valore, su cui è costruito. Non è possibile realizzare la
repubblica di Platone imitandone l'organizzazione ester-
na, ma solo adempiendone la legge di bene assoluto che
ne costituisce l'anima. Perciò colui che è riescito ad
attuare quest'ordine divino nella sua anima individuale
ha portato alla realizzazione dello stato platonico un
contributo più grande, di colui che edifica una città in-
tera esternamente somigliante allo schema politico di
Platone, ma priva della sua essenza divina, l'Idea del
Bene, la fonte della sua perfezione e beatitudine.
Il giusto dello stato platonico non è, perciò, il cit-
tadino ideale dello stato reale, qualunque sia la costi-
tuzione di questo. Egli è"in esso, come Platone stesso
ha visto chiaro, necessariamente un estraneo. Sempre
pronto a metter tutto se stesso al servizio di uno stato
ideale in armonia con le sue esigenze etiche, nello stato
1310 [II622] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

della realtà egli vive ritirato in se stesso. Il che non


significa che si sottragga ai suoi doveri di membro di
una comunità sociale. Anzi egli si dà cura di adem-
piervi nella maniera più scrupolosa, se veramente fa
«il fatto suo» nel più pieno senso. Questo è richiesto dal
concetto platonico di . giustizia, il quale può servire di
regola in ogni stato e in ogni situazione. Ma, cittadino
vero, egli non è se non nello stato che ha in sé, nel-
l'anima, e proprio alle leggi di questo stato e non ad
altre obbedisce quando fa in quel modo l'opera sua 434).
Da questo momento in poi sembra conseguenza ine-
vitabile, per una personalità di coscienza morale elevata,
l'essere cittadino di due mondi. Questa situazione si pro-
paga poi nel mondo cristiano, dove il credente vive
ad un tempo nello stato temporale di questò mondo
e .nell'eterno e invisibile regno di Dio, di cui è mem-
bro. È situazione che nasce da quella « conversione
al vero essere» che per Platone è l'essenza della paideia.
Ma questa rottura dell'antica armonia della vita greca
non ·è dovuta all'invasione dall'esterno di una religione
oltremondana. È il prodotto del dissolvimento interiore
dell'unità greca di individuo e città. In fondo tutto
quel che Platone dice non è che la raggiunta con-
sapevolezza della situazione reale dell'uomo :6.losofì.co,
quale gli si era venuta configurando tipicamente
nella vita e nella morte di Socrate. Non è un caso,
ma si deve a una profonda necessità spirituale e storica
il fatto che questa riforma radicale dell'uomo sulla
base dello« stato che è in lui» si attuasse nel momento
in cui la civiltà greca raggiungeva il suo apogeo. Nel-
l'età arcaica e nella classica la relazione tra individuo
e comunità era stata concepita e vissuta con una serietà

434 ) Cfr. Resp. 592 b. «È indifferente se [lo stato ideale] esista o


esisterà; ché l'uomo l!:iusto osserva nel suo agire soltanto. la legge
di questo vero stato, e non di alcun altro».
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il [rr623] 1311

profonda, sì da dar luogo a una compenetrazione, senza


precedenti o paragoni, della vita del singolo con lo
spirito della polis 435). « Lo stato educa l'uomo », 7t6Àt~
&vapix ata&axe:t, era stata una sentenza famosa, non
di Platone, ma del grande antico poeta Simonide, che
in essa aveva espresso il più genuino ideale greco.
Ma dal punto di vista a cui Platone ci ha condotti si
comprende che proprio questa totale compenetrazione,
meditata coerentemente fino in fondo, doveva condurci,
·fuori dall'ambito della politicità terrena, nell'unico
regno in cui essa può realmente e veramente aver luogo:
nel regno del divino. Qui soltanto l'uomo trova la sua
libertà vera, nel vincolarsi consapevolmente alla legge
di questo regno, che ha scoperto in se stesso. Così il pen-
siero politico greco riesce, nell'estremo sviluppo logico
dei suoi presupposti, alla creazione dell'idea - fonda-
mentale nel mondo d'occidente - della libera persona-
lità umana, non fondata su alcuna sanzione di umane
leggi, ma sulla conoscenza immediata della norma eter-
na. Norma e misura eterna che Platone identifica,
nella similitudine della caverna, con la natura di Dio.
È chiaro ormai che l'ascesa alla conoscenza di questa
norma, quell'ascesa che nella similitudine di Platone
rappresenta la paideia, ha come meta la fondazione
dello « Stato che è in noi», sul modello di Dio.

1135) Aristotele nella Politica (III 4) chiarisce, in uno spirito


del tutto platonico, che l'uomo perfetto e il perfetto cittadino
si identificano s o l o nello stato perfetto. Nello stato reale il mi-
glior cittadino è quello che più perfettamente si forma nello spi-
rito del suo stato e vi si adatta (anche se, in senso assoluto, que-
sto spirito sia ancora imperfetto), mentre l'uomo perfetto in senso
assoluto può in certe circostanze apparire, in un tale stato, cat-
tivo cittadino. Ed è questo il punto su cui il grande storico di
Roma Barthold Georg Niebuhr fece rimprovero a Platone. Chia-
mandolo cattivo cittadino egli misurava Platone sul metro di De-
mostene.
CAPITOLO UNDECIMO

LA REPUBBLICA

III.

Il valore educativo della poesia. - Il decimo e ul-


timo libro della .ijepubblica è dedicato a un nuovo
esame del problema della poesia e del valore edu-
cativo di essa. Sembra strano, a prima v,ista, che
Platone, dalla vetta suprema ora raggiunta che con-
sente la vista totale di tutto il cammino percorso,
ritorni a trattare una questione particolare e, se real-
mente la cosa stesse così, il resultato · non potrebbe es-
sere che una diminuzione di vigore del quadro ora
compiuto. Ma, come accade spesso in Platone, il pro-
blema di composizione riporta ad un sottostante pro-
blema filosofico, ed è perciò importante venire perfet-
tamente in chiaro sul procedimento da lui scelto. È fa.
cile vedere, naturalment6, che la critica della poesia,
fatta in principio dell'opera a proposito dell'educazione
dei guerrieri, quella censura esercitata dal pun:to di
vista di una migliore, e più moralmente vera, rappre-
sentazione degli dei, fa appello, con quella forma dogma-
tica in cui Platone l'atteggia, alla «retta opinione» del
lettore, senza fornirgli alcuna vera nozione del prin-
1314 [n626] LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO

cipio da cui muove 1). Nella successiva educazione dei


reggitori, fondata come essa è sulla pura conoscenza
filosofi.ca, la poesia e la cultura musicale non hanno
assolutamente alcuna parte, e Platone perciò non ha
fin qui trovato occasione di dir la sua parola conclu-
siva sul compito educativo della poesia, dal punto di
vista della filosofi.a, ciòè della conoscenza pura del
vero. Per questo bisognava che fosse svolta la teoria
delle idee che frattanto era entrata nel dialogo, come
tema fondamentale della formazione dei reggitori. È dun-
que perfettamente logico che la questione della poesia
sia ripresa ancora una volta su questo piano più alto.
Ma l'essenzi~le è che ci si renda conto del perché
Platone abbia scelto proprio questo punto per met-
tere a fronte, in battaglia decisiva, filosofi.a e poesia.
A tale comprensione noi siamo preparati dall'avere
osservato che l'intera trattazione dello stato ideale,
compresa la larga indagine sulle forme degenerative
dello stato reale, Iion è che wi mezzo per rendere evi-
denti in immagine ingrandita la struttura morale del-
l'anima e la cooperazione vicendevole delle sue parti 2).
La descrizione della paideia come processo graduale
include anche i libri sulle forme costituzionali e sui cor-
rispondenti tipi psichici. Solò da questo punto di vista
noi siamo in grado di capire che la trattazione cul-
mina nella fondazione dello« stato che è in noi», della

1 ) Che l'educazione dei guerrieri si fondi non già sulla scienza


(b:LaTfiµ.11) ma sulla retta opinione (òp-9-lj 86l;oc) è detto chiara-
mente quando si tratta delle virtù della classe guerriera, e, in essa
dei« custodi» in senso stretto, cioè dei reggitori. La areté speci-
fica dei guerrieri, la fortezza, è definita « retta opinione su ciò che
è da teml."re e ciò che è da non temere» (Resp. 430 h), perché essi
in quanto non posseggono la scienza del bene, non hanno nep-
pure la suprema fortezza socratica che su essa si fonda. Invece i
reggitori hanno scienza e sapienza e lo stato possiede questa sa-
pienza soltanto perché essi esistono in lui: cfr. Resp. 428 d-c.
2) Resp. 368 d-e.
CAP. XI: LA REPUBBLICA, l i [n 627] 1315

personalità umana, meta dell'opera intera 3). :pall'edu-


cazione dei guerrieri, che comprende ancora l'antica
paideia musicale, siamo saliti ad una forma di educa-
zione filosofi.ca che deve formare lo spirito del reggi-
tore con a conoscenza della verità e della norma su-
prema. Per mezzo di questa educazione, l'anima si
deve fondare su un ordine e su una legge a lei inte-
riori, cioè su quello che nella sua struttura e attività
c'è di affine allo stato. C'è la parentela più stretta tra
questo modo di concepire l'essenza del compito edu-
cativo e il logos filosofico, che Platone considera la
forma più alta di cultura. Pertanto, la 'contrapposizione
fra poesia e filosofia che sul piano d~ll'educazione dei
guerrieri era soltanto relativa, diventa, vista di qui,
assoluta. Le forze ordinatrici e legislatrici dell'anima,
impersonate dalla filosofi.a, stanno, di fronte all'ele-
mento riflessivo e imitativo da cui la poesia si origina,
in un rapporto di decisa superiorità e vogliono da esse
omaggio e sottomissione all'impero del logos. Questa
esigenza, dal punto di vista moderno, per cui la poesia
è soltanto letteratura, è difficile da comprendere e fa
l'effetto di una pretesa tirannica e usurpatrice di di-
ritti altrui. Ma nella concezione greca della poesia,
che ne fa la rappresentante prima e la trasmettrice
della paideia, la disputa tra filosofi.a e poesia deve farsi
acuta nel preciso momento in cui la filosofi.a si fa con-
sapevole del proprio valore di paideia e rivendica a
sé il primato educativo.
Il problema manifesta tutta la sua urgente impor-
tanza nel momento in cui si affronta Omero, prima
di tutto perché ognuno lo ama, ed è perciò facile ren-
dersi conto della gravità della questione, che proprio
lui, il poeta dei poeti, sia messo in discussione. Il So-

3) Cfr. supra, p. 619.


1316 [rr628] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

crate platonico si sofferma anche a scusarsi per l'ardi-


mento di esporre in tal modo alla critica il suo pensiero
segreto sulla poesia"). Egli stesso fin qui è stato trat-
tenuto, per una sorta di sacro rispetto e di amore per
il poeta nutrito fin da bambino, dal dichiarare aperta-
mente queste opinioni. Cosi Platop.e previene coloro che
ora si metter~o a elevare alti lai sulla sua mancanza
d'intelligenza o sulla sua «empietà». Ma Omero non
è scelto a obbiettivo dell'attacco per il. solo scopo di
rendere più netto ed evidente il paradosso filoso:6.co,.
bensl anche per altre due ragioni. Una di queste, Pla-
tone la dice subito, al principio della discussione, là dove
chiama Omero, maestro e guida della tragedia 5). CoJ:!.-
tro la poesia tragica grava il peso principale dell'at-
tacco, poiché essa rivela, più pienamente di ogni altra
forma, l'efficacia della poesia sull'elemento istintivo« pa-
tetico» dell'anima 6). La seconda ragione è che, ver-
tendo la disputa proprio sulle pretese educatrici della
poesia, Omero viene per forza di cose a mettersi nel
centro di essa. Nella pratica tradizionale e nel senso
convenzionale della paideia, Omero ne era l'assoluta
incarnazione 7). E quest'idea era vecchia, come .si è
precedentemente mostrato. Già nel VI sec. Senofane,
il censore di Omero, aveva parlato di lui come della
fonte da cui tutti, :6.n dai tempi . dei tempi, avevano
ricavato tutta la loro sapienza 8). A questa idea aveva
dato nuovo alimento il movimento intellettuale della
sofistica, con la sua consapevole e sempre presente
preoccupazione educativa 9). Ed anche Platone, come
") Resp. 595 b 9.
&) Resp. 595 c 1, efr. 598 d 8.
') Cfr. la discussione del concetto di imitazione artistica (p.l-
.P. lJaLc;) in Resp. 595 c ss.
7) Cfr. la critica a Omero come educatore in Resp. 598 e, ss.
8 ) Cfr. Xenophanes. fr. 9 (Diehl) ~ &p:x'ìjc; xix&' "Op.TJpov ~
p.e:p.ix.&lJlCIXaL mxv-re:c;,
1) Cfr. « Paideia » I, p. 510 s.
CAP. XI: LA REPUBBLICA, ID [n629] 1317

appar chiaro verso la fine della sua trattazione pole-


mica, ha in mente un qualche scritto o discorso sofi-
stico, rappresentante la tesi che Omero era stato l'edu-
catore di tutta la Grecia 16), uno scritto nel quale il
tema era svolto con la dimostrazione che il poeta era
stato una specie di maestro enciclopedico, intenditore
di ogni arte ('tixvcxt) ll). Pensieri del genere dovettero
essere correnti in quel tempo, ed ebbero certamente
una parte anche nell'esposizione omerica dei rapsodi,
interpreti ed esaltatori del poeta, come mostra l'Ione
platonico 12). Ancora in età imperiale nell'opuscolo «plu-
tarcheo », Sulla vita e la poesia di Omero, appare la
stessa valutazione realistico-pedagogica della poesia
omerica come fonte di ogni sapienza 18). Sicché Platone
polemizza contro lopinione greca comune sul valore
educativo della poesia, e in particolare di Omero.
Siamo con ciò ad una svolta nella storia della pai~
deia greca. La lotta è, per Platone, lotta della verità
contro l'apparenza. Egli si richiama appena fuggevol-
mente alla già raggiunta conclusione secondo cui la
poesia imitativa deve essere bandita dallo stato ideale 14).

10 ) Resp. 606 e 6li; Tijv 'EUcilltX m::ittXllleuKEV où-.oi; <'> 'ltot"Jjtji;.


11) Cfr. Rasp. 598 e. ·
12) La descrizione che Socrate fa nell'Ione (531 c) del com-
plesso e multiforme contenuto di idee esistente in Omero, so-
miglia molto a quella che è nella Repubblica, 598 e. Nell' Ione (533 e)
egli contesta che tutta questa scienza del poeta si fondi su una
-rÉJC.V1J, cioè su un sapere effettivo e concreto, e afferma che lo
stesso vale per gli_ interpreti del poeta, i quali, anch'essi, parlano
per ispirazione divina. La sottintesa polemica di questo atteggia-
mento di pensiero è volta contro la teoria sofistica secondo cui
l'efficacia educativa di Omero ha radici nel suo sapere univer-
sale, sebbene questa teoria non sia espressamente citata nel-
)' Ione, come lo è nella Repubblica (598 b l:'lteL3Tj -rLvc.>v cixouoµ.ev).
Tale teoria ricorre anche in Senofonte, Symp. 4, 6.
"1 8 ) Lo pseudo-Plutarco, De vii. et poes. Hom. 1073 c l!S. si pro-
pone di dimostrare che Omero non solo aveva conosciuto tutte
le regole dell'arte retorica, ma anche era stato maestro in filo-
sofia e nelle arti liberali.
14) Resp. 595 a 5.
1318 (II630] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Siccome, però, come Platone ha detto or ora 1 5), que-


sto stato ideale non sarà forse realizzato mai e in nes·
sun luogo, il rifiuto della poesia non tanto implica che
essa debba essere violentemente espulsa dalla vita
umana, quanto piuttosto che ne sia limitata recisa-
mente l'influenza sulla vita intellettuale, per tutti co-
loro che aderiscono all'argomentare platonico. La poe·
sia corrompe la mente degli ascoltatori, se questi non
hanno a disposizione, come medicina, la conoscenza
del vero 16). II che significa che la poesia deve esser
respinta a un piano più basso. Essa rimarrà, ora come
nel passato, oggetto di piacere estetico,· ma sarà esclusa
dalla dignità suprema di educatrice degli uomini. Quello
che deve decidere una volta per tutte del valore della
poesia sarà la sua relazione con la realtà, col vero es-
sere, e su questo punto Platone concentra tutta la
discussione.
L'attacco si dirige prima di tutto contro la poesia
imitativa. Che cos'è, però, imitazione ? Platone chiarisce
questo punto nella maniera consueta, partendo dalle
Idee 17). Queste sono l'unità che il pensiero concepisce
nel molteplice. Le cose sensibili sono copie delle Idee;
p. es. le sedie e le tavole esistenti nella realtà sono
copie e imitazioni dell'idea della sedia o della tavola,
e quest'idea è per ognuno degli oggetti una sola. Il
falegname fabbrica i suoi mobili guardando all'Idea
come a suo modello .. Ma quello che egli produce è una
sedia o una tavola, non la loro Idea 18). Accanto all'Idea.
e alla cosa sensibile, un terzo grado della realtà è ciò
che è prodotto dall'arte del pittore, quando egli rap-

:U) Resp. 592 a 11-b.


1 6) Resp. 595 b 6.
11) Resp. 595 e se.
18) Resp. 596 b.
CAP. Xl: LA REPUBBLICA, ID [n631J l319

presenta un oggetto 1?). Con questo grado Platone pa-


ragona la relazione della poesia con la verità e con l'es-
sere. Il pittore prende a modello le sedie e le ta:vole
percepibili coi sensi, che il falegname fabbrica, e le
imita in un quadro. Come se uno si credesse di creare
un altro mondo, ricevendo in uno specchio l'immagine
di quello reale, così il pittore si contenta di puri e sem-
plici riflessi delle cose e della loro apparente realtà 20);
Come fabbricatore di tavole e sedie egli è dunque in-
feriore al falegname che sa fare tavole e sedie reali.
Ma il falegname per parte sua è inferiore a colui che
ha fatto l'eterna Idea della sedia, sulla quale sono
state esemplate tutte le sedie della terra. Il creatore
primo dell'Idea è Dio 21); l'artigiano fa una copia del-
l'Idea. Ed il pittore quindi, è copiatore di una copia,
è autore di una produzione che è distante di due gradi
dalla verità. Allo stesso grado appartiene il poeta:
anch'egli crea un· mondo di mera apparenza 22 ).
Di tutte le arti che gl'interpreti d'Omero gli attri-
buiscono, una sola interessa Platone in questo momento
ed egli si ferma ad esaminare se veramente Omero la
possieda. Non si preoccupa di sapere se, come la gente
dice, Omero sia stato un gran medico o abbia avuto
qualcuna di quelle svariatissime abilità per cui lo vanno
esaltando; gli basta di vedere se abbia posseduto l'arte
politica e sia stato capace di educare .uomini 23). Perciò
si mette a interrogare il poeta, nella forma quasi di
un esame regolare, se egli abbia mai, come fecero i
grandi legislatori antichi di Grecia, reso migliore una
città, o ne abbia perfezionato le istituzioni, o abbia

19) Resp. 596 e-597 b.


20) Resp. 596 d.
21) Resp. 597 b-d.
22) Resp. 597 d-e, cfr. 599 a, d 2.
23) Resp. 599 c.
1320 [n632] LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO

vinto una guerra, oppure se almeno da privato, come


Pitagora o i suoi scolari, egli abbia dato agli uomini
il modello .di una nuova vita (~loç). Ma, evidentemente,
egli non ha mai raccolto intorno a sé, come fanno i
sofisti, maestri moderni d'arte educativa, uno stuolo
di scolari e di seguaci che cantassero le sue· lodi 24) (de-
risione aperta dei Sofisti, come si vede, i quali si consi-
deravano pari a Omero e ai poeti antichi, come p. es.
fa Protagora nel dialogo platonico) 25). Da Omero in
poi i poeti non hanno fatto altro che produrre copie
(e:!~<ùÀIX) di virtù umana, senza però toccare la verità,
e non hanno quindi potuto essere veri educatori degli
uomini 26).
La poesia è come il riso di giovinezza in un viso
giovanile che in sé non sia bello, e che perde perciò
la sua grazia quando la giovinezza se ne va 27). Questo
paragone illumina istantaneamente, come un lampo, la
situazione della poesia nella concezione platonica. L'ele-
mento essenziale del paragone è la giovinezza, quello
stato in cui primamente sboccia e .fiorisce quell'incanto
e quella grazia che· occupa un limitato periodo nella
vita dell'individuo e, in sé e per sé, è ragione di gioia
per gli altri. Ma quando essa viene al fine, deve cedere
il posto ad altri pregi e spesso allora si vede che la
persona che se ne ornava era priva di vera bellezza.
Balena qui per la prima volta nel pensiero greco, la
profonda scoperta che la poesia· è una pianta che non
dà frutto in ogni stagione, una creazione che non è
di tutte le età. Anche la vita dei popoli ha la sua gio-
vinezza, e la fantasia poetica è di essa la compagna
più cara. I pensieri platonici sulle relazioni tra poesia

24) Resp. 599 d-600 e 3.


25) Prot. 316 d ss.
26) Resp. 600 e 5.
27 ) Resp. 601 b.
CAP. XJ; LA REPUBBLICA, III [11633] 1321

e filosofia, se noi li consideriamo troppo astrattamente,


hanno pe.r noi sempre qualcosa di urtante, anche am-
messo ch6 colgano in tutto e per tutto nel segno. Ma
quello che ci sorprende in tutte le verità che Platone
enuncia è la stupefacente, spesso profetica capacità
d'intuizione, che anticipa, nella forma di concetti ge-
nerali, il corso fatale dello spirito greco. L'elevarsi
della personalità morale, dell'Io, sullo Stato in disso-
luzione, la liberazione delle facoltà cre:.tive dello spi-
rito dalla forma poetica, il ritorno dell'anima in se
stessa, sono tutti elementi genuini di verità che solo
un genio di prima grandezza come Platone poteva scor-
gere, nella visione di una realtà nuov~. Certo, di fronte
all'ingrata prospettiva della fine della poesia, un motivo
consolante fu per lui proprio la universalità assoluta
di questa conclusione: la poesia non possiede la bel-
lezza schietta e imperitura che è propria solo della ve-
rità. Il poeta per Platone non solo non ha scienza in
senso filosofico, ma non ha neppure una retta opinione
come quella del pratico estraneo alla filosofia; egli si
limita a imitare la vita, secondo quel che in essa sem-
bra bello e buono ai più 28). La sua opera è il ri.B.esso di
giudizi di valore e di ideali comuni, ma è priva di quella
vera « arte della misura» che rende possibile sfuggire
all'illusione e all'apparenza vana 29). È notevole in tutta
questa parte del dialogo, che Socrate rivesta le sue
considerazioni . profonde della consueta forma pedan-
tesca e lasci che. il lettore immagini ogni sorta di cose
dietro gli umili esempi scelti, della tavola e della sedia.
Ma l'obiezione capitale da muoversi alla poesia, dal
punto di vista educativo, consiste in altro. Ed è che
essa non si rivolge alla parte migliore dell'anima, alla

28) Resp. 602 a-h.


Resp. 602 e 7-d. Cfr., sulla filosofia come arte della misura,
29)
supra, pp. 202, 496 s.
1322 [11634] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

ragione, ma agli istinti e alle passfoni, e li sveglia e li


eccita 30). L'uomo moralmente elevato domina i senti-
menti e se si trova esposto a forti eccitazioni procura
di ridurne gli effetti 31). Legge e ragione gli comandano
di metter freni alle passioni, e la passione a sua volta
lo spinge a cedere al suo impulso. Passione e legge sono
forze in contrasto. L'imperativo della legge sostiene
la parte pensante dell'anima nella sua resistenza agli
impulsi 32). La poesia invece si pone su un piano fan-
ciullesco, e, come un bambino che prova una soffe-
renza fisica si afferra alla parte dolorante del proprio
corpo e soffre e piange sempre di più, cosi essa rin-
forza, rappresentandolo nell'imitazione, il senso della
sofferenza. Con ciò conduce gli uomini ad abbandonarsi
con intensità massima a .questo sentimento, invece di
abituare l'anima a curare il ristabilimento più solle-
cito possibile dal turbamento della passione, a toglier
via il canto luttuoso e dar luogo all'azione salutare 33).
Con questi due concetti è mirabilmente caratterizzata
l'opposizione in cui lo spirito della poesia tragica si trova
di fronte alla filosofia platonica. Per Platone la tendenza
della poesia all'espressione più piena ed aperta dei
sentimenti dolorosi si spiega coll'interesse che natural-
mente le è proprio per la parte passionale della vita
psichica, la quale offre all'artista imitatore, ricercante
ad un tempo varietà e forza . espressiva, possibilità
molto più ·ricche che non la parte pensante~ col suo
ethos di razionale pacatezza, sempre eguale a: se stesso.
E ciò vale specialmente per rappresentazioni che si ri-
volgono ad una massa numerosa di spettatori conve-
nuti a festa solenne. L'elemento passionale, concitato

30 ) Resp. 603 c.
31 ) Resp. 603 d-e.
32 ) Resp. 604 b.
33) Resp. 604 c-d.
· CAP. XI: LA REPUBBLICA, III (II635J l323

e mosso com'è per natura e multiforme, è proprio per


questo più facile a imitarsi 34).
Da tutto ciò Platone conclude che il poeta imita-
tivo ha una cattiva influenza sull'animo umano, sve-
gliandone le forze peggiori e nutrendole e rafforzandole,
mentre uccide lo spirito che pensa, proprio come farebbe
un tiranno, dando supremazia in uno stato agli ele-
menti peggiori 3 5). Platone, nel rammentare ancora una
volta che per questa ragione ha escluso dal suo stato
ideale la poesia imitativa, non si ferma però a questa
misura di polizia, che è la prima cosa a cui si pensa
quando si considera la sua Repubblica come il progetto
di uno stato reale, ma della proibizione rileva il solo
significato spirituale rispetto ali'educazione del sin-
golo. Alla fine del nono libro, questa sola è rimasta
per lui la questione importante, mentre quella della
realizzazione dello stato ideale è stata messa da parte
come non essenziale 36). Il rimprovero che Platone ri-
volge al poeta imitativo è di «creare neJl'anima di
ogni singolo uomo uno stato corrotto» 37), parlando se-
condo il gusto dell'elemento irragionevole che è in lui.
L'immagine qui usata è presa dal costumè, così spesso
biasimato, dei demagoghi, di adulare la massa. Il
poeta rende inetta l'anima a distinguere l'importante
dal secondario, giacché, le stesse cose, le rappresenta
ora grandi ora piccole secondo Io scopo che di volta
in volta persegue. Ma proprio questo relativismo di-

34) Resp. 604 d-605 a.


35 ) Resp. 605 b. La metafora dell'allevamento (letteralmente
«nutrimento», -.pécpew), usata qui e a 606 d 4 esprime la forza
e l'immediatezza con cui la poesia agisce nell'educazione dell'uomo;
poiché, secondo Platone (cfr. supra, pp. 182, 463), ogni paideia
è una forma di nutrimento, in questo senso spirituale della parola.
36) Cfr. supra, p. 619 n. 431.
37 ) Resp. 605 b 7.
1324 [n636] LIBRO IIl - ALLA RICERCA DEL DIVINO

mostra che egli è solo un fabbricatore di idoli e non.


conosce la verità 38).
L'accusa più grave, dunque, contro la poesia è che
essa corrompe in noi il senso dei valori. Con quel pia-
cere che sentiamo bevendo le parole di un eroe tragico
che lamenta appassionatamente la· sua sofferenza, noi
ci diamo del. tutto nelle mani del poeta, e gli andiamo
dietro, travolti nella sua stessa emozione e tanto più
lo lodiamo come buon poeta quanto meglio riesce a
metterci in questo stato d'animo. La «compassione»,
la simpatia è l'essenza di ogni efficacia poetica 39). Ma
nella vita usuale si cerca di comportarci nel modo pre-
cisamente opposto, si rifugge dall'indulgere alle effu-
sioni dolorose, quando ci coglie un duro colpo del de-
stino. Quel comportamento che nelle creature del poeta
si loda,. noi allora diciamo che non è da uomo. Cosi
ha luogo questo fenomeno singolare, che nella poesia
si trova bello e piacevole a vedersi un uomo quale noi
non vorremmo essere nella realtà, quale, anzi, ci ver-
gogneremmo di essere 40). In altre parole: il nostro
ideale etico è in aspro contrasto con la nostra sensibi-
lità poetica. Quel bisogno naturale di effusione nel
pianto che a stento e a forza conteniamo nella vita
è soddisfatto dal poeta e ciò è sentito da noi come pia-
cere. In tal caso, quella che veramente è in noi la mi-
glior parte allenta, se non rettamente addestrata da
ragione e consuetudine, la sua vigile resistenza e lascia
libero corso al nostro bisogno di pianto 41). Che si tratti
di dolori altrni e non dei propri, sembra scusa più che
sufficiente, anzi il piacere della partecipazione a una
sofferenza si presenta come puro, non incrinato di

38) Resp. 605 c.


39) Reap. 605 e 10-d.
'°) Resp. 605 e•
.n) R.ap. 606 a.
.CAP. Xl: LA REPUBBUCA, III [n 637] 1325

danno. Se nella poesia tragica la fonte dell'effetto sul-


l'ascoltatore è la compassione, nella comica lo è il senso
del ridicolo. A questi sentimenti, tutti siamo soggetti,
ma solo pochi si rendono conto della inconsapevole
mutazione che il rafforzarsi di tali impulsi, prodotto
dalla poesi~ opera nella loro natura 42).
Perciò Platone nega ad Omero il rango, assegnato
a lui per universale consenso, di educatore della Grecia.
Omero, certo, è e rimane il più grande genio poetico,
il primo dei tragici, ma noi dobbiamo amarlo ed ono-
rarlo solo dentro i limiti della sua competenza. La sola
poesia ammissibile nello stato ideale consiste in inni
agli dei e in encomii degli uomini buoni e valenti.
Con questo, però, Platone amerebbe pure di sfuggire
al sospetto di pedanteria 43). L'opposizione tra poesia
e filosofia è, egli dice, antichissima, ed egli conosce,
per esperienza sua propria, la magia della poesia. A lei
e ai suoi avvocati egli darebbe volentieri occasione di
difendersi e di dimostrare della poesia non la piacevo-
lezza soltanto ma la sua utilità per la vita e per lo
stato, ed assicura che volentieri li ascolterà«). Difese di
questo genere, di Omero e della poesia, erano certo
già state fatte dai Sofisti in trattatelli appositi in prosa.
Verosimilmente Platone qui ha in mente lo stesso
scritto sofistico, del quale di sopra abbiamo supposto
l'esistenza 45), e che fu forse il primo ad applicare ad
Omero il giudizio del verso oraziano:
omne tulit punctum qui miscuit utile dulci 46).

Platone paragona la poesia con un vecchio amore al


quale si resti avvinti pur sapendolo non salutare per

42) Resp. 606 b-d.


43) Resp. 606 e-607 a.
'') Resp. 607 b-c.
45) Cfr. supra. p. 629.
46) Resp. 607 d;
1326 [Il 638] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

noi e che alla fine si riesca a forza a staccare dall'anima


nostra. Si deve si esser buoni con la poesia e augu-
rarci che essa possa in questa sua difesa mostrarsi il·
più possibile buona e verace. Ma se, in realtà, la giu-
stificazione non le riesce, noi ci chiuderemo alla fine
nella guardia austera di quella verità che abbiamo rag-
giunto e ne-faremo formula di scongiuro contro l'incan-
tamento antico. Diremo allora a noi stessi che tutta
la poesia di questa specie non è da prendersi come
cosa seria, e che da essa ci si deve guardare, nel timore
di sovvertire «la repubblica dell'anima nostra». Un
solo criterio esiste per misurare il suo valore educativo:
quanto essa aiuti l'anima ad accostarsi ·a questa
« forma » interiore 47).

Paideia ed escatologia. - L'educazione per mezzo


della filosofi.a si è dimostrata l'unica vera. Nes-
sun'altra via esiste che conduca alla meta di fon-.
dare lo stato nell'anima stessa. E questa, d'altra
parte, ci è parsa l'unica meta educativa possibile, in
un mondo in cui la vita politica reale non è passi-
bile di alcun miglioramento decisivo. Se sul primo
momento poté apparire che la mira principale di Pla-
tone fosse la formazione di uno « stato ideale» retto
da una piccola élite, con la subordinazione totale, ai
fini di un tale stato, di educazione e etica, col pro-
gredire dell'opera si è fatto chiaro come la luce del
sole che, al contrario, Platone fonda la politica sul-

47) Cfr. Resp. 607 e-608 b. Da notare l'espressione, ripetuta,


di questo genere (mime-
"Ìj -rotcxu-r1J 1tob1crn;, cioè « ogni poesia
tica)». Con questa espressione si lascia una porta aperta per altri
tipi di poesia. Cfr. 607 a. Un altro accenno allo « stato che è in
noi» in quanto meta e criterio supremo a cui si debba commisu-
rare l'ammissione della poesia o il suo ripudio, vedi in 608 b 1,
come già prima in 605 b 7. ··
CAP. Xl: LA REPUBBLICA, IIl [n639] 1327

I'etica, non solo in quanto il rinnovamento politico


deve cominciare dall'educazione morale, ma anche per-
ché non può darsi, secondo Platone, un principio
d'azione per la comunità e lo stato, che sia diverso
da quello valevole per il comportamento morale del
singolo. Lo stato perfetto è per Platone soltanto una
cornice ideale di vita, costruita in modo che in essa la
personalità umana si possa sviluppare secondo la legge
che le è innata, nella sicurezza di realizzare con ciò,
dentro di sé,. anche lo scopo dello stato 48). In nessuno
degli stati esistenti è possihile qualcosa di simile. In
essi è inevitabile che si sviluppino conflitti tra lo spi-
rito che anima lo stato e l'ethos dell'uomo che chiude
nell'anima sua lo stato perfetto e procura di vivere in
modo conforme ad esso, l'uomo perfettamente giu-
sto 49). Considerato da questo punto di .vista, lo stato
platonico non è tanto l'abbozzo di una riforma pratica
dell'istituzione statale, quanto la costruzione di un'in-
tera società che subordini ogni altro interesse alla pai-
deia, alla formazione della personalità morale e intel-
lettuale. In questa società tutto mira alla felicità del-
l'uomo, ma questa non consiste nei suoi desideri o va-
lutazioni . individuali, bensì riposa sulla salute inte-
riore della sua anima, sulla giustizia. Alla fine del nono
libro Platone ha giudicato, secondo il loro valore inte-
riore, i vari tipi di anima e forme di vita, e ha concluso
che il giusto è il solo veramente felice. Cosi egli ha
anche risposto alla domanda di Glaucone, dalla quale
aveva preso l'avvio la parte principale del dialogo:
se la giustizia in sé, anche all'infuori di ogni compenso o
riconoscimento sociale, valga a render felici' gli uomini SO).

48) Cfr. supra, p. 617.


49) Cfr. Resp. 591 e-592 b.
60) Resp. ·4ss b ss.
1328 [rr640] LIBRO llI - ALLA RlCERCA DEL DIVINO

Plire non è detta ancora con tutto ciò la parola finale


sul valore della giustizia e sulla paideia che di essa
fa la sua meta. Il premio della lotta è più grande e il
valore in gioco è più alto di qualunque cosa possa rea-
lizzarsi nel breve giro di una vita umana 51). Non è il
tempo, ma l'eternità, lo _spazio nel quale si deve guar-
dare l'esistenza dell'anima. Si tratta della sua ·sal-
vezza perenne, in questa come nell'altra vita. Come la
vita terrena del giusto non è che un'unica incessante
educazione alla vera repubblica, che è, come le Idee,
nel cielo 52); così ogni educazione è preparazione ad
una più alta vita dell'anima, in cui essa non sarà
più in quella figura in cui si accozzano il mostro dai
cento capi, il leone e l'uomo, ma vivrà nella sua forma
pura.
Non è necessario qui addentrarsi nel problema della
immortalità ed esaminare le prove che Platone adduce
per essa in questo luogo 53). Esse vertono tutte su un
punto: che se l'anima non può essere distrutta dalla
malattia sua propria, la malvagità, non c'è assoluta-
mente nulla che possa distruggerla. Platone non prende
in considerazione la possibilità che la vita dell'anima
dipenda dal corpo. L'aspetto dell'anima che gli im-
porta non è quello psicofisico, ma è la sua qualità di
soggetto dei valori morali. Come nei miti finali del
Gorgia e del Fedone, anche nella Repubblica, alla fine
essa appare avvolta nella luce superna, che cade dal-
!'aldilà sul suo destino terreno. Esaminare, di questo
oltremondo, la struttura fisica, ci è vietato dalla forma
mitica di cui il filosofo vela il rapporto dell'anima con
esso. Qui, come sempre in Platone, è difficile tener di-
stinto il gioco della fantasia artistica dalla profonda

61 ) Resp. 608 c.
~2 ) Resp. 592 b: il vero Staio èsiste come paradigma nel cielo.
53) Resp. 608 d-610 e. .
CAP. XI: LA REPUBBLICA, III [u 641] 1329

serietà religiosa che lo anima. Anche l'anima, al modo


stesso dello stato, non appare mai, nel mondo della
nostra realtà, nella sua forma perfetta. Essa emerge
per noi dal gorgo della vita tutta coperta delle impu-
rità di quello, come Glauco emerse dal mare coperto
d'alghe e di conchiglie, e come lui appare sfregiata.
e tronca e guasta dalle onde, più simile a una fiera che
alla sua vera natura 54). La sua essenza vera, la scor-
giamo soltanto se guardiamo al suo amor di sapienza,
allo sforzo supremo che essa compie per emergere dal
suo fondo, nella coscienza di una divinità e immorta-
lità che le appartiene, e questa sua essenza ci si rivela
di natura semplice e non molteplice, aliena e dissimile
dalle sofferenze e deformazioni or ora descritte in tutte
le loro forme 55).
A quel modo che nell'antica poesia greca è con-
sueto l'elogio dell'eroe e la descrizione degli onori con-
feriti a lui dai concittadini, così ora Platone fa, su que-
sto modello, una vera e propria lista delle glorie che
toccano al giusto 56). E come gli antichi poeti solevano
distinguere i premi che l'eroe riceve in vita da quelli
che gode dopo la morte 57), così ora il filosofo fa prima
un quadro degli onori terreni che il giusto riceve nella
sua città - un quadro che, naturalmente presenta
elementi in certa misura convenzionali, al fine di rie-
cheggiar chiaramente gli antichi modelli - e poi viene
a descrivere con grande ampiezza e minuzia il destino
dell'anima giusta dopo la morte 58). L'antica etica della

54) Resp. 611 c-d.


OS) Resp. 611 e-612 a.
66) Resp. 612 d. Cfr. su questo punto la mia trattazione sulla
lode promessa alla vera areté, in Tirteo:« Paideia» I, p. 183 s.
67) Cfr. l'analisi da me fatta dell'elegia 9 D di Tirteo in
Tyrtaios. Uber die wahre Areté (« Sitz. Berl. Akad. » 1932) p. 537 ss.
fiB) La parte che tratta del premio della virtù è divisa in due
sezioni, gli onori che spettano al giusto in questa vita (612 d-e)
e quelli dell'aldilà (614 a ss.). La novità vera in tutto ciò sta
1330 [n642] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

polis non aveva potuto promettere ai morti eroi nulla


di più dell'immortalità del nome, impresso sui sepolcri
e tramandato col ricordo delle imprese 59). In luogo di
ciò nella Politeia di Platone sta l'immortalità dell'anima
e, al paragone di essa, qualunque onore che la polis abbia
mai potuto escogitare diventa cosa incommensurabil-
mente meschina. La stella ·a cui gnarderà l'uomo_ pla-
tonico non sarà più la gloria di fronte ai concittadini,
come era avvenuto per tutti i secoli dell'antica gran-
dezza della polis, ma sarà soltanto la sua .gloria di
fronte a Dio. E questo fin dal tempo della sua vita
terrena, per il quale Platone antepone il titolo di« caro
a Dio» alle più alte distinzioni umane 60). Ma soprat-
tutto ciò è vero per il destino dell'anima nel millena-
rio viaggio che essa inizia dopo la sua separazione dal
corpo.
Anche nel mito :finale della Repubblica, come in
quelli del Gorgia e del Fedorie, è descritto il giudizio
delle anime dinanzi a un tribunale oltremondano. Ma
qui l'accento non batte sul modo in cui il valore del-
l'anima viene stabilito dal giudice, e neppure sulla
pena. Tutto ciò è menzionato in principio, al :fine di
significare che al giusto spetta una sorte beata mentre
per l'ingiusto si apre una lunga via di dolori 61). Ma
·l'elemento essenziale nella visione oltremondana della

nello spostamento del centro di gravità dagli onori di questo mondo


largiti dalla comunità politica, a quelli che toccano all'uomo vero,
il quale conrincia solo al di là della sfera sociale. Con tutto ciò
la mercede terrena non può essere del tutto omessa; ciò, a prescin-
dere da ogni altra ragione, è una conseguenza della perdurante
tradizione dell'etica della polis, che aveva così antiche e pro-
fonde radici, e che era stata espressa anche dalla poesia. E, di
fatto, tutto quel che Platone dice sulla posizione sociale del giu-
sto in questa vita rimane nella cerchia di pensiero dell'antica
poesia.
ss) Cfr. Tyrt. fr. 9, 3-32.
60) Il paragrafo riguardante il prenrio del giusto in questa
vita è diviso in onori che egli riceve dagli dei (612 e-613 b) e onori
che a lui largiscono gli uonrini (613 b 9-614 a).
61) Resp. 614 e-615 a.
·CAP. XI: LA REPUBBLICA, lii [rr643] 1331

Repubblica è la scelta delle maniere di vita (~(Cùv ct(pe:-


crn;) che ha luogo alla :fine del viaggio 62). Giacché le 0

anime, che sono in numero limitato, debbono, termi-


nata la loro permanenza di là, ritornare di nuovo alla
terra in nuove esistenze. La dottrina della trasmigra-
zione delle anime, che Platone accoglie qui dalla tra-
dizione orfica, gli rende possibile di interpre~e in
senso più profondo la responsabilità morale dell'uomo,
che è il presupposto supremo di ogni azione educativa.
Tutta la rappresentazione della metempsicosi egli la
configura in questo senso. Egli fa l'ardito tentativo
di conciliare la coscienza morale del·. dovere che vive
in noi, con un concetto in origine ad essa opposto,
cioè con l'antica fede greca in un Daimon, che tenga
avvinta in vincoli magici tutta l'azione dell'individuo
dal principio alla :fine.
L'idea di paideia presuppone la libertà della scelta 63),
laddove il potere del demone appartiene al regno della
necessità 64). Sono due distinte concezioni della vita

62) Resp. 617 d ss.


63) Cfr. Resp. 617 e. L'idea di scelta (cxlpe:fo.&cn, cxtpe:cnç)
in ·senso etico si trova ·presto in Platone connessa col problema
dell'agire retto (1'pi%.·t"te:w, 7tpii!;L<;). Distinto da essa concettual-
mente è l'atto della scelta politica. Nel senso etico, di decisione
interiore il concetto occorre primamente in Apo.l. 39 a, Crit. 52 c.
In questi passi è Socrate che è presentato come modello di una
decisione intima d'importanza vitale. Ma, nel valore di problema
filosofico generale, il concetto si presenta per la prima volta in
Prot. 336 e, Gorg. 499 e. Nel secondo di questi dne luoghi esso
vale come sinonimo di« agire» in senso pregnante ed è poi (500 a)
parafrasato col concetto di ÈxÀéye:a&cxt (« selezione», « elezione»).
In ambedue i luoghi, nel Prouigora come nel Gorgia, si tratta della
scelta di un mezzo per raggiungere un fine ('l'ÉÀo<;). Platone ela-
bora dialetticamente questi concetti partendo immediatamente
dall'uso linguistico. Aristotele poi su questo fondamento edificherà
la sua dottrina della volontà.
6 ') Le tre Moire sono dette figlie di Ananke, 617 c; e ciò è ri-
levat1t ancora nel responso finale di Lachesi, 617 d 6. Il Daimon
da principio appare come una forza suprema che sembrerebbe
escludere ogni libera scelta.
1332 [n644] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

umana, giustificate ambedue dentro i loro confini.


Già però dentro l'antica concezione greca, si era sempre
più venuta distinguendo dal vecchio pensiero dell'ac-
cecamento mandato dagli dei a precipitare nella sven-
tura gli uomini inconsapevoli, un altro concetto di
un'ate incontrata con piena responsabilità e coscienza.
Era stata questa, in Solone, la cellula germinale cl!- una
nuova coscienza della responsabilità, e da essa era nato
il mondo di pensiero della tragedia greca 65). Ma la
concezione tragica di colpa e pena aveva mantenuto
sempre in sé il dissidio insito in quel duplice modo di
intendere l'essenza di Ate, senza possibilità di risol-
verlo. Finché però seguitava a gravà:re sulle coscienze
l'incertezza di questa contraddizione insanabile, la vi-
gorosa fede platonica nella forza dell'educazione che
prende forma nella Repubblica non poteva volgersi con
piena certezza al suo fine. Ma questo problema dei
problemi non era superabile coi mezzi fin qui usati
da Platone della severa analisi psicologica e dell' « arte
della misura »etica. L'unica via, perciò, che gli appare
aperta è quella di proiettare nell'oltremondo la solu-
zione che egli intravede, similmente all'antica poesia,
che aveva costruito sulla propria visione del destino
umano un piano superiore e divino sul quale i problemi
dell'uomo trovavano soluzione definitiva. Una tale so-
luzione non è percepibile ad .occhio umano se non nelle
sue grandissime . linee, e non è suscettibile, di fronte
all'intelletto, di dimostrazione particolare.
Fin dal momento in cui ha affrontato la paideia
musicale e poetica antica, Platone ha combattuto il
concetto che gli dei abbian colpa dei trag1c1 errori
umani e che sogliano precipitare nella rovina intere

65) Questi concetti si trovano fondati in maniera più esau1'"iente


nel mio scritto Solons Eunomie (« Sitz. Berl. Akad. » 1926); cfr.
anche « Paideia » I, p. 271 ss.
CAP. XI: LA REPUBBLICA, Ili [n645] l333

famiglie 66). Una tale credenza, in realtà, toglierebbe


di mezzo ogni paideia, in quanto priverebbe gli uomini
di ogni responsabilità. Proprio per questo il momento
culminante dell'opera platonica è quel punto del mito
finale, dove, dopo che la poesia è stata deposta dal
suo trono, il discorso di Lachesi, figlia di Ananke, è
bandito con proclamazione solenne 67). Un. sacro inter-
prete, un « profeta » prende dalle ginocchia di lei le sorti
(che come dice Omero« stanno sulle ginocchia degli Dei»)
e i« modelli delle vite umane» (~lwv noc:poc:~dw.cx:-roc:).
Ma non li distribuisce lui ai mortali, secondo il placito
di una necessità ineluttabile; egli grida invece alle
anime anelanti alla reincarnazione: « Non sarà il de-
mone che sceglierà voi, ma voi sceglierete il vostro
demone». Una volta che l'anima si è scelta una vita,
deve prendersela e rimanere incatenata ad essa. « Virtù
non è opera di arbitrio dispotico; ciascuno ha di essa
parte maggiore o minore secondo che molto o poco
la onora. La colpa è di colui che sceglie: Dio è senza
colpa». Cosi dinanzi a noi le anime fanno la loro scelta
della vita futura, e le altre due Moire, Cloto e Atropo
confermano la scelta fatta tra le sorti di Lachesi, e
la scelta è irrevocabile.
In questa scena, mentre ancora risuonano le pa-
role del profeta, si avanza la prima anima e fa la sua
scelta. E sceglie la vita di un .potentissimo tiranno,
e i suoi lamenti contro il destino e gli dei riempiono
l'aria, non appena essa vede che peso di dolore e di
colpa si è tirata addosso quando, avida, si è gettata
su quella sorte 68). Qui appare evidente l'ingiustizia
delle sue querele. È questo l'antico problema della
teodicea che si tramanda fin da Omero, attraverso

•&) Resp. 380 a-e.


67) Resp. 617 d-e.
68 ) Resp. 619 b.
1334 [u646] LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO

Solone ed Eschilo, per tutta la poesia dei Greci 69), e


che ora si presenta rinnovato sul nuovo piano di ci-
'Viltà etica a cui si -innalza la Repubblica platonica .
.L'elemento caratteristico omerico, per il quale l'uomo
pecca non ostante la precedente ammonizione divina,
è mantenuto da Platone 70). L'ammonimento come la
scelta sono trasferiti in un unico momento decisivo di
una vita anteriore; ma l'anima che fa la scelta non è
come un foglio bianco. È passata attraverso tutto il
ciclo delle nascite e la sua scelta è determinata dalla
sua vita precedente. Platone chiarisce questo punto
con molti esempi, mostrando che molte anime umane
scelgono l'esistenza di animali, che siano affini alla
qualità e al senso della loro vita anteriore 71). Il cantore
sceglie la forma di un cigno, l'eroe di un leone, Tersite
diventa scimmia e aquila· Agamennone. Solo il molto
esperto Odisseo non sceglie una vita di gloria, di imprese
e di dolori, ma, dopo .lungo cercare trova finalmente e
si sceglie una sorte di vita nascosta, rimasta ll inos-
servata da tutti, la vita ritirata di un uomo privato.
Ha imparato che ricchezza, splendore e potenza sono
lontani dalla felicità quanto i loro contrari, e che la
vita di mezzo è la migliore 72).
L'unica scienza che abbia valore è la scienza della
scelta che fa l'uomo capace di cogliere la decisione
giusta. Questo è il senso del mito, che Platone stesso
dichiara. Il gran rischio per ognuno è la scelta della
sorte di vita, che per il filosofo significa la stessa cosa

69) Cfr. Solons Eunomie p. 73 e« Paideia » I, p. 270. Platone


formula un vecchio tema, per cui si constata che l'uomo non in-
colpa se stesso, ma Tyche o il Daimon: Resp. 6J9 c où yò:p ~ctu-ròv
otl-r,iia.&1n -réi">v xixx&v l:Ì:.ÀÀÒ: TUX7)V xixl Sctlµovix.
70) Cfr. le parole del profeta, Resp. 617 e, 619 h. Sulla figura
dell'ammonitore nell'antica teodicea greca, cfr. Solons Euno-
mie, p. 76.
71) Resp. 620 a.
?2) Resp. 620 c.
CAP. XI: LA REPUBBLICA, III (II647] 1335

che la forma di vita, l'ideale di vita. Perciò egli deve


cercare la scienza che lo rende capace di questo e tra-
scurare tutte le altre 73). Dal punto di vista di questa
conclusione si illumina in modo definitivo il signifi-
cato della paideia. Il carattere di assoluta serietà che
Platone imprime a questo compito, fino a farile l'unico
e onnipresente dovere dell'esistenza umana, deriva dal-
l'esigenza che l'uomo si prepari in questa vita con
tutte le sue forze alla grande scelta che dovrà affron-
tare di là, accingendosi dopo un viaggio di mille anni
a risalir sulla terra per una vita migliore o peggiore 7") •
Egli, ora, non è libero, nel vero e pieno senso, special-
mente se antica colpa lo grava e lo impedisce nel-
l'ascesa. Ma può lavorare all'opera della sua libera-
zione se si tien sempre alla «via che sale» 71>). Libero
finalmente sarà in un'altra vita, se qui « si adopera
con sforzo perenne».

73) Resp. 618 b ss.


") Cfr. Resp. 615 a, 621 d.
7i) Resp. 621 e 5.
LIBRO QUARTO

IL CONFLITTO DEGLI IDEALI


DI CULTURA NELL'ETA DI PLATONE
CAPITOLO PRIMO

LA MEDICINA GRECA
COME P AIDEIA

Se anche non si possedesse documento né testo


alcuno della più ~tica I~i~~~ilira ~~~:~~;~:::Gi~~
si dovrebbe pure, .!~~dando~ soltanto --~~----~~.P~~
sioni elogiative di Platone sul medico_ç__Ja.. ..s.ua. arte,.
ifungere a co~clid.ei:e___ che__ re.ii:=della ..Jin.e ..del..Y....e
del IV secolo rap-P-:r_ç~çit~~ _nçlla. s.to.ri.a, _d~~---P..r.O.fe!J­
sione medica UJ1{)_fJ.:~ ...P_ç.:t;i di. pil\. alto pre&tigi,t;t, -~
sotto il rispetto socia"J.e, _sia per__c;p,~-~ .intellettQ.ide.
!n Platone il medico app~"- ~~- UJl. -~~D:_l)O e . c~~-~ .il.
rappresentante di -~---t;l~~.a __ajt~Jllente specializ..
zata e raffinata metodicamente, e come l'incarnazione
ar-un~--i!~~~~~ll~~,·-~empl~ per q.iel_· che ·ri:·
guarda il rapporto tra il sapere_ 4'. un .fine p~tj~~etico,
-étaie-perciò ·cli~ ad esso Si fa continuamente 11pp~o
~~~~~-~ere fìd~~l! n~~~-~~~~ll~tà deJ. . ~~P~--~~!"
retico per l'edificazione della vita umana. Non si esa-
"'gèra aìceruIOClle ia:-·sCieiiZa-·eti-;;;--df"s~erate, che nei
dialoghi platonici occupa il centro della disputa, non
sarebbe stata pensabile senza il modello della medi-
cina, a cui Socrate così spesso si richiama. Que-
sta le è affine più di ogni altro ramo tra -··IJll:elli
- - - - - - - - - - - - - - ...
allora
·····=···· ·.···-·- .• ·-···
-·-·---······---·"···-~-·····-············

noti della conoscenza umana, matematica e scienze


- ..... ...._..-=<".._~.............-:-.,··-·-·-·-···· ·-· --~ ,._,.., -..-······-· ... .
1340 [m4) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

naturali comprese 1). Non solo per _questo, però, Ili:


medicina greca merita cli essere qui valutata, per e~-
_S~!e st~t~ cioè, nella storia dello spirito, gra,d.._() __ p~li­
minare alla filosofia socratica platonica e ari~!~t:~M_~~-L
bensi anche perché essa, nella forma che ragg:i~s_e__~
quel tempo, valicò per la prima volta i limiti cli _Ul1~.
mera tecnica artig:iana e si fece forza culturale, ele_~
-~nto cli guida in_t~l!~t:!~aj~~~!!l:l_.vi!a d~__ popolo
_greco. Da allora la medicina divenne sempre . ":iiih:
anche se non senza opposizioni, parte costitutiva-aena
cultura generale (&yxuxÀLoç 7tOCL8etoc), .. posizione· ·qu.e::
sta, che essa non ha più riconquistato nella cul!W-;'l.
moderna. La scienza medica del nostro tempo, nata
nell'età dell'umanesimo dalla risurrezione della lette-
ratura medica dell'antichità, pur nel mirabile grado
cli sviluppo a cui è g:iunta, non somiglia più in questo
alla sua antica madre, chiusa com'è nei limiti severi
della sua specifica competenza 2 ).
_'.l'ale J!?..IS~!im~~to della medicina nel corpus di cul·
tura generale della tarda antichità ci appare comple-
tamente attuato, per il mondo greco, sopra tutto in
Galeno e, nell'ambito romano, nell.~ .. op~!e 5< e~~i~~o~-.
c#che » di tre scrittori, nessuno dei quali fu me~jç_Q_,
Catone, V arrone e Celso 3)~ Ma in tutto_ ci~ non .à...da
vedere che il riconoscimento tardivo cli quella po!!Ì·
zione cli primo piano nella cult;ura cheJ~ __meclicina,
s1 era conquistata ben prima, cioè dura11te ..e. dopo la

1) Cfr. « Paideia » II 49.


9 ) Anche le note opere di storia della medicina di Hecker,
di Sprengel-Rosenbaum e altre mostrano questa tendenza a
limitare il campo visuale, in quanto non si occupano della posi-
zione della medicina nel complesso della cultura greca ma si li-
mitano a esporla nel suo contenuto dottrinale. E la ricerca filo·
logica sulla storia della medicina in genere ha seguito questa via.
3 ) Sulla posizione della medicina nel sistema culturale elle-

nistico cfr. i« Prolegomena» di F. MARX all'edizione di A. Cor·


nello Celso, !?· 8 1.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [Il!S] 1341

seconda metà del V sec. Pe!___p..i~--!'...l!gioni e~E!a ...pQté


conqwstarseia;--:~:Jn prirrw lu()go perclté,_ per ... (el_ic~.
~untura_,_ _fu quelloil primo ~~mento deUa .. sµa
S!O~~-i!!.._ cui. trovò . cultori . di vastità universale d'ip,:""
telletto __tal(l_ga segnare molto in alto, anche pe~ _i_
temp(avvenire, la misura -del suo livello. Tn séc~ndo
ju:ogo- I;as..c,e.sa... della medicina -ebbe le sue radici ;nel·
~~~i!t~_feQ0_11dp con la filosofia, -~~~__ y_als~--~ __!~I~
chiara consapevolezza di metodo e ·la r~se cap.11çe__ di
cl~~()~;~~j~-~s~~essi~~~-~la~sjc; ~- _p_~fit~a del. çQ!}ç_ett-0
di scienza a lei proprio. Ma non ultima ragione di que-
aìa:-ascésa- -f~ ii -:f8.ti~ che la cultura greca erB: s~ata
I fin--dalle---0rigint··unto•·f0rriiailone-·aer corpo quanto I
\d~Jr_aJ!_i_ip._a.... Il che, fin dai te~pi più antichi, fu at~ -/
\~uato ed espresso nella concezione della coppia, gin-
nastica-musica, che costituisce la somma della più an-
tica cultura greca. Il segno dei nuovi tempi è solo
questo: che ormai, ogni volta che si parla di educazione
fisica, al maestro di ginnastica si affianca regolarmente
il medico 4 ) come analogamente, in campo intellet-
.tuale, il filosofo si pone in posizione dominante accanto
al poeta e al musico. Abbiamo già seguito in tutte le
sue fasi da Omero in poi,· lo sviluppo della educazione
ginnica, in quanto gli ideali che l'animavano presero
via via forma nella grande poesia e si conquistarono
il loro posto nel gran quadro dell'esistenza umana.
Diversamente dalla ginnastica. la medicina produsse
presto una letteratura sua propria che ci dà oggi la
chiave della sua essenza e su cui poggiò la sua effi-
cacia di forza culturale del mondo. E questa lettera-

') Esempi di ciò (che si potrebbero moltiplicare): PL Proz.


313 d, Gorg. 450 a, 517 e, Soph. 226 e, 228 e, Polit. 289 a; cfr.
specialmente Gorg. 464 b. Sul connubio di medicina e ginnastica
nella persona di Erodico di Selimbria v. PL Resp. 406 a.
1342 [m6] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

tma c'insegna che, non ostante la lode che Omero 11)


tributa all'arte del medico,« colui che nell'opera egua-
glia molti uomini insieme», la scienza medica è con-
quista dovuta solo all'età del pensiero razionale.
Al suo pri_m9__ «:!_!1~~!'~-1u~ll;i. storia della cultm-A.~,ç.!!
la_ '.!lledicina rappresentò pi1ittosto la parte di chi _rj:;
ceve
........ · . . che
. . quell~
. . di chi - dà~ ..•.Serve
- . . . ottimamente
. . .. . . . . .. ~
-- fi~;are
.......... ___,._.
,.~

la sua posizione intellett~ale il constatare che tutta


la letteratura medica dei due secoli classici, p~;~_:<ri:_~
che ne è conserv~to in opere intere, è scritta_ 4i prg1H!.
ionica. E questo non si spiega se no~ m. __
JJli.!!~~~­
parte coi luoghi della sua nascita, in quant,o -~C:l~-!Ht
delle o_pere conserv:ate derivino, -verisimilmente, . d.alla.-
Ioni!!,,.,. Lo stesso Ippocrate insegnò e visse non nella
Ionia ma a Cos, isola di popolazione e lingua dorica,
e il fatto che egli e la sua scuola abbiano scritto in
ionico - e forse anche lo parlavano nei rapporti scien-
tifici - si comprende soltanto se si considera l'influenza
della superiore ) cultura e scienza ionica •.~S.e_mpre e
o.VUnque ci sono stati medici; ma l'arte sanit;fia deC
Greci è diventata arte ~e_~cidi___?_ame~~e_1:_ciiì~~pe;--;,1c;-s;(
tanto per lefficacia _es~:i:ci!!!_a _ _ su di lei <!a}!~__!ì_losofìa
ìO:-::r:li?a___de_ìi_~_ ~at,ura. Questa verità no~-~
minimamente messa ___ in_ ombra in ç_onsi~~E3:_~_o:i:i-_e__~~-
]' atteggiamento dichiaratamente antifilosofìco della
scuola ippocratica, -a cui appartengono le prime opere
della medicina greca che noi incontriamo 6).__ S~nz_a _l() ___

') A 514.
1 ) Cfr. p. 27. In altri tempi, anzi, la storia della medicina
si faceva cominciare addirittura con Talete, conforme alla teoria
di Celso (I prooem. 6), secondo cui la scienza universak, la filo-
sofi.a, comprende originariamente in sé tutte le scienze partico-
lari. Questa è, certo, una romantica costruzione storica di età
ellenistica. Ai suoi primordi la medicina era stata arte puramente
pratica, che però fu poi improntata a fondo dalla nuova visione della
natura dei :filosofi. ionici. Gli inizi della letteratura medica a noi
giunta coincidono col momento di reazione a questa influenza.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m7] 1343

sforzo __fil__ri~.J'CS._ dei__ più _.~tichi · filosofi naturalisti


-iQiilCL_v..o..lto a ~~!?p!!!e ~a sp_~eg:~~l,)IJ.e « '.!'la:turale.>~ di.
. ogni fenomeno, senza il loro tentatÌV() ()i ricondtm:'.e
ogni -;ff~tto_a_una cau.Sa-e . di. ri:veiare nella catena di
cause-'è'd~éffetti .Un òrfu~ mu~~rsale e necessario, senza
dt.
·, ·1;---1~;0-fi..i~~ii_Jn~!.2R@i.l~· .. poter .. penetrue .. tutti .. i.
~~ti-del mondo attraverso ..l'impregiudicata . osse:r:-
vazione dell;cose·-.,, per. forza di conoscenza r~<m.l!le,
18.-medicma· non sarehh~- ~ai divenuta scienza. Da
quaienetempo Si legg~-~~ ~;ri~ ·di ~~~'t~ del-~ollegio
medico della corte dei Faraoni egiziani, risalente al
terzo millennio a. C., e non si può, senza stupore
e ammirazione, considerare a qual grado di forza di
osservazione quei medici avevano potuto elevarsi. Si
scorgono già in essi notevoli spunti di generalizzazione
teoretica e di un pensare per cause ed effetti 7). Non si
può a meno perciò di domandarsi perché una me-
dicina già così sviluppata non divenne scienza, nel
senso nostro. Non fu certo il senso della netta specia-
lizzazione o la vastità della pratica quello che mancò
a questi medici egiziani. La soluzione di questo pro-
blema è molto semplice, e consiste nel constatare il
difetto di una considerazione filosofi.ca, universale,
della natura, quale fu elaborata dagli Ioni. Certamente,
come oggi si è in grado di riconoscere, già la medicina
degli Egizi era riuscita a innalzarsi al di sopra di
quella pratica d'incantagioni e scongiuri che era an-
cora viva nell'antico costume della madrepatria greca

7 ) Cfr. JAMEs H. BREASTED, The Edwin Smith SurgU:al


Pa.pynu published in Facsimile and Hieroglyphic Transliter-
ation, with Translation and Commentary, 2 voll., Chicago 1930,
e ABEL REY, La. Scien.ce Orientale avant les Greu (Paris 1930)
p. 314 s. Per la letteratura esistente sul problema del carattere
scientifico o no della medicina egiziana, v. M. MEYERHOF, Ueber
den Papyrus Edwin Smith, clas alteste Chirurgiebuch der Weh,
« Deutsche Zeitschrift fiir Chirurgie», voi. 231 (1931) pp. 645-690.
1344 [III8] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

al tempo di Pindaro. Ma solo la medicina greca poté,


alla scuola di quei pensatori di leggi un.!versa1i che fu.
rono i filosofi suoi precursori, elaborare un sistema
teoretico su cui un vero movimento scientifico potesse
appoggiarsi.
Già in Solone, cioè nel raggio d'azione della cul-
tura ionica, s'incontra una percezione del tutto obbiet·
tiva della legge che governa la malattia, del legame
indissolubile che stringe le parti col tutto, la causa
con l'effetto, una percezione che, in questo grado di
chiarezza, era possibile allora soltanto nella Ionia. E già
in Solone questa raggiunta verità costituisce il pre-
supposto evidente della sua concezione organica delle
crisi politiche, come di disturbi fisiologici nella vita
della comunità sociale 8). Nel carme delle ebdomadi,
dove egli riscontra nella successione delle età del-
l'uomo una ritmica regolarità, assegnando a ciascuna
un periodo di sette anni, Solone, nel VI secolo, fa
trasparire già una tendenza che si ritrova poi in testi
assai più recenti appartenenti al corpus ippocratico,
come il trattato Sulle ebdomadi e altri, la tendenza a
ricondurre l'ordine e la legge a cui s'informa la vita,
a similarità di rapporti numerici, come faceva il suo
co·ntemporaneo Anassimandro di Mileto nella Cosmo·
logia e come più tardi farà, con la sua scuola, Pita-
gora, anche lui proveniente dalla Ionia 9 ). Anche il
concetto di qualcosa che « conviene» a ciascuna età e

8) Cfr. « Paideia » I 265 es. ..


9 ) Per le triadi di Anassimandro v. « Paideia» I 295. Teorie
fondate sul numero sette sono rappresentate nel corpus ippo·
cratieo. De hebd. e. 5, De carn. cc. 12-13, e poi svolte sistemati-
camente .in Diocle di Caristo fr. 177 Wellmann (un estratto in
latino, conservato in Macrobio). V. ora la versione greca in W. JAE·
GEB. Vergessene Fragmenie des Peripatetikers Diokles von Kary·
stos («Abh. d. Berl Akad.» 1938) pp. 17-36, con le mie osser-
vazioni sul significato delle teorie dei periodi e dei numeri nella
concezione greca della natura.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [rn9] l345

alle sue forze compare già in Solone, s'incontra anche


più tardi a base della teoria medica della dieta lO).
Un'eco di quella teoria filosofica secondo cui in ogni
fenomeno naturale si esprime una sorta di stabile com-
pensazione, un equilibrio di diritti delle cose tra loro
è il concetto, che così spesso ritorna nella . medicina,
nelle spiegazioni dei singoli processi :fisiologici e pato-
logici, del compenso come indennizzo o come retribu-
zione 11). E con ciò si collega strettamente l'idea del-
l'isomoiria, secondo la quale lo stato sano e normale,
dell'organismo o dell'intera natura, consiste in una
eguaglianza di rapporti tra gli elementi fondamentali
che li costituiscono, idea che troviamo particolarmente
esposta dal medico che compose il trattato Sulle arie,
le acque e i luoghi, e ·che, nella sostanza, s'incontra con-
tinuamente anche altrove 12). Su altri concetti fon-
damentali della medicina greca, come il concetto di
mescolanza (xpiio-r.ç) e quello di armonia, riman dub-
bio se essi siano da ricondurre alla filosofia della na-
tura, o se piuttosto, inversamente, sia stata la filo-
sofia a riceverli dal pensiero medico.
Ma il punto s11. ~~ no:n rimane nessun dubbio è_

10) Cfr. Sol. fr. 14,6 e 19,9. Sul concetto del« conveniente»
(&pµ6nov) nei medici greci v. infra, p. 71 e il mio libro Dio-
kles von Karystos: Die griechische Medizin und die Schule des Ari-
stoteles (Berlino 1938) p. 4 7 ss.
n) Per nµrop[a. e nµrope:iv v. p. es. Hipp. De victu acut.
cc. 15, 17, 18. Galeno nel commento a questi luoghi e Eroziano
s. v. . TLµropfouaa. spiegano questi vocaboli come f3oi).&e:ta.,
(301)-9-e:iv, certo esattamente; pure è ovvio il legame con concetti
della antica filosofia della natura come 3Cx7J, Ttaiç, &µoif3ii:
la causalità nel dominio della natura è interpretata, sull'analogia
delle relazioni giuridiche, come compensazione (cfr. « Paideia » I
299 ss.). « Si deve venire in soccorso (nµrope:iv) secondo il
potere a cohri cui è fatto torto». Così Democrito fr. 261. Anche
(301)-9-e:iv ha senso giuridico, come ora si vede.
12 ) De aer. c. 12: il dominio dell'uguaglianza (isomoiria),
e la mancanza di violenta sopraffazione di una singola forza co-
stituiscono qui l'essenza della buona salute. Cfr. anche De ve:.
med. c. 14.
1346 (III10] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

~-~- c~~-rj,~~!J.-~- il_~()JJ.cen9__s1~~so __m ..M:tur.B_(cpootc;),


il concetto dominante. Già qu~do .sLè t;ratt_at.o __q~i.§o­
fisti e della loro teoria educativa, abbiamo iJtdic~
qual senso profondamente innovatore abb~a .aY!!_!_°-j!
concetto di« physis)) umana posto a base del_p!'~~~~~2
educativo 13). Lo stesso concetto si trovò in '.['ucicli_c;l~
e si vide come il suo pensiero storico scatmisca. ...~~­
presupposto di una« natura umana» che rim8.Ilg~_.c!>,­
stante, nelle linee essenziali, in ogni tempo 14). In que-
.sto
.
punto, come spesso
---··· ----·.,-··· -····
altrove,
-· .. -- ________
tanto i Sofisti che
···-··· ·········· .............._,

TU:cimae subiscono la suggestione della m~dicwJL~!m:.


temporanea che elaborò e tenne costantem!'1:1t"' _! -~~~
il concetto della « natura dell'uomo» (q:hrtc; TOU h-
-&p Ùl7tou ). , Ma la medicina a sua volta propri~_ in~­
sto punto dipende da quel concetto deli;; g.;.~~~ .!.!9-'.:
sis, della natura dell'universo (cpuatc; TOU 7t«v-r6ç), che
era stato svolto dalla filosofia ionica. Ed appll,!l_~=:ii[
trattato Sulle -tirie~ le acque e i luaghi, e subito nel-
-l'introduzione, · iiova · esprès-sione inagnifica-~_9:u.~~o=~
game di dipendenza del pensiero_ mediç(l_P~C>Pii~ -~e!!_a
letteratura ippocrati~ con la considerazione della ~B=..
tura come totalità. «-Chi vuol bene iD'lp~~- ;rt~- del ..
medico, deve comportarsi così: prima di tutto aver
sempre presenti le stagioni e gli effetti di ciascuna; ché
esse non sono uguali tra loro, anzi del tutto diverse, Sì
nella loro specifica qualità, che nei modi di trapasso del-
l'una all'altra. Deve poi osservare i venti caldi e freddi,
prima -quelli comuni agli uomini di tutte le contrade,
poi anche quelli caratteristici di ognuna. E deve anche
considerare gli effetti delle varie qualità d' acque. Come
queste differiscono nel gusto o nel grado di gravezza,

« .Paideia » I
11) 525 88.
H) « ·Paideia » I 652 ss.; su Tucidide e il suo concetto di
causa derivato dalla medicina, ib. p. 658; sul suo atteggiamento
di diagnostico, ib. p. 670.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m 11] 1347

così anche nei poteri. Quando il medico [che qui,


come era usuale a quel tempo, è visto come medico
vagante] arriva a una città che non conosce, egli si
deve prima di tutto dar ragione della posizione di
essa di fronte alle varie correnti d'aria e di fronte al
punto del levante... e cosi pure delle condizioni delle
acque... e della qualità del terreno ... Quando conosce
la vicenda delle stagioni, e pertanto del clima, e i
momenti del levarsi e tramontare degli astri ..., egli
sarà anche capace di prevedere di che qualità sarà
l'intero corso dell'anno.... E se questo modo di pen-
sare sembri a taluno troppo da filosofo naturale, costui,
se è di quelli che possono apprender qualcosa, avrà
modo di persuadersi che l'astronomia può aiutare in
grande misura la medicina. Difatti negli uomini le
malattie mutano col mutarsi della temperatura». Quello
che rende un suono d tanta elevatezza intellettuale
in questo modo di concepire il problema della malattia
è il senso della totalità. L'accidente dell'insorgere del
morbo non viene isolato e osservato come problema
particolare; ma è l'uomo colpito dalla malattia il punto
a cui l'autore rivolge il suo sguardo sicuro, l'uomonella
totalità di natura che lo contorna, con le leggi uni-
versali che la governano e con le sue qualità partico-
lari. Ed è questo stesso spirito della filosofia naturale
milesia quello che parla nelle memorabili parole del
trattato Sulla malattia sacra (epilessia), affermando che
questo morbo cosiddetto divino non è né più né meno
divino di tutti gli altri e procede dalle stesse cause
naturali degli altri. Tutti sono divini e tutti umani 15).
Non c'è un campo nel quale il pensiero base della in-
dagine presocratica, il concetto di physis, sia stato ap-
plicato in maniera tanto feconda e tanto sia stato eia-

16) De morbo sacro cc. 1 e 21.


1348[rn12] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

borato, quanto nella teoria medica della natura cor-


porea dell'uomo. E questa a sua volta doveva farsi,
anche per tutte le applicazioni dello stesso concetto
alla natura spirituale dell'uomo, indicatrice di nuove vie.
Durante il V sec. il_!~O.!!~ t;r_!!.__!ìlo~~~.!......!!.~t.w:~le _
e medicina comincia a mutarsi:_ i 1ì,l()13_0J!,_.~Q!!!_Vnas-_
sagora e-Diogene di Apollonia, O.al canto 14.>.!2· ~~~?lgo~.!>
nei loro sistemi di pensiero scoperte mediche, fi~~~l.()~-­
giche specialmente, oppure sono addirittur~ 1nedjci essi
stessi, come Alcmeone, Empedocle e_ Ippon,~Lt~iiL~..
tre appartenenti alla scuola greco-occidentale. D'altro
lato questa fusione d'in:teressi non mane~ di-ri_p;;;;~;;~­
tersi sui medici, i q1lali accolgono in parte. dai fil~~~fi,'
come fondamento di proprie dottrine, le teori~ di'fi~i~a­
sistematica di quelli, il che si osserva negll-scriitf"èO-
siddetti ippocratici •. Cosi ad un accostam~JliP. ini~d;
mente fecondo di due così diverse forme di conoscenza
dellà--natura segue un periodo ~- iil~~_i~~i~fa. inva:.. .
--denza scambievole, nel quale i co~ni . iaj.nacç~<1.110 di
.. dileguarsi. Proprio in questo momento di peric~lo p~~
l'esistenza indipendente della medicina ecco apparire
la più antica letteratura medica dei Greci che ci sia
conservata.
Non si può a meno, a questo punto, di toccare
brevemente il problema filologico che questa lettera-
tura costituisce per noi. Tanto il fatto in sé che una
cosi notevole massa di scritti si sia conservata, quanto
la loro forma stilistica e infine le condizioni particolari
della loro trasmissione, indicano chiaramente il le-
game che unisce questi scritti alla pratica professio-
nale e dottrinale della famos_a scuoi~ ..lll~Cli.ca .c:he. ~l:)h,_ç
sede nella piccola isola di Cos. R . fi~r.i.:!"e_ ~_ella ~~-~
comincia alla metà del V sec. e si collega. col. no_1Il~..4rl
capo, lppòciate, che già per Platone, al _p_rinJ:!ip!!LJkl
IV sec., impersona senz'altro la mediciJ!;l_, _ç()me _f o.Ji~
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m 13] 1349

~t_2..-.o..Fidia larte pl~tj~a .e.cl.è anche pe:t A.ri_stotele


l'esempio perfetto del gran medi~o_ 1 ~)_. Ancora cen-
t'anni dopo la scuola può vantare come capo un uomo
dell'importanza di Prassagora, il creatore della dot·
trina della pulsazione. ':J:'utto quello che di integro si
possiede della letteratura me"<lica.élel V e IV sec. a. C.,
pona;-senza eccezione, il nome di Ippocrate e ci è
ttama:Ildato fin dall'antichità nella forma di un orga·
mco corpus letterario. È impossibile che gli scritti di
questa· raccolta, più volte in contraddizione tra loro
e perfino in espressa polemica, risalgano tutti allo stesso
autore, cosa che la moderna riceréa scientifica ha am-
plissimamente dimostrato, e che era già noto alla
filologia ippocratica dell'antichità. Questa filologia,
come avvenne per Aristotele, crebbe parallelamente a
quella rinascita spirituale che toccò a questi due grandi
maestri in età ellenistica e continuò a esistere finché
la cultura greca, e nell'ambito di essa, la scienza me·
dica, rimasero in vita. Ce ne danno un'immagine i
vasti e dotti commenti di Galeno agli scritti di Ippo-
crate e tutti quei lessici ippocratici, quegli scritti ese-
getici che ci son giunti frammentari o interi dalla tarda
antichità. Ma se tutta questa attività impone rispetto
per il sapere e la pratica perizia che vi si rivela, non si
può, però, che rimanere scettici di fronte all'eccessiva
fiducia che anima questi dotti, di poter riscoprire il

18) L •. EDELSTEIN, in Ile:pt àépCr>v und die Sammlung der


hippokratischen Schriften (Berlino 1931) p. 117 ss., nota e.on ra-
gione che Ippocrate non era ancora per Platone e Aristotele quella
infallibile autorità che fu poi per l'età di Galeno. Però sembra
a me che l'Edelstein vada troppo in là in senso contrario, quando
cerca di dimostrare, con acutezza ma non senza sforzo, che i noti
luoghi di Platone (Prot. 311 b-c, Phaedr. 270 c) e di Aristotele
(Pol. VII 4, 1326 a 15), pur esprimendo grande considerazione
per Ippocrate, non lo pongono però più in alto di altri medici.
Ippocrate è - non ci può esser dubbio su questo punto - già
per Platone e Aristotele la personificazione stessa dell'arte medica.
1350[m14] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

vero Ippocrate di dentro la massa della letteratura


ippocratica. Sempre più piccolo si è venuto facendo
il numero delle opere che la critica moderna ha cre-
duto di potere isolare dalla raccolta per attribuirle
a Ippocrate, e la schiera è venuta sempre variando di
consistenza e qualità, a seconda che si scegliesse, per
ascriverla a Ippocrate, questa o quella tra le diverse
tendenze mediche distinguibili nel corpus.· Sembra cosi
che la rassegnazione ad ignorare debba essere .il frutto
finale di tutta quell'enorme misura ·d'industria e di
acume che si è spesa in questi tentativi 1 7).
D'altro canto la grande, esuberante copia di ma-
teriale contenuto in questa raccolta ippocratica ha
fatto si che, nel tentativo di scoprire l'Ippocrate ge-
nuino, il quadro complessivo dell'indagine medica nel
periodo classico del pensiero greco abbia acquistato,
al di là del proposito degli studiosi, in complessità e
precisione. E sebbene questo quadro ci si offra solo
a grandi linee, esso è tuttavia di un interesse sommo,
giacché, al posto di un unico sistema di dottrina, ci
presenta in atto lo sviluppo di tutta una scienza, in
tutte le sue ramificazioni, in tutti i suoi conflitti. Si
è fatto chiaro ormai che quel che si possiede col nome
del maestro di Cos non è mai esistito nel commercio
librario del suo tempo come l'edizione corrente delle

17) Il più recente tentativo critico di determinare quali degli


scritti del corpw siano da assegnare alle prime generazioni della
seuola ippocratica (il saggio di K. DEICBGBABER, Die Epidemien.
un.d da& Corpus Hippocraticum. « Abh. d. Berl. Akad•. » 1933)
prende le mosse dalle parti più antiche, in qnalche misura data-
bili, delle Epidemie. L'autore rinunzia ad attribuire scritti allo
stesso Ippocrate. Mettendosi con prudenza su questa via è pos-
sibile che si giunga a qualche resultato relativamente sicuro.
La cosa essenziale è di raggiungere un intendimento pieno delle
opere a. noi giunte, rispetto alla loro forma lingnistica e meto-
dico-intellettuale: un compito che, si può dire, non è stato ancora
affrontato.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m15] 1351

sue « opera omnia», ma è la « Summa» di tutto ciò


che i fifologi alessandrini del III sec. a. C. trova·
rono superstite della vecchia letteratura, nell'archivio
della scuola medica di Cos, quando si accinsero a sal·
vare per la posterità l'eredità di Ippocrate, come quella
degli altri classici. Appar chiaro che queste ca11:e non
si presentavano affatto come un materiale ordinato
e vagliato. Accanto a scritti che erano stati pubbli·
cati o, in ogni modo, destinati alla pubblicazione, si
trovavano copiose :raccolte di materiale grezzo o, anche
se di materiale elaborato, :raccolte non destinate però
a scopo letterario ma solo all'informazione e allo -stu·
dio degli specialisti. E c'erano perfino opere non pro·
venienti dalla cerchia medica di Cos, il che è natu·
ralissimo, giacché la scienza sarebbe ben presto giunta
a un punto morto e all'inerzia, se quei dotti non si
fossero occupati dei pensieri e delle scoperte altrui.
Che opere come queste si siano trovate mischiate con
quelle della cerchia ippocratica e che i lavori degli
scolari non siano stati accuratamente separati da quelli
-del maestro, è cosa che si spiega con la qualità di un
lavoro di scuola, con l'impersonalità obbiettiva che
di esso è propria. E del resto era ben noto a ognuno,
nell'ambito della scuola, quello che l'altro pensava.
Lo stesso fenomeno :riappare, seppure in una misura
minore che per Ippocrate, anche nelle raccolte di
scritti di fondatori di scuole filosofiche, come Platone
e Aristotele 18).
_!!_-~~gi~~P-.!9-~> ip,p_oC<,r:i,.t}~~2.--t:'.'1~ "~gni asp~~!~

18 ) Su questa comunanza, nell'insegnamento e nella produ·


zione, all'interno delle scuole scientifiche v. il mio libro: Studien
::ur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles (Berlino
1912) p. 141 ss., e HENRI A.LLINE, Histoire du texte de Platon (Pa-
rigi 1915). A falsificazioni coscienti, come le suppone M. WELL·
MANN, « Hermes » LXI 332, non si può assolutamente pensare
neppure nel caso del corpus ippocrateo. Cfr. n. 21.
1352[rn16] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

all'ammissioii.e n~~~_cuola doveva pronunziare, con,-_


. tj_l'.'~e ~a i'_l!hr~ l'impe~o solenne a mantener segret,a_
.la dottiii!ll~ Qu..esta normalmente passava dal pa<lre _aL
figlio, . succ.essore
- .
del paìiré nèll'esercizio dell'arte. Per-.
-
.!anto l'estraneo, una volta ammesso come scolaro, _':~:­
niva a prendere in qualche modo la qualità di figlio;
,e ~i capisce così come si obbligasse, dal c~n.!o s_ii,i~-~­
insegnare. gratuitamente larte ai figli del suo maes°-'.~!,.
se questi morisse 19). Caratteristico è anche che lo
scolaro prendesse moglie nella famiglia del maestro,
come un apprendista artigiano in quella del maestro
di bottega. Di Polibo, genero di Ippocrate, si sa per
esplicita tradizione che fu medicò anche lui. Ed è
lui per l'appunto l'unico membro della scuola di Cos
di cui Aristotele faccia, per caso, una menzione pre-
cisa e nominale, citandone una descrizione completa
del sistema venoso, che poi si ritrova in una delle
opere più famose del corpus ippocratico 20). Quest'unico
elemento basta -a gettare un vivo raggio di luce sul-
l'intera raccolta. Sebbene proprio al tempo di Ippo-
crate, la personalità del singolo grande ricercatore già
venga ad emergere anche nella medicina, come da
molto tempo era avvenuto nella poesia e nell'arte e

1•) Vedi il «giuramento> nel Corpus Meclicorum Graecorum


(CMG) I 1, 4.
90) Arist. Hist. an. III, 3, 512 b 12-513 a 7; cfr. Hipp.
De nat. hom. c. U. I più dei moderni ricercatori sulla base della
concordanza di questa parte con l'estratto di Aristotele da Po-
libo, attribuiscono a Polibo stesso l'intero trattato ippocrateo
Sulla natura dell'uomo. Nell'antichità le opinioni degli studiosi
ippocratici erano divise. Galeno, nel commento a questo trattato
(CMG V 9, 1) p. 7 ss., considera autentici di Ippocrate i capp. 1-8,
in base al concetto di cui è convinto, che fa teoria dei quattro
umori. sia il segno distintivo dell'Ippocrate genuino. Per il resto
dell'opera egli non è disposto a riconoscere come autore nep-
pure un medico così vicino al maestro come Polibo. Per Sabino e
per la maggior parte degli antichi esegetiTautore è Polibo (cfr.
Gal. Zoe. cit. 87).
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDE!A [rn 17] 1353

come da sempre nella filosofia, pure la solidarietà di


corporazione dei medici è ancora così forte che I' af-
ferm~~on!' della paternità di certe idee e dottrine
non è ancora usuale nella pratica professionale. La
sede in cui dapprima il medico ricercatore cominciò
a esporre opinioni personali in proprio nome, fu, ma-
nifestamente, la lezione o conferenza dinanzi a un
la~go pubblico; di tali conferenze più d'una ne ab-
biamo tra gli scritti di Ippocrate. Ma neppure per esse
ci sono stati conservati i nomi degli autori. Quanto
ad opere di altre scuole, è vero che le « dottrine di
Cnido », che rappresentano le concezioni della più an-
tica scuola medica di Cnido in Asia minore, fiorita
anch'essa per secoli, sono citate in un trattato ippo-
cratico 21 ); ma il tentativo di ravvisare e dimostrare
in trattati conservati l'espressione autentica di un'al-
tra scuola non è finora riuscito. Negli anni intomo
al 400, era ormai cosi larga, anche nella scienza, la
possibilità di manifestazione di opinioni individuali,
che a noi non è consentito, per ogni deviazione che
si riscontri dalla linea delle dottrine di Cos, di usarla
senz'altro come argomento per la ricostruzione ipo-
tetica di una scuola diversa. Ciò nonostante, almeno
il fatto dell'esistenza cosi di una scuola medica asia-
tico-cnidia, come di una occidentale-sicula 22) è ormai
per le ricerche- dell'ultimo secolo, sicuro, per quanto

11) Cfr. De 1rictu acut. c. 1, dove è citata una nuova e uii-


gliore elaborazione (ol 6anpov lha:axe:uiiaa:vn.;) delle teorie
di Cnido· (Kv(1ho;L yvooµa:L). Questo libro, quindi, come le
Epidemie di Ippocrate, ·era non già opera di un singolo, ma del-
l'intera scuola.
22) V. -J. ILBERG, Die À~tieschule von Knidos («Ber. Sichs.
Akad.» 1924) e più recentemente L. EnELSTEIN, op. cit. p. 154,
il quale limita notevolmente il numero degli scritti « cnidii » del
c~rpus. Inoltre MAX WELLMANN, Die Fragrnente der sikelischen
Àrtie (Berlino 1902). V., però, il mio Diokles von Karystos (Ber-
lino 1938).
1354[m18] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

lacunosa rimanga, per difetto di materiale, la cono-


scenza delle dottrine. La novità assoluta della lette-
ratura medica nello svol~~:nt~-fut~ll~tf,~~J.Ì.~.(iP.~~:
greco consiste in questo: che essa, a _dispetto._ .deL~g,_
carattere di dottrina trasm,e$$a per insegname:nJ;o__ c1-!:.
. retto, non si rivol~e, come la _filosofia- e_ l,a P!>e.l'.~--~•-2~
solo in piccola parte si rivolge, agli uomi~_:i:ii, gç_nerale.,._
L'apparire di questa letteratura è anzi l'esempio più
rilevante ·w-un·· felìomèno· storie~ ·-;;1..; di qui in poi
rièiri~~erà sempre più -fa nostra' attenii;;~~-;- il c;;.
scente tecIÌicismo in ogni lat'o della vit;--e-J.;-differen-
ziazione di professioni particolari, per le quali si fa
necessaria una formazione speciale di alte esigenze in-
tellettuali ed etiche, accessibile, perciò, solo a pochi.
È significativo, che negli scritti dei medici si parli
illolto -di « profani » o « laici» e di « uo:rnini - della pro-
fessione», distinzione gr,ave di. c~nsegue~ii_'~!i._e CJllÌ
s'incontra per la prima volta~ ~~~_]!{l;r-9le__ g~i::.
:r:riaaj~Ji.e._ -~ di alcune__]i~gue romanz~- (laie, layman,
«laico» e il nostro più usuale« profano») sop«;»_~~~~~­
dalla sfera religiosa (laie, laico, deriva dalla sfera
~cciesiastica - ~edievale e designa in origine chi non
è chierico e per allargarsi poi a significare « non ini-
ziato»; « profano» significa appunto « non iniziato»),
il greco «idiote~» _è preso dalla vita _P~!-~~o-sociale, _
o
_e indica l'u()1IlO che non_ serve, - in_ q~~~~J,1-~~rve,
allo sta.to e _alJ_;,t __c9m,uni.tà__u:i;p,l!J!!h m_I!_ attend~-.JLmoi
privati affar.i e__ ;ittiv.ità. In opp.osizione._,a_ciQ.,_j!__medico _
èoncepisce se stesso come « demiurgòs », nome che
--ae1-·:resto spetta a_ ogni ~~gia.!l:o:__ijr:'~_liil:éçii_e. facc!i,
·sé-àrpe o utensili, cioè come esercente un'attività in
s~~g!_Q~-~~l_ p~~-l~cC). Come oggetto dell,-~tti~tà- arti-
giana del medico i profani sono anche spesso chiamati
semplicemente« appartenenti al demos» (8'YJ[L6"t"a:t). La
-~e~~~~~3:zi~n~--~!,_« demiurgo» abbraccia in modo evi-
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [lii 19] 1355

dente i due aspetti della professi~1!~1!!~clica, il sociale


e il teclliCo, mentre il s~~~o ionico titl~olta usàto
(diffl~il~~nte traduciliife)ie Lp<ivocç ne_rl!~_y;;~i~!·a~p-~~t~­
~1!_a1~ _23)_. ç_~~Uo che ID.~~ç~ al greco è un~ parola
che_ designi nel medico la superic_irità di livello della su~
alJ.!_li~ e lo f;li_st;ingua ciall'artigia:n,!) manuale nel Il.9"'
stro senso; né è altrimenti pe1'. !~~ii1ta. delle arti figu~
;anve:--foveèe non è senza riecontro nella medicina
,g;~c;-il :l'.lostrÒ m:odo di paragonare l'e~erto- d~ll;~e
;1•uomo--comune all'iniziato e ai non iniziato, coine ap-
parè' ii.elle belle parofo di chiusa 24) del « Nomos » ip-
pocraffò: « Le ~c=;3;;-sacre- si rivelano solo a uomini con-
sacrati; scoprirle ai profani è vietato prima che essi
siano stati iniziati nei misteri dellà conoscenza ». Que-
sta metafora religiosa, di due classi di uomini separati
dal rigido confine di una scienza arcana accessibile a
pochi, non solo eleva l'importanza dell'uomo dell'arte
dal lato tecnico o socia1e, ma gli conferisce una di-
gnità nuova e più alta. Un ta1 linguaggio solenne è te-
stimonio eloquente dell'ethos elevato, dell'a1ta coscienza
di sé della classe medica e, se non di Ippocrate in
persona, almeno di un uomo che sentiva la qualità
preziosa che un'approfondita conoscenza della natura
aveva immesso in quella classe. In ogni caso quella pa-
rola rivela che la posizione di orgoglioso isolamento
del nuovo tipo di medico nel complesso della società
aveva costituito un problema.
Nella re_alt.à. delle~cQse la_.nuova scienza medica non
si stacca afi'atto così recisament;-d;i---;~;;·della---rita
________________,__ ·- ___..........
, , ·- ·--- - ------

23) Per t8t©-r7J<; ( = « profano», «laico») cfr. De victu sal.


c. 1; De ajf. 1; 33; 45; De victu III 68. 8l]µ6•l]<; e 8l]µLoupy6ç,
l'uno all'altro contrapposti, in De flatibus 1, De vet. med. 1-2.
t8t©-r7J<; e 8l]µ6•l]<; come sinonimi in De victu acut. 6; xe:ip·
&va;~ in De victu acut. 8. Eschilo (Prom. 45) chiama l'arte del
fabbro una ze:tpcùvcx!;(a;•
..) CMG I 1, 8.
1356 [m20] LIBRO IV - IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

intelleuuale;_ p_iµtt9l!to cerca _di co11.q_ajst;:J:!~! -~ (lS!l!


~- P.~~:to ~içuro.•. s_e_ .essa .,si __fonda su un. parti.cgJ~I'.'
sapere che la distingue dal profano,.è anche. coni;apevol_·
.mente preoccupata di far parte a lui di questo sapere
~ di trovar la -ria di farsi comprensibile a lui•. §i}orm~
cosi una speciale letteratura medica destinata ai non-
medici. Ed è per: 11oi 1ln cas~- particol~m~-;rt~ f~lice _cli~­
si posseggano _ancora saggi dell'uno e dell'altro genere,
_di quello professionale e di quello destinato al _ira~ pUh:-
hlico. La gran massa del materiale a noi giunto appar·
tiene al primo tipo, e non_ .può qui essere apprezzata
a dovere, perché il nostro interesse si volge, natnral-
mente, prima di tutto al secondo tipo. E ciò non
solo perché questo soddisfa esigenze letterarie più fini,
ma a causa del suo intimo legame con quel che abbiamo
chiamato paideia dei Greci 25). :Nel tempo in cui i _l!l.!t
dici portarono la prima volta innanzi al_ p_li!!k.~~-9- i
loro problemi,· nella forma della conferenz;~ _(è:nlaeL~Lç),
·secondo il mo~~llo sofistico, o del « discors(} >~- (Myoç)
diffuso per via di scrittura, non si avevano ancora
- chiare e ferme idee sulla questione fino a <fUaTj_)~~!~
un« idiotes» si -dovesse impacciare di siffatte materie.
La___ comparsa dei medici, come maestri ".it~n1{_~~I,
tipo dei Sofisti, fu un tentativo di ottenere un più ampio
-riconoscimento pubblico, e coloro che ciò t~nt~on~:
":valsero, per vigore intellettuale, non solo_~~-~~~!.~ii
un interesse passeggero per la __dottrina, Illa a cr~a.!~

26) Da distinguere le conferenze di iatrosofisti su temi ge-


nerali in prosa retorica come Ile:pt · TÉ;(\11)~ · e Ile:pi qiucu";lv
dagli scritti in forma semplice e spoglia, ma sempre destinati
al gran pubblico, come Sulla medicina antica, Sulla malattia
sacra, Sulla natura dell'uomo. Sono opera letteraria anche i quat-
tro libri Sulla dieta. Questa letteratura serve tanto all'istruzione
dei profani quanto alla réclame che ogni medico doveva fare
per sé, non esistendo nel mondo antico una classe medica rico-
nosciuta dallo stato. Cfr. De vet. med. 1 e 12; De arte 1; De victu
acui. 8.
CAP. I: LA MEDICLl\TA GRECA COME PAIDEIA [m21] 1357

~nup_xo....tip.o.. cli persona colta, l\1omo intiJ!t() di .cJÙ-


~'.!:-~ecli~a,__un uomo 1::~oè che. portava ai -problemi,
di questa scienza un ~!-~resse particolare ma non prc;i-
fessToD.~~ . . e, per un suo criterio --in ..-eose .. mediche~ si
di~ti;;g~~ya dalla mancanza assoluta di criterio dei
più. N aturalmentt: l'occasione .migliore per mettere_ in.
contatto. i . profani ~ol pensiero medico era il tratta-
~;;-nto ··-~tesso, al letto_ del_ p11ziente•. ~r(lprio nel D1odo
dr "comportarsi col llla,lato, si rivela, secondo una. gar~.
b;rta·descrizione di Pl11.ton,e, ~elle Leggi,, la differ~:ni21.
tra ilmedico di schiavi~ e il medico di formazione scien-
-tifica"·-~h~-~ura i liberi. i( p~im9 sL afiì:etta da malato
·~~-~àlat(l ~-. ~à .:e!'e.sc:rizioni senza, di§.C9r!!i (&veu Myou)
cioè senza render conto di quel che fa, sulla base di
una mera pratica empirica. .Il suo modo è di un ri-
gi~~-tiranno. E se si_ trovas~e __p_er ca~()_a sentire ~
~~~~() Jih_ero parlare -e.on .un paziente lib~:rQ~ _in qu~l
~~? cli.e si __ accosta all'insegnllmento scientifico (i:ou
cp~Àoa-ocpe'Lv &rrUc;) a sentire ci9è come quello ce.rea. di
cogliere la malattia all'origine, c9l risalire alla .natura
~'ti _L<::o..~:Pi~ si metterehb~ a ridere di.cuore e direbbe
q:!:l_~.11.CI che_ ~ihli~tono in questi casi i più deLcosiddettj
me~ci: « pazzo, tu non cll:ri il tuo malato, ma lo istruì~
sci, come se tu dovessi farlo non sano, ma medico » 26).
'Ma]>I~ic;ine sc 0rgt)_~È~~--~!'.l!ta paideia .medie~,
poggiante su una fondamentale istruzione del illafato,
!2«!eàI_~ ~- ,,unli .!~rapia -~~i~nti~~a. ··E ~~~ti- ~~~~ti
li prende dalla medfoma· contemporanea. Si leggono
.
;;ncora ~~gli scritti ippocratici .riflessioni di m~dici
_sw ~-~;fu:_~]_i~;-;-di ~~tteié-'i'profaDI Il'.l. contatt~ ~~~
.I~ ~cienza-«..Si. d~ye. ~-~{iiitls{~~._:èiii. ç_h~_-jp_ !!kY!ùdtra
hadax .. _})E'.!1,e_ ~-.P.a!_lar~-~- modo . comprensibile ai pro_:
r~mi» •.. dfohiarl!__ 1· a!!!f!~_ti __tl_~X.lib"i.9- -s~izQ,,_ ~é-;Iréi!;i.~1~~~~

"') Pl. Legg. 857 c-d.


1358 [m22] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Si deve, egli pensa, cominciare da quelle malattie _Q_i_


.;-itl· -gif tiomini hanno esperienza .per-. averle-SOfferte.
Essi; pròfam
····-···
come
···--··· --·
s~no~ _no~ sono ce~t~ ~=iad~__ -di
farsi da sé un quadro di un morbo, delle ca.~~'?- ~--~~L_
' -
trattamento, ma non è difficile c)riarir loro tutto que-
sto, .giacché la spiegazione in questo caso altro-~o~
è che un richiamare il malato a ricordarsi ia .. sua_.1Ù;~;.
pria esperienza. Per questo autore, un criterio di ve-
rità su cui saggiare una sua opinione consiste proprio
in questo, nel potere cioè farla concordare coi ricordi
del paziente 27 ).
~.o.n~~cessario qui esaminare tu~!_i_ J_ luoghi in
c~ ~- ~-°-cca if-proliiema-iiell;~siruZione__ dei._ ..e.~f_l!!!Lo
dove l'autore si rivolge senz'altro a loro. Non tutti i
sr
_medici. coiìipor!ayano secondo il consiglio dell'aùtore
del trattato Sulla medicioo antica nel procederè-·indlit-
·Ìi~~ente dall'esperienza del malato. ft..ltri, ~- ~ec-;~
. di disposizioni personali o delle_ occa;ioni, ·fa'CeVaiiO
proprio I;uiverso e svolgevano ~~~ - _a·-~--p~
di profani teorie generali sulla natura de.Ii; m~
come fa lautore del trattato Sulla natura- 'dèll'uom;;;
oppure,. come l'autore dello scritto Sull'~rte,,_:~hl-~J.lla·
'!.a:no :pe~no il profarn:i_ a giudic~--~elll1.9:'!~~~~~C..'t_ ~.e)~,
medicina sia o no una vera techne. Nef Simpo.sfo di

~~!l~~-~·--:t:0 ·b_~:::ai~~:::•- ":i:~~ii{~::~~-·:


Eros dal punto di vista della medicina e della filosofia'
naturaiè 28). --~ ~!i- .. ~~!~!!!Lç_9.l!!... :m3t:_e.ri~. Ai ,q~~!~Q..
genere erano accolte con . particolare favore~ E la filo-
·. sofia: naturale appunto, allora di · m~da, r~~<l~Y~:~~
ressanti a molti le fìgure di questi iatrosofisti, S~l;,l<!:
fo~te .. dipinge nel -giovane Eutidemo, che doveva di-

17 )De vet. med. c. 2. Cfr. De ajf. I.


28) PI. Symp. 186 a-188 e.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m23] l359

ventare più tardi un ardente seguace di Socrate, il


rappresentante tipico di questo nuovo modo di cul-
tura. I suoi interessi, il suo vario dilettantismo, sono
solo intellettuali ed egli ha già messo insieme un'in-
tera biblioteca contenente opere di architettura, geo-
metria e astronomia e soprattutto molti libri di me-
dicina 29). Si comprende perciò che un fatto come la
gran pestilenza scoppiata durante la guerra del Pelo-
ponneso desse la via a un'intera letteratura medica
che fu letta avidamente anche dal gran pubblico. Un
profano di medicina, lo storico Tucidide, fu spinto da
una tale esperienza, per l'incrociarsi di svariatissime
ipotesi sulla causa dell'epidemia, a diffondersi nella
sua celebre descrizione dei sintomi del morbo, che vo-
lutamente prescinde da ogni tentativo di eziologia 30).
Eppure lo studio della letteratura specialistica è os-
servabile nella sua relazione fin nei particolari minuti
della terminologia.
Aristote!~-~9.!!li!l~!~ il suo libro Sulle parti degli 4n~­
lJiali con qµeste parole 31): « Di fronte a ogni speculazio-
ne metodica, elevata o modest.i:i_ che s_i~, esistono due pos~
~bili attegg!~~éntr·p~o-:lllerita il nome di co11~sc:e~Z.~
scientifica, laltro p~P,.,prqpriamente si designa come una
epec1e areiilt~;(l7roc~8a~j)-J>~iché il segno disµIÌtivo
dd!:!!.@:~ooolio è' n-··p:<?!~! giudicare _con esattezza.. se
chi _.earla trat~jl suo ~gqmento in forma giusta o
fiilla~·:E"""~;;l_~..ru:J!cLJ!Oi concepiamo-la natura· del:
~ll1()-~~t9._ di c:g,}~1ir~ · ge_11~r$lle,,.._e-eo.nfor!l,l~ __a ~i~.
intendiamo l'esser colto_ come. la capa!i~---~ppunto di
fàrque;i~;-~~~i~-~h~·-~~ntre per uomo universalmente
-;.lìo- ~;;iD.iend~~~~-nliii!~".e, per_ cc>_~--~~'_ ~~Ila_ P!.cf.
'----···~-,.-~---···

11) Xen. Mem. IV 2, 8-10.


80) Thuc. II 48, 3.
•1) Arist. Part. An. I 1, 639 a I.
1360 [m24] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

pria persona la capacità di un retto giudizio su tutte


. le còse~. I; altro . dr ·ciii sr-piilava - possleìle-tare~ìacofià .
solo fu. ·un:-·caiiipo· spedille. Ch:é ;~!§i~ ~k~~:;e1tte::u;.·_
che per campi speciali "1ma figura di uomo colto . che
~ornsponde af iiposopra -descritto di uo~-;~,oJt~-Y~.:-
versalmente ». Questa stessa distinzione. che 4~.'t9.~-"
_· tele stabilisce quf tra il naturalista ricercator~ di ~P:i."9:.
Cessione e l'uomo semplicemente colto di scien,ze. µ~.:
tllJ:'aji (ché di questo si tratta) .è~ta_espressamente
~ un luogo della Politica anche tra il medico e tuoiti-;,
.colto in m~dicin!l.!. ..Qui 32} A,J:i~t:~tel~ ~ny1.1çia .I' esist~JJ,~.l!
.di. tre .piani di sap~:r~ ~ il medico pratico, il_ ricer.ça!~:r~v
çrea:tlvo ..di. medicina, che _p_~i._~C)~ca le. sue.,§<lQP~!'...~
al medico, e l'uomo colto in medicina. E non dimen-
tica· neppur quC-dl aggiungere chtq;;est'ultimo tipo
esiste per ogni scienza speciale. Lo scopo dell'esempio
è solo di stabilire che non il politico attivo soltanto,
ma anche il politicamente colto possiede retto giudizio;
ma la scelta dell'esempio, gli uomini. colti in medicina,
mostra che questo tipo era piuttostn cnmune proprio
in questo campo.
La distinzfone di .~9.._!!t'!l~O per il ~~~p,J.iç~ ,s.~()P!?.
. di form;.ZiòD.~ culturale, e di una prepara~ione a scopf
.. professionali in. una·. disciplina, ci è occorsa già ~~.(!~
·sj · trattava di quegli Atenìe~C_di... ~o~4t~fg11!' .. e~evat~~
che mentre frequentavano con passi(:me_ i corsi d~! So-
fisti, erano ben lontani dal voler diventar, loro, d~ttl
di professione 33)~- Pla.tone nel Protag~ra ~a;;~~i:~z~~~--~
gutamente quest~ rii;er~a me:O.tale a cui ~O_J:l_~i.IJ~~~
.neppure il più e~tusiastico l1dito:r~. dei..:._§q~!L~>'.. ~~­
stesso, in Senofonte, vale rispetto alla medicina per

U) Arist. Pol. III 11, 1282 a 1-7.


aa) Cfr. « Paideia » I 545 ss.
") Pl. Prot. 312 a, 315 a.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m25] 1361

Eutidemg-L.~~~--!~gg~.. s~ v-olentieri libri medici, m,a-_.W.9.~:.~


~disce quando Socrate gli ~o~aII,da_ ~e vuol dive!JJ~ .,
meruco 3s): Proprio la molteplicità d'interessi, rispec-
chlaia dalla sua biblioteca da dilettante, è tratto ~s;f;ii-:.~
~Ziale~c!i-:q;;~;~~, ~~oy~ ii~• .di, c~tlll'.~. che si ~e~.:{~;;"
--iii~(io_~~~Ja_ c:ult-.µ-11,_ generaje_>;~ ..È. «legno_ di. __iu;):ta___ çbe
Senofonte ponga questi dialoghi di Eutidemo sotto il
·Signmcativo tit<!.fo_ ~< a!te_ggiaJlleI.1.t()__ 4i _ Socrate di fr~;t~
illa -paideia» 36). Ciò _t:lilD:Qstra eh.e i:D certi aÌnbi~'iiti
""'ormatla parola prendeva sempre più quest~ sen~òili
<< ètiltura ge!ierale». _JJ -~ostro compito non è. di_ ~e1k.
"''neare fo 8Vil1lppo di una particofare b~a_nç~ <1,Lqu~_!!
·. èultota; ··1iià · di descriverla t11tta nell;t ricchezza delle
sue ~amfestazioni~ ·~ ;,.~~-. p~Ò. --~~;ciÒ: ~~e-~-; all;
~òsira aescrìZfone 'questo nuo~o . tipo, cosi fecond~-·di
;;Qnseguenze, della cultura medica. Il concetto che. Aci~.
s'totele si fa dell'uomo cÒlto ~ medicina_ o scienze na.·
turali è meno indeterminato ~el tipo _descritto da Pla-
to~e e Senofonte. Egli vede in ~el « retto giudizio?;,
~e attribuisce_ all'uomo colto un c_ert() !'le.~IJ .d~.11' a.:e::.
p;q'P_:datezza d~l -~~~~-dT tr~ttare_ ~- _i,1x_gom,_~nt_0 .._çhe_
1!.C!.l!.:c ~ di necessità congiunto con I~..<:!9.!!9SC,enz.a...del
V~!~!-Q~~S!a è sofo-·def'rlcercato~~ SCÌentifÌc(),_ .i~J!
. , giudizio lo ha anche l'uomo colto; anzi spesso l'intuito
di .fiièsto. è più sicurQ di. qiieJ1o che l~uomo produttiv~
li.!!.<!Lfr4>1l!~ _al suo propri~ lavoro. Questo formarsi di
una sfera intermedia tra il puro sap~re delio specialista
e }'_i~~~~~~~ del profano assoluto, ~-- fei\~~~no CllJ'.~t:­
~~ristfoo de!l~- ~!()r!,a __cJ,~l).l:l .. cultura greca nel peri~d_!>_

85) Xen. Mem. IV 2, 10.


86) Xen. Mem. IV 2, 1. Tote; 8è voiil~ou<n 7r<u8dcxc; -rs -r'ijc;
<ip(a't"7)t; 't"S't"U)('lpcévccL XCtL (Léycx !ppOVOUCHV tnl aoip(q; wc; npoas-
ipépS't"O vuv ih7)yiJaoiicxt. Per Senofonte Eutidemo rappresenta
l'esigenza di una nuova e superiore cultura, non ancora chia·
rita nella sua essenza. S'intende che la paideia di Socrate è da
mantenere ben distinta da questa.
1362 [m26] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

postsofìstico. Per Aristotele l'esistenza _di_ ~~..:-~


è gia-cosa' di eVfdenza. oVvìa-:--Per noi!: 11:o~"~:t~ ~!_ .
della storia della cultura. fo 'cui" gli inizi di l!!l _tale
- .•. - .. __ ,: _.,. - . . ·.. • .,,....,_..Jl_»"-.-,,:;.i;:r •. ,:;i--""t.....,;~
··...::.7""".:~·:

indirizzò ci appaiano co_n maggior chiarezza eh~. _,nell~


-pi~i"-®.tièa·1etie;-~i~; ·_ ~~dié·à::e,Qér pi~;:;;:~d{l,C~~~~~
di conquistarsi proseliti:. Ma_ un confine ~mane sempre
in,y;i_9J~t;2' g~:J<i .. :!iµìiii!~=~:~.i:~-jù!i~~-§çi~P";!_Lf;~~n.z~
~!!_~~!~~--~~~ _è___ammess~ _nell~ s~~~8: _<!_~~---~Ì.~~ .i!
non in una misura condizionata dal livello sociale.
•. . . • . · •. ,·.: • • • . . - : ; • .,..,;,•1_c'·""!l,"···.·.::-r-,,..("O~

--Ancora in . Aristotele
.. ci si imbatte
.
ripetutamente
-.......... ........in una ,..,.,_~ ~

m_~sima etica, feconda per l:tu .. di .co:nseguenze--im:ru?.!·


'tanti anche nel campo di una politica della cultura,
pèrTa quaiè 'Un.a specializzazìone troppo gian<ì~'"-~­
[3itéi:rnori si -·concilia -con cultma liberale e k;Jb,k:,gathia
autentica 37)., Tanto s'impone, ancora nell'età in cui
l!ionfa la vera scienza dei rlcercatori, questo prindpi;-
b~se deÌl'antica civiltà nòbiliare. -. ·---- ·-------
.· 'La condiZione in cui « l' arie medica», come dice·
van~ i Greci, ci appar~- i;fi;---pi~ · 'intica ~ett;!_i;t;.a
medica era criti~a abbastanza per destare_jn. ~ .•i§;
biénte di cultura collie quello _che abhiamQ desc;rit:t!?-1
1'i.i.i:!_Elres_s.e_ ~~J _pi:à-}8:I'go_pl_)bbJ!-~o~ _s~3 cercato_ ~- _~?P!,~
_col rifarci _a quel sal~?_C!gn,te:nut;o -~ ~!?llCet;tj __s~_ie!:it_i!_ci
~ cui di~pon-~)~ - m~dicina dell'età ippocratica, ,~- _!!:
~-?_s_tr_~e l'infi\lSSO esercitato dalla fìlQso.fia !!~l'1~~
pensiero medico, e di veder «,:Q:n .c.hiar_ez.z.a J~ffic_a~i~
'rivoluzionaria di CJ!1~8!()_~~~~-.l!.i:ù_ antic.a..p.rati,c;~::.::-BW
dica.
···· _ .. ,_
Occorre
-
certo una qualche facoltà- d'immagina- .... ··"·--e-""-..:.~ ~-"'""~

zione storica per giungere a una_ tale chiare_z~!·.J?~r mi-


surare ifdivario enorme di qu~sta medicina scie~tifica
-·-.. ;·_,,--,._._::-...;.;,..-~------

87 ) Arist. Pol. VIII 2, 1337 b 15: "Ea-rt 8è xod -riJJv èì..ro&epl<.>v

è1ncn'l)µù'>v µéxpt µèv -rtvòc; èvl<.>v µe:-rqe:tv oòx &ve:ì..W&e:pov, -rò


8è npoae:Spe:ùe:tv ì..lttv 7tpÒç cixp!{3e:tav fvoxov -rttrc; e:tplJµ-fivtttc; {3À«-
{3tttc;. Cfr. 1337 b 8, dove si parla dell'. ffetto del lavoro «ba·
nausico».
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m 27] 1363

dallo __stadio _precèdente e primitivo. l\fa _Ul1 tale sforz~ .,


èiieeessarlo à: ~~tai~- il' rischio -di vaiutli!e <l?me c{ual- ~­
cosà Ili troppo- semplicé- e' ovvio'_ Ià-co!!l èo111ple.ssa ed _
;voluta -scienza medica del V sec. Un rischio, che
taiitojì~_ci ;_~accia in quant~-i-J,ri~ci:Pù-!on<{aliientali
dr;~~ sono, in parte, ancor~ i ~~~tri~ me:i:..t~e ~ei par~
ìicolan labbiamo -enoi'memente -superata dal secolo""
passato in poi. La lotta c~ntro il prevalere di teorie
di" fil~~ofia ;naturale, con la quale conrincia _la nostra
tradizione di storia della medicina, è solo un sintomo
defdisagic:i_s_y_sseguenJ~ a CJllella gi:ande____ e ___ ne-~~~;~~i~
rivoluzio~e, che _allora er~ in compl~s~~--c:o~pil!t1_1_: D~
allo:ta __!ii poi_ base_ del1l1_ medicina, è la _conoscenza dell~
~ di reazione d~~·o~g~~~o lig~_~ffeYL~Jii_-.f~r~e_
che, essenèTo àDase di tutto il moto _della. natura, lo
s-;~~~·~~he___ defi'èSi;t~~a fisica dell'~o~o. -~~ii; ~t~to~
~~~~-~~--co-me--ii~l _mo~hos~. ·:a;g~~_!_~-~~-;QJ!~ ~~~:
~iara fermezza, C}Uesto presupposto metodico apri pro·
spetti;~- ;ilove" m ogn1" fuèzfone; _~-ff pensiero ~eco­
~--ii'ccinse···con- le sue "d'.oti innate di -~hiara consapevo-
Ìezz"ll:'' acutez~ll e cons~qlleILZiEÙjià_ a p~~corr~r fino ali~
fi;~ ~gil~a di queste vie, per quanto glielo co~entiva
ì''èspenenza df"c-lli ·-aisponeva:r:K~;-t.;.:~pp~-~;t~~;-;;-~--
~on i concetti capitali della fiÌosoff a -iì~ft!i~!~;·-_i:[l~he
gli atteggiamenti del pensiero cosmologico di .iW~st~
lfosofi_a irrompessero _ nella medicina a .inquietare .. gli_
~piriti.
Si è già àccenn_ato che.Jiloso.fL.naturalisti_piii. _r_e_ç~":Qti
.come Empedo~t~-- avevang,_gjà_Jl~~fl!!~t~ per pMt_e_far,Q.
le baiz1:~!~.~ s~ .~l,'.~()_fin_tLpadroni dell'arte medica.
In ciò._!.Ì_~<>,~~s,ç!a,Jllo la ~tessa qualità sinÌetl~a_ ch~:Eill.~
pedocle. riv~la nel _cong_i11ngimentc:i di empiria da fi~
-losofu · ~~!~aie _e atteggiamento religioso _di pr()feta~
TSu~f~~;;cessi di medico pratico ayranno dato :not;evole
prestìgw=,-anCli-e al suo ma~stero medico,_ Certo _è _che
1364 [m28] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

la sua teoria fisica dei quattro elementi seguita a vivere


-·-·····•""'. ·-·-··-···--·-··-~---- .. ·-··-·-··-.--.·-- ····-·------· ·-···-·----·-------
J:lella ID:edicin~. cl:~~ _s~coli_ s'-'.g~~nti_ ~~m~. A~!~4~.
quattro qualità fondamentali, caldo, freddo, secco e
U.ri<io~--La qual teoria o si -~t~fiige--~~~~l~.P~-g;;i
_con l'altra teoria allora dominante nel p~J.!§i.er.o...m;.di.e.Q._
degli umori (xuµo() fondamentali· del corpo, oppure
caccia di nido ogni. rivale e domina, ba:s~i;~-OD.lt~~Ì-~t~·
• • • •,O • • • '~"''"' • --~ • "•'" o•M-••• ..

della medicina teorica. Un chiara esempio, .qu~s:tQ._!1!.


come le concezioni fisiche della fì.losofiii p~netra!_Q.nn
nell'arte medica e del vario reagire di questa alle nuove
~:tluenze, là dove alcwri cedettero del tutto le ··~·
di fronje illa co~cezione nuova e non . ~~~;;;:-~i~ Pi~~ ..
'se non m termini di caldò ·e freddo, di seèco e umido,
e altri cercarono di innestare .sùlla doDifuante teoria
degli umori questa dottrina delle qualità ·é di venire
a patti con essa, altri infine seguitarono a rifiutarla
come del tutto inutile o almeno secondaria per il me-
dico. Appare qui in piena luce la s_ensihilità intellet·
tu-ale. dei· medici di ·questo· tempo, la loro fac~Ità~'di
.attenzione ad ogni progresso che si compia iii -·c;gnr zona
della .conoscenza . della .. natura: .E . se spesso· avviene
che, a spiegare fenomeni occorsi nella pratica, teorie
non sufficientemente proyate si . 3:~cet.tJno -~1.1~ !roppà-
:fretta, questo difetto è da collegar solo in parte c~;
~a particolare caratteristica dello spirit~ greco; ·p~.:
cipalmente è da mettere a carie~ _di un'esperienza, a_nCOJ
~roppo ristretta. In fisiologia e patologia, il pensiero
teoretico è ancora appena agli inizi. Non tanto quindi
deve sorprendere in esso un qualche eccesso di .au_d.~~~~
o di schematismo, quanto la prontezza e sicurezza -~­
cui fa prova il genio medico, occupato. soprattutto
~ella cura del malato e fisso sempr~ ~ questa -~eta',
nel liberarsi di speculazioni ancora praticamente . iii:
feconde lasciando aperta la strada al vero p;~gr~ssC::
Ha luogo così un. ritornò alla più attenta empiri~~.. ~
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m29J l365

osservazione delle esigenze presentate daJ ___ c.as() __ siJ!golo,


e~!l.TJ~.s.!9.Jì!-:lìiedicina -sf"gna-unà v~lta per semp~è.
J! s:uo. confine dalla mèrà. filosofià naturale, configuran~
d~si còiiie arte indipendente, dopo esser salita con
-----·- -- - . - . .
laiuto di quell11. al grado di scienza. Q;i:~ soltanto la
.

'ÌD:erucriia diventa · daV-Vero se stessa. Colui che , pro-


,pugna a fondo questo atteggiamento è special~ent~.
'i'ignoto . autore del libro S1Llla medicina antica. Si-
".~amente egli non fu solo a rappresentarlo nel,
~E.~ tempo, ma fu il portavoce - si~ proprio,
in questo caso, usar quèsto termine - -dl----una
s_~~~~~~--Quesia altra- iiòii 'è 'ché la scuola. d'lppoc;ate,
sia egli o no l'autore del libro, e pertanto è le-
gittimo vedere nella dottrina di Cos la fondazione
prima della· medicina come vera e propria scienza
speciale. Certo, la tesi dell'autore è per I' llP.Punto che
...!!Q.I!._!<:i sia :ll~o_gno di .dare alla medicina alcun fon~~~.
:rp,~11to nuovo; ché essa è da lung? tempo un'arte vera
~.. reale. Perciò egli si rifiuta di seguire quei medici
p4e credono essenziale per una vera techn,e il posse-
. ~ere un principio unitario al quale tutti i fenomeni
~ingoli si riconducano, come fanno i filosofi . coi. loro
sistemi 38) •.• f?econdo lui questa esigenza non conduce,
come si pensa, ad eliminare là non scìenti:lìca -Inèér_.
tè~za nel coglier le cause dei morbi, e ancor ~eno i~­
dirizza alla ìèràpia- appropriata, ma porta s~lo __!! S(!a~~­
biare con un'ipotesi m_alsicura il certo __0nd~m~~~~
d'.esperienza su cui è sempre proce<}uta l~~!.~~--~~-ll.a:
__.:trine. U~t--;.f-vfa pliÒ anche esser l'u~ica possibile
per quell'oscura regione dell'ignoto in cui la filosofia
va movendosi a tastoni. M.a il_ 111et;).i90 .non può met-
tersi per essa, senza far getto di tutte le conquiste
';-ciii un passo dietr~ l' àltro, fu un camminò di secoli,

3•) De vet. med. l ss., 12.


1366 [m30] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

lesperienza medica è venuta ~l~YaI1~fo!'.~ A!!_,!P-2.~


prl.miti~L ·Questo sviluppo. I' autore .· t~P.P!~~en!~- effi-
-ca:cemente partendo dalla vecchia ide~. ~:1i~,,!...P:r.ofani
~ fanno del_ medico, come dell'uomo che P:J::~~-~~
!Jeveroni e minestrine. Solo a poco per volta dopo lungo
tentare, l'uomo è riuscito a conformare la propria nu-
trizione differenziandola in modo sempre più :fine da
quella della bestia; ma la nutrizione del malato, che
cade sotto la prescrizione del medico, è un grado ancora
più alto. Ché il cibo del sano non sarebbe per il malato
meno dannoso, che quello della bestia per il sano 39).
Questo è stato per l'autore il passo decisivo per
cui la medicina si è elevata a vera arte; giacché nes-
suno userebbe questa parola per una cosa di cui oggi
tutti s'intendono, come la cucina. Eppure il principio
su cui si fonda la nutrizione del sano è in fondo lo
stes.so di quella del malato, cioè ciò che« conviene» 40).
Non bastava però per.scoprire« ciò che conviene» che
si distinguesse cibo grave da leggero; occorreva anche
la determinazione della quantità, diversa per ogni co-
stituzione. Al malato può far male cosi il troppo come il
troppo poco. Sicché il medico si riconosce davvero dalla
sua capacità di valutazione di quel tanto che ogni
individuo può sopportare 41). Egli è colui che sa co-
gliere in ogni caso con sicurezza la giusta misura.
Né esiste, per l'esatta determinazione di questa, una
norma fissa, numerica o di peso. Tutto consiste in un
« senso» (ocfo.!h;O"tc;) sicuro, che solo può far le veci di
un criterio razionale 42). In ciò si annida la più grave

89 ) ib. 5 ss., 8.
• 0) ib. 4 e 5 in fine.
41 ) ib. 8-9.
42 ) ib. 9. Ae:r y&.p µfrpou ·nvòç a"roxiXaoca.&otL" µ.hpov ~l:
~un ~pL.&!fÒV • cu;,e: O""rOC~µ~v. 1n~ov ,7tpÒç 8 ,ocva:cetp6lV &fo-1) "rÒ
ocY.pL~e:ç, ouY. ocv e:upoLç CJ.À), 7J "rOU 0'6lµoc-.oç rriv a:L0'.&7JO"LV. Nello
stesso passo sono pari:.gonati fra loro il medico e il timoniere.
CAP. I: LA MEDIONA GRECA COME PAIDEIA [m31J 1367

fonte di errori per il medico pratico, sicché può già


considerarsi un grande maestro colui che solo di rado
incappa in qualche errore leggero. Il più dei me·
dici somiglia ai cattivi piloti: a condizioni tollerabili
del mare, i loro sbagli di navigazione passano inosser·
vati; ma, ci sia davvero tempesta, e tutti vedono che
sono incap-aci.
L'autore è nemico di ogni generalizzazione e con·
testa l'affermazione di alcuni « medici e sofisti » che
non si possa capir nulla di medicina senza sapere che
cosa è l'uomo, come è formato e di quali materie.
Teoreticamente la ragione era dalla parte di tali ri-
cercatori: non sarebbe certo mai stata scoperta la
moderna chimica medica, se fosse stato per empiristi
come il nostro autore. Ma di fronte alle teorie di quei
tempi. alla teoria degli elementi, che era ancora niente
più di un incunabolo grossolano, la sua riserva coglie
praticamente nel segno. « La loro dottrina va a :finire
in filosofia, al modo di Empedocle e degli altri che
hanno scritto sulla Natura». Così dicendo l'autore
non se la prende direttamente, come si suole per lo
più interpretare, con Empedocle, ma, con l'inciso « al
modo di Empedocle e degli altri», vuol solo precisare
il senso della parola « filosofia», che ncin aveva allora
il significato per noi familiare 43). Ai conati di elevare

48) Cfr. De vet. med. 20. Che questa polemica sia rivolta spe·
cificamente contro Empedocle e la sua scuola è un errore che si è
propagato in tutta la letteratura sull'argomento. L'autore avrebbe
potuto altrettanto bene menzionare Anassagora o Diogene. Il
nome di Empedocle serve qui a precisare la parola qnÀocro<pl'I)
(attività intel1ettuale, studium) che in questo tempo sonava ancora
piuttosto vaga; e in maniera del tutto simile Aristotele (Protr.
fr. 5 h W alzer, 52 Rose), per indicare il concetto di metafisica,
per cui non c'era ancora espressione tecnica, si serve dei nomi
di coloro che più notoriamente la rappresentavano: « Quel genere
di meditazione della verità (1ÌÀ7].&e:lo:ç tpp6vricrLç) che Anas-
sagora e Parmenide hanno praticato». Questa conclusione è im·
portante per la storia del concetto di « filosofia», la cui nascita
1368 [m32] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

la medicina al rango, supposto più alto, della filosofia


naturale, egli contrappone un'affermazione superba 44):
« Io tengo per fermo che non c'è altra via per giungere
a conoscenze esatte sulla natura, fuor della medicina».
Parole che suonano strane ad orecchie moderne, ma
che per il suo tempo colgono del tutto nel segno. La
ricerca naturale di allora non conosce ancora I' esi-
genza dell'esattezza, ed è la medicina che prima di
ogni altra scienza della natura giunse a formulare una
tale esigenza, perché per essa la possibilità di riuscita
stava tutta nell'osservazione precisa del particolare e
posta del gioco era la vita di esseri umani. Non quel
che sia l'uomo in sé, ma « quel che egli è in rapporto
a ciò che mangia e beve, e come vive e come tutto
ciò influisce su lui», è per lautore il problema dei
problemi 45). Per lui il medico non deve pensare affatto
di averlo già risolto semplicemente col dire per es.:
« il cacio è pesante, perché dà disturbi se se ne man·
gia molto». Il medico vuol sapere con precisione quali
disturbi produce e perché e a quali parti del corpo
umano è intollerabile. Del resto gli effetti di questo
alimento sono del tutto differenti secondo gli individui
e le varie specie di cibi pesanti son tali per ragioni
varie. Perciò, in medicina, è ridicolo parlare della na·
tura umana, così senz'altro.
I sette libri arrivatici col titolo Epidemiai (« vi·
site») ci danno lo sfondo appropriato di questo atteg
gia_mento di consapevole positiva empiria, tipico della

si continua a riportare fino ai tempi di Erodoto, Eraclito e per·


fino di Pitagora. L'autore del libro Sulla medicina antica prosegue:
«Io intendo con ciò (cioè con« filosofia al modo di Empedoele»)
quel tipo di ricerca (!a-ropE7j) che insegna che cosa è l'uomo
e da qual principio esso trae origine ecc.».
") De vet. med. 20.
") ib. 20.
CAP. J: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m33] 1369

nuova tendenza medica 46). Contengono per la massima


parte storie di malattie tratte da una pratica profes-
sionale durata certo molti anni ed estesa più che altro
alle terre e alle isole della Grecia settentrionale. Spesso
son riportati per i singoli casi nomi di luoghi e di per-
sone. Si vede qui con immediatezza come sia sorto
dalla pratica medica quotidiana l'edificio della scienza
medica che si rivela nella sua imponenza dagli scritti
della scuola ippocratica. Il tipo di questi « appunti»
o «promemoria» (u1toµv-fiµcx·rn:) è la migliore illustrazione
di un principio metodico che si ritrova poi anche in
Aristotele, secondo il quale l'empiria risulta dalla per-
cezione sensibile attraverso la memoria; e sull'em-
piria poi si edifica la techne, la vera e propria teoria.
Evidentemente più di un autore ha lavorato a queste
Epidemie. È un'opera questa che rispecchia il grande
principio con cui si inizia la raccolta degli Aforismi
ippocratici 47 ): «La vita è breve, l'arte è lunga, l'oc-
casione fuggevole, l'esperimento rischioso, il giudizio
difficile». Pure qui lo studioso non rimane mai fermo
ai particolari, per quanto à malincuore se ne allon-
tani. La verità non si può mai disciogliere nella varietà
infinita dei singoli casi e. in ogni modo una tal verità
non avrebbe significato per gli uomini. Quindi il pen-

••) Di qui il titolo 'Emlì'1)µ.(1Xt cioè viaggi (o soggiorni)


in città· straniere. Il viaggiare (È1ttlì'1)µ.dv) era la forma in cni
sofisti e letterati esercitavano la professione: e così facevano
anche i medici viaggianti. Cfr. PI. Prot. 309 d, 315 c, Parm. 127 a,
e lo scritto autobiografico del poeta Ione di Chio, che portava
lo stesso titolo. Sulle Epidemie ippocratiche cfr. K. DEICHGRABER,
Die Epidemien und das Corpus Hippocraticum, « Abh. d. Berl.
Akad. » 1933. Sebbene esista affinità intellettuale tra l'autore
delle Epidemie e quello del libro Sulla medicina antica, è impro-
babile che essi siano la stessa persona.
47 ) Aphor. I I. Demetrio, Dello stile 4, adduce questo luogo
famoso come esempio tipico di quello stile asciutto e spezzato
di cui non si può apprezzare lo spirito se non in ragione del con-
tenuto.
1370 [m34] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

siero medico di questa età conia per la prima volta


il concetto dei « tipi» (s:t8'1]) della natura umana, delle
strutture e disposizioni corporee, delle malattie ecc. 48).
Eidos indica primamente la forma, poi l'insieme dei
connotati visibili della forma di un gruppo di indivi·
dui, di fronte a quelli di un altro, ma viene immediata-
mente esteso a tutti gli elementi comuni, comunque
determinabili, di ogni pluralità di fenomeni affini e
acquista infine, specialmente al plurale, il significato
di « tipo». Dentro questi limiti la generalizzazione
è ammessa perfino dall'autore del libro Sulla medicina
antica 49), mentre son da lui rifiutate affermazioni nello
stile dei presocratici come: «Il caldo è il principio
della natura e la causa di ogni salute e malattia».
Secondo l'autore esistono sì nell'uomo il salato e l'amaro,
il dolce e l'acido, l'aspro e l'insipido e mille altre qua-
lità di effetti diversi, le quali, se mischiate, non ap·
paiono separatamente e non fanno male alcuno 50),
mentre se una si separa e si fa indipendente, di-
sturba e danneggia. Ed è questa, certo, l'antica teo-
ria di Alcmeone Crotoniate, per cui il dominio asso-
luto (µouv«p:x.("tJ) di una singola forza nell'organismo è
causa che esso si ammali, e l'equilibrio tra le forze
(taovoµ.('1]) causa della salute 111). Però il nostro autore
vuole ignorare tanto la teoria delle qualità fonda-
mentali, quanto anche la famosissima teoria dei
quattro umori, sangue, flegma, bile nera e bile gialla,

") Hanno indagato come affiorino i concetti eidos (che spesso


s'incontra nel plurale) e idea negli scritti ippocratici A. E. TAYLOR,
Varia Socratica 178-267, e, più recentemente, G-. ELsE, The Ter-
minology of the Ideas, in« Harvard Studies in Class. Phil. » 1936.
«t) Cfr. c. 12 e:t3e:cx:, c. 23 e:t3e:cx: GJ('1)µ1hrov ecc.
'°) Cfr. c. 15 (alla fine): il caldo non ha quel grande potere
(Mvcx:µLt;) che gli si attribuisce. C. 14 (seconda parte): le forze
che operano nel corpo, il loro numero e genere, la loro giusta
mescolanza e la perturbazione di questa.
11) Alcmeone fr. 4 (Diels).
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAlDEIA [rn35] l371

teoria che più tardi, e specie da Galeno in poi, fu


il fondamento della medicina ippocratica 52). In questo
egli è l'opposto preciso del rigido dogmatico che com-
pose lo scritto Sulla natura dell'uomo, il quale passò
per un certo tempo per lo stesso Ippocrate.
Epplll'e, per quanto avverso possa sembrare l'autore
della Medicina antica a ogni filosofia, come allora era
concepita, per quanto egli talvolta sembri perfìn com-
piacersi a urtare la gente atteggiandosi a empirico
rozzo, c'è da rimaner stupiti della quantità di fe-
condi spunti filosofici del suo pensiero. Non ci si può
anzi sottrarre all'impressione che egli stesso sia di ciò
consapevole, se anche la nomea di sofista non gli sor-
ride. E poco importa che gli odierni studiosi filologi
di storia della medicina, seguendo in tutto le sue orme,
amino rappresentarsi il medico di tipo filosofico come
l'opposto preciso di lui, empirico ricercatore; come un
uomo che abbia la testa piena di grandi teorie cosmo-
logiche ed echeggi nel linguaggio toni e parole so-
lenni dei presocratici, qualcuno, per esempio, sul tipo
dell'autore dei quattro libri Sulla dieta, che parla ora
come Eraclito, ora come Empedocle o Anassagora.
Poco importa, giacché quel che di veramente e fecon-
damente filosofico ci fu nella medicina non furono
le derivazioni servili di alcuni medici da preesistenti
teorie sulla natura, ma il modo originale e da veri
pionieri col quale i più capaci di loro cercarono di
accostare la« Natura», partendo da un frammento di
essa, un frammento che nessuno prima di loro aveva
scrutato così intimamente, con occhio cosi sensibile
alle sue leggi proprie.

62 ) Ciò è mostrato già dalla teoria del « numero infinito»


di forze che agiscono nel corpo. Contro l'isolamento e l'iposta-
tizzazione delle qualità, caldo, freddo, secco e umido, che era
allora usuale, v. la polemica del c. 15.
1372 [rn36] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Si mostrerà in seguito come Platone con istinto


si.c~~iSiatenuto-"lii cÒntatio -sirettissimo,,. e fin da
principio, con là ~èdicina. t oppo~~- pe;Ò-fin -cr;:-
o~~ -entrare . a p-àdare -or. que-sto . . fappòffif-pòfoheret-·
· ficacia della ni~dicina sulla fì.l~~ofi~ di Plàtone e.~.A~E"­
stotele chiarisce meg.lio di ogni .. altra. ri,ilessiQne .I'~:,
portmza scientifica del nuovo metodo e .a:tteggia1!1e11:t~
del pensiero medico .. ~v~~:t:~~i()n~-~~!. quali ha I.uogo
qui tanto più legittimo, in quanto . si_ trat;ta _appunto,
per essi~-·-del p;;ohlema . centrale della paideia.. N~m_ è_
caso che Platone, nel cercar fondamen~ alla sua sci~~a
.etico-politica, non si. sia riall~çci_atQ_ i!~ allaJorma nia-_
tematica de] sapere né alla filosofia speculativa .. della
natura, ma· abbia pr~so a modello, co~e dice ~~l . Gor~
gia e in molti altri luoghi, l'arte medica.. Nel Gorgia
l'essenza di una vera techne, come Platone l'ha in
~ente, è chiarltà" con lesempio della me~c~~-:;- da
H

questo esempio son dedotti.. i connotàtj . fo~,«J~ent~


.di quella 53). °!lJ?:~.-~.c~~ è un sapere_ intorno a qualche
cosa e alla -sua natura che sia diretto a
giov~e ~g!!
uomini, e che perciò si attua pienamente, anche in
quanto è sapere, solo nell'appli~~zione -pratica:-I>e;
Platone il medico è colui che sulla base della sua écìno~
s"C~nza della natura del sano conosce anchè iÌ ··contra-
rio di questo, il malato, e può perciò trovar la via di
.ricondurlo allo stato normale. Su_ quest'esempio è cal-
cata l'immagine platonica d~l filosofo, eh~ può ren-
dere lo·- stesso servigio àU' anima dell'uomo, e alla sa:~
Iute di lei. Ciò che rende possibile e fecondg il para~
gone della scienza platonica, la « c~a dell'anima» .c0,n
la scienza del medico è un duplice elemento comune:
ambedue questi modi del sapere fondan!? _Uc:i~o ~~~­
ciati sulla conoscenza obbiettiva della natura, il me-

U) PI. Gorg. 464 h ss.; spedabnentè 465 a. 501 a 88.


CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [rn37] 1373

dico sull~ -~~~~:ne della natura del corpo, il filosofo


sull'intendimento della natura della psiche; ambedue
;-
p_~!9 Si_-:=;y;-:Pli~~~- -rlcerc~e -il campo loro ·spettante
della natura, non solo come una congerie cli fatti;
-.ma--~m~ti.-
dalla fiducia di trovare - nella strutturà
;n~t~t\le, sia del corpo __sia dell'anima, il principio nor·
µiativo c4e. detti la loro azione o di meclico o di filo·
sofo~~d~catore. Questa norma, per quel che è l'esi·
-~t~~~; ~orporea, il medico la chiama salute, e con que-
SfilStèsso aspetto, di salute, l'etica-politica cli Platone
-Si--accosta ali' anima umana.
Nél Gorgia l'interesse cli Platone per la medicina
è volto principalmente all'essenza e forma di una vera
techne; in un altro luogo capitale, nel Fedro, dove lo
stesso interesse viene a esprimersi, esso riguarda più
che altro il metodo meclico. Qui Platone esprime l'esi·
genza che la medicina serva di modello per una reto·
rica vera 54), · cioè, com:e egli intende qui e nel Gorgia,
per la sua nuova « arte» politico-filosofica cui spetta
di guidar le anime degli uomini al loro vero bene.
Ma qual è per lui, nel metodo della medicina, il punto
verainente importante e decisivo ? A mio credere, fin
qui si è sempre sbagliato nell'identificarlo, e sono state
d'avvio all'errore le precedenti semischerzose parole cli
Platone su Pericle, che fu - egli dice - un così grande
oratore e persuasore degli animi umani per avere im·
parato _da Anassagora il filosofo le « ciarle sublimi»
(&aoÀecrx_(cx.) · sulla natura. Poiché in quel che segue,
Platone viene_ a dir di nuovo che non si può farsi
un'idea dell'anima senza conoscere la natura del tutto,

..) PI. Phaedr. 270 c-d; cfr. per la vecchia letteratura su


questo luogo W. CAPELLE, « Hermes» LVII 247. Sulla più recente
trattazione del problema da parte di L. EDELSTEIN (op. cit. nella
n. 16 di questo cap., p. 118 ss.), che io non ritengo in tutto ac-
cettabile, non posso qui trattenermi a discutere.
1374 [m38] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

e adduce a chiarir ciò proprio I' e5empio della medicina


d'Ippocrate, applicatrice dello stesso principio alla co-
noscenza del corpo, si è dedotto da ciò che Platone
si sarebbe figurato Ippocrate come il tipico medico
filosofico-naturalista, nello stile cioè di quel tale filo-
sofastro su cui si appuntano gli strali dello scrittore
della Medicina antica. In realtà, la precisa descrizione
fatta da Platone, nelle pagine seguenti, del metodo di
Ippocrate ci porta in tutt'altra direzione, e quel che
egli dice qui è si veramente il modello appropriato
per la retorica, e per quell'arte che è in essa di trat-
tare le anime. Ippocrate insegna, ·egli dice, a doman-
darsi per tutto e prima di tutto, se la natura dell' og-
getto di fronte al quale vorremmo raggiungere un vero
sapere e capacità di agire sia semplice o multiforme
(1toÀu&t8éç) e a ricercare ancora; nel caso che sia sem-
plice, che capacità possegga o di agire su altro o di su-
bire l'azione di altt:o; e se abbia molteplicità di forme
(et871), . vuole egli che si enumerino, queste forme o
modi, .e che poi per ciascuna si stabilisca quello stesso
che si stabilirebbe trattandosi di un oggetto semplice,
cioè come agisce su altro o quali azioni è suscettibile
di subire da altro.
Tale descrizione del metodo ippocratico non si at-
taglia a quel tipo di medico che per curare un raffrèd-
dore si rifà da definire l'universo e la sua causa prima,
ma corrisponde piuttosto con precisione al comportarsi
del perfetto e schietto osservatore, quale Io ravvisiamo
sempre negli scritti migliori del corpus ippocrateo. L'im-
magine che Platone si fa d'Ippocrate, lungi dall'essere
affine all'avversario « filosofico» dello scrittore della
Medicina antica, quel tale che parla in generale della
natura dell'uomo, è anzi congeniale all'« empirico»
autore di quello scritto, a colui che oppone all' avver-
sario, che le nature degli uomini son .diverse tra loro,
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m39] l375

e che perciò per es. deve esser diverso l'effetto del cacio
sui loro stomachi. Sarebbe certo concludere affretta-
tamente dedurre da ciò che l'autore di quello scritto
dev'essere Ippocrate stesso: i lineamenti del ritratto,
infatti, vanno bene non meno per es. per l'autore del
libro Sulla dieta nelle malattie acute oppure per quello
delle Epidemie. L'insuccesso dei sempre rinnovati ten-
tativi di usar la descrizione platonica del metodo ip-
pocratico a criterio di identificazione degli scritti ge-
nuini del maestro nell'interno del corpus, si spiega non
soltanto con l'interpretazione fallace del luogo plato-
nico, ma anche col carattere troppo generico della
descrizione stessa, che in Ippocrate esemplifica un tratto
comune della medicina scientifica del tardo sec. V e
del IV. È possibile che di questo metodo sia stato Ip-
pocrate l'iniziatore, ma fra le opere a noi giunte ce
ne sono verisimilmente anche di altri medici che lo
impararono da lui. L'unica cosa che si può dir sicura
è che la medicina orientata a generalità filosofìco-natu-
ralistiche di chi scrisse il libro Sulla natura dell'uomo
(proprio a costui Galeno riferì le parole di Platone)
o di quel tipo di medico .che lautore della Medicina
antica combatte, è l'opposto preciso di quel che Pla-
tone descrive come metodo d'Ippocrate, il metodo del-
l'analisi accurata della natura (~heì..fo.&o:t T1jv c:puaw),
dell'enumerazione dei tipi (&pt.&µ-fiaa.a.&o:t -roc etSTJ) e della
determinazione di ciò che a ogni tipo si confà {'1tpoa-
«pµ6ne tv !xoca-rov btoca't"Cfl).
Non occorre una gran conoscenza dei dialoghi pla-
tonici per vedere che il procedimento caratterizzato
qui da Platone come proprio della medicina, non è
altro che quello suo proprio, specialmente dei dialoghi
tardi. In realtà si rimane stupiti leggendo la lettera-
tura medica, a veder fino a qual punto il procedimento
metodico di « Socrate » come Platone lo descrive, si
1376 [m40] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

trova in essa come prefigurato. Si è già visto come la


medicina empirica, per intima necessità di cose, co-
minciò a « vedere insieme», per dirla con Platone, in
tipi o forme (e'L3"1J), casi singoli di carattere uguale
verificati attraverso una lunga serie di osservazioni.
Questa parola et3'1) è usata nella letteratura medica
ogni volta che si tratta di un certo numero di tali
tipi da distinguere l'uno dall'altro; :ma quando si vuol
semplicemente rilevare il senso dell'unità nella molte-
plicità, si introduce il concetto di « una idea» (µfoc l3zcx: ),
cioè di unico aspetto o « vista». Identica conclusione
è stata messa in luce dagli studi sull'uso delle espres-
sioni eidos e idea in Platone, condotti indipendente-
mente dalla letteratura medica 55 ). Questi concetti me-
todici, dunque, svolti primamente dai medici riguardo al
corpo e sue funzioni, li ritroviamo poi trasferiti da Pla-
tone nel campo dei suoi problemi, nel campo dell'etica, e
di ll ancora a tutta la sua ontologia. Già i medici ave-
vano visto il problema della molteplicità di forme,
della possibilità di diversificazione delle malattie (7to-
Àu-rpo7t("IJ, 1tOÀUoXL3(1j), e tentato di .fissare, per ogni
malattia, il numero delle sue forme 56), proprio come
Platone fa nel metodo dialettico che chiama parti-

..) Co~sT. RITTER, Neue Untersuchungen iiber Platon (Miin-


chen 1910) p. 228 ss.
58 ) Cfr. De victu acut. c. 3, dove si dice che già i rappresen-
tanti della scuola medica di Cnido avevano dato importanza
alla molteplicità di forme {ttoÀuo-xt1Sl7J) delle malattie e, per
ognuna, avevano cercato di determinare il numero di tali forme;
nel qual tentativo però essi si sarebbero troppo spesso lasciati
sviare dall'identità del nome. In questo luogo pertanto è affer·
mata la necessità di raccogliere più forme morbose in un solo
eidos. L'autore del libro De flatibus c. 2 rappresenta il momento
estremo di questa tendenza: egli contesta la molteplicità di forma
{ttoÀu-rpottl7J) dei morbi e afferma che esiste per ognuno un
solo -rp67toc;, che si differenzia poi in quadri morbosi svariati
a causa della diversità del -r67toç.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m41] 1377

zione e che definisce anche come un tagliare e suddi~


videre i concetti generali nei loro generi 57).
In questo trarre l'arte medica a term~i,ie_ di_p11ragone
~~ m2 ~~p.~, RTafoiie-liiCiil--iiie:Ilte-prima di tutt-.; il
carattere normativo di quella. Perciò, accanto al me-
d!co;~egH prende_ ~ç)iè~ il pìlota .a esempi~ di- ~ t~
genere-di- sci~n~l!., e_ U:i q~es~~- lo ~e_gu~_ ancJ;t~ Aristo--
-tele. Tll.tti e due prendono il paragone del medico col-
·puofa- dal libro Sulla medicina antica, che .lo av~v~
.:iisato- per primo in un tale contesto 68). Ma mentre
Platon.e pensa piuttosto, nell'accoglierlo, alla conoscenza
.della norma come tale, in -Ari~totele la fecondità del
- ~;J~ilo - medico si riv-ela' da Un altro Ìato: È. uno dei -
piò gravi' ·problemi d~Ua - sua etica, come la -·;;_orma,
-:c&-e-ii~r-_aì-- natiira uiliveisale, possa: appliCarsi al
~;~o-·sfugolo, a1Ja vita dell'individuo, il. quale sembra a
jilimaVisia-sotirarsi a o~ ~eg~la gen~rale. n problema·
E!_~~~~_ i~_E_(l!.,Ì.il_nz11 decisiva _priina di _ tutto ;i:iell' edu~
cazione, _e __ perciò Aristotele fa una distinzione fonda-
-;_e;;_t~~ -fra educazione individuale e - della -comunità,
~~J!ii-qU_esto si ~ppoggia sull'~se~pio _dell~ medie~~ 59).
Ma anP_h~ 11el. ..~spondere al problema di come possa
jl s~go,l~ t::i::9var~ --la régòla giusta )lér l'azione, il filo~·
sofo trova aiuto nella medicina, che gli insegna a
concepire··11_·r~tt:P~ . c.Ì:i~p9ì1:~e:D.io etico, - co~torllìé- ·a
unas;u-;· dieta ço:i::p_O_!eli, _coIIle il mantenimento di un,
gimio-~ezzo tra eccesso e deficienza: espressiom, que-
Ste~--che- meglio si ~omprendono quaudo si ricorda che

57 ) Cfr. De vet. mect. c. 15 dove si afferma che nella realtà

non esistono caldo o freddo, secco o umido in sé, che non abbiano
comunanza con alcun altro eidos (µ'1]3evt &ÀÀ<j> yéve~ XOLV(J)Vfov).
Cfr. PL Soph. 257 a ss., che pure parla di una XOLV(J)v(a: dei
yév'l] cioè degli et3'1] (cfr. 259 e).
•S) Per es. PI. Polit. 299 c; Arist. Eth. Nic. II 2, 1104 a 9;
III 5, 1112 b 5, e poi De vet. med. c. 9 (seconda metà).
••) Cfr. Arist. Eth. Nic. X 10, 1180 b 7.
1378 [m42] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

l'_,tica per .A.ristotel,e .ç~çr.p,e__ jJ__~«!!o di ~go~are gli


is!inti Um.~9_jLpiacere._e __iL __11-g~--f!.~J!~~~~':Pl~­
tone aveva ~!~--!_~!~~:t.ti _m,~_di_çi_ d~~Jlleire JL~el _
vuoiare-applicandoli all~~-!~2ri1Ld~L~~n&!ienti piace-
vò'it-è ..aveva·--;;~;gji__ai~·-::questi--a---quel---gen;;;::]i~
eh~ ammette ~ -~ più _o un. meno:»._,___,e.J!~-~-~~'!!!a ap-
punt0" di regolarè-60). E il Criterio di quest~ reg~i;è
fissato da Aristotele ~eil -~ùSìomezzo~· :llòJT"~
····-·--·-·-···· --·· ·....... :...,.·., ..., .. ·...;.·· '·-'- ....:,_:;,.__ .•.:.: :......, ...........,;,. .... ..--·--Wl,ool-...-.-............... _ . . . ._
_~

!?~P!:to_ .P~ _ e:~~~---~ -~~~~- Jì_s.~o _-~~-E'.W:~f:i~~--!!~-_g!L


es~.,n;ù.,. _çome il _m,ezze>. l!Ss.ol:uto. _di ~a .scala di.~~~,
ma_ come_ il ~~~ILmezzo p,er__ findividn.o-~nt~~ ç_os!_
~--~1:!1.P.~~~~.!'~.!~--- ~~!-~., _è __ ~" ~ -~~~~~!'~ ~---!l.~1{n.ello
_ç:li,e_~ pe:r: nqijl gi~t(qn,ez~o,_µa il .°U9,PRR,.~, il~~PJ?O
poco 81). Q~ parola ..~- #totele su. "qJ!~!.6-.--~opJ;es!g.
i concetti di eccesso e di mancanza, del mezzo e della
giusta misura, de(~ te1:1c1~èi::ç_d:~Ls~~;.qi;ir~lltto-&7J-
aiç), i1 rlliuìo di ~- r~ola fissa e in pari tempo l'esi-
genza di ;;_-;-'ii_'ò~;~;t;ti;-~-ia- nat~i-~~ _ça~~- s~~
ìlitio questo è _<14'.eiì~~~;,,te deriv~t~ - dall~-·;;:;dicl':a,
èa -il m.c>c1eno-i»~ h~n~ eh.~ ~ siiit:o ~PP~!~~I~
Sulla medicina· antica 82).
· - - ~fcJarebhe p~Pva'·di-Wi'm~omprensfon,~.-a~~!!!~~
forma mentale greca se si_ cercasse dì svalutare que-
-sto fatto,----- forse
- ~a «ori
in no.me dì -------, "'""à:iìià:»'''màfe
-----------~---------->------ . ··--
-intesa in_ sens_o mo_derno. Un tal criterio JlOD pptrebbe
~he ~viarci. J>laton~ e -~t~tel~ -inten:~9iQ.-i~::~ccre­
~ere autorità alla_p:r1?pria dot~~~-P:t:Qp~o-~,.9.,~~;t~

eo) PL Pki"leb. 34 e-35 b, 35 e ss.


11) Arist. Eth. Nic. II S, 1106 a 26-32; b 15; b 27. Cfr. De
11ei. med. c. 9 9 citato sopra, n. 42.
91) Il passo De t1er. med. 9 si trova più volte echeggiato anche
nella letteratura medica del IV sec.; cfr. Diocle di Caristo fr. 138
(Wellmann) e la polemica che si trova nel libro Sulla dieta I 2
(Littré vol. VI, p. 470, seconda metà). L'autore contesta la pos-
sibilità di una reale precisa applicazione di regole generali alla
natura individuale del paziente. In ciò egli vede l'inevitabile
debolezza di tutta l'arte medica.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m43] 1379

si connettono _a .con~e,.,.tlL.!!aP!'.rn, _gj,à.. _a~sodate.. in.


un piano parallelo al 1()1,'.'()~. La __ yita (.lW,1'.lJ!~~ ___greca. è
una com~lessa~iii.itiW:_l\_Jn,,c.ui tµtto si_ leg!l .c.~n !ll,t!9
~~~ .P!~~a ~li_f:l 11011 _regga _e _sia .r~!:ta. È .anzi .im:-..
portante ~~--~~sto ,_«.'.l:l!~tt,ere dell' edifìçio spiritu.,~e
greco, già da -noi osservato i.n _pre~edenti gradi -di svi-
-
luppo ;tO-ri~?.- tr?vi. un~ conferma ora, in- un punto
!?si _4!_~~~~~-~-- com~ 'i~-- di>ttrina, centrale in Platon_e e
Aristotele, dell' areté umana. E non si tratta qui, come
a-
semh~a . prima Vista,' di s~emplici analogie: è la dot-
trina medica, nel suo complesso, della retta terapia
del corpo che vien congiunta con la dottrina socra-
tica della retta cura e terapia dell'anima, in una sin-
tesi diversa e superiore all'una e all'altra. l!_ concetto
platonico e aristotelico dell.:ai:.e.té'._JJ,Jil._BJ!a___<;,o_mp.~ey~~~-]ji~~
.!!:~-~ misuraJ1u~rnta.:L9&tJ1q_rpo _e qu_eJle dell' anim8:. ~)~
--~ili.Ji~=-~~g9__J!:q_J;~;r_g_@ico .. e _pieJ.lo _assorbiment~
dclJ..~--~~~ç!B~t ,i;1ell'au.1r9_p9lo_gi_!t ~losofica .di.Platone. E
--~~:'!:.-~:g,..!~.J!.~~~-:in ~~- ~11.c.e ~~tta nuov:1;1,Ja qu.estio;nes.e.
-~fino a ch~.e_~~().11Il~-;~isj!ip~a :t;Pe8,~a!e, la, JJ1e.diciniJ,
~_ppartenga _alla stoJti_~ ~e,1!.~.,P.~-~~i~~~~&n è solo che la
.s.cièij:'j,~}lle!l!§~-~yegli_ inte~esse ,e çoJl!prensione dei sµoi
problemi e -~~L~-~~".P._,ensiero in un _p_"!ilil!lico pi~ }IU'go,
"'m;·Tc"~~~-4ts.~11•. neU:~ifu~~si 8. un campo particolare
-d~n•;s~J!2ia
_____ ,,__.... ..-.uman~_jl_ __ c.ampo. -è~rpp~~2~ ~W,ige _.:~
~~o:eer!~. _jl:j:111p_Q_!'!~!:!,~_3:"_-~i_!al~_,_P.~!____la _ C_?~!!.Y2-<io.ne
filosofica
__ di_un
,___.,,._"'<:"................,. . ··-·· ....nuovo-ideale
- _della. ..natw:a uman.a ...e,.
_:eel'!~~~~~!~J~.-FiJÌ. p_e_:rf_e_tt_a_j)_p.e.ra ..dLfonnazio.n.e.. deJ~
--r~l?:m~:- -
Non sarebbe a proposito, per il compito che ci siamo
proposti, trattenersi con uguale minuzia su tutto il
contenuto della letteratura medica greca. Si tratta in

aa) Cfr., infra, p. 46 s.


1380 [III44] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

essa per larghi tratti dei particolari di una disciplina


specialistica. privi d'importanza diretta per il nostro
scopo. Ma un punto non si può trascurare. La medicina
.de~ __y_~_IY -~ec.~_dette oltre __ ~ _qu_~lli __d!.!~_:~~
grande processo spirituale della formazione dell'uomo
greco, -un altro contrih~io, "che ~olo da --p'Ocoè~ato
~o&CiU.10--nèrsuo-vruore -d.aila m~d~~ii·;--;Cieiiia"Diè~
dica, e portato a sviluppi ulteriori: la dottrfu.a della
conservazione della sitl~~~""'~ È questa la v~ra e propria·
creazione dello spirito ippo-crat1co--nercampo _ _ del-
I'educa~one. Si può ÌJltenderla solo ponendoht, .~µ])~
sfondo del quadro totale della natura che balza f:uori_
dagli scritti di questo periodo della scienza medici!,
II concetto di natura è, come si ...~ .~h,iarit9, ()Ill!iP!.~=
-sente nel pensiero __ d_~i medici greci.. M~L.!LU,ale fu, di
e._~_so, il- contenll:_t:_()___~.'?~creto ? CoJI1e _si tivel~...-ajl() spii#~
_di --;iceica.-d~lla __ sc~_()l~=-ipp-~-~~3.ti~~--·-if ·p~tere ~- -~~I
che- ~C_é.hlima~~~-Physis_? Un_tentativo siste~atlc-oru
-fis~are il_ pensiero naturalistico della pia- -~11ti~~~'i~ite:­
rat~~: ~edica-g~eca; che pur s~ehhe stato importail.ie'
~che p~;--~tQri.iJ ~int~llett_µale _in _ç~;i;_pje~~Q_ -di Vi:el.
_p~~ò.<!~- ~om~.-~ej_ ~11.:?_cessi~,__1)..Q_~_ è stato ancora f3.tt~
_fi._t!),-qyj_._Si p~ò dire che dappertutUi-:-m_ qu;sti scritti,
il medico si presenta come colui che non separa mai
la parte dal tutto, ma sempre la vede in tutte le sue
azioni e reazioni çon tutto il resto. E si può ancora
- a questo punto richiamare il giudizio del Fedro su Ip-
, pocrate 64)- dove le parole di Platone significano pre-
: cisamente quel che noi chiamiamo concezione organica
della natura. Col suo accenno al metodo della medicina
: egli vuol rendere evidente la necessità che, in ogni
campo di ricerca, si colga prima di tutto esattamente
la funzione della parte nel tutto, e per questa via si

M) Pl. Phaedr. 270 c-d; cfr. supra, p. 38.


CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m45] 1381

Ìdetermini ciò che è appropriato alla parte. È notevole


iche proprio la medicina offra il modello di un tal
l
.modo di trattazione. Nel Fedone Platone biasima la
!filosofia antica della natura 65) accusandola di non
\aver
I
tenuto conto del momento della finalità immanente .
\nel cosmo, un concetto strettissimamente legato coni
\la considerazione « organica» della natura. La scienza/
\medica doveva offrirgli quel che egli non trovava nei
flloso:fi della natura.
:. _. Nella scienza naturale e nella medicina del sec. ~~X
_la medicma greca fU Vista certo in tutt'altro aspetto
da quello che abbiamo delineaiò,. e il pregiudizio dog~
. matico di allora f~rni a sua volta i presupposti coi
qilaii". f'fiw~gi- ·ricer~~t-.;ri--- di''8iòna:_, ·a:erra·-·merueinli"-8i-
accosi~;~-~~--~~ J:lle4!~~~ i;r~~~-6s).~~f8apeva-hene--élie
racoii'~~zi«?~.~--!~~~~~()gica dei. f e~omeni ~~t-iirail'-aveva
avuto una parte ril~;aii:t-~--pres(!o-1 médìé:i. gl-ec(più
~i:n~atenojiijma· di 'i..in~: :Ma ~--sri!e~ii caso
era stat_().,P..!"~tjf?, com'er~ a primo sguardo evidente,
-P-niliu~so
..,...._._ ·--··.. . della
' ·~ .
filosofia elle · aveva intorbidato e sViafo
il .pensiero medico. Cos~, -':i:Ò. contrapposto a Galeno,
.---··--·

85) PI. Phaeào 96 a ss.


Ciò non vale soltanto per la letteratura sulla medicina
81}
greca, ma anche per un lavoro meritorio e ricco di. vedute intel-
ligenti come il libro di W. TBEILEll. Geschichte der teleologischen
Natiirbetracktung bis auf Aristoteles (Zurigo 1925). Questo libro
si limita essenzialmente ai filosofi; per quel che riguarda i medici,
tutto consiste in una citazione del tardo Erasistrato (Appendice
p. 102) e in qualche sporadico paì-allelo tratto dal corpus ippo-
cratico. Ma oltre al confronto della natura con l'opera consa-
pevole dell'arte, che è nel Theiler il tema di primo piano, è anche
e soprattutto l'attività finalistica inconscia della natura, come è
professata dalla scuola d'Ippocrate, quella che meriterebbe una
più seria trattazione. Questa doveva essere la forma di teleologia
più feconda di conseguenze per la scienza moderna, anche se
allora il vocabolo telos le era ancora estraneo. Una svolta verso
una valutazione più giusta di questo lato della medieina ippo-
cratica si mostra nei Beitrii.ge zur Heilkunde (« Miinchener Medi-
zinische Wochenschrift» 1931 N. 9 ss.) di A. BIEH.
1382 [rn46] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

si vide in Ippocrate l'empirico puro e sembrò con ciò


dimostrato a sufficienza che per lui non si poteva par-
lare di concezione teleologica. Ippocrate passò per uno
dei più grandi rappresentanti antichi della concezione
puramente causale-meccanicistica, della natura 67). Il
concetto della « misura» o « proporzione» che' si vede
dominante nel libro Sulla medicina antica e che rimase
in generale indiscusso per i medici greci, deve indurci
in dubbio sull'esattezza di questa interpretazione del-
l'arte medica ippocratica. Ed esso indica in pari tempo
in qual senso si possa in questo caso parlare di teleo-
logia. Compito del medico è di restaurare la nascosta
proporzione, quando sia stata turbata dalla malattia.
Nello stato di buona salute è la natura stessa che la
ristabilisce 68) o, se si vuole, è essa stessa la giusta .
proporzione. Il concetto così importante di « mesco-
lanza», che in realtà significa una specie di giusto equi-
librio delle forze nell'organismo, è strettamente con-
nesso con quello di« proporzione» e« simmetria» 69).
La natura opera nel senso di questa« sensata norma»
- così bisogna chiamarla - e si comprende ormai che
Platone possa parlare di forza, salute e bellezza, pro-
prio come di« virtù» (àpe-rell) del corpo e le metta a

17) TB. GOMPERZ (GTieckische Denker, I', p. 261; trad. it.


di L. Bandini, Firenze 1950 II, p. 68) che· ha il merito di
avere inserito per la prima volta i medici nello svolgimento sto·
rico della filosofi.a greca, rimane tuttavia nel giudizio il tipico
rappresentante dell'età positivistica. Ciò appare nel fatto che
egli connette strettamente tra loro Ippocrate e Democrito; e in
servigio di questa tesi si richiama al tardo romanzo epistolare
nel quale si volle immaginare un rapporto personale tra i due
uomini.
") Per es. De 11et. med. c. 5 (alla fine), 9; De 11ictu III c. 69,
e di continuo negli scritti dietetici.
6•) De vet. med. c. 14 (seconda metà); De aer. c. 12; De nat.
lwm. c. 4. La parola &.xpo:al7j in De lods in hom. c. 26 e altrove;
per il concetto di armonia cfr. De victu I 8-9. V. il mio libro Dio-
kles von Karystos p. 47 ss., su &pµ6-.-rov, µéTptov, auµµe:-rpov.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [1I147] 1383

fronte delle virtù etiche dell'anima. Egli intende per


« areté » proprio la simmetria delle parti o forze, che
costituisce quel che i medici chiamano lo stato« nor·
male» 70). Non è quindi meraviglia se la parola« areté»
s'incontra anche nel pensiero medico più antico 71) e non
è da immaginare che essa sia entrata nella medicina
solo per influenza di Platone. Al contrario: la conce-
zione che essa suppone conviene e concorda appunto
con la visione della natura della medicina greca più
antica. La finalità nell'azione della natura si fa luce
specialmente nello stato morboso. L'azione del medico
nella cura del malato non consiste nel proporsi ·in·
terventi contro la natura. Gli stessi sintomi della ma·
lattia incipiente, e prima di tutto la febbre, son già
l'inizio del processo di ristabilimento dello stato nor·
male. È il corpo stesso che lo riavvia; il medico ha
solo da cogliere il momento in cui inserirsi e coope-
rare al processo naturale che tende alla guarigione.
«La natura aiuta se stessa» 72 ) è l'assioma supremo
della teoria ippocratica delle malattie, ed è insieme
la più schietta espressione della sua base teleologica.
Due generazioni più tardi Aristotele definì il rap-
porto tra arte e natura riel senso che non è la natura
a imitare l'arte; ma che l'arte è stata inventata allo
scopo di colmare le lacune della natura 73). Questa con-

70) Platone (Phaedo 93 e, Legg. 773 a, Gorg. 504 c) wol dire


la stessa cosa quando definisce la salute come« ordine» (T~tc;)
del corpo. Cfr. anche Arist. fr. 7 Walzer p. 16 (45 Rose), sulla
simmetria come causa della salute, forza e bellezza del corpo.
71) Cfr. p. es. De victu acui. 15 e 57.
") Eraclito parla (fr. 67 a) di un« accorrere» della psychf
alla parte offesa del corpo, e lo paragona con l'azione del ragno
che accorre nel punto della sua rete che una mosca ha lacerato;
e fa pensare a ciò che insegnano gli ippocratici, della natura che
« corre in aiuto» ( !)o'l].&e!v) contro la malattia. Il passo fa l'impres-
sione di una teoria medica piuttosto che di un aforisma eracliteo.
73) Cfr. W. JAEGEB, Aristoteles, p. 75 (tl'ad. it. Calogero.
Firenze s. d. ma 1935, p. 97). -
1384 [m48] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

cezione presuppone la costante attività finalistica della


natura e in essa vede il modello primario dell'arte.
Con procedimento inverso ma con uguale scopo una
parte dei medici dell'età dei Sofisti avevano dimostrato,
anch'essi, la struttura finalistica dell'organismo umano
paragonando le singole parti del corpo ad arnesi e
ritrovati tecnici e stabilendo analogie tra questi e
quelle. Un esempio di una tale teleologia si ritrova
in Diogene di Apollonia, che fu insieme :filosofo della
natura e medico e che, perciò, si è supposto essere stato
l'autore di questa teoria 74). Comunque, essa è venuta
su in terreno medico. Nel corpus ippocratico, la tro·
viamo rappresentata nell'opuscolo Sul cuore 75). Nel
primo dei libri Sulla dieta un'altra forma, più mistica,
di teleologia ci si presenta: tutte le arti sono imita·
zioni della natura dell'uomo e si possono spiegare per
mezzo di riposte analogie con essa; il che l'autore
cerca di provare con una serie di esempi peregrini 76).
Tutto ciò non ha niente di comune né con Aristotele
né con Diogene, ma pur concorre a dimostrare quanto
multiforme e . diffusa sia stata quest'idea :finalistica
nella medicina di quel tempo. « L'arte del medico con·
siate nell'estromettere l'elemento che reca dolore, nel
risanare l'uomo togliendo quello per cui egli soffre.
La natura, da sé, può ottener questo effetto. Se si sof·
fre per lo star seduti ci si alzi, se per essere stati in
moto, ci si riposi; e molto altro dell'arte del medico
ha in sé la natura» 77). Queste, certo, sono specula·
zioni personali dell'autore; ma anche la scuola ippo·

") V. il citato (n. 66) libro di W. THEILEB, p. 13 ss., che


cerca di ricondurre a Diogene tutti gli esempi di questo tipo.
15) Da questo opuscolo è tratto l'esempio che il Theiler ri-
porta a p. 52; ma esso è tutto ispirato a questa tendenza teleo·
logica.
70) De victu I c. 11.
") De victu I c. 15.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m49] 1385

cratica non attribuisce al medico che una parte sus-


sidiaria e integrante rispetto alla natura. Così, per es.
nelle Epidemie: « La natura del paziente è il medico
che Io risana» 78). Qui è la natura individuale che è
concepita come essenza che si muove nel suo agire
ad un fine; in una proposizione che segue "-- o meglio
si direbbe aforisma - è oggetto della considerazione
la physis in generale. La natura trova rimedi e vie
d'uscita da sé, senza ricorso all'intelligenza consape-
vole, per es. lo sbatter delle palpebre, i movimenti
della lingua e tutti i fenomeni similari. Questo problema
della finalità nella natura era stato risolto dai più
recenti filosofi naturalisti, guidati in ciò, come si os-
servò a suo tempo, proprio dalla medicina, con I' am-
mettere una ragione divina, penetrante l'universo tutto,
ordinatrice di tutto secondo una riconoscibile intelli-
genza 79 ). Il segua.ce d'Ippocrate si astiene da ogni
ipotesi metafisica del genere, ma pur guarda ammirato
la natura che senza consapevolezza si comporta in
modo pienamente conforme a un fine. Il vitalismo mo-
derno introduce a questo punto, come anello inter-
medio tra il conscio e l'inconscio, il concetto :fisiologico
dello stimolo come origine della reazione finalistica
dell'organismo. Un tal concetto non si trova ancora
in Ippocrate. Ma se riguardo al « come» dei processi
:finalistici dell'organismo, la scienza antica non seppe
giungere a conclusione, il fatto in sé fu da essa deci-
samente affermato. Dovunque in natura esista qual-
cosa di animato, ivi sempre la scienza greca innestò la
finalità; e per quel che riguarda la medicina il campo
dell'animato è l'unico con cui essa abbia che fare.
---Nel luogo sopra citato delle Epidemie lautore C()nia
.... .. - .. ·--------,~··-"·----------.....---- - ·-·---~-- " -

78 ) Epid. VI 5, I VOU0'6lV q>UO'Le:ç [TJ"POL


79 ) Diog. Apoll. fr. 5 (Diels) (cfr. anche fr. 7 e 8).
1386 [mSO] LIBRO TV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE
,,,_,,,.,,-- ----.
p. concetto di (n:";aideia inco11~cj;,:)m,.,,rir.._~ ~della
qu ale lanaìurata~'"u'èr'clle'.-è~n~c.essario: e:tmoc(8e:u-ro
q . ""'"'"""""··"--·· ""' ...........,,,·~~··"·"··-·~
··~ qi~ò-~e; &otGoc,_ ()~ ·~oc-l}ouaoc,. -rà: _ ~~?.v-rix. ~g ~Ei:: ·~~~Y:~~
zione ippocratea del .. Littré - critica:rµ~,nl~--J~~u~.-.
' cìente; seppure iilolto -~e!it~rill. Jl~!_i! s_~~ te~p~-~&~~
:qu11k siamo .c~sti:ett:~. a,n_ç9ra_ ~ fa_r~ uso, non esisten- ,
done di migliori, tranne che per pochi ~c~itti"=-~i-Iegge­
~U'opposto_: « La, natura --~~-~-~t;() _iil,ç_ol.t;_~ (&mX:l~z~~~çj ;:
non ha studiato niente; e~pure fa il necessario». Un
• --'-:'"".._- ._. •'-' ·-~ -·--..:-••• ,;, __ • »-..:• ••. v •• -~·..:~"~'"'-__...,,~""=•-=--

Rensiero simile, di tipo negativo, si trova anche nel più


t~do aut~i:e ~el\',op~s§oio ricco di· af~ri~iiii"sùuanù:­
ùiZio:;i~ 80)~ .« Le natur~ "di· -t~tiè le· c~~~~:;i:;;--haìino
~~to maestro». Si ha quasi l'impressione che costui
abbia già avuto sott'occhio la variante del nostro
luogo delle Epidemie e l'abbia echeggiata. In tal caso
però egli si lasciò trarre su falsa strada, giacché l'idea
di un fare ciò che è opportuno senza paideia sarebbe
stata per quel tempo troppo paradossale. Perciò, se
la natura fa da sé il necessario senza averlo imparato,
ciò significa che è provvista di una geniale capacità
di istruire (e:ùnoc(8e:UToç) se stessa. Essa svolge la pro-
pria maestria direttamente nell'opera cui attende. Que-
sto è il testo che, oltre che leggersi nei manoscritti
migliori, fu evidentemente sott'occhio al poeta di quella
raccolta di sentenze che va sotto il nome di Epicarmo.
Questi afferma proprio in questo senso la sapienza
della natura, quando dice che essa si è educata da sé.
L'inconscia ragione della natura è intesa qui come
cosa analoga alla consapevole « formazione» del·
l'uomo 81).

18) De olim. 39 qiuatcç 'ltciv-r<i>v ci3l8cxx-roL


11) Epich. fr. 4 (Diels) vv. 6-7:
-rb •Bi aotpbv &: tpu1nç -r68' o!8cv 6iç fxc'
i.t6vcx • :rrcncxl8cu-rcx' yà;p a.ÙTcxuTcxç G7to.
CAP. I: LA MfilJICINA GRECA COME PAIDEIA [m51J 1387

È un'idea, questa della tradizione ippocratica, che


va ben più a fondo di quell'argomento dei Sofisti,
echeggiato anch'esso dal pensiero medico, per cui la
formazione culturale della natura. umana mediante la
paideia trova analogia nell'agricoltura e nell'addome-
sticare animali 82). In questo caso, infatti, la paideia
è concepita come mero allevamento e addestramento
procedente dall'esterno, laddove, nel modo di vedere
ippocratico essa dispone già, nella natura stessa, nella
finalità che la pervade, di un inconsapevole spontaneo
grado preliminare. Si spiritualizza cosi ciò che è na-
turale e si naturizza lo spirituale. Questo è il nucleo
d'idee da cui si origina quel geniale atteggiamento
per cui si ricorre correntemente ad analogie spirituali
per spiegare fatti fisici, e a paragoni fisici per inter-
pretare. fatti spirituali. Cosi l'autore delle Epidemie si
vale di tali analogie per coniare massime energicamente
espressive 83) come:« l'esercizio fisico è nutrimento per

Nei versi precedenti è addotto l'esempio della gallina che


cova l'uovo, a chiarire questo concetto di una ragione naturale
insita in tutti i viventi. Se autentica, la massima sarebbe, se non
proprio la nostra più antica testimonianza per il concetto di mu-
Se(a:, per lo meno non più recente di Aesch. Sept. 18 (cfr. « Pai-
deia » I 495). Ma in Eschilo 7tCXL8e:Ccx significa solo mx(8wv
-rpocplj; in Epicarmo la parola ha già quel senso lli « cultura su-
periore», che essa acquistò per opera dei Sofisti e precisamente
nel IV sec. Il Diels mette il frammento tra quei pochi che non
sarebbero sospetti di derivare da una delle tarde raccolte falsi-
ficate col titolo « Detti di Epicarmo ». Ma, per quel che ci con-
sente di giudicare l'evoluzione di senso della parola, quale è risul-
tata dalla nostra ricerca, anche questo frammento è una falsifi-
cazione come gli altri.
82) Cfr. « Paideia » I 534 ss. Risonanze, tra le più anti-
che, di questo paragone sofistico della paideia con l'agricoltura
sono da considerare Hipp. Nomos c. 3, dove il concetto di cul-
tura è trasferito alla formazione speciale del medico, e PI. Tim. 77 a,
dove, con una brillante inversione del paragone, l'agricoltura è
definita una paideia .della natura.
88) Epid. VI 5, 5. Il DEICBGBABER (op. cit. p. 54) intende:
l'aggirarsi dell'anima [nel corpo appare] all'uomo [come] pen-
siero. Ma ljiu;l('ìjc; 7t&pL7tcx-roc; cppov-rlc; civ.&pclmoLaL non può avere
1388 [m52] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

membra e carne; il sonno per i visceri»; « il pensare


è per l'uomo il passeggiare dell'anima».

Si comprende, di fronte a un tale concetto della


natura come forza spontanea inconsapevolmente fina-
listica, l'espressione dell'autore del libro Sulla nutrizione:
(( La natura è sufficiente in ogni cosa per ogni cosa» 84).
Ma come il medico facilita con l'arte l'opera di lei,
quando ne è turbato l'equilibrio, così dalla stessa con-
cezione risulta per lui il dovere .di prevenire il turba-
mento che si minacci e di vegliare alla conservazione
dello stato normale. II medico antico è molto più di
quanto lo sia mai stato il moderno, fino a pochi de-
cenni fa, il medico, non solo del malato, ma del sano.
Questa parte della medicina è indicata col nome com-
plessivo di igiene (-rà: ùy~ew&:}. Oggetto delle sue cure è
la« dieta», parola con cui i Greci intendono non solo
il regime alimentare dei malati; ma tutto il modo di
vita dell'uomo, spec:almente per quel che riguarda
l'alimentazione e l'esercizio fisico che gli si impone.
E qui si scorge come dalla visione teleologica dell' or-
ganismo umano sia sorto per il medico un grande com-
pito educativo. Nel mondo antico solo in minima parte
la cura della salute fu interesse pubblico, principal-
mente essa rimase in funzione del livello culturale del
singolo, della sua intelligenza ed esigenze, dei suoi
mezzi. E fin dal principio fu legata, come era natu-
rale, con la ginnastica. Questa ebbe sempre un posto
rilevante nella giornata dell'uomo comune greco.
Essa pure poggiava su una lunga esperienza igienica
ed esigeva un controllo costante delle attività-..corporee.

questo senso. Il pensare (µ.éptµ.va:) è annoverato tra gli « eser-


cizi» anche in De 11U:tu II 61. La novità di questo concetto consiste
nell'esiensione dal corpo all'anima.
"') De alim. 15.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m53] 1389

Si può dire che l'allenatore fu il precursore del me-


dico, come consigliere competente per la cura del
corpo, né fu dispensato dal compito per laffermarsi
delle dottrine sulla dieta, ma conservò il suo posto
accanto al medico. Anche se la medicina da principio
cerca di invadere il campo della ginnastica, ben presto,
come mostrano gli scritti dietetici conservati, si fa
strada una divisione delle competenze e il medico,
per certe materie, si rimette all'autorità dell'allenatore.
Di quella che fu una copiosa letteratura medica
sulla dieta, si posseggono resti da tutte le epoche della
cultura greca, e si potrebbe su questi delineare una
storia dello svolgersi di tale letteratura, capace di far
qualche luce anche sulle mutazioni della vita sociale.
Qui però il nostro compito si limita agli inizi di questa
storia. Perdute le opere più antiche sull'igiene, si pos-
siede, per il periodo dal V al IV sec., nel quale questo
ramo della cultura fisica greca ha il suo primo svi-
luppo, un breve scritto Sulla dieta nello stato di salute,
al quale si potrebbero aggiungere due altre testimo-
nianze, se la cronologia comunemente accolta fosse la
vera, e cioè: i quattro libri Sulla dieta, opera celebre
nella tarda antichità, e i frammenti notevolmente estesi,
che tardi scrittori ci hanno conservato del libro per-
duto, di un medico di rilievo, Diocle di Caristo. Ma,
come si dimostrerà in seguito, l'una e l'altra opera deve
essere assegnata a data più tarda di quel che si sia
creduto generalmente fin qui. Con tutto ciò questi scritti
si possono complessivamente considerare come i rappre-
sentanti di un'epoca unitaria, concordi come sono nei
tratti tipici. Per gli elementi, però, in cui differiscono,
essi rivelano un certo svolgimento in questa branca
del sapere medico, e in misura notevole, l'individua-
lità dei loro autori, talché dovremo caratterizzarli l'un
dopo l'altro. Se poi si volesse scrivere una storia com
1390 [m54] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

pleta della dietetica di questa età, si dovrebbero met·


tere a profitto anche tutte quelle regole sul regime
dell'uomo sano che occorrono occasionalmente spar·
pagliate in altri scritti del corpus ippocratico.
II trattato Sulla dieta nello stato di salute 80) vuol
fornire a profani una guida a stabilire una dieta gior·
naliera. È questo il proposito anche di un altro libretto,
il trattato Sulle affezioni, il quale perciò già nell'an·
tichità, in vari manoscritti, si fece seguire immediata·
mente al primo. Nel libro Sulle affezioni il problema
dell'educazione del profano è afi'rontato a modo di
introduzione, e vi si ricerca in che misura debba il
profano possedere cognizioni mediche per esser d'aiuto
a se stesso e impedir laggravarsi dei morbi o, se
tanto non è possibile, almeno per intender meglio le
prescrizioni del medico e coadiuvarlo. La chiusa del
libro è costituita da una teoria della dieta per malati
scritta per lettori di livello comune. II parallelismo
col trattato Sulla dieta nello stato di· salute è perfetto,
e si capisce perciò che nell'antichità le due opere si
siano volute attribuire a uno stesso autore. In què-
st' opera, che qui ci interessa, la trattazione del regime
dell'uomo sano si estende alla nutrizione e agli esercizi
fisici in rapporto alle diverse stagioni, luoghi, costitu·
zioni, età e sessi, ma sempre molto in generale. I4'idea
madre dell'autore si può definire come una sorta di
politica dell'equilibrio tra le potenze fisiche, per la
quale nella stagione fredda si prescrivono· molto cibo
solido e pochi liquidi, nella calda l'inverso, per compen·
sare l'azione dell'inverno con aumento di secco e caldo,
e quella dell'estate con umido e freddo. La regola è
dunque, appena una qualità minaccia di prevalere nel-
!'organismo, di fortificare il suo contrario. E ciò perché

86) Vol. VI p. 72 Littr6.


CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [mSS] 1391

per lautore, che in questo punto coincide col trattato


Sulla natura dell'uomo, condizione base per l'insorgere
delle malattie è il fatto che il corpo consta non di
uno ma di più elementi, e che il giusto rapporto tra
questi è facilmente turbato dall'aumento eccessivo di
una delle quattro qualità, caldo, freddo, umido e secco.
Teoria, questa, che l'autore della Medicina antica ri-
fiuta con ragione come troppo schematica, ma che ap·
punto per questo, si capisce, si prestava a una facile
applicazione. La dieta in essa si configura come una
specie di diplomazia, relativamente semplice, di fronte
al proprio corpo, la quale ha da fare i conti con w~
numero non grande di fattori decisivi. Non è ancora
cosi complicata come la troviamo, circa un secolo più
tardi, in Diocle. Questi si mette a dar regole per tutta
la giornata, dalla mattina alla sera, mentre lautore
più antico differenzia in qualche modo la dieta sol-
tanto secondo le due stagioni estreme, estate e inverno,
e le due di passaggio, primavera e autunno. La diffi-
coltà di vivere secondo le sue prescrizioni stava, al
più, nel .fatto che esse eran troppo generiche, non certo
in un eccesso di precisione che egli richiedesse. Norme
che regolino i rapporti tra il medico e il maestro di
ginnastica sono ancora assenti da quest'opera. Anche
rispetto agli esercizi fisici, lautore fissa il più o il meno
secondo la sua schematica idea fondamentale delle
stagioni dell'anno, senza preoccuparsi molto di quel
che ne dirà il maestro di ginnastica 86).

Di tutt'altro stile è l'opera in quattro libri Sulla


dieta, vera enciclopedia a cui lautore si è accinto -
sono sue parole - col proposito di raccogliere e, dove

88) Vedi le minute prescrizioni per gli esercizi ginnastici in

De victu sal. c. 7.
1392 [!II 56] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

necessario, integrare, tutta la letteratura sull'argomento,


già assai abbondante a quel tempo 87). L'autore è un
filosofo e un sistematico, non però (gli si farebbe torto
a giudicarlo così) un compilatore. Si son fatti finora
assai tentativi di analisi della sua opera, per i quali
essa è stata tagliata in vari pezzi da riportarsi, l'uno
a un sofista eraclitizzante, laltro a uno scolaro di
Anassagora, l'altro ancora al dietetico E rodico; ma
c'è da dubitare parecchio che cosi si sia sciolto
l'enigma 88). La parte del fìlos~fo naturalista che si
vorrebbe sceverare, come seconda fonte principale, dalle
parti di colore eracliteo, si può dire solo in parte anas-
sagorea; essa dà qua e là suono empedocleo o fa pen-
sare a Diogene d'Apollonia. Bisogna decidersi a cre-
dere ali' autore, quando afferma di ricever suggestioni
dalle parti più diverse e di volere anche come filosofo
esser cosi aperto a tutte le correnti quanto lo è come
medico. Tutto ciò lo colloca in un'età posteriore a
quella di Ippocrate, ed è già per questo inverosimile
che l'autore della Medicina antica, operante nell'ul-
timo terzo del V sec., avesse di mira proprio lui, come
generalmente si crede, nella sua polemica contro i
medici :filosofanti. Sembra, al contrario, che sia l'autore
del libro Sulla di.eta a conoscere l'opera di quell'empi-
rista: certo è, in ogni modo, che si preoccupa di tener
conto dell'esigenza espressa da quello, di non lasciarsi
impigliare nelle generalità, anzi più volte sostiene espli-
citamente che in medicina si tratta prima di tutto
dei fattori individuali. Anche il problema dell'esat-

81 )De victu VI p. 466 Littré.


88 )Si veda soprattutto il libro di C. FREDRICB, Hippokra-
tische Untersuchungen (Philologische Untersuchungen edite da
Kiessling e Wilamowitz, Voi. 15) Berlino 1899, p. 81 ss., e per
la letteratura precedente, p. 90. È un'opera che si mette per nuove
vie ma segue un procedimento troppo meccanico nell'analisi
delle fonti.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m57] 1393

tezza lo preoccupa. Non val niente, egli pensa, pre-


scrivere in termini generali la somministrazione, per
mezzo di cibi, di caldo o di freddo, come fa lautore
della Dieta nello stato di salute, ma è necessaria ana- un'
lisi minuziosa degli effetti di tutti i cibi. La sua opera
fu famosa nell'antichità come miniera inesauribile di
particolari 8 9). Il suo secondo libro è giudicato da Ga-
leno degno d'Ippocrate, non ostante la variopinta filo-
sofia che domina nel primo, e qualche altro elemento
estraneo. Anche se l'autore deve in parte un tal pre-
gio alle fonti usate per questo libro, si dovrebbe pur
riconoscere che egli intende ormai deliberatamente di
elevarsi oltre la vecchia polemica di principii tra me-
dicina filosofica ed empirica e vuole unificare le due.
Già la scuola ippocratica aveva richiesto al medico
di tener conto della costituzione ·dell'uomo nel suo
complesso, dell'ambiente locale e climatico, delle vi-
cende e mutamenti della situazione cosmica. Ebbene,
questa esigenza, per il nostro autore, implica già ine-
vitabilmente un interesse teoretico per la natura uni-
versale in sé. La questione, così importante per l'autore
della Medicina antica, di sapere qual parte dell'orga-
nismo abbia di volta in volta supremazia, è capitale
anche per il nostro dietetico, ma è per lui insepara-
bile da un altro problema: di quali parti si è formato

89) Egli vuol descrivere singolarmente gli effetti di ogni


cibo e bevanda e di ogni esercizio, perché le prescrizioni si pos-
sano adattare sempre alla situazione particolare; la netta distin-
zione tra il generale (xcx-rd: 7tCXv-r6t;) e il particolare (xcx3' hcxa-
-rov) è caratteristica per l'atteggiamento metodico dell'autore.
Cfr. a questo proposito, le sue esplicite osservazioni di principio,
II 37 e 39. Appare da escludere che l'autore del libro Sulla me-
dicina antica potesse accusare di generalizzazione vaga un me-
die o come questo che così decisamente rifiuta di parlare per affer·
mazionì generiche e si concentra sul particolare. La teoria del
xcx-rà 7tcxv-r6t; e xcx36Àou in logica vien poi svolta più preci-
samente da Aristotele. Il che è un elemento importante per orien-
tarci sul tempo in cui furono composti i libri Sulla dieta.
1394 [m58] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

e consiste l'uomo 90). La diagnosis è strettamente le-


gata con la gnosis, con la conoscenza, cioè, della na-
tura universale. Solo dopo questa vien la conoscenza
dei particolari, in primo luogo degli alimenti e loro
effetti, ma anche il problema dell'attività ed esercizio
fisico. Quest'ultimo non è meno importante di quello
della buona alimentazione; eppure ad esso non accenna
nepplll"e per es. l'autore della Medicina antica, né,
del resto, molti altri medici più vecchi 91). Il nostro
autore afferma la necessità di ·una deliberata e siste-
matica opera equilibratrice tra le due azioni opposte
del nutrimento e dell'attività fisica. A questo propo-
sito egli fa proprio l'ideale della simmetria, che i più
vecchi medici avevano avuto di mira solo per l'ali-
mentazione. Bisogna estenderlo invece agli esercizi fisici
e al loro rapporto col nutrimento 92). È verosimile che
l'autore segua, in questo punto, le teorie di Erodico
di Selimhria che per primo aveva dato una posizione
dominante nella dieta agli esercizi fisici, in una ela-
borazione sistematica 93). Maestro di ginnastica egli
stesso, aveva cercato di risanarsi dai propri malanni
per mezzo degli esercizi ginnici, e della ginnastica
aveva fatto una medicina per sé e per gli altri. Egli
dové raggiungere per il suo metodo una sorta di cele-
brità, tanti sono quelli che ne fanno menzione. Il
sarcastico autore del sesto libro delle Epidemie dice
di lui che ammazzava i febbricitanti con esercizi spor-
tivi in dosi enormi e con bagni di vapore; Platone lo

90) De viclu I 2 (al principio). Ciò sembra rivolgersi contro

l'autore della Medicina antica c. 20, il quale rifiuta esplicita-


mente questo modo filosofico di porre i problemi (laTopt"I)).
91 ) E caratteristico della concezione dell'autore della Medi-

cina antica il fatto che, per lui, la medicina ha avuto in tutto


origine dalla dietetica dei malati.
H) De victu I 2 (VI 4 70 Littré).
18) Su Erodico cfr. PL Resp. 406 a·h; Arist. Rket. I 5, 1361 b 5;
Hipp. Epid. VI 3, 18.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m59J 1395

canzona dicendo che con quel metodo aveva potuto,


non già curarsi, ma solo procrastinare artificiosamente
la morte, martirizzandosi per anni. Aristotele cita un
suo detto, secondo il quale parecchi uomini non si
possono stimar felici riguardo alla salute, benché ne
godano, in quanto raggiungono il fine solo privandosi
di tutto ciò che è buono e piacevole. Il che, secondo
Platone, sarebbe ben detto specialmente per Erodico
stesso. A tali critiche, certo molto diffuse nel IV sec.,
ha l'occhio probabilmente il nostro autore nell'affer-
mar l'esigenza di una simmetria tra nutrimento ed
esercizi fisici. Quanto poi al diritto all'autarchia(« auto-
sufficienza o indipendenza») dell'arte medica, diritto
cosi attivamente propugnato da altri medici, egli ri-
nuncia a farlo valere, pur dopo avere così allargato il
concetto di medicina, perché, egli pensa, è impossibile
determinare la misura precisa per ogni individuo di
nutrimento e di esercizio fisico. Qui sembra a me inne-
gabile la polemica contro l'autore della Medicina antica,
poiché tutti i concetti importanti a cui questi ricorre,
sono dal nostro autore espressamente ripresi e contrad-
detti. Il problema dell'inàividuo e delle sue esigenze:
ecco il punto in cui rimane ·in iscacco, per il nostro
autore, l'arte medica e non raggiunge _vera perfe-
zione 111). Egli è, in ogni modo, disposto a concedere
che il medico possa accostarsi alla sua meta ideale,
quando, come il maestro di. sport, abbia una persona
sempre sotto i suoi occhi. Il che per6 è impossibile 95).
Egli scrive il suo sistema di dieta, la cui precisa
osservanza deve prevenire la malattia, per non fare
come gli altri medici, che intervengono quando i1 male
è cominciato. La sua è insieme diagnosi preventiva e

14) Cfr. De 11U:tu I 2 (VI 470 Littré).


16) ib.
1396 [m 60] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

profilassi; in questa consiste la sua scoperta. La quale


nasce dall'aver visto che lo scopo di un huon tratta-
mento meclico dell'individuo non è raggiungibile, se
non si riesce in notevole misura a mettere in servigio
dell'opera del medico l'individuo stesso, e a farne un
fattore attivo e consapevole dell'azione curativa 96 ).
Dopo che nel primo libro l'autore ha esposto i prineipii
generali di filosofia naturale, nel secondo comincia su-
bito a descrivere gli effetti dei vari climi e località e
poi, in stretta connessione, tutti gli alimenti e bevande
vegetali e animali fino ai più insignificanti. .A noi ciò
consente uno sguardo d'insieme suIIa stupefacente ric-
chezza e varietà che si offriva allora alla scelta del Greco-
civilizzato. L'enumerazione di questo medico supera
cli molto in copia variata i lunghi ménus della com-
media dorica e attica. .Anche qui egli lavora da siste-
matico. Prima cli tutto dà un ordine all'enorme massa
di alimenti vegetali, disponendoli in cereali e ortaggi.
Tralascia solo erbe e frutta, che troviamo soltanto dopo
le carni, perché dal punto di vista clietetico son rite-
nute appartenere ai cibi « di gusto» o di « compana-
tico» (iSlj;ov). Gli alimenti animali son divisi in mam-
miferi, divisi a loro volta in bestie vecchie e giovani,
e in uccelli, pesci e molluschi. Separatamente son con-
siderati, rispetto al vario valor nutritivo, animali do-
mestici e selvatici. Vengono poi i prodotti animali e
derivati, uova latte e cacio. Del miele si tratta in ap·
pendice alle bevande, perché si soleva mescolarlo con
queste.
Basterebbe il breve_ paragrafo riguardante il ca-
cio per farci rifiutare l'opinione dominante, che l'autore

96 ) De victu I 2 (VI 4 72 Littré), dove si trova anche il con-

cetto di« pro diagnosi».« Profilassi» è parola di uso più tardo_ ('he
però esprime bene l'idea dell'autore. Egli vuole unificare le due
cose.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m61J 1397

sia quello stesso contro cui polemizza vivacemente il


libro Sulla medicina antica, accusandolo di tendenza
alla generalizzazione frettolosa. Proprio l'esempio del
cacio è addotto in questo libro, del quale quel tal me-
dico gene-ralizzante aveva detto senz'altro che fa male.
Invece il nostro medico osserva si con ragione che il
cacio è pesante, ma ciò non ostante afferma che è nu-
tritivo 97). Il rapporto cronologico fra i due scritti è
l'inverso di quel che si è supposto fin qui: è evidente
éhe il dietetico ha letto non solo il libro Sulla medi-
cina antica, ma anche altri più antichi scritti ippocra-
tici. Cosi egli, per es., riproduce quasi a parola l'enu-
merazione dei fattori climatici, l'importanza dei quali
per la medicina è affermata nell'introduzione al libro
Sulle arie, acque e luoghi 98), e vuole che gli esercizi
fisici siano regolati in rapporto a tali fattori. Inoltre
non è improbabile che egli conosca le idee delle Epi-
demie, come è certo, inversamente, che la scuola di
Cos fu in possesso della sua opera, essendoci questa
tramandata insieme agli scritti della tradizione ippo-
cratica. Nelle Epidemie si trova la bella immagine del
pensiero che è « il passeggiare dell'anima» 99 ). Il no-
stro dietetico, quale che sia la fonte da cui la conosce,
si afferra a quest'idea e ne fa, secondo il suo stile,
un'applicazione sistematica: non il pensiero solo, ma
le attività dei sensi e del linguaggio son da lui messe
nella categoria degli« esercizi». Ma, come formanti una
classe speciale di attività « naturali », son contrapposte

97) Cfr. supra., p. 32. De victu II 51 allude a De 11et. med.


c. 20.
98) De victu I 2 (VI 470 Littré); cfr. De aèr. c. 1-2, dove
come nell'autore della Diela si trovano indicati nell'ordine i se-
guenti fattori: stagione, venti, posizione della città, malattie pre-
vedibili per l'estate e per l'inverno, sorgere e tramontare degli astri,
alternanza delle malattie. Solo le condizioni idriche sono state
tralasciate dal nostro dietetico, nel suo lavoro di compila.ione.
91 ) Epid. VI 5, 5.
1398 [m 62] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

alle varie sorte di marce e di esercizi ginnastici, che


sono per lui, tutti insieme, attività artificiali o « vio-
lente». In immediata connessione con tutto ciò viene
esposta la teoria del movimento psichico, che par bene
essere teoria originale e propria del nostro, là dove si
afferma che l'anima si fa per l'attività sua calda e
secca e che il conseguente dissolversi del grasso in
carne produce dimagrimento 100).
Per la datazione di questo libro bisogna risolversi
non solo a superare i limiti del Y sec., ma a scendere
assai in giù nel IV, V alga qui un argomento solo, al
quale molti altri, linguistici, stilistici e di contenuto,
si potrebbero aggiungere. Si legge nel libro il precetto
di praticare i massaggi con una miscela di olio e acqua;
ché in questo modo il corpo non si riscalderebbe ecces-
sivamente (3e:Lv&ç) 1°1). D'altra parte. ci fu, e ne pos-
sediamo ancora un ampio frammento, uno scritto spe-
ciale su questa questione, uno scritto di Diocle di Ca-
risto intitolato col nome del padre di lui, il medico
Archidamo, e a questo dedicato. Questi aveva condan-
nato i massaggi con olio, generalmente usati al suo
tempo, perché scaldavano troppo il corpo. Diocle con-
futa i suoi argomenti e giunge a un compromesso, di
prescrivere massaggi di olio e acqua d'estate, e d'olio
puro d'inverno 102). La prescrizione del massaggio con
olio e acqua e la motivazione che l'accompagna -
guardarsi da eccessivo riscaldamento - è cosa cosi
individuale che la coincidenza di Diocle con l'autore
della Dieta non può esser, sicuramente, un caso. Chi
sia tra i due l'originale, è cosa che non abbisogna di
lunga dimostrazione. La vita di .Diocle deve essere

100) De vietu II 61.


101 ) De victu Il 65 (alla fine).
102) Diocle fr. 147 e 141 (Wellmann).
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m63] 1399

arrivata, come ho dimostrato nel mio libro su questo


famoso rappresentante della scuola medica dogmatica,
fino a dopo l'anno 300; il suo fiorire cade un po' prima
e intorno a quest'anno. A una data così tarda non si
può in nessun modo pensare per l'autore della Dieta 103):
a non contare il resto, c'è l'influenza di Aristotele e del
Peripato, chiaramente rintracciabile in Diocle, che lo
separa da quello. Sembra perciò che già l'autore della
Dieta abbia conosciuto la condanna totale dei massaggi
con olio, pronunziata dal padre di Diocle, Archidamo,
e l'abbia rifiutata come esagerazione. Il compromesso
tentato da lui della miscela d'olio e d'acqua, che avrebbe
evitato il riscaldamento eccessivo, Diocle l'accetta solo
per l'estate, e per l'inverno riman fermo ai massaggi
con olio puro. Del resto Diocle conobbe evidentemente,
e usò anche altrove, il libro Sulla dieta 104). Se questi
argomenti colgon nel segno; l'autore di quel libro fu
un contt>mporaneo di Archidamo, padre di Diocle.
A una tale epoca si conforma anche il carattere for-
temente eclettico del suo lavoro, la mole notevole e
la quantità di letteratura messa a profitto.
Ancora un altro elemento, la singolare predilezione
dell'autore per la divisione sistematica della materia
per generi e specie, c'induce a riportarlo al IV sec.,
quando questo metodo era in pieno fiore. È vero che
già ne] V sec. si è avuto modo di osservare una ten·
denza alla formazione di tipi {ErnlJ) in ogni settore
dell'esperienza medica, ma qui si è raggiunto, su que-
sta via, un grado ulteriore di svolgimento. E ciò risulta
specialmente chiaro in quella ben costrutta sistema-
tica del mondo animale e vegetale, su cui l'autore
fonda la sua esauriente trattazione degli alimenti. La

10•) Cfr. il mio Diokles von Karystos (Berlino 1938) p. 67 a.


1 °') Cfr. le sue osservazioni in proposito, De victu I 1.
1400 [rn64] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

sua sistematica zoologica ha richiamato, già da qualche


decennio, l'attenzione degli specialisti l05). Non si vo-
leva credere che un tal sistema, così affine alla parti-
zione aristotelica del regno animale, fosse stato esco·
gitato dal nostro medico, solo in servigio delle sue
tesi dietetiche. Tropp-0, per un tal :fine, pareva elabo-
rato nei particolari e troppo dominato da un interesse
di teoria. zoologica. D'altro canto, non ci è nota l'esi-
stenza, in quel V sec. a cui si soleva assegnare quel
libro, di una zoologia prearistotelica come scienza
autonoma. Si tentava di uscir dal dilemma suppo·
nendo che nella scuola ippocratica fosse stato colti-
vato uno studio esauriente, a noi non altrimenti noto,
della zoologia a scopi medici, e si arrivava a ricostruire
dal libro Sulla dieta un « sistema zoologico di Cos ».
Ma anche in questa forma, resta impossibile credere
all'esistenza di una sistematica zoologica, affine a quella
d'Aristotele, già nel V sec. 106). Ma se si ammette che
il libro non sia venuto alla luce prima dell'età di Pla-
tone, allora diventa un po' più comprensibile l'enigma
offertoci dalle sue classificazioni. È proprio di questo
tempo un noto frammento del comico Epicrate, che
c'informa di tentativi di classificazione di tutto il
mondo animale e vegetale, fatti nell'Accademia, a cui
aveva assistito anche un medico siciliano 107). È vero
che questo visitatore aveva dato indubbi e non del
tutto eleganti segni di annoiarsi, in tali trattenimenti,
ma insomma la sua semplice presenza qui attestata

105) Cfr. R. BURCKHARDT, Das lroische Tiersystem, eine Vor-


stufe der zoologischen Systematik des Aristoteles (« V erhandlungen
der Naturforschenden Gesellschaft in Base!» XV (1904) p. 377 ss.).
• 0 •) Sulla non appartenenza dell'opera Sulla dieta alla scuola
di Cos, cfr. ora A. PALM, Studien zur hippokratischen Schrift 'lt"e:pt
8ta:l"7l~ (Dissertazione di TUhingen 1933) p. 7. L'autore tut-
tavia non dubita che l'opera si debba datare in epoca piuttosto
antica.
107) Epicrates, fr. 287 Kock.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [rn65J 1401

basta a mostrare che proprio i medici erano attratti


da tali ricerche, per quanto poi il procedimento troppo
poco empirico con cui erano condotte potesse delu·
derli 108). La scuola di Platone attirò da contrade lon-
tane ingegni dalle tempre più varie; il medico siciliano
senza dubbio non è che un caso tra molti simili. Le
rictlrche dell'Accademia sulla partizione del regno ani-
male e vegetale giunsero più tardi al pubblico nelle
opere di Speusippo e di Aristotele. E somiglianze con
l'uno e con l'altro presenta il sistema del nostro die-
tetico 10 9). Però, prima di avventurarsi a dare un giu-
dizio definitivo sui rapporti che lo legano a tali tenta·
tivi di classificazione scientifica, si farà bene a esami-
nare accuratamente anche la sistematica vegetale di
lui, e i suoi metodi classificatori in altri campi. Per il
momento si può solo descrivere in generale l'ambiente
intellettuale di questo autore. Non è necessario sup·
porre la priorità assoluta del tentativo platonico di
classificare animali e piante. Lo stesso Platone dice,
nel luogo del Fedro che contiene la spiegazione più
ampia del suo metodo dialettico di partizione, che per
capirlo si deve prendere a modello il metodo d'lppo·
crate 110). Non menziona, certo, applicazioni di questo
ad altri organismi oltre quello umano, ma è lecito
pensare che al tempo di Platone un tal metodo fosse
stato esteso, dalle scuole dei medici, anche ad animali
e piante, che, insomma, reciproco fosse tra filosofi e
medici l'interesse per questo tipo di ricerca.
Ferma l'attenzione il fatto che, di tutti i luoghi de-
gli scritti ippocratici dove s'incontra la parola«anima»

108 ) Su .. questo personaggio cfr. M. WELLMANN, Fragmente deT

sikelischen Arzte, p. 69 e il miQ Aristoteles, pp. 16-18 (trad. it. p. 20).


109 ) Cfr. A. PALM, op. cit. p. 8 ss., il quale però non si è oc-

cupato della botanica dell'autore del trattato Sulla dieta.


11•) Cfr. supra, p. 38.
1402 [rn66] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

- eccezionale in essi, come ben si comprende - il


nostro autore rappresenti la stragrande maggio-
ranza 111). Ciò non può esser caso: che il nostro autore
la trovasse nella sua fonte eraclitizzante, non è spie·
gazione sufficiente, giacché egli parla dell'anima non
solo nella sezione filosoficamente naturalistica del suo
libro, hensi anche nella parte dietetica, e per di più
consacra un libro intero, il quarto, ai riflessi psichici
di processi fisici nel sogno. Le numerose affinità, che
la sua interpretazione casuistica dei vari tipi di imma·
giui del sogno presenta con libri di sogni indiani e
babilonesi antichi e più recenti, hanno indotto già altri
studiosi a concludere che qui si avverta un influsso
diretto dell'Oriente sulla medicina ·scientifica dei
Greci ll2). ·1n sé, un influsso orientale sarebbe già pos-
sibile anche in età antica. Ma non c'è epoca in cui
meglio s'inquadri che il IV sec., nella Ionia di Eudosso
di Cnido, colui che trasmise anche all'Accademia pla-
tonica la sua nuova esperienza personale dell'Oriente 113).
Non era possibile che i Greci fossero pronti ad acco·
gliere sia la sapienza, sia le superstizioni d'Oriente
sulla vita di sogno dell'anima, prima che «l'anima»
stessa fosse divenuta il centro del loro pensiero, il che
non avvenne, in forma scientifico-teoretica, prima del
IV sec. Anche in questo caso, fu l'Accademia il luogo
in cui questo complesso di problemi trovò la sua più
singolare e duratura espressione. Fu la teoria plato-
nica dell'anima il nucleo da cui si svolse l'interesse
dell'Accademia per la vita del sogn~, per il suo significato
e valore di realtà 114). Aristotele giovane trattò in più
d'uno dei Dialoghi questo problema. È possibile che

1ll) V. i passi in LITTRÉ, Oeuvres d'Hippocrate, voi. X 479.


111 ) Cfr. P ALM, op. cit. p. 43 ss.
113 ) Cfr. il mio Aristoteles, pp. 15e133 ss.(trad.it. pp. 20e172 ss.).
114 ) CfT. il min Ari.<tn!PIP.•. pp. 37 e 165 (trncl. it. pp. 50 e 21 !!).
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m67] 1403

l'autore della Dieta non ostante il forte timbro per-


sonale delle sue considerazioni sui sogni, abbia subito
l'influenza dell'Accademia.
Come Aristotele nei Dialoghi, egli si rifà alla con-
cezione orfica, per cui lanima raggiunge il grado mas-
simo di libertà nelle sue operazioni durante il sonno
del corpo, perché soltanto allora è raccolta, e non di-
stratta, tutta in se stessa 115). A questa dottrina egli
dà però applicazione strettamente medica, affermando
che nel sonno l'anima, non distolta da alcuna influenza
esteriore, rispecchia nel modo più limpido lo stesso
stato fisico dell'uomo. Il problema del valore di realtà
dei sogni s'incontra ancora una volta su piano scienti-
fico nel IV sec., come dimostra Aristotele nell'opu-
scolo conservatoci Sull'interpretaziom dei sogni. Egli
scorge qui, nel sogno, i riflessi della vita e della sensi-
bilità reali, senza con ciò giungere a credere a pro-
fezie vere e proprie. Cosl l'autore medico non accetta
neppur lui direttamente la mantica dei sogni, ma tenta
di trasferirla dalla sfera della profezia in quella della
prognosi. Però nell'andare un po' troppo dietro al suo
modello, egli finisce per lasciarsi trascinare nella su-
perstizione.
Alla metà del IV sec. conviene, di questo libro
Sulla dieta, anche la lingua, meglio che al principio
o a epoca più antica. Ancora per tutto il IV sec. si
seguitò a scrivere ionico e, d'altronde, i periodi, qua
e là molto lunghi, costruiti su antitesi e isocolie, ci
riportano più al tempo di Isocrate e al suo tipo di re-
torica che a quello di Gorgia. Uno stile di questo ge-
nere non è concepibile sia nato accanto alla maniera
del tutto spontanea e priva di retorica delle opere di

11&) De victu IV 1. Cfr. Pind. fr. 131 h (Snell) e Arlst. fr. 10


Rose, per il quale cfr. il mio Aristoteles, p. 166 n. 1 (trad. it.
p. 215 n. 1).
1404 [m68] UBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

medicina per specialisti che con qualche sicurezza pos-


siamo attribuire al tempo di Ippocrate o posteriore
di una generazione. E perfino quello degli scritti più
antichi che si rivolgono a un largo pubblico e che più
forte hanno subito l'impronta della prosa sofistica, si
distacca fortemente da questo libro. Lo stile, per di
più, presenta notevole varietà da parte a parte, e
questo fatto, che fin qui si soleva spiegare come ri-
produzione servile di fonti diverse, è piuttosto da in-
tendere, in uno scrittore così abile quando vuole,
come consapevole affettata ricerca di una tal quale
polifonia. Una ricerca assai in armonia con quell'at-
teggiamento volutamente sintetico che l'autore pro-
fessa nell'introduzione, là dove dichiara di aspettarsi
che il pubblico gli negherà il merito dell'originalità 118).
t questa l'arte che noi conosciamo da Isocrate, che
considera la « mescolanza degli stili» come l'ideale su-
premo di uno scrittore. A quest'epoca ben si accorda
anche la preoccupazione dell'autore per la fama di
originalità, problema che domina appunto tutto il
pensiero d'Isocrate.
Si suole assegnare comunemente al principio e alla
prima metà del IV sec. anche un altro medico di no-
tevole personalità, Diocle, che, proveniente da Caristo
nell'Euhea, operò in Atene e che, nelle sue principali
concezioni, appare strettamente legato così con la scuola
ippocratica come con i medici siciliani. Scrisse tra
l'altro un libro famoso Sulla dieta, di cui Orihasio,
medico personale di Giuliano imperatore, ci ha conser-
vato, in una dotta opera miscellanea, frammenti assai
ampi d'inestimabile valore 117). Da altri è stata fatta

1H) De viciu I I.
117) I frammenti dell'ampia produzione di questo medico emi·
nente sono .. stati raccolti da M. WELLMANN, Die Fragmente der
aikelischenArzte (Berlino 1901) p. 117 ss.; essi costituiscono il
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [rn69] 1405

di passaggio l'osservazione che la lingua di questi


frammenti porta le tracce di una lima di tipo isocratico
e per contrassegni vari ci rimanda alla seconda metà
piuttosto che al principio del IV sec. La congettura
è stata messa in dubbio 118) : ma a torto, ché osserva-
zioni ulteriori la confermano con sicurezza. Diocle fu
un contemporaneo più giovane e scolaro di Aristotele,
della generazione di Teofrasto e Stratone. Questi due
peripatetici, compagni di studi di Diocle, sono a.nche
i primi che nella letteratura greca ci diano testimonianze
sulla sua attività 119 ). La sua lingua è sì accurata come
quella dell'autore ippocratico della Dieta, ed ha pre·
tese letterarie anche nelle opere puramente speciali-
stiche, il che ci dice parecchio sulla posizione intellet·
tliale della medicina nel IV sec. Però, la sua forma è
di proposito semplice, non retorica in senso specifico,
e si trova forse di già sotto l'influenza di un nuovo
ideale di stile scientifico, di quello che prevalse dopo
Aristotele e che consiste unicamente nella chiarezza. Il
più esteso dei frammenti conservati 120) espone la teoria
di Diocle sulla dieta in forma di descrizione di un'in·
tera giornata. L'esposizione del tema non avvien più,
come nel ·libro Sulla dieta nello stato di salute, attra·
verso i contrapposti astratti e a grandi linee delle

nucleo essenziale di qnel che il W ellmann intende per « scuola


siciliana». Nel libro Diokles von Karystos, Die griechische Medi·
zin und die Schule des Aristoteles (Berlino 1938), ho dimostrato
che Diocle, sebbene abbia subito l'influenza di teorie della medi-
cina siciliana, non fu in diretto collegamento con essa, anzi non
visse al tempo in cui fiori quella scuola.
n•) Cfr. Diokles von Karystos, p. 14.
11•) Cfr. sull'influenza di linguaggio e di pensiero da parte
di Aristotele su Diocle il mio libro sopra citato pp. 16-69, e inoltre
il mio scritto: Vergessene Fragmente des Peripatetikers Diokles
von Karystos (« Abh. d. Berl. Akad. » 1938), dove ho trattato
più minutamente delle relazioni con Teofrasto e Stratone (pp. 5
e 10 ss.).
12•) Fr. 141 (Wellmann).
1406 [m70] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

quattro stagioni, e neppure come nei libri Sulla dieta


iii una sistematica esauriente degli alimenti e degli eser-
cizi corporali, ma è vista concretamente come un com-
plesso unitario, dal punto di vista di un uomo. In
questa specie di azione drammatica, la giornata costi-
tuisce la naturale unità di tempo; ciò non ostante vi
si fa di continuo distinzione tra le varie età e vi si tien
conto della vicenda stagionale. La descrizione prima
e principale è di una giornata d'estate; poi si aggiun-
gono i precetti per l'inverno e le altre stagioni. Né
l'aut;ore poteva fare altrimenti 121).
Abbiamo visto dapprima l'inflùenza esercitata dalla
filo-;ofia èf~ilà--natuiasuna-medi:cìiia ·ilei ·:y sec:;-po~r
è osservaféi «fol;ri,~ 'la 'nu()y~· ffeè~cin~ emp@~~1J1llìt~a"
'sua volta influito sulla filosofia di Platone e di ~i~:M
t~le: ora, con. ni~-~ie:··~h~·-è· chl;;~~~;-~;t;-l'hillusso
J;;n~-· . gi-~~di ·s~liò1e·~ fiìosòfìc11e··~at:emes1;···t;'·'~~di~hi:;:-è­
cllnuovo qu~lla ··che. ·-riceve, : ·~lì.che· ·se;_··n:èl:pt~11~
·seguita ancora a dare qualcosa. La stessa forma della
esposizione, la descr_izione di ~ . giorno-tip~~ è ~hìa~~
mente imp~~ntata al . pensiero plato~ic~. -e 'aristotelic~~
- •·.·V•·-.-·•--••• ___,,,_..

che ebbe il senso. del .hioS, µmano, come unità, creò


l'immagine ideale.. del retto vi~.ere ·.~-=~;_:fu~~-~;;_~~
·-p~r l'11.9mo.._ Certo, anche altri scrittori dietetici;;-~~=­
scono il concetto di norma, ma in essi tutto si limita a
un «si deve» o, al più, a chiarire l'effetto di un dato
alimento sull'organismo: sta al lettore poi, trarre per
sé le conseguenze pratiche della spiegazione. Diocle
non fa né in un modo né nell'altro, ma dappertutto
scende a mostrare in· particolare quel che conviene e

1 n) Per una caratterizzazione del metodo e pensiero medico


di Diocle, v. nel mio libro i capitoli: « Das grosse Methodenfrag-
ment », p. 25; « &:pxctt à.vct~6~cLx-roL », p. 37; « Diokles' Diatlehre
un-1 aristotelische Ethik », p. 45; « Diokles und die aristotelische
Teleologie», p. SI.
CAP. I! LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA (ID 71) 1407

fa bene all'uomo. Questo concetto, del « conveniente»,


è quello che domina l'etica e parimente la dottrina del-
l'arte del IV sec. È la forma in cui la necessità di una
regola e norma per la vita umana si presenta meglio
accessibile allo spirito di quest'epoca di individualismo
esasperato, ma pur tutta sensibilità e gusto. Il concetto
del conveniente è come una :finissima quasi impalpa·
bile rete di cui quest'età ha avvolto ogni singolo mo·
mento dell'esistenza, una trama di immediata sensi-
bilità, di gusto per ciò che si « confà», in ogni campo
di azione o condotta. La teoria della dieta di Diocle
trasferisce un tal modo di pensiero alla vita corporea.
Un contrassegno esteriore di ciò è la continua insistente
ripetizione pedagogica della parola« conveniente» (&p·
µ.6-TTov) a ogni nuovo precetto 122). Anche il concetto
della giusta misura (cr6µ.µ.&Tpov, µ.éTpmv) ritorna con·
tinuamente 123). Se Diocle si accosta con questo atteg·
giamento di pensiero all'etica aristotelica, egli d'altro
canto dipende dall'analitica d'Aristotele, quando bia·
sima l'abitudine dei medici di andare a cercare, per
ogni cosa, una causa, invece di riflettere che parecchi
fenomeni generali si debbono accettare semplicemente
in quanto sussistenti, senza bisogno di deduzione o
dimostrazione 124). È un fatto che sconcerta la co-
scienza logica, che perfino la più rigorosamente dimo·
strativa di tutte le scienze, la matematica, debba pre-
supporre date alcune proprietà delle grandezze e dei
numeri: un problema, questo dei postulati o assiomi
in matematica, di cui Aristotele si occupò a fondo.
Con Diocle penetra anche nella medicina la dottrina
del filosofo sulle proposizioni immediate e indimostra·

122) Cfr. le citazioni a p. 48 del citato Diokles von Karystos.


123) Op. cit. p. 50.
124) Diocles fr. 112 (Wellmann) e tutta la mia trattazione
dei frammenti metodici, op. cit. pp. 25-45.
1408 [rn72] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

bili che stanno a base tanto. della filosofia quanto


delle scienze speciali, dottrina che in tempo ellenistico,
doveva divenire il punto centrale in quella gran guerra
di metodo che si combatté tra empirismo, dogmatismo
e scetticismo.
La dieta di Diocle comincia al momento della
sveglia 125), supposta da Diocle un po' prima de] sorger
del sole, conforme del resto a tutto il modo di vita
dell'uomo antico che si svolge nel natural giro del
giorno. Il pasto principale, che è quello della sera,
si deve fare, d'estate, un po' prima del tramonto,
d'inver.no naturalmente più tardi. Dopo di che si deve
andare a letto; le persone di costituzione più debole,
subito, i più robusti dqpo una breve e lenta passeg-
giata. Conseguenza naturale di ciò è il risveglio di
buon mattino, fatto che, per i Greci, ci è noto anche
da altre fonti. Svegliati, non ci si deve alzar subito,
ma aspettare finché la gravezza del sonno si sia dis-
sipata, e poi stropicciar!'l testa e collo nelle parti che
sono state sottoposte alla pressione del cuscino. Poi,
prima ancora di aver liberato l'intestino, si deve stro-
finar tutto il corpo con un po' d'olio; d'estate, mesco-
landoci dell'acqua 126). La frizione sia leggera e uguale
e nello stesso tempo si snodino con flessioni tutte le
giunture. 11 bagno, appena alzati, non è prescritto.
Ci si deve solo bagnare viso e occhi, dopo essersi la-
vate le mani .con acqua pura e fredda. Seguono pre-
t0crizioni minute per la cura dei denti, del naso, delle
orecchie, dei capelli e del cuoio capelluto. Questo deve
essere tenuto in condizioni di elasticità e pulito, perché
la pelle respiri, ma asciugato immediatamente dopo
l'abluzione. Dopo questo, chi ha da fare vada al suo

125 )Per ciò che segue, cfr. Diocles fr. 141 (Wellmann).
12•) Cfr. supra, p. 62.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [m 73] 1409

lavoro non senza aver mangiato qualcosa. Chi non ha


impegni, deve, o prima o dopo aver preso cibo, fare
una passeggiata che si regoli, per il tipo e la durata,
secondo la costituzione e lo stato di salute dell'indi-
viduo. Dopo questo poco di movimento, che, nel caso
segua alla colazione, non deve essere specialmente
lungo né veloce, si attenda, seduti, ai propri affari,
domestici o altri, finché venga l'ora per l'esercizio fisico.
Venuta questa, i giovani vanno al ginnasio, i più an-
ziani e più deboli in un bagno o semplicemente in un
posto soleggiato, a farsi ungere con olio. La misura e
difficoltà degli esercizi ginnastici si regola secondo l'età.
Per i più anziani basta una moderata frizione del
corpo e poco moto, seguito da un bagno. Meglio è
massaggiarsi da sé che farlo fare da altri, perché il
necessario movimento sostituisce bene la ginnastica.
Alla cura mattinale del corpo segue la colazione,
che non deve essere tale da gonfiare, anzi, molto leg-
gera, così da esser digerita prima della ginnastica po-
meridiana. Subito dopo mangiato viene una breve
siesta, da farsi al buio, in luogo fresco, ma senza cor-
renti d'aria; poi un po' di occupazione domestica, una
passeggiata e infine, dopo un breve riposo, la ginna-
stica pomeridiana. La giornata si chiude col pasto
principale. Sui singoli esercizi fisici, Diocle non dice
niente, e niente si saprebbe su questo importantis-
simo capitolo della cultura fisica greca, ~.! non soccor-
resse l'autore del trattato Sulla dieta, che, col suo pro-
cedere metodico, fa seguire alla classificazione di cibi
e bevande un'enumerazion,. di attività psichiche e
fisiche di ogni sorta, e, fra queste, degli esercizi gin-
nastici. Diocle espunge, per così dire, la trattazione
della ginnastica dalla sua dieta e la lascia interamente
all'allenatore; ciò non ostante tutto il suo piano gior-
naliero è impiantato, come su due pilastri, sulla gin-
1410 [m74] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nastica antimeridiana e pomeridiana. E così viene in


luce, proprio dalla sua trattazione, qual posto, di primo
piano e centrale, ahhia avuto la ginnastica nella vita
dei Greci, in modo che non ha paragoni presso altri
popoli. In fondo si potrebbe dire che la sua teoria
dietetica è solo una direttiva medica precisa per quella
parte che nella giornata dell'uomo greco rimane libera
dalla ginnastica, col proposito di metterla in armo-
nia con questa.
Il fine della dieta è il raggiungimento della migliore
diatesi possibile, della migliore condizione, sia per la
salute in generale, sia per ogni sorta di esercizio fisico.
Questo aiferma Diocle più volte, espressamente. Egli
si rende però conto, naturalmente, di non vivere in
un astratto mondo della medicina, e non parla come
chi supponesse che gli uomini esistano soltanto per
conservarsi in salute. Anche l'autore del .trattato Sulla
dieta conosce già questo problema sociale e la neces-
sità di un compromesso tra le esigenze di una medi-
cina ideale e le reali circostanze tra cui il paziente
si trova a vivere. Il suo modo di levarsi d'impaccio
è quello stesso di Diocle: disegnare una dieta ideale
per quella gente che non ha altro da fare che dedicarsi
alla propria salute; ma lasciar poi anche un margine
di concessioni per chi deve pur lavorare e non ha che
poco tempo per la cura del corpo. Non si deve, perciò,
immaginare che i medici greci scrivano solo per i ricchi.
Anche i filosofi del tempo presuppongono, per quel
bios ideale che vanno disegnando, l'agio di vita più
pieno e lasciano poi al singolo di far qua e là conces-
sioni o riduzioni di fronte a questo ideale. Forse, però,
la vita del cittadino di una polis del IV sec. concedeva
realmente una larga misura di agio, la massima pos-
sibile ad esseri umani, perché avesse luogo una tal
formazione dello spirito e cura del corpo. La città greca
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA [III75] 1411

- e lo mostra appunto l'esempio della cura medica


del corpo - era rimasta socialmente, anche nella sua
forma democratica, una aristocrazia; che è, d'altronde,
una delle ragioni per cui si raggiunse, in quell'ambito
cittadino, una media culturale cosi alta. In quella cor-
nice di vita non s'inquadrerebbe bene nessuna delle
principali professioni odierne, di commerciante, uomo
politico, studioso, operaio o contadino. E in quella
misura in cui questi tipi professionali si erano già svi-
luppati, essi, già allora, avevano superato i confini
della vita del tempo 127). Si capisce bene invece che la
filosofia socratica e l'arte sofistica della disputa siano
nate in quella civiltà di palestre. Sarebbe infatti un
falso modo di rappresentarsi le cose, il pensare, che i
xocÀol. x&.yoc-8-o( non facessero altro tutto il giorno che
ungersi e allenarsi, e poi detergersi e far sabbiature e
di nuovo bagnarsi, in una attività incessante nella
quale anche la libertà dell'agone si muta in un duro
lavoro di sport specializzato. Le tre virtù corporee,
salute forza e bellezza sono riunite da Platone in un
solo coro con le virtù dell'anima, pietà, fortezza, tem-
peranza e giustizia. Esse tutte testimoniano di quella
simmetria dell'edificio del cosmo, che si rispecchia nella
vita dell'uomo, nella corporea come nella psichica. An-
che la cultura fisica ha un'anima nella mente del medico
e del maestro di ginnastica greco. Essa imprime nel-
l'uomo, come norma suprema, la rigorosa cùstodia di
una nobile e sana proporzione delle forze fisiche. E se,
pertanto, equilibrio e armonia costituiscono l'essenza
della salute come di ogni altra perfezione fisica, ecco
che il concetto di « salute» si dilata a una significa-
zione universale di valore, che può applicarsi al mondo
Su questi presupposti sociali nella medicina greca, vedi
' 27 )
EDELSTEIN in « Die Antike» Voi. VII; cfr. De 11iciu III 69 e
III 68 (all'inizio).
1412 (III76] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

intero e a tutto quanto in esso ha vita; poiché, per


l'idea che è a base di questa concezione, equilibrio e
armonia sono, in ogni campo, le forze di fondo, capaci
di produrre il buono e il giusto, mentre la pleonexia,
lo squilibrio, li turba e distrugge. Di questa conce-
zione, la medicina greca è a un tempo radice e frutto,
e l'ha di continuo presente allo sguardo; questa è,
salve restando le individualità spirituali di uomini e
di stirpi umane, la concezione comune a tutta la gre-
cità classica. ~ . s~ la .~edicina _grec~_~J>.~!~ _P.1:~~dere __
:i;iel. complesso della <mltura. greca 11n.~t,.P.lls!~~~~---c-~~i
rappresentativa, ciò si -~~vé al fatto che essa liPP~cò,
con la più evidente e stringente chiarezza, ali'èsperien:~a­
più accessibile e }m_ID.ediata, quell'idea fon.damen~aje
dell'anima greca in tutto il suo valore. incontestabile~­
In questo senso supe:i;iore l'ideale gre.ç~_ ~ella ~~Itur~­
umana può definirsi anche _come l'ideale dell'uomo
sano.
CAPITOLO SECONDO

LA RETORICA D'ISOCRATE
COME IDEALE DI CULTURA

Nel quadro della universale contesa sull'essenza della


vera paideia, che è offerto dalla letteratura greca del
IV sec. a. C., Isocrate, rappresentante principe della
retorica, figura come l'antagonista classico di Platone
e della sua scuola. La lotta di filosofia e retorica, aspi-
ranti ognuna a esser la forma più alta di vita cultu-
rale, si propaga di qui in poi come motivo conduttore
attraverso tutta la storia della cultura antica. Di questo
conflitto, non è possibile qui fermarsi a tratteggiare
le singole fasi, tanto più che esso abbonda di situazioni
ripetute e che le figure che vi appaiono sono, in parte,
personalità di scarso interesse -1). Tanto più importante,
perciò, è per noi l'ostilità di Platone e di Isocrate,
nella quale per la prima volta si accende, e si anti-
cipa, tutta la secolare contesa di _retorica e filosofia.
Mentre il contrasto nelle sue fasi più tardive si appiat-
tisce a mera occasione di dibattito accademico e di
concorrenza scolastica, privi come sono i due partiti
di un vero contenuto di vita, Platone e Isocrate, agli
inizi del conflitto, rappresentano ancora le forze vera-

1 ) Un quadro, che si può dire esauriente, della storia di que-


sto conflitto è dato da H. VON ARNilll, Leben. un.d Werke des Dian.
von Prusa (Berlino 1898) pp. 4-114.
1414 [III 78] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

mente motrici e le esigenze della nazione greca. Il


loro dialogo ha luogo sulla scena della vita politica,
nel centro di essa. E perciò assume il colore dell' ac-
cadimento storico autentico è quell'altezza di stile · che
svegliano in noi interesse e durevole partecipazione.
Guardando indietro di qui, ci si rende conto come in
questo conflitto vengano a esprimersi i pròhlemi es-
senziali della storia greca di quel tempo.
Anche Isocrate, come Platone, ha trovato, fino a
tempi recenti, espositori ammirati delle sue dottrine,
e dal Rinascimento in poi ha dominato, incontestabil-
mente più di ogni altro maestro antico, la prassi
educativa umanistica. È del tutto legittimo storica-
mente che il suo nome appaia onorato, fin nei titoli
di libri moderni, come quello del padre della « cultura
umanistica» (un titolo, però, a cui già i Sofisti
avrebbero in certa misura diritto), ed è certo che una
linea diritta risale dalla nostra pedagogia fino a lui,
come fino a Quintiliano e a Plutarco 2). Ma di fronte
a un tal plinto di vista, fissato dall'umanesimo di
scuola del tempo moderno, altro è il compito che que-
sto nostro libro si propone secondo i criteri che l'hanno
fin qui informato: nostro compito è di riportare con-
tinuamente lo sguardo allo sviluppo della paideia greca
nella sua interezza, nella varietà e nelle antinomie dei
suoi problemi e contenuti 3 ). Non è senza importanza

1 ) V. il libro di uno scolaro di E. Drerup, AuGUST BuRK,


Die Padagogik des lsokrates als Grurnllegung des humanistisch.en
Bildungsideala (Wiirzburg 1923), in particolare i capitoli: « Das
Nacblehen der Piidagogik des lsokrates>>. p. 199 ss. e «Isokra-
tes und der Humanismus», p. 211 ss.; posteriori sono le- quat-
tro conferenze dello stesso DREBUP, raccolte col titolo Der Hu-
manismua in seiner Geschichte, seinen K uùurwerten und seiner
Vorbereitung im Unterrichtswesen der Griechen (Paderhom 1934).
1 ) Ciò sia detto in particolare anche per coloro che preten-
derebbero che una storia della paideia cominciasse col definire,
una volta per tutte, che cosa l'autore intende per paideia. Sareb-
be proprio come se si pretendesse dallo storico della filosofia di
CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 79] 1415

notare, che quel che è dagli educatori moderni consi-


derato come lessenza dell'umanesimo prosegue essen·
zialmente, della cultura antica, il solo filone retorico.
Ma la storia dell'umanesimo ha un ambito infinita·
mente più vasto; essa si estende alla totalità della
paideia greca, e comprende perciò anche la filosofia
greca e la scienza, in quanto abbiano operato ed ope-
rino tuttavia nella storia spirituale del mondo 4). Da
questo punto di vista, l'intelligenza di quel che vera-
mente sia la paideia greca, si fa immediatamente auto-
critica dell'umanesimo accademico dei tempi moderni 5).
D'altro canto, la posizione e l'essenza della filosofia e
della scienza in seno alla cultura greca nel suo complesso
si cominciano a scorgere soltanto quando siano conside-
rate al loro posto, nella contesa con altre forme di vita

tenersi alla definizione o di Platone o di Epicuro, di Kant o di


Hume, i quali tutti, per filosofia., intendono qualcosa di com·
pletamente diverso l'uno dall'altro. Il compito di un libro sto-
rico sulla paideia deve essere di descrivere con la maggiore fe-
deltà possibile i diversi significati, le diverse forme, i diversi li-
velli spirituali in cui si attuò la paideia greca nella loro indivi·
dualità e nella loro storica connessione.
') Cfr. a questo proposito il mio saggio: Platos SieUung im Auf·
bau der griechischen Bildung, in« Die Antike» vol. IV (1928), nn. 1-2.
") Considerata da questo punto di vista, la filosofia, e spe-
cialmente la filosofia greca, viene a prendere un posto d'impor-
tanza decisiva nella creazione di un umanesimo moderno. Il quale
senza di essa sarebbe privato in partenza della sua più valida
forza di penetrazione, anzi non riuscirebbe neppure a chiarirsi
e fondarsi veramente. Di fatto, poi, l'indagine sul momento filo-
sofico della cultura antica ha acquistato un'ampiezza sempre
maggiore non solo nella filosofia, ma anche neJla filologia del
nostro tempo ed ha avuto influenza profonda sulla nuova con·
figurazione dei :fini e dei metodi della filologia. Ma anche la storia
deJI'umanesimo appare, vista di qui, in un'altra luce. Il vecchio
~dificio storico dell'umanesimo, con le sue rigide opposizioni di
medioevo e rinascimento, di scolastica e umanesimo si fa sem·
pre più insostenibile, via via che impariamo a ravvisare, fonda-
mentalmente, neJla rinascita della filosofia greca nell'alto medio-
evo una deJle grandi epoche storiche della sopravvivenza feconda
della paideia greca. Questa sopravvivenza nell'evo di mezzo e
nel moderno è un processo continuo. Non datur saltus in historia
humanitatis.
1416 [rn80] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

intellettuale per il pregio e il primato della vera forma·


zione umana. L'una e laltra, :filosofia e retorica, discen·
dono in ultima analisi dal grembo materno della poesia,
la paideia greca più antica, e non sono comprensibili
senza che questa origine sia chiara 6). Ma la limitazione,
che si venne sempre più accentuando, di questa contesa
per il primato nella cultura al problema, se la palma
spetti alla filosofia o alla retorica, mostra a sufficienza
che l'antica dualità greca di formazione ginnastica e
«musicale» è scaduta ormai a un piano d'importanza
molto più basso.
A chi è fresco della lettura del Protagora o del Gor-
gia, il sistema educativo di sofisti e retori appare come
uno stadio fondamentalmente superato, e di fatto è
cosi, di fronte all'esigenza ideale posta dalla filosofia
che ogni formazione, ogni cultura umana si debbano,
da questo momento in poi, fondare esclusivamente
sulla scienza dei valori supremi. Ma in realtà, come già
ci è apparso da un primo sguardo ai secoli della grecità
tard3: 7), il vecchio tipo di formazione sofistico-retorica
seguita a vivere, accanto a quello filosofico, con vigore
non declinante; si afferma, anzi, come grande potenza
di primo piano nella vita spirituale dei Greci. Forse
r asprezza stessa e lo scherno sanguinoso di Platone
verso questa cultura si spiegano in parte col senso
che egli ha,· pur essendo vincitore, di combattere contro
un nemico che, quando si contenga nei suoi confini,
rimane indomabile. È difficile rendersi conto dell'im· .
pegno appassionato di Platone in questa lotta, quando
si creda che i suoi attacchi si dirigano solo contro i

6 ) La filosofia greca può essere valutata nella sua impor-

tanza <li membro dell'organismo della cultura soltanto allorché


la si tenga collegata il più possibile con tutta la storia del mondo
greco.
1 ) V. la n. 1.
CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [rn:81] 1417

grandi Sofisti della generazione socratica, che incar·


nano per lui quella cultura: Protagora, Gorgia, Ippia
e Prodico. Questi erano già morti e per metà dimenti-
cati, quando Platone scriveva; il secolo era di quelli
che vanno in fretta, e non ci voleva meno della grande
arte di Platone per evocar dalle ombre quelle cele-
brità del passato e ridarle vive, operanti con tutto
il loro mondo. Quando Platone disegnava le caricature
di quei maestri - non meno immortali, nel· loro ge-
nere, della sua ideale immagine di Socrate - un'altra
generazione ne aveva preso il posto: e son questi
nuovi che Platone vuol colpire insieme ai vecchi. Sarebbe
passare il segno scorgere nelle :figure di avversari da
lui dipinte non altro che maschere di contemporanei,
ma si deve ammettere che una forte dose di esperienza
attuai:e si mescoli nelle sue descrizioni dei Sofisti. Una
cosa è certa, in ogni modo. Platone non viene mai a
dibattito con ciò che è morto, con ciò che, in questo
senso, appartiene alla storia.
Quanto fossero vive sofistica e retorica quando Pla-
tone cominciò la sua lotta, lo mostra, più chiaramente
di ogni altro fenomeno spirituale di quegli anni, la
figura di Isocrate, il cui esordio di educatore e maestro
è già posteriore al Protagora e al Gorgia 8). Ed è cosa
che accresce il nostro interesse per lui, il fatto che egli
fin da principio si riferisca espressamente alle esigenze
di Platone e della cerchia socratica, difendendo contro
di essa la propria posizione, che egli cioè scriva con la
convinzione di poter combattere ancora la sua bat·
taglia, di non essere già sconfitto in partenza da quelle

8 ) Il Protagora e il Gorgia appartengono ancora al primo

decennio del IV sec.; la fondazione della scuola d'Isocrate non


può risalire a prima del 390, giacché nelle sue orazioni conser-
vate si può seguire la sua attività di scrittore di orazioni giudi-
ziarie per altri fino alla fine del decennio. E forse ei dovrà scen-
dere ancora un po' nel decennio successivo.
1418 [rn82] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

critiche. Nel fatto Isocrate è mi sofista autentico,


è colui, anzi, che portò a perfezione e attuò in pieno
il movimento educativo dei Sofisti. La tradizione bio-
grafica lo designa scolaro di Protagora e di Prodico,
ma in particolare di Gorgia; una notizia, quest'ultima,
che gli archeologi dell'età ellenistica trovarono confer-
mata dalla pietra tombale di Isocrate, nella quale ri-
conobbero l'immagine di Gorgia effigiato nell'atto di
additare la sfera celeste 9). Un'altra tradizione lo pone
a studiare con Gorgia in Tessaglia, durante gli ultimi
anni - è da credere - della guerra del Peloponneso IO).
In Tessaglia appunto è da porre, anche secondo il Me-
nane platonico, un periodo di attività del grande re-
tore 11), testimonianza interessante, questa, della pe-
netrazione della nuova cultura fino ·a regioni periferiche
della Grecia. Lo stesso Isocrate, poi, con la prima
grande opera che lo rese tutto a un tratto famoso, il
Pan-egirico, mostra di collegarsi immediatamente al-
l'Olimpico di Gorgia, e proprio questa consapevole
emulazione del maestro nello stesso tema di sommo
impegno, lappello ai Greci per l'unità nazionale, de-
pone, conforme al costume del mondo letterario an-
tico, per la qualità di scolaro di Isocrate. Testimonia
. inoltre, e prima di tutto, in questo senso la posizione
dominante che egli assegna alla retorica, a quella forma
cioè della cultura sofistica che meno ritiene di carat-
tere puramente teoretico. Anch'egli volle,· come Gor-

1 ) La tradizione biografica su Isocrate è trattat_a a fondo

da F. BLASS, Die attische Buedsamkeit, II Abt.• (Lipsia 1892);


sulle notizie riguardanti i suoi maestri cfr. p. 11. Sul suo monu-
mento sepolcrale cfr. Ps.-Plut. vit. X or. 838 d, il quale ricava
questi dati archeologici e antiquari delle sue biografie di oratori
da uno scritto del periegeta ellenistico Eliodoro.
10 ) Il tempo del soggiorno d'Isocrate in Tessaglia non si
può determinare con sicurezza: deve cadere o negli anni imme-
diatamente prima del 410 o nell'ultimo decennio del V sec.
11) Meno 70 b, cfr. Isoc. Antid. 155. ·
CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [ID 83] 1419

gia, insegnare per tutta la vita «l'arte del discorso»


(ì..Oy<ùv Téxv"1J) 12) mentre riservò sempre il titolo di so-
fista ai teoretici di ogni tendenza. Sotto questo titolo
comprendeva anche Socrate e i suoi scolari, per I' ap-
punto quelli, cioè, che tanto avevano contribuito a
screditare quel nome. La meta ideale, invece, dell' at-
tività sua propria, Isocrate la chiamò filosofia, com-
piendo cosi una precisa inversione del senso dato da
Platone ai due vocaboli. Ciò fa l'effetto oggi, dopo che
si è imposto da secoli il senso platonico del concetto
di filosofia, di un puro arbitrio, ma in realtà non lo è;
giacché al tempo d'Isocrate questi concetti erano ben
lungi dall'irrigidimento attuale, ma vivevano nella flui-
dità dello sviluppo. Non Platone, ma Isocrate si con-
formava all'uso corrente della lingua, quando defi-
niva sofisti cosi Socrate e i suoi come Protagora o
lppia, assegnando invece la parola« filosofia» ad ogni
sorta di formazione culturale dell'intelletto, con un
senso che, per es., s'incontra anche in TucididelS). Pro-
prio come il Pericle tucidideo 14), egli avrebbe potuto
dire che laspirazione alla superiore cultura intellet-
tuale (cp~Àoaocpe:iv} è la nota distintiva dello stato ate-

11) Propriamente egli la chiama li -r&v ì.6yCllv µeÀÉT'I) o 7tCXt·


SeEa: o bnµÉÀeta:; il BLAss, op. cii. p. 107, crede di aver os-
servato che egli evita di chiamarla TÉJ(V'J]. E la probabile ra-
gione di ciò sarebbe la preoccupazione di non esser confuso con
uno dei molti tecnografi. Ma alcuni luoghi, come Soph. 9-10, Àntid.
178, dimostrano che Isocrate considerava la sua aooplet come
una TÉJ(V'I)·
13 ) Non è necessario dare qui un indice completo dei passi.

Isocrate, Antid. 270, rivendica per sé il titolo alla cptÀoo-atpla:,


affermando che ad esso non hanno diritto gli altri maestri, come
i dialettici, matematici, scrittori tecnici di retorica. Negli scritti
anteriori Isocrate appare meno esclusivo, e parla senz'altro della
cptÀoaocpla: degli eristici (Hel. 6) o dei retori scolastici come
Policrate (Busir. l); in Soph. I, poi. la parola appare designa-
zione generale di tutti i rami della cultura e istruzione superiore
descritti in questo opuscolo.
14 ) Thuc. II 40, 1.
1420 [m84] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

niese nel suo complesso, e qualcosa di simile dice ef-


fettivamente nel Panegirico. Atene ha inventato -
così si afferma colà - la cultura (C'fHÀoaocploc); col che
Isocrate manifestamente pensa al timbro spirituale di
tutta la comunità ateniese, non già alla esigua schiera
di dialettici sottili che si radunava intorno a Socrate
o a Platone 15). La meta ideale di Isocrate è la cultura
universale,. in antitesi con ogni dogma particolare o
metodo di conoscenza, come quelli, precisamente, di
cui i platonici proclamavano l'esigenza. Tutti e due i
partiti dunque rivendicano per sé il nome di filosofia,
ma nei significati del tutto diversi che l'uno e laltro
gli danno si esprime a perfezione la rivalità di retorica
e scienza, aspiranti ambedue al principato nel regno
dell'educazione e della cultura 16).
Isocrate è pertanto l'erede, nel periodo del dopo-
guerra, della cultura sofistica e retorica dell'età di Pe-
ricle, ma egli è anche molto di più di questo, anzi, con
questa definizione, non si è ancora toccato il meglio
e il più caratteristico della sua personalità. Già nel
suo modo di accentare gli elementi di quella cultura,
nel rilievo da lui dato all'elemento retorico e pratico-
politico a scapito del teoretico-sofistico, si svela un'ac-
corta sensibilità per l'atteggiamento di Atene di fronte
alla nuova cultura, che durante la giovinezza di lui
aveva sì avuto, nella sua patria, improvviso e rigoglioso

15) Paneg. 47. xcmir;lìs:içocL è usato per fondatori di reli-


gioni e simili. In questo luogo cpt:ì.oaocp!oc non significa « filo-
sofia».
18 ) Il BLASS, op. ci.t. p. 28, rileva giustamente che la parola
« filosofia», significa ancora, al tempo d'Isocrate, « cultura»,
sicché non è affatto strana e ridicola la pretesa di lui, di inse-
gnare filosofia. Egli trova però eccessivo che Isocrate creda di
essere il solo a rappresentare la vera filosofia, cioè la vera cul-
tura. D'altronde anche Platone e tutte le altre scuole filosofiche
finirono con avanzare la stessa pretesa, di insegnare la sola vera
cultura: cfr .. p. P.S. PI. Ep. VII 326 a, Resp. 490 a, ecc.
CAP. Il: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 85] 1421

sboccio, ma era stata anche fortemente contrastata. Seb-


bene Isocrate non fosse affatto il primo tra gli Ateniesi
a farsene scolaro e propugnatore, pure fu lui a darle
quella forma che sola le consentì diritto vero di citta-
dinanza in Atene. I retori e sofisti di Platone hanno
torto sempre, in partenza, di fronte a Socrate, già per
la sola ragione che sono stranieri e non vedono il vero
problema dello stato e degli uomini tra cui si trovano.
Nel mondo attico, in sé così fermamente concluso, essi
vengono sempre dal di fuori con la loro scienza« d'im-
portazione» 17). La lingua che parlano è sì lingua in
certo modo internazionale, lingua che ogni uomo colto
capisce, ma lalone, la risonanza ateniese mancano,
manca quella grazia leggera e sciolta del quotidiano
contatto, senza la quale era difficile ottenere, su quel
suolo, un successo vero e pieno. Se la loro cultura, la
loro favolosa abilità formale s'impongono, esse si rive-
lano poi, in un senso più profondo, inefficienti, almeno
nel primo incontro; né avrebbero cominciato ad ope-
rare senza che il nuovo elemento si compenetrasse e
fondesse in quel corso vitale, in quell'avvio singolaris-
simo, che la storia aveva dato alla città incompara-
bile. Per questo compito ci voleva un ateniese che,
come Isocrate, avesse chiara coscienza della qualità
precisa del suo popolo, del suo destino e situazione at-
tuale. Questo processo per cui la retorica ebbe pieno
diritto di cittadinanza in Atene, si compì in un'intera
generazione dopo il suo inizio, si compì in rapporto
con la formidabile esperienza della guerra e del dopo-
guerra, che operarono una trasformazione profonda.
L'accoglimento pieno della retorica è contemporaneo
- ma già in parte ne è riflesso - della riforma morale

I") Cfr. Prot. 313 e se.


1422 [rn86] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ÈTÀ DI PLATONE

della socratica 18) e delle grandi crisi sociali che scos·


sero lo stato ateniese durante la giovinezza e i primi
anni della maturità di Isocrate. La situazione imponeva
compiti enormi alla nuova generazione, chiamata ad
accedere all'eredità del regime pericleo. E fu la reto·
rica, non la filosofia nel senso di Platone, quella che
parve ad Isocrate forma di vita intellettuale capace
di improntarsi a fondo del contenuto di idee etico-
politiche del tempo e di farne moneta di scambio,
patrimonio comune. Con questo nuovo compito, l'at·
tività retorica di Isocrate si inserisce in quel grande
movimento educativo ateniese del dopoguerra nel quale
vennero allora inevitabilmente a confluire tutti i ten-
tativi di rinnovamento.
Furono, a condurre su questa via, motivi di molto
varia natura. Intanto Isocrate personalmente, con tutta
la sua maestria stilistica e linguistica, non era propria-
mente oratore nato. Eppure, ancora al suo tempo,
conforme alla natura della democrazia ateniese, il com-
pito dell'oratore era la forma caratteristica di ogni
attività di uomo politico. Come racconta egli stesso,
la sua costituzione era gracile. Non solo gli mancava
una voce robusta, ma egli provava anche un ritegno

18 ) Fino a che punto sia storicamente credibile il racconto


del Fedro, dove Platone fa pronunziare a Socrate una profezia
sul grande avvenire di Isocrate, è difficile dire. Quello che basta
per aver dato origine a quel r;i.cconto, è che in qualche momento
il giovane Isocrate e il vecchio maestro si siano incontrati. Esso
non suppone una conoscenza più intima né una relazione di sco-
laro a maestro. Tuttavia si trovano in Isocrate parecchie coinci-
denze con pensieri socratici, sulle quali la trattazione più esau-
riente è di H. GOMPERZ, Isokrates und die Sokratik (« Wiener Stn-
dien» XXVII (1905) p. 163 e XXVIII (1906) p. 1). Il Gomperz
suppone con ragione che Isocrate debba la conoscenza di quelle
idee alla letteratura dei Socratici, e in favore di ciò sta la circo-
stanza che la menzione di tali idee non comincia, nell'opera di
Isocrate, prima del decennio 390-380, quando egli stesso si pre-
senta come teorico dell'educazione. Mi sembra però che il Gom-
perz abbia sopravalutato l'influenza di Antistene su Isocrate.
CAP. II: LA REIORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 87] 1423

invincibile a presentarsi in· pubblico. La massa, con


tutto il suo peso, gli faceva paura 19). Che egli parli
cosi senza imbarazzo di questa sua fobia non significa
solo che voglia scusarsi della sua astensione assoluta
dall'attività politica, ma anche che considera, con piena
consapevolezza, questa sua disposizione come un ele-
mento originario, radicato negli strati più profondi della
sua natura. In lui come in Socrate l'astensione dalla
politica non è disinteresse, ma è il punto di sbocco
di tutta una problematica, che agisce in lui tanto
come freno e impedimento, quanto come approfondi-
mento di comprensione di fronte al preciso compito
che la situazione, il kairos, gli propone. Egli è convinto,
come il Socrate platonico, che 1'opera di rinnovamento
deve trovare il suo punto d'applicazione altrove che
nell'attività pratica di oratore, nell'assemblea o nei
tribunali. E perciò egli sente la debolezza della propria
costituzione, che lo rende inetto alla normale carpera
politica, come qualcosa che lo avvia appmìto. _a1 suo
più vero e più alto compito, come il segno del suo de-
stino. Ma mentre Socrate col suo instancabile interro-
gare e saggiare si fa indagatore sul terreno della vita
mo.raie, per giungere infuie dinanzi alla porta chiusa
di una scienza nuova,· Isocrate, nella sua più pratica
natura, per quanto subisca l'influsso del grande con-
temporaneo e non cessi mai di misurarsi col modello di
lui, sente tuttavia che i propri doni e il suo isolamento
dalla massa lo destinavano a farsi maestro, per una pic-
cola cerchia, di una nuova forma di attività politica 20).
11) Sulla vita d'Isocrate cfr. F. Buss, op. cii. p. 8 ss., R. JEBB,
Anic Orators, Vol. II (Londra 1876) Il p. l ss. e l'ampio articolo
del MuNSCHER nella Realen:yklopiidie di Pa-uly·Wissowa, IX
2150 ss. Sulla voce debole di Isocrate, sulla sua timidezza cfr.
Phil. 81, Panath. 10.
H) Cfr. Phil. 81-82, dove Isocrate connette con la confessione
dei suoi impedimenti fisici e psichici la rivendicazione del suo
pregio supremo nella phronesis e nella paideia.
1424 [III 88] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Il tempo stesso in cui visse sembrava render neces-


saria questa nuova via. Nella quiete della sua vita ap·
partata, Isocrate volle preparare uomini che sapessero
proporre nuove mete alle masse mal guidate e alla po·
litica degli stati greci, fin qui aggiratasi senza frutto
in un circolo chiuso. Il suo compito gli pareva di rendere
i suoi · scolari partecipi appassionati di questi ideali
che portava già chiari in se stesso. C'era in lui un sogna·
tore politico, il cui pensiero però si moveva in fondo
sulla stessa via del politico realista, era guidato dalle
stesse immaginazioni e aspirazioni: potenza, gloria, pro-
sperità, espansione. Solo a poco a poco queste sue
mete si vengono modificando a seconda dell'esperienza,
ma dal principio alla fine egli scorge la possibilità di
raggiungerle solo fuori dalle vie battute della politica
di interessi interna alla Grecia, fuori dalle logoranti
lotte egemoniche nello stile dell'età di Pericle. In que-
sto il suo pensiero è del tutto un prodotto della debo-
lezza di Atene nel dopoguerra. Il sognatore che è in
lui sorvola nella sua visione sul reale ostacolo che que-
sta debolezza oppone; egli guarda al futuro e vi scorge
la possibilità per Atene di una parte direttiva nelle
vicende greche, ma solo in un pacifico equilibrio con
Sparta e con gli altri stati greci, in una condizione
di assoluta eguaglianza fra vinti e vincitori, nella
quale ad Atene verrà, di per sé, a toccare la parte de-
cisiva, mercé la sua superiorità spirituale sui rozzi
rivali 81). Soltanto un tale equilibrio, collegato con un
grande compito comune che gli stati greci riuniti deb-
bono imporsi, può, egli pensa, arrestare il dissolvi·

U) Questo compito egli assegna ad Atene nel Panegirico.


Nei limiti del primato spirituale di Atene, egli pot~ mantenere
questa tesi anche dopo la fine della seconda lega marittima, come
fa nell'Areopagitico e nel Panatenaico. Ma la parallela afferma-
zione di egemonia politica fu più tardi abbandonata da lui, per es.
nella Pace e nel Filippo.
CAP. Il: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 89] 1425

mento della Grecia e, con ciò, mantenerne in vita le


parti, che finora non sono riuscite se non a logorarsi
a vicenda, senza raggiunger nessuna una prevalenza
decisiva, senza la forza di imporre un predominio pa-
cificatore. Dunque, per i Greci un compito comune.
Trovarlo equivaleva a salvare i Greci come nazione,
e questo perciò diventa per Isocrate, dopo le amare
esperienze della guerra peloponnesiaca, il vero e pro-
prio scopo di ogni vera politica. Certo, occorreva prima
e sopra tutto vincere l'intima corruzione della vita
politica negli stati greci, e, fonte di questa corruzione,
l'odio mortale scambievole tra città e partiti. Era
stato proprio quest'odio egoistico di tutti contro tutti
che, secondo la tragica descrizione tucididea della guerra,
aveva dato origine e giustificazione ad ogni sorta di
atrocità, aveva dissolto ogni saldezza di principi mo-
rali 22). Isocrate, però, non vede già, come il Socrate
platonico, il centro del problema nell'edificazione di
un mondo morale, di uno stato nell'intimo dell'indi-
viduo, nella sua coscienza 28); il punto di cristalliz-
zazione· del suo proposito di rinnovamento è per lui
la nazione, l'idea greca. Platone aveva rimproverato
alla retorica di approntar. solo mezzi di persuasione
senza potere additare alcuna meta, il che in pratica
equivaleva a dare agli uomini armi intellettuali per
il raggiungimento di scopi immorali 24): debolezza in-
negabile, questa, e fonte di pericolo per la retorica, in
un'età in cui la coscienza del bene si faceva sempre
più sensibile. Nel volgersi all'idea panellenica Isocrate
vide il mezzo di risolvere anche questo problema. Si
trattava insomma di trovare una linea intermedia tra
l'indifferenza morale dell'educazione retorica, come pra-

22 ) Thuc. III 82.


23) PI. Resp. 591 e, cfr. « Paideia » II 617 ss.
24 ) Cfr. « Paideia » II 221 ss.
1426 [m90] LIBRO IV - IDEALI DI CULTÙRA NELL'ETÀ DI PLATONE

ticata fino allora, e la dissoluzione platonica della po-


litica nell'etica, che in pratica doveva condurre ad
appartarsi del tutto dalla politica 26). La nuova reto-
rica doveva trovare il modo di ·farsi banditrice di un
ideale, di uno scopo, che fosse eticamente sostenibile,
ma nello stesso tempo suscettibile di pratica applica-
zione ·politica. Era~ questa, una nuova etica nazionale,
che offri alla retorica un tema veramente inesauribile:
sembrò, anzi, che con essa si fosse scoperto il tema per
eccellenza, di ogni vera e alta retorica. In quell'età di
declino dell'antica fede, di indebolimento della forma
statale della polis, in cui l'uomo di un tempo era stato
moralmente radicato, il sogno della grandezza nazio-
nale apparve forza ispiratrice, valse a dar nuovo con-
tenuto alla vita.
Cosi per il fatto stesso di avere scelto, in quel par-
ticolare momento, la retorica come proprio campo di
attività~ Isocrate fu spinto alla formulazione del suo
nuovo ideale. È del tutto verosimile che il primo im-
pulso gli sia venuto già da Gorgia, che con l'Olimpico
aveva per primo imposto quel tema al quale Isocrate
doveva rimaner fermo per tutta la vita. Non è raro
il caso che l'idea concepita. da un maestro negli ultimi
suoi anni, e per cui egli ha cercato di accendere lanimo
dello scolaro, segni per questi la linea direttiva di
tutta la sua vita. Isocrate voleva farsi uomo politico
pur senza essere oratore, affermarsi come educatore
dei giovani e maestro di retorica contro la concorrenza
della filosofia socratica e della retorica della vecchia
maniera, sl da fronteggiar con successo le critiche di
queste: nella sua nuova idea, come direttiva, egli trovò
l'unica via che gli fosse accessibile per lattuazione di

16) Nel discorso Contro i Sofisti Isocrate mette a fronte que-


ste due tendenze della paideia contemporanea.
CAP. rr: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 91] 1427

questi scopi. Ciò spiega la costanza, l'ostinazione, con


la quale questa via egli seguì fino alla :fine. Se le sue
debolezze offrono spesso il fianco alla critica, è pur
vero che è difficile trovare un uomo che più piena-
mente di Isocrate abbia adempiuto il compito scel-
tosi e abbia avuto qualità più rispondenti alla sua par-
ticolare concezione del compito stesso. Questa conce-
zione dava alla retorica un contenuto reale suo proprio,
quel contenuto di cui le si era rimproverato di esser
priva 26). Al maestro di retorica era conferita così, per
la prima volta, una dignità che lo pareggiava al filosofo
e lo faceva indipendente dai politici del giorno, anzi
gli dava su questi una superiorità di rango, in quanto
egli rappresentava un interesse più alto di quello dei
singoli stati. I difetti naturali di Isocrate, del corpo
come della mente e del carattere, e cosi pure le manche-
volezze della retorica stessa, si camhiano cosi quasi
in virtù in questo suo programma, o ne prendono
almeno l'apparenza. Nessun retore o ideologo politico
o pamphletiste, si è mai trovato in una condizione così
favorevole né ha mai potuto vantate una simile in-
fluenza sulla nazione intera; quello che, in questa
azione, difetta in ricchezza e teu'sione geniale, è com-
pensato in parte dall'impegno, dall'ostinazione di tutta
una lunghissima vita. Le quali doti se pur non pos-
sono mai stare per un valore autentico dell'opera in sé,
pure assicutano il successo di un'attività che, come
quella dell' educatGre, si fonda sul rapporto con gli uo·
mini vivi.
Il giudizio della critica moderna ha reso per la prima
volta, dopo secoli, piena giustizia al contenuto politico
degli scritti di Isocrate, e li ha giustamente apprez-

26) Cfr. PI. Gorg. 449 d, 451 a, 453 b-e, 455 d. Lo stesso rim·

provero è poi ripetuto nel Fedro.


1428 [m92] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

zati nel significato che hanno per la storia del IV sec.;


ma in contrasto col concetto più antico, che vedeva
in lui solo il moralista, ha rilevato troppo esclusiva-
mente lo scrittore e pubblicista di fronte al maestro
e non si è reso abbastanza conto che tutta la sua pub-
blica attività di scrittore è, al pari di quella di Platone
e di Aristotele, al servizio del programma educativo
della sua scuola. Indubbiamente, Isocrate volle ope-
rare coi suoi scritti anche oltre i confini della sua cer-
chia scolastica, e in effetti fece scuola con essi anche
tra coloro che non erano mai stati alle sue lezioni.
Ma in pari tempo i suoi discorsi politici sono modelli
della nuova forma di eloquenza che egli insegnava
nella scuola. Spiega lui stesso più tardi, nell' Anti-
dosis, per un pubblico più vasto, il modo del suo inse-
gnamento, mediante una scelta di pezzi dei suoi di-
scorsi più celebri. Questi discorsi erano stati conce·
piti come modelli così di forma come di contenuto,
inseparabili nella sua dottrina 27). Ciò non dobbiamo
mai perder di vista, se vogliamo farci un'idea, da
questa che è l'unica fonte a nostra disposizione, di
quel che fu l'essenza di quella cultura di cui si fece
maestro. Fortunatamente, con quella sua caratteri·
stica consapevolezza, per la quale si ferma ogni mo·
mento a riflettere su quel che dice e come e perché
lo dice, egli più volte si mette a chiarire espressamente
l'arte sua e i suoi fini educativi; anzi egli compose
perfino, agli inizi della sua attività, alcuni scritti pro•
grammatici, al fine di definir chiaramente la posizione
propria, nel più largo ambito dei rappresentanti della
cultura contemporanea. E da queste sue asserzioni
dobbiamo partire, per valutare appieno l'estensione di

27 ) I discorsi di Isocrate non sono mai stati tenuti in pub·

hlico. La loro forma oratoria è pura finzione.


CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTIJRA [m 93] 1429

tutta la sua attività, per apprezzare il significato della


« paideia di Isocrate».
Non si sa niente sulle ragioni che lo mossero a pas-
sare dall'attività di «logografo», che per molti ri-
spetti corrisponde a quella di: un moderno avvocato,
alla professione di maestro di retorica, e neppure sul
momento preciso di questo trapasso. Ali' attività del
logografo si era rivolto, come Lisia, Iseo e Demostene,
per ragione di guadagno, perché la sostanza paterna
era andata perduta con la guerra 28). Più tardi, quando
si sente ormai come il Fidia dell'eloquenza 29 ), egli
mostra di non ricordarsi volentieri di questo tempo
della sua vita, sebbene, come scrisse Aristotele pren-
dendolo in giro, volumi e volumi dei suoi discorsi giu-
diziari di un tempo si vedessero per le botteghe dei
librai 30). Di questo genere di scritti solo pochi ci sono
stati conservati, giacché la scuola di Isocrate, a cui
fu primamente affidata dopo la sua morte la tradizione
della sua eredità letteraria, aveva, a conservarli, lo
stesso esiguo interesse del maestro 31). Le tracce che
essi ci offrono non ci portano più giù del primo de-
cennio del IV sec. 32). La fondazione della scuola di
Isocrate verrebbe cosi cronologicamente a coincidere

28) Sulla sua attività di logografo cfr. Dionys. Hal. De Isoa.


18, Cic. Brut. 28, che ha come fonte la auvocyroyÌ) -rqvwv di
Aristotele. Sulla perdita del patrimonio paterno cfr. Isocr. An-
rid. 161.
29) Àn.tid. 2.
80) Cfr. Dionys. Hai. op. cir. 18.
81) Secondo Dionigi di Alicarnasso (op. e loc. cir.), Afareo
figliastro d'Isocrate, affermava, in una sua orazione contro Me-
galide, che il patrigno non aveva mai composto orazioni forensi,
il che però si può riferire solo al tempo in cui Isocrate tenne una
sua scuola. L'esistenza di discorsi forensi del maestro fu ammessa
dal suo scolaro Cefisodoro, che però limitò il riconoscimento a
ben pochi.
82 ) Il Trnpezitico e I' Eginetico si possono datare verso il 390.
1430 [rn 94] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

all'incirca con quella della scuola platonica 33). Nel di-


scorso programmatico Contro i Sofisti Isocrate ha già
sotto gli occhi gli «scritti-manifesto» di Platone, il
Gorgi,a e il Protagora, e cerca chiaramente di differen-
ziarsi dall'id~ale di paideia espresso in quelli 34). Que-
sto ci conduce allo stesso periodo di tempo. Il valore
incomparabile del discorso Contro i Sofisti sta, per noi,
nella vivezza di partecipazione che ci consente di fronte

11) Non trova conferma la notizia data dallo Ps.-Plut. vit.


X or. 837 b, per la quale Isocrate avrebbe da principio tenuto
una scuola in Chio, e l'espressione qui usata èxt Xlou è strana
se deve valere per il normale èv Xlci>. Dopo è1t( .si aspetterebbe
il nome dell'arconte, sotto il quale Isocrate cominciò ad inse-
gnare, ma se corruttela c'è, è difficile sanarla, perché i nomi degli
arconti degli anni intorno al 390 non hanno alcuna somiglianza
con la parola Xlou. Se la co~ttela fosse da un [Mua't"t]xt8ou,
ciò ci riporterebbe all'anno 386-85, che però sembra assolutamente
troppo tardi per la fondazione della scuola.
"') Che l'orazione Contro i Sofisti sia da porre agl'inizi della
sua attività è detto da Isocrate stesso, Antid. 193. Sul problema
dei rapporti d'Isocrate con Platone il MuNSCHER, Pauly-Wissowa
loc. cit. 2171, elenca un'abbondante letteratura, la quale però
è da ritenersi in gran parte superata, una volta che è risultata
falsa l'ipotesi su cui per molti rispetti si fonda la maggior parte
di quegli scritti: che, cioè, il più importante dialògo platonico
sulla retorica, il Fedro, sia opera della giovinezza o della prima
maturità dell'autore. Quest'ultima ipotesi è ancora quella dello
stesso Miinscher, nel suo articolo egregiamente orientativo. Su
questo punto la ricerca moderna ha condotto a una radicale re-
visione. Cfr., sulla data tardiva del Fedro, infra, p. 317, n. 5, p.
318, n. 6. D'altro canto mi sembra impossibile sottrarsi alla con-
clusione che la vivace polemica contenuta nell'orazione Contro i
Sofisti è diretta anche contro Platone non meno che contro gli
altri Socratici (in contrario WILAMOWITZ, Platon II 108). Quel-
l'orazione suppone esistenti, tra le opere giovanili platoniche, il
Protagora e il Gorgia, forse anche il Menane (per la discussione del
problema v. infra, pp. 98 s. e 113. L'idea del MtiNSCHER(Pauly-Wis-
sowa loc. cit. 2175), che al tempo dell'orazione Contro i Sofisti Iso-
crate essenzialmente« fosse stato ancora d'accordo» con Platone,
non può essere stata dedotta dall'orazione stessa, la quale anzi, si
può dire, la confuta in ogni riga. Quella falsa idea si fonda esclu-
sivamente sulla datazione precoce del Fedro, nel quale Platone
appare meglio disposto verso Isocrate che verso i retori del tipo
di un Lisia. Chi supponeva che il dialogo fosse stato composto
poco dopo l'orazione era necessariamente condotto a far violenza
all'orazione e a interpretarla come amichevole verso Platone.
CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA (m 95] 1431

agli inizi di quella contesa per la cultura tra le due


scuole, che doveva protrarsi per una generazione. E non
minore interesse presenta in quanto ci rende l'imme·
diata impressione che l'esordio di Platone produsse
su molti contemporanei. Abituati come siamo a guar·
dare la grandezza di lui nello specchio secolare della
sua sopravvivenza, siamo natura mente inclini a rap·
presentarci, in proporzioni simili, fin da principio, la
sua influenza sul mondo circostante. A questo errore
di prospettiva Isocrate può offrire un correttivo ap·
prezzahile.
Isocrate prende le mosse dalla cattiva fama a cui
vanno soggetti, presso il gran pubblico, i rappresen·
tanti della paideia, e la spiega con l'eccesso di aspet·
tative che essi provocano con le loro promesse 35).
Con ciò viene a prendere posizione contro la soprav•
valutazione, corrente al suo tempo, del potere del·
leducazione. In realtà il rivolgimento prodottosi dal-
l'atteggiamento di Socrate, che aveva perfino potuto
dubitare se esistesse una qualche cosa da chiamarsi
educazione, al pathos educativo dd primi dialoghi
platonici, era cosa che dovette parere straordinaria.
Isocrate è anche qui l'uomo della via di mezzo. Vuole
naturalmente essere, anche lui, educatore, ma si mostra
comprensivo per i profani che, piuttosto di affidarsi
alle promesse dei filosofi, preferirebbero non sentir
nemmeno parlare di educazione 36). Come si può cre-
dere, si domanda, al desiderio, all'ansia di verità che
85) Isocr. Soph. I.
3 ")La parola « filosofo», naturalmente, non designa solo
quei rappresentanti della paideia che anche noi oggi chiame-
r~mmo con lo s~esso nome, cioè i Socratici, ma anche ogni sorta
di persone che SI presentassero come maestri di cultura (cfr. Soph.
11 e 18). Ma anche i filosofi in senso stretto vi sono compresi,
come mostra chiaro Soph. 2, nel qual luogo si allude alla loro
pretesa d'insegnare la vt:rità. E ciò conviene a tutti i Socratici,
non solo alla « aletheia » di Antistene.
1432 [III96j LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

animerebbe costoro, quando si rivelano così menzo-


gnere le speranze che destano ? Isocrate non fa nomi,
ma ogni parola della sua polemica mil'a ai Socratici,
che egli chiama sprezzantemente, qui e altrove,
« eristici» 37). Platone nel Protagora e nel Gorgia aveva
rappresentato la dialettica come un'arte superiore alla
retorica~ coi suoi lunghi discorsi. E ora il suo avversa-
rio mette in un fascio la dialettica con quell'eristica,
da cui la filosofia autentica aveva sempre tenuto a
distinguersi 38), anche se nel Socrate platonico c'è qual-
cosa a volte che ce la fa fortemente ricordare. Questo
avviene, appunto, abbastanza spesso nei dialoghi più
antichi, nel Protagora e nel Gorgia 39), e non è strano
perciò che Isocrate non veda la dialettica in così buona
luce come i Socratici, che la vanno raccomandando
come il rimedio universale. Quell'infallibile giudizio sui

87) Sopk. 1 ot 1tepì -.&:e; ~pt8a:c; 8ta:-.p!~ov-.ec; ot 1tpo<motouv-

't'a:t 't'"Ì)v &.ì..-lj.&etlXV !;"ll"e!v, Antid. 261 o t èv 't'orc; èp ta-.txo"ic; ì..6-


yo tc; 8uva:a't'euov-rec;. Nel secondo di questi passi essi SO!lo alli-
neati con coloro che coltivano geometria e astronomia. L'una
e l'altra cosa convengono all'Accademia plaionica. L'ipotesi in-
conseguente del Miinscher, secondo la quale Isocrate metterebbe
anche Platone tra gli eristici nell'Antidosi, ma non nell'orazione
Contro i Sofisti, poggia anch'essa sulla datazione troppo antica
del Fedro e sull'amicizia, che se ne deduce, tra Isocrate e il gio-
vane Platone.
18) Secondo ogni verisimiglianza, fu la confusione corrente
tra dialettica ed eristica, che appare elemento costante nella
polemica di Isocrate, quello che indusse Platone a segnare, nel-
1'Eutidemo, una recisa distinzione tra Socrate e i campioni della
scherma eristica. Anche nella Repubblica 499 a egli lamenta an-
cora che nessuno conosca il vero filosofo e si preoccupi di difen-
derlo dall'essere confuso coi meri disputatori ài parole. E lo de-
scrive come colui che non gusta affatto le brillanti ma vane bat-
taglie verbali e solo cerca « la conoscenza per se stessa».
••) In più punti Protagora non riesce ad acconsentire alle
conseguenze dedotte da Socrate e ha visibilmente l'impressione
che l'avversario gli tenda trappole logiche. Platone ritrae tutto
ciò con assoluta obbiettività e con ciò stesso fa capire come poti!
sorgere contro la dialettica socratica, il sospetto ài eristica. Si-
milmente nel Gorgia 482 e ss. si ribella contro il « trucco» di So-
crate consistente nell'usare lo stesso concetto nello stesso ragio-
namento in sensi diversi. Su ciò cfr. « Paideia » II 235.
CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 97] 1433

valori, la qip6v'Yjcnç, che, essi dicono, sarà frutto si-


curo del loro insegnamento, semhra all'uomo del sano
intelletto comune superare il limite di ciò che all'uomo
è possibile 40 ). Omero, conoscitore sottile dei limiti che
separano l'umano e il djvino, ha riservato agli dei
soli una tal penetrazione di sguardo, e con ragione.
Quale mortale può es!!er così ardito da promettere ai
suoi discepoli di comunicar loro una scienza (imo"r1Jµ.'Yj)
infallibile di ciò che debbono fare o non fare e di con-
durli per questa scienza alla beatitudine (eMix~µ.ov(ix) ? 41).
Sono qui raccolti in breve, efficacemente, tutti que-
gli elementi del platonismo che dovevano presentarsi
come urtanti per l'intelletto degli uomini comuni:
quel singolare modo di discutere per domande .e ri-
sposte, quel valore quasi mitico attribuito alla phro-
nesis cioè alla conoscenza dei valori, quasi di un par-
ticolare organo della ragione, quell'apparente intellet·
tualismo, riponente ogni salute nel sapere, infine, quella
promessa di eudaimonia per il filosofo, di suono pres-
soché religioso, nella sua sovrabbondante pienezza.
Isocrate prende evidentemente di mira le peculiarità
di terminologia del nuovo stile filosofico; le va sco-
vando, con la fine sensibilità del conoscitore della lin-
gua per tutto ciò che· alla maggioranza delle persone
colte doveva sonare strano o ridicolo, e ponendo in
confronto la« virtù universale» (7tiicrix &peTfi), che do-
veva essere il fine della conoscenza socratica del« buono
in sé» 42), con quel poco onorario di cui si contenta-
vano i filosofi. per vendere la loro sapienza, induce l'in-
telletto comune a sospettar fortemente che quel che

Soph. 2.
40 )
Soph. 2-4.
41 )
"') La « virtù mrlversale », « tutta la virtù» si contrappone
in Platone alle « virtù singole», cioè giustizia, fortezza, tempe-
ranza ecc. È definita anche come « virtù in sé» ( IXÙT'Ìj 7J à:petj).
L'espressione era inusitata e nuova per i contemporanei di Platone.
1434 [m98] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

i giovani possono imparare da loro non valga davvero


più di quel poco che si deve pagar per averlo. Quanto
sia scarsa la fede che i filosofi hanno in quella perfetta
virtù che pretendono di portare alla luce nelle anime
degli scolari, lo dimostrano proprio loro, egli pensa,
con quella sfiducia nell'onestà degli scolari stessi, a cui
s'ispua il regolamento della scuola. I filosofi infatti esi-
gono che il prezzo del corso sia depositato anticipata-
mente in una banca ateniese '3): ottima cosa, in realtà,
per quel che riguarda la propria sicurezza; ma come
si concilia un tale atteggiamento con quella loro pre-
tesa di educare gli uomini alla giustizia e al dominio
di sé? L'argomento può sembrare un po' troppo me-
schino, ma non è in realtà senza una sua punta. Con la
stessa malizia Platone, appunto, aveva ragionato con-
tro i retori, i quali lamentavano il malo uso fatto del-
1'arte dai loro scolari, e non si accorgevano di accusarsi
in tal modo da sé. Giacché se fosse vero che la retorica
rende migliori, un tale abuso non sarebbe possih:i,le da
parte di quelli che veramente l'hanno appresa 44). Ef-
fettivamente il rimprovero capitale, che si faceva alla
retorica era il suo carattere di amoralità. Di fronte
a questo Isocrate, in vari luoghi dell'opera sua, si as-
socia all'idea che in Platone è difesa da Gorgia, cioè
che il maestro ha trasmesso l'arte allo scolaro per il
retto uso, e che perciò non incorre in biasimo alcuno
se poi lo scolaro ne abusa per fini illegittimi 45). Lungi
dunque dall'associarsi alla critica di Platone, egli so-
stiene la legittimità piena della posizione di Gorgia. Ma
quella critica gli fa buon giuoco qui dove egli cerca di

8 ) Soph. S.
") Cfr. Gorg; 456 e-457 c, 460 d-461 a.
41) In Antid. 215 ss. Isocrate cerca di difendere i maestri
di retorica dal rimprovero di dare agli scolari cattivi insegna-
menti.
CAP. re LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 99] 1435

denunziare la sfiducia dei maestri nei loro propri sco-


lari, e da essa egli prende le mosse nel suo assalto ai
filosofi.. Il che rende verosimile che egli, quando com-
poneva il suo scritto programmatico, già conoscesse il
Gorgi,a platonico e vi facesse riferimento 46).
Quel dialogo dové sembrare particolarmente irri-
tante allo scolaro di Gorgia; nella persona del maestro
egli dové sentire offesa anche la sua, giacché, come si
è mostrato, Platone aveva attaccato J:!.On il solo Gorgia
ma la retorica intera in tutti i suoi generi. Tutti i ti-
pici concetti degli « ~ristici » che Isocrate mette in ri-
dicolo nel discorso inaugurale Contro i Sofisti, si tro-
vano già chiaramente espressi nel Gorgia, e sono colà
giudicati nell'importanza che hanno per la nuova for-
ma platonica della paideia "7) (« Paideia » II 211 ss.).
'") Queste relazioni cronologiche tra le due or-ere sono le
più verosimili. Il Gorgia oggi, e con argomenti persuasivi, è ge-
neralmente datato alla seconda metà del primo decennio del
IV sec., ma è difficile che la scuola d'Isocrate sia stata già aperta
a quel tempo, giacché si può seguire la sua attività di logografo
fino al 390. Perciò anche l'orazione Contro i Sofisti, che espone
il programma della scuola, viene a scendere fino al decennio
dal 390 al 380. Qualche studioso ha tentato di fissare le relazioni
cronologiche tra le due opere fondandosi su pretese allusioni del
dialogo platonico al discorso d'Isocrate. Ma anche se Platone
parla di una IJ>uxl) crt"oxocanxii (Gorg. 463 a) e. Isocrate di una
lj/ux'Ì) 3o!;a:anxi) (Soph. 17), ciò non prova che Platone imiti Iso-
crate. Inoltre, 3o!;ocaTtxij è modo di dire platonico. Platone
disprezza la mera 36!;oc, mentre Isocrate insiste qui e altrove
sul fatto che la natura sua propria non consente all'uomo di giun-
gere oltre la M!;a: e il 3o!;iil:e:iv. Il fatto stesso che qui egli
replica a Platone mostra che dipende dalla formulazione plato-
nica del problema. Ma l'argomento principale è quello che si è
dato nel testo (p. 95 es.) e cioè: l'informazione sui concetti fonda-
mentali· platonici e sulle loro relazioni che si trova nell'orazione
(per es. niiaoc &pe:'t"lj - e:ù3cxiµovEot, èmcrrliµlJ - 36!;ot, &ps:tj -
lma't"i)µ'1)) è così esatta e completa, che non può esser presa da
Jiessuna altra opera giovanile di Platone se non dal Gorgia, che è
la sola di queste opere in cui egli dia un'esposizione sistema-
tica del suo pensiero.
") Sarebbe d'altra parte difficile indicare un altro scritto
di Platone giovane che presentasse, riuniti e stretti in tutta la
loro interiore connessione, tutti· questi dementi caratteristici
della sua filosofi.a.
1436[m100] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Il fatto che Isocrate nel suo scritto considera tra gli


a"VVersari a cui si rivolge, in primo luogo, Platone
e i Socratici, e si trattiene più diffusamente su essi, m&.
stra chiara la sua piena consapevolezza del pericolo
che da quella parte si leva a minacciare il suo ideale.
La sua invettiva è di natura del tutto pratica, non
diventa mai confutazione teoretica, perché egli sente
perfettamente che, lasciandosi attirare su quel terreno,
gli toccherebbe la peggio; preferisce cosi di mantenersi
nel punto di vista dell'uomo medio e appellarsi aUe
tendenze istintive di questo. Il profano non intende
i segreti tecnici dei :filosofi, ma sa pur vedere che quella
gente, che vuol condurre gli altri alla sapienza e alla
felicità, non possiede niente essa stessa e niente pre-
tende dagli scolari 48 ). E una tale povertà non cor-
rispondeva davvero al concetto greco tradizionale di
eudaimonia, ed era già stata rimproverata a Socrate da
altri Sofisti, per es. da Antifonte 49). Il profano vede
che coloro i quali rilevano continuamente contraddi-
zioni nei discorsi degli uomini non si accorgono delle
contraddizioni nella loro propria condotta, e che, seb-
bene vogliano insegnare alla gente a prender sempre la
decisione appropriata riguardo al futuro, non sanno
dir nulla sul presente, né dare per il presente ·un buon
consiglio 50). E quando infine il profano riflette che i
più, che pur si fondano nell'agire sulla mera opinione
(a6;cc.), si mettono più facilmente d'accordo e più spesso
trovano la via giusta nell'azione di quelli che osten-
tano il possesso pieno della scienza (ÈmcrTijµ'Y)), il pro-
fano deve finir col disprezzare questi studi e conside-
rarli come pura ciancia e« micrologia », non certo come

"') Soph. 6.
••) Xen. Mem. I 6, l H.
10 ) Soph. 7.
CAP. II: LA RErORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [rn 101] 1437

la« cura dell'anima» 51). Quest'ultimo punto, special-


mente, .toglie ogni dubbio che qui Isocrate voglia col-
pire Platone e gli altri Socratici, e tra questi prima di
tutto Antistene. A bella posta egli mescola e conguaglia
un po' i loro tratti caratteristici, e non senza un'appa·
renza di ragione, giacché essi tutti vogliono essere sco·
lari di Socrate 52). Egli sa però benissimo che questi
scolari di Socrate sono tra loro in aspra contesa e di
questo anzi si fa un altro argomento contro i filosofi,
l'argomento così caro in ogni tempo al« senso comune».
La povertà, la mancanza di bisogni del maestro si ri-
flettono specialmente in Antistene; i tratti teoretico-
filosofici del quadro isocratico convengono essenzial-
mente a Platone e la caratterizzazione dell'attività filo-
sofica come « micrologia » mira chiaramente alla tra·
sformazione, operata da Platone, della dialettica in
arte logica 53). Questa era stata, come già Isocrate
giustamente avverte, un passo di più nella sfera teo·
retica, della pura forma. Quando egli confronta questa
nuova arte di scoprire le contraddizioni, che tendeva
al superamento della doxa per mezzo della scienza 54),

") Soph. 8.
11 ) Il rimprovero rivolto ai filosofi. di contentarsi di onorari
troppo meschini, è possibile che meglio si riferisca ad Antistene
che a Platone; ma su cose di questo genere sappiamo troppo
poco per poter giudicare. Può essere che anche gli scolari del-
r Accademia fossero tenuti al pagamento di una piccola somma.
che non era intesa affatto come onorario, ma che Isocrate si af-
fretta a intendere come tale, per giudicarla sleale concorrenza.
Egli attacca di nuovo Platone e Antistene nell'Hel. I. Sui com·
pensi dei Socratici cfr. Diog. L. II 62, .65, 80 e VI 14.
18) L'accusa di « micrologia» ricorre anche in Antid. 262,
dove è riconosciuta da tutti come rivolta a Platone. Perché mai
nell'orazione Contro i Sofisti. 8 il bersaglio dovrebbe essere di-
verso?
641) Con questa descrizione egli vuol colpire l'arte di confu-
tare (~:>.i;yx·nx-fi) di Socrate e Platone. Cfr. il luogo parallelo
di Bel. 4, dove il bersaglio delle sue ironie à il termine tecnico
aocratico ~:>.iyxe:Lv.
1438 [I1!102] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

con l'antica meta socratica della« cura dell'anima» 55),


quando mette in dubbio il valore di essa di fronte a
quel fine, egli tocca, a conclusione della sua critica,
il punto in cui sta, come ci dice la storia, il vero e
proprio problema. Cosi in questo chiarimento polemico
di posizioni tra Platone e Isocrate, di cui veniamo a
essei:e testimoni, comincia ad articolarsi una dialet-
tica storica degli ideali di cultura; che, al di là delle
piccole miserie umane della contesa, conserva il suo
duraturo valore.

Il secondo gruppo di oppositori a cui si dirige l' at-


tacco di Isocrate è designato da lui come « i maestri
della politica» 66). Questi tali non si pongono problemi
sulla verità, come i filosofi, ma solo badano a eserci-
tare la loro techne nel vecchio senso del termine 57), in
quel senso che non contiene ancora traccia di respon-
sabilità morale, come invece la esigeva Platone per la
vera retorica, sull'esempio dell'arte medica 58). A que-
sta nuova esigenza Isocrate non riusci a sottrarsi, e
specialmente nella trattazione del terzo gruppo di con-
correnti, i maestri dell'eloquenza giudiziaria, questo
punto di vista morale è messo fortemente in rilievo.
Ma egli non lo fece valere al fine .di esaltare Platone.
La sua critica dei maestri del discorso politico, tra i
quali dobbiamo ravvisare prima di tutti quello che gli fu
compagno nella scuola di Gorgia, Alcidamante 119), ci fa

11) Sul termine «cura dell'animali) (ljiuxijç mL(J.~ÀELet),


per definire la meta del lavoro educativo di Socrate, cfr. « Pai-
deia » II 60 ss.
") Soph. 9 ol -roùc; 'lt"OÀL't'Lxoù~ Àoyouc; U'lt"LG)(VOU(J.EVOL.
• 7) Dal contesto si vede· bene che Isocrate mette, per così
dire, la parola -ré)(V'I) tra virgolette, çome propria dell'uso di
tali maestri di retorica. Si può dir lo stesso dei luoghi in cui fa
la parodia della terminologia dei Socratici.
"") Cfr. « Paideia » Il 220-221 e passim.
11) Cfr. J. VÀHLEN, Gesammelle Schriften, I p. 117 88.
CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA (!Il 103] 1439

conoscere un tipo di educazione del tutto opposto alla


filosofia, l'arte dell'improvvisazione. oratoria. Alcida-
mante, certo, pubblicò anche discorsi da servire a
modello, come Isocrate, ma la bravura sua propria
stette tutta nell'improvvisare (ocù-roaxdhoc~e~v). È ca-
ratteristico che un discorso di Alcidamante che ci è
pervenuto si rivolga contro i retori del tipo di Isocrate,
che sono sl capaci di scrivere in bello stile; ma inetti
a dire sul momento quel che la situazione richiede 60).
In questo campo, senza dubbio, l'esercizio continuo
costituiva una buona scuola per chi voleva dedicarsi
all'esercizio pratico dell'oratoria, anche se in realtà
questo tipo d'insegnamento correva rischio di trasfor-
marsi in una semplice routine, grossolana e obliosa delle
esigenze di un'arte oratoria di alto rango. Isocrate
rimprovera a questi oppositori l'insensibilità, il difetto
del senso della qualità artistica 81 ). Nella pratica del
mestiere questa forma di retorica va a finire· nell' as-
similazione di alcuni artifici schematici, specie di con-
gegni da aver sempre pronti all'uso. Essa non mette
a profitto le qualità naturali dello scolaro né gli con-
sente vera esperienza di influenze altrui; ma gli inse-
gna in modo astratto e scolastico le forme del discorso,
come un maestro insegna l'abbiccì all'analfabeta 62):
metodo, questo, che costituisce un bell' esempio della
tendenza, propria di quest'età, a tecnicizzare il più
possibile, nonché l'educazione, ogni campo della vita.
Una tale esagerazione offre molto opportunamente a
Isocrate il destro di distinguere la sua arte squisita
dalla rozza attività dei mestieranti e di allontanare

• 0 ) Questo discorso si può, meglio di tutto, giustificare come


una replica di Alcidamante all'attacco d'Isocrate nell'orazione
Contro i Sofisti.
81) Soph. 9.
11 ) Soph. IO.
1440 [m104] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

da sé il sospetto, al quale lo esponeva facilmentè il


suo rifiuto delle sottigliezze della cultura filosofica, di
essere soltanto un pratico in senso ristretto e meschino.
Così egli va cercando la via di mezzo tra gli strati ra-
refatti della pura teoria e la semplice tecnica artigiana,
e la trova nell'elaborazione artistica della forma 63),
Egli viene così a introdurre un terzo principio. Ed anche
qui egli chiarisce se stesso e· il suo ideale per mezzo di
una contrapposizione. Ma, lottando su due fronti, chia-
ramente significa che il contrasto con la cultura filo-
sofica, per importante che sia per lui, caratterizza
soltanto a mezzo il suo atteggiamento e proposito.
Egli vuole differenziarsi anche dalla retorica nel senso
convenzionale; poiché anche nel campo della retorica
la sua paideia significa qualcosa di nuovo.
Non c'è campo della vita che, meno dell'eloquenza,
sopporti il tentativo di ricondurre sempre ogni caso
particolare a un certo numero di schemi fissi o forme
fondamentali. Platone aveva chiamato «Idee» tali
forme, nel campo degli enunciati logici. Come si è
visto, egli aveva preso questa espressiva metafora dalla
medicina del suo tempo, trasferendola all'analisi del-
l'Essere. Nella retorica si riscontra nella stessa età
uno svolgimento analogo, senza che si possa affermare
che esso abbia subito l'influenza dell'uso platonico
del termine« idea». Medicina e retorica erano i terreni
naturalmente predisposti perché si formasse il con-
cetto di tali « idee» o forme fondamentali, sia dei fe-
nomeni fisiologici nella loro apparente varietà, sia dei
singoli casi o situazioni della politica e della legge.
Si trattava di ricondurli tutti ad aspetti fondamentali,
più generali, al fine di render più semplice in pratica
il loro trattamento. Il paragone di queste« idee» con la

63) Soph. 12 ss.


CAP. ll: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 105] 1441

scoperta delle lettere dell'alfabeto (a"ToLxei:ix), che si


trova tanto in Isocrate quanto, più tardi, in Platone,
si presentava spontaneo giacché il processo spirituale
del conoscere attuantesi mercé la riduzione di una mol-
teplicità di :figurazioni composte a un certo numero
di « elementi» ultimi che ne costituiscono il fonda-
mento, è, nell'uno e nell'altro caso, il medesimo 64).
Anche nella scienza della natura, quelli che sono chia-
mati « elementi» ebbero allora per la prima volta
questo nome, e anche qui sulla base della stessa ana-
logia con la relazione tra le parole della lingua e le
lettere dell'alfabeto 65 ). Isocrate non rifiuta affatto, per
principio, il concetto di una retorica teoria delle «idee»,
anzi i . suoi scritti mostrano che egli l'ha fatta larga-
mente sua e che costruisce la propria teoria sulla base
dell'esistenza di forme fondamentali e dominanti del
discorso. Ma un'eloquenza che a queste si fe:r.masse
sarebbe povera e grossolana come una campana da
armento. Le lettere dell'alfabeto, nella loro immobilità
e immutabilità, costituiscono l'opposto preciso della
mobilità e varietà delle situazioni umane, che non si
lascia stringere in regole 66). Un'arte oratoria perfetta
dev'essere l'espressione individuale del kair6s e la
legge suprema che la guida è quella dell'appropria-
tezza al caso singolo. Solo l'osservanza di questi due
precetti le consente di essere nuova e originale 67),
L'eloquenza, in una parola, è creazione poetica.
E, pertanto, come non può fare a meno della tecnica,
cosi non può in essa esaurirsi 68). Come già i So-

64 ) Platone si vale del paragone con gli stoicheia nel Cratil.o,


nel Teeteto, nel Politico e nelle Leggi.
66 ) Ciò si riscontra per la prima volta nel Timeo platonico

48 b, 56 b, 57 c. Cfr. HERMANN DIELS, Elementum.


••) Soph. 12.
••) Cfr. Soph. 13, sul KlX~p6ç e sul nprnov.
88) Soph. 12.
1442[m106] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

fis:ti si erano senti.ti successori legittimi dei poeti


e avevano trasferito nella loro prosa le varie forme
d'arte di quelli, così anche Isocrate si mostra con·
sapevole di proseguire l'opera dei poeti e di suben·
trare ad essi nella parte che avevano sostenuto, fino
a tempi recentissimi, nella vita della nazione. Il para·
gone che egli pone, della retorica con la poesia, ha
un'importanza che oltrepassa di molto quella di una
occasionale osservazione intelligente e brillante. Le
tracce di un tal modo di vedere si riscontrano dapper·
tutto nei suoi discorsi. Così lencomio dei grandi uomini
si conforma al ti.po dell'inno, il discorso esortatorio
segue il modello dell'elegia parenetica e dell'epica di-
dattica, sicché perfino nel contenuto di pensiero Iso-
crate, in queste sue creazioni, si tiene stretto alla
ben consolidata tradizione del corrispondente genere
poetico. Ed anche per quel che riguarda il rango, la
dignità dell'oratore, è determinante il parallelismo col
poeta. La professione nuova deve riallacciarsi a quella
più antica e universalmente accettata, e prendere da
essa la misura del proprio pregio. Quanto meno Isocrate
spera o desidera di agire nella pratica come uomo po-
litico, tanto più gli abbisogna per la sua missione, pu·
ramente spirituale, il prestigio della poesia, ed anche
lo spirito educativo che anima la sua retorica è consa·
pevolmente in gara con l'opera educatrice degli antichi
poeti, come i Greci la concepivano. Se una volta, in
una sua opera tarda, egli paragona, come Pindaro, il
suo lavoro con quello degli artisti figurativi e si pone
con orgoglio accanto a Fidia 69), ciò fa soprattutto per
chiarire come mai, non ostante l'altezza dell'arte re-
torica, ci sia ancora gente che la giudica attività di

49) In Antid. 2 Isocrate si paragona con Fidia e coi pittori


Zeusi e Parrasio, i più grandi artisti di Grecia. Similmente Pla-
tone, nella Repubblica, cfr. « Paideia» II 445 s.
CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 107] 1443

second'ordine. In realtà al concetto di « scultore» ri-


mase sempre connesso per la sensibilità sòciale dei
Greci un elemento di manualità artigiana anche se
quell'attività abbracciava tutte le gradazioni dell'arte,
dal semplice scalpellino al creatore geniale del Parte-
none. E se anche, col crescere del pregio dato all'arte
figurativa e ai suoi maestri, il paragone di retorica
con pittura e scultura, sembra farsi più frequente nei
secoli seguenti, tuttavia la successione della retorica
al trono della poesia riman sempre l'immagine più
espressiva di quel processo storico che si compie con
l'avvento della retorica al rango di nuova forza for-
matrice di cultura: tutta la più tarda poesia greca è
figlia della retorica 70).

La posizione di Isocrate di fronte al problema del


valore educativo della retorica è determinata, com'è
naturale, da questa sua concezione della natura di
essa. Come. fatto creativo, essa non sopporta di essere
trasmessa scolasticamente, almeno nelle sue forme più
elevate. Se con tutto ciò Isocrate si propone di formare
uomini per mezzo della retorica, ciò presuppone un
suo particolar modo di concepire il rapporto dei tre
fattori costituenti, secondo la teoria pedagogica dei
Sofisti, il fondamento di ogni educazione: natura, ap-
prendimento, esercizio. Alle speranze eccessive con-
cepite da moltissimi nel primo entusiasmo per tutto ciò
che fosse cultura e educazione 11) era subentrata ormai
una considerazione più circospetta, effetto in parte
della critica di principio, come l'aveva attuata Socrate,
sui limiti dell'educazione 12), in parte della esperienza,

70) Anche Platone, Gorg. 502 c, considera la poesia come


una specie della retorica.
71 ) Soph. 1.
") Cfr. « Paideia» Il 97 ss.
1444[m108] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

che aveva mostrato come non tutti quelli che erano


passati attraverso l'educazione sofistica valessero di più
di quelli che quasi non ne avevano sentito parlare 73),
Isocrate si mostra molto cauto intorno ai benefici
dell'educazione. Egli riconosce il fattore decisivo nella
disposizione naturale e ammette senz'altro che un gran
dono di natura senza cultura dà spesso resultati molto
migliori che la sola cultura senza dono, ammesso che
una tal cultura si dia e non sia illecito parlar di cultura
senza qualcosa che valga la pena di coltivare. Il fat-
tore che subito segue in importanza è l'esperienza e
l'esercizio 74). Sembra pertanto che, secondo Isocrate,
i retori prima di lui, pur avendo teoricamente ricono-
sciuto questa trinità di natura, apprendimento, eser-
cizio, abbiano praticamente messo in primo piano
l'apprendimento e la cultura. Isocrate invece vuole
che la paideusis si contenti del terzo ·posto. Molto
può essa ottenere con l'aiuto degli altri due fattori,
genialità ed esperienza. Essa rende gli uomini più con-
sapevoli dell'arte loro, acuisce in loro il potere inven-
tivo, risparmia "l'andar cercando a tastoni, riesce tal-
volta a stimolare, a ·sviluppare anche nature meno
dotate, se pure non vale mai a trarre da esse oratori
da scrittori di primo piano 75).
L'istruzione retorica è in grado d'insegnare la co-
gnizione delle « idee» o forme fondamentali di cui
consta ogni discorso. Sembra che Isocrate qui voglia
dire che questo lato della formazione retorica, il solo
coltivato fin qui, sia comunque suscettibile di appro-
fondimento; e noi vorremmo sapere un po' più di quanto
sappiamo sulla sua nuova teoria delle « idee» per po-
terla paragonare con le dottrine dei retori più antichi.

78) Soph. 1 e 8.
") Soph. 14.
76) Soph. 15.
CAP. Il: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 109) 1445

Ma in ogni modo la difficoltà vera della materia non


sta in questo punto, che può essere insegnato anche
perfettamente; sta invece nella scelta appropriata, nella
giusta mescolanza e posizione di tali « idee» di fronte
a ogni soggetto che si debba trattare, sta nel cogliere
il momento giusto, nel senso del conveniente, nel sa-
pere ornare il discorso con« entimemi »,nel sapere strin-
gere le parole in nessi ritmici e musicali 76). A ciò è
necessaria un'intelligenza robusta e penetrante. Que-
sto grado supremo della formazione oratoria se nel di-
scente presuppone la conoscenza piena delle « idee»
del discorso e la pratica nell'adoperarle, esige dal do-
cente la capacità di spingersi fino ai limiti estremi di
ciò che è razionalmente insegnabile e per tutto il re-
sto, per ciò che insegnabile non è, vuole che egli sap-
pia far di sé un tale modello che ognuno che riesca
a imitarlo, a formarsi su lui, si innalzi senz'altro a
un'eloquenza più ricca e dilettosa 77).
A quel modo che Platone più tardi, nella Repub-
blica, fa dipendere il conseguimento del supremo fine
educativo da un concorso di qualità che di rado si ri-
scontrano riunite nella realtà, così anche Isocrate scorge
nella coincidenza di tutti i momenti di cui si è detto
la necessaria condizione di ogni effettivo successo dello
sforzo educativo 78). Qui ritroviamo, indipendentemente
da Platone, il più generale concetto greco di educazione,
come di una vera e propria « formazione» dell'uomo,
del quale concetto sono variazioni espressioni come

76 )Soph. 16.
77 )Soph. 17.
78) Soph. 18. Così anche Platone parla della« coincidenza»

di potere e intelligenza: Resp. 4 73 d, Legg. 712 a; ma anche senza


usare la parola egli pone un ideale di complessa attitudine (Resp.
485 b ss.), la qnÀ6Go<po<; <pUGL<;, che consiste nella coincidenza
di qualità, conciliabili ma raramente associate. Questo modò
di formulazione di un ideale è proprio e particolare della lette-
ratura sulla paideia.
1446[m110] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

« modello» o« esempio» (mipcfainyµIX }, come «foggiare»


(bc't'U7touv) o «imitare» (µLµe'i:cr.&1XL) 79). Il punto essen-
ziale e differenziale sta nel problema di come una tale
formazione possa attuarsi non già come bella immagine
ideale ma come realtà pratica, cioè nel metodo del
formare, e con ciò, alla fine, in una concezione della
natura dell'intelletto umano. Platone cerca di formare
l'anima con la conoscenza delle Idee, come norme as-
solute del buono, del giusto, del bello e così via, con-
forme alla legge della sua struttura, insita in lei stessa,
e mira così ·a svilupparla alla fine in un cosmos intelli-
gibile che in sé accolga tutto l'essere. Isocrate non sa
niente di un tale universo di scienza. L'organo della
sua formazione retorica non è un conoscere ma un
mero opinare; egli però, e lo rileva ripetutamente,
ammette nell'intelletto una facoltà estetica e pratica
di coglier nel segno, che, senza soccorso di scienza in
senso assoluto, valga a scegliere quel che fa al caso 80).
In questa capacità artistica ha radice il suo concetto
di formazione culturale. A quel modo che la dialettica
platonica conduce si lo scolaro, un passo dietro l'altro,
fino alle Idee, ma la vera e propria applicazione del-
l'idea nella Vita e nell'azione riman pure alla fine af-
fidata a lui stesso, come processo non soggetto a razio-
nalizzazione, cosi anche Isocrate giunge a descrivere
solo gli elementi e i gradi del processo formativo, ma
la formazione in se stessa rimane un mistero. Né si
può sottrarla del tutto alla natura, né è lecito lasciarla
del tutto a questa. Tutto nell'opera formativa consiste
nella giusta penetrazione scambievole e dosaggio di
natura e .arte. Una volta che questa imperfezione di
Isocrate - come Platone lavrebbe chiam:~ta - que-

79) Soph. 18.


'°) Cfr •• sulla tjiu;c~ 8o~ixGnx~, Soph. 17.
CAP. Il: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 111] 1447

sto suo acquietarsi nella mera opinione - l'ele-


mento vitale, secondo Platone, di ogni retorica - venga
· accettato come imposto dall'oggetto, allora la sua co-,
sciente autolimitazione, la decisa rinunzia, come a
qualcosa di sospetto, a ogni elemento « superiore»,
apparirà come una specie di debolezza costituzionale
di cui egli abbia saputo farsi una forza. Si riproduce
qui, nel campo della formazione retorica, quello che
nella persona stessa di Isocrate costituisce la ragione
essenziale del suo successo. Riconosciuto il carattere
empirico della retorica, senza preoccuparsi se sia o
non sia legittimo definirla come una vera techne - il
che Platone, nel Gorgia, aveva contestato - Isocrate
si tiene rigorosamente fermo a questo suo carattere
empirico. E con ciò egli si tiene stretto anche al prin-
cipio, già stabilito dai suoi predecessori, della imita-
zione, quel principio che doveva avere una parte di
così straordinaria importanza nella retorica e, attra-
verso la sempre crescente :influenza di questa sulla let-
teratura, su ogni tipo di produzione letteraria. Su questo
punto noi siamo meglio informati sui suoi metodi che
per quel che riguarda la teoria delle « idee» retoriche,
giacché tutte le sue graildi orazioni sono concepite
anche come modelli· di imitazione su cui gli scolari
debbano apprendere da quali esigenze sia mossa la
sua arte.

Del terzo gruppo di educatori, gli scrittori ·di di-


scorsi giudiziari, Isocrate si sbriga presto. Questi sono
per lui, evidentemente, gli avversari più deboli, anche
se Platone nel Fedro, cioè qualche decennio più tardi,
se la prende ancora con questo tipo di scuola retorica
e mostra così di dare ad essa qualche importanza.
Per Isocrate questa forma di concorrenza ha molto
meno interesse della nuova cultura filosofica, in cui
1448 [m112] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

egli scorge la minaccia vera ai suoi tentativi. E si ca-


pisce: gli scrittori di discorsi forensi lavorano per il
pane; e la merce che vendono è ricercata quasi soltanto
per scopi pratici. La loro attività ci è nota daJle orazioni
\
modello che furono puhhlicate da Antifonte, Lisia, Iseo
e Demostene, e, agli inizi, anche da Isocrate. Questo
genere letterario è uno dei fiori più singolari nel giar-
dino delle lettere greche, un prodotto specifico del
suolo attico. La mania processuale degli Ateniesi messa
in burletta dai comic~ il rovescio della medaglia di
quello « stato di diritto» di cui menarono vanto, ri-
chiamava sulle vicende giudiziarie, sugli « agoni», l'in-
teresse generale. E i discorsi dei logografi, puhhJicati,
servivano cosi, tanto come réclame per i loro autori,
quanto come modelli proposti all'imitazione degli sco-
lari e come materiale interessante per il pubblico dei
lettori 81 ). Anche qui Isocrate fa prova del gusto più
raffinato della generazione più giovane. Egli esorta
ironicamente a lasciare ai nemici della retorica - e
Dio sa se non sono abbastanza numerosi - l'esposi-
zione di questo che è della retorica il lato meno at-
traente, invece di portarlo nella piena luce della pub-
blicità, tanto più che quello che c'è di veramente in-
segnabile nella retorica trova applicazione profittevole
in altri generi di maggiore elevatezza, oltre che nelle
contese giudiziarie. La sincerità di questo atteggia-
mento ostile non è da porre in dubbio; essa basta a

81) Per Isocrate tutta questa produzione letteraria di ca-


rattere forense, in quanto i suoi autori intendano con essa dar
saggi di un loro tipo d'insegnamento, appartiene alla paideia
precisamente come la sua propria retorica con le sue produzioni.
Essa rappresenta per l'insegnamento un principio puramente
formale, che ha come tale un suo legittimo interesse. Tuttavia
la sua modesta importanza di contenuto mi ha indotto a non
trattarne qui a fondo. In ciò mi son fatto guidare dal giudizio
di Platone e d'Isocrate su questo genere retorico. Naturalmente
storici generali o del diritto si comporteranno diversamente.
CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [III 113] 1449

spiegare la rinunzia di Isocrate a questo tipo di atti-


vità. Per lui i logografi sono moralmente a un livello
molto più basso dei filosofi 82). E qui egli evidente-
mente non pensa solo ai compositori di arringhe giu-
diziarie, ma a retori di ogni genere, giacché li raduna
tutti sotto l'appellativo di maestri dell'eloquenza po-
litica 83). Senza dubbio, egli pensa, i temi che si pro-
pqngono nelle scuole filosofiche non hanno valore al-
cuno, e quei controversisti che si vanno « avvolto-
lando » nelle discussioni di essi, si troverebbero in
guai seri, nei casi reali offerti dalla pratica - e qui
è chiaro che Isocrate cita il Callicle del Gorgi,a plato-
nico e gli dà ragione senza riserve - ; con tutto ciò,
il fatto che sia migliore il soggetto dei discorsi dei re-
tori, cioè la politica, non deve far velo, non deve far
disconoscere che essi, per Io più, nella pratica abu-
sano di questo soggetto, da faccendieri intriganti, al
fine di un illecito aumento della propria potenza. Nella
critica, quindi, non negli elementi positivi, Isocrate
segue Platone. Egli però non crede all'apprendihilità
della virtù, come non crede a quella del senso arti-
stico, e se Platone è disposto a concedere il. nome di
techne solo a un'educazione che la virtù riesca a inse-
gnare, Isocrate nega semplicemente che una tale edu-
cazione possa esistere. Egli tenderebbe però a ricono-
scere un certo influsso etico a una educazione rivolta
alla politica, quando essa sia attuata nella maniera
da lui voluta e non nell'atteggiamento amorale fin qui
tenuto dai rappresentanti della retorica 84).

Sorprende, nel modo con cui è considerata la paideia


platonica nel discorso Contro i Sofisti, che il contenuto

Soph. 19-20.
12 )
0 )Soph. 20.
") Soph. 21.
1450 [III114] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

politico delle teorie avversarie sia del tutto sorvolato.


lso.crate dové ricevere dai dialoghi giovanili platonici
l'impressione, che e$si del resto produssero sui più dei
lettori moderni fino a tempi recenti, che si trattasse
in essi esclusivamente di ammaestramento morale, il
quale poi, stranamente, vi si rivelasse strettamente
congiunto con la dialettica. Per lui, invece, il privi-
legio della retorica sta in questo, che essa è in tutto
e per tutto cultura politica. E non le manca che di
trovare una nuova via, un nuovo atteggiamento, per
assicurarsi in questo campo un posto di alta guida spi-
rituale. Molti successi erano stati negati alla vecchia
retorica, perché essa si era presentata come strumento
della politica giornaliera, invece di mettersi al disopra
di essa. Qui si rivela già in Isocrate la sicura fiducia
di poter riempire la vita politica della nazione di un
più alto affiato etico. Disgraziatamente nel frammento
conservato dell'orazione ContrQ i Sofisti manca la parte
principale, in cui si dové parlare proprio di questo com-
pito. In seguito latteggiamento di Isocrate di fronte
alla meta educativa di Platone dové mutarsi, quando
giunse a rendersi chiaro conto della esigenza politica
della filosofia platonica. Tale esigenza, in realtà, era
già stata proclamata in quella dimostrazione del Gor-
gia per cui Socrate appariva l'unico vero uomo poli-
tico del suo tempo, in quanto cercava di far migliori
i concittadini 85). Ma ciò poté facilmente essere inter-
pretato come puro paradosso, specialmente da Iso-
crate, che scorgeva nella caccia all'originalità e nella
ricerca di inauditi paradossi il motivo dominante in
tutti gli scrittori del suo tempo, e con ragione temeva
di non poter gareggiare in c10 con Platone e con la
filosofia. Più tardi però, nel Filippo, quando egli, poco

&i) Cf:r. « Paideia » II 257.


CAP. ll: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 115] 1451

dopo la morte di Platone, può volgersi a ·riguardare


tutta la sua opera, il filosofo gli appare senz'altro come
il grande teorico politico, i cui pensieri però, disgra-
ziatamente, non si possono attuare in pratica 88). ·S'im-
pone di ricercare in qual momento egli giunse a questa
mutata concezione della figura di Platone.

La risposta ci è data dall'Elena, il modello dell'en-


comio; riferito a una figura mitica, di cui l'elogio do-
veva apparire specialmente paradossale di fronte al
generale biasimo di cui era oggetto. L'epoca pr.ecisa
in cui questa composizione fu scritta non è nota, ma
cade evidentemente negli anni immediatamente dopo
il discorso Contro i Sofisti, cioè nel tempo .ancora degli
inizi della scuola isocratea. Con maggiore approssima•
zione si può indicare il termine ante quem considerando
il singolare elogio che nella chiusa del discorso Iso-
crate rivolge alla sua eroina, di essere stata cioè, col
farsi rapire, causa. di quell'unità nazionale dei Greci
che si attuò per la prima volta ·nella guerra troiana 87).
·Ecco che Elena si fa per lui simbolo mitico delle aspi-
razioni politiche che dovevano trovare espressione più
piena poco dopo, nel Panegirico (380): il .programma
dell'unione degli stati greci per mezzo di una· guerra
comune contro i barbari. In questo primo decennio della
sua attività Isocrate è ancora inserito in pieno nella
corrente gorgiana. Come il Panegirico vuol es!Jer l'omo-
logo dell'Olimpico di Gorgia, cosi il suo elogio di Elena
echeggia la difesa gorgiana dell'eroina. Per Isocrate
fa sua« Elena» è come un'offerta di primizie, quale si
conviene a uomini partecipi della paideia 88). Questo
scritto è interessante per la ripresa che vi si fa della

11)Phil. 12.
87)Hel. 67.
") Hel. 66.
1452 [rn 116] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

polemica contro la scuola socratica e il suo ideale di


cultura 89). Anche qui tratti platonici e antiste~ici
con.fluiscono in un'immagine unica. La contesa, cioè,
non è contro una persona determinata, ma contro la
tendenza, in generale, di questa educazione nuova.
Di una tale scuola Isocrate non riusciva a compren-
dere le affermazioni se non come prodotti di una sma-
nia del paradosso intelligente, quando da una parte
(Antistene) si insegnava che non si possono fare af-
fermazioni false né pronunciare due proposizioni con-
tradittorie sullo stesso soggetto, dall'altra (Platone) si
tentava di dimostrare che fortezza, sapienza, ,giustizia
sono una sola e identica cosa, e che noi non possediamo
da natura alcuna di tali doti, ma che tutte sono otte-
nute e prodotte da una sola scienza (ÈmaTfiµ'l) 90).
,Questa volta, però, Isocrate ha imparato a distinguere
i Socratici dai puri eristici, che non aspirano affatto a
educare alcuno, ma solo vogliono creare difficoltà agli
altri uomini. A tutti costoro rimprovera di cercar
di confutare (ÈÀéyxetv) gli altri, senza accorgersi di
essere, loro, da un pezzo confutati 91), e obietta che
i loro paradossi sono di gran lunga oscurati già da quelli
dei loro predecessori, i Sofisti, per es. dall'affermazione
di Gorgia che non c'è niente di esistente, ,da quella
di Zenone, che la stessa cosa è possibile e impossibile,

H) Questa polemica con gli eristici, che non ha minima-


mente che fare col resto dello scritto, occupa il proemio. Pos-
siamo quindi nel trattarne, prescindere dal resto. Che il proemio,
appunto, nel genere letterario dell'orazione epidittica, non abbia
bisogno di collegarsi organicamente con la parte centrale, è detto
da .Aristotele, Rhet. III 14, 1414 b 26. Come esempio egli porta
il proemio dell'Elena d'Isocrate e lo paragona al preludio (proau-
lion), assai liberamente collegato, di un concerto di flauto.
10) Hel. I. L'identificazione dei due innominati avversari
non offre difficoltà. Riguardo a Antistene, cfr. Arist. Met. Il. 29,
1024 b 33, col commento di Alessandro di Afrodisia ad. loc. e PI.
Soph. 251 b.
81) Hel. 4.
CAP. II: LA RETORlCA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA (III 117] 1453

o dalla tesi di Melisso che l'infinità delle cose è identica


all'uno 92).
A questi giochi di prestigio egli contrappone lo
sforzo sincero verso la verità obbiettiva, come egli la
intende, cioè come esperienza della realtà ed educa-
zione alla sfera dell'azione politica. I :filosofi danno la
caccia a un fantasma, la conoscenza pura, ma alla
fine quello che si ritrovano in mano è qualcosa d'in-
servibile. Non sarà meglio allora dedicarsi alle cose di
cui si fa realmente uso, anche se non esiste vera ed
esatta scienza di esse, ma solo, nel caso più favorevole,
assennate opinioni ? Isocrate trova una formula per
esprimere la sua posizione di fronte all'ideale platonico
dell'esattezza e profondità scientifica: il più piccolo
progresso nella conoscenza di cose veramente impor-
tanti deve avere la precedenza sulla più profonda me-
ditazione su oggetti da poco e senza importanza, privi
di ogni utilità per la vita 93 ). Non gli è difi'icile certo,
come buono psicologo, rendersi conto del gusto dei
giovani per tali forme di contesa dialettica; all'età gio-
vanile non interessano i seri affari privati o pubblici;
anzi quanto più il gioco è senza scopo tanto più grande
per lei è il divertimento 94). Ma quei pretesi educatori
che allettano gli scolari a uno sport come questo me-
ritano il biasimo più energico, perché con questo si
rendono responsabili dello stesso fallo che poi rimpro-
verano ai rappresentanti dell'eloquenza giudiziaria; vale
a dire: rovinano i giovani 95 ). Non arretrano neppure di
fronte ali' assurdo di dichiarare più felice la vita dei
mendichi e degli esuli, priva di ogni diritto e dovere
civico, di quella degli altri uomini, cioè dei cittadini

12 ) Hel. 2-3.
03 ) Hel. 5.
") Hel. 6.
05 ) Hel. 7.
1454 [ml18] LIBRO IV-IDEAU DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

di pieno diritto, che rimangono nella lo:ro patria; col


ch'e evidentemente Isocrate allude all'individualismo
etico, al cosmopolitismo dell'ala :radicale della Socratica,
di Antistene e di A:ristippo 96). Certo, ancora più :ridi-
coli paiono a Isocrate quei filosofi. che s'immaginano
di dare, coi loro paradossi morali, un contributo effi-
ciente all'edificazione spirituale della comunità poli-
tica. Qui lallusione non può essere che a Platone, che
intese il messaggio etico di Socrate come scienza po-
litica 97 ). E se questa nostra interpretazione coglie nel
segno, ciò importa che Isocrate, nel decennio 390-380,
cioè subito dopo il discorso Contro i Sofisti, non già
qualche decennio dopo, si e:ra già fatto un'altra idea
del concetto platonico di educazione e già aveva :rico-
nosciuto che anche quella voleva essere educazione
politica. Solo che quell'appuntarsi sull'elemento etico-
individuale e sulle .sottigliezze della dialettica, in cui
egli vede la nota distintiva dell'educazione platonica,
gli appare in contrasto insanabile col fine dell'utilità
generale, a cui essa pur pretende di servire.
In tal modo, l'apparente coincidenza di Isocrate e
di Platone, nell'assegnare un fine pratico all'educazione,
non fa che rendere più profonda lavversione di Iso-
crate per il lungo « giro» teoretico del filosofo 98).
Isocrate conosce solo la strada diretta. La sua educa-
zione non conosce la tensione interiore che s'impianta
nello spirito di Platone tra il volere che spinge innanzi
all'azione e l'astensione imposta dalla lunga prepara·
zione filosofica. Egli ha, certo, abbastanza distacco
dalla politica giornaliera, dalle facc~nde degli uomini
politici per capire le obiezioni platoniche a tutto ciò.
Ma la radicale esigenza etica della Socratica, che viene

11) Hel. 8.
17 ) Hel. 9.
98) Cfr. « Paideia » II 483 e infra, p. 337.
CAP. II: LA RETORICA D'ISOCRATE COME IDEALE DI CULTURA [m 119] 1455

a porsi separatrice tra stato e individuo, resta incom-


prensibile per quell'uomo« del giusto mezzo» che egli è.
Il miglioramento deJla vita politica egli lo cerca su
altra strada che su quella dell'utopia. E se pure è
animato dall'innata avversione di un borghese colto e
possidente contro gli eccessi selvaggi cosi del dominio
di massa come della tirannide individuale, se pure ha
vivo e schietto il senso della dignità e rispettabilità,
gli rimane tuttavia estranea la passione riformatrice,
senza compromessi, di Platone, e non gli passa per la
mente di fondare su tali ripide vette la città della vita
quotidiana. :it per questo che egli non vede lenorme
forza educatrice insita nella posizione platonica, e si
limita a misurarne il valore sulla sua immediata appli-
cabilità a certe determinate questioni politiche; quelle
questioni che in quel momento lo preoccupano, cioè
la condizione interna della Grecia e i futuri vicendevoli
rapporti degli stati greci dopo la grande guerra. Questa
guerra aveva fatto palese l'insostenibilità dello stato
attuale, la necessità di una nuova ricostruzione del
mondo politico greco. Isocrate, quando scriveva lElena,
era già al lavoro per il suo grande manifesto, il Panegi-
rico, che doveva dimostrate ai contemporanei la ca-
pacità della sua scuola di additare, nella veste di un
linguaggio nuovo, nuove mete, non · solo alla vita mo-
rale del singolo, ma alla nazione greca intera.
CAPITOLO TERZO

EDUCAZIONE POLITICA
E IDEALE PANELLENICO

La retorica è, si può dire, di nascita, un mezzo del-


!' attività politica; ma non si fa banditrice di una edu-
cazione politica se non quando acquista la capacità
di porre, alla politica, dei fini. Di questo Isocrate
venne a convincersi nel suo contatto con la filosofia.
Giacché l'accusa più aspra ed efficace della critica pla-
tonica alla retorica, è quella di una indifferenza mo-
rale, di un formalismo, che ne fanno un mero strumento
per la lotta senza scrupoli della vita pubblica. Perciò
la filosofia è agli occhi di Platone l'unica vera retorica.
Isocrate invece vede bene ·che .il vantaggio della filo-
sofia consiste nel possesso di un fine etico supremo,
ma, poiché non crede né che questo fine sia il solo
legittimo né che siano idonei i mezzi coi quali i filosofi
tentano di conseguirlo, ecco che egli mira a trasferire
nella retorica questa eccellenza, questa qualità di vera
cultura e pensa di poter cogliere un tal fine ponendo
in essa, come contenuto, le« cose supreme» 1). Nessun
d uhbio per lui - in questo concorde sia coi suoi pre-
decessori sofisti e retori, sia con Platone e con Aristo-
tele - che ogni cultura, che miri a esser più di una

1) lsocr. Paneg. 4; cfr. Hel. 12-13, Antid. 3.


1458 [m122] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

formazione specialistica professionale, debba essere cul-


tura politica. Ma all'arte dell'eloquenza manca ancora,
per lui, un grande compito, che valga a liberare le
virtù formatrici in essa latenti. Se la retorica è ap·
parsa sempre :6.n qui artificiosa, manierata e vuota,
la colpa di ciò sta soltanto nell'avere male scelto il
terreno di attività. Il progresso dello stile e della
forma verbale non è affare di pura tecnica. La
massima «l'arte per l'arte» non è mai meno al suo
posto, meno legittima che nell'arte dell'espressione
spirituale, per Isocrate, che torna . continuamente a
rilevare come tutto dipenda dalla grandezza degli in·
teressi umani a cui si tratta di dare espressione.
«Politico» dunque doveva essere e rimanere l'og·
getto della retorica; sennonché questa parola era pro·
prio allora in procinto di mutare il suo antico, semplice
significato. Etimologicamente, il suo senso era « quel
che riguarda la polis, quel che le giova o la danneg·
gia ». Ma se anche la polis seguitava a essere la natu·
raie cornice di ogni vita pubblica, pure lo svolgimento
storico del V sec. aveva prodotto altre, nuove forme,
e rivelato nuove necessità. Il crollo dell'impero peri·
cleo aveva posto il problema se Atene dovesse, dopo
un lento ricupero di forze, rimettersi sulla stessa via
di e:ipansione imperialistica che l'aveva condotta :6.n
sull'orlo della rovina estrema, oppure se, tra la vinta
dominatrice dei mari e la potenza spartana rimasta
per il momento sola al comando, sussistesse una pos-
sibilità di equilibrio, che, assicurando ai due stati spa·
zio per l'esistenza, aprisse anche ad essi la prospettiva
di un compito comune, ·al disopra degli interessi par·
ticolari. Laddove il pensiero dei ·politici professionali
ti moveva ancora nella linea tradizionale della gara
machiavellica per la supremazia, e la guerra della lega
corinzia degli anni intorno al 390 lasciava già scorgere
CAP. III: EDUCAZIONE POLITICA E IDEALE PANELLENICO [m 123] 1459

il formarsi di un raggruppamento nuovo tra gli stati-


città dei Greci, costituente un fronte difensivo chiara-
mente rivolto contro Sparta, Isocrate cercò di aprire
un altro shocco, verso l'esterno, alle forze greche. Si
mise ·cioè alla ricerca di una possibile espansione poli-
tica ed economica, che valesse in pari tempo ad eli-
minare i contrasti nell'interno della Grecia. Egli, certo,
era ben lontano dal credere in una pace perpetua. Ma
gli effetti calamitosi della guerra sulla vita di tutti
gli stati greci, dei vinti come dei vincitori, mettevano
ormai in una chiara luce di assurdo, per tutti gli uomini
di cultura, il pensiero che dovesse continuare all'in-
finito quello strazio che la nobile nazione s'infliggeva
con le proprie mani: doveva pur riuscire al loro buon
volere e chiaroveggenza, di trovare la formula riso-
lutrice, che liberasse una buona volta la Grecia da quel-
l'incanto funesto. E se un imperialismo era inevitabile,
si rivolgesse questo, almeno, contro altri popoli, situati
a un piano più basso di civiltà e per natura nemici
dei Greci: il perpetuarsi di questo imperialismo tra i
Greci, era ormai, per il sentimento morale del tempo,
incubo intollerabile. Ché esso minacciava di condurre
col tempo all'annientamento, non solo dello stato vinto,
ma di tutta la razza greca.

Già da molto tempo poeti e sofisti avevano esaltato


la concordia come sommo bene. Ma da quando Eschilo
nelle Eumeniài aveva proclamato meta divina di ogni
vita politica la concordia tra i cittadini di una singola
città 2), la cerchia si era allargata e il problema si era
fatto più vario e complicato. Ora si vedeva che una sola
forma di concordia poteva veramente giovare, quella
che stringesse in un solo vincolo tutti gli Elleni. Sem-

1) Aesch. Eum. 980-987.


1460 [m 124] LIBRO IV - IDEAU DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

pre. più si imponeva il chiaro senso che tutte le stirpi


greche, se pure in diversi dialetti, parlavano la stessa
lingua, che esse erano membri di una invisibile comu-
nità politica e si dovevano rispetto e aiuto scambie-
vole 3 ). Non mancavano, certo, spiriti illuminati che
non riuscivano a vedere perché questo sentimento di
solidarietà si dovesse fermare ai confini della razza
greca. Per loro il vincolo della umanità pura e semplice
era qualcosa di universale, di più forte, per ragione di
natura, di quello della nazione. E in questo senso Pla-
tone fa parlare, nel Protagora, il sofista Ippia, e Anti-
fonte, nella sua Verità, esprime concetti di questo gene-
re 4). Ma un tale pensiero dové parere piuttosto astratto
in un tempo in cui i Greci erano esposti a subir danno
e offesa molto più gli uni dagli altri che da popoli stra-
nieri, in cui perciò il più immediato problema era la
riconciliazione dei fratelli nemici. Più volte, durante
la grande guerra, poeti di tragedia e commedia ave-
vano fatto sentir la loro voce, né era mancato, accanto
alle espressioni di un acre odio di gente contro gente,
il monito saggio e patriottico di ricordarsi dell'origine
comune 5). Questo modo di pensare avrà guadagnato
molto terreno dopo la guerra. Esso era lontaniesimo, in
origine, dai Greci usi a vivere, anche col pensiero, solo
nel giro ristretto della polis; ma il conflitto consapevole
suol legare gli uomini più che un pacifico vivere, iso-
lati, a fianco a fianco. Anche Platone nella Repub-

8) Si desidera ancora un'esposizione complessiva dei tenta-


tivi panellenici prima d'Isocrate; non mancano ricerche parti-
colari. L'opuscolo di JosEPH KESSLER, Isokrates und die panhel-
lenische Idee (Studien znr Geschichte und Kultnr des Altertums
IV. Bd., 3. Heft) Paderhorn 1911, si limita esclusivamente a Iso-
crate. Tratta più a fondo i suoi predecessori G. MATHIEU, Les
idées politiques d'Isocrate, Parigi 1925.
') Cfr. « Paideia » I 557 ss.
6 ) Cfr. ora H. B. DuNK.EL, Panhellenism in Greek Tragedy,

(dissertazione) Chicago 1937.


CAP. III: EDUCAZIONE POLITICA E IDEALE PANELLENICO [rn125] l461

blica. là dove stabilisce principii per la condotta della


guerra tra Greci, appar dominato da queste nuove
idee 6), e, nelle Lettere, il comune interesse dei Greci
di Sicilia è sufficiente per lui a legittimare la concen-
trazione di ogni potere degli stati nelle mani del ti-
ranno Dionisio, solo che questi sia disposto a dare una
costituzione al suo stato e a rinunziare ali' arbitrio di-
spotico 7). Aristotele, di cui il pensiero politico non
valica i termini dell'antico stato-città, esprime tut-
tavia l'opinione che i Greci potrebbero dominare il
mondo, se fossero uniti 8). Il pensiero, dunque, di
un'azione comune, se pure non ancora di un vincolo
permanente tra tutti i Greci, preoccupò seriamente,
come problema, gli uomini del IV sec. ~ ben lontana,
s'intende, dal loro concetto di stato la creazione di
uno stato nazionale unitario e d'altra parte le condizioni
stesse di quella. vita, libera a un tempo e impegnata
per la comunità, che l'uomo greco chiamava vita poli-
tica, eran troppo connesse con l'intima comunanza dei
cittadini nello stato-città, per poter essere trasferite
senz'altro, mutata e sconvolta ogni relazione, a un
territorio più vasto. Ma con l'affermarsi della coscienza
di una solidarietà nazionale, venne ad aprirsi una re-
gione di vincoli etici che, superando i confini dello
stato-città, pose limiti all'egoismo puramente politico
dello stato singolo. Chi cerchi, di questa coscienza, le
profonde radici le troverà certo nella comunanza di
sangue, lingua, religione, di costume e di storia: forze
non razionali, ma più che razionali che, attive anche
prima, nan erano però riuscite a operare nello stesso
senso e grado di chiara consapevolezza. Solo della
civiltà nuova e della cultura è veramente figlio questo

8 ) Cfr. « Paideia » II 433 e 440 ss.


') V. infra, p. 346.
8 ) Arist. Pol. VII 7, 1327 b 29-33.
1462[III126] UBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nuovo sentire dei Greci. D'altronde anche la paideia


greca dal canto suo riceve energico incremento dal
fatto di lasciarsi invadere e portare da questa corrente
paneJlenica dell'età nuova.

Questo nuovo stretto legame di cultura e di una


coscienza nazionale che si andava svegliando si crea
la sua forma classica nel Panegirico di Isocrate. Ha
valore di simbolo che, proprio al principio di questo
scritto, sia messa in confronto la scarsa stima che si
suol fare della cultura intellettuale con lesaltazione
tradizionale degli agoni ginnici 9 ). Il vecchio motivo
di Senofane si ripresenta con tutta naturalezza, poiché
Isocrate, conforme alla :finzione letteraria ehe adotta,
propone questo suo discorso come un pezzo di parata
destinato a una delle grandi radunanze religiose panel-
leniche 10). Lo stile epidittico, ricco, ornato, solenne è
la forma naturale per Isocrate, che aveva rinunziato
a scendere come oratore politico nella lotta dell' assem-
blea popolare; e perciò è la panegyris, l'adunanza fe-
stiva, il luogo spirituale veramente appropriato alla
sua attività 11). Durante le feste di Olimpia e di Del:fi

') Paneg. I.
1 8) Sull'elegia in cui Senofane paragona l'aret6 del vmci•
tore olimpico coi pregi spirituali del saggio, che egli stesso in·
carna, cfr. « Paideia» I 322-325.
11) .11 concetto che Isocrate ha del prciprio compito, che si
rivela nella scelta di una tale cornice spirituale per le sue parole,
si congiunge naturalmente al modello di Gorgia, nell'Olimpico:
il rappresentante dell'arte spirituale immagina se stesso in pub-
blica gara coi campioni dell'aret6 corporea, atleti e corridori,
dinanzi al tribunale di tutta l'Ellade. Il profando mutamento
ehe doveva operarsi nel concetto che Isocrate ebbe di se stesso
si misura in Antid. I e Ph.il. 12, dove egli afferma di allontanarsi
dalla sua antica eloquenza da radunanze solenni, perché essa
rimarrebbe senza effetto nella Grecia attuale. Nel Filippo perii
egli ancora parla a un singolo nel quale vede il futuro domina-
tore di tutti i Greci.
CAP. DI: EDUCAZIONE POLIDCA E IDEALE PANELLENICO [m127] 1463

sostava la lotta armata dei Greci sotto Pimpero della


tregua santa; avrebbe potuto Isocrate trovare atmo-
sfera più propizia di questa alle sue proposte di con-
cordia tra le genti greche ? Da tempi immemorabili i
giuochi ginnici erano stati l'espressione . più· appari-
scente dell'unità ideale di tutte le stirpi di Grecia; ma
il dono dello spirito non doveva, per la comunità, aver
valore maggiore di ogni forma di atletica ? Era la do-
manda che già Senofane si era posta, paragonando il
beneficio del sapere e quello dell'atletica, di fronte alla
singola polis 12). Ora Isocrate ripropone la domanda,
ma questa volta, nell'esaltare I'athlos che gli è proprio,
egli pensa alla comunità dei Greci tutti 13). Egli vuole
consigliare i suoi uditori sulla concordia tra gli stati
greci e sulla guerra contro i barbari - un grande
tema - tanto a dar prova di sovranità stilistica, quanto
a conferire al vantaggio di tutti 14 ). E si presenta, da
quel greco autentico che è, non chiedendo indulgenza,
ma anzi provocando chi si creda di poter far meglio
di lui, sicuro del fatto suo, nella consapevolezza, non
già della novità del suo tema, ma della perfezione con
cui saprà trattarlo 15).
Isocrate investe il suo tema nel punto in cui sta
proprio il problema pratico. Nel momento in cui parla
non sembra esistere la più modesta prospettiva. di rea-
lizzazione, per il programma che gli sta a cuore. Si
deve cominciare a porne i fondamenti stessi. E si
tratta di questo: riconciliare Sparta e Atene, per di-
videre poi l'egemonia sulla Grecia, tra questi due,
che sono gli stati più forti. Questo è il fine che Iso-

12 ) XeliOph. fr. 2, 15-22.


18) Pan.eg. 2.
1' ) Pan.eg. 3.
16) Paneg. 10-14.
1464 [III128) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

crate vuol raggiungere col suo discorso 16). E se questo


si rivela impossibile, egli vuole almeno mostrar chiara-
mente al mondo, chi è che si pone attraverso alla fe-
licità dei Greci, e stabilire inconfutabilmente la legit-
timità della pretesa di Atene alla signoria sul mare,
per ora come per il passato 17). Ché questo è il vero
nodo della contesa. Egli vuole andare in traccia della
egemonia ateniese fin nel lontano passato, per dimo-
strarne la continuità, e prevenire, annientare in germe
l'obbiezione di taluni: che ogni potenza cambia col
tempo 18). Atene, da un lato, raggiunse prima di tutti
l'egemonia; e se la meritò, dall'altro, più di tutti, coi
benefici che rese alla Grecia 19). È questo un tema
degno di Tucidide, e, certo, difficilmente, senza il mo-
dello dello storico, Isocrate avrebbe potuto trattarlo
come fece. Come nello storico, così per lui, il merito di
Atene culmina in quella parte di propugnatrice del-
l'unità della Grecia, che venne a spettarle nelle guerre
contro i Persiani. Ma Tucidide vede nella chiara luce
del presente 20) il predominio di Atene, formatosi dopo
la battaglia di Salamina, nel periodo relativamente
breve dell'ultima fase di svolgimento politico della

H) Cfr. Paneg. 17, dove laoµotp'ijaoct e -rà.c; fiye:µo11locc; ~te:­


Àéa-&at espl'.imono la divisione dell'egemonia tra Sparta e
A tene. In questo senso sono anche da interpretare espressioni
come &.µipta!l'l)'t"E:L\I -r'ijç fiye:µo11lac; e TI]v fiye:µovlocv à.1t0Àet13e:i:v,
che alludono alla restaurazione del dominio marittimo ateniese.
Il KESSLER, op. cit. p. 9, cerca invano di dimostrare che Iso-
crate nel Panegirico mira alla supremazia assoluta e totale di
Atene.
17) Paneg. 20.
18) Paneg. 22.
11) Ciò non vuol dire che Atene pretenda la supremazia as-
soluta sulla Grecia. Ma dato che una pretesa all'egemonia possa
essere avanzata e debba fondarsi sul diritto della priorità sto-
rica o sui benefici fatti ai Greci - come ora gli Spartani sosten-
gono - allora il diritto maggiore spetta· ad Atene. Cfr. Paneg.
23 ss.
:1°) Thuc. I 73-76.
CAP. III: EDUCAZIONE POLITICA E IDEALE PANELLENICO [ml29] 1465

Grecia. In luogo di questo quadro attuale della gran·


dezza ateniese, Isocrate ne pone un altro che la raggiun·
ge fin nei suoi mitici primordi. In questa immagine si
riflette la posizione che egli assegna ad Atene per i
tempi nuovi: la sua missione di rifugio dei profughi
politici, ingiustamente perseguitati in patria, di ba-
luardo contro gli assalti di barbari cupidi di preda,
di aiutatrice e protettrice degli stati più deboli op·
pressi da potenti tiranni. Un tale quadro storico è
costruito del tutto sugli stessi fondamenti e principi
che erano a base dell'interpretazione che la politica
attiva ateniese dava di se stessa. Ed è un'ideologia,
quella che in essa si rivela, che appare, come conte·
nuto, vicinissima a quella della politica estera inglese.
D'altro canto un parallelo evidente, per questo modo
di interpretazione retrospettiva dell'antica storia ate·
niese alla luce di pretese politiche contemporanee,
si può trovare nell'interpretazione data dal Treitschke
della più antica storia brandeburgo·prussiana, dal punto
di vista del compito di guida della nazione, assunto
posteriormente da quello stato. Meglio, poi, di qualun·
que altro periodo più recente e più conosciuto i pri·
mordi pseudost?rici si lasciano rimodellare in tratti
conformi a tali ideologiche costruzioni. Il mito si era
offerto sempre, plasmabile argilla, alla mano dell' ar·
tista, a esprimerne le idee, sì che ora l'interpretazione
a cui la retorica piegava l'antica saga attica, a dimo-
strare presente in Atene, fin dai primordi, un compito
di liberatrice e propugnatrice di tutta la nazione, non
era che l'ultimo gradino di quella metamorfosi poe·
tica. Questo « mito di stato» aveva preso forma dap·
prima durante il sorgere dell'egemonia ateniese nel
V sec., nelle orazioni solenni sulle tombe degli eroi
caduti e in altre simili circostanze: si offriva, quindi,
naturalmente a Isocrate, intento a dimostrare la ne·
1466 [m130] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

cessità di una restaurazione della preminenza ate-


niese 21).
Come Isocrate, quando dava questa coerente in-
terpretazione della storia tutta, e della saga ateniese,
si serviva di un autentico motivo tucidideo per proiet-
tarlo, in maniera non tucididea, nel passato, nello
stesso modo egli operò anche con un altro pensiero
del grande storico, collegandolo strettamente col motivo
dell'egemonia nazionale: è questo il senso della mis-
sione di Atene come creatrice della cultura. Tucidide
nell'elogio pericleo dei caduti, aveva descritto Atene,
al vertice della sua potenza e maestà, come la paideusis
della Grecia intera 22) : così col titolo di merito poli-
tico, in servigio della Grecia, si congiungeva quello.
spirituale. Già in Tucidide il primato spirituale di
Atene costituisce la legittimazione precisa dello svi-
luppo della sua potenza 23). Ma Isocrate va, anche
questa volta, oltre il suo modello, in quanto trasfe-
risce questa missione educatrice di Atene dal tempo
pericleo e dal suo proprio tempo, in cui essa continuava
ancora ad ascendere, fin nei primordi della saga ate-
niese, si che ne risulta una visione statica della storia,
tutta informata a· questo unico tono. Con un'eco evi-
dente del paragone sofistico, tra paideia e agricoltura,
forma-base di ogni èultura in cui per la prima volta
era stata superata la condizione selvaggia e ferina del-
l'umanità 24), Isocrate cominCia la sua storia della ci-
11) Si pensi al genere letterario degli epita:fi o orazioni fu.
nebri. Un esempio ancora più antico di questa interpretazione
del mito nel senso degli ideali attuali di unità e potenza nazio·
nale è la rinascita della saga attica del re Teseo, esaltato come
unificatore dell'Attica, che appare la prima volta in pitture va-
scolari del VI sec. e poi passa alla poesia. Cfr. fesauriente trat•
tazione di HANS HERTER, in« Rheinisches Museum» 1939, p. 244 ss.
e 289 ss.
22). Thuc. II 41, 1.
23) Cfr. « Paideia » I 688.
") Cfr. « Paideia » I 535-536.
CAP. rn: EDUCAZIONE POLmCA E IDEALE PANELLENICO [m 131] 1467

viltà dalla scoperta della coltivazione del suolo. La


saga degli errori di Demetra poneva questa scoperta
nell'attica Eleusi, collegandola con la fondazione dei
Misteri 25). Così l'origine di un più elevato costume nel-
l'umanità, che per esso ascendeva alla vita pacifica in
sedi stabili, coincideva con l'origine di una forma più
alta e più personale di religione; giacché come tale fu
tenuta, e attirò particolare attenzione nel IV sec., la
religiosità dei misteri 26 ). Ma in pari tempo questo ri-
cordo mitico permetteva di ancorar saldamente i prin-
cipi di tutta la civiltà su quel suolo attico, dove poi
questa, come Isocrate pensava, doveva, nella forma
della paideia, conquistare il grado più alto del suo svi-
luppo. È particolare ad ogni mito nazionale e culturale
una tale ristrettezza di angolo visuale, e una proiezione
nell'assoluto della propria contingente qualità. Una tale
ipostasi vuol valere più come articolo di fede che come
positiva verità scientifica, e non è perciò suscettibile
di confutazione in base a storici dati di fatto. Essa
si concilia perfettamente con la conoscenza di popoli
stranieri, dei loro meriti e contributi, sicché sarebbe
errore immaginarsi che Isocrate non abbia saputo niente
dell'Egitto, dei Fenici o dei Babilonesi. È una fede,
quella che celebra i suoi trionfi nella filosofia isocratea
della storia e soprattutto nella ricostruzione da lui data
della storia antichissima di Atene, la fede nella mis-
sione, unica e incomparabile, della cultura ateniese.
E questa ideologia nazionale, della creazione ateniese
di ogni forma di cultura, è poi quella che, insieme
con tutto il patrimonio della paideia isocratea, fu
accolta, nella visione della storia dell'umanesimo più
tardo.

15) Paneg. 28.


20 ) Cfr. il mio Aristoteles, p. 160 (trad. it. pp. 212-213).
1468 [ml32] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

L'immagine della cultura ateniese che balza fuori


daÌ Panegirico è variazione della descrizione di Pericle,
nel discorso per i caduti. I tratti serrati ed energici di
questa si sciolgono nel ben librato gioco formale di
un ·ornato retorico lussureggiante, ma non si che non
traspaia sempre, nel suo pregio schietto, il fondamen-
tale motivo tucidideo. Isocrate ne amplia liberamente
singoli motivi per lui . importanti, e ne aggiunge di
nuovi, che prende dai poeti ateniesi. Cosi la creazione
esemplare dello stato di diritto in Atene, l'abolizione
della vendetta privata del sangue, la sostituzione di
questa da parte della giurisdizione statuale sono de-
scritte in evidente connessione con le Eumenidi eschi-
lee 27). Lo sbocciare delle arti (-rfy_voc~), dal piano in-
fimo della scoperta del necessario alla vita, fino al
raggiungimento di quel che al vivere aggiunge il go-
dimento - si direbbe dalla tecnica all'arte - è un
luogo di pensiero favorito dei Greci, che s'incontra
più volte nel IV secolo 28). Isocrate situa in Atene
l'attuarsi di questo superiore svolgimento spirituale,
decisivo per la nascita della paideia 29). Cosi per lui
la città, che sempre era stata il rifugio di tutti gli sven-
turati, diventa in pari tempo il soggiorno preferito
di quelli che cercano le squisitezze della vita. Non il
rifiuto ma l'attrazione degli stranieri è il tratto essen-
ziale della civiltà ateniese, in contrapposto al costume
esclusivistico di Sparta 30). Lo scambio dei beni eco-
nomici nell'esportazione e importazione è solo l'espres-
sione materiale del medesimo principio spirituale. Per
esso il Pireo è divenuto il centro di tutto il movi-

17) Paneg. 40.


28) Paneg. Zoe. cit., cfr. Arist. Met. I 1. 981 h 17.
29 ) Aristotele, loc. cit., pone in Egitto la nascita della cultura
scientifica.
• 0 ) Paneg. 42.
CAP. m: EDUCAZIONE POLITICA E IDEALE PANELLENICO [rn133] 1469

mento degli affari, e, nello stesso modo, le feste attiche


sono ormai i grandi convegni di tutto il mondo elle-
nico. Nel flusso inesauribile di stranieri e nello scam-
bio spirituale che per esso si attua, ricchezza e manife-
stazioni dell'arte vengono sviluppandosi armoniosa-
mente in penetrazione scambievole 31). Alle gare di
forza e destrezza corporea, impronta distintiva perenne
dell'Ellade, si sono affiancati in Atene gli agoni dell'elo-
quenza e dell'intelletto, che hanno messo al posto delle
fuggevoli feste nazionali di Olimpia e di Delfì un'unica
ininterrotta panegyris 32). È cosa di altissimo interesse
vedere come nel pensiero di Isocrate lessenza della
cultura sìa concepita come attività libera da scopo uti-
litario e come egli torni sempre a raffrontarla come a
modello ideale, con gli agoni ginnici. La retorica non
procede per definizioni; essa piuttosto rappresenta
per via di contrasto e di paragone; ma proprio così,
a parte ogni occasionale rilievo dato all'utilità di una
tale cultura per la comunità, nell'epideixis, cioè nella
pura rappresentazione intellettuale di se stessa, si ri-
vela il suo significato più schietto, intima esigenza,
negata al barbaro in ogni tempo.
La filosofia, lamore, cioè, di cultura e educazione.
è dunque la creazione caratteristica di Atene 33). Ciò
non significa che tutte le produzioni dello spirito siano
nate in questa unica città, ma che qui si sono raccolte
come in un punto focale donde irraggiano con accre-
sciuta energia. Sempre più si va affermando il senso
di questa speciale atmosfera, necessaria perché attec-
chisca la rara e delicata pianta della cultura. L'abbiamo

81) Paneg. 42-45.


82 ) Paneg. 46.
33 ) Paneg. 47. Per Isocrate «l'amore del sapere» (filosofia)

è stato cooperatore sommo nella scoperta di tutte le arti e nel·


l'ordinamento della vita umana.
1470(III134) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

già vista evocata, in una descrizione poetica nella


Medea di Euripide, e sottoposta ad analisi :filosofica
nella Repubblica di Platone 34). Ma per Isocrate, nel
quadro idealizzante che gli balena davanti a_gli occhi
non c'è posto per quella problematica tragica che
consente a Platone di scorgere acutamente i pericoli
dell'ambiente. Per lui, è proprio questo sforzo di tutti
verso il possesso dei beni spirituali, verso il sapere e
la saggezza, quello che ha formato gli Ateniesi, che
li ha intonati a quella mitezza, a quella misura loro
propria, in cui si riconosce la vera civiltà. Questa forza
d'intelletto li ha educati a distinguere nella moltitu-
dine delle sofferenze umane quelle che non dalla
necessità nascono, ma dalla sola ignoranza, e li fa in
pari tempo capaci di sopportare con dignità i mali ine-
vitabili. È questo quello che Atene ha « rivelato»
(questa espressione isocratea - x.o:-ré:~E~!;e - si usa
proprio per i fondatori di misteri 35) all'umanità. La
facoltà che innalza l'uomo sulla bestia è la parola
mossa e riempita dalla ragione 36). Non il coraggio
guerriero, non ricchezza o comodità di vita, non altri
beni di questo genere che danno il tratto prevalente
nella :fisionomia di altri stati, valgono a distinguere
l'uomo investito :fin da giovane da una libera forma,
dall'informe, l'uomo cosciente e vigile dall'ottuso e
incosciente, ma solo la cultura dell'intelletto, quella
cultura che si rivela nella lingua. Ogni tentativo di-
retto a formare gli uomini, qualunque possa essere il
contenuto che lo animi, non può prender forma se non
partendo dal linguaggio; sicché il Logos, nel suo dop-
pio significato di parola e di pensiero, diventa per Iso-
crate il « s_ymbolon », il contrassegno della paideusis.

34 ) Cfr. « Pai<lcia » I 596, II 392·393.


"") Paneg. 47.
36 ) Paneg. 4.8.
CAP. lll: EDUCAZIONE POLITICA E IDEALE PANELLENICO [m135] 1471

Questo concetto felicemente formulato assicura alla


retorica il suo rango e promuove coloro che ne incar-
nano la potenza a rappresentanti autentici della cul-
tura 37).
Il concetto isocratico della cultura è un concetto
nazionale, e si fonda perciò, in modo schiettamente
ellenico, sull'esistenza dell'uomo, come libera creatura
politica inserita nel complesso di una regolata co-
munità. Ma questo concetto si indirizza in Isocrate a
una applicazione universale: in forza della propria
cultura intellettuale Atene ha raggiunto una superio-
rità tale sul resto dell'umanità, che quelli che in Atene
sono andati a scuola divengono i maestri di tutto il
mondo 38). Con ciò egli va molto al di là del concetto
di Tucidide, suo modello. Questi aveva chiamato Atene
la paideusis di tutta la Grecia, mentre Isocrate afferma
che l'attività creativa di Atene ha avuto thle virtù
che il nome di « greco » non designa più solt~to una
razza, ma un grado supremo dell'intelletto. « Chi par-
tecipa della nostra paideia è greco in un senso più
alto di quello che con noi ha comune solamente la
stirpe» 39). Né con ciò Isocrate pensa minimamente a
contestare i vincoli del sangue, che gli sono anzi più
cari che ai più dei suoi concittadini, in quanto egli
fonda sulla comunanza di sangue un'etica panelle-
nica, capace di porre limiti perfino ali' egoismo della
politica dei singoli stati greci. Ma la coscienza della
nazionalità spirituale è per lui un grado più alto ri-
spetto a quella del sangue comune, e nell'esprimere
questa idea egli ne penetra a fondo tutto il significato
rispetto alla posizione politica della grecità nel mondo.
I piani di conquista di Isocrate, quei piani per cui egli

a•) Paneg. 49: auµ~o:>..ov ·djç mu8euaero.;.


38) Paneg. 50.
89) Paneg. 51.
1472 [m136] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

chiama i Greci a raccolta, si fondano molto di più


su questo senso di una smisurata superiorità intellet·
tuale sulle altre genti che su una qualunque potenza
materiale degli stati greci. Sembra a prima vista para-
dosso mostruoso, che Isocrate proclami questa sopra·
nazionale missione di cultura del suo popolo, partendo
per l'appunto da una smodata espressione di orgoglio
nazionale; ma questa apparente contraddizione si scio-
glie, non appena si connetta allo scopo meramente po·
litico di conquista e colonizzazione dell'Asia, l'idea
sopranazionale greca, la sua paideia di valore univer·
sale. Questa contiene in sé, appunto, la superiore legit·
timazione di questo nuovo imperialismo fondato sulla
nazione, in quanto identifica ciò che è specificamente
greco con !'universalmente umano. Parole precise come
queste non ci sono, è vero, in Isocrate - e a questo
potrebbe appigliarsi un nostro possibile contradit-
tore, - ma l'unico significato possibile del cammino
trionfale della paideia greca nel mondo - e di que·
sto orgoglio è pieno tutto il pensiero d'Isocrate - è
che i Greci per mezzo del Logos, che è forza loro pro-
pria, abbiano scoperto anche per gli altri uomini e
popoli un principio che anch'essi debbono riconoscere
e accogliere, perché valido al di là della razza: l'ideale
del1a paideia, della cultura. C'è una forma di senti-
mento nazionale che si manifesta come distacco dagli
altri popoli. Ed è un frutto della debolezza e della
grettezza. perché poggia sulla consapevolezza di po·
tersi affermare soltanto a prezzo di un artificioso isola-
mento. Il sentimento nazionale di Isocrate è quello
di un popolo superiore culturalmente, fattosi consape·
vole che il suo sforzo di attingere, in ogni manifesta·
zione spirituale, una norma universale costituisce il
suo privilegio supremo, nella competizione con le altre
razze, giacché queste, ora, son giunte ad accettare
CAP. III: EDUCAZIONE POLITTCA E IDEALE PANELLENICO [III 137] 1473

la particolare forma greca della cultura, come espres-


sione della« cultura» pura e semplice. È anche troppo
ovvio a questo punto il parlare, con riferimento ad
analogie contemporanee, di propaganda culturale, e di
porre la retorica a fianco dei fenomeni moderni della
stampa e della pubblicistica, precorritrici di conquista
economica e militare. Pure la formula isocratea sorge
da intuizione profonda della reale struttura dello spi-
rito greco e della paideia, e la storia dimostra che essa
fu qualcosa di più che propaganda politica. Dalle pa-
role di lui spira già l'aria dell'Ellenismo. L'avvento
dell'era nuova si venne attuando nelle forme, appunto,
di cui Isocrate aveva avuto concetto e presentimento.
Senza la validità universale della paideia greca, che
egli proclama qui per la prima volta, non ci sarebbe
~tato l'impero greco-macedone, non ci sarebbe stata
l'universale civiltà ellenistica.
Nel Panegirico Isocrate non pone al centro, come
elemento capitale, secondo l'uso delle orazioni funebri,
. per i caduti sul campo, i grandi fatti guerrieri di Atene;
li pone piuttosto all'ombra della spirituale grandezza
della città 40), li menziona dopo la descrizione di que-
sta, nell'intento, certo, di attuar l'equilibrio tra la vi-
cenda esteriore e l'interiore 41 ). Ma la tradizione . del-
l'elogio funebre gli dava copiosa materia per questa
parte. Ed egli, infatti, dipende visibilmente su questo
punto da quei modelli, né spazia con libertà parago-
nabile a quella in cui si era effuso nella lode della cul-
tura ateniese, dove risuona l'accento dell'entusiasmo
personale e dell'intima persuasione. Certo, la gloria

CO) Già Tucidide, nell'Epitafio di Pericle (II 36, 4) aveva


trattato questo punto molto più brevemente di quanto usas-
sero gli oratori in tali occasioni, e aveva invece messo in primo
piano l'importanza culturale di Atene.
n) Paneg. 51 ss.
1474(III138] UBRO IV - IDEAU DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

guerriera non poteva mancare al suo quadro, già per


la sola ragione che senza di essa non sarebbe stato
raggiunto l'ideale tucidideo de] cp LÀoaoq;e'i:v &veu µ.cx-
Àcxx(cx~. Questo motto doveva rimanere dinanzi agli
occhi degli uomini, in un tempo di declinante spirito
guerriero e di prevalenza di interessi spirituali, come
lespressione normativa di una armonia, ormai in pro-
cinto di dissolversi per la generazione presente. Un
tale scadimento è ben presente alla mente d'Isocrate
e la deplorazione per esso percorre da un capo al-
i' altro i suoi scritti. A lui stava a cuore, evidente-
mente, di arricchire quella schietta essenza di Atene
che andava disegnando, anche dei connotati che si so-
levano ammirare in Sparta. Già Tucidide aveva rav-
visato la superiorità di Atene, non già nella antitesi
pura e semplice con Sparta, ma nella sintesi di elementi
spartani e ionici 42). Ma per lo scopo del Panegirico
era tanto più indispensabile il lato eroico dell'essenza
ateniese, in quanto Isocrate, questa volta, presentava
gli Ateniesi, accanto agli Spartani, come partecipi con
pari diritto al· compito di comando in quella guerra
contro i barbari che egli voleva.
Questo paragrafo 43) termina in una difesa contro
la critica· dei metodi dell'imperialismo ateniese .al tempo
della prima lega marittima, una critica di cui Sparta
aveva fatto largo uso al fine di mantenere Atene, dopo
la guerra perduta, in uno stato di umiliazione, e che
era ostacolo morale al ristabilimento della potenza ate-
niese sul mare. Isocrate ricorre a un garbato gioco di
parole per dimostrare che l'impero marittimo (&:px~

0 ) Cfr. « Paideia » I 688, a proposito di questo concetto


fondamentale nella raffigurazione tucididea di Atene.
43) Il passo sui meriti guerreschi di Atene occupa nel PaM-
girico i paragrafi 51-99. Da 100 in giù si svolge la difesa della
prima egemonia marittima ateniese.
CAP. III: EDUCAZIONE POLITICA E IDEALE PANELLENICO [m 139] 1475

·6jç .&a:ÀocnlJç)) di Atene era stato piuttosto per gli altri


greci il principio (&px1J) di ogni bene. Col crollo di
quel potere si era avviato anche il declino del prestigio
greco nel mondo, era cominciata I'era dei soprusi dei
barbar~ che ora osavano presentarsi in Grecia fonda-
tori della pace, tenendo gli Spartani come loro forze
di polizia 44). In realtà, sembra a Isocrate, l'elenco degli
arbitri e violenze spartane degli ultimi anni, freschi
ancora nella memoria di tutti, rende problematico il
diritto degli Spartani di criticare Atene 45). Così viene
a porsi come esigenza per la Grecia in generale il rista-
bilimento della situazione precedente, di cui un'Atene
forte era presupposto. Si è credutò di caratterizzare il
Panegirico come il programma della seconda lega ma-
rittima attica 46 ). Se un tal modo di vedere soprav-
valuta il rapporto di questo scritto con la politica
reale e non fa il debito conto dell'elemento ideologico
panellenico che in esso si esprime 47), esso coglie poi
nel segno almeno in questo, che Isocrate vuole la re-
staurazione della potenza ateniese come mezzo indi-
spensabile al raggiungimento del fine che gli sta a
cuore, cioè la distruzione dell'impero persiano e, per-
tanto, egli viene ad atteggiarsi come propugnatore
del diritto di Atene a capeggiare una seconda lega ma-
rittima. La quale, anzi, deve inizialmente aver ricevuto,
nella luce di quel sogno nazionale di cui Isocrate la
investe, una sorta di suprema consacrazione, anche se

") Paneg. 119.


..) Paneg. 122 ss.
46 ) Così U. v. Wilamowitz e E. Drerup. Cfr. anche G. MA-

THIEU, Les idées politiques d'Isocrate, Parigi 1925.


47 ) Isocrate stesso più tardi, nel Filippo (12), dove vuol

fare politica vera e propria, dice con chiara allusione alla propria
trattazione anteriore che i « discorsi panegirici» non hanno a
che fare con la politica reale più delle « Repubbliche» e «Leggi»
dei te orici politici: dove l'allusione a Platone è evidente.
1476 [III 140] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

poi non era destinata a dar compimento reale alle spe-


ranze che qui appaiono riposte in essa 48).
Ma se l'attuazione di questo concetto in termini di
politica reale venne a procedere piuttosto dalle riunite
ostilità degli altri Greci contro Sparta che dall'ideale
nazionale di Isocrate, una cosa almeno rimase salda:
la dignità nuova di cui egli aveva, nel Panegirico, ri-
vestito la retorica. Egli si era elevato d'un tratto fra
i Greci a banditore di un modo nuovo di critica delle
situazioni e tendenze politiche. Se, come è vero, la
tribuna da cui egli si rivolgeva ai Greci di ogni stirpe
e città non poggiava su alcuna base di potenza reale,
essa era pur fondata su norme che trovavano eco si-
cura in larghi strati del suo popolo e dovevano indiriz-
zare alla sua scuola le forze migliori tra gli idealisti
della politica. L'esigenza di una subordinazione a valori
eterni, posta dall'educazione filosofica, doveva sem-
brar.e a molti troppo elevata, ma era d'altra parte ge-
nerale il bisogno di una politica compenetrata di un
principio superiore, sì che l'etica nazionale di Isocrate
doveva aprirsi come via unica di scampo agli occhi
di molti giovani messi di fronte ai due estremi o dello
scetticismo etico o dell'appartarsi filosofico nell'asso-
luto. ~ pur qualcosa di molto significativo che l'antico
stato-città, al quale perfino un Socrate aveva potuto
far sacrificio totale di sé, non abbia più, per la genera·
zione seguente, la forza di trarre da sé, con le sue pro-
prie forze questa nuova etica politica 49). Cosi la paideia

' 8 ) Già nel Plateico d'Isocrate l'egemonia marittima di Atene


ha un aspetto molto meno panellenico, molto più particolaristico.
Sul tempo di questo opuscolo cfr. il mio libro Demosthenes, Der
Staatsmann und sein Werden, Berlino 1939 (cit. infra, p. 470
n. 6), trad. it. pp. 233-237.
••) È notevole che anche nell'ultima lotta della polis, che
fu combattuta sotto la guida di Demostene, l'idea panellenica
abbia fornito ancora il sostrato ideologico. Cfr. il mio Demosthenes,
trad. it. pp. 204-207.
CAP. III: EDUCAZIONE POLffiCA E IDEALE PANELLENICO [111141] 1477

della retorica nel senso isocrateo ha in comune con


l'educazione filosofica di Platone questo unico elemento,
che il fine dell'una e dell'altra, al di là del quadro
della forma politica storicamente data, trapassa nel
regno dell'ideale. Ambedue confessano un dissidio con
la realtà politica circostante, ma, in quanto forme edu-
catrici, valgono a suscitare, in questa mancanza di
aderenza al sistema dominante, una nuova tensione
spirituale, che l'antica paideia greca non aveva cono-
sciuto. Da una cultura che si fondava sull'intera co-
munità si passa a un ideale di cultura di cui si fanno
portatrici individualità eminenti. Dietro di queste non
c'è più una classe nobiliare dominante, non c'è più
un intero popolo, ma solo una cerchia di eletti, un
movimento spirituale o una scuola chiusa, che di fronte
alla comunità può ambire solo a un influsso indiretto,
in quanto forma personalità singole capaci, o ritenute
capaci, di guidarla e trasformarla.
CAPITOLO QUARTO

L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE

II discorso A Nicocle, distante di parecchi anni dal


Panegirico, appartiene però a un gruppo di scritti ad
esso singolarmente affine. Contenuto e impianto sono,
certo, del tutto differenti; ma la parentela con l'opera
più famosa è data dal legame, in esso particolarmente
visibile, con la scuola di Isocrate e col suo programma
educativo. Cronologicamente e per il contenuto esso
si pone accanto all' Evagora e al Nicocle. Tutti e tre
questi scritti sono in relazione con la casa principesca
regnante in Cipro, la casa di Evagora, il quale dopo
la morte fu celebrato da Isocrate col libro intitolato
al suo nome. II suo figliuolo e successore Nicocle, a cui
si riferiscono gli altri due scritti, era stato egli stesso
scolaro di Isocrate, di quella scuola, da cm, secondo
il detto famoso di Cimone, come dal cavallo troiano,
non erano usciti che eroi 1). Nel Nicocle Isocrate fa
pronunziare al giovane principe un'orazione ai sudditi

1) R. JEBB (Attic Orators Il, -p. 88) dice «possibile» che


Nicocle, quando era principe ereditario, sia stato scolaro d'I-
socrate; ma le parole d'Isocrate in Antid. 40 non lasciano
alcun dubbio che veramente si tratti di una relazione di mae-
stro e scolaro e la stessa impressione si ricava dalla chiusa del-
1' Evagora. Così non parla il giornalista a cui è stato commesso
un articolo, ma il maestro allo scolaro fidato. In Evag. 80 Iso-
crate parla delle sue espressioni d'incoraggiamento e di quelle
K degli altri amici».
1480 [m 144] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

contenente i principii fondamentali del suo programma


di governo. Il discorso A Nicocle infine 2) ci riporta alla
fonte di questa sapienza politica, poiché qui è il maestro
stesso che si rivolge allo scolaro che, asceso di fresco
al trono, rimane tuttavia scolaro e tale seguita mani-
festamente a sentirsi. La :fierezza di maestro di Isocrate,
che è. anche altrove suo motivo frequente e specialmente
fecondo nell' Antidosis, è uno dei lati amabili della sua
vanità, ed è lecito domandarsi se, senza la trasparenza
di questo elemento di umanità, lelegante superficie
della sua prosa non ci lascerebbe l'impressione del
troppo liscio e dèl freddo.
Tutti e tre gli scritti che si raggruppano intorno
a Nicocle sono saggi e modelli dell'arte di educar~, come
la si praticava nella ·scuola d'Isocrate. Mentre il Pane-
girico è impiantato per così dire sul tono fondamentale
dell'atteggiamento spirituale politico che domina que-
sta educazione, su l'« accordo» base del panellenismo,
gli scritti ciprioti mostrano con più chiarezza il punto
di applicazione della paideia d'Isocrate al reale. A prima
vista sembra di:fFicile a capire, come, in un mondo per
lo più democratico come la Grecia del IV sec., una
scuola di teoria politica remota dal travaglio dell'azione
possa raggiungere una qualunque efficacia. Ma ecco

1 ) La morte di Evagora è posta da Diodoro, XV 47, nel-


l'anno 374, ma i dotti moderni rimangono incerti nella datazione.
Il discorso A Nicocle andrebbe bene all'inizio del regno di questo
principe, subito dopo la morte di Evagora. Il Nicocle invece
presuppone che sia passato qualche tempo dall'assunzione del
potere da parte di Nicocle (cfr. 31), poiché gli effetti benefici
del suo regno si scorgono già in un miglioramento della situa-
zione finanziaria. Al § 11 si fa un riferimento al discorso À Ni-
cocle il quale, anzi, è dato come immediatamente precedente.
Quanto all' Evagora, non si può scendere, per datarlo, troppo in
giù nel regno di Nicocle, poiché costui vi è presentato come
giovane e inesperto, e incoraggiato a « proseguire così» (come
ha cominciato). Ma dal § 78 si vede che I' Evagora non è il
primo dei discorsi ammonitori d'Isocrate a Nicoele.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINOPE [m145] l481

che a questo punto ci si apre improvvisamente Io


sguardo su un problema che, in quelle particolari cir-
costanze, doveva essere d'importanza suprema: la pos-
sibilità dell'efficacia della cultura sullo stato attra-
verso l'educazione dei reggitori. Un problema che s'in-
contra, nella letteratura del IV sec., contemporanea-
mente in scrittori e pensatori della più diversa tempra
spirituale: in Platone, in tutta la sua filosofia come
nel tentativo pratico d'influire sul tiranno Dionisio,
descritto poi nella Lettera VII come la tragedia della
paideia; in Isocrate, negli scritti per Nicocle, nel mes-
saggio a Dionisio di Siracusa, nell' Àrchidamo, nel Fi-
lippo e soprattutto nei suoi rapporti col suo scolaro
Timoteo; in Senofonte, nel grande romanzo pedago·
gico della Ciropedia; in Aristotele, nell'amicizia ch'egli
ebbe con Ermia tiranno di Atarneo e, soprattutto, nel
vincolo di educatore che lo legò al futuro reggitore
del mondo, Alessandro 3 ). E son questi solo gli esempi
più noti, che si potrebbero moltiplicare.
La cosa non era del tutto nuova. Si trovano già
nei secoli precedenti molti esempi del saggio accanto
al potente, come consigliere, ammonitore o educatore.
In un tal compito, come il dotto fu preceduto dal filo-
sofo, cosi il filosofo dal poeta. Non tutti i poeti che fre-
quentarono le corti tiranniche del VI sec. furono paras-
siti o adulatori a buon mercato, pronti a passare poi
dopo la cacciata dei tiranni ali' esaltazione della demo-
crazia, secondo il rimbrotto di Platone alla poesia del
suo tempo 4). Gli ultimi grandi carmi di Pindaro ai

8) Anche il Protrettico di Aristotele era UD discorso esorta·


torio a UD tiranno ciprio, Temisone. Che questo opuscolo di Ari-
stotele giovane non era UD dialogo nello stile di Platone, ma un
)..6yoç auµ~ouÀ&UTLx6ç al modo d'Isocrate, è stato dimo-
strato da me in Aristoieles, p. 55 (trad. it. p. 71 es.). Ma in questa
forma Aristotele versava il contenuto della paideia platonica.
') Pl. Resp. 5611 b-c.
1482 [m 146] LIBRO IV - IDEALI DI OJLTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nuovi monarchi della Sicilia, nei quali, lasciata la via


consueta ai suoi carmi agonali, della lode di vincitori
di nascita nobile o borghese, egli si volge all'ammoni-
zione dei principi 5 ), sono un precedente del discorso
ammonitore di Isocrate ai reggitori del suo tempo.
E risal.endo ancora più indietro, s'incontra la forma
poetica dello « Specchio di cavalleria», la poesia gno-
mica di Teognide, con la sua etica nobiliare della Gre-
cia arcaica 6). Isocrate, chiaramente consapevole che la
prosa sofistica moderna è nuova elaborazione, spirituale
e linguistica, di quei più antichi generi poetici, si ri-
chi~ma espressamente nel suo discorso A Nicocle al
modello della poesia sentenziosa di Esiodo, Teognide e
Focilide e con ciò s'inserisce nella loro linea 7).
I suoi tre discorsi ciprioti rappresentano leduca-
zione del principe nelle sue varie forme. L'encomio di
Evagora è la forma prosastica parallela all'encomio
pindarico, come già indica l'uso consapevole dell'antico
nome del genere 8). L'encomio di Isocrate, tuttavia,
non è più soltanto un epinicio, un « inno per la vitto-
ria», ma si svolge in una lode dell'areté del festeggiato,
che riguarda l'intera vita, lazione, il carattere. Questa
forma, che cosl esaltava ancora l'originario contenuto
educativo dell'encomio poetico, trovò risonanza enorme
presso i contemporanei e fu poi i:D:finite volte ripresa e
imitata 9 ). Essa aveva radice nell'antico concetto del

6) Cfr. « Paideia» I 398.


') Cfr. « Paideia » I 356.
') Ad Nic. 43.
8 ) Isocrate stesso dice (Evag. 7-11) che il suo «encomio»
è una nuova creazione letteraria, in gara consapevole con la poesia.
Fino allora, infatti, era stato compito della poesia degli inni.
esaltare uomini di alta areté. La parola w8oc! (11) accenna a
Pindaro, Bacchilide e agli altri poeti dello stesso genere. V. la
n. 7.
9 ) Cfr. quel che dice Aristotele, ·in Diog. L. II 55, sugli in-
numerevoli encomi ed epitafi composti per la morte del figlio
di Senofonte, Grillo. Citi avvenne nel 362 o poco dopo.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRlNOPE (ID 147] 1483

«modello», che era stato il fondamento dell'elogio poe-


tico 16). Nel caso attuale, è il figlio e successore di Eva-
gora colui a cui è posto sotto gli occhi l'esempio pa-
terno. V al la pena di fermarsi a osservare come l'ideale
panellenico dell'educazione politica isocratea venga a
inserirsi nel ritratto del principe ciprio. Questi non
è concepito da Isocrate come figura isolata, ma come
il propugnatore dell'areté greca, del modo di essere
greco, sull'avamposto estremo verso oriente, di fronte
alla grande potenza asiatica della Persia 11). Questo
proposito di Isocrate, di effigiare la vera areté incar-
nata in una personalità storica individuale, si può
confrontare con quella fusione di persona e idealità
che Platone attuò nel suo ritratto di Socrate - che
ha, anch'esso, significato esemplare - sebbene la glo-
rificazione di Evagora fatta· dal retore non raggiunga
mai la misura di individualità. schietta della rappre-
sentazione platonica, ma, conforme al suo proposito,
faccia del suo personaggio il canone di tutte le virtù
politiche e prima di tutto della virtù del reggitore 12).
Le due orazioni A Nicocle e Nicocle perfezionano
questo quadro della paideia politica come Isocrate la
intende, ponendo .accanto alla presentazione della esem-
plare .figura di Evagora una forma più sistematica
e generale di ammaestramento politico del principe.
La situazione immaginata è che prima Isocrate tenga
un discorso d'esortazione al suo scolaro d'un tempo,
Nicocle, sul vero modo di concepire il compito del

10) Cfr. « Paideia » I 385 sulla lode pindarica dei vinci-


tori, come-. modelli di areté. A Pindaro· :fa pensare il modo
in cui Isocrate mette sotto gli occhi di Evagora, nella stirpe
degli Eacidi e in Teucro, fondatore della civiltà ellenica in Cipro,
i suoi mitici avi e gli esemplari della vera areté (Evag. 12-18).
ll) Cfr. il giudizio dato dal puntò di vista panellenico sull'opera
di Evagora, in Evag. 47-64.
19) Cfr. « Paideia » II 25-26.
1484 [m 148] LIBRO IV - IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

principe, e che poi questi, in immediata connessione


col discorso del maestro, si rivolga a parlare al suo
popolo 13). È presupposto con ciò che il popolo abbia
assistito al discorso di Isocrate a Nicocle; tratto questo,
con cui il filosofo politico e maestro viene ad assumere
una posizione spirituale preminente su quella del re.
Così Isocrate si eleva a rappresentante di un ordine
superiore, che fonda il suo diritto soltanto sul peso
della propria verità morale. Ed è ciò che si deve tener
continuamente presente quando si legge il discorso
A Nicocle. Isocrate si fa qui legislato:re ideale, e questa
posizione è espressamente riconosciuta nell'atteggia-
mento del giovane re di fronte al suo maestro. Cosi
la tirannide, proprio quella tirannide che per i Greci
in generale rappresentava la forma tipica dell' arbitrie,
viene inserita in un ordine di valori assoluti e, pertanto,
legalizzata, in quanto la si· connette con· la volontà
del principe, di reggere il suo popolo secondo una salda
legge e in conformità di una norma superiore. Nel
IV sec. troviamo più volte dibattuto il problema di
come si possa mutare la tirannide in una« più mite»
forma di governo, e parte non piccola gli è data
anche da Isocrate, tanto nel discorso Nicocle, qu!lllto
nell'orazione esortatoria 14). Qui basti richiamare co-
me nel IV sec. la « mitezza» sia spesso lodata come

18) Nic. 11: 't"QV µtv oùv lnpov (Myov), &ç XPlJ -rupixwE!v,
'Iaoxp&'t"ouç -ljxouaoc't"e, 't"Òv 8'èx_6µevov, & llE! 7toteiv 't"oÙç &pxo-
µévouç, èyw 7tEtp&aoµixt 8teÀ&eiv. Scrivendo il Nicocle, eviden-
temente, Isocrate aveva in mente di riunire in un dittico i due
scritti.
") La parola greca per« mitezza» è 7tp1X6't"'Flt;, l'agg. è 7tpéio:;.
Cfr. Ad Nic. 8; 23; Nic. 16-17; 32; 55. Così c'informa Didimo nel
commento alle Filippiche di Demostene, coL 5, 52 (Diels-Schuhart)
che E:rmia, tiranno di Atarneo, per l'in:lluenza dei filosofi platò·
nici Corisco, Erasto, Aristotele e Senocrate mutò il suo dominio
« in una più mite forma di go"·erno ». (La lezione si fonda su una
integrazione sicura del papiro). ·
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [m149] 1485

qualità caratteristica della costituzione democratica 15).


L'educazione isocratea del principe, quindi, non si
pone semplicemente sul terreno della tirannide, come
situazione di fatto e situazione di forza, ma la limita
col subordinarla a una norma assoluta, mentre d'altra
parte la esalta come la forma migliore di governo.
A prova di ciò vengono addotti vari argomenti: che
gli stati più in fama di buon reggimento politico, per es.
Cartagine e Sparta, si reggono in pace oligarchicamente,
ma in guerra monarchicamente; che la Persia deve la
sua duratura posizione di grande potenza mondiale al
suo regime monarchico; che perfino nella democrazia
ateniese la salvezza è venuta sempre dal comando
dato a uD. solo stratego; infine, che anche l'ordinamento
del mondo degli dei è monarchico 16). Si vede dunque
che le norme con cui lavora il pensiero politico di Iso-
crate, in favore delle quali egli viene argomentando,
non si fondano affatto, qui come sempre, sulla Idea
pura, ma sull'esempio storico e sull'esperienza. L'ac-
cenno al potere illimitato di un singolo stratego in
Atene in tempo di guerra, riporta con grande verisimi-
glianza, mi sembra, questo discorso agli anni del co-
mando di Timoteo, scolaro di Isocrate, nella guerra
contro Sparta dopo la formazione della seconda lega
marittima attica. E si tratta qui di un problema di
politica interna della democrazia ateniese, che vien

16) Demosth. Androt. 51 miv-;oc 7tpoc6-re:p' fo-r' ~v lìl)µo-


xpoc-rE q:. Isocr. Antid. 300 « nessun popolo è più mite (cioè « ci-
vilizzato») del popolo ateniese» (7tp èioc; si adopera anche per
animali « domestici»). V. in PI. Resp. 566 d l'immagine del gio-
vane tiranno che si dà pensiero di apparir mite, e Aesch. Prom. 35.
16 ) Nic. 24 ss. Da luoghi come questi appare chiaro come
mai Isocrate, cittadino di uno stato democratico, non poté pre-
sentare in nome proprio questo discorso sulla monarchia, ma
dovette ricorrere alla finzione di presentarlo come ·discorso di
Nicocle. Sulla stessa finzione si basa il discorso che Isocrate mette
in bocca al re spartano Archidamo.
1486 [mlSO] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

poi ripreso e trattato assai più ampiamente da Isocrate


nell'Areopagitico 1 7). Del resto la signoria del tiranno
non è da lui limitata da leggi scritte o da una costitu-
zione. Anzi è prescritto espressamente ai sudditi di
considerare la parola del monarca come la loro legge 18).
L'unico limite all'esercizio del suo potere sta nelle
virtù di giustizia e temperanza, che Nicocle, in contrap-
posto alla concezione prevalentemente guerriera della
virtù del principe, descrive come i pilastri del suo regno
e rivendica solennemente a se stesso 19). L'unica fonte
del potere è dunque la paideia del principe; ché la
perfetta paideia è l'areté, il supremo dei beni 20). Colui
che l'ha riconosciuta come tale - su questo presup-
posto si fonda la dichiarazione del re ai suoi sudditi -:-
si terrà fermamente per tutta la vita dentro quest'ordine
di condotta 21 ). L'areté del monarca è la base su cui si
fonda poi la pretesa all'obbedienza dei sudditi, al fe-
dele compimento del loro dovere 22 ). Isocrate si fa
quindi ad esporre in questa parte del discorso una
teoria etico-sociale sui doveri civici del buon suddito
ma di ciò in questo momento si può fare a meno di
parlare.
Sarà invece interessante, prima di volgerci al discorso
di Isocrate A Nicocle, gettare ancora uno sguardo sul
proemio del Nicocle. In esso Isocrate coglie l'occasione,
alla sua maniera consueta, di difendere e di esaltare
ancora una volta l'educazione retorica. Ma che lo fac-
cia proprio qui è cosa osservabile e di particolare im-
portanza, giacché - questa vÒlta Isocrate è costretto

11 ) Areop. 11-12; cfr. infra, p. 196 s. V. anche Antid. 101-139

e infra, p. 236 ss.


18 ) Nic. 62.
19 ) Ginstizia, Nic. 31 ss., temperanza 36 ss.

• 0 ) Nic. 47.
•1) Nic. 43-47.
22 ) Nic. 48-62.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [m151] 1487

dalla circostanza a far cantare le lodi della paideia


da un monarca, che è, nella finzione, l'oratore. Egli,
prima di tutto gli fa prender di fronte il sospetto, che
si presentava del tutto ovvio per le strette relazioni
della retorica coi detentori di potenza, che « filoso-
fia» e cultura, anziché mirare al perfezionamento del-
l'uomo, tendano in realtà al potere 23). Non sappiamo
da qual parte venga questa critica. È difficile che labbia
espressa Platone, giacché il filosofo stesso considerò
con profonda serietà il pensiero di realizzare i suoi
piani politico-educativi per mezzo di un singolo uomo
di condizione regale, e non si fece scrupolo di con-
tatti stretti coi tiranni di Sicilia. È più facile pensare
alla cerchia dei politici attivi che vivevano in Atene
intorno a Isocrate. Egli ribatte qui, contro l'aècusa di
pleonexia che si era elevata contro la sua educazione
retorica, che un tale rimprovero molto meglio si diri-
gerebbe a coloro che non voglion sentir parlare del po-
tere del discorso, con la scusa che a loro importa solo
l'agire retto e a proposito 24). Ogni sforzo verso l'areté
umana è in qualche modo diretto al progresso e alla
moltiplicazione dei beni della vita, e sarebbe ingiusto
biasimare quelle cose, mercé le quali, con l'aiuto di
principii morali, noi possiamo raggiungere un tale be-
neficio 25). L'uso cattivo della formazione retorica non
è buona ragione per screditarla, a quel modo che ric-
chezza, forza, coraggio guerriero non perdono il loro
valore per l'abuso che ogni giorno se ne fa. Niente è
più stolto che trasferire a carico delle cose la malva-

11) Nic. 1.
") Nic. 1.
16) Nic. 2. I « beni», frutti delrareté, a cui Isocrate pensa,
!!Ono evidentemente il successo e il benessere borghese. Da ciò
si vede bene la differenza del suo ostentato moralismo dal con-
cetto di « beni» proprio della Socratica. Cfr. « Paideia » II 253 ss.
1488 [rn 152] LIBRO IV· IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

gità degli uomini 26 ). Ciò porterebbe solo alla conse-


guenza di buttar via indistintamente come zavorra
ogni cultura superiore. Gli uomini che ciò fanno non
si accorgono di denibare la natura umana di quella
forza che è causa dei beni supremi della vita 27).
E cosi il proemio termina, molto a proposito, con
un elogio dell'eloquenza come forza formatrice di ci-
viltà. Il Nicocle riprende in questo il tema del Panegi·
rico, che aveva esaltato Atene come la sede in cui ogni
forma di cultura era venuta alla luce 28). Questa forza,
che colà era stata chiamata « filosofia» appare anche
qui come il segno distintivo dell'uomo di fronte alle
fiere e qui come là è posta e fondata soprattutto nel
dono del Logos 29) •. In nessun luogo, si può dire, si può
afferrare concretamente la rivalità della retorica con
la poesia, meglio che nell'elogio che ora segue, della
facoltà del discorso, in quanto forza che fa gli uomini
veramente, essenzialmente uomini. Non so _se sia stato
già osservato come ci si offra qui un vero e proprio inno
in prosa elevata, condotto del tutto nello stile severo
della poesia. Se si guardano un po' da vicino le singole
affermazioni che Isocrate pronunzia sulla natura e sugli
effetti del discorso, ci si accorge, anche soltanto dalle
particolarità della forma, che si ha a che fare con
vere e proprie predicazioni di un essere concepito e per·
sonifìcato come divino 30), Il nome né appare solo nel

26 )Nic. 3-4.
27 )Nic. 5.
28) Paneg. 47-50.
19) Cfr. Paneg. 48 e Nic. 6.
ao) V. le indagini :rinnovatrici di En. NOBDEN, sulla forma
stilistica dell'inno e l'influenza di essa nella letteratura greca e
romana, in Agrwstos The6s (Lipsia 1913), specialmente la p. 163 ss.
Nella poesia più antica il più bell'esempio a me noto di esalta-
zione e divinizzazione in stile d'inno, di una potenza, con espres-
sione moderna,« astratta» come il Logos, è l'elogio della Eurwmia,
cioè dell'ordine delle buone leggi e della sua forza benefica, che
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [IJI 153] 1489

corso di questo tributo di lodi, e come a conclusione:


esso è il Logos, il creatore di ogni civiltà 31). « Ché per
gli altri doni che possediamo non differiamo affatto
dagli animali; anzi a molti di essi siamo inferiori,
in velocità, in forza e in altre facoltà. Ma per· la
capacità insita in noi di persuaderci l'un l'altro e di
chiarire a noi stessi quel che vogliamo, non solo ci libe-
rammo dalla vita ferina, ma ci radunammo insieme e
fondammo città, e ponemmo leggi e inventammo le
arti: insomma di tutto quello, si può dire, che da noi
è stato operato è stato cooperatore il Logos. Egli dette
leggi sul giusto e l'ingiusto, sul turpe e sul bello, senza
le quali non saremmo capaci di vivere associati; per
lui vituperiamo i malvagi e lodiamo i buoni; per lui
s'istruiscono gli stolti e si sperimentano i saggi: giac·
ché il parlar come si deve è il segno più valido del ben
pensare, e un discorso vero, legittimo e giusto è im-
magine di anima buona e degna di fede. Per mezzo
del Logos disputiamo sulle cose opinabili e ricerchiamo
le ignote: ché gli argomenti coi quali parlando si per-
suadono gli altri sono gli stessi, che si usano nel deli-
berare, sicché chiamiamo ~· retori " quelli che sanno
parlare alla moltitudine, e· reputiamo gente di buon
consiglio quelli che fra sé e sé meglio sanno discutere
sulle circostanze. Insomma, per dirla in una parola
su questa facoltà,. non c'è nulla di ciò che con senno
si opera che si trovi privo del sussidio del Logos, anzi
il Logos è la guida di tutte le azioni e di tutti i pensieri,
e quelli che di esso più si valgono sono quelli che hanno
mente più alta. Sicché quelli che osano vituperare gli
uomini che educano e praticano filosofia, si debbono rite-
nere odiosi come coloro che peccano contro il Divino».

io ho potuto dimostrare esistente in un'elegia di Solone. V. Solons


Eunomie, in« Sitz. Berl. Akad. » 1926, 82-84.
31 ) Nic. 5-9.
1490 [m154] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Il pathos di questo discorso, questa movenza e


tono di inno, si debbono tener bene a mente, se si
vuol rendersi conto dell'enorme influenza di Isocrate
sui suoi scolari, rappresentati qui da Nicocle 32). Il
concetto che qui si esprime eleva la retorica ben al
di sopra del rango che i predecessori d'Isocrate le ave-
vano conferito. Con questo concetto, certo, non si ri-
sponde affatto, in modo filosoficamente soddisfacente,
al problema impostato da Platone nel Gorgia sul rap-
porto della retorica con la verità e la moralità; ma, al-
meno momentaneamente, il problema stesso è messo
in ombra dal più grande fulgore che investe ora la re-
torica con la funzione di creatrice e della cultura intel-
tuale e della società umana. Si tratta, è vero, di un
ideale, di fronte al quale l'insegnamento della retorica
quale normalmente si praticava fa una figura alquanto
pietosa, sicché le parole di Isocrate debbono valere
soprattutto come lespressione di un'intenzione e di un
proposito. Pure, nel modo in cui esse definiscono la
natura della retorica, è. dato scorgere un principio di
autocritica, manifestamente intonata alle fondamentali
obbiezioni di Platone e volta allo sforzo di superarle,
col concepire il compito della formazione retorica in
maniera sostanzialmente più profonda di quanto si
fosse fatto fino allora. Si può tra le righe leggere il ri-
conoscimento che essa non varrebbe davvero gran che
se non avesse altro da offrire oltre .quel poco che i
suoi filosofici censori le concedono, cioè un'istruzione
empirica puramente formale sul modo di convincere
la massa ignorante 83): da un tale legame con la pra-

n) Che il Logos, qui divinizzato, sia l'essenza dell'ideale iso-


cratico della paideia (cultura), si ricava da ciò che è detto in
Nic. 8 e 9 ed .è già chiaramente espresso in Paneg. 48. Cfr. sul
Logos come aòµ~oÀov 7tctt3waew~ («segno della cultura») su-
pra, pp. 134-135.
88) PI. Gorg. 454 b, 462 b-c.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINOPE [m 155] 1491

ti.ca demagogica Isocrate cerca in ogni modo di scio-


glierla. Per lui il compito essenziale della retorica non
consiste nella tecnica di maneggiare le masse, ma in
quell'atto dello spirito, semplicissimo e fondamentale,
che ogni uomo tutti i giorni compie in se stesso quando
fra sé e sé si consiglia sul suo bene M). In quest'atto
forma e contenuto non sono artificiosamente separa-
bili, ma quello in cui esso consiste, il « buon consi-
glio», sta nella capacità di cogliere in ogni situazione
la decisione buona 35). Cosi, senza dubbio, l'accento si
sposta dalla forma stilistica alla corretta formazione
del « consiglio» che l'oratore fornisce, ma questo ap-
punto è quello che Isoèrate vuole 36). La sua« cultura»
non è unilateralmente linguistica e formale, ma la
forma per lui si svolge immediatamente dal conte-
nuto, che è il mondo politico e etico. La meta della
formazione retorica isocratea è la produzione dello stato
perfetto del vivere umano - lo chiama con la stessa
parola dei filosofi: eudaimonia - , è cioè un bene su-
premo obbiettivo, non già I' acquisto di un'influenza
su altri, a scopi di arbitrio soggettivo 37). L'ipostasi di
questa idea di cultura nel concetto divinizzato del Lo-
gos è felice mezzo di espressione di una tale finalità.
Poiché Logos significa « lingua» nel senso di discorso
ragionevole e di quella vicendevole comprensione. che

"'} Nic. 8.
86 ) Dice Isocrate (Nic. 8) « chiamiamo "retore•• chi sa par-
lare nell'assemblea popolare, chi sa parlare fra sé e sé su un sog-
getto lo chiamiamo " di buon consiglio "». Con ciò egli vuol dire
che, se anche si adoperano due nomi, l'essenza della cosa è nei
dne casi la stessa.
88) Parlare o agire con il « Logos » significa quindi per lui
lo stesso che« con riflessione razionale» (cppovlµwç), cfr. 9.
37 ) L'idea di eudaimonia è sempre alla base del pensiero

politico (cptÀocrocpla:) d'Isocrate. Cfr. per es. De pace 18, dove


l'eudaimonia è esplicitamente posta come meta dell'agire po-
litico. Per una più precisa definizione di questo concetto cfr.
infra, p. 161 n. 59.
1492 [lll156] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

poggia sempre, in ultima istanza, nel riconoscimento


di valori comuni. i!: questo l'aspetto del Logos a cui
Isocrate dà più forte rilievo facendone il vero e proprio
elemento efficiente della vita sociale 3B).
Da questa filosofia del Logos nasce l'atteggiamento
di legislatore e di educatore di Isocrate, al quale no.n
si rende piena giustizia denominandolo con la parola,
troppo varia e oscillante di significato, di retorica.
Come frutto di un tale insegnamento vogliamo ora
cercare d'intendere il discorso A Nicocle. Il punto di
partenza è in esso una considerazione sul dono più
prezioso che possa essere offerto a un principe 39). Per
Isocrate questo dono è l'esatta definizione del modo che
un principe deve tenere per poter reggere il suo paese ìl
meglio possibile. Molti sono i fattori che cooperano di
per sé alla educazione di un semplice cittadino: la
limitazione, in cui egli vive, dei suoi rapporti con gli
altri, le leggi, a cui si deve conformare, l'aperta critica
dei suoi errori da parte di amici e nemici; ed anche i
vecchi poeti gli hanno trasmesso esortazioni e pre·
cetti di retta vita. Tutto questo coopera a elevare gli
uomini, a farli migliori 40). Ma niente di simile esiste
per principi e tiranni. Essi, pur bisognosi di educa-
zione più di tutti gli altri, non sentono più critiche
una volta asceso il trono. Tagliati fuori dalla mag·
gioranza degli uomini, non si trovano intorno che
adulatori. Di qui il cattivo uso che fanno dei grandi
mezzi di potenza di cui dispongono; sicché son ben
comprensibili i dubbi venuti in mente a più d'uno,

88 ) Per questa q>LÀoaoqiloc Isocrate si sente molto lontan°


dalla retorica forense dei ve.echi tecnografì. L'accusa di Platone•
se condo cui la retorica è priva di una meta obbiettiva, dev'essere,
nella mente d'Isocrate, resa vana da questa ferma connessione
che egli pone del Legos con la phronesis e l'euda.imonia.
89 ) Ad Nic. 1.
•o) Ad Nic. 2-3.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [!Il 157] 1493

se non sia da preferire a quella del tiranno la vita di


un semplice privato che agisca rettamente 41). A tutti
sembrano desiderabili la ricchezza, la dignità e la po-
tenza del monarca, ma quando riflettono al timore e
al rischio costanti in cui i potenti vivono, quando
vedono che alcuni principi sono periti vittime dei più
stretti congiunti e amici, oppure sono stati travolti
a mettere essi le mani nel sangue di quelli, allora gli
uomini finiscono col preferire anche la più semplice
e nascosta forma di vita, ali' essere re di tutta l'Asia
in mezzo a simili orrori 42). Quest'ultima è una chiara
allusione alle parole di Socrate nel Gorgia platonico, là
d_ove egli dice di non poter giudicare se il re dei Per-
siani sia o non sia felice, essendogli ignoto come stia
quel re riguardo alla paideia e alla giustizia 43). Con que-
ste parole si era per la prima volta posta la paideia,
fondata sulla giustizià, come misura della vita e del-
1' azione di un reggitore politico e si era espress·o così
il pensiero fondamentale dell'educazione dei principi.
Ed è verosimile che anche prima che Platone giungesse,
nella Repubblica, a configurare questa esigenza, in un
completo sistema educativo dei reggitori, Isocrate abbia
cercato di realizzare alla sua maniera, nel discorso A
Nicocle, lo stesso pensiero.
Egli si rende ben conto che un'idea può benissimo

41 ) Ad Nic. 4. Dubbi come questì cominciano a svegliarsi

presto nella letteratura greca. Si pensi al falegname filosofo di


Archiloco (fr. 22, cfr. << Paideia» I 238), che non desidera la
tirannide, o alla rinunzia di Solone al potere assoluto (fr. 23).
Però Isocrate ha qui chiaramente di mira i Socratici. Egli aveva
già (Hel. 8) ironizzato sul fatto che «alcuni osano scrivere che
la vita dei mendichi e fuggiaschi è più invidiabile di quella
degli altri». Era naturale che questo pensiero in un discorso come
questo A Nicocle, che doveva dar nuovo contenuto al bios del
monarca, fosse svolto molto più ampiamente.
42 ) Ad Nic. 5-6.
PI. Gorg. 470 e (cfr. « Paideia » Il 225). Questo modo
43 )

di vedere forse fu anche di altri Socratici come Antistene.


1494 [III 158] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

e8sere in sé grande e valida, e lesecuzione rimanere


tuttavia inolto al disotto delle speranze, a quel modo
che molte opere di poesia che molto promettono nella
concezione e impianto iniziali, cadono poi del tutto
nell'effettiva realizzazione formale 44). Ma è pur qual-
cosa di nobile anche il solo tentare, quando si tenti di
ricercare una parte . inesplorata dell'educazione e di
dettar leggi che valgano per i monarchi. L'educatore
dei cittadini comuni giova solo al singolo; ma se a
qualcuno riesca di incitare i dominatori della massa
alla virtù suprema, allora si fanno in un sol tempo due
cose, perché si contribuisce a rinsaldare il potere dei
re e a rendere più umana la vita del cittadino nello
stato 45). Il fine di Isocrate è quindi, come già si è
osservato, di impedire o almeno di frenare la degenera-
zione della vita politica in atto nel suo tempo, da forme
costituzionali a mera potenza di fatto, e ciò col vinco-·
lare la volontà del principe a norme superiori 46). Il
procedimento del retore non è neppur paragonabile,
per profondità di fondamento :filosofico, con la dot-
trina platonica dell'Idea del Bene, che il reggitore
ideale deve portar nell'anima propria come paradigma
inderogabile, né col cammino metodico della cono-
scenza dialettica, per mezzo della quale lanima deve
purificarsi fino a contemplare la norma assoluta 47).
Isocrate non ha neppure un sospetto della necessità di
quel lungo viaggio spirituale, lungo il quale Platone
conduce la piccola schiera degli eletti tra gli eletti fino
a questa meta 48). Egli semplicemente accetta la posi-
zione del futuro reggitore così come gli è data dal caso

") Ad Nic. 7. Isocrate dice con una« polarità» di espres-


sione che gli è consueta: opere di poesia e prosa.
46) Ad Nic. 8.
'") Cfr. supra, p. 149.
") Cfr. « Paideia » II 541.
H) Cfr. « Paidei11 » II 483, III 336-337.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [m159] l495

che in quella posizione lo ha fatto nascere 49), e solo


cerca di compensare con l'educazione gli eventuali di-
fetti della natura. E poiché egli, a differenza di Platone,
non pone come criterio di scelta dell'uomo destinato
all'ufficio di reggitore la vocazione spirituale e l'affida-
mento di un saldo carattere 50), la sua educazione è co-
stretta a tenersi d più al tipico e al convenzionale. Egli
vede però chiaramente il rischio insito nella mancanza
di un principio generale, che è di perdersi nelle parti-
colarità tecniche dell'amministrazione dello stato, e
lascia perciò questo compito di minuto consiglio in
tali cose ai consiglieri ufficiali del principe, caso per
caso. Il fine suo proprio è solo di tentar di definire nelle
linee generali il retto contegno del principe 61).
Si comincia dal compito o dal « lavoro» del re 52).
Così questo modo di porre la questione, come il definire
il contegno del re un « tendere» all'azione retta e ap-
propriata 53), ci fa pensare a Platone e specialmente
al Gorgia, che deve aver fatto sul retore l'impressione
più duratura 54). Come Platone, Isocrate ritiene deci-
sivo il venire in chiaro della meta essenziale del prin-
cipè, in quanto le parti di_ essa possono essere deter-
minate solo « guardando ad essa». Come Platone egli
parte da ciò che è universalmente riconosciuto, quan-
tunque il concetto dei beni, che è dovere del principe
realizzare, non sia dedotto dialetticamente, ma sem-

'") Cfr. la genealogia mitica della casa regnante in Cipro, fon-


data sul principio della successione. legittima, in E11ag. 12-18.
50) Cfr. « Paideia» II 450, 460-461.
H) Ad Nic. 6.
60 ) Ad Nic. 9.
63) Ad Nic. 6 (alla fine) .
..) Sul« lavoro» (f!pyov) del buon cittadino v. Gorg. 517. c.
Bisogna però al posto di 'ltoÀ(-rou correggere 7tOÀL-rLxou, perché
quello di cui si sta parlando è il compito, non del singolo citta·
dino, ma dell'uomo politico. Rendere il cittadino migliore che
sia possibile è il fine della paideia politica: Gorg. 502 c; cfr. 465 a.
1496[m160] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

plicemente accettato dalla media delle opinioni cor·


renti 55). Isocrate chiama « hypothesis » questo proce·
dimento consistente nel fissare un principio supremo
o fine dell'azione, poiché un tale principio serve di base
(«è posto sotto») a tutte le successive conclusioni 56),
né tale ricerca di una « ipotesi» universalmente accet-
tata è da riscontrare in questo solo luogo dei discorsi
di lui. È anzi un elemento essenziale del suo pensiero
politico, che trova spiegazione nell'esempio metodico
di Platone e, in ultima analisi, è procedimento preso
dalla matematica 57).
L'ipotesi dunque suona così: il buon principe deve
eliminare i mali della sua città, conservare il suo be-
nessere e farla più grande e più forte. La ·trattazione
dei problemi singoli che si presentano giorno per giorno
deve essere subordinata a questo fine. Risulta del tutto
chiaro con ciò che Isocrate, diversamente da Platone,
non ravvisa il compito dello stato nell'educazione dei
cittadini, nel loro individuale perfezionamento, ma lo
vede in ùil concetto di grandezza e prosperità materiale,
corrispondente alla visione realistica dell'uomo politico
specialmente combattuta da Platone nel Gorgia, lo
vede cioè nei fini che si erano proposti i grandi politici
ateniesi del passato, un Temistocle o un Pericle 58).
Non è dunque questa visione dei doveri del principe
niente di speciale e caratteristico di un monarca; la

65 ) Ad Nic. 9: o!µetL aè: rc&.v-roci; cX'I oµoi..oyijaotL.


66) Cfr. Ad Nic. 13: u7te&éµe:.9-oc.
67 ) Da un'ipotesi di questo genere prende l'avvio il ragiona-
mento politico d'Isocrate in De pace 18. Questo punto richie-
derebbe una più precisa trattazione. Cfr. in proposito il mio
Demosthenes, trad. it. p. 110.
68) Platone, Gorg. 517 h, li chiama «servitori dello stato»

(lhttxovoL 7t6i..e<i>i;). Secondo lui questa è la concezione più


diffusa, ma anche la meno elevata, del compito del reggitore.
Vien fatto di pensare all'espressione famosa di Federico iJ Grande.
che era :6.ero· di essere « il primo servitore dello stato».
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [w 161] 1497

monarchia è solo, per Isocrate, quella forma politica


in cui essa più facilmente può realizzarsi 59). Era stata
proprio la democrazia ateniese dell'età successiva alle
guerre persiane che aveva precorso le vi.e dell'imperia-
lismo. Non altro fa ora Isocrate che convertire, con
abile superficialità, la fede fortemente materialistica
nel benessere, che aveva animato quella democrazia,
in una ideologia di dispotismo illuminato, non senza
qualche concessione al moralismo filosofico del tempo.
Il fine che egli propone a Nicocle è un compromesso
fra la tradizione di politica realistica dell'età periclea,
la critica dell'etica filosofica, e la tendenza dei nuovi
tempi alla dittatura. D'altronde tutto ciò è concepito
non primamente in vista di Atene, ma per la situa-
zione politica piuttosto coloniale della lontana Cipro.
Laggiù poteva sembrare legittimo, perfino dal punto
di vista ateniese, il cumulo di ogni potere nelle mani di
un solo, perché soltanto cosi poteva esser difesa la causa
della grecità contro la pressione della potenza persiana.
Se coglie nel segno la nostra ipotesi, che tanto l'ora-
zione come il Nicocle siano stati scritti nel tempo in
cui Timoteo, lo scolaro prediletto di Isocrate, teneva
il comando supremo di tutte le forze della rinnovata
lega marittima ateniese, allora l'accenno del Nicocle
alla posizione quasi regale dei comandanti ateniesi in
tempo di guerra acquista una portata maggiore di
quella semplicemente cronologica 60), ed ambedue que-
sti discorsi isocratei si configurano come un episodio di
politica estera ateniese. Essi sono chiaramente destinati
a legare lo stato ciprio di Salamina - in quanto vo-

69) In De pace 18 Isocrate definisce in modo del tutto simile


il concetto della eudaimonia politica dal punto di vista dello stato
ateniese. Esso consiste di quattro elementi: 1° sicurezza, 2° pro-
sperità, 3° concordia all'interno, 4° prestigio ali' estero.
• 0) Nic. 24.
1498[m162] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

gliono dargli mercé la parola del retore ateniese una


« più mite forma di governo» 61) - con lo stato ateniese,
col · quale, già il padre di Nicocle, Evagora, aveva
stretto, nel 390, un'alleanza contro i Persiani. Tra le
famiglie di Timoteo e di Nicocle esistevano relazioni
fin dal tempo dei loro padri, Conone ed Evagora,
e l'alleanza di quest'ultimo con Atene nel 390 era
stata preparata da quest'amicizia personale e politica,
che risaliva al tempo in cui Conone era ancora coman-
dante della flotta persiana e, dopo la vittoria navale
di Cnid<1, stava rialzando le Lunghe Mura. Proprio
per consiglio di Evagora, il re dei Persiani aveva nomi-
nato ammiraglio Conone 62). Una situazione del genere
viene a ripetersi con l'episodio di Nicocle. Timoteo e
~icocle si erano forse conosciuti, anche personalmente,
alla scuola d'Isocrate. L'azione del retore, poi, viene
verosimilmente a cadere nel tempo della prima stra-
tegia di Timoteo ed è limitata da una parte dalla morte
di Evagora (374), dall'altra dalla destituzione di Ti-
moteo dal supremo comando (373-2). L'osservazione
che si trova nel Nicock, che la fortuna delle armi era
sempre stata favorevole ad Atene quando un solo uomo
di valore aveva avuto il comando nelle mani, e sempre
contraria sotto comandi collegiali 63), sembra già allu-
dere, pertanto, ai contrasti che si profilavano e che fini-
rono con la caduta del generale ateniese, divenuto
troppo indipendente. Il contegno di Timoteo, infatti,
fu sempre quello del generale politico, tendente a con-
durre il suo paese alla vittoria non meno per via di
successi diplomatici che coi fatti d'armi. È ben nota

•1) Cfr. supra, pp. 148-149.


") Cfr. J. BELOCB, Griechische Geschichte, III, l2 pp. 38 e 89;
su Conone ed Evagora.
88) Nic. 24. La medesima difficoltà di arrivare a decisioni
con un comando esercitato collegialmente era stata sperimentata
da Timoteo durante la sua terza strategia nella guerra sociale.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [m 163] 1499

la sua amicizia coi re, che egli riusci a guadagnare al-


i' alleanza ateniese, e il tentativo di Isocrate, di sfruttare
a fini politici la propria influenza su Nicocle, non sem-
bra, a fil di logica, che un altro anello nella catena di
una tale politica. Del resto, è esplicitamente testimo-
niato il fatto che Isocrate durante la guerra si adoperò
anche in altro modo per la causa di Timoteo, come
sarà confermato dall'Areopagitico, anche nei riguardi
della politica interna 64).
Ritorniamo ora, · dopo aver gettato uno sguardo
sullo sfondo storico del discorso A Nicocle, all'esame
·del suo contenuto. Se i compiti del principe sono cosi
grandi come Isocrate li ha formulati, si deve presu-
mere che i successi del suo governo corrispondano in
tutto alla conformazione spirituale di colui che ne porta
tutto il peso. Non c'è perciò alcun campione atletico
che debba sottoporre il suo corpo a un allenamento
cosi instancabile come quello in cui deve esercitare
il suo spirito il futuro monarca 65). Giacché nessun
premio di vittoria che un agone possa promettere si
può paragonare in importanza alla posta che ogni
giorno è in gioco nell'attività del principe. Gli onori
straordinari di cui gode sono giustificabili soltanto se
egli eccelle sugli altri anche per qualità intellettuali e
morali 66). Un accento quasi socratico risuona nell'esor-
tazione a Nicocle, che gli non debba immaginarsi che
la cura (èmµ.éÀeaot) assidua sia utile solo nelle altre
cose della vita, e non abbia nessun effetto nel miglio-
rare l'uomo, nel rafforzare l'acutezza della. sua ragione 67).
Isocrate, che nel discorso Coniro· i Sofisti aveva pur

"') Cfr. infra pp. 195-196.


Oli) Ad Nic. 10-11.
18 ) Ad Nic. 11. Con ciò è introdotto il problema della paideia.
87 ) Ad Nic. 12. Alla fine di questo paragrafo tmµ.éÀELOt
vale come sinonimo di 7tod8e:uaLç. ·
1500[m164] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

contestato, in aspra polemica con Platone, l'apprendi-


bilità della virtù 68), mostra ora qui chiaramente di
non esser disposto a negare perciò assolutamente l' edu-
cahilità dell'uomo. I due problemi non si identificano
per Isocrate, come appare invece in Platone. Mentre
egli in quel discorso, nel· vivo del contrasto con I'ecces·
siva stima platonica della conoscenza pura, aveva va·
lutato piuttosto mediocremente il peso dell'educazione
in confronto con la disposizione naturale 69 ), ecco che
ora lo troviamo nell'ammonimento a Nicocle, in un
atteggiamento essenzialmente più positivo di fronte
al potere della formazione educativa. Certo, anche qui
egli evita di affermare che si possa insegnare la« areté »,
ma pur consente con l'ottimistico modo di pensare dei
vecchi teorici sofistici dell'educazione, secondo i quali
l'uomo non è stato concepito dalla natura tanto più
infelicemente degli animali irragionevoli, lanima dei
quali si può pure addomesticare 76). Questa mutazione
di accento non importa però in Isocrate una mutazione
sostanziale di. concetti, ma è piuttosto in funzione di
un cambiamento di fronte di battaglia. Teoreticamente
egli è pessimista di fronte al paradosso filosofico della
« apprendihilità della virtù»; praticamente la sua vo-
lontà di educazione rimane intatta. E con particolare
energia egli si dedica al compito che ora gli è apparso
dell'educazione dei principi. Perciò la paideia appare
nel discorso A Nicode come una delle più grandi bene-
fattrici della natura umana 71).
Com~ Teognide nella sua concezione educativa di
nobili, anche Isocrate dà la più grande importanza

88) Soph. 4; 6; 21; similmente Hel. 1.


11) Soph. 14-15.
70) Ad Nic. 12. ·
71) Ad NU:. 12: ~i;.... 'tijt; ncnBeuae(l)ç .... µIXÀLa'ta: Buva:-
µévl)t; 'Òjv. -§iµe'tépa:v <puaiv eùepye'teiv.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRlNCIPE (III 165) 1501

- riattaccandosi evidentemente agli antichi poeti gno-


mici - ai rapporti del principe con gli altri uomini.
Il re deve scegliere dalla cerchia dei suoi più prossimi
soltanto i più intelligenti; altri consiglieri, se è possibile,
se li deve far venire da fuori. È questo un chiaro cenno
di come Isocrate stesso concepisce la propria parte
rispetto al giovane signore. Mentre Platone andò a
Siracusa solo dopo pressanti inviti e preghiere di amici
e del principe stesso, Isocrate s'invita da sé. Subito
dopo però egli generalizza alquanto il suo consiglio
ed esorta il re a circondarsi, insomma, di poeti e di
dotti e di farsi uditore degli uni, scolaro degli altri.
Questo è il « gymnasion », per cui mezzo riuscirà me-
glio a soddisfare le esigenze che il suo alto compito
gl'impone 72). La prima e fondamentale posizione che
Isocrate stabilisce è, qui come nel Nicock, che i peg·
giori non debbono mai dominare sui migliori né gli
stupidi comandare agli intelligenti. Il che significa, nei
rapporti con gli altri, esercitare la critica sui cattivi
e gareggiare coi buoni. La cosa essenziale è tuttavia,
che chi vuole dominare sugli altri applichi a se stesso
quel principio e sia in grado di legittimare il proprio
posto con una superiorità vera 73). Il principio della
legalità, su cui si fonda in primo luogo la forma monar-
chica, non basta dunque a Isocrate per fondare la pre-
tesa alla successione al trono e la signoria sugli altri
uomini. Un tal modo di pensare in termini di puro
diritto pubblico, di cui sono per lo più intimamente
compenetrati i sudditi di stati monarchici, trova scarsa
comprensione presso i Greci. Il loro senso per il diritto
naturale esige sempre la vera areté a fondamento della
supremazia, non si accomoda di istituzioni, col loro

12) Ad Nic. 13. Quali siano queste esigenze vedi in 9, dove


si tratta dell'S:pyov del reggitore,
73) Ad Nic. 14.
1502[lll166] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

automatismo, ma vuole personalità umane. E che ciò


non sia equivalente all'esaltazione della forza desti-
tuità di diritto, lo dimostra proprio in maniera schiac·
ciante l'esempio di Isocrate. Senza dubbio, la mancanza
di guarentigie di diritto per la libertà dei cittadini in
uno stato come quello di Nicocle è un difetto grave
contro il quale la fede nel potere dell'educazione non è
rimedio che basti. Ma rimane pur sempre gran merito
della paideia greca lavere affermato altamente, in
nome della moralità e dell'umanità, la propria esigenza
là dove mancavano diritti e la forza dominava.
Il principe deve riunire nell'animo amore per gli
uomini e amore per lo stato 74): deve essere, per così
dire, Creonte e Antigone ad un tempo. Nel risolvere
questo apparente contrasto Isocrate. vede il primo pro-
blema di ogni forma di governo .. A che approderebbe
la più profonda devozione allo stato, nella sua astrat·
tezza, non sorretta e portata da un empito gioioso e
comprensivo per le creature viventi, che--Son pur la
materia con cui essa ha che fare ? La filantropia è con-
cetto che si afferma sempre più importante nella let·
teratura di quell'età 75). Vediamo dalle iscrizioni qual
valore si assegnava nella ~ta pubblica all'amore per
gli· uomini. Q~esta qualità si trova continuamente men-
zionata nei decreti onorari per uomini emeriti. Ogni

74) Ad Nic .. 15: qitÀav.&p6>n:ov 3e:i: e:!va.t xa.t qitÀ6n:oÀtv. Iso-

crate accoppia Ìe stesse virtù nel descrivere l'ideale del reggi·


tore (da applicare anche alla democrazia ateniese) in Evag. 43
e Paneg. 29.
71 ) Cfr. SIEGFBIED ~ORENZ, .De progressu notJnis q>tÀa.v-
.&p(J)n;(a.i;, Diss., Lipsia 1914. A. BuRK (Die Piidagogik des Iso-
krates, p. 208) fa dprivare il concetto romano di humanitas sol-
tanto dal concetto greco .di filantropia. Su questo punto giudica
più esattamente Gellio, Noct. Att. XIII 17, distinguendo huma-
nitas = filantropia e humanitas = paideia. In Isocrate il con-
cetto di filantropia non ha importanza centrale; il centro del
suo pensiero è il con.tetto di paideia,, e su questo poggia il suo
« umanesimo». Il che. naturalmente non esclude la filàntropia.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [III 167) 1503

servizio reso alla città è realmente fatto segno di onore


soltanto se promana da questa sorgente spirituale.
Isocrate non dimentica però di aggiungere che lo sforzo
diretto al bene del popolo non deve essere fiacca con-
discendenza. Il ·miglior capo del popolo - ed anche
un re deve essere in questo senso un capo del popolo
( 81Jµoc:y<ùyoc;) - è èolui che non permette né che il po-
polo strappi le redini, né che soggiaccia ali' oppres-
sione 76). Questa è la grande arte di Pericle, come
Tucidide la ritrae, e qui si trova la fonte di quella
teoria dell'armonia dei contrari, che Isocrate assume
ogni momento a criterio in questo discorso 77 ). Nel di-
scorso funebre pericleo Tucidide aveva costruito il
quadro della cultura e della costituzione politica ate-
niese, tutto su tali contrasti sapientemente equili-
brati 78). Da quel discorso Isocrate trae anche l'altro
precetto che. solo i migliori debbono aver parte agli
onori, ma anche gli altri d~bbono esser protetti contro
l'ingiustizia. Egli chiama questi due principii, la cui
conciliazione era stata vantata da Pericle come il vero
segreto della democrazia ateniese, gli « elementi» fon-
damentali di ogni buon".l forma politica 79). Tucidide
loda la costituzione ateniese perché non presa a pre-
stito da altri, ma ·creazione originale. Isocrate racco-
manda al re di essere, se lo può, inventore delle istitu-
zioni migliori e, in quanto ciò non sia possibile, di
imitare le buone istituzioni di altri stati 80). Egli dun-
que si conforma alle circostanze, anche qui osservando

H) Ad Nic. 16.
77 ) Thuc. II 65, 8-9. L'espressione d'Isocrate ~~pl~etv rife-
rita ai capricciosi umori del demos è fatta su G~pe~ .&ccpcroùv-
Tccc; di Tucidide; nel rimanente il contrapposto è atteggiato in
Isocrate in modo un ·po' diverso.
78 ) « Paideia » I 684.

TI) Thuc. II 37, 1. Cfr. Ad Nic. 16.


80) Thuc. loc. cit.; cfr. Ad Nic. 17 (in principio).
1504 [ru168] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

però lo stesso principio dell'armonia dei contrari: ori-


ginalità e imitazione sono necessarie tutte e due. L'esi-
genza essenziale gli sembra la creazione di un saldo
ordinamento e di leggi giuste e in armonia tra loro. Si
deve poi fare il possibile per diminuire il numero delle
contef;!e giudiziarie e per affrettarne la soluzione. Non
basta infatti una buona legislazione, in sé e per sé, ma
è altrettanto importante l'uso pratico che se ne fa 81).
L'industriosità deve portare il suo frutto, ma la litigio-
sità deve produrre danno sensibile a chi se ne rende
colpevole; un precetto, questo, in cui si fa sentirel'espe-
rienza degli istituti giudiziari ateniesi, di quella pas-
sione dei processi che essi avevano promosso. Inoltre,
si deve sempre applicare a tutti i casi la stessa misura,
perché l'intendimento e la sentenza di un re in cose di
diritto deve essere ferma e tenace, proprio come lo
sono le buone leggi 82).
Questo ammaestramento del tiranno non mantiene,
nel resto, quel carattere sistematico che dopo un tale
principio e dop_o la dichiarazione di Isocrate, di voler
solo indicare le grandi linee del compito regale, ci si
potrebbe aspettare. Il metodo isocrateo qui ha ancora
un tratto in comune con la gnomica saggezza dei poeti,
di Esiodo, Teognide e Focilide, al cui modello si richiama:
la caratteristica formale di articolarsi in precetti sin-
goli le cui serie si snodano con naturalezza, ma non
sono lo sviluppo di un principio logico rigorosamente
mantenuto! Questa libertà dei tessuto formale non
deve però far pensare che il discorso À Nicocle non sia
altro che ~a filza di precetti di saggezza 83). La serie

11) Ad Nic. 17 (in fine).


81) Ad Nic. 18.
83) Così questo tipo di discorsi è inteso per lo più dai filologi.
Cfr. Buss, Attische Beredsamkeit, II 271, 275. I.a mancanza
di sinteticità nella forma può essere intesa nel suo vero va1ore
11oltanto da chi muova da un'attenta considerazione del conte-
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINOPE [m169] 1505

delle massime non è mai destituita di un intimo legame;


i singoli precetti si ricompongono tutti in un'immagine
ideale del principe, la cui unità consiste nella coerenza
etica, ed è proprio questo il punto in cui si rivela più
forte lo spirito della nuova età. Platone, alla fine de)
Fedro, fa pronunziare da Socrate un giudizio sul gio•
vane Isocrate e gli fa dire che nella sua natura c'è
qualcosa di filosofico. Intendere queste parole come
ironia è fraintenderle del tutto. Esse, nei limiti che esse
stesse chiaramente indicano, colgono assolutamente nel
segno, e la loro verità si sarebbe dovuta imporre da sé
a ogni attento lettore di Isocrate. Nel discorso A Ni-
cocle questo carattere filosofico è visibile nel modo in
cui Isocrate prende ;id uno ad uno i lineamenti della
consueta figfila del monarca e li trasforma a comporre
un nuovo ideale, sicché il concetto del « tiranno» si
muta da personificazione del mero arbitrio, in una per-
sonalità che ha sì tutto il potere, ma è vincolata, nel
volere, a leggi più alte.
Una tale formazione interiore, che dall'impianto com-
plessivo del discorso ci è apparsa esserne il concetto
fondamentale, rivela in tutti i singoli precetti come il
principio attivo della regalità, quale Isocrate la conce-
pisce. È hensi mantenuto il nome di tiranno, ma la na-
tura di questa tirannide è del tutto cambiata. Isocrate
tocca una per una tutte le qualità che costituiscono
l'immagine convenuta e tradizionale del tiranno e, in
proposizioni di sapore epigrammatico, le trasforma e
le assume in un significato suo. Ciò si può dimostrare
con una serie di esempi, che si potrebbero moltipli-
care a piacere. Onora gli dei, egli dice, di cui gli avi
hanno introdotto il culto, ma sii convinto che il sacri-

nuto. Questo è ritenuto dal Blass del tutto privo di originalità.


Ma egli non ha compreso affatto la dialettica interna all'idea
del monarca quale è svolta in questo discorso.
1506[m170] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'EIÀ DI PLATONE

ficio più bello e il modo più efficace di onorare gli dei


è di essere il più buono e giusto possibile 84). La guardia
del corpo più sicura fa' che sia la virtù dei tuoi amici,
la benevolenza dei cittadini e la saggezza del tuo animo.
Considera come cosa che ti riguarda la condizione eco-
nomica dei tuoi sudditi, e pensa che quelli che impiegano
male· il loro denaro, sprecano il tuo, mentre quelli che
lavorano accrescono i tuoi beni 85). Fa' che la tua pa-
rola sia più degna di fede che il giuramento degli altri.
Togli dai cittadini l'incubo del timore; non temano
nulla quelli che nulla fanno di male. Giacché il senti-
mento stesso a cui saprai informare i tuoi sudditi verso
di te sarà quello a cui tu stesso t'informerai di fronte
a loro 88). Non cercar di esser un capo valente con la
durezza e con la gravità delle pene, ma sii tale con la
superiorità dell'intelletto, col convincere l~ gente,. che
tu procuri il loro bene meglio di loro stessi. Sii vero
capo in guerra per scienza militare e per accorta pre-
parazione, ma sii custode di pace e non tentar mai l'ac•
crescimento ingiusto della tua potenza. Il tuo contegno
verso gli stati· più deboli sia quello stesso che tu desi-
deri per te da parte dei più forti S?). Sii amico d'onore,
ma solo in quelle cose in cui essere il primo ti giova.
Stima deboli non quelli che a proprio vantaggio sanno
talvolta prendere qualche svantaggio, ma quelli che
colgono vittorie che poi si risolvono in danno. Non
credere grande chi tende la mano a qualcosa di più
alto di quel che possa raggiungere, ma chi, tendendo
in alto, sappia anche dar compimento a quel che in-
traprende 88). Non prendere per esempio chi possiede

") Ad Nic. 20.


u) Ad Nic. 21.
11) Ad Nic. 22 (al principio); 23.
a') Ad Nic. 24.
88) Ad Nic. 25.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [IJI 171] 1507

il dominio più grande, ma chi meglio sa usare il dominio


che ha 89). Fatti amico non chiunque lo desideri, ma
quelli che son degni del tuo animo. Scegli per questo,
non gli uomini dei quali più ti piace la compagnia,
ma quelli che ti aiutano a regger meglio lo stato. Stu-
dia con cura quelli coi quali ti trovi e sappi che tutti
quelli che non possono accostarti di persona ti giudi-
cano da chi ti sta intorno. Gli uomini da preporre a
quegli ·affari di stato che non puoi curare da te, sceglili
riflettendo che di tutti i loro atti sarai tenuto respon-
sabile 90). Stima fido e leale non chi loda tutto quel che
tu dici o fai, ma chi biasima i tuoi errori. Concedi li-
bertà di parola alla gente di senno, ché avrai cosi chi
ti potrà aiutare là dove tu dubiti 91).
La paideia del principe culmina nell'esigenza della
temperanza o dominio di sé. Non si concilia con l'es-
senza della regalità che chi la detiene sia schiavo delle
proprie passioni. Questo è il punto da cui deve partire
la signoria sugli altri uomini 92). Tutto ciò che di so-
pra si è detto sulla scelta di buone compagnie è fon-
dato alla fine sull'importanza che le relazioni con gli
altri hanno con la formazione di se stesso. Ma anche
l'azione del principe e i compiti che egli stesso si pone
debbono esser valutati in quanto contribuiscono allo
sviluppo del suo carattere. Il criterio vero per giudi-
care la posizione del popolo, di fronte al signore, - per
giudicare, cioè, della areté di lui - non è l'onore che,
per imposizione °'\Paura, gli si rende in pubblico, ma
quel che la gente pensa ·di lui in cuor suo, se insomma
essi ammirano· di più la sua intelligenza o la sua for-

89 ) Ad Nic.
26.
90 ) Ad Nic.
27.
91 ) Ad Nic.
28.
92 ) Ad 29. Questa qualità di libertà interiore del mo-
Nic.
narca, cioè di autodominio è esigenza socratica. Cfr. « Paideia »
II 84-85. La parola socratica enkniteia si trova in Nic. 39.
1508 [m172] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

tuna 93). Ma l'autodominio del principe non è solo im-


portante come segno della sua dignità ma anche come
esempio per i sudditi, poiché il carattere dell'intera
polis si conforma a quello dei reggitori 94). Il concetto
di « esemplare» proprio dell'antica paideia nobiliare
appare qui, come in Platone, su un piano più alto ed è
trasferito al problema dell'educazione dell'intera cit-
tadinanza. Ma mentre Platone ripone il paradigma nel-
1'assoluto, nell'Idea del Bene e con ciò in Dio, misura
di tutte le cose, Isocrate rimane ancora fermo al con-
cetto del modello personale. Egli fa del suo principe
ideale il rappresentante dell'educazione morale del po-
polo, la personificazione visibile dell'ethos dello stato.
Nell'atto in cui pone l'idea della regalità al serviziQ
dell'educazione umana - in quanto questa si realizza
in un singolo stato o popolo - egli tenta anche di infon-
derle una nuova vita; giacché l'idea della paideia è,
per la sua età, lessenza vera della vita, il senso finale
dell'esistenza umana. Tutte le istituzioni, tutti i beni
della vita, religione e venerazione degli dei, stato e
società, individuo e famiglia ricevono legittimità a
misura di quanto contribuiscono a un tale compito
di civiltà. Alla fine Isocrate vede come incarnata di-
nanzi a sé questa sua figura !Ji {lrincipe, e la definisce
come l'armonioso equilibrio di quelle due forze nella
cui unione egli scorge r esigenza più difficile a soddi-
sfarsi del suo codice di educazione principesca: amabi-
lità del carattere e severa dignità. Ciascuna di queste
presa a sé è insufficiente per il principe: ché la dignità
è regale, ma raffredda gli animi; la fine urbanità fa
gradevole il contatto con gli altri, ma porta facilmente
più in basso, al loro livello 95 ).

98) Ad. Nic. 30.


94 ) Ad Nic. 31.
96) Ad Nic. 34. È lo stesso ideale che il poeta romano del-
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [m 173] 1509

Analogo a quello del campo morale è il processo


nel campo dell'intelletto. Anche qui è necessaria la con·
ciliazione di due contrari, che dispiegano tutto il loro
valore formativo di personalità solo in una giusta
colleganza: esperienza e idea filosofica 96). In questa
formula evidentemente Isocrate stringe il concetto della
sua paideia politica, come dimostrano sì le afferma·
zioni degli altri suoi discorsi sulla via che conduce a
una tale cultura, ma soprattutto il suo atteggiamento
e pensiero nella pratica. Egli designa espressamente
l'esperienza come la conoscenza del passato, quella cono-
scenza che, come fecondo esempio storico, continua-
mente si ripropone nella sua dot:trina politica 97). Da
essa Nicocle deve imparare ciò che agli individui e ai
principi « suole avvenire» (auµ7tbt-rov-roc }, cioè a quali
condizioni generali e costanti soggiace la loro vita e
azione. « Studiala (.&e:©pe:~) » dice Isocrate al giovane
monarca, « poiché se porterai in te il pa.ssato nel vivo
ricordo, meglio giudicherai dell'avvenire» 98). Egli ri·
pone dunque la formazione del principe non già, come
Platone, nella conoscenza di alti concetti generali teore-
tici, nella matematica e dialettica, ma sul fondamento
del sapere storico 99). In questo punto per la prima volta
si fa sensibile la diretta influenza della storiografia
sul pensiero politico e sulla cultura generale del tempo.
Anche senza ricordarci dei molti particolari che, come

l'età imperiale, Silio Italico, sintetizza nel verso (Pun. VIII 611):
laeta viro gravitas ac mentis amabile pondus. « Amabile» è il con·
trassegno dell'urbana finezza, ed è proprio il tratto fondamen·
tale nell'ideale del 1tE7t1Xt8e:uµévoc; effigiato nel discorso À Ni-
cocle, l'&a-re:Lov. Il monarca deve unire l'&aTe:iov con la ae:µv6·
nic;.
") Ad Nic. 35.
17) Ad Nic. 35 (in fine).
") Ad Nic. loc. cit.
") L'espressione TIÌ 7t1Xpe:À7JÀu&6Tix µv'1)µove:ue:w, «tenere vivo
nel ricordo il passato», definisce lessenza di· ogni studio storico.
1510 [IiI174] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

abbiamo mostrato, Isocrate deve a Tucidide, a que-


sto punto noi penseremmo prima di tutto a lui e al
nuovo genere da lui creato della storiografia politica.
Questa nuova forma, che nasce nello spirito greco
dalla crisi dello stato ateniese, dall'esperienza del suo
croll~ nella guerra peloponnesiaca, è stata già da noi
valutata, specialmente come prodotto di un nuovo
pensiero politico obbiettivo 100), e, pertanto, come un
essenziale coefficiente, in potenza, della paideia avve-
nire. Certo non fu lo stesso Tucidide l'autore di una
tale« applicazione», o tutt'al più egli si limitò a desi-
gnare la sua storia, nelle grandi linee, fonte di cono-
scenza politica per le future generazioni e la disse
«possesso per sempre» 101). Ora, nella paideia di Iso-
crate, specialmente nel suo programma educativo per
il principe moderno, si scorge, per la prima volta at-
tuato in pieno, l'inserimento di questa nuova grande
potenza intellettuale, della conoscenza storica, nel po-
sto che veramente le compete nel campo dell'educa-
zione umana.
Viene qui a proposito una breve considerazione
della parte avuta dalla storia nell'edificazione della
cultura greca. La paideia di vecchio ·stile, limitata alla
ginnastica e alla musica, non aveva conosciuto un pen-
siero e un sapere storico disinteressato. Certo, il pas-
sato non ne era assente, il passato che è inseparabile
dalla poesia, ma solo nella forma di racconto di fatti
eroici di singoli uomini o del popolo, e la storia non
era ancora chiaramente distinta dal mito 102). Il fine
1 00) Cfr. « Paideia » I 641 ss. tutto il capitolo: « Tucidide
pensatore politico».
1 01 ) Thnc. I 22, 4.
108) Cos'I: già Tl!-cidide, quando audacemente si metteva con
la sua opera per nuove vie, vedeva bene (I 22, 1 e 4) come la
tradizione storica dei tempi più antichi fosse mescolata a fondo
con la poe~a nata dal mito, o con una logografia in prosa imi-
tatrice della poesia e poco preoccupata di verità.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [m175J 1511

di questa ricordanza del passato era l'incitamento al-


l'imitazione di grandi modelli, come ben dice il sofista
Protagora nel dialogo platonico, descrivendo l'educa-
zione ateniese nell'età di Pericle 103). Nemmeno una
parola c'è nella sua descrizione su uno studio della
storia in senso più profondo; né poteva esserci, perché
un tale studio in senso politico allora non esisteva an-
cora. La formazione del filosofo risultava tutta dalla
considerazione delle eterne leggi della natura o della
moralità, e la storia non vi aveva alcuna importanza.
Anche dopo l'apparizione dell'opera tucididea, che ha
luogo nel decennio 390-380, non si muta nel primo mo-
mento questa situazione. Nel piano platonico di un
sistema complessivo di paideia scientifica, mentre tro-
vano considerazione anche le branche più moderne
della matematica, medicina e astronomia, la nuova
grande creazione della storiografia politica passa del
tutto inosservata. Il che potrebbe dar l'impressione
che la vera e propria efficacia di Tucidide fosse da
ricercare esclusivamente in cerchie specialistiche, cioè
presso i suoi isolati imitatori che, in un senso affine
al suo, si mettessero a trattare un altro frammento
di storia. Questo importante problema non è stato fin
qui esaminato con qualche precisione. Ma non si può,
nel toccarlo, trascurare l'altra grande rappresentante
della paideia greca di quel tempo, la retorica. Come
l'efficacia formativa della matematica fu nconosciuta
in pieno - e ciò si capisce - solo nella paideia filoso-
fica, così la nuova forza educativa della conoscenza
storica, che si manifesta nell'opera di Tucidide, trovò
il suo posto nél quadro del sistema educativo retorico.
Questa circostanza doveva essere di grandissima im-
portanza per lo sviluppo della storiografia, giacché

'°') Prot. 325 e-326 a.


1512 (III 176] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

questa venne cosi a cadere nella zona d'influenza della


retorica 1°'}. Qui però, noi ci troviamo di fronte, prima
di tutto, alla prospettiva · inversa, ad osservare cioè
l'influenza ·del modo storico di considerare le vicende
politiche, come Tucidide lo aveva inaugurato, sulla
nuova retorica di Isocrate. Per la quale l'importanza
di quel modo doveva essere tanto più grande quanto
più essa, non più limitata all'addestramento speciali·
stico nell'eloquenza giudiziaria, si proponeva il fine di
educare ai compiti supremi della vita pubblica, di for·
mare reggitori e uomini di stato. Questi avevano bisogno
imprescindibile della scuola dell'esperienza politica 105),
della quale divenne fonte copiosa ed accetta Tucidide,
tanto più accetta perché egli offriva anche parecchi
modelli di quella eloquenza epidittica e deliberativa,
che ora si affermava dominante nella retorica di Iso·
crate. Anche nella più tarda retorica _seguita a vivere
questo interesse per la storia, nella forma del paradigma
storico, con risonanza della sua ·prima origine educa·
tiva e paideutica. Ma in questi tardi tempi la vera elo-
quenza politica è morta, una volta privata del suo ter-
reno di cultura, la città-stato dei greci, e l'uso dell'esem·
pio storico nell'oratoria è ormai puro ornamento senza
vita. Invece nel sistema isocrateo di formazione retorica,
nato ancora sul suolo di reali rapporti politici di grande
stile, trova il suo posto un serio studio della storia 106).
1 °') Inteso ciò, si capisce bene come questa influenza non
potesse limitarsi affatto alla forma retorica ma dovesse estendersi
al motivo più intimo della paideia retopca, cioè alle idee politiche
e alla raffigurazione dell'areté umana e del suo contrario.
106) Isocrate· mette in rilievo nella storia soprattutto questo
lato; essa è per lui la fonte dell'esperienza politica (tµTt'e:LpEot);
efr. Ad Nic. 35. Si veda il mio scritto: The Date of Isocrates' Areo·
pagiticus and the Athenfon Opposition, in « Harvard Classical Stu·
dies» (Special Volume) Cambridge 1941 p. 432. Isocrate rileva
il carattere empirico della sua filosofia politica in Soph. 14-15,
Hel. 5, Àntid. 187; 188; 191; 192. ·
1°') In campo romano si può paragonargli Cicerone e l'uso
che egli fa dell'esempio storico nelle orazioni.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINOPE [m177] 1513

Sull'uso che Isocrate fa dell'esempio storico nell'ar-


gomentazione politica, non si può scendere qui a una
particolareggiata ricerca 107). Neppure possiamo occu-
parci di rintracciare l'influsso delle idee politiche del
retore sulla visione dei fatti storici chiamati a giustifi-
carle; quantunque sarebbe molto attraente fermarsi ad
osservare come ogni riferimento diretto della cono-
scenza storica alla volontà politica porti necessaria-
mente a conformare il quadro della realtà storica se-
condo i desideri dell'espositore. Basti dire che con
l'inserimento della storia nel sistema della paideia iso-
cratea, entrò nella trattazione della storia quella ten-
denza a disputar pro e contro, a lodare o a biasimare,
che in generale è estranea ai suoi rappresentanti più
antichi. La scuola d'Isocrate non solo studia vecchie
opere di storia, ma anche promuove nuove trattazio~
sicché i suoi punti di vista fanno sentire la loro effi-
cacia sulla stessa storiografia, come mostrano le opere
di Eforo e Teopompo, i quali secondo una tradizione
del tutto accettabile uscirono direttamente dalla cer-
chia di Isocrate, e in ogni modo ne subirono l'influenza.
Isocrate ha influito anche ~ulla storiografia locale attica.
Il suo scolaro Androzione, uomo politico ateniese, rie-
laborò la storia del suo paese nel senso degli ideali
politici della scuola, e decisivo fu il peso di Isocrate
- o di lui direttamente o attraverso Androzione -
sulla trattazione peripatetica della storia costituzio-

107 )Cfr. il lavoro, da me suggerito, di GISELA ScBllllTz-


KABLMANN, Das Beispiel der Geschichte im politischen Denken
des Isokrates in« Philologus» Suppl. Bd. 31, Heft 4; Una parte
specialmente ìmportante, dato l'atteggiamento conservatore d'Iso-
crate, del materiale da lui addotto è la storia più antica di
Atene. Domina nelle considerazioni di Isocrate il concetto dei
r.p6yovoL «i nostri avi». Cfr. KARL JosT, Das Beispiel und
Vorbild der Vorfahren bei den attischen Rednern und Geschicht-
schreibern bis Demosthenes (Rhetor. Studien hrsg. von E. Dre-
rup, 19).• Paderbom 1936.
1514 [m178] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nale attica, massima fonte di ogni nostro sapere su que-


sto argomento 108). Questa influenza è in rapporto coi
fini di politica interna connessi col programma politico
isocrateo: se ne parlerà più particolarmente quando si
vexrà ad esaminare l'Areopagitico.
L'ultima parte del discorso A Nicocle è dedicata
da Isocrate, con la_ consapevolezza che gli è propria,
alla questione dell'efficacia di questa nuova forma let-
teraria, di questo « specchio del re». Qui noi scorgiamo
il retore, che ha nel sangue il senso per gli effetti arti-
stici. in vero e proprio dissidio con l'educatore, che in
lui coesiste, al quale importano soltanto le cose. Egli
paragona, se stesso con gli antichi autori di carmi gno-
mici (01to&ljxoct) che tutti lodano come proficui e salu~
tari, ma nessuno legge volentieri 109). Si preferisce la
più disgraziata commedia alle massime scelte dei più
profondi poeti llO). Accade con la letteratura come
con i cibi: non si cerca quel che fa bene, ma quel
che piace. Chi tien conto di ciò farà bene a far come
Omero o i tragici. che, buoni conoscitori della natura
umana, mescolarono dilettose leggende alle parole di
saggezza 111). Appare qui chiaramente il senso di uno
svantaggio grave della nuova arte retorica, posta al
servizio di idee educative, di fronte alla vera e ge-
nuina poesia. I maestri veri nell'attrarre le anime
(« psicagogia ») sono quei vecchi poeti, ai quali si finirà
sempre per rivolgersi dopo avere udito i nuovi maestri,

188) L'influenza della storiografia locale attica (la cosiddetta


Atthls) sulla ricostruzione della storia costituzionale ateniese con-
tenuta nella 'A.S-"l)v"lc.iv n-oltnl" di Aristotele è stata inda-
gata dal WILAMOWITZ (Aristoteles und Athen) e da altri. Ma lo
sfondo politico potrebbe essere ancora oggetto di uno studio più
penetrante (v. il capitolo seguente).
1°•) Ad Nic. 42-43.
110) Ad Nic. 44.
m) Ad Nic. 45; 48·49.
CAP. IV: L'EDUCAZIONE DEL PRINCIPE [ID 179] 1515

perché son più dilettevoli. Essi guidano i cuori col


molle laccio della gioia del bello. I discorsi istruttivi
e ammonitori. invece, non contengono niente di mera-
viglioso, nessuna sorpresa, ma si muovono nel giro
delle cose note; il più abile in essi è colui che meglio
raccoglie quel che è disperso qua e là sulle bocche degli
uomini di tutto il mondo, come fecero Esiodo, Teo-
gnide e Focilide 112). La forma appare qui uno dei più
grandi problemi della paideia. Ciò che aveva dato la
sua vera forza ali' antica poesia, anche nella virtù edu-
cativa che esercitò o volle esercitare, era stata la forma.
Platone e Isocrate, così differenti come sono nell'ideale
della paideia, sono pure tutti e due ugualmente con-
vinti di questo fatto, e perciò il raggiungimento di
una forma nuova è una delle istanze principali della
loro volontà educatrice. La vittoria che più tardi l'edu-
cazione retorica ottenne sulla filosofica, almeno negli
strati più larghi ·della cultura, poggia sulla superiorità
della forma, poiché questa fu sempre per la retorica
in primissimo piano. E, se Platone e Aristotele sep-
pero dare, per letà loro, il primato alla filosofia anche
nel vigore formale, più tardi la filosofia e la scienza ab-
bandonarono la lotta con la retorica in questo campo
e deliberatamente si arresero all'incuria formale, anzi
finirono con l'identificarla con l'atteggiamento scienti-
fico. Ma al tempo dei grandi pensatori ateniesi le cose
andavano ancora altrimenti. Tra le righe del discorso
A Nicocle traspare dappertutto il timore del potere
della filosofia. Ma Isocrate non vuol chiudere su un tono
polemico. Per quanto diverse possano essere le conce-
zioni dei grandi educatori del suo tempo sulla natura
dell'educazione, esse si accordano tutte almeno in que-
sto, che la vera educazione deve far l'uomo capace di

112) Ad Nic. 40-41; 43.


1516 [m180] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

giudicare e di decidere rettamente ll3 ). Perciò si do-


vrebbe rinunziare alla contesa teorica e vedere qual sia
l'educazione che dà eiretto migliore quando l'occasione
venga che la metta alla prova; perché, alla fine, del-
l'attuazione pratica si tratta, come gli stessi filosofi
concedono 114). È questo un vigoroso appello al giovine
re, di dimostrarsi degno dell'insegnamento ricevuto dal
suo maestro, e di rendersi conto che il valore di questo
sarà giudicato dai suoi atti. A lui sono rivolti gli occhi
di tutti, specialmente dei critici di Isocrate; il quale
pensa probabilmente a se stesso, quando alla fine am-
monisce Nicocle così: « Pregia altamente e onora quelli
che hanno ragione e consiglio e sanno guardar più
lontano degli altri, e sii ben certo che un buon consi-
gliere è il più utile, il più regale di tutti i possessi» U&).
Il « poter guardar più lontano» degli altri· - e si al-
lude anche ai politici usuali - è con_cetto che ritorna
anche altrove in Isocrate, come il pregio che egli ri-
vendica per sé. È il fondamento essenziale della sua
autorità.

llll) Ad NU:. SI. I tre generi di cultori della paideia che qui
si enumerano, corrispondono a quelli citati nel discorso Contro
i Sofisti: i due principali sono i filosofi, o eristici, e i maestri di
eloquenza politica; il terzo si identifica evidentemente coi cul-
tori della retorica forense. Cfr. Soph. 19-20.
U4) Ad Nic. 52.
m) Ad Nic. 53,
CAPITOLO QUINTO

AUTORITÀ E LIBERTÀ
IL CONFLITTO NELLA DEMOCRAZIA RADICALE

Gli scritti di Isocrate sulla politica esterna sono


stati sempre, dopo la riscoperta della sua opera di
scrittore politico, nel primo piano dell'attenzione, poi-
ché l'idea panellenica, che in essi si svolge, è stata a
buon diritto apprezzata come il più importante con·
tributo da lui dato alla soluzione del problema vitale
del popolo greco. Ma con ciò si è spesso sorvolato, o
trattato troppo fuggevolmente, un altro aspetto del
suo pensiero politico, la posizione d'Isocrate di fronte
alla configurazione interna dello stato del suo tempo,
che per lui, naturalmente, è prima di tutto lo stato
ateniel!!e. Dal problema éhe il nome stesso di Atene
racchiudeva in sé traggono origine più o meno imme-
diata tutte le discussioni politiche dei decenni succes-
sivi alla guerra peloponnesiaca. Ma mentre Platone si
stacca subito da qualunque forma di stato del pre-
sente 1), Isocrate rimane sempre rivolto, con tutta la
sua attenzione, alla sua patria. Il suo principale scritto
di politica interna è lAreopagitico 11).

1 ) Cfr. quel ch'egli stesso dice in proposito in Ep. VII 326 a,


riferendosi agli anni successivi alla morte di Socrate.
a) L'esposizione seguente si fonda sulla ricerca particolare
intomo al tempo, allo sfondo storico, alla tendenza politica del·
l'Areopagitico che ho pubblicato negli « Harvard Studies in Cl~-
1518[III182] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Ancora la sua ultima opera, il Panatenaico, mostra


da quali vincoli indissolubili la sua esistenza sia stata
legata ai destini d'.A.tene. Anche là quello che lo oc-
cupa è la struttura interna della vita costituzionale
ateniese . .A.i suoi inizi, invece, nel Panegirico, quel che
più gli era stato a cuore era stata naturalmente, in un
periodo di lunga e faticosa ripresa della città dopo la
guerra perduta e il crollo dell'impero, la posizione di
.A.tene di fronte agli altri stati greci. Ma i problemi di
politica estera e di politica interna erano troppo stret-
tamente collegati perché si possa credere che solo tardi
Isocrate abbia rivolto la sua attenzione alla situazione
interna di .A.tene. Meglio sarà dire che il Panegirico
è l'espressione esplicita di un solo aspetto del suo at-
teggiamento di uomo politico. L'aver rivolto lo sguardo,
come egli fece in questo scritto, al momento nazionale
panellenico, doveva servire a· porre in primo piano i
meriti ateniesi nella causa comune di tutti i Greci,
tanto nell'interpretazione della storia antica della città,
quanto nel concepimento del suo compito presente.
Anche il suo modo di trattare la politica interna con-
ferma il primato che nel suo pensiero spetta alla poli-
tica estera, poiché la capacità di azione all'esterno è
il punto di vista da cui Isocrate nell'Areopagitico con-
sidera la democrazia ateniese e la sua situazione attuale.
Il che si scorge chiaramente fin dal punto di partenza
da lui scelto per la sua critica. L'Areopagitico comincia
appunto con uno sguardo d'insieme sulla situazione
esteriore di .A.tene in quel tempo; per questo il problema
della situazione spirituale in cui quel discorso fu pub-
blicato acquista particolare importanza. Isocrate finge,

sical Philology» (Special Volume) Cambridge 1941: The Date


of lsocrates' Àreopagiticus and the Athenian Opposition, citata
qui di seguito come J AEGER. Areopagiticus.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [m 183] 1519

per giustificare la forma dell'orazione pubblica 3), un


momento storico che gli consente di presentarsi al
popolo radunato, come ammonitore, funzione di cui
trovava modelli famosi cosi nella poesia politica di
Solone come nei discorsi dell'opera storica di Tuci·
dide. La maggioranza del popolo e i suoi consiglieri
(cosi egli dipinge la situazione) sono in un momento
di ottimismo; perciò non potranno capire le sue ansie;
vedranno soltanto tutti gli elementi che sembrano ·giu-
stificare un giudizio :fiducioso sulla posizione ateniese
di fronte ali' esterno. Il quadro che Isocrate dipinge,
a rispecchiare un tale stato dell'opinione, richiama in
ogni suo elemento un tempo in cui duri ancora la forza
della cosiddetta seconda lega marittima ateniese, lo
stato di fatto cioè esistente dal tempo del Panegirico.
Atene ha ancora una grande marina, è dominatrice
del mare; i suoi alleati son pronti a venirle in aiuto in
caso di minaccia, o almeno pagano di buona voglia
i tributi per la cassa confederale. Intorno alla terra
attica è pace e, nonché temere assalti da parte dei ne-
mici, sembra piuttosto che ci sia ragion di credere che
siano i nemici di Atene a preoccuparsi della propria
sicurezza 4 ).
A questo quadro rasserenante Isocrate oppone il
suo, di tinte molto meno chiare. Egli prevede che le
sue idee sembreranno sciocchezze, giacché gli elementi
su cui le fonda non sono, in parte, così visibili alla su-
perficie, come le circostanze che gli altri possono ad-
durre. Il primo di questi elementi consiste proprio
nella tendenza generalmente dominante all'ottimistica
fiducia, stato d'animo che porta sempre rischi con sé.
La massa crede di potere, con la potenza attuale di

") Su altri esempi di questo genere di finzione in Isocrate


v. supra, p. 149 n. 16.
') Areop. 1-2.
1520[Ill184] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Atenè, dominar tutta la Grecia, mentre egli teme che


proprio questa apparenza di forza possa facilmente
condurre lo stato sull'orlo del precipizio 5). I pensieri
di Isocrate qui, sono radicati nella visione degli eventi
umani propria della tragedia greca. Egli vede il mondo
politico soggiacere alla stessa legge che domina nella
tragedia, per cui potenza e ricchezza si congiungono
sempre nella vita umana all'accecamento, alla perdita
di ogni freno, e son sempre, a causa di queste forze
che di dentro fermentano, minacciate nella loro con-
sistenza. Per lui gli elementi veramente promotori di
educazione sono povertà e umiltà di stato, perché
producono temperanza e moderazione. Cosi, l'esperienza.
insegna, che il più delle volte la condizione peggiore
chiude in sé il principio di uno slancio verso il meglio,
mentre la felicità facilmente e d'un tratto si converte
nel contrario 6 ). E questa legge vale per Isocrate in
ugual misura per la vita individuale come per gli stati.
Dalla folla di esempi che gli vengono a mente egli cita
solo quelli della storia ateniese e spartana. Dalla di-
struzione al tempo delle g-uer:re persiane Atene si elevò
a egemone della Grecia, perché il timore fece sì che
tutte le sue forze spirituali si volgessero alla meta
della risurrezione. Ma dal culmine della raggiunta po-
tenza la città precipitò di nuovo, nella guerra pelo-
ponnesiaca, e poco mancò che non dovesse soggiacere
alla schiavitù. Gli Spartani avevano dovuto la loro
antica potenza a una dura vita da soldati, e per essa
dai principii del tutto umili e oscuri della loro storia
si erano innalzati a dominatori del Peloponneso. Pure
una tale potenza li indusse a insuperbire e, quando alla
fine avevano raggiunto l'egemonia per terra e per

6) Areop. 3.
6) Areop. 4-5.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [m185] 1521

mare, essi caddero nella stessa sciagura di Atene 7).


Qui l'allusione è alla sconfitta spartana di Leuttra che
aveva fatto la più profonda impressione sul mondo
circostante, non esclusi i fanatici ammiratori di Sparta,
come dimostra il mutamento di apprezzamento e di
tono nei riguardi di questa città, che si nota nella let-
teratura politica del IV sec. Non solo Platone, Seno-
fonte è Aristotele, ma pure Isocrate menziona più
volte la caduta della egemonia spartana nell'Ellade,
e la spiega col fatto che gli Spart 1 ii non hanno saputo
usar saggiamente la potenza raggiunta 8). Su questi
esempi Isocrate fonda la sua teoria politica del cambia-
mento storico (µET~~oÀ-f)) 9). È lecito supporre che que-
sto problema, imposto con nuova urgenza alle menti dei
Greci da un secolo di violente mutazioni, abbia avuto
nella scuola politica isocratea una parte molto mag-
giore di quanto appaia dalle brevi proposizioni del-
!'Areopagitico. Pertanto la scelta degli esempi non è
in esso casuale. Le esperienze a cui questi si richiamano
erano divenute il fondamentale motivo di riflessione
per la generazione d'Isocrate, e anche nel pensiero di
Platone e di Aristotele il problema delle mutazioni po-
litiche è in primo piano, con una continua tendenza
a farsi sempre più presente ed urgente. Di fronte a
esperienze tali Isocrate giudica pura volontà d'illu-
dersi ogni esagerato senso di sicurezza. Evidentemente,
dei due esempi addotti, quello della catastrofe ate-
niese risale molto più indietro nel tempo; anzi il crollo
spartano è espressamente indicato come avvenimento
parallelo al disastro toccato prima ad Atene 10). Con
ciò è escluso che in questa caduta di Atene si possa

7) Areop. 6-7.
8) Phil. 47, De pace 100, Panath. 56 ss.
•) Areop. 5; 8.
10 ) Areop. 7 (in fine).
1522 [rn186] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

ravvisare altro che il crollo dell'impero atenieEe alla


fine della guerra peloponnesiaca. Isocrate ricorda la
rapidità precipitosa di quella catastrofe e la potenza
precèdente dello stato, incomparabilmente più grande
di quella attuale.
Si è invece il più delle volte assegnato lAreopagitico
al tempo successivo della sfortunata guerra sociale (355)
nella quale la rovina della prima confederazione attica
si ripete per la seconda, e quella insperata e rapida
creazione degli anni ·della rinascita, che seguirono al
Panegirico, si dissolve e precipita con altrettanta ra-
pidità 11). Se questo modo di veder la situazione pre-
supposta dall'Areopagitico cogliesse nel segno, la mi-
nuta illustrazione del pericolo nascosto non sarebbe ·a
suo posto; il fatto che proprio la grande potenza porta
in sé il seme della sciagura non avrebbe avuto bisogno
di dimostrazione. Al posto di ammonimenti in previ-
sione di possibili sviluppi ci sarebbe dovuto essere piut-
tosto un esame della catastrofe· già avvenuta, e lo
spunto educativo non si sarebbe potuto trovare nel
terrificante esempio del passato, ma solo nell'espe-
rienza, pur feconda d'ammaestramento, del presente.
La tesi che gli stava a cuore, Isocrate non l'avrebbe
dimostrata con la dissoluzione del primo impero nella
guerra peloponnesiaca, ma egli avrebbe dovuto accen-
nare al crollo della seconda lega. Nella sua caratteriz-
zazione deg)j ottimisti, difficilmente avrebbe potuto
attribuir loro l'idea che dopo tutto Atene disponesse
sempre di una grande potenza finanziaria e militare,
possedesse una grande marina e un bel numero di alle~ti
pronti a soccorrerla, avesse ancora fermo nelle mani il

n) V. la bibliografia sul tempo del discorso nella disserta-


zione di F. KLEINE·PIENING, Quo tempore Isocrati~ orationes
Tie:pl e:!p-fivlJi; et 'Ape:oitocy~nx6c; compositae sint (Diss. Miinster;
Paderborn 1930); cfr. JAEGER, Areopagiticus, p. 411.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [m187] 1523

dominio del mare. I motivi sui quali vuole appoggiarsi la


datazione tarda del. discorso stanno prevalentemente
in alcune allusioni cronologiche, che i dotti hanno cre-
duto di dover riferire alla guerra sociale o al tempo
immediatamente successivo. Ma, per la smania di .iden~
tificare circQstanze singole a cui il discorso allude con
avvenimenti storicamente noti, si è finito col perder
di vista il complesso del discorso e la sua caratteristica,
il che ha poi avuto effetti dannosi anche per l'inter-
pretazione degli avvenimenti singoli 1 2).
Isocrate accenna a vari sintomi che dovrebbero far
da segnale d'allarme. Egli parla dell'odio, della dillì-
denza crescenti degli altri stati greci contro Atene e
la sua confederazione marittima. e delle cattive rela-
zioni della città con la Persia. Son questi i due ele-
menti, così conclude, che hanno già portato alla rovina,
durante la prima confederazione, la nostra potenza 13).
Si suol riferire questa descrizione delle cose alla situa-
zione successiva alla guerra sociale, e indubbiamente
essa le conviene; ma si sorvola sul fatto che in quel
momento la profezia di una ripetizione di una tale vi-
cenda sarebbe stata superflua e che un occhio vigile
poteva già osservare i s~gni di questo odio dei Greci
- tra i quali, in prima linea, son da vedere gli stessi
confederati con Atene - e dell'inimicizia con la Persia.
poteva osservarli anche prima della catastrofe manife-
sta; anzi. che in questa previsione di sciagura sta. nel
pensiero d'Isocrate, il vero merito politico del suo di-·
scorso. La maggior parte delle cose a cui egli allude
sono di natura più tipica che individuale, e sono confor-
mi a parecchie situazioni del settimo e del sesto decennio
del IV sec.; come per es. le incrinature nel blocco dei

lll) Cfr. JAEGER, Areopagiticus, pp. 412 ss., 421.


") Areop. 8-10;. 80-81.
1524(III188] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

confederati e le ripetute minacce del re di Persia 14).


Gli unici fatti più consistenti e caratteristici di cui si
fa menzione riportano piuttosto al momento dello scop-
pio della guerra sociale (35 7) 15) che al periodo posteriore
alla sua fine, la· quale suggellò la dissoluzione ultima
della . lega marittima e con ciò della signoria ateniese
sul mare.
Se queste osservazioni colgono il segno, I'Àreopa·
gitico non è I'atto di liquidazione del fallimento con-
sumato della lega marittima, ma un estremo tenta-
tivo di impedirlo. Questo è il punto di vista dal quale
dobbiamo considerare le proposte di Isocrate di riforme
nella democrazia ateniese. Tutti i pericoli di cui egli
vede pararsi innanzi la minaccia, hanno il germe, se·
condo lui, nella struttura interna dello stato ateniese.
Noi certo abbiamo - questo è all'incirca il suo ragio-
namento - colto grandi successi o per favor di fortuna
o per genio di singoli, ma non abbiamo saputo mai
conservare i beni raggiunti. Sotto la guida di Conone
e soprattutto . di suo figlio Timoteo abbiamo conqui·
stato la signoria di tutta la Grecia, ma ce la siamo subito
giocata di nuovo, non disponendo di un ordinamento
interno che ci consentisse di farla effettivamente và·
lere 16). La costituzione è l'anima dello stato. Essa ha

M) Areop. 9-10; 81. Cfr. JAEGER, Areopagiiicus, p. 416 ss. Al


§ 81 Isocrate dice che Atene è in questo momento odiata dagli altri
Greci, come testimoniano i capi militari, e che il re di Persia ba
scritto lettere minacciose. Questo è uno dei modi soliti in cni
un oratore spiega il motivo che lo ha indotto a prendere la pa•
rola in un dato momento; ma qni la circostanza è inventata per
~ustificare la forma. di orazione che Isocrate dà alle sue idee.
È pure invenzione che egli si rivolga, come dice, a un'assemblea
convocata per discutere la critica situazione, e lo è anche nella
Pace quando giustifica il proprio intervento nell'assemblea par-
lando di ambasciatori venuti di fuori a fare offerte di pace, e
ancora (come dice egli stesso, Antid. 8 e 13) nell'Antidosi, quando
immagina di essere venuto a difendersi da un'accusa capitale.
15) Cfr. JAEGER, Areopagiticus, p. 432 ss.
H) Àreop. 12.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [m 189] 1525

nello stato la stessa importanza che la ragione ha nel-


l'uomo. Ad essa s'informa il carattere degli individui
come dei capi politici, ad essa si adatta la loro azione 17).
Questo concetto lo abbiamo già incontrato nel discorso
A Nicocle 18) e lo troviamo qui ripetuto nel suo aspetto
negativo. Isocrate assume qui come dato di fatto la
concorde opinione di tutti gli Ateniesi di non esser mai
stati amministrati, in regime di democrazia, in maniera
peggiore dell'attuale. Non si sente parlar d'altro in
piazza, nei luoghi dove ci si ferma a conversare e a
discutere. Ma, con tutto ·ciò, non c'è nessuno pronto
a far qualcosa per cambiare la situazione; tutti pre-
feriscono l'attuale forma degenerata di vita politica
alla costituzione creata dagli avi 19).
Questa critica d'Isocrate c'impone di affrontare il
problema della causa di una tale contraddizione. Evi-
dentemente lo stato, in questo tempo, è diventato per
i più dei cittadini, anche per quelli che lo vedono biso-
gnoso di riforme, un comodo mezzo per soddisfare il
proprio egoismo. Lo stato, certo-, impone limitazioni,
ma ad un tempo limita anche l'esuberanza degli im-
pulsi altrui. Si forma cosi una specie di equilibrio de.gli
egoismi, che in definitiva permette a ognuno il soddi-
sfacimento di una quantità sufficiente di desideri indi-
viduali, e che gli diYenta perciò indispensabile. I de-
sideri, per lo più di natura materiale, che si tratta di
soddisfare in questa specie di convivenza, sono evi-
dentemente i veri fattori « di formazione umana» pro-
pri dell'età, come i pensatori politici di ogni tendenza
riconoscono. La paideia, la « formazione dell'uomo»

17) Àreop. 14. Nel tardo Panatenaico, Isocrate trattò ancora


una volta il problema della costituzione ateniese, partendo dalla
stessa idea, che l'anima di uno stato è la sua costituzione.
1 8 ) V. supra, pp. 172-173.
19) Areop. 15.
1526 (III 190] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

in un tempo come questo vien ridotta al compito della


pura educazione, nel senso più limitato. Essa si affatica
a influire dall'esterno sulla realtà senza poter fornire
un contrappeso effettivo alle forze operanti in con-
trario. Appena si propone di raggiungere di più, o deve
rinunziare a formare il popolo nel suo insieme, e ri-
trarsi in angoli morti di scuole e gruppi di iniziati - e
ciò fanno i filosofi - o può solo tentare di agire su sin-
gole persone fornite di potere e - quando si tratti
di stati retti democraticamente - di modificare istitu-
zioni singole dello stato, per informarlo in qualche
modo di sé. Quest'ultimo è il programma educativo
di Isocrate. Di esso la prima possibilità è da lui ten-
tata nel discorso A Nicocle sui doveri del principe;
la seconda nell'Areopagitico.
Qui, partendo dalla convinzione che il punto più do-
lente della politica consiste nel problema di trasformare
gli uomini, si fa il tentativo di attuare questo fine
con una mutazione nell'organizzazione dello stato. Gli
uomini, conclude Isocrate, erano diversi ai tempi di
Solone o di Clistene; l'unico mezzo, dunque, di liberarli
dall'individualismo esagerato è di restaurare la costitu-
zione politica di quel secolo 20). Allora cambieranno,
con l'anima della polis, anche gli individui. Ma questa
bella espressione, che la costituzione sia l'anima della
polis 21), cela in sé un grave problema. Ammesso che
veramente, al tempo degli avi, nel VI sec., essa fosse
stata l'anima della città, o in altri termini, l' espres-
sione spirituale della realtà di vita di quegli uomini,
la forma creantesi dall'interno della -loro vita di co-
munità, era essa tutto ciò anche al tempo d'Isocrate?
Non appare essa invece, persino nel concetto di lui,

• 0) Areop. 16.
SI) Cfr. Areop. 13 e di nuovo Panath. 138.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ (III 191) 1527

come un semplice mezzo, come una mera struttura


giuridica diretta a produrre di nuovo quella forma in-
teriore che era stata guastata da forze nocive ? Cosi
ha luogo un trapasso della formazione umana dal re-
gno della realtà spirituale a quello dell'educazione,
laddove. lo stato si assume con atto di autorità il com-
pito educativo. Con ciò la paideia si fa qualcosa di
meccanico, difetto tanto più appariscente per il con-
trasto tra il modo altamente tecnico col quale Isocrate
la vorrebbe realizzare, e la visione romantica del pas-
sato che per tal mezzo egli s'immagina di richiamare
in vita. Qui appare chiara tutta la differenza di Iso-
crate da Platone, il quale nel suo « ottimo stato» sem-
plifica certo, anche lui, la vita in modo romantico e
sembra volerla riportare indietro, ma nell'impostazione
essenziale rimane realistico, in quanto pone tutto l'ac-
cento sulla effettiva formazione dell'anima. Ogni parti-
colare della Repubblica platonica è volto ad essa. Iso-
crate s'immagina di poterla raggiungere, nella realtà
politica ateniese del suo tempo, semplicemente con la
restituzione dell'Areopago nei suoi diritti. Cosi egliviene
a rendere lo stato, conforme al suo· concetto di paideia,
una semplice autorità di sorveglianza.
È istruttivo vedere, come il quadro ideale del pas-
sato che Isocrate abbozza, per caratterizzare l'educa-
zione a cui si deve mirare, diventi senza che egli se
ne accorga un idillico sogno, in cui scompaiono tutte
le sofferenze del presente· e tutti i problemi sono risolti.
Questo singolar modo di trattare la storia si comincia
a capire solo quando ogni lode che venga tributata al
passato sia intesa come negazione di un male corri-
spondente del presente. La forma democratica radi-
cale dell'Atene del IV 8ec. costituiva per vaste cerchie
di osservatori critici un problema insolubile: il pro-
blema del potere della massa, chiaramente enunciafo
1528 [III 192) LIBRO N - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nell'Areopagitico e in altri discorsi d'Isocrate con tutti


i suoi fenomeni secondari: demagogia, sfrenatezza di
denunziatori, arbitrio e tirannide della maggioranza
contro una minoranza di superiore cultura ecc. Al tempo
dei padri della democrazia ateniese, Solone e Clistene,
non ancora sfrenatezza valeva per democrazia, illega-
lità per libertà, licenza di parola per uguaglianza, li-
cenza nell'agire per bene supremo, ma si punivano gli
uomini di questa sorta e si volevano far migliori i cit-
tadini 22). Si mirava a un'eguaglianza, che non era la
meccanica uguaglianza di tutti, ma leguaglianza propor-
zionale, che dà a ciascuno quel che gli compete 23).
Anche le procedure elettorali non erano ancora mecca-
nizzate col ricorso al sorteggio, che sostituisce il puro
caso al giudizio di valore. Invece dell'elezione diretta
dl(i magistrati da tutta la popolazione, si praticava
ancora l'elezione di secondo grado da un gruppo pre-
cedentemente eletto di uomini verament..; capaci 2!l).

") Per Isocrate, Areop. 20, è «la polis», cioè il complesso


sociale, quello che corrompe il pensiero e la parola dei cittadini
con la totale perversione di ogni valore. Per indicare questa in-
fluenza che dovrebb'essere formativa ed è deformante egli ado-
pra il termine mn8euew. Ciò dimostra in Isocrate la consa-
pevolezza piena di come le forze veramente formatrici non si
<lovessero cercare nei programmi educativi di questo o quel mae-
stro, ma nel cumplesso della società e nello spirito del tempo.
In un'epoca in cui la « forma» spirituale della società si va dis-
solvendo la paideia esiste ancora, ma solo in senso negativo, nel
senso di corruzione che dall'insieme dell'organismo trapassa a
<Jgni membro. Con tratti simili Isocrate descrive quella« paideia »
negativa che nasce dalla brama di potenza (Mvo:µ.:ç) della
città e trasforma lo spirito della polis (De pace 77). La consa-
pevolezza di tutto ciò dové radicare in lni il senso della inef-
ficienza di una educazione che rimanga isolata nella società. Ma
in ogni modo è un tratto caratteristico di questa età il fatto che
paideia in senso positivo non era più possibile, se non nella forma
di una consapevole reazione di uomini singoli alle tendenze ge-
nerali.
23 ) Areop. 21.
24 ) Areop. 22. Questo tipo di elezione si diceva 7tpo:x.plvew

o o:tpeicr-&ett Èx 7tpoxph<ilv.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [m193] 1529

La parola d'ordine era ancora« lavoro e risparmio»,


né si trascurava il buon ordine di casa propria per ar·
ricchirsi dei beni altrui. Non era ancora costume che il
popolo si nutrisse dei proventi pubblici, anzi si faceva
sacrificio alla comunità dei propri beni 25). Esser cit-
tadino non significava ancora un affare, ma era un'ob·
bligazione 26). E perché questo elogio del predominio
dei notabili non dia suono antidemocratico, Isocrate
aggiunge che il popolo a quel tempo era ancora il pa•
drone, e assegnava le cariche, scegliendosi i suoi pub-
blici servitori ·dal ceto dei possidenti, da quelli cioè che
avevano per questo il necessario ozio 27), sicché la ca·
pacità negli affari era più valido motivo di elezione
del capriccio della sorte o di considerazioni di par·
tito 28).
Questa serie di sentenze può apparire come una
specie di programma della minoranza possidente e con·
servatrice ateniese al tempo della sconfitta della se-
conda lega marittima. La critica che le informa ci è
Ii.ota principalmente dagli atti e discorsi di quella op·
posizione che andò al potere dopo il disastro della
guerra sociale. Fu allora il ricco finanziere Eubulo, che
mise termine, col suo sistema fiscale, allo sgoverno
economico dei demagoghi dell'ultimo decennio e si gua-

26 ) Areop. 24. È interessante che lo stesso motto « lavoro

e risparmio» - si tratta evidentemente di un vero e proprio


slogan della lotta politica del IV sec. - si ritrovi in Platone, Resp.
553 c, per caratterizzare il tipo dell'uomo oligarchico. È diffi·
cile che Isocrate abbia preso consapevolmente i colori per la sua
immagine ideale da una tale caricatura; e la sua coincidenza
con Platone su questo punto è perciò tanto più istruttiva. Sulla
simpatia d'Isocrate per le idee politiche del ceto possidente v. il
seguito del capitolo.
26 ) Areop. 25.
27 ) Àreop. 26.
26 ) Areop. 27; cfr. le parole Toùç. ••• 8uvcx"l."c.>"1."iX"l."ouç è7tl TIÌç

trp&!;e:tç xcx.3-tcr"l."&cr71ç che si riferiscono al periodo migliore della


democrazia ateniese, opponendolo ai pessimi costumi del pre-
sente.
1530 [III 194] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

dagnò per lungo tempo la fiducia della maggioranza


popolare. La massima « lavoro e risparmio» esprime
egregiamente questa tendenza, e il biasimo per la li-
cenza del governo di massa e della demagogia deve
derivare dalle stesse cerchie abbienti che avevano do-
vuto pagare i conti per la politica di guerra dei dema-
goghi radicali, senza riuscire con questo a salvare il
paese dalla decadenza 29). Più di una volta Isocrate fa
capire, specialmente nei discorsi di quel periodo di
dissoluzione della lega marittima, che la causa della
minoranza abbiente gli sta molto a cuore 30). Si esprime,
è vero, con ogni dovuta cautela, ma è pur sempre que-
sta la classe che egli protegge contro gli assalti dei de-
magoghi. Egli biasima il sospetto che la avvolge, come
di nemica del popolo, non ostante che essa abbia fatto
per il popolo molto più della maggior parte degli schia-
mazzatori 31). Contro un tale sospetto egli crede neces-
sario di difendere anche se stesso, doppiamente neces-
sario in un momento in cui avanza la proposta impo-
polare di restituire all'Areopago più ampi diritti 32).
La restaurazione dell'autorità di questa corte suprema
di giustizia, anche e prima di tutto nella sorveglianza
dei costumi dei cittadini, era da tempo un punto fermo
nel programma del partito conservatore; .essa viene
ora a costituire come la pietra angolare nell'immagine
del periodo classico della democrazia ateniese, che Iso-
crate costruisce in questo scritto 33).
Isocrate, certo, non ricorre espressamente al motto
del« ritorno alla costituzione dei padri» (7ta:rpLoç 7tOÀL·
-re(<X) di cui si era fatto cosi grande uso nella fase più

29 )Cfr. il mio Demosthenes, trad. it. pp. 71 e 92 s.


80) I passi sono citati in JAEGER, Areopagiticua. p. 449.
81) De pace 13; 133.
32 ) Areop. 56-59.
88) Cfr. JAEGER, Areopagiticus, p. 442 SII.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [rn 195] 1531

tarda della guerra peloponnesiaca durante le lotte co-


stituzionali di Atene, ma, nel fatto,. la sua retrospet-
tiva esaltazione della democrazia di Solone e di Cli-
stene coincide in larga: misura col programma che quel
motto aveva additato. Principale rappresentante ne era
stato, durante la guerra peloponnesiaca e la « tiran-
nide» dei Trenta, Teramene, il capo del partito dei
democratici moderati. È tramandato da Aristotele nella
Costituzione di Atene, che uno dei primi atti dei Trenta,
nell'anno 403, dopo la conquista del potere, era stato
l'abrogazione delle leggi, con le quali, sotto Pericle,
si erano radicalmente limitate le attribuzioni dell'Areo-
pago, e l'influenza dominante di questo corpo era stata
definitivamente infranta 34). La restaurazione dell'Areo-
pago ebbe luogo nel primo tempo dei Trenta, nel quale
Teramene e l'ala moderata del partito conservatore
determinavano ancora la politica. Poi la caduta dei
Trenta portò naturalmente labrogazione di tali mi-
sure legislative, e non valse neppure che il padre del
motto« costituzione dei padri», Teramene, fosse stato
messo a morte da Crizia e dagli oligarchi radicali,
a render più accetto alla restamata democrazia del
periodo successivo quel gruppo moderato con la sua
eredità spirituale. Si spiega perciò che Isocrate, per
non urtare nessuno, o eviti o accenni in perifrasi quel
motto della « costituzione dei padri». Ma è. altrettanto
chiaro che egli si riallaccia al programma di Teramene,
che anche dopo la restaurazione democratica in Atene
deve avere avuto ancora aderenti. Ed è una gradita
conferma di questa ipotesi, che si presenta naturale di
fronte all'accordo dell'opuscolo isocrateo sull'Areopago
con le idee di Teramene, il fatto che l'antica biografia

84) Arist. 'A&7Jva:t<llv noÀ~Te:ta: c. 35. 2. Cfr. c. 25. 1-2, e


WILAMOWITZ, Arisioteles und Athen, I 68, 40.
1532 [rn196] LIBRO IV - IDEAU DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nomina anche l'uomo politico Teramene fra i maestri


d'Isocrate, accanto a Gorgia e ai Sofisti 35).
La continuità dei concetti politici è dunque, in que-
sto caso, un fatto innegabile, riconosciuto il quale è
cosa facile andarne in traccia più oltre, al di là del
discorso isocrateo sull'Areopago, tanto nella storia co-
stituzionale di Atene, quanto nella letteratura teo-
rico-politica. Per ciò diventa inverosimile il pensare
alla proposta isocratea di restaurazione dell'Areopago,
come ali' opuscolo di un uomo isolato che in momenti
critici si riattacchi ai· vecchi piani di riforma costitu-
zionale, dei tempi della guerra peloponnesiaca. Tutto
l'atteggiamento d'Isocrate di fronte al demagogismo
e radicalismo di quegli anni rende certo, piuttosto,
che egli fu in contatto stretto, nella politica interna
non meno che nella politica estera, con quei gruppi di
cui rappresenta pugnacemente le idee. Come vedemmo,
tutta la fortuna e potenza di Atene appaiono in questo
discorso legate alla personalità di Timoteo, alla sua
azione di capo della seconda lega marittima 38). L'in-
felicità, la rovina eran giunte, secondo Isocrate, dopo
la deposizione dalla carica di questo grand'uomo, al
cui servizio egli pose tenacemente la sua penna 37), per
il quale anche dopo la morte, non ostante la definitiva
deposizione e condanna, egli entrò coraggiosamente
in campo 38). Se è giusta la nostra datazione dell'Areo-
pagitico, al momento critico dello scoppio della guerra
sociale, la situazione allora era tale da rendere quasi
impossibile il supporre, che Isocrate, in una questione
cosi importante di politica interna, sia andato avanti

11) Dionys. HaL De Isocr. l; Ps.-Plut. 11it. X or. 836 1; Suda


11. v. 'Iaoxpci-r'l')ç.
18 ) Àreop. 12.
•7) Cfr. Ps.-Plut. vit. X or. 837 c.
18 ) Cfr. infra, p. 236 H.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [Ill 197] 1533

da solo, senza assicurarsi il consenso del suo grande


scolaro, che allora viveva in ritiro, vicinissimo a lui,
in Atene, e necessariamente guardava con sdegno sem-
pre maggiore il lavorio dei suoi successori radicali 39).
Il suo parere, senza dubbio, fu quello d'Isocrate; cioè
che i nuovi governanti avessero in poco tempo distrutto
tutto quello che egli aveva edificato con fatica 40), e
il suo improvviso ritorno nella politica e nella condotta
della guerra quando la crisi della lega marittima scop-
piò, dimostra che egli aveva aspettato, ancora una
volta, la sua ora. Soprattutto, poi, i motivi addotti
da Isocrate della necessità di una riforma costituzio·
nale ci riportano, con I'.accenno al valore di politica
estera di quella riforma, a un punto di vista che Timo-
teo doveva condividere più di ogni altro, perché egli
si occupava soltanto dell'affermazione della potenza
ateniese in Grecia, e lasciava ai capi politici della massa
gli affari interni.
Non si può dunque sfuggire alla conclusione che
Isocrate, a.nche nell' Areopagi,tico, parla in nome di un
gruppo poÌltico realmente esistente, che nell'ora del
pericolo fa un tentativo estremo di riacquistare in·
fluenza sul destino di Atene, quando gli avversari
hanno condotto lo stato sull'orlo dell'abisso. È noto che
il tentativo falli, che la minaccia incombente del disfaci·
mento della lega marittima non poté essere sviata. Il
profondo contrasto politico che ci si svela nel discorso
d'Isocrate non si poté conciliare neppure con la chia·

") Cfr. JAEGER, Areopagiticus, p. 442.


'") t; indicativo di una tale conformità di vedute tra mae•
stro e scolaro il fatto che Isocrate abbia creduto necessario, pochi
anni dopo, nell'Antidosi (131) composta dopo la morte di Timo-
teo, di difendere anche lui dalla stessa accusa da cui difende se
stesso e le proprie proposte di riforma costituzionale (Areop. 57),
dall'accusa, cioè, di essere nemico de] popolo e di sentimenti oli-
garchici.
1534 (III 198) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

mata di Timoteo a partecipare al comando della flotta,


.anzi .l'incrinatura appare sempre più aperta perfino
nella condotta della guerra degli anni successivi. Iso-
crate stesso ci dice che le sue idee di revisione costitu-
zionale non erano affatto nuove nella sua mente, quando
si risols~ a farsene sostenitore in pubblico. Le aveva
anzi più volte illustrate tra gli amici, ma era sempre
stato messo in guardia dall'esporle per iscritto, perché
si sarebbe attirato con ciò il rimprovero di sentimenti
antidemocratici '1). Da ciò è lecito dedurre, che non
si tratta, con questa sua proposta, di una manifesta-
zione occasionale, ma di una parte costitntiva della
paideia politica della scu~la isocratea. Il che getta
luce più chiara anche sulle relazioni ·con Timoteo e
concorda con quel che si è detto dell'origine di tali
idee dalla cerchia di Teramene, da un'epoca, cioè,
molto anteriore 42 ). Isocrate, già uomo fatto, deve aver
partecipato vivamente, nel suo animo, alle lotte di
opinioni dell'ultimo periodo della guerra peloponne-
siaca, anche se si tenne lontano da ogni attività effet-
tivamente politica: contegno simile a quello di Platone
negli stessi anni, il che rende ancor più verosimile la
cosa 43).

U) Su tali colloqui con esponenti di qilesto gruppo politico


ci consente di gettare uno sguardo l'Areop. 56-59. S'iiitende che
di fronte alle voci di qlielli che sconsigliavano la pubblicazione,
ritenendo insanabile la situazione interna di Atene e troppo pe-
ricolosa l'inimicizia dei capi radicali contro i moderati, altre se
ne levarono iii senso favorevole; altrimenti molto difficilmente il
pmdente Isocrate si sarebbe risolto a pubblicare il discorso. Per
qualche altro esempio della sua abitudine di ÌJ:ltrattenersi con
gruppi di amici sui suoi discorsi prima di pubblicarli v. infra,
p. 241 n. 69.
") Qualcosa di simile apprendiamo dalla Lettera (VII di
Platone (326 a), e cioè che l'autore aveva concepito e s<ktenuto
in colloqui le idee pubblicate più tardi nella Repubblica, 'già da
qualche decennio prima del primo viaggio iii Sicilia. Cfr. « Paideia»
II 165-166.
43) Cfr. PI. Ep. VII 325 a ss.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [rn 199] 1535

Ora che si vede più chiaro lo sfondo politico del-


!'Areopagitico, non solo s'intende quel singolar senso
di attualità che anima tutta la descrizione isocratea
dei « tempi migliori» della democrazia ateniese, ma
si scorge in quella pittura del passato u,na quantità di
dirette allusioni al presente. Il quadro ha, nelle inten-
zioni di Isocrate, valore educativo, di modello. Si leg-
gano per es. da questo punto di vista accanto ai passi,
di cui si è parlato di sopra, relativi alla vita pubblica,
quelli sulle feste religiose, sul modo di trattare, in an-
tico e ora, le questioni sul culto degli dei 44) e si vedrà
in ogni parola un'aspra accusa all'inciviltà presente.
Nella pratica attuale del culto, Isocrate biasima l'ir-
regolarità capricciosa, l'incostanza, l'oscillare tra due
estremi ugualmente viziosi. Ora gli Ateniesi fanno in
gran pompa 'offerte di trecento buoi, ora lasciano ca-
dere in disuso feste antiche, tramandate dai padri.
Le feste aggiunte, straordinarie, sono celebrate con
magnificenza, tanto più quando si congiungono con
grandi banchetti popolari, ·mentre nelle feste più sacre,
ci si contenta di sacrifici 'fatti da appaltatori. Il tempo
antico non conosceva quella frivola leggerezza con cui
oggi si abbandonano i riti consacrati dalla tradizione
o se ne introducono dei nuovi. Per quegli antichi la
religione non consisteva, secondo Isocrate, in un'osten-
tazione di vano lusso, ma nel sacro, angoscioso timore
di mutar qualcosa nella tradizione degli avi 45).
Viene a proposito a questo punto ricordare come
in una nuova forma letteraria venuta in fiore in questo
tempo, la « cronaca attica» o Atthis, si fosse dedicato
uno studio attento, a giudicare dai frammenti che ce
ne rimangono, agli argomenti del culto, all'origine e al

") Areop. 29.


'") Areop. 30.
1536 [m200] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

rituale di tutte le feste e usi sacri. Un tale interesse ri-


volto al passato trova analogia nella storia romana,
nelle Antiquitates rerum humanarum et divinarum di
V arrone, poderosa opera di erudizione storica e teo-
logica, che nasce da una situazione simile, nell'in-
timo, a quella dell'età isocratea. Nella scuola d'Iso-
crate deve esserci stata una comprensione nuova anche
per questo lato del passato storico. Per poter scrivere
frasi come quelle che abbiamo citato, egli doveva avere
studiato con qualche precisione gli usi sacrificali e le
feste della antica Atene, se pure è ver·o che in uno
scrittore come lui non possiamo aspettarci che rapide
generalizzazioni. Della nuova forma dell' Atthis esiste-
vano già gl'inizi quando egli scriveva; d'altro canto
non si sbaglierà a supporre che uno scolaro d'Isocrate,
Androzione, sia stato stimolato a comporre la sua
Atthis dall'interesse del maestro per questi soggetti,
come dal suo studio delle vicende politiche del passato
ateniese. Non si può trascurare il fatto che il convinto
conservatorismo religioso, manifestantesi nelle critiche
dell'Areopagitico al decadere delle feste e del culto
divino, è legato inseparabilmente al conservatorismo
politico proteso all'ideale della« costituzione dei padri».
Speciale attenzione concede l'autore al problema
sociale nel passato, giacché doveva aspettarsi l'obbie-
zione che, se il quadro aveva delle ombre, queste sta-
vano proprio nei rapporti tra ricchi e poveri, umili
e potenti. Isocrate non la pensa così; anzi scorge in
quel tempo il momento della perfetta salute del corpo
sociale. Non esisteva allora l'invidia dei poveri contro
la classe abbiente, ma i nullatenenti partecipavano
alla fortuna degli altri, e ritenevano, a ragione, la ric-
chezza di quelli, fonte della propria sussistenza. I ricchi
non disprezzavano i poveri; anzi, consideravano pro-
pria vergogna la loro miseria, e li aiutavano nel bisogno
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [III 201] 1537

procurando loro il lavoro 48). Un tale quadro, certo, in


confronto con la descrizione contemporanea di Solone47),
appare nettamente idealizzante, se anche è lecito pen-
sare che ci siano stati tempi in cui uno stato d'animo
fra ricchi e poveri come quello qui descritto si sia po-
tuto riscontrare un po' più frequentemente che al tempo
d'Isocrate. Vien da pensare, in qualche modo, al tempo
di Cimone, ali' atteggiamento sociale di lui, ancora ispi-
rato da idee patriarcali 48). Finché ci fu in Atene una
nobiltà proprietaria di questo tipo, simili rapporti so-
ciali sono più pensabili che in un periodo di industria-
lizzazione, di capitali in aumento, come di crescente
povertà. Non si accumulava allora, pensa Isocrate, per
fare grandi patrimoni, ma il denaro s'investiva e nes-
suno pensava che l'investirlo fosse sempre pericolosa
avventura. C'era negli affari fiducia scanibievole e la
sicurezza nei rapporti economici era stimata di gran
peso, tanto per i poveri come per i padroni di gr.>sse
sostanze. Non si pensava a nascondere al pubblico la
propria sostanza, ma la si metteva a profitto, convinti
che ciò non solo sarebbe stato vantaggioso all'econo-
mia della città, ma avrebbe anche dato incremento ai
patrimoni privati 49).
La causa di una situazione così sana, Isocrate non
la ravvisa in qualche condizione esteriore, ma nell'edu-
cazione dei cittadini 50 ). È qui il punto d'introduzione
del suo concetto fondamentale, la necessità di un Areo-
pago forte. Ché egli considera questa istituzione dal
punto di vista della virtù educativa e non da quello

' 6) Areop. 31-32.


47 ) V. soprattutto il grande carme giambico fr. 24 •
.. ) Cfr. Plut. Cimon c. 10.
49 ) Areop. 33-35.
60 ) Areop. 36-37.
1538 (III202) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

propriamente giuridico. L'errore del sistema attuale


sta nel fatto, che in Atene ormai la paideia si limita,
letteralmente, al pais, all'età giovanile 61). Per ragazzi
e giovani esistono parecchie qualità di sorveglianti;
ma, raggiunta l'età virile, ognuno può fare o non fare
quel che gli pare. Nel passato invece si dedicavano agli
adulti cure anche più attente che ai ragazzi. Era questo
il significato di quella disposizione per cui all'Areopago
spettava di vegliare al buon contegno (e:ùxoaµ(cx) della
cittadinanza. A far parte di quel tribunale potevano
accedere solo persone di ottima nascita e che aves-
sero dato prova di carattere irreprensibile. Questo
criterio di selezione faceva dell'Areopago il consesso
più insigne tra quelli dello stesso genere in tutta la
Grecia 52). Ed anche ora, pur essendo perdute da al-
lora molte delle sue prerogative politiche, I' autorità
morale del consesso è così grande che ognuno, quando
abbia con esso rapporto, anche il più malvagio, si
sente piegato al rispetto 53). Su questa autorità morale
vorrebbe Isocrate edificare di nuovo l'educazione dei
cittadini.
Il punto di cui propriamente si tratta per lui è
che le buone leggi non sono di per sé capaci di mi-
gliorare lo stato e i cittadini: altrimenti sarebbe facile
trasferire in tutti gli altri stati, con la lettera delle
leggi, lo spirito di uno di essi 54). In realtà questa specie
di imprestiti dalla legislazione di altri stati era in

61 ) Areop. 37. Dall'età dei Sofisti in poi tutti i principali rap-

presentanti della paideia, e soprattutto Platone e Isocrate, erano


stati d'accordo nel credere che la paideia, in quanto cultura,
formazione dell'anima umana, non doveva essere limitata al-
l'istruzione scolastica. E qui sta appunto la differenza della pai-
deia greca, ideale assoluto, dai sistemi educativi delle altre na-
zioni.
62 ) Àreop. 37.
63 ) Àreop. 38.

"') Àreop. 39.


CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [I!I203] 1539

Grecia cosa comune, e Ì'elaborazione di leggi, fatta dai


filosofi, o per uno stato determinato o per il miglio-
ramento dello stato in generale, poggia sullo stesso
senso di alto valore dato a buone ed esatte prescrizioni
legali. Ma, come abbiamo visto, già Platone è compe-
netrato dal convincimento che le leggi come tali non
fanno profitto, se lo spirito, « 1' ethos», dello stato non
è buono 55 ). Giacché l'ethos individuale di una comu-
nità, che determina leducazione dei cittadini, forma
il carattere di ogni singolo secondo il proprio modello.
Importa dunque, per ciò, di ispirare alla città un ethos
buono, molto più che munirla di una quantità sempre
crescente di leggi speciali per ogni momento della
vita 58). Si. era confortato tutto ciò con l'osservazione
di Sparta, dove la condotta dei cittadini era buona, e
molto modesto il numero delle leggi scritte. Platone,
nel suo « stato perfetto» aveva creduto di poter ri-
nunziare completamente a una legislazione speciale,
nel presupposto che in un tale stato leducazione avrebbe
attuato da sé, mercé la libera volontà dei cittadini,
quello che negli altri stati la legge cerca invano di ot-
tenere con la costrizione 5~). Questo elemento era preso
dalle condizioni di Sparta, come allora apparivano e
come le descrivono i contemporanei, sopra tutto Seno-
fonte. Isocrate invece non si rifà al modello spartano,
.ma preferisce ravvisare questo stato ideale nell'antica
Atene in cui un forte Areopago esercitava ancora la
sorveglianza sulla vita dei cittadini e specialmente
della gioventù 58).
Isocrate descrive i giovani Ateniesi del suo tempo

u) Cfr. e Paideia » II 41 O.
18) Areop. 39-40.
••) Plat. Resp. 426 e-427 a.
18) Areop. 41-42.
1540 [rn204] LIBRO IV-IDEALI DI CULTURA NELL'EfÀ DI PLATONE

come estremamente bisognosi di educazione 59). Que-


sta età, che è quella della torbidezza spirituale, piena
di desideri d'ogni genere, vuole essere educata con
l'esercizio di attività buone, che siano a un tempo di
sforzo e di soddisfazione, le sole che alla lunga possano
legare la gioventù 00). Ma qui è necessaria una diffe-
renziazione di attività che tenga conto delle situazioni
sociali dei giovani. Queste essendo differenti n- n può
esser lo stesso neppure il cammino educativo. Per Iso-
crate è imprescindibile il conformare la paideia ai mezzi
economici di cui ciascuno dispone 81). Questo punto
di vista ha avuto una certa importanza nelle teorie
educative dei Greci, finché fu sentita l'esigenza di un'edu-
cazione superiore. Lo abbiamo già trovato in Prota-
gora, che nel dialogo platonico fa dipendere la durata
dell'istruzione dai mezzi dei genitori 82), e lo si ritrova
ancora nello scritto« plutarcheo » sulla educazione, che,
del resto, mette a· profitto fonti più antiche, per noi
perdute 83). Esso è rifiutato soltanto nella Repubblica
platonica, dove tutta l'educazione superiore è cosa di
stato, impartita a una élite di giovani sotto rigida sor-
veglianza statale. Si capisce dal punto di vista poli-
tico di Isocrate, che un tale pensiero gli sia del tutto
alieno. Un'educazione di stato dové parere a lui esi-

61) Che egli pensi questo dei giovani del suo tempo si de-
duce già dal fatto che, come si è visto, la sua descrizione idea-
lizzante dell'antica Atene è tutta concepita come contrapposi-
zione al presente. Ma v. anche Areop. 48-49 e 50.
80) Areop. 43.
11 ) Areop. 44.
89 ) PI. Prot. 326 c.
") Ps.-Plut. De liberis educandis 8 e. L'autore sarebbe ben
contento di giovare a tutte le classi coi suoi consigli per una buona
educazione; ma se la povertà impedirà a mo~ti di farne uso -
egli dice - questo non dovrà essere imputato a colpa della sua
pedagogia. Ragionamenti analoghi si trovano nella letteratura
medica S'lllla dieta, nella quale spesso ci si rivolge solo ai bene-
stanti; cfr. supra, p. 74.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [m205] 1541

genza del tutto campata in aria di un radicalismo pe-


dagogico, che in realtà non sarebbe valso alla forma-
zione di una élite spirituale, ma avrebbe rincalzato
il livellamento meccanico delle differenze sociali. In
queste Isocrate vede qualcosa di naturalmente dato,
di insopprimibile. Egli desidera l'alleviamento delle pene
e durezze di vita non necessarie, non mai r elimina-
zione delle differenze economiche. Lo scopo dell'educa-
zione sta per lui al di là di tali differenze. « I nostri
maggiori», egli dice, «prescrissero per ricchi e poveri
un modo di educazione conforme alla condizione so-
ciale di ciascuno. Rivolsero i più poveri all'agricoltura
e mercatura, ben sapendo che dall'inattività nasce la
povertà e dalla povertà il mal fare. Credettero dunque,
tolto il principio dei mali, di poter anche allontanare i
delitti e i falli che ne derivano. Ai possidenti imposero
di esercitarsi a cavalcare, alla ginnastica, alla caccia e
alla cultura dello spirito (q:nÀocroqi(ocv), ben vedendo che
con ciò avrebbero reso gli uni, uomini capaci, e avreb-
bero almeno trattenuto gli altri dal mal fare» 64). La
cultura dello spirito messa sullo stesso piano con le
varie forme di sport è tratto caratteristico di quella
concezione della paideia come giuoco elevato, che Iso-
crate ha in comune con laristocratico Callicle del
Gorgia platonico. Era questo il punto di vista da cui
una certa classe sociale meglio poteva affacciarsi agli
interessi intellettuali della nuova età e acquistarne il
gusto. E Isocrate non si fa scrupolo di parlar chiaro
su questo punto a una larga cerchia di lettori.
Egli ha ragione di presupporre che Greci e Ateniesi
di tutti i ceti possano apprezzare al giusto questo

") Areop. 44-45. l<'ra i contemporanei d•Jsocrate, chi si ac-


costa di più all'ideale di questa educazione è Senofonte. Anch'e1'1i
vuoJ combinare equitazione, ginnastica e caccia con l'amore per
la cultura intellettuale.
1542 [m206] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

aspe~to della cultura, meglio forse di quanto potreb-


bero intendere un severo e intimo contatto con problemi
spirituali, quale lo esigevano Platone e la filosofia.
Il difetto essenziale dell'educazione nell'attuale stato
democratico pare a Isocrate la mancanza di ogni pub-
blico controllo. Lo trova, invece, nella vita dei tempi
più antichi, quando lo stato era sano, soprattutto
nelle piccole comunità locali, nei demi in campagna e
nelle x(;)µix~, in città. In queste unità più piccole, facil·
mente sorvegliabili, si tenevano gli occhi aperti sul
modo di vivere dei singoli. E quando si davano casi
di condotta disordinata (&xoaµEoc) venivano deferiti
al consiglio del colle di Ares, che disponeva di tutto
un sistema graduale di mezzi educativi. Di questi il
.più mite era l'ammonizione, veniva poi la minaccia e
infine, riusciti vani questi due mezzi, si ricorreva alla
punizione 611), Cosi cooperavano i due principii inte-
grantisi a vicenda della cura assidua preventiva, e della
repressione punitiva, sicché lAreopago poteva tenere
i cittadini« a freno» (xoc-rei:xov), espressione che si trova
già in Solone e ritorna poi spesso quando ·si tratti di
disciplina legale della cittadinanza 66). Allora la gio-
ventù non sciupava il suo tempo a oziare in locali da
giuoco o con le flautiste, cose che Isocrate rappresenta
come la normalità del ·suo tempo. Ogni giovane si te-
neva allora all'attività in cui era stato posto, e cercava
di imitare, onorandoli, gli uomini che vi primeggiavano.
Nel comportarsi con gli anziani i giovani osservavano
le regole del rispetto e della cortesia. Sui volti era com·
postezza e serietà e non si aveva l'ambizione di passare
per eccellenti buffoni e beffatori. I talenti di società

") Àrwp. 46.


16 ) Areop. 47. Cfr. Solon fr. 24, 22 e fr. 25, 6; la stessa cosa
è detta come lode suprema per Pericle da Tucidide, II 65, 8,
e per Alcibiade in VIII 86, 5.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [m207] 1543

non erano ancora il criterio per giudicare delle atti-


tudini di un giovane 87).
L'intera vita della gioventù ateniese era un tempo
permeata dall'« aidos », quel senso di rispettoso e reli-
gioso ritegno, la cui scomparsa, lamentata fin dal tempo
di Esiodo, non è stata deplorata da nessuna età come
da quella d'Isocrate 68). La descrizione che egli fa del-
1' antico costume e disciplina ci ricorda, nelle linee essen-
ziali, il dittico a contrasto dell'antica e nuova paideia
disegnato da .Aristofane nelle NutJole 69), ma nei par-
ticolari corrisponde anche singolarmente all'ideale pro-
posto da Platone nella Repubblica, e potrebbe anche, in
parte, esserne stata ispirata. II concetto di aidos
era un retaggio dell'antica etica e formazione nobiliare,
che aveva sempre più perduto nel corso dei secoli suc-
cessivi di quel significato e importanza, veramente
enormi, che aveva avuto nel pensiero dell'uomo ome-
rico o pindarico 70). La qualità di questo senso tra di
vergogna e di ritegno è difficile a definirsi; essa consi-
ste in un complicato processo spirituale d'inibizione
risultante da motivi vari, sociali, di costume ed etici,
ed è talvolta anche il sentimento da cui il processo si
attua. II concetto di aid6s, per l'influenza dello svolgi-
mento democratico, che tendeva a fissare ogni norma
nella forma razionale della legge, aveva perduto col
tempo molto terreno nella coscienza comune. Ma ora,
dal punto di vista d'Isocrate, s'intende bene che la
sua paideia, ritornata al concetto di « modello» e ai
precetti dell'antica etica nobiliare, si riattacchi anche

67 ) Àreop. 48-49.
18) Àreop. 48 (in fine). CTr. He1. Opp. 199.
..) Cfr. « Paideia » I 506 ss.
70 ) CTr. e Paideia » I 8. Sullo svolgimento di questo con-

cetto v. la ricerca. da me suggerita, di CABL EnuABD VON ERFFA,


Aidos und verwandte Begriffe in ihrer Entwicklung von Homer
bis Demokrit, e Beihefte zum Philologus » Suppi. Voi. 30, 2.
1544 [m208] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

al senso dell' aidos o « pudore» come a una fonte di


comportamento etico 71). Non solo in quello « specchio
del principe» che si trova nel discorso A Nicocle, ma
anche nell'ideale di educazione giovanile abbozzato
nell'Areopagitico, Isocrate tende. consapevolmente a rin-
novare l'antica disciplina nobiliare in tutte le sue
norme. In quei primordi dell'antico stato di popolo,
che Isocrate onora e vagheggia, quella disciplina era
stata in pieno vigore e molto aveva contribuito all'in-
tima saldezza della struttura sociale su cui lo stato
poggiava. Di questo coefficiente Isocrate ben conosce
il valore e lo mette più in alto della legge, il pilastro
dell'ordine democratico. Il suo scettico apprezzamento
della virtu educativa della legislazione, in quanto mera;
mente tale, il pregio che egli conferisce alle forze etiche
del rispetto e del pudore sono chiaramente in funzione
l'uno dell'altro.
Dopo una tale incisiva critica della democrazia,
nella forma attuale di governo radicale di massa, Iso-
crate sente il bisogno di un'autodifesa preventiva contro
un'accusa che ha ragione di aspettarsi da parte dei
demagoghi, l'accusa di nutrir sentimenti di nemico del
popolo. Dìfesa a proposito e abile, nel togliere il ter-
reno disotto . ai piedi degli oppositori, in quanto pre-
viene la maliziosa e ovvia interpretazione, che Isocrate
si schieri a fianco degli oligarchi, cioè dei nemici capi-
tali della costituzione democratica 72). Questa qualifica
appunto - oligarchico - solevano generosamente ado-
prare gli oratori della tribuna, quando si trattava di
rendere politicamente sospetto qualche contraddittore.
Il quale uso fa ora buon giuoco a Isocrate, consenten-
dogli di dimostrare che se un sospetto esiste che vera-

71 ) Questa rinascita del concetto di aid6s in Platone e in


Isocrate è brevemente accennata da VoN ERFFA, op. cit. p. 200.
72) Areop. 57.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [m209] 1545

mente non lo tocchi, è questo il sospetto di una collu-


sione delle sue opinioni politiche con quelle dei « trenta
tiranni», di quelli cioè in cui ogni democratico ateniese
vedeva l'incarnazione eterna della malvagità oligar-
chica. Ma come potrebbe mai uno che ha per ideale
la costituzione dei padri della d~mocrazia ateniese, di
Solone e di Clistene, venire in sospetto di attentato
alle libertà civili, al fondamento cioè dello stato ate-
niese ? 73) Al qual proposito Isocrate può allegare tutti
i suoi scritti, in cui è sempre condannata I' oligarchia
e sono lodate la vera uguaglianza e la democrazia 74).
Che poi i limiti di questo concetto di democrazia siano
per lui assai più larghi che per i più dei democratici
contemporanei, basta a mostrarlo la scelta degli esempi
in cui egli ravvisa la vera libertà. Questa per lui s'in-
carna nella misura più piena nell'antica Atene e in
Sparta, dove ha sempre regnato, nell'elezione dei su-
premi magistrati e nella regola del vivere e agire quoti-
diano, la vera uguaglianza popolare 75). Ma per quanto
bisognosa di riforma ritenga Isocrate la presente radi-
cale signoria di massa, egli la preferisce sempre di
molto alla tirannide, alla oligarchia, come Atene l'aveva
esperimentata al tempo dei Trenta 76). E il confronto
viene poi svolto con intenzionale ampiezza, in parte
perché sia posto al di sopra di ogni dubbio il sentire
democratico dell'autore, ma anche per chiarire qual
sia per lui il criterio e l'istanza suprema di valutazione
di ogni atteggiamento in politica interna 77). Il discorso
era partito dalla constatazione della necessità di rifor-
mare la vita politica ateniese, derivando questa tesi
da una critica della posizione dello stato di fronte al-
73) Àreop. 58-59.
74) Àreop. 60.
71) Àreop. 61.
91 ) Areop. 62.
77) Areop. 65 sa.
1546 [m210] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

l'esterno, che gli appariva in una luce assai torbida 78).


i!; perciò strettamente logico, che anche quel relativo
riconoscimento che lautore ora concede alla democrazia
radicale in confronto con l'oligarchia, si fondi su un
confronto degli effetti rispettivi delle due forme costi-
tuzionali nell'affermazione di Atene di fronte ai suoi
nemici esterni.
A questo punto del discorso è come se riprendesse
energicamente la parola il vero e autentico Isocrate,
l'Isocrate cioè del Panegirico, per esaminare dal pro-
prio punto di vista i resultati delle due tendenze poli·
tiche; tranne che qui l'idea panellenica cede del tutto
il campo di fronte al punto di vista nazionale ateniese.
Isocrate si mette qui alacremente a dimostrare che non
gli importa solo di biasimare gli errori del demos, ma che
egli è altrettanto pronto a celebrarne i meriti di fronte
alla patria, quando effettivamente li riscontri. Già nel
Panegirico si manifestava potente il desiderio di una
restaurazione del dominio ateniese sul mare, ed anche ·
il piano di una guerra panellenica contro i Persiani,
condotta da · Sparta e da Atene, diveniva argomento
per la necessità e la legittimità di quella supremazia.
Coerentemente, nell'Areopagitico i contributi del demos
e dell'oligarchia alla fondazione del potere ateniese sui
mari sono elevati a criterio dei meriti politici dei due
regimi. Da questo esame gli oligarchi escono, natural-
mente, malconci. Eredi della guerra perduta, dell'im·
pero distrutto, si erano trovati completamente alla
dipendenza dei vincitori spartani, anzi non avevano
governato che per grazia di quelli. Unici allori quelli
colti da loro sul campo della politica interna, là ·dove
avevano potuto sopprimere la libertà, e così attendere
a curare gli affari del vincitore nella vinta Atene 79).
78) Areop. 3-13.
") Areop. 64.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [rn 211] 1547

Del loro potere dispotico avevano fatto uso solo sui


concittadini, mentre la democrazia vittoriosa, nei de-
cenni del suo dominio aveva tenuto guarnigione sulle
acropoli degli stati stranieri 80). Era stato il dem.os che
aveva fatto di Atene la dominatrice di tutta la Grecia;
ed anche ora, nonostante ogni . ansia con cui guarda
al futuro, Isocrate crede alla missione di Atene, di
signora non dei Greci soltanto, ma di tutto il mondo 81).
Questa è nella storia di Atene l'ultima voce dell'impe-
rialismo dell'età periclea rinato durante la seconda
lega marittima, che si leva a pretendere, in nome del
diritto ateniese all'egemonia, una trasformazione (µi;-
-.ix~o):lj) dell'educazione politica dei cittadini, che abi-
liti stato e popolo ad affermare vittoriosamente questo
compito storico ricevuto dagli avi 82).
Se Isocrate vuole, con questo suo compartire la
lode e il biasimo, apparire in figura di educatore auten-
tico 83 ), egli non vuole, però, che dal suo riconoscimento
dei meriti della democrazia nasca l'impressione che ciò
basti a legittimare negli Ateniesi la piena e assoluta
soddisfazione di sé. La misura che essi debbono appli-
care a se stessi non è la follia di alcuni uomini degeneri,
cosi privi di ogni senso di legalità che esser migliori
di loro è cosa da poco; ma è la virtù (areté} dei pa-
dri, di cui la generazione presente rimane molto al
disotto 84 ). Isocrate vuole con la sua critica ·render gli
Ateniesi insoddisfatti di sé, per elevarli all'altezza della
loro vera missione. Perciò, concludendo, egli pone di-

80) Àreop. 65.


81) Areop. 66. Sull'atteggiamento d'Isocrate nell'Areopagitico
sull'idea dell'egemonia marittima di Atene, cfr. JAEGER, Àreo-
pagiticw, pp. 426-429.
8 2} Cfr. µe-r«(3ci:>..M:tv rljv :rto:>..t-nl«v Àreop. 18, inotvop-&ouv
rljv :rroÀtn(otV Areop. 15.
88) Àreop. 71.
84 ) Areop. 72-73.
1548 [m212] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nanzi. ai loro occhi l'ideale immagine della natura


( cpÙ<rtt;;) che il popolo ateniese ha ricevuto come in
dote, e a cui deve fare onore. Questo concetto di na-
tura viene qui brevemente chiarito col confronto con
la natura di certi frutti selvatici o alberi, che solo
in particolari terreni sono portati alla pienezza dello
sviluppo. Così il suolo attico riuscì a produrre uomini,
che possono ottenere il meglio non solo nelle arti,
nella vita pratica, nella letteratura, ma anche nella
maschia forza del carattere 85). Tutta la storia di Atene
è solo lo sviluppo di questa naturale costituzione del
popolo ateniese. In questa applicazione del concetto
di physis al dominio spirituale Isocrate segue eviden-
temente Tucidide. Nello storico, infatti, accanto al
concetto di una natura comune a tutti gli uomini
(ch&p<ò7t(V'l'J cpfotç), si trova anche quello della physis
particolare di determinate stirpi e città, in modo del
tutto conforme all'uso medico della parola, che pure
distingue una natura universale e una individuale degli
uomini 86). Quel che, tuttavia, è particolare a Isocrate,
è l'uso del concetto di physis in senso normativo. Se
nella medicina questo significato normativo è per lo
più collegato col concetto universale della natura, men-
tre la physis individuale rappresenta sempre in qualche
modo una modificazione della norma e per lo più un
peggioramento rispetto ad essa, in Isocrate invece, nel
suo concetto di disposizione naturale ateniese, I' ele-
mento individuale, imparagonabile, e quello della
«norma» ideale coesistono. Il nucleo educativo di que-
sto concetto sta in questo fare appello alla genuina
physis ateniese, al « se &tesso » migliore del popolo,

Àreop. 74, cfr. 76.


80 )
Sul concetto medico di physia v. supra, p. 49.· Un'indagine
88 )
del concetto di physis e delle sue varie applicazioni in Tucidide
dovrebbe prima di tutto tener presente la letteratura medica.
CAP. V: AUI'ORITÀ E LIBERTÀ [m213J 1549

ora nascosto o oscurato, ma un tempo manifesto nelle


azioni dei maggiori.
Un tale pensiero riecheggia ancora, più tardi, nelle
parole, negli appelli di Demostene, quando, in una si-
tuazione politica ancor più pericolosa, si combatte la
lotta decisiva contro Filippo di Macedonia. Né è que-
sto l'unico tributo rivolto da Demostene al gran retore,
non ostante la grande distanza del suo modo di vedere
da quello d'Isocrate nella questione macedone 81). La
generazione giovane, che · dopo il crollo della seconda
lega marittima si consacrò al compito di rinnovare Io
stato, era stata profondamente scossa dalle critiche di
Isocrate. Le sue accuse al demagogismo tirannico e al
materialismo della massa non sono state riprese da
alcuno con forza di convinzione maggiore che da De-
mostene, il campione della libertà democratica contro
l'oppressore esterno. Nessuno più di lui poteva conve-
nire con Isocrate nel bollare lo sperpero del pubblico
denaro in pro dei divertimenti della massa, nel criti-
care l'infiacchimento, la sempre declinante capacità
alle armi della cittadinanza ateniese. Egli fini anche col
far sua l'idea culminante dell'Areopagitico, che gli Ate-
niesi non a sé soli dovessero, ma alla funzione loro di
salvatori e custodi deUa Grecia tutta, di scuotersi dallo
stato attuale di amministrazione pessima e di indolenza,
di sottoporsi a un'educazione più severa, che avrebbe
potuto farli di nuovo capaci di adempiere la loro mis-
sione storica 88).
C'è un elemento tragico nei momenti in cui la ri-
nunzia a un'antica potenza s'impone; una tragicità che
anche questa volta ci si rivela se pensiamo che nel
tempo in cui i pensieri di Isocrate si radicavano cosi

87) V. a questo proposito PAUL WENDLA.ND, « Gott. GeL


Naehr. » 1910.
88) V. infra, pp. 491 ss.
1550 [m214] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

a fondo nel cuore dei giovani, il loro autore stesso


aveva deposto definitivamente la fede in una .Atene
risorta come potenza indipendente e come capo di una
grande confederazione. Nel discorso d'Isocrate Sulla
pace si assiste alla sua rinunzia a tutti i piani di
rinascita interiore della creazione politica. di Timoteo,
del rinnovato impero della seconda lega marittima.
Non si può leggere oggi il programma educativo del-
1'opuscolo sull'.Areopago, senza pensare a quella ri-
nunzia che Isocrate propone al popolo, nell'orazione
Sulla pace, alla fine della guerra perduta contro gli
alleati secessionisti. Il pensiero fondamentale di que-
sto scritto, che vi ritoma con particolare accento di
convinzione, è che non altro rimanga agli .Ateniesi se
non abbandonare del tutto ogni pretesa di dominio
marittimo e, con ciò, l'idea della politica federale, il
fondamento cioè dell'impero ateniese. Egli ora consi-
glia di concluder la pace non solo con gli alleati ribelli,
ma con tutti quelli con cui .Atene è in lotta 89). Il che è
possibile solo cogliendo le contese alla radice, che sta,
per Isocrate, nella brama di dominio sugli altri propria
degli .Ateniesi 90).
Per comprendere, nel suo intimo motivo, un tale
rivolgimento di pensiero, è necessario rendersi conto
della mutata -situazione ateniese ·dopo il crollo della
lega marittima. La sfera di dominio di questa era ormai
ridotta pressoché a un terzo di quel che era stata al
tempo della estensione massima, sotto il comando di
Timoteo. Il numero dei collegati era diminuito in mi-
sura corrispondente, e tra i ribelli erano i più impor-

89) De pace 16.


90) La proposta d'Isocrate che gli Ateniesi rinunzino al do-
minio marittimo si trova in De pace 28-29 e soprattutto 64 ss.
Cfr. l'esame dell'atteggiamento d'Isocrate, in questo discorso,
riguardo al problema della signoria ateniese sul mare (iXpx1J o;1jç
&oi:Mnl)ç}, in JA.EGElt, Areopagiticus, p. 424 ss.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [rn21SJ 1551

tanti. Catastrofico lo stato delle finanze 91). I numerosi


processi politico-finanziari degli anni dopo la guerra,
sui quali siamo informati dalle orazioni di Demostene,
gettano una cruda luce sulla situazione fallimentare
di quel tempo e sui mezzi disperati a cui si ricorreva
per tirare avanti 92). Con la morte di Callistrato e Ti-
moteo erano scomparse le grandi personalità del tempo
in cui la seconda lega marittima era in vittoriosa ascesa,
e l'unica politica possibile sembrava quella di un cauto
bordeggiare, con rinunzia assoluta alla politica estera
attiva, e di una lenta ripresa interna, soprattutto finan-
ziaria ed economica. Da una tale situazione nacque
il consiglio di Isocrate, di un ritorno alla pace di An-
talcida, come a fondamento della politica esterna 93 ),
della sostanziale rinunzia, cioè, a ogni signoria ate-
niese sul mare. Si nota in questo programma una grande
affinità con l'opuscolo di Senofonte Sulle entrate (Il6poL),
apparso nello stesso tempo a indicare una via d'uscita
dalla crisi 94). Simili intendimenti animavano il gruppo
conservatore, che metteva capo al politico e finanziere
Euhulo, a cui era passata ormai l'effettiva guida dello
stato.
Il discorso Sulla pace rappresenta una tappa più
avanzata di quello stesso cammino dell'educazione poli-
tica ateniese, per il quale Isocrate si era messo con
l'Areopagitico 95). Ma, in contrasto con l'opinione co-
mune che situa ambedue gli scritti alla fine o dopo
la fine della guerra sociale, è chiaro, oltre che per le

H) Demosth. Cor. 234, Xen. Il6poL. Cfr. J. BELOCH, Grie-


chische Geschichte III 1, pp. 245; III 2, p. 167 s.
92 ) Cfr. il mio Demosthenes, trad. it. pp. 61 e 75.
93 ) De pace 16.

N) Cfr. Demosthenes, trad. it. p. 72 ss.


••) Sul discorso Sulla pace di fronte all'Areopagitico, relati·
vamente al problema dd dominio marittimo ateniese, e sui rap-
porti dei due -discorsi con la politica sostenuta nel Panegirico
cfr. JAEGER, Àreopagiticus, p. 424 a.
1552 [m216] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

ragioni dette poco fa, anche per il mutato atteggia-


mento che si rivela nell'orazione Sulla pace, che i
due scritti non possono essere contemporanei. Non si
può, certo, disconoscere che la critica dell'attuale de-
mocrazia ateniese è la stessa in tutti e due e che vi si
trovano, quindi, marcate coincidenze nello svolgersi
dei pensieri. Ma l'atteggiamento di fronte all'impero
marittimo ateniese è del tutto diverso nei due discorsi.
E perciò se è giusta l'opinione dominante, secondo cui
la proposta di rinunzia alla supremazia navale nasce,
nel discorso Sulla pace, dall'amara esperienza della
secessione degli alleati, allora anche da questo punto
di vista trova conferma la nostra conclusione, c~e
lAreopagitico deve risalire a tempo anteriore al mo·
mento acuto della crisi, perché in esso, come si è mo-
strato di sopra, la proposta di rinvigorire lazione edu-
catrice dell'Areopago si fonda appunto sulla necessità
di una rinnovata forza morale-politica per l'afferma·
zione della signoria marittima di Atene.
Nell'Areopagitico non appare il minimo dubbio sulla
eccellenza dell'impero marittimo, sulla benefica fun-
zione storica di esso per Atene come per la Grecia,
il che corrisponde in tutto all'antico modo di vedere
delljlsocrate del Panegirico. In quest'ultimo la rico·
st:çlizione dell'egemonia navale, crollata con la guerra
peloponnesiaca, è propugnata come interesse nazionale,
e la sua fine vi è designata come la « causa di tutti i
mali» del popolo greco 96). Il discorso Sulla pace, nel
suo pessimismo, indica, precisamente al contrario, il
principio dell'egemonia come il principio di tutti i
mali 97 ). L'Areopagitico tiene il mezzo fra questi due

00 ) Paneg. 119: &µcx yàp i]µe:i:ç -re: -r'ìjç ocpx'ijç oc?te:a-.e:poùµ~.&cx

xcxl -.o'i'ç "EÀÀ'l)CILV &pxÌJ 'tWV xcxxwv eylyve:'tO. Cfr. lòO ss.
•1) De pace 101 s.: -.6n 'tÌ)V ocp)(Ì)V cxù-.o'i'ç (-.o"tç 'A.) ye:ye:v'ìj-
a.&cxL 'tÙ'JV auµqiopwv, o-.e: -rÌ)v ocpxÌJv 't'Ìj<; .&cxÀcin'l)ç ?tcxpe:Àciµ~cxvov.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ [m217] 1553

poli dello svolgimento di pensiero politico in Isocrate,


non ne rappresenta affatto il polo. negativo della ri·
nunzia 9B). Il rovesciamento che si attua dal Panegi-
rico alla Pace, in questo problema della egemonia
marittima, corrisponde alla valutazione opposta che
è fatta nei due scritti della pace di Antalcida. Nel
primo questa è condannata nel modo più aspro, come
il concreto simbolo della vergognosa subordinazione
greca ai Persiani, divenuta possibile solo dopo il crollo
della potenza navale ateniese 99): nella Pace, alla ri-
nunzia all'impero marittimo si accompagna la rinunzia
anche a questo atteggiamento di :fierezza nazionale e la
pace di Antalcida vi appare come il punto di partenza
ideale, a cui si deve ritornare per riorganizzare ex
novo la sconvolta vita politica della Grecia 100). Ogni
lettore del Panegirico, certo, deve aver ben chiaro che
per Isocrate una tale rinunzia fu sicuramente doloro·
sissima, tanto che ben si comprende come poi riprenda
forza, nel Filippo, il sentimento antipersiano di Iso-
crate, non appena gli parve di ravvisare nel re di Ma-
cedonia un nuovo « propugnatore» della causa greca.
La rinunzia al programma . di impero marittimo
fu resa più facile a Isocrate dal suo moralismo, che
all'inizio sembrava aver stretto un singolare connubio
con l'elemento imperialistico del suo pensiero, mentre
nella Pace, prende definitivamente il sopravvento. Nel
Panegirico l'imperialismo trova giustificazione in quanto
è reputato fattore di beneficii per tutta la Grecia;

••) Cfr. JAEGER, Areopagiticu3, p. 429.


89) Paneg. 120-121.
100 ) De pace 16. Non voglio polemizzare qui con coloro che,

nonostante queste evidenti contraddizioni tra il Panegirico e la


Pace, considera'no la posizione d'Isocrate identica nei due di-
scorsi, ma confesso che la logica di questi studiosi non mi è com-
prensibile. Mi sembra che in loro il desiderio di disegnare un
quadro unitario sia stato maggiore della capacità di conformare
il quadro ai dati di fatto conosciuti.
1554 [m218] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nella. Pace l'impero (tip:x.~) e l'espansione del dominio


(7tÀc:ovc:~!cx) sono condannati senz'appello, ed è espres-
samente affermata la validità della morale individuale
anche nelle relazioni tra stati 101). Anche questa volta,
certo; Isocrate si guarda dall'escludere la possibilità di
nuove formazioni, di gruppi di stati o federazioni, ma
comunque egli contrappone all'impero, fondato sulla
mera forza, il principio dell'egemonia, che concepisce
come un primato conferito in segno di onore 102). Per
lui, essa deve fondarsi sul volontario consenso degli altri
stati all'unione con Atene. Il che non gli sembra del
tutto impossibile a realizzarsi. L'egemonia si può pa-
ragonare, per lui, alla situazione dei re spartani, che
similmente godono di un'autorità fondata non sulla
forza, ma sull'onore. Ecco la specie di autorità che do-
vrebbe essere estesa anche alle relazioni tra stati.
Da osservare che Isocrate qui dimentica per un mo-
mento, che nello stato spartano questa posizione ono-
raria dei re fu garantita in ogni tempo dalla forza dello
stato. Isocrate cerca poi di mostrare come l'impero
fondato sulla forza sia stato sempre nella storia greca
fonte di ogni sventura. Egli lo dichiara simile, nel-
1'essenza, alla tirannide, cioè intimamente inconcilia-
bile con la democrazia 103). Egli ha scritto, come dice,
il discorso Sulla pace col proposito di mutare radical-
mente le idee degli Ateniesi su questo punto 104). An-
cora una volta, come nell'Areopagitico, il miglioramento

181) Morale privata e morale pubblica non dovrebbero essere

in contrasto tra loro: De pace 4; 133 e altrove.


10•) La distinzione tra dominio e egemonia in questo senso

appare in De pace 142 ss. Cfr. la dissertazione berlinese, da. me


suggerita, di _WALTER WoESSNER, Die syrwnymische Unierschei-
dung bei Thukydides und den poliiischen Rednern der Griechen
(Wiirzbnrg 1937), che ricerca l'uso della distinzione nell'argo-
mentazione politica.
10•) Cfr. De pace 111 ss., specialmente 175.
1 °') De pace 27.
CAP. V: AUTORITÀ E LIBERTÀ (III219] 1555

della situazione politica appar fatto dipendere da una


riforma totale . della moralità; il che riman degno di
nota, anche se non ci si libera dall'impressione che a
un tale atteggiamento abbia contribuito essenzialmente
il crollo e:ffettivo della potenza, la forza stringente della
dolorosa realtà 100). Non tanto si tratta di una conver-
sione politica del vecchio Isocrate, quanto della sua
permanente sensibilità e disposizione a imparare dal-
l'esperienza. Questa disposizione avevamo già riscon-
trata in quella teoria che egli aveva dedotto, nell'Areo-
pagitico, dal primo crollo ateniese della guerra pelo-
ponnesiaca e dalla caduta della potenza spartana nella
battaglia di Leuttra. E di nuovo la riscontriamo, dopo
la dissoluzione della lega marittima. in questo discorso
Sulla pace del retore ottuagenario. Nell'Areopagitico
si era attuata come ammonimento a guardarsi da una
tragica hybris, nella Pace prende la forma di un ri-
getto totale di ogni conato di potenza puramente im-
perialistica. Naturalmente, in tutto questo è da pen-
sare solo ai rapporti degli stati greci tra loro; giacché
neppure in questo periodo di rassegnazione dolorosa,
dopo gli antichi sogni di .potenza, Isocrate non disse
addio al .suo pensiero, che i Greci fossero per natura
destinati al dominio sui barbari. Questa limitazione,
guardata dal punto di vista· di un'etica sopranazionale,
pone certo nuovamente in questione le conclusioni
etiche della Pace e, in ogni modo, ne sminuisce il va-
lore. Ma per quel che riguarda il modo di convivenza
degli stati greci, il moralismo d'Isocrate è pure un
sintomo importante, per quanto lontana rimanga la
realtà dall'ideale. Lo possiamo paragonare, per questo
rispetto, con un fenomeno come quello della nuova

1") Cfr. De ptue 69-70, dove si afi'erma che l'impero marit-


timo è perduto e che Atene non è in condizione di riconquistarlo.
1556 [m220] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

etica della guerra tra Greci, che era stata annunziata


da Platone nella Repubblica.
Isocrate sa bene che la questione è alla fine di na-
tura educativa. Ché la brama di potenza è profonda-
mente radicata nell'uomo, e grande è lo sforzo spiri-
tuale che abbisogna per sradicarla. Isocrate cerca di
mostrare che la potenza (Mvcxµ.~i:;) ha traviato gli uomini
nella sfrenatezza. Della degenerazione dei cittadini egli
rende responsabile non tanto i suoi contemporanei
quanto la generazione precedente, cioè il tempo del
primo impero marittimo ateniese, sul quale ora ven-
gono a proiettarsi le ombre del presente 10&). A quel
modo che nell'Areopagitico la legalità, la severità di
vita degli avi è presentata come forza educatrice di
ogni virtù, cosi nella Pace tutto il male, tutta l'indi-
sciplina del presente sono imputati alla perniciosa edu-
cazione del popolo e dei suoi capi prodotta dalla po-
tenza 107). Isocrate mostra, qui come nell'Areopagitico,
chiara consapevolezza delle . forze che al suo tempo
condizionavano realmente la vita dell'individuo e ·la
sua formazione. Non sono, per lui, gl'innumerevoli
tentativi e mezzi particolari presentati col nome di
educazione quelli che possono contrastare le dannose
influenze o svigorirle; ma è lo spirito che nel complesso
informa la comunità politica a determinare il modo
di essere del singolo. L'originaria forza che impronta
di sé le anime umane è il desiderio di potere, la ten-
denza« a superare» (1tÀeovi:#cx). Là dove questa forza
domina lo stato e la sua azione, essa diventa subito,
anche nell'azione dell'individuo, la legge suprema. Con-
tro questo « dinamismo», che è la parte reale ed es-

109 )Ciò era già stato detto da Isocrate, Àreop. SO ss.


107) Cfr. De pace 77. A quella paideia, rovinosa secondo
Isocrate, che era nata dalla lotta di Atene per il potere e l'im-
pero, egli contrappone la paideia volta alla pace e alla giustizia: § 63.
CAP. V: AUTORITÀ E UBERTÀ [m221] 1557

senziale della tirannide e, come tale, ha potuto pre-


valere ugualmente in tutte le forme costituzionali 108),
Isocrate fa appello allo spirito della democrazia. Tra
le forme politiche, questa è quella che per lungo tempo
gli ha pagato un tributo maggiore di tutte le altre,
senza capire che così perdeva se stessa 109).
In tal modo democrazia finisce per equivalere a
rinunzia all'istinto di potenza. Ma ciò non significa
forse che l'unica importante democrazia ancora esi·
stdnte si ritira ormai volontariamente dalla gara con
le altre forme di governo che, non impacciate dai vin-
coli costituzionali delle libertà civili, tendono per la
via più breve alla stessa meta ? La domanda è di dram-
matica gravità. Pure, bisogna in verità confessare che
quando Isocrate esprimeva questa esigenza di una ri-
nunzia ali' arbitrario potere dell'impero ateniese, la per-
dita di questo potere era già cosa di fatto, attuata per
forza di eventi no). Se il fatto si configurava ora come
esigenza morale e prodotto di libera volontà, ciò va-
leva soltanto come giustificazione postuma, la quale
facilitava in qualche misura il compito degli eredi
spodestati dall'antica potenza, taéitando la coscienza
di quei patriotti che ancora pensavano in termini di
po litica tradizionale di potenza. Isocrate volle così,
per quanto poteva, realmente facilitar~ il lavoro di
quegli uomini pratici e senza illusioni che si accinsero
a mettere ordine, in circostanze ostili, nell'eredità del
secondo impero. La sua autorità spirituale era tanto
più valida nel persuadere a una tale risoluzione, quanto
più egli era stato tenace rappresentante dell'idea impe·
rialistica ateniese. Il mutamento che si attuò in lui
ha valore di simbolo dei processi storici che uel corso

108) De pace 95-115.


109) De pace 115.
110) Ch. n. 105.
1558 [III222] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

della sua vita ebbero compimento; si che sembra quasi


incredibile che quello stato ateniese, che egli vedeva
ormai destinato alla vita oscura e mediocre de] vecchio
rentier, si sia levato ancora una volta, guidato da De-
mostene, all'ultima bat~aglia: la battaglia non p_iù per
l'acquisto di maggiore potenza, ma per l'unico bene
rimasto dopo la perdita dell'impero, per la libertà.
CAPITOLO SESTO

ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA

Isocrate parla molto di sé nei suoi scritti, ma questa


sua tendenza raggiunge lespressione più schietta in
uno dei più tardi, composto a più di ottant'anni 1),
che alla sua persona, all'opera ·della sua vita è tutto
dedicato. ~ questo il discorso« sulla permuta dei beni»
o « antidosis », secondo lespressione tecnica del diritto
attico. La straordinaria pressione fiscale che si eserci-
tava sul piccolo gruppo dei cittadini più ricchi, tenuti
a sopportare le spese dell'armamento della flotta, ci
rende ragione di una legge che era stata applicata
anche a Isocrate. Chiunque fosse stato chiamato alla
prestazione della trierarchia (armare un vascello da
guerra) aveva facoltà, qualora ritenesse ingiusto il
gravame, di nominare un cittadino più ricco, da cui
si potesse richiedere con maggior giustizia l'adempi-
mento di questo dovere; e poteva poi pretendere da
questo lo scambio dei beni per fornire la prova di es-
sere meno possidente dell'altro. Quando questo tipo di
processo fu intentato a Isocrate, furono rivolte alla sua
persona e all'attività sua di maestro accuse di ogni ge-

1 ) Ottandadue egli dice di averne in À:ntid. 9. Il discorso


era in mas!!Ìma parte perduto, tranne il principio e la fine, finch6
il dotto greco Mystoxides [Mustoxidi, nella forma corrente tra
i letterati italiani contemporanei] ne ritrovò, nel 1812, la parte
eHenziale (72-309).
1560 [III224) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nere e non attinenti strettamente alla causa, ma dipen-


denti dalla fama che lo circondava, di uomo che col
magistero e l'attività· pubblicistica avesse messo in-
sieme una grande fortuna 2 ). La sua impopolarità presso
larghe cerchie del pubblico, venuta allora alla luce,
dové essergli ben nota anche prima, giacché nell'Areo-
pagitico come nella Pace, nei due scritti cioè di politica
interna, egli cerca di giustificarsi dall'accusa di osti-
lità verso il popolo 3 ). L'Antidosi si richiama ancora a
questa accusa, la cui origine è facilmente comprensibile
dati gli attacchi di Isocrate contro i demagoghi.
Il discorso che noi abbiamo non è quello realmente
tenuto da Isocrate nel processo, ma, come la maggior
parte degli scritti politici si fonda su una :finzione 4).
Isocrate prende dal processo occasione a comporre uno
scritto che, sotto la specie di ribattere una pubblica
accusa, « difende» la sua vita, il suo carattere, la
sua attività di maestro, cioè ne dà quella che crede
giusta interpretazione. Egli stesso si diffonde nell' Anti-
dosi su questo singolare impasto di discorso giudiziario,
autodifesa e àutobiografia che viene a resultare 5), e
vuole che questa« mescolanza delle forme (t8éoct)» sia
apprezzata come pregio particolarmente squisito della
sua ·arte retorica 8). Questa mescolanza gli consente di
motivare come imposto dalla necessità di difendersi
tutto ciò che, presentato come puro autoelogio, rischie-

1) Antid. 4-5.
') ÀTeop. 57, De pace 39. In quest'ultimo luogo Isocrate si
paragona. come il Socrate platonico del Gorgia, al medico, che
per risanare dève bruciare e tagliare. Ma il paragone non con-
viene molto bene al con:fl.itto, di pura politica di parte, al quale
Isocrate (35) lo applica.
4 ) Lo dice Isocrate stesso: Àntid. 8 e 13. Lo Pseudo-Plutarco,
vi.t. X oT. 837 a, 839 c. erroneamente, prende quHta accuaa come
realmente avvenuta.
') Àntid. 6-8; 10.
8 ) Àntid. 11-12, cfr. Soph. 16.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m225] l561

rebbe di urtare i lettori 7). Platone, con l'Apologia,


era stato il ·primo a trasformare la difesa giudiziaria
nella forma letteraria della « professione di fede», in
cui una personalità straordinaria dà conto dell'attività
(7tp éXyµ0t) che ha riempito tutta la sua vita S). Que-
sta nuova forma dell'autoritratto letterario dové far
profonda impressione sull'egocentrico animo di Iso-
crate, che nel discorso sull' antidosi l'adattò a suo dosso.
E se anche, naturalmente, veniva a mancargli quello
sfondo eroico della lotta che ha per posta la vita, sul
quale Platone nell'Apologia rileva potentemente l'im-
magine della costanza e magnanimità socratica, pure
Isocrate dové sentire un continuo parallelismo della
propria situazione col processo di Socrate, giacché non
si lascia sfuggire occasione di richiamarne la vicenda
alla memoria del lettore, con allusioni all'accusa del
filosofo e fin con echi verbali dello scritto platonico 9 ).
L'accusatore, il pericolo che minaccia l'accusato non
sono, s'intende, che ornamenti d'effetto; Isocrate lo
ammette disinvoltamente e non si sottrae lui stesso
all'impressione che questa sua opera, la più lunga di
tutte, sia anche la più debole 10)-. Ma, a non contare
l'attrattiva che essa ha per noi come il primo com-
piuto esempio dell'auto biografia 11), o meglio, come« ri-
tratto dell'animo e della vita dello scrittore» 12), essa
c'interessa profondamente come rappresenta~ione d'in-

7 ) Antid. 8.

s) Pl. Apol. 20 c.
9 ) Questo rispecchiamento di se stesso nell'accusa e nel-
l'Apologia di Socrate, che l'Antidosi rivela ad ogni passo, è stato
spesso rilevato, fin dall'umanista del sec. XVI, Hieronymus Wolf.
1°) Antid. 9.
11 ) Così è stata giudicata l'Antidosi da GEORG MISCH, Ge-
schichte der Autobiographie, I (Lipsia 1907), p. 86 ss. Ma il Misch
non rende giustizia a Isocrate.
12 ) Isocrate definisce (7) I' Antidosi come e:txwv -.'ìjç ȵ'ìji; Stix-
vo(cci; xccl -.fuv èi).Àwv -.ù>v ~e:~ iwµévwv.
1562 [m226] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

sieme delle mete e dei resultati della paideia d'Iso-


crate 13).
L'accusa dunque, così immaginata, dice che Iso-
crate corrompe la gioventù insegnando a ottener vit-
toria in tribunale in maniera ingiusta 14). Nel rivol-
gersi contro questa accusa, che si presentava ovvia
contro un retore, Isocrate mira prima di tutto a di-
stinguersi dai soliti scrittori di arringhe giudiziarie
(o « logografi») che addestravano gli scolari alla pro-
fessione forense. Già nel suo primo scritto, in quel
vero manifesto che è il discorso Contro i Sofisti, egli
li aveva fortemente attaccati 15), e sempre gli fu spe-
cialmente insopportabile che il suo tipo di educazione
politico-morale venisse confuso con l'arida pratica ginr
ridica di quelli 16). Di fronte a loro egli si sente come
un Fidia in confronto con gli artigiani impastatori di
figurine d'argilla, o come un Parrasio o. uno Zeusi ac-
canto ai rozzi fabbricanti di quadretti a buon mer-
cato 17). In tutto il discorso continuamente si esprime
l'orgogliosa consapevolezza del grande artista. Da un
lato è la grandezza del soggetto, per cui i suoi discorsi
si distinguono da ogni altro, poiché :riguardano gl'in-

18 ) Antid. 6: Isocrate pone tre fini al suo scritto: esporre


il suo carattere (-rp67toç), il suo modo di vita (f3loç) e la sua
paideia (a 10 e spesso altrove la chiama la sua filosofia).
1') Antid. 30. Ovvia la voluta risonanza verbale dell'accusa
di Socrate.
n) Soph. 19 ss.
18 ) Secondo la notizia di Dionys. Hal. De Isocr. 18, .special-
mente Aristotele, sul cui insegnamento retorico, contemporaneo
a Isocrate, nell'Accademia platonica dovremo tornare in seguito,
si prendeva gioco d'Isocrate per questa sua sensibilità a esser
confuso coi logografi. Diceva agli scolari che da tutti i librai si
trovavano in vendita fasci di discorsi forensi col nome d'Isocrate.
Si trattava di discorsi scritti da Isocrate per i suoi clienti, prima
della fondazione della scuola. Isocrate, chiaramente, si riferisce
ad accuse· come queste di Aristotele, nell'Antidosi. V. special-
mente 38 ss.
17 ) À ntid. 2.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [rn227] 1563

teressi della nazione greca e non di questo o quel-


l'individuo 18). Ma anche per la forma essi sono ben
più prossimi alla poesia degli effimeri prodotti delle
solite contese giudiziarie e leffetto che ottengono è
meglio paragonabile al godimento prodotto dalle ritmi-
che figurazioni della fantasia poetica 19). L'atmosfera
in cui lopera sua si libra non è laffannoso affaccen-
darsi della quotidiana lotta per campar la vita, ma un
nobile ozio 20). Per questo l'arte sua ha potuto atti-
rare numerosa corona di scolari, mentre i logografi
pratici non formano mai veramente una scuola 21 ).
Isocrate illustra la qualità dei suoi scritti, per forma
e contenuto, con una serie di « pezzi» modello, che
viene scegliendo dai suoi scritti già pubblicati 22). Cosi
la natura dei suoi discorsi scritti è messa effettivamente
in giusta luce. Nulla, meglio di questo presentare
passi scelti, può dare un'idea chiara della tendenza
educativa d'Isocrate; che è tutta informata al senso
dell'« esemplare» 23). Da ciò possiamo risalire a farci
un concetto del modo didattico praticato dalla scuola
isocratea. Anche in essa non si insegnavano solo gli
elementi tecnici della ~gua e della composizione;
l'ispirazione stessa doveva, alla fine, scaturire dal mo-
dello artistico del maestro. La parola « imitazione»
è già usata in un contesto di questo genere, fin nei
primi suoi scritti programmatici 24), e deve essere di-
venuta sempre di più il centro della sua opera educa-
tiva. Fin da principio essa aveva significato essenzial-

18) Antid. 46.


u) Antid. 46-47.
10) Antid. 48; 39.
01) Antid. 41.
92 ) In Antid. 54 egli paragona i saggi dei discorsi a una mo-
stra di frutta d'ogni specie.
") Antid. 54 ss.
24 ) Soph. 18.
1564 [rn228] LIBRO fV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

mente volontà di perfezione; ora nell' Antidosi Isocrate


vecchio propone se stesso al pubblico delle lettere come
un classico compiuto, che espone a modello le sue
opere, gettando cosi il primo fondamento di quel che
sarà il classicismo dei tempi posteriori. A capo di tutti
i suoi scritti pone il Panegirico 25), cosi a modello della
sua grandezza formale, come a documento del suo
animo patriottico, di cui però ora è meno rilevato l'ele-
mento panellenico di quello schiettamente e risoluta-
mente ateniese 26). Ciò perché, certamente, proprio di
quest'ultimo gli Ateniesi avevano dubitato. Pure, dopo
che, appena due anni prima, egli aveva additato nel-
l'impero marittimo di Atene la radice di tutti i mali 27),
egli non poteva presentare senza qualche ritocco quel
Panegirico in cui lo stesso impero era stato da lui .so-
stenuto con tanta energia. Ed ecco che, nel breve enun-
ciato del contenuto che introduce al pezzo scelto, nei
punti in cui propriamente si sarebbe dovuto parlare
di impero, appare la parola non compromettente di
e< egemonia» 28). L'aveva egli già suggerita nella Pace,
come atta a rndicare una più moderata forma di SU•
premazia, di una supremazia honoris causa, che avrebbe
dovuto sostituire l'impero fondato sulla forza, se mai
si fosse potuto pensar di nuovo a una qualunque forma
di unione degli stati marinari greci 29).
u) Antid. 57 ss.
28) In Antid. 57 ss. Isocrate spiega la tendenza del Panegi-
rico in tal modo, che un lettore superficiale di quest'ultimo po-
trebbe pensare che in esso Isocrate avesse rivendicato il diritto
di Atene alla supremazia assoluta sulla Grecia. Su ciò, v. supra,
p. 128, n. 16.
27) V. supra, p. 216.
28) Nel Panegirico i due termini « impero » (&p;cfi) e « ege·
monia » ('Ì]yeµ.ovloc) sono usati ancora senza sostanziale dif-
ferenza.
29) Cfr. supra, p. 218. Si confronti De pace 64, dove è sostenuta
la rinunzia all'impero, con De pace 142, dove è auspicata una
« egemonia » fondata su un libero riconoscimento. di superiorità
da parte degli altri.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m229] 1565

Con questo discorso Isocrate è sicuro di poter co-


gliere ancora il più compiaciuto consenso nelle cerchie
patriottiche di Atene, ma è pur significativo che egli,
quasi a contrappeso di quella esaltazione di Atene
e della sua grandezza nella storia, le metta subito ac-
canto un saggio della Pace, l'ultimo suo lavoro, e per
lappunto quella parte di questo in cui propugna una
pace permanente e l'abbandono totale dell'impero ate-
niese sul mare 3°). Sarebbe stato facile rimproverargli
di aver mutato atteggiamento, anzi di averne preso
uno opposto 31), ma facilissimo sarebbe stato per lui
opporre a un tale rimprovero una spiegazione dei due
atteggiamenti, del Panegirico e della Pace, come di
due manifestazioni diverse di una sola e identica vo-
lontà educatrice. Dice egli stesso, dopo aver citato il
Panegirico, che molti lettori potrebbero pensare assai
più necessario il biasimo che la lode, nelle attuali cir-
costanze di Atene, e adduce la Pace precisamente come
esempio di un tal contegno di salutare ammonitore 32).
Il terzo esempio egli lo prende dal discorso A Ni-
cocle. Come è ovvio, la sua amicizia col monarca ci-
prio gli era stata particolarmente rinfacciata negli
ambienti democratici, e gli si era fatto rimprovero
di aver preso doni importanti dal principesco scolaro 33).
Ribatte Isocrate che non li ha presi, in ogni caso, come
immaginavano i suddetti avversari, per avere istruito
il futuro monarca, il giudice supremo del suo regno,
nell'eloquenza di un avvocato 34). E ricorda, a questo

30 ) A ntid. 62 ss.
31 ) Cfr. supra, p. 217. S'intende che le mire imperialistiche
del Panegirico non corrispondono minimamente al programma
del partito ateniese della pace dell'anno 355, le cui idee si riflet-
tono nel discorso Sulla pace. Nell'Antidosi Isocrate cerca di par-
lare soprattutto 11el senso di questo partito.
32) Cfr. An1id. 62.
3:!) Di ciò ha già fatto menzione: Antid. 40.
84 ) Antid. 40.
1566 [rn230) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

proposito, che nel discorso À Nicocle egli aveva posto


il programma di qualcosa di nùovo, dell'educazione,
appunto, dei potenti della terra, e di quest'arte nuova
aveva dato magnifico esempio 35). Questa volta si sen-
tiva del tutto immune dal rimprovero di ostilità al
popolo, giacché, anzi, aveva ammonito il re a essere
prima di tutto fedele curatore del bene del suo po-
polo. Da ciò egli vuol che si deduca ovviamente
che questa assistenza del popolo è per lui a maggior
ragione il compito specifico di uno stato popolare come
l'ateniese 36). Sarà senza dubbio lecito supporre che
ciò sia vero in quel senso che è dato dall'Areopagitico
al concetto di democrazia 37), ma in pari tempo si
dovrà interpretare come segno di cautela politica il
fatto, che Isocrate non abbia incluso in questa scelta
dalle sue opere questo scritto, pur tanto caratteristico
del suo atteggiamento di educatore. È vero che da
questa esclusione si è dedotto, che lAreopagitico, se-
condo ogni indizio da datarsi anteriormente, non fosse
stato ancora composto, ma questa deduzione è difficil-
mente accettabile, di fronte alla tendenza all' autodi-
fesa politica che domina tutta l' Antidosi 38). Nel mo-
mento in cui questa fu scritta, il ricordo del tentativo
fallito di limitare la democrazia ateniese - ché a ciò
si riduceva il porla sotto il controllo di un consesso
supremo di vigilanza etica e educativa - , questo ri-
cordo non era opportuno.
Isocrate conclude la serie dei saggi dei suoi discorsi

86) Antid. 67-70.


36) Àntid. 70. Isocrate fa notare di aver consigliato al re
di esercitare il potere con la maggior mitezza possibile; il che
valeva come sintomo. di spirito democraiico. V. p. 148 s.
37 ) Cioè nel senso della eguaglianza proporzionale, non mec-

canica: teoria che ha come motto: suum cuique. Cfr. Areop. 21.
38 ) V. la letteratura citata presso KLEINE-PIENING (op. cit.
a p. 186 n. 11) p. 43; al proposito cfr. JAEGER, Areopagiticus,
p. 412 n. I.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [rn231] 1567

con un gruppo di considerazioni sull'importanza del-


1'opera di educazione politica, di cui essi offrono testi-
monianza. Questa è più· importante di quella del legi-
slatore, la· cui influenza è limitata al coJ,'So di quelle
particolari vicende che ha inteso regolare con le sue
norme e alla zona di sovranità di una sola polis. In-
vece la paideia d'Isocrate torna, quando sia obbedita,
a vantaggio della nazione greca intera 39). Con ciò tutta
la sua opera di educatore trova ragione essenziale nel-
1' etica politica che ispira µ suo panellenismo; giacché
quando non esiste uno stato panellenico che per forza
di leggi possa imporre questa norma suprema come
meta di tutto il mondo greco, non restano che le po-
tenze ideali, educazione e cultura, come strumenti va-
lidi a compiere questo ufficio. A noi piacerebbe sapere,
se Isocrate, nell'accennare qui ai legislatori, abbia
pensato anche a Platone, proprio in quel tempo occu-
pato nella composizione delle Leggi, il che deve essere
stato noto nei circoli intellettuali ateniesi. Tutta la
volontà educatrice del filosofo riceveva da quest'opera
a cui si era accinto una nuova luce. Ma il fatto che egli
si fosse aggiunto ultimo alla lunga serie dei legislatori
ellenici, non fu certo un suò pregio agli occhi d'Isocrate,
perché « delle leggi si lodano le più antiche, dei discorsi
i più nuovi»'°). Ed era questo appunto il vero scopo
d'Isocrate: non già di mettersi in gara con gl'innu-
merevoli legislatori del passato, greci e barbari, ma
di essere il consigliere politico della città e della nazione
e di dire la parola risolutrice della crisi attuale 41).
Secondo lui, anzi la sua opera di educatore è più im-
portante anche di quella dei filosofi o sofisti, che esor-

••) Antid. 79.


'") -Antid. 82.
") Antid. 81, dove s'insiste sul gran numero di predeces-
sori nel campo della legislazione.
1568 [111232] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

tano gli uomini alle virtù della giustizia e temperanza,


in quanto il loro appello alla « phronesis », alla cono·
scenza etica e ad un'azione ad essa conforme è rivolto
solo a individui singoli; a loro basta di conquistare
alcuni pochi uomini 42). L'educazione come Isocrate la
vuole, invece, si rivolge alla città intera e si adopera
per incitarla ad azioni, che facciano lei stessa felice
e liberino anche gli altri Greci dai loro travagli 43).
L' Antidosi è come un monumento innalzato da
Isocrate alla sua paideia, al cui centro egli pone i suoi
scritti, incarnazione della dottrina, e intorno poi vi
raggruppa tutto lo stuolo degli scolari, dagli inizi fino
al presente. Per il lettore moderno l'essenziale è la sùa
eredità letteraria, per la quale egli ancora ci parla.
Ma per gli Ateniesi, e più per quelli che non conosce-
vano bene la sua opera, la lunga enumerazione di uomini
politici o di personalità altrimenti eminenti uscite da
quella scuola dové avere importanza maggiore della
nuda parola scritta. Quella lista infatti è espressione
tangibile di una forza reale che dalla scuola del retore
era rifluita a ·compenetrare tutta la vita della sua pa·
tria. Da essa ognuno poteva apprendere che cosa fosse,
per Isocrate, paideia, e constatare come fosse incompa-
rabile il contributo positivo dato da lui, col formare
uomini come quelli al compito di reggitori e guide della
loro patria. Di ciò, generazioni più tarde, nell'antichità,
hanno fornito la controprova, quando dotti alessan·
drini cercarono di precisare l'efficacia politica delle
scuole filosofiche, specie della platonica, col ricercare
la carriera dei singoli scolari di Platone nella vita po·
litica dei loro stati 44). I più di questi ci si rivelano
&2) Antid. S4.
0 ) Antid. 85.
") Come si sa da un indice di filosofi stoici ed accademici,
opera di Filodemo ritrovata in papiri, Ermippo, lo scolaro di Cal-
limaco, compose un libro « Sugli uomini che dalla filosofia 1dun·
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m233] 1569

rivoluzionari o sperimentatori di corso breve e violento.


È stato da noi già valutato questo fenomeno come
espressione della problematica raffinata di costoro, che
li condannava all'isolamento; il che, però, nei ter-
mini della politica reale dello stato com'era in quel-
1'età, si manifesta per lo più come incapacità loro a
inserirsi nello stato come collaboratori o ministri. Iso-
crate si accorge bene di ciò, quando scrive nell' Anti-
dosi la storia della propria scuola, e anche agli occhi dei
contemporanei la parte attiva presa dai suoi scolari
al servizio della loro città dové costituire per lui gran
titolo di merito.
A questo punto doveva subito riemergere lantico
problema: che responsabilità si può insomma attri-
buire all'educazione nella riuscita degli uomini? Pla-
tone aveva fatto colpa nel Gorgia alla vecchia retorica
giudiziaria di insegnare ai suoi adepti la sinistra magia
di convertire la causa peggiore nella migliore. Isocrate,
agli inizi, aveva protestato contro tale accusa e affer-
mato il principio secondo cui labuso fatto dai malvagi
dei beni della vita non costituisce ancora prova che
questi siano mali ' 5). Ora però, al termine della car-
riera, egli è pronto . ad assumersi tutta la responsabi-
lità per i suoi scolari, a patto che non si voglia, al con-

sero al potere supremo», sul cui contenuto siamo però male in-
formati. Aveva naturalmente in esso un posto importante il ti-
ranno Ermia di Atarneo, amico strettissimo e suocero di Ari-
stotele, e con lui i suoi consiglieri politici, Erasto e Corisco, sco-
lari di Platone. Cfr. PI. Ep. VI e il mio Aristoteles, p. 112 ss.
(trad. it. p. 144 ss.). Nell'enumerazione deve essere stato com-
preso anche Dionee con lui alcwri giovani platonici, come Eudemo
di Cipro e i suoi compagni di fede, caduti a Siracusa nella lotta
contro la tirannide. Scolaro di Platone era stato anche l'uccisore
di Dione, Callippo, che poi s'impadronì del potere e lo tenne da
tiranno. Anche a Eraclea sul Ponto ci fu uno scolaro d'Isocrate
e di Platone, Clearco, che si fece tiranno e fu. poi sbalzato e ucciso
da un altro scolaro platonico, Chione. Su Eraclea cfr. EDUARD
MEYER, Geschichte des Altertums, V § 980. ·
"). Cfr. Nic. 4 e tutta l'introduzione del discorso.
1570 [II1234] LIBRO IV- IDEALJ DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

trarlo, tògliere al maestro ogni parte nell'azione di


quelli, ora che i servizi resi da loro sono evidenti agli
occhi di tutti 46). Isocrate lascia al lettore la decisione,
ma il suo pensiero è evidentemente rivolto alle discus-
sioni analoghe, che dopo la condanna di Socrate erano
sorte a proposito dei rapporti di lui con Crizia e Alci-
biade. Allora i Socratici si erano affaticati a purgare il
maestro da ogni corresponsabilità nella parte funesta
avuta da quegli uomini durante il più duro periodo
della storia ateniese. Isocrate, dal canto suo, non ha,
come afferma, nessuno scolaro di cui vergognarsi, nes-
suno che abbia lavorato a danno di Atene 47). Nessuno
a questo punto si sarebbe tenuto dal pensare al più
famoso dei suoi scolari, a Timoteo, il figlio di Conone,
che pochi anni prima della pubblicazione dell' Antidosi,
dopo avere per due volte, come uomo di stato e condot-
tiero della seconda lega marittima che aveva contri-
buito a fondare, riportato Atene al culmine della po-
tenza, era stato deposto dal tribunale popolare per il
suo contegno nella guerra sociale e condannato a una
multa esorbitante, per morire poco dopo in volontario
esilio. Quest'uomo era stato naturalmente contato gra-
vemente nel passivo d'Isocrate, essendo noti a tutti i
loro stretti rapporti. Né poteva esserci dubbio che
questa amicizia non fosse stata soltanto vincolo di
uomini, ma anche dichiarata comunanza di sentire
politico. Notoriamente Isocrate aveva più volte la-
vorato, con la sua opera di pubblicista, per Timoteo 48),
come d'altra parte costui doveva alla scuola di lui
i fondamenti della sua visione politica. Sicché la dichia-
razione del maestro, di esser pronto a prendersi tutta
la responsabilità dell'agire-.di tutti i suoi scolari, equi-

") Àntid. 95-96, e&. 104.


") Antid. 98 ss.
'") Cfr. 6Upra pp. 161ss.,196 ss. eDemosthenes, trad. it. p. 236 t.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m235] 1571

vale in questo momento a una provocazione dell'opi-


nione pubblica. La quale tanto più ci sorprende, quanto
più siamo abituati a riscontrare in questo autore una
cautela estrema in ogni argomento che possa sfiorare
la sensibilità del demos.
I motivi che possono aver cooperato a una tale
sortita di fronte al pubblico sono verisimilmente di
natura assai complicata. Quella specie di critica irre-
sponsabile, che andava per le bocche di tutti e faceva di
Isocrate il padre della reazione politica, incarnata, per i
circoli radicali, nelle figure dei suoi scolari, poté essere
per lui motivo di seria inquietudine. Quanto più egli
condivideva il pensiero di Timoteo sull'infiacchimento e
la caduta finale della seconda lega marittima, tanto
più doveva importargli di mantenere immacolato il
nome dell'amico, almeno nel ricordo di coloro di cui
gli stava a cuore in qualche misura il giudizio. Inoltre
in questo caso era impegnata a fondo la fama della
sua scuola, del suo sistema educativo, ed egli doveva
temere che quella connessione intima della sua paideia
con la politica reale, che era, in realtà, il suo orgoglio,
la meta sognata fin dagli inizi 49 )~ non contenesse una
minaccia mortale contro l'opera di tutta la sua vita.
Questo viluppo di motivi strettamente interdipendenti
ebbe tal forza, che egli decise di gettar sulla bilancia
in favore del grande scolaro tutto il peso élella sua
autorità morale e letteraria. I suoi timon, e il sen-
timento di aver visto più a fondo nella natura dei
fatti e soprattutto nel carattere di Timoteo gli dettero
il coraggio di questo passaggio all'offensiva, unico in
tutta la sua opera. Per esso si svela ai nostri occhi
la tragedia di questa carriera di educatore, in apparenza

49 ) Cfr. Soph. 21, Hel. 5, Paneg. 3-4. L'affermazione d'Iso·

crate, che la retorica « ha per oggetto le più grandi cose umane»,


risale al suo maestro G<Jrgia; cfr. Pl. Gorg. 451 d.
1572 [rn236] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

cosi fortunata, che è in pari tempo la tragedia dello


stato ateniese, affondando le radici nell'antico problema
delle relazioni di grandi personalità con la massa, cioè
nella vita della democrazia greca.
Il ritratto che Isocrate traccia di Timoteo campeg-
gia sul fondo sfolgorante delle sue imprese di generale
e di càpo della seconda lega marittima. E il fastoso
ornamento delle lodi non appare esagerato ma com-
misurato alla grandezza dei suoi meriti. Isocrate mette
a fronte il numero delle città da lui conquistate con le
vittorie di tutti i generali ateniesi del passato per con-
statare come tutti siano stati largamente superati da
Timoteo 50). Quasi figure simboliche alla base del suo
monumento appaiono un dopo l'altro i nomi delle sue
vittorie: Corcira nel mar d'occidente, Samo nella Ionia,
Sesto e Crithote sull'Ellesponto, Potidea e Torone sulla
costa di Tracia, e ancora la battaglia navale di Alisia,
la pace imposta a Sparta, che aveva infranto la sua pre-
ponderanza e aperto la via alla sconfitta definitiva di
Leuttra, infine l'annientamento della lega calcidica 51 ).
Eppure l'uomo che colse tali vittorie appare, nella
gloria di tutte le sue imprese, straordinariamente umano,
non mai nella posa eroica di un condottiero dei tempi
antichi. Non era la sua una fibra robusta e violenta
fatta più dura dalla vita del campo, ma anzi delicata
di salute e nervosamente sensibile. In confronto con
quel tipo di bravaccio tutto segnato di cicatrici che
era Charete, il fulmine di guerra del partito radicale,
che Isocrate qui certamente ritrae senza nominarlo,
Timoteo rappresentava l'ideale del generale moderno.
Uomini del tipo di Charete erano da lui usati come uf-
ficiali subalterni; per suo conto egli eccelleva in tutto

• 0) Antid. 107.
61 ) Antid. 108-113.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m237] 1573

ciò che fa il vero e grande capo supremo 52), Vedeva


il problema della guerra nel suo insieme, e aveva l'oc-
chio così al nemico come agli alleati; concepiva il suo
compito politicamente e militarmente insieme; sapeva
mantenersi indipendente nella condotta delle opera-
zioni dalle influenze del retrofronte e pure conduceva
a fine con successo le campagne 53). Era un maestro
nel mettere in piedi eserciti adatti volta per volta allo
scopo da raggiungere, e sapere vivere con essi e farli
vivere di mezzi propri, senza aggravio della città 54).
La sua forza di capo non stava nel pugno di ferro, ma
nel dono di conquistar moralmente. Guadagnandosi fi-
ducia e amicizia egli seppe ottenere tutto quello che
poi i suoi successori ripersero per aver risvegliato l'odio
dei Greci. A lui stava più a cuore la popolarità di Atene
presso gli i:J.tri Greci che la sua propria nell'esercito 55).
Tutta questa descrizione è fatta senza dubbio con
l'occhio rivolto alla catastrofe della seconda lega ma-
rittima, di cui era stata ragione l'odio e la sfiducia
dei Greci contro Atene 56), sebbene Isocrate non lo
dica espressamente, contentandosi di ravvisare il prin-
cipio di tutta la sciagura. nel fatto che gli Ateniesi
non avevano riconosciuto il loro vero capo. Egli pa-
ragona Timoteo con un altro celebratissimo generale
moderno, Lisandro, e a Timoteo dà la palma. Lisandro
si era guadagnato d'un tratto la gloria con la incre-
dibile fortuna d'un momento; Timoteo invece, in pa-
t'ecchie situazioni diverse e tutte difficili, aveva sempre
colto nel segno per vigore e chiarezza d'intelletto 57).

") Antid. 114-117.


68) Antid. 117-118; 121.
") Aniid. 119.
u) Antid. 121-124.
118J Come era stato previsto da Isocrate già nell'Areopagitico
8; 17; 81. Cfr. anche Panath. 142.
57 ) Antid. 128.
1574 [m238) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Gli Ateniesi, prosegue Isocrate, sentiranno una grave


accusa in questo elogio di un generale da loro per tre
volte deposto, e dal punto di vista della assoluta giu-
stizia egli deve affermare senza riserve che il proce-
dere di Atene verso uno dei suoi figli più grandi è
stato vergognoso. D'altronde chi pensi alla natura
umana, alla sua debolezza e insipienza, all'invidia che
oscura ogni cosa grande e splendida, chi pensi ai tempi
torbidi e sconvolti troverà l'avvenuto anche troppo
comprensibile 58). Inoltre anche Timoteo stesso ha con-
tribuito in parte a questo disconoscimento. Isocrate lo
ammette e con ciò abbandona il campo della discus-
sione di ()pinioni politiche per trasferire la questione
sul terreno che è più suo, il terreno dell'educazione.
Timoteo (egli dice) non è stato né un nemico del po-
polo, né un nemico dell'umanità, non ha avuto su-
perbia né alcun altro difetto di questo genere. Ma
l'altezza dell'animo, che era il suo strumento di gran
capitano, Io rendeva difficile nei contatti quotidiani
facendolo apparire altezzoso e brusco 59). E qui Iso-
crate fa una dichiarazione che è d'importanza grandis-
sima per i suoi rapporti con lo scolaro, in quanto di-
mostra che la sua influenza educativa era durata al
di là degli anni di scuola. Egli era rimasto per Timo-
teo il maestro e il consigliere anche quando questi era
al culmine della sua carriera: «spesso egli ha udito da
me parole come queste: bisogna che l'uomo politico,
che vuole essere accetto alla gente elegga si le azioni
più utili e migliori e le parole più veraci e più giuste,
ma anche pensi continuamente a che tutti i suoi atti
e parole appaiano ispirate a cortesia e amore per gli
uomini » 80).

68) Antid. 130.


") Antid. 131.
IO) Antid. 132.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAlDEIA [m239] 1575

E il discorso trapassa in una ammonizione diretta


a Timoteo, che non tanto vuol essere agiata narrazione
quanto un modello efficace di educazione in atto, come
Isocrate la praticava. Nella vivezza del discorsQ di-
retto è messo sotto gli occhi del lettore, il maestro,
che cerca nel colloquio personale di mitigare l'animo
fiero dell'eroe. Non si può fare a meno di pensare, di
fronte a questa immagine, al modello omerico di cui
Isocrate deve essersi ricordato quando intesseva que-
ste pagine di« verità e poesia»: il discorso di Fenice
ad Achille nel nono dell'Iliade. Anche là lo stesso pro-
blema: come si possa costringere dentro limiti il mega-
lopsychos, il « magri.animo», inserire lui, l'unico, nella
struttura di una comunità umana non sempre disposta
a gratitudine e ammirazione. Il tragico fallimento del
tentativo, che avviene, come Omero lo -ha ritratto, per
la natura stessa del. magnanimo, getta una tragica
ombra di presagio su questa scena di colloquio tra Iso-
crate e Timoteo 61).
Isocrate gli rappresenta la massa com'è: più occu-
pata di ciò che piace e lusinga che di quel che per lei
stessa è bene. Il ciurmatore che- le si accosta con la
faccia sorridente dell'amico di tutti è meglio accetto
del benefattore, che l'affronta con dignità composta.
Ed è verità, questa, di cui Timoteo non si dà pensiero.
A lui basta aver ottenuto grandi successi P.er lo stato,
fuori dei confini, e con questo crede che anche gli uomini
politici di dentro gli debbano esser favorevoli 62). E non
vede che il loro giudizio dipende dalla benevolenza e

11 ) Cfr. « Paideia » I 67-73, dove è chiarito il significato


dell'episodio di Fenice per la paideia greca, e additata la tra-
gica consapevolezza in esso implicita dei limiti di ogni educa-
zione. Il ritorno del problema, il riflettersi di una vicenda at-
tuale nel quadro ideale dell'antica poesia sono elementi caratte·
ristici della forma spirituale greca.
••) Antid. -133.
1576 [m240] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

propensione che possano avere per lui, non già dal peso
obbiettivo dei servigi da lui resi. Se avessero una tale
benevolenza sarebbero pronti a passar sopra a tutti
gli errori in cui potesse incorrere l'uomo del loro cuore,
e se questi potesse vantare un successo lo porterebbero
alle stelle 63). Ma Timoteo non capisce l'importanza di
questo fattore, nella politica interna, sebbene non ci
sia nessuno che, in politica estera, dia maggior prova
di tatto e di accortezza psicologica di fronte alla parte
avversa 64). È impossibile per lui far concessioni ai
demagoghi; eppur vede bene l'importanza di questa
gente che gode la :fiducia del popolo 65). Isocrate, che
pure è pienamente d'accordo. con Timoteo, nel disprez·
zare i demagoghi 66), sembra qui disposto a qualche.
sacrificio, perché è la causa quella che gli sta a cuore,
la causa di Atene e di Timoteo, sicché gli par ripro·
vevole la rigidezza intransigente con cui quegli rifiuta
ogni proposta di questo genere: « Timoteo mi dava sl
ragione quand'io gli parlavo così, ma non riusciva
a mutar natura. Era un kalokagathos, degno della città
e della Grecia, ma rimaneva incommensurabile con
quella specie di uomini per cui la superiorità è ragione
di odio» 67).

La forma di discorso dell' Antidosi rende possibile


a Isocrate di porre accanto a quadri come questo, di
alto significato storico, anche argomenti più ordinari,
come l'entità della sua sostanza e· la misura dei suoi
onorari d'insegnante, giacché la finzione che un con·
cittadino abbia richiesto giudiziariamente la permuta
dei beni con lui, rende inevitabile toccare questo lato
63 )Àntid. 134.
64 )Àntid. 135 .
..) Àntid. 136.
80 ) Cfr. Areop. 15; De pace 36; 124.
"') Antid. 138.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m241J 1577

materiale della sua professione 68). Il trapasso è fatto


con leggerezza, come conversando. Un amico, egli dice,
lo ha ammonito a non toccare questo tasto 69). Ma
egli ·ha deciso di non nascondere nulla agli Ateniesi.
Non si può negare una certa compiacenza in questo
trattare la questione di danaro, sebbene i suoi argo-
menti, conforme alla natura dell'orazione, siano pre-
sentati nel tono della difesa. Questa però deve avere
avuto un fondamento in accuse a cui accenna nel-
l'introduzione, parlando dei donativi ricevuti da Ni-
cocle, il defunto re di Salamina in Cipro 70). La grossa
sostanza che Isocrate aveva messo insieme doveva
provocare in quel tempo, quasi inevitabilmente, l'in·
vidia e l'avidità dei più. In altri tempi si sarebbe fatto
volentieri mostra della propria ricchezza; ma allora
ognuno cercava di nascondere quel che aveva per
paura di perderlo, anche se acquistato onoratamente 71).
Isocrate, però, non vuol sottrarsi alla questione, che
anzi è per lui un punto capitale, su cui vuol richiamare
la speciale attenzione del lettore, giacché il successo
materiale del suo magistero è, ai suoi occhi come per
i più dei contemporanei, la misura definitiva dell'opera
prestata 72). È ingiusto, dice, stimare le rendite dei
professori d'eloquenza da quelle degli attori - che
certamente, in generale, passavano per esageratamente
alte - ma si devono paragonare quelli che esercitano

es) Antid. 140 ss.


89 ) Antid. 141, da mettersi accanto a Areop. 56 ss., dove si
parla di colloqui confidenziali con amici che sconsigliavano la pub-
blicazione, e a Panath. 200 ss., dove si riporta una conversazione
con un vecchio scolaro. I tre casi dimostrano che Isocrate usava
di trattare dei suoi discorsi prima della pubblicazione nella cer-
chia della scuola, e «emendarli» qua ·e là (1hta:vop.&ouv, cfr.
Panaeh. 200).
70) Antid. 40.
71) Antid. 159 ss. Cfr. Areop. 33-35.
72 ) Ciò si legge chiaramente tra le righe in Antid. 145 ss.
1578 [m242] UBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

un'arte con quelli della stessa arte e dello stesso rango 73),
Come tale egli prende ad esempio il suo proprio mae-
stro Gorgia, che insegnò in Tessaglia in un tempo
in cui i Tessali erano la gente più rìcca di Grecia e
che passava per essere stato il più ricco dei retori.
Ebbene, anche. lui non lasciò che mille stateri. Con ciò
Isocrate fa con discrezione capire a quanto all'incirca
si può valutare la sua sostanza 74). In ogni modo, dice,
il denaro che egli ha speso per sé è sempre stato meno
di quello che ha dovuto spendere nelle prestazioni pub-
bliche 75). Non ha poi preso denaro dai concittadini,
ma dagli stranieri, che il suo nome attirava ad Atene,
contribuendo cosl alla :floridezza economica della pa-
tria 78). In tutto questo è chiaramente visibile la so-
lida qualità borghese d'Isocrate, se per un momento
si fa il confronto con l'atteggiamento aristocratico di
Platone per cui l'educazione filosofica non fu mai un
affare 77 ). La valutazione del denaro si esprime con la
più grande disinvoltura in tutti gli scritti d'Isocrate,
come qualcosa di assolutamente ovvio; né dobbiamo
dimenticare, uell' apprezzare questo elemento, che egli
si muove nella linea normale segnata da sofisti e re-
tori. Per queste due categorie la misura degli onorari
era del tutto individuale, come per i medici: Non dob-
biamo dimenticare che la posizione di Platone in cose
di questo genere fu l'eccezione 78),

U) Aniid. 157.
") Aniid. 156, cfr. 158. Anche per questo rispetto Isocrate
si compiaceva di esser paragonato col suo celebre maestro Gorgia;
non perà con gli altri sofisti e maestri pubblici, che ritraevano assai
scarse, o almeno modeste, rendite dalla loro attività (Antid. 155).
71) Àn.tid. 158.
") Àntid. 164.
") Isocrate, che era nato in condizioni agiate e poi aveva
perduto il patrimonio paterno nelle vicende· della guerra, è fiero
di essersi potuto rifare una sostanza tutta dovuta alla sua atti-
vità di pubblico maestro di eloquenza. Cfr. Antid. 161.
78) In tutta la trattazione di queste faccende di denaro viene
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [III243J 1579

L'Antidosi è, come abbiamo detto, un'esposi-


zione autobiografica della vita e attività d'Isocrate
che prende la forma cli una difesa della sua paideia.
Questa è caratterizzata da lui mediante i saggi ad-
dotti delle opere, poi con l'elenco degli scolari e delle
imprese e con la valutazione sociale dell'opera edu-
cativa, apprezzabile dalla richiesta che se n'è fatta,
dai prezzi pagati, insomma. Infine, nell'ultima parte,
egli pone una trattazione generale del suo sistema edu-
cativo che si addentra nella fondazione teoretica cli
esso 79 ). Data l'incertezza dominante nel giudizio co-
mune riguardo il valore della « filosofia» e della cul-
tura superiore, Isocrate trova difficilissimo farsi ca-
pire SO). Sappiamo già dai suoi primi scritti program-
matici sull'educazione, il cliscorso Contro i Sofisti e
l'introduzione dell'Elena, che il modo col quale egli
aveva procurato cli definir chiaramente la sua posi-
zione era sempre stato cli mettere in rilievo quel che
lo clifferenziava dagli altri. Ed anche questa sua ultima
giustificazione e difesa si risolve in un tentativo di
prevenire ogni confusione dell'educazione sua con quelle
ispirate ad altre tendenze. Così il proposito cli sottrarsi
a false interpretazioni gli offre contemporaneamente
graclita occasione cli sottoporre a giudizio gl'ideali altrui.
Grancli sono, egli pensa, le conseguenze cli un'esatta
soluzione del problema educativo: chi tiene la gioventù
tiene lo stato 81 ). Questa convinzione sostiene tutta la
trattazione d'Isocrate, ed egli l'afferma subito al prin-
cipio, sicuro cli potere avvincere a sé con un tale prin-
in luce lo spirito, diciamo così, « vittoriano» dell'ultima genera-
zione del V sec., a cui Isocrate apparteneva. Egli non si sentiva
certo a suo agio nella economia povera e nello « spirito sociale»
degli anni verso il 350.
70 ) È la parte principale del discorso e. incomincia con Àn-

tid. 167.
80 ) A ntid. 168.

81 ) Antid. 174.
1580 [m244] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

cipio anche coloro che son piuttosto indifferenti ai


problemi educativi in sé. Per lui l'influenza sui giovani
non è tanto una questione di potenza, quanto piut•
tosto di salvezza, di conservazione della città. Se fosse
vero che leducazione rovina i giovani - così come
afferma l'accusa immaginaria, e come si era detto più
volte dal processo di Socrate in poi - essa dovrebbe
essere soppressa :fino dalle radici. Ma se invece è salutare,
si deve farla :finita col calunniare coloro che la rappre·
sentano, e devono esser puniti i sicofanti; alla gioventù,
poi, si deve consigliare di dedicarsi ad essa più che
a qualsiasi altro interesse della vita 82 ).
Isocrate suppone accettato universalmente il prin·
cipio che ogni educazione spirituale superiore poggià
sullo sviluppo della capacità umana alla scambievole
comprensione. Non è essa un'appropriazione di mere
nozioni di un qualsiasi genere, ma ha intimamente a
che fare con quelle forze che tengono unita la comu·
nità umana: e sono le forze che la parola logos com·
prende e stringe in sé 83). Educazione superiore è edu·
cazione al linguaggio in questo senso, cioè alla lingua
come discorso significativo, relativo alle cose e interessi
fondamentali per la comunità umana, quelle che il
Greco chiamava «le cose della città» (TiX 7toÀi-nxoc).
L'uomo, essere costituito di anima e corpo, ha bisogno
di cura in questo doppio aspetto, e in vista di ciò le
generazioni passate hanno creato la coppia di ginna·
stica e di educazione intellettuale 84). Quest'ultima Iso·
crate non la designa qui, come si soleva, col nome di
«musica», ma la chiama «filosofia» o «amore della
sapienza», certo perché il rapporto stretto della poesia

81 ) A.ntid. 175.
Questo tema è stato già svolto di proposito in Paneg.
88 )
48 ss., e Nic. 6.
84) Antid. 180-181.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m245) 1581

e delle altre arti musiche con la formazione dell'in·


telletto è, per la sua mente di greco, un principio fermo
che non abbisogna di dimostrazione 85). Tra le due forme
di paideia, la ginnastica e l'educazione intellettuale ha
luogo un esteso parallelismo. Ambedue per natura
consistono in gymnasiai o esercitazioni. Il maestro di
ginnastica insegna a valersi di quegli atteggiamenti
corporei che servono per gli agoni e per essi sono stati
inventati; il formatore dell'intelletto insegna le forme
fondamentali del discorso, di cui tutti ci serviamo. E qui
Isocrate fa posto, come già nel discorso Contro i Sofisti,,
alla sua teoria delle « idee» del Logos, anche se lo fa
piuttosto per via di allusione, come gli era suggerito
dalla natura generale di questa esposizione del suo
metodo 86). Anche Platone, come si è già mostrato,
non si comporta altrimenti rispetto al lato tecnico
della teoria delle Idee, esponendo nella Repubblica

86) Questa trasformazione della coppia ginnastica-musica in


ginnastica-filosofia ( = retorica) mostra chiaro che Isocrate vuol
superare l'antica paideia dei Greci e porre una nuova, più alta
forma di cultura intellettuale al posto dell'antica educazione
fondata sulla musica. Tuttavia, proprio come avviene in Platone
nella Repubblica per l'ideale filosoficò dell'educazione dei reggi-
tori, quello che Isocrate chiama « filosofi.a» presuppone la for-
mazione musicale-poetica del vecchio stile. Nella sua estrema
vecchiaia (cfr. Panath. 34) Isocrate vagheggiò il pensiero di trat-
tare a fondo della posizione della poesia nella cultura. Ma non
andò oltre l'intenzione.
88) Àntid. 182-183. Le forme o « idee» del Logos corrispon-
dono, sul piano della formazione intellettuale, agli « schemata »
del corpo che sono insegnati dagli allenatori per la lotta. L'istru-
zione retorica comincia con lanalisi del discorso, nella quale si
isolano queste forme-base elementari. Segue l'addestramento a
ricomporre di nuovo in unità gli elementi, e raggruppare il ma-
teriale concreto sotto gli aspetti generali che sono risultati dal
processo analitico. Cfr. Antid. 184: auvdps:tv xa:.&' !v lxa:a-.ov.
Il significato di questo doppio procedimento sta nel dare allo
scolaro maggiore esperienza (éµm:tpov 7tOLEi:v) e nell'affinare
(&xptffoiiv) in lni la percezione di queste forme, in modo da
accostarsi sempre più al caso singolo. Questo metodo poggia
sull'elaborazione di una certa media di esperienza: non può
trasmettere pertanto una scienza infallibile.
1582 (m246] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

la sua paideia. Non solo nella dottrina delle « idee»,


ma· anche in ogni altro argomento concernente il rap·
porto fra sapere, esercizio e giusta percezione del kai·
ros, l'Antidosi non fa che presentare variazioni di con·
cetti già svolti da Isocrate nel discorso Contro i So-
fisti 87). Non c'è stato quindi nessun cambiamento nel
nucleo fondamentale del suo sistema retorico. E ciò è
da dire anche per il valo.re assegnato ai singoli fattori
dell'educazione, cioè disposizione naturale, esercizio e
apprendimento 88). Isocrate cita anche un lungo para·
grafo di quel vecchio scritto programmatico, allo scopo
di mostrare che I' opinione relativamente modesta sul
valore della paideia, che egli professa ora, alla fine della
sua carriera di educatore, era già stata da lui formulata
chiaramente già allora 89).
Contro due classi di spregiatori della paideia si
rivolge Isocrate 90). I primi dubitano radicalmente della
semplice possibilità di una educazione intellettuale, che
pretenda di condurre gli uomini e al dominio della pa·
rola e all'azione àppropriata 91 ). I secondi, pur conce·
dendo che l'istruzione intellettuale e retorica è possi·
bile, sostengono che essa fa moralmente peggiori gli
uomini, tentandoli ad abusare della superiorità intel-
lettuale acquisita 92). Ambedue i punti di vista, come
appare chiaro, erano già vecchi problemi, appartenenti
a quel giro di discussioni che già presso i Sofisti si so-
levano porre nella introduzione alla dottrina, e ne
erano tradizionalmente una parte costitutiva. Troviamo
qualcosa di analogo nel discorso di Protagora, nel

8 7) Cfr. supra, p. 108 s.


88) Antid. 187 ss.
88 ) Antid. 194. Il luogo qui citato è Soph. 14-18. In Antid. 195
è rilevata l'identità di concezione dei due scritti.
00 ) Antid. 196 s,
91 ) Antid. 197.
02 ) Antid. 198.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m247J 1583

dialogo platonico, sul problema della educabilità


umana 93).
Quanto al dubbio assoluto e di principio sulla pos-
sibilità dell'educazione, Isocrate lo confuta con argo-
menti che in parte ci ritornano davanti più tardi,
nello scritto pseudo plutarcheo sulla educazione dei gio-
vani. Questo scritto è stato da noi ricondotto alla pe-
dagogia dei vecchi Sofisti; e par bene che già Isocrate
derivi da loro 94). Come i corpi, egli dice, anche i più
deboli, si rafforzano in seguito a cure attente, come gli
animali Bi ammaestrano oppure subiscono mutazioni
di carattere se addomesticati, così esiste anche una forma
di allevamento che modella l'anima degli uomini • 5).
I profani di solito non danno il giusto valore al fattore
tempo e diventano increduli subito, se non vedono i
frutti delle fatiche dopo pochi giorni o alla più lunga
dopo un anno 96). E qui Isocrate riproduce la sua teoria
dej diversi gradi di efficacia della paideia 97). Ma seb-
bene ammetta questa differenza, egli tien fermo tut-
tavia che -in tutti coloro che siano appena dotati tale
efficacia è osservabile. In più o meno grande misura
essi tutti portano l'impro:Q.ta di un'unica formazione
intellettuale 98).
Al secondo gruppo di oppositori egli obbietta che
non è immaginabile alcun motivo umano, né di pia-
cere né di guadagno né d'onore, che possa indurre un
educatore a proporsi intenzionalmente il traviamento
dei giovani 99 ). Anzi, la mercede più alta di un educa-

88) PL Prot. 320 c ss•

..) Cfr. « Paideia» I 534 89 •


..) Antid. 209-214.
••) Antùl. 199-201.
97 ) Antùl. 201-204. Già in Soph. 14-15 era messa in rilievo

la diversità di effetto della techne secondo le diverse attitudini.


98) Antid. 205-206.
99 ) La confutazione del secondo gruppo di avversari. di
quelli cioè che pur ritenendo possibile educare per mezzo della
1584 [m248] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

tore è che i suoi scolari giungano alla kalokagathia e


divengano personalità perfettamente svolte nel costume
e nell'intelletto, sì da vivere in posizione d'onore tra
i concittadini. I buoni scolari sono per lui la racco-
mandazione migliore, mentre i cattivi dovrebbero dis-
suadere gli altri dall'accostarsi a lui 100). Persino un
maestro che fosse personalmente vizioso non deside-
rerebbe che gli scolari gli somigliassero in questo lOI).
Se poi son gli scolari che portano a scuola una cattiva
indole, allora è ingiusto far di ciò responsabile l'educa-
zione. Questa deve esser giudicata dai suoi rappresen-
tanti buoni e ben maturati, non dai prodotti degeneri
che della formazione non sanno far profitto 102). Iso-
crate, certo, non si addentra nei problemi già posti da
Platone, se cioè gli stessi concetti di abuso e di inef-
ficacia siano compatibili con quello di vera educa-
zione. Questa è da lui concepita nel suo aspetto più
strumentale, e non pretende né mira a cambiar tutto
l'uomo, ma ne presuppone il nucleo morale. Che questa
poi non sia l'ultima parola d'Isocrate su questo punto,
sarà da vedere in seguito lOS). Se, però - egli prose-
gue - gli scolari vengono ad Atene fin dal Mar Nero
o dalla Sicilia per sentir lui, ciò non avviene certo
perché in quelle contrade ci sia penuria di malvagi,
ma perché in Atene si possono trovare i maestri mi-
gliori 10'). E che l'educazione retorica come tale non
sia allettatrice di uomini al male, lo dimostra la schiera
di uomini di stato che hanno portato Atene al culmine
della potenza, tutti forniti di questo dono che fu il
retorica (cptÀoaocpCot), giudicano però dannosa l'influenza che
essa esercita, comincia con Antid. 215. Sui motivi operanti nel·
l'educatore cfr. Antid. 217 ss.
100) Antid. 220.
101 ) Antid. 221-222.
102) Antid. 223-224.
103) Cfr. infra, p. 258 s.
1°') Antid. 224-226.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAJDEIA [m249] 1585

mezzo per cui poterono compiere le loro grandi azioni.


Come esempi Isocrate cita non solo Solone e Clistene,
i creatori della « costituzione dei padri», ma anche i
grandi uomini dell'età imperialistica, come Temistocle
e Pericle 105), cioè proprio i rappresentanti di quella
educazione retorica e concezione politica che Platone
aveva condannato nel Gorgia e di cui aveva dimostrato,
nel Menone, l'inanità di scienza, riducendole a pura
opinione giusta, frutto di una« divina Moira» 106). Iso-
crate naturalmente conosce queste critiche. Ciò non
ostante quegli uomini rimangono per lui quel ehe erano
stati per gli Ateniesi tutti prima di Platone, e per i
più di loro anche dopo Platone: il modello e la misura
suprema di ogni areté. Delle accuse, dunque, rivolte
alla retorica, non ne resta che una: che cioè si può
anche abusarne; il che vale per qualsiasi arte 107). Ciò
non cambia niente nella fede che Isocrate ha nella
potenza creatrice di civiltà del Logos. E come ritornano,
in quest'ultima dichiarazione solenne sulla natura del
suo sistema educativo, tutti i motivi fondamentali del
suo pensiero, momenti di una sintesi totale, così egli
conclude questa parte dell'apologia ripetendo lette-
ralmente l'entusiastico inno al Logos che nel Nicocle
aveva fatto pronunziare al suo personaggio 108).
Questa difesa si rivolge chiaramente molto più con-
tro altri rappresentanti della paideia, oppositori della
retorica, che contro l'opinione comune in generale. La
polemica contro l'Accademia platonica viene manife-
stamente in luce anche alla fine del discorso. Isocrate
fa carico ai filosofi specialmente di questo, che essi,

105 )Antid. 230-236.


Cfr. Paideia II 253 s., 295.
1° 6 )
107) Antid. 251-252.
108 ) Antid. 253-257. Questo elogio del Logos, che abbiamo
mostrato essere un vero e proprio inno in prosa, è ripreso dal
Nicocle (5-9), cfr. supra, p. 153.
1586 [IlI250] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

pur conoscendo meglio di qualsiasi altro la forza del


Logos, tuttavia lo deprezzano e si associano alle cri-
tiche degli incolti. nella speranza di mettere così in
maggior valore il tipo di educazione loro proprio 109).
Senza dubbio, qui si fa strada fortemente lelemento
personale; eppure Isocrate è visibilmente preoccupato
di tenerlo a freno:, sebbene non nasconda minimamente
il suo animo ostile contro i filosofi della scuola plato-
nica. Egli pensa di avere molte più ragioni di parlar
male di loro, di quante ne abbiano essi nei suoi riguardi.
Dichiara però di non volersi mettere sullo stesso piano
di coloro, il cui animo è guasto per l'invidia 110). Pa-
role come queste non nascono solo dal nocciolo reale
della vecchia contesa che si manifestava già nel
discorso Contro i Sofisti, e nell'Elena; qui c'è anche
un risentimento personale che richiede una speciale
spiegazione, del resto non difficile a trovarsi. È tra-
mandato che Aristotele, quando apparteneva all'Ac-
cademia e v'insegnava, quindi negli ultimi anni di
Platone, introdusse l'insegnamento della retorica. Ed è
anche citata, da queste sue lezioni, la parodia che fa-
ceva di un verso del Filottete euripideo, in questi
termini: «Sarebbe vergogna tacere noi e far parlare
Isocrate» lll). Il proposito di Aristotele, in questo corso

10•) Antid. 258.


110) Antid. 259.
111) V. per -la tradizione sulle lezioni di retorica di Aristo-
tele, BLASs, Auische Beredsamkei.t, Il 64. I luoghi fondamentali
sono Quint. III l, 14 e Filodemo, vol. rhet. II 50 (Sudhaus). Il
verso è una parodia dal Filottete di Euripide fr. 796 NJI. La più
antica trattazione aristotelica del problema educativo della re-
torica, cioè il dialogo perduto Grillo o della retorica. che aveva
a modello il Gorgia, è databile dal riferimento al figlio di Seno-
fonte, nominato nel titolo, la cui morte eroica nella guerra con-
tro Tebe (362) aveva provocato un profluvio di scritti laudativi
(!yxùiµ.t~). La critica di Aristotele partiva da questo notevole
fenomèno letterario. La Retorica· che di lui si è conservata risale,
nelle parti più antiche, agli anni in cui egli insegnava ancora nel-
l'Accademia. V. l'illuminante trattaZione di questo problema
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [II1251J 1587

di lezioni, fu certamente di rispondere a una richiesta


degli uditori, desiderosi di un'istruzione anche formale.
L'insegnamento della retorica doveva così essere on
complemento di quello della dialettica. Ma in pari
tempo era anche on tentativo di porre la retorica su
un fondamento più scientifico 112). Ambedue i pro-
positi dovevano riuscire urtanti per la scuola d'Iso-
crate e provocare il malumore del maestro. Uno degli
scolari di questo, Ce:fisodoro, compose un'opera volu-
minosa, in quattro libri, contro Aristotele; e da certi
indizi si deduce che l'opera risaliva al tempo in cui
questi insegnava ancora nella scuola di Platone 113).
La malizia della canzonatura di Aristotele rende sen-

nel libro di FB. SOLlllSEN, Die Entwicklung deT aTistotelischen


Logilc und RhetoTilc (« Neue philol. Untersuchungen hersg. v.
W. Jaeger» Voi. IV) Berlino 1929, p. 196 ss.
112) Questo fondamento è la dialettica. Anche Platone
nel FedTo ritratta in senso nuovo quel problema, se la retorica sia
o no una vera arte, a cui nel Gorgia aveva risposto con una re-
cisa negativa (cfr. qui sotto il capitolo dedicato al Fedro); Egli
sostiene ora che la retorica deve essere fondata sulla nuova base
della dialettica. Il SOLlllSEN (op. cit.), tracciando lo sviluppo della
retorica di Aristotele giovane, ha additato un parallelo perfetto
a questo mutamento di. atteggiam_ento. platonico, ma, ciò fa-
cendo, non ha dato al Fedro il suo giusto posto. Per me la cosa
più verosimile è che la composizione del Fedro cada dopo il Grillo
di Aristotele (dopo il 362), ma non sarei disposto a portarla troppo
in giù. Nel Grillo, ancora come nel Gorgia, la retorica non era
una techne; nel Fedro essa può diventarlo. Le lezioni aristote-
liche di retorica riflettono nei loro vari momenti questo processo.
In ogni modo, mètterei il Fedro prima dell'Antidosi (353).
113} Cfr. SOLlllSEN, op. cit. p. 207. Il BLASS (op. cit. p. 452)
spiega le puntate polemiche di Cefisodoro alla teoria platonica
delle Idee (in un libro contro Aristotele !) ancora al vecchio modo
delle scuole della tarda antichità, cioè attribuendo allo scolaro
d'Isocrate un'assoluta ignoranza. Egli, pertanto, data lo scritto
di costui dopo la morte d'Isocrate, quando la secessione di Ari-
stotele dalla scuola platonica doveva essere universalmente nota,
essendosi manifestata con la fondazione di una scuola sua pro-
pria e con la polemica letteraria. La verità è, evidentemente,
che Aristotele insegnava ancora nell'Accademia, seguace fedele
di Platone, quando Cefisodoro scrisse il suo libro contro di lui
e in esso attaccò. la teoria platonica delle Idee. Cfr. p. 37 s. della
trad. ingl. (Oxford 1934) del mio ÀTÌstoteles (trad. it. p. 47).
1588 [rn252] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

z'altro verosimile, che la sua innovazione non abbia


avuto luogo senza mordente polemica, anche se egli
nella Retorica adduce spesso come esempio i discorsi
d'Isocrate. Gli scolari poi avranno fatto del loro me-
glio per inasprir la contesa. Ed è comprensibile che
gli stessi vecchi e venerandi maestri, Platone e Iso-
crate, si sian sentiti in obbligo d'intervenire per con-
sigliare moderazione.
Quanto a Platone, la ricerca moderna tende a porre
il Fedro, e quindi le famose parole alla fine di que-
st'opera, in cui il filosofo riconosce in Isocrate una
vena filosofi.ca, in questi anni più tardi, e non già,
come fu ritenuto sicuro un tempo, negli anni giova-
nili 114 ), quando quelle espressioni di lode, di fronte al-
l'atteggiamento d'Isocrate, cosi polemico e scostante
fin da principio, si comprenderebbero male. Intenderle
come ironiche è una scappatoia impossibile, tanto de-
cisa è l'impronta di verità che portano in sé; e d'al-
tronde Platone dové pur sentir fortemente, non ostante
ogni riserva, quanto Isocrate realmente differisse da
retori del calibro di un Lisia. Inoltre egli non può
aver fatto dire a Socrate profeticamente che Isocrate
avrebbe tratto qualcosa di veramente originale dalla
sua naturale disposizione filosofica, senza essere si-
curo che i fatti avevano risposto, almeno in qualche
misura, all'aspettativa del maestro. La situazione è
dunque quella degli anni tardi, e in essa s'inserisce
bene la ·discrezione della polemica d'Isocrate nell' An-
tidosi 110). Essa è il contrappeso esatto di quel relativo
elogio che Platone gli tributa nel Fedro. Le conces-
sioni che egli fa a Platone consistono in una mutata

U&) Cfr. infra, p. 319 s.


116 ) Isocrate, Antid. 258, dice prudentemente che «.alcuni»
filosofi eristici sparlano di lui; egli, quindi, vuol segnare una dif-
ferenza tra Platone in persona e il suo scolaro Aristotele.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA (m253] 1589

valutazione degli stuili teoretici. È disposto ora a ri·


conoscere che la dialettica o « eristica»; come sempre
preferisce chiamarla, e le scienze matematiche, astro·
nomia e geometria, non danneggiano i giovani, ma gio·
vano loro, se anche il giovamento non è cosi grande
come sembra ai cultori ili quelle scienze 116). Con ciò
egli pensa evidentemente all'Accademia platonica, che
fin da principio, ma specialmente negli ultimi decenni
ili Platone, fu caratterizzata da questi due rami d'in·
segnamento 117). Certo, egli dice, «la maggior parte
della gente» considera queste cose ciarle oziose e micro-
logia, non riuscendo a vedere qual sia il loro vantaggio
nella vita pratica 118). Ci torna in mente a questo punto
che nei primi scritti Isocrate stesso l'aveva pensata
cosi e aveva usato queste stesse precise parole nel·
l'attaccare Platone 119). Ora, invece, costretto sulla ili-
fensiva, egli ha forse anche imparato a guardar le cose
da un altro punto ili vista e concede volentieri che gli
stuili logici e matematici hanno valore non iniliffe-
rente per la formazione intellettuale, sebbene mantenga
e rinnovi il primitivo giudizio sulla loro inapplicabi-
lità nella vita pratica 120). Comunque, pensa, non si
può chiamare filosofia questa cultura puramente con-
cettuale-logica, poiché non conduce né al parlar bene
né all'agir bene. È un'esercitazione dell'anima, una
scuola preparatoria alla vera :filosofia, cioè alla educa-
zione politico-retorica 1 21), e, in quanto tale, è da con·

118 ) Antid. 261. Lo stesso atteggiamento assume Isocrate nel


suo ultimo scritto, il Panatenaico; cfr. Panath. 26.
117 ) Platone stesso presenta la sua paideia come un'unione
di matematica e dialettica, nel VII libro della R&pubblica.
118 ) Antid. 262.
11 9) In Soph. 8 egli usa la stessa coppia di parole: &SoÀec;x(cx
xcxl µtxpoÀoy(oc, con riferimento alla formazione dialettica co-
me Platone la voleva.
120) Antid. 263-265.
121) Antid. 266.
1590 [Ili 254) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

siderarsi pressoché uguale allo studio della gramma-


tica, musica e poesia, che serve allo stesso scopo: ren-
dere gli uomini ricettivi per i problemi più alti e più
seri 122). Il temporaneo contatto con· quella« cosidetta
filosofia» dei platonici sembra perciò a lui, come al
Callicle del Gorgfo, deside!abile, purché però s'impe-
disca che per esso la natura dei discenti si inaridisca 123),
ed essi finiscano col cacciarsi nelle secche degli antichi
sofisti (egli pensa a quelli che noi chiamiamo preso-
cratici) con le loro futilità. Questa specie di giochi di
prestigio, ammirati solo dagli ignoranti, dovrebbero
essere totalmente estirpati da tutte le sedi dell'edu-
cazione 124), E per l'appunto, proprio in quegli anni
si rinnovava nell'Accademia l'interesse e lo studio di

122 ) Cerio, in Antid. 266 Isocrate si mostra disposto a con-


siderare la dialettica come una forma di attività più virile della
educazione musicale vecchio stile impartita nelle scuole (1ì~1ìix­
crxixÀci'ix), ma generalmente egli le mette tutte e due, quanto
a efficacia educativa, snllo stesso piano. Sembra che da queste
sue espressioni svalutanti si sentissero offesi i rappresentanti
della consueta esegesi poetica delle scuole; cfr. Panath. 18. Di·
sgraziatamente Isocrate non poté dar compimento al suo pro·
posito (Panath. 25), di dire il suo pensiero, in uno scritto appo-
sito, sul rapporto tra paideia e poesia. È probabile che avesse
in mente come esempio (forse anche come modello?) la Repub-
blica. ·
123 ) Antid. 268. Anche Callicle, in Pl. Gorg. 484 c-d, biasima
nella educazione dìalettica dei Socratici il fatto che essa renda i
suoi adepti, se praticata troppo a lungo, ignari delle leggi e dei
dìscorsi che occorrono negli affari e nella vita pubblica. Essa li
fa « estranei alla vita», privi di qualsiasi conoscenza degli uomini.
Isocrate ha in mente questa critica. Se Platone credé di aver
confutato nel Gorgia queste accuse dì Callicle, Isocrate le riprese
in blocco; una prova, questa, che il conflitto dì questi ideali di
cultura è insopprimibile. Cfr. anche Isocr. Paneg. 28.
124 ) Antid. 268-269. Già in Hel. 2-3 Isocrate aveva attac-
cato i filosofi presocratici, Protagora, Gorgia, Zenone e Melisso
come puri cacciatori di paradossi, e aveva messo in guardia dai
loro successori. Nell'Antidosi nomina Empedocle, Ione, Alcmeone,
Parmenide, Melisso e Gorgia. Naturalmente la critica a Gorgia
non si rivolge alla sua retorica, ma al paradosso « l'essere non
è », che è una scherzosa esagerazione dei paradossi della scuola
cl~~L .
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [rn255] 1591

·quelle antiche dottrine, come si vede dal Parmenide


e dal Teeteto di Platone e dagli scritti dei suoi scolari;
sicché anche quest'ultima è in realtà una puntata di-
retta contro l'Accademia. Se Isocrate poté arrivare ad
ammettere il valore della dialettica platonica e delle
scienze matematiche come ginnastica dell'intelletto, la
speculazione metafisica sull'Essere e la Natura, rap-
presentata dai nomi di Empedocle, Parmenide, Me-
lisso e altri simili, fu per lui sempre soltanto tormento
dell'intelligenza e vacuità 125).
Cosi Isocrate giunge, alla fine, a determinar la· na-
tura della vera educazione e a contrapporla alla falsa
o a quella che solo è vera a metà. Pure proprio a questo
punto si mostra chiaro quanto il suo pensiero dipenda
in realtà da quello del suo avversario. L'indagine filo-
sofica di Platone sull'educazione umana aveva portato
nella luce più chiara della coscienza i problemi essen-
ziali e con tale evidenza che Isocrate non poteva esporre
la sua diversa opinione se non nella forma di una nega-
zione del pensiero platonico. Che cosa è dunque l'edu-
cazione umana, o meglio« filosofia», intesa questa pa-
rola nel suo senso vero, non in quello scientifico pla-
tonico ? Isocrate riprende anche qui cose già dette,
1 ~) Nel Parmenide e nel Teeteto sono vivacemente discussi i
problemi della scuola eleatica, di Eraclito e di Protagora. I ca-
taloghi degli scritti aristotelici registrano scritti speciali (ora
perduti) su Senofane, Zenone, Melisso, Alcmeone, Gorgia e i Pi-
tagorici. Erano studi nati dall'intenso e attivo contatto dell' Ac-
cademia con l'opera dei pensatori più antichi, i cui frutti si scor·
gono già nelle parti più antiche della Metafisica aristotelica, so-
prattutto nel primo libro, che tratta dei filosofi precedenti. Seno·
crate scrisse su Parmenide ed i Pitagorei, Speusippo sui Pita•
gorei, Eraclide Pontico sui Pitagorei, su Democrito e Eraclito.
La polemica d'Isocrate contro i vecchi filosofi appare perciò non
priva di giustificazione, come un elemento della sua critica della
paideia platonica. A tutti i motivi che gliela rendevano odiosa si
aggiungeva anche questa rinascita d'interesse per i presocratici, che
essa promoveva (cfr. Antid. 285). Che e.osa avrebbe mai detto delle
imponenti opere storico-filosofiche che da questi inizi nacquero
poi nella scuola di Aristotele vecchio !
1592 [m256] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

solo cercando di chiarir meglio il suo pensiero 126).


Il punto essenziale è e rimane per lui questo: che non
è dato alla natura umana raggiungere vera e propria
scienza, nel rigoroso senso dell' « episteme» platonica,
di ciò che si deve fare o dire (i due concetti sono per
Isocrate sempre collegati tra loro). Perciò per lui esiste
solo un'unica sapienza (sophia). La natura di questa
consiste nel poter cogliere, nella maggior parte dei casi,
la soluzione giusta per il bene degli uomini, sul fonda-
mento di una mera opinione (doxa). Dovrebbe perciò
esser chiamato « filosofo» colui che si dedica a tali atti-
vità che gli consentano di cogliere il frutto di questa
saggezza pratica o phronesis 127 ). In un punto Iso-
crate sembra concordare con Platone, nel riconoscere
cioè nella conoscenza dei valori {cpp6v'Yj<Jtç), la meta e
l'essenza dell'educazione filosofica dell'uomo. Ma questo
concetto è da lui riportato a quel significato puramente
pratico che aveva avuto nella coscienza etica dei Greci
prima di Socrate, con esclusione deliberata e assoluta
di ogni momento teoretico. Esso non contiene più la
conoscenza della virtù o del Bene nel senso platonico,
perché una tale conoscenza secondo Isocrate non esiste,
o non esiste per esseri mortali 128). Con ciò viene a
perdere legittimità anche l'esigenza di una techne po-
litica, nel senso del Gorgia platonico, la quale dovrebbe
fondarsi appunto su quel sapere assoluto, come Pla-
tone argomentò poi distesamente nella Repubblica. Il
biasimo che Platone riversa nel Gorgia sui grandi

126) Àntid. 270 ss.


1ll1) Antid. 271.
128) Si osservi il rilievo dell'espressione « llD.a tale phronesis »
(ii -rottXU't"'lj ipp6v'ljat~ Antid. 271), per il quale la conoscenza
pratico-politica di valori sostenuta da Isocrate è contrapposta
alla phronesis teoretica di Platone. Sulla trasformazione della
phronesis in conoscenza metafisica dell'essere si veda il mio Ari-
stoleles, P• 85 ss. (trad. it. p. 101 s.).
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [rn257] 1593

uomini politici del passato, di non aver posseduto la


norma infallibile di quest'arte, ricade secondo Isocrate
sul censore stesso, che applica nel giudizio degli uomini
una misura più che umana, e cosi fa torto proprio ai
migliori. E in quel che Platone più tardi, nel Me-
none, aveva detto di quegli uomini celebrati, che, cioè,
la loro virtù si era fondata non su un sapere reale,
ma solo su una giusta opinione largita loro come« dono
divino» (.&s(~ µo(p~}, proprio in questo Isocrate vedeva
il più alto elogio che possa tributarsi a un mortale t29).
Mentre per Platone il grado più alto dell'areté e della
paideia comincia solo al di là di quei resultati e di quelle
vittorie che solo nascono dall'istinto e dall'intuito, la con-
cezione educativa d'Isocrate si muove, consapevol-
mente limitata e fondamentalmente scettica, soltanto
sul piano dei pareri vari, della mera opinione. Per lui
l'opinione giusta non è cosa del sapere esatto, ma del
genio, che come tale rimane inesplicabile e non è frutto
di educazione o allevamento.
Nell'impressione che Isocrate ha su Platone e i
Socratici, che essi abbiano eccessivamente sopravalu-
tato il potere della paideia, è da cercar la ragione del-
l'ingiusto ed esagerato giudizio di lui sugli avversari,
che, secondo lui, manifesterebbero la pretesa di sapere
introdurre virtù e giustizia anche in uomini di mal-
vagia natura 130). I limiti intellettuali d'Isocrate non
appaiono mai più chiari che nella sua critica alla cri-
tica platonica della paideia. Egli giunge, è vero, no-

1 2 9 ) Quando si vede che in Antùl. 233-234 appaiono accanto


a Solone e a Clist ene, come modelli dell'ideale politico-retorico
dell'aret6, anche i politici del periodo classico della democrazia
ateniese, Temistocle e Pericle, che Platone aveva attaccato nel
Gorgia e nel Menone, non pu~ sfuggire che Isocrate qui identifica
se stesso con gli uomini colpiti dall'accusa platonica, proprio
come precedentemente (cir. nota 120) aveva fatta sua la causa
di Callicle.
2• 0) Antid. 274.
1594 [m258] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nostante la sua avversione alle sottigliezze concettuali


della dialettica, ad apprezzarne il valore di mezzo edu-
cativo di qualità formali, arriva perfino a concedere
la stessa cosa alla matematica, più lontana ancora
della dialettica dal suo concetto di « filologia», cioè
di « amor del discorso» 131); ma quello che sempre
e radicalmente gli manca è la comprensione di quella
purificazione che la dialettica attua nell'anima dirom-
pendo la cortina dei sensi; la sua intelligenza rivolta
meramente al pratico non penetra mai, al di là di que-
sto confine, fino a quella chiarezza mistica della con-
templazione pura di una norma assoluta, in cui alla
fine è radicata la certezza platonica sulla possibilità
di un'educazione superiore dell'uomo. Isocrate, per va•
lutare questa altissima concezione della paideia, adotta
il criterio della sua applicabilità ad un gran numero
di uomini, e viene cosi a concludere che si tratta di
una meta illusoria. L'ultima, inappellabile istanza del
suo giudizio rimane sempre il comune intelletto umano,
dal cui punto di vista il ponte lanciato da Platone tra
quella Idea assoluta e il compito etico e educativo ap-
pare un ponte di nebbia 132).
Con tutto ciò la tendenza u1timamente manife-
stata nell'Accademia a occuparsi della retorica dové
presentare per Isocrate, prescindendo dalle critiche che
di là gli venivano, anche un lato positivo. C'era in
quella tendenza l'ammissione della necessità imprescin·
dihile di un'accurata formazione linguistico-formale, e
fu questa forse a ispirare ad Isocrate certe parole, al·

111) «Filologia», Antid. 296.


10) Àntid. 274-275: «un'arte come quella che i dialettici
vorrebbero non è mai esistita in passato né esiste ora. Ma finché
una tale paideia (iJ -.ota:u-.'ll 7ta:t8e!a:) non si è scoperta si deve
cessare di prometterla agli altri». La Ò7t6crxe:<nc; di cui qui si
parla è ciò che il maestro s'impegna d'insegnare agli scolari (v.
« Pairlria » TT l ll4): la parola "qnivale a t7t&yye:Àf!a: (professio).
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [rn 259] 1595

trimenti non facili, dell' Antidosi: che cioè la gente


che si occupa di educazione etica (nel senso di Pla-
tone) migliorerebbe se stessa dedicandosi di più alla
retorica e dirigendo il proprio « eros» all'arte della
persuasione 133). Qui non si allude soltanto allo svi-
luppo delle capacità intellettuali, ma evidentemente
anche al miglioramento morale del carattere. Certo
- Isocrate lo ha detto prima chiaramente - una
scienza infallibile che porti alla virtù non esiste, ma
è pur possibile mutare, insensibilmente a poco a poco,
e nobilitare l'intèra personalità dell'uomo, con 1'as-
siduo contatto dell'intelligenza con una degna materia.
Ed è appunto l'educazione retorica che in ciò fa la
sua prova 13'). Quando Platone la giudica in sé indif-
ferente moralmente, ma tentatrice, allettante all'abuso,
egli, per Isocrate, dà a vedere di non aver capito il
valore della vera retorica. Che ha per soggetti non
gl'interessi individuali negli affari, ai quali si restrin-
geva l'insegnamento retorico nei tempi antichi, ma i
beni supremi comuni a tutti gli uomini. Le azioni che
essa promuove sono le più convenienti, le più salutari
e l'oratore, che nel trattare e giudicare tali questioni
si è fatto quasi, nell'assiduo contatto, una seconda na-
tura, deve necessariamente conquistare, non solo ri-
spetto alle cose di cui. si tratta nel momento, ma per
l'azione in generale, questa capacità di retto pensiero,
frutto naturale di un esercizio serio nell'arte della pa-
rola 135). Isocrate ravvisa il compito dell'oratore non
già astrattamente nelle singole manifestazioni oratorie

188) An.iid. 275. È usato qui di proposito il concetto plato-


nico di « Eros». Eros meriterebbe, pensa Isocrate, di volgersi
a un oggetto di molto maggior valore che non siano le sottigliezze
della distinzione dialettica, a cui Platone Io indirizza.
"') Ciò era stato già detto in Soph. 21 e, in modo ancor più
positivo, in Nic. 7.
135) Antid. 276-277.
1596 [m260] LIBRO IV - IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

e nei loro presupposti formali-intellettuali, ai quali si


pensa a prima vista, cioè nei mezzi tecnici di persua-
sione, ma nella rivelazione e affermazione di sé in
quanto carattere e personalità. Ché la personalità, che
sta dietro alla parola o si foggia in essa la sua
espressione, è l'elemento propriamente efficiente della
convinzione, in ogni discorso 136). Platone aveva rim-
proverato alla retorica di indurre l'individuo alla pleone-
xia, cioè al soddisfacimento della tendenza naturale
ad « avere di più», in quanto essa sarebbe semplice
mezzo, senza fine morale 137). Isocrate coglie a volo
questa parola, dimostrando con ciò una volta di più
che la sua definizione della natura dell'educazione ver,ll
è in tutto e per tutto una risposta alla critica plato-
nica 138). Già nella Pace egli, soffermandosi sull'idea
di potenza propria del partito imperialista ateniese,
aveva seguito la tattica di non rifiutare senz'altro,
come tale, quella tendenza alla supremazia, ma di di-
mostrare invece negli imperialisti un grossolano frain-
tendimento di questo istinto fondamentale della na-
tura umana, ridotto da loro al suo aspetto puramente

1H) Anrid. 278.


117) Pl Gorg. 508 a, dove il retore Callicle è il rappresen-
tante perfetto della pleonexia, della brama di potenza.
188 ) Si può dimostrare con certezza che qni si ha una risposta
al rimprovero di Platone, per il quale la retorica educa al soddi-
sfacimento puro e semplice degli istinti egoistici naturali. <'.;l?>
al § 275 Isocrate aveva consigliato agli scolari delle scuole filo-
sofi.che di rivolgere il loro « eros » ali' arte del discorso e di dedi-
carsi con tutta l'anima « alla retta pleonexia », sulla quale egli
intende fra poco di trattenersi più a lungo. È questo un accenno
suggestivo, il cui senso si fa chiaro solo al § 281. Qui egli dedica
alla natura della pleoneria, il desiderio di « aver di più» profon-
damente radicato nella natura umana, un'indagine speciale, in
cui cerca di dare a questo concetto un'accezione positiva. Ed è
questo il punto in cui Isocrate segna una precisà linea di con-
fine tra sé e il Calliele platonico, per il quale ha pur preso partito
precedentemente: è la linea della moralità.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m261] 1597

materiale e pertanto destinato a fallire 139). Quello che


là aveva presentato come esigenza della politica, egli
ora ripropone come esigenza della personalità umana.
Come là aveva cercato di far ravvisare nella sua poli-
tica delle conquiste morali e della severa giustizia fa
vera e unica pleo-nexia, cosi egli qui rigetta lequazione
posta da Platone di pleonexia con ingiustizia e vio-
lenza e vuol mostrare che in realtà nella vita non si
fa molta strada appoggiandosi su queste. Riaffiora qui
lantica fede greca nella utilità della giustizia. E per-
ciò per Isocrate ladoperarsi a raggiungere le alte mete
della cultura intellettuale ed etica equivale al soddi-
sfacimento pieno e autentico dell'istinto primario dell'Io
ad arricchirsi e a innalzarsi. Come non è vera filosofia
quel che i cosiddetti filosofi. spacciano come tale, così
non è vera pleo-nexia quel che essi vanno biasimando
come frutto velenoso della retorica. La retorica auten-
tica, che è vera filosofia e cultura dello spirito, conduce
anche a una forma di arricchimento di sé superiore
a quella che si ottiene coi piaceri, col predare, con la
violenza, conduce alla cultura della personalità, come
a fine in lei immanente 140). Di questa teoria Isocrate

18•) De pace 33. Già in questo discorso, 31 ss., è chiaro che


Isocrate si oppone all'amoralismo del Callicle platonico e alla
sua teoria del diritto del più forte, con la quale Platone nel Gorgia
aveva congiunto la retorica e l'idea di cultura pratico-politica
che essa sosteneva. Nell'Antidosi Isocrate cerca di separarle net-
tamente.
140) Antid. 282 e 285. Nel § 283 Isocrate biasima l'errato uso
di alcune parole da parte dei filosofi., che dalle cose più alte le
trasferiscono alle peggiori e più spregevoli. In realtà è lui che tra-
sferisce il vocabolo pleonexia dal suo senso moralmente riprove-
vole in un significato ideale. In ciò segue evidentemente l'esempio
di Platone, che (Symp. 206 a) definisce Eros idealizzandolo come
il desiderio di appropriarsi ciò che è bello e migliore (cfr. « Pai-
deia» Il 324-325, dove si accenna anche all'analoga reinter-
pretazione del concetto di amor di sl'i (ideale) operata da Aristo-
tele). Similmente Platone, nel GoTgia, aveva insegnato che il
potere a cui tendono i comuni politici egoistici non è un vero
potere. Con lo stesso mezzo Isocrate vuol mostrare che la sua
1598 [III262j LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

scorge lavveramento nella sua scuola, nei giovani che


l'hanno seguita, e mette l'ardore studioso di questi in
contrasto con l'agitazione sfrenata della massa incolta
dei giovani Ateniesi, dissipatori delle loro forze nel
bere, nel gioco e nel diletto de] sensi 141).
Isocrate nell'Antidosi fa risalire a due punti d'ori-
gine tutte le critiche che si sogliono rivolgere al suo
tipo di educazione: la maldicenza dei falsi educatori,
cioè dei filosofi, da un lato, e dall'altro la calunnia po-
litica dei demagoghi. Dalla confutazione dei primi egli
passa a un tratto ad affrontare i secondi, quando la-
menta che in Atene si guardi più benevolmente · la
gioventù scioperatà e inutile di quella che si occupa
seriamente; e ciò perché la si ritiene, come non critica,
innocua politicamente. Con questo egli si apre la via
a quella che deve essere la conclusione di questa espo-
sizione del suo sistema, cioè a valutarlo alla luce della
vera natura, del vero compito del popolo ateniese.
Nel Panegirico, il più alto titolo di lode di Atene era
stato per lui il fatto che questa città fosse la patria
di ogni forma di alta cultura, che da essa lo spirito
greco avesse irraggiato ogni terra, che gli scolari di
lei fossero andati maestri nel mondo 142). Ora egli ri-
prende questo pensiero e lo converte in argomento de-
cisivo della necessità, dell'importanza nazionale della
retorica. Egli l'aveva sempre considerata come l'incar-
nazione schietta dell'impulso originario della« filologia»,

retorica co11.duce a un vero e più alto arricchimento di sé. Egli


ha dunque imparato pur qualcosa dalla tanto spregiata dia-
lettica.
Hl) Àntid. 286-290. Del tutto socratica è la descrizione della
gioventù, assidua frequentatrice della sua scuola, che culmina
nell'espressione di un ideale di autodominio 4 di cura dell'anima
propria (cfr. 304). Isocrate accoglie la mora..;; pratica· della So-
cratica, senza però la dialettica e ontologia platoniche, e la fonde
col suo tipo di educazione retorico-politico.
142 ) Paneg. 47-50.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m263] 1599

creatore di civiltà, cioè dell'amore per il Logos 143). Il


disprezzo del Logos, cioè l'odio della cultura, che è per
lui sintomo della degenerazione di Atene, continua·
mente riscontrabile negli attuali detentori del potere
politico e nella massa, è fenomeno intimamente non
ateniese. E se questo concetto negativo è generico e
può essere da ognuno interpretato a suo piacere, esiste
però un criterio obbiettivo per riconoscere ciò che è
veramente ateniese. Quello che agli occhi di tutti gli
altri Greci costituisce l'elemento essenziale e perma·
nente del contributo di Atene alla vita umana è la
sua cultura 144). E se la sua propria gente è scesa così
in basso da non a"Ceorgersene più, il richiamarla a
ricordare ciò in cui si fonda la fama della città nel
mondo, lo spirito ateniese, è compito di urgente at·
tualità. Come è possibile che il popolo stimi i rozzi
e violenti demagoghi, che lo hanno reso odioso alla
restante umanità, più amici, più utili dei veri rappre-
sentanti della cultura, che hanno riempito dell'amor di
Atene chiunque si sia loro avvicinato? Per gli Ateniesi,
perseguitare i campioni della loro civiltà spirituale
sarebbe lo stesso che per gli Spartani punire lattività
militare, o per i Tessali mettere al bando l'allevamento
dei cavalli e l'arte dell'equitazione 145).
Un tal genere di difesa della cultura sul piano
politico deve essere stato in qualche modo imposto
dalla realtà, in quegli anni che seguirono il crollo della
seconda lega marittima~ I demagoghi chiamati a ri·
spondere da Isocrate e da chi la pensava come lui della
sciagura di Atene passano ora, evidentemente, all'of-

H•) Antid. 296.


164) Antid. 295-297; 293 ss.; cfr. 302: nelle gare corporee gli

Ateniesi hanno molti competitori, ma nella cultura (paideia)


tutto il mondo cede al loro prestigio.
H•) Antid. 297-298.
1600 [ID264] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

fensiva. Quanto più veniva riconoscendosi il legame tra


cultura e critica politica. tanto più ostile alla cultura
diventava l'atteggiamento della democrazia più radi·
cale. È un fatto poi, che gli uomini della cultura, per
quanto differenti e ostili tra loro, in linea di principio,
intorno alla natura della vera paideia, erano tutti ugual-
mente lontani nell'intimo dalla realtà dello stato ate-
niese di allora. Era questo il contrasto profondo da
cui era scaturito il pensiero di politica riformatrice
dell'Areopagitico e della Pace, quello stesso contrasto
che ora si manifesta in pieno nel grande discorso con
cui Isocrate scende in campo alla difesa del suo ideale
educativo 146). Quello che per l'appunto urtava la massa,
la formazione, cioè, di una nuova aristocrazia intellet-
tuale al posto dell'antica nobiltà di nascita, definiti-
vamente scaduta d'importanza, era il preciso, consa-
pevole scopo educativo d'Isocrate. La sua difesa cul-
mina nel pensiero che in una com unità dominata da
demagoghi e sicofanti sia impossibile una vera cul-
tura 147). Ma anche gli preme di dimostrare come questa
non sia affatto in contrasto con lo spirito dello stato
ateniese nella sua originaria schiettezza, e si rifà perciò
di nuovo all'esempio degli avi. Gli uomini di stato
che fecero grande la città non erano del calibro dei
demagoghi e agitatori di oggi, ma uomini di cul-
tura superiore, di alto intelletto, che cacciarono i ti-
ranni, organizzarono la democrazia e infine vinsero i

1'6) Ne è piena tutta la parte finale dell'Antidosi (291-319).


m) I denunziatori politici e i demagoghi (Antid. 299-301)
sono la macchia scandalosa del nome di Atene; essa deve solo
alla sua cultura (paideia) la grandezza. Il luogo è interessante
come testimonianza di quel reciso distacco dalla cultura della
vita politica che era la realtà dell'epoca. Quando parla dei rap•
presentanti principi di questa cultura che ha reso rispettata e
amata Atene nel mondo, Isocrate pensa anche, e forse in modo
speciale, a se stesso. E senza dubbio questa valutazione corri·
spondeva a verità.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [III 265] 1601

barbari e unificarono la Grecia liberata sotto la guida


di Atene: non uomini come tutti gli altri, ma straor-
dinariamente eminenti sugli altri. Onorare, amare, pro-
muovere personalità d'eccezione come queste, è I'am-
monimento in cui si conclude il discorso d'Isocrate 1'8).
È impossibile però non vedere il profondo pessimismo
che aleggia sulle sue parole. La :finzione è che esse
risuonino innanzi al tribunale, di fronte al popolo in-
tero, ma esse vengono in realtà da un angolo solitario,
donde è ormai impossibile esercitare azione efficace:
la frattura tra individuo e massa, tra cultura e incul-
tura si è fatta ormai insuperabile.
Solo partendo di qui s'intende come Isocrate, e
il partito che egli rappresenta, sia ormai proteso, oltre
i confini della città-stato della tradizione greca, a
nuovi compiti panellenici, e s'intende anche la « ri-
nunzia» - di cui tanto si è parlato - dei ceti di cul-
tura superiore nell'ora della lotta suprema per· la li-
bertà della polis greca. Nell'astro sorgente del re Fi-
lippo di Macedonia, astro maligno per i difensori della
città, Isocrate scorse invece la luce di un futuro mi-
gliore, e nel suo Filippo salutò il grande avversario
di Atene come l'eletto dalla dea Tyche apportatore
della sua idea panellenica. Filippo ora doveva assu-
mere quel compito di guida di tutti gli stati greci
contro i barbari, che Isocrate un tempo, nel Panegi-
rico, aveva assegnato a Atene e a Sparta 1'9 ). Degli
uomini che erano in Atene l'anima della resistenza
contro la Macedonia, perfino di Demostene, egli ormai
parla solo come di gente che non può fare per la città

HB) Isocrate sottopone a giudizio tutti i più importanti poli-


tici del passato ateniese, secondo il grado della loro cultura, Antid.
306-308. E viene a concludere che solo l'aristocrazia dello spi-
rito ha fatto grande la città.
m) Phil. 8-9.
1602 [m266] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

niente di huono 150). Ormai stato e cultura che nel


y sec., avvinti e compenetrati, erano stati sostegno
vicendevole, si separavano sempre di più. In quel pas-
sato poesia e arte avevano illuminato la vita della
comunità politica; ora filosofia e cultura le si ergevano
contro con le loro esigenze, rinforzate dai malcontenti
della politica. L'ultima opera d'Isocrate, il Panate-
naico, lò mostra occupato dallo stesso grande pro-
blema di politica intema dell'Areopagitico: il problema
della migliore costituzione di Atene. Sempre, fin dalle
origini la retorica della scuola isocratea mise l'accento
sul momento del contenuto, la politica, nell'arte ora-
toria 151), e in ciò evidentemente cooperò l'influenza
di Platone, che ravvisò nel puro formalismo la deho:
lezza essenziale della retorica. Ma furono anche la pres-
sione delle circostanze e la posizione d'Isocrate di fronte
alla situazione politica di Atene a indirizzarlo sempre
più decisamente in questa direzione. E non gli fu certo
difficile, fatto una volta il riconoscimento della neces-
sità di un contenuto reale per la retorica, ampliare da
questo lato il suo terreno. Così il suo gymnasion di
retorica si fece in modo sempre più aperto e dichiarato
una scuola superiore di politica. Lo spirito fastoso
della panegyris aveva a poco a poco ceduto ai propo-
siti critici e educativi. Certo, esso rivive ancora per
l'ultima volta nel Panatenaico, ma in questo elogio di
Atene con cui il vecchio di novantotto anni si congeda
dalla sua città 152), manca l'alto impeto di speranza

11•) Isocr. Epist. 2, 15. Qui si deve alludere anche a Demo-


stene, che al tempo della lettera era il campione riconosciuto
della resistenza a Filippo.
161 ) Cfr. Panalh. 2-4, sulla sempre minore importanza data
da Isocrate alla forma stilistica.
162 ) Questa è letà che egli si dà alla fine del Paiiatenaico
(§ 2·70). Nell'introduzione (§ 3) dice di avere 93 anni. Il lavoro
di composizione del discorso fu a lungo interrotto per malattia.
CAP. VI: ISOCRATE DIFENDE LA SUA PAIDEIA [m267] 1603

che anima le opere della maturità. Esso finisce col di-


sperdersi in considerazioni storiche sulla miglior forma
di stato, che secondo Isocrate consiste nella giusta
mescolanza delle tre forme principali di costituzione lliS).
Una democrazia di forte impronta aristocratica sem-
bra a lui il meglio a cui si possa mirare, ed egli la giu-
dica già sperimentata nei tempi della grandezza ate-
niese. Anche in questo punto Isocrate ha imparato
da Tucidide che fa giudicare al suo Pericle, nell'epita-
fìo, lo stato ateniese come un'unione es,emplare degli
elementi buoni di ogni costituzione. Questa teoria in-
fluì poi sugli uomini politici di tendenza peripatetica,
e attraverso loro improntò di sé lopera storica di
Polibio, soprattutto nell'esposizione della costituzione
romana e del suo spirito, ed anche lo stato ideale del
De republica di Cicerone.

118) Non mancano neppure considerazioni sulla vera paideia.


In special modo c'interessa la lunghissima definizione della pai-
deia (Panath. 30-33, quasi una pagina intera di stampa). Tutto
quello che Isocratt. sa dire a lode della paideia ateniese è intessuto
nella raffigurazione ideale d!'i ma11:~ori. Quel che in Atene gli à
più caro appartiene alla storia del passato.
CAPITOLO SETTIMO

SENOFONTE:
IL GENTILUOMO E SOLDATO IDEALE

Non è certo un semplice scherzo del caso, il fatto


che degli scrittori della cerchia socratica - all'infuori
del genio supremo di Platone, la cui opera fu conser-
vata dalla sua scuola - l'unico che ci sia giunto, rap·
presentato da parecchie opere, sia Senofonte, figura
marginale di quella cerchia; laddove i veri e propri
discepoli, imitatori esclusivi della diatriba morale del
maestro, Antistene, Eschine, Aristippo non sono per
noi molto più che nomi. Il fatto è che Senofonte è
stato sempre un beniamino del pubblico, per la molte-
plicità dei suoi interessi e varietà delle forme letterarie,
e per la vivace personalità, attraente pur nei suoi li-
miti. Per il classicismo della tarda antichità egli fu,
a buon diritto, uno dei rappresentanti più schietti
della charis attica 1 ). Chi non lo _legga - come si fa
ancor oggi nelle nostre scuole a causa della trasparente
semplicità della lingua - prima di ogni altro prosa·
tore greco, ma lo prenda in mano dopo i grandi autori
del suo secolo, Tucidide, Platone o Demostene, è tratto

1) V. il libro di KARL MuNSCHER, Xenophon in dsr griechisch·


riimischen Lùeraiu.r (Lipsia 1920), specialmente la parte IV:
« Xenophon in der grieehischen Literatur der Kaiserzeit », dove
l'autore determina precisamente la posizione di Senofonte nel
periodo dell'Atticismo col suasidio di un enorme materiale.
1606 [m270J LIBRO IV- IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

a sentire in lui la più schietta incarnazione dell'età


sua; e molti elementi della sua opera, che nonostante
la forma gradevole oggi possono sembrare intellet•
tualmente banali, gli appariranno in una luce diversa.
Tuttavia neppure Senofonte, _con tutta la sua bor-
ghese rispettabilità e il suo buon senso, non vale sem·
plicemente come l'espressione tipica del suo tempo.
Fu anche lui un'individualità, con un suo proprio de·
stino che emerse coerente all'intima qualità del suo
essere e ai suoi rapporti col mondo circostante. Nato
in un demo attico, il medesimo da cui veniva Isocrate,
egli visse le stesse esperienze sfortunate di costui e di
Platone nell'ultimo decennio della guerra peloponne-
siaca, durante il quale si fece. uomo. Come molti gio-
vani della sua generazione si senti attirato da Socrate,
e sebbene non ne sia stato. scolaro in senso stretto
l'impressione di quel contatto fu cosi duratura che più
tardi, dopo il ritorno dalla guerra combattuta nell' eser-
cito di Ciro, egli eresse monumento perenne all'amato
maestro in più d'uno dei suoi scritti. Ma non fu Socrate
a fissare il suo destino, bensi l'ardente voglia di guerra
e d'avventura che lo attrasse nell'orbita di Ciro, que·
sta romantica figura di principe ribelle, e gli fece cercar
l'amicizia dei capi di mercenari greci combattenti sotto
le bandiere di quello 11). Quest'avventura, ch'egli de-
scrisse nel più colorito dei suoi libri, l' Ànabasi, lo
accostò all'influenza politica spartana 8 ), pericolosa per

•) Vedine effigiata la personalità in Xen. An. III 1, 4 s.


1 ) Senofonte, An. III 1, S, rileva soltanto il fatto che dalla
guerra del Peloponneso in poi, nella quale Ciro aveva appoggiato
Sparta contro Atene, c'era stata inimicizia tra Atene e Ciro. Ma
dopo il ritorno dalla spedizione in Asia egli si unì senz'altro con
gli Spartani, che sotto Agesilao combattevano per la libertà dei
Greci in Asia Minore, e ritomò in Grecia insieme col re spartano
(An. V 3, 6). Senofonte derma di essere ritornato in patria «pas-
sando per la Beozia», con che sarà da intendere che comhatt6,
dalla parte degli Spartani, nella battaglia di Coronea. Sul pa1-
CAP. VII: SENOFONTE [m271] 1607

un ateniese. Sicché le preziose esperienze militari, etno•


grafiche e geografiche da lui acquisite nella campagna
d'Asia gli costarono il bando dalla città natale 4).
N ell' Ànabasi stessa egli parla del possedimento a'vuto
in dono dagli Spartani, a Scillunte, località della re·
gione agricola dell'Elide nel Peloponneso nord-occi·
dentale, dove egli trovò una seconda patria 5). Qui
visse alcuni decenni di quiete, dedicandosi alla coltiva•
zione dei suoi campi e agli ozi letterari. L'amore per
la varia attività della campagna è, accanto alla memoria
di Socrate e all'interesse storico-militare, una nota
essenziale della. personalità di Senofonte e un argomento
importante, insieme agli altri due, della sua attività
di scrittore. L'amara esperienza politica fatta con la
democrazia del suo paese lo indusse ad attaccarsi a
Sparta, e la conoscenza precisa di uomini in posizione
dominante e delle condizioni interne di questa città,
esercitante allora una supremazia quasi assoluta su
tutta la Grecia, gli fu di stimolo a comporre l'opuscolo
sulla Costituzione degli Spartani, e l'elogio di Agesilao.
Nelle Storie Elleniche, poi, egli estese il giro dei suoi
interessi a tutta la storia _contemporanea, mentre nella
Ciropedia trovarono luogo i suoi ricordi e impressioni
del mondo persiano. Durante i decenni della ripresa
ateniese e della seconda lega marittima Senofonte ri·
mase lontano dalla patria, e vi fu richiamato solo al
tempo in cui anche quest'ultima grande creazione po·
litica ateniese venne. a crollare. Cercò allora d'inserirsi
nel lavoro di ricostruzione militare ed economica ate·
niese con alcuni piccoli scritti pratici. Non molto dopo

saggio di Senofonte nel campo politico spartano cfr. il ponde-


rato giudizio di ALFRED CBOISET, Xénophon, son caractère et son
talent (Parigi 1923), p. 118 ss.
') Xen. An. VII 7, 57; V 3, 7.
1) An. V 3. 7-13.
1608 [m272] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

la fine della guerra sociale (355) si perdono le tracce


dell'uomo ormai più che settantenne ed è probabile
che egli non sia arrivato molto più in là. Il tempo della
sua vita coincide così all'ingrosso con quella di Platone.
Come mostra l'irrequieto corso della sua vita, Se-
nofonte fu di quegli uomini che, non riuscendo più
a trovare condizioni propizie di sviluppo negli ordini
tradizionali della loro polis, furono indotti dalle espe·
rienze vissute a distaccarsene interiormente. Il bando
dalla patria, giuntogli con ogni probabilità inaspettato,
rese poi incolmabile la frattura. Egli lasciava Atene
nel momento in cui, dopo la guerra perduta, la confu·
sione all'interno e il crollo dell'impero all'esterno ave·
vano precipitato i giovani in una disperazione senza
uscita. Egli decise di foggiare da sé il suo destino.
Quando compose, verisimilmente durante la polemica
letteraria provocata, un po' prima del 390, dallo
scritto accusatore del sofista Policrate contro Socrate
e i Socratici 6), lo scritto che ora serve d'introduzione
al primo libro dei Memorabili, scritti più tardi, la ra·
gione di questo suo intervento fra i difensori fu piut·
tosto di natura politica: egli volle dimostrare, dal suo
luogo d'esilio, che Socrate non era da identificare con le
tendenze di un Alcibiade e di un Crizia 7), degli uomini
cioè che i rivali delle scuole socratiche allora sorgenti
si compiacevano di attribuirgli come scolari, allo scopo
di avvolgere del sospetto di antidemocrazia tutto ciò
che con Socrate aveva che fare S). Nemmeno gli accu-
satori durante il processo avevano sostenuto qualcosa
di simile. Ed era inoltre pericoloso per Senofonte la·
sciarsi mettere una volta per sempre in una tale cate·
goria di persone, se egli credeva ·ancora possibile un

•) Cfr. « Paideia » II 29-30.


7 ) Cfr. Xen. Mem. I 2, 12 ss,
8 ) Isocr. BusiT. 5.
CAP. VII: SENOFONTE [m273J 1609

suo ritorno in Atene 9 ). Si potrebbe anzi concludere


proprio da questo scritto, che è da vedere come opu-
scolo a sé contro l'accusa politica di Policrate contro
Socrate, che al tempo in ·èmi lo componeva Senofonte
pensava ancora al suo ritorno 10). Ed anche l'inseri-
mento successivo di questo pamphlet d'attualità nel-
1'opera maggiore dei Memorabili ll) sarà da collegare
con una situazione simile, cioè col momento in cui real-
mente avvenne il richiamo di Senofonte in patria, ne-
gli anni dal 360 al 350, quando quello scritto ritornò
di nuovo attuale come prova della costante disposi-
zione del suo autore verso la patria. Nel far l'elogio
dell'assoluta lealtà politica di Socrate, Senofonte pro-
clamava anche la propria fedeltà, da molti messa in
duhhio, verso la democrazia ateniese 12).
In quel decennio appunto, dal '60 al '50, si con-
centra anche gran parte della sua attività di scrittore 13).
Evidentemente, il ritorno in patria fu occasione di un
nuovo rigoglio della sua vena. In quegli anni deve aver
compiuto le Storie Elleniche terminanti con la battaglia
di Mantinea (362), nelle qua.ii egli cerca di darsi ra-
gione del crollo del sistema spartano, da lui tanto am-

•) Da confrontare gli sforzi d'Isocrate di liberare se stesso


o il suo scolaro Timoteo dall'accusa. di misodemiq: Areop. 57
e Antid. 131 (cfr. supra, pp. 208 ss., 234 ss.).
10) Termine post quem per la pubblicazione dello scritto di
Policrate contro Socrate è l'anno 393, giacché esso, secondo Fa-
vorino (presso Diog. L. II 39), menzionava la ricostruzione ad
opera di Conone delle Lunghe Mura. Senofonte ritornò dall'Asia
in Grecia con Agesilao nel 394 (cfr. supra, pp. 270 n. 3, 271).
11 ) V. « Paideia» II 30.
12 ) L'inserimento di questo scritto nei Memorabili si può
paragonare a quel che oggi chiamiamo una« ristampa».
13) Se Senofonte sia ritornato in patria per fermarvisi defini-
tivamente, oppure anche dopo il ritorno abbia soggiornato qual-
che tempo a Corinto, dove si sa che, lasciata Scillunte, si trattenne
qualche anno, è cosa che non si potrà mai decidere con sicurezza.
1610 (III274] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

mirato 14). Anche lo scritto La Costituzione degli Spar·


tani appartiene al periodo posteriore alla fine dell'ege-
monia spartana, come dimostra la parte finale, un
confronto tra la Sparta d'un tempo e quella di ora 15).
L'alleanza tra Atene e Sparta, del 369, riavvicinò Se·
nofonte alla sua città, che finl col richiamarlo. Quando
poi, nel quinto decennio del IV sec. anche Atene cadde
e la seconda lega marittima si disgregò, la sventura
della patria provocò un'intensità nuova di pensieri e
propositi educativi che si manifestò nella più tarda
attività letteraria di Platone e d'Isocrate, nelle Leggi,
nell'Areopagitico e nella Pace 16). In questo movimento,
ai cui ideali si sentiva vicino, Senofonte li'inserl coi.
MemQrabili e con altre opere di minor mole 17). Sicu·
ramente appartengono alle sue opere più tarde, poste·

1') Senofonte naturalmente avrà lavorato alle Elleniche anche


prima del 362. Che la battaglia di Mantinea, nuova conferma
della debolezza di Sparta, gli sia sembrata conclusione appro-
priata, si capisce facilmente. Nella sua opera si trattava di de-
scrivere prima l'ascesa di Sparta al culmine della potenza e poi
il suo declino. Questo tema ci si presenta anche in Isocrate e altri
contemporanei come esperienza politica d'importanza massima
e come termine di confronto ammonitore, offerto dal presente
di fronte alla caduta del primo impero ateniese. Ed è questo tema
che dà intima unità all'opera storica di Senofonte.
16) Sulla originaria estraneità, sostenuta da alcuni studiosi,
di questa parte finale, cfr. infra, p. 288 n. 59.
18) Tutti questi scritti appartengono agli anni dal 60 al 50.
Anche il Cri:ria platonico, col suo quadro ideale di Atene, si com-
prende bene in questo clima spirituale.
17 ) Un capitolo come il dialogo di Socrate con Pericle il gio-
vane (Mem. III 5), che suppone i Tebani nemici capitali di Atene
e presenta agli Ateniesi come modello (in piena guerra del Pelo-
ponneso !) l'areté della vecchia Sparta, è concepibile sia stato
scritto solo nel tempo in cui Atene e Sparta erano collegate con-
tro la crescente potenza di Tebe, cioè nei due decenni tra il 370
e il 350. Nel tempo in cui il dialogo s'immagina tenuto, poco prima
della battaglia delle Arginuse, non c'era nessun pericolo di un'in-
vasione beotica in Attica. D'altra parte si mettano a confronto,
nell'lpparchico senofonteo (VII 2 ss.), i precetti che si dapno per
il caso di un'invasione .beotica. Il capitolo dei Mt>morabili appar-
tiene allo stei;so tempo in cui erano attuali precauzioni del genere,
per la difesa di Atene contro un colpo di mano beotico.
CAP. VII: SENOFONTE [rn275J l611

riori al rito:rno dall'esilio, lo scritterello sui ·compiti di


un buon comandante di cavalleria, I' Ipparchico, che si
riferisce espressamente a esigenze ateniesi e l'altro che
ne costituisce un'appendice, Sull'equitazione 18), e, se è
autentico, come oggi sembra quasi generalmente ac·
cettato, lopuscolo economico-politico Sulle entrate 19).
Anche I'opuscolo sulla caccia, il Cinegetico, interamente
dedicato alla questione della miglior forma di paideia,
lo metteremmo in questo periodo a preferenza che in
ogni altro, in quanto contiene una vivace polemica
contro l'educazione retorica e sofistica 20). Questo ele-
mento conviene poco con l'idillica quiete campestre
di Scillunte, dove l'opuscolo si è voluto da alcuni si·
tuare, a causa del contenuto. S'intende che l'espe·
rienza che ne costituisce la base risalirà a quel tempo,
ma lo scritto in sé s'inserisce bene nella vita e attività
letteraria di Atene.
Il filone consapevolmente educativo affiora più o
meno in tutta l'opera di scrittore di Senofonte. E non
costituisce solo un tributo pagato dall'autore al suo
tempo, ma è manifestazione spontanea della sua na·
tura. Perfino nell'avventu:rosa descrizione della parte
da lui avuta nella spedizione dei Diecimila greci c'è
molto di concepito con esplicita intenzione istruttiva.
Il lettore deve imparare come si deve parlare e agire

1 8 ) Le istruzioni dell' Ipparchico non sono concepite per essere


applicate universalmente, ma solo per la formazione della caval-
leria ateniese. II compito che l'autore si propone è la difesa del-
l'Attica nel caso di un'invasione beotica. Cfr. Hipp. VII 1-4.
Atene deve cercare di opporre alle buone milizie di opliti di Tebe
una non inferiore fanteria attiva e ai cavalieri beoti una caval-
leria migliore. Anche lo scritto Sull'equitazione si riferisce a
situazioni ateniesi, cfr. § 1. La sentenza con cui questo termina
allude all' I pparchico.
19 ) Esso fa menzione (V, 9) dell'abbandono da parte dei
Focesi, nella Guerra Sacra, del santuario di Delfi, che avevano
a lungo occupato. Il che ci riporta agli anni 355-350.
IO) Cfr. Cyn. XIII. ~
1612 [m276l LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

in certe situazioni della vita. Egli deve, proprio come


i Greci nella stretta di genti barbariche minacciose e di
eserciti ostili, imparare a scoprire in sé l'areté e a svi-
lupparla. Il libro non fa che rilevare, di continuo e
chiaramente, quel che può esserci di esemplare nelle
singole :figure e azioni, per non dire dell'importanza
che esplicitamente vi si dà alla scienza e capacità pra-
tiche, specialmente in cose militari. Pure, quello che
opera sul lettore più fortemente ancora di questo ele-
mento d'intenzione educativa; è il partecipare imme-
diatamente al destino dell'autore e dei suoi compagni,
stretti in una situazione gravissima e si può dir dispe-
rata anche per soldati impavidi e provati. Nessuna
compiaciuta mostra in Senofonte del proprio valore
e capacità; ma queste virtù tanto più gli attirano la
nostra simpatia, in quanto una vicenda come questa,
la riuscita a salvamento dei diecimila Greci, che persi
i propri ufficiali, fra battaglie e rischi continui, seppero
aprirsi la via dall'Eufrate alle coste del Mar Nero, è
l'unico raggio di luce nella visione cupa e senza spe-
ranza della storia greca di quegli anni.
Quel che commuove più a fondo il lettore non
sono tanto i mezzi intenzionalmente usati da Seno-
fonte per agire su di lui, quanto l'impressione duratura
che lautore stesso ha ritratto da quel mondo di genti
straniere. L'autore si riflette in ogni pagina e prima
che in tutte nella schietta e spontanea pittura della
nobile gente persiana e delle sue maschie virtù, delle
quali s'intende il senso e l'importanza nell'animo di
Senofonte, non appena quella descrizione si ponga sullo
sfondo idealizzante della Ciropedia. Certo, l'ammira-
zione non domina interamente il quadro, ma si mescola
con la profonda ripugnanza dell'autore contro l'infe-
deltà ai patti di cui danno prova, nell'agire cci Greci,
i rappresentanti degeneri dell'attuale regime persiano.
CAP. VII: SENOFONTE [m277J 1613

Tuttavia non c'è bisogno dell'asserzione esplicita di


Senofonte nell'Economico, secondo la quale Ciro se
fosse vissuto più a lungo sarebbe divenuto un: grande
dominatore come i suoi avi famosi 21), per capire con
che occhio si debba guardare il ritratto che di lui tro·
viamo nell' Anabasi 22). È un ritratto disegnato da un
ammiratore entusiasta, che non solo piange il tragico,
eroico destino del figlio di re caduto in battaglia, ma
vede ancora una volta incarnata in lui la splendida
areté dei Persiani antichi. Alla fine della Ciropedia
Senofonte attribuisce il declino iniziale della potenza
persiana al rilassamento morale della corte di Arta·
serse Mnemon, quello stesso che il fratello Ciro aveva
tentato di sbalzare dal trono 23). Se l'impresa fosse
riuscita, Ciro avrebbe dato inizio alla rinascita del-
1' antico ideale persiano in cooperazione con le forze
migliori del mondo greco 24), e forse la storia del mondo
avrebbe preso altre vie. Il ritratto della personalità
di Ciro, che Senofonte disegna nell' Anabasi, dopo aver
narrato la sua morte da valoroso nella battaglia di
.Cunassa, è un paradigma perfetto della più alta kaloka-
gathia 25). È un ritratto che deve stimolare all'emula·
zione, e che vale a dimostrare ai Greci che la vera virtù
virile e l'altezza d'animo e di contegno non sono privi-
legio della razza greca. E se anche in Senofonte si fa
sempre strada o prima o poi l'orgoglio nazionale e la
credenza nella superiorità della cultura e virtù greca,
egli rimane però ben lontano dal credere che la vera
areté sia stata posta come divino dono nella culla di

B1 ) Oec. IV 18. Cfr. An. I 9, 1.


22 ) An. I 9.
23) Cyrop. VIII 8; v. specialmente VIII 8, 12.
24 ) La vecchia paideia persiana è contrapposta alla mollezza
di tipo« medo » prop:da degli attuali Persiani in Cyrop. VIII 8, 15.
25 ) Cfr. Ivo BRUNS, Das literarische Portriit der Griechen,
p. 142 ss.
1614 [III278] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

ogni minimo cittadino di Grecia. È bello nelle sue de-


scrizioni dei Persiani migliori quel sentimento che vien
sempre in primo piano, destatogli certo dai suoi con-
tatti con i rappresentanti più alti di quella nazione, il
sentimento per cui la kalokagathia autentica è sempre
qualcosa di raro nel mondo, fiore elettissimo di forma
e di cultura umana, che non si ritrova in pieno sboccio
se ~on nei prodotti più nobili di una razza.
Questa verità correva rischio di esser persa di vista
dai Greci del IV sec., in quella loro tendenza, alta-
mente ispirata ma spesso priva ormai di concretezza,
a riven_dicare per ogni creatura umana un'ugual parte
nell' areté, a quel modo che a tutti concedevano la
partecipazione ai diritti civili. Senofonte certamente
venne trovando· sempre nuove conferme all'esperienza
che gl'insegnava come l'uomo medio greco superasse
il barbaro medio nel senso d'iniziativa e nel senso di
responsabilità. Ma la grandezza dei Persiani non era
fenomeno di media, hensi consisteva nell'allevamento
di un'élite di altissima formazione umana e cultura,
che laperto occhio del greco era tanto più in grado
di apprezzare, in quanto questo problema delle élites
era stato riconosciuto problema centrale di ogni cul-
tura dalle teorie educative dei pensatori greci contem-
poranei, di un Platone e di un Isocrate. Cosi per Seno-
fonte il contatto con la razza straniera, col suo stile di
vita, si risolse nella scoperta dei presupposti impliciti di
ogni forma superiore di civiltà, spesso sorvolati dagli
educatori idealistici. Questi Persiani d'alto rango ave-
vano anch'essi una loro« paideia», o qualcosa di ana-
logo 28), e perché l'avevano erano ricettivi di fronte alle

18) Sulla paideia di Ciro il giovane cfr. Àn. I 9, 2-6. Seno-


fonte si ferma a parlarne sia per caratterizzare il suo eroe, sia
per il valore che essa ha in si'!. Cfr. infra, p. 281 s. La candida pit-
tura del nobile portamento dei Persiani in Cyrop. I 2, 16 è forse
CAP. VII: SENOFONTE [m279] 1615

manifestazioni più alte del mondo greco 27). L'alta areté


persiana e il filellenismo di Ciro sono nel ritratto se-
nofonteo dell'uomo, strettamente collegate l'una con
I' altro. Ciro è un Alessandro persiano, diverso dal Ma·
cedone solo per la Fortuna. La lancia che lo trafisse
avrebbe potuto colpire anche Alessandro 28), e se egli
fosse sfuggito al colpo la stori~ dell'Ellenismo sarebbe
cominciata con lui e avrebbe preso un altro corso 29).
Ma in ogni modo I'Anabasi di Senofonte fu il libro che
con la memoria della spedizione dei Diecimila radicò
nei Greci del IV sec. l'idea che qualsiasi valente con·
dottiero greco avrebbe potuto compiere quell'impresa
a cui sarebbe riuscito quel corpo di mercenari sotto
il comando di Ciro, se questi fosse vissuto più a lungo.

quel che c'è di più adatto a dare a noi un'idea di ciò che nel loro
contegno pareva elevatezza e decoro a un greco colto del tempo
di Platone. Sconveniente è presso i Persiani sputare, soffiarsi
il naso, dar segno di flatulenza, farsi vedere quando ci si apparta
per una necessità corporale. Come si vede dal realismo di questa
descrizione e dalla spiegazione medico-dietetica che Senofonte
vi aggiunge, egli ricava informazioni del genere· dai Persicà del
medico Ctesia che aveva esercitato alla corte del re Artaserse
ed è nominato in An. I 8, 27.
17 ) Sui sentimenti filellenici di Ciro, sul suo apprezzamento
dei valori dellP civiltà greca, si veda il suo discorso alle truppe
greche, An. I 7, 3. Senofonte gli fa dire di aver chiamato i G-reci
a partecipare alla spedizione, perché li credeva immensamente
superiori ai barbari. E deduce la loro superiorità morale e guer-
resca dalla libertà di cui godono. I popoli sottome~si ai Persiani
sono con ciò divenuti schiavi. Tutto ciò naturalmente non tocca
l'orgoglio di Ciro, di appartenente alla nazione dominante del-
l'impero persiano. Che i Persiani .di quel tempo non potessero
più assolutamente condurre guerre senza il contributo greco d'in·
telligenza e abilità militare è detto da Senofonte anche in Cyrop.
VIII 8, 26.
18) Cfr. Àn. I 8, 27. Alessandro ebbe Io stesso concetto di
Ciro del valore personale del comandante, un concetto roman-
ticamente suggestivo per i G-reci del IV sec. Egli si espose sem-
pre senza riguardi al pericolo e fu ferito più volte.
29 ) Con la precisa consapevolezza di istituire un parallelo
storico di valore universale tra la spedizione di Alessandro e quella
di Ciro, Arriano intitolò la sua storia del conquistatore mace-
done Anabasi di Alessandro. Cfr. Arr. An. I 12, 3-4.
1616 [m280] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Di ll 'in poi l'impero persiano sembrò destinato retag-


gio del vincitore greco. Di ciò furono convinti tutti
gli uomini di pensiero contemporanei, Isocrate, Ari-
stotele, Demostene 30), e fu Senofonte che di questo
li convinse. Nello stesso tempo l'Anabasi porto per
la prima volta in primo piano come problema la pos-
sibilità per la civiltà greca, di mettere a frutto la ci-
viltà persiano-orientale, in quanto additava la paideia
del principe persiano come fattore culturale-politico 31).
La cultura greca, nella sua forma e nel contenuto
spirituale, dona a ogni élite qualcosa che questa non
possiede, ma per ciò stesso l'aiuta a sviluppare genui-
namente se stessa. Cosi Ciro non appare in Senofonte·
come il tipo convenzionale e sbiadito dell'uomo di
cultura, alla moda greca, ma come il tipo più schietto
e bello del persiano 32). E questa concezione si com-
pleta e chiarisce con quella d'Isocrate, che osserva
come molti Greci non partecipino affatto alla paideia
greca, mentre i rappresentanti migliori di altre na-
zioni ne sono spesso profondamente imbevuti 33). C'è
nel pensiero di questi due Greci il senso, se non ancor
la visione chiara, della possibilità di un'efficacia della
civiltà greca al di là dei confini di razza, e delle condi-
zioni insieme a cui una tale influenza deve obbedire:
la civiltà greca deve riallacciarsi a quel che di meglio
ogni popolo ha creato originalmente. In armonia con
questa intuizione Senofonte viene ad accorgersi che

30) Isocr. Paneg. 145. Demosth. Symm. 9; 32. Su Giasone

di Fere e il piano da lui concepito di abbattere ì'impero persiano,


cfr. Isocr. Phil. 119. In questa schiera, naturalmente, saranno
da mettere anche gli stessi Filippo e Alessandro. Ma le notizie
ci mancano su questo punto.
81 ) Cfr. la n. 26. [Alessandro cercò di mescolare sangue e

civiltà greca con la persiana con matrimon tra la nobiltà delle


due razze].
32 ) Cfr. An. I 9.
33) Paneg. 50; cfr. p. 135.
CAP. VII: SENOFONTE [m281] 1617

il cavalleresco popolo persiano, il nemico ereditario dei


Greci, se si consideri la struttUJ."a della sua paideia
nobiliare, presenta una stretta affinità con la visione
antica delle genti greche, col loro ideale di kalokagathia;
non solo: ma il paragone influisce anche in senso in-
verso sul suo ideale greco, sicché elementi della con-
cezione. aristocratica persiana si fondono con i linea-
menti della greca areté a comporre un unico quadro.
Senza di che un libro come la Ciropedia, che propone
ai Greci l'ideale della vera virtù del principe nella
fi.gUJ."a di un re persiano, non si sarebbe potuto con·
cepire.
Quest'opera, che porta nel titolo la parola paideia, è
deludente dal nostro punto di vista in quanto solo la sua
parte iniziale tratta effettivamente dell' « educazione
di Ciro» 34). Non è un antico « romanzo pedagogico»
quello che in essa ci appare, ma la storia, del resto for-
temente romanzata, della vita intera cli quel re che
aveva fondato l'impero persiano. Essa è tuttavia « pai·
deia » nel senso che l'intento educativo appare evidente
ad ogni pagina. Ciro è il modello del monarca che con
le qualità del carattere e con lazione appropriata si
conquista, un passo dietro l'altro, l'impero, e lo conso-
lida per sempre 35). Il semplice fatto che i Greci del

• 34 ) Si veda la desc~one d~l car~tter~ di ~o ~ Ve~chio


1n Cyrop. I 1, 6: ·dç 7t0't" ùlV ye:ve:a:v xa:t 7tOLCl:v i:tva: qiucrw E)'.ùlV
XCl:L 7tOLq; nvl 7tCl:t3e:u%el<; 7ttx;L3e:(q; 't"Ocroihov 3L°ijVE"fXEV dç 't"Ò otp-
J(E:tV &v.&pc!:i7tCùv. Come qui per i Persiani, così nella Costituzione
degli Spartani c. Il, Senofonte attribuisce grande importanza alla
paideia nel sistema spartano. L'esposizione della paideia di Ciro
si liinita tuttavia, essenzialmente, al secondo capitolo del primo
libro della Ciropedia. Analogamente I' Anabasi riceve il titolo
dalla prima parte dell'opera, sebbene la parte maggiore della nar-
razione sia dedicata al ritorno dei Greci, alla catabasi, cioè.
Esempi di questo genere di titoli non sono rari nella lettera-
tura antica.
35) Il titolo del libro si giustifica anche in quanto in esso si
ritorna continuamentè alla paideia dei Persiani, alla loro areté,
come alle forze creatrici cui deve le origini l'impero persiano.
1618 [m282] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

IV (!ec. si potessero riscaldare di simpatia per una tale


figura, e più ancora, forse, la circostanza che sia stato
un ateniese a scriver questo libro, mostrano il muta-
mento dei tempi. Si entra ormai nell'età in cui il pro-
blema educativo è quello dell'educazione dei principi.
L'esposizione delle imprese e dell'ascesa di un famoso
re della storia era una delle vie di raggiungere quel
fine. Altre sono le vie per cui si mettono Platone e Iso-
crate, l'uno con l'addestramento dialettico, l'altro con
la raccolta di massime e riflessioni sui doveri del mo-
narca 36). Quello che importa a Senofonte è prima di
tutto la virtù soldatesca del suo eroe, che è conside-
rata cosi dal punto di vista morale come da quello
tecnico-militare e arricchita di elementi tratti dal-
l'esperienza personale dell'autore. Il soldato è in fondo
per Senofonte il vero uomo, sano e alacre, valoroso e
resistente, uso a disciplina severa non solo nella lotta
contro il nemico e contro gli elementi, ma anche con-
tro se stesso e le proprie debolezze. In un mondo in
cui non esistono più saldi fondamenti di vita politica,
né civica sicurezza, egli è l'unico uomo libero e indipen-
dente. L'ideale di soldato a cui pensa Senofonte non
è l'uomo arrogante, che senza scrupoli passa sopra a
leggi e costumi, uso a :risolvere, se necessario, ogni dif-
ficoltà con la forza. E così anche il suo Ciro è il mo-
dello esemplare della giustizia il cui dominio poggia
sull'amore degli amici e sulla fiducia dei popoli 37).
I passi relativi sono troppo numerosi per poterli citare. Anche nel
discorso con cui Ciro consegna il potere ai suoi eredi e successori.
egli rileva come titolo di legittimazione la paideia, che egli ha
ricevuto e trasmesso ai suoi figli (VIII 7, 10).
88 ) Cfr. i capp. 4 e 9 di questo volume.
87 ) L'amore per la giustizia viene inculcato precocemente
nell'individuo dalla paideia persiana (Cyrop. I 2, 6); cfr. anche
il dialogo di Ciro fanciullo con sua madre, di stirpe med~ (I 3, 16).
In I 3, 18 Senofonte dice di un padre persiano: µé-i-pov ~ù-i-ij>
o
oùx Ti ljiux_-fi, à:H' v6µoç èo-'t"(v, dove <jiux_-fi significa l'athitrio
soggettivo in contrapposto i.U'ohbiettività della norma di legge.
CAP. VII: SENOFONTE [m283] 1619

Il guerriero di Senofonte è l'uomo di una semplice


fede in Dio. Alla fine dell'opuscolo sui doveri del co-
mandante di cavalleria (Ipparchico), egli dice che se
qualche lettore si meraviglia che per ogni azione di
costui sia posta all'inizio la formula « con l'aiuto di
Dio» (aùv .&e:éj>), provi a vivere continuamente in pen-
colo e non si meraviglierà più 38). Ma la professione di
soldato è anche per lui la migliore scuola dell'uomo
veramente superiore. Sicché il fatto che in Ciro si uni-
scano il guerriero e il monarca gli si presenta come
l'idea più naturale e ovvia 39).
Il costume educativo dei Persiani, aveva richia-
mato l'attenzione di Senofonte come scuola suprema di
una tale virtù e altezza d'animo; perciò vi si ferma
intrecciandone la descrizione con la storia del suo eroe.
È presumibile che Socrate nc;m sia stato il primo a ri-
volgere su questo problema l'attenzione di Senofonte,
giacché la « buona società», in Atene e altrove, aveva
da un pezzo vivo interesse per le costruzioni politiche
e i costumi educativi di popoli stranieri 40). Senofonte
portò, per esperienza e ricerca personale, informazione

") Hipp. IX 8. .
11) In Pericle, «il pruno cittadino» (npw't'o~ clv-Jip) di Atene,
la città aveva prodotto un reggitore che .era a un tempo uomo di
stato e capo militare. Lo stesso ideale è aucora valido per i due
avversari Alcibiade e Nicia. L'ultimo che riuscì a riunire in s6
le due doti fu Timoteo. In seguito la separazione l!Ì accentu(') sem-
pre più. Senofonte ravvisa non già nella carriera del politico,
ma nella educazione del soldato la preparazione migliore al com·
pito di reggitore. Anche Isocrate e soprattutto Platone dauno
grande importanza al momento militare nella paideia del loro
reggitore. Tuttavia il tipo di dominatore puramente militare,
come . Senofonte lo vede, divenne prevalente solo in età elleni·
stica. Molte di queste personalità di dominatori riunirono in s6
le qualità del soldato con una formazione scientifica.
• 0 ) Anche Crizia, come si vede dai frammenti della sua opera
in prosa, Costitu:rione degli Ateniesi, si era occupato, studiaudo
la vita politica di altri stati, del problema dell'educazione. Sulla
Tessaglia, le sue informazioni poterono esser frutto di esperienza
personale.
1620 [rn 284] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nuova sui Persiani; un'informazione, anzi, che su que-


sto particolare aspetto della vita persiana era forse
la più copiosa e chiara che si fosse mai portata. Pure,
anche quello che in proposito sa dirci Senofonte non
scende molto nel particolare. L'educazione persiana
sembra a lui migliore di quella greca 41), e l'immagine
di qu.esta che ha in mente è in sostanza quella de-
scritta da Platone. In Grecia il pubblico non si dà in
generale pensiero dei giovani, tranne che in Sparta
- che Senofonte qui non menziona - le cui condizioni
non erano paragonabili con quelle degli altri Greci 42 ).
Ogni individuo alleva i figliuoli come gli piace. Cre-
sciuti che sono, ecco intervenire la legge e imporre
loro le proprie prescrizioni. Ma essi risultano mal pre-
parati a quell'obbedienza e rispetto yerso la legge di cui
gli stati greci son cosi fieri e che chiamano giustizia. I
Persiani invece intervengono nella primissima giovinez-
za dei figli e fanno della giustizia un vero e proprio inse-
gnamento, come i genitori greci fanno per l'aHabeto 43).
La sede dell'educazione presso i Persiani è la cosid-
detta « piazza:· libera» davanti al palazzo reale, dove
sono anche gli altri edifici pubblici. Botteghe e affari
sono banditi da questa piazza, affinché il loro frastuono
non si mescoli con la «compostezza (eùxoO"µlrl) della
gente educata» 44), È chiara qui la voluta contrappo-
sizione col costume d'Atene e di Grecia, dove la piazza
e gli accessi degli edifici pubblici erano ingombrati
dalle baracche dei mercanti e risonanti di traffico vo-
ciante 45). La paideia persiana è posta cosi, fin da prin-

il) Cyrop. I 2, 2-3 (inizio).


U) In Lac. Resp. X 4 Senofonte elogia l'educazione della
gioventù a cura dello stato, in maniera simile a quel che fa qui
per i Persiani•
..) Cyrop. I 2, 6.
44 ) .Cyrop. I 2, 3-4.
' 6 ) Cfr. Demosth. Cor. 169.
CAP. VII: SENOFONTE (III 285] 1621

cipio e dalla sede stessa, in saldo collegamento con la


vita della comunità, anzi proprio nel centro dell'edi·
fìcio politico. I dirigenti dell'educazione dei più gio·
vani sono scelti tra gli anziani secondo il criterio del·
l'attitudine al compito, mentr.e a educatori dei giovani
in età da portare armi, gli « efehi », sono designati
uomini eminenti nel pieno vigor dell'età 46). Esiste per
i giovani una specie di tribunale, analogo a quelli dei
Greci per gli adulti, innanzi al quale essi possono por·
tare reclami e accuse di furto, rapina, violen.Za, frode
o oltraggio 47). I colpevoli vengono puniti conforme
alla legge; allo stesso modo è anche punito l'accusatore
dell'innocente. Come cosa caratteristica dei Persiani
Senofonte rileva che l'ingratitudine è severamente pu·
nita in questo tribunale, in quanto l'ingratitudine ap·
pare come origine dell'impudenza e pertanto di ogni
malvagità 48). E qui ci torna in mente l'importanza
data da Platone e da Isocrate all' aidos, senso di onore
e di pudore, per l'educazione dei giovani come per la
conservazione di ogni ordine sociale 49 ). Il principio
proprio ed essenziale di tutta l'educazione persiana ap·
pare a Senofonte essere l'esempio. Dall'esempio la gio·
ventù impara ad obbedire prontamente al precetto,
anche estremo, vedendo che anche i più vecchi senza
eccezioni compiono puntualmente lo stesso dovere 50).
La vita dei giovani Persiani è la più semplice che
si possa immaginare. Si portano da casa pane e insa·
lata con un bicchiere per l'acqua, e mangiano a scuola
tutti insieme sotto la sorveglianza del maestro. Questa
educazione dura fino al sedicesimo o diciassettesimo

••) Cyrop. I 2, 5•
..) Cyrop. I 2, 6.
") Cyrop. I 2, 7.
49 ) Cfr. « Paideia» II 590, III 207 s.

&o) C:rrop. I 2, 8.
1622 [rn286] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

anno d'età, dopo il quale il giovane entra nel corpo


degli efebi e vi sta per dieci anni. Grandi lodi tributa
Senofonte a questa istituzione del servizio militare
obbligatorio nei primi anni dell'età adulta, poiché que-
sta età ha particolare bisogno di attenta cura. ~ que·
sta I~ scuola della disciplina. I giovani stanno sempre
agli ordini dei superiori e costituiscono la Guardia, che
accompagna il re nelle sue consuete spedizioni di cac-
cia, le quali hanno luogo più volte in un mese 61).
In questo pregio dato al nobile esercizio della caccia
Senofonte vede un particolar segno di sanità del si-
stema persiano. Egli vanta la virtù fortificante della
caccia e .la considera, qui come nella Costituzione degli
Spartani e nel Cinegetico, parte essenziale di una buona
paideia 62). Nell'Economico, poi, aggiunge a questi fat-
tori di educazione costituenti il quadro della civiltà
persiana - cura della giustizia, esercizio di guerra e
di caccia - un terzo fattore, la coltivazione dei
campi &a).
Il sistema . sociale persiano si articola in quattro
classi, secondo il criterio dell'età: fanciulli, efebi, adulti
e anziani. Tra i fanciulli sono chiamati a divenire efebi
soltanto quelli i cui genitori hanno la possibilità di
mandarli, invece che a lavorare, a questa alta scuola
di kalokagathia, e solo gli efebi che abbiano com-
piuto intero il periodo di servizio arrivano al rango
di adulti ('t"éÀeLoL) e più tardi alla dignità di anziani
(yep~lnpoL) M). Le quattro categorie formano l'élite
del popolo persiano, su esse poggia tutto il sistema

11) Cyrop. I 2, 8-9. Anche Isocrate, Areop. 43 e SO, racco-


manda una cura più attenta per l'età degli efebi e degli uomini
giovani.
61) Cyrop. I 2, 10; cfr. Lac. Resp. IV 7, VI 3-4. Sul Cine-
getico, v. infra, p. 310 ss.
"") Oec. IV 4 se.
") Cyrop. I 2, 12 (alla fine)-13.
CAP. VII: SENOFONTE [m287] 1623

politico, in quanto il re regge per mezzo loro il paese.


Tutto ciò deve essere sembrato assai strano al pub-
blico dei lettori greci; ad eccezione forse degli Spartani,
che doverono notare più di un punto affine a questo
quadro nelle proprie istituzioni 65). Al lettore moderno
possono venire in mente le scuole di cadetti degli stati
militari, come lantico stato prussiano, che rifornivano
lesercito di energie sempre fresche e improntate fin
dalla fanciullezza al suo spirito. E l'analogia è tutt'altro
che fuor di luogo, in quanto il fondamento sociale è lo
stesso in ambedue i sistemi, un fondamento di carat-
tere feudale, anche se in Senofonte sembra che il cri-
terio di scelta sia, anziché la nobiltà della nascita,
l'indipendenza economica dei genitori 56). Ma le due
cose venivano probabilmente a coincidere nella nobiltà
persiana proprietaria terriera.
Le tendenze aristocratico-militari di Senofonte che,
tra gli stati greci, trovavano in Sparta corrispondenza
meno inadeguata si foggiarono così un secondo modello
in questo singolare quadro dell'educazione persiana.
Ci si può domandare se il concetto ispiratore della
Ciropedia sia stato puramente teoretico o se importasse
all'autore di contribuire in pratica a dllfondere e rea-
lizzare quell'ideale. Un atteggiamento puramente sto-
rico di fronte a un tale problema è inverosimile in quel
tempo anche nello storico Senofonte. Sembra naturale
pensare a prima vista ch'egli abbia concepito l'opera
sua in un momento in cui Sparta godeva ancora della

&S) Questo particolare, che lo stesso re dei Persiani e Ja più


alta nobiltà si dedicassero attivamente all'agricoltura, dové suo-
nare alieno e strano a cittadini spartani di pieno diritto. L'agri-
coltura in Sparta era considerata, come qualsiasi altra attività
professionale, come « banausica». Cfr. Lac. Resp. VII 1. Seno·
fonte, che qui non concorda col suo ideale spartano, rileva in
Oec. 1V 3 espressamente questo contrasto di costume fra Sparta
e la Persia.
66) Cyrop. I 2, 15.
1624 [rn288] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

supremazia e in cui lo scrittore emigrato, a lei favore-


vole- nel suo intimo, volesse suscitare negli uomini
colti del suo paese, per mezzo dell'analogo esempio
persiano, comprensione per un autentico spirito mili-
tare, che è poi lo scopo a cui mira anche il suo scritto
sullo stato spartano. Ma le considerazioni finali che
Senofonte aggiunge ad ambedue gli scritti vietano di
credere ad un fine direttamente propagandistico. Nella
conclusione della Ciropedia egli esprime disistima ra-
dicale della Persia attuale e si so:fferma a spiegare le
ragioni della sua decadeuza 57). E assume lo stesso at-
teggiamento alla fine della Costituzione degli Spartani
nei riguardi dell'attuale Sparta 58). Difficilmente ciò sa-
rebbe potuto avvenire quando ancora viveva il re Age-
silao che Senofonte esalta, dopo la morte avvenuta
nel 360, in un encomio, come l'incarnazione perfetta
della schietta virtù spartana. La fine di ambedue le
opere si riporta meglio, per allusioni a eventi contem-
poranei, agli anni tardi di Senofonte nei quali di una
egemonia di Sparta ormai non si parlava più 59). Ma

6 7) Cyrop. VIII 8.
68 ) Lac. Resp. XIV.
1 ") Alcuni studiosi hanno voluto dimostrare aggiunte poste-
riori, o di Senofonte o addirittura di altri, le chiuse della Ciro-
pedia e della Costituzione degli Spartani, in cui l'autore accusa
rispettivamente i Persiani e gli Spartani attuali di esser deca-
duti dai loro antichi ideali. Sarebbe però sorprendente che in
tutte e due le opere si fosse operato posteriormente lo stesso tipo
di aggiunta. Al contrario, le chiuse dei due scritti si appoggiano
a vicenda, mercé il contrasto che ambedue pongono tra le mi-
gliori condizioni di un tempo e le peggiori del presente. Inoltre
il caratteristico« ora» si trova non solo nella chiusa della Ciro-
pedia, ma anche in altri luoghi dell'opera; cfr. I 3, 2; I 4, 27;
II 4, 20; III 3, 26; IV 2, 8; IV 3, 2; IV 3, 23; VIII I, 37; VIII 2,
4; VIII 2, 7; VIII 4, 5; VIII 6, 16. Se dunque i capitoli finali
di ambedue le opere sono, come io non dubito, autentici e origi-
nari, essi sono per ciò stesso da datarsi, l'uno e laltro, nell'ultimo
decennio della vita di Senofonte. L'avvenimento più recente che
Senofonte menziona (Cyrop. VIII 8, 4) è la consegna, del sa-
trapo ribelle Ariobarzane al Gran Re per opera del suo stesso fi-
gliuolo (360).
CAP. VII: SENOFONTE [m 289] 1625

anche indipendentemente dall'attualità politica, un uomo


del suo sentire poteva concepire il desiderio di erigere
un monumento allo spirito dell'educazione persiana. A
chi gli avesse obbiettato che egli così favoriva un co-
stume barbarico, orientale, di dispotismo, egli cerca
più volte di rispondere preventivamente nel suo libro,
distinguendo tra la Persia infiacchita del presente e il
cavalleresco popolo guerriero dei tempi in cui fu fon-
dato l'impero persiano. Il tipo di vita molle, orien·
tale, che passa oggi per molti come caratteristica-
mente persiano, per lui è il costume dei Medi 60). Fu
anzi questo costume una delle principali ragioni per
cui l'impero medo venne in potere dei Persiani, non
appena questi si accorsero della propria superiorità.
Il popolo persiano dell'età di Ciro non era un popolo
di schiavi, ma di liberi e di pari 61), e questo spirito
visse ininterrottamente nelle .istituzioni del nuovo stato
finché Ciro lo resse. Solo ai successori è da imputare
di aver rinnegato quello spirito e affrettato cosi la de-
cadenza 62). La paideia dei Persiani è per Senofonte
la reliquia ultima e l'unico rifugio della virtù antica,
e nell'attuale stato degenere del popolo persiano essa
sembra a lui degna di sopravvivere nella memoria degli
uomini, col ricordo dei fondatori di quell'impero e della
sua grandezza d'un tempo.
L'opuscolo sulla Costituzione degli Spartani è quello
che mostra le più strette affinità con la Ciropedia.
Sebbene esso non sia la storia di un uomo, ma la de-
scrizione di mia forma di stato, i due libri sono para-
gonahili in questo, che cominciano con la paideia e
con mo mettono in evidenza lo speciale punto di vista
da cui i loro temi sono affrontati. L'educazione in

• 0) Cyrop. I 3, 2 ss. ; VIII 3, I; VIII 8, 15.


• 1) Cyrop. VII 5, 85.
62 ) Cyrop. VIII 8, 1-2.
1626 [m290J LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

senso stretto, è vero, occupa in ambedue soltanto i


primi ·capitoli, ma per lautore essa è il fondamento cosi
dello stato persiano come dello spartano, e ad essa
egli torna di continuo a riferirsi 63 ). D'altronde anche
gli altri ordinamenti dei due popoli portano ugual-
mente la forte impronta di un unico sistema educativo
coerentemente applicato, purché la parola« educazione»
si estenda - come era usuale in stati come questi -
alla condotta della vita intera, anche dell'adulto.
Abbiamo già dedotto, in quest'opera, l'idea spar-
tana della suprema virtù civile dal suo più antico do·
cumento, i carmi di Tirteo («Paideia» I 174 ss.). È un
documento del tempo della guerra messenica, e in esso
questo ideale dell'uomo spartano si afferma, sotto la
pressione di grave pericolo esterno, in lotta contro
concezioni più antiche e più aristocratiche. Questo
ideale presuppone il concetto, che il servizio più alto
del cittadino verso lo stato -per il bene di tutti con-
sista nella difesa della patria, e che i diritti del citta-
dino nello stato non debbano esser misurati secondo
privilegi di classe o di censo, ma secondo la prova da
ciascuno fornita nell'adempimento di questo dovere
supremo. Poiché la comunità spartana ebbe sempre
ad affermarsi tra le lotte, e la sua esistenza si fondò
sempre sulla costante preparazione alla guerra, questo
concetto fondamentale sui rapporti del singolo con la
comunità non fu mai scosso. Da esso, anzi, nel corso
dei secoli si era svolto tutto un sistema particolare di
vita civile. Sui singoli gradi di un tale svolgimento
manca a noi moderni l'informazione. Comunque al
tempo di Senofonte e Platone, e si può dir da molto
prima, questo cosmos spartano si ergeva agli occhi
degli uomini come edificio concluso. Si deve però sol-

•3) V. supra, p. 281 n. 35.


CAP. VTI: SENOFONTE [m291] 1627

tanto all'interesse di questi pensatori e scrittori per


la paideia spartana, se ci sono giunte informazioni sto·
riche di un qualche valore su Sparta 64). I Greci vede-
vano con ammirazione come in Sparta tutte le istitu-
zioni servissero a un solo scopo: fare dei cittadini i mi-
gliori guerrieri del mondo. Ci si rendeva ben conto
che ciò non si era ottenuto soltanto con un allena-
mento tecnico instancabile, ma poggiava su una for-
mazione interiore dell'uomo che cominciava fin dalla
primissima giovinezza: formazione non militare sol-
tanto, ma morale e politica nel senso più largo, che si
presentava però nettamente contrapposta a tutto ciò
che gli altri Greci intendevano con queste parole. C'erano
dovunque in Grecia, accanto agli amici della democra·
zia ateniese, assertori convinti dello spirito spartano.
Rappresentante tipico di questi non è Platone, che
rimane in atteggiamento critico di fronte all'ideale
spartano in sé. Quel che egli ammira è solo la coerenza
con cui il principio conduttore arriva a compenetrare
di sé ogni parte della vita civile spartana, è la suprema
importanza data all'educazione per la formazione dello
spirito pubblico 65). Molto, più di Platone, Senofonte
è il rappresentante dell'osservanza filolacone, propria
· particolarmente degli ambienti aristocratici.
Il suo atteggiamento critico di fronte alla democra-
zia contemporanea ateniese, che si esprime aperto nei
Memorabili nonostante la lealtà del cittadino, lo indu-
ceva ad ammirare, in Sparta, l'avversaria di Atene,
molte cose che gli apparivano come sagge soluzioni di

84) Cfr. in« Paideia » I 160 es. il paragrafo « L'ideale spar-


tano del IV sec. e la tradizione».
86) Cfr. PI. Legg. 626 a (cfr. infra, p. 383). Similmente l'autore,
di sentimenti oligarchici, che scrisse l'opera giuntaci sotto il nome
di Senofonte, la Costituzione degli Ateniesi, ammira la straordi·
naria coerenza del sistema democratico in ogni particolare, senza
per ciò essere partigiano della democrazia per se stessa.
1628 [m292) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

certi vecchi fondamentali problemi ateniesi. Tutti i


guai della democrazia contemporanea sembravano sca-
turire da una fonte sola, cioè dall'esagerata afferma-
zione di sé nell'individuo, che sembrava non conoscere
doveri, ma solo diritti del cittadino e in questi vedeva
lessenza di quella libertà che la città era chiamata a
garantire. Di fronte ai suoi ideali di soldato, un tale
difetto di disciplina responsabile doveva riuscire a Se-
nofonte particolarmente increscioso. Il suo pensiero
politico non traeva origine dalle esigenze ideali del
singolo, ma dalle esigenze e condizioni determinanti
dall'esterno l'esistenza della comunità. Il difetto con-
tinuamente lamentato nella cittadinanza ateniese anche
da altri critici come Platone, Isocrate, Demostene, il
difettò cioè di attitudine e di buona volontà nel ser-
vizio delle anni, doveva sembrare a lui inconcepibile
leggerezza puerile, che, . in un mondo di nemici e di
emuli invidiosi, avrebbe ben presto condotto la demo·
crazia ateniese alla perdita di quella libertà. di cui
menava sì gran vanto. Certo, la disciplina spartana non
era frutto di libera decisione da parte di una maggio-
ranza di cittadini, ma era parte costitutiva della strut-
tura legislativa statale dovuta, come Senòfonte pen-
sava, all'opera geniale di un uomo solo, il semimitico
Licurgo 66). Erano ben note a Senofonte le condizioni
storiche per cui la situazione primitiva di una vita
guerriera si era cosi a lungo mantenuta a Sparta, cioè
lesistenza di due razze in un unico stato, la dominante
accampata in mezzo alla razza asservita, in un latente
stato di guerra durato più secoli; tutto ciò gli è noto,
ma egli' non ne fa menzione, bensi preferisce concepire
il cosmos spartano come una politica opera d'arte
di grandissima originalità, che gli altri dovrebbero imi-

0 ) Lae. Resp. I 2; II 2; II 13 ecc,


CAP. VII: SENOFONTE [rn293] l629

tare 87). Con ciò egli non intese certamente la riprodu-


zione servile di tutti gli ordinamenti. Le opere poli-
tiche di Platone ci chiariscono nel miglior modo che
cosa intenda per imitazione il pensiero greco. I Greci
tendono molto meno di noi a concepire una creazione
spirituale, coerente a se stessa e vincolata alle condi-
zioni della sua natura, come un tutto individuale e
irripetibile, ma scorto che abbiano un qualunque pregio
in un sistema, si volgono a imitare, come buono e
utile, quel pregio e valore. Per Senofonte Sparta rap-
presenta realizzato in uno stato intero quell'ideale di
vita da soldato che egli aveva appreso nel campo di
Ciro.
Senofonte ha piena coscienza della paradossalità
della vita e del costume educativo spartano di fronte
all'opinione media del suo tempo, col suo senso dell'in-
dividuo e della sua libertà 88). Forse per ciò egli avvolge
spesso il suo consenso alle istituzioni di Licurgo in una
forma cauta, che è di lasciar decidere al lettore se il
legislatore spartano abbia giovato o no al popolo coi
suoi provvedimenti. Egli dové avere il senso che le
opinioni dei lettori erano .su questo punto divise, e che
ce ne sarebbero stati molti che avrebbero trovato troppo
caro il prezzo pagato per quei benefici 89). È però evi-
dente che egli si aspetta anche il consenso di larghe
cerchie del pubblico, e certamente non solo in città
e stati in cui interessi letterari come quelli che il suo
libro presuppone si ritenevano superflui - che era

"1) Cfr. Lac. Resp. I 2, sull'originalità della costituzione di


Licurgo; IX l, X l, X 4, XI l e altrove, sulle qualità ammire-
voli delle istituzioni spartane, che (X, 8) nessuno imita ma molti
lodano.
68) Egli sostiene ripetutamente che le istituzioni di Licurgo
sono opposte a quelle di tutti gli altri stati greci. Cfr. I 3-4; II
1-2; II 13; III 2; VI l; VII 1 ecc.
H) Lac. Resp. I 10; II 14.
1630 [Ill294] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

forse il caso di Sparta 76). La questione non era affatto


puramente ideologica. Anche se si è dato a Senofonte,
per l'inattualità del suo ideale in un mondo illuminato
e democratico, il nome di romantico, egli non fu un poeta,
fu un uomo pratico. Al di fuori dell'antica simpatia
del _soldato per Sparta, era senza dubbio in gioco anche
la sua convinzione politica di signore agrario. Poco
incline ai cittadini e alla vita di città, egli vedeva
chiaro che i tentativi di soluzione del problema sociale
che nascevano dal proletariato cittadino erano infrut·
tuosi per la campagna e per l'agricoltore. Inoltre, anche
in quell'appartato angolo dell'Elide, in cui visse per
decenni da agricoltore, egli prese parte alle lotte po-
litiche, che anche là non mancavano, come mostra la
precisa conoscenza dei partiti politici elei rivelantesi
negli ultimi libri delle Elleniche. La descrizione che egli
dà di queste vicende è sproporzionatamente diffusa e
rivela il testimone oculare 71). Si trattava di contese
sociali in cui due tendenze, che Senofonte ebbe agio di
studiare nei loro effetti, erano in gioco: l'aristocratica
d'in1luenza apartana e la democratica d'in1luenza arca·
dica. Per il Peloponneso agrario il movimento demo-
cratico, alimentato da Tebe dopo la disfatta spartana
di Leuttra, era qualcosa di relativamente nuovo, es-
sendo durato per secoli il dominio di Sparta con le
sue rigide direttive tradizionali. Anche ora, del resto,
dopo la secessione della Messenia e dell'Arcadia da
questo sistema politico, tutto l'elemento conservatore
era dalla parte di Sparta. Nell'Elide in particolare l'in·
fl.uenza della nuova espansione arcadica non era ge-
neralmente bene accetta. Infine fu per Senofonte cir·

70) Non per questo. però, lo scritto di Senofonte. che con·


tiene una vera e propria apologia del loro sistema politico, sarà
giunto meno gradito agli Spartani.
71) Cfr. per es. Hell. VII 4, 15 ss.
CAP. VII: SENOFONTE [m295] 1631

costanza favorevole il fatto che Atene, spaventata dal-


l'improvviso insorgere della potenza tebana, si fosse
alleata con l'umiliata Sparta. Ciò rendeva i lettori
ateniesi, specialmente dop·o che truppe ateniesi ave-
vano più volte combattuto a fianco degli Spartani
contro Tebe, più capaci di prestare orecchio a uno stu·
dio pacato, anche se non privo di spunti critici, delle
condizioni di vita spartana . e non rendeva più, come
sarebbe senza dubbio avvenuto prima, politicamente
sospetto il suo autore 72 ).
Il sistema educativo spartano, la cosiddetta ago-
ghé, è troppo noto nei suoi particolari perché sia ne-
cessario qui seguir Senofonte nella minuta descrizione
che· ne dà. Punti essenziali del sistema sono: inizio
precoce della cura educativa, per una prole sana,
prima della concezione e durante la vita intrauterina'
cioè allevamento razziale ed eugenica; esercizio del-
l'educazione da parte degli organi dello stato, anziché
- al modo degli altri stati - da parte dei genitori
o degli schiavi a clii essi affidavano la cura dei figli;
istituzione del paidonomos, come suprema autorità edu-
cativa statale; distribuzione dei fa:nciulli, e degli ado-
lescenti da essi separati, in formazioni militari; l'auto-
governo di ciascuna classe attraverso un uomo di sua
fiducia; la tempra del corpo, mercé apposito modo di
vestire e nutrimento; estensione della educazione sta-
tale fino ai primi anni dell'età virile. In tutto 'ciò molto
sembra a noi o esagerato o affetto da semplicismo primi-
tivo, ma i filosofi ateniesi riconobbero come sano il
principio dell'educazione a cura dello stato o della
città, esercitata per mezzo di competenti pubblici fun.

72 ) Questa svolta della politica ateniese è narrata molto


diffusamente in Hell. VII I. L'invio di truppe ateniesi in aiuto
di Sparta o dei suoi confederati è sempre menzionato espressa-
mente nelle Elleniche e nello scritto Sulle entrate.
1632 [m296] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

zionari, e furono essi che aiutarono la vittoria di quel


principio quasi in tutto il mondo, accogliendolo nei
loro disegni di stato ideale 73). Sta qui, nell'esigenza
di un'educazione pubblica; il contributo essenziale e
proprio di Sparta alla storia della civiltà, un contri-
buto di cui è difficile sopravvalutare l'importanza. Il
secondo punto capitale del sistema spartano è il ser-
vizio militare dei giovani, considerato parte essenziale
dell'educazione. Esso era molto più. esteso che negli
stati democratici della Grecia e, per mezzo dei syssitia
e delle esercitazioni militari degli uomini, proseguiva
anche nell'età matura. Anche questo principio, come
vedemmo, è stato accolto da Platone.

Dové essere una forte scossa per un uomo delle


idee di Senofonte il vedere che questo sistema aveva
ricevuto un colpo mortale dalla disfatta dell'invinci-
bile esercito spartano a Leuttra. Nella conclusione
della Costituzione degli Spartani egli fa colpa a Sparta
di avidità di denaro, di godimento, di dominio e ac-
cenna alla fine della sua egemonia 74). Nelle Elleniche
in cui si propone non solo la continuazione materiale
dell'opera di Tucidide, ma di imitarne anche lo spirito,
in quanto cerca di comprendere la necessità degli ac-
cadimenti, egli esercita una critica severa delle colpe
commesse dagli Spartani nel tempo della supremazia
sulla Grecia. L'animo religioso di Senofonte non riesce

73) Si veda soprattutto, oltre la Repubblica e le Leggi di pfa.

tone in cui questo principio è accolto, l'affermazione di A..'isto-


tele, Eth. Nic. X 10, ll 80 a 25: « Solo nello stato spartano il legi-
slatore ha dato disposizioni per l'educazione e la condotta della
vita; nella maggior parte delle città queste cose son del tutto
trascurate e ognuno vive come gli piace, reggendo, a modo dei
Ciclopi, la moglie e i figli».
") Lac. Resp. XIV 6: gli Spartani sono ora così poco amati
in Grecia, che gli altri Greci fanno causa comune per impedire
una restaurazione della signoria spartana.
CAP. VII: SENOFONTE [w 297] 1633

a capire il tragico precipizio di tanta grandezza se non


come atto di una nemesi divina, che ha infranto l'arco
troppo teso. Non ostante tutta la sua ammirazione,
egli era rimasto abbastanza ateniese per sentir sempre,
alla fine, una qualche estraneità di fronte alla durezza
dell'imperio spartano. Il che non gli impedisce, anche
dopo la caduta di Sparta, di scrivere il suo libretto
sulla paideia spartana, ma pur gl'impone di fronte al
suo tema lo stesso atteggiamento non senza riserve
che aveva tenuto nella Ciropedia. Questo atteggiamento
ammonitore è per noi l'elemento propriamente educa-
tivo, in alto senso, di questo libro educativo. E nello
stesso senso si può inserire l'opera storica di lui, le
Elleniche, nel grande edificio della paideia greca. L'in-
segnamento che ne ricaviamo non è, in queste, im-
manente ai fatti stessi, come nell'opera del suo pre-
decessore, senza paragone più grande. È un insegnamen-
to impregnato di sincera soggettività e di religioso zelo.
La sconfitta di Sparta era stata, con la fine della guerra
peloponnesiaca e la caduta di Atene, la seconda grande
esperienza storica nella vita di Senofonte, capace di
fissare la sua fede etica in un or~e divino del mondo
fondato sulla giustizia 75 ).

Gli scritti socratici di Senofonte, i ricordi del mae-


stro e i dialoghi, costituiscono un gruppo delle sue
opere di cui non c'è bisogno di dimostrare l'intima con-
nessione col problema educativo. Era stato Socrate a
dare all'elemento etico e meditativo originariamente esi-
stente in Senofonte l'avvio più .deciso al suo ulteriore
svJuppo 16). Il libro dei Memorabili è stato da noi già
valutato a suo tempo come fonte storica su Socrate,

76) Cenni all'intervento della potenza divina negli accadi-


menti storici in Hell. VI 4, 3; VII 5, 12-13.
71 ) Cfr. in « Paideia » Il il cap. « Socrate».
1634 [m298] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

e non sembra il caso di riconsiderarlo ancora una volta


come espressione ·delle concezioni senofontee sulla pai-
deia 77), Evidentemente la critica del suo valore di
fonte storica include anche che si sia riconosciuta in
esso la parte propria del pensiero di Senofonte. È gu-
stoso vedere come l'autore presenti in Socrate un so·
stenito.re delle sue idee favorite, per far di lui in qual-
che modo l'educatore ideale di quell'età di restaura·
zione ateniese che egli sognava 78), Ed ecco il maestro
in veste di competente consigliere militare per ufficiali
di cavalleria o per l'insegnamento della tattica; eccolo,
di fronte alle visioni pessimistiche di Pericle il giovane,
quello che fu uno dei comandanti nella battaglia delle
Arginuse nel momento del brusco tramonto della po•
tenza ateniese, a professare la sua fede nell'avvenire
di Atene, solo che si voglia introdurre una rigida disci·
plina militare e ristabilire l'autorità morale dell'Areo-
pago 79 ): pensieri, questi, presi a prestito dall'arma·
mentario del partito conservatore e appartenenti al
tempo in cui anche Isocrate se ne faceva sostenitore BO),
cioè al periodo della seconda· l,ega marittima al de-
clino, nel quale il ricordo di un periodo analogo di
disgregazione, l'ultima fase della guerra peloponnesiaca,
si risvegliava naturalmente. Ancora più appariscente
è la sovrana disinvoltura con cui Senofonte fa di So-
crate il banditore delle sue idee nell'Economico, .un
dialogo che qui vale la pena di citare particolarmente,
perché amplia il quadro dell'educazione ideale seno·
fontea in una direzione essenziale per questo scrittore:
la relazione della cultura con l' agricultura.

77 ) Il contributo dei Memorabili al problema della paideia

consiste nell'esposizione che Senofonte fa in quest'opera della


paideia di Socrate.
78 ) Cfr. « Paideia » II 82 ss.
79 ) Cfr. supra, p. 274 n. 17.

• 0 ) Cfr. supra, p. 198.


CAP. VII: SENOFONTE [m299J 1635

Il paragone dell'educazione con la coltivazione dei


campi era già dei Sofisti, che più volte lo avevano
messo a fondamento delle loro esposizioni teoriche 81).
Ma se anche in tali teorie la messa a cultura del ter-
reno in vista del prodotto era stata considerata come
l'inizio di ogni forma di civiltà, pure l'educazione sofi-
stica rimaneva un prodotto cittadino. Erano lontani
i tempi in cui Esiodo aveva potuto partire dalla vita
dei campi e dalle sue leggi per stabilire tutta un'etica
sua propria, l'etica delle Opere e dei Giorni; la polis
aveva preso il comando nel campo della cultura.« Con-
tadino» e « incolto» erano divenuti al tempo di Seno-
fonte concetti sinonimi 82), e sembrava difficile ormai
che si potesse restituire all'uomo dei campi la sua an-
tica dignità. Senofonte, figlio anche lui della città,
ma portato dall'inclinazione e dagli eventi alla profes-
sione dell'agricoltore, si trovò davanti per necessità
il compito di porre in qualche relazione spirituale il
duro mestiere che gli dava da vivere con la sua forma-
zione di uomo colto e letterato. E cosi il problema di
campagna e città si fece per la prima volta attuale e
acuto in letteratura. Lo aveva, certo, toccato già I' an-
tica commedia attica, ma solo per mettere in luce
l'inconciliabilità delle esigenze di vita campagnola dei
padri con la cultura sofistica di moda 83). N ell' Econo-
mico di Senofonte vive uno spirito nuovo. Il mondo
dei campi si è fatto consapevole del proprio autonomo
valore e si rivela capace di portare un contributo

Il) Cfr. « Paideia » I 534-535.


81 ) liypoixoc; diventa la designazione corrente dell'uomo
incolto; cfr. Arist. Rhet. III 7, 1408 a 32, dove è contrapposto
a xe:xoc~3e:uµévoc;. In senso più particolare è intesa la parola in Eth.
Nic. II 7, 1108 a 26, cioè in contrapposto a« disinvoltura» (nella
vita sociale), e:ù-rpocxe:J..loc. Teofrasto descrive il tipo dell'ciypoixoc;
in uno dei Caratteri: IV.
83) Cfr. sui Banchettami (~oc~TIXÀ'ijc;) di Aristofane, « Paideia »
I 623 s.
1636 [m300] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

non indifferente alla civiltà. Questo amore dei. campi


è ugualmente lontano dalla sentimentalità pastorale
dei poeti idillici ellenistici e dal burlesco campagnolo
di alcune scene aristofanesche. È un amore sicuro
senza esagerazioni o sopravalutazioni dell'importanza
del proprio mondo. E se anche non si voglia generaliz-
zare il fenomeno dell'agricoltore letterato, è pur le-
cito dire che l'operetta di Senofonte addita nella· cam-
pagna la generatrice antica e sempre giovane di ogni
forma umana di vita. Dietro lo schermo sottile su cui
si agita nervoso il mondo della civiltà cittadina si
distende ampio, pacato e di sé sicuro questo mondo
dei campi. Tutto ciò d'altro canto testimonia della vi-
talità e solidità dell'ideale educativo socratico, mostran-
dolo atto a procedere al di là delle mura cittadine,
nella regione in cui Socrate stesso, il cittadino per eccel-
lenza, non aveva mai voluto avventurarsi, perché con
gli alberi «non poteva parlare» 84).

Il dialogo introduttivo sulla natura dell'economia


(o amministrazione domestica) conduce Socrate e il suo
interlocutore Critobulo al tema dell'agricoltura (y~<i>p­
y(a.), a cui poi è dedicata la parte principale dell'opera.
Critohulo chiede a Socrate di istruirlo sul genere di at-
tività pratica e di scienza più bello e meglio conve-
niente al suo stato di libero cittadino 85). I due si tro-
·vano facilmente d'accordo nel constatare che le pro-
fessioni cosiddette banausiche fanno poco al caso, tanto
è vero che nella maggior parte degli stati non sono te-
nute in alta considerazione. Queste arti infiacchiscono
il corpo, obbligandolo alla malsana posizione sedenta-
ria, e ottundono lo spirito 86). Socrate raccomanda la

84) PI. Phaedr. 230 d.


ea) Xen. Oec. IV 1.
88) Oec. IV 2-3.
CAP. VII: SENOFONTE [m301] 1637

professione di agricoltore e mostra nel corso del col-


loquio una così stupefacente conoscenza in questo
campo, che Senofonte si vede costretto a dar di ciò
una apposita motivazione. Per dare dell'interesse .per
lagricoltura una giustificazione di ordine generale e
per dimostrare che essa è forma di attività socialmente
non degradante, Socrate si richiama all'esempio dei
re persiani, che accanto ai loro doveri militari non
conoscono che un attività degna di loro da esercitare
per diletto: la cura di campi e giardini 87). Senofonte
naturalmente trae queste nozioni dalla sua esperienza
di vita persiana; ma in bocca di Socrate fanno un ef-
fetto strano tutti i particolari che egli sa dare sul me-
raviglioso parco di Ciro 8B). E qui Senofonte fa interve-
nire un ricordo personale del generale spartano Li-
sandro che in occasione di una sua visita a Sardi fu
condotto da Ciro nei giardini reali e gli sentì dire che
soleva andarci tutti i giorni a lavorare, e aveva pian-
tato da sé tutti gli alberi e boschetti e fissato la loro
disposizione. Tutto ciò sarebbe stato raccontato da
Lisandro a un suo ospite megarese, dal quale poi So-
crate lo avrebbe sentitQ raccontare 89). Questa traspa-
rente invenzione vuole indicar chiaramente che lautore,
che parla qui come fa spesso Platone per bocca del
suo maestro, ha avuto queste notizie egli stesso da
Lisandro. A lui probabilmente Senofonte fu presentato
come il valoroso ufficiale che aveva condotto i Dieci-
mila nella ritirata dal fondo dell'Asia. Tutti e due erano
stati amici di Ciro e non c'era nessuno che più di S~
nofonte potesse far piacere a Lisandro coi ricordi del
principe caduto. L'unione del valore militare con l'amore

87 ) Oec. IV 4 s.
&•) Oec. IV 6; 8-12; 14 ss.
80) Oec. IV 20-25.
1638 [III 302) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

dell'agricoltura 90), nella vita del principe, dové più


tardi, quando Senofonte stesso si trovò· a lavorare da
agricoltore, essere per lui un nuovo motivo di ammi-
razione per la tradizione persiana.
Meno facile era per Senofonte motivare tutta la
conoscenza agraria particolare che Socrate sfoggia. Qui
egli se la cava facendo narrare a Socrate una conver-
sazione avuta con un proprietario terriero eminente,
a cui dà il nome significativo di Iscomaco. Di lui anzi
Socrate dice di averlo sentito lodare da tutti come
l'incarnazione perfetta della vera kalokagathia. A Cri-
tobulo che gli domanda che cosa sia insomma quel
complesso di ogni capacità e onestà che si designa con
quella parola che tutti hanno in bocca, senza congiun-
gerla generalmente con alcuna chiara rappresentazione,
Socrate non sa dare risposta se non con la descrizione
di quest'uomo che egli ha incontrato 91). Nel colloquio
qui riferito Iscomaco è naturalmente il protagonista;
Socrate si limita a fornirgli la materia del discorso con
domande appropriate. Quel che qui si manifesta come
kalokagathia autentica non è altro che il modo di vi-
vere di un bravo agricoltore, che fa il suo mestiere
con intelligenza piena e con gioia ed è un galantuomo.
In questa figura l'esperienza personale di Senofonte
viene a confluire col suo ideale umano e tecnico, in
tal modo che in Iscomaco facilmente si ravvisa un
autoritratto dell'autore, tradotto, s'intende, un una
poetica, perfetta versioné. Nella realtà Senofonte non
avrà certo preteso d'incarnare un tal modello di ogni
virtù. Come nei nobili persiani si congiungono il sol-

90) Oec. IV 4; dr. IV 12, sull'unione delle due .attività nella


vita dei re persiani. Per Senofonte l'attività agricola non è solo
incremento della casa (o!Kou IX~'Jl<rn;) ed esercizio corporale
(awµa:-rc;;; i!fax7JO"Lt;;), ma anche un piacere (ij8un~.&e:ta:): v.
Oec. V l ss.
H) Oec. VI 12-17.
CAP. VII: SENOFONTE [m 303] 1639

dato e lagricoltore, così Senofonte in tutto il dialogo


rileva laffinità dei valori educativi nell'opera dell' agri-
coltore e nella vita del soldato. Il che è significato
anche dal nome del suo contadino ideale. Questa me-
scolanza di virtù guerriere e agricole, di capacità e
senso del dovere è l'ideale di formazione umana di Se-
nofonte.

Molto si parla nell'Economico di paideia. Il successo


economico vi appare sempre come il resultato di un'edu-
cazione buona, non solo del colono, ma anche della
sua donna e dei suoi lavoratori, specialmente della
fattoressa e del fattore 92). Di conseguenza Senofonte
mette tra i compiti capitali dell'agricoltore quello del-
1'educatore, e si può supporre che in questo per J' ap-
punto si rifletta l'elemento più personale delle su.e idee
sull'attività di un proprietario terriero. La cosa più
importante_ per lui è l'educazione della moglie del
proprietario 93), descritta come la persona principale
della casa, come l'ape regina in uno sciame 94). E certo
se l'uomo l'ha presa, fanciulla inesperta quindicenne,
dal grembo di sua madre per farne la signora della
propria casa e dei suoi beni 95), questa pedagogia ma-
ritale, di cui Iscomaco va cosi fiero, non si può dire

81 ) Si potrebbe aggiungere a questo punto quel che Seno-


fonte dice nell'opuscolo Sull'equitazione (Ilept !mnxijç V)
della « paideia » del palafreniere. Non c'è un terreno che l'idea
di educazione non invada, nella sua marcia vittoriosa durante
il IV sec. Qui, certo, si tratta solo di una questione di espres-
sione. È istruttivo osservare che, nello stesso tempo in cui spiriti
e letti come Platone o Isocrate innalzano la parola « paideia »
a nuova e altissima significazione spirituale, in altri ambienti
essa comincia già a trivializzarsi. Dell'educazione dei figli, come
di un compito, Senofonte parla in Oec. VII 12, ma solo accennando
in breve. Essa non appartiene alla struttura della paideia econo-
mica, di cui qui si tratta.
93 ) Oec. VII 4.

") Oec. VII 32.


15 ) Oec. VII 5.
1640 [m304] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

superflua 96). Il senso in cui la intende è di additare


alla giovane madre, che aspetta tutto dalla sua supe-
riore personalità e competenza 97), la cerchia di doveri
che le è propria e di ispirarle gioia e coraggio per af.
frontare con alacrità il suo nuovo difficile compito.
La passiva indolenza della moglie cittadina che per
mezzo dei servi dirige, tutti i giorni allo stesso modo,
l'andamento di un'azienda domestica piccola, e facile
perciò a sorvegliarsi, dando le ore libere alla toilette
e ai vestiti, o alle chiacchiere sulle novità del giorno,
non sarebbe concepibile in una casa di campagna,
centro di un patrimonio terriero. Si deve solo a questa
descrizione senofontea dell'educazione di una donna
del ceto padronale di campagna una buona parte, e
la più bella, di quell'immagine della donna greca che
le nostre cognizioni ci permettono di delineare. Quello
che è in quel tempo emancipazione e educazione fem-
minile si limita per noi, per lo più, ai tipi euripidei di
donne illuminate e raziocinanti 9 8). Ma tra i due estremi
della « dotta» Melanippe e della donna comune ate-
niese confinata ad arte dentro la più ristretta cerchia
d'interessi sta l'ideale della donna capace di pensare
e agire da sé in una larga, e tutta sua, sfera d'azione,
l'ideale che Senofonte conosce e descrive traendolo
dalla migliore tradizione della civiltà contadina. Egli,
di suo, non vi aggiunse probabilmente molto di più
di una riflessione consapevole sul compito imposto da

90) Quando la fanciulla va a nozze, è 1t&1ta:t8euµÉv'l) nel


filar la lana e nella cucina, Oec. VII 6. L'unico insegnamento che
ha inoltre ricevuto dalla madre è di custodire una pudica riser·
vatezza (crc.i<ppov&~v}.
97 ) Oec. VII 14. Essa non si aspetta di diventare la colla-
boratrice dell'uomo (cruµ7tpéiça:t).
98 ) Cfr. Ivo BRUNS, « Frauenemanzipation in Athen » in
Vortriige u. Aufsiitze, Miinchen 1905, il quale ha esamfoato su
questo punto anche l'Economico.
CAP. VII: SENOFONTE [m305] 1641

questo retaggio. Ché il contenuto educativo in esso im-


plicito era in realtà antico come l'agricoltura stessa.

La donna in Senofonte è l'aiuto vero del marito 99 ),


e la signora della casa. L'uomo comanda ai lavoratori,
fuori, nei campi. Egli ha la responsabilità di tutto quello
che di là entra nella casa; a lei spetta la cura di con-
servarlo e di usarlo. Nelle mani di lei sta l'allevamento
e l'educazione dei bambini, è lei che soprintende alla
cantina e cucina, alla fattura del pane, alla tessitura
della lana. Tutto ciò è cosi disposto dalla natura e da
Dio, che hanno formato uomo e donna ad attività di-
verse 100). Per la conservazione dei prodotti campestri
è più adatta la timorosa anima femminile che il .co-
raggio dell'uomo, indispensabile quando sul lavoro dei
campi qualcuno usi prepotenza o imbroglio lOl). Nella
donna è innato l'amore dei nuovi nati e la fedele de-
dizione al compito di curarli 102). L'uomo riesce meglio
a sopportar caldo e freddo, a far lunghi e disagiati
viaggi per difendere con le armi la zolla di casa sua 103).
La donna distribuisce il lavoro tra i servi e sorveglia
che sia fatto, cura che abbiano da mangiare ed è, nel
podere, il medico per i malati 104 ). Essa istruisce le
serve inesperte nel tessere e nelle altre faccende dome-
stiche e si forma a modo suo la fattoressa 105). La più
grande importanza dà Iscomaco a che la donna sia
educata all'amore dell'ordine, essenziale in un'azienda
grossa 106). La descrizione che segue, minuta e com-
99 ) Si veda la filosofia senofontea sulla cooperazione di ele·
mento maschile e femminile applicata alla tenuta dell'azienda
rustica in Oec. VII 18 ss.
1°0 ) Oec. VII 21-22. Cfr. l'intero paragrafo seguente.
101) Oec. VII 23-25.
1°2 ) Oec. VII 24.
t 03) Oec. VII 23.
1"') Oec. VII 32-37.
1 ..) Oec. VII 41.
tos) Oec. VIII.
1642 [m306] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

pleta, della distribuzione dei locali, e la classificazione


di tutte le sorte di utensili da cucina e da tavola ci
offrono la preziosa occasione di un colpo d'occhio nel-
l'interno di una casa di campagna greca 107). L'ultima
parte di questa paideia della donna è costituita da
istruzioni per la cura igienica e di bellezza della propria
persona. Anche in ciò l'ideale d'Iscomaco, per la si-
gnora di campagna, è molto diverso dalla moda cit-
tadina. Egli persuade la sua giovane moglie della scon-
venienza di belletti e ciprie, ed eccita in lei il desiderio
di una bellezza fatta di freschezza genuina e di ela-
sticità corporea, come quella che può esserle confe-
rita, meglio che a qualsiasi donna di città, dalla sua
vita di moto laborioso 108). In maniera simile Seno-
fonte tratta l'educazione degli altri membri più im-
portanti dell'organizzazione agricola. La fattoressa deve
essere educata a essere onesta e fidata, amante del-
1'ordine e capace di organizzare 109) ; il fattore deve
esser formato alla devozione e fedeltà incondizionata
per i padroni,_ alla diligenza e alla capacità di guidare
altri llO). Se il padrone del fondo vuole educare in lui
l'interesse instancabile per l'azienda affidatagli, deve
lui, prima di tutto, mostrargli la via con l'esempio 111).
Il suo compito non ammette mai soste o rallenta-
menti: anche se la produzione dei campi e dell' alle-

1o7) Oec. IX.


io•) Oec. X.
i••) Oec. IX 11-13.
11°) Cfr. -Oec. XII 4 - XIV, sulla paideia del fattore. Il
verbo 'lt'tn&e0e:1v qui è da intendere non tanto della formazione
tecnica quanto della vera e propria educazione di un uomo for-
nito per natura delle qualità necessarie a sovrintendere ai la-
voratori. Compito primario di una tale educazione è di far l'uomo
capace di guidare altri uomini (cfr. XIII 4). Costui deve essere
veramente devoto al padrone e intento all'interesse di lui nel
guidare i lavoratori, oltreché, naturalmente, intendersi a fondo
della propria partita (XV 1).
111) Oe~. XII 17-18.
CAP. VIl: SENOFONTE [m307J 1643

vamento si mantiene abbondante. Egli deve essere


presto in piedi la mattina, mettersi in cammino per
lunghi giri nei campi ll2), e al suo sguardo niente
deve sfuggire Ila). Le cognizioni che occorrono per la
sua attività sono più semplici che quelle di molte altre
arti 114), ma il compito dell'agricoltore esige, accanto
alla virtù militare dell'ordine, anche un'altra qualità
del soldato, e cioè la naturale attitudine alla guida e
al comando. Quando all'apparire del padrone i muscoli
dei lavoratori non si tendono spontaneamente e il
ritmo del lavoro comune non si fa più esatto ciò è
segno che a lui manca la qualità essenziale del suo
compito, quella su cui si fonda tutto il successo e che
sola fa di lui, nella sua sfera d'azione, veramente
un re 115).

L'ideale educativo dell'uomo xocì..ox&yoc&6i; come pro·


prietario di campagna raffi.gunto nell'Economico trova
il suo completamento nello .1eritto s:mofonteo sulla
caccia, il Cinegetico 116). Che non è affatto un puro e
semplice studio specialistico su un c<>mpo di attività
umana, per il quale occorra, in una civiltà di sempre
maggiore tecnicismo, una sistemazione e raccolta delle
regole che Io reggono. Senza dubbio, per certi rispetti
nel lavoretto senofonteo nutrito tr tto di grandissima
competenza, è dato cogliere chiaramente anche questa
tendenza specialistica e sistematrice; ma lo scopo es·

m) Oec. XI 14.
1~) Oec. XII 20.
114) Oec. XV 10; XVI 1.
m) Oec. XXI 10.
m) Questo scritto oggi per lo più è ritenuto non autentico.
n che non diminuirebbe, in realtà, il suo valore per la storia della
paideia, che non consiste nel nome dell'autore. Ma noi perde·
remmo, se ciò fosse, la rappresentazione di uno dei due elementi es-
senziali dell'ideale educativo di Senofonte. Si vedano i motivi che mi
sembrano contrari a questa negazione di autenticità a p. 312 n. 135.
1644 [m308] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

senziale dell'autore è più alto. Egli, cacciatore appas-


sionato, si è reso consapevole del valore di questa at-
tività rispetto alla sua personalità e visione della vita
nel suo complesso 117). Anche nella Costituzione degli
Spartani si ritrova questa alta considerazio:rie della
caccia 118), e nella Ciropedia la· caccia costituisce parte
dell'educazione persiana 119). Similmente anche Platone
nelle Leggi dette posto alla caccia nella legislazione
educativa, e ciò in un paragrafo della parte finale,
dopo le leggi sull'insegnamento matematico astrono-
mico, molto lontano dalle. disposizioni su ginnastica e
formazione militare, in collegamento piuttosto tenue
con ciò che precede, il che forse permette di concludere
che si tratti di una parte inserita dall'autore posterior-
mente 120). E forse fu proprio la pubblicazione dello
scritto senofonteo che richiamò l'attenzione di Pla-
tone su questa lacuna del suo edificio educativo. Co-
munque sia di ciò, la pubblicazione del Cinegetico cade
sicuramente nel periodo in cui Platone lavorava alle
Leggi 121).
E qui ci siano consentite due parole di digressione
appunto sulle Leggi platoniche. Platone, nella parte
finale del suo programma di legislazione, si trova di-
nanzi al problema di riconoscere, o no, anche. la cac-
cia come una forma legittima di paideia. La discussione
di questo problema sembra presupporre già esistente
una trattazione letteraria del tema della caccia, nel
111) La parte centrale del Cinegetico (II-XI) è puramente
tecnica. L'introduzione (I) e la chiusa (XII-XIII) son dedicate
al problema del valore della caccia per la paideia e rareté del-
l'uomo, cioè per la formazione della personalità..
11s) Lac. Resp. IV 7; VI 3-4.
119) Cyrop. I 2, 9-11. Conforme a ciò in tutta l'opera è rile-

vata l'imp1>rtanza della caccia nella vita di Ciro il Vecchio e dei


Persiani. Cfr. anche, nel ritratto di Ciro il Giovane. An. I 9, 6,
la notizia sulla passione per la caccia.
120) PI. Legg. 823 b fino alla fine del settimo libro.
121 ) Sulla data del Cinegetico v. supra, p. 275.
CAP. VII: SENOFONTE [m309J l645

senso del Cinegetico senofonteo, di fronte alla quale


Platone è fortemente incline a consentire in tutto con
la tesi, affermando lalto valore di questa attività per
la formazione del carattere 122). Ma per giungere a que-
sto egli vede la necessità di depurare il concetto di
caccia (.&~pcx), comprendente le più diverse attività,
di tutto ciò che per lui non merita questo nome 123).
Ché non tutto quello ·che ora si chiama « caccia» può
essere riconosciuto da Platone come paideia. Egli però
non prevede leggi speciali su questo soggetto, ma,
come spesso nelle Leggi, si limita a intrecciare alle
norme propriamente legislative espressioni di lode e di
biasimo per questo o quel tipo di caccia 124). Egli con-
danna rigorosamente ogni forma di pesca, con rete o
ami, e così la caccia ad animali alati, come quelle che
non contribuiscono a rafforzare il carattere 125). Non
rimane perciò che la caccia a quadrupedi, e anche que-
sta da farsi solo apertamente e di giorno, escludendosi
la caccia notturna o con reti o trappole 126). Sola forma
di caccia ammessa, quella a cavallo e coi cani, che ri-
chiede l'impegno fisico del cacciatore. Nel vietare l'uso
di reti e trappole il codice di caccia platonico va anche
al di là di quello di Senofonte, ma anche quest'ultimo
non prende in considerazione né la pesca né la caccia
agli uccelli. Per l'addestramento e l'uso dei cani Seno-
fonte dà istruzioni particolareggiate. Nel fatto che egli
non dia il precetto che la caccia debba essere a cavallo
si è voluto trovare un argomento contro lautenticità
del Cinegetico, in quanto, si è detto, questo è il modo

122) V. le parole finali del settimo libro delle Leggi e 823 d.


123 ) Legg. 823 h-c.
124) V., su questa forma di ammaestramento in generale,

Legg. 823 a, per l'applicazione di essa alla caccia, 823 c-d, dove
si parla anche di elogi della caccia in forma poetica.
125) Legg. 823 d-e.
126) Legg. 824 a.
1646 [m310l LIBRO IV - IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

in cui tutti gli Attici di alta condizione la praticavano.


E questa omissione è sembrata tanto più singolare
in un amator di cavalli come Senofonte 127). Ma, a non
contare che quest'operetta non vuole a:ft'atto dare sol-
tanto una descrizione del modo in cui Senofonte stesso
cacciava, ma si propone di eccitare in larghe cerphie la
passione per questo esercizio, è sempre troppo rischioso
per noi stabilire norme precise su ciò che al signore
di Scillunte pareva o non pareva abbastanza da gen-
tiluomo, o di pretendere ~ priori che egli debba ac-
cordarsi in tutto con le teorie di Platone. Chi voleva
e ne aveva i mezzi poteva servirsi dei cavalli, e il mo(io
di praticare l'ippica doveva insegnarglielo non larte
della caccia, ma quella dell'equitazione, sulla quale.
Senofonte aveva composto uno scritto speciale: l' ad-
destramento dei cani invece è materia imprescindi-
bile per un libro sulla caccia, e nel Cinegetico Senofonte
non altro fa che riferire l'esperienza sua propria in
questo campo con innumerevoli e piacevoli particolari,
che mostrano in lui un grande conoscitore e un grande
amico dei cani.

Anche Senofonte aspira a portare, con questo scritto,


un contributo alle discussioni sulla paideia propria
del suo tempo. Nell'introduzione designa la caccia come
invenzione dei divini fratelli Apollo e Artemide, che la
trasmisero al centauro Chirone in ricompensa della
sua giustizia 128). Nella tradizione più antica Chirone
appare come l'educatore di eroi per eccellenza, di Achille
in particolare 129) ; e Pindaro descrive come il più grande

11•) Cfr. L. RADERMACBER, « Rheinisches Museum» LI (1896)


p. 596 ss. e LII ( 1897) p. 13 ss., il quale cerca di dimostrare la
non au.ten ticità del Cinegetico.
U•) Cyn. I I.
191) Sulla figurazione mitica di Chirone nell'antica tradi-
zione della paideia cfr. « Paideia » I 66 ss.
CAP.VII:SENOFONTE [m311] 1647

degli eroi greci avesse imparato da lui la caccia 130).


Senofonte, perciò, rifacendosi, secondo la maniera della
retorica sofistica, a questo modello mitico, riesce a
rappresentare, vivamente impersonato nell'antico cen-
tauro, lo stretto legame della caccia con leducazione
del kalokagathos, e a far sentire quell'esercizio come
qualcosa di antichissimo e primordiale. Gli eroi dei
tempi antichi, passati attraverso il magistero di Chi-
rone, dei quali egli fa una lunga lista 131), dovettero tutti
la loro educazione per l' areté suprema . all'esercizio
della « caccia e di tutta l'altra paideia », come egli di-
mostra, particolarmente per ciascun eroe 132). È questo
I' argomento migliore per farci affermare che questo
catalogo non deriva già formato da una tradizione
mitica o poetica, ma è messo insieme da Senofonte
stesso sulla base delle sue cognizioni di storia eroica,
per dar forza alla sua tesi secondo cui la caccia aveva
fatto parte, fin dai primordi dell'età eroica greca, del
fondo essenziale della vera paideia. Egli sente cioè,
con questa sua pretesa di fare accettare la caccia come
mezzo di formazione della personalità, di andare contro
corrente rispetto alle tendenze del suo tempo, ed è
proprio questo che rende anche interessante la sua
piacevole ope:retta. Qui non possiamo addentrarci nei
particolari tecnici di essa: la sua attrattiva principale
è che ci si sente espressa la copiosa esperienza del cac-
ciatore. L'elemento, in questa, d'interesse centrale è la
caccia alla lepre, che occupa la parte principale del-
!' opuscolo 133). Accanto a questa sono trattate ampia-
mente, come cacce propriamente elleniche, quella della
selvaggina grossa e del cinghiale, mentre le cacce alle
1 80) Su Chirone come educatore di eroi in Pindaro, cfr. « Pai-
deia » I 67 e 393 s.
181) Cyn. I 2.
181) Cyn. I 5 es.
188) Cyn. II-VIII.
1648 [III 312] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

grandi fiere, leone, leopardo, pantera, orso erano, per


testimonianza di Senofonte, praticate al suo tempo
solo in Macedonia, Asia Minore e Asia centrale 134).
La chiusa del Cinegetico può essere strettamente
connessa con l'introduzione, poiché in essa viene ancora
una volta espressamente rilevato il legame di questo
scritto col problema della paideia 135). Qui Senofonte
si volge contro i pregiudizi della Sofistica, che ha per
ideale l'educazione dell'uomo per mezzo della sola
parola 13 6). Il criterio del Nostro è invece, qui come
ovunque, soprattutto il criterio etico; a lui importa
l'educazione del carattere, il cui fondamento . è costi-

134) Cyn. IX grande selvaggina, X cinghiale, XI fiere da


preda. Sulla caccia in Asia Senofonte aveva precisa informazione
per esperienza. .
1 35 ) Cyn. XII-XIII. EDUARD NORDEN, Die antike Kunstprosa,
I, p. 431, ha trattato il problema stilistico del proemio del Cine-
getico in un excursus speciale. Il Norden è evidentemente sotto
l'impressione della ricerca del Radermacher (cfr. supra, p. 310
n. 127), che aveva giustamente fatto osservare come il proemio
avesse struttura stilistica diversa dal resto dell'opera. Egli aveva
caratterizzato lo stile del proemio come « asiatico» e ritenuto
il Cinegerico, a causa dei segni di questa moda stilistica, com-
posto non prima del III sec. a. C. L'opuscolo è menzionato nel
catalogo delle opere senofontee di Diogene Laerzio che risale ai
lavori pinacografici dei filologi alessandrini del III sec. a. C. A ra-
gione il Norden rileva la scarsa sicurezza dei motivi di ordine pu-
ramente stilistico e se anche non osa credere alla paternità se-
nofontea, pure riconosce giustamente che la discussione intorno
alla vera paideia, alla quale l'opuscolo vuol contribuire, si colloca
naturalmente, meglio che in alcun altro secolo, in quello di Se-
nofonte. Quanto al proemio, però, egli crede possibile attribuirne
lo stile soltanto alla cosiddetta seconda sofistica di età romana
imperiale, e pertanto Io ritiene aggiunta posteriore. La quale
tesi cade già per il 11010 fatto, .sfuggito al N orden, che il proemio
è espressamente citato al principio della chiusa, Cyn. XII 18.
Lo scritto è un'unità indivisibile; proemio e chiusa s.ervono en-
trambi al fine d'inserire la parte ·puramente tecnica nel grande
dibattito sulla paideia del IV sec., e a chiarire il valore della cac-
cia per l'educazione. In questioni di stile non si vorrebbe dar
torto a un conoscitore come il Norden; ma in realtà il proemio
non è sostanzialmente diverso da vari altri luoghi delle opere
senofontee, di speciale impegno stilistico-retorico. Di questo pro-
blema penso di trattare più particolarmente in altro luogo.
11•) Cyn. XIII 3 e 6.
CAP. VII: SENOFONTE [III313] 1649

tuito .dalla salute fisica. La caccia fa l'uomo robusto,


lo rende acuto di vista e di udito, lo preserva dall'in-
vecchiamento precoce 137). Essa è la migliore scuola per
la guerra perché abitua l'uomo a camminare per cattive
strade sotto il carico delle armi, a sopportare le intem-
perie e a dormire all'addiaccio 138). Gli insegna a sdegnare
i piaceri vili e, come ogni « educazione nella verità»,
lo rende temperante e giusto 139). Quel che intende
con ciò l'autore non lo dice, ma evidentemente quello
che egli· pregia di più è il costringersi a una disciplina,
ed è questo addestramento, imposto dalla stessa realtà,
quel che egli chiama « educazione nella verità». Ciò
dà all'ideale socratico una piega realistica e pratica.
Tutto l'opuscolo è percorso da un capo all'altro dal-
l'esaltazione del ponos, della fatica e dello sforzo, senza
di che nessun uomo si educa veramente 140). In questo
elemento gli storici della filosofia hanno visto l'influenza
di Antistene, che interpretò in tal senso il messaggio
socratico. Ma anche per natura sua Senofonte fu amico
di fatica e travaglio, uso a metter tutte le sue forze
in ogni compito che di volta in volta gli fosse richiesto.
Se c'è un punto in cui egli parli per convinzione è que-
sto. Il ponos, la fatica, è D:ella caccia l'elemento educa-
tivo; su di esso si era fondata lalta areté di quegli eroi
antichi, gli alunni di Chirone 141). Gli scritti coi quali
i Sofisti pretendono d'introdurre i giovani «alla virtù»
sono privi di contenuto vero (yv&µ.oct) e li abituano solo

187) Cyn. XII I.


1as) Cyn. XII 2-6; cfr. Anth. Pal. XIV 17.
189 ) Cyn. XII 7-8: -rò &v tjj &ì..~e~ 1ta:~8eoea.&<u ~ con-
tnpposto alla paideia di sole parole ora dominante, come è
descritui nel cap. XIII, cioè all'educazione sofistica. Là dove
si presenta all'uomo la realtà della vita. essa lo forma con la fa-
ti ca e il travaglio (7t6voç).
140 ) Cyn. XII 15, 16, 17, 18; XIII 10, 14, 22 e passim. II6vot;
e 7'a:l8euatç sono usati come sinonimi in XII 18.
H1) Cyn. XIl 18; cfr. I I ss.
1650 [m 314] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

a una vana dilettazione 142). Non è questo, per Seno-


fonte, il seme della schietta kalokagathia. Egli ammette,
sì, di parlar da profano; ma l'esperienza gli ha inse-
gnato che ciò che è bene s'impara sempre e soltanto
dalla natura, o tutt'al più da uomini che sanno, o sanno
fare., qualcosa di realmente buono e utile 143). L'educa-
zione moderna cerea pregio e grandezza nell'artificio
delle parole, di cui Senofonte dice di non intendersi
affatto 144). Non parole (òv6µcx't"oc), ma contenuto ('('Jw·
µcxL) e pensieri (vo-fiµoc't"cx) sono per lui il vero nutri-
mento della virtù 145). Con ciò egli non vuol rifiutare
ogni tendenza al vero sapere (qnÀoaocploc), ma solo la
cultura dei sofisti, ed egli intende con questa parola
tutti quelli che « commerciano solo in parole» 146).
Il bravo cacciatore è educato ottimamente anche per
la vita della comunità 14 ;). Egoismo e sete di guadagno
non si accordano con lo spirito della caccia. Sano e pio
sarà il compagno di caccia che Senofonte si augura, certo
che l'opera del cacciatore ~ del tutto grata agli dei 148).
10) Cyn. XIII 1-3.
143 ) Cyn. XIII 4. È interessante vedere come anche nel campo
della paideia esistano ormai professionisti e profani (t8too-.a:t) e come,
ciò non ostante, la paideia sia il campo in cui più che in ogni altro il
profano fa valere la sua critica. Senofonte rileva la sua qualità di pro-
fano anche altrove, nella chiusa dell'opuscolo Sull'equitazione XII 14.
1" ) La semplicità che l'autore ostenta scrivendo foCilc; oùv -.o!c;
µ!v òv6µ.ix1nv où ataoqnaµévCil<; ÀtyCil" où8è yd:p !;71-.ci) -.oiho non è da
prendere alla lettera. Gli artifici stilistici che usa nel proemio e nella
chiusa per apparire « semplice» non sono privi di raflinate.zza.
H 6 ) Cyn. XIII 5. Ciò fa pensare a Teognide, v. 60, che rim-
provera agli incolti del suo tempo di non avere yvwµ.a:t (cfr.
« Paideia » I 362).
H&) Cyn. XIII 6: « E molti altri ancora biasimano i Sofisti
attuali ( -.oùc; viiv aoqna-.cl.c;), non già quelli che tendono a un
vero sapere (-.oùc; iptì..oa6qiouc;), dicendo che là sapienza loro
consiste in parole e non in pensieri». La contrapposizione, che
ritorna in XIII 9, è la stessa che si trova in Platone e in Iso-
crate. Cfr. la critica dei Sofisti in XIII 1, 8, 9. Senofonte rileva na·
turalmente di essere un prof~no, ma sta dalla parte dei« filosofi».
m) Cyn. XII 9, 10, 15; XIII 11 s., 17.
1ca) XIII 15-18. Cfr. nell' Ippachico una chiusa similmente
devota.
CAPITOLO OTTAVO

IL FEDRO PLATONICO
FILOSOFIA E RETORICA

Non c'è opera di Platone che più del Fedro sia


stata nell'ultimo secolo variamente caratterizzata e
giudicata. Considerato da Schleiermacher come il pro-
gramma dell'Accademia e lavoro piuttosto antico, que-
sto dialogo è parso per lungo tempo il naturale punto
di partenza per l'intendimento dell'opera platonica,
delle sue mete ultime come dei suoi metodi educativi.
Esso offriva la più rapida sintesi delle idee di Platone
sul rapporto di scrittura, parola e pensiero, ed era perciò
la principale porta d'ingresso p~r chiunque accedesse
alla filosofia platonica. L'impeto ditirambico da cui
ne] Fedro Socrate si lascia rapire, come nota egli stesso
con ironia, nei discorsi su Eros 1 ), appariva segno sicuro
di composizione giovanile. Già la critica antica aveva
giudicato cattivo, in parte, lo stile di questi discorsi.
o« giovanile», appunto; con che, probabilmente, non
s'intese in principio di fissare una data cronologica,
ma di pronunziare un giudizio di valore artistico, la
condanna, cioè, di un intemperante eccesso 2). Più tardi

1) Phaedr. 238 d; 241 e.


•) Atteggiamento evidente in Diogene Laerzio, IIl 38, il
quale cita, come fonte di questa riprovazione dello stile del dia-
logo, il peripatetico Dicearco. Questi aveva definito qiopnx6ç il
modo di scrivere platonico nel Fedro. Ancora la tarda fonte neo-
platonica della biografia di Platone scritta da Olimpiodoro, c. 3,
1652 [m316) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

però ciò fu preso per un segno della reale giovinezza


dell'autore, lontana ancora dall'armonioso equilibrio,
mentre si sarebbe dovuto osservare che una tale qua-
lità di stile non appartiene a tutto il dialogo, ma solo
ai discorsi su Eros, e che Platone la designa espressa-
mente come sintomo dello stato d'animo eccezionale
in cui Socrate si trova. Si credette inoltre che fosse
lecito aspettarsi da Platone, proprio all'inizio della
sua attività di scrittore, una chiarificazione del suo
atteggiamento sull'opera letteraria in generale e sul
valore, rispetto alla filosofia, della parola scritta; e ciò
tanto più quanto più difficile appariva giustamente il
problema della forma dell'opera platonica, dell'impor-
tanza di questa forma per il suo contenuto filosofico:
A questo nuovo intendimento della forma, fondamen-
tale per ogni successiva ricerca, Schleiermacher era
giunto proprio valendosi del Fedro 3 ); non meraviglia
che egli credesse di poter considerare questo dialogo
come introduttivo, anche nel pensiero e nel proposito
di Platone; Quando poi l'indagine platonica del XIX sec.
cominciò ad accogliere l'idea storica dello sviluppo, e
mise mano a precise ricerche cronologiche su ogni dia-

deduceva la giovane età dell'autore dal carattere ditirambico


della lingua usata da Socrate nei discorsi su Eros nel Fedro. Sic-
ché par chiaro che la qualifica di «giovanile» (µ.e:~poonw8e:ç).
riferita stranamente. da Diogene alla problematica stessa del
dialogo, in origine era stata intesa nel senso consueto di predi-
cato sfavorevole in uso nella critica retorica dello stile, non già
nel senso del contenuto. Averla· intesa in questo senso, come
« giovanilità » del problema stesso, a me sembra un'improvvi-
sazione ben degna della grossolanità di Diogene Laerzio. Eviden-
temente egli prese il tema del discorso di Lisia al principio del
Fedro, che certo è frivolo e goffo quanto basta, per il vero e pro-
prio « problema» del dialogo.
3 ) Si vedano le mie considerazioni sulla posizione di Schleier-

macher nella ricerca platonica del sec. XIX in: Platos · SteUung
im Aufbau der grieckischen Bildung (Berlino 1928) p. 21 (ristampa
in« Die Antike» VoL IV, p. 86).
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [m 317] 1653

logo, si vennero a scoprire nel Fedro segni di una più


tarda composizione. Nello stesso tempo fu abbando-
nata anche l'idea fondamentale di Schleiermacher,
l'idea di un piano pedagogico attuato in tutta l'opera
platonica ed enunciato programmaticamente nel Fe-
dro 4). Il nucleo essenziale del dialogo, ora, fu cercato
o nei discorsi su Eros della prima parte, o nella psico-
logia e teoria delle Idee del grande discorso di Socrate
e nelle considerazioni, cosi feconde di sviluppo, della
seconda parte, sul metodo dialettico. Si vide alla fine
che la ricchezza della lingua e la complicata composi-
zione in cui questa volta si atteggia il pensiero plato-
nico, riportano il dialogo al tempo della maturità su-
prema del suo autore, e vi si scoprirono sempre di più
rapporti coi dialoghl degli ultimi decenni. Dopo che
per un certo tempo il Fedro si era posto nelle vicinanze
del Simposio, cioè nel periodo centrale (dopo la fon-
dazione della scuola), si sentì ormai la necessità di
scendere per esso fino alla tarda attività del filosofo 5 ).
L'interesse per la descrizione teoretica del metodo dia-
lettico apparve ora come segno dell'appartenenza del
Fedro al gruppo dei cosi detti dialoghi dialettici, che

•) Questo passo nella ricerca fu compiuto soprattutto da


KARL FRIEDRICH HERlllANN, Geschichte und System der plaio-
nischen Philosophie (Heidelherg 1839). Su ciò cfr. p. 23 del mio
saggio .citato alla n. 3, dove si disegna la mutazione avvenuta
nel sec. XIX nell'immagine di Platone ( = « Die Antike »
Voi. IV, p. 88).
6) Hermann poneva il Fedro, insieme con opere come il Me-
nesseno, il Simposio, il Fedone, in quello che egli chiamava il terzo
periodo dell'attività letteraria platonica, prima della Repubblica,
del Timeo e delle Leggi. Ancora l'Usener e il Wilamowitz difesero
contro Hermann la datazione dello Schleiermacher; il Wilamo-
witz però cambiò poi parere. La datazione è stata poi portata
ancora più giù rispetto a quella di Hermann da HANS VON ARNIM,
che ha dimostrato come il Fedro sia una delle opere tarde di Pla-
tone, nel libro Pltitos Jugenddialoge und die Entstehungszeit des
Phaidros (Lipsia 1914).
1654 [III 318] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

frattanto si erano dovuti assegnare, per argomenti in-


confutabili, agli anni più tardi 6).
Uno dei problemi più difficili, e più trattati, del
Fedro è il problema della sua composizione e struttura.
I discorsi su Eros della prima parte, sembrano, nel
loro impeto ditirambico, mal sopportare di congiun-
gersi in unità con lastratta ricerca teoretica della se-
conda parte, sulla natura della vera eloquenza. Gran
parte della difficoltà, certo, risulta per il lettore dal·
l'ovvio, ma falso, paragone col Simposio. Accanto a
questo dialogo, tutto dedicato al problema di Eros,
il Fedro si pone, troppo facilmente, come il secondo
grande dialogo platonico su Eros. È questa una luce
unilaterale che investe tutto l'edificio, per cui la se-·
conda parte del tutto si dilegua o fa l'effetto di una
semplice appçndice. E il salto tra le due parti ap-
par tanto più grande quantQ più si mette in rilievo,
nella seconda, l'elogio del metodo platonico nella dia-
1ettica. Non si esce dalla difficoltà se non tentando
di capire I.a situazione spirituale da cui l'opera è sorta
e in cui Platone espressamente la inserisce.
L'unità del Fedro consiste nel suo riferirsi al problema
della retorica. Così la prima come la seconda parte sono
ad esso in ugual misura dedicate. E dal disconosci-
mento di questo vincolo che le unisce sono nate in
grandissima parte le difficoltà in cui si sono impigliati
gl'interpreti. La prima parte, la cosi detta erotica,
comincia con la lettura e la critica di un discorso di
Lisia, che vien ritratto al colmo del suo prestigio di

") Quest'ultimo punto fu aggiunto a concludere la dimostra-


zione dell'Antlm da J. STENZEL, Studien z;ur Entwicklung der pla-
umischen Dialektik (Breslau 1917), p. 105 ss. = Plato's Method
of Dialectic (Oxford 1940), p. 149 ss. Con ciò trova conferma la
testimonianza di Cicerone, derivante da erudizione ellènistica,
in Orator c. 13, che considera il Fedro opera di Platone vecchio.
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [m319J l655

capo della più seguita scuola oratoria ateniese 7). A que-


sto discorso Platone ne affianca a contrasto altri due,
di Socrate, sullo stesso tema, il pregio di Eros, per
mostrare sia come si possa trattare meglio lo stesso
soggetto partendo dagli stessi falsi presupposti di Lisia,
sia come veramente si dovrebbe discorrere di Eros,
una volta conosciutane la vera natura. Corrisponden-
temente la seconda parte dapprima chiarisce, in modo più
generale, i difetti della retorica e .del sistema retorico
dominante al tempo di Socrate, e mette poi in giusta
luce i pregi della dialettica socratica, come mezzo
di una vera retorica. Alla domanda che si pone, se
una tale retorica si potrà mai attuare, non si dà ri-
sposta: sennonché Platone fa esprimere a Socrate grandi
speranze sul giovane Isocrate, e con questo accenno
elogiativo a lui termina il dialogo 8).

Questo elogio d'Isocrate è in voluto contrasto con


la critica ostile all'indirizzo di Lisia, con la quale si
apre tanto la prima che la seconda parte del Fedro 9).
Ciò mostra che, al tempo in cui componeva questo
dialogo, Platone era stato di nuovo preso da vivace
interesse per quel problema del valore. dell'educazione
retorica che già lo aveva occupato nel Gorgia, e che
questo rinnovato interesse dové essere in qualche modo
in rapporto con la grande svolta segnata nell' evolu-
zione della retorica dal nome d'Isocrate, comunque si

7) La base comune, che rende possibile a Platone istituire


un confronto tra la sua filosofia e Parte retorica di Lisia., consiste
nella pretesa affermata da tutte e due le parti, di rappresentare
la vera paideia. Così anche Isocrate, nello scritto programmatico
Contro i Sofisti, aveva distinto, !)Ome le tre principali forme della
paideia attuale, 1° i Socratici, 2• i maestri dell'eloquenza poli-
tica del tipo di Alcidamante, 3° i logografi o compositori di di-
scorsi forensi del calibro di un Lisia (cfr. lsocr. Soph. 1).
8 ) Phaedr. 279 a.
•) Phaedr. 228 a; 258 d.
1656 [III 320] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

pensi di dover limitare i' elogio che a lui Platone tri-


buta pubblicamente. Se ha ragione la ricerca moderna
nella datazione tarda per la concezione del Fedro, que-
sta relazione con la scuola isocratea giunge come im-
portante conferma. È difficile, certo, dire a priori a
qu~ tempo, nella carriera d'Isocrate, possa apparte-
nere questo episodio; ma è pure evidente che la profe-
zia socratica sulla futura grandezza di quest'uomo non
avrebbe avuto senso alcuno negli anni giovanili di
Platone, quando una scuola d'Isocrate ancora non
esisteva affatto, ed era ancora impossibile distinguere
lui dagli altri logografi. Solo dopo che si era fatto
chiaro, per saggi incontestabili, di che spirito egli era
imbevuto, Platone poteva pensare a largire il lauro
di un tal presagio socratico al capo della più forte
scuola concorrente di Atene 10). Anche il tempo im-
mediatamente successivo alla fondazione della scuola
d'Isocrate, cioè il decennio 89-80 - o gli anni intorno
al 90 - non si prestava a un tale atteggiamento da
parte di Platone; giacché Isocrate nel discorso program-
matico Contro i Sofisti e nell'Elena aveva aspramente
rifiutato la paideia platonica. Però, negli alti e bassi
delle relazioni spirituali tra le scuole isocratea e plato-
nica deve avere avuto luogo anche, più tardi, un
momento di avvicinamento, e, verosim.ihnente, prima
che Aristotele organizzasse nell'Accademia l'insegna-
mento retorico, facendo con ciò a Isocrate una con-

10) Giustamente Cicerone dice, Or. 13, 42, derivando questo


giudizio da fonte erudita ellenistica: haec de adulescente Socrates
auguratur, at ea de seniore scribit Plato et scribit aequalis. Chi esa-
minava attentamente le relazioni letterarie tra Platone e Iso-
crate, come è da credere che abbiano fatto i filologi alessandrini,
doveva necessariamente arrivare a questa conclusione. Non si
sarebbe mai dovuto ritenere la cosiddetta testimonianza di Dio-
gene Laerzio (di cni supra, alla n. 2) per qualcosa di più che un'in-
terpretazione senza valore.
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [II!321] 1657

correnza che degenerò in seguito in aperta polemica


letteraria 11).

Il Fedro si può intendere soltanto come espressione


di una fase nuova nell'atteggiamento di Platone di
fronte alla retorica. Nel Gorgia il suo rifiuto è ancora
assoluto; per lui essa è la sintesi di una cultura che non
si fonda sulla verità, ma sulla mera apparenza. Certo,
anche qui, a star bene attenti, si può cogliere qualche
accenno a ciò che si potrebbe chiamare la consapevo-
lezza retorica di Platone 12). L'uomo che nel Simposio
e nel Menesseno aveva dato splendida prova della
propria capacità di riprodurre e felicemente emulare
tutte le forme dell'arte oratoria del suo tempo non
poteva sentirsi del tutto privo d'interesse per la reto-
rica 13). Egli, certo, aveva posto fin da principio quel
dono della parola, che possedeva per natura, al ser-
vizio della filosofia. Ma ciò non significava per lui
rinunzia ad atteggiare il pensiero in valori verbali di
avvincente efficacia; significava proprio il contrario,
l'impulso più forte al possesso di <J:Uei valori. Quanto
più Isocrate tendeva a rilevare l'artificiosa sottigliezza
della dialettica e la sua inutilità come mezzo educa-
tivo, e a metterle di fronte il pratico valore di quella
eloquenza che egli rappresentava 14), tanto più Platone
doveva sentirsi impegnato a chiarire pubblicamente
quale importanza avesse, per questo pratico fine, ap-
punto la formazione dialettica. Con ragione egli po-
teva addurre l'argomento, che acutezza e chiarezza di

11 ) V. supra, p. 250 ss., e il mio Aristoteles, p. 57 ss. (trad.


it. p. 69 ss.).
12 ) Se Socrate è il vero uomo politico (Gorg. 521 d) egli deve
essere anche il vero oratore: le due cose, nell'età di Platone, s'iden·
tifìcano.
13) Cfr. « Paideia » II 308-309.
14) Cfr. supra, pp. 96, 253 ss.
1658 [III322] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

distinzione concettuale e psicologica sono condizione


preliminare di ogni retorica., E gli era facile dimostrare
come senza formazione di queste capacità intellet-
tuali non esista vera forza di persuasione nell'oratore
e nello scrittore, come i mezzi puramente tecnici, offerti
dai manuali scolastici di retorica allora come oggi,
non siano valido surrogato di quell'addestramento in-
tellettuale. Platone scrisse il Fedro per porre in luce
giusta questo lato della sua paideia, e per affermarne
i diritti su questa linea. Si può pensare con assai pro-
babilità che questo suo manifesto sia stato movente
occasionale per il tentativo del giovane Aristotele, che,
scolaro di Platone, insegnava allora nell'Accademia, di_
introdurre effettivamente la retorica come 'nuova disci-
plina nell'insegnamento platonico. Con questo tenta·
tivo egli volle certamente fornire l'esempio di una
retorica nuova fondata sulle basi scientifiche che il
Fedro aveva indicato 15).

Il fatto che Platone al principio del Fedro vada così


a fondo nella discussione del problema di Eros non
deve portarci fuori strada sì da nasconderci il vero
scopo del dialogo. Essenziale e decisivo è che il punto
di partenza del dialogo sia costituito dalla lettura, che
si finge, di un discorso-modello di Lisia, dato da costui
ai suoi scolari per essère imparato a memoria 16). Que-
sta singolare finzione ha senso soltanto se la critica
della trattazione retorica del tema è di per se stessa,
lo scopo di Platone. Che come soggetto del discorso

16 ) Ciò per cui la retorica di Aristotele, quale ci è stata tra-

mandata, si distingue da quella dei retori di scuola è appunto


il modo filosofico di concepire il compito. Su questo punto cfr.
F. SoLMSEN, Die Entwicklung der aristotelischen Rhetorik und
Lo{l.ik (« Neue Philol. Untersuchnngen hrsg. von W. 'Jaeger»
Voi. IV, p. 213 s.).
••) Phnrdr. 228 h-~.
CAP. vm: IL FEDRO PLATONICO [m323J l659

sia scelto Eros si spiega bene con la frequenza del


tema in esercitazioni di retorica scolastica di questo
tipo. Un'intera raccolta di tali tesi retoriche su Eros
si trova citata fra i titoli delle opere perdute di Ari-
stotele 1 7). Ma l'uso di esse sarà stato corrente nelle
scuole retoriche molto prima; una concessione, certo,
agl'interessi delle scolaresche. Se partiamo da questa
circostanza, anche gli scritti platonici su Eros si met·
tono meglio a fuoco 18). Era quasi impossibile che una
qualsiasi scuola trascurasse del tutto un problema così
avvincente per la giovinezza, anche se Platone doveva
trattarlo. con una profondità incomparabile col livello
che quelle esercitazioni retoriche nello stile di Lisia
possono aver raggiunto. La discussione di questo pro·
blema dava modo a Platone di trattare, oltre che della
forma, anche del problema, essenziale per lui filosofo,
della verità del contenuto. Se la scuola dei retori aveva
voluto allettare il pubblico con questo tema di gran
richiamo, senza però dominarlo intimamente, ecco che
ora Platone lo riprendeva come per giuoco e impostava,
creandolo dal profondo della sua speculazione filosofi.ca
su Eros, un discorso rivale, che svelava tutta la tri-
vialità e l'ambiguità del posticcio prodotto della re-
torica.

Platone dimostra come il discorso di Lisia sia pieno


di ripetizioni e soprattutto manchi di ogni acutezza
concettuale nel cogliere il tema 19).
Già con questo si manifesta in un esempio con·
creto l'importanza pratica, per la formazione retorica,

17 ) Lista di Diogene Laerzio: n. 71 .&foeti;; !pro-.r.x0tt, n. 72


&!Geti; qaÀP!.0tl.
18) Anche nel Simposio, specialmente al principio dell'agone
oratorio e nel discorso di Fedro, il problema di Eros appare come
un tema retorico convenzionale. Cfr. « Paideia » II 309.
11) .Phnrdr. 234 e ""·; 237 c.
1660 [m324] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

delia dialettica platonica, che è poi il tema centrale


della discussione nella seconda parte del dialogo. In
pari tempo però, proprio nel tentativo che Socrate fa
col suo discorso, di dare miglior fondamento logico
alla tesi di Lisia, "iene in luce lerrore reale da cui que·
sta è viziata nel fondo. Qui non è il luogo di addentrarci
nel merito di questa tesi; quel che ora c'importa di più
è di tener bene dinanzi agli occhi il tema e la linea
essenziale del Fedro, consistenti nel problema della
retorica. Basti dire che era tra i giovani Ateniesi sog·
getto frequente di discussione questo; se, cioè, e in quali
circostanze fosse ammissibile acconsentire all'amatore,
intendendosi ciò, prima di tutto, del consenso alle sue
brame. ~ un soggetto che ci è ben noto dal discorso di
Pausania nel Simposio 20). Su quelli che ritengono lecito
ciò Lisia rincara la dose, e sostiene I'assurdo paradosso,
che per l'amato è ancora meglio acconsentire a un amico
che non sia in balia di Eros, ma conservi sangue freddo
e padronanza di sé 21 ). Un tale amico non sarà sbat·
tuto qua e là-dalle tempeste di passione che travagliano
il vero amatore, e non farà danno, come questi farebbe,
al giovane amico, con l'isolarlo gelosamente, a forza,
dagli altri uomini cercando d'incatenarlo tutto a sé.
Nel suo primo discorso, che pronunzia col capo velato
come consapevole della bestemmia che la tesi contiene,
Socrate si mette a cercare per essa argomenti di ·rin·
forzo, e ciò con una sottile partizione logica dei. vari
generi di desiderio e definizione di ciascuno. Egli fin
qui intende in tutto Eros nel senso di Lisia, cioè come
un genere particolare nel più ampio genere dei piaceri
sensuali, e su questo presupposto costruisce una dimo·
strazione 22). Secondo questa definizione l'amante è un

so) Cfr. « Paideia » II 310-312.


91) Phaedr. 231 es.
") Phaedr. 237 d-238 c.
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [!ll325] 1661

uomo che preferisce il piacere dei sensi al Bene. È egoi-


sta, geloso, invidioso, dispotico. Non gl'importa nulla
del perfezionamento fisico o spirituale dell'amico. Come
subordina il benessere fisico di lui al soddisfacimento
dei propri desideri, cosi, dal punto di vista spirituale
lo tiene il più possibile lontano dalla « filosofia» 23), vale
a dire, non ha sincero interesse per uno sviluppo indi-
pendente dell'anima di lui. Il suo comportarsi è in
tutto l'opposto dell'Eros educatore, quale è messo in
luce nel Simposio 24 ).

Basta una tale opposizione a toglierci ogni dub-


bio, che Socrate in questo discorso non rappresenta sul
serio le proprie idee sulla natura di Eros: o meglio,
egli parla sul serio, ma parla di un Eros che non merita
questo nome. Non c'è nulla che urti di più contro l'alta
concezione della natura di Eros proclamata nel discorso
di Diotima, del concetto qui esposto e sostenuto con
tutti i mezzi della dialettica. In realtà un tal concetto
vien qui elaborato con tanta acutezza, soltanto perché
si ponga in chiara luce quello che Lisia, senza dirlo
espressamente, intende per « Eros». Ma proprio que-
sta trattazione rigorosamente dialettica del soggetto
sospinge la discussione oltre e più in alto di questa
definizione di Eros/ fino all'altezza della considerazione
filosofica. E a Socrate è cosi imposto, quasi, il suo

23) Phaedr. 239 b.


24) L'importanza decisiva dell'Eros filosofico effigiato nel Sim·
posio rispetto alla paideia è messa in chiara luce nel Fedro dal
modo in cui Socrate, nel suo primo discorso pronunziato col capo
velato, mette in guardia il giovinetto di fronte all'amatore.« Que·
sti », egli dice, « è ·uomo da non fidarcisi, che lo danneggia nei
beni materiali, nella salnte del corpo e soprattutto nell'educa-
zione dell'anima (<Jiuxijc; m:dìleucr~c;), la cosa più alta che ci
sia e mai ci possa essere per dei o per uomini» (Phaedr. 241 c).
Naturalmente tutto ciò, per Platone, è convertibile nella pro-
posizione contraria: il vero amatore è colui che sopra tutto pro-
cura la« educazione dell'anima» dell'amato.
1662 [m326] LIBRO IV - IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

secondo discorso su Eros, la« palinodia», in cui egli


cerca di render giustizia al dio e alla sua vera natura,
quella palinodia che s'alza a volo con l'incomparabile
descrizione della divina pazzia, nella sua differenza
da ogni empia e perniciosa forma di pazzia umana 25).
Eros qui è posto accanto al dono della poesia e al dono
della profezia, e la loro essenza comune è ravvisata
nella ispirazione. Come l'emozione creativa del poeta
è riconosciuta qui da Platone, come fenomeno, diret-
tamente e in virtù della sua più schietta natura, edu-
cativo nel più alto senso 26), cosi questo elemento è
presente e attivo fin dall'origine nell'Eros verace. E que-
sta concezione viene poi ad essere ancorata più a fondo
nella teoria platonica della natura dell'anima 27), che
si fa evidente in tutta la sua dinamica mediante il
mito della coppia ineguale di cavalli, raffiguranti le
due diverse pa,rti dell'anima, e del suo guidatore, la
mente 28). Cosl il discorso s'innalza a volo sempre più alto,
su su fino a quella regione sopra il cielo, dove l'anima
dominata da Eros è fatta degna, al seguito del dio che
per natura le è affine, di contemplare l'essere puro 29 ).
Colore poetico di lingua e stile informa tutto questo di-
scorso; il che Socrate giustifica richiamandosi alle qua-
lità e ai gusti del suo interlocutore, Fedro 30). A uno
scolaro e ammiratore come lui della educazione reto-
rica non si può parlare altrimenti. Ma Socrate gli dimo-

25) Phaedr. 244 a ss.


H) Phaedr. 245 a ss. Ci siamo valsi già di questo luogo in
« Paideia» I 94. L'imperituro riconoscimento, che vi si esprime,
dell'essenza· e virt'ù del poeta è in realtà il fondamento di tutto
il presente libro, lesperienza la giustificazione dei suoi metodi
e punti di vista: esso è la scoperta veramente e propriamente
ellenica.
21) Phaedr. 245 c-246 a.
28) Phaedr. 246 a ss •
..) Phaedr. 247 c,
ao) Phaedr. 238 d; 242 b.
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [m327l 1663

stra che il filosofo, quando vuole, con facilità sopravanza


l'arte dei retori. L'impeto ditirambico delle sue parole
non è calcolato e freddo artificio, come tante volte lo è
l'alto stile dei retori, ma è vena di un'intima fonte,
di Eros appunto, ·e il suo discorso stesso è la testimo·
nianza che egli presta della sovrana potenza spirituale
di Eros.

Da questo agone oratorio tra retore e filosofo il


discorso si avvia con passaggio naturale e sciolto a
un problema generale, quale, cioè, sia il modo di par-
lare e scrivere veramente bene 31), insomma al fonda-
mentale problema deJla retorica. Il punto più impor-
tante, il centro del problema per Platone è di sapere
se per dare a un pensiero buona forma linguistica
occorra la conoscenza della verità 32). Questo è il punto
in cui le due vie, dell'educazione retorica e di quella
filosofica, divergono per non congiungersi più. Anche
qui, come nel Gorgia, Platone imposta tutta la sua
argomentazione sul concetto di techne. Egli nega che
la retorica sia un'arte in senso proprio e rigoroso e ne fa
una pura e semplice pratica, priva· di ogni fondamento
nelle cose reali 33). Una vera e propria arte può venir fuori
da essa solo nel caso che si appoggi sulla conoscenza del
vero. Si suol definire per lo più la retorica come l'arte di
persuadere gli uomini, nei tribunali o nell' assemblea
popolare 34). Il mezzo a tal fine è l'opporre discorso a
discorso. Ora una tal logica dell'opposizione (&.v-rL-
ÀoyLx.1)) non ha luogo, nella vita, soltanto nelle suddette
occasioni, ma opera sempre e ovunque nel pensiero e

31) Phaedr. 258 d.


Phaedr.
32 ) 259 e.
33) Phaedr. 260 e ss. Qui Platone cita appunto, senza no-
minarlo, il suo Gorgia.
34) Phaedr. 261 a ss.
1664 [rn328] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nel parlare degli uomini 35). Essa alla fine consiste


nella' facoltà di paragonare qualunque cosa con qua-
lunque altra cosa 36). Il metodo dimostrativo del retore
opera prima di tutto col mezzo della similitudine 37).
Partendo da questo punto, come chiaramente appare,
Platone negli anni della tarda maturità, quando lo
occupò molto il problema logico del metodo e special-
mente della dimostrazione, venne a interessarsi della
retorica e dei mezzi di persuasione che le appartengono
in un senso del tutto nuovo. Proprio intorno al tempo
in cui il Fedro fu composto, il suo scolaro Speusippo
scrisse un'ampia opera sulla dialettica col titolo Si-
militudini, che trattava della classificazione delle cose
esistenti 38). Sulla conoscenza del simile e del dissimile.
poggia ogni definizione logica di un oggetto. Ammesso
che lo scopo della retorica sia d'ingannare gli uditori
portandoli a conclusioni erronee per mezzo di pure e
semplici somiglianze, anche in questo caso sarebbe ne-
cessaria nel retore una conoscenza precisa del metodo
dialettico della classificazione, perché solo per esso è
possibile conseguire capacità di discernere i diversi gradi
di similitudine tra le cose 39). Tra ferro e argento non è
facile sbagliarsi, ma tra buono e giusto non è difficile 4o).
Nessuno può giungere a chiarezza su ciò in cui gli
uomini sono d'accordo e su ciò in cui sono discordi

35) I due discorsi di Socrate su Eros sono esempi di questa


logica dell'opposizione su cui si fonda il retorico dicere in utramque
partem. Su ciò cfr. Platone stesso, Phaedr. 265 a.
86) Cfr. Phaedr. 261 a-b, dove è messo in rilievo che la psica-
gogia dell'arte retorica non ha luogo solo nelle pubbliche adunanze,
ma anche nei rapporti privati. Il metodo del retore è esteso a
tutti i generi di espressioni umane in Phaedr. 261 e.
871 Phaedr. 261 d.
89) I frammenti del libro, perduto per noi ma noto nell'an-
tichità, sono stati raccolti da PAUL LANG, nella sua dissertazione
De Speusippi vita et scriptis (Bonn 1911).
39) Phaedr. 262 a ss.
40) Phaedr. 263 a.
CAP. vm: IL FEDRO PLATONICO [m329] 1665

senza ùna precisa definizione metodica dell'eidos. Perciò


nel suo discorso su Eros Socrate fa della definizione
concettuale dell'oggetto il punto di partenza della sua
dimostrazione 41).
Ma finito il suo discorso egli riprende ancora una
volta in mano quello di Lisia e dimostra che esso co-
mincia con ciò con. cui veramente sarebbe dovuto
finire 42). Questa constatazione conduce a una critica
di carattere generale. L'intero discorso è privo di solida
struttura. Ogni discorso, come un essere vivente, do-
vrebbe avere un corpo organizzato, non dovrebbe essere
senza capo o senza piedi, ma avere il suo mezzo e i suoi
estremi, e tutte queste membra dovrebbero essere tra loro
e col tutto nella giusta relazione. Giudicato con questo
criterio il discorso di Lisia appare un'opera del tutto
sbagliata 43). Qui Platone lascia trasparire le sue pene-
tranti intuizioni sulla natura della composizione let-
teraria, le quali furono in seguito accolte come istanze
fondamentali nella teoria antica della poetica e della
retorica 44). È importante per noi apprendere di qui
che l'esigenza dell'unità organica di un'opera letteraria
è stata posta per la prima volta da· parte della filosofia,
non dalle teorie artistiche della retorica o dai poeti,
e che ne fu enunciatore un filosofo artista, am.nriratore

") Questo è il suo procedimento in tutti e due- i discorsi.


La divisione (8toi:Epe:<n;) dell'eidos è data come regola in Phaedr.
263 b. Numerosi accenni ad essa si trovano in seguito: cfr. 263 c,
265 a-d, 266 a.
• 2 ) Phaedr. 263 e-264 b.
'") Phaedr. 264 e-e.
") Cfr. il ponere totum oraziano in Àrs poetica v. 34. Simile
il precetto di A. P. 23, che prescrive rigorosa unità della favola
nell'epos e nel dramma (7tpii~t; llÀ1J xoi:t Te:Àe:loi:). Nella prima
parte dell' A. P. Orazio dà esempi di violazione di questa regola,
ma non la formula in termini generali (o solo di passaggio, in una
subordinata: v. 34), e ciò in conformità allo stile dei suoi Ser-
mones. Ma sotto le sue parole è tutta la profondità del principio
che Platone formulò per la prima volta nel luogo sopra citato
alla n. 42.
1666 [m330] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

della totalità organica della natura e, a un tempo,


logico di genio.
A lui la necessità di un organamento logico de di-
scorso s'impose come problema dalle grandi scoperte
nate dalla ricerca sistematica dei rapporti scambfovoli
tra i concetti, dalla ricerca condotta nei cosiddetti
dialoghi dialettici della vecchiaia, in esempi concreti
e< a scopo di esercitazione». Quel che spinse Platone a
scrivere il Fedro fu in notevole misura la sempre mag-
giore coscienza che egli venne acquistando di quanto
quei difficili e apparentemente astratti problemi teo-
retici della sua ultima teoria delle Idee fossero in realtà
collegati con le elementari esigenze di pratica capacità
nel parlare e nello scrivere, facoltà specialmente am-
bita, e pertanto soggetto favorito di discussione, ap-
punto in quel tempo. Ma d'altro lato costituì per lui
una speciale attrattiva la possibilità di svalutare, me-
diante questo contributo positivo, e di dimostrare in-
servibile la critica dei retori alla filosofia. E invece di
adottare anche lui quel tono polemico, astioso e sprez-
zante, di cui si era compiaciuto, contro Platone, lo
stesso Isocrate agli inizi della sua attività, il filosofo
congiunge l'elogio dell'avversario altamente stimato con
l'additamento dei profondi legami spirituali esistenti
tra le loro due attività.

Platone stesso dice espressamente che i tre discorsi


della prima parte, quello di Lisia e i due di Socrate,
debbono servire come modelli esemplari per chiarire
il rapporto di retorica e dialettica 45). Lasciato stare,

45 ) Il discorso di Lisia, che, come è ovvio, era intenzional-

mente un modello esemplare, contiene secondo la sarcastica os-


servazione di Platone (Phaedr. 264 e) parecchi esempi di come
non si deve parlare. Che i due discorsi di Socrate debbano essere
intesi come paradigmi, è detto in 262 d e 265 a. La scuola dei
retori lavora sempre col metodo del paradigma: v. supra, pp. 92,
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO (III 331] 1667

dopo le osservazioni critiche a cui si è accennato,


il discorso di Lisia, si volge ai due discorsi di Socrate
che rendono evidente questa fondamentale dipendenza
della retorica dalla dialettica 46). Egli dà qui un'indi-
cazione esatta e completa per fare intendere gli scopi
a cui mira con essi e i concetti che essi sono chiamati
a realizzare 47). Nonostante la poeticità del linguaggio
essi costituiscono un modello di partizione e di sintesi
concettuale. Questi due processi, condizionantisi a vi-
cenda, costituiscono tutta la dialettica 48). Il che Platone
rende chiaro col ricapitolare brevemente lo svolgimento
e ~ resultato delle differenziazioni concettuali nel se-
condo dei due discorsi 49 ). Questa delucidazione delle
due funzioni del metodo dialettico, la« sinottica» e la
« diairetica », è quel che di più chiaro e penetrante
Platone abbia mai detto su questo soggetto. Non pos-
siamo qui fermarci a studiarlo in se stesso, ma è im-
portante constatare come Platone stesso lo consideri,
proprio a questo punto, come la sintesi di tutto quello
che nell'arte del dire è « tecnico» nel più alto senso
della parola 50). Tutto il resto dell'arte retorica, cioè
tutto quello insomma che Lisia e i suoi simili insegnano
agli scolari, non potrà ·mai, preso per sé, costituire
una techne, ma sarà la parte per così dire pre-tecnica
della retorica 51). Con una intenzionale vena di comi-
cità Platone si mette a enumerare tutte le denomina-

109 s. Platone accoglie questo metodo ma con altro intento, di


render chiari cioè, dal punto di vista dialettico, gli errori o i pregi
dei due modelli tra loro paragonati.
••) Phaedr. 264 e-265 a.
") Phaedr. 265 a ss.
'") Cfr. Phaedr. 266 b-c, dove Platone sintetizza nei due
concetti di 8t«tpe1rn; e auv«yCi>y'fi il risultato del suo prece-
dente esame del procedimento dialettico.
49) Phaedr. 265 a-266 a.
60) Phaedr. 269 d.
61 } Phaedr. 269 b-c: i:à: 7tpÒ ·djç i:ixv'IJç &.vcxyxccr« µ.cc-&-fiµ.cti:«.
1668 [m332l LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

zioni teHninologiche delle singole parti del discorso


che i retori vanno moltiplicando nei loro manuali 52).
In questa descrizione appaiono col loro nome tutti i
rappresentanti della vecchia retorica, in parte anche
con la menzione delle invenzioni particolari di ognuno
che rivelano una tendenza a una sempre crescente
complicazione. Platone non disprezza cose come que-
ste, ma assegna loro una posizione subordinata. Tutti
quegli uomini hanno approntato mezzi che, per il di-
scorso, per l'abile fattura del discorso, sono pure 'di
un qualche valore 53). Ma l'arte di convincere, l'arte di
comporre un tutto unico, essi non possono, con questi
mezzi, insegnarla ad alcuno.
Nei suoi scritti programmatici sulla retorica, Iso-
crate aveva sempre dato il valore massimo alla dispo-
sizione naturale e assegnato a esercizio e scienza solo
un posto relativamente modesto 54). Anche Platone nel
Fedro tocca il rapporto tra questi tre fattori, che i
Sofisti avevano distinto in ogni vera e perfetta elo-
quenza 55). Ma egli prende partito, con grande risolu-
tezza, per i due fattori scarsamente valutati da Isocrate,
soprattutto per la episteme 56), ma anche per l'esercizio,
evidentemente riferendosi all'insegnamento dell'Acca-
demia, dove si faceva della logica, non in teoria sol-
tanto, ma anche come pratica esercitazione. Isocrate
non fa altro che mettere in rilievo la parte dell'artista
creatore e della sua intuizione 57). Però la episteme o

12) Phaedr. 266 d-267 c.


A) L'espressione greca per «mezzo» in questo senso è TiX
&vcxyxixicx; l!fr. n. SI.
") Cfr. supra, p. 108.
N) Phaedr. 269 d.
&a) Ciò è chiaro dal procedimento di tutta la ricerca. anche
11e non è esplicitamente formulato. Anche nel caso di Pericle è
rilevato, accanto alla disposizione naturale (e:ùcpu"tcx), soprat-
tutto il sapere filosofico, che aveva ricevuto da Anassagora.
67) Isocr. Soph. 16 ss. Cfr. supra, p. 105 s.
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [m333] 1669

la ·mathesis di cui parla e a cui dà poco peso, non è


altro che l'insegnamento formale dei retori sofistici
della vecchia scuola. Al posto di un tale insegnamento
Platone pone l'addestramento logico della filosofia, e
questa davvero può essere insegnata. Ma essa è prima
di tutto indispensabile, se ancora si voglia imparare
qualche altra cosa e qualunque cosa si voglia impa-
rare. Ecco che cosi gli nasce spontaneamente tra mano,
dalla critica della retorica del suo tempo, un suo ideale
completamente nuovo di quest'arte che, realizzato, le
consentirà di farsi finalmente techne nel più vero senso.
È questo la congiunzione di retorica e filosofia, di forma
e di contenuto intellettuale, di capacità d'espressione
e di scienza del vero. A questo programma si richia-
marono poi sempre le antiche scuole filosofiche, se e in
quanto furono accessibili alla considerazione della re-
torica 58). La retorica stessa 10 accolse, ma solo più
tardi e in un senso meno rigorosamente logico, come
una specie di matrimonio dell'arte della parola .1on
la cultura intellettuale della · filosofia. Fu la sintesi
platonica che dette a Cicerone l'impulso verso quel-
l'ideale di cultura che si esprime nei libri De oratore 59 )
e che, per la mediazione di lui, seguita ad affermarsi
nella lnstitutio oratoria di Quintiliano. Platone cerca per
questa sua retorica un modello nella storia dell' elo-
quenza viva e lo trova in Pericle. Questi era stato

18) Cfr. H. v. ARNDI, Leben und Werke des Dion von Prosa
(Berlino 1898), specialmente l'esauriente introduzione, che con·
sente uno sguardo storico completo sul successivo svolgersi dei
rapporti di sofistica, retorica e filosofia in contesa per la forma-
zione della gioventù.
19) La questione se Cicerone sia giunto da sé a questa sin-
tesi, mercé le sua conoscenza di Platone, cioè del Fedro, o vi sia
stato condotto da una posteriore fonte accademica, è discussa
a fondo dell'AllNI?d, op. cit. p. 97 ss. Nella nuova Accademia lo
aveva preceduto Filone di Larissa, che aveva ·dato posto alla
retorica nell'insegnamento della filosofia, come già Aristotele
aveva .fatto quando Platone viveva ancora.
1670 [m334] UBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

debitore della sua grandezza oratoria alla sua profonda


cultura intellettuale. Era stata la visione filosofica
del suo amico e protetto Anassagora che, compenetrando
tutto il suo pensiero, aveva dato ai suoi discorsi al-
tezza non più raggiunta da alcun altro uomo politico 60),
Anche da un altro punto di vista Platone chiarisce la
necessità di una profonda cultura, non di parole ma
di cose, nell'oratore. Questi ha per compito di agire sulle
anime, la sua vera arte non è tanto questione di mero
ornato formale, quanto di psicagogia 61). Il più ovvio
terlnine di paragone è qui la professione del medico,
già nel Gorgia messa da Platone a fronte con la re-
torica 62 ). Come là l'esempio del medico serviva a
chiarire la natura di una vera arte, così ora vale a
chiarire la « via», il processo del buon metodo. Pla-
tone chiama in causa Ippocrate stesso, la personifica·
zione della vera arte medica 63). Caratteristica essen-
ziale di un tale atteggiamento intellettuale è che per
esso sempre, nel trattare il corpo umano, si tien fisso lo
sguardo all'intera natura, al cosmos (cfr. p. 36 ss.). Così
anche lo scrittore e l'oratore, se vogliono riuscire a
dominare uditori e lettori, debbono conoscere il mondo
dell'anima umana, in tutti i moti, in tutte le forze
che lo agitano 64), E ancora come il medico deve esat·

SO) Phaedr. 269 e-270 a. Platone lo nomina come modello


di eloquenza anche in 269 a, accanto al mitico re Adrasto," che,
come Nestore nell'antica poesia; appariva personificazione esem·
plare della parola incantatrice (yÀwc;crtt µeLÀLXOY~puc;). Cf:r.
Ty:rt. fr. 9, 8. Questi, che nell'areté dell'eloquenza furono eroi,
non hanno solo per Platone l'ufficio di sostenere e :rappresentare
al vivo il suo concetto della retorica, ma anche di porre in luce
tutta l'aridezza e povertà dei moderni tecnici e specialisti di arte
del dire.
Gl) Cf:r. già Phaedr. 261 a; l'idea è svolta ulteriormente in
271 c-d.
H) Phaedr. 270 b; cfr. « _Paideia» II 219-220.
81) Phaedr. 270 c.
H) Phaedr. 271 a.
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [III335) 1671

tamente sapere se la natura di µna cosa è semplice


o molteplice, e quali sono i suoi effetti se è semplice,
quali, nell'altro caso, i vicendevoli effetti delle sué
varie forme, così l'oratore deve conoscere le forme del-
1' anima e l'origine loro, e le corrispondenti forme del
discorso 65). Tali forme o« idee» del Logos erano già
state materia d'insegna.mento della retorica 66), ma qual-
cosa di nuovo appare in questo abbozzo di una reto·
rica in senso platonico, ed è che le forme del discorso
son riportate a forme di atteggiamento psichico e in-
terpretate come necessaria espressione di queste 67 ).
Con ciò il centro della formazione retorica è portato
del tutto verso l'interno dell'uomo.
È degno di nota come Platone sia in ogni momento
consapevole della forza vera ed essenziale del suo
pensiero. Essa consiste qui come dappertutto nella sco·
perta e conoscenza dell'elemento psichico. L'idea,
che determinate forme d'espressione sono condizio·
nate da determinate funzioni psichiche porta per
lui a questa conseguenza pratica: che uomini in una
certa disposizione spirituale o di un certo perma·
nente carattere possono essere mossi o persuasi in una
certa direzione solo con mezzi retorici scelti corrispon·
dentemente 68). Scoprire una tale base di ogni possi-
bilità di influire su uomini mediante il linguaggio era
compito a cui Platone era chiamato dalla natura come

66 ) Phaedr. 271 d.
66 ) Isocr. Soph. 16-17. Cfr. supra, p. 104 s.
67 ) Quel che Platone insegna su questo punto (Phaedr. 271 d

ss.) è soltanto un rapido abbozzo tipizzante di una tale teoria


psicologica delle « idee» (tjlu:iciiç eH'l]) a uso della retorica. Al-
l'esecuzione tecnicamente particolareggiata del suo concetto, Pla-
tone rinunzia a causa della forma della sua opera, che è opera
d'arte. Si limita a dare esempi! ché come tali debbono servire
- come si è osservato di sopra - i due discorsi erotici di So-
crate, col loro ricco contenuto psicologico. (Cfr. supra, p. 330 s.).
86) PhnPdr. 271 d-e.
1672 [m336] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nessun altro. È significativo che egli non si accontenti


di elaborare un sistema completo di categorie psico-
logiche da servire alla pratica retorica, ma dia impor·
tanza altrettanto grande alla sperimentazione di tali
conoscenze nell'applicazione di esse al caso concreto,
in un dato momento del tempo 89 ). Il che non giungerà
inaspettato dopo aver visto che Platone, già nella
Repubblica, dava altrettanta importanza e assegnava
altrettanto tempo all'esperienza pratica e alla disci-
plina del carattere che all'educazione puramente in-
tellettuale 70).
Ma l'innovazione vera consiste nella via che ora egli
batte verso la formazione intellettuale. Il Fedro ag·
giunge al programma di paideia della Repubblica un
campo nuovo, il campo della retorica, ma lo aggiunge
nel quadro già delimitato nell'opera maggiore. Nella
Repubblica lo scopo era l'educazione del futuro reggi·
tore, nel Fedro è la formazione dell'oratore e scrittore 71).
In ambedue le opere il punto essenziale e caratteristico
è l'esigenza di un tipo di addestramento intellettuale
ben diverso da quello che va a genio al puro pratico 72 ).
Nel Fedro, nel programma di una formazione filosofica
dell'oratore, ritorna alla lettera il pensiero fondamen·

st) Phaedr. 272 a-b.


•o) V. « Paideia » II 550-551.
71 ) L'uomo che si assoggetta alla formazione retorica è chia-
mato o µÉÀÀc.>V PlJ't"Optxòç foe:a.&oct, Phaedr. 271 d, oppure o
cruyypoccpe:ui;, 272 b. Ma poichli l'eloquenza era intesa specifica-
mente come la facoltà del reggitore ed uomo di stato, il Fedro
aggiunge un nuovo lineamento al quadro dell'educazione dei
reggitori disegnato da Platone nella Repubblica o, per dir meglio,
Platone scopre nella formazione dialettica, in cui nella Repub-
blica culminava l'educazione dei reggitori, il fondamento neces-
sario anche per l'eccellenza oratoria del reggitore formato filo-
soficamente.
72 ) Vedi la critica d'Isocrate alla dialettica dei .Socratici
giudicata sottigliezza inutile in Hel. 4 ss., e soprattutto il suo
rifiuto di considerarli, come pretendevano, maestri di formazione
«politica», Hel. 6; 8: cfr. 1upra, pp. 95 se., 115 ss. 250 es.
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [m337] 1673

tale della Repubblica, cioè che al raggiungimento della


meta è necessario un lungo« giro» 73). Col che Platone
si richiama espressamente alla teoria educativa della
Repubblica. Il « giro» qui come là è la via che passa
per la dialettica 74 ). Questa via può apparire spropor-
zionatamente lunga e difficile a colui che crede di
potersela cavare con un po' di routine. Ma la filosofia
platonica dell'educazione si indirizza sempre alla più
alta, non alla più bassa meta, e vista da quell'altezza
non esiste via più corta e più comoda per chi vuole
perfettamente assolvere il compito dell'oratore. Nes-
sun dubbio è possibile che questo compito non sia
concepito da Platone in senso etico. Ma anche per
chi pensi che una tal meta sia posta veramente troppo
in alto, il« giro» filosofico è, come abbiamo già visto 75),
inevitabile. I maestri di retorica si contentano in fondo
del verosimile e del plausibile, invece di mettersi a
cercare la verità 76). E Platone nel Fedro non cerca di
convincerli che dire la verità è necessario. Come fa
spesso, egli si mette apparentemente dal punto di
vista dell'avversario e di li prova che il sapere è indi-
spensabile anche per lui. Così nel Protagora egli aveva
dimostrato il valore della scienza, facendo vedere che
se il bene supremo della vita è, come pensa la gente,
il piacere, è necessario un sapere come misura, per
distinguere bene il piacere maggiore dal più piccolo,
il più vicino dal lontano 77 ). Similmente nel Fedro egli
73 ) Non è possibile acquistare la formazione voluta da Pla-

tone, senza una lunga fatica (.Xve:u 7tOÀÀijç 7tpa:yµa:-rdocç),


Phaedr. 273 e. In 274 a egli parb di una µa:xpòi m:plo8oç.
A proposito del « lungo giro» della paideia platonica cfr. Resp.
504 b.
74 ) Il luogo del Fedro conferma, con l'uso della stessa espres-

sione per la stessa cosa, l'interpretazione da noi data (cPaideia>


II 484) di Resp. 504 b.
15) Cfr. p~ 328 ss.
rs) Phaedr. 272 d (alla fine).
17 ) Cfr. « Paideia » II 202.
1674 [m338] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

dimostra la necessità del sapere per l'oratore rendendo


evidente che la scoperta del probabile (e:tx6c;), che è
ciò su cui si fonda l'argomentazione retorica, presup-
pone la conoscenza della verità. Giacché il probabile
è ciò che alla verità è simile 78). Certo, come Platone
alla fine proclama 79) lo scopo di ogni retorica non è di
parlare per piacere agli uomini, ma per piacere a Dio.
È la dottrina che conosciamo dalla Repubblica, dal
Teeteto e dalle Leggi. Nell'atteggiamento rigorosamente
teocentrico della paideia dell'ultimo periodo platonico
si risolvono definitivamente tutte le aporie delle opere
più antiche.

Platone è pieno di buona volontà di render giustizia


all'arte di scrittore propria dei retori di professione.
Ma il fatto che essa sia invenzione geniale non basta,
ai suoi occhi, a renderla accetta alla Divinità. E al
chiarimento di ciò è destinato il mito della inven-
zione della scrittura per opera del dio egizio Teuth 80 ).
Quando il dio si presentò con questa sua invenzione
dal re Thamus di Tebe, vantandosi di avere con essa
trovato la medicina per· la memoria degli uomini, e
con ciò per il loro sapere, rispose Thamus che l'inven-
zione delle lettere a"\<-rehbe piuttosto condotto a tra-
scurare l'esercizio della memoria e a produrre cosi
smemoratezza nelle anime. Gli uomini si sarebbero

Phaedr. 212 e.
78)
Il parlare per far piacere (xoc.p(~e:ci.&a:t) agli uomini è
78)
sentito come la peculiare debolezza della retorica, non da Pla-
tone soltanto, ma da Isocrate, Demostene e altri. Platone con-
verte questo concetto in .&e:éj) xixp(~e:a.&ixt, parlare e agire in
modo da piacere a Dio (Phaedr; 273 e), così come, nelle Leggi,
egli afferma che non l'uomo, ma Dio è la misura di tutte le cose_
Egli pone quindi in luogo della retorica, il cui sfondo filosofico
era il relativismo di Protagora e dei Sofisti, un nuovo ideale di
eloquenza, la cui misura è il Bene eterno.
•o) Phaedr. 274 e as.
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [m339] 1675

fidati dello scritto, invece di portare dentro di sé la


ricordanza viva 81), e così si sarebbe coltivata sembianza
di sapere al posto del vero sapere. Tutta la grandezza
di Platone qui si rivela; in questo sovrano atteggiamento
di fronte alla parola scritta, che non va meno a col-
pire la produzione dei retori di quanto non colpisca
lui stesso nella sua creatrice attività di scrittore. E se
noi, dopo le parole del Fedro, potessimo avere ancòra
il minimo dubbio, che Platone in questa conclusione
del dialogo parli per se stesso non meno che per gli
altri, ci soccorrerebbe la Lettera VI I, a mostrarci nel
modo più univoco con quanta consapevolezza il filo-
sofo abbia sentito in tutta la sua difficoltà il problema
del pensiero fissato e fermato dalla parola scritta.
Qualche esposizione della sua dottrina fatta da incom-
petenti gli offre occasione, nella Lettera, di una dichia-
razione paradossale, cioè che neppure lui stesso ha
creduto possibile di esporre la propria dottrina e che,
pertanto, una filosofia platonica scritta semplicemente
non esiste 82). Studiosi di Platone hanno ben presto
posto in relazione l'atteggiamento, analogo a questo,
del Fedro con la forma platonica dell'opera letteraria,
col dialogo socratico, e vi hanno visto un motivo capi-
tale per considerare questo lavoro come una dichiara-
zione programmatica (cfr. p. 315 ss.). In realtà è difficile
concepire che Platone giovane abbia potuto trovare in
un tale scetticismo di fronte alla parola scritta un
impulso sufficiente per accingersi a un'opera letteraria
cosi imponente, mentre un successivo distacco da ·tutto
ciò che aveva scritto è ben comprensibile psicologica-
mente, come attuata salvaguardia della propria libertà,
anche di fronte alla sua creazione.
Conforme a q-q.esto atteggiamento dei suoi anni più
81) Phaedr. 275 a. ·
81 ) Ep. VII 341 c-d; 344 d-e; cfr. infra, p. 360 1.
1676 [III 340] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

tardi, Platone nel Fedro tende a non riconoscere al-


i' arte letteraria, anche nel più alto senso retorico, che
un valore modesto. I prodotti di quest'arte vanno per
le mani di tutti, intendenti ed ignari, e la parola scritta
è incapace di spiegarsi e di difendersi da sé se qualcuno
le fa torto: ha bisogno che altri le faccia da avvocato 83).
La scrittura vera è quella che si scrive nell'anima del
discente, perché ha la forza di venire in soccorso di
se stessa 84). L'unica utilità dell'altra scrittura, di quella
che si scrive con inchiostro, è che essa vale a far ricor-
dare a chi già sa 85 ). Quando la retorica del tempo
si dedicava sempre di più ali' arte dello scrivere, al
e< discorso grafico», ecco che Platone deduce la supe-
riorità educativa della dialettica filosofica dal fatto
che questa si rivolge immediatamente allo spirito e lo
forma. I Sofisti avevano paragonato la natura dell'edu-
cazione con lagricoltura 86 ) e a questa immagine Pla-
tone si riallaccia. Chi ha cura di un buon seme e vuole
che si sviluppi in frutto non si mette a piantare un
K giardinetto di Adone», per compiacersi che in otto

giorni la sua semina germogli, ma trova la sua gioia


nell'arte vera dell'agricoltore ed è contento se la se-
mina, dopo otto mesi di costante e faticosa cura, final-
mente dà frutto 87). Queste immagini del seminare e del
piantare sono applicate da Platone all'addestramento
dialettico dell'intelletto.--Chi ha a cuore la vera cultura
intellettuale non si conte~erà dei rari frutti precoci
coltivati per divertimento' nei « giardini di Adone»
della retorica, ma avrà la pazienza di lasciar maturare
i frutti della vera formazione filosofica. Conosciamo,

88) Phaedr. 275 e.


84) Phaedr. 276 a.
85) Phaedr. 275 d.
H) Cfr. « Paideia» I 536.
") Phaedr. 276 b.
CAP. VIII: IL FEDRO PLATONICO [m 341] 1677

dalla Repubblica e dal Teeteto, questa difesa della cultura


filosofica; essa presuppone l'esigenza del« giro lungo»,
motivo a cui di continuo ;-- è importante notarlo -
Platone ritorna 88 ). La semina della paideia platonica,
come dice la Lettera VII, vien su solo· durante una
lunga comunità di vita; non le basta qualche anno di
lezioni a scuola 89 ). In questa che agli occhi dei suoi
oppositori era la sua debolezza, Platone vuol dimo-
strare, qui come sempre, la sua forza vera. Questa
forza essa poteva attuare pienamente 90) solo in pochi
eletti: per la folla della « gente colta» la retorica rima-
neva la via larga e più comoda.

• 8) Resp. 498 a s., Theaet. 186 e !v XP 6vc;i 8Ld: 7tO ì..ì..ùlv 7tpa.y-
µ1h-6lv xod m:cd~dixç, 7tixpa.ylyve:-retL otç Civ xixl mxpixy[yv1rr1u.
Cfr. Phaedr. 273 e: où .... &ve:u 7tOÀÀ'ijt; 7tpixyp.ix-re:tixt;.
ea) Ep. VII 341 c.
90 ) Cfr. Theaet. 186 e ori; av 1t0Cp1Xytyv1JTIXL, ed Ep. VIII 341 e.
Sono quelli che su una piccola indicazione e avvio, hanno la
forza di scoprire da sé la conoscenza.
CAPITOLO NONO

PLATONE E DIONISIO
LA TRAGEDIA DELLA PAIDEIA

Quando la critica filologica degli ultimi decenni


riusci a legittimare come autentiche la Lettera VI I e
l' VIII, passate a lungo per falsificazioni, un importante
capitolo venne ad aggiungersi alla storia della paideia
platonica 1 ). Indubbiamente, quand'anche in queste let-
tere, nella VII specialmente, non si possedesse un docu-
mento autobiografico di prim'ordine, ma si avesse a che
fare con la finzione sensazionale di un raffinato ciurma-
tore letterario che avesse visto un magnifico tema di ro-
manzo nel porre in contatto il grande Platone con la
realtà politica quotidiana, anche in questo caso il
dato di fatto esteriore, la relazione del :filosofo col più
potente tiranno del suo tempo, rimarrebbe ben saldo.
Giacché il valore di fonte della Lettera VII - della
quale soprattutto dobbiamo occuparci - non fu con-

1 ) Sulla lettera sesta, diretta agli scolari. platonici Erasto e


Corisco, che tenevano il potere in Asso, e al loro vicino, Ermia
tiranno di Atarneo, che si era unito a loro in un'alleanza filo-
sofica, cfr. il mio Aristoteles, p. 112 (trad. it. p. 144). I motivi
addotti dal Brinkmann e da me in favore dell'autenticità della
lettera furono accolti dal Wilamowitz e da altri. Della lettera
stessa, però, non è il caso di parlare in questo contesto. Sull'auten-
ticità delle lettere settima e ottava, cfr. WILAMOWITZ, Platon.,
Voi. II, e, più recentemente, G. PASQUALI, Le Lettere di Platone
(Firenze 1938). L'autenticità di tutte le lettere è sostenuta da
qualche studioso, ma la tesi urta contro difficoltà insuperabili.
1680 [m344] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

testato neppure al tempo in cui nella questione del·


l'autenticità il dubbio era prevalente 2). Ma aver sotto
gli occhi la genuina presa di posizione di Platone di
fronte alla tragedia siracusana è per lo studioso di
storia cosa d'interesse inarrivabile, e il racconto dei
fatti ·contenuto nella vita plutarchea di Dione, con
tutto il suo ornato drammatizzante, non regge per
nessun rispetto il paragone con la vivezza tutta intima
di quella che fu la sua fonte principale, appunto la
settima lettera platonica.
Anche senza questa lettera sarebbe stato facile
concludere che l'autore della Repubblica e delle Leggi,
dové esser mosso da passione grande e schietta per
le cose della politica, una passione che in origine lo
avrebbe spinto all'azione. Ciò non è solo probabile
psicologicamente, ma si esprime esplicitamente nella
struttura stessa del concetto platonico di scienza. Poi-
ché il sapere (gnosis) da lui non è concepito come mera
contemplazione sciolta dalla vita, ma gli diventa techne,
arte, e phronesis cioè senno a percorrere la via giusta,
a cogliere la giusta decisione, la vera meta, i veri beni.
Anche nella forma più rigorosamente teoretica del suo
pensiero, la teoria delle Idee dei dialoghi della vec·
chiaia, non c'è mutamento su questo punto. L'accento
in Platone fu sempre sull'azione, sul bios, anche quando
il campo dell'azione si venne sempre più restringendo,
dallo stato fuori di noi allo« stato in noi». Ora però,
nella Lettera VII Platone stesso ci narra il per·
corso del suo svolgimento fino a quel primo viaggio
nella Magna Grecia, che lo portò anche a Siracusa
alla corte del tiranno, e in questo racconto il suo inte·

1 ) In generale si tende oggi ad accettare il contenuto sto·


rico della Lettera VII, anche per quei particolari che non con·
cordano col resto della nostra tradizione, in complesso più tarda.
Cfr. R. ADAM, Programm BeTl. 1906, p. 7 ss.
CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [m 345] 1681

ressamento pratico per lo stato viene ad apparire


proprio come il fattore dominante della sua vita pre-
cedente. La narrazione si presenta degna di fede non
solo in considerazione delle principali opere platoniche,
con la loro finalità politica, ma anche per tutto quel
che di più intimo, di relativo alla cerchia della sua fami-
glia, egli ha intessuto al quadro scenico-dialogico della
Repubblica, e del Timeo che appartiene alla stessa tri-
logia. Con tutto questo egli volle senza dubbio, pur rima-
nendo naturalmente come autore fuori del gioco, illumi-
nare indirettamente se stesso e il proprio rapporto con
Socrate. I suoi fratelli, Adimanto e Glaucone, appaiono
nella Repubblica precisamente come rappresentanti della
gioventù ateniese, tutta presa di passione politica. Glau-
cone, a vent'anni, vuol già entrare nella carriera poli-
tica ed è Socrate che a stento lo trattiene. Lo zio di
Platone, Crizia, è il malfamato oligarca e capo rivo-
luzionario del 403. Platone ne fa più di una volta un
interlocutore dei suoi dialoghi e pensò inoltre di dedi-
cargli un dialogo col suo nome, rimasto poi frammen-
tario, che doveva concludere la trilogia iniziata con la
Repubblica.
Come altri scolari di Socrate, anche Platone da
principio si recò da lui, probabilmente, animato da
un interesse politico. Di Crizia e di Alcibiade ciò è
detto espressamente da Senofonte, sebbene egli ag-
giunga, e certo con verità, che essi si sentirono delusi
quando capirono di che .sorta era l'educazione politica
di Socrate 3). Ma con Platone il seme era caduto sul
buon terreno e per frutto aveva dato la sua filosofia.
Era stato Socrate, ai suoi occhi, che aveva fondato la
nuova alleanza di educazione e stato, anzi, che li aveva
in qualche modo identificati. Ma solo il conflitto di

1) Xen. Mem. I 2, 39.


1682 [m346] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Socrate con lo stato e la sua morte furono per Pla-


tone la dimostrazione precisa che uno stato nuoyo
poteva prender l'avvio solo da un'educazione filosofica
degli uomini, che avesse trasformato ·a fondo l'intera
comunità umana. Con questa convinzione che, radi-
cata in lui fin dai giovani anni, egli doveva poi porre
come assioma fondamentale nella Repubblica, egli venne
- intorno al 388, per testimonianza della Lettera VII,
cioè a circa quarant'anni - a Siracusa e là con-
quistò alla sua dottrina l'anima nobile e ardente di
Dione, prossimo parente e amico del tiranno 4). Ma il
tentativo di Dione di guadagnare al suo ideale lanimo
dello stesso Dionisio I era destinato a fallire. La grande
fiducia che il politico calcolatore mostrava per quel
serio entusiasta che era Dione, e che incoraggiò costui
a introdurre Platone presso il tiranno, era un senti-
mento da uomo a uomo giustificato assar più dall' as-
soluta lealtà di Dione, dalla purezza del suo animo,
che da una capacità, che si potesse attribuirgli, di
vedere il mondo degli affari di stato con gli stessi occhi
de] tiranno. Nellà Lettera VII Platone c'informa che
l'esigenza presentata da Dione a Dionisio era che il
tiranno desse una costituzione a Siracusa e reggesse
lo stato secondo le leggi migliori 5). Ma, secondo le
idee del principe, la situazione da cui a Siracusa èra
nata la dittatura non consentiva una tale politica.
Platone pensava che questa politica, ed essa ·sola,
avrebbe dato fondamento saldo al dominio di Dionisio
in Italia e in Sicilia, conferendogli significato e garanzia
di durata; Dionisio era convinto che essa, al contrario,
avrebbe in breve distrutto il suo regno e lasciato le
città siciliane, in cui questo si sarebbe disgregato, an-
cora una volta alla mercé dell'invasione cartaginese.
') PI. Ep. VII 326 e s.
I) Ep. VII 324 h.
CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [m 347] 1683

Questo episodio è un preludio della tragedia che più


tardi ehhe come attori Platone, Dione e il secondo
Dionisio, :6.grio e successore del primo. Per il momento
Platone ritornò ad Atene dove fondò, proprio allora,
la sua scuola. Ma il legame con Dione sopravvisse
allo scacco subito, che dové d'altronde confermare in
Platone il programma, già espresso nell'Apologia, di
tenersi in disparte dalla politica attiva. Fra i due uomini
si formò un'amicizia di tutta la vita. Ma mentre Pla-
tone si dedicò ormai soltanto all'attività di maestro
di filosofia, Dione si mantenne tenacemente fedele alla
sua idea di riforma politica della tirannide siciliana,
nella speranza di poterla forse ancora realizzare in
circostanze più favorevoli.
L'occasione sembrò presentarsi quando, dopo la
morte di Dionisio I (367), ne ereditò il potere il figlio,
ancora in età giovanile. Era frattanto apparsa - negli
anni intorno al 370 - la Repubblica di Platone. Que-
st'opera deve aver confermato Dione nei suoi senti-
menti, perché in essa avevano preso altissima forma i
pensieri che egli aveva uila volta accolto dalla viva
voce di Platone. Essa, proprio allora, qualche anno dopo
la pubblicazione, era ancora al centro delle discussioni.
Platone, certo, vi aveva più volte toccato il problema
della realizzazione del suo stato perfetto, ma aveva
finito col lasciarlo in disparte, come non essenziale per
l'attuazione pratica di una paideia :filosofica. Forse,
egli aveva scritto 6 ), questo stato perfetto esiste solo
nel cielo come un modello ideale, e non è mai divenuto'
realtà, oppure è esistito in qualche luogo ignoto e
lontano, tra popoli barbarici, cioè stranieri, di cui l'El-
lade non sa niente 7). (In età ellenistica, quando nuovi
popoli dell'Oriente entrarono nel raggio d'esperienza dei
8) Resp. 592 b.
7) Resp. 499 c.
1684 [III 348] LIBRO IV· IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Greci, e altri furono meglio conosciuti, qualche dotto


stimolato da questa congettura platonica pretese di
scoprire il modello originario della paideia platonica o
qualcosa di affine nello stato di caste degli Egizi o
nella creazione politica gerarchico-teocratica di Mòsè 8).
Quel che ora Platone vuole è che l'educazione la-
vori sul serio all'attuazione dello stato giusto nel-
l'intimo del singolo, senza occuparsi di come sia
atteggiato lo stato storico del presente 9 ). Lo stato
del presente era un malato inguaribile che egli aveva
ahhand-0nato 10) e che non era più in causa per la
realizzazione del suo pensiero. Da un punto di vista
teorico gli sembrava semplicissimo di sperimentare su
un uomo singolo quell' educazicme dei reggitori posta.
da lui a necessario fondamento per un miglioramento
dello stato, supposto che un tale uomo fosse realmente
un inviato dagli dei; e ciò per la semplice ragione
che è più facile tra.Sformare uno che più o molti 11).
E in tale concezione Platone non partiva affatto da
considerazioni sul potere politico. Anzi nelle Leggi, alla
fine della sua vita, egli si pronunzia contro la concen-
trazione del potere nelle mani. di un solo 12). La sua
idea, espressa nella Repubblica, di fare di un tiranno
di alte qualità intellettuali e morali il depositario del
potere nel suo stato, nasce piuttosto da un atteggia-
mento del tutto educativo 13). Doveva pure esser pos-

8 ) Si cominciò assai presto, in età ellenistica, ad additare

nell'Egitto l'analogia o il modello della Repubblica di Platone.


Cfr. Crantore, nel commento di Proclo al Timeo platonico, I 75 d.
Cfr. inoltre il mio Diokles von Karystos, pp. 128 e 134. s., e il mio
articolo Greeks and ]ews in« Journal of Religion» 1938.
") Resp. 591 e.
10 ) Resp. 501 a; Ep. VII 325 e s.
U) Lo« stato perfetto» è un mito, Resp. 501 e. Ma un« figlio
di re» filosofo lo potrebbe realizzare, 502 a-b.
12 ) Legg. III 691 c.
13 ) È possibile che Platone abbia lasciata aperta questa pos-

sibilità, perché Dione, già al tempo in cni Platone scriveva la


CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [IJI 349] 1685

sihile far dominare in tutto il popolo, per mezzo di


un solo uomo, il buono spirito, come era possibile
il contrario, cioè che un solo uomo potente - ed era
esperienza vissuta da Platone stesso con Dionisio I -
corrompesse, col suo esempio e influsso continuo, il
carattere di un popolo intero. L'immagine fosca del
tiranno disegnata nella Repubblica mostra chiaramente
i lineamenti di Dionisio il vecchio. È un'immagine
scoraggiante e tale che sembra parlare contro i piani
di riforma di Dione. Ma con che diritto qualcuno im-
porrà la propria esperienza di una così grande debo-
lezza umana, facendone per tutta l'umanità un arti-
colo di fede, e con ciò .chiudendo una volta per sem-
pre ogni via verso un migliore avvenire ? Così, in ogni
caso, deve aver pensato, Dione, nel suo etico ideali-
smo, quando, dopo la morte del tiranno di Siracusa,
prese a tempestare Platone di lettere e messaggi, per·
ché cogliesse il momento e venisse in Sicilia per rea-
lizzare, con l'aiuto del nuovo signore, i suoi pensieri in-
torno allo stato perfetto 14). Nella Repubblica Platone
aveva affermato condizione preliminare per l'adem-
pimento delle sue istanze ideali la riunione di potenza
(auvocµ.Lç) e di conoscènza etica ( <ptÀocrorploc), il più
delle volte in questo mondo irrimediabilmente divise 16).
Questa riunione, per lui, poteva darsi solo per una
particolarissima disposizione del destino, per una Tyche
divina 16). Dione cercò di persuadere Platone che l'ac-
cesso al potere del giovane Dionisio fosse appunto

RepulJblica, riponeva grandi speranze in Dionisio il giovane.


Chiaro è però che egli parla di un giovane di stirpe regia, non di
un monarca regnante, perché ci deve essere il tempo per la ne-
cessaria opera educativa.
14) Ep. VII 327 s.
1~) Resp. 473 d.
18) Resp. 499 b; cfr. Ep VII 326 a-b; 327 e, e passim: varia
in Platone il modo di designare la Tyche, ma il concetto è sempre
il medesimo.
1686 [rn350] LIBRO IV - IDEALI DI OJLTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

quella insperata congiuntura fatale, sicché sarebbe stato


un tradire la propria idea, se Platone non avesse se-
guito il grido, il comando dell'ora17).
Anche un idealista come Dione si rendeva senza
dubbio ben conto che l'istanza platonica nasceva dalla
coscienza individuale di un singolo e di un singolo
eccezionale. Non c'era alcuna speranza che il tentativo
di farla valere nello stato del presente fosse sostenuto
dalle forze inconsapevoli di una vita di comunità su-
periore alle leggi, perché tali forze, allora, operavano
in direzione opposta 18). Niente poteva egli aspettarsi
dalla maggioranza della gente, che non era più, come
una volta un organico popolo, ma soltanto una massa.
Solo pochi potevano, col favore di Tyche, essere con-
quistati alla causa suprema, ma di questi pochi, pen-
sava Dione, poteva essere anche il giovane principe,
e, conquistato lui, lo stato di Siracusa sarebbe dive-
nuto una sede di beatitudine in terra 19). In questo
piano di Dione l'unico elemento di fatto, reale e saldo,
era il potere illimitato del tiranno, elemento necessa-
riamente inquietante, nessuno potendo sapere che uso
ne avrebbe egli fatto. Pure la fede di Dione era audace
abbastanza per fare assegnamento sulla giovane età
di Dionisio. Giovinezza significava plasmabilità, e se
anche quel maturo intuito etico e intellettuale che
Platone esigeva nel suo ideai reggitore faceva finora di-
fetto in quel giovane inesperto, pure era Il l'unico punto
su cui sembrava possibile far leva per tradurre nei
fatti l'idea platonica.
Anche Platone nella Repubblica non aveva scorto
nessuna altra via allo stato perfetto se non quella

u) Ep. VII 327 e s.


18 ) Abbiamo visto che anche Isocrate è consapevole di questa
situazione. Cfr. p. 191 ss.
19) Ep.. VII 327 c.
CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [m351J l687

dell'educazione di un compiuto reggitore, ed aveva


assegnato a se stesso, al filosofo creatore, il compito
di fissare le linee maestre dell'educazione, di additarne
la meta ideale. Ma chi, all'infuori di Platone stesso,
della sua incontestabile, imperiosa personalità intel-
lettuale, sarebbe stato capace di mettere mano, in
pratica, all'opera educativa da lui prevista con spi-
rito veggente e di condurla a buon fine ? Certo, nello
stato concepito da Platone le cose vanno altrimenti.
Li l'educazione di coloro che sono destinati al governo
si compie attraverso un processo di scelta, di cura
paziente, durante tutta una vita, cosi nella cono-
scenza filosofica come nella pratica. Il materiale della
scelta è dato dai migliori, assolutamente, di tutta la
gioventù, e la loro schiera si va restringendo di grado
in grado, finché alla fine rimangono i pochissimi, o
quell'uno che è chiamato a compire la grande opera,
cosi come piace a Dio. Un reggitore che venga da
una tale scuola sarà l'opposto preciso di un tiranno.
Egli porterà in sé come legge suprema il bene della
totalità visto alla luce della verità eterna, e con ciò
si troverà sempre al di là della parzialità di ogni opi-
nione o desiderio individuale. Il signore di Siracusa
invece, per quanto fosse fornito di buona volontà,
doni naturali, ricettività all'educazione, sarebbe stato
pur sempre eletto al suo compito soltanto perché por-
tato dal caso, dal momento della storia, da erede a
successore nel potere supremo. Era questa una situa-
zione in fondo non molto diversa da quella dell' edu-
cazione del principe nel senso d'Isocrate 20). Pure, Dione
ritenne che il momento imponesse di mettere nel gioco
la massima posta, non solo perché quanto più grande
era il potere di Dionisio, tanto maggiore, in caso di riu-

20 ) V. supra, p. 163 s.
1688 [rn 352) LIBRO IV - IDEALI DI CUL1URA NELL'ETÀ DI PLATONE

s cita, sarebbe stato il successo, non solo a causa della


sua specialissima posizione accanto al monarca éli un
così grande dominio 21), ma soprattutto perché aveva
sperimentato su se stesso la forza della personalità
platonica, come capace éli mutare a fondo tutto l'uomo,
e per questa esperienza era ormai compenetrato della
fede stessa di Platone nel potere dell'educazione.

Nella Lettera VII Platone si volge a riguar-


dare in complesso tutta questa situazione; e gli avve-
nimenti principali della vita éli Dione, i singoli mo-
menti del suo sodalizio col nobile amico, così felice-
mente dotato, éli cui ancora piangeva la perélita re-
cente, gli ripassano ancora élinanzi agli occhi. I
tentativi éli educazione del tiranno, iniziati subito con
la sua accessione al potere erano, per due volte, falliti.
Ma anche il grande potere monarchico dei Dionisi era
caduto, perché, fallito il piano educativo, Dione, ban-
dito dal tiranno, era passato alla fine ad usare la forza.
Ma non era egli stesso sopravvissuto a lungo alla sua
vittoria. Dopo un breve regno era caduto per mano
di un assassino, vittima delle élivisioni nel suo stesso
campo. La cosiddetta « lettera» éli Platone, scritta
dopo l'uccisione éli Dione è una messa a punto e una
giustificazione dell'agire di lui, destinata al pubblico,
ma è atteggiata nella forma éli un consiglio, diretto
al figlio e ai partigiani di Dione in Sicilia, éli tener
fede all'ideale del morto. Se così faranno, Platone
promette loro l'aiuto del suo consiglio e del suo pre-
stigio 22). Con ciò egli prende apertamente posizione per
Dione e élichiara di approvarne il programma origi-
nario. Dione non aveva, egli dice, aspirato per sé
alla tirannide, e neppure ad abbattere quella di Dio-
11) Ep. VII 328 a.
12) Ep. VII 324 a.
CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [m353J 1689

nisio, ma era stato costretto all'azione per il torto


fattogli dal tiranno. Su questo solo ricade la colpa,
anche se Platone si acéorge dopo l'evento che era
stata la sua prima venuta a Siracusa, col suo effetto
di conquistare Dione alla filosofia platonica, la causa
ultima della caduta della tirannide 23). Nel corso degli
avvenimenti egli riconosce, al modo stesso in cui nelle
contemporanee Leggi va in traccia della « pedagogia»
di Dio nella storia, la guida della Tyche divina. Pla-
tone ne ritrova il segno altrettanto chiaro, volgendosi
a riguardare il suo passato, nella connessione, nell'in-
treccio della sua propria vita con la ·storia del suo
tempo. Solo per l'opera esclusiva della divina Tyche
poteva avverarsi il caso che il potente divenisse filo-
sofo o il filosofo potente. Questo aveva detto Pla-
tone già nella Repubblica.
.,E quando Dione mise in contatto Platone e Dio-
nisio parve che essa stessa venisse e porgesse la mano.
E fu ancora lei che condusse a tragica fine la cate-
na di cause ed effetti, quando il monarca non la
riconobbe e respinse da sé quella mano. Era facile
per gli uomini del senso comune concludere da ciò
che l'impresa di Dione - e indirettamente di Platone
che le aveva dato appoggio - era condannata a fal-
lire perché viziata da un difetto di psicologia, cioè
di percezione della fiacchezza, della nullità della media
natura umana. Ma Platone non la pensa così. Una
volta che, ad opera del suo insegnamento, una forza
come la personalità di Dione era stata messa in moto,
il fatto che il personaggio più debole, Dionisio, respin-
gesse questa occasione di assolvere il suo compito nel
senso più vero e alto, significava che egli semplicemente
rinnegava ogni suo istinto e qualità di reggitore.
29 ) Ep. VII 326 e: sull'interpretazione del passo v. « Deutsche

Literaturzeitung » 1924 p. 897.


1690 [m354] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Conforme a tutto ciò la parte di Platone in questo


dramma non appare già come azione spontanea;
egli si sente strumento di una potenza più alta. La
base filosofica di questo concetto dell'opera propria si
ritrova nelle Leggi. Là Platone torna più volte ad
affermare che l'uomo è un trastullo nelle mani di Dio,
una marionetta 24) da teatrino. Ciò nonostante recitar
bene non è cosi semplice; non sempre la passione e
gl'istinti umani seguono di buona voglia i fili mossi
da Dio. In fondo è questo il modo di vedere greco
primitivo sulla vita umana, che già nell'epos omerico
e nella tragedia non è mai presentata senza una scena
più alta, la scena dove agiscono gli dei. Fili invisibili
partono di là collegati con ciò che noi chiamiamo l'ac-
cadere. È il poeta che dappertutto li scorge a muo-
vere il giuoco 25). Nella Repubblica ancora sembrava
che uno iato profondo separasse il divino principio del
Tutto, il Bene, dalla vita propriamente umana. Ma
Platone viene sempre più interessandosi alla forma,
al compimento dell'azione di quel Divino nel regno
visibile, cioè nella storia, nella vita, nel concreto. Come
avviene nella sua teoria delle Idee, anche nella sua de-
scrizione del bios l'elemento metafisico prende a compe-
netrare sempre più il particolare sensibile. La lettera
è perciò importante anche per questo, che svela lo
sforzo di Platone di concepire il suo proprio vivere
e operare come una fonte della sua interpretazione
del mondo tutto. Questo elemento personale, sebbene
di proposito velato, si poteva intravedere già nella
Repubblica, quando la preservazione della« natura filo-
sofica», in un mondo corrotto e condannato, era con-
cepita come l'intervento salvatore di una divina Ty-

"') Cfr. p. 392.


25) Cfr. « Paideia » I 111-112.
CAP. IX! PLATONE E DIONISIO [m355J 1691

che 26). Solo partendo di qui s'intende pienamente come


nella Repubblica, nelle Leggi e nella Lettera VII,
anche l'incontro di potenza e d'intelletto (nelle figure
del reggitore e del saggio) sia interpretato come atto
individuale di questa provvidenza divina. Perciò l'im-
presa siciliana è messa in collegamento con la condi-
zione dell'uomo filosofico al tempo di Platone descritta
nella Repubblica. La sua importanza va molto al di là
del mero interesse biografico. Essa diventa immediata
esemplificazione della teoria della Repubblica, secondo
cui l'esperienza comune dell'inutilità del filosofo in
questo mondo è in verità dichiarazione di fallimento
del mondo stesso, non già testimonianza a carico
della filosofia.
Quando Dione invitò Platone a venire a Siracusa
gli propose per compito di tradurre in atto la filosofia
politica rivelata al mondo nella Repubblica, cogliendo
l'opportunità della situazione creatasi col cambiamento
di monarca. Vien fatto di pensare a quel che si chiama
« mutamento di sistema politico», ma Platone dice
espressamente nella Lettera VII, di non essere stato
chiamato come una specie di consigliere politico irre-
sponsabile, ma col fine e col ben definito c~mpito di
educare il giovane principe. E proprio questa formu·
!azione vale a mostrare come meglio non si potrebbe
quanto Dione avesse preso sul serio, di fronte alla
concreta realtà," la Repubblica platonica; giacché lo
stato perfetto in essa descritto da Platone altro non
era che l'attuazione della perfetta paideia. Poiché anche
per Dione, la persona del principe già esisteva ed era
Dionisio, questi doveva, invece di venir su attraverso
scelte successive dalla classe dei« guerrieri», venir pre-
parato, in ritardo, per un ufficio che in effetti già

26) Resp. 492 a; 492 e-493 a.


1692 [m356) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

esercitava. Era questa una limitazione forte delle condi·


zioni volute da Platone; un cominciar lopera invece
che dalla base, dalla sommità. Nelle lettere che scri·
veva a Platone Dione gli descriveva il principe come un
carattere ben dotato e « desideroso di una educazione
filosofica» 27). Ma riguardo a quella che nella Repub-
blica Platone indica come condizione essenzialissima
di una buona riuscita dell'opera educativa, cioè l'at·
mosfera, l'ambiente in cui questa si attua, la prognosi
non poteva essere che sfavorevole. Platone non lascia
dubbi di che idea si fosse fattà, al tempo del suo primo
soggiorno a Siracusa, dei costumi di là, dell'aria che
si respirava alla corte del tiranno, descrivendola con
vividi tratti proprio al principio della lettera quasi
esposizione in un dramma 28). E descrive poi anche il
suo timore di fronte al rischio dell'opera propostagli,
motivandolo con la sua esperienza di maestro che
gl'insegnava come i giovani siano, sì, facili a infiam-
marsi, ma mobili~ agitati da impulsi contrari 29). Egli
si rendeva conto che l'unico punto saldo su cui fon-
darsi in ogni momento era letà più matura, il carat·
tere meglio sperimentato di Dione. Ma un importante
motivo per accogliere l'invito stava per lui nel ricono-
scere che il rifiutarlo avrebbe voluto dire la rinunzia
radicale a realizzare quella sua teoria, che sempre egli
aveva presentato come fatta per la vita, per trasfor·
mare la vita dell'uomo. Fino a tale rinunzia non era
giunto neppure nella Repubblica, nonostante la riserva
con cui là aveva trattato la questione della possibilità di
attuare il suo pensiero. Ed ora egli arretrò di fronte a
questa conseguenza estrema e non volle confessare a
se stesso di non essere mosso da fede vera nel successo

27) Ep. VII 328 a.


H) Ep. VII 326 b.
U) Ep. VII 328 b.
CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [m357] 1693

della sua missione, ma piuttosto da vergogna di ap-


parire uomo «tutto parola» e niente azione (Àoyoç
µ6vov) 30). In fondo la risposta a questo problema,
se uscire o no dall'isolamento, c'era già nella Repub-
blica, nella rassegnazione che vi si esprime in modo
così schietto e avvincente; ed era: no 31). Ed ora Pla-
tone rischiava la sua fama nel tentativo di confutare,
con l'opera sua propria, questo anche troppo legit-
timo pessimismo. Lasciava, come dice lui stesso, la
sua occupazione di maestro in Atene,« assolutamente
degna di lui», e si offriva al vincolo di una tirannide,
che non era in alcun modo conveniente con le sue idee
di :filosofo 32). Ma così egli manteneva, come pensava,
puro il suo nome da ogni colpa contro Zeus ospitale e
infine anche contro la sua vocazione di filosofo, che
non gli consentiva di scegliere la via più comodà.
Il rapporto di Platone col tiranno è visto nella
Lettera VII tutto in questa luce, c!oè come di mae-
stro a scolaro. Egli appena arrivato trovò conferma
di tutti i suoi timori. L'opera dei detrattori di Dione
aveva già saputo creare una così pesante atmosfera
di insicurezza e di sfiducia, che anche la forte impres-
sione che Platone fece a Dionisio valse solo a rinfor-
zare la sua gelosia contro Dione 33). L'altro Dionisio,
il vecchio, aveva, con umano contegno, mostrato :fiducia
a Dione, ma aveva cercato di tenerlo lontano dal-
l'influenza di Platone e aveva rimandato il filosofo a
casa. Il figlio, più debole, dette credito alle insinua-
zioni di nemici e invidiosi di Dione, avidi di acquistarsi
favore e influenza, per i quali Dione voleva mettersi
avanti e prendere il posto del tiranno al coperto delle

SO) Ep. VII 328 c.


&1) Resp. 496 e-e.
8l!) Ep. VII 329 b.
83) Ep. VII 329 b s.
1694 [rn358] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

sue filosofiche idee di riforma: ·Platone non avrebbe


avuto altro compito che fare del principe lo strumento
dei piani di Dione. Poiché Dionisio non dubitava dei
sentimenti leali di Platone .e d'altronde lo lusingava
l'amicizia di lui, fece proprio il contrario di quel che
nello stesso caso aveva fatto suo padre: mandò in
esilio Dione e cercò di acquistarsi lamicizia di Pla-
tone. Tuttavia, come scrive Platone, quello che vera-
mente gli avrebbe assicurato questa amicizia, egli non
si decideva a farlo: imparare da Platone, divenire udi-
tore e scolaro dei suoi colloqui politici 34). E ciò perché i·
detrattori lo avevano riempito di paura, insinuandogli
che correva rischio di perdere di fronte a Platone l'indi-
pendenza interiore e « di trascurare, incantato dalla pai-
deia, i .suoi doveri di principe» 35). Platone aspettò
paziente lo svegliarsi di un più profondo impegno nel
suo 11colaro, ma « questi finì col vincere, con la sua
resistenza» 36). E cosi Platone se ne ritornò ad Atene,
ma dovette prima promettere che sarebbe ritornato,
non appena la guerra - che allora era scoppiata -
fosse finita. Da una rottura completa con Dionisio
egli si guardava, soprattutto a causa di Dione, sperando
sempre in un richiamo dell'amico dall'esilio. Ma il
disegno .suo e di Dione, di educare il tiranno, che fino
ad allora « non era stato partecipe di alcuna paideia,
di alcun contatto conveniente alla sua situazione» 37), di
farne « un re degno del potere» 38), questo disegno era
fallito.

"') Ep. VII 330 a-b. .


86) Ep. VII 333 c. Il passo si riferisce, certo, alle calunnie
di cui Platone fu fatto segno nel suo secondo viaggio alla corte
di Dionisio II; -ma, come si vede da 330 b, già al tempo del suo
primo soggiorno presso Dionisio il giovane si erano mossi contro
di lui gli stessi sospetti.
88) Ep. VII 330 h.
a•) Ep. VII 332 b.
"") ~P· VII 333 b.
CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [m359J 1695

Non è facile capire perché Platone, qualche anno


dopo il fallimento della sua prima missione, accettò
ancora una volta l'invito di Dionisio. Come motivi
egli adduce l'insistenza continua dei suoi amici sira-
cusani, ma specialmente quella dei Pitagorici dell'Italia
meridionale, del grande matematico Archita, reggitore
di Taranto, e dei suoi seguaci 39 )~ Fra costoro e Dio·
nisio, Platone, prima. di lasciar Siracusa, aveva fatto
stringere un'alleanza politica, che sarebbe stata messa
in pericolo, se ora rifiutava di partire 40). Dionisio
aveva mandato ad Atene un vascello da guerra, per
facilitargli il gravoso viaggio 41 ) e gli aveva promesso,
se accettava l'invito, il richiamo di Dione dall'esilio 42 ).
Ma per Platone fu decisivo quel che riferivano Archita
e i suoi amici alla corte di Dionisio sui progressi di
lui nella formazione spirituale 43). Spinto in parte dagli
scolari in patria, in parte attirato dagli amici di Sicilia
e d'Italia, Platone si risolse, non ostante la grave età,
a quel viaggio che doveva apportargli la più profonda
disillusione 44). Il racconto di Platone questa volta
sorvola sull'accoglienza che ebbe, sulla condizione poli-
tica che trovò in S_iracusa all'arrivo, e si occupa esclu-
sivamente della situazione che si trovò davanti come
educatore. Il tiranno nell'intervallo aveva avuto con·
tatto con ogni sorta di gente intelligente, ed era pieno
di pensieri sentiti dire da quelli 45 ). Da una continua·
zione di questa maniera di apprendimento Platone
non si riprometteva niente di buono. La sua esperienza

••) Ep. VII 339 d.


'") Ep. VII 328 d.
u) Ep. VII 339 a.
") Ep. VII 339 c. Dionisio aveva promesso (338 a), prima
della partenza di Platone dal suo soggiorno precedente, di ri-
chiamare Dione.
43) Ep. VII 339 b.
44 ) Ep. VII 339 d-e.

'") Ep. VII 340 b; cfr. 338 d.


1696 [rn360] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

gli dava come prova infallibile del buon volere di uno


scolato il chiarirgli bene tutta la difficoltà e fatica
del compito e stare a vedere l'effetto che su lui aveva
questo chiarimento 46 ). Uno spirito pieno di amore
vero per il sapere non è che rafforzato, dalla conoscenza
degli ostacoli, nel suo desiderio e impegna tutte le
sue forze, e quelle della sua guida spirituale, per co-
gliere la meta; i caratteri del tutto alieni dalla scienza
si spaventano della fatica e del rigoroso modo di vita
che loro si chiede, e sono incapaci a mettersi in cam-
mino. Fra questi vi sono alcuni che si figurano di aver
capito già tutto e di potersi risparmiare ulteriori fa-
tiche 47).
E di questi ultimi era proprio Dionisio, che si at~
teggiava a dotto e sfoggiava tutto quel che aveva preso
da altri, come se fosse stato suo vero possesso spiri-
tuale 48). Platone a questo punto riferisce che Dionisio
non si comportò altrimenti più tardi con quel che
imparò da lui, anzi ci scrisse sopra perfino un libro
in cui lo esponeva come sua personale dottrina. Il
particolare non è privo d'importanza perché fa intra-
vedere una certa ambizione intellettuale, l'ambizione,
però, del dilettante. E c'è anche una tradizione se-
condo cui il tiranno, vivendo dopo la perdita del trono
a Corinto, si mise là a dar lezioni. Platone, del resto,
non ha letto quello scritto, in cui si plagiava la sua
teoria, e ne parla. solo per sentito dire. Ma ne tra~
occasione per una dichiarazione sull'opera sua di scrit-
tore e sul rapporto di essa col suo pensiero, che dopo
quanto è detto nel Fedro 49 ) non è più troppo sorpren-
dente, ma rimane tuttavia osservabile per il modo

' 6 ) Ep. VII 340 c.


") Ep. VII 341 a.
' 8 ) Ep. VII 341 b.
••) Cfr. p. 338 ss.
CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [m361] 1697

singolare in cui è formulata. Non è caso, sicuramente,


che queste affermazioni dell'impossibilità di fissare in
una forma scritta soddisfa~ente quel che del suo pen·
siero è veramente l'essenza, si vadano moltiplicando
appunto negli ultimi anni di Platone. Se è vero quel
che egli dice nel Fedro, che la scrittura vale solo come
mezzo di rammemorare il già conosciuto ed è inabile
a comunicare un nuovo sapere, allora tutto quel che
Platone ha scritto ha per lui soltanto il significato
di un riflesso della sua attività orale di maestro. Ciò
deve valere specialmente per una forma di conoscenza,
che non viene, come altre specie di sapere, comuni·
cata con la mera parola, ma può scaturire solo da un
accrescersi graduale dell'anima stessa. Si tratta evi·
dentemente della conoscenza delle cose divine, dalle
quali, nella filosofia di Platone, tutto il resto deriva
certezza, alle quali tutto il resto tende. Platone tocca
qui le questioni supreme, dalla cui soluzione dipende
l'intera sua dottrina e azione e la sua concezione del
valore della educazione. Su quella suprema certezza
che sta a base del suo pensiero e gli dà fermezza non
esiste, egli dice, niente di scritto di sua mano e non
ci sarà mai 50). La teologia di Aristotele è, almeno
nella concezione, cosa didattica; una disciplina, la più
alta, tra altre discipline. Platone ritiene, certo, pos-
sibile e necessario procurare, mercé il cammino gra-
duale del sapere descritto nella Repubblica come paideia
filosofica, la catarsi dello spirito dagli elementi sen-
sibili che gli si apprendono e guidarlo più su, più vicino
all'incondizionato. Ma questo processo è di lunga du-
rata e può portare alla meta soltanto dopo molta
consuetudine e contatto dialettico (7toÀÀ"Ìj auvoucr(oc)
sulla materia stessa, in una specie di filosofica comu·

50 J Ep. VII 341 c.


1698 [rn362] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nità di vita. E a questo punto Platone ricorre all'im-


magine della scintilla che accende finalmente e fa
divampare il fuoco nell'anima di colui che ha percorso
tutto questo cammino 111). La conoscenza, della cui luce
egli risplende, è atto creativo: di esso solo pochi uomini
sono capaci, e questi pochi solo per forza propria e
con poco avviamento da parte altrui.
Questo graduale processo dal sensibile alla . cono-
scenza dell'essere è la materia della cosiddetta digres·
sione filosofica* della Lettera VII, immediatamente
seguente alla parte dedicata all'educazione del tiranno,
che si svolge tutta su un esempio di conoscenza mate-
matica, la conoscenza del cerchio 52). t un punto dif.
ficile, parecchie volte commentato e discusso negij
ultimi tempi, che conserverà sempre certe oscurità.
In esso culmina tutta l'esposizione, sempre tenutasi a
livello altissimo, sull'essenza dell'educazione plato-
nica e sulla natura dell'apprendere, come il filosofo
la intende 53). Conoscenza, in questo senso, si rivela
qui come affinità di natura con l'oggetto, qui umano

•1) Ep. VII 341 d; cfr. 344 b.


*) [Così la chiama il Pasquali nel libro Le lettere di Platone.
N.d.T.].
•2) Ep. VII 342 b.
68) Si veda J. STENZEL, Sokrates, 1921, p. 63 e Plato der Er·
zieher, p. 311; Wn.AMOWITZ, Platon, II, p. 292. Lo Stenzel mo-
stra molto bene che Platone qui si ferma a descrivere minuta·
mente il vano tentativo .di Dionisio, d'intendere « per intuizione
geniale» tutta insieme la filosofi.a platonica senza affrontare la
faticosa via del lavoro dialettico sul particolare, perché ciò gli
serve a chiarire, con l'esempio di lui, la natura della vera paideia.
È stato detto più volte che la digressione teoretica non ha a che
fare con la relazione su questi importanti avvenimenti politici.
Altri stu.diosi hanno voluto dimostrare che si tratta di un'in-
terpolazione, e ciò per « salvare» l'autenticità del tutto. Tutti
costoro, però, non hanno c.apito che il caso di Dionisio è trattato
da Platone nella Lettera VII come un problema della paideia,
e non come un dramma eccitante in cui egli reciti una parte.
Questi studiosi hanno manifestamente sottovalutato il senso e
la stima che Platone aveva di sé.
CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [m363J l699

e divino appaiono nel punto della loro massima ap-


prossimazione. Ma quella visione, che è lo scopo della
« assimilazione a Dio» 54), rimane per Platone arrheton,
cosa iridicibile 55). Similmente già il Simposio aveva
descritto l'ascesa dell'anima alla visione del Bello eterno,
come mistagogia 56), e il Timeo dice: difficile è trovare
il creatore e padre di questo tutto e, trovatolo, è im-
possibile esprimere alla gente la sua natura 57). Se Dio-
nisio avesse capito Platone, la sua conoscenza gli sa-
rebbe stata sacra cosi come lo era per Platone 58 ). Il
pubblicarla fu atto di profanazione a cui lo spinse 'Una
ambizione meschiria, sia che egli volesse far passare
per suoi quei pensieri, sia che si facesse bello di parte-
cipare di una paideia di cui non era degno 69 ). Dagli
accenni della Lettera VII è chiaro che l'educazione
del principe, che Platone concepiva per Dionisio, non
era una mera dottrina tecnica sugli affari di stato;
essa mirava al mutamento di tutto l'uomo e della
sua vita, e la conoscenza su cui si fondava altra non
era se non quella del paradigma supremo, posto da
Platone nella Repubblica come norma e misura del
reggitore, la conoscenza. del Bene divino 60). Ed era
la stessa an~he la via: quella della matematica e dia-
lettica. Non sembra che nelle conversazioni col tiranno
Platone sia andato più iri là di una semplice delimi-
tazione dei contorni di una tale paideia, ma appare
evidente che egli era determinato a non lasciar cadere
alcuna delle sue rigorose esigenze. Per la meta del-
1' arte regale non c'è via da re. Il tiranno dimostrò,

") Cfr. « Paideia» II 497-499 •


..) Ep. VII "341 c.
") Cfr. « Paideia » II 329-330.
57 ) Tim. 28 c.
58) Ep. VII 344 d.
••) Ep. VII 344 c.
10) Resp. 500 e.
1700 [m364] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

col suo atteggiamento su ciò che aveva udito da Pla-


tone, che il suo spirito era inetto a penetrare in quelle
profondità dove albergano le vere radici dell'ufficio che
invano tentava esercitare.
L'ultima parte della lettera, di vivo accento dram-
matico, narra la rottura di Platone con Dionisio e gli
atti violenti del tiranno che ad essa condussero. Sono
scene che creano un contrasto d'asprezza impressio-
nante col quadro della paideia platonica, al centro
dello scritto. Già nel Gorgia Platone aveva contrap-
posto la sua filosofi.a della paideia con la filosofia della
violenza 81). Il patrimonio di Dione, del quale egli era
fin allora vissuto in terra straniera senza trasferirlo
dal regno di Dionisio, viene ora confiscato, il richiamo
promesso, negato. Platone che per un certo tempo
era vissuto prigioniero nel palazzo del monarca, ta-
gliato fuori da ogni contatto esterno, viene infine por-
tato nella caserma della guardia del corpo, fra soldati
ostili che lo minacciano di morte. Finalmente Archita
di Taranto, segretamente informato, riesce a ottenere
il consenso del tiranno al ritorno in patria di Platone.
Questi, durante il viaggio, s'incontra alle feste Olim-
piche con Dione e ascolta da lui i suoi piani di vendetta,
ma rifiuta di partecipare alla loro organizzazione 82). In
un altro punto della lettera egli definisce il vQJ.colo
suo con Dione come « comunione di una libera paideia »
(sÀroSipocç 1t0c:t~e(oo; xotvCùvfoc:) 83). Ma una tale co-
munione non gli faceva dovere di seguire l'amico sulla
via della violenza. Era solo disposto, e a questo si offrl,
ad agire per la riconciliazione di Dione e Dionisio 64).
Ma non proibì a Dione di cercarsi partigiani fra i suoi

81 ) Cfr. « Paideia » II 224-225.


"") Ep. VII 334 h s.
63 ) Ep. VII 334 h.

"') Ep. VII 350 d.


CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [III 365] 1701

scolari, e alcuni cli essi entrarono volontari nel suo eser-


cito della liberazione. Ma anche se è vero che difficil-
mente il rovesciamento della tirannide a Siracusa sa-
rebbe riuscito senza l'attivo appoggio dell'Accademia,
pure Platone considerò come una tragedia questo svi-
luppo dei fatti e rivolse ai due protagonisti, dopo la
caduta di entrambi, la parola di Solone a:ù-rot a:tnot
(son loro la causa della propria rovina) 65).
In verità il dramma siciliano fu tragedia non solo
per i due membri della famiglia principesca siracu-
sana, che ne furono vittime, ma in certo senso anche
per Platone che pure, a guardare in superficie, rimase
fuori dalla catastrofe. Nonostante i suoi dubbi sulla
possibilità del tentativo, egli aveva posto ogni sua
forza in questo compito, e lo aveva con ciò fatto suo.
È stato detto che l'errore di Platone nasceva da un'as-
soluta mancanza d'intelligenza delle« condizioni» della
vita e dell'azione politica, che era cioè, radicato nella
natura stessa dell'ideale politico di lui. Già isocrate
parlò irridendo, nel Filippo, di quella gente che scrive
«Repubbliche» e «Leggi», che poi nella vita reale sono
inservibili 66). Questo, Isocrate scriveva nel 346, cioè su-
bito dopo la morte di Platone, e poteva credere con ciò
di aver detto l'ultima parola su tutto l'affaticarsi pla-
tonico sul problema dello stato. E per conto suo egli è
particolarmente fiero di poter dire che le sue idee,
benché anch'esse superino di molto i limiti della poli-
tica spicciola, son pure applicabili e fruttuose nella
realtà. Ma una tale critica non tocca in verità Pla-
tone. Tra il suo stato perfetto e la realtà politica è
scavato uno iato profondo e radicale, ma il filosofo è
ben consapevole di questo e v'insiste con ogni forza 67).

65) Ep. VII 350 d (alla fine).


88) Isocr. Phil. 12.
•1) V. specialmente Resp. 501 a.
1702 [!I1366] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Solo una specie di miracolo potrebbe congiungere


questa sapienza con la potenza terrena. Il fallimento
del tentativo siciliano, a cui si era accinto con animo
cosi perplesso, dové certo indurlo a disperare della
possibilità di veder realizzato durante la sua vita, o
addirittura mai, il suo ideale. Ma ciò non cambiava
niente in questo ideale, che rimaneva per lui la mi-
sura assoluta. È idea aberrante immaginarsi che un
Platone avrebbe dovuto, con un po' più di« psicologia
delle masse» o di duttilità cortigiana rendere accetta-
bile quella che era per lui la cosa suprema e più sacra
a un mondo che era per lui quello che il malato grave
è per il medico. Politico in questo senso non era certo
il suo interesse pe:r lo stato. Ciò è stato posto al di sopra
di ogni dubbio dalla nostra analisi della struttura spi-
rituale della Repubblica e del suo concetto dell'uomo
politico. Per ciò la catastrofe siracusana non venne a
distruggere il sogno di una vita o la « menzogna» di
una vita, come si è pur chiamata l'attività filosofico-
politica di Platone, la sua esigenza del governo della
filosofia.
La rinunzia all'intervento attivo nella vita poli-
tica fu in Platone, come si è visto, già anteriore al
momento in cui cominciò a scrivere: è già espressa
chiarissimamente nell'Apologia. Là egli si riferiva prima
di tutto ancora ad Atene. Ma se anche Dione, quando
lo conobbe, può aver tentato di persuaderlo in linea
teorica che realizzar le sue idee sarebbe stato più
facile in uno stato retto da un signore assoluto, sembra
tuttavia che Io scetticismo di Platone rispetto al pro-
blema di questa attuazione pratica sia rimasto im-
mutato, come dimostra il suo atteggiamento nella Re-
pubblica. E se poi egli, spinto dall'ottimismo di sco-
lari e amici, di Dione soprattutto, si decise alla fine
ad abbandonare le sue resistenze, è ben difficile che
CAP. IX: PLATONE E DIONISIO [rn367] 1703

l'insuccesso, da lui predetto, lo abbia fatto deflettere


dai suoi concetti sulla comunità umana e sulla posizione
centrale, in essa, della paideia. Ma è pur vero che l'espe-
rienza siracusana fu tragedia anche per lui. Fu un
colpo per la sua paideia, non certo come confutazione
in sede di verità filosofica, ma perché la sua arte di
educatore era stata applicata fuor di luogo e di pro-
posito: colpevoli di ciò, prima di tutto, i suoi amici,
che si erano assunta la responsabilità di spingerlo a
una tale prova 68). Non è però verosimile che Dione,
certo direttamente interessato all'intervento di Platone
nella situazione politica siracusana, lo abbia gettato
in questa avventura per motivi di bassa lega egoistica.
Quella conoscenza che Platone aveva degli uomini,
che gli aveva fatto valutare giustamente il carattere
del tiranno, non poteva fallire cosi miseramente nel-
!' apprezzamento dell'amico che gli fu cosi vicino.
Sicché la differenza di contegno dei due uomini,
in questo episodio, si riporta soltanto a un'altra più
profonda differenza che bisogna nettamente segnare:
il divario, cioè, tra la rassegnazione eroica di Platone
sorretta da un intuito infallibile, e l'idealismo puro ed
entusiastico, ma poco profondo e credulo di Dione.
E che Platone nella Lettera VII, nonostante il suo
esplicito accordo con Dione nel fine, la creazione cioè
di un regime costituzionale in Siracusa, abbia voluto
differenziarsi da lui in questo senso, e in questo defi-
nirsi, è cosa di cui il lettore attento non può dubitare.
La rivoluzione come mezzo politico è da Platone radi-
calmente esclusa 69 ). Ma dopo una tale esperienza, egli

88 ) Ep. VII 350 c. Platone usa un'espressione molto forte a


proposito della pressione morale che Dione aveva esercitato su
lui, per indurlo a venire a Siracusa. La chiama« violenza, in certo
modo» (~l q: ·rn1à: 't"p01tOV).
8 9) Ep. 331 b-d.
1704 [III 368] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

avrà creduto anche meno di prima alla prossima at-


tuazione del suo ideale, anche per vie legali. Una co-
scienza cristiana coglierà un solo punto di onesto errore
in questo contegno di Platone; nell'aver· cercato in
questo mondo quel regno dello spirito, che egli voleva
edificare. Questo suo mettere a punto e correggere,
con la lettera, gli erronei giudizi correnti tra il pub-
blico sugli eventi siciliani e sulla parte che egli vi
aveva assunto, nasce da un atteggiamento di intima
superiorità, al cui accento non è facile ad alcuno sot-
trarsi. Poiché vi si esprime la sua conquistata fortezza
d'animo che gli rende possibile di impersonare in se
stesso, altamente, il divino equilibrio che pur si afferma
in ogni groviglio di eventi mondani. Non si può fare
a meno di paragonare questo documento personale
con l'autogiustifìcazione d'Isocrate, nella Antidosi.
È, certo, un importante segno dell'età, che tutti e due
questi uomini siano dovuti alla fine scendere in pub-
blico a parlare di sé, del loro proposito, del loro destino.
E non è, per l'autenticità della Lettera VII, prova
di scarso valore il fatto che essa faccia sentire, con evi-
denza schiacciante, la misura più alta della persona-
lità da cui promana.
CAPITOLO DECIMO

LE LEGGI
IL LEGISLATORE COME EDUCATORE

L'opera platonica dell'ultima vecchiaia, e pubbli-


cata post\lma, le Leggi, ha trovato, già nella tarda anti-
chità, pochi lettori, e, si può dire,. non ha avuto com-
mentatori. Un uomo di formazione dotta come Plu-
tarco si vanta di appartenere alla piccola schiera di
quelli che le hanno lette 1 ), e in età bizantina la conser-
vazione dell'opera, come mostra il fatto che tutti i
nostri manoscritti derivano da un unico esemplare,
è stata poco più che un caso 2 ). Ancora nel sec. XIX,
di quest'opera non si sapeva propriamente cosa fare
e Eduard Zeller, lo storico principe della filosofia in
quell'epoca, arrivò perfino in un· lavoro giovanile a
dichiararla non platonica 3 ). Più tardi, nella trattazione
di Platone nella sua Storia della filosofia greca, egli
esamina le Leggi in un'appendice 4), il che significa
che pur riconoscendole ora autentiche, non riesce però
neppure ora a inserirle nel quadro complessivo della
filosofia platonica risultante dagli altri dialoghi. Poiché

1) i;:iut. ~e Alex. fomma 328 e: -roùi;.••• IT:M-r6>vo.; ò).(yo~


v6µoui; a.va:ytv6>axoµe:v.
") Sulla t:radizione manoscritta delle Leggi, v. L. A. PosT,
The Vatican Plato and its Rela:ions (Middletown 1934).
") EDUABD ZELLER, Platonische Studien (Tiihingen 1839),
p. 117.
') Philosophie der Griechen, Il", p. 805.
1706 [rn370] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

le Leggi costituiscono da sole più di un quinto dell'in-


tera produzione platonica e sono, di molto, la sua
opera più ampia, ci si può fare un'idea da questo stato
di cose, di quanto poco, ancora fino ai nostri giorni, si
sia tentato di raggiungere un'intelligenza, di reale fe.
deltà storica, della filosofia platonica 5 ). Di essa ci si
costruisce di solito un quadro conforme a un'idea
preconcetta di quel che sia filosofia. E cosi le Leggi, che
non contengono né logica né ontologia, son trattate
dai :filosofi come cosa secon daria. Ma cosà essenziale,
invece, era per Platone il loro contenuto, che consiste
in trattazioni a fondo su stato e leggi, costume e ci-
viltà. Le quali cose sono tutte suhordìnate da Platone
al punto di vista della paideia. In una storia, dunque,
della paideia greca le Leggi sono, in ogni modo, uno
dei pilastri fondamentali. Paideia è l'ultima parola di
Platone, come era stata la prima.

Come la Repubblica, in cui culmina la prima sezione


dell'opera dello scrittore, così le Leggi sono una tratta·
zione d'insieme di tutto il bios umano; ma appunto
questo è notevole, che il :filosofo abbia sentito, compiuta
la prima opera, l'esigenza di dare ancora una volta
in altra forma un tal quadro, di porre un altro stato
accanto allo stato perfetto della sua Politeia. Questo,
come è detto neUe Leggi, era uno stato fatto solo per
dei o figli di dei 6). Nel suo stato ideale Platone aveva

6 ) Varie opere moderne su Platone, come quelle di U. v.

Wilamowitz, P. Si..orey, A. E. Taylor, E. Barker, P. Friedlander,


si addentrano, è yero, nel contenuto delle Leggi. Ma l'opera, se
si vuol renderle giustizia, deve esser considerata da molti punti
di vista. J. STENZEL, nel suo Platon der Erzieher (Lipsia 1928),
non la include nella trattazione. Ed è un segno importante, que·
sto, di quanto si faccia ancora sentire la vecchia tradizione di
non tener conto delle Leggi.
6 ) Legg. 739 d, dove lo stato delle ~ggi è detto il secondo

dopo lo stato perfetto, cioè quello che più si accosta all'immor-


talità, al divino e perfetto, ma non Io raggiunge del tutto. E anche
CAP. X: LE LEGGI [111371] 1707

rifiutato di dar posto a una legislazione speciale. Colà


le leggi, di cui erano sovraccarichi la maggior parte
degli stati del suo tempo, dovevano esser rese super-
flue dalla perfezione educativa su cui si fondava lo
stato ottimo 7). Anche nel Politico l'atteggiamento pla-
tonico di fronte all'alto pregio dato tradizionalmente
dai Greci al nomos è critico: il perfetto monarca sarà
sempre da preferire alla più perfetta legislazione, perché
la legge irrigidita nella scrittura non si può adattare
con sufficiente prontezza al mutar delle situazioni e
non permette perciò di fare nel necessario momento
quel che è veramente necessario 8). Ora, che la più
tarda delle opere politiche pia toniche porti il titolo
Nomoi e pretenda regolare ogni particolare della vita
del cittadino, basta a render chiara la mutazione del
criterio 9 ). La quale non meno si rivela nella sempre
maggior considerazione accordata all'esperienza. Nel
campo etico e pedagogico questo nuovo atteggiamento
si manifesta in quanto l'interesse per la pura cono-
scenza della norma cede a quello per storia e psico-

nn « terzo» stato ha in mente Platone (739 e), e anche questo


descriverà, « se Dio vorrà». Ma egli non arrivò ad eseguire que-
st'ultimo proposito. Da quel che dice qui è chiaro che l'esistenza
delle Leggi accanto alla Repubblica non significa affatto per Pla-
tone l'abbandono dell'antico ideale di stato. Esso rimane, al
contrario, assolutamente valido anche per le Leggi, almeno in
quanto si tratta del principio fondamentale: che lo stato ottimo
è quello che ha in sé il grado massimo di unità. A questo limite
lo stato delle Leggi deve cercare di avvicinarsi tanto quanto lo
consente l'attuale basso livello della paideia (qui « cultura e ci-
viltà»). Cfr. 740 a. La differenza tra le due opere politiche non
sta dunque nell'ideale filosofico, ma nel diverso grado di paideia
che esse presuppongono,
') Resp. 425 a-c.
1 ) Polit. 294 a-297 c.
") Non il fine in sé è mutato, ma il criterio di misura nella rea-
lizzazione del fine. Cfr. la n. 6. Le leggi sono necessarie per il basso
grado di paideia che è supposto in quest'opera; per quello che
era supposto nella Repubblica non ce n'era bisogno.
1708 [III 372] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

logia 16 ). Al centro della Repubblica stava la teoria


delle Idee e l'idea del Bene. Nelle Leggi questa teoria
è appena menzionata in breve alla fine e dichiarata
necessaria come contenuto della formazione dei reggi-
tori 11), ma il problema di come debba configurarsi
questa suprema educazione, quel problema che era
nella Repubblica al centro dell'attenzione e si prendeva
il più ampio spazio, fa posto nelle Leggi alla questione
dell'educazione di strati più larghi, inclusa l'educazione
elementare. Colui che fu il segretario di Platone, e in
certo modo il suo Eckermann, Filippo . di Opunte,
che dopo la morte del maestro pubblicò le Leggi, dal-
l'incompiuto cumulo di tavolette cerate, e le divise in
dodici libri, cercò di colmare la lacuna risultante dalla
mancanza della educazione dei reggitori, determinando
più precisamente quella speciale sapienza che per essi
deve essere richiesta. E stese l'esposizione di questi con-
cetti in quella trattazione che ora noi leggiamo col
titolo di Epinomis, cioè« appendice alle Leggi» 12). Di
10) Si potrebbe obbiettare che non si tratta affatto di un
nuovo atteggiamento cli Platone, ma che solo il suo punto cli
vista è mutato. Ma appunto il fatto che Platone dia ora così grande
importanza a questo punto di vista, prima da lui quasi trascu-
rato, rivela un mutamento reale del suo· atteggiamento :filosofico.
11 ) L'educazione più rigorosa ( &xp i~e:adpoc 7tOC i 8eloc) a cui
in Legg. 965 b si accenna, come esigenza per la formazione dei
reggitori, è caratterizzata senza possibilità cli dubbio in 965 c
come la dialettica dell'idea nella molteplicità delle apparenze.
12) V. Diog. L. III 37; Suda s. v. qaMaocpoç. La tradizione
che attribuisce la composizione dell' Epinomis a Filippo non è
da separare dalla notizia secondo la quale egli pubblicò le Leggi
dalle tavolette lasciate da Platone e si addossò la divisione del-
l'opera imponente in dodici libri. E questa tradizione nel suo
complesso deve risalire a un'ottima fonte antica, verisìmilmente
fino all'antica Accademia. Lo stile dell' Epinomis la conferma
pienamente. A. E. TAYLOR (Flato and the Authorship of the Epi-
nomis « Proceed. Brit. Acad. » voL XV) e H. RAEDER (Platons
Epinomis, « Danske Videnskah. Selskab » Hist.-Phil. Medd. 26,
I) hanno recentemente ripreso la tesi dell'autenticità cli questo
dialogo, nell'intenzione cli rivendicare a Platone il contenuto
matematico di esso. Questo contenuto però conviene molto meglio
a Filippo di Opunte, il dotto matematico e astronomo dell' Ac-
CAP. X: LE LEGGI [m373J l709

fronte a un lavoro scritto per incarico ufficiale dell'Ac-


cademia, che dové affidarlo a Filippo come al miglior
conoscitore delle carte lasciate da Platone e dei suoi
ultimi piani di lavoro, non sarà il caso di parlare di
un falso. Piuttosto si tratta di un completamento
dell'opera; la quale, dunque, a giudizio della scuola
platonica, era rimasta incompiuta.
Un'opera gigantesca come le Leggi non può es-
sere oggetto, in questa sede, di una trattazione uni-
forme e adeguata a tutte le sue parti. È difficile perfino
segnarne anche solo i principali contorni, come si è
fatto per la Repubblica, poiché la composizione del-
!' opera, la sua unità, sono difficilissimo problema, e
d'altra parte la sua attrattiva principale sta nell'ori-
ginale maniera in cui una quantità di questioni im-
portanti son qui affrontate dal vecchio Platone, in
modo del tutto nuovo. Difficile anche dire, in termini
gènerali, in che relazioni stiano le Leggi con la Repub-
blica, sebbene questo punto sia stato affrontato più
volte. Si dirà per es. che la Repubblica rappresenta,
secondo la misura dialettica, il piano dell'Idea, della
verità fondata nell'essere, mentre le Leggi stanno sul
piano della pura opinione. E Platone, del resto, non dà
dell'enigma altra soluzione che questa 13). Da un punto
di vista di storia della filosofia, le Leggi si accostano
di più, per molti rispetti, al metodo di Aristotele. Pla-
tone vecchio cerca di compenetrare dei suoi principii
una materia sempre più vasta, laddove nei primi anni
aveva reso il più possibile profondo lo iato tra Idea e

cademia. V. in proposito F. MuLLER, Stilistische Uniersuchung


der Epinomis (Berlino 1927) e (dello stesso)« Gnomon» XVI (1940)
289; inoltre W. THEILER in« Gnomon» VII (1931) 337 e B.
EINARSON, « Am. Jour. of Philol. » LXI (1940). Una mia ricerca
sull'Epinomis, che ebbe il premio dell'Accademia di Berlino nel
1913, è rimasta inedita.
13) Cfr. la n. 6.
1710 [ru 374] LIBRO IV· IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

fenomeno. Le discussioni sull'educazione occupano un


largo spazio nelle Leggi: i due primi libri e il settimo
si occupano esclusivamente di questo tema. Ma non
solo in questo consiste l'importanza dell'opera nei ri-
spetti della paideia. Nel senso di Platone, essa è in-
teramente dedicata a edificare un'imponente sistema
educativo. La relazione che essa ha col problema della
paideia è espressa essenzialmente, nel modo più chiaro,
in un luogo del nono libro, che del resto riprende e
varia un motivo che già compare nel quarto 14). t; que-
sto il paragone del cattivo legislatore col medico di
schiavi, che passa in fretta da un malato ali' altro e,
senza addurre ragioni, senza fare esami esaurienti,
prescrive, brusco e autoritario, secondo quello che sa.
e che è abituato a fare per tradizione altrui o per
propria esperienza. Paragonato con lui, il medico che
cura liberi cittadini fa la figura di una specie di filosofo.
Egli si mette a parlare col malato come con uno
scolaro, che debba essere condotto a rendersi conto
della causa di un fenomeno. Il medico di schiavi non
capirebbe questa specie di minuzioso ammaestramento
e direbbe al suo collega, se assistesse alle sue visite:
ma tu non curi il tuo paziente, lo istruisci, come se
tu volessi farne un medico e non un sano 15).
Tutti i legislatori attuali sono al livello del me-
dico di schiavi. Non sono veri medici perché non
sono educatori. E questo invece è lo scopo di Platone
nelle Leggi: essere legislatore nel senso più alto; il che
significa: essere l'educatore dei cittadini. La differenza
tra questo modo di concepire il suo compito e quello
degli usuali legislatori si manifesta nel poco valore
che egli dà a prescrizioni di leggi, come le consuete,

14) Legg. 720 a s; 957 d-e.


15) Cfr. supra, p. 21 s. Legg. 857 d: oùx lcc-rpe:u1rn; -ròv vo-
aoiiv-rcc, d:ÀÀÒ: <JXE:8Òv 7'C.CL8e:UE:L<;.
cAP. X: LE LEGGI [111375] 1711

nelle quali ci si limita a stabilire una certa misura di


pena per certi fatti. In questo caso l'attività del legi-
slatore interviene troppo tardi, giacché il suo compito
più importante non è di vendicare azioni che si siano
prodotte contro il diritto, ma di vegliare a che tali
azioni non si producano. Qui Platone si conforma al-
i' esempio della scienza medica e alla tendenza; che al-
lora appunto in essa si affermava, di considerare non
il malato, ma il sano, come il vero oggetto delle pro-
prie cure. A ciò corrispondeva la maggiore, anzi pre-
valente importanza che si dava in medicina alla die-
tetica, che era larte di mantener gli uomini sani, pre-
scrivendo loro un giusto regime di vita. Infatti per
K dieta» la medicina greca intende non solo quel che

s'intende oggi, il menu dei malati, ma in generale il


metodo di vita di ogni uomo sano. Si è, d'altra parte,
mostrato nelle pagine precedenti che in questo cre-
scente interesse dei medici greci per la dietetica, è
·lecito scorgere l'influenza del pensiero educativo sulla
medicina 16). Il proposito di Platone, nei suoi Nomoi, è
di trarre le conclusioni dal parallelismo posto già nel
Gorgia fra cura del corpo e cura dell'anima 17), azione
medica e azione politica, e di condurre alla vittoria
l'idea della paideia nel campo della legislazione. Se
nella Repubblica egli aveva mirato, mercé la perfe-
zione dell'educazione, a rendere superflua ogni opera
legislativa 18), in quest'altra opera egli parte invece
dall'assunto che normalmente le leggi sono indispen-
sabili alla vita dello stato. Pertanto, cerca ora di sot-
toporre al principio educativo la stessa legislazione e
di farsene strumento, a quel modo che nella Repub-

1 8) Cfr. supra. p. 52 s.
11 ) Gr. « Paiclt•ia » Il 219-220.
1 ") Cfr. la n. 7.
1712 [ur376) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

blica aveva fatto dello stato, nella sua totalità, un'isti·


tuzione educativa.
Mezzo che gli pare opportuno a questo fine sono
i proemi delle leggi, e a fissare dei proemi il con-
cetto, a elahorarli nei particolari egli dedica specia-
lissima cura. Punto di partenza, quel passo del quarto
libro in cui si distinguono le formulazioni persuasorie
e le formulazioni imperative del legislatore 19). L'ufficio
della parte persuasoria, che ha il suo luogo nei proemi,
è visto da Platone nello stabilire e motivare la norma
del retto agire 20 ). Questa parte deve essere assai dif-
fusa e non destinata solo all'uso del giudice, ma rivol-
gersi a tutti i cittadini. Già Protagora il sofista, nel
dialogo platonico a lui intitolato, esprime l'idea che
quando una generazione di giovani, lasciata la scuola,
entra nella vita, comincia per lei. una nuova fase di
educazione; e il maestro, ormai, 'per ogni momento
dell'azione pratica è la legge dello stato 21 ). La legge
cioè è la vera depositaria di ogni possibilità educativa
dell'adulto ·verso la virtù civica. Protagora non pensa
con ciò di dir nulla di nuovo; non fa che descrivere
la condizione di fatto di ogni polis greca. Questa con-
dizione Platone accetta come un dato, soltanto pro-
ponendosi di tenere esplicito conto di questo valore
della legge come educatrice mediante una riforma dello
stile legislativo. Conforme alla concezione grandiosa
che egli ha dell'opera propria fin da principio, come
di un'opera tutta di educatore, egli fa della sua filo-
sofia il punto di raccolta di tutte le forze positivamente

19 ) Legg. 718 b.
20 ) Si veda tutta la particolareggiata esposizione di Platone
nelle Leggi, alla fine del libro IV (718 d ss.), specialmente il pa-
ragone del legislatore col medico, 719 e s.; sul concetto di proe·
mio in generale v. 722 d s.; tutte le leggi debbono avere proemi:
722 b.
11 ) Prot. 3 26 c.
CAP. X: LE LEGGI [rn377] 1713

educatrici, e come prima aveva inserito in questo suo


edificio la dialettica socra.tica, Eros, il simposio, lo
stato, così ora alla fine della sua vita ci si presenta
nella parte del legislatore, come l'ultimo di quella
grande serie di figure storiche a cui appartengono Li-
curgo e Solone, e, in una lingua di solenne sapore an·
tico, foggiata a questo fine, bandisce le sue massime 22),
Per il modo greco di pensare, la legislazione in senso
schietto è sempre stata creazione della superiore sa·
pienza di una singola personalità divina. Cosi, anche
la suprema « virtù» filosofica dello stato platonico,
Sophia, appare e si rivela alla fine nella proclamazione
di leggi, e trova in questo compito quella posizione
attiva nella vita dell'umana comunità, dalla quale sem-
brava in principio che gli uomini a lei devoti fossero
esclusi. Il filosofo diventa legislatore. Egli riproduce
quasi in tutto le fattezze di quei grandi antichi, dei
primi legislatori greci; unica differenza è che egli eleva
consapevolmente a principio formatore quello che nel-
l'opera loro era contenuto potenziale: il concetto, cioè,
che il legislatore sia la forma primaria dell'educatore.
Come tale appare già nel Simposio, dove Platone pone
il legislatore, per questo rispetto, accanto al poeta 23),
come del resto fanno anche altri scrittori greci. Perché
il filosofare di Platone fu dal principio alla fine opera
di educazione, e perché egli penetrò questo ·concetto
nel suo significato più profondo, egli doveva termi-
nar la sua opera come legislatore.

12 ) Platone stesso dà indicazioni d'ogni genere perché s'in·


tenda la qualità del suo stile, nel suo procedere lento e solenne,
spesso intricato. Il tipo di lettore che gli è più odioso è quello
df."gli ignoranti (&µo:.&cdvo11-re:ç) sicuri di sé, riconoscibili alla
rapidità del « tempo» psichico (-r&zoç -r'ìjç <Jiux'ìjç): gli intellettuali
(Legg. 68.9 c-d. Cfr. anche Resp. 500 b). Platone nelle Leggi segna il
suo distacco da questo tipo di cultura in tutto, a cominciare dalla
lingua che usa. Sul carattere poetico della lingua, v. infra, p. 452 s.
13) Cfr. « Paideia » Il 328-329.
1714 [rn378] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Spirito delle leggi e vera educazione. - Come la Re-


pubblica comincia col problema generale della giustizia,
così nei Nomoi Platone parte dallo spirito delle leggi.
il quale in un vero stato compenetra del suo ethos ogni
singolo elemento. In questo concetto platonico del-
l'« ethos delle leggi» si affondano ie origini del saggio
famoso di Montesquieu, L'esprit des lois, che ha avuto
così notevoli conseguenze per lo svolgimento della vita
politica moderna. Per rappresentare questo suo concetto
di anima dello stato, Platone sceglie un particolare
tipo di vita politica, che gli si era imposto fin da prin-
cipio all'attenzione, lo stato dorico. Introduce quindi
come interlocutori del dialogo due rappresentanti di
questa stirpe greca, uno spartano e uno cretese. Ed è
questo un tocco felice, non solo perché si tratta di un
esempio adatto a mostrar l'influenza di un robusto e
ben caratterizzato costume politico sui particolari mi-
nuti della legislazione, ma anche perché con ciò è subito
messo in discussione il problema filosofico, quale sia
lo stato migliore. Giacché per la teoria politica del
tempo, Creta e Sparta passavano generalmente per gli
stati meglio ordinati della Grecia 24). Però come terzo,
e principale, interlocutore Platone pone accanto ai due
tipici Dori, gemelli spirituali, lo « straniero ateniese»,
una personalità di riposta, sovrana superio:dtà, come
i due Dori spontaneamente riconoscono, nonostante la
loro pronunziata avversione per l'ateniese medio. In-
fatti, dice Meglio, lo spartano, con ferma convinzione,
quando un ateniese eccezionalmente è buono, è per lo
più veramente qualcosa di straordinario 25). Questa certa

") V. su ciò Resp. 544 e 2; e Aristotele nel Protrettico (dial.


fr. p. 54 Walzer). Si veda la dimostrazione dell'origine aristo-
telica dell'estratto dato da Giamhlico, in JAEGER, Aristoteles,
p. 77 s. (trad. it. pp. 99 s.).
26) Legg. 642 c.
CAP. X: LE LEGGI [III379] 1715

dose di obiettiv tà, in uno spartano, è resa probabile


da Platone esplicitamente, con la :finzione che Megillo
sia in patria prosseno, - console, si direbbe - ate·
niese e si sia occupato perciò da lungo tempo di un
tale problema, con buona volontà di comprensione 26).
È uno spartano ateniesizzato, come da parte sua lo
straniera è un ateniese filo<partano. La scelta dei per-
sonaggi è simbolica. I Nomo i rivelano, più concreta·
mente di alcuna altra opera, lo sforzo di Platone,
durante tutta la sua attività, di assumere in un'unità
superiore l'indole dorica e lateniese. Il che si potrebbe
forse paragonare ai tentativi di tardi umanisti, di uni-
ficare in un'armonia di contrari gli spiriti di Grecia e di
Roma. Anche nella sintesi platonica ·delle Leggi opera
lo stesso senso della :filosofia della storia, nel tentativo
di giungere a una perfezione, a un assoluto, partendo
dal dato storico, nella sua manchevolezza. Ciò garantisce
a quest'opera l'interesse di ogni umanista, anche al di
fuori del problema, che in essa è trattato, della edu-
cazione migliore. Le due stirpi realizzano in forma
unilaterale, ma radicata nelle energie originarie della
natura, le forze essenziali della nazione greca. Se cia-
scuna di loro mira alla violenta sopraffazione dell'altra
per dominare incontrastata, Platone cerca di contenere
questa tendenza, richiamandole al senso della origine
comune. Pure, un tale panellenismo non significa che
sia suo ideale il livellamento delle differenze, la riso-
luzione di queste in una scolorita grecità di media,
più facile a maneggiarsi a volontà. La peggior cosa
che potrebbe darsi sarebbe, secondo Platone, la me-
scolanza di tutte le stirpi greche tra loro 27), male non
peggiore della mistione di Greci e barbari.

") Legg. 642 b.


17) Cfr. Legg. 692 e-693 a.
1716 [rn 380] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

L'ospite ateniese, che soggiorna per qualche tempo


a Creta, è attirato dai due Dori in una discussione
sulle leggi migliori, tema che per l'appunto è attualissimo
in questo momento per i Cretesi, che disegnano di fon-
dare una colonia. La nu_, va città cretese deve avere
la miglior. costituzione consentita dalle circostanze.
È naturale, perciò, che nel discorso si sia partiti
dalla natura dello stato e della umana areté e che nel
primo momento tutti e due i punti siano, conforme
alla doricità dell'ambiente, definiti nel senso della con·
cezione politica e dell'etica dorica. Un avvio al discorso
come questo deve giunger gradito a un lettore della
Repubblica, perché già in quest'opera l'impronta spar·
tana è così sensibile, che vien fatto di desiderare in
Platone un'aperta presa di posizione di fronte all'idea
che si afferma nel nome di Sparta. Nella Repubblica,
certo, quando si tratta cli costruire lo stato perfetto,
la Sparta della storia è appena toccata; ché là Platone
si aggira nella sfera dell'ideale. Pure nella serie delle
forme politiche degeneri la timocrazia spartana ap·
pare come la costituzione che, nella empirica realtà,
si avvicina di più all'ideale 28 ), e molti lineamenti del-
l'immagine platonica dello stato sono direttamente presi
dal modello spartano, o appaiono come istituzioni spar·
tane che il filosofo traspone in una forma più alta,
spiritualizzata. Può facilmente sembrare, di fronte a ciò,
che il passo dalla idea di stato spartana alla platonica
sia relativamente breve.. Un po' della luce suprema che
avvolge l'idealizzata Sparta della Repubblica platonica
si riflette anche sul suo modello terreno.
Ma nelle Leggi il quadro è diverso. Ché, sebbene
tutto ciò che Platone dice su concezioni e. tradizioni
politiche doriche sia ispirato a rispetto, la posizione

l8) Resp. 544 e; cfr. 545 b 6.


CAP. X: LE LEGGI [Ili 381) 1717

complessiva rimane di fondamentale opposizione. E do-


veva necessariamente essere cosi, non appena la Sparta
della concreta storia, in tutto il suo spirito, veniva
chiamata al vaglio di una discussione filosofica. Per
Platone non si può parlare, in alcun momento della
sua opera, di un laconismo unilaterale; e in questo
le Leggi costituiscono il miglior commento alla Repub-
blica. D'altronde non c'è nessuno che più di lui sia
convinto del contributo dato dai Dori alla cultura
etica e politica della Grecia e dell'umanità. Ma non
appena egli affronta il fenomeno storico individuale in
quanto tale, questo gli diventa necessariamente un
semplice gradino nella totalità del suo cos mo filosofico
di valori, al quale non spetta che un limitato diritto,
assegnatogli sulla base di un superiore principio. In
luogo di quel contrasto puro e semplice tra fenomeno
storico e norma assoluta che troviamo nella Repub-
blica, l'immagine della vera perfezione umana che
incontriamo nelle Leggi viene a costruirsi in un tutto
articolato su più di uno di tali gradini, a ciascuno
dei quali corrispondono determinati fenomeni storici,
e che stanno tra loro in un rapporto di progresso dia-
lettico dal più basso al più alto. Così si riscontrano
nelle Leggi gli elementi di una filosofi.a della storia,
per quanto lo schematismo delle opposizioni platoniche
possa apparire inadeguato alle affinate esigenze della
moderna coscienza storica, mirante alla comprensione
individuale del singolo fenomeno. Comunque, anche
nello schematismo di tali opposizioni è chiaramente rico-
noscibile la tendenza al concreto storico, la quale con-
viene in una superiore unità con l'atteggiamento nor-
mativo. Questo è il resultato di un metodo di pensiero
che, come Platone fa nelle Leggi, concepisce le espres-
sioni storiche dello spirito in letteratura e in poesia
come rappresentanti dell'umana areté, e cerca di de-
1718 [m382] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

terminarle nel loro relativo valore nel gran quadro


della paideia 29 ).
Per la paideia greca del tempo di Platone lo spirito
spartano è rappresentato dai. carmi di Tirteo, che face-
vano testo così per gli Spartani stessi che li impara-
vano a memoria fin da ragazzi ed erano di essi « satol-
lati» 30), come per gli altri Greci che vi scorgevano
la viva incarnazione dell'areté spartana 31). Così era da
secoli, cosi durò a essere finché l'elemento spartano
si conservò nella comune civiltà greca, come mostra
nel modo più bello perfino una iscrizione poetica da
poco scoperta di età ellenistica. In essa un educatore
e maestro caduto per la patria afferma dalla pietra
tombale di avere mantenuto coi fatti la sua« paideia »,
come è consegnata nei carmi di Tirteo 32). Proprio cosi
anche Platone intende le opere del dorico poeta, come
documenti e leggi di areté umana. Ma, mentre egli si
dichiara fermamente disposto ad accogliere il coman-
damento spartano che fa della difesa della patria il su-
premo dovere del cittadino, si tratta pur sempre per l~
nelle Leggi, di qualcosa ili più grande e fondamentale,
cioè del supremo criterio di virtù e perfezione umana,
che costituisce la vera raruce degli ammonimenti al va-

29 ) L'autore del presente libro ha appena bisogno di dire

che egli vede in questo atteggiamento di Platone nelle Leggi qual-


che cosa di esemplare, per ogni tempo.
10 ) Legg. 629 h.
81 ) Ciò risulta dal modo in cui Platone nelle Leggi si vale di
Tirteo a rappresentare l'idea spartana dell'areté (629 a; cfr. anche
660 e, dove egli « rifà» versi di Tirteo sulla vera areté).
31) Si veda, nel mio scritto; Tyrtaios Uher die wahre Areté

(«Ber. Berl. Akad. » 1932) pp. 559-568, la lunga serie di testi-


monianze raccolte a documentare l'attiva sopravvivenza di Tirteo
nella poesia e nel pensiero greco delle età successive. A queste
si può ora aggiungere il carme, citato nel testo, da un'iscrizione
pubblicata da G. KLAFFENBACH nella relazione dei suoi viaggi
in Etolia e Acarnania («Ber. Berl. Akad. » 1935, p. 719 ss.). Con
esso si scende, per la sopravvivenza di Tirteo come rappresen-
tante di un certo tipo di paideia, fino al III sec. a. C.
CAP. X: LE LEGGI [m383] 1719

lore di Tirteo 33). Sull'interpretazione di Tirteo Platone


fonda, nei due primi libri delle Leggi, tutta la trattazione
relativa all'ethos politico di Sparta, al concetto spar-
tano di areté, sulla quale poi si basa il suo pratico
atteggiamento di fronte alle istituzioni spartane. e cre-
tesi. In altre parole: l'idea base della areté umana,
che il legislatore cerca di far penetrare in ogni momento
della vita del cittadino, va cercata nel poeta, il più
alto legislatore della vita umana. È questo un .affondar
le radici dell'ideale educativo nel più vivo della so-
stanza storica, ed è il tratto più propriamente umani-
stico nell'atteggiamento di Platone. I poeti sono sempre
in lui i rappresentanti classici dei valori, ma appunto
per ciò sono anche valutati sempre e· commisurati
a una suprema misura. La critica, la stima dialettica di
una tale misura è il contributo della filosofia all' edifi-
cazione della paideia.
Quello che i carmi di Tirteo e le istituzioni politiche
così spartane come cretesi, e insomma la concezione
dorica dell' areté, propriamente significano si può rac-
cogliere in questa proposizione: la guerra è l'essenza
della vita. Tutte le forme della vita associata, tutte le
concezioni morali che la reggono, sono conformate a
questo scopo 34). Platone comincia il suo esame :filo-
sofico di Sparta col perseguire e fissare questo elemento
permanente in tutti i particolari della vita spartana. La
testimonianza del poeta è addotta solo a conferma, e
serve in pari tempo a render manifesta l'unilateralità
di questo ideale. Là dove si vede nella vittoria l'unico
significato dell'esistenza, il coraggio guerriero diventa

33 ) V. « Paideia» I 190-191. dove, sulle orme di Platone,


Tirteo è considerato così da un punto di vista spartano come
da uno universale •
.. ) Legg. 625 d-626 a.
1720 [m384] LIBRO IV· IDEALl DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

necessariamente l'unica virtù 35). Si è già, nel primo


volume di quest'opera, seguita la contesa sulle virtù e
sul loro :fissarsi in un canone, fin dai tempi in cui Tirteo
proclamava al mondo il primato dell'ideale virile spar-
tano, attraverso la poesia greca di cui costituisce uno
dei più grandi temi. Platone ora riprende questo pro-
blema filosofico e decide la vecchia contesa tra Tirteo,
esaltatore del coraggio guerriero, e Teognide, che ogni
virtù scorgeva riassunta nella giustizia, in favore di
quest'ultimo 36).
Il passo decisivo oltre l'antico ideale dorico era
stata la fondazione dello stato di diritto. Si dové
allora imparare a distinguere tra coraggio nella lotta·
giusta e nell'ingiusta e a vedere che il coraggio in unione
con le altre virtù, giustizia, temperanza e pietà verso
gli dei, vale di più del coraggio solo 37 ). Si deve dunque
correggere Tirteo con Teognide. Solo la virtù intera
(7tiicrct &.pe:TI)) può costituire lo scopo della· nostra opera
di legislatori 38). C'è sempre però una cosa da imparare
dai legislatori dorici, ed è la necessità di partire con-
sapevolmente da un ben definito ideale di umanità e
concetto di areté. In ciò essi debbono valere vera-
mente di modello per ogni futura legislazione 39). Alle
quattro virtù dell'anima, che Platone chiama qui i
beni divini 40 ) si debbono subordinare i beni umani,
la salute, la forza, la bellezza e ricchezza 41). Dove i

36) La vittoria in guerra su tutti gli stati stranieri è, per il

modo di vedere spartano, segno distintivo e norma ( opoç) essen-


ziale di uno stato ben governato. Cfr. Legg. 626 b-c.
86 ) Per Tirteo, Legg. 629 a (cfr. « Paideia» I 182); per Teo·

gnide, Legg. 630 a-e ( cfr. « Paideia » I 206-207 e 369).


37 ) Legg. 630 b; cfr. « Paideia » I 195 ss:, tutto il capitolo

sullo stato di diritto e la sua importanza nella storia dell'areté


umana.
38 ) Legg. 630 e.
89 ) Legg. 631 a.

• 0 ) Legg. 631 b.
") Legg. 631 c.
CAP. X: LE LEGGI [rn385] 1721

beni divini sono ricercati, là fioriscono anche quelli


umani: ma dove si tende solo a questi, là si perdono
a un tempo gli uni e gli altri 42). I più alti, come già
Teognide aveva detto della giustizia, contengono sem-
pre in sé i beni, o le virtù, minori 43). Ma la vera unità
che li comprende tutti, umani e divini, è la phroriesis,
la virtù della mente 44). Con questa affermazione Pla-
tone supera tutti i concetti di virtù che via via erano
stati fissati dagli antichi poeti greci.
Come una legislazione possa promuovere una de-
terminata virtù, Platone lo addita nel modo in cui
a Sparta e a Creta viene coltivato il coraggio, con l'isti-
tuzione dei pasti in comune degli uomini, o sissizi,
con un sistema di esercizi fisici militari, con la caccia
e con ogni altro metodo che valga a indurire e a raffor-
zare 45 ). Tuttavia l'ideale guerriero spartano non conosce
che l'educazione alla resistenza contro paura o dolore,
non contro le lusinghe del piacere 46 ). Questa mancanza
di coerenza è causa di fiacchezza e cedevolezza di fronte
alle passioni. Effettivamente nel sistema dorico man-
cano del tutto istituzioni analoghe, per coltivare la
moderazione e l'autodisciplina 47 ). Giacché, per questo
riguardo, è assai discutibile quanto possano valere i sis-
sizi o il regolamento militare di servizio 48). Cosi l' ate-
niese può attaccare il dorico costume della pederastia,
come degenerazione contro natura della normale vita
sessuale, e biasimare la licenza sessuale delle donne spar-
tane 49 ). La prevenzione spartana contro i simposi e il
42 ) Legg. 631 h.
43) Cfr. Theogn. v. 147.
44) Legg. 631 c 6; 632 c 4.
46 ) Legg. 633 a s.
'") Legg. 633 c-d; 634 a-e.
47 ) Legg. 635 h-d.
' 8 ) Legg. 636 a-b.
49) Legg. 636 c, contro la pederastia; critica della licenza
di costumi delle donne spartane, 637 c.
1722 [rn386] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

vino non appare a lui mezzo appropriato di educa-


zione alla temperanza, ma piuttosto come un'inconfes-
sata fuga dinanzi al proprio difetto di disciplina in-
teriore. Il piacere delle bevande alcooliche, in sé, come
tanti altri cosiddetti beni della vita, non è né buono
né cattivo 50). Quel che, per Platone, deve esserci nei
banchetti è una severa disciplina, di cui sarà rappre-
sentante un buon presidente, che sappia vincolare gli
istinti caotici e selvaggi dei partecipanti nell'armonia
di un ordine 51).
Il carattere e l'estensione di questa polemica contro
le prevenzioni spartane riguardo ai simposi significa
ovviamente che c'erano stati sostenitori e ammira-
tori entusiastici dell'educazione spartana, i quali ave-
vano esaltato la sobrietà della gioventù lacedemone. Di
questi, come uno degli scrittori filospartani del partito
oligarchico ateniese, era stato lo stesso zio di Platone,
Crizia il tiranno, che aveva cantato le lodi della tem-
peranza spartana in un carme elegiaco sulla costi-
tuzione di Sparta, che Platone dové leggere da gio-
vane 52). Il carme naturalmente è di indole diversa
dal libro in prosa che egli scrisse sullo stato spartano,
di cui Platone si serve in altro luogo delle Leggi. Nel-
l'elegia Crizia lodava che gli Spartani non avessero
costume, nei banchetti, di bere alla salute dei parte-
cipanti chiamandoli per nome, e si fermava a descri-
vere i buoni effetti di una tale tradizione di sobrietà
sulla salute e sul carattere dei giovani. Secondo lui
gli Spartani non erano affatto astemi come membri di
cluhs di temperanza; ma tenevano il giusto mezzo tra

50) Legg. 638 d-639 a.


01 )Legg.' 639 a-640 d. Sullo sfondo di questa minuta discus-
sione sul valore dei simposi sta un elemento di attuale realtà:
il costume dei simposi nell'Accademia. Cfr. « Paideia » II 305 e
n. 15.
H) Critias, fr. 6 Diels.
CAP. X: LE LEGGI [m387] 1723

questo estremo e la licenza ateniese. Contro atteggia•


menti di questo genere Plat.one tenta qui di dimostrare
che i simposi sono costume benefico, quando siano
praticati in un elegante spirito di accademia.
Qual è dunque il vantaggio di un simposio « bene
educato» per i singoli o per la polis 53) ? Di un tal
vantaggio non sanno niente le leggi di Sparta, poiché
manca là ogni esperienza al riguardo 54). A questo pro-
blema dell'astinenza dalle bevande alcooliche Platone
dedica una lunga indagine speciale, che si distende
attraverso i due primi libri e gli serve a svolgere non
solo la sua critica della legge spartana, ma anche tutto
il suo pensiero sulla paideia e specialmente sulla edu·
cazione della vita degli istinti. Questo stile della vec·
chiaia di Platone è caratteristico per una tendenza a
isolare, si direbbe quasi da filologo, un dato problema
singolo, dal quale poi ci si apre la via a conclusioni
d'indole generale. Per quel che riguarda il simposio,
dice Platone, il suo valore è lo stesso di ogni forma di
paideia; esso tende a formare qualcosa di simile a un
coro 65 ). La formazione dell'individuo singolo non ha
valore rilevante per la totalità, ma« l'educazione degli
educati» 56) nel loro insieme è di altissima importanza
per la polis, perché ne fa uomini di reale capacità che
fanno tutto come si deve, capaci perfino di vincere il
nemico in armi, che è per uno spartano la misura

..) Legg. 640 h: cmµTroalou 8' òp.&w~ Trcnl'la:yCùylj.&énoi; -.E


µéya: tlh©-ra:1ç Ti -r'jj 7t6Àe1 yEyvo1-r' &11;
64) Legg. 639 e 5.
65 ) Legg. 641 h 3: xopou Tra:18a:ywylj.&é11-roç. Il beneficio
dato da un coro nel suo insieme è paragonato a quello dato dal
singolo membro del coro. La scelta del paragone si giustifica con
la definizione data in 639 d del simposio come di una forma di
comunità umana (-.wv 1toÀÀw11 xo111Cù111w11 µEa:). TI coro appare
qui in Platone, come spesso in scrittori del suo secolo, come figu-
razione tipica dell'educazione e disciplina. Cfr; Xen. Mem. III
5, 18; Demosth. Phìl. I 35.
••) Legg. 641 h 6: 1ta:18e:Ea:11 -rwv 1ta:18eu.&év-rwv.
1724 [m388] LIBRO IV- IDEAU DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

suprema dell'areté 15 7). Cultura (mx:~òdoc) . infatti pro-


duce vittoria, ma· non sempre la vittoria produce an-
che cultura; spesso anzi ne nasce incultura (&mu-
òwa(oc) 58). Una vittoria che fa ·crescere l'hybris negli
uomini è una vittoria cadm.ea, mentre una « paideia
cadmea » non si è mai data 59)- Per dimostrare il
potere educativo del simposio occorreva che esso fosse
inserito nella cornice della paideia in generale e col-
legato con la formazione musicale e poetica 60). Così
Platone, dopo aver detto che è necessaria una defini-
zione dell'essenza ed efficacia della paideia, aggiunge:
« per essa deve passare il discorso che abbiamo intra-
preso, finché giunga a Dio» e1). Il quale collegamento
della filosofia dell'educazione con l'Essenza suprema
richiama la Repubblica, dove la paideia era ancorata
all'idea del bene 62).
Ma mentre nella Repubblica laccento batteva del
tutto sul grado più alto della paideia, e Platone si
preoccupava di sciogliere il più possibile quel concetto
dal vincolo della parola originaria pais, .nelle Leggi
invece egli comincia proprio fin dalla prima fanciul-
lezza 63 ). Quello che sempre più lo avvince è il compito
di radicare la forma consapevole, razionale della paideia

67 ) Legg. 641 c 1.
18) Legg. 641 c 2: ri:0tt8el0t µiv o~v ipépe:t xoil vlx"l)V, vlx"I) 8'
ivCon xod ò:ri:at t8c:ua!oiv.
69) Legg. 641 c 5. ~
• 0 ) Legg. 641 c 8. L'interlocutore spartano esprime i! suo
stupore su questa idea, che i simposi siano una forma di paideia,
giacchi! in Sparta, dove pure c'è paideia, non esistono simposi.
Sull'unione del simposio con l'educazione musicale (µouatx1)
ri:0tt8e:E0t) v. Legg. 642 a.
H) Legg. 643 a.
82) V. « Paideia» II 481 ss. Anche nelle Leggi, anzi più
esplicitamente che mai, la costruzione sistematica della paideia
culmina in quella che fu la nuova creazione intellettuale di Pla-
tone, la teologia (cfr. infra, pp. 462 ss.). Tutto dedicato alla teologia
è il libro decimo.
ea) Legg. 643 b 5.
CAP. X: LE LEGGI (UI 389] 1725

- si vorrebbe dire, il suo elemento propriamente filoso-


fico - nello strato -prerazionale, inconscio o semiconscio,
della vita psichica. In fondo la scoperta del vincolo
tra questi due strati esisteva già, come si è mostrato,
nella Repubblica 64 ) ; nuovo e osservabile è solo il fatto
che, nelle Leggi Platone si concentri, e così tenace-
mente, sul « come» della vita psicologica. Il punto
capitale della paideia - è questo che ora egli afferma
- è un buon allevamento 65). Questo deve eccitare
nell'anima del fanciullo, come in un libero gioco, il
desiderio di quello che l'uomo poi sarà chiamato a
compiere. Anche questo concetto di allevamento, trophé,
si è già incontrato nella Repubblica, come qualcosa di
caratteristico del pensiero di Platone. Che la perfetta
areté, in ogni campo, sia condizionata dal modo in
cui l'uomo o l'essere vivente vien su, come qualcosa
di affine alla vita della pianta, tale che si ritrovi in ogni
compiuta forma etica come biologica, è pensiero che
incontrammo là, espresso con ogni chiarezza 66). E pro-
prio questo doveva condurre Platone a indagare lo
sviluppo della vita d'istinti nell'età giovanile e a do-
mandarsi come si potessero attirare nell'orbita e al
servizio dell'educazione il piacere e il suo contrario,
di cui son così forti le reazioni nella fanciullezza.
Nell'uso comune, spiega Platone, si suol chia-
mare paideia la formazione acquisita in ogni specie
di attività, e si suol parlare di paideia o del suo contra-
rio perfino nei mestieri di mercante o di padrone di
nave o in qualsiasi altra simile attività 67). Però se

") Cfr. « Paideia» II 393.


80) Legg. 643 e 8: xe:qi&lcnov IHi 7toct8elocc; Àtyoµev rljv òp-lHJv
-rpoqifiv. Questo grado è definito qui come xe:qi&loc tov della pai-
deia. Anche nel secondo libro, esso è presentato come la vera
paideia.
••) V. « Paideia » Il 392.
87 ) Legg. 643 d 7-e 2.
1726 [III390] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

la paideia si considera dal nostro punto di vista, cioè


da quello di un educatore, che vuol infondere nello
stato un certo ethos, uno spirito che lo penetri in tutto,
allora per cultura si deve intendere piuttosto una edu-
cazione alla virtù · iniziata fin dalla prima fanciullezza,
che ecciti nell'uomo il desiderio di divenire U.n compiuto
cittadino, istruito a comandare e a obbedire conforme
al giusto 68). A tutte le altre specie di formazione rife-
rentisi solo a qualcosa di particolare si dovrebbe, a rigore,
rifiutare il nome di cultura, paideia, giacché sono ba-
nausiche, mirano al guadagno o a un'altra qualunque
capacità o conoscenza, priva di principio spirituale
che la governi e di fine retto, o sono puro mezzo e
strumento 69 ). Tuttavia, Platone non farà, sulla pai:..
deia, una questione di parole; quello che gl'importa è
soltanto che se ne abbia un giusto concetto da porre
a fondamento di ogni attività legislatrice. Giacché non
c'è dubbio per lui che gli uomini educati bene, in ge-
nerale, diventano nomini valenti. Non è lecito in nessun
caso dare poca importanza alla vera educazione; essa
è anzi, per i migliori tra gli nomini, il più alto di tutti
i valori ideali (7tpÙ>'TOV 'TÙ>V xocÀÀ(G'Twv). E quando
questo valore venga a scadere e il restaurarlo appaia
possibile, è dovere di ognuno dedicarsi a questo fine
per tutta la vita e con tutte le forze 70).
68 ) Legg. 643 e 3. Anche in parecchi altri luoghi delle Leggi

Platone tenta di definire concettualmente la natura della paideia:


p. es., 655 b, 654 b, 659 d. Sorprende che la definizione di paideia
che si riscontra in questi passi miri al compito sociale dell'uomo
molto di più, per es., della lunga definizione e descrizione che Iso-
crate dà nel Panatenaico (§ 30 ss.). Questi si preoccupa soprat-
tutto di descrivere la qualità interiore dell'uomo colto, in quanto
corrisponda all'ideale del suo tempo. Platone inserisce l'uomo
dentro lo stato e riconduce tutto il valore dell'educazione alla
capacità dell'uomo .di cooperare con altri.
"") Legg. 644 a 1-5.
70 ) Legg. 644 a 6-b 4. Nel suo commento alle Leglli, l'Eng-
land spie11;a la parola èl;i:pxe-ron, usata qui da Platone in rife-
rimento alla paideia o cultura, con « exceeds its bounds ». Così
CAP. X: LE LEGGI [m391] 1727

Con queste parole Platone caratterizza se stesso e


r opera della sua vita. Come ai suoi occhi si presenti lo
stato ·di fatto, egli lo dice qui chiaramente: si tratta
dello spezzettamento della vera paideia, che sempre
era stata educazione dell'uomo alla« areté intera», in
una quantità di capacità speciali senza un fine domi-
nante 71). La filosofia di Platone vuol restituire questo
:fine alla vita dell'uomo e cosi conferire, di nuovo, signi-
ficato e unità a tutte le singole parti, ormai disgregate,
dell'esistenza. Egli dové accorgersi a fondo che la sua
epoca, nonostante la mirabile ricchezza di capacità e
conoscenze speciali, rappresentava in realtà una ca-
duta di livello della cultura. Quel che egli intenda per
ricostruzione 72 ) della paideia, lo rappresenta chiara-
mente con la· contrapposizione della vera educazione
umana, che egli cerca, alla formazione meramc:nte spe-
ciale e professionale. Riconquistare al suo tempo questa
totalità dell' areté, e quindi. dell'uomo e della vita, era

anche il lessico di Liddell-Scott-Jones, nell'ultima edizione (1940).


In realtà, il senso deve essere che la cultura « viene a finire»,
a quel modo èhe si dice del periodo in cui il senato o un magistrato
resta in carica, che « viene a finire» o « scade » ( ~i!:p)(E't"1u). Ciò
presuppone l'idea, che anche nella vita della cultura ci siano
periodi, e conseguentemente anche oscuramenti della cultura;
il che si accorda molto bene- con la concezione generale di Pla-
tone sulla periodicità della storia e sul ricominciamento del pro-
cesso della civiltà (Leggi, I. III). Concezioni di questo genere
sogliono formarsi solo in tempi di rapida transizione--e mutamento
come quello in cui visse Platone. Il problema della decadenza
della cultura riempie tutto il suo pensiero, fin degli inizi. La de-
cadenza degli stati, di cui parla spesso e èhe è il suo punto di par-
tenza, è una parte di questo problema.
•1) E~ chiama la vera paideia, contrapponendola alla mera
formazione professionale, iJ 7tpÒç &pHi}v 7tCltL3e:lct, cioè ·edu-
cazione alla perfezione umana. Per areté si deve qui intendere
« tutta l'areté », di cui tanto si parla nei primi dialoghi, e che
egli contrappone, in Legg. 630 d, come ideale suo proprio, alla
capacità puramente militare degli Spartani. Questa « aret~ in-
tera» è l'unica ver.a misura e norma di ogni legislazione: 6,0, d.
Il coraggio guerriero occupa il quarto posto fra le quattro virtù
civiche di Platone: 630 c 8.
71 ) ~7tctVop&oua&ctL: Legg. 644 b 3.
1728 [rn392] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

il compito più duro e meritorio di tutti, non parago-


nabile con qualsiasi altro servizio che lo spirito filo-
sofico potesse rendere in questo o quel campo di cono-
scenza. La soluzione che di tal problema Platone con-
cepisce si può meglio che altrove scorgere nella
Repubblica, il cui edificio tutto si fonda sul fatto che
l'idea del bene, principio primo di tutti i valori, è posta
dominatrice nel centro del cosmo. La scoperta deci-
siva, per quel che spetta all'educazione, è che essa
ha da prendere le mosse da questo quadro del cosmo,
e deve volgersi intorno all'idea del bene, come intorno
al suo sole. E cosi pure, anche in questo luogo delle
Leggi,, troviamo la vera paideia riferita, come Platone
dice, al divino 73 ).
È caratteristico di quest'opera, come di tutte quelle
che seguono alla Repubblica, che vi si parli molto del
divino o di Dio, sia che Platone abbia finito col deporre
una sua originaria ritrosia ad arricchire in tal modo la
concezione del suo principio fondamentale, sia che
adoperi quelle espressioni con irri.fiessa libertà, mo-
strando di muoversi su un altro piano di conoscenza, più
vicino alla doxa. Certo è che anche in questo punto, come
dappertutto nelle Leggi,, egli mostra il suo profondo
interesse per il legame, per il mezzo psicologico, col
quale il principio supremo opera nell'anima umana. Egli
lo rappresenta con l'immagine (eik6n) del teatrino, nel
quale il burattino è l'uomo che agisce sulla scena del
mondo 74). Che si sia fatti come un puro e semplice
giocattolo di Dio, oppure per un fine serio - ché que-
sto non possiamo saperlo - una cosa è chiara: gli
istinti e le rappresentazioni della nostra anima sono

1a) Cfr. Legg. 643 a 5-7, sul cammino della paideia fino alla
sua meta: Dio.
7 ' ) Legg. 644 e s.
CAP. X: LE LEGGI [m393l 1729

i fili che ci tirano in direzioni diverse 75). Mentre l'aspet-


tazione del piacere e del suo contrario, nelle forme
della speranza e del timore, agita la nostra vita di
sentimento, ecco la riflessione valutante (ì.oyLaµ6ç) a
dirci quali sono migliori, quali peggiori, di queste ten-
denze. Quando una tale riflessione diventa risoluzione
presa in comune dalla polis, la chiamiamo legge 76).
Essa deve acconsentire solo all'aureo filo sottile col quale
il logos dirige l'anima, non a quelli duri e ferrei delle
passioni. Quanto più mite e aliena da violenza è la
guida che la riflessione esercita sull'anima, tanto più
è necessario che con lei cooperino e la sostengano le
forze intime dell'uomo 77 ). Ma il filo che rappresenta
il Logos non è, come si è visto, niente altro che quello
che è comandato dalle leggi dello stato. lddio, o un
uomo che ha conoscenza di Dio dà alla città il Logos
e questa lo eleva a legge, la quale poi regola i rapporti
della città con se stessa e con gli altri stati 78). L'ob-
bedienza dell'anima al Logos è quello che chiamiamo
dominio di sé, o temperanza. Con ciò anche -!;essenza
della paideia si fa chiara. Essa è la condotta della
vita umana secondo i m_oti impressi dal Logos, da quel
filo, cioè, che sta nella mano di Dio 79). Ma qui salta
"') Legg. 644 d 7-e 3. L'idea che l'uomo è un giocattolo (7ttX(y-
VLov) di Dio, ritorna nel L VII, 803 c; così pure l'immagine
delle marionette (&tXuµtX't"tX), 804 b 3. Le due idee sono stret-
tamente connesse col concetto di paideia sostenuto da Platone
nelle Leggi, e sono perc_iò essenziali per lui.
76) Legg. 645 a.
77 ) Legg. 645 a 4-7.
78) Legg. 645 b. Qui si esprime chiaramente la consapevo-
lezza legislatrice di Platone. Il legislatore è, alla fine, Dio stesso;
il legislatore umano parla 'in virtù della propria conoscenza di
Dio; da Dio ricevono autorità le leggi che egli emana. Questo
era stato il fondamento su cui anche l'antica polis greca aveva
elevato la propria legislazione. Platone ricostruisce questo edi-
ficio, ma nuova è la sua idea di Dio, e di essa è compenetrata la
totalità delle sue leggi.
79 ) Legg. 645 b 8-c 3. Platone non indugia a trarre tutte
queste conseguenze dalle premesse: dice solo che il lettore rie-
1730 [m 394) LIBRO IV - IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

agli occhi una differenza essenziale tra le Leggi e la


Repubblica. In questa l'idea del bene era concepita come
il modello esemplare che il reggitore e filosofo porta
con sé, nell'anima 88). Le Leggi tendono a una maggiore
concretezza; presuppongono, cioè, un'umanità che vuol
conoscere con precisione che cosa fare e come farlo,
che ha bisogno della legge per ogni singolo momento
dell'agire. A questo punto emerge un altro problema:
come, cioè, quel Logos divino riesca a trovar la via per
giungere agli uomini e mutarsi in istituzione politica.
Sembra, è vero, che Platone pensi a una qualche forma
di consenso da parte della comunità 81), ma l'essenziale
rimane per lui il fatto che il legislatore della città
sia un singolo uomo che conosca il Divino. In ciò
egli si attiene agli esempi offerti dai grandi legisla-
tori del passato. I Greci solevano chiamarli « uomi-
_ni divini», titolo che fu presto attribuito allo stesso
Platone. Anche nella sua età ci fu più di una città
greca che si rivolse a un famoso filosofo perché le desse
un codice di leggi. L'eroe che tipicamente impersona
questa figura di legislatore, quale intermediario tra
dei e uomini - è Minosse, che « parlava con Dio». La
« sapienza» del legislatore greco si avvicina così alla
rivelazione 82).

scirà ora a veder chiaro, che cosa siano areté e malvagità, che
cosa sia paideia.
ao) Resp. 540 a 9; cfr. 484 c 8.
81) Cfr. Legg. 645 b 7: 7t6Àtv 8è.... ).6yov 7tctpctÀix(3oi:io-ixv,
v6µov &E:µÉv"ljV. Nel Politico, 293 a, aveva detto che il con-
senso dei sudditi per la forma assolutamente perfetta di governo,
concepita da lui come monarchia o aristocrazia, non è essenziale.
Nelle Leggi però presuppone la necessità di questo consenso, come
nota insita nel concetto di un governo che sia legato a leggi.
82) Naturalmente rimane una differenza: rorgano attraverso
cui il legislatore accoglie la conoscenza del divino non è altro
che la sua ragione (voti<;, <pp6v"ljo-t<;); cfr. 631 e 6; 632 e; 645 a-b;
la sua intelligenza del divino non proviene dall'estasi. E se Platone,
in altre opere, usa i concetti religiosi di ispirazione ed entusiasmo
per descrivere la condizione spirituale del filosofo, li intende però
CAP. X: LE LEGGI [m395] 1731

Visto di qui risulta chiaro quel che Platone ha in


mente quando parla della virtù educativa dei simposi,
di cui biasima la mancan~a nel sistema spartano 83 ).
Il suo ideale di paideia è, nella sua più intima essenza,
autodominio, non dominio esercitato da altri, dal di
fuori, con la forza, come lo concepiscono gli Spartani 84).
Egli va in cerca, da educatore, di un mezzo per sag-
giare la qualità spirituale da lui apprezzata suprema-
mente, e lo trova nell'ebbrezza che il vino produce.
L'ebbrezza intensifica la vita dei sentimenti e ottunde,
invece, le forze intellettuali; con essa immediatamente
riemerge lo stato della prima fanciullezza 85 ). Ebbene,
questo stato è il mezzo esatto per saggiare la forza
degli inconsapevoli fattori inibitori, della vergogna e
del ritegno. Come l'uomo si può educare all'impavidità
solo sottoponendolo a impressioni di spavento, cosi
l'anima deve essere esposta alla tentazione del piacere,
perché si fortifichi contro di esso 86 ). Platone non si at-

nel senso di quella visione intellettuale che è la meta del cam-


mino dialettico. Pure, dal punto di vista di quelli che debbono
accettare come legge le verità concepite dal filosofico reggitore,
senza essere essi filosofi, la motivazione di questo loro obbligo
non si distingue, si può dire, dalla rivelazione.
88) Platone applica immediatamente la conclusione raggiunta

al problema dell'uso del vino nel simposio (µt.&7)), considerato


nel suo aspetto educativo: Legg. 645 c 3-d. Con ciò egli riprende
la discussione del problema posto dall'ateniese: quali siano le
istituzioni escogitate da Sparta per educare alla virtù della
sophrosyne (635 d), analoghe a quelle che, come ti;itti sanno,
esistono per educare al coraggio guerriero. Cfr. 637 a s.; 638 c-e .
..) Il problema di quel che in Sparta si faccia per educare
alla sophrosyne (635 e) mirava qnindi a mettere in rilievo la con-
cezione platonica della paideia in quanto divergente da quella
spartana, e doveva perciò sboccare nella trattazione generale
sulla natura della paideia (643 a-644 b). La questione partico-
lare di come si atteggi la disciplina spartana di fronte al pia-
cere delle bevande alcooliche, serve ora a illustrare psicologica-
mente con un esempio concreto questo concetto platonico della
paideia.
..) Legg. 645 d-e.
••) Sull'ebbrezza come cura medica della psiche: Legg. 646 c-d;
sull'educazione al ritegno (aidos) di fronte al piacere per mezzo
1732 [m 396] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

tarda, a questo punto, a esaurire tutta la casistica


dei piaceri, ai quali questo mezzo di saggio potrebbe
applicarsi; gli basta di accennarvi 87). Quello che ve-
ramente gl'importa è di rilevare il più energicamente
possibile il collegamento di « paideia » con « pais », con
l'età fanciulla 88 ). Nella Repubblica aveva seguito lo
svolgersi della paideia verso l'alto, fino alle ramifica-
zioni più lontane della più alta cultura intellettuale;
nelle Leggi egli scende fino alle sue radici, fino all'opera
di ammansimento degli istinti per mezzo della ragione.
Nella prima fanciullezza l'educazione ha a che fare
quasi esclusivamente coi sentimenti di piacere e dolore,
col problema di disciplinarli: sono questi i suoi mate-
riali. E, così concepita, la paideia si fa pedagogia 89).
Non c'è bisogno di dimostrare che questo nuovo av-
viamento non esclude loriginaria, alta concezione della
paideia e non è destinato a metterla in disparte. Ma
esso è come un nuovo promettente pollone della pianta
platonica della paideia, natole accanto proprio dalla
radice. Dalla riuscita di questa precoce cura dell'anima
del fanciullo, Platone vede ora, e sempre di più, di-
pendere tutta l'educazione ulteriore. Era questa una
scoperta inevitabile e fatale per colui che aveva preso
a punto di partenza della sua paideia l'equivalenza

dello sfrenamento d'istinti prodotto artificialmente con l'eb-


brezza: 646 e, fino alla fine del l. II.
8 7) Legg. 649 d.
88) Questa esigenza è messa espressamente in rilievo al prin-

cipio del l. II. 653 a s.


89 ) Platone nelle Leggi mostra una certa preferenza perfino

per la parola 7tcxd~cxyc.>ye'Lv. Come precedentemente tutto lo


sforzo dell\~omo per raggiungere l'areté gli si era configurato
come paideia, così ora la 1tcx~8cxyc»ylcx diventa per lui il nucleo
anche della paideia dell'adulto. Per questo l'ebbrezza Jia tanta
importanza educativa, perché rifà dell'adulto un fanciullo (Legg.
646 a 4). Con ciò infatti rende possibile di far durare dalla prima
infanzia fino all'età adulta la funzione-base di ogni educazione,
cioè l'istituzione di un giusto rapporto con la vita istintiva.
CAP. X: LE LEGGI [m397J 1733

socratica di virtù e sapere 90). Platone non si allontana


in realtà, come pur potrebbe sembrare, da questa
dottrina, ma è tratto a trasferire il momento iniziale
dell'attività educativa sempre più indietro, verso stadi
più precoci. Già nella Repubblica questa esigenza aveva
cominciato ad attuarsi, ma colà quello che preoccu-
pava Platone e gli suggeriva questo arretramento verso
l'età puerile, era piuttosto l'inizio precoce della pro-
paideia intellettuale 91). Ora invece egli pensa alle pas-
sioni, al modo di investirle, più per tempo che sia pos-
sibile, di un'opera formativa, sicché il fanciullo impari
fin da principio quasi giocando, e vi si abitui, ad amare
il bene e odiare il male 92). Il lavoro del Logos di un
individuo può riuscire a buon fine, più tardi, soltanto se il
Logos di un altro, dell'educatore o dei genitori, ha lavo-
rato in lui prima, durante lo stadio inconsapevole. Ogni
virtù, in quanto sia virtù dell'ethos cioè, in senso no-
stro, formazione morale, consiste in una consonanza
(o-uµqi<ùvlrx) tra visione intellettuale e abito di azione.
La paideia è quindi l'educazione dei sentimenti di pia-
cere e del contrario atta a produrre una tale conso-
nanza 83). Platone raggiunge qui il punto da cui parte
l'etica di Aristotele, la quale appunto si pone prima
di tutto il problema dell'ethos 84). La linea che si svolge

• 0) V. « Paideia» II 106, 150 ss., 208-209, 273.


01) V.« Paideia» II 545.
"") È detto in Legg. 653 a che la prima sensazione (1tpGlT1J
ot?a~h)atç) del fanciullo è piacere e dolore. Si deve considerare
come un caso estremamente fortunato che la phronesi& (la cono-
scenza socratica del « bene» che è anche « essere buono») e la
« vera opinione» (&Àl).&'l)ç 86çix) si affermino nella età tarda
(1tpÒç TÒ y'ijpixç). Solo quando ha raggiunto ciò, l'uomo ha
compiuto il suo sviluppo (è -réÀo:oç). Ma Platone ora è del tutto
disposto a chiamare paideia anche il primo grado dell'areté, che
ai afferma anche nel fanciullo.
91) Legg. 653 h. .
94 ) V cramente Aristotele, nel sno sistema etico, distingue

ancora virtù d'intelletto ( 8tlXV01JTtX"Ì) &pe:Tlj) e virtù di carat-


tere (~·lhx.'l) tipe:T~), confermandoli in ciò a Platone e a tutta
1734 [rn398] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

dall'esigenza socratica della virtù-sapere fino alla com-


plessa e particolareggiata dottrina platonica tarda e
aristotelica, dell'ethos, che poi è il nucleo iniziale di
ogni« etica» moderna, fu determinata dal fatto che
quella dottrina voleva essere una paideia.
La sua via conduceva dalla conoscenza pura della
norma alla considerazione della natura dell'anima e del
trattamento da applicarle. Dopo un periodo nel quale
la meta suprema gli era apparsa quella di approfon-
dire l'intelligenza e la conoscenza, nella sicura :fiducia
che tale esaltazione dei poteri e valori intellettivi
avrebbe operato sulla formazione integrale della per-
sonalità, Platone, nell'opera della sua vecchiaia, si
trova a rimettere in primo piano lantico pensiero elle-
nico della formazione dell'uomo, e vede sotto una nuova
luce la conquistata verità. Questa apparente conver-
sione dall'ideale allo storicamente dato non ha assolu-
tamente niente che possa stupirci. Dopo aver raggiunto,
nel suo audace viaggio nella direzione dell'ideale puro,
il punto estremo, il suo desiderio di realizza-rio, questo
ideale, per quel che è possibile, di inserirlo nel mondo,
lo riconduce al mondo e fa di lui un prometeico for-
matore di nomini. Già nella Repubblica abbiamo tro-
vato espresso questo pensiero formativo 95). Ma è pur

la linea di pensiero che discende dalla socratica identificazione


di scienza e virtù. Tuttavia nell'Etica Nicomachea la parte prin-
cipale spetta all'indagine sulle virtù etiche, da cui il libro stesso
e poi l'intera disciplina hanno preso il nome. Nella cosiddetta
Grande Etica, poi, che, nata nella prima scuola peripatetica, fu
attribuita falsamente dalla tradizione ad Aristotele stesso, l'evo-
luzione del sistema è arrivata al punto da mettere fortemente
in questione il legame dell'etica con l'intelletto e con l'educa-
zione intellettuale e da limitare ormai il compito di questa alla
educazione degli istinti (ÒpfLctl}. Cfr. JAEGER, Ursprung und
Kreislauf des philosophischen Lebensideals (« Sitz. Ber!. Akad. »
1928) p. 407, e R. WALZER, Magna Moralia und Aristotelische
Ethik (« Neue Philol. Unters.» hrsg. v. W. Jaeger, Voi. 7) pp.182-
189.
95) V.« Paideia» II 404, 446-447.
CAP. X: LE LEGGI [III399] 1735

chiaro che esso deve proceder più oltre, deve meglio


esser riconosciuto nei suoi diritti nelle Leggi, di fronte
al problema che in quest'opera si presenta, il problema
delle forze irrazionali dell'anima e della loro forma-
zione. Formazione che qui è da prendersi nello stretto
senso del termine, come forza operante sul contegno,
nei movimenti, nei gesti, in ogni manifestazione este-
riore dell'ethos interno ali' anima. Se da principio Pla-
tone, in maniera che si potrebbe dir di tipo prote-
stante, si era ·rivolto all'intelletto, egli disvela ora l'im-
portanza di certi elementi di espressione esteriore, di
quegli elementi che la sapienza educativa cattolica
- ed è uno dei suoi lineamenti essenziali - ha cer-
cato sempre di foggiare per tempo in forma precisa
e salda.
Ritroviamo, portati di nuovo in maniera rilevante
al centro dell'attenzione, antichi fattori educativi greci,
che ci sono da lungo tempo familiari. L'istruzione
corale, come danza e come canto, era stata tutta l'edu-
cazione« musica» della vecchia Grecia. Ormai, in un
mondo intellettualistico, essa aveva perduto queste
funzioni e durava, soprattutto in Atene, soltanto come
un insieme di forme di produzione artistica, in fogge
raffinate e complicate~ Ma Platone, non appena si mette
a pensare al suo problema di precoce formazione del-
1' ethos, non trova per essa un surrogato valido; sicché
nelle Leggi arriva a formular l'esigenza di una rina-
scita dell'antica danza festiva ellenica, come elemento
fondamentale dell'educazione giovanile. L'età giovane
non conosce posa, è in un moto incessante che non
si può imprigionare in un luogo, ma solo ~dare in
una data direzione 96). All'uomo è stato dato, a diffe-
renza che alle bestie, il senso del movimento ordinato

96) Legg. 653 d.


1736 [111400] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

o disordinato, che chiamiamo ritmo e armonia. Abbiamo


qui un esempio classico di quella gioia, da coltivarsi
nel gioco, nascente da attività buone e belle, che è
l'impulso più potente per lo sviluppo del senso morale
e artistico 97). È incolto chi non è passato per la gioiosa
scuola del moto ritmico e dell'armonia del canto corale.
L'uomo colto è quello che è pratico della bella danza 98).
Questi ha in sé il criterio giusto, il senso infallibile
del bello e del brutto; e con « bello» Platone intende
in un'unità indivisibile, il bello etico e l'estetico 99).
Una tale unità non esisteva ormai più, si può dire,
nell'arte del suo tempo. Ma il :filosofo la vorrebbe
restaurare nell'arte della danza, che è per lui, in questo
momento, l'arte-modello 100). Ciò presuppone una norma
assoluta del. bello, la quale diventa perciò, per l'edu-
catore che tutto vuol fondare su questa base artistica,
il problema più grande. Chi vede la fonte di ogni c~­
tura e educazione nel fatto che le melodie che si odono,
i ritmi su cui si danza sono formatori di ethos in una
città intera e nei suoi giovani che ad essi si vengono
assimilando, ·non può lasciar tutto al gusto e capriccio
individuale del poeta, come« oggi» si fa 1°1). Platone si
guarda intorno a cercare un paese dove esistano forme
artistiche fissate ieraticamente, sottratte ad ogni arbi-
trio e brama di novità, e lo ravvisa solo nell'Egitto
dove l'arte è apparentemente priva di sviluppo, e
dove un senso soverchiante della tradizione conserva
rigorosamente tutto ciò che una volta fu consacrato.

Legg. 653 e-654 a.


97)
Legg. 654 b: o µèv &na:(8eu-roi;, d.x6peu-rot; ijµi'v la-ra:~,
98)

TÒV 8è nima:~8euµévov t)(a:VÙ>c; XeJeOprrux6Ta: ~E:TéOV.


••) Legg. 654 b 6-e.
ioo) Legg. 654 e 9-655 b 6: è bello ogni canto, ogni movenza
che esprime (alla lettera: « che si tien fermo a») la virtù dell'anima
o del corpo.
101) Legg. 655 d, 656 d I.
CAP. X: LE LEGGI [m4D1l 1737

Il suo punto di vista gli permette ora d'intendere in


modo nuovo una tale condizione di cose così come
essa gli appare, a quel modo che, per altri rispetti,
egli aveva dovuto ammirare Sparta 102).
Il destino dell'arte sembra a lui dipendere dalla
misura in cui essa riuscirà a liberarsi dal gusto edo-
nistico e materialistico del pubblico. Dice una volta
Cicerone che il raffinato gusto del pubblico ateniese
era stato il criterio con cui si erano misurati gli artisti
per raggiungere un così alto livello, ed ascrive invece
alla mancanza di un tale criterio le goffaggini artistiche
di altri popoli l03). Come è diverso il modo di guardare
di Platone, che pur vive proprio in quel tempo, in
quel mondo che Cicerone pregia come classico: a lui
il pubblico del suo tempo, tutto teso al piacere, ap-
pare il corruttore di ogni arte 164). Il vero giudice arti-
stico - e qui Platone penserà alla commissione nomi-
nata dallo stato che assegnava i premi negli spettacoli

10 ~) Legg. 656 d 11. Per spiegarsi la rigida conservazione dei


tipi nell'arte egizia, così nelle arti figurative come nella musica.
Platone suppone un qualche atto legisla_tivo, di tempi antichis-
simi, paragonabile con quelli che egli stesso ora propone. Alle
menti greche del IV sec., nel rapido moto della loro vita spiri-
tuale, l'arte egizia doveva dar l'impressione di essere assoluta-
mènte priva di svolgimento e mutamento. Cfr." 656 e 4: axo7twv
8è: e:up-fiaeaç ocù-.O&t -.à: µuptoa-.òv t!-.oç ye:ypocµµéva; 'I') 't'tru7t6l-
µéva; -.ù">v wv 8e:11l)µtoupyl)µév©v o<S-.e: -.~ xa;ÀÀfovoc o<I-.' octaxt6l,
Tijv a;ùTijv 8è: -.éxvllv &.7te:tpya;aµÉvix. Le opere dei tempi più an-
tichi non erano, in Egitto, né più belle né più brutte delle crea-
zioni artistiche attuali. Quel che solo importa a Platone è la co-
stanza dell'ideale di bellezza. Per l'ideale egizio di bellezza in sE.
non s'intravede nelle parole di Platone alcuna apeciale ammi-
razione.
1oa) Cic. O,., 8, 24 s.; e specialmente 9, 28.
1 °') Legg. 657 e-658 d. Platone naturalmente non contesta
che l'arte esiste perché se ne goda, ma eleva a misura del suo
valore non_ già il grado di godimento che essa offre a un ascol-
tatore qualsiasi, bensì la gioia che ne provano i migliori, cioè i
« sufficientemente colti» (!xixv&ç 7te:7tixt11e:uµévot), o meglio, che
ne prova l'unico che sia pervenuto a perfezione (&.pstj) e a vera
cultura (7tixt11e:lcc).
1738 [m402] UBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

pubblici - non può dar retta agli ascoltatori, giacché


questo rovina gli uni e gli altri, poeti e pubblico. Del
pubblico non deve farsi scolaro ma essere maestro.
Ora invece il clamoroso consenso della massa e l'igno-
ranza del giudice si alleano ai danni del retto giudizio
e del buon gusto 1 0 5). Si è già visto che l'unico cri-
terio del pubblico è il diletto, il divertimento. Criterio
evidentemente nullo, perché se si cercasse di stabilire
quel che intendono gli uomini delle diverse età per
divertimento, e che genere d'arte ciascuna età prefe-
risce, si vedrebbe che ciascuna ne vuole uno diverso.
I bambini preferirebbero i saltimbanchi a ogni altro
artista; ma anche il giudizio degli adulti è poi davvero
migliore? 106 ).
Una salda tradizione relativa alle cose della poesia
non esiste in Grecia, se non a Creta e a Sparta, dove ci
si tiene al vecchio Tirteo 1 0 7); ma, come Platone ha
mostrato precedentemente, questo poeta, per il nostro
stato, dovrebbe essere rifatto, si che al . posto del
coraggio guerriero, come supremo valore, si mettesse
la giustizia lOB). Per chiarire ciò con esempi, Platone
sceglie da tutti i carmi di Tirteo quello in cui si pa-
ragona il coraggio con gli altri pregi di un uomo, per
affermarne il primato 109). Egli dimostra che in realtà
non il coraggio eroico ma la giustizia è la qualità che
sola fa degli altri pregi dei beni veri, e senza la quale

106) Legg. 659 a-c.


10 5 ) Legg. 658 a-d.
107) Legg. 660 b; cfr. 629 b.
101) Legg. 629 e-630 c.
100) È l'elegia che comincia: o\lT' !v µV'l)O"C((µ'l)v oilT' lv À6YCJ>
&vl>pC( n&e:l'l)v. Cfr. Legg. 660 e 7 s. V. la mia trattazione del
carme in Tyrtaios iiber die wahre Areté (« Ber. Ber!. Akad. »
1932). Platone lo sceglie perché in esso non si parla solo, come
in altri dello stesso Tirteo, di virtù guerresca spartana, per mo-
strarla in azione in battaglia, ma vi si pone in forma' generale
il problema: che cos'è la vera virtù dell'uomo ? Cfr. « Paideia » I
195-196.
CAP. X: LE LEGGI [rn 403] 1739

essi non hanno valore 110). Poiché è compito del poeta


educare la gioventù, l'esatta visione della gerarchia
dei beni è il necessario presupposto di ogni vera poe-
sia 111). Poesia e musica sono vera paideia solo se sod-
disfano a questa esigenza 112). In realtà questo modo
di vedere, per quanto sia certamente unilaterale, con-
tiene una buona parte di verità, finché si tratta di an-
tica poesia e musica greca. Non dovrebbe esser dif-
ficile, al lettore di questa nostra trattazione, intendere
quel che Platone vuol dire. La disputa sulla virtù su-
prema e sui più alti beni della vita si prolunga per se·
coli di antica poesia, e ad essa Platone nelle Leggi,
si ricollega di proposito. I canti ( cj>aoc!) del poeta
diventano per lui «incanti» (~itcp~oc() per l'anima
dell'ascoltatore, che con la dolce magia della forma
lo rendono voglioso di accogliere in sé, attraverso il
gioco, la serietà del contenuto, come una medicina
che s'indolcisca di fuori 113). Di questa dolcezza, Pla-
tone vuole infondere nella sua città una fame insa-
ziabile 114). In sostanza egli non fa che mettere in luce
la sua schietta tempra ellenica, in questo fondere
in unità nuova l'innata . gioia del bello col desiderio
ardente del buono. Questa gioia soltanto ha potere
di foggiare con. impronta perenne anime greche, al
fuoco della giovinezza e dell'entusiasmo ll0); ma anche
no) Legg. 661 b 5.
=) Legg. 661 d s.
112) Legg. 660 e 661 e 5-8: al principio, quindi, e alla fine della
trattazione sull'elegia di Tirteo è rilevata esplicitamente questa
identità di poesia e paideia.
m) Legg. 659 e-660 a. La cjia1j è paideia, in quanto è èmiia1j.
Perché, come Platone dice preliminarmente (659 d), la paideia
è 'Ìj 7tll((aoov o)v(1j Te: xcà &yooylj 7tpòc; 't"Òv Ù7tÒ v6µou Myov òp.&òv
e:lp7jµévov. Questa forza d'attrazione emana dalla bella forma.
Sulla definizione della legge come òp.&òc; 16yoc; espresso in pa-
role, cfr. Legg. 645 b. L'etica aristotelica si riallaccib poi a questo
concetto.
m) Legg. 665 c.
111) Legg. 666 a.
1740 [m404] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

i vecchi perdono della loro durezza, si rifanno in qualche


modo plasmabili, quando i doni di Dioniso, a tempo
e luogo, ne disgelino gli animi, e li ammolliscano e
li riscaldino 116). Così il legislatore diventa formatore
e modellaiore (7tMcr.-1l~) delle anime 117).
Per ultima, e evidentemente solo per la forma,
viene aggiunta la ginnastica 118); Platone non ci si ferma,
e, del resto, già nella Repubblica, essa era stata trattata
molto più brevemente della musica. Con una serie di
considerazioni piuttosto diffuse sulle dosi di vino da
consentirsi nelle varie età e sull'importanza che il
vino ha nell'età avanzata, è poi ripreso e condotto
a termine, in questa prima grande sezione dell'opera
dedicata alla paideia, il problema da cui Platone
era partito e che sembrava a momenti, aver perso
di vista, il problema del simposio e del suo valore
educativo 119).

Le cause della decadenza dello stato. - Alla fine di


questa sezione che occupa i due ·primi libri, sulla pai·
deia e sullo ·spirito dello stato, Platone passa a esa·
minare il problema della origine e formazione dello
stato. Il passaggio sembra brusco, ma lo è solo for-
malmente, salvo restando l'ordine logico, giacché se
la legislazione deve essere preceduta dal lavoro di
porre i fondamenti della vita stàtale, questo lavoro
a sua volta presuppone che sia definito lo spirito che
nello stato deve attuariii e dominare. L'esempio degli
stati dorici è valso solo a mostrare con quale coerenza
debba uno spirito esprimersi nelle pubbliche istitu·

116) Legg. 666 b; 671 b.


m) Legg. 671 c.
118) Legg. 673 a s.
118) Legg. 673 d 10, fine del libro II. La trattazione sul pia-
cere del vino (µ.é.&71) e sull'importanza che gli spetta per la paideia
raggiunge qui il suo« culmine» (xoÀoqic~v): 673 d 10 e 674 e 5.
CAP. X: LE LEGGI [m 405] 1741

zioni; giacché la qualità di questo spirito deve essere,


per Platone, radicalmente diversa da quella che do-
mina in essi. Come quelli, il nuovo stata deve essere
un imponente sistema educativo; ma la norma di una
tale educazione deve essere la virtù umana integrale,
lo sviluppo totale della personalità 126). Nella gerarchia
di valori, base dell'educazione, la virtù spart(\na del
coraggio guerriero deve occupare non già il primo,
ma il quarto e ultimo posto 121). Lo svolgersi dell'inda-
gine, però, mostra che Platone non si mette a decre-
tare dall'esterno, da moralista astratto insensibile alla
realtà della vita politica, questo primato della tem-
peranza e giustizia al posto dell'ideale della forza,
ma che la sua esigenza etica s'intreccia strettamente
con quel chiaro senso che egli ha delle condizioni per
cui uno stato si conserva e dura. Su questo punto
si dovrà tornare tra poco.
In generale, la sua teoria dei principii e mutamenti
della vita politica, delle periodiche distruzioni della
civiltà a causa di immani catastrofi naturali, rivela
con quanto impegno e intelligenza egli si fosse occu-
pato del problema della storia dell'umanità 122). Pla-

tao) Legg. 630 b 3, e 2.


lBl) Legg. 630 c 8. .
122 ) L'atteggiamento di Platone verso la storia è stato per
lungo tempo studiato - come è avvenuto anche per Aristotele -
dal solo punto di vista di quel che si possa apprendere da lui per
la storia della filosofia. Recentemente hanno rivolto al problema
uno sguardo più comprensivo G. RoHR, Platons Stellung :wr Ge-
&chichte (Berlino 1932) e K. VouRVERIS, A! !crTopLxcxl. yvrocre:Lç
TOU ID..chCùvoç (Atene 1938). La niia trattazione, però, va su
questo punto sostanzialmente più oltre, in quanto non si li-
niita a far profitto delle affermazioni esplicite di Platone su
cose storiche, ma cerca di comprendere tutto il suo pensiero e
l'opera sua di scrittore partendo dalla chiara consapevolezza
eh egli ebbe della situazione storica dell'età sua: consapevolezza
del tutto naturale in un filosofo che parte dal problema della
struttura del mondo morale e politico, e si vede posto di fronte
a un dato di fatto: la decadenza e la fine di un sistema consa-
crato della storia, come quello della polis greca.
1742 [rn406) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

tone pensa che tutto quello che noi chiamiamo tra-


dizione storica, non sia molto più vecchio di « ieri o
ieri l'altro», in confronto alle oscure epoche della
preistoria, in cui lo sviluppo dell'umanità si avverava
lentissimo 123). Dalle grandi inondazioni che devasta-
vano la terra, dalle pestilenze e simili sciagure solo
una p~ccola parte degli uomini scampava ogni volta,
per sopravvivere in un nuovo periodo, col quale co-
minciava una graduale ripresa ascensionale, dal più
elementare primordio 124). La popolazione non era an-
cora folta sulla terra, non si conosceva né l'uso dei
metalli, né la guerra, che è solo un prodotto del pro-
gresso tecnico della civiltà 125). La rappresentazione
che Platone dà dei primordi è quella di una condizione
essenzialmente pacifica, dove non erano ancora ricchi
e poveri, e dove la benigna semplicità degli umani
aveva per conseguenza un livello morale più alto 126).
Superfluo ancora era il legislatore, là dove neppure
la scrittura esisteva 127). Al tempo di Platone non si
facevano ancora scavi; ed egli quindi si tiene alla
tradizione letteraria, specialmente a Omero. Su que-
sto punto egli riconosce espressamente, almeno in parte,
valore di fonte storica veritiera all'antica poesia. Non
dobbiamo infatti dimenticare che l'atteggiamento di
comprensione storica ed estetica della poesia, che ci
sembra oggi così naturale, venne sempre più pren-
dendo piede a misura che il valore paideutico (cioè
assoluto} di essa apparve discutibile o perse il suo
originario significato. Sorretto da Omero Platone de-
scrive il passaggio dallo stato dei Ciclopi pnvi di
leggi, alla formazione sistematica dei primi nuclei di
118) Legg. 67'1 d.
lM) Legg. 677 a s.
1U) Legg. 678 e-e.
IH) Legg. 679 a-d.
lt7) Legg. 680 a.
CAP. X: LE LEGGI [III 407] 1743

reggimento patriarcale™). Col confluire poi di diversi


gruppi gentilizi in formazioni maggiori di tipo citta-
dino si rende necessario un conguagliamento, dei diversi
diritti consuetudinari vigenti presso ciascuno di essi.
Cosi ha trovato il suo compito la prima forma di legi-
slazione 129). All'età omerica, l'età degli Achei e delle
loro spedizioni in Asia Minore, Platone fa immediata-
mente succedere, non diversamente dallo storico sli(;-
contemporaneo, Eforo, il ritomo degli Eraclidi e quindi
la storia antichissima degli stati peloponnesiaci, sorti
come prodotti della migrazione dorica sui frantumi
dell'antico mondo politico acheo 130). Con ciò si ritoma,
in questa scorsa nella più antica storia, allo stesso
punto da cui il dialogo ha preso le mosse, alle fonda-
zioni di stati dorici e alle loro legislazioni 131 ).
Quando Platone, negli anni dal 370 al '60 o dal '60
al '50, scriveva le Leggi, il destino della stirpe dorica,
l'immagine della sua antica grandezza e altezza spi-
rituale, e d'altra parte la tragedia del suo tramonto
suggellato a Leuttra dalla disfatta spartana, si pre-
sentava, problema imponente, agli occhi di ogni greco
capace di riflessione 132). Sconfitti gli Spartani, Epa-
minonda aveva chiamato a libertà i Messeni, giacenti
da secoli nella con'1-izione di iloti, per dare, con
l'accensione di lotte intestine neJ 'Peloponneso, il colpo
finale all'opera guerresca di anfu-''l -.......nto del ne·
mico. Tutti gli amici, in tutta la Grnc1a, ~el costume
m) Legg. 680 b s. Platone si vale di Omero, espressamente,
solo come fonte per l'antica civiltà ionica. A Creta Omero era
considerato, ancora al tempo di Platone, come un gran poeta,
certo, ma poeta straniero (680 c 4). Sul valore di verità dell'antica
poesia cfr. 682 a.
129) Legg. 680 e 6-681 c.
130) Legg. 682 e s.

1•1) Legg. 682 e 8-683 a.


1•2 ) Per gli effetti prodotti dalla caduta della potenza spar-
tana sul pensiero politico ed educativo contemporaneo, v. « Pai-
deia » II 574. ·
1744 [m408] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

dorico si dovettero, di fronte a questi eventi, doman-


dare angosciosamente quale sarebbe potuto essere il
corso della storia greca, se gli stati dorici del Pelo-
ponneso, Sparta, Argo, Messene, invece di straziarsi a
vicenda, si fossero fusi e potenziati in unità politica 133).
Era la stessa domanda, di fronte alla stirpe dorica
peloponnesiaca del passato, che anche il presente sem-
brava proporre a tutto l'insieme degli stati greci, era
anzi, veramente questo problema attuale proiettato
nel passato. Subito dopo la presa di possesso del terri-
torio da parte dei Dori, si erano date condizioni asso-
lutamente ideali, in sé, per un rigoglioso sviluppo di
quel che Platone chiama il « sistema» 134) degli stari:
dorici, la triplice lega degli Eraclidi. Essi non avevano
avuto bisogno di operare con gran rischio dello stato
nuove distribuzioni di terre o abolizioni di debiti -
misure patrocinate da rivoluzionari e riformatori al
tempo di Platone - , ma questa era la loro condizione
iniziale, avendo essi potuto dividere la terra riconqui-
stata in parti uguali, e_ cosi edificare lo stato sulla
base di un principio sociale giusto 135). Tutto questo,
per quanto possa essere mitico per -noi, è per Platone
cosa di profonda serietà, come si dimostra in seguito
quando si viene a trattare del problema della distri-
buzione della proprietà fondiaria: anche qui infatti,
"'") Cfr. Legg. 683 e 8, dove Platone pone questa questione
e cerea di rispondervi. Per farlo, egli rileva. c'è bisogno d'im-
maginazione storica; il suo tentativo non era possibile senza ca-
pacità di costruire audaci ipotesi, e d'altra parte lo scopo edu-
cativo del paragone col presente ha influito sulla sua descrizione
del passato. Ma la trattazione platonica delle origini doriche è
pure di grande interesse per lo storico, in quanto testimonia in
lui la chiara consapevolezza che il mondo proprio aliora era sul
punto di dimenticare la grande parte assegnata dalla storia alla
stirpe dorica, e tutto il siicnificato spirituale di questa, per non
vedere che un quadro storico unilaterale d'impronta ionico-ate-
niese.
13') Legg. 686 b 7; cfr. anche 687 a 6.
18") Legg. 684 d-e.
CAP. X: LE LEGGI [m409J l745

in sede di pratica, egli si richiama al modello degli


Eraclidi, e della loro colonizzazione del Peloponneso 186).
Eppure perché mai questi :tegni dorici, tanto più forti
come credeva Platone, tanto più unitari e meglio go·
vernati dei Greci all'assedio di Troia, erano alla fine
caduti? 1 37 ) Avrebbero potuto dominare la Grecia e il
mondo 138), ed erano periti invece vittime di insanabili
contese tra loro. La fantasia storica di Platone scorge
in questi eventi dell'ottavo e settimo secolo, già quasi
mitici ai suoi tempi, la vera, ormai irrimediabile tra·
gedia della nazione greca, la sua grande, e mancata,
occasione nella storia del mondo, - ironia crudele,
di fronte al programma panellenico di Isocrate 139).
In realtà la prova vera della capacità della stirpe
dorica come creatrice di stati egli la scorge soprat·

1" ) Di ciò si parla quando si tratta della fondazione del


nuovo stato nel libro V, 736 c 5, dove sono espressamente citate
le considerazioni storiche del III sni regni dorici del Pelopon·
ne so.
m) Legg. 685 d.
la&) Legg. 687 a 6-b. Qui Platone dice, degli stati dorici dopo
il ritorno degli Eraclidi, quello stesso che Aristotele afferma dei
Greci attuali: Pol. VII 7, 1327 b 29-33; cioè che avrebbero po·
tuto dominare il mondo se fossero stati riuniti in un solo stato.
È difficile non vedere qui l'influenza dell'idea panellenica d'Iso-
crate. Per Isocrate, la prima spedizione asiatica dei Greci, la
guerra di Troia, era stata la grande occasione per l'unificazione
nazionale (v. la chiusa dell'Elena), ma Platone afferma, con evi-
dente riferimento a questo pensiero isocrateo, che la' spedizione
dei Dori alla conquista del Peloponneso aveva offerto un'occa·
sione ancora più grande per lo stesso :fine.
tst) V. Legg. 687 a 5, sull'occasione (x(up6ç) perduta dagli
stàti dorici. V. anche 686 a 7. Sembra che qui Platone rida un
po' alle spalle d'Isocrate e del suo piano di unificazione della
Grecia contro i barbari, come di un anacronismo. Quando Pla-
tone scriveva le Leggi Isocrate non aveva ancora pensato a .Fi-
lippo come a un potenziale condottiero degli stati greci contro
la Persia. Il suo Filippo è posteriore alla morte di Platone. E in
esso Isocrate replica (§ 12) deridendo come utopie belle e buone
i piani di coloro che scrivono «Repubbliche »e« Leggi». Le Leggi
dovevano essere già state pubblicate quando· Isocrate mise fuori
il Filippo (346).
1746 [m410] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

tutto in Sparta; i Messeni e gli Argivi non erano per


lui allo stesso livello 140).
La causa effettiva di quel fallimento non era
stata, come poteva pensare uno spartano, mancan-
za di coraggio guerriero o di . perizia militare, ma
difetto di cultura (&.µix.&loc) nelle cose umane più im-
portanti 141). Questa profonda incultura è ciò che,
allora come ora e per sempre, distrugge e distruggerà
gli stati 142). E se domandiamo in che cosa essa con-
siste, Platone ci rimanda a quello che abbiamo sco-
perto attraverso lunghe indagini sulla natura della
paideia. Questa si fonda su un accordo verace di pas-
sione e di intelletto 143). Quei potenti stati dorici so11,.o
caduti per aver seguito i loro appassionati desideri e
non la vista della ragione 144). Cosi la scoperta del-
l'errore politico additato dalla storia della grecità do-
rica riconduce al punto da cui il dialogo ha preso le
mosse, al problema dell'ethos buono di uno stato, le
cui radici affondano nella sana struttura dell'anima
individuale. La critica, tutta filosofica, che Platone
già nella Repubblica aveva rivolto allo spirito dello
stato spartano e· all'educazione spartana, trova ora,
nelle Leggi, una conferma nel crollo della stirpe, visto
alla luce del presente, a mezzo della corsa per il pre-

140 ) Legg. 690 d. Questa critica era di grande attualità nel


tempo in cui Platone lavorava alle Leggi, cioè dopo la ristabilita
indipendenza politica della Messenia, rimasta sotto il giogo spar-
tano dal VII sec. fino allora. Anche Isocrate nell' Archidamo prenc' e
posizione a favore di Sparta contro la Messenia.
1~1 ) Legg. 688 d-e; 689 a 1 - 8; 689 c. Questa« ignoranza
nelle più importanti cose umane», a cui Platone attribuisce la
colpa della caduta di quei potenti regni, ci fa pensare al Prota-
gora, 357 d-e, dove il « farsi vincere dal piacere» è riportato alla
« più grande ignoranza».
14 2) Legg. 688 d.
143) Legg. 643 c 8 s.; 653 a s. e specialmente 653 b 5, dove
l'areté, frutto della òp.&'ÌJ 7rcnlk(cx, è definita auµ.cp<ir11Cot degli
istinti con la ragione.
144 ) LeEJ{. 690 d-691 a.
CAP. X: LE LEGGI [m411J 1747

mio supremo, la signoria sui Gre~ a cui sembrava


chiamarla il destino. Si ha come il senso che in queste
pagine Platone porti all'ultima conclusione il tenace
lavorio di tutta la sua vita intorno al problema del-
l'idea dorica di stato. Ed è, né poteva essere altri-
menti, conclusione tragica. Da giovane egli, negli am·
hienti dell'opposizione ateniese, aveva sentito esaltare
Sparta come un ideale assoluto. Negli anni della viri-
lità aveva imparato molto, certo, dal modello spar·
tano; pure, mentre il successo di Sparta, allora al
colmo della · potenza esteriore, sembrava dar ragione
ai suoi ammiratori senza riserve, egli nella Repubblica
aveva già additato profeticamente le fonti della sua
debolezza 145). Questa era ormai chiara agli occhi di
tutti 146), quando egli scriveva le Leggi, e a lui non
altro rimaneva da fare se non mettere in chiaro che
lo stato detto nella Repubblica il « secondo dopo l' ot·
timo» era destinato. a cadere ·proprio per questo: per-
ché non era l'ottimo e difettava della vera paideia
e dell'ottimo ethos. Questi che si sentivano ed erano
detti« re» avevano nell'anima la massa. plebea, l'istinto
di potenza e di orgoglio, che dà ascolto alla pleonexia,
invece di seguire quella guida verace che è la ragione.
La preminenza data da Platone all'elemento educa-
tivo di fronte a quello puramente politico si rivela
anche qui, nell'audace e brillante antitesi posta tra
forma esterna e intima natura dello stato. Il quale,
retto all'esterno unitariamente da uÌl uomo, era inti-
mamente una tirannide di massa, la tirannide degli
istinti e brame che in quest'uno signoreggiavano 147).

ics) V. « Paideia » II 566-575.


H•) Tra la composizione della Repubblica e il momento in
cui furono compiute le Leggi stanno Leuttra e Mantinea e la de-
cadenza della potenza spartana.
147) Legg. 689 a-b.
1748 [m412J LIBRO IV· IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

Simile è il paragone che già nel Gorgia Platone isti-


tuisce tra la «democrazia», dove comanda l'arbitrio
della folla e la tirannide, che le è, per intima natura,
molto vicina 148). Per parlare con le parole della Re-
pubblica, il disfacimento dello stato nell'intimo animo
del reggitore 149) suggellava quella caduta che si com-
pieva esteriormente, nei fatti. Stato non è mai mera
potenza, ma è sempre la struttura spirituale del por-
tatore di questa potenza, dell'uomo.
Se dunque è l'incultura la causa per cui gli stati
vanno in rovina, cioè il difetto di accordo tra senti-
menti e ragione nell'anima del reggitore, sia questi
uno o più, è chiaro allora che bisogna togliere agl'in-
colti la possibilità d'influire sull'azione del governare.
Incolto, in questo senso profondo, può· essere proprio
colui che la comune opinione considera come il tipico
uomo colto: il calcolatore oculato, l'uomo di pro~te
reazioni intellettuali, il parlatore :brillante: in que-
st'ultima qualità, anzi, sembra che Platone veda un
sintomo specifico della prevalenza delle passioni sulla
ragione 150). Ed ecco ormai venire al centro della con-
siderazione questo problema: chi deve governare ? Al
quale, nella Repubblica, Platone aveva risposto che è
sempre il migliore sul peggiore, il più alto sul più basso,
colui che deve governare 151). Ma nelle Leggi, egli fa
un tentativo di ulteriore precisazione, consapevole cer-

1 '") I capi del popolo nella democrazia sono messi sullo stesso
piano coi tiranni in Gorg. 466 d; 467 a. Il demos è visto come un
tiranno ai cui voleri deve conformarsi ogni cittadino e soprattutto
l'uomo politico, come avviene di fronte al dominatore assoluto
negli stati dispotici; cfr. Gorg. 510 e 7 s.; 513 a; È evidente tut-
tavia che Platone parla qui di una cattiva democrazia, degene-
rata in una tirannide di massa. Nel Politico egli afferma che una
democrazia, come qualsiasi forma di governo, puà essere buona
o cattiva (degenerata).
m) R11sp. 591 e; 592 b.
ii;o) Legg. 689 c-d.
161) Resp. 412 c.
CAP. X: LE LEGGI [m413J l749

tamente che questo è veramente il problema decisivo


nella politica sia in quanto scienza, sia m quanto pra-
tica arte. Concepita come scienza del governare, essa
abbisogna di un principio, da cui discenda, conforman-
dovisi, ogni particolare, .e tale principio deve rispondere
alla domanda « chi deve governare ? » in modo uni-
versalmente valido ed evidente a ogni essere razionale.

A questo punto delle Leggi Platone pone sette« as-


siomi», ai quali poi si richiama più volte tanto nella
critica agli stati della realtà storica, quanto nella isti-
tuzione del suo proprio stato 152). «Assioma» significa,
prima di tutto, rivendicazione di diritto o di signoria in
senso giuridico, e cosi dagli interpreti è stata sempre
intesa la parola in questo luogo,. poiché si tratta ap-
punto di questo problema. Ma essa ha anche già as-
sunto, nella scienza di questi tardi anni platonici, il
senso, corrente per noi, di presupposto non bisognoso
di dimostrazione a cui si ricorre in una deduzione
scientifica, soprattutto nella matematica, la disciplina
appunto in cui, per testimonianza ili Aristotele, questo
termine fu allora usato per la prima volta 153). È noto
lo sforz~ di Platone di far della matematica il modello
di ogni metodo scientifico o filosofico; in questa dire-
zione egli andò molto in là, nei suoi ultimi anni, e
Aristotele considera questa tendenza come caratteri-
stica di tutta la scuola platonica 154). Non si può quindi
fare a meno di intendere il concetto in quest'ultimo

118) Legg. 690 a: &E;t©µcxTcx Toù n &pxeav xcxt lfpxea~cxt 11:oriX


èaTt xcx t 11:6acx. A tali assiomi egli attribuisce validità assoluta:
essi valgono per grandi come per piccoli stati, come pure nel
governo di ogui casa privata. V., per l'applicazione degli assiomi
nella legislazione, 690 d; 714 d.
153) Arist. Met. III 3, 1005 a 20.
154 ) Arist. Met. I 9, 992 a 32; Eth. Eud. I 6, 1216 b 40; cfr.
il mio Aristotele.s, p. 243 (trad. it. pp. 313-314).
1750 [III 414] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

senso, qui dove si tratta appunto di fondare la poli-


tica su principii universali; il che non esclude neces-
sariamente l'altro senso di « rivendicazfone di signo-
ria» 1 55). Infatti, anche nell'uso matematico, « assioma»
esprime una assunzione, un'esigenza di validità evi-
dente, vale a dire che loriginario senso giuridico è
vivo· ancora nella parola. Col senso di « assioma» è
collegato anche il numero determinato di tali proposi-
zioni fondamentali, che Platone enuncia con numero
d'ordine (da uno a sette) 156), proprio come avviene
anche nella geometria di Euclide. Affermano dunque
queste proposizioni: che per natura i genitori devono
governare i figli; i nobili gli ignobili; gli anziani i gio-
vani; i padroni gli schiavi; i migliori i peggiori; i ra-
gionevoli e sapienti gli ignoranti e - settimo assioma
di fondamento democratico - l'eletto a sorte deve
governare quelli che la sorte ha scartato. Qui Platone,
come dappertutto nelle Leggi, riconosce la sorte come
decisione divina, né la intende più, come spesso l'aveva
intesa negli scritti anteriori criticando la democrazia,
come meccanismo senza senso 167).
Conforme a questi assiomi, a buon diritto i re di Mes-
sene e di Argo avevano perso il regno, giacché si trattava
di un grande, irresponsabile potere concentrato nelle
mani di un individuo che non soddisfaceva realmente
a quelle esigenze 168). Se anche qualche atteggiamento,
nella Repubblica e nel Politico, poteva destare la falsa
impressione che Platone fosse un sostenitore di questa
forma di vita politica, ora nelle Leggi egli parla chia-
ro e si pronunzia contro ogni specie di accentramento

1 66) A. E. TAYLOR, The Laws of Plato (Londra 1934) traduce


d:~LÙ>µ.<X-r<X con «titoli» (titles) al governo e all'obbedienza.
IZ•) Cfr. Le!CIC• 690 a-e.
107 ) Legg. 690.c. ·

158) Legg. 691 c-d.


CAP. X: LE LEGGI [III415J 1751

del potere nelle mani di un solo, considerandolo forma


degenerata del desiderio di potere o pleonexia 1511), la
quale perfino per Isocrate, intesa la parola nello stesso
senso, è la radice di ogni male. L'esempio di Sparta
mostra che la forma costituzionale mista è la più
duratura. Ivi, infatti, la monarchia è limitata, cosi
dall'istituzione dei due re, come dalla gerusia e dagli
efori 160)". La Grecia deve a Sparta, non alla Messenia
o ad Argo, che le stirpi greche siano rimaste pure,
immuni da mescolanza scambievole o coi barbari, come
le informi masse di popolazioni dell'impero persiano.
Questa è per Platone l'essenza di quella libertà che
si era raggiunta con le guerre persiane 161). La meta
del legislatore deve essere non già il cumulo di grandi
incontrollati congegni di potere nelle mani di un sin-
golo, ma la libertà, la ragionevolezza, l'interiore armo-
nia della polis 162). La Persia e Atene rappresentano
ciascuna, portato all'estrema esagerazione unilaterale,
uno dei due elementi-base della vita politica 163). Indi-
spensabili sono l'uno e l'altro; e il valore di Sparta
consiste nell'aver procurato di congiungerli, trovando
in ciò la ragione essenziale della- sua durevole affer-
mazione 164). E qui Platone inserisce una lunga cri-
tica della monarchia persiana, tutta costruita sul con-
cetto, che i pochi uomini veramente significativi, i
fondatori dell'impero, Ciro e Dario, non seppero edu-
care i loro figli 165). L'educazione dei principi persiani
era sempre stata in mano delle regine, cioè di ambiziose

168) Legg. 691 a; cfr. 690 e.


HO) Legg. 691 d 8-692 a.
181) Legg. 692 d-693 a.
181) Legg. 693 d-e.
1") Legg. 693 d.
164 ) Legg. 693 d-e.
165) Su Ciro, Legg. 694 a, su Darlo 695 e 6; dopo di loro in
Persia non c'è stato più un grande re: -695 e.
1752 [rn416l LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

parvenues 166). Perciò Cambise e Serse in poco tempo


si erano giocati tutto quel che avevano guadagnato 16 7)
i padri, che non avevano avuto né intendimento né
tempo per il compito più grande, la formazione dei suc-
cessori 168 ). Troppo tardi, per Platone, era venuta l'am-
monizione di Dario al suo popolo sconfitto, come Eschilo
l'immagina nei Persiani 169 ). In realtà, né Dario né
Ciro avevan potuto educare ·i figli, perché non posse-
devano eMi alcuna paideia 170). Con un tratto di penna
Platone qui cancella tutta la Ciropedia senofontea:
presso i Persiani non c'è niente, per lui, che possa
valer di modello per uomini greci 171).
Ma l'interesse più profondo di Platone è per l~

166) Legg. 694 e. La paideia persiana fu corrotta dal governo


di donne e di eunuchi alla corte di Ciro: 695 a.
1••) Legg. 695 e; c:fr. 694 c.
1•s) Legg. 694 e; 695 a.
18•) Aesch. Pers. 739 s.
170 ) Ciro non aveva avuto una buona educazione ( bp3--i)
na:dkla:), e Dario non si comportò col :figliuolo Serse meglio
di quel che aveva fatto Ciro con Cambise: 695 d 7-e. Da uguale
educazione, uguali frutti: 695 e 2.
1·71) È chiaro che Platone trasse l'occasione a trattenersi
così a lungo sulla paideia dei Persiani da un'opera precedente
che ne aveva fatte le lodi. L'autore di questa non può essere stato
che Senofonte, come si riconobbe già nell'antichità; v. Diog.
L. III 34. Senofonte nella Ciropedìa aveva voluto contrapporre
la disciplina persiana alla mancanza di disciplina ateniese, a quel
modo che Tacito scrisse la Germania per crea.re un contrasto di
luce e ombra tra la moralità dei popoli germanici e la sfrenatezza
e decadenza del costume romano. Platone mette di fronte Persia
e Atene come due poli opposti di organizzazione politica e fa
vedere che ambedue sono cadute per il medesimo vizio, la man-
canza di una vera paideia. In tal modo toglie alla sua critica ogni
punta politica partigiana. Che nelle Leggi egli abbia tenuto un
atteggiamento di simile critica di fronte allo scritto senofonteo
sulla caccia, ho cercato di dimostrare a p. 308 s. Ma forse si deve
andare ancora più in là, e mettere in relazione con gli scritti di
Senofonte che lodano il modo di vita spartano, anche la discus-
sione sistematica che ha luogo nelle Leggi della tesi della perfezione
di paideia e governo spartano. Quegli scritti apparvero un po'
prima della metà del sec. IV. Questa considerazione condurrebbe
a porre il tempo della composizione delle Leggi, nell'ultimo de-
cennio della vita di Platone.
CAP. X: LE LEGGI [m417] 1753

sua patria, per Atene 172). L'esaltazione dell'opera pre-


stata da Atene per la liberazione della Grecia 173)
sembra in contrasto col biasimo dell'eccesso di libertà
che vi si era prodotto 174). Effettivamente, il quadro
platonico della storia ateniese non è intonato a un
solo colore, né chiaro né scuro. Anche in ciò egli si
accosta a Isocrate vecchio, che pur criticando aspra-
mente il presente sa esprimere il vanto delle molte
virtù dell'antica Atene, al tempo delle guerre persia-
ne l75). Negli eroici principii della democrazia ateniese
Platone ritrova ancora superstite molto dell'antico spi-
rito di venerazione per la legge, ora scomparso 176).
Nella descrizione di questo aid6s, vincolo reale e in-
timo dell'edificio sociale, sembra di cogliere talvolta
toni simili ali' Areopagitico di Isocrate, che fu scritto
all'incirca nello stesso tempo 177). In realtà era quello
il problema capitale per l'educatore politico, e perciò
i due spiriti, di tempra tanto diversa, di Platone e di
Isocrate, vengono, su questo punto, a in.contrarsi.
Esclusivamente educativo è il punto di vista di Pla-
tone, dal quale egli guarda la degenerazione della de-
mocrazia ateniese, precisamente come spiega la deca-

172) Legg. 698 a 9.


1n) Legg. 698 b-699 a.
174) Legg. 700 a.
1 76) V. supra, p. 191 ss. In questo contesto Platone fa un vero
e proprio complimento letterario a Isocrate, descrivendo (Legg.
699 a) i preparativi di Serse per la spedizione contro Atene con
le stesse parole del Panegirico. Cfr. lespressione di Platone: xixl
&xouovnç "A&wv Te lhopuTT6µc:vov xixl 'EÀÀ"ficr7tOVTOV ~euyvuµc:vov,
con Paneg. 89-90: "t'ÒV µèv 'EÀÀ1j0"7tOV"t'OV ~eu!;ixc;, "t'ÒV a· "A.&C>l
lhopu!;ixc;.
176 ) Sull'aid6s nell'antica Atene, v. Legg. 698 b 5; 699 c 4.
171) V. supra, p. 207 s. Il riferimento a Isocrate appare chiaro
anche da altri segni, .come· si è mostrato di sopra. Se I' Areopa-
gitico era terminato, non dopo la fine della guerra sociale, ma già
nel 357, come ho cercato di dimostrare a p. 187 s., esso è allora
contemporaneo alle opere di Senofonte, con le quali Platone po-
lemizza nelle Leggi ( cfr. supra, n. 171 ). Tutto ciò porta al prin-
cipio del decennio 360-350.
1754 [m418] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

denza dell'impero persiano unicamente dal difetto di


paideia. Ciò si rivela prima di tutto dal suo modo di
ric.ondurre la decadenza ateniese al declino di musica
e poesia, alla degenerazione di queste arti fino alla
licenza, l'opposto di ogni musica 178). Si tratta, in questa
teoria della decadenza, di una delle più grandi sco-
perte storiche di Platone, che fu accolta dalla scu,ola
peripatetica e da questa passò alla poetica e alla lettera-
tura musicale dell'età ellenistica e dell'impero 179). Essa
è in sostanza uno sviluppo, fino a particolari minuti,
del principio esp;resso nella Repubblica, secondo cui
l'educazione musicale è - la cittadella dello stato
ideale 180).
Il rigore col quale si erano mantenuti distinti i
diversi generi e i loro caratteri, di inni, treni, peani,
ditirambi e nomi, aveva garantito per lungo tempo la
conservazione della severa tradizione musicale dei primi
secoli 181) e gli applausi, i fischi, lo schiamazzo della
folla non avevano avuto sull'arte la minima influenza.

178) Legg. 700 a 7 s.


17•) Platone .traccia lo sviluppo della musica greca escl.usi-
vamente dal punto di vista del suo concetto di paideia. Sarebbe
concepibile che teorici musicali più tardi si fossero liberati da
questo concetto e avessero trattato l'evoluzione musicale con
un criterio puramente artistico: di fatto, però, il trattato pseudo-
plutarcheo Sulla musica è tutto dominato dal punto di vista pla-
tonico. Secondo Ps.-Plut. c. 27 l'evoluzione della musica si com-
pie nel senso di allontanarsi sempre più dal suo originario ca-
rattere paideutico {'r~o:~8e:uT~xò; Tp67toç), per tendere, fino a dis-
solversi in essa completamente, alla teatralità (&e:a:Tp txl] µouaa:).
Platone è invocato più volte in favore di questa tesi. Ma « Plu-
tarco» non prende questi concetti direttamente da Platone. A
guardar meglio ci si accorge che il suo quadro dell'evoluzione
musicale deriva dal musicologo peripatetico Aristosseno, di cui
cita l'opera Sulla musica (c. 15) e la parte storica degli Har-
monica (c. 16). Aristosseno, nel II libro Sulla musica, àveva
trattato appunto della teoria platonica dell'ethos nella musica
(cfr. c. 17).
. 1SO) Resp. 424 c: -rò .... q:iuì..a:x-r1)pr.ov, ... ma:U&.X 1tOU otxo80µ11-
dov Toi:ç q:iuì..a:~w, l:v µouatxij.
1 11) Legg. 700 a 9-b.
CAP. X: LE LEGGI [m419] 1755

Gl'intenditori, formati dalla paideusis, potevano allora


tranquillamente ascoltare dal principio alla fine; per
la massa, a tenerla a posto, bastava il bastone degli
agenti dell'ordine 182). Ma vennero altri tempi; nei quali
uomini di sicuro talento poetico, ma del tutto privi
di discernimento per il contenuto etico normativo del-
1' arte, mischiarono, nell'estasi bacchica, in balia della
pura sensualità, ditirambo e peana; inno e lamenta-
zione, e cercarono di riprodurre con la musica della
cetra gli effetti inebrianti dei :ftauti 183). Ogni confine
cancellato, tutto parve concesso, T1ello che in qual-
siasi modo svegliasse gioia di senso, poiché quella gente,
nella sua ignoranza, non credeva all' esiStenza di una
misura del giusto e del falso nel campo della musica 184).
E di maniera rion diversa erano i testi che per tali
composizioni si scrivevano. Cosi s'introdusse anarchia
nel regno delle Muse e s'incoraggiò nella folla l'illu-
sione di capir qualcosa in tali materie, e di poter pro-
clamare il proprio giudizio a furia di clamori 185).
La tacita quiete del teatro dette luogo allo schiamazzo,
al posto di quella elevatezza di costume che aveva
fin qui dominato in questo campo s'installò una tea-
trocrsizia, la signoria del pubblico incolto. E in ciò
niente di grave, dopo tutto, se ci fosse stato real-
mente una democrazia di uomini liberi. Ma, nello stato
attuale, l'illusione di sapere, la sfrenatezza di .ognuno
in ogni cosa non conoscono più il limite dell'impu-
denza e non c'è niente che le fermi 186). Quale il .destino

181 ) Legg. 700 c.


183) Legg. 700 d. Sul valore di« norma» implicito nella mu-
sica, v. 700 d 4: &yvooµove:c; .... Tte:pt -.ò Slxa:iov -.'ijc; Moua'll~ xa;t
't"Ò v6µLµov. Anche in Teognide, 60, j"llOOµ'lj vale« norma».
184 ) Legg. 700 e.
1116 ) Legg. 700 e 4.
186) Legg. 701 a.
1756 [m420] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

futuro di una libertà come questa ? Platone lo vede


in un progressivo allentarsi di quel freno e riserva
interiore che prima era l'essenza della libertà, fino alla
decadenza nella licenza assoluta, al precipizio finale del
ritorno alla condizione primitiva« titanica» 1 87).

La norma divina nella fondazione degli stati. I


proemi delle leggi. - Il punto di partenza di tutta
questa indagine era stato di natura storica: lo spirito
degli stati dorici e della loro legislazione. Ma Platone
aveva subito introdotto nella discussione un'esigenza
filosofica, l'esigenza di un'ideale assoluto di areté e di
uomo, e con ciò la sua idea di paideia, per passare
poi a criticare da questo superiore punto di vista la
tradizione educativa spartana 188). La via sembrava
libera ormai per la fondazione del nuovo stato, che
si stava aspettando. Ma ecco intervenire di nuovo la
considerazione storica: Platone non prendeva di fronte,
direttamente, il compito pratico che gli stava dinnanzi,
ma si domandava come, nella storia, sia sorto lo sta-
to l89). E dalla visione di questo. processo formativo
si levava di nuovo il problema delle strutture statali
doriche, e il tragico destino da loro sofferto contro le
splendide prospettive iniziali riconduceva allo stesso
risultato che· 1a critica dell'ethos e dell'ideale umano
dorico aveva già dato: così i fatti della storia veni-
vano a confermate l'analisi filosofica. Ancora per un
momento era sembrato che a questo punto, da que-
stra critica del processo storico dovesse venir su, infine,
la costruzione sistematica di uno stato ideale; e in-
fatti Platone poneva gli « assiomi» da cui ogni ten-

187 )Legg. 701 b-c.


18•) Legg. I. I.
ie•) Legg. I. III.
CAP. X: LE LEGGI [m421] 1757

tativo di questo genere deve partire 190). Ma di nuovo,


e per un tratto ancora più ampio, si aprivano oriz·
zonti storici, al fine di garantire la retta applicazione
degli stessi assiomi .. Questi, intesi come Platone vuole,
conducono all'idea ·di una costituzione mista, quella
che gli pare realizzata nell'antica Sparta 191). Di con·
tro, Persia e Atene, nelle loro forme politiche attuali,
incarnano gli eccessivi estremi della tirannide e della
licenza nascenti entrambi da difetto di paideia 192).
Solo a questo punto del dialogo uno degli inter·
locutori, Clinia il cretese, fa menzione del proposito
dei Cretesi di stabilire una nuova colonia, ed informa
lateniese di avere avuto dalla città di Cnossos, insieme
con altri nove uomini, l'incarico di soprintendere al·
l'esecuzione del progetto e di menarlo a buon fine 1 93).
La conversazione si mette decisamente, così, sul ter·
reno pratico, il che è quanto dire su quello sistematico,
giacché di qui in poi ci sarà ;mche un filosofo a influire
sulla configurazione della nuova polis. Clinia infatti
chiede la partecipazione dell'ateniese, a titolo di con·
sigliere. Le prescrizioni che vengono così date per la
costruzione della nuova formazione statale non si pos·
sono qui trattare nelle particolarità tecniche, sebbene,
in un senso più profondo, tutto abbia relazione con la
paideia che deve incarnarsi nella legislazione, e tutto
da lei scaturisca. Subito il primo precetto, che la città
da fondare non debba essere città di mare è stretta·
mente connesso col pensiero educativo platonico 194).

190) Legg. 690 a-e.


191) Legg. 692 a.
192) Legg. 693 d-701 b.
198) Legg. 702 h-c. Immediatamente prima di questo passo
l'ateniese ha domandato a qual fine sia servita la lunga digres·
sione storica. Essa doveva preparare l'esame del problema dello
stato perfetto. Ciò dà occasione al cretese, Clinia, di parlare della
progettata fondazione di una colonia.
m) Legg. 704 h.
1758 [m422] LIBRO fV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Aristotele nella Costituzione di Atene fa ·derivare il pro·


cesso di radicalizzazione della democrazia ateniese fino
al tipo della dominazione di massa, dall'evoluzione
di Atene a potenza marittima 195). È questa un'idea
che egli eredita dal gruppo dei democratici moderati
ateniesi che, proprio nel tempo in cui Platone scriveva
la Leggi e Aristotele veniva formando le sue idee nel·
lAccademia, si affaccendava a riprendere in1luenza,
dopo la fine della seconda lega marittima 196). Platone
è d'accordo con Aristotele e col vecchio Isocrate in
questo atteggiamento negativo di fronte all'impero ma·
rittimo ateniese, come sul punto della costituzione
mista 197). Anche Isocrate era un dichiarato fautore di
quella tendenza moderata che propugnava il ritorno
alla« costituzione dei padri» 198). Da Aristotele, inoltre,
la formazione della potenza navale ateniese e la dimi·
nuzione dell'autorità dell'Areopago vengono poste in
relazione scambievole e date come cause della degene·
razione della democrazia 199). An<~he questa ·idea fa
parte della critica, di stampo conservatore, allo stato
pericleo, alla democrazia imperialistica e marinara, anzi
è possibile rintracciarla anche in età più antica. Già
nei Persiani di Eschilo, là dove i vecchi consiglieri
conservatori criticano la politica del giovane re Serse,
affiora l'avversione dell'aristocrazia contro i disegni di
potenzà marittima e l'armamento di flotte 200). Non

tM) Arist. • A&'I)"· Ilo>... c. 27, 1.


1 " ) Il principale documento su questo punto è per noi l'Areo-
pagi.tico. V. in queste voi. il cap. «Autorità e libertà», p. 191 ss.
e il mio saggio ivi citato: Date of Isocrates' Àreopagiticus and the
Athenian Opposition.
191) Isocrate ragionò più a fondo questa teoria più tardi,
nel Panatenaico, ma mentre ·Platone vede realizzato in Sparta
l'ideale della costituzione mista (Legg. 692 a), Isocrate lo riporta
nell'antica Atene, già da lui elevata a modello nell'Areopagitico.
118) Cfr. supra, p. 194 s.
1H) Arist. 'A.&'IJ"· I!oÀ. c. 27, 1.
too) Cfr. Aesch. Pers. 103-113. Ma l'armata persiana e la
CAP. X: LE LEGGI [m423J 1759

in Persia, ma in Atene Eschilo l'aveva conosciuta, ed


è cosa che colpisce vedere come egli la comprenda
bene. Egli stesso, non dimentichiamolo, apparteneva
a quell'ambiente nobiliare che aveva centro in Eleusi.
Già nei Persiani appare che il destino dei barbari sia
stato definitivamente segnato solo con la battaglia ter-
restre di Platea 201 ). ·Platone va più in là e ricusa di
riconoscere importanza decisiva alla battaglia navale
di Salamina, che era il gran titolo di gloria nazionale
ateniese. Erano state le disfatte persiane a Maratona
e a Platea, le battaglie salvatrici della libertà della Gre-
cia 20 2). In questo punto appare specialmente evidente
il vincolo stretto che unisce la visione politica di Pla-
tone al suo ideale di paideia, inseparabili in lui come
in Isocrate.
Platone sa benissimo che l'uomo non fa leggi se-
condo che gli talenta, ma che la situazione di fatto è
fattore determinante nella legislazione. Guerra, gra-
vezza di situazione economica, epidemie, insuccessi si
tirano dietro innovazioni e rivolgimenti 20s). La Tyche
domina ogni momento della vita umana, anche della
vita associata. Chi regge e guida t~tto è Dio, dopo di
lui Tyche e Kairos; al terzo posto viene l'arte umana,
la techne, il cui apporto è quello che nella furia della
tempesta è dato dall' ~rte del timoniere, aiuto, senza
dubbio, di peso non scarso 204). Se fosse concesso al
legislator j concepire un desiderio sulla condizione pre-
liminare che gli sembri più importante per la fortuna
della futura città, Platone sceglierebbe volentieri come

sua distruzione è un motivo che pervade tutto il dramma, ogni


volta che il coro dei nobili persiani biasima o deplora la politica
del giovane re Serse~
so1) Aesch. Pers. 800 s.
902 ) Legg. 707 b-c.
208 ) Legg. 709 a.
1 °') Legg. 709 b-c.
1760 [m424] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

materiale adatto ai suoi piani uno stato retto dà un


tiranno educabile 205). Alla Tyche rimarrebbe il compito
di fare incontrare a costui il grande legislatore. sicché
si rendesse p ossihile il connubio augurato nella Re-
pubblica di ragione e potenza, il quale sembra anche
in questo momento a Platone la via più diretta per
l'avveramento d~lla sua idea 206). Egli sa, dall'esperienza
fatta col tiranno siracusano, che un tiranno può facil-
mente trasformare l'ethos di un popolo intero, con
l'elogio e il premio e coi loro contrari 207 ). Difficile e raro
è solo che un tale uomo si lasci afferrare da un eros
divino per la giustizia e la moderazione 208). E Pla-
tone ora, da vecchio, vede questa difficoltà più grande
che mai. Comunque, finché questa preliminare condi- ·
zione non è soddisfatta, questa via di realizzazione
dell'ottimo stato rimane un puro «mito» 209). Le re-
stanti forme di costituzione non sembrano a Platone
distinguersi dalla tirannide nell'essenza: la distinzione
è solo di grado. Sono tutte forme di potere assoluto
e la legge che in esse domina è l'espressione del volere
della classe di volta in volta dominante 210), sebbene
non sia essenziale alla legge per se stessa il fatto di

•OS) Legg. 709 e 6-710 b.


20 &) Legg. 710 c 7-d; cfr. Resp. 473 d; Ep. VII 326 a.

•07) Legg. 711 a 6: Platone si appella espressamente (per


bocca dell'ospite ateniese) a un'esperienza personale di uno stato
retto da un tiranno. Sull'influenza del tiranno sulle menti del
popolo, v. 711 h.
208) Legg. 711 d s.
209 ) Legg. 712 a.
210 ) Legg. 712 e 10-713 a 2. Cfr. 714 b, dove Platone richiama
la teoria di Trasimaco nella Repubblica, secondo cui dappertutto
la legge è fatta a beneficio della classe dominante nello stato,
e 715 a, dove chiaramente si allude al discorso di Callicle (cita•
zione da Pindaro), in difesa del diritto del più forte• Eccezio·
nale per Platone è soltanto la costituzione spartana, mista di
monarchia, aristocrazia e democrazia, che contiene perfino, nel-
l'istituzione degli efori, un elemento di tirannide (712 d-e). V. le
del tutto simili osservazioni sulla costituzione composita di Sparta
in 691 d-692 a (cfr. n. 197).
CAP. X: LE LEGGI [m425] 1761

essere il diritto del più forte 211). Per la soluzione del


problema che da ciò risulta Platone applica i suoi
assiomi e conclude che sono chiamati a governare, più
di tutti gli altri, quelli che più rigorosamente obbedi-
scono alla legge vera.
L'obbedienza alla legge cosi concepita non è altro
che obbedienza a Dio, che, secondo l' antico detto
ha in mano principio mezzo e fine di tutte le cose 212).
L'uomo senza Dio, quando è capo, trascina con sé
tutto nell'abisso 21s). Dio è la misura di tutte le cose;
è il fine a cui tutto deve tendere 214). Questo pensiero
fondamentale dell'ideale politico di Platone si mani·
festa nelle Leggi, con assoluta, semplice chiarezza,
laddove nella Repubblica era atteggiato filosoficamente
ed espresso attraverso concetti come« l'Idea del Bene»
e la« conversione» dell'anima ad essa, fonte di tutto
l'essere e di tutto il pensiero 215). L'Idea del Bene era
il nuovo aspetto, l'aspetto platonico, del divino, a cui
ogni altra cosa si doveva subordinare. Pensatori greci
precedenti avevano predicato come divino l'uno-tutto
inesauribile, o l'originaria forza principio del moto, la
mente formatrice del mondo. Nella speculazione pla-
tonica, animata di ragione etica o educativa, il divino
appare invece come la norma delle norme, la misura
delle misure. Cosi concepito il concetto di Dio diventa
centro e sorgente di ogni legislazione, e la legisla-
zione diventa sua immediata espressione e attuazione
terrena. Dio si rivela e opera nel cosmo dello stato
come nella natura. L'uno e l'altra sono per Platone

211) Nello stato delle Leggi nessun gruppo deve prender per
sé tutto il potere (715 b-c) e i reggitori debbono esser servi della
legge.
212) Legg. 715 e 7.
21•) Legg. 716 a 5-b.
214) Legg. 716 e; 717 a.
m) Cfr. « Paideia» II 492 ss., 515 ss.
1762 [rn426] UBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

in relazione scambievole, poiché anche nell'universo


domina la misura suprema in tutta la sua armonia 216).
La legge diventa cosi strumento per inserire e formare
in questa armonia l'uomo. Questa formazione è la sua
areté, e nella areté egli raggi11Ilge la pienezza della
sua natura. Su· questo nuovo concetto della natura,
della physis, come valore viene ad ancorarsi ferma-
mente il pensiero di Platone 217). Come mostrano le
trattazioni sull'anima contenute nelle Leggi, per Pla-
tone non è la materia, con la sua accidentalità il prin-
cipio dominante il mondo, ma l'anima, col suo ordine.
Dal mondo degli astri giù fino alla vita delle piante
tutto è unificato sotto il suo scettro, e anima significa
ragione e misura 218). In 11Il tal mondo la misura del
mero credere e opinare umano ha perduto diritto e
validità. L'idea educativo-politica di Platone sta tutta
nel rovesciamento della proposizione p:rotagorea « l'uo-
mo è misura di tutte le cose». Al posto dell'uomo egli

118) Platone nel Ti~o ha dato una interpretazione rigorosa


in questo senso del mondo visibile e dell'ordine che lo regge, coi
mezzi della scienza naturalistica del tempo suo. La sua filosofia
della natura è dunque lo sfondo necessario della paideia e teoria
dello stato, come è esposta nelle grandi opere politiche, Repub-
blica e Leggi. Rigorosamente parlando, un'esposizione della paideia
platonica ché escluda il Ti~o, come qualsiasi altra opera di
Platone, non è . completa; il che sia qui nettamente affermato
per prevenire la falsa impressione che l'autore di questo libro
ritenga possibile una tale separazione ed esclusione. Natural-
mente però questo libro non può trattare con la stessa ampiezza
tutte le parti della visione platonica del mondo, ma deve porre
in primo piano gli scritti che concernono direttamente il pro-
blema della paideia.
u•) La via di Dio è sempre xoi:-rdt cpuaL", 716 a 1. V. i ra-
gionamenti della Repubblica dove l'areM designa la condizione
che è xoi:-rdt 111ua'"· Come nel motto Deus sive natura Dio è posto
come equivalente alla natura ed è compreso partendo da essa,
cosi, ma inversamente, in Platone la v e r a natura è posta come
equivalente al Divino e al Bene, verso cui tende il mondo visi-
bile, senza però raggiungerlo mai.
118) V. su ciò il principio del 1. V e soprattutto il 1. X, in cui
tutta la teologia è costruita su questa teoria dell'anima e della
sua relazione col corpo.
CAP. X: LE LEGGI [rn427J 1763

mette Dio e pronunzia: « la misura di tutte le cose


è Dio» 219). Non è questa la prima. volta che noi tro-
viamo indicata la suprema misura dei valori da un
poeta o pensatore greco nella forma di correzione del
detto di un famoso predecessore. In sostanza Platone
con ciò non fa che instaurare di nuovo il rapporto di
polis, legge, divinità in modo corrispondente all' an·
tica concezione greca. Della divinità, però, è mutata
radicalmente la natura. Al posto degli individui dei
della polis è venuta la« misura di tutte le cose», lo
agath6n platonico, la forma originaria di ogni areté.
Il cosmo è divenuto una connessione teleologica e Dio
è il« pedagogo del mondo» 220). Nell'altra grande opera
della vecchiaia, nel Timeo, il .cui corso di pensiero si
svolge parallelo alle Leggi, Platone aveva mostrato
come il mondo ·delle Idee eterne è inserito dal divino
demiurgo nel mondo naturale dei fenomeni a dargli
forma. In questa opera le Idee sono i modelli, che
stanno nel mondo di ciò che è 221). Attraverso l'opera
della legislazione è il filosofo che si fa demiurgo del

• 11 ) Le parole stesse di Legg. 716 c dimostrano che Platone


si vuol richiamare con la formulazione che usa al famoso luogo
del Protagora e vuol porre il principio supremo del suo pensiero
in netto contrasto con ogni relativismo. « Iddio dunque sarà ve-
ramente per noi misura di tutte le cose, e lo sarà molto più. che
(come dicono) qualsiasi uomo». Dio è «misura» nel sènso che
è il fine ("t'O.ot;) al quale si deve mirare (a"t'oxa~ea.&cu), cfr.
717 a. Ciò richiama la Repubblica e il Gorgia, dove s'insegna che
il fine di ogni attività è il Bene, cioè il« Buono in sé». L'identità
del Dio delle Leggi con la « forma del Buono in sé> (l8éix "t'OU
&yix.&ou) del L VI della Repubblica non potrebbe essere espressa
più. chiaramente di quanto la esprima questo richiamo a tutto
quello che Platone aveva scritto, in quelle precedenti opere, sullo
axon:6t;. Dobbiàmo tenere ben presente che in Platone l'Idea
è il grado supremo di realtà di quello che essa è, e quindi che
l'Idea del Bene costituisce un grado del Buono più. alto e più
potente di qualsiasi altra cosa al mondo.
•• 0 ) Legg. 897 b: òp.&a: xixì e:ù8ixlµ.ovix mu8ixywye:1: miv"t'IX.
121 ) Questa formulazione, che chiarisce bene l'opera di crea·
zione del mondo descritta nel Timeo, si trova in Theaet. 176 e.
1764 [m428] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

cosmo della comunità umana, il quale deve essere inse-


rito nel cosmo più grande: cosi la signoria di Dio si
compie nella attuazione consapevole del Logos divino
da parte dell'uomo come natura ragionevole 222). In
questo senso è legittimo dire di Dio che egli è il peda-
gogo del mondo; non c'è formula anzi che come que-
sta illumini di colpo il punto d'origine e la sorgente
della nuova, platonica coscienza del Divino. Nel campo
dell'astronomia la nozione centrale e decisiva è, per
Platone, che - secondo le ricerche di Eudosso - le
stelle si muovono in cielo in un chiaro ordine eterno
se condo regole matematiche semplici e insieme pregne
di significato 223). Allo stesso modo, per lui, l'opera
legislatrice degli uon;i.ini cerca d'affrancare il moto degli
esseri viventi, in quanto partecipano della visione di
quell'ordine superiore, dalla casualità senza meta in
cui vanno errando, e di guidarli per cammini di bel-
lezza e di armonia. L'immagine del cielo stellato si
riflette coi suoi eterni giri nell'anima umana, nell'or-
bita del puro pensiero che in lei si conclude 224 ). L'edi-
tore delle Leggi, interpreta certamente l'intimo pen-
siero del maestro, assunto ormai all'eterno, quando
nell' Epinomis esalta la scienza degli « dei visibili»,
l'astronomia matematica, come inimagine sensibile della
sapienza suprema che in lei si realizza, la sapienza che
regna sopra le stelle 225).
Posto così il centro teologico della sua opera legi-
m) Era stato detto già in Legg. 643 a 7, cioè subito nel l. I
nella prima trattazione della natura della paideia, che essa alla
fine deve condurre a Dio. Dio è il suo supremo e fisso termine.
Secondo 645 a-b il legislatore è quell'uomo divino, che porta
in sé il vero Logos e persuade la polis a far di esso la sua legge,
e la legge è il filo con cuf Dio muove l'uomo, il suo trastullo.
923 ) Dimostrare ciò è il fine della teologia di Platone nei Il. X
e XII delle Leggi.
•") Tim. 37 a.
" 6) Il nome« dei visibili», in Epin. 984 d 5; il concetto del-
l'astronomia come scienza matematica, in Epin. 990 a s.
CAP. X: LE LEGGI [m429] 1765

slatrice, Platone si volge ad eseguirla. È questo il


punto in cui espone e discute il suo concetto fonda-
mentale sulla natura di ·una vera legislazi,one. Tutta
l'azione legislatrice è educazione, la legge è di essa lo
strumento. Cosi Platone arriva a quella esigenza, da
noi già precisata introduttivamente, che non si diano
solo prescrizioni, ma che si avviino gli uomini al retto
agire, mediante proemi preposti alle leggi 226). Ci sono
molte cose che è importante sian dette, e che pure
non si lasciano stringere nella consueta, laconica forma
dei paragrafi. legali 227). Con ciò, in fondo, lo stadio
della mera sovranità della legge, di cui è espressione
l'imperativo: « tu non devi», è superato dalla filosofia
che pensa per principn universali. Per essa il conte-
nuto materiale della legge non è così importante come
il principio razionale del precetto legale, cioè come la
norma morale. In pratica questa esigenza deve mol-
tiplicare necessariamente le difficoltà del legislatore.
Egli cerca di aggirarle :filosofando continuamente tra le
righe, per così dire, dei suoi paragrafi 228). Ciò doveva
condurre, naturalmente, a dare alla legge una mole
eccessiva, sicché il proposito non- può essere in tutto
e per tutto attuato. Ma quello che più importa a Pla-
tone è di dare, di tali leggi, qualche esempio singolo.
Cosi egli sceglie le leggi matrimoniali. Le dà prima
nella semplice forma usuale del precetto comminatorio,
poi nella sua nuova duplice forma, che associa persua-
sione e precetto 229). Il proemio viene naturalmente
assai più lungo della legge stessa. In esso Platone si rifà

•26) Cfr. supra, p. 376 s.


227 ) Legg. 718 b-c.
228 ) Platone chiama questo alternarsi di precetto legale e di
motivazione filosofica il« doppio modo di parlare», cfr. 718 b-c;
719 e s.; 720 e 6-8.
229 ) Per le nozzè, forma semplice della legge, in 721 a·b 3;

forma doppia in 721 b 6-d 6 (combinazione di peith6 e ananke).


1766 [m430] LIBRO IV - IDEALl DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

alla concezione ragionata nel Simposio, al concetto


della generazione come eternamento della schiatta uma-
na, che egli concepisce come unità, come catena inin-
terrotta delle generazioni. attraverso tutti i tempi.
All'immortalità in questo senso mira anche il de~ide­
rio degli uomini che il morto non. resti senza nome e
fama 230). È chiaro che anche qui Platone si muove
dall'antica idea greca di fama, di quel kleos che ade·
risce al nome e in cui si esprime il riflesso sociale del-
1' areté individuale 231). Portatrice di questo kleos, della
memoria e del nome, è in senso stretto la famiglia.
Che un individuo volontariamente si sottragga a que·
sta sorta d'immortalità è cosa che non si accorda
con la giustizia religiosa (IScnov) 232). Quindi - poi-
ché Platone fissa l'età matrimoni8le dell'uomo dai trenta
ai trentacinque anni - colui che prima di questo
termine non si è ammogliato è soggetto a una multa
annuale, la cui elevata misura deve distogliere gli
uomini dal profittare della vita di scapolo per crearsi
o aumentare il patrimonio. Costui è inoltre escluso
dagli onori che i più giovani rendono agli anziani,
nella città. In senso sociale egli non diventa mai « an-
ziano» 233).
Platone affida alla discrezione del legislatore il com-
pito di stabilire per quali leggi, maggiori o minori,
sia opportuno un proemio234). In certo senso egli con·
sidera proemio tutta la trattazione fin qui fatta 235 ) e in
questo spirito di proemio desidera che la discussione

180) Legg. 721 c; cfr. Symp. 208 d-e.


181) « Paideia» I 93, n. 10; cfr. p. 39 ss.
182) Legg. 721 c •.
233) Legg. 721 d. Ciò significa che egli non può esercitare
mai quell'autorità che, secondo il terzo assioma di Platone (690 a 7).
spetta al più anziano di fronte al più giovane.
234 ) Legg. 723 c-d.
235) Legg. 722 d.
CAP. X: LE LEGGI [m431] 1767

continui 236). Subito dopo il proemio riguardante i do-


veri verso Dio e verso i genitori e lonore loro dovuto,
egli ritiene indispensabile prima di tutto di trattenersi
sulla natura dell'anima, in quanto ciò è d'importanza
fondamentale per l'educazione 237). Finita questa parte
deve cominciare quella dedicata alla. vera e propria
legislazione. Si deve cominciarla con le leggi sugli uf.
fici e sulla struttura politica, nelle grandi linee, del
nuovo stato. La creazione, infatti, degli uffici e la
definizione delle competenze a ciascuno assegnate deve
precedere la creazione delle leggi secondo le quali i
pubblici ufficiali debbono governare 238). E qui ·Platone
fa di passaggio un'osservazione importante per l'or-
ganizzazione della paideia. Nella tessitura dello stato

""') Legg. 722 e 5.


u 7 ) Legg. 724 a. La teoria dell'anima, che è quanto dire il
nucleo essenziale del messaggio socratico, segue al principio del
1. V. La ·proposizione con cui termina il 1. IV ribadisce ancora il
concetto di colleganza tra i proemi delle leggi e la paideia. In
realtà le leggi, nel senso tradizionale, non bastano, se debbono
veramente educare il cittadino a quella areté propria del -réÀeoç
7tOÀl-r1jç, che era stata definita (643 a} la meta della vera paideia.
In una parola,· ciò che deve essere aggiunto alla legislazione e
deve pervaderla tutta fino alle più particolari disposizioni è lo
spirito socratico.
""") Finiti i proemi relativi a tutta la legislazione (734 e),
debbono seguire le vere e proprie leggi. Platone distingue due
et8"1] ?tOÀL-rdctç (735 a): l'istituzione degli uffici pubblici e la
creazione di leggi secondo le quali i detentori degli uffici stessi
debbano esercitare il potere. La trattazione del primo punto,
però, viene soltanto al principio del L VI, e di mezzo viene ad
inserirsi un'ampia discussione sulla divisione del possesso fon-
diario (735 b ). Questo passo importante è, se altri mai in tutta
l'opera, un tipico caso di composizione imperfetta. Certo, in sé
il luogo migliore per trattare di distribuzione delle terre (pro-
blema che molto agitava le menti di riformatori sociali del IV sec.)
sembra proprio questo; prime cioè che si tratti dell'ammini-
strazione dello stato. Ciò nonostante, il lettore non ha l'impres-
sione che Platone pensasse di porre qui quella trattazione, quando
scriveva le parole di 735 a 5-6, che annunziano il passaggio alla
istituzione degli uffici. Ivo BRUNS, Platos Gesetze, p. 189 s., ri-
tiene il passo 734 e 6-735 a 4 un frammento« erratico» del primo
abbozzo platonico.
1768 [m432] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

egli distingue l'ordito e la trama. Il primo deve essere


più forte che la seconda. L'ordito è rappresentato dai
chiamati a governare, l' areté dei quali deve essere
eminente su quella degli altri cittadini. Essi devono
quindi distinguersi da quelli che non hanno percorso
che· un modesto cammino nella paideia (crµtxpcX: 7tOCL-
~eLoc) 23 9). E difatti poi Platone nel dodicesimo libro, ap-
pena prima della fine dell'opera, venendo a parlare dei
reggitori e dell'educazione che loro spetta, accennerà
a una più accur~ta formazione (&xpL~ecr-rÉpoc mu~doc)
per questa classe 240). Nel quinto lihro, certo, l'osserva-
zione sembra prematura, giacché per il momento non
si sta parlando di paideia né alta né bassa, ma di tut-
t'altri problemi. Ma è chiaro che Platone ha in mente
fin da principio la questione educativa, alla quale poi
un intero lihro è dedicato, sotto laspetto legislativo,
il settimo. Evidentemente queste leggi del settimo
lihro coprono le esigenze della paideia« piccola», quella
a cui si riferisce l'accenno preventivo del quinto li-
bro (735 a). Si tratta dell'educazione dei cittadini in
generale, in contrapposto all'educazione dei futuri diri-
genti dello stato. Nella composizione dell'opera, quale
attualmente la possediamo, questa educazione elemen-
tare è del tutto in primo piano; ma ciò è perfettamente
giustificato. È attrattiva singolare delle Leggi,, il fatto
che vi si tratti a fondo un problema che non solo era
stato del tutto sorvolato nella . Repubblica, ma che
non era stato mai seriamente affrontato in tutte le

180) Legg. 734 e 6-735 a 4.


240) Legg. 965 b. Ma quello che Platone intende, in Legg. 670 e,
per « paideia più accurata» (cbtp L~eaTépcx 1tCXt~e:Ccx), rispetto a
quella destinata al 1tÀ'ij.&oç, non ha evidentemente niente a
che fare con la più alta cultura dei reggitori, di cui qui si parla.
L'espressione nel passo del l. Il non ha ancora quel preciso
valore concettuale, per il quale la &xp L~ea-.épcx 1tCX t~e:Ccx è
contrapposta nel I. XII alla aµtxpò: TrcxLl!da: del L V (735 a).
CAP. X: LE LEGGI [rn433] 1769

discussioni sulla miglior forma educativa fin dagli inizi


della Sofistica 241 ).
In realtà la creazione di un sistema completo di
istruzione elementare che costituisse la paideia del
popolo e la base dell'istruzione superiore, che era stata
argomento delle sue opere anteriori, fu una delle più
audaci innovazioni di Platone, ben degna del suo gran
genio pedagogico. Fu questo l'ultimo passo coiµpiuto
sulla linea del movimento socratico, per attuarne il
programma, un passo che doveva avere a distanza
i. più ·vasti effetti, sebbene allora nessun legislatore si
sentisse tentato a tradurre nei fatti l'ideale platonico di
un'educazione generale delle masse. Come ha mostrato
la storia della paideia greca, questo programma prese
le mosse (come sempre avviene là dove l'istruzione
aspira a essere qualcosa di più di un mero addestra-
mento tecnico e professionale) dall'antico ideale ari-
stocratico di formazione dell'intera personalità umana.
L.'ideale dell'areté fu trasferito all'educazione dei cit·
tadini tutti, che, nelle mutate condizioni sociali e poli-
tiche della città-stato dell'età classica, aspiravano or·
mai a partecipare alla kalokagathia dei gruppi più
colti. Ma il compito di realizzarlo fu lasciato del tutto
all'iniziativa privata dell'individuo, anche nella demo·
cratica Atene. Il passo, di portata rivoluzionaria, fatto
da Platone nelle Leggi, l'ultima sua parola in fatto
di educazione e ·politica, è la proposta istituzione di
un autentico sistema di istruzione popolare ad opera
dello stato. Questo problema ha nelle Leggi la stessa
importanza che nella Repubblica è data all'educazione

241 ) Non è verosimile che Platone abbia pensato mai a dare


nelle Leggi una trattazione dell'educazione superiore, che fosse
di uguale ampiezza di quella assegnata all'educazione elementare.
Infatti la paideia dei reggitori, se egli l'avesse tratt,ata a fondo,
non sarebbe riuscita essenzialmente differente dalla formazione
dei reggitori-filosofi, nella Repubblica.
1770 [m434] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

dei reggitori. E dove mai, in realtà, il problema avrebbe


potuto trovare l'attenzione che gli compete, se non
nello stato educativo delle Leggi, edificato sull'armo-
nia ideale di reggimento e libertà ?

Le leggi per l'educazione del popolo. - Platone


sa bene che non esiste campo in cui sia più difficile
l'intervento attivo nella vita .umana che il campo
dell'educazione. Gran parte della paideia si compie
in casa e nella famiglia, sottraendosi cosi alla critica
del pubblico 242 ). E per l'appunto è proprio l'infiuenza
domestica quella che ha l'importanza più grande. Su
questo punto Platone crede che resultati migliori si
possano cogliere per mezzo dell'ammonimento che per
via di precise prescrizioni 243). Allo stato attuale delle
cose, l'educazione privata nelle singole case si muove
in direzioni diverse e opposte, senza che il legisla-
tore possa far nulla contro una tale diversità, che
per lo più si manifesta in cose piccole, appena av-
vertibili. Ma, presa nel suo insieme, è proprio questa
varietà nel concepire la natura dell'educazione buona,
la cosa che rimette in questione la possibilità della
legislazione scritta 244). Comporre leggi a questo propo-

~) Il fatto che nello stato delle Leggi abbiano essenzial-


mente diritto di esistenza casa e famiglia, è un'approssimazione
alle condizioni della realtà. I fondamenti di questo ordinamento
sociale vengono posti in quella sezione dell'opera che tratta della
distribuzione della proprietà fondiaria (735 b ss.). La qual se·
zione non ha, certo, niente a che fare con la paideia, ma i concetti
che vi si espongono su proprietà e traffico, su1le norme che deb-
bono regolarli, sono, come è ovvio, di capitale importanza anche
per la struttura del sistema educativo. Inversamente, come Pla-
tone nota in 740 a, l'istituto della proprietà privata è espressione
di un determinato grado di cultura e civiltà, lo stadio appunto
esistente al suo tempo (xoc-rà: T~v viiv yév&aLv xocl -rpoip~v xocl
7tll:la&uatv).
243 ) Legg. 788 a.
1" ) Legg. 788 a-b.
CAP. X: LE LEGGI [m435J 1771

sito è certo molto difficile; ma non è neppure possibile


cavarsela col silenzio. Con questo accenno critico Pla-
tone viene a toccare lo stato di fatto dominante in
Atene e nella maggior parte delle città greche, che di
regolamenti legali dell'educazione non sapevano nien-
te 245). Platone si era già avviato a proporne di tali
quando parlava delle leggi sulle nozze e la generazione
dei figli, destinate a precedere immediatamente quelle
sull'educazione 24 6). Le due parti che si accingono a
contrarre matrimonio debbono avere ben fermo un
supremo fine di ordine sociale: la procreazione di figli
belli, il più possibile, e buoni 247 ). Qui non troviamo,
però, come nella Repubblica riguardo ai guerrieri, la
prescrizione di una scelta dei coniugi da parte dello
stato. Neppure l'istituto delle nozze, in sé, è contestato
nella sua validità, qui nelle Leggi. Pure Platone rac-
comanda alle due parti la massima attenzione alle con-
dizioni più favorevoli e stabilisce al proposito la for-
mazione di una commissione di donne che avrà sede
ufficiale nel tempio di Eilethyia, la dea delle nascite 24 s).
Là esse si tratterranno per qualche ora di servizio
ogni giorno, e vi daranno i loro consigli. Spetta a loro
diritto di sorveglianza sulle nozze per un periodo di
dieci anni, il periodo assegnato alla procreazione. Esse
intervengono quando il marito o la moglie non mo-
strano di darsi pensiero di aver prole, o sono inca-
paci a generarla, nel qual caso ha luogo il divorzio 249).
Le componenti di questa commissione vanno di casa
in casa, e consigliano le giovani spose, per prevenire
gli errori dell'ignoranza. Per tutti quelli che delibera-

241} Legg. 788 c.


248} yéve:crn;, -.poipfi e ,;t.t!lle:ucrn; sono elementi coordinati;
cfr. 740 a 2; 783 b 2.
247) Legg. 783 d-e.
248 } Legg. 784 a.
249 ) Legg. 784 b.
1772 [III436] LIBRO IV - IDEALI DI OJLTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

tamente e ostinatamente si oppongono ai consigli della


loro saggezza è previsto un complesso sistema di pene,
consistenti soprattutto in privazione di onori 200 ).
In questa materia Platone segue le suggestioni della
legge, spartana, costruendovi sopra ulteriormente. Sap-
piamo da Crizia e da Senofonte, scrittori ambedue di
libri sulla costituzione e sul costume educativo spar-
tano, che in Sparta la cura per la prole cominciava
:fin dal tempo del concepimento e della gravidanza 251).
Questa .disciplina eugenica trova grande favore nella
letteratura :filosofica del IV sec.; Aristotele, come Pla-
tone, le dà luogo nella sua utopia politi1<a, e più térdi
la accolg~no Plutarco e ·altri scrittori di pedagogia.
Nelle Leggi platoniche, è caratteristico come lo scrit-
tore si addentri nei fondamenti fisiologici ed eugenici
dell'allevamento di una prole migliore e più sana, con
attenzione assai maggiore che nella Repubblica, in con-
formità del suo nuovo concetto di porre nella prima
infanzia la fase decisiva dell'educazione morale 252). La
dietetica dei medici ha, questa volta, evidentemente
influito sulle sue concezioni in modo notevole. Quando
egli prescrive il moto per il bambino, fin da quando
è ancora nel grembo materno 253), non fa altro che
estendere il sistema dell'esercizio fisico, che era punto
di capitale interesse anche per la medicina contempo-
ranea. Platone si richiama all'esempio dei galli da
combattimento e di altri uccelli più piccoli che si sole-
vano allevare per lo stesso S<)opo. Per prepararli a
que$to, gli allevatori usavano portarseli in lunghe pas-
seggiate, o in braccio o sotto l'ascella 254). Infatti, dice

250) Legg. 784 e s.


151 ) Critias, fr. 32 Diels, Xen. Lac. Resp. I 4 s.
2 52 ) Cfr. supra, p. 396 ss., e Legg. 653 a s.
263 ) Legg. 789 a s.
254 ) Legg. 789 b-c.
CAP. X: LE LEGGI [!Il 437] 1773

Platone, lo scuotimento del corpo, con o anche senza


sforzo suo proprio, ha effetto corroborante anche sul-
l'uomo, come si vede nel passeggiare, nell'altalena, nei
viaggi per mare, nel cavalcare e così via 265). Perciò
Platone consiglia alle madri di passeggiare durante la
gravidanza, di far massaggi, che lo formino come cera,
all'infante, e anche, allo stesso scopo, di tenerlo in
fasce, fino a due anni. Le balie devono portare con sé
il bambino quando vanno in campagna, o a cerimonie
sacre, o a far visita a parenti 256), tenendolo in braccio
finché non si regga in piedi. Platone prevede una certa
resistenza da parte di madri e balie, ma, egli pensa
che ciò non ostante questi consigli debbono esser dati
ai genitori per illuminarli sui loro doveri e sulle conse-
guenze del trascurarli 257). Anche in seguito i bambini
devono esser sempre tenuti in movimento e, comun-
que, non si deve mai costringerli artificialmente al riposo.
La quiete è contro la natura del fanciullo, il quale,
anzi, dovrebbe notte e giorno rimanere in un moto
ritmato, come in una barca 258). Non il silenzio immobile,
ma il canto della balia che lo culla è quel che ci vuole
per calmare il bambino e farlo dormire, perché il mo-
vimento esteriore è mezzo di liberazione dall'angoscia
dell'anima e ha virtù calmante 259). La ragione di que-
sta cosi grande attenzione data da Platone a tali pro-
blemi medici è che egli ha pienamente inteso l'impor-
tanza del fattore fisiologico, per la formazione psico-
logica del carattere, dell'ethos. E a questa immedia-
tamente si applica la teoria della cura fisica del neo-
nato. La creazione dello stato di agio, l'allontanamento

16&) Legg. 789 c-d.


151) Legg, 789 e.
" 67 ) Legg. 790 a-h.
168) Legg. 790 e-e.
169 ) Legg. 790 e s.
1774 [rn438] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

del disagio nel bambino, per mezzo del movimento


fisico, è il primo passo per la formazione dell'anima.
Proprio perché Platone ravviso nella formazione del-
1'anima, tutta intera la formazione dell'uomo, egli poté
divenire il fondatore della pedagogia della prima in-
fanzia.
La liberazione del bambino dal senso di angoscia
è il primo passo della sua educazione al coraggio.
Questo è il risultato che Platone si ripromette dalla
ginnastica del neonato. Insoddisfazione e malumore
contribuiscono alla nascita della paura 260 ). Platone vuole
che si scelga la giusta via di mezzo tra le· carezze e
la durezza repressiva. Le une rendono ipersensibili e
melanconici i fanciulli, l'altra li fa servili, ipocrit~ mi-
santropi 261). Il che equivale, diremmo noi, alla colti-
vazione del complesso d'inferiorità, che l'educatore cer-
ca di tener lontano, con la maggiore attenzione, in
quanto sa che esso è troppo spesso il risultato di un
eccesso di educazione. Il fine deve essere di. formare
il fanciullo alla letizia. E il fondamento dell'armonia
del carattere, del suo pieno equilibrio deve essere posto
per tempo. Questa necessaria via di mezzo si raggiunge
con la massima di non procurare al fanciullo solo
piaceri, e di non privarlo di tutti i piaceri 262). In tutto
ciò ha una gran parte l'abitudine (Platone fa derivare
ethos « carattere» da ethos « abitudine) 283). Perciò
l'abitudine a un equilibrio di questo genere si deve
già avviare nei primi tre anni di vita, quando il bam-
bino è ancora quasi del tutto dominato dai sentimenti
di piacere e dolore 264 ). Queste direttive Platone non

Legg. 791 c.
150 )
181)Legg. 791 d.
182) Legg. 792 b B.; efr. 793 a.
1 " ) Legg. 792 e. Anche questo particolare fu poi ripreso da
Aristotele.
'") Legg. 792 h 4.
CAP. X: LE LEGGI [l!I439] 1775

le considera come legg4 ma come «usi non scritti»


(~ypixq>ix v6µ.tµ.ix). In ogni modo esse hanno per lui
la più grande importanza, sì da meritare il nome di
legami dello stato (8eaµ.ot 7tOÀt-rdocç), la cui strut-
tura è da essi tenuta insieme, e precipita quando ven-
gono a mancare 265). Le norme della paideia consistono
essenzialmente in saldi costumi (é&'YJ) e abitudini (è7tt·
"C''YJ8euµ.ix"C'ix) di questo genere, più importanti della legge
scritta (v6µ.oç). Questa e quelle sono però elementi
necessari a chi vuole edificare una nuova polis e darle
solida, unitaria struttura 266). Più tardi Cicerone, in
opere etiche e di filosofia politica, parlerà spesso di
leges et mores o di leges et instituta maiorum, volendo
designare tutto il complesso delle norme scritte e non
scritte su cui poggia la vita umana. Questa coppia
di concetti risale all'età classica dello stato greco,
dalla cui realtà di struttura sociale Platone la deduce,
per consegnarla al pensiero filosofico delle generazioni
più tarde. Egli si pone da sé l'obiezione che costume
e uso, in senso stretto, non sembrano a. loro posto
in un'opera dal titolo «Leggi». Se, ciò non ostante,
egli si serve molto di questa fonte nella sua creazione
legislatrice 267 ), non lo fa per un difetto di precisione nella
distinzione dell'un concetto dall'altro, ma in dipen-
denza, piuttosto, del motivo tutto suo della paideia.
Poiché il suo modo di intendere la legislazione è in
tutto e per tutto di carattere educativo, egli ne am·
plia il concetto tanto che gli basti ad accogliere larga·
mente costume e uso nell'opera sua, la quale del resto
non è destinata a essere scolpita in tavole di bronzo
sull'acropoli, ma è pur sempre un'opera letteraria.

le&) Legg. 793 a 10-c.


H•) Legg. 793 d. È evidente che tutto ciò è detto con rife-
rimento alle leggi ateniesi, che su tali materie tacevano; Cfr. 788 e.
H?) Legg. 793 d.
1776 [m440] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Come è dimostrato dalle molte citazioni dei costumi


(v6µ1µa.) di popoli stranieri nelle Leggi, c'è dietro que·
sta parte dell'opera tutto un ampio studio dei « no-
mima» ellenici e barbarici, tanto ampio quanto è quello
occorso per il paragone delle vere e proprie legisla-
zioni 268). È questo il tempo in cui in Grecia l'interesse
per la storia del costume, così proprio come dei po·
poli stranieri, raggiunge il punto culminante. E sarà
Aristotele il continuatore di questo lavoro, che nel-
1'Accademia fu evidentemente coltivato a fondo, e
proprio in un contesto d'idee come quello che nutre
le Leggi.
Platone divide in periodi l'educazione dei fanciulli.
Dal terzo al sesto anno di vita il bambino deve gio·
care. Durante il gioco si deve già intervenire con qual·
che punizione nel caso di bambini troppo molli e iper·
sensibili, punizione tale però da non lasciare nel punito
uno strascico d'ira e rancore, pur conservando carat·
tere di sanzione 269 ). Il gioco, i bambini di quest'età
devono inventarselo da sé quando si trovano insieme;
non si deve imporgliene uno bell'e fatto. I raduni
dei bambini, Platone vuol che si facciano in luogo
fisso, uno per ogni distretto (x&µ"fJ), accanto ai templi
o sacelli che si trovano in ciascuno (e con ciò Platone
precorre la moderna scoperta dei giardini d'infanzia).
La sorveglianza, anche sul contegno, è affidata a bam·
binaie. Queste e tutta la loro schiera o « gregge»
(&.yÉÀ"fJ), come Platone la chiama con la parola spar·
tana, sottostanno alla sorveglianza di una signora fa.
cente parte di una commissione di dodici eletta a
questo scopo dall'altra commissione, delle donne so·

288) Sono citati e portati come esempi 116µtµoc (o bn-t'IJ·


8e:uµocToc) di Spartani, Cretesi, Celti, Iberi, Persiani, Cartaginesi,
Sciti, Traci, Sauromati e di molte città e regioni greche.
••9) Legg. 793 d 7-e.
CAP. X: LE LEGGI [ru441] 1777

printendenti alle nozze 270 ). L'educazione di maschi e


femmine deve essere fino al sesto anno in mani fem-
minili, ed è coeducazione. Di qui in poi Platone vuole
distinzione dei sessi 271). Si deve, a tutti, insegnare a
servirsi indifferentemente per tutto di tutte e due le
mani, non com~ ora si fa, solo della destra 2 72). E qui
di nuovo si fa un richiamo alla ginnastica, trattata
troppo in fretta precedentemente 273). Questa è ri-
dotta alla danza e alla lotta. È eliminato tutto quello
che in essa non serve per la successiva educazione
militare 274), una buona parte, cioè, di quel che doveva
essere 1' atletica di quel tempo, ormai fine a se stessa.
D'altro canto da quello che Platone dice dopo sugli
insegnanti da scegliere in questo campo si ricava che
egli vorrebbe moltissimo ampliato il concetto di gin-
nastica, fino a includere una quantità di esercizi mi-
litari, sì che della celebrata ginnastica greca non ri-
mane, nello stato delle Leggi, molto più che il nome 27 5).
Leggiamo infatti di maestri fissi e stipendiati per
l'arte dell'arco e del lancio del giavellotto, per la scher-
ma con armatura leggera o pesante, per la tattica e
per ogni sorta di manovre di unità militari, per eser-
citazioni di campagna, per l'equitazione e così via.
Tutto questo compreso, per diéhiarazione esplicita di
Platone a questo punto, negli esercizi ginnastici 27 6).
Ciò vale, certo, per uno stadio successivo dell'istru-
zione, ma la giusta prospettiva in cui porre le direttive
di Pfatone sulla limitazione della atletica si ha solo

HD) Legg. 794 a-b.


A7l) Legg. 794 e.
172) Legg. 794 d 5-795 d. A prova della possibilitll di un tale
addestramento « ambidestro» vengono addotti gli usi degli Sciti:
795 a.
1?3) Legg. 795 d 6 s.
"") Legg. 796 a.
116 ) Legg. 813 e 6 s. Sui maestri di arti speciali v. 813 e.
178). Legg. 813 d 6.
1778 [m442] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

quando tutto questo si considera insieme a quanto è


detto sullo stadio elementare della ginnastica. Quel
che egli vuole che si promuova è un elevato e libero
stile di portamento umano, e per questo fine la gin-
nastica, in quella forma che egli raccomanda, è valido
mezzo. Egli parla in favore della risurrezione delle
vecchie danze in armi, quella per es. dei Cureti a Creta,
dei Dioscuri a Sparta, di Demetra e Core in Atene 27 7).
E a noi vien fatto di pensare, a questo punto, che già
Aristofane nelle Nuvole aveva biasimato la decadenza
di queste danze come un segno del t-ramonto dell'antica
paideia 278). Platone vede con la fantasia la gioventù
della città, nell'età in cui non partecipa ancora alla
guerra, procedere in armi e a cavallo nelle proces-
sioni solenni in onore degli dei, cosi come noi la ve-
diamo idealizzata nel fregio del P artenone, e vorrebbe
che essa facesse prova e misura delle sue forze in agoni
e preagoni 279 ).
Questa medesima tendenza al rafforzamento dello
spirito militare, che constatiamo nella teoria platonica,
si può cogliere anche nella realtà politica del tempo.
Il servizio militare obbligatorio per tutti i cittadini
non era soltanto originariamente istituzione spartana,
ma costituiva anche nella democrazia ateniese il fon-
damento giuridico dell'esistenza civica. Ben lungi dal-
1' apparire istituzione non democratica, la coscrizione
valeva invece come l'ovvio presupposto delle libertà
godute da ognuno in quanto cittadino. Nel periodo
della massima potenza ateniese, il V sec., quando
furono cosi frequenti le guerre, l'adempimento di que-
sto dovere si presentò sempre come cosa ovvia e indi-
scutibile. Poi quando sorse e venne prendendo piede

977) Lq;g. 796 b.


HB) V. « Paideia » I 629.
171) Legg. 796 e-d.
CAP. X: LE LEGGI [1!1443] 1779

l'istituzione delle truppe di mestiere, nel IV sec., ecco


farsi generale il lamento sulla sempre più scarsa atti-
tudine e volontà dei cittadini nell'ésercizio delle ar-
mi 280). Ma anche allora il servizio militare biennale
degli efebi rimase in vigore, anzi rappresentò, di fronte
a quello stato di fatto, un'esigenza ancor più impor-
tante per l'educazione della gioventù. Si è creduto
necessario da taluno ammettere che lo stato ateniese,
nel periodo dopo la disfatta di Cheronea, nella le-
gislazione relativa alla formazione militare degli efebi,
abbia seguito anche in pratica le suggestioni pla-
toniche delle Leggi 281). Fin qui non si può certo
arrivare, in considerazione del fatto che l'efebia, e
gl'istituti connessi risalgono a età molto più antica 282 ).
Ma è vero che nelle Leggi domina quello stesso spirito
r,he poi si fece valere nella democrazia ateniese, al
tempo delle riforme di Licurgo, un decennio dopo
la pul>blicazione di quest'opera. Allora però la libertà
era già perduta definitivamente. Troppo tardi si fece
ricorso alla medicina, perché questa potesse far bene:
la gran maggioranza dei cittadini non capi la necessità
di una preparazione e attitudine militare, se non
quando fu messa di fronte al fatto della sconfitta che
annientava per sempre la democrazia ateniese.

Alla ginnastica segue, a questo punto dell'opera di


Platone, la musica 283), il che potrebbe sembrare su-
perfluo, visto che se n'è già trattato nel secondo libro,
in connessione col problema di abituare per tempo i
fanciulli a sensazioni di piacere buone e oneste 284).
280) Isocr. Àreop. 82. Demosth. Phil. I passim.
In) WILAMOWITZ, Aristoteles und Athen, I, p. 353.
•••) Cfr. J. O. LOFBERG, The Date of Athenian Ephebeia,
« Classical Philology » Voi. XX, pp. 330-335.
1113) Legg. 796 e.
18«) Legg. 659 d s. Cfr. 673 b 6, dove si dice che la tratta-
zione della musica è terminata.
1780 [m444] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Anche qui, nel libro settimo, il punto di vista da cui


Platone affronta l'educazione musicale è lo stesso, e
rappresenta ciò per cui la trattazione delle Leggi più
si differenzia da quella corrispondente della Repub-
blica. Colà Platone si era specialmente preoccupato
di porre i nuovi concetti etici e metafisici della sua filo-
sofia come criterio e misura dell'arte musicale, tanto
per il contenuto quanto per la forma; nelle Leggi il
suo interesse maggiore, come si è mostrato poco fa,
è volto alla fondazione psicologica dell'opera educa-
tiva, e trova perciò il punto di partenza nella forma-
zione dell'inconscio 28 5 ). Mentre, però, ancora nel se-
condo libro delle Leggi il problema della norma era
in primo piano e il discorso aveva a lungo indugiato
sulla questione di chi possegga retto criterio sulle cose
dell'arte 28 6), qui nel settimo libro Platone procede
risoluto da legislatore e porta in primo piano il suo
concetto dell'« imparare giocando» 28.7). Questo era già
stato espresso nella trattazione precedente 288), ma Pla-
tone ora lo riprende di nuovo con una esposizione di
principii, sul valore educativo del giuoco, il quale è,
secondo lui, del tutto disconosciuto finora in tutte
le città 289 ). Ripetizioni di questo genere, siano esse
nella natura dello stile platonico e, in generale, dell'ethos
di chi insegna, o si debbano invece al fatto che le Leggi
non hanno avuto l'ultima mano, sono in ogni caso
indicative di quel che veramente importa a Platone. Il
problema del giuoco dové più che mai affaticarlo nella
vecchiaia, e precisamente in quanto il giuoco sia mezzo
di precoce formazione di un carattere buono. Dai
tre ai sei anni d'età, egli aveva voluto che il giuoco
28") Cfr. supra, pp. 371 s., 395 ss.
1&•) Legg. 658 e; v. n. 104.
117) Legg. 797 a s.
•ss) Legg. 643 b·c; 656 c.
181 ) Legg. 797 a 7.
CAP. X: LE LEGGI [m 445] 1781

foss.e libero, del tutto lasciato all'inventività del fan-


ciullo 2.90); per le età successive, invece, debbono esser
prescritti determinati giuochi, informati a un preciso
spirito. Il primo presupposto di ogni educazione è la
stabilità delle norme, l'esistenza di durevoli istituzioni
pubbliche in cui si affermi e conservi la buona tradi-
zione. Convinto di ciò Platone, nelle Leggi, riprende
le direttive già esposte nella Repubblica per la conser-
vazione di una tradizione musicale pura, e cerca di
dar loro base salda e concreta possibilità· di attua-
zione nell'abitudine, formata per tempo nel fanciullo,
a forme fisse di giuoco~ Nel giuoco non è lecito mutar
niente, il giuoco non deve essere oggetto di moda,
di capriccio, di sperimentazione, che sono per Platone
i difetti caratteristici del suo tempo 291). La parola
« vecchio» non deve aver niente di quel senso peg-
giorativo che le si è attaccato in questi tempi di mode
mutevoli 29 2). Giuochi nuovi significano nuov.o spirito
infuso nei giovani, e questo porta con sé nuove leggi.
Ogni mutazione è pericolosa in quanto tale (tranne
che si tratti di mutazione di un male riconosciuto),
come nel campo del clima o del regime fisico e igie-
nico, cosi nell'intimo del carattere 293).
Platone cerca, quindi, di dare stabile forma alle
espressioni dell'istinto umano del giuoco, ai ritmi e
canti, presentandoli., sul modello dell'arte egiziana, di
cui si è fatto cenno 294), come sacri, immutabili, intocca-
bili 2 95 ). Parlando storicamente questo non sarebbe al-
tro che ricondurre alle fotme ieraticamente vincolate
delle 0origini tutta la poesia, annullando tutto quello

200 )Legg. 794 a.


•H) Legg. 797 h-c.
192) Legg. 797 e 5-d.
•••) Legg. 797 d.
29') Legg. 798 h-d; santità di canti e danze: 799 a,
HA) Legg. 695 d; cfr. 797 a.
1782 [m446] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

svolgimento in cui era consistito il vero e proprio


lavoro dei Greci, e rendendo impossibile la poesia come
espressione dell'individuo. Infatti, fuori ~ei canti e
delle danze ufficiali, ogni altra forma è proscritta nelle
Leggi. In greco nomos significa « legge» e « canto», e
Platone vorrebbe portare i due significati a identifi-
carsi assolutamente. I canti che egli ammette nel suo
sistema educativo sono come leggi, che nessuno possa
trasgredire 296). Tutta una serie di disposizioni fonda-
mentali regola di essi lo spirito e la forma, ne fissa il
fine e i temi 297 ). Per farne la scelta è stabilita una
magistratura apposita, la quale può anche dar nuova
redazione a un materiale in parte usabile, con un
lavoro, evidentemente, del genere stesso di cui Platone
ha dato prova poco prima, modificando l'elegia di
Tirteo 298). Per i poeti del presente, inoltre, che deb-
bono aver sempre gli occhi fissi, come a norma, allo
spirito della legge, le direttive sono da intendersi fis-
sate solo per il primo tempo, subito dopo la fonda-
zione dello stato, dopo di che più nulla potrà essere
cambiato nei canti accettati ufficialmente. Tutt'al più,
accanto a questa poesia di tradizione rimarrà posto
per poesie d'occasione, come inni o encomi per citta-
dini benemeriti, e anche questi dovranno limitarsi,
ai morti che abbiano conservata intatta l'areté, ·fino
alla fine dei loro giorni 299).
Praticamente, questo suo nuovo ordinamento Pla-
tone se lo immagina in modo che l'assoluta fissità
della tradizione si congiunga sempre in esso con la
necessaria varietà. Perciò egli assume l'anno come

...) Legg. 799 e-800 a.


197 ) Legg. 800 b-801 e.
298 ) Legg. 801 d; 802 b; cfr. sulla poesia di Tirteo« rifatta»,
supra, p. 383 s.
oa•) Legg. 801 e-802 a.
CAP. X: LE LEGGI [m447] 1783

unità fondamentale nella misura della vita umana,


e nell'anno vuol che sia fissato un giorno festivo per
ognuna delle divinità superiori e inferiori, da solen-
nizzarsi con sacrifici e preghiere 300). Per ogni festa
sacrificale egli stabilisce canti speciali, movenze ritmi-
che e atteggiamenti, che chiama« schemat{i », parola che
del resto è d'uso regolare in greco a indicare elementi
ritmici 301 ). Questo che nelle Leggi si legge descritto
come ideale ordinamento di vita, è paragonabile sol-
tanto con l'anno liturgico della chiesa cattolica, con
le sue feste e riti prescritti per ogni giorno. Il para-
gone che già ci si è imposto come ovvio 302) trova con-
ferma anche in questa particolare conseguenza che
Platone trae dai suoi principii. Finché si cerca di con-
cepire l'edificio educativo platonico come stato, i suoi
lineamenti ci appaiono strani e lontani da ogni espe-
rienza, ma appena si pensa alla più grande istituzione
educativa del mondo postclassico, alla chiesa catto-
lica, l'ultima opera di Platone ci appare appunto
come un'anticipazione profetica di molti tratti essen-
ziali del cattolicesimo 3 0 3 ). Quello che nel nostro mondo
800 ) Legg. 799 a.
8•1 ) Legg. 802 e 5; cfr. « Paideia»·I 240-241.
802 ) Cfr. supra, p. 399.
803) Fra gli elementi che nella paideia platonica corrispondono

alla struttura spirituale della chiesa è da mettere, oltre il valore


dato alle forme costanti e rituali di atteggiamenti, canti e mo-
venze, soprattutto il fatto che Platone fonda tutta la vita e l'edu-
cazione umana su un sistema teologico e giudica la volontà di
Dio sola misura di tutte le cose. Platone vuole che per chi nega
la verità del sistema e dubita dell'esistenza di Dio sia comminata
la pena di morte: v. il l. X, 907 d-909 e. In ciò egli si riallaccia
alla forma del processo per empietà, propria anche dell'antica
polis. Ma mentre questa aveva condannato Socrate a morte per
la negazione deglì dei della città, nello stato platonico delle Leggi,
al contrario, si punisce di morte chiunque non creda al nuovo Dio
annunziato da Socrate. Platòne, certo, è convinto che chi ha
praticato per anni la cura filosofica dell'anima, che egli prescrive
per i negatori di Dio prima di abbandonarli come inguaribili,
non potrà a meno di riconoscere e di accettare la verità della
dottrina dell'eterno Bene.
1784 [rn448] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

è separato m chiesa e stato, era ancora unificato per


Platone nel concetto di polis. Eppure non c'è nulla
che più abbia contribuito a spezzare questa unità e a
fondare un regno dello spirito accanto e sopra al regno
di questa terra, della immensità di richieste poste da
Platone al potere educativo, spirituale, della società
umana. . Lo stato che egli edifica intorno al centro
della sua idea educativa si accosta sempre di più, nello
svolgersi dalla Repubblica alle Leggi, a quel regno
sulle anime che fu più tardi realizzato dalla chiesa.
Ma un concetto fondamentale rimane costante in
Platone, ed è che questo regno non è altro che la più
intima natura dell'uomo, pura e semplice, condotta a
realizzarsi da una guida superiore; non è che la signoria
di ciò che in noi è più alto sul più basso, posta da lui
come esigenza fondamentale negli assiomi delle Leggi.
Un'estensione così imponente del concetto di giuoco
giovanile e delle sue forme può apparire a qualcuno
un'enorme esagerazione di un pensiero in sé giusto;
e in ogni modo essa sposta il centro di gravità
dell'esistenza dai fatti e azioni che siamo soliti
prendere specialmente sul serio, al campo di tutto ciò
che nella vita consideriamo accessorio. Platone è di
ciò pi<'namente consapevole ed opera questa conver-
sione di valori ponendola in relazione col principio
base, teocentrico, della sua legislazione, in parole di
religiosa solennità. Al principio dell'opera egli aveva
chiamato l'uomo un giocattolo nelle mani di Dio 304). Da
questa immagine, se la colleghiamo col pensiero espresso
nel proemio della legge, nel quale Iddio è affermato '
misura delle cose 305), scaturisce la conseguenza che
egli qui proclama: la vita dell'uomo non è degna di
esser presa grandemente sul seri.o. Nella realtà (q:n'.>cre~).
304 } Legg. 644 d.
• 0 •) Legg. 716 c.
CAP. X: LE LEGGI [III449J 1785

di esser preso assolutamente sul serio è degno soltanto


Iddio, e, nell'uomo, soltanto quel che di divino è in
lui 3 0 6). Questo è il Logos, i cui fili muovono l'uomo retti
da Dio. Nella sua forma più alta l'uomo è un trastullo
di Dio 307) e il modo di vita a cui dovrebbe tendere
consiste in questo, nel giocare nel modo che piaccia
il più possibile a Dio 308). Senza questa prospettiva
divina l'umano perde ogni valore indipendente. In par-
ticolare, la lotta e la guerra non sono più ciò che di vera-
mente serio ha la vita, giacché non contengono « né
giuoco (mx:Llhoc) né alcuna forma notevole di educa-
zione {mx:L~doc), cioè di quello che per noi è più da
prendersi sul serio». Perciò l'uomo do"\.7ebbe consi-
derare lo stato di pace, e non quello di guerra, come
essenziale e capitale nella vita umana, come del resto
si pensa da tutti quando si dice che si fa la guerra
per aver la pace 309). La vita intera dovrebbe essere
una continua celebrazione religiosa, con sacrifici canti
e danze, per ottenere il divino favore. D'altro canto
la difesa contro il nemico rimane un dovere impre-
scindibile, al quale l'uomo educato in questo spirito
è preparato meglio d'ogni altro 310). È questo un ideale
a cui, più precisamente di ogni altra istituzione, hanno
forse corrisposto nella storia gli ordini cavallereschi
religiosi del Medio evo.

Mentre, guardato in complesso, lo stato delle Leggi


platoniche sembra, almeno di fronte al pensiero libe-
rale del sec. XIX, così alieno dal mondo moderno, vi
s1 ritrovano d'altra parte in buon numero esigenze
T.egg. 803 h·c.
• 0 •)
Cfr. Legg. 644 d. 7-MS b. Nel passo di cui stiamo par-
307 )

lando (803 c; 804 b) Platone si riferisce intenzionalmente a questa


immagine.
308 ) Legg. 803 c, e.
309 ) Legg. 803 d.
310 ) Legg. 803 e.
1786 [III450] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

singole modernissime, come istruzione obbligatoria per


tutti 311), equitazione per le donne 312), costruzione dì
scuole pubbliche, di palestre e campi di sport 313), edu-
cazione per i due sessi 314) (nella Repubblica Platone la
voleva solo per la classe dei guerrieri), rigorosa distri-
buzione della giornata lavorativa 315) e lavoro notturno
(del tutto sconosciuto all'uomo greco) per uomJill m
posizione direttiva nella vita pubblica o privata 316),
controllo sui maestri 317 ) e istituzione di un ufficio
superiore pubblico per l'istruzione, con un vero e pro-
prio ministro dell'istruzione alla testa 318). Nel punto
a cui ci riferiamo l'esistenza di un tal funzionario,
chiamato epimeletés della paideia, è da Platone
semplicemente presupposta, mentre la proposta espli-
cita di istituzione dell'ufficio si trova già nel sesto
libro delle Leggi, quando si tratta della is~tuzione
di tutte le cariche (à.px&v wx-r&a"t'ct.m.ç), soggetto spe-
cifico di quel libro. È opportuno richiamare qui bre-
vemente, che Platone, nel passare dai proemi alla
vera e propria legislazione (735 a 5), aveva distinto
leggi sopra l'organizzazione dell'amministrazione e leggi
esecutive per l'amministrazione dello stato. L'istitu-
zione di pubblici ufficiali per la musica e la ginnastica
è fissata nelle pp. 764 c-f e ad essa si riattacca come
coronamento (765 d) l'istituzione dell'ufficio educativo
più importante: quello di ministro per l'istruzione,

311 ) Legg. 804 d.


810 ) Legg. 804 e.
313 ) Legg. 804 c.
814 ) Legg. 805 c.
316) Legg. 807 d 6-e.
316 ) Legg. 807 e.
317 ) Lcgg. 808 e.
318 ) In Legg. 809 a Platone designa il supremo magistrato

preposto alla istruzione statale come o <wv voµoq>uÀiixwv &7tl


-riJv ,;;,.., md8wv &px'Ì)v 'fwriµévoc;; in 809 b 7 e in 813 e 1 come
mxlSwv &mµe:À1)«7Jç; in 811 d 5 e 812 e 10 come m.tt8e:u't"'ljc;; in
813 a 6 come o 7te:pl •'Ì)v µoumxv ò!pxwv.
CAP. X: LE LEGGI [IIJ451J 1787

al quale non può essere eletto chi abbia meno di cin-


quant'anni. Fin da questo punto, dunque, in una
trattazione che noi diremmo di diritto costituzionale,
Platone rileva con parole solenni (766 a) la fondamen-
tale importanza della paideia nel suo stato, e con essa
dà ragione della creazione, che doveva sorprendere
menti greche, di un ufficio del tutto nuovo, espressione
evidente del posto centrale che in uno stato come
questo spetta alla paideia. Platone insinua tanto agli
elettori come all'eletto che l'ufficio di magistrato su-
premo dell'educazione è, tra i più alti uffici, di molto
il più importante (765 e 2). Con l'istituzione di questo
ministero dell'istruzione il legislatore vuole impedire
che l'educazione diventi mai nel suo stato «cosa ac-
cessoria». L'elezione del ministro è circondata di inso-
lita solennità formale. Tutti i magistrati, tranne ì com-
ponenti la bulé e i pritani, si adunano nel tempio di
Apollo e scelgono a votazione segreta, tra i membri
del consiglio segreto di stato (vux"t'e:ptvòç crUÀÀoyoç)
dei « custodi delle leggi» (voµ.oC?ÙÀocxe:ç), quello che
appaia loro più adatto agli affari dell'educazione. Al-
l'elezione succede una prova della dignità dell'eletto
(aoxtµ.oco-Loc) alla quale non prendono parte i suoi colle-
ghi più prossimi, i nomophylakes. La durata della ca-
rica è di cinque anni e il detentore di essa non è rie-
leggibile. Egli rimane però membro del consiglio not-
turno, al quale, naturalmente, apparteneva di ufficio
come epimeletés o curatore della paideia. Ma ritor-
niamo, dopo questa digressione giuridico-costituzionale,
ai doveri di questo funzionario.
La prima questione che i:;i pone è come debba
essere, egli stesso, educato, il magistrato supremo del-
l'educazione319). Egli deve accingersi all'ufficio prov-
319) Legg. 809 a 6. L'educatore dei più alti magistrati edu·
cativi è la legge stessa.
1788 [m452] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

veduto di istruzioni, le più particolari possibili, per


farsi poi a sua volta per gli altri interprete di esse e
educatore 320). Fondamento di questa sua formazione
debbono essere le prescrizioni su danze e canto, poiché
l'educazione religiosa fornisce l'inquadramento di tutto
il resto 321). Pure, oltre queste materie, i figli dei cit-
tadini liberi - perché di questi si tratta nelle Leggi -
debbono acquistare molte altre cognizioni. Si tratta
quindi, a questo punto, del leggere e scrivere, del
sonar la lira e della lettura dei poeti destinati non al
canto, ma alla recitazione 322).
Questo problema di come si debbano studiare a
scuola i poeti, è trattato molto a fondo. Platone bia-
sima lerudizione spicciola, la polymathia, che in questo
campo valeva per molti in quel tempo come cultura 323),
Come è confermato anche da altre fonti contempo-
ranee, si imparavano a memoria poeti interi 324), con-
forme a quella concezione della poesia che Platone
combatte nella Repubblica, di enciclopedia del sape-
re 325). In luogo di ciò egli propone, ed è il primo che
lo faccia nella storia dell'istruzione, che si preparino
libri di lettura contenenti solo una scelta del meglio 326).
Egli vuole che solo passi singoli di opere poetiche
s'imprimano nella memoria, per non sovraccaricarla
di materia. Questa scelta, i maestri debbono compierla
guardando a un modello, a quello del suo libro stesso,
le Leggi 327). E qui l'autore sembra dimenticare per
mi momento l'illusione del dialogo reale e pensa al-

128) Legg. 809 b.


an) Cfr. Legg. 800 a 1., dove si danno minuti precetti perché
si formi una salda tradizione nel canto e nella danza.
· Hl) Legg. 809 e-810 c.
111) Legg. 810 e.
12') Cfr. Xen. Symp. 3,5.
126) Resp. 598 e; 599 e; cfr. Xen. Symp. 4, 6.
128} ~gg. 811 a,
IH) Legg. 811 e e., specialmente d S.
CAP. X: LE LEGGI [rn453] 1789

lopera sua come a opera letteraria. Essa gli è sugge-


rita da ispirazione divina proprio come qualunque
altra creazione poetica, anzi Platone arriva a porla
esplicitamente sullo stesso piano della poesia in versi,
testimonianza, questa, delle più significative, della sua
consapevolezza di artista 328). Non solo i giovani debbono
leggere le Leggi come poesia del più alto livello, ma su
esse i maestri debbono formarsi il criterio della vera
poesia e studiarle col massimo impegno 32 9). Il più
alto magistrato per l'educazione deve scegliersi i col-
laboratori e il corpo insegnante, secondo la compren-
sione da questi dimostrata per quest'opera e per i
concetti in essa esposti. Chi non è capace di trovarsi
in intimo accordo con lo spirito di queste « Leggi»
è inetto come educatore, e non può trovare impiego
nello stato platonico 3 30). È facile per noi, oggi, vedere
il pericolo che in ciò si nasconde: che, cioè, molti si
mettano a lodar questo libro al solo scopo di trovare
un impiego. Come che sia, Platone intende che esso
valga come il codice di ogni sapienza educativa e
come inesauribile miniera di contenuti culturali. E a
questo fine vorrebbe che andasse per le mani di ogni
« grammatista», o maestro elementare 331).
Non si può qui espo~e in particolare come, dopo
il maestro di lettere, debba secondo Platone essere
istruito il maestro di musica o citarista 332), o come il
regolamento per la ginnastica e l'orchestica trasferisca
nella pratica i concetti generali che abbiamo esposti di
sopra (p. 444 s.) 333). In questi paragrafi si trovano natu-
ralmente numerosi punti di contatto con la Repubblica

328) Legg. 811 e 6-10.


329 ) Legg. 811 e.

33°) Legg. 811 e 6-812 a I.


331 ) Così è designato il maestro di po~sia: 812 b.
''") Legg. 812 h s.
8 '") Legg. 813 b s.
1790 [m454] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

e con; la trattazione di tale problema nei libri precedenti


delle· Leggi 334). La serietà di Platone trapassa agevol-
mente in ironia, e così egli presenta ai poeti, a cui
rimprovera l'imitazione di cattivi modelli e soggetti
in canti e Diodi di danza, il suo libro delle Leggi, come la
più bella delle tragedie, in quanto esse sono imita-
zione della vita più bella e migliore 335). « Voi e noi»,
cosi egli dice loro 336), « siamo poeti nello stesso genere,
noi, i filosofi, siamo i vostri concorrenti, antagonisti
nel dramma più bello, quello che solo la vera legge
(il v6µoc;) è capace di portare a perfezione; e questa
è la nostra speranza.... ora dunque, rampolli delle
morbide muse, prima di tutto mostrate ai magistrati
i vostri canti a fianco dei nostri, e se i vostri sono
ugualmente buoni o migliori dei nostri vi daremo il
coro; altrimenti, amici, non potremo». Fin dagli inizi
l'opera letteraria di Platone si era posta in gara con
la poesia tradizionale; questa competizione era stata
il presupposto delle accuse mosse nella Repubblica ai
1

poeti classici. L'ultimo logico passo su questa via è


l'introduzione proposta per via di legge da Platone
delle proprie opere in luogo della poesia antica, come
materia d'insegnamentÒ nelle scuole e nelle orchestre
del suo stato futuro. Ciò è, a parte la questione della
realizzazione di una tale esigenza, elemento veramente
chiarificatore per l'intelligenza di Platone: il filosofo
si fa poeta per creare la nuova paideia e fonda lo stato
che ha in mente sull'opera propria. Questa sua affer-
mazione è da porre accanto a quelle del Fedro e della
Lettera VII, in cui Platone sembra togliere quasi ogni
valore alla parola scritta 337), perché subito si colga,

...) Da confrontare specialmente il I. II •


...) Legg. 817 a-h.
138) Legg. 817 h 6 8.
137 ) Phaedr. 277 e; Ep. VII 341 c.
CAP. X: LE LEGGI [m455] 1791

insieme al contenuto di verità, anche l'ironia di que·


· ste due forme di giudizio sull'opera propria. La poste·
rità, certo non sostituì agli antichi poeti le opere di
Platone, quando esse furono accolte nel canone della
paideia classica, ma pur dette al filosofo un posto
accanto ai più grandi poeti, Omero e Sofocle, un posto
che sarà suo finché una vera cultura esisterà sulla
terra.
È istruttivo vedere come il filosofo che nella Re-
pubblica aveva fondato tutta la formazione dei reggi·
tori su dialettica e matematica, si domandi nelle Leggi
se un tal tipo di sapere sia applicabile con frutto nel-
l'educazione popolare. S'intende che in ogni caso non
può trattarsi, per l'educazione di tutti i cittadini, di
quell'istruzione profonda e di parecchi anni in mate•
matica e astronomia che Platone esigeva per le guide
dello stato 338). Ma egli non si contenta nemmeno della
ginnastica e musica dell'antica paideia e, per la prima
volta nel mondo antico, aggiunge ad esse un'istruzione
elementare di tipo realistico. Con ciò intanto egli viene
incontro alle cresciute esigenze del suo tempo per un
addestramento dell'intelletto, ma ha in mente nello
stesso tempo un fine più elevato. Giacché queste scienze
hanno ormai acquistato, egli pensa, un'importanza de-
cisiva e immediata per una giusta e religiosa visione

838) Da Legg. 818 a si ·ricava che Platone anche nelle Leggi


esige da« alcuni pochi» ('nvt~ ÒÀ(yot) una« conoscenza esatta~
delle scienze matematiche (~ç cixpt~e:(a:ç l:x6µe:vct). La parola
cixp~e:ta: richiama volutamente all'espressione cixp ~e:a-.épa: ?ra:t-
8da:, con cui nel I. XII (965 b) è definita la formazione dei
futuri reggitori. L'espressione viene direttamente dalla Repub-
blù:a, dove Platone aveva ugualmente definita l'educazione dei
reggitori come ?ra:t8da: 'iJ ibcp~e:a-.(h·71. Non c'è dunque dif.
ferenza, per questo rispetto, fra l'educazione dei reggitori nelle
Leggi e quella descritta nel I. VII della Repubblù:a. L'istruzione
matematica che Platone prescrive nel I. VII delle Leggi è invece
di livello popolare ( aµtxprt na:t8da:). Cfr. 735 a 4.
1792 [ru456] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLAT.ONE

del mondo, ehe prima non avevano 339). Quando Pla-


tone dice che per l'istruzione popolare è necessaria solo
la conoscenza dei principii del calcolo e delle misure
lineari, di superficie e dei solidi 340). ciò sembra a prima
vista coincidere con la limitazione di queste discipline
che era stata nel programma socratico di paideia 341).
Ma Socrate con ciò pensava alle esigenze del futuro
uomo politico, mentre Platone parla dell'istruzione ele-
mentare. Questa, certo, non era stata mai del tutto priva
di un insegnamento del calcolo, ma la misura minima
di matematica che Platone ritiene ora necessaria supera
evidentemente quei vecchi limiti. È una nuova vit-
toria, questa, della scienza matematica, che ora con-
quista, dopo l'istruzione superiore, anche quella ele-
mentare. Ed è da attribuire a questo suo dominio
su tutti i gradi del sapere il fatto che la matematica
abbia fatto più presto di ogni altra· scienza a compe-
netrarsi della necessità pedagogica di impartire le pro-
prie nozioni secondo gradi diversi di apprendibilità
conformi ai vari gradi dell'istruzione, senza sacrificare
in nulla l'esattezza del suo metodo 3<l2).
Della matematica più moderna del suo tempo Pla-
tone è evidentemente imbevuto, al punto di fare ap-
pello alle concezioni più nuove dell'indagine greca per
gi~tificare la propria esigenza di un insegnamento
matematico elementare. Lo straniero ateniese delle Leggi
dice francamente di avere imparato solo recentemente,
da vecchio, quelle dottrine di cui ora vorrebbe fosse

aa•) Cfr. Legg. 967 a s.


a.o) Legg. 817 e. .
Hl) Xen. Mem. IV 7, 2 s.; cfr. « Paideia» II; 76.
842 ) V. quello che è detto in Legg. 818 c-d sulla necessità
della matematica e sul corso da seguirsi negli studi matematici.
Ciò presuppone una sistemazio:iie pedagogica gfà evoluta. Il ca-
rattere umanistico di questi studi è rilevato anche in Epin. 978 c.
L'idea si trova espressa la prima volta in Resp. 522 e (v. « Paideia »
II 53~).
CAP. X: LE LEGGI [m457] 1793

informata tutta la nazione greca, attraverso la scuola


del popolo: egli dichiara vergognoso che per questo
rispetto il colto popolo greco rimanga indietro agli
Egizi 343), intendendosi con ciò i problemi della misu-
rabilità scambievole di linee, superfici e solidi 344).
È chiaro che quel che Platone dice qui si fonda su
informazioni recenti sullo stato della scienza mate-
matica egiziana, informazioni che egli deve verosimil-
mente a Eudosso, che in Egitto aveva a lungo vis-
suto 345). E deve anche risalire a relazione di testimone
diretto quel che Platone mostra di sapere sui metodi
intuitivi usati dagli Egiziani,· e che egli raccomanda,
nell'insegnamento elementare dell'aritmetica 3 46). Che il
suo esperto informatore su questo punto sia stato
Eudosso, diventa ancor più sicuro per il fatto che
Platone collega i suoi cenni in propo~ito con un'altra
dottrina, di grandissima importanza per un giusto
culto degli dei, che era ancora, essa pure, sconosciuta
ai Greci. Ed è questa la ·concezione astronomica se-
condo cui i cosiddetti pianeti o « astri erranti», portano
un nome del tutto erroneo, in quanto non· errano
avanti e indietro nel cielo com'è in apparenza, ma
descrivono orbite regolari e sempre uguali 347). E que-
sta teoria era stata appunto stabilita da Eudosso, e
ne faceva parte la scoperta speci~lmente menzionata
da Platone in questo contesto, per la quale quel pia-
neta che in apparenza ha il moto più lento, Saturno,
è in realtà il più veloce di tutti e compie il giro più
lungo 348). Platone connette questo fatto astronomico

143) Legg. 818 b-819 d.


"") Legg. 819 e 10 s.
845 ) Sul soggiorno di Eudosso in 1Egitto, v. Diog. L. VIII 87.
846 ) Legg. 819 b 3.
84•) Legg. 821 b-822 c.
848) T. L. HEATH, A Manual of Greek Mathematics (Londra
1931) p. 188. Il cosiddetto sistema « filolaico»· sul moto della
1794 [m458) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

con la sua concezione degli astri come esseri animati


o come dei visibili 349). Da questo punto di vista l'er·
rore scientifico prende. l'aspetto della sfacciata omis-
sione di un onore dovuto, che apparirebbe massima
ingiuria anche in cosa puramente umana, di fronte
a un vincitore delle corse in Olimpia, nonché di fronte
a un dio· e all'onore che gli spetta nel culto 350). Così
l'esigenza di un'istruzione matematica e astronomica
nella scuola popolare sbocca immediatamente in quella
singolare teologia delle Leggi, per la quale la consi-
derazione dei giri, di eterno e matematico corso, trac·
ciati dagli astri diventa una delle fonti capitali della
fede in Dio 361). La funzione teologica dei mathemata,
specialmente dell'astronomia, è essenziale per Platone.
In successivi passi delle Leggi dedicati alla dimostra·
zione dell'esistenza di Dio è particolarmente messo in
rilievo il processo e mutamento storico, per cui l' astrono-
mia, informata nei secoli più antichi a un pensiero ateo, è
finita col divenire, a causa delle scoperte più recenti, argo·
mento e sostegno della conoscenza di Dio 352). L'incremen·
to dell'istruzione « realistica» deve servire alla fine a
fortificare la fede m Dio nei cuori dei cittadini 353).

terra, che Platone, si dice, accettò da vecchio, non si trova


espressamente accennato nelle Leggi.
•U) V. supra, pp. 426 ss.
850) Legg. 822 b-c. L'essenza della r~gione per i Greci è so-
prattutto manifestazione dell'onore e lode che competono agli
dei. V. e Paideia » I 41, dove è additato il vincolo che unisce questo
ttteggiamento religioso con l'etica aristocratica dell'età arcaica.
•t) Cfr. Legg. 966 d, snlle due fonti della fede in Dio, di
cui una è la conoscenza delle orbite matematicamente regolari
degli astri. L'altra fonte è l'intima esperienza della vita dell'anima
come di un «essere che sempre scorre» («év0toi; oùaC0t). Cfr.
il mio ÀTÌ8kltelea, p. 165 (trad. it. p. 214.). t vero, però, che
solo i futuri reggitori debbono acquistare conoscenza vera delle
leggi astronomiche: 968 a.
"'1 ) Legg. 967 a s.
118) Platone fa seguire, 822 d, inaspettatamente, alle dispo-
sizioni snll'~gnamento delle discipline matematiche una lunga
trattazione snlla caccia come paideia, che forma la chiusa _della
CAP. X: LE LEGGI [III459] 1795

Platone trova la sua polis cosi diversa da tutto ciò


che esiste, che gli si· impone il problema, di come si
configuri il rapporto di essa col resto del mondo. Non
essendo essa città marinara non avrà commercio di
qualche importanza, ma tenderà- all'autarchia econo·
mica 35'1). Ma anche nel campo dei fatti spirituali essa
dovrà essere estranea ad ogni accidentale influenza
dal di fuori, che i;iossa infirmare l'efficacia delle sue
leggi perfette 355). Solo araldi, ambasciatori e theoroi
potranno viaggiare all'estero 356 ). Con quest'ultima pa-
rola Platone non intende « inviati a celebrazioni reli-
giose», che era il senso consueto in cui la si usava,
ma uomini forniti in qualche misura dello spirito della
ricerca scientifica, insomma veri e propri« osservatori»
della civiltà e delle leggi degli altri uomini, mandati
a studiare, a loro agio, le situazioni dei paesi stranieri 357).
Senza conoscenza degli uomini, dei buoni e dei cattivi,
non può nessuno stato divenire qualcosa di perfetto,
né conservare le proprie leggi. Lo scopò principale di
tali viaggi di studio all'estero è che i theoroi vengano
in contatto con le poche personalità eminenti, o« uomi-
ni divini», coi quali val la pena di parlare e d'inten-
dersi 358). Potrebbe sembrare una non leggera conces-
sione, da parte di Platone, questo ammettere che
uomini tali esistano dappertutto nel mondo, negli stati
buoni ·come nei cattivi. Ma se anche lo stato perfetto

legislazione educativa del I. VII. È ovvio che trattarne qui, su-


bito dopo la formazione intellettuale, non. sarebbe metterla al
posto più appropriato. Perciò ne ho parlato in collegamento con
lo scritto senofonteo sulla caccia, col quale si accorda in tutto
nell'apprezzare l'importanza educativa. di questa attività, si che
le due trattazioni si commentano a vicenda. V. supra, p. 308 ss.
SM) Legg. 949 e; cfr. 704 b s., dove era stato stabilito il ca·
rattere continentale e agrario della polis.
36"} Legg. 949 e 7.

"'') Legg. 950 d.


361 ) Legg. 951 a.
368 ) Legg. 951 b-c.
1796 [rn460] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

è il terreno più favorevole perché ! essi nascano e si


sviluppino, noi pur sappiamo dalla Repubblica che la
divina Tyche rende possibile eccezionalmente il sor-
gere di tali uomini anche in un a~iente sfavorevole.
Platone stesso era stato varie volte e a lungo assente
da Atene, sicché la sua legge sW, viaggi all'estero o
:< theoriai » di uomini di alto valdre corrisponde, con
eVI'denza, a ll e sue personal"1 espenerze.
. I D e1 resto, v1agg1
· ·
a scopo èQ cultura erano stati s~pre fatti da Greci
eminenti; ,sono, anzi, un fenomeno specificamente greco
come la stessa « cultur.a » in que, to senso. Solone, de-
posto l'ufficio, aveva ~aggiato «per osservare» (&sCù-
p["f)ç ELvexev) in Asia e in Egitto, e molti avevan
seguito il suo esempio, non nuovo del resto prima di .
lui. Al tempo di Platone, :il tempo della paideia, tali
viaggi a scopo di istruzione (xa:tiX TCoc[l>eucrw &ml>11µ.etv)
diventano cosa COilllune e ne conosciamo numerosi
esempi 359). Questa specie di am;hasciatori di cui
qui parla Platone devono, attraverilo colloqui coi loro
pari all'estero, formarsi una chiara idea di quali leggi
del proprio paese sian buone, e quali abbisognino di
esser migliorate. Un tal compito non può essere affi-
dato che a uomini di esperienza, che abbiano passato
la cinquantina 36 0). Al loro ritomo questi hanno libero

858) Enea Tattico, scrittore contemporaneo cli cose militari,

distingue. (10, 10) correntemente viaggi d'istmzione e viaggi di


affari. Il suo presupposto è che in ogni tempo molti stranieri si
trovano (~7t~8'1)µe:iv) in una città, sia al fuie cli istrnirsi (xoc-r!X
7toc!8e:ucnv), sia per altre necessità (xoc-r' &ÀÀ'IJV -r1v!X xpe:(ocv).
La prima categoria è costitnita in parte da « studenti», venuti
cli fuori (lo Pseudo-Isocrate, Ad Demon.. 19, ricorda i lunghi
viaggi a cni tali studenti spesso si sottoponevano per ascoltare
illustri maestri), in parte da ricercatori viaggianti o da gente
che viaggiava . per vedere il . mondo e così ampliare la propria
cultura. Questo tipo di viaggi &e:oophJçl e:fve:xe:v comincia presto
tra i Greci; gli esempi più famosi sono: Solone, Ecateo, Erodoto,
Eudosso, Platone.
380) Legg. 951 c 6. Cosi pure Platone in Legg. 952 d-953 e dà

precise disposizioni sull'ammissione di stranieri e sulle categorie


CAP. X: LE LEGGI [m461] 1797

accesso dinanzi alla magistratura suprema, al consi-


glio segreto, detto notturno, di cui fanno parte i tito-
lari dei supremi uffici religiosi, i dieci « guardiani delle
leggi» più anziani, i più alti funzionari esecutivi e
l' epimeletés « di tutta la paideia » o ministro dell'istru-
zione, insieme coi suoi predecessori ancora viventi 361).
La competenza di questo consiglio comprende legisla-
zione e educazione; perfezionar l'una e l'altra è il suo
compito 362). L'uomo che ritorna da paese straniero
ed ha visto da vicino istituzioni di altre genti deve
riferire su tutti i suggerimenti che da altri abbia rice-
vuto nei due campi di legislazione e educazione,
come su tutte le osservazioni sue personali che gli sia
occorso di fare 363). I suoi consigli però devono esser
sottoposti a una severa critica, perché una tale isti-
tuzione non diventi una porta aperta a influenze dan-
nose 364). Come appare chiaro, tanto nella composizione
del consiglio di stato quanto negli scopi della sua
attività e nei fini proposti a questi viaggi di studio
si rispecchia il predominio assoluto della paideia nello
stato delle Leggi. Lo sforzo di Platone è di proteggere
il suo stato dal pericolo dell'irrigidimento e di conci-
liare la regolamentazione autoritaria della vita all'in-
terno, con la ricettività elastica di utili suggestioni
dall'esterno.

che possono essere ammesse. Fra queste si trova, acc.anto a mer-


canti, visitatori di luoghi di culto e feste, legati, anche una quarta
categoria, corrispondente ai theor6i scientifici inviati. dalla città.
di dotti ricercatori. Questi debbono avere libero accesso presso
il ministro dell'istruzione e preHo i dotti della città.
an) Legg. 951 d-e.
• ) Legg. 951 e 5-952 a.
883) Legg. 952 b.
8 " ) Legg. 952 c-d. L'introduzione di innovazioni perniciose
nella paideia è punita con la morte.
1798 [m462] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Educazione dei reggitori e conoscenza di Dio. -


Il consiglio notturno è l'ancora dello stato 365). I
suoi membri devono conoscere la meta a cui deve guar-
dare l'uomo politico 366). In questo punto noi ritro-
viamo la fondamentale struttura dello stato della Re-
pubblica. Là la meta era stata chiamata Idea del Bene,
qui ritorna per designarla l'antica espressione socratica
di unità delle virtù 367). Ma il significato è lo stesso,
perché è appunto l'Idea del Bene quella che si scorge
quando si fissa l'occhio all'unità delle diverse forme
fenomeniche dell'esser buono, che noi chiamiamo are-
rai 368). Nella Repubblica, l'organo statale portatore di
una tale suprema conoscenza formatrice dello stato è
costituito dai guerrieri. Ad essi nelle Leggi corrispon-
de il consiglio notturno. ~ detto espressamente che
i membri di questo debbono possedere la « virtù in-
tera» e con essa anche ·quella capacità che è il prin-
cipio spirituale che le dà forma: la conoscenza filo-
sofica dell'uno nel molteplice 369). Né fa sostanziale dif-
ferenza il fatto che,· laddove nella Repubblica ampia
è la trattazione su tale capacità, qui nelle Leggi Pia-

"') Legg. 961 c.


181) Legg. 961 e 7-962 b sul fine (axo7t6ç). L'organo dello
stato che deve conoscere il fine è il consiglio notturno (au)..)..oyoç):
· 962 c 5.
817) Legg. 963 a s. Platone si riallaccia qui alle trattazioni
dei II. I e Il che vertevano sul problema del fine della legislazione
nel suo complesso, ma in luogo del coraggio guerriero - fine
dello stato spartano - ponevano «la virtù intera» (7tiaa: &pc-r~).
V. aupra, p. 384 s. Questa definizione del fine è il fondamento di
tutta la legislazione delle Leggi; ma in fine dell'opera, quando
ai aspetta ancora una parola sulla paideia dei reggitori, Platone
eente di dover di nuovo espressamente indirizzare il nostro sguardo
a quel fine.
898) La « unità delle virtù», 963 a-964 e, è il vecchio pro-
blema di Socrate, che conosciamo dai primi dialoghi platonici.
V. ROBIN, Platon (Parigi · 1935) p. 272. Questa « areté una»
è identica con la· conoscenza del bene in sé. V. la n. seguente.
HO) Legg. 962 d. Platone chiama l'unità dell'areté anche sem-
plicemente« l'Uno» (-rò ~v): 962 d, 963 b 4.
CAP. X: LE LEGGI [m463] 1799

tone dica solo brevemente che essa costituisce la vera


e propria educazione dei reggitori; e se in principio
si è detto che nelle Leggi la teoria delle Idee è assente,
non per questo hanno ragione coloro che, conforme
a una nota ipotesi moderna, interpretano questa as-
senza come se Platone da vecchio avesse abbandonato
la sua teoria delle Idee 3'0). Proprio il contrario si
può dedurre con assoluta certezza dalla rapidità dei
suoi accenni sull'educazione dei reggitori nel dodice-
simo libro delle Leggi. Quivi egli accenna alla dialet-
tica 371) come a qualcosa di hen noto ai lettori; una
nuova trattazione del valore educativo di essa avrebbe
condotto solo a ripetere cose già dette nella Repub-
blica. Ma la funzione formatrice della dialettica, la
visione che innalza a unità il molteplice, è espressa
senza possibilità di equivoci con le stesse parole di
un tempo e chiarita con un accenno al vecchio problema
socratico dell'unità delle virtù.
In realtà, proprio questo problema dell'areté e non
altro era stata la radice da cui era scaturito il pen-
siero platonico, di fare della conoscenza filosofica del-
l'uno nel molteplice la forma educativa dei reggitori
e il fondamento dello stato. Su questo cardine il pen-
siero di lui rimane fisso e immutato dalla prima al-
l'ultima delle sue opere. E rimane identico anche in
questo: nell'assegnare il posto più alto tra le virtù
alla phronesis, alla conoscenza di questa unità del
buono come norma suprema, come ideale 372). I mem-
bri del consiglio notturno non cedono in nulla ai guer-
rieri della Repubblica per educazione filosofica. Questa

3 70 )Così Jackson, Lutoslawski e altri.


371 ) Legg. 965 c: "ò 7tpòi; µ(ixv taéotv !)Mmm. Nel qual luogo
anche con l'espressione« metodo più esatto» si vuole intendere
la dialettica.
372) Le}(J(. 963 c 5-e: rfr. anche 631 c 5.
1800 [rn 464] LIBRO IV- IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

consiste di tre cose: nel conoscere il vero, nella capa-


cità di esprimerlo in parole e nel saperlo attuare nei
fatti 373). Platone Ìorna sempre ad affermare nelle Leggi
che la conoscenza del modello esemplare dell'azione
è il nucleo essenziale della paideia 374). La verità che
i reggitori devono conoscere è la scienza dei valori, cioè
delle cose per le quali vale assolutamente la pena di
impegnarsi con l'azione 375). Questo sistema di cono-
scenza di valori culmina nella conoscenza di Dio, poi-
ché Dio è, come Platone ci ha insegnato, la misura di
tutte le cose 376). E perché il legislatore e gli organi
sovrani dello stato possano praticamente applicare
questa misura nelle leggi e nella vita, debbono essi
stessi possedere la conoscenza di Dio, come supremo
essere e valore. Dio, nello stato delle Leggi, occupa
lo stesso posto che nella Repubblica è tenuto dall' esem-
plare supremo, che i reggitori debbono custodire nelle
loro anime, dall'idea del Bene 377). Fra le due realtà non
esiste alcuna differenza essenziale, ma solo una dif-
ferenza nell'aspetto e nel grado di conoscenza a cui
esse, come oggetto, corrispondono 3 78).
Il senso e il pensiero di Dio costituiscono la chiusa

873) Legg. 966 a-b.


374) Legg. 966 b.
876) Legg. 966 b 4: xe:pt x&:v-rc.iv Téilv axou8a:(c.iv .• Ciò ri-
chiama alla mente la definizione che già nel Protagora e nel
Gorgia Platone aveva dato del suo nuovo genere di « arte poli-
tica», chiamandola «scienza delle più alte cose umane». Non altro
è nelle Leggi l'oggetto dell'educazione dei reggitori.
878 ) Legg. 966 e; cfr. 716 c.
877 ) Resp. 484 c-d. Si pensi alla « nozione suprema» (f1.éyLa-
TO\I fl.tX.&l]µa:): 505 a.
878 ) Dio che è la «misura di tutte le cose» (cfr. supra, p. 425 ss.)

è identico con l'Uno (-ro Év) che Platone (962 d, 963 b 4) pone
come oggetto della conoscenza dialettica dei reggitori. Essi, dun-
que, debbono esser filosofi, proprio come i reggitori della Repub-
blica; il culmine del loro sapere è lo stesso qui come lì: la teologia.
«L'Uno» delle Leggi è identico col« Buono in sé» della Repub-
blica.
CAP. X: LE LEGGI [m465l 1801

delle Leggi, dietro la quale, però, come mostra il decimo


libro, sta tutta una teologia. In una storia della pai-
deia greca non ci si può addentrare nella struttura
concettuale di questa teologia, appartenendo essa a una
storia della teologia filosofica dei Greci, nel cui con-
testo è nostro proposito trattarne, in un altro lavoro.
La paideia dei Greci, e la loro teologia filosofica sono
state le due forme essenziali di sopravvivenza ed in·
fluenza dell'ellenismo durante i secoli in cui di scienza
ed arte greca non era rimasto, si può dire, più nulla.
In Omero i due elementi, areté umana e ideale divino,
erano stati strettamente connessi e interdipendenti.
In Platone questa connessio:p.e è restaurata su un altro
piano. Tale sintesi appare nella forma più chiara nelle
due grandi opere educative, la Repubblica e le Leggi,
e si fa dall'una a1l'a1tra più netta e risoluta. Il culmine
è raggiunto nelle parole finali delle Leggi, a cui si deve
aggiungere l'intero libro decimo, tutto dedicato al pro-
blema di Dio. La continuazione storica della metafi-
sica platonica nella teologia di Aristotele e di altri
scolari platonici (tra cui l'editore delle Leggi che vi
aggiunse l' Epinomis) conferma che dietro il rapido e
allusivo cenno della chiusa pla~nica si cela l'abbozzo
di una tale scienza delle cos~ supreme, come conclu-
sione e coronamento di ogni sapere umano. Qui non
esiste in alcun modo quella differenza tra un sapere
meramente educativo e un superiore sapere reale, che
si è tentato di stabilire da pensatori moderni 379), giac-
ché, platonicamente,· non è pensabile un vero sapere
educativo che non abbia nella scienza di Dio origine,
direzione e meta. Ci sono due fonti - cosi dice Pia·
tone in queste parole terminali del suo creare e ope-
rare terreno - da cui scaturisce la fede dell'uomo nel-
87•) MAX SCHELER, Die Fonnen des Wissens und tlie Biltlung
(Bonn 1925) pp. 32-39.
1802 [m466] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

l'esistenza del divino: la conoscenza delle eterne, im·


mutabili orbite matematiche in cui si muovono i corpi
celesti, e « l'essere che eternamente scorre» in noi,
l'anima aso). Da Aristotele, che derivò dalle Leggi plato·
niche nella sua teologia queste due fonti della certezza
divina, fino alla Critica della ragion pratica di Kant,
la quale, dopo tutto il suo argomentare teoretico de·
molitore si conclude col ritorno pratico a quelle fonti,
l'umanità non è andata al di là di questo pensiero381).
Così, lo sforzo di un'intera vita spesa per la scoperta
dei veri e incrollabili fondamenti della cultura umana
approda all'idea di Quello che è più alto dell'uomo,
eppure è dell'uomo il vero « se stesso».
L'antico umanesimo, nella forma raggiunta nella
paideia platonica, trova il suo centro in Dio 3s2). Lo
stato è la forma sociale che la tradizione storica del
popolo greco offriva a Platone, per imprimervi _questa
idea. Ma nell'atto in cui egli investiva questa forma
della sua nuova idea di Dio, come misura di tutte le
misure, la trasformava dà organizzazione terrena, fis·
sata nel tempo e nello spazio, in un ideale regno ,di-
vino, universale come il suo simbolo, gli animati astri
divini. Quei corpi raggianti sono le immagini degli
dei, gli « agalmata », che il platonismo colloca al posto
delle immagini degli umani dei d'Olimpo. Non esiliati
nella strettura di un tempio costruito da mano umana,
essi irraggiano una luce che annunzia l'unico, supre·
mo, invisibile Dio a tutti i popoli dellà terra.

a&O) Legg. 966 d.


181) Per tutto ciò, v. gli elementi raccolti e valutati nel mio
Aristoteles, p. 165 (trad. it. p. 214).
382 ) Legg. 967 d: «senza la conoscenza del divino, che sgorga
da queste due fonti (v. n. 380), nessun uomo può giungere a una
ferma e incrollabile religiosità». E in questa verace venerazione
di Dio culmina tutta la'educazione umana, nelle Leggi di Platone.
La fine mantiene quel che il principio prometteva: cfr. Legg. 643 a,
dove questa paideia era definita e preannunziata come strada a Dio.
CAPITOLO UNDECIMO

DEMOSTENE

Demostene è stato per secoli, dal momento in cui


riebbe vita nel Rinascimento, quello che era stato
già· per. colui che approntò la prima stampa delle sue
opere (in una prefazione degna ancora di esser letta):
l'uomo che svegliò i Greci a libertà, il possente campione
della parola nella lotta contro i loro oppressori. Ancora
nel tempo in cui Napoleone schiacciava l'EW-opa, fu
tradotto dal filologo e umanista tedesco Federico J acobs
al fine di rinsaldare lo spirito dell'indipendenza nazio•
nale, e immediatamente dopo la prima· guerra europea
un uomo di stato, Clémenceau, buttò giù un libro
sulla figura di lui, pieno di focosa . retorica francese
contro i Tedeschi-Macedoni, per ammonire gli Ateniesi
di Parigi del rischio in cui vive un popolo di artisti_
e di r.entiers, snervato dà una troppo raffinata ciViltà,
e privo ormai dell'intima forza necessaria a opporre
un'infrangibile volontà di esistenza al barbaro aV-Ver-
sario 1 ). Mentre qui, sul suolo di una civiltà latina,
veniva fondato, con gli stessi mezzi oratorii, propri

1 ) GEORGES CLÉMENCEAU, Dlmosth~ne (Parigi 1926). Per i


giudizi su Demo~tene nel mondo moderno, •ari secondo le epoche
e le nazfonalità dei critici. v. CHARLES DARWIN ADills, Demo-
sthenes and his inftuence (Londra 1927), nella serie « Our Deht
to Greece and Rome ». L'Adams chiarisce bene la predilezione
per Demostene da parte delle democrazie del sec. XVIII, e l'av-
versione, invece, della moderna storiografia germanica.
1804 [m468] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

dell'eroe celebrato, u.n nuovo culto di Demostene, ul-


tima fiamma accesa sull'altare del vecchio classicismo,
il libro di guerra di un filologo tedesco, dal titolo sprez-
zante « Da un'antica repubblica di avvocati» veniva a
trarre le somme - a quel che pareva disastrose per
Demostene - di un secolo _di aspra reazione contro
quell'immagine classicistica del grande oratore e agita-
tore, santificato a torto dalla. retorica di scuola 2).
Certo, in questo libro di guerra, di tono esso stesso
fortemente tribunizio, ogni tratto della figura era pre-
sentato nella luce più cruda fino a eccessi di mas'chera
caricaturale. Comunque, esso valeva a segnare il punto
estremo di una curva che il giudizio storico su Demo-
stene aveva percorso, dal ·primo risvegliarsi del senso
storico, un secolo e mezzo prima.
In realtà, questo processo critico non era comin-
ciato senz'altro con gl'inizi della nuova ricerca storica
nel campo dell'antichità,: il primo grande rappresen-
tante del nuovo indirizzo, Bartoldo Giorgio Niehuhr,
era stato ancora uno- dei più convinti ammiratori di
Demostene. Ma subito dopo, con Giovanni Gustavo
Droysen, la critica severa si afferma con forza. Essa
prende le mosse dalla scoperta capitale del mondo
dell'Ellenismo 3 ). Fino allora la storia greca si era
considerata drammaticamente finita col tramonto della
libertà dello stato-città greco nella battaglia di Che-
ronea, e Demostene stava, ultimo uomo di stato greco,
accanto alla sua salma a pronunziarne l'orazione fu-
nebre. Ma ecco che ora d'improvviso il sipario si le-
2 ) V. ENGELBERT DnERUP, Aus einer alten Advokatenrepublik
(Paderborn 1916).
3 ) La scoperta si afferma già col geniale libro giovanile del

DROYSEN: Geschichte Alexanders des Grossen (1• ed. 1833), ma


si veda soprattutto, di lui, la Geschichte des Hellenismus (l • ed.
1836 e anni seguenti). Il più erudito rappresentante dell'orto-
dossia demostenica vecchio 'ti!e è A UNOLD ScnAEFER, Demo-
sthenes und seine Zeit, 3 voll. (Lipsia 18.56).
CAP. XI: DEMOSTENE [m469J l805

vava sullo spettacolo immenso di un secolare dominio


mondiale, spirituale e politico, della grecità, il dominio
che s'iniziò con la distruzione del regno persiano per
opera di Alessandro. In una tale prospettiva, di un
prepotente sviluppo interno ed esterno della cultura
greca verso l'universalismo e il cosmopolitismo, le pro-
porzioni si mutarono e la figura di :Òemostene fu
vista rimpicciolire, apparve limitata e gretta. Egli ap-
parteneva a un mondo, cosi pareva, che, prigioniero
di una vana illusione sulla propria importanza reale,
viveva ormai soltanto dell'anacronismo di un ricordo
retorico, della gloria degli avi 4). Apparteneva questo
mondo già al passato, eppur pretendeva di far rivi-
vere nel presente quei grandi fatti antichi. E al primo
passo della critica altri ne seguirono. Dapprima ci si
liberò del criterio di giudizio politico di Demostene,
al quale fino allora la storiografi.a moderna si era di
buon grado adattata, in mancanza di ogni altro rac-
conto esteso e seguito, di mano contemporanea, deJla
storia del suo tempo. Una volta, poi, che si fu impa-
rato a dubitare della capacità di Demostene come
uomo politico, si cominciò anche a esaminare, e a ri-
provare, il suo carattere. Contemporaneamente ripre-
sero a salire le azioni degli avversari di Demostene,
Isocrate e Eschine, perché essi avevano a tempo giusto
deposto la fede nell'avvenire dello stato ateniese e
sconsigliato decisamente la lotta. Il successo fu, come
si fa così spesso, assunto a giudice storico, e si fu ben
soddisfatti di scoprire che Demostene, anche durante
la vita 5 ), aveva avuto avversari così acuti e pene-
tranti come i moderni scienziati.
') Così in complesso pensarono i moderni storici tedeschi
dell'antichità, come il Beloch, E. Meyer e altri. Molto più mode-
rato, però, il giudizio di Ulrich Wilcken e di Helmut Berve.
6) V. ENGELBERT DBEBUP, Denwsthenes im Urteil des Alter-

tums (Wiirzburg 1923).


1806 [111470] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

È tempo di sottoporre a nuova revisione la figura


di Demostene, constatando che la critica ha passato
di molto i suoi limiti 6 ). Il capovolgimento totale di
valori tra le personalità di Demostene e dei suoi av-
versari, Eschine e Isocrate, deve già mettere in al-
larme il sentimento e il sano buon senso, a causa
della sua improbabilità psicologica. E anche a pre-
scindere da ciò, c'è stato un decisivo progresso, dal
tempo della scoperta dell'Ellenismo, nella conoscenza
della storia del I~ sec. II progresso non è venuto
dallo studio dell'evoluzione politica, bensì dalla storia
dei moti spirituali di quest'epoca profondamente deci-
siva. E ci si è resi conto, in modo del tutto nuovo,
della connessione e dell'intreccio del destino politico
con la generale crisi dello spirito e della cult-iira dei
Greci: mondi che fino a pochi decenni fa sembravano
chiusi e impenetrabili a vicenda, come la storià poli-
tica e la storia della filosofia, della pubblicistica e reto-
rica, appaiono ora come Diemhra vive di un organismo
unitario, e partecipano allo stesso grande processo
vitale della nazione. Si è appreso a dare del concetto
di necessità storica scoperto da Tucidide 7) un'inter-
pretazione più larga di quanto fosse stato solito nella
storia specificamente politfoa. Oramai appare razio-

•) La moderna storiografia di lingua inglese subì parecchio


l'iniluenza di. Droysen e Beloch; ma più recentemente sono riap-
parsi segni notevoli di opposiziòne al giudizio demolitore. V. per
ea..__fopera del Pickar.J-Camhridge. Per la Francia, sempre in
,:ruesta tendenza rivalutante, v. l'opera storica di G. Glotz e il
libro biografico di P. CLOCBÉ, Dénwsthène (Parigi 1937). Le idee
che espongo in questo capitolo sono state da me ampiamente
ragionate in nn libro, uscito prima nella traduzione inglese, De-
nwsthe1U3S, the Origin and Growth of"his Policy (Berkeley 1938),
e poi nell'originale tedesco, Denwsthenes, Der Staatsmann und
sein Wetden (Berlino 1939). [Su quest'ultimo è condotta la trad. ita-
liana di A. d'Andrea, apparsa nel 1942 presso l'editore Einaudi, alla
quale rinviano le nostre citazioni. N. d. T.]. A questo libro mi
riferirò spesso nella seguente trattazione.
7 ) Cfr. « Paideia » I 665-667.
CAP. XI: DEMOSTENE [lll 471] 1807

nalismo grossolano il giudicare di un fenomeno storico


come Demostene nella storia della declinante polis
greca, soltanto partendo dalla persona di lui e limitan-
doci a soppesare le sue effettive possibilità di successo
politico. Nella sua resistenza alle forze moventi del
tempo suo si attua una legge che supera la persona:
l'irrigidirsi tenace di un popolo nella forma di vita
da lui un tempo foggiata, fondata nelle disposizioni
della sua natura, principio delle più grandi conquiste
della sua storia.
La polis greca era stata nella storia greca da Omero
ad Alessandro il fatto capitale, la forma foggiata una
volta per sempre della vita politica e spirituale 8).
Multiforme al pari della varietà di aspetto e struttura
del suolo greco, essa aveva portato a rigoglioso frutto
tutta la ricchezza di vita, intima ed- esteriore, delle
stirpi greche. Anche quando, dalla fine del VI sec. in
poi, si era venuto affermando il senso di una comunità
spirituale panellenica, e lo sviluppo politico aveva con-
dotto all'associazione in forma federale di numerose
unità minori, l'esistenza indipendente della città-stato
era stata sempre il limite dinnanzi a cui, prima o poi,
le nuove esigenze avevano dovuto arrestarsi. Il pro-
blema dell'autonomia della polis non cessò mai di ripro-
porsi con tutto il suo peso, da quando per la prima_ volta

8 ) :i;:ra le opere degli studiosi più vecchi si veda soprattutto

la vivida rappresentazione dello stato-città antico fatta da JAKOB


BURCKHARDT nella sua Griechische Kulrurgeschichre, in cui si ri-
fiette l'esperienza che l'autore ebbe della sua Basilea, e il famoso,
ma troppo schematico libro di FUSTEL DE COULANGES, La cité
antique. Tra i più recenti il miglior libro sulla polis è quello di
G. GLOTZ, La cité grecque (Parigi 1928), nel quale la polis è con-
siderata soprattutto dal punto di vista della sua esistenza esteriore,
economica e_ politica, e delle istituzioni. Nella presente opera,
invece, io ho tentato di tracciare la storia della città greca dal-
l'interno, come il processo della sua formazione intellettuale e
morale. Si veda tutto il I vol. di « Paideia », e in particolare i
capitoli su Sparta, lo stato di diritto, Solone.
1808 [m472] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

l'autonomia fu violata dalla politica imperialistica del-


l'Atene di Pericle, che aveva ridotto gli alleati e fede-
rati a sudditi. Quando Sparta, dopo la guerra pelo-
ponnesiaca, accedette come egemone all'eredità della
potenza ateniese, essa fu costretta a fondare la pro-
pria preminenza sul riconoscimento formale dell'autono-
mia delle città. E la stessa autonomia fu solennemente
. riconosciuta n~µa pace di Antalcida 9 ), che mise fine
alla prima grande rivolta degli stati greci contro i
padroni spartani, la cosiddetta guerra di Corinto. Per
Sparta, del resto, la formula dell'autonomia degli stati
greci era valsa anche come mezzo per impedire la for-
mazione di una confederazione avversaria sotto la gui-
da di un altro stato; ma quando fu essa che tentò
di raccorciare il freno e di manomettere la libertà
delle città, ne venne come conseguenza il crollo della
sua signoria. Da quel momento in poi, in complesso,
il dichiarato dominio di un singolo stato sugli altri
non riuscì più a imporsi nel sistema degli stati greci.
In altri termini: la rinunzia allo stato-città autonomo
era per i Greci fuori della loro possibilità di pensiero
politico, nello stesso· modo in cui la rinunzia al prin-
cipio degli stati nazionali in favore di una qualunque
forma statale più comprensiva, è stata finora per noi,
in pratica, al di là del nostro orizzonte.

La giovinezza di Demostene coincise col tempo della


rinascita dello stato ateniese dopo la catastrofe della
guerra peloponnesiaca 10). Mentre il genio filosofico del-
l'età concentra con Platone ogni for~a sul problema
spirituale dello stato e si accinge a ricostruirlo mo-
•) Xen. Hell. V I, 31.
Questa circostanza spesso non è stata valutata a dovere
10 )
per l'intelligenza del successivo svolgimento della sua persona-
lità. V. il cap~· I del mio Demosthenes: «La rinascita politica di
Atene».
CAP. XI: DEMOSTENE [m473] 1809

ralmente, indipendentemente da condizioni di tempo


e spazio, lo stato ateniese della realtà si svincola a poco
a poco dalla sua debolezza fino a una libertà di movi-
mento che desta la speranza di una graduale restaura-
zione della sua potenza. Anche troppo, presto si era
avverata la profezia di Tucidide: che il cambio di
egemonia avrebbe attirato su Atene un fiorire di sim-
patie. Atene poté, appoggiata da quelli che erano
stati gli alleati di Sparta, Tebe e Corinto, riconquistare
un po' alla volta l'antica posizione tra gli stati greci
e ricostruire; con l'oro persiano, le fortificazioni che
aveva dovuto abbattere dopo la guerra. V enne poi un
altro passo: la defezione di Tebe da Sparta dette
occasione ad Atene di fondare la seconda lega marit·
tima, che seppe, evitando la politica di esagerato cen-
tralismo della prima, vincolare alla città gli alleati.
I capi furono, questa volta, politici e soldati di note-
vole statura, come Timoteo, Cabria, lficrate e Calli-
strato, e il rinato senso patriottico, incurante di sacri-
ficio, dei primi anni dopo la fondazione della nuova
confederazione condusse al felice successo della guerra
settennale affrontata a fianco di Tebe contro Sparta,
alla pace del 371, che assicurò ad Atene l'inconte·
stato predominio sul mare e dette alla nuova confede-
razione il definitivo sigillo di un riconoscimento inter-
nazionale ll).
La gioventù ateniese, assorta nella speculazione
filosofica o dissipata nell'avventura e nel giuoco, fu
travolta a seguire il grande cammino della storia, che
sembrava chiamare ancora una volta Atene ai più ·
alti compiti di azione politica nella vita della nazione
greca. Diversa da quella che aveva sofferto sotto il
peso della guerra peloponnesiaca e delle sue conse·

11) Xen. Hell. VI 3, 18; cfr. 14.


1810 [III474J LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

guenze dissolventi era la generazione a cui si era rivolto,


come scritto polemico, il Gorgia· platonico e che aveva
sentito di essere, negli anni intorno al 390, il fermento
dei tempi futuri 12). Mentre il sapiente platonico del
Teeteto si ritrae nelle appartate altezze di una specu·
lazione matematico-astronomica, volgendo le spalle,
incredulo, a ogni sorta di politica 13 ), questa gioventù
nuova si vede trascinata nel gorgo del moto politico ed è
costretta a lasciare a giovani meteci provenienti da
città piccole o ai margini del mondo greco, come Aristo-
tele, Senocrate, Eraclide, Filippò di Opunte, il compito
di dedicarsi totalmente alla platonica vita della pura
ricerca 14). Diversa da quella dell'Accademia è la via
di Isocrate e della sua· scuola. Da questa venne fuori una
schiera di politici attivi, primo dei quali il capo militare e
politico della nuova confederazione marittima, Timoteo,
che fu il più alto orgoglio d'Isocrate 15). Ma la scuola
vera della giovane generazione fu il lavoro politico di
partito, la tribuna oratoria, nell'assemblea popolare e
nei tribunali. In tribunale, appunto, Demostene gio-
vinetto, introdottovi di nascosto dal suo pedagogo,
riuscì a sentire la grande orazione che Callistrato pro-
nunziò in propria difesa nel processo Oropico, mercé
la quale egli sfuggi ancora una volta alla rovina 1 6 ).
Niente è più indicativo dello spirito della gioventù
nuova; di questo aneddoto verisimilmente storico. Esso
dimostra dove, a parte le cure che per anni lo tormen-
tarono, materia dei primi discorsi giudiziari di lui

12 ) Sulla severa critica platoniéa, nel Gorgia, dei grandi uomini


politici del passato v. « Paideia » II 24 7.
18) Pl. Theaet. 173 d ss.
H) Già Platone dice, Resp. 496 b, che i filosofi per Io più
non provengono da città di forte vita politica; v. « Paideia » II
467-468.
11 ) Cfr. supra, pp. 188, 197 ss., 234 ss.
1') Plut. Demosth. 5.
CAP. XI: DEMOSTENE [III475J 1811

ventenne, per lo stato disgraziato del patrimonio e


dell'eredità, si appuntavano i veri interessi di questo
giovane. Le cose stesse ·avevano fin da principio se-
gnato la via alla sua formazione di uomo politico.
La direzione che egli prese era, in fondo, già indicata
dai suoi modelli, i grandi uomIDi della' seconda confe-
derazione. Si trattava di richiamare nel presente i
ricordi storici di Atene, del secolo della sua più piena
floridezza politica, . che apparivano già più o meno
svalutati nella critica filosofi.ca di Platone, si trattava
di ringiovanire il proprio tempo con gli ideali del pas-
sato 17). Ma la dolorosa esperienza fatta, che quel gran
mondo antico aveva pur dovuto crollare, aveva fatto
maturare conclusioni, frutto di un tenace. sforzo in-
tellettuale della generazione del dopoguerra intorno
alle cause della catastrofe, le quali non dovevano
andar perdute se non si voleva che la dolorosa espe-
rienza si rinnovasse. Era compito della nuova genera-
zione infondere una buona dose di tali limpide e fredde
riflessioni nel vino inebriante della vecchia politica
imperialistica. Solo cosi si poteva sperare di esser pari
al proprio tempo. Ed è proprio questo spirito di cauta
riflessione politico-morale che distingue l'epoca della
seconda confederazione dal quinto secolo 18). È cosa
del tutto naturale che il :movimento di restaurazione
del quarto sia così consapevole idealmente e cosi let-
terario. Alla salda vitalità del secolo precedente que-
sto elemento era stato ancora estraneo. Soltanto la
seconda fi.o;9tura della vita politica ateniese nell'età
deìn.òstenicl ha prodotto lo svolgimento dell'eloquenza

17) V. K. JosT, Das Beispiel und Vorbild der Votfahren bei


den. attischen Rednern und Geschichtschreibern bis Demosthenes
(Paderborn 1936).
18 ) Cfr. · le considerazioni sulle esigenze etiche d'Isocrate in
politica, supra, p. 216 ss.
1812 [m476] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

politica in un genere di ammirevole arte letteraria.


Ed è in tono con questa realtà che ci sia tramandato
come Demosteli.e, durante il tempo della sua prepa·
razione di oratore politico, si sia dato con passione
allo studio dell'opera storica di Tucidide 19). Non i
discorsi di Pericle, come furono tenuti in realtà, pote·
vano servir di modello al giovane oratore, non essendo
stati pubblicati letterariamente, e non conservati. Di
fatto l'unica eco dell'eloquenza politica del gran tempo
ateniese erano i discorsi contenuti nell'opera tucididea,
i quali però, nella compiutezza artistica e intellet·
tuale e nella gravità del contenuto stavano molto al
disopra di qualunque eloquenza della realtà contem·
poranea 20 ). Soltanto Demostene era destinato a creare
una forma letteraria che avrebbe unito l'energia e
l'agilità del discorso parlato con la solidità dialettica
e ]a sàpiente modellatura artistica delle orazioni tuci-
didee, traducendo nella pagina scritta la suggestione
del vivo contatto con l'uditore, elemento essenzialis·
simo della retorica potenza di persuasione 21).

Quando Demostene, dodici anni dopo quella sua


esperienza giovanile di uditore del grande Callistrato,
entrò a sua volta nell'arringo .oratorio, la situazione
politica era del tutto mutata: perduta la guerra sociale,
t•) Plut. Demosth. 6, Ps.-Plut. vit. X or. I.
20) Cfr. « Paideia » I 655 ss.
21 ) Per l'analisi della forma oratoria di Demostene è da ve·
dere soprattutto F. BLAss, Geschichte der attischen Bcredsamkeù,
Voi. III I. Per l'origine e formazione del suo stile nei discorsi
politici, v. anche la valutazione retorica dei singoli discorsi nel
mio Demost1ienes. Isocrate lo aveva preceduto nel pubblicare
opuscoli politici in forma di orazioni. Demostene seguì il suo
esempio, ma i suoi discorsi tuttavia non sono pure finzioni lette·
. rarie, come spesso ha supposto la critica modema, bensì rielabo-
razioni di discorsi realmente pronunziati. Egli pose in luogo del
monotono e puramente letterario stile dei « discorsi» isocratei
una lingua formata su quella del dibattito politico, elevata però
a un superi<Jl'e livello di gusto.
CAP. XI: DEMOSTENE [m477] 1813

distaccati ormai ·da Atene i pm importanti alleati,


finita la seconda confederazione marittima che era
stata fondata con così grandi speranze. La lega, per
la maggior parte dei suoi partecipanti, aveva esaurito
il suo compito storico col rovesciamento del predo-
minio spartano. Dopo di ciò, veniva a mancarle ogni
vincolo che dal · di dentro la tenesse unita. E seb-
bene ess·a avesse raggiunto la sua massima esten-
sione solo dopo la pace vittoriosa di Atene con
Sparta, vi si manifestò abbastanza presto l'assenza
di un'effettiva comunità d'interessi, che sola avrebbe
potuto garanth:ne la durata. Quando poi difficoltà
finanziarie costrinsero Atene a riprendere la vecchia
politica d'impero verso i confederati, si risollevò
tutta la generale ostilità che già una volta aveva ro-
vesciato la potenza di Atene sul mare. Ma il più im-
portante nuovo positivo fattore della politica greca
dopo la pace del 371 fu l'ascesa inaspettata di Tebe,
sotto la guida di Epaminonda, per cui si giunse a un
raggruppamento del tutto diverso dei rapporti di po-
tenza. Con quella pace del 371 Atene, che aveva prima
camminato fianco a fianco con Tebe; si era staccata
dalla sua alleata, per poter raccogliere quando era
ancora tempo la profittevole messe della guerra. Ma
immediatamente dopo, quando con la sua pace sepa-
rata che alleggeriva lo sforzo di Sparta, Atene ebbe
ottenuto che Sparta riconoscesse ufficialmente la con-
federazione marittima, le forze terrestri spartane fu-
rono annientate a Leuttra dai Tebani guidati da
Epaminonda. Questa vittoria stabili per Tebe una posi-
zione di potenza politica di cui non aveva mai goduto,
e mise Sparta in secondo piano. A questo punto Calli-
strato impresse alla politica ateniese un radicale cam-
biamento di rotta, entrando decisamente in alleanza
con Sparta, per. controbilanciare la sorgente potenza
1814 [m478) LIBRO IV - IDEALI DI CULWRA NELL'ETÀ DI PLATONE

di Tebe, Ì'alleata di poco prima. È il momento in cui


nasce l'idea politica dell'equilibrio di · potenza, l'idea
che domina la politica ateniese del decennio .seguente
e tenta di stabilire un nuovo sistema nel mondo degli
stati greci. Ne fu autore Callistrato, il medesimo uomo
politico che già durante le trattative di pace era stato
sostenitore deciso del distacco di Atene -da Tebe e si
era imposto contro una forte corrente fìlotebana ate-
niese 22). Dall'altra parte Epaminonda, l'unico politico
in grande stile che Tebe abbia mai avuto, si accinse
dopo la vittoria militare su Sparta.· a dissolvere la
lega peloponnesiaca, liberando le genti, - oppresse da
Sparta, dei Messeni e degli Arcadi e facendone stati
indipendenti. Cosi essi entrarono ormai tra i vassalli
di Tebe. Con ciò il predominio di Sparta era infranto
anche nel Peloponneso e solo l'aiuto armato di Atene
le aveva risparmiato la rovina estrema e totale. Non
si può dire qual corso avrebbe preso la politica greca
in seguito al nuovo schieramento di Atene contro
Tebe, se nella vittoriosa batt~glia di Tebe contro gli
Spartani a Mantinea Epaminonda non fosse caduto,
e di ll a poco il suo forte antagonista ateniese, Calli-
strato, non fosse stato sbalzato dal potere 23). Di ll in
poi la potenza dei due stati rivali, sotto guide mediocri,
andò rapidamente declinando e il conflitto armato
cessò: tanto Atene che Tebe ebbero a lottare dura-
mente per la conservazione della propria autorità sugli
alleati. Ciò non impedi che l'inimicizia tra i due stati

H) Xen. Hell. VI 3, 10 ss. Sulla politica cli equilibrio cli Cal-


listrato, v. Demosthenes, trad. it. p. 65 ss. In quel libro ho messo
in luce l'importanza cli lui, come modello cli Demostene nella po-
litica di relazione tra gli stati greci; v. trad. it. pp. 111, 112,
132, 248.
"") Sul piano di Epaminonda per una egemonia marittima
di Tebe, e sul suo tentativo di attrarre verso Tebe gli alleati di
Atene, v. Demosthenes, trad. it. pp. 63 ss., 105 s., 138 s. Egli
voleva« trapiantare i Propilei sulla Cadmea».
CAP. XI: DEMOSTENE [m479J 1815

rimanesse un dato costante fino all'età demostenica,


facendosi sentire in ogni singola questione. Tuttavia
per Atene questa situazione passò naturalmente in
seconda linea per le preoccupazioni interne degli anni
successivi. c1oe per l'incontenibile dissoluzione della
lega marittima. Questa l'eredità che Demostene e la
sua generazione si trovarono davanti (a. 355).
La catastrofe della lega marittima pose ancora, e
per l'ultima volta, con .indeclinabile urgenza il pro-
blema dell'avvenire politico di Atene. Poteva sembrare
che l'unica risposta sostenibile fosse quella che Iso-
crate aveva osato dare nel discorsQ sulla Pace, sotto
la pressione della dura realtà, ancora negli ultimi anni
della guerra. Era questa I' aperta richiesta di uno
smantellamento assoluto e definitivo di tutta quella poli-
tica estera di potenza, caratteristica dell'antico impero
ateniese, che anche la seconda lega aveva inevitabil-
mente portato con sé 24). La tesi era sostenuta sulla
base di u:n moralismo politico fortemente colorito di
utilitarismo. Era più vantaggioso, diceva Isocrate, con-
quistarsi allori coi mezzi della pace, che attirarsi con
la pleonexia, con la brama di aver sempre di più,
l'odio del mondo intero, ed esporre Io stato ai rischi
estremi, sotto la guida di agitatori da tutti disprezzati
e di condottieri di bande armate. Nello stesso periodo
di tempo lo scritto Sulle entrate, il cui autore si dimo-
stra uomo di notevoli capacità nella vita economica,
aveva, per motivi. economici, raccomandato la stessa
politica di rinunzia 25 ). In ogni modo, sia che Atene
s1 mettesse su questo piano per ragioni politiche di

") Cfr. supra, p. 215 ss.


2•) Le tesi fondamentali dell'opuscolo Il6poi, che oggi sem-
bra essere generalmente riconosciuto come opera senofontea, sono
state l'hiarite da R. HERZOG, Festschrift ]ur H. Blilmner (1914)
pp. 469-480. Sulla questione dell'autenticità v. FRIEDRICH in
« Jahrbiicher fiir class. Phil.» 1896.
1816 [rn480l LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

princ1p10, sia che si piegasse a una immediata neces-


sità, ogni tentativo di miglioramento doveva partire
da una concentrazione di sforzi sui compiti più pros-
simi: il risanamento finanziario e il ristabilimento del
credito (in ogni sensò della parola) di fronte al mondo.
Nei circoli della classe abbiente, ampi piani di riforma
dello stato, caduto in mano delle masse radicalizzate,
devono essere stati discussi in quegli anni, se Isocrate
poté osare, nel suo opuscolo, l'Areopagitico, di entrare
in campo per un regime più autoritario. Certo, una
meta come quella che egli poneva era davvero troppo
lontana, ma che essa sia stata posta dimostra lo stato
d'animo combattivo, la èoscienza della propria forza
da parte di una grande borghesia che sola poteva,
in quella situazione grave, venire in soccorso dello
stato 26). Un uomo politico in vista, appartenente a
questa tendenza, sostenitore prima di tutto del risa-
namento economico e :finanziario, Euhulo, si fa òra
avanti come capo di una opposizione, nelle cui file si
trovano i rappresentanti migliori della giovane gene-
razione: tra questi anche Demostene, che per la sua
famiglia apparteneva alla classe ricca ateniese 27 ). Era
anche troppo naturale che egli cercasse per sé un punto
d'inserimento là dove lo chiamavano nascita, educa-
zione, concezioni di vita. Questa gioventù che si era
svegliata a coscienza politica nel momento culminante
della resurrezione ateniese, e non aveva visto meta
più alta che dedicare tutte le sue forze allo stato,
doveva ora entrare nella sognata attività politica nel

26 ) Per la questione della data di composizione e dello sfondo

politico dell'Areopagitico isocrateo, v. supra, pp. 187 ss., e il mio


saggio The Date of lsocrates' Areopagiticus and the Athenian Op-
position in « Harvard Studies in Classical Philology » (Special
Volume) 1941, pp. 409-450.
27) Anche l'oratore Iperide si trovò a essere fra i compagni
di lotta politica del giovane Demostene.
CAP. XI: DEMOSTENE [III 481] 1817

tempo della più profonda depressione che lo stato


ateniese avesse mai raggiunto nella sua storia. Con gli
alti ideali che portavano in sé, che erano ormai la loro
profonda natura, questi giovani si vedevano confinati
in una sconsolata realtà. Era chiaro ormai a prima vista
che in questa enorme tensione tra ideale e realtà si doveva
attuare il loro com.battimento per i destini dello stato.

Era stata un'esperienza di vita, l'infedele ammini-


strazione della grossa sostanza lasciatagli dal padre,
da parte dei suoi tutori, che aveva messo per tempo
Demostene in contatto coi tribunali. Egli aveva poi
scelto per professione l'attività di avvocato (logografo)
e giurisperito, dopo essersi presentato per la prima
volta ai giudici personalmente, in causa propria 28).
Dato lo stretto legame che si era stabilito in Atene
tra la lotta politica e l'attività giudiziaria, il prender
parte a processi politici era già una via del tutto nor-
male verso la carriera politica. E i primi documenti,
appunto, che noi abbiamo dell'azione politica di De-
mostene sono discorsi per grandi processi politici di
quegli anni di depressione, scritti da lui come logografo
per altri. Tutti e tre i discorsi, Contro Androzione,
Contro Timocrate, Contro Leptine sono in servizio della
stessa politica. Sono diretti contro le personalità più
esposte di quel gruppo politico che aveva guidato
Atene nella sfortunata guerra contro gli alleati e aveva
potuto, anche dopo il disastro, mantenersi ancora al ti-
mone 29 ). Demostene si dimostra subito uno dei più
28 ) V. i discorsi di Demostene Contro Afobo e Contro Onetore.
Per l'autenticità, per lo più contestata, di un terzo discorso Con-
tro Afobo, v. G-. CALHOUN, « Trans. American Philol. Assn. » LXV
(1934) p. 80 5s. Cfr. anche BLASS (op. cit. alla n. 21) p. 225 e
A. ScHAEFER, Demosthenes, Vol. I, p. 258, sul processo.
29 ) V. il cap. III del mio Demostluines («L'ingresso nella
vita politica») dove si tratta dei discorsi Contro Androzione, Contro
Timocrate, Contro Leptine e sulla tendenza politica che li informa.
1818 [III482) LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

abili e più temibili combattenti delle truppe d'assalto


dell'opposizione. Nell'asprezza senza quartiere della con-
tesa si riflette l'animosità con la quale gli avversari
dei governanti lottavano per la conquista del potere.
E già in questo momento appare quella che fu una
delle principali forze di Demostene, la sistematica coe-
renza di atteggiamento, anche se egli ora lavora pre-
valentemente per altri e sotto guida altrui 30). Ma egli
non tarda ad apparire personalmente, e per suo conto,
in pubblico. Fin da principio, ed è significativo, il
suo interesse si dirige ai problemi di politica estera,
ed è appassionante per noi lettori seguire in queste
prime rivelazioni dell'uomo politico in formazione il
processo del suo sviluppo. Si può osservare cosi c~me
egli affronti una dopo l'altra le più decisive questioni
della politica estera ateniese, con notevole sicurezza
di obbiettivi, sicché già nel breve giro di questi docu-
menti un quadro completo della situazione esteriore
di Atene ci si dispiega davanti agli occhi 31).
Le possibilità di una politica estera efficiente e
feconda erano assai ridotte per Atene, in questo pe-
riodo di lenta, faticosa ricostruzione interna. Perciò
è tanto più sorprendente l'indipendenza intellettuale,
lagile iniziativa di cui dà prova il giovane Demostene
di fronte a ciascuno di tali problemi, non appena essi
si presentano, di momento in momento, nel campo

80) I discorsi Contro Andro:rione e Contro Timocrate furono


scritti per due clienti dei gruppi di opposizione, Euctemone e
Diodoro. Se è esatta la tradizione, secondo cui Demostene pro•
nunziò personalmente l'orazione Contro Leptine per il :figlio della
vedova di Cabria, allora essa è molto istruttiva per noi, sul modo
in cui il giovane Demostene voleva disegnare e presentare la
propria :figura.
31) La tradizione ci ha conservato le prime tre orazioni te-
nute da Demostene innanzi all'assemblea del popolo. Su queste
orazioni e sul quadro abbastanza completo che ci offrono delle
idee di Demostene sulla politica estera ateniese, v. il mio Demo-
sthern:.s, cap. IV « I primi tre discorsi di politica estera».
CAP. XI: DEMOSTENE [m483] 1819

visuale politico. Nello stato di passività a cui Atene


era condannata, proprio in politica estera, dalla sua
situazione, tutto dipendeva da occasioni che di mo-
mento in momento si offrissero, e queste non manca-
vano del tutto neppur per Atene, in quella età che
camminava in fretta, mossa da un intreccio d'inte-
ressi svariatissimi. Certo, era inevitabile e fatale che
in questo punto, la politica estera, si aprisse una
crepa destinata a farsi con gli anni sempre più larga
e incolmabile. La concezione politica rappresentata let-
terariamente da Isocrate e nella politica pratica da
Euhulo, capo dell'opposizione della classe ricca, rifiu-
tava coerentemente ogni attività di politica estera
per lo stato infiacchito, e ne vedeva l'avvenire nella
voluta limitazione ai compiti di un'accorta politica
interna ed economica •. Nel suo primo discorso politico
Demostene si era mostrato ancora vicino a questa
linea di non intervento 32). Si era trattato allora del
problema di una guerra preventiva, da molti sostenuta,
contro il re dei Persiani, di cui si pretendeva che-fosse
imminente un attacco, e Demostene col suo intervento
abilmente tribunizio e di sicuro intuito politico, si era
dichiarato contro i fanatici della guerra, attirandosi il
compiacimento di Euhulo e della sua cerchia. Dové esser
guardato con simpatia il suo coraggio di fronte al-
l'impopolarità, da parte di un gruppo di riformatori
che si era fatto un programma di opporsi risolutamente
in politica al sentimentalismo volgare e alla tirannia

32 ) È questa l'orazione Sulle simmorie. Gli studiosi che scor-

gono una linea ininterrotta nell'atteggiamento politico di De-


mostene, da questa orazione fino a quella Per la corona, come
è il caso ancora di Paul Cloché, in libri ed articoli sulla politica
demostenica di questa età, la interpretano diversamente, cioè
come _un primo passo di una politica positiva, per la costruzione
di una nuova grande flotta. V. la completa esposizione degli ar-
gomenti su· cui ere.do di poter fondare la mia tesi in Drnwsihenes,
trad. it. pp. 94-105.
1820 [!I1484] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

delle frasi. Ma Demostene, non ostante questo suo


disilluso apprezzamento delle possibilità attuali, era
in realtà sostanzialmente convinto che Atene si do-
vesse riaprire la strada dalla depressione attuale a
una parte attiva nella vita degli stati greci 33). Egli
dové perciò far gran conto di ogni occasione che si
offrisse ad Atene di superare il suo scoraggiato isola-
mento e di riguadagnare a poco a poco terreno con
un moderato e giusto, ma pur vigile, atteggiamento
in politica estera. In realtà, ·per quanto cautamente
egli avesse intenzione di procedere, una tale politica
di sfruttamento di occasioni offerentisi dal di fuori
non era possibile, dopo tutto, senza affrontare un mi-
nimo di rischio, diversamente. dalla politica della
rinunzia totale, che doveva invece tenersi alla via
della sicurezza assoluta. Demostene rimane attivista
nell'animo anche in questo tempo di passività. Egli
segue lo svolgersi degli eventi nel mondo che lo cir-
conda, come uno spettatore che pensi di saltare al
momento decisivo sulla scena a prendersi di forza la
parte principale.
Le tappe immediatamente seguenti del suo cam-
mino sono le grandi orazioni Per i Megalopolitani e Per
la libertà dei Rodii, a cui si può aggiungere, per il con-
tenuto sempre di politica estera, il discorso giudiziario
Contro Àristocrate 34). Dopo avere, nel suo primo di-
scorso pubblico, discusso le relazioni con la grande
potenza persiana, Demostene affronta ora le altre tre

33) Questa convinzione si fa strada già nelle orazioni Per i


Megalopoliltmi e Per la libertd dei Rodii, in cui Demostene consiglia
una politica più attiva.
34) Sull'orazione in favore di un'alleanza difensiva con I'•.\.rca-

dia (Per i Megalopolitan.i) e sull'altra, che consiglia di appoggiare


la democrazia a Rodi, v. Demosthenes, trad. it. pp. 105-121; sul-
l'orazione Contro Aristocrate v. nello stesso libro la prima parte
del capitolo aul problema della Grecia settentrionale, trad. it.
pp. 123-141.
CAP. XI: DEMOSTENE [m485] 1821

questioni fondamentali della politica estera ateniese:


la questione peloponnesiaca, il problema dei rapporti
futuri con gli stati che avevano fatto parte della lega
marittima, ora distaccati da Atene, e la questione dei
paesi greci settentrionali. Cosi è per la prima volta
segnato un rapido quadro dell'intera politica estera
ateniese, come Demostene la concepisce. La meta di
questi tentativi è sempre la stessa, ben chiara agli
occhi di Demostene: uscire dall'isolamento paralizzante
e sondare prudentemente le possibilità di una politica
di alleanze, per poterla, nel caso favorevole, affrontare
risolutamente. S'intende che una sola via d'azione era
concepibile, per un uomo politico ateniese di quel tem-
po: inserirsi nella cornice, fissata da Callistrato con
idea originale e costruttiva, dell'equilibrio di potenze 35).
Dopo l'inaspettato accesso di Tebe al terzo posto ac-
canto a Sparta e Atene, questo piano di equilibrio do-
veva apparire come il testamento e l'eredità del periodo
di miglior successo della politica attica, da Pericle in
poi. Finché i fattori della politica internazionale greca
rimanevano gli stessi di quindid anni prima, quando
quella massima di azione era stata concepita, il compito
di chi si metteva a far politica estera doveva essere,
non solo di_ non contrastarla, ma di valersene e di
metterla a profitto come un buon discepolo. Il saggio
che Demostene dà di sé nell'orazione Per i Megalopo-
litani prova l'elasticità del suo intelletto, nell'atto di
dare, a un principio che egli; come tutti gli altri uomini
politici, adotta, l'interpretazione richiesta dai tempi
mutati, rimanendo sempre fedele allo spirito del suo
autore. L'idea dell'equilibrio della bilancia spartano-
tebana, di cui Atene doveva rimanere l'ago, era ap-
parsa un tempo come intuizione illuminante, quando

.. ) V. mpra, p. 477 ss.


1822 [m486l LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

il prevalere della confederaz:i,one tebana aveva costretto


Atene ad accordarsi con l'antica nemica, Sparta. Ma,
fermatasi l'ascesa di Tebe, indebolita anzi questa città
dall'infelice inizio della guerra contro i Focesi nella
Grecia centrale, un pericoloso cambiamento di situa-
zione si profilava per Atene: Sparta, nel frattempo
risollevaiasi, avrebbe potuto risottomettere i nuovi
stati di Arcadia e Messenia creati da Tebe in funzione
antispartana, il che avrebbe portato facilmente alla
dipendenza di Atene da Sparta e troppo avrebbe inde-
bolito la potenza tebana. Quegli stati indifesi dove-
vano ora rivolgersi ad Atene per appoggio. Ed ecco
che Demostene crede venuto il momento di dare una
scossa alla bilancia, ponendovi, come contrappeso del-
l'alleanza con Sparta, che durava dal tempo di Leut-
tra, un'altra duplice alleanza con Arcadia e Messe-
nia 36). A questa originale concezione ne segue un'altra
non meno interessante, nell'orazione Per i Rodii. Questi
erano stati, ubbidendo alle suggestioni del re di Caria,
fra i primi a distaccarsi dalla lega marittima ateniese.
Ma non avevano ·riflettuto eh~ Atene era l'unico ba-
luardo naturale per tutti gli stati marittimi retti a
regim.e democratico, l'unica garanzia d'indipendenza.
Quando il cattivo consigliere, il re Cario, ebbe cac-
ciato i democratici da Rodi, questi vennero ad Atene,
pronti a fare ammenda e chiedendo nuova alleanza.
I partigiani ateniesi del non intervento, di cui l'in-
fluenza era prevalente, C9file nel caso degli Arcadi si
erano fatti paladini dell'alleanza esistente con Sparta,
cosi ora contro i Rodi.i~ruttarono il sentimento popo-
lare, per cui quei traditori inveterati non avevano che

H) V. Demosthenes, trad. it. pp. 110-112, sul principio fonda·


mentale («ipotesi») della politica estera demostenica, e sulla ap-
plicazione che Demostene ne fa nell'orazione Per i Megalopolitani.
CAP. XI: DEMOSTENE [III487] 1823

da. piangere sulle conseguenze del tradimento 3 7). De-


mostene anche in questo caso attaccò fortemente
questa superficiale politica di risentimenti, che secondo
lui mascherava, dietro un atteggiamento di passione
patriottica, la sostanziale mancanza di forza di deci-
sione, la passività dei governanti 38). Tutte e due le
volte il suo procedere fu del tutto indipendente, e
mise in giuoco il suo ancora recente prestigio, tutte
e due le volte senza successo. Ai respinti dall'alleanza
non restò altra via che quella verso i nemici di Atene.
Arcadi e Messeni si ritrovano più tardi a fianco di Fi-
lippo di Macedonia, e, quanto ai Rodii, la perdita non fu
limitata a loro, ma si estese anche agli altri stati, che
senza dubbio si sarebbero riaccostati ad Atene se fos-
sero stati preceduti da Rodi nell'alleanza, a quel modo
che, anche nella secessione dalla lega marittima, ave-
vano seguito l'esempio di Rodi.
Con l'orazione Contro Aristocrate Demostene affronta
per la prima volta, i problemi politici del settentrione
greco. Si tratta della sicurezza dei Dardanelli. Il pos-
sesso degli Stretti era l'ultimo punto d'appoggio rima-
sto ad Atene sul mare; da esso dipendeva il riforni-
mento di grano per la città e la sicurezza, oltre a ciò,
per il dominio ateniese sulle acque settentrionali di
Grecia. Demostene conosceva l'importanza del pro-
blema, per essersene reso conto coi propri occhi, quando
come comandante di trireme aveva navigato in quelle
regioni. I vicini Traci minacciavano da decenni, e per
qualche periodo avevano occupato, quel punto im-
portante. A Demostene sembrava sommamente oppor-
tuno, in quel momento in .cui più fratelli di una fami-

37 ) Lo stesso Demostene doveva esser cauto nell'affrontare

questo stato d'animo popolare. Pensando a ciò si riesce a va-


lutare un passo come Rhod. 15-16.
88 ) V. Rhod. 8-10; 13; 25.
1824 [rn488] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

glia principesca di Tracia si dividevano il regno, sfrut-


tare le loro discordie per premunirsi contro il ritorno
di tale stato di cose, e indebolire il più possibile i peri-
colosi vicini 39 ). Frattanto però un altro fattore era
venuto a contare nel settore politico settentrionale
di Grecia, Filippo, il nuovo re di Macedonia. Questi
era genialmente riuscito, nei pochi anni dall'ascen-
sione al trono, a fare del suo paese, fino a poco prima
diviso internamente e all'esterno subordinato ad altri,
una forza di peso decisivo in. quel settore. Al pericolo
che per Atene poteva venire da questo lato Demostene
accenna già nel discorso Per i Rodii. Il re era con la
città in stato di guerra, dal momento in cui aveva
conquistato Anfipoli, il porto macedone da lungo tempo
conteso, su cni Atene avanzava pretese, come su un' an-
tica base del suo commercio e della flotta. Filippo,
dopo avere ridato unità al suo paese, si era impadro-
nito del paese confinante a Sud, la Tessaglia, che era
da decenni divisa politicamente e aspettava ormai dal
di fuori la soluzione dei suoi problemi. Di poi interven-
ne nella guerra tra Tebe e la Focide, sconfisse i Focesi,
ed era ormai in procinto di entrare attraverso le Termo·
pili nella Grecia centrale, quando gli Ateniesi si riscos-
sero e, con un corpo di spedizione lanciato su quel
passo facilmente difendibile, gli sbarrarono la strada 40).
Filippo, anziché tentar di forzare il pass-o, si volse a
settentrione, marciò attraverso la Tracia senza incon-
trare seria resistenza, e d'un tratto minacciò Atene
sui Dardanelli, dove nessuno lo aveva aspettato. Ciò

39 ) Demostene stesso dice, Aristocr. 102-103, che la sua po·


litica poggia anche in questo caso sul principio dell'equilibrio,
per cui egli si era dichiarato nell'orazione Per i Megalopolitani.
Qui egli cerca di trasferirlo ai rapporti tra Grecia e paesi stra-
nieri.
'°) Sull'ascensione e sulla politica di Filippo, v. ora AltNALDO
MOMIGLUNO, Filippo il Macedone (Firenze 1934).
CAP. XI: IiEMOSTENE [rn 489] 1825

rendeva inattuali d'un colpo tutti i calcoli e piani di De·


mostene per la difesa degli Stretti dai Traci; il quadro
della situazione era tutto mutato, e il pericolo mace·
done si rivelava fulmineamente in tutta la sua mi·
sura 41).
La notizia aveva prodotto in Atene un vero pa·
nico, a cui però subentrò ben presto una spensierata
sicurezza, quando si seppe che Filippo era malato e
aveva abbandonato l'impresa. A Demostene, invece,
apparve che proprio questo fosse il momento di una
risoluzione radicale, di una rinunzia dichiarata alla
politica dilatoria e passiva degli uomini al governo 42).
Questi avevano fatto fallire tutti i suoi tentativi di
migliorare la situazione ateniese .afferrando le favo-
revoli occasioni che si offrivano. Ma ora non si trat-
tava più di una contesa di principii fra intervento e
non intervento. Ora lo stato era in pericolo. L'inazione
non si poteva più presentare come preoccupazione
per la sicurezza di Atene: essa significava abbandono
dei più vitali interessi dello stato. La guerra di blocco
contro Filippo-, che non era stata presa sul serio, aveva
tutt'a un tratto respinto Atene sulla difensiva. Tutto
il sistema di condotta della guerra doveva essere
mutato.
La rapida ascesa di Filippo fu il fatto che vera·
mente suscitò tutte le energie attive di Demostene 43),
In lui egli trovava finalmente l'assalitore temibile di
cui aveva bisogno per giustificare, nella situazione ate-

") Così Demostene stesso descrive nei momenti principali


la travolgente espansione della potenza di Filippo, nellll I Olin·
tiaca, 13; sugli effetti dei suoi attacchi fulminei agli Stretti v.
Ol. III 4.
") V. Ol. III 5. .
ta) Sull'improvviso attacco di Filippo sull'Ellesponto, pro·
babile momento di crisi nello svolgimento politico di Demostene,
v. il mio libro, trad. it. p. 140 ss.
1826 [m490] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

niese del momento, il coraggio di un'azione di politica


estera. Se Demostene, in condizioni più favorevoli,
sarebbe potuto essere uno di quei politici costruttori
e creatori, la cui esistenza presuppone un paese in
ascesa, è domanda cui è difficile rispondere. Quel che è
certo è che, nell'Atene del suo tempo, la sua figura
non è concepibile senza un avversario come Filippo,
che solo fece emergere e dispiegarsi tutta la sua capa·
cità di guardar lontano, la risolutezza, la tenace conse·
quenziarietà. Gli sèrupoli morali, che da un pezzo con-
trastavano il passo, in quest'età di filosofici problemi
di coscienza, a ogni audace azione in politica estera, ora
venivano dissipandosi. Ciò rendeva più facile a Demo-
stene, trascurando i politici del compromesso allora
dominanti, di rivolgersi direttamente al popolo, da
cui era· stato ancor molto distante nei suoi primi di-
scorsi. Già nel discorso per i democratici rodii egli
aveva derivato dalla riflessione politica toni che riso-
nassero accetti all'intuito politico della massa, molto
diversi dall'atteggiamento superiore e ironicamente di-
dattico della sùa prima orazione, destinata ad avere
una funzione calmante 44). Il discorso Contro Aristocrate
attacca aspramente i politici che vanno per la maggiore,
gente che pensa ad arricchirsi, che abita in case di
lusso e, per lo stato, non sa fare nulla di meglio che
rintonacare i muri e riparare le strade 45). Il discorso

") L'evoluzione dell'elemento demagogico-agitatorio nelle ora-


zioni di Demostene è tracciata nel mio libro. Per l'oraZione Contro
Androzione v. trad. it. pp. 80-81, per quella per i Rodii, trad. it.
p. 118 s., per l'orazione Contro Aristocrate, trad. it. pp. 128-130,
per la III Olintiaca, trad. it. pp. 172-173. Sul tono del tutto
diverso del più antico discorso Sulle simmorie v. trad. it. p. 93 ss.
") Demosth. Aristocr. 260 s. L'attacco è ripetuto quasi alla
lettera in OZ. III 25 ss. Sull'uso di tali clichés demagogici, che
ritornano in più d'un discorso, v. Demosthenes, trad. it. pp. 85,
128 s., 171 e note relative; inoltre trad. it. p. 269.
CAP. XI: DEMOSTENE [m491J 1827

Sugli armamenti (m:pl. auv-rci;eCùç) confronta critica-


mente il popolo che oggi vive di rendita sulle entrate
dello stato col popolo del passato, rotto ai combatti-
menti e uso a dominare, e conclude che, poiché l'ap·
pello agli uomini della politica è rimasto senza eco,
si deve educare il popolo in uno spirito nuovo, giacché
gli oratori in fondo parlano sempre secondo quel che
il popolo vuole da loro 46 ).
Queste parole contengono un programma, al quale
fino a oggi gli studiosi non hanno molto badato, per
la ragione che questa orazione fino a poco fa non era
per lo più considerata autentica. La scienza del sec. XIX
ha spesso nell'esercizio della sua scepsi superato i limiti
del dimostrabile, e questo è proprio uno di tali casi 47).
In ogni modo, non c'è bisogno che sia dimostrata
l'autenticità dell'orazione Sugli armamenti, per ricono-
scere che i discorsi che seguono da questo momento
in poi costituiscono, in maniera unica, un'unità spiri-
tuale. Già l'antichità li ha riuniti in un gruppo a parte,
il gruppo deHe Filippiche, ma non è solo, a staccarli
dai precedenti, il fatto che tutti son diretti contro
lo stesso avversario. L'essenziale è che essi sono uni-
ficati dalla grandiosa idea di un'educazione del popolo,
l'idea formulata con brevità decisiva in· quella propo-
sizione dell'orazione Sugli armamenti. Quella frase è il
commento più semplice ·per ciò che si è definito, non
giustamente, conversione di Demostene al partito de-
mocratico 48), per l'evoluzione, che si attua nelle Filip-

") Demosth. XIII 36. Cfr. XIII 13, _dove è implicito lo stesso
concetto educativo.
47) Sull'autenticità di questa orazione Ile:pt auv-r<i!;e:wç,
v. il mio Demosthenes, trad. it. pp. 268-269.
••) Sull'intento « educativo» delle orazioni filippiche ho ri-
chiamato insistentemente l'attenzione nel mio Demosthenes, trad.
it. pp. 143-144, 157-167, e specialmente p. 163. Chi si lascia
sfuggire tale intento e va soltanto in cerca in quelle orazioni
di concrete proposte politiche, non può intenderle assolutamente,
1828 [m492l LIBRO IV - IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

picke, che ne fece 1ID grande condottiero del popolo.


Certo, in queste orazioni è dato intravedere assai di
quell'arte consapevole, con la quale si solevano pre-
vedere e dirigere le reazioni della massa. La retorica
ateniese poteva contare su più di 1ID secolo di espe-
rienza, e poiché spesso la funzione di guida era stata
in mano. di gente che non proveniva, essa stessa, dalla
massa, si era venuto a formare tutto 1ID linguaggio
particolare, adatto ai contatti con essa, caicolato sui
suoi moti istintivi. Ma solo un difetto completo di
capacità ·di distinzione intellettuale può condurre a
scambiare I' abilità di Demostene a servirsi ali' occa-
sione di questo linguaggio, con lordinaria demagogia.
Sono, intanto, diversissimi da quelli dei demagoghi
i motivi di cui egli si vale per rivolgersi al popolo, na-
scendo essi da una· re~e conoscenza delle cose politiche,
che gli dà forza a presentarsi in veste di critico, supe-
rando i ritegni della sua natura sensibile e della sua
giovinezza 49 ). E cosi anche il valore dell'impegno poli-
tico, della sua personalità, si erge di mille cubiti al di
sopra, non solo dello schiamazzo dei demagoghi, bensì
anche dell'ordinaria misura di un competente e deco-

come è accaduto a molti dotti moderni. che non avevano al-


cuna idea, per esperienza propria, della vita politica di una
grande democrazia. La risoluzione di addivenire alla guerra non
ha luogo, in un popolo retto democraticamente, per disposizione
di un « governo», ma deve essere strappata di forza alle volontà
ùei singoli, in quanto ognuno vi deve effettivamente partecipare.
Le orazioni Filippiche son tutte volte al compito immenso di
preparare il popolo a questa risoluzione, per la quale ai più man-
cavano e l'intelligenza della situazione e il necessario spirito di
sacrificio. Sarebbe etato altrimenti se Filippo, come un altro
Serse, avesse invaso l'Attica. La difficoltà stava nel fatto di
render chiara all'« uomo della strada» una situazione di pericolo
che non vedeva coi suoi occhi, e di cui ·non intendeva né la por-
tata né l'ineluttabilità.
'") Cfr. Demosth. Phil. I I, dove l'oratore si contrappone
fQrtemente ai consueti politici, :fino allora dominanti nelle assem-
blee. Egli aveva trentun anni quando ei presentò col suo pro-
gramma di politica attiva.
CAP. XI: DEMOSTENE (III493] 1829

roso politico della statura di un Eubulo. È ovvio


che un uomo politico interiormente compiuto, come
quello che ci si è rivelato nei primi discorsi demoste-
nici di politica estera, non può a un tratto esser mu·
tato di natura e essersi fatto né più né meno di uno
schiamazzatore, come dotti seri non si son vergognati
di affermare. Chi abbia anche un minimo di senso
per la grandezza e novità del linguaggio che prorompe
nelle orazioni filippiche di Demostene, costui sarà sem-
pre immune, in partenza, da un tale sospetto.
Per intendere il contenuto profondamente poli·
tico di queste orazioni non basta domandarsi quali
pratiche proposte siano in esse sostenute. Vi si mani-
festa una coscienza del destino, una prontezza di fronte
al destino, che sono di misura storica. Questa non è più
mera politica; o forse sarà meglio dire: è ancora una
volta politica, come un tempo l'avevano intesa Solone
o Pericle 50). Demostene prende per la mano il suo
popolo e lo conforta nell'infelicità della condizione pre-
sente. Che è, senza dubbio, notevolmente cattiva. Ma
il popolo non ha fatto niente di ciò che consentiva
di attendersene una migliore ! Ed è proprio questo
l'unico elemento consolante nella sventura 61). Col mo·
nito stesso che un tempo Solone aveva elevato, ora
Demostene ammaestra gli Ateniesi: non accusate gli
dei di avere abbandonato la vostra causa; la colpa
è di voi stessi, se ora Filippo vi respinge indietro passo
a passo ed ha già raggiunto una potenza, che ai più
di voi sembra rendete impossibile ogni proposito di
resistenza 52). E a quel modo che, in Solone, alla do·

60) Cfr. « Paideia» I 269-270; 678 M.


H) Phil. I 2.
6•) V.« Paideia » I 269-270, per il modo in cui Solone scagiona
gli dei di ogni colpa nella sventura di Atene (v. anche la figura
di Pericle in Tucidide I 140, 1). Simile l'argomentare di Demo-
stene in OZ. I I e 10, Phil. I 42 ecc.
1830 [!I1494] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

manda sulla parte degli dei nella sventura dello stato


si collega il pensiero di Tyche, così questo pensiero
ritorna nel discorso ammonitore di Demostene contro
Filippo, ancora con nuovo accento 53). È un motivo
capitale di questa profonda meditazione sul destino
d'Atene. L'individualismo crescente di questa età fa
sentire sempre più cocente agli uomini, nella loro
esigenza di libertà, la sostanziale subordinazione al
cor.so obbiettivo del mondo. Il secolo che vien dopo
la tragedia di Euripide è compreso più di ogni altro
tempo dell'idea di Tyche e tende sempre più ad abban-
donarsi in lei, rassegnato. Demostene ha il coraggio
di riprendere l'antica, aspra battaglia di Solone contro
questo nemico mortale di ogni agire risoluto. Egli pone
la responsabilità storica di Atene sulle spalle della
sola generazione presente. Il compito di questa sem-
bra a lui lo stesso che s'impose nei tempi oscuri, dopo
la perduta guerra del Peloponneso, quando Atene,
contrastata da tutta la Grecia, si era riportata all'al-
tezza di un valore politico di fronte al mondo 64). Per
questo, era stata necessaria una cosa sola: l'impegno
vigile e teso di tutta la forza del popolo. Ora Atene
è ridotta a somigliare a quei pugilatori, incapaci, come
barbari che sono, i quali non altro sanno fare se non
portare la mano là dove l'avversario li ha colpiti l'ul-
tima volta, invece di guardare avanti e di osare ar-
ditamente di uscire di guardia 56).
Questi i semplici e perentori concetti con cui Demo-
stene comincia nella prima Filippica il suo lavoro di
educatore. I provvedimenti preventivi che egli :pro-
pone qui, per un radicale cambiamento nella condotta

' 8) Sull'idea di Tyche in Demostene, v. il mio libro, trad. it.


p. 162.
64 ) Phil. I 3.
66 ) Phil. I 4.
CAP. Xl: DEMOSTENE [m495] 1831

della guerra, senza che ci sia stato un nuovo attacco


diretto da parte di Filippo, ci fanno riportare l'ora-
zione, a cui oggi spesso si assegna una data troppo
tarda, al momento in cui l'attacco di sorpresa sugli
Stretti aprì gli occhi a Demostene sul pericolo di Fi-
lippo 66). Le misure militari e finanziane da lui consi-
gliate, perché si fosse pronti a fronteggiare una nuova
sorpresa, non furono approvate dal popolo 57). Ed egli
dovette ancora tornare a ripeterle, quando Filippo,
rimessosi dalla malattia, attaccò Olinto, e venne cosi
ad offrirsi ad Atene un'ultima occasione di opporre
resistenza alla pressione della potenza macedone, in
unione con la potente città commerciale del setten-
trione greco 58 ). Ancora una volta Demostene, con rin-
novata energia, oppone a chi parli dell'impero fatale
di Tyche il problema della responsabilità di Atene, e
cerca di far rivivere il coraggio per un'azione auto~
noma 59). Egli attacca i falsi educatori, che, troppo
tardi, cercano ora, svegliando nel popolo il senso di
un'angosciosa urgenza, di convincerlo che ora è real-
mente venuto il tempo di agire 60). Il suo esame ana-

68) È la situazione descritta da Demostene in ()I. III 4; cfr.


specialmente Phil. I 10-11. Sensibilmente più tarda, cioè del
tempo della prima guerra per Olinto (349-8), sarebbe la prima
Filippica secondo EnuAllD Scmu.JlTZ, FestschTift fii.T TheodoT
Mommsen (Marburg 1893), alla C1ll opinione hanno aderito molti
studiosi recenti. V. la mia argomentazione in contrario. in De-
mosthenes, trad. it. p. 147. La data tramandata (verisimilmente
esatta) da Dionigi di Alicarnasso (Ad Àmm. 4) è il 352-1.
67 ) Sono le proposte contenute in Phil. I 16-29.

H) Le proposte di Ol. I 16-18 sono solo una ripetizione di quelle


che Demostene aveva già fatte in Phil. I 16-29. Sui rapporti tra
le due orazioni v. Demosthenes, trad. it. p. 157 s.
H) Questo è.in particolare il caso della I Olintiaca. La prima
parte di essa riprende di nuovo il problema di Tyche in politica.
Tyche offre ora un'ultima occasione (xa:tp6ç). La terza parte
chiarisce la sfavorevole condizi.one attuale (~xa:tpla:) di Fi-
lippo; v. § 24.
90) Contro questi falsi maestri: Ol. II 3.
1832 [m496l LIBRO IV - IDEALI DI CULTIJRA NELL'ETÀ DI PLATONE

litico della forza avversaria non è, però, affatto


politico nel senso solito del termine: è piuttosto una
critica del fondamento morale sul quale quella forza
si è edificata 61). Queste orazioni non si debbono leggere
come se fossero le considerazioni di un uomo politico
tenute nella stretta cerchia di un consiglio di gabi-
netto. Esse son destinate a dirigere un popolo, intelli-
gente, certo, ma incostante e suscettibile, a dare a
questa massa, come a materiale bruto, la forma neces-
saria ai fini dell'uomo politico 6 2). Ed è questo che dà
un particolare rilievo al momento etico, nei discorsi
demostenici di questo periodo. Ciò è senza analogie
negli altri discorsi di politica estera che ci son stati
conservati nella letteratura greca 63). Demostene si ren-
de ben conto della grandezza del suo avversario, del
demoniaco, del magico di quella personalità non misu-
rabile su un metro soltanto morale 64 ). Ma lo scolaro
di Solone non crede alla durevolezza di una potenza
fondata su tali basi, e, pur compreso di meraviglia
per la misteriosa Tyche di Filippo, impegna tutta
la sua fede sulla Tyche di Atene, ancora ·irraggiata
dalla luce di una missione storica 65).
Nessuno, che abbia seguito lo svolgersi della figura

61 ) Ol. II 5 s.
62 ) V. supra, n. 46, sull'orazione Ilepl aun&!;ec.ic; e il
programma di educazione della massa popolare ivi contenuto.
18) L'elemento etico dei discorsi di battaglia di Demostene
differisce nettamente dai discorsi letterari dell'opera storica tu-
cididea, i quali si limitano a svolgere il pensiero politico degli
uomini di stato in sé e per sé, ma non hanno a che fare con l'opera
effettiva di persuasione del popolo. Essi si rivolgono solo a intel-
letti pensanti e mirani}- esclusivamente all'analisi obbiettiva
delle singole situazioni politiche. Demostene si rivela proprio in
questo punto, nella presa che ha sulla psicologia e moralità del
semplice cittadino, come il vero educatore (cfr. n. 48).
64 ) OZ. II 22; ma v. anche passi come Phil. I 5, 10; Ol. I 12-13;
Cor. 67-68.
66 ) Il paragone tra la Tyche di Filippo e la Tyche di Atene
è esaminato nel mio Demosthenes, trad. it. pp. 161-162.
CAP. Xl: DEMOSTENE [m497] 1833

dell'uomo politico nel corso storico dello spmto greco,


può assistere alla lotta severa di questo colloquio col
popolo ateniese e col suo destino, senza che gli ritor-
nino in mente le prime, grandiose figurazioni del éapo
politico responsabile, quelle create dalla tragedia gre-
ca 66 ). Quelle figure vivono ancora, esse pure, nello
spirito di Solone, ma inserito e cimentato nel tragico
dilemma della decisione. Il dilemma si è fatto realtà
nei discorsi di Demostene 87), e la consapevolezza di
ciò, non una semplice, soggettiva emozione, è la fonte
di quel « pathos» travolgente, che fu giustamente sen-
tito dalla posterità - solo intesa a un diletto estetico
e a una studiosa imitazione di scuola - come l'irrom-
pere di un'era nuova nella storia dell'oratoria 68). È lo
stile, questo, in cui il tragico di quel tempo trovò la
sua forma. Le ombreggiature profonde, appassionate,
di questo stile riappaiono sui volti modellati dalla più
grande arte figurativa contemporanea, i volti di Scopa.
Una linea diritta conduce da questi due srandi sco-
pritori del.,nuovo senso della vita, fino alla creazione
dell'altare di Pergamo, a quelle forme possenti, nella
ricchezza del movimento patetico, in cui il linguaggio
di questa nuova anima trovò espressione non superata
di elevatezza. Né Demostene sarebbe mai divenuto il
più gran classico dell'età ellenistica, a cui si addiceva
così poco il suo ideale politico, se non avesse dato espres-
sione piena al sentimento di quell'età, al suo colore

••) « Paideia » I 442 ss. Un'analisi esauriente dell'ethos po-


litico della figura del reggitore nel dramma attico più antico
è data da VIRGINIA Woons, Types of Rulers in the Tragedies of
Aeschylus (Chicago Diss. 1940).
67 ) V. il mio Demosthenes, trad. it. pp. 160, 228.
68 ) Sullo stile« filippico » di Demostene v. il mio libro, trad. it.

pp. 150, 206. Questo stile si fissò nella tradizione come un ben
definito moddlo, a cui guardò Cicerone quando tenne contro An-
tonio le sue « Filippiche».
1834 [m498] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

spirituale. Questo sentimento, però, e la sua espressione


non si possono separare in Demostene dalla lotta per
l'ideale politico che era destinato a produrli. Oratore
e uomo politico sono tutt'uno in lui. Che sarebbe la
pura forma oratoria senza la solidità dell'intelletto po-
litico che in essa s'apre la via e si attua compiuta-
mente ? Questo conferisce alle appassionate creazioni
della sua mente la fermezza di bronzo, della quale le
migliaia d'im.itatori di quella sua lingua non hanno
reso neppure una traccia, e che le tiene radicate nel
luogo della decisiva crisi storica, che resta in esse im-
mortale.

Non è intendimento nostro dar qui un'esposizione


completa della politica demostenica, in quanto tale.
Le orazioni di lui forniscono un materiale, lacunoso
certo, ma pur sempre straordinariamente ricco, in
confronto con la tradizione storica di cui disponiamo di
solito, per la ricostruzione del corso degli eventi e.
ancor più dell'evoluzione di Demostene çome uomo
politico. Ma quel che noi. essenzialmente vogliamo ricer-
care qui è la crescita e l'attuazione matura della sua
persona:lità di guida del popolo, fino al momento della
lotta finale per l'esistenza indipendente dello stato
ateniese.
La· caduta di Olinto e la distruzione delle numerose
e :fiorenti città della penisola Calcidica che apparte-
nevano alla lega olintiaca costrinsero Atene alla pace
con Filippo di Macedonia. Questa fu conclusa nel 346,
e anche Demostene, in linea di massima, l'aveva desi-
derata 69). Solo che egli fu contrario all'accoglimento
delle condizioni poste da Filippo per questa pace, in

") Alla sua critica delle condizioni di pace Eschine. II 14-15,


56, oppone che lo . stesso Demostene aveva aiutato Filocrate a
fare il primo passo per concludere la pace con Filippo.
CAP. XI: DEMOSTENE [III499] 1835

quanto davano in mano al nemico, indifesa, la Grecia


centrale e lasciavano Atene esposta a un accerchiamento
sempre più soffocante. Pure egli non poté impedire
che la pace fosse conclusa in questi termini, e dovette
anzi, nell'orazione Per la pace, sconsigliare energica-
mente ogni proposito di opposizione armata, allorché
Filippo ebbe occupato la Focide, regione importante
per il dominio sulla Grecia centrale, e le Termopili.
Come già i primi discorsi di Demostene anteriori al
momento in cui la lotta contro Filippo divenne il
compito della sua vita, l'orazione Per la pace prova la
sua qualità di politico realista, che non vuol l'impossibile
e osa opporsi fortemente al dòminio della pura passione
in campo politico 70). Non si attacca, egli pensa, il
nemico nella situazione per lui più favorevole 71 ). Que-
ste orazioni, concepite in termini di estremo realismo
politico, mostrano un altro lato di Demostene, decisivo
per giudicare di lui. Anche qui egli rimane sempre il
maestro, cui non preme solo di convincere, sopraffare
la massa, ma di obbligarla a salire, da lui condotta
di gradino in gradino, su un piano più alto, da cui possa
guardar più lontano e giudicare da se stessa. Un bel-
i' esempio di ciò è l'orazione Per i Megalopolitani, con la
discussione sulla politica di equilibrio e applicazione
di essa al caso concreto 72). E l'orazione Sulle sim-
morie, quella Per i Rodii sono esempi classici della
sempre vigile attitudine di lui a placare le tempeste
di frasi sollevate dall'ebbrezza sciovinistica 73). In
questi discorsi si rivela con assoluta chiarezza il con-
cetto della politica proprio di Demostene, come di

••) Si veda l'ampio esame dell'atteggiamento politico di De-


mostene nell'orazione Per la pace nel mio libr1>, trad. it. pp. 189-
194.
") De pace 14 e 25 (in fine).
") Cfr. supra, p. 484 ss.
78) Cfr. supra, pp. 483 s., 486 B.
1836 [rn500] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

un'arte del tutto obbiettiva; e il discorso tenuto dopo


la disgraziata pace del 346 mostra che la lotta contro
Filippo non ha fatto mutare in niente questo atteggia-
mento. Sono pur anche la prima Filippica e le tre
Olintiache a confermare la preveggenza costruttiva e la
tempestiva risolutezza di quest'uomo politico, ben con-
scio di quanto peso abbia, in questo mondo dominato
da Tyche, il favore dell'occasione 74). Da questa egli
si sente sempre dipendente nell'azione, e ciò spiega
il suo atteggiamento singolare di riserva dopo la pace.
E ciò è quel che non capirono né i suoi critici né fra
i suoi seguaci, i fanatici di una politica di sentimenti,
prendendo - e ancor oggi dura l'incomprensione -
per indecisione di carattere la flessibilità dell'atteggia-
mento congiunta con la rigida coerenza del pensiero 75).
In realtà Demostene, anche quando pronunziava
l'orazione Per la pace sapeva bene, aveva ben fermo
in mente quel che voleva. Che quella pace, puro stru-
mento per tener soggetta Atene, fosse durevole, egli
non credé mai, e preferì lasciare il compito di curarne
e difenderne l'applicazione ai politici che, come Eschine,
si chiudevano gli occhi per non vedere, essendo fiaccata
ormai ogni loro volontà di resistenza, o che, come il
vecchio Isocrate, erano pronti a far di necessità virtù
e a proclamare Filippo capo e guida di tutti i Greci 76).
Questa, di Isocrate, è un'imprevedibile svolta nella
lotta col minacciante dominio straniero macedone, che è
comprensibile soltanto da chi abbia seguito il graduale
processo per cui Isocrate divenne l'araldo dell'unifica-

74)Ol. II 22.
?&) Gli antichi commentatori dell'orazione Per la pace (al§ 12)
paragonavano 11,l capacità di Demostene di adattarsi alle cir-
costanze, cioè di frenare o stimolare di volta in volta il popolo,
con le simili doti di Pericle: cfr. Thuc. II 65, 9.
?•) Sul Filippo d'Isocrate v. supra, pp. 126 n. 3, 217, 265
e il mio Demosthenes, trad. it. pp. 183-184.
CAP. XI: DEMOSTENE [m501J 1837

zione politica greca. L'unificazione dell'Ellade non po-


teva aver luogo per una spontanea abdicazione e dis-
soluzione dei singoli stati nel seno di uno stato nazionale
unitario, neppure in quella condizione di debolezza a cui
gli stati autonomi erano giunti. Essa poteva venire solo
dal di fuori. Solo l'opposizione contro un nemico comune
poteva riunire in un tutto unico la nazione greca. Che
Isocrate ravvisasse questo nemico nell'impero persiano,
che col suo assalto aveva fatto dimenticare ai Greci le
contese interne, un secolo e mezzo prima, e non lo vedesse
nella Macedonia, che era, attualmente, l'unico reale e
imminente pericolo, è cosa spiegabile con l'inerte per-
petuarsi di un'abitudine, in quanto erano ormai de-
cenni che Isocrate sosteneva l'idea di questa crociata
nazionale 77 ). Ma che egli abbia creduto di stornare
il pericolo macedone proclamando capo predestinato
della guerra nazionale Filippo, il nemico della libertà
di Atene e dei Greci tutti, questo fu un errore politico
imperdonabile, col quale egli dava gratuitamente la
Grecia in mano al nemico, e accomodava costui in una
posizione, che egli, si capisce, fu ben lieto di accettare,
destinata a disarmare moralmente gli avversari dei
suoi piani di dominio. Da una tale tribuna panellenica
Isocrate poté permettersi di screditare come guerraioli
fanatici tutti coloro che non erano ancora disposti a
rassegnarsi a ogni sopruso della potenza macedone 78);

77) L'idea di una impresa panellenica contro la Persia porta


in sé chiaramente il segno della sua origine, da porsi nel tempo
della pace di Antalcida (386). Ha come sfondo la fortunata spe-
dizione del re Agesilao in Asia Minore. Ben poco, invece, è appro·
priata, in sé e per sé, alla situazione del 346. Tuttavia essa con-
veniva assai a Filippo, in quanto egli aveva bisogno di un'ideo·
logia, per giustificare il suo intervento nella politica ellenica.
Ciò è stato assai ben chiarito da U. WILCKEN, Philipp II von
Makedonien und die panhellenische Idee(« Ber. Berl. Akad. » 1929).
••) lsocr. Epist. 2, 15. Come Isocrate pensa ancora il BELOCH
nella Griechische Geschichte.
1838 [l!l502] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

e gli agitatori che lavoravano per la Macedonia ebbero


buon gioco nello sfruttamento sistematico del suo slo-
gan nazionale.
Dobbiamo sempre aver ben chiaro in mente, di
quale enorme importanza sia stata nella lotta di Filippo
contro i Greci la preparazione politica dell'assalto mi-
litare, . il quale naturalmente era sempre coperto da
lui con la maschera della difesa. Veniva poi l'azione
propriamente guerresca, che doveva essere repentina
al massimo e metter fine a tutto con un colpo solo.
Non si poteva lasciare all'impreparata democrazia il
tempo di tentare un .improvvisato armamento. Tanto
più lunga, perciò, e bene organizzata doveva essere
l'opera degli agitatori politici, diretta a minare dal-
l'interno le posizioni avversarie. Filippo era abbastanza
acuto da vedere come fosse possibile indurre un popolo
come i Greci a perdersi con le sue stesse mani: dove
sono cultura e libertà, là domina sempre diversità di
pareri sulla via da prendere nelle questioni più gravi.
La massa è di vista troppo corta per vedere in an·
ticipo la soluzione buona. Demostene parla molto del-
1' attività agitatoria macedone in tutte le città greche.
Questa propaganda sistematica, che alla fine, tra i
Greci discordi, conduceva per lo più un partito a desi-
derare l'intervento di Filippo come salvatore della
pace, è la nuova raffinatezza della politica guerresca
di Filippo. Quando si vede come Demostene sceglie il
punto in cui dirigere l'attacco nei suoi discorsi, ci si
rende conto che questa agitazione interna, causa di
confusione nelle linee, attizzata a_ proposito e con ener·
gia dall'avversario, costituisce per lui il vero ed essen·
ziale problema. Egli non aveva da persuadere un con·
siglio segreto della corona, ma un popolo distratto e mal
guidato, a cui falsi pastori cercavano d'insinuare la
fiducia addormentante, che dipendesse solo dallo schiet·
CAP. XI: DEMOSTENE [m503J l839

to amor di pace degli Ateniesi dover scendere in guerra


o no.
Demostene non era uomo da sottrarsi a questa
nuova battaglia all'interno. Così mentre procede ardi-
tamente contro le personalità del partito del non inter-
vento, egli riprende ora di nuovo i suoi tentativi di
trarre Atene dall'isolamento 79). Se Filippo si maschera
da salvatore dei Greci straziati dalle discordie, Demo-
stene oppone a questo fronte di menzogna la ferrea
volontà di unificare i Greci contro Filippo, chiamandoli
alla difesa dell'indipendenza nazionale. Le orazioni che
pronunziò durante il periodo della pace sono una serie
ininterrotta di tentativi di contrapporre un suo panelle-
nismo a quello filomacedone di Isocrate e di organiz-
zarlo come :una reale forza politica SO). Alla lotta per
lanima di Atene segue la lotta per l'anima di tutta
l'Eìllade. Atene può sfuggire all'accerchiamento, solo
se le riesca di staccare a uno a uno gli alleati greci
di Filippo dal fronte nemico e di porsi alla testa dei
Greci 81). Non meno ambizioso di questo è il fine di
Demostene, il fine che egli stesso rivela nella seconda
Filippica, descrivendo i suoi sforzi di staccare da Fi-
lippo gli stati del Peloponneso. Nel primo momento
essi rimasero senza effetto 82). Quegli stati si sareb-
bero potuti guadagnare prima alla causa, quando erano
ricorsi loro ad Atene disposti ali' alleanza. Allora, vari
anni prima che la lotta contro Filippo raggiungesse
il suo culmine attuale, Demostene si era risolutamente

70) V. au.pra., p. 484 ss.

••)In Phil. IV 34, Demostene contrappone il panellenismo anti-


macedone rappresentato da lui al panellenismo antipersiano del
partito filomacedone, e dichiara che l'unico vero pericolo, a cui
i Greci debbono far fronte, non è la Persia, ma Filippo.
81 ) La parola greca 1tE:pLa-roLxl~e:cr.&1xt, corrispondente al
concetto nostro di « accerchiamento», è, come questo, presa dal
linguaggio della caccia. Cfr. Phil. II 27.•
") Phil. II 19 s.
1840 [m 504] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

dichiarato per una tale politica di alleanze e aveva


consigliato di non respingere, a causa di un'alleanza
con Sparta ormai quasi priva di valore, gli altri stati
del Peloponneso, per i quali Atene era il naturale
sostegno 8 3 ). Ora essi si erano gettati in braccio a Fi-
lippo, e anche Tebe, che in quel momento sarebbe
stata per Atene più importante di Sparta, si era ormai
legata a Filippo più di quanto fosse nel suo stesso
interesse, a causa dell'appoggio ~lato da Sparta e Atene
ai suoi avversari Focesi. Appoggiare i Focesi, soltanto
in odio a Tebe, era sempre stata per Demostene - cosi
egli dice più tardi - politica sbagliata. Allo stato
attuale, la guerra della Focide aveva fornito a Filippo
l'occasione per ìnischiarsi nelle faccende della Grecia
centrale. I Focesi erano annientati, il riavvicinamento
di Atene a Tebe era rimandato a tempo indetermi-
nato 84 ). In una Grecia cosi divisa stabilire un fronte
panellenico contro Filippo poteva parere una fatica di
Sisifo. Eppure il tentativo, dopo sforzi di anni, riuscì
a Demostene. L'evoluzione della sua personalità, fino
alla parte che egli assunse di campione della libertà
ellenica, è tanto più sorprendente in quanto l'attuazione
politica dell'idea panellenica, anche dopo che la re-
torica laveva formulata, non appariva più che una
bella favola. L'uomo che riuscì a imporla fu lo stesso
Demostene, che nei primi suoi discorsi di politica
estera aveva posto questo assioma:« per me il punto di
partenza di ogni disegno politico è l'interesse di Ate-
ne» 85). Da queeto politico della grande scuola di Calli-

V. supra, p. 485 ss.


83 }
Che Demostene abbia avuto di mira fin da principio il
84)
riavvicinamento a Tebe, ho cercato di dimostrare in Demosthenes,
(trad. it. pp. 112; 192; 211; 220. L'alleanza con Tebe venne a
maturazione solo all'ultim'ora, prima di Cheronea. E fu per De-
mo&tene un tragico trionfo.
16) Megal. 1-4.
CAP. XI: DEMOSTENE [III505] 1841

strato, particolarista per principio e senza illusioni, era


uscito l'uomo di stato della terza Filippica, per il
quale è compito massimo di Atene, memore della grande
tradizione nazionale del suo passato, assumersi la guida
dei Greci contro Filippo 86 ). Il fatto che questo dise-
gno gli fosse riuscito, che la più gran parte dei Greci
si fossero alla fine raccolti sotto questa bandiera, fu
riconosciuto già dagli storici antichi come azione di
uomo di stato di prima grandezza.
Nell'orazione Per il Chersoneso e nella terza Filip-
pica, pronunziata poco prima l'inizio della guerra, che
sono, in campo morale, la sua grande, decisiva battaglia
d'urto, Demostene ci riappare come il capo del popolo
delle prime orazioni filippiche, prima della pace del 346.
Ma come mutata la situazione. Quello che era allora
un agitatore isolato è ora la guida di un moto che in-
veste la Grecia intera. Non più gli Ateniesi soli, ma i
Greci tutti egli chiama a svegliarsi dal leta:tgo, a lot-
tare per l'esistenza. Essi, di fronte al diffondersi tra-
volgente della potenza di Filippo, se ne stanno ancora
inattivi, come di fronte a un uragano, a una catastrofe
di natura, che l'uomo guarda passivamente col senso
della sua impotenza assoluta, con la sola speranza
che il flagello si fermi alla casa del vicino 87 ). Compito
di un capo è di sciogliere la volontà del popolo da
questa paralisi, di strapparlo dalle mani dei cattivi
consigrieri, pronti a consegnarlo al nemico, operanti
soltanto nell'interesse di Filippo. Il popolo li ascolta

88) Sulla evoluzione di Demostene :fino all'atteggiamento di


campione della causa panellenica, v. il mio libro, trad. it. pp. 204 ss.,
211 s., 281 s. e i passi citati dalle orazioni, a partir dalla pace
del 346, a p. 282. Naturalmente tra la politica realista delle prime
orazioni e il programma di lotta panellenica delle più tarde non
esiste alcun contrasto radicale, allo stesso modo che non esiste
tra il primo Bismarck, rappresentante degli interessi puramente
prussiani, e il fondatore dell'unità politica tedesca del 1870.
") Phi!. III 33.
1842 [m506] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

volentieri perché non gli chiedono niente 88). Demo-


stene cita esempi, enumera le città in cui il partito
devoto a Filippo gli ha già dato in mano il potere.
Oggi Olinto, Eretria, Oreo non possono che dire:« se
fossimo stati preveggenti non saremmo precipitati; ma
ora è troppo tardi» 89 ). Finché la nave si può salvare
si deve agire con tutte le forze; quando il mare ha
preso il sopravvento, ogni fatica è yana 90). Gli Ateniesi
devono agire da sé, e se anche tutti gli altri cedessero
essi dovrebbero seguitare a combattere per la libertà.
Devono approntare denaro, navi, uomini e trascinare,
con l'esempio del sacrificio, la Grecia con sé 91). La
grettezza spirituale della massa, la corruzione degli
uomini politici devono cedere e cederanno all'eroico
spirito di quella Grecia che vinse un giorno i Per-
siani 92).
Questo richiamo impone una domanda, che già
molti anni prima si affaccia nei discorsi di Demostene, se,
cioè, gli Ateniesi non siano ormai una razza degenerata,
neppur degna di esser nominata insieme con gli Ate-
niesi di un tempo 93). Ma Demostene non è uno sto-
rico, non è un sociologo teorico che guardi i dati di
fatto e solo questi voglia conoscere. Egli è qui anche,
per intima necessità, l'educatore che vede un compito
dinanzi ~ sé. Egli non crede a un peggioramento nella
natura del popolo, per quanto cattivi i sintomi pos-
sano apparire. :ì!: impossibile per lui abbandonare, come
Platone, lo stato ateniese, allontanarsi da lui come da
un malato senza speranza. :ì!: la condotta di vita di

88) Phil. III 53-55, 63 s.


89 ) Phil. III 56"62, 63, 68.
80 ) Phil. III 69.
H) Phil. III 70.
V., in Phil. III 41 ss., esempi tratti da.Ila storia ateniese,
92 )
dell'amor di libertà e dell'onestà del popolo di una volta.
98) Ilep t GUVTa/;E(ùç 25 s.
CAP. XI: DEMOSTENE [m507] 1843

questo popolo che è divenuta gretta, da mercantuc·


cio; come potrebbe allora esser diverso il suo modo di
pensare? 94 ). Di dove gli potrebbero venire alti sensi
e slancio di ardimenti ? Mentre Isocrate traeva dal
paragone col passato l'unica conclusione, che il pas·
sato era morto per sempre, l'uomo di stato impegnato
nell'azione non poteva seguirlo su questa via, finché
un solo bastione della fortezza si poteva ancora di-
fendere 95). Nelle sue mani, quindi la grandezza del·
l'antica Atene diveniva il pungolo per muovere il po·
polo a mettere in gioco ogni forza, fino all'estremo 96).
Ma questo modo di concepire il rapporto tra presente
e passato non è per lui soltanto una questione di volere:
è ancor più questione di dovere 97). Anche se l'abisso
tra allora e oggi fosse davvero così grande, Atene non
si potrebbe separare dalla propria storia senza rinun-
ziare a se stessa. Quanto più grande è la storia, tanto più,
in tempo di declino, essa si trasforma in fato, tanto più
tragica è l'impossibilità di sottrarsi all'obbligazione da
lei posta, anche se sia inadempibile 98). Senza dubbio,

") I!&pl auv-r&çe:c.>c; loc. cit.


95) Isocr. De pace 69:« Noi non abbiamo più le qualità (~'I])
con le quali conquistammo l'impero, ma solo quelle, ormai, per
cui lo abbiamo perduto ». Il confronto con gli antenati è sempre
a sfavore del presente in Isocrate: cfr. supra; p. 190 ss., p. 199 ss.
· 98) Ancora una volta appare qui, con più alto stile, l'antica
semplice idea educativa del « modello», che aveva illuminato
i primi passi del popolo greco. Si veda una sistematica raccolta
dei passi in cui essa appare in Demostene nel ben documentato
libro di K. JosT, Das Beispiel ecc. gia citato alla n. 17.
") Questa necessità Demostene la deduce, dopo gli eventi,
nel discorso Per la corona, dal modello della grande epoca ate-
niese; ma essa era già implicita, senza dubbio, nel dovere morale
che, dallo stesso modello, era dedotto nelle Filippiche.
98 ) Si vedano i passi di maggior potenza del discorso Per la
corona, specialmente 66 ss. « Che cosa dunque doveva far la città,
o Eschine, quando vedeva Filippo che cercava di stabilir la sua
sovranità e tirannide sopra la Grecia? O che doveva dire o pro-
porre il consigliere del popolo, che dovevo proporre io,. che pur
sapevo come, dai tempi antichi fino al giorno in cui io stesso ero
1844 [m508J LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

Demostene non fu un consapevole ingannatore di se


stesso e non spinse a cuor leggero gli Ateniesi in un'av·
ventura. Ma d'altra parte ci dobbiamo domandare se
la condizione di necessità urgente in cui Atene si tro·
vava, da lui capita più chiaramente che dagli altri,
consentiva ancora in qualche modo quella forma tecnica
di arte politica che si suol chiamare l'arte del possibile.
In Demostene il politico realista, che era in lui in
misura molto maggiore di quanto gli storici moderni
abbiano per lo più riconosciuto, si trovò certamente
in conflitto con I'altra tendenza politica del suo animo,
consapevole del diritto e del dovere di metter tutto
in gioco, quando si trattava, idealmente, dell'esistenza
stessa di Atene, e di chiedere l'impossibile alle forze
esistenti. Questa esigenza non era ancora una pura
utopia. Essa poggiava sull'idea, che l'organismo fisico
e morale, dell'individuo come di lina nazione, è capace
di fornir prove altissime nel momento di un rischio
mortale, in una misura che dipende dalla consapevo-
lezza del proprio stato e dall'intensità della propria
volontà di vivere. Anche il più saggio degli uomini di
stato si trova in questo caso di fronte a un mistero della
natura, non calcolabile in precedenza dall'intelletto.
A cose fatte è fin troppo facile che i veri uomini di stato
sembrino coloro che si erano messi di fronte al problema
come a un semplice problema di calcolo, e per cui era
agevole non affrontare un rischio, al quale non li moveva
intimamente né fede nel popolo, né senso del suo va-
lore, né presentimento di un destino inevitabile. In
quel decisivo momento fu Demostene l'uomo in cui il
motivo eroico dell'anima cittadina greca trovò questa
sua necessaria espressione. A noi basta solo guardare
il suo volto, come l'ha ritratto l'artista, quel volto
salito alla tribuna, la patria aveva lottato sempre per il primato
dell'onore e della gloria?».
CAP. XI: DEMOSTENE [m509] 1845

solcato da un'ansiosa tristezza, per capire che anche


lui non aveva la natura di un eroe antico, non era
un Achille o un Diomede, ma, anche lui, un figlio del
suo tempo. Ma chi non vede che qui sta proprio la
nobiltà della sua lotta, in questo porre esigenze sovru-
mane a una umanità di sensibilità cosi tesa e di cosi
interiore individualità ?
Questa prova, non altro poteva Demostene che
prenderla su di sé con la più impegnata consapevolezza.
Già Tucidide aveva detto che gli Ateniesi erano capaci
di ardimento, solo con piena coscienza, laddove presso
gli altri il coraggio poggiava spesso ·sull'incoscienza
del rischio 99 ). La condotta di Demostene si conforma
a questa massima. Egli contrasta l'opinione per la
quale la guerra imminente sarebbe stata simile alla
guerra del Peloponneso, nella quale Pericle si era limi-
tato, lasciando entrare il nemico nel territorio, a chiu-
dersi dentro le mura della città. Coi moderni progressi
nella strategia, Atene è perduta, egli crede, se aspetta
che il nemico sia entrato dentro i confini 100). Questo
è un presupposto essenziale sul rifiuto che Demostene
oppone a una politica di « aspettare e vedere». In
quel tempo egli cercò di guadagnare alla sua guerra
non solo i Greci, ma anche la Persia: e in realtà quando
si vede la caduta dell'impero persiano seguire immedia-
tamente all'assoggettamento dei Greci da parte di Fi-
lippo, la mancata partecipazione della Persia al destino
di Atene appare non altro che un fenomeno di accie-
camento. Demostene credé di potere, con la forza
della sua logica politica, persuadere il Gran Re di quel
che sarebbe toccato alla Persia quando Filippo avesse
sottomesso i Greci 101 ). E forse ci sarebbe riuscito se

88) Thuc. II 40, 3.


10°) Phil. III 49-52; cfr. anche Cor. 145 s.
1°1 ) Cfr. Phil. IV 52 e 31-34, e il èommento di Didimo a
1846 [rn510] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

fosse andato di persona in Asia. Mandò legati, che non


seppero far breccia nell'inerzia persiana. Un altro pro-
blema che Demostene affrontò allora con piena consa-
pevolezza fu la questione sociale, il contrasto, che du-
r~nte quei decenni si venne facendo sempre più acuto,
tra i possidenti e le classi povere ateniesi. Egli aveva
la chiara convinzione che nella lotta decisiva, non ci si
poteva trascinar dietro questo dissidio, se non si voleva
compromettere in partenza il necessario impegno to-
tale di tutti gli strati della popolazione. La quarta
Filippica tenta di promuovere un a~cordo, un compro-
messo per lo meno, che basti a svelenare I' atmosfera,
con sacrifìzi e concessioni da amho le parti 102). L'ora·
zione mostra quanto sia strettamente congiunta per il
popolo la questione dell'affermazione nazionale con la
soluzione delle difficoltà sociali. E forse la più valida
testimonianza in favore di Demostene è lo spirito
di sacrificio che effettivamente si svegliò in ogni campo,
nella guerra che seguì.
La guerra si risolse infelicemente per i Greci con-
federati. L'esistenza, in quanto sovranità, dello stato·
città greco fu distrutta con la battaglia di Cheronea.
Anche uniti insieme nella suprema lotta di libertà,
i vecchi stati non erano più capaci di resistere alla orga·
nizzata potenza militare del regno di Macedonia. La loro
storia venne a sfociare nell'impero mondiale, che Ales-
sandro, dopo la repentina, violenta morte di Filippo,
in seguito a una travolgente spedizione conquistatrice
attraverso l'Asia, compose coi frantumi dell'impero per-
siano. Si aprirono così alla colonizzazione greca, all'eco-
nomia, alla scienza, nuove impensate possibilità di
sviluppo, anche quando l'impero, dopo la morte pre-

quest'ultimo luogo, che è venuto da poco a chiarire le allusioni


alle trattative con la Persia.
•ò 2) Phil. IV 35-45.
CAP. XI: DEMOSTENE [Ili 511] 1847

coce del fondatore, si spezzò nei regni dei Diadochi. Ma


l'Ellade antica era morta politicamente. Certo, ·ora
era divenuto realtà il sogno ·d'Isocrate, dell'unione di
tutti i Greci sotto guida macedone nella guerra nazio-
nale contro il nemico ereditario persiano. A Isocrate la
morte risparmiò di dover riconoscere troppo tardi, che
la vittoria di un popolo, che ha perduto la sua indipen-
denza. su un nemico immaginario, non è verace esalta-
zione del sentimento nazionale e che l'unità imposta dal
di fuori non è vera soluzione del problema del fram-
mentarismo politico. Nessun greco autentico ci fu,
che durante la spedizione di Alessandro non prefe-
risse di sentir la notizia della morte del nuovo Achille,
alla devota gioia di supplicarlo come ' un dio, nella
sublimità del comando. L'attesa febbrile di questa no-
tizia da parte di tutti i patriotti, con le sue sempre
nuove illusioni, con i prematuri tentativi di rivolta,
costituisce di per sé una tragedia. Ma che sarebbe
avvenuto se fosse davvero riuscito ai Greci, dopo la
morte di Alessandro, di scuotere il giogo, se le truppe
macedoni non avessero soffocato la rivolta nel san-
gue, quando Demostene cercò nella morte quella li-
bertà che non sperava più di vedere per il suo popolo ?
Per i Greci non c'era più un avvenire politico an-
che se avessero vinto con le armi, né liberi da un
dominio straniero, né sotto di esso. La forma storica
della loro vita statale aveva vissuto, e non c'era nuova
organizzazione artificiale che la potesse sostituire. È er-
roneo valutare la loro evoluzione storica sul metro
dello stato nazionale moderno. Rimane un fatto, che i
Greci non hanno svolto da sé una coscienza nazio-
nale in senso politico, che li avrebbe resi capaci di
una tale formazione statale, anche .se coscienza na-
zionale in altro senso non è mancata a loro. Aristo-
tele dice nella Politica che i Greci potrebbero domi-
1848 [m512] LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE

nare il mondo se fossero un unico stato 103). Ma questo


concetto non entrò nell'orizzonte mentale greco se non
come problema filosofico. U n a v o l t a s o 1 a , nella
lotta finale di Demostene per l'indipendenza, il senti-
mento nazionale di tutti i Greci proruppe, e si trasferì
nella realtà politica della comune resistenza contro
lo straniero. In questo momento del suo sforzo estremo
di affermare la propria esistenza e i propri ideali, la
polis, al suo tramonto, si eterna nelle orazioni di De-
mostene. La molto ammirata, e molto abusata, po-
tenza dell'eloquenza politica, inseparabile dall'idea che
egli sostenne, ascende ancora una volta in quelle ora-
zioni a importanza ·e dignità suprema, per poi scom-
parire. La sua ultima grande prova è l'orazione Per
la corona. In essa non· si tratta ormai più di realtà
politiche, ma del giudizio della storia, della figura del-
l'uomo che aveva guidato Atene in quegli anni. t me-
raviglioso vedere Demostene in lotta per l'idea fino
all'ultimo respiro. Il suo potrebbe sembrare vano pun-
tiglio, dopo che la storia aveva pronunziato la sua
ferrea sentenza. Ma quando i suoi vecchi nemici stri-
sciavano fuori dai nascondigli e pretendevano in nome
della storia di pronunziare su lui la condanna finale,
egli doveva salire per l'ultima volta alla tribuna, e
parlare al popolo di tutto quel che aveva fin da princi-
pio voluto e agito. Tutto quello a cui abbiamo assistito,
nell'attività della lotta, leggendo le Filippiche, il peso
dell'eredità, la gravità del pericolo, la durezza della
decisione, ritorna ancora al nostro sguardo, come un
destino concluso, compresa anche la fine dolorosa. De-
mostene si riafferma fedele, con animo di vera altezza
tragica, alla sua azione ed esorta il popolo a non con-
cepire neppure di aver potuto agire altrimenti .di come

1°•) Arist. Pol. VII 7, 1327 b 32.


CAP. XI: DEMOSTENE [nr 513] 1849

esigeva il passato della città 104). Quell'antica luce ri-


splende ancora, e la fine, pur nella tristezza, si com-
pone ancora con essa in armonia.

10.) Cor. 206-208.


INDICI

A CURA DI ALBERTO BELLANTI

I. INDICE DEI NOMI E DELLE COSE


Il. INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI CITATI
III. INDICE DEGLI STUDI MODERNI CITATI
IV. INDICE GENERALE
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Accademia platonica 629, 741, Afareo 1429 n. 31.


784, 817, 823, 826, 830, 854, Afrodite 245, 596, 607, 998.
963, 973, 993, 994, 1160- aya06v, V. Bene.
1162, 1204, 1219, 1222-1226, aya06ç 34, 937, 1114 n. 232.; -
1400 ss., 1403, 1413, 1420, suo significato in Teognide
1430, 1432 n. 37, 1437 n. 52, 363; - opp. 1<aK6ç 35 n. 13.
1484 n. 14, 1562 n. 16, 1585, agalma, agalmata 20, 1802.
1586 e n. 111, 1587 e n. 113, Agamennone 42, 43, 64, 68 n.,
1589 ss. e n., 1594, 1651, 37, 81, 106, 107, 111, 454,
1656, 1658, 1668, 1701, 1708 483, 598, 648, 770, 1067,
n. 12; 1709, 1722, 1758, 1776, 1211, 1334.
1810; - (nuova) 1669 n. 59. Agatone 573, 991, 1006-1008,
Achille 37, 41, 42, 43,44, 48, 66, 1009, 1011, 1014.
67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 77, Agesilao 162, 1606 n. 3, 1707,
8~ 81, 93, 94, 100, 101, 102, 1609, 1624, 1837 n. 77.
103, 104, 105, 106, 107, 108, agoghé 1631.
111, 112, 114, 150, 197, 217, ag6n 20, 540, 588; - musico
228, 364, 393, 94, 395, 447, 193, 234; - virtù agonali
815 n. 209, 1067, 1195, 1291 205; - nelle Rane di
n., 1575, 1646. Aristofane 636.
Acropoli 262. Agostino 817, 818, 1181 n. 40.
Acusilao 428, 1002 n. 33. agricoltura: vita agricola 127 n.
Adam, R. 1680 n. 12, 197; v. anche Esiodo, Ari-
Adams, Charles Darwin 1804 n. stocrazia; - e cultura (v.
Ade 1067. Senofonte, Sofisti) 1634 ss.,
Adimanto (nella Repubblica di 1676; - compito di educato-
Platone) 849, 1038, 1040- re dell'agricoltore 1639.
1042, 1304, 1681. aya06ç 126 Il. 11, 574 e n. 16,
Adone (giardino di-) 1676. 1635 n. 82.
Adrasto di Sidone 376, 1670 n. Aiace 38, 42, 43, 44, 48, 67, 68,
60. 69, 101, 588, 815 n. 209, 1127.
1854 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

aid6s 36 e n. 15, 126, 149, 563, yqpaµµévot <j>iA.ot) 784 n.


1543 s., 1544 e n. 71, 1621, 148.
1731 n. 86, 1753 e n. 176. Amintore 64.
al voç, v. Favola. amore, v. Eros; - amor di sé (
aisymnétai, 410. <j>tA.avtia) 46, 47, 48, 1013 s. e
ch:pacri TJ, mescolanza e simme- n. 68; - itpciìwv <j>iA.ov 989.
tria 1382 e n. 69. Anacreonte 411, 415, 624.
Ò:Kpt~Eia, specializzazione cul- ananke 327, 1063, 1331 n. 64,
turale 1362. 1333; v. anche Storia (neces-
Alceo 196, 224, 248, 249, 250, sità storica).
252, 349, 624. Anassagora 290, 508, 576, 577,
Alcibiade 657, 668, 675, 676, 591, 730, 733, 734, 735, 830,
683, 731, 732, 765 n. 91, 766, 1348, 1367 n., 1371, 1373,
767 n. 102, 849, 1155, 1542 n. 1392, 1668 n. 56, 1670.
66, 1570, 1608, 1619 n. 39, Anassimandro 200, 214, 267,
1681; - nel Simposio di 291, 294 ss., 303, 305, 308,
Platone 1023-1025. 320, 326, 327, 337, 1344; V.
Alcidamante 588, 1438 s., 1655 anche Causalità, Retribuzio-
n. 7. ne; - cosmologia di A. 295;
Alcinoo 58, 65, 198. - am:npov 297 s.; - fram-
Alcmane 193. mento di A. 299 ss.; - oiKTJ
Alcmeone crotoniate 1348, in A. 301 ss.
1590 n. 124, 1591 n.; - teoria Anassimene 294, 298, 301, 320,
dell'equilibrio 1370 e n. 51. 332.
Alcmeonidi 403, 405, 419, 550. Anassimene retore 539.
Alessandrina (scuola - ) 538, à:vopcia 35, 386; v. anche Areté.
548, 612, 615. Androne di Androzione 920 n.
Alessandro di Afrodisia 1452 61.
n. 90. Androzione di Androne, uomo
Alessandro Magno 1129, 1481, politico ateniese scolaro di
1616 nn. 30 e 31, 1805, 1807, Isocrate 920 n. 61, 1513; -
1846 s.; - A. e Ciro 1615 e autore dell'Atthis 409 n. 22,
nn. 28 e 29; - A. e l'impero 1536.
macedone 1847. Anfione 920.
Alisia (battaglia di - ) 1572. anima: origine divina 311, 315;
Alline, Henri 1351 n. - concezione omerica e orfi-
Alopece 729. ca dell'a. 311; - destinazio-
amicizia 252 s., 357 ss., 364, ne nell'aldilà 315; - in
782, 873, 987 ss.; v. anche Sofocle 484; - ritmo e armo-
Eros; - «amici iscritti» (oi nia dell'a. 483; - anima-
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1855

demone 315 n. 85; - medici antropomorfismo 318 ss.


dell'a. umana 597 n. 51; svol- apaideusia 950 n. 154.
gimento del concetto greco apoliticità, ideale cirenaico
di a. 752; - concetto socrati- criticato da Arist~tele, 808 n.
co di a. 750 ss., 869 e n. 8; - 193.
cura dell'a. (ljfvxfiç 0cpa- Apollo 106, 111, 173, 177, 188,
n:da), v. Medicina; «parti 312 ss., 450, 455, 586, 595,
dell'a.» 1030 nn. 6 e 7, 1101, 994, 1067, 1646, 1787.
1261, 1288; - cosmos dell'a. Arcadia 1285.
936 s., 1102; a. e stato in apxaia XAtoi\ 262.
Platone 1030 ss. passim, Archelao d'Atene, filosofo e
1260, 1309; - paragone tra scolaro di Anassagora 577,
l'a. e l'occhio 1178 s.; 730, 731 n. 30, 733.
immortalità dell'a. 1328. Archelao, re di Macedonia 950
Anita 920 n., 922 n. 64, 983. n.153.
Anonimo del De sublimitate Archidamo medico 1398 s.
390 e n. 99. Archidamo, guetra archida-
Anonymus Iamblichi 1034 n. mica 668, 615, 1485 n. 16.
17, 1042 n. Archiloco 97, 196, 200, 224 ss.,
Antalcida (pace di) 1551, 1553, 387, 391, 610, 614, 913, 1493
1808, 1837 n. 77. n. 41; v. anche lj!Ùyoç; - pro-
Antifonte di Ramnunte oratore cesso spirituale di autofor-
1448. mazione 226; - elementi
Antifonte sofista 206 n. 23, 541, omerici 227 s.; - naturali-
557 ss., 767 n. 97, 780, 925 n. smo 228 ss.; - sfida all'opi-
73,928, 1436, 1460. nione pubblica 229; - poeta
Antigone 486 ss., 1502. satirico 227 ss., 231 ss.; - la
Antigono Monoftalmo 1212 n. filosofia vissuta di s. 237 ss.
118. Archimede 696.
antilogie 539, 668; - avnA.o- Archita e Pitagorici della
'Yt KlJ e retorica tradizionale Magna Grecia 1214, 1222,
1663 s. 1695, 1700.
Antimaco di Colofone 86 n. 5. architettura 11, 20.
Antimoiro di Mende 871. Areopago 425, 444, 771 s., 1527,
Antistene 588, 713, 719, 727, 1530 ss., 1537 ss., 1542, 1634,
779, 792, 1422 n., 1431 n. 36, 1758.
1437 e n. 52, 1452 e n. 96, Ares 173, 226, 607.
1454, 1493 n. 43, 1605, 1649. areté 25-48, 49, 62, 366; v.
antologie (le più antiche) 349 s. anche aya06ç, KC!AOç KcXya-
Antonio, Marco 1833 n. 68. 96ç, kalokagathia - storia
1856 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

della parola 31; - significa- 135, 146 e n. 51, 149, 181 s.,
to omerico 32 s., 209; 272, 275, 367, 368 n. 50; -
àpETI'j e apwwç 33; - di problema dell'a. nei poeti
cose, animali, dèi 32 s.; - arcaici 964, 1252~ - in
aspetto intellettuale, morale, Pindaro (àpE'ta) 372 ss.; 383
estetico 34 ss.; - definizione s., 388 s., 391; 1483 n. 10 -
di Fenice 38; - e onore 39 in Simonide 386; - mante-
ss.; - e lode e biasimo 40; - nuta di fronte al destino 456;
e amore di sé 46; - inno di - nell'età sofoclea 483; -
Aristotele all'a. 48; - eter- conflitto dell'a. col destino
narsi dell'a. 47 s. - esaltata 483 s.; - rapporto tra pai-
nella poesia 56 s., 94 n. 12, deia ed s. 495 ss.; - con-
176 s.; - nell'aristocrazia cezione retorica dell'a. 502
omerica 59 ss., 209; - inse- s.; - nel mito di Eracle al
gnabile o non insegnabile bivio 774; - areté civica,
67, 147, 502 ss.; 876 ss., 893 base della città-stato 423, 529
s., 897 e n. 97, 963 s., ss.; - «virtù senza testi-
981-984, 1147, 1176 n. 24; moni» 560; - e il signifiçato
1500; - significato di 1caKo- umanistico di cultura 29 n. 5;
'tT]ç e di àpETI\ in Esiodo 146 - etimologia 33 n. 10; -
ss.; - diventa una virtù civi- «virtù intera» (niicra àpETI\) e
ca 180 ss., 207, 215 ss., 423; ai Kmà µÉpoç àpnai; 45 n.
- e il bene comune 182 s., - 35; 1798 e n. 367; - nuovo
concezione di Senofane 191, concetto socratico-platonico
322 ss.; - del vincitore olim- di a. 714, 758, 799, 835 ss.,
pico 1462 n. 10; - e la virtù 961 ss., 979 ss., 1016; 1102 n.
cristiana 205 s.; - virtù ago- 197, 1201; - unità della
nali 205; - sua eccellenza in virtù 798, 881, 895, 932 n. 98,
generale 32 s., 205 s.; - 937, 961, 965; 1798 n. 368; -
significato di s. in Tirteo 174 identificazione di a. e «natu-
ss., 206 s.; - diventa otKato- ra» 915 n. 48; - aretài del
cruvT] 205, - la saggezza corpo 965 e n. 11, 1108 n.
come suprema àpE'tij 207 s., 219, 1201; - a. e felicità
324 ss.; - virtù civica come 1297; - àpxaia àpE'ti\ 771;
educazione generale 215 ss., - «virtù cardinali» 790, 844,
528 ss.; - la filosofia greca e 1064, 1176; - perfetta pai-
il problema dell'a. 285 s.; - deia 1486; - agathòn forma
nel simposio 322; - virtù originaria di ogni a. 1763; -
dello spirito 325, 504; - come simmetria delle forze
virtù e ricchezza 59 e n. 14, 1383; - come cruµ$rovia de-
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1857

gli istinti con la ragione 1746 agli studi teoretici 544 s.;
n.143; -a. e phronesis 1799; riflessi sociali 30-119 pas-
- a. dei creatori della «costi- sim, Lib. 1 cap. X passim; -
tuzione dei padri» 1585; - governo aristocratico 197,
dei padri 1547; - dei gover- 203 s., 260 s.; - società ari-
nanti 1768; - di una perso- stocratica: influsso culturale
nalità storica individuale sulla classe contadina 123;
1483; - del monarca 1486 s.; signori «divoratori di doni»
- del principe 1617; - del 125; contrasto con la cultura
comandante militare 1615 n. della classe contadina 121 s.,
28; - spartana 1624, 1719; 128 ss., 150 s.; Sparta e la
- persiana 1612, 1615; - a. Grecia arcaica 171; - con-
e razza greca 1613 ss., 1616; cezione aristocr. dell' areté
- a. e medicina 1379, 1383; criticata da Tirteo 181 s.; da
- a. e beni della vita 1487 e Senofane 323 s.; - e la vita
n. 25; - militare 1618. agricola 197 s.; - ad Atene
Arete, moglie di Alcinoo 62. 260 s., 268, 402 s., 419, 545,
Arginuse (battaglia delle - ) 550, 618 s.; - reazione e tra-
478, 572, 732, 1610 n. 17, sfigurazione dell' aristocra-
1634. zia 343 ss. passim; - nel VI
Argonauti 199. sec. 344 ss.; - concetto di
Ariobarzane 1624 n. 59. aya8oç e KaKOç 363 (~
aristeia 36, 47, 100, 105. anche ciya86ç); - sentimen-
Aristide 425, 501, 562. to di casta 365; - fondata
Aristippo di Cirene 399, 772 s., sulla ricchezza 272 (vedi
808 s, 1454, 1605. «virtù e ricchezza», alla voce
aristocrazia 25 ss., 54 s., 63, Areté); - e l'atletica 377; -
571; - cultura aristocratica dopo la perdita del potere
30-119 passim, 123 ss., 215 414; - philosophari, sed
ss., 323 ss., 343-400; - deca- paucis 547; - aristocrazia
denza della cultura aristocra- omerica 126, 229, Lib. I capp.
tica 398 ss., 404 s., 545 s.; - I-III.
ideale educativo 59, 71, 73, Aristofane 233, 420, 421, 434,
82, 92 ss., 97, 344 ss., 496 ss., 436, 467, 469, 478, 560, 577,
525, 527, 532; codificato da 578, 605 ss. passim; 709 n. 4,
Teognide 356 ss., 525; in- 733 s., 854, 934 n. 105; 1543,
segnato da Pindaro 372 ss.; 1635 n. 83; - Banchettatori
modernizzato dai Sofisti 501 623 s.; - Babilonesi 618 s.;
s.; etica dell'ideale educativo - Acarnesi 613, 620; -
94, 229-231, 337; opposto Cavalieri 612, 613, 619, 620
1858 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

s., 631; - Nuvole 613 s., 617, 1428, 1429 e n. 28, 1457, 1481
625 ss., 635; - Uccelli 578, e n. 3, 1482 n. 9, 1484 n. 14,
623; - Geritade 634; - Rane 1514n. 108, 1515,1521, 1562
.573, 616, 632, 634 ss.; - cri- n. 16, 1569 n. 44, 1591 n.,
tica di Euripide 572 s., 613, 1597 n. 140, 1616, 1659 e n.
633 ss.; - satira politica 59, 1709, 1739, 1741, 1774 n.
nelle prime commedie 617 263, 1776, 1810; - Costitu-
ss.; - critica di Socrate 617; zione di Atene 1531, 1758; -
- e la nobiltà attica 619; - Della Filosofia, 1183 n.; -
Demos in A. 620 s.; - attac- Dialoghi 1402 s.; - Elegia
ca la nuova educazione 625; dell'Altare 1185 n. 49, 1204
- discorso giusto e ingiusto n. 93, 1297; - Etica Eudemia
627 s.; - difende gli antichi 1150 n. 345; 1749 n. 154; -
ideali culturali 633 s.; - Etica Nicomachea 795, 800,
compito del poeta per A. 637 988, 1013 s., 1049, 1150 n.
s.; - nel Simposio di Platone 345, 1208 n. 108, 1210 n. 112,
612, 626; 991, 1004-1006, 1240, 1300; 1377 s., 1635 n.
1013; - e Menandro 608 n. 82, 1734 n. 94; - Eudemo 966
5; - in Germania 608 e n. 6, n.; - Grande Etica 1734 n.
622 s.; - amore dei campi 94; - Grillo o della retorica
1636; - decadenza delle 1586 n. 111, 1587 n. 112,
danze in armi 1778. 1588; - Inno per Ermia 815
Aristogitone 999. n. 209; - Metafisica 764,
aptcn:oç 33 s. 789, 1203, 1204, 1216 n. 138;
Aristossene 1754 n. 179. 1452 n. 90, 1468 nn. 28 e 29,
Aristotele 39 e n. 21, 43, 44, 45, 1591 e n., 1749; - Poetica
46, 47, 48, 89, 90, 103, 203, 1069, 1073 n. 97, 1077 n. 110;
212, 213 n. 38, 218, 241, 247 e - Politica 808, 1033, 1078 s.,
n.69,294,372,403,406,409, 1106, 1120n.255,1124, 1246
422, 445, 475, 479, 504, 506, s., 1250, 1253, 1254 n. 259,
507, 522, 535, 544, 560, 577, 1260 n. 276, 1262, 1264, 1272,
578; 699, 700, 705, 706, 708, 1307, 1311 n. 435; 1349 n.,
739, 756 n. 78, 761, 766 n., 1360, 1362, 1745 n. 138,
775 n. 126, 779, 804, 817, 823, 1847; - Politico 932; -
830, 858, 906 n. 20, 1001, Protrettico 1208, 1254 n. 259;
1028 n. 4, 1030 n. 7, 1129, 1481 n. 3, 1714 n. 24; - Re-
1185, 1209, 1219, 1222, 1252, gole per il simposio 993; -
1253; 1340, 1351, 1361, 1383 Retorica 1394 n. 93, 1452 n.
nn. 70 e 73, 1384, 1403 n., 89, 1635 n. 82; - Simposio
1404, 1405 e n. 119, 1407, 992 n. 13; - Storia degli ani-
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1859

mali 1352 n. 20; - Sulla pre- 1383; - teoria del Km:à nav-
ghiera 1180 n. 37; - Sulle -roç e Ka00À.O'U in logica 1393
parti degli animali 1359; - n.; - tentativo di introdurre
Sull'interpretazione dei sogni la retorica nell'insegnamen-
1403; - ed Esiodo 148; - su to platonico 1658; - modo
Sparta 161 ss.; - sulla giu- filosofico di concepire il
stizia 208; - etica di A. e compito della sua retorica
areté della città-stato 208 s.; 1658 n. 15; - legge come
- elementi mitici in A. 286; op0òç Myoç 1739 n. 113; -
- sU: Anassimandro 298 s.; concorrenza della sua Acca-
- sui Pitagorici 304, 305 s.; demia all'insegnamento re-
- sulla teoria platonica dei torico di Isocrate 1656 s.; -
numeri 306; - sull'educa- critiche della scuola di
zione statale 212 s.; - come Isocrate ad A. 1587 s., 1588 n.
fonte per la ricostruzione del 115; - teologia 1801 s.,
vero Socrate 720-724, 722 n. 1697; - A. e l'educazione
21, 734, 736, 737 n. 47, 738, statale 1632 n. 73; - A. e la
755 n. 77, 791; - testimo- democrazia ateniese 1758; -
nianze su Platone 716 s., 728, A. e l'unità nazionale greca
835, 857, 861, 966 n., 1461; 1847 s. - teoria dell'ani-
968-970, 1185, 1228 n. 166; - ma 1402; - la medicina e la
rapporti con Eudosso di sua filosofia 1372, 1406; -
Cizico 1222 s.; - dottrina esempio della medicina nel-
della volontà, fondamento l'educazione 1377; - discipli-
platonico 1331 n. 63; - miti- na eugenica 1772; - salute
ga il rigorismo etico platoni- fisica e felicità 1395; -
co 1300; - critica lo stato Ippocrate esempio del perfetto
platon. come irrealizzabile medico 1349 e n.; - A. e la
1307 n. 431; - indagini sui scuola medica di Cos 1352; -
sogni 1289; - concetto di A. e l'uomo colto in medicina
cultura come «ozio» 1240; - 1360 s.; - A. e terminologia
ideale della vita con- scientifica 1359 s.; - sistema-
templativa 1208 s.; - tipiz- tica zoologica 1400 s.
zazione dei concetti etici Armadio 999.
1136 n. 309; - teoria delle armonia 20, 308 s., 339, 428,
forme di stato 1246 s., 1250, 465, 481, 531, 538, 565, 596.
1254 n. 259, 1272; - atteg- Arnim, Hans F. A. von, 833 n. 5,
giamento panellenico 1129 866 n. 2, 883 n. 50, 930 n. 90,
n. 283; - empiria base della 931 n. 92, 990 n., 1413 n.,
techne 1369; - arte e natura 1653 n. 5, 1654 n., 1669 e nn.
1860 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Arnold, Matthew 25 n. 5. cap. VIII passim, 644 ss. pas-


Arriano 1615 n. 29. sim; - società attica arcaica
Artaserse II Mnemon 717, 260 ss.; - conservatorismo
1613, 1614 n. 26. primitivo 261; - funerali
arte (considerazione puramen- arcaici 262; - donne dell'a-
te estetica dell' - ) 85 ss.; - ristocrazia 262; - contadini
valore etico normativo 1755; attici 276, 278; - nobiltà ate-
v. anche Techne; - arti libe- niese, vedi Aristocrazia; -
rali (trivium, quadrivium) 12, partiti nell'antica Atene 403;
505, 538 s., 540 ss.; 777, 875, - borghesia attica 404; v.
1214; - «arte delle misura», anche Tiranni, Democrazia;
v. Misura. - cultura musicale sotto i
Artemide 595, 1646. tiranni 411; - società e cul-
ascesi (concetto socratico) 773, tura periclea 30 n., 432 ss.,
985. 475 ss., 566 ss., 571 ss., 594
Asclepio 67, 395, 1088. ss., 643 ss. passim, 679, 684
Asia 297, 321, 323, 399, 422. s.; - e il problema dell'edu-
amcT]cnç 525. cazione 496 ss.; - clima fisi-
Aspasia 731, 742, 771. co e spirituale 596, 602; -
Ast, Friedrich 775 n. 126, 803 n. immagine ideale della de-
186. mocrazia ateniese 683 ss.,
U<J'tEtoç 479, 574. 'tfjç • EA.A.ciooç naiOEvOLç 688;
astronomia, nella Repubblica 1471; - feste religiose 412
di Platone 1214-1217; - s.; - libertà ad A. 422, 575,
come scienza matematica 615 ss.; - imperialismo 421.
1764 n. 225; - orbite dei 567 ss., 644, 648 s., 661, 667,
pianeti 1793. 671 ss.; - partiti in lotta nel-
Atarneo 48. l'età periclea 570 s.; - rina-
Ate 71, 72, 107 ss., 270; 272, scita della vecchia A. 621, -
273, 443, 448, 451, 452, 490, caduta di A. 634; - contrasto
589; 1332; v. anche Respon- con Sparta 661 ss. passim; -
sabilità e il problema della Sicilia
Atena 65, 73, 76, 77, 78, 81, 82, 674 ss.; - nel IV sec.
94, 112, 269, 567, 630; - edu- 691-704, 729 s., 733, 940,
catrice di Telemaco 77 ss. e n. 1000, 1097 s., 1220, 1221,
57 a p. 78. 1275, 1282 e passim.; - pri-
Atene 190, 195 ss., 399, 400, 402 mato spirituale 1424 e n.
ss., 533, 548 ss. passim; v. 130; - A. e l'aristocrazia
anche Democrazia; - cultu- dello spirito 1601 n. 148; -
ra politica ateniese, Lib. I patria della cultura 1598; -
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1861

filosofia creazione caratteri- 1822; - minaccia di Filippo


stica di A. 1469; - missione il Macedone 1824 s., 1831; -
culturale 1467-1473; - mis- A. e Tyche di Filippo 1832 e n.
sione e responsabilità storica 65; - guida ellenica contro
1549, 1830 s., 1843; - ideo- Filippo 1841; - pace con
logia del predominio 1465 Filippo 1834; - odio di tutta
ss.; - «mito di stato» 1465; la Grecia contro A. 1524 n. 14;
- A. e la saga attica 1466 n. - A. e l'«accerchiamento»
31; - stato di diritto 1468; 1839 e n. 81; - crollo della
- storia costituzionale attica potenza di A. 1521 s.;
1513 s.; - rinascita politica mania processuale 1448; -
1808; - imprese guerresche comandi collegiali 1498; -
1473 s.; - politica imperiali- «lavoro e risparmio» 1529 s. e
stica 1520, 1547, 1557, 1811 n. 25; - trierarchia 1559.
ss., v. anche Imperialismo; - Ateneo 993 n. 14.
problema dell'egemonia po- atletismo greco 373 ss., 376, 378
litica 1464 e nn. 16 e 19, ss.; v. anche Olimpici (giochi
1466, 1520, 1596; - dominio e elenco dei vincitori).
marittimo 1464, 1474 s., 1476 Atropo 1333.
n. 48, 1551 n, 95, 1555 n. 105, Augusto 6.
1556, 1564 e n. 26, 1565; - autarchia, autodominio 774 ss.,
seconda lega marittima 1475, 778 ss.
1485, 1497, 1519, 1522 s., autoeducazione (Èet'll'tÒV 1tAa't-
1524, 1529 s., 1532 s., 1549 'tetv) 1165 n. 389, 1306.
ss., 1571, 1573, 1599, 1758; Bacchilide 346, 379, 385, 397,
1809, 1815; - democrazia 399, 1482 n. 8.
ateniese 1485, 1497, 1524 s., Bachofen, Johann Jakob 322.
1527 ss., 1535, 1552 ss., 1600, Bacone, Francesco 655.
1603, 1609, 1753 s., 1779; - A. ballata vedi Epica (poesia).
e il demos 1546 s.; - demos banausiche (professioni -
come potere tirannico 1748 n. 1362 n., 1391, 1623 n., 1636,
148; - Callistrato e l'equili- 1726.
brio di potenza 1813 s. e n. 22,
1821; - equilibrio politico Barker, Ernest 1027 n. 3, 1706
con Sparta 1458; - questione n. 5.
peloponnesiaca 1821; Basilio il grande 87 n. 7.
alleanza con Tebe 1814, 1840; Becker, Ottfried 802 n. 184.
- alleanza con Cipro 1498; Beloch, Karl Julius 1498 n. 62,
- alleanza con l'Arcadia 1551 n. 91, 1805 n. 4, 1806 n.
1820; - alleanza con i Rodii 6, 1837 n. 78.
1862 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Bene, Buono ('tÒ ara06v): in Brisone 541.


Socrate 734, 796, 797, 799, Bruns, Ivo 1613, 1640 n. 98,
838; - bene e piacere 927 1767 n. 238, 713 n. 9, 1111 n.
ss., 1174 s.; - il Bene come 228.
'tÉA.oç 930, 989 n. 5, 1185 n., Bulgari 1132.
1203; - idea del Bene in Burckhardt, Jakob 157 n. 3,
Platone 83, 1173-1180, 1182- 408, 1279 n., 1807 n.
1188, 1203, 1205-1207, 1231, Burckhardt, R. 1400 n. 105.
1243; - similitudine tra l'i- Burnet, John, 724, 726 n. 27,
dea del Bene e il ·Sole 752, 754 n. 75, 755 n. 77, 791
1177-1180, 1182, 1183 n. 43, n. 166, 856 n. 42.
1198 s.
Beowulf 91. Cabria 1809, 1818 n. 30.
Beozia Lib. I cap. IV passim, caccia, valore per la paideia (v.
261, 812, 999. Areté, Paideia, Platone, Se-
Berry, Edmund G. 982 n. 61, nofonte); - c. come ideale
1151n.352. dell'uomo KUAoKàra06ç 1643;
Berve, Helmut 1805 n. 4. - ateté suprema degli anti-
Biante di Priene 805. chi eroi 1647; - addestra-
Bibbia 1031, 1056. mento dei cani 1645 s.
Bier, August 1381 n. calcidica, lega 1572.
~ioç 1t0At'tlKOç 215; - Ifo0a- Calhoun, George Miller 1817
roptK6ç 308 s.; - 0ecopT\1:t- n.28.
KOç 289.; - nuovo concetto Calipso 65, 75.
socratico e platonico 761, Callia 528, 545, 866, 870, 871.
1299. Callicle 545 ss., 553 ss., 563,
Bismarck, Otto von 1841 n. 86. 887 n. 64, 905, 911, 918-954
Blass, Friedrich 1418 n. 9, 1419 passim, 979 n. 48, 1037, 1144,
n. 12, 1420 n. 16, 1423 n. 19, 1145 n. 329, 1146, 1590 e n.
1504 n. 83, 1586 n. 111, 1587 123, 1593 n. 129, 1596 n. 138,
n. 113, 1812 rr. 21, 1817 n. 28. 1597 n. 139, 1760 n. 210; - è
Boeckh, Augusto 382. una personalità storica deter-
Boehm, Benno 706 n. 1. minata? 921 s. e n. 64.
~on0eiv Èmnqì 923 n. 68, 945 n. Callimaco 86 n. 4, 1568 n. 44.
145. Callino di Efeso 189 s., 196 s.,
Bovet, P. 1182 n. 206, 223, 226, 264, 426.
Brasida 669. Callippo 1223 n. 157, 1569 n.
Breasted, James H. 1343 n. 44.
Brentano, Franz 1181 n. 41. Callistrato 1551, 1809 s., 1812
Brinkmann, Th. 1679 n. ss., 1821, 1840.
INDICE DEI NOMI E DEILE COSE 1863

Camarina 669, 675. - ortografia del nome 66 n.


Cambise 1752 e n. 170. 30.
Campbell, Lewis 822. Xiprovoç · 1no6iìKat 26 n., 66,
Candaule 1108. 356.
canone, nell'arte figurativa Cicerone (v. Isocrate, Paideia,
1136. Platone) 13 n. 3, 15, 38 n. 19,
Caos 136. 184, 236 n. 38, 705, 717 n. 12,
Capelle, Wilhelm 1373 n. 738, 1160 n. 375, 1429 n. 28,
Carmide di Glaucone 871. 1603; - leges et mores 1775;
Cartagine 401, 1254 n. 259. - utilizzo dell'esempio sto-
Catalogo (poemi del-) 427. rico 1512 n. 106; - ideale di
Catone, Marco Porcio il cen- cultura del De Oratore deri-
sore 26 n., 1340, vato dalla sintesi platonica
Catullo 234. 1669 e n. 59; - gusto del
causalità (ai -ti.a): nella vita pubblico ateniese come cri-
sociale 267 s.; - in natura, terio artistico 1737; - C.
come retribuzione 299, 302 e considera il Fedro opera di
n. 59; - significato di ai-ti.a Platone vecchio 1654 n.; -
302; - in Tucidide 658 ss. suo giudizio sulle relazioni
Cefalo 1196 n. 74. tra Platone e Isocrate 1656
Cefisodoro 1429 n. 31, 1587 e n. n.; - C. e Demostene 1833
113. n. 68.
Cefisofonte, attore 602. ciclici, poeti, v. Epica, Omero
Celso, Aulo Cornelio 1340, Poesia.
1342 n. 6. Ciclopi 1742 s.
censura, nella commedia 616. Cimmerii 189.
Charete 1572. Cimone 425, 730, 731 n. 30,
xciptç, gratitudine pubblica 42 935,943,1479, 1537.
n. 27. Cina 3, 4, 7.
Cherecrate 781. Cinesia 934 n. 105.
Cherefonte 781. cinici 779 s.
Chèrilo 573. Cirene 809, 1221, 1222.
Cheronea (battaglia di - ) 697, Cimo 992.
1779, 1804, 1649. Ciro il giovane 717; - incar-
Chione 1569 n. 44. nazione dell' areté dei Persia-
Chirone (v. anche Fenice) 1646 ni antichi 1613 ss.; - suo
e n. 129, 1647 e n. 130, 1649; apprezzamento della civiltà
- mitico educatore di eroi greca 1615 n. 27, 1629, 1637
67, 393 s.; - suoi inse- s., 1644 n. 119.
gnamenti 26 n., 356, 393; Ciro il vecchio 1617 ss., 1624
1864 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

ss., 1644 n. 119, 1751 e n. 165, nella cosmologia ionica 214;


1752 e nn. 166 e 170. - e il bene della comunità
città-stato, polis (v. anche Areté, 182; - concetto di privato e
Atene, ~ioç, Democrazia, di comune nella p. 215; -
Educazione, Legge, Stato, ~ioç 7tOAt'ttKOç 215; - e la
Tucidide ecc.) 35, 56 s., 108 ltOÀt 'ttKT] apl::'tl] 215 S., 527 s.;
s., 142, Lib. I cap. V passim; - il proletariato e l'ideale
691, 692; 1410 s., 1460, 1463, culturale della p. 216 ss.; -
1528 n. 22; - centro supre- 7tOAt't€UEcr6m 218 e n. 53; -
mo della storia greca 156; - l'uomo animale politico 218
e la vita intellettuale 156 s., s., 556; - la p. greca arcaica
257 s.; - tipi di polis 158 s.; 218 e Lib. I cap. VI passim;
- storia della p. greca 1807 e - la p. arcaica e la poesia 221
n. 8; - Platone e la p. 159; - s.; - ethos della p. 207 s.,
in quanto paideia 169, 422, 222; - e l'individuo, v.
548 s.; - etica della p. 184 s., Individualismo; - e lo spiri-
188, 208 s., 320, 364 ss., 554 to critico 231; - e la cultura
ss.; 1476; - conferisce l'im- politica ateniese Lib. I cap.
mortalità 184; - suo potere VIII passim; - carattere
sull'individuo 185, v. anche accentratore dello stato ate-
Individualismo; - sorte del niese 259; - lotte sociali
disertore dalla p. 185 s.; - nella p. 200 ss., 222, 265, 550
servizio militare 182 s., 186; ss.; - i filosofi antichi e la p.
- nella Ionia 195 ss., 258 s.; 300 s., 320, 324; - la libertà
- virtù civica, v. Areté; - nella p. 422; e l'ordine divi-
suo ideale del buon cittadino no 465; e la paideia 497 ss.;
205 ss., 556; - e il diritto 195 la legge fattore dell'educa-
ss. passim, 465, 515 ss., 549 zione 531 s.; - l'educazione
s.; - canone di quattro virtù sofistica e la p. 548 ss.; - lo
civiche 207; - e la tradiz. stato come educazione e lo
aristocratica 208, 216 s.; - e stato come potenza 549 s.; -
l'isonomia 210; - senso di problema dell'uguaglianza
solidarietà nella p. Lib. I, 552 ss.; - morale politica e
cap. V passim, 211; - più morale privata 555 s.; - p. e
accentratrice del vecchio «stato» nel senso moderno
ordinamento politico 211; - 790; - giudizi moderni sulla
stato perfetto 212; - stato p. 157 n. 3.; - costituzione e
secondo il diritto Lib. I cap. p. 1526; - problema della
VI passim, 259, 465, 532, v. sua autonomia 1808; - tra-
Legge; - sua proiezione monto della p. 1848.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1865

civiltà (v. anche Cultura; Pai- maschere animalesche del


deia); origini della civ. 320, coro 609; - c. dorica 610; -
459; - civ. ellenocentrica 3 mimi di Sofrone 610; - c. e
s.; - mondo greco e mondo giambo archilocheo 610, 614;
moderno 3 ss. - «eroe» comico 611; - tria-
Cizico 1223. de di poeti comici 611 s.; -
classe lavoratrice Lib. I cap. IV missione educativa 611, 632
passim, 216 ss., 544. ss., 640; - farsa megàrea
Clearco 1569 n. 44. 613; - parrhesia e democra-
Clémenceau, Georges 1803. zia 615 s.; - funzione critica
Cleone 613, 614, 634, 668, 683, della c. 615; - idee di Pla-
685. tone sulla c. 616; - attacchi
Clinia 1757 n. 193. a singoli individui 617; -
Clistene 261, 419, 684, 1526, caricatura di Pericle 617,
1528, 1531, 1545, 1585, 1593 681; - nel IV sec. 698 s.,
n.129. 1284; - canzonature del-
Clitennestra 64, 81, 586. 1' Accademia platonica 1225
Cloché, Paul 1806 n. 6, 1819 n. s.; - ostilità contro le inno-
Cloto 1333. vazioni musicali nella c. atti-
Codridi 198. ca 1076.
Colofone 321. Conone 1498 e n. 62, 1524,
Colono 1161. 1570, 1609.
colpa 72; v. Ate. conoscenza: - gradi della c.
commedia 232, 433, 546, 595, 1188-1193, 1231; - cono-
601; v. anche Letteratura scenza di sé (yvro8t crBaurév)
greca; - critica della tra- 313, 492.
gedia 573; - come specchio convenzione 229; v. anche
della vita 605; - com- Nomos.
plementarità di c. e tragedia «conversione» (neptayroyij)
606, 607 s.; - origini psico- 1200 s., 1214, 1310.
logiche della c., 606 s.; - coraggio, v. àvopei.a, Areté.
imitazione di cose spregevo- Corcira, Corciresi 670, 674.
li 607; - elemento comico in Corinto, Corinzi 53 n. 8, 406,
Omero 607; - riso degli dèi 411, 662 ss; - guerra della
607; - l'uomo come animale lega di C. 1458, 1808.
capace di ridere 607; - ori- Corisco 1484 n. 14, 1569 n. 44,
gine religiosa della c. 608; - 1679 n.
komos 609; - canti fallici coro: v. Letteratura greca; -
609~ - rapporto con le feste cori di fanciulle 193; diti·
dionisiache 608 s.; rambo dionisiaco 431; - c.
1866 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

tragico 431, 438; - come Cristianesimo 9, 10, 35 n. 14,


attore 438; - come spettato- 184, 254, 287, 488, 519, 527,
re ideale 463; - xopoç; = 556; - ammirazione estetica
«dramma» 435 n. 25; - cho- per la poesia pagana v.
rodidaskalia 435. Poesia; - senso cristiano
Coronea (battaglia di - ) 1606 dell'Io 225; - giudizio
n. 3. sull'ambizione 40; - virtù
coscienza 40, 110 n. 30, 556. cristiana 206, 208 s.; - con-
cosmo 214, Lib. I cap. IX pas- cetto di «vocazione» 516; -
sim, 507 s., 641 s.,1670; - vita e letteratura cristiana 35
sociale 219, 267 s., 423, 465, n. 14; - pensiero e costume
548; - origine dell'idea di c. cdstiano 41 n. 25.
295 ss., 300 s.; - anima come Critobulo 1636, 1638.
cosmos 484; - c. e giustizia Critone 783.
552 s.; - cosmos spartano Crizia 347, 425, 554, 562, 563,
1626, 1628. 586, 731, 732, 765 n. 91, 766,
cosmogonia greca 136 s.; v. 768, 849, 1114, 1155, 1570,
anche Cosmo. 1608, 1619 n. 40, 1681, 1722,
cosmopolitismo 511, 557, 1454, 1772.
1805. Croce, Benedetto 776 n. 130.
Costantinopoli 818. Croiset, Alfred 1607 n. 3.
Costituzione degli Ateniesi cronache prosastiche ioniche
(' A811vairov noA.nEia), di auto- 428.
re ignoto 1254. Crono 126, 1053.
costituzione 686, v. Platone, Ctesia 1615 n. 26.
Repubblica, Stato perfetto; cultura (v. anche Civiltà, Pai-
- costituzione mista 687 n. deia, cicr'tEi:oç;, ciypoi:xoç;):
104. definizioni di c. 6 ss., 27 ss.,
Crantore 1684 n. 8. 29 n. 6., 520 ss.; - concetto
Cratete di Mallo 318 n. antropologico e concetto
Cratete, poeta comico 612, 613. umanistico di c. 7, 29 n. 5; -
Cratilo 577, 721, 835, 857. c. greca (in generale) 28 ss.,
Cratino 577, 612, 618, 619. 45, 542; - c. greca e origine
Creonte 1502. dell'umanesimo 15, 220, 514
Cresila 480. ss.;.- diversità culturale tra
Creso 278; 642. le stirpi greche 159 s.; - cul-
Creta 1109; additata come mo- tura aristocratica e contadina
dello di eunomìa 1254. 123, 151; - ideale greco di c.
Crise 106. 8, 191, 477; - nella società
Criseide 64. periclea 30 n., 476; - «espe-
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1867

rienza originaria» ed «espe- Demetrio Poliorcete 805, 1212


rienza culturale» 477 n. 13; n.118.
- grazia dell;i. cultur;i attica democrazia, democratici 167,
479 s.; - origine della cultu- 204, Lib. I cap. VI passim,
ra occidentale 498, .536; - c. 261, 268, 399, 571, 695, 1142
tecnica e politica 514, 516 s.; s., 1154 s., 1263, 1270-1280;
- basata sulla giustizia 515, - storia della d. ateniese
v. anche Esiodo; - uni- 406, 550; - capi della d. ate-
versale 517; - c. e religione niese 419; - ed Eschilo 423;
518 ss.; - c. ed educa.zione - e virtù civica 424; - pro-
521 s.; - c. e «natura umana» blema dell'educazione nella
525 ss.; - visione pessimi- d. 496 ss.; - d. e formazione
stica della c. da parte del della classe dirigente 498; -
Cristianesimo 527; - c. e uguaglianza nella d. 552 s.,
agricoltura 534 ss.; - cultura Ì545; - libertà 423, 615; - e
animi 522, 536; - contrasto Aristofane 619 ss.; - caratte-
fra c. e politica 619; - poli- re della d. periclea 30 n., 680,
teuma 686; - c.ultura greca 684 s., 68 n. 100; - raffigura-
nel IV secolo 698 ss.; scissio- zione ideale della d. ateniese
ne tra popolo e cultura 702 684; - carattere della d. ate-
s.; - c. alessandrina 29 n. 5, niese 685 n. 102, 687 n. 104;
86 n. 4. '-in Grecia 1480, 1572; - a
Cunassa (battaglia di - ) 1613. Rodi 1820, 1822; - d.
moderna 31 n.
OatµOOV, V. demone. Democrito .241, 294, 509, 563,
Damone, musico 578, 1075, 579, 774 n. 125, 830, 1345 n.
1077 n. 110, 1078, 1080 n. 11, 1382 n. 67, 1591 n.
Dante 91 s., 113, 285, 400. Demodoco 94.
Danubio 297. dem:orte (oaiµoov) 108, 144 n.
danza 108, 240, 436, 439; v. 46, 335, 452, 1296 s., 1331.
anche Coro. demonologia 144 n. 46.
Dario 1751 e n. 165, 1752 e n. demos 171, 231, 261, 268, 366,
170. 401 s., 419, 550, 618, 620 s.
Deichgraber, Karl 1350 n., 1369 Demostene 176, 184, 259, 400,
n. 46, 1387 n. 83. 698, 699, 700, 771, 772, 920 n.
Delfo, oracolo delfico 169,188, 61, 1046 n. 47, 1311 n. 435,
312 s., 383. 384, 392, 450, 1429, 1448, 1476, 1551,1558,
455, 492. 1601, 1602 n. 150, 1605, 1616,
Demetra 149, 420, 1467. 1628, 1674 n. 79, 1803-1849;
Demetrio Falereo 1369 n. 47. - Contro Afobo 1817 n. 28;
1868 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

- Contro Androzione 1817 e co realista 1835, 1844; -


n. 29, 1818 n. 30, 1826 n. 44; concetto di politica 1836; -
- Contro Aristocrate 1820 e politica d'opposizione 1818;
n. 34, 1823, 1824 n. 39, 1826 e - D. e demagogia 1828; -
n. 44; - Contro Leptine 1817 evoluzione dell'elemento
e n. 29, 1818 n. 30; - Contro demagogico-agitatorio 1826
Onetore 1817 n. 28; - Contro n. 44; - problemi di politica
Timocrate 1817 e n. 29, 1818 estera 1818 ss.; - «ipotesi»
n. 30; - Filippiche 1484 n. della sua politica estera 1822
14, 1723 n. 55, 1779 n. 280, n. 36; - problemi politici
1827-1849; Olintiache della Grecia settentrionale
1825 n. 41, 1826 nn., 1829 e 1820 n. 34, 1823 ss.; - D. e il
n. 52, 1831 nn. 56 e 58-60, princ1p10 dell'equilibrio
1832 e n. 64, 1836, - Per il 1824 n. 39; - politica delle
Chersoneso 1841; - Per i alleanze 1840; - alleanza
Megalopolitani 1820 e nn., con Arcadia e Messenia
1821, 1822 n., 1824 n. 39, 1822; - D. e panellenismo
1835, 1840; - Per la corona antimacedone 1839; - cam-
1551, 1620 n. 45, 1819 n., pione della causa panelleni-
1832 n. 64, 1843 nn. 97-98, ca 1841 e n. 86; - D. e la
1845 n. 100, 1848, 1849; - lotta per l'indipendenza
Per la libertà dei Rodii 1820 nazionale 1848 s.; - politica
e n. 33, 1822, 1823 e nn., dì Filippo il Macedone 1825
1824, 1826 n. 44, 1835; - Per e nn. 41 e 43; - D. avversa-
la pace 1835 e n. 70, 1836 e n. rio di Filippo 1826; - stile
75; - Sugli armamenti 1827 «filippico» 1833 n. 68; -
e n. 47, 1832 n. 62, 1842, idea di Tyche 1830 e n. 53,
1843; - Sulle simmorie 1616, 1836; - problema di Tyche
1819 n., 1826 n. 44, 1835; - in politica 1831 e n. 59; -
tradotto da F. Jacobs 1803; - guerra preventiva 1819; -
storiografia moderna e re- strategia della guerra 1845;
visione critica della sua figu- - costruzione di una nuova
ra 1803-1806, 1806 n. 6; - flotta 1819 n. 32; - questio-
inizia la sua attività oratoria ne-sociale 1846; - intento
come logografo in causa pro- educativo delle sue orazioni
pria 1812 s., 1817; - forma 1827 n. 48; - educazione del
delle sue orazioni 1812; - popoio in uno spirito nuovo
oratore e politico coincidono 1827; - D. e la natura del
in lui 1834; - sua formazio- popolo greco 1842 s.; - l'an-
ne politica 1811; - D. politi- tica Atene come «modello»
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1869

1843 e n. 96; - paragone dietetica: v. soprat. Aristotele,


della nazione con l'or- Diocle, Galeno, Medicina,
ganismo umano 1844; - D. Platone.
scolaro di Solone 1829 s., dikaiosyne 205, 197, 370 e n.
1832; influenza di 56; v. anche Dike, Diritto,
Isocrate su D. 1549; - studio Legge, Giustizia; - rapporto
dell'opera di Tucidide 1812, tra coraggio e d. 206 s.; -
1832 n. 63. duplice significato di d. 208;
Demostene, generale 620. - «virtù senza testimoni»
destino, fato (v. anche Moira; 559 s.; - nella musica 633 n.
6eia µo'ìpa; Tyche) 107 s., 44.
115, 246, 270, 273 s., 386 s., dike (v. anche Dikaiosyne, Di-
447 ss., 455, 474, 486, 642; ritto, Legge, Giustizia) 125,
- destino e responsabilità 131, 142 e n. 44, 551 s.; - sua
1061 s. esaltazione nella letteratura
Dharma 7. greca 200; - legge scritta
OT\µé'tat, «profani» 1354, 1355 200 s.; - significato origina-
n. 23. rio di dike 201 s.; - d. in
Diadochi (regno dei-) 1847. quanto eguaglianza 203 ss.;
dialettica: nell'educazione 505, - concetto di d. in Solone
540, 627 ss.; socratica 742, 265 s., 272; - in Anassiman-
1228 n. 166; - platonica 971, dro 300, 302 s., 308; ~ d. e
1019, 1173, 1227 ss., 1228 n. u~ptç 314; - in Parmenide
166, 1236 ss.; - pericoli 327; - come dono di Zeus
della d. secondo Platone 142, 515; - stato secondo il
1239-1242. diritto 195, 259, 465, 531 ss.,
Dialexeis (otcrcrét J..éyot) 539 n. 548 ss.; - d. e cosmo 552; -
78, 897 n. 97. teorie dei Sofisti 551 ss.; -
dialogo, v. Socrate, Platone, problema dell'eguaglianza
elenchos. 553; - diritto del più forte
diatriba ellenistica, origine so- 553 ss.; - giustizia intesa
cratica 753. come obbedienza alla legge
Dicearco 1209 n. 111, 1651 n. 2. 205 s., 559; - 6rnµoi di Dike
Didimo 1484 n. 14, 1845 n. 101. 26 n.
Diecimila (spedizione dei - , Dilthey, Wilhelm 526, 900 n. 2.
v. Senofonte) 1611 s., 1637. Dio (dhinità) 274 s. (v. poi i
Diels, Hermann 1034 n. 17, singoli dèi: Apollo, Atena
1042 n., 1387 n. 81, 1441 n. ecc.): concezione greca arcai-
65. ca 1063; - 0e6ç e ee'ìov,
Diès, Auguste 855 n. 41. 1183 n. 42; - «Dio misura di
1870 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

tutte le cose» 1184, 1185 e n., 733, 734, 735, 736, 740, 1348,
1186 n. 51, 1203, 1763 e n. 1367 n., 1384 s., 1392.
219; - «assimilazione a Diogene Laerzio 1222 n. 154,
Dio» (òµoiro<nç 0Ecjì) 1186, 1482 n. 9, 1609 n. 10, 1648 n.
1202; - «servizio di D.» 135, 1651 n. 2, 1656 n., 1659
(0Epa7tEUEtv 0Eouç) 749 n. n. 17, 1708 n. 12, 1752 n. 171,
66, 762, 812, 1063; - concet- 1793 n. 345.
to platonico 1761 s.; - su- Diomede 37.
premo regolatore 1759; - Dione 852, 1151, 1161, 1222 n.
identità con l'Uno 1800 n. 154, 1569 n. 44, 1680-1703;
378; - dimostrazione dell'e- - influenza del pensiero
sistenza di D. 1794; - cono- platonico su di lui 1691 s.; -
scenza di D. 1798 ss.; - D. fede platonica nel potere
come «pedagogo del mondo» dell'educazione 1687 s.; -
1763 s.; - centro della pai- idea dello stato perfetto
deia 1802; - fonti della fede 1685; - idea del tiranno e
in D. 1794 n. 351; - D. e speranze in Dionisio il gio-
l'Idea di Bene 1800; - D. e vane 1684 e n. 13, 1686, 1692;
Logos divino nell'uomo - suo programma riformista
1785; - D. e natura 1832 n. 1688 s.; - tentativo di gua-
217; - formula crùv 0E<i> in dagnare al suo ideale Dioni-
Senofonte, Ipparchico (v. sio 1682 s.; - responsabilità
Senofonte) nell'avere spinto Platone
Diocle di Caristo 1344 n. 9, alla esperienza siciliana 1703
1378 n. 62, 1391, 1398 s., e n. 68; - gelosia di
1404 ss.; - Sulla dieta 1389, Dionisio verso di lui 1693;
1404-1410; - D. sotto l'in- - tentativo di Platone di
fluenza aristotelica 1399, riconciliarlo con Dionisio
1405 n. 119; - dieta: descri- 1600.
zione di una giornata-tipo Dione di Prusa 96 s., 231 n. 21.
1408-1410; - suo metodo Dionigi di Alicarnasso 1429
1406 n.; - concetto del «con- nn. 28-31, 1532 n. 35, 1562 n.
veniente» 1407; - teoria 16, 1831 n. 56.
delle proposizioni immedia- Dionigi l'Areopagita 137 n. 31,
te 1407 s.; - frammento sui 818.
massaggi 1398. Dionisio I di Siracusa 399, 402,
Diodoro Siculo 1480 n., 1818 n. 6861151,1461, 1481, 1680,
30. 1682 s., 1685, 1688, 1692 s.
Diodoto 668. Dionisio II di Siracusa 825,
Diogene di Apollonia 577, 591, 1058, 1213 n. 122, 1222 n.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1871

154, 1481, 1679-1704; - Msa (opinione) 330 e n. 145,


carattere di D. 1696; - suoi 1435 n. 46, 1436 s., 1446 s.; -
scritti in relazione con il come grado inferiore di
pensiero platonico 1696; - conoscenza 1191; òp0it èì6sa
tentativo di intendere la filo- 982, 1057, 1314 n. 1; - in
sofia di Platone «per senso oggettivo, come van-
intuizione geniale» 1698 n. taggio sociale della giustizia
53; - sua incomprensione 1042 n.
della filosofia platonica Dracone (leggi di - ) 26 n.,
1699. 261.
Dioniso, feste ed ebbrezza dio- Drerup, Engelbert 1414 n. 2,
nisiaca 97, 98, 231 s., 312 s., 1475 n. 46, 1513 n. 107, 1804
411, 434 s., 572, 596, 600 s., n. 2, 1805 n. 5.
608, 635 ss., 994, 1740. Droysen, Johann Gustav 1804 e
Dionisodoro 769. n. 3, 1806 n. 6.
Diotima (nel Simposio di Pla- Diimmler, Ferdinand 719 n. 18.
tone) 996, 999, 1006, 1008- èìuvaµlç v. Potenza.
1023, 166. Dunkel, H. B. 1460 n. 5.
diritto (v. anche Dike, Dikaio- Ebrei, ebraismo 3, 7, 112, 154.
syne, Giustizia, Legge): rela- Ecateo 291 s., 296, 303, 334,
tività del concetto di d. 1036; 352, 375, 428, 641 s., 1796 n.
- d. del più forte 924 n. 71, 359.
928, 1037-1038. Ecuba (Ecabe) 588, 592.
ditirambo 97, 431, 438. Edelstein, Ludwig 1349 n.,
donna, nell'età omerica 62-65; 1353 n. 22, 1373 n., 1390 n.,
- in Esiodo 63 n. 24; 1411 n.
nell'Atene arcaica 1111; - Edipo 445, 491, 492 ss., 589,
sua emancipazione ad Atene 1287.
1111; - donne ateniesi 262, edonismo 244, 245 ss., 561.
584; - a Sparta 193 s., 1106; educazione (v. anche Paideia,
- satira delle d. 233; - edu- Città-stato, Aristocrazia, De-
cazione delle donne secondo mocrazia) 25, 59, 65, 67, 77
Platone 1107 ss. ss., Lib. I cap. III, Lib. II cap.
dorica, stirpe 159 s., 164, 1000, III; - posto dei Greci nella
v. anche Sparta; - vesti dori- storia dell'e. «Introduzione»
che 424; - immigrazione e passim; - individuo e
dorica nel Peloponneso 188; comunità nell'e. 2, 9; - s. e
- carattere dei Dori 20, 193 èoscienza normativa 2; -
s.; -1tatèìucòç eproç 357; - concezione greca dell'e. 6; -
templi dorici 20. e. e senso di universalità 13;
1872 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

- l'uomo come opera d'arte liberali 505, 538; - diventa


14; - forma ideale e indivi- una techne 514 s.; - origini
dualità 16, 18; - e la peda- della pedagogia 514 ss.; -
gogia moderna 18; - e. ed grado superiore dell'e. 515
Ate in Omero 72; - limiti s., v. Arti liberali; - politica
dell'e. 73; - e. di Achille 66 o tecnica 516; - come cultu-
ss.; - di Telemaco 73 ss.; - ra universale 517; - scopo
e. e grazia divina 17; - formativo dell'e. 1, 14, 519
Atena come educatrice 77 s.; ss., 537; - e. e cultura 521;
- valore dell'esempio 80 ss., - «trinità pedagogica» 525,
532, 629 s.; - educazione di 534; - e. e natura umana 525
stato Lib. I cap. V passim, ss.; - ottimismo pedagogico
530; - posizione di Sparta 526 s.; - sua possibilità
nell'e. greca 160 s., 170; - assicurata dalla società 529
valore educativo delle leggi s.; - e. greca tipica 530 s.; -
212 s., 531 ss.; - e. e virtù e. come imitazione 532; - e.
civica 215, 498, 529 s.; - della gioventù (trattato di
carattere educativo della Plutarco) 534; - stato come
poesia 85 ss., 152 s., 175 ss., educazione o stato come
248, 253, 391, 505, 636 s.; - potenza 548 s.; - e. nella
posto spettante alla filosofia crisi dello stato 548 ss.; -
nella storia dell'e. 283 s.; - discussioni pubbliche sul-
valore educativo della mate- l'e., nella commedia 615 s.,
matica 307; - Pitagora edu- 624 ss.; - lirica corale come
catore 307; - ethos educati- e. 210 n. 31.
vo della religione delfica Efesto 108, 1005.
313; - tradizione educativa Eforo 1513, 1743
aristocratica in Teognide 356 Egina 400, 407.
Ss.; - U1t00fìKat 356; - Egisto 81, 82.
frycoyi] spartana 359, 496; - Egitto, 3, 7, 199, 293, 1303; -
s. dei re 398, v. Pindaro; - medicina alla corte dei
educare= plasmare l'anima, Faraoni 1343; forme
1tÀ-6:"C'tElV 14, 484 s., 53 7 s.; - artistiche fissate ieratica-
l'educatore ispirato dallo mente 1736; - rigida conser-
scultore 485; - problema vazione dei tipi nell'arte egi-
educativo nell'Atene demo- zia 1737 n. 102.
cratica 496 ss.; - e. enciclo- eguaglianza: concetto di e. 203;
pedica e formale 504 s.; - e. - criticata da Callicle 553
politica e morale 505 s., 516 ss.; - criticata da Antifonte
s.; - insegnamento delle arti 557 ss.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1873

eidos (El8oç) 1370 e n. 48, 1376, nio 775, 778 n. 132, 1507 e n.
1377 n. 57, 1665 e n. 41.; v. 92, 1508.
anche Idea. Ennio 547.
Eilethyia (tempio di - ) 1771. èOLKÉV(lL 1060 n. 71.
Einarson, Benedict 1709 n. 12. Eolici, poeti 223 ss., 248 ss.,
Eleusi420. 378, 382, 594.
Elea 321. èmiyyEA.µa, ÈnayyÉA.A.Ecr0m,
elegia greca 177 ss.; - apo- 872 e n.18.
strofe nell'e., suo carattere Epaminonda 1743, 1813, 1814 e
esortativo 178; - come n. 23.
espressione del sentimento ènav6p0rocriç moralistica della
individuale 223 ss., - elegia poesia 1066.
riflessiva 242; - elegia poli- epica greca: Lib. I capp. I-III
tica 263 ss.; - elegia gnomi- passim; - elemento educati-
ca 343372; - guerresca 175 vo nella struttura dell'epos
ss.; - sua origine 177 n. 41; 98 ss.; - sua origine dal
- recitata a suon di flauto canto eroico 50, 90, 96, 99 ss.,
190. 132; - uso degli epiteti 96
Elena 62, 102, 447, 585 s., 588, s.; - idealizzazione nell'e.
631, 1303. 96 ss.; - analisi critica
elenchos socratico 746, 790 ss. moderna 98 s.; - la «grande
Elettra 491, 586. epopea» 101, 102 s.; - scene
Elide 999. di battaglia 100, 179, -
Eliodoro 1418 n. 9. struttura artistica unitaria
Eliot, Thomas S. 29 n. 6. 101 ss.; - e. medievale 91,
Ellenismo, età ellenistica 29 n. 113; - dèi e azione umana
5, 87, 91, 151, 254, 495, 557, 111 ss., - e. e origine della
603, 611 s., 619, 1473, 1804, filosofia 113 e n. 34, 285 s.;
1806. - struttura etica 106, 116; -
ellenocentrici, popoli 4 e n. 1. caratterizzazione 117; - no-
Else, Gerald F. 1370 n. 48. stos 55. - conoscenze geo-
Empedode 137 n. 31, 286, 316, grafiche 198 s., 295, - e. e
317, 508, 736, 1002 e n. 33, tragedia 425 s.; - poeti cicli-
1348, 1371, 1392, 1590n;124, ci 427; - poemi del Cata-
1591; - E. e l'arte medica logo 427;-tecnica del proe-
1363 ss., 1367 e n. 43. mio 101 n. 20.
encomio 996 s. Epicarmo 495 n. 1, 610, 1386; -
Enea Tattico 1796 n. 359. significato di paideia 1387 n.
England, E. B. 1726 n. 70. 81.
enkrateia (enkrates), autodomi- Epicrate 1225 s., 1400 s.
1874 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Epicuro 1415 n. 3; - critica profetici nel suo stile 33 6,


della teologia platonica 341 s.; - concetto di «ele-
1183 n. mento comune» (1;,uv6v) 336;
epideixis e retorica 1469. - legge divina e umana 337,
epigrammi sepolcrali 190, 421 340 s.; - fuoco cosmico 338;
n.9. - cosmo e dike 338 s.; -
epimeletes (v. Platone), sovrin- armonia degli opposti 339;
tendente all'istruzione 1786 - rapporti con Parmenide
e n. 318, 1787, 1797. 340 e n. 185; - teologia era-
episteme (v. anche Platone, clitea 340 ss.; - teorie medi-
conoscenza) 1433, 1435 n. 46, che 1383 n. 72.
1436 s., 1452; - distinta da Erasistrato 1381 n.
techne 906, 907; - del bello Erasmo da Rotterdam 705,
1019 s. 708.
Era (Hera) 187. Erasto 1484 n. 14, 1569 n. 44,
Eracle 173, 388, 459 n. 70, 630, 1679 n.
774, 779, 924; - ideale dori- Erffa, Carl Eduard von 1543 n.
co di s. 593. 70, 1544 n. 71.
Eraclide Pontico 86 n. 5, 1223, Eris 109, 134 e n. 25; - in
1591 n., 1810. Esiodo 146, 998.
Eraclidi 165, 187, 188, 1743, v. Erissimaco 997 n. 20, 1001-
anche Sparta; - lega degli E. 1004, 1358.
1744; - E. e colonizzazione Ermia, tiranno di Atarneo e
del Peloponneso 1745 e n. amico di Aristotele 48, 1481,
138. 1484 n. 14, 1569 n. 44, 1679
Eraclito 108, 200, 213, 291, 316, n.
332 ss., 452, 508, 552, 709 n. Ermione 586.
3, 1003, 1053, 1296, 1368 n. Ermippo 1568 n. 44.
43, 1371, 1392, 1402, 1591 n.; Ermocrate 675.
- non è un «fisico» 332, 508; Ermodoro 1223.
- rapporti con la scuola Erodico di Selimbria 1088,
milesia 333 s.; - uomo e 1392, 1394 n. 93; - esercizi
cosmo in E. 333, .338; - con- fisici e dieta 1394; - medici-
tro la polymathia 334; - na e ginnastica 1341 n. 4.
umanizzazione della filoso- Erodoro 774 n. 124.
fia naturale 333 ss.; - perso- Erodoto 5, 122, 240, 278, 292,
nalità di E. 334; - il logos in 296, 304, 313, 319, 352, 567,
s. 335; ---., «parola e azione» 642 s., 644, 657, 658, 737,
335; - <jlp6vl]m.ç e cro<jlia 1035 n. 18, 1108, 1368 n. 43,
335, 341 s.; - elementi 1796 n. 359.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1875

eroi 32 ss., 100 s., 226 s., 630; 729, 790, 806, 1053, 1062,
vedi anche singoli erAchille, 1120 n. 254, 1274, 1296, 1334,
Ettore ecc. 1355 n. 23; - ·Sette a Tebe
e:roismo 47, 66, 107, 121, 179, 1387 n. 81; -Eumenidi 1459;
189 ss., 226 s., 244, 264, 391, v. anche Tragedia; - e la
. 400, 430, 458. democrazia ateniese 422-
Eros, cosmogonico 136 s., 286; 425; - sua interpretazione
- saffico 253 ss.; - in dei miti 442 ss.; - composi-
Teognide 357 ss.; - dorico tore di trilogie 445 ss.; -
357; - e Sophia in Euripide teoria della colpa ereditaria
602; - teorie filosofiche 137 446, 487; - maestro del-
n. 31; - nel Simposio di l'esposizione tragica 446; -
Platone (v. anche Platone) potenze sovrumane 447; -
985, 991-1025 passim; - E. divinità e destino 447 ss.,
Pandemio e Uranio 998, 464 s.; 483; - E. e Solone 446
1004; - giudizio sull'eros ss.; - la divinità e il male
maschile presso i vari popoli 451 ss., 487 s., 489 s.; -
antichi 999-1001; - a Sparta colpa e libero arbitrio 458; -
1000 s. (v. anche Dori); - Supplici 438 s., 442, 457 s.; -
interpretazione cosmica di E. Persiani 449 ss., 453, 456,
1001 s.; - posizione di E. 1759; - rappresentazione
nella teologia platonica 1010 della figura di Dario 1752; -
s.; - analogia tra E. e filoso- critica della politica di Serse
fia 1011, 1023 n. 103; - 1758 e n. 200; - Prometeo
allargamento del significato 458-463, 1485 n. 15; - Sette
usuale di E. in Platone 1012; a Tebe 455 ss.; . - Orestiade,
- E. come forza educatrice 453 s., 464 s.; - coscienza
1016-1019, 1023 n. 103., del progresso 459, 489; -
1661; - dal punto di vista problema del dolore e della
medico 1358; - come genere conoscenza 440 s., 450 s., 463
particolare dei piaceri sen- s., 491 s.; - combattente a
suali 1660 s.; - come ispi- Maratona 480; - sua raffigu-
razione 1662. razione nella commedia 635
Eroziano 1345 n. 11. ss.; - come educatore 634 s.;
esame 942 n. 133. - significato di paideia in E.
Eschilo 26, 240, 241, 257, 306, 1387 n. 81; - timore e com-
387, 399, 415, 419 ss., 467 ss., passione nel dramma eschi-
475, 478, 486, 523, 562, 568, leo 441 e n. 34, 463-464; - la
572, 573, 589, 590, 600, 602., polis in E. 454 n. 59; - E. e la
635, 636, 637, 638, 640, 695, storia ateniese 1468.
1876 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Eschine, retore 1605, 1055 n. e realismo 125 s.; - E. come


65; - avversario di Demo- nuovo tipo di poeta 152 ss.;
stene 1805 s.; - critica la - la favola in E. 132, 141,
pace con Filippo 1834 n. 69, 232; - la donna 63 n. 24,
1836. 138; - e Teognide 361 s.; -
Eschine di Sfetto, socratico areté in E. 146 ss., 496; -
713, 796 n. 173. Opere e Giorni Lib. I cap. IV
esempio, o modello- ideale passim, 426; autenticità del
(napciost yµa) 70, 72 n. 47, proemio 134 n. 24; - Teo-
80-83, 94, 95 n. 15, 139, 181, gonia Lib. I cap. IV passim,
232, 391 ss., 427, 532, 629, spec. 136 ss., 286; autenticità
924 n. 70, 972, 1134-1137, 123 n. 3; - ostilità verso la
1141 n. 320, 1165, 1170 e n. navigazione 122 n. 2; - i
5, 1186 n. 51, 1192 n. 66, «30.000 guardiani di Zeus»
1202 e n. 88, 1328 n. 52, 144 n. 46; - le «radici della
1333. terra» 296 n. 31.
Esiodo 25 n. 1; 26, 53, 63, 66, esortazione (npo-tpsnnJCO ç A.6-
Lib. I cap. IV passim, 161, yoç) 746 s.
178, 179, 200, 216, 221, 224, essenza (oùcria) 969, 972.
232, 242, 261, 264, 300, 303, essere 289, 293, 327 ss., 332 ss.;
318, 321, 331, 344, 349, 351, v. anche Parmenide.
356, 374, 415, 426, 459, 502, Eteocle 456 s., 483, 487, 593.
593, 653 964, 997, 998, 1001, eteria 347, 364.
1017, 1040, 1052, 1053, 1056, ethos 58, 108.
1482,1504,1515,1543,1635; etica, V. Aristocrazia, Città-stato,
- il lavoro in E. 121, 149 ss., Dikaiosyne, Dike, Eunomia,
152; - civiltà contadina in Filosofia, Morale greca ecc.
E. 123 s., 144, 151 s., 229; - Ettore 54, 104, 105, 197, 1067.
E. come Omerida 123 s.; - e Eubulo 1529, 1551, 1816, 1819,
Perse 125, 132, 135; - fun- 1829.
zione didascalica del mito Euclide di Alessandria, mate-
128 s.; 138-140; - ideale di matico 1219, 1220, 1750.
giustizia 131 ss., 142, 148, Euclide di Megara, filosofo 804 s.
152, 264, 265, 515; - le due eucosmia 313.
Erides 134-136; - razionali- Euctemone 578, 1818 n. 30.
smo 136 s., 286; - problema eudaimonia 759, 779, 916, 938,
del male 138; - connessione 1296, 1433, 1436, 1491 e n.
tra Erga e Teogonia 128 n. 14, 37, 1492 n. 38, 1497 n. 59.
138; - povertà e ricchezza Eudemo di Rodi, discepolo di
135, 146, 149; - pessimismo Aristotele 1219.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1877

Eudemo di Cipro, discepolo di 580, 592, 599 ss.; - confron-


Platone 1569 n. 44. to con Socrate e Tucidide 519
Eudosso di Cizico 1222 s. s.; - novità del suo stile tra-
Eudosso di Cnido 1402, 1764, gico 582; - elemento lirico
1793 e n. 345, 1796 n. 359. 594 ss.; - E. psicologo 597
e:'Òe:pye:cria 942 n. 132. ss.; - la Tyche in E. 598 ss.,
e:uqmia, disposizione naturale - l'uomo misura di tutte le
(v. Isocrate). cose 598; - esigenza di
eugenetica (v. anche Aristotele, libertà nell'uomo 598; - E. e
Platone) 1772; - e. a Sparta Atene 596, 602; - E. in
1631. Macedonia 602; - critica del
e:'ÒKocrµia, compostezza della suo tempo 601; - suo ritrat-
gente educata 1620. to 602; - esprime l'indivi-
eunomia 145, 186 ss., 267, 320, dualismo della sua epoca 602
324, 684, 687, 1033, 1254, s.; - attaccato da Aristofane
1488 n. 30. 613, 633, 635 ss.; - sulla
Eupatridi, v. Aristocrazia. icrwpia della natura 651; -
Eupoli 611, 612 s., 624, 636. Medea 584, 596, 597, 1470; -
Euripide 325, 397, 420, 425, Oreste 585 s.; - Troiane 588,
433, 468, 475, 493, 546 sg., 590, 593; - Ippolito 588,
552 sg., Lib. Il cap. IV pas- 595, 597, 631; - Eracle 593;
sim, 631; 733, 746 n. 61, 780 - Fenicie 593, 600; -
n. 136, 897 n. 97, 920, 927 n. Supplici 594; - Andromaca
78, 1053, 1111, 1830; - 594 e n. 45; - Baccanti 596,
soggettivismo 470, 589 s.; - 600 s.; - Ione 595, 599; -
rapporti coi due predecessori Ecuba (Ecabe) 597 s.;
469, 565 s., 580; - realismo, Autolico 377 n. 72;
482, 581; - rapporti coi Filottete 1586 e n. 111.
Sofisti, 565 s.; - grado di Euripilo 1088.
cultura del suo pubblico 572 Eurito 1222 n. 154.
s.; - scetticismo, elemento Europa 297, 421.
problematico 580, 598 ss.; - Eutifrone 798.
il mito 581 s.; - elemento Eutidemo 1358, 1361, e n. 36,
retorico 587 ss.; - motivi 773 n. 123, 787 s., 793.
comici presenti nelle sue tra- euthyne 532.
gedie 586; - elemento filo- Evagora 1482, 1483 nn. 10 e 11,
sofico 590 ss.; - razionali- 1498 e n. 62; - casa di E. ed
smo 590 ss., 600; - intellet- educazione del principe 1479;
tualismo dei suoi personaggi - data della sua morte 1480
590 s.; - opinioni sugli dèi n.; - glorificazione di E. 1483.
1878 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Falaride 407. 1553, 1601, 1602 n. 150, 1616


Falea W33, 1034. n. 30, 1745 n. 139, 1819,
fama (<ln'1µ11) 125, 229 e n. 15. 1823, 1825 n. 43, 1828-1846;
Faone 255. - sua politica 1824 e n. 40,
favola (alvoç) 132, 141 e n, 41, 1834 ss.; - propaganda poli-
224, 232 s.; - significato ori- tica 1838.
ginario 141; - in Archiloco Filocrate 1834 n.
232 s.; - nella poesia greca Filodemo 86 n. 6, 87 n. 8, 1568
arcaica 141 n ..41; - efficacia n. 44, 1586 n. 111.
educativa e pericoli, secondo filolaconismo 175 n. 37.
Platone 1051 s. Filolao 1222 n. 154.
Favorino 1609 n. 10. Filone di Larissa e l'insegna-
Feaci 56, 57, 63, 198. mento della retorica 1669 n.
Federico il Grande 1496 n. 58. 59.
Fedra 588, 595, 638. filosofia (v. anche Cosmogonia,
Fedro, nel Simposio di Platone Isocrate, Paideia, Religione,
997 s., 1002; 1011, 1016, 1659 Teogonia, Tucidide, ecc.) - e
n; 18. poesia, 89, 590; - origini
Femio 94. della f. nell'epica 113 e n. 34;
Fenice, educatore di Achille 38, - idealizzazione filosofica
. 64, 67-72, 80 e n. 59, 94, 217, di Sparta 160 ss.; - e l'etica
527, ·1067, 1575 e n. 61; v. della polis 208 s.; - esalta-
anche Chirone. zione della legge nei filosofi
Fenici 199. ionici 213; - naturalisti
Ferecide 296 n. 31, 428. ionici 247~ 292 ss. passim,
Ferecrate: fra:ttunento· sulla 374; - presocratici Lib. 1
musica moderna 633 n. 44. cap. IX passim, 507 s., 513; -
feste, v. sotto i vari nomi: nel dramma euripideo 590
Panatenee, Dionisie (alla ss.; - scoperta del cosmo,
voce Dioniso), ecc. i.ib. 1 cap. IX passim; -
Ficino, Marsilio 818. Sofisti 284, Lib. Il cap. III
Fidia 425, 655, 657, 868, 1349, passim; - loro posizione
1442 e n. nella storia della f., 506 ss.;
filantropia 486, 1502 e nn. 74 e ....:..· philosophari sed paucis
75. 547; ...;.... posizione della f.
Filippide 871. nella storia della cultura 283
Filippo di Opunte 1183 n. 43, s.; - la legge, grado prelimi-
1204, 1223, 1708 e n. 12, nare della f. 213; - f. e pro-
1709, 1810. blema dell'areté 499; - ele-
Filippo II di Macedonia 1549, mento razionale ed elemento
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1879

mitico 285-287; - theoria 12, cazione; .- carattere organi-


288; - f. e legge interiore co della forma mentale greca
288; - aneddoti sui primi 11 s.; - forma e norma 11 s.,
filosofi 289 s., 291 n. 21, - il 476; - nelle arti e nella let-
filosofo è 7tEpt't't6ç: 290; - teratura 11 s.; - f. e «idea»
concetto di tempo 299; - 12 s., 15 s.
pitagorici 303 ss.; - idee dei Franck, Erich 1215 n. 129.
primi filosofi sulla polis 302 Fredrich, Carl 1392 n. 88.
s., 320, 324 s.; - f. naturale Friedlander, Paul 1027 n. 3,
criticata da Parmenide 329; 1706 n. 5.
- linguaggio religioso nei Friedrich, Ludwig 1815 n. 25.
filosofi 300, 331 s., 336; - Frinico 436, 479 («un antico
applicazione al problema poeta»).
pedagogico 501 ss.; - pro- Fritz, Kurt von 717 n.13.
blema dell'uomo nei pre- Furie (Erinni) 455.
socratici 507 ss.; - parola di <)>ucrtç, v. Natura.
origine pitagorica? 1160 e n. Fustel de Coulanges, N. D. 157
375; - senso socratico della n. 3, 1807 n.
parola 744-746, 748; - svi-
luppi platonici 1011, 1014, Galeno 1375; - inserimento
1137 ss., 1149 s., 1150 n. 345; della medicina nel corpus di
- secondo Callicle nel cultura generale 1340; -
Gorgia 925 s., 1144 s., 1146; commento agli scritti ippo-
- diritto della filosofia al cratici 1345 n. 11, 1349 e n.,
potere politico 1137-1140; - 1352 n. 20; - G. e la teoria
forzata rinunzia del filosofo dei quattro umori 1370 s.; -
alla vita politica 1156-1159; concezione teleologica dei
- filosofo demiurgo del fenomeni naturali 1381; -
cosmo della comunità umana dietetica 1393.
1764; - e umanesimo 1415 Gardiner, E. Norman 741 n. 57.
n. 5; - come «cultura» 1420 Gela 674.
s. nn.; - <)>iA.ocro<)>ia, cultura Gellio, Aulo 1502 n. 75.
dello spirito 1541. Gemisto Pletone 818.
filosofia medievale 285. genesis 288; - negata da
Finley, John 901 n. 3. Parmenide 328.
Firenze 414 n. 29. geografia 295; - prime carte
Focide 81. geografiche 296 s.; - no-
Focilide 351 s., 356, 370, 1087, zioni geografiche nell'epica
1482, 1504, 1515. 198 s., 295; nella tragedia
forma: nell'educazione, v. Edu- 443.
1880 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

geometria 295 s., 305, 541. 1103 n. 202, 1260; - g. e feli-


Gerione 924. cità 1297; - g. nella paideia
Germania, stirpi germaniche, persiana 1620; - g. supremo
cultura tedesca 90, 113, 156, valore poetico in luogo del
622. coraggio guerriero 1738.
Gerone 323, 391, 392, 398, 411, Glauco d'lppoloco 37, 1291 n.
416. Glauco, pescatore e dio marino
Gesù Cristo 707, 711, 725, 753, 1329.
1181n.40. Glaucone di Reggio 193 n. 78.
Giamblico 1289 n. 361, 1714; - Glaucone, fratello di Platone
«anonimo di Giamblico», v. (nella Repubblica) 849, 1038-
Anonymus Iamblichi. 1040, 1075, 1077 n. 110, 1176,
Giasone 394, 585. 1177,1196,1204,1327,1681.
Giasone di Fere 1616 n. 30. Glaucone, padre di Carmide
Gige 1039, 1040, 1108. 871.
Gilson 1182 n. gloria 95 s.; - nuova conce-
ginnasio, come luogo della zione nella polis 183 ss.; -
conversazione socratica 740- disprezzo della g. 184; - g. e
742. poesia 380; KA.Éa àvoprov 80
ginnastica 1083 ss., 1089; esal- n. 59, 96.
tazione degli agoni ginnici Glotz, Gustave 1806 n. 6,
1462; - giuochi ginnici 1807 n.
espressione dell'unità greca gnome, gnomosyne, elemento
1463; - importanza della g. gnomico 109, 130 s., 281 e n.
per la paideia 1740; - g. dei 73, 346 ss., 364.
neonati 1774; - ampliamen- Goethe 8, 17, 92, 255, 477, 622,
to del concetto di g. 1777 s.; 759, 899, 1032.
- pubblici ufficiali per la g. Gomperz, Heinrich 777 n. 131,
1786. 779 n. 134, 1422 n.
gioco e cultura 1240. Gomperz, Theodor 723 n. 23,
giudaismo, v. Ebrei, ebraismo. 1031 n. 9, 1382 n. 67.
Giuliano imperatore 1404. Gorgia di Leontini 506, 588,
giustizia 1486, v. anche Dike, 785 n. 149, 786 n. 153, 901,
Dikaiosyne, Diritto, ecc.; - 964, 973 n. 30, 1403, 1417,
problema della giustizia nel 1418, 1426,1435, 1438,1451,
Gorgia 923 ss.; - nella 1452, 1462, 1532, 1571 n.,
Repubblica 1035 ss., 1099 ss.; 1578 e n. 74, 1590 n. 124,
- utilità sociale della g. 1591 n.; - Olimpico 1418,
1042 e n.; 1260 n. 277; - g. 1426, 1451, 1462; - come
come «salute dell'anima» personaggio del dialogo pia-
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1881

tonico 901-960 passim, spe- Herzog, Roland 1815 n. 25.


cialmente 901-904. Hirzel, Rudolf 713 n. 9; 714 n.
grammatica 12; - nell'edu- 10.
cazione 505; - studi gram- Hoffmann, E. 791n.167.
maticali dei Sofisti 538 s. Holderlin 92.
gratitudine, v. xcipiç. Huizinga, Johan 1240 n. 210.
Greci e barbari 1129 s.; - G. di humanitas 15, 219.
Sicilia 1130; - G. d'Asia: Hume, David 1415 n. 3.
condannavano la pederastia Hutten. v. Ulrico di - .
999; - rifuggivano dalla nu- hybris (v. anche paideia cad-
dità 1108. mea) 202,264,290,314,442,
Grecia: stati greci, v. Città- 451, 489, 666, 677.
stato, Atene, Sparta, Ionia,
Democrazia; Aristocrazia. iatrosofisti 1356 n., 1358, 1369
Gregoras 1132. n.46.
Grillo, 1482 il. 9, 1586. n. 111. idea (v. anche eìooç) 859, 860 n.
Grozio, Ugo 1132 s. 49, 862 e n. 49, 965, 967 s. e n.
guerra: pensiero di Platone 17, 968 n. 18, 1177 n. 29; -
sulla g. 1121-1133; - distin- teoria platonica delle Idee, v.
zione tra 1tOÀ.eµoç e cr'tcicnç Platone; - idea del Bene, v.
1130. Bene.
gymnasion 1501, 1581, 1602. ioicò't'llç, «profano», «laico» 215
n. 45, 291, 1354, 1355 n. 23.
Hack, Roy K. 1180 n. 39. Ificrate 1809.
Harder, Richard 805 n. 188. Ilberg, Johannes 1353 n. 22.
Harnack, Adolfo von 753. Ilium, v. Troia.
Heath, Thomas L. 1219 n. 148, Illiri 1132.
1793 n. 348. ill111ninismo sofistico 578.
Hecker, Justus Friedrich Karl imperialismo 402, 648 ss., 659-
1340 n. 2. 667, 674, (v. anche Atene).
Hegel, G. W. F. 157 n. 3, 284 n. India, indiani 4, 7, 90.
3, 288, 373 n. 63, 489, 522, individualismo 15, 18, 167,
678, 709 n. 3, 807, 1140, 1171, 337, 341, 410, 555 ss., 563,
1172. 602, 678; - rapporti tra indi-
Heidel, William A. 1215 n. 129. viduo e stato 167 ss., 176, 184
Helios 1177-1180. ss., 210 ss., 223 s., 505, 555 s.,
Hermann, Karl F. 821, 841 n. 8, 623; - valore dell'anima
1653 nn. individuale 184; - libertà
Hermias, v. Ermia. dell'individuo 196 s., 223 s.,
Herter; Hans 1466 n. 21. 259, 341, v. anche Libertà;
1882 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

- l'i nella poesia ionica ed Ippocrate 27, 352 s., 737, 740,
eolica Lib. I cap. VII passim; 868, 1003, 1088, 1101 n. 190,
- definizione dell'indivi- 1270 n. 317, 1371 ss., 1375,
dualismo greco 224 s.; - i. 1392 s., 1404, 1670; - corpus
ed edonismo 244 ss.; - nei ippocratico 1342-1412 pas-
Sofisti 512; - morale indivi- sim, 1374 s., 45 n. 66; -
duale e morale politica 555 Aforismi 1369 e n. 47, -
s.; - i. della società di Sulle arie, le acque e i luoghi
Pericle 571 s., 575 s.; - i. di autore ignoto 1345-1347,
religioso 601. 1382, 1397 e n. 98; - De car-
Ione di Chio 421, 479, 730, 1369 nibus 1344 n. 9; - De flati-
n. 46, 1590 n. 124. bus 1355 n. 23, 1376 n. 56; -
Ionia, Ioni 55, 61, 143, 194, 195 De Zocis in homine 1382 n.
ss., 217, Lib. I cap. IX passim, 69; - Epidemie 1350 n., 1353
424, 999, 1109, 1215 n. 129; n. 21, 1368 s., 1375, 1385 ss.,
- carte geografiche ioniche 1394, 1397; - Nomos 1387 n.
296 s.; - naturalisti ionici 82; - Sul cuore 1384; -
52, 214, 247, 267, Lib. 1 cap. Sull'arte 1358; - Sulla dieta
IX passim, 374, 392, 507 s., 1355 n. 23, 1356 n., 1378 n.
513, 524; - stirpe ionica 160, 62, 1382 e n. 69, 1384, 1388 n.
187; - suo carattere 195 ss.; 83, 1389, 1391-1404, 1410,
- poesia i. 196, Lib. 1 cap. 1411 n. (problema della data•
VII passim, 264, 271, 282, zione 1389, 1398 s., 1403; -
288, 594, v. anche Eolici, datazione e attribuzione
poeti; -·polis i. 195 ss.; - 1400 n. 106); - Sulla dieta
colonizzazione e vita econo- nello stato di salute 1355 n.
mica 198 s.; - la legge nel 23, 1389 s., 1391 n. 86, 1393,
pensiero dei naturalisti i. 1405; - Sulla dieta nelle
213; - razionalismo i. e spi- malattie acute 1345 n. 11,
rito attico 429. 1353 n. 21, 1355 n. 23, 1375,
Iperbolo 613, 614, 630. 1376 n. 56, 1383 n. 74; -
Iperide 1816 n. 27. Sulla malattia sacra 1347,
Ipparco 412, 415; - erme d'I. 1356 n.; - Sulla mèdicina
352. antica 1345 n. 12, 1355 n. 23,
Ippia di Elide 511, 528, 539, 1356 n., 1357 s., 1365-1379,
541, 557, 563, 764, 785 n. 149, 1382, 1391 s., 1393 e n., 1394
786 n. 153, 866, 871, 874, 878, e n. 90, 1395, 1397 e n. 97
925 n. 73, 1417, 1419; - rap- (improbabilità che l' A. sia lo
presentante delle «arti libe- stesso di Epidemie 1369 n.
rali» 875. 46; - autore della Medicina
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1883

antica 1371); - Sulla natura n. 52, 921, 994, 1025, 1046 n.


dell'uomo 1356 n., 1358, 47, 1129, 1130, 1145 n. 329,
1371, 1375, 1382, 1391 (pro- 1146, 1173 n. 11, 1224, 1254
blema dell'attribuzione 1352 n. 259, 1262 n. 284, 1268 n.
n. 20); Sulla nutrizione 1386, 305, 1272 n. 324, 1278 n. 342,
1388; Sulle affezioni 1355 n. 1403-1405, 1407-1603, 1606,
23, 1358, 1390; Sulle ebdoma- 1609 n. 9, 1610 n. 14, 1614,
di 1344 e n. 9; - I. e la cultu- 1616, 1618, 1619 n. 39, 1628,
ra ionica 1342; teorie sul nu- 1639 n. 92, 1650 n. 146, 1655,
mero sette 1344 n. 9; - I. e la 1656 e n., 1657, 1668, 1672 n.
scuola medica di Cos 72, 1674 n. 79, 1686 n. 18,
1348-1355, 1381 n., 1393, 1687, 1745 e nn. 138-139,
1400, 1404; - I. come perso- 1751, 1823 e nn. 175 e 177,
nificazione dell'arte medica 1759, 1805, 1806, 1810, 1811
1349 n. 16; - autenticità e n. 18, 1812 n. 21, 1819,
degli scritti 1349 ss., 1350 n.; 1836, 1839, 1843, 1847; -
- «giuramento» della scuola Pseudo Isocrate: Ad Demo-
1351 s.; 1352 e n. 19; - I. e le nicum 1796 n. 35_9; - A Ni-
«dottrine di Cnido» 1353; - cocle 1479-1486, 1492-1510,
metafora religiosa del «No- 1525,1526,1544,1565, 1566;
mos» 1355; - metodo di I. - Antidosi 1418 n. 11, 1419
1374 s., 1380 s., 1401; - nn. 12-13, 1428, 1429 e n. 28,
atteggiamento antifilosofico 1430 n. 34, 1432 n. 37, 1434
1342; - I. come empirico n. 45, 1437 n. 53, 1439 n. 69,
puro 1382; - concetto di 1442 n., 1457 n., 1462 n. 11,
physis 1347 s., 1380, 1385; - 1479 n., 1480, 1485 n. 15,
I. e Democrito 1382 n. 67. 1486 n. 17, 1512 n. 105, 1524
Ippocrate il giovane, nel Prota- n. 14, 1533 n. 40, 1609 n. 9,
gora 746 n. 62, 868-874 pas- 1704 (difesa della sua pai-
sim. deia 1559-1603); -'--- Archida-
lppodamo di Mileto 578, 1033, mo 1481, 1746 n. 140; -
1034. Areopagitico 1424 n., 1486,
Ippolito 595. 1499, 1514, 1517-1558, 1560,
Ippòloco 37, 1290 n. 370. 1566, 1573 n. 56, 1576 n. 66,
Ippone di Samo 577, 1348. 1577 nn. 69 e 71, 1600, 1602,
Iseo 1429, 1448. 1609 n. 9, 1610, 1622 n. 51,
Isocrate 398 n. 123, 480, 495, 1753 e n. 177, 1758 nn.
510 n. 26, 543, 544, 548, 699, 196-197, 1779, 1816 e n. 26
700, 703, 715, 718, 771, 772, (data di composizione del-
775, 794, 872, 910 n. 31, 916 l'A. 1523, 1532, 1753 n. 177,
1884 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

1816 n. 26; - pubblicazione 100, 1564 s. e nn. 26-28-31,


dell'A.); - Busiride 1608; - 1571 n., 1580 n. 83, 1590 n.
Contro i Sofisti 1419 n. 12, 123,1598,1601,1616,1753n.
1426 n., 1430-1451, 1454, 175 (differenti valutazioni
1499 s., 1512 n. 105, 1516 n. dell'imperialismo dal P. al
113, 1560 n. 6, 1562, 1563, Sulla pace); - Plateico 1476
1571 n., 1579, 1581, 1582 e n. n. 48; - Sulla pace 1424 n.,
89, 1583 n. 97, 1586, 1589 n. 1491 n. 37, 1496 n. 57, 1497
119, 1595 n. 134, 1655 n. 7, n. 59, 1521, 1524 n. 14, 1528
1656, 1668, 1671 (datazione n. 22, 1550-1558, 1560, 1564
del C. i S. 1430 n. 34, 1435 n. e n. 29, 1565 e n. 31, 1576 n.
46); - Eginetico 1429 n. 32; 66, 1596, 1597 e n. 139, 1600,
- Elena 1419 n. 13, 1437 nn. 1815, 1843 (data di composi-
52 e 54, 1451-1455, 1457 n., zione 1610); - Trapezitico
1493 n. 41, 1500 n. 68, 1512 1429 n. 32; - I. scolaro di
n. 105, 1571 n., 1579, 1586, Gorgia 1418; - soggiorno in
1590 n. 124, 1656, 1672 n. 72, Tessaglia 1418 e n. 10; -
1745 n. 138; - Epistole 1602 Gorgia e la retorica 1426,
n. 150, 1837; - Evagora 1571 n., 1578 e n. 74; - sua
1479-1483, 1495 n. 49, 1502 attività di logografo 1429 e
n. 74; - Filippo 1423 nn. nn.; - polemica contro
19-20, 1424 n., 1450 s., 1462 «logografi» 1447 ss., 1562 e
n. 11, 1475 n. 47, 1481, 1521, n. 16, 1563; - carattere e
1553, 1601, 1616 n. 30, 1701, forma stilistica dei suoi «di-
1745 n. 139, 1836 n. 76; - scorsi» 1403, 1428 e n., 1602
Nicocle 1479-1492, 1497 s., e n. 151, 1812; - «revisione»
1501, 1569 n. 45, 1580 n. 83, dei suoi discorsi 1577 n. 69;
1585 e n. 108, 1595 n. 134; - - «mescolanza degli stili»
Panatenaico 1423 n. 19, 1424 1404; - I. e l'improvvisazio-
n., 1518, 1520, 1525 n. 17, ne oratoria 1439; - compito
1526 n. 21, 1573 ri. 56, 1577 dell'oratore 1595 s.; - elo-
n. 69, 1581 n. 85, 1589 e n. gio dell'eloquenza 1488; -
116, 1590 n. 122, 1602 e nn. valore pratico della eloquen-
151 e 152, 1603 n. 153, 1726 za di fronte all'inutilità della
n. 68, 1758 n. 197; - Pane- dialettica 1657; - polemica
girico 1418, 1420, 1424 n. contro i filosofi 1431-1438;
115, 1455, 1457, 1462-1477, - critica ai filosofi pre-
1479 s., 1488, 1490 n. 32, socratici 1590 e n. 124, 1591 e
1502 n. 74, 1518 s., 1522, n.; - I. e la sofistica 1421; -
1546, 1551 n. 95, 1552 s. e n. influenza di Antistene 1422
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1885

n.; - polemica contro i filo- cultura universale 1420; -


sofi «eristici» 1432, 1452 e n. concetto ed essenza della
89, 1588 n. 115; - critiche cultura 1469, 1471, 1473; -
alla scuola socratica 1432 e n. crotjli.a come 'tÉXVT\ 1419 n.
37, 1452, 1493 n. 41, 1672 n. 12; - «micrologia» 1436 s. e
72; - giudizio sulla educa- n. 53, 1589; - «filosofia»
zione dialettica dei socratici come «cultura» 1420 n. 16; -
1590 n. 123; - contro i criti- significato e con<;etto di filo-
ci della educazione retorica sofia 1419 e n. 13, 1469 n. 33,
1582; - c-0ncetto del proprio 1492 n. 38, 1579, 1591 ss.,
i;ompito 1462 n. 11; - si 1594; - avversione di I. per
sente come Fidia 1429, 1442 la filosofia teoretica 1454; -
.e n., 1562; - paragona se suo timore del potere della
stesso al medico 1560 n. 3; - filosofia 1515; - «filosofia»
misura dei suoi onorari 1576 cqme educazione intellet-
ss.; - sua qualità borghese tuale 1580; - «filosofo» e
1578 e n. 77; - invidia per le phronesis 1592; - «teoria
sue so.stanze 1577; - I. e la delle idee» 1440 s., 1444 ss.;
sua scuola 1810 (data di fon- :- «idee» o forme del Logos
dazione della sua scuola 1581 e n. 86; - elogio del
1417 n.; - programma della Logos 1585 e n. 108; - filo-
sua scuola 1435; - efficacia sofia e Logos 1488-1492; -
della sua scuola 1568 s.; - Logos e paideia 1472; -
descrizione dei suoi giovani Logos cruµj30À.OV della 1t0t-
scolari 1598 e n. 141; - pole- èìe'IJ<nç 1470 s., 1490 n. 32; -
mica dei suoi scolari contro le tre principali forme della
Aristotele 1587 s.); - meto- paideia 1655; ~ esperienza e
do di I. 1496, 1504 s.; - suo idea filosofica 1509 ss.; -
metodo fondato sull'«esem- valore dell'esperienza 1453,
plare» 1563; - importanza 1555; - il «giusto mezzo»
dello studio della storia 1510 · 1455; - armonia dei contrari
ss. (influenza di Tucid.ide 1503; - valutazione della
1503 s., 1504; 1510,. 1548, logica e della matematica
1603); - la storia come fonte 1589 ss.; - dialettica e musi-
della esperienza politica ca 1590 n. 122; - retorica e
1512 n. 105; ~ l'esempio «mescolanza delle forme»
storico e la storia del passato 1560; - esaltazione del-
1513, 1527, 1843 e n. 95; - I. l'athlos 1463; - retorica co-
padre della «cultura uma- me ginnastica-filosofia 1581
nistica» 1414; - ideale della n. 85; - natura e arte 1446,
1886 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

1548; - I. valuta più la di- richiamo all'esperienza nel-


sposizione naturale che l'e- l'educazione del principe
sercizio e la scienza nella 1509- ss.; - pensiero politico
retorica 1668; - importanza di I. basato sull'esperienza
della retorica 1418; - retori- 1485; - il buon reggimento
ca e poesia 1442, 1514 s.; - politico 1485; - monarchia
retorica e arti figurative 1485 n. 16; 1496 s.; - doveri
1443; - valore educativo del suddito 1486; - «lavoro»
della retorica 1443 ss.; - del re 1495; - allenamento
formazione retorica come del monarca 1499; - concet-
realtà pratica 1446; - carat- to di «tiranno» 1505 s.; -
tere empirico della retorica «specchio del re» 1514; -
1447; - retorica come cultu- l'educazione di Stato 1540 s.;
ra politica 1450; - retorica e politica e paideia 1759; - I.
politica 1458; nuova come maestro di politica
dignità della retorica 1476; 1424; - suo isolamento dal-
- concetto del suo «enco- la massa 1423, 1601; - pole-
mio» 1482 e n. 8; ---'- forma, mica contro i «maestri della
uso e compito della retorica politica» 1438-1447; - sua
1487 ss., 1491, 1512; - la ironia sugli utopisti politici
retorica e le «cose supreme» 1701, 1745 n. 139; - Tera-
1457; - retorica, verità e mene maestro di I. 1532; -
moralità 1490; - retorica e Timoteo e Nicocle scolari di
pleonexia 1596 s.; - concetto I. 1498; - amicizia di I. con
di pleonexia 1597 n. 140; - I. Nicocle 1565; - identità di
come educatore 1431 s.; - vedute con Timoteo 1533 e n.
vera e falsa educazione 1591; 40; -Timoteo e la cerchia di
- educazione in senso stru- Teramene 1534; - attività di
mentale 1584; - problema Timoteo 1570 ss.; - ritratto
dell'educabilità umana 1583; di Timoteo 1572 ss.; -
- fattori dell'educazione Timoteo. paragonato ·a Lisan-
1582; - I. e «l'apprendi- dro 1573; - I. come consi-
bilità della virtù» 1500; - gliere di Timoteo 1574; - I.
paideia come giuoco elevato come consigliere politico
1581; - formazione di una della città e della nazione
aristocrazia intellettuale 1600; 1568; - difesa dall'accusa di
- paideia delle élites 1616 misodemia 1544, 1560, 1609
s.; - educazione del princi- n. 9; - I. e la democrazia ate-
pe 1479-1516, 1687 (precetti niese 1525, 1544, 1557; 1566;
al principe 1505-1507); - critiche all'oligarchia
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1887

1546; - I. e lo «spirito socia- ateniese 1518 ss., 1522 s; -


le» 1579 n. 78; - demagogia giudizio sulla rovina di
e radicalismo 1532; - pro- Atene 1532; - difetto nel
gramma conservatore di I. servizio delle armi nella cit-
1527, 1530; - democrazia tadinanza ateniese 1628; -
aristocratica 1603; - libertà critica dell'imperialismo ate-
1545, - potenza e forza 1555 niese 1550 e n. 90; - I. e la
s.; - problema dell'autorità politica . di rinuncia al pro-
1554-1558; - piani di rifor- gramma di impero marittimo
ma e regime autoritario 1551, 1547, 1815; - sua fede
1816; - necessità di un nell'avvenire di Atene 1634;
Areopago forte 1537; - - idea e programma pa-
costituzione anima dello nellenico 1425, 1451, 1472,
stato 1524 ss., 1525 e n. 17, 1476, 1745 e n. 139; 1837 e n.
1602; - ethos dello stato 77, 1847; - la questione
1508; - problemi interni macedone 1549; - Filippo
dello stato 1517 ss.; - strut- di Macedonia guida dei
tura interna della costituzio- Greci 1836 s.; - I. e Platone
ne ateniese 1518; - necessi- 1527, 1534 e n. 42, 1578, 1581
tà di una riforma costituzio- s., 1584, 1588 ss., 1592 ss.; -
nale 1524, 1533, 1534 ss.; - I. antagonista di Platone ·e
elogio di Atene al tempo della sua scuola 1413 s.,
·delle guerre persiane 1602, 1666; - polemica contro
1753; - meriti guerreschi di l'Accademia platonica 1585
Atene 1473 s., 1474 n. 43; - s.; - Platone e la retorica
Atene incarnazione del 1595; - giudizio sulla pai-
Logos 1599; - Atene e pai- deia platonica 1449 ss., 1593,
deia ideale 1468; -l'«ottimo 1656; - I. avversario di
stato» 1527; - stato e cultura Demostene 1805 s.; - diffe-
1599 ss.; - giudizio sui renze fra I. e Lisia 1588; -
«tempi migliori» della de- influenza su Polibio e
mocrazia ateniese 1535; - Cicerone 1603; I. e
ritorno alla «costituzione dei Senofonte 1541 n. 64, 1551;
padri» 1530-1551, 1585, - I. e Socrate 1561 n. 9,
1758; - egemonia ateniese 1655; - I. e Solone 1537; -
1475 ss., 1475 n. 47, 1547 n. I. e la religione degli antichi
81, 1564 e nn. 28 e 29, 1554 e 1535 s.; - suo conservatori-
n. 102; - egemonia ateniese smo religioso 1536; - I. e
principio di tutti i mali 1552; Sparta 1463, 1539, 1610 n. 14,
- esame della situazione 1758 n. 197; - I. e la trage-
1888 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

dia greca 1520; - concetto di Kant, Immanuel 287, 818, 1415


Eros 1595 e n. 133. n. 3, 1802.
isomoiria. (v. Medicina). Kessler, Joseph 1460 n. 3, 1464
isonomia 210, 500, 553, 684, n.16.
695; - icrovoµiT], teoria del- Kirchhoff, Adolf 52 e n. 6, 78 n.
l'equilibrio delle forze (v. 57.
medicina). Kitchner 921 n.
Israele 1167 n. 393. Klaffenbach, Gunther 1728 n.
Italia 304. 32.
Itome 172. icl..éo: àvopriìv, v. Gloria.
Klebs 921 n.
Jackson, 823, 1798 n. 370. Kleine-Piening, F. 1522 n., 1566
Jacobs, F. 1803. Il. 38.

Jebb, Richard C. 1423, 1479 n. kleos, idea della fama 1766.


Jeffré, F. 907 n. 23. icpéicrtç (v. Medicina).
Joel, Karl 719 n. 18, 723 n. 23.
Jost, Karl 1513, 1811n.17, 1843 Lachesi 1331 n. 64, 1333.
n. 96. Lachete 769, 798, 845.
}unge, G. 1219 n. 146. Lachmann, Carlo 132.
Laerte 64.
1m1p6ç (v. anche Tyche) 1423, Lamprocle 781.
1441, 1582. Lang, Paul 1664 n. 38.
kalokagathia 45 e n. 35, 480, legge (v. anche Dike, Dikaio-
495, 545, 914, 925, 942, 1020, syne, Diritto, Giustizia, No-
1041, 1070, 1071, 1150 e n. mos) 204 ss., 936, 942; - «la
345, 1584, 1614, 1617; - di- legge.diventa re» 211, 533; -
sonorata dal disertore, 185 1. scritta 212; - spirito della
s.; - k. e specializzazione 1. e educazione 212; - la 1.,
professionale 1362; - k. e madre della filosofia 213; -
Timoteo 1576; - impersona- teorie dei filosofi ionici sulla
ta da Ciro 1613; - k. nella 1. 213 s.; - 1. cosmica 214, -
paideia persiana 1622; - la 1., inizio dello scrivere in
come modo di vita di un prosa 222 e n. 2; - 1. come
bravo agricoltore 1638; - k. ritmo della vita 239 s., 280;
e l'esercizio della caccia - supremazia della 1. 258 s.,
1647; - k. e i Sofisti 1650; - 282; - 1. di Dracone 261; -
k. delle masse popolari 1769. 1. interiore 288, 774; - argo-
icaAòv (i:ò) 27 e .n. 4. mentazioni logiche nei di-
KO:AÒç icàyo:06ç 27 n. 4, 28, 60, battiti giudiziari 539 s.; -
217 n. 48, 497. sanzione divina della 1. 551
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1889

s.; - concetto sofistico di 1. 223, 231 ss., 242, 263; - K'tt-


552 ss., 923 s., 925 n. 73, crnç 221 s., 222 n. 1; - poe-
1036-1038; - «l. di natura» sia didascalica Lib. I cap. IV
(qrucret èiiKo:wv) 142 n. 44, passim, 178, 317; - apo-
553 ss.; nomos e physis 213 strofe con valore di am-
n. 40, 557 ss., 569, v. natura e maestramento 140, 146; -
convenzione, alla voce Natu- lirica monodica 97, 248 ss.;
ra; - legalità esteriore 559 - lirica corale 97, 193, 372
s., 562 s.; - relatività della 1. ss., 428; - il primo mo-
559; - legiferazione pletori- nologo nella lett. greca 238
ca ateniese 560 s.; s.; - poesia gnomica 343 ss.;
menomazione dell'autorità - epinicio 375 ss.; - poesia
delle 1. 551 ss.; - religione e personale 221 ss. passim,
1. 562; - Thorah 222 n. 2; 374, 378 s., 381, 386; - dis-
legge come espressione della corso epidittico 524; - criti-
classe dominante 1760; - ca letteraria nella commedia
obbedienza alla 1. 1761; - 1. 633 ss., 637 n. 47; - poesia
come strumento d'armonia bucolica 127 n. 12; - poesia
universale 1762; - sovranità in forma di preghiera 251 n.
della 1. 1765. 76; - nel IV sec. 698-701; v.
legislatore 212 s., 222 n. 2; - anche: Commedia; Tragedia,
come Àoyoypo:qioç 222 n. 2; Epica, Elegia, Trilogia, Epi-
- come educatore 20, 213 n. grammi sepolcrali.
38; - formatore e model- Leuttra (battaglia di - ) 163,
latore delle anime 1741; -1. 1106, 1262, 1521, 1555, 1572,
come incarnazione della pai- 1632, 1743, 1747 n. 146,
deia 1757; -1. e poeti 20; - 1813.
la figura del 1. nelle età prei- liberalità 35 n. 14.
storiche 1742; - la sua mèta libertà 19, 422, 575 s., 584, 615
è l'interiore armonia della s., 669, 686 ss.; - concetto
polis 1751; - 1. e Tyche greco tradizionale e nuovo
1760. concetto socratico 776-778;
Leisegang, Hans 841 n. 8. - 1. e necessità 1331-1333;
Leocrate 698. - come fonte di debolezza
Ucrx11124, 125 n. 5. del sistema democratico
Lessing 1032. - 1628; - raggiunta dalla Gre-
letteratura greca: suoi caratteri cia dopo le guerre persiane
11 s., 88 ss., 97 s.; - l'uomo 1751.
come animale politico nella Licambe 235.
1. g. 18; - poesia giambica Liceo 784.
1890 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Licurgo, legislatore spartano Lorenz, Siegfried 1502 n. 75.


162 ss., 1017, 1629 n. 68, lotta di classe 57, 200 ss., 260
1713; - «il saggio Licurgo» e ss., 343 s., 359 ss. passim, 402
lo spirito della sua costitu- ss., 419 s., 570 s., 670.
zione 162 s.; - parere di Lotze, Hermann 1181 n. 41.
Platone su L. 162 s., 1098; - Lucrezio 137 n. 31, 731 n. 30.
«cosmo licurgico» 163, 186- Lutoslawski, 823, 1799.
189; - tradizione su L. 170
n. 26; - artefice della disci- Macaone 1088.
plina spartana 1628; - origi- Macchioro, Vittorio 948 n. 149.
nalità della sua costituzione Macrobio 1344 n. 9.
1629 n. 67; - sue riforme Magna Grecia 321.
1779. magnificenza 35 n. 14.
Licurgo, oratore attico 190, 698, Maier, Eduard 825.
1055 n. 65. Maier, Heinrich 712 n. 6 e 8,
Lidia 189, 199, 642. 717 n. 14 e 15, 718 n. 17, 719
lirica, v. Letteratura greca. n. 18, 724 s., 778 n., 791, 841
Lisandro 163, 666 n. 50, 815 n. n. 10, 856 n. 42.
209, 1573, 1637. male (problema del - ) 115,
Lisia 718, 997 n. 19, 1429 s., 138, 270; v. anche Ate,
1449, 1652 n. 2, 1655 e n. 7, Teodicea.
1658 ss., 1666 e n., 1667. Mantinea (battaglia di - ) 1609
litài 71. s. n. 14, 1747 n. 146, 1759,
Littré, E. 1386, 1402 n. 111. 1814.
Lofberg, John o. 1779. Maratona (b-attaglia di - ) 399,
logica: dell'essere 327 ss.; 421. 480, 567, 628, 665, 1273
Parmenide e la l. 327 ss.; - n. 327.
argomenti I., nella retorica Marburg (scuola di - ) 823,
539 s., 587 s.; - legge e spi- 968 n. 20.
rito razionale 223; - mito e Martin, Josef 992 n. 13.
logos 286 s.; - pensiero Marx, F. 1340 n. 3.
razionale 497. matematica (v. anche paideia)
ì..oytcrµoç, riflessione valutante 16, 305, 541 s., 973, 1190 s.,
1729. 1210-1224, 1229, 1230, 1233
Logos creatore della civiltà s., 1749, 1791 n. 456.
1488 s., 1585; - L. e rifles- mathema 1171.
sione razionale 1491n.36; - mathesis 525.
L. come «lingua» 1491 s.; - Mathieu, Georges 1460 n. 3,
forza del L. 1580; - L. e teo- 1475 n. 46.
ria delle «idee» 1581 s. Medea 584 s.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1891

Medi323. delle forme delle malattie


Medici 414 e n. 29; - Lorenzo 1376 e n. 56; - «accorrere»
de' - , 818. della psyché nella malattia
medicina (v. anche Ippocrate, 1383 n. 72; - epilessia come
Medico) 525 s.; - letteratura malattia sacra 1347; - con-
m. 1344 ss., 1348 ss., 1356 e cetto di salute 1411 s.; - die-
n. 25, 1359; - educazione tetica 1345, 1371 ss., 1375 ss.,
del profano 1390; - opere 1376 n. 56, 1378 n. 6~ 1388
per specialisti 1404; - m. ss., 1391 ss., 1395 ss.; - idea
come grado preliminare alla della isomoiria 1345 e n. 11;
filosofia 1340; - m. e filoso- - isomoiria e buona salute
fia 1367 e n. 43, 1368, 1377, 1345 n. 12; - concetto di
1382 n. 67; - m. filosofica mescolanza 1345; - «mesco-
ed empirica 1393; -m. come lanza» e «proporzione» 1382;
modello alla retorica 1373 s.; - concetto di «conveniente»
- procedimento socratico 1345 n. 10, 1366; - teoria
1375; - m. empirica 1376; - degli umori 1365; - con-
m. come scienza specifica nel cetto dei ~<tipi» della natura
mondo moderno 1340 e n. 2; umana 1370; - natura .del
- «arte medica» 1362; - paziente 1385; - teoria
arte indipendente 1365 s.; - dell'equilibrio delle forze
m. ed esattezza scientifica 1370, 1390; - teoria delle
1363, 1368, 1392 s.; - m. qualità fondamentali 1370;
come techne 1372; - diagno- - teoria del «numero infini-
sis e gnosis 1394; - «prodia- to» 1371 n. 52; - teoria dei
gnosi» e «profilassi» 1395, sentimenti piacevoli 1378; -
1396 e n.; - m. e concetto di dottrina della conservazione
natura 1346 s.; - m. e filoso- della salute 1380; - concetto
fia naturale 1348, 1363; - m. di «armonia» 1382 n. 69; -
e teleologia naturale 1381 e stato «normale» 1383; -
n. 66, 1384; - vitalismo mo- salute come «ordine» 1383 n.
derno e concetto dello stimo- 70; - teoria dei quattro ele-
lo 1385; - attività «naturali» menti 1391; - fattori indi-
1397; - attività «Violente» viduali 1392; - simmetria
1398; - eziologia 1359; - nell'alimentazione 1394; -
effetti dei cibi e delle bevan- autarchia 1395; - ebbrezza
de 1393 n.; - fattori climati- come cura della psiche 1731
ci 1397 e n. 98; - problema e n. 86, 1732 n. 96; - teoria
della malattia 1344, 1347; - del movimento psichico
problema della molteplicità 1398; - riflessi psichici nel
1892 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

sogno 1402; - valore di real- medico (v. anche Ippocrate,


tà dei sogni 1403; - mantica Medicina): professione di m.
dei sogni e prognosi 1403; - 1339 ss., 1355 s.; -'- techne
m. e ginnastica 1341 e n., professionale e formazione
1387 ss., 1391 n. 73; - eser- scientifica 1357, 1365; - m.
cizi fisici e nutrimento 1394; come maestro vagante 1347,
- modo di praticare i mas- 1356; - errori del m. pratico
saggi 1398 ss.; - storia della 1367; - ethos deJ.m. 1355;
medicina 1342 n. 6; - pre- - arte del m. 1346 s:, 1384;
supposti sociali della m. - deve cogliere sempre la
greca 1411 e n.; - m. e cul- giusta misura 1366; - 'istru-
tura ellenistica 1340 e n. 3; zione dei profani 1354, 1358;
- la m. e la Ionia 1342; - m. - «conferenze» sui proble-
alla corte dei Faraoni 1343 e mi medici 1356; - m. e
n.; - scuola di Cnido 1353 e uomo colto in medicina
n. 21, 1376 n. 56; - scuola di 1360; - m."e maestro di
Cos 1348; 1397-; - «appunti» ginnastica 1391; - m. e
'O «promemoria» della scuola ambiente 1393; - m. come
ippocratica 1369; - scuola demiurgos 1354; - m. e
dogmatica 1399; - sistema- «cura dell'anima» 1372 s.; -
tica zoologica della scuola di concetto platonico di m.
Cos 1400; - «scuola sicilia- 1372, 1670 s.; - modello
na» 1353, 1405 n. 117; - eco ippocratico del m. 1374 .s.,
di concetti medici in Socrate 1380.
e in Platone 737-740, 846 e n. Megaclide 1429 n. 31.
20, 859, 909 n; 30, 915 n. 48, megalopsychos (v. anche pai-
917 e n. 54, 934 n. 104, 941 n. deia) 43, 104 e n. 24.
130, 944 n. 139, 945, 946 n., Megara 805.
949, 950 n. 153, 1003, 1085, Megillo 1714 s., 1724 n. 60.
1086, 1090 n. 158, 1101 n. Meinecke, Friedrich 653.
190, 1103 s., 1117, 1195 n. 71, Meleagro 69-71, 80.
1220, 1248-1250 e n. 244, Melisse 1453, 1590 n. 124, 1591
1261,1270,1276n.334,1278 en.
n. 342, 1284, 1286, 1302; - Melisso 329.
«cura dell'anima» ('lfuxfìç Melos, dialogo dei Melii in
Sepaneia e ÈntµÈÀeta) 748 Tucidide 656, 669, 671 ss.,
s., 751, 761 s., 839, 869, 870 n. 914 n. 44, 928.
11, 911, 1103 s., 1134 n. 303; Memmio 731 n. 30.
critica platonica della me- Memnone 393.
dicina 1086~1089. Menandro 600, 608 n. 5.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1893

Menelao 56, 58, 74, 585 s., misura: «arte della m.» 890 n.
1088. 77, 897 n. 98, 906 s., 931, 932,
Menane 964-985 passim, 973 n. 1184, 1321; - «Dio misura
30. di tutte le cose» 1184, 1185 e
Mente 58, 73, 77. n., 1186 n. 51, 1203.
Mentore 74. Mitilene 619, 668.
Menzel, Adolf 924 n. 71. mito 95 s., 391, 393; - esempio
Messeni, guerre messeniche mitico, v. Esempio; - e lirica
171, 172 s., 176, 188, 192, corale 428 s.; - poesia e m.
367. 96, 393, 426 ss.; - m. egizia-
µmal3oA.tj (v. Isocrate), teoria ni e dell'Asia minore 293; -
del cambiamento politico m. nordico 136; - come ele-
1521, 1547. mento idealizzante 95 s.; -
metafisica 292 s., 309; v. anche uso normativo del m. 140, v.
Anima, Filosofia. anche Omero, Esiodo ecc.; -
metafore, immagini in Solone critica senofane-a.· del m. 318
276 s. ss., 322; --: elaborazioni pro-
metempsicosi 309 s. sastiche del m. 428; - il m.
meteorologia 290, 304, 627. come veicolo di idee filosofi-
Metone 578. .che 128 n. 14, 444; -
Meyer, Eduard 1569 n. 44, 1805 interpretazione moderniz-
n. 4. zante del m. 442, 581 s.; -
Meyerhof, Max 1343 n. dissolvimento del m. 603; -
milesia (scuola filosofica - ), m. e fatti storici in Tucidide
v. Ionia, Filosofia, Talete ecc. 648 s., 652.
Mileto 199, 294. Moira (v. anche Beia µoipa)
Milziade 409, 621, 935, 943. 107, 145, 237, 274, 276, 327,
mimesi (v. anche Esempio) 532, 439, 1061 s., 1585; - le tre
1069 e n. 86, 1071 n. 91, 1135, Moire 1331 n. 64, 1333.
1316 n. 6. Momigliano, Arnaldo 1824 n.
Mimnermo 196 e n. 5, 245 ss., 40.
263, 264, 279, 1065. Mommsen, Teodoro, 647 n. 11.
Minerva 1140. monarchia, v. Re.
Minosse 649, 1730. Montesquieu 423, 1714.
Mirane di Priene 172 n. 28. morale greca 45, 94, 184, 206,
Mirsilo 250. 208 s., 229, 320, 364 ss., 385
Misch, Georg 1561 n.11. s., 505, 517.
misteri 331, 420; v. anche Mosé 1684.
Paideia, Religione greca, Mueller, Karl O. 163 s., 603.
Orfismo. Miiller, F. 1709 n. 12.
1894 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Miinscher, Ka:rl 1423, 1430 n. la n. 250 s.; - ordine nella n.


34, 1432 n. 37, 1605 n. 267 s., Lib. I cap. IX passim,
Muse 123, 154, 252, 396, 502, 556; - n. e numero 305 ss.;
920, 1082. - filosofia della n. Lib. I
Museo 638, 1040. cap. IX passim; - «la N. ama
musica (v. anche paideia, nascondersi» 336; - concet-
Ritmo), teoria musicale 304, to greco e platonico 914-916,
515; - e matematica 308; - 923 e n. 66, 1248; - natura e
nell'educazione 20, 210, 221, divinità 1180; - natura e
505, 531, 541; - sua de- convenzione (qr601.ç; e v6µoç;)
cadenza 633 n. 44; - m. e 923, 925 n. 73, 928, 1036 n.
dikaiosyne 633 n. 44; - 22; - n. in senso medico e in
invenzione della cetra a sette senso spirituale 1003, 1103
corde 193; - ad Atene 411; n. 202, 1248 s.; - filosofia
- musica e lirica corale 428; ionica e medicina 1342 ss.;
- nella tragedia 436; - con- - concezione teleologica dei
cetto greco e platonico 1051 fenomeni naturali 1381, 1384
ss., 1073 ss., 1215, 1786; - s.; - n. come autosufficiente
ethos nella musica e nelle 1383, 1388; - n. come «for-
altre arti 1077-1080; - istru- mazione» dell'uomo 1386;
zione corale come danza e - n. e ragione 1387 n. 81; -
come canto 1735; - coro concetto di physis in senso
come figurazione tipica normativo 1382, 1548 e n. 86;
dell'educazione 1723 n. 55; - n. e legge di armonia uni-
- melodie e ribni formatori versale 1762 e n. 217.
di ethos 1736; - m. come natura umana: - dell'educa-
«incanto» per l'ascoltatore zione 525, 535; - educa-
1739 e n. 113; - m. e generi bilità della n. u., 526 ss., 535
letterari 1754; - suo valore s.; - rimane essenzialmente
di «norma» 1755 n. 183. la stessa 652 e n. 21; - nella
Mystoxides (Mustoxidi) 1559 n. filosofia naturale ionica 333
s.; - nella tragedia di
Napoleone 1803. Euripide 597; - concezione
Natorp, Paul 969 n. naturalistica della n. u. 223,
natura (v. anche paideia, Na- 241 s., 630 s.
tura umana): concetto di n. naturale: rappresentazione del
coniato dai Greci 10; - n. ed n. in Archiloco 228 s., 344; -
arte 534; - nomos e physis contrasto con l'ethos aristo-
213 n. 40, 557 ss., 569; - cratico 344.
contemplazione affettiva del- Nausicaa 58, 61, 63, 65, SO.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1895

Nausicide di Colargo 920 n. 61. nobiltà dell'uomo (concezione


nazionalismo (v. anche Atene, umanistica della - ) 31 n.
Greci e barbari) 1460, 1467; Nock, A. 1200 n. 82.
solidarietà nazionale v6µtµa (v. Platone) 1776 e n. 268.
1461; - cultura e coscienza nomi propri: - sistema greco,
nazionale 1462; - nazionali- ebraico, egiziano 41 n. 24.
tà spirituale 1471. nomophylakes 1787.
necessità, v. Storia. nomos (v. anche Legge) 26 n.,
nemesis 36, 70, 126. 142 n. 44, 205, 342, 429, 673;
Neobule 235. v. anche Convenzione; - e
neopitagorici 307, 1289. physis 213 n. 40, 557 ss., 569;
neoplatonici, neoplatonismo - come legge divina 552; -
287, 307. contrapposto a "ljl1.lXi\ 244 n.
Neottolemo di Pario, filosofo 60; - critica del n. da parte
peripatetico 177 n. 41. dei Sofisti 557; - nomoi
Neottolemo, figlio di Achille sympotikoi 993.
547. Norden, Eduard 1066 n. 78,
Nestore 58, 74, 82, 107, 393, 1488 n. 30, 1648 n. 135.
630, 1670 n. 60. nudo: rappresentazione nel-
Nettleship, Richard Lewis 1027 l'arte plastica 1108.
n.3. numero, nella filosofia pita-
Nibelungi 91. gorica 305 ss.; - nel pla-
Nicia 620, 668, 675, 679, 769, tonismo 306.
798, 845, 1619 n. 39.
Nicocle 1479 e n., 1480 e n. 145, Oceano 286, 297.
1483, 1485 n. 16, 1486, 1490, Odissea 38, 58, 60, 61 e n. 16,
1497 ss., 1502, 1509, 1516, 63, 65, 67, 70, 74, 75, 76, 81,
1565 s., 1577. 112, 117, 198, 588, 1290 n.
Niebuhr, Barthold Georg 1311 370, 1334.
n. 435, 1804. 6i56ç 329.
Nietzsche, . Friedrich Wilhelm: oligarchia (v. anche Aristo-
- interpretazione di Anas- crazia) 1263-1270, 1282.
simandro 299; - teorie sulla Olimpia 447.
nascita della tragedia 431 n. olimpici, giochi 182, 190, 192,
22, 463; giudizio su Socrate 209, 323, 373 ss., 376 n. 70 e
708-711, 723, 751; - esalta- 71; - elenco dei vincitori
zione del periodo arcaico 192; - criticati da Senofane
della Grecia 522. 323 s., 377; - in Pindaro
Nilo 297. 19-20, 323, 378 ss.
Niobe 228. Olimpiodoro 1651 n. 2.
1896 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Olimpo 1007, 1053, 1067. 50, 51 ss., 73 ss., 114 ss.), 270,
Omero 25-119 passim, 161, 237, 272, 619; Telemachou paideia
243, 321, 374, 375, 395, 411, 73 ss., 75 n. 54, 78 n. 57;
425, 427, 448, 476, 502, 520, intervento divino 112 n., 31;
522, 558, 593, 624, 630, 638, terminus ante quem 52 n. 6;
699, 767, 768, 782, 784, 815, teoria del Kirchhoff 75 n. 54
873, 877 n. 38, 992, 1016, e 78 n. 57; funzione del libro
1017, 1040, 1061, 1064, 1067, II 78 n. 57; - tradizione
1068, 1069, 1088, 1127, 1185, omerica: in Esiodo 123 s.,
1290 n. 370, 1333, 1342, 1433, 127, 143 s., 153; - in Tirteo
1514, 1742, 1743 e n. 128, 178-180; - in Archiloco 226
1575, 1791, 1801, 1807; - vi- ss., 237; - e il sorgere della
sione della vita 108 ss.; - gli storiografia 642; - alterazio-
dèi in O. 111 ss., v. anche ni moralistiche nella tradi-
Religione, Teodicea; - teo- zione rapsodica 1065; - cri-
dicea omerica 115-116; - tica platonica 1052-1056,
polemica di Senofane contro 1122, 1315- 1326; - inter-
O. 318 ss., 593; - come enci- pretazione allegorica degli
clopedia del sapere umano stoici 1056 n. 66.
511; - Tucidide e O. 648 s.; Onomacrito 411.
- punto di vista «antropo- onore (v. anche Gloria) 39 ss.,
centrico» 114 n. 35; - O. 45 ss., 55, 95, 104, 229 s.; -
come educatore 85 ss., 234; tragedia dell'o. nell'Iliade
- virtù omeriche (v. anche 41-43; - onore e megalopsy-
Areté) 35 n. 14; - l' aot86ç; chia 43, v. anche Megalo-
93 s., 391; - aristocrazia psychos; - perdita dell'o.
omerica 25-83; - come Énm- nel disertore 185 s.
vé't'l]ç; 96 s.; - come «mae- oratori attici 540.
stro e guida della tragedia» Orazio 103, 234, 1074 n. 101,
70; - O. e la letteratura 1077 n. 110, 1325, 1665 n. 44.
greca 118 s.; - Iliade Lib. 1 Oreste 81 s., 444, 454 s., 483,
capp. 1-III passim, 197, 376, 491, 586.
394; ambasceria ad Achille Orfeo 412, 638, 871.
67 ss., 68 n. 37, 73 n. 50, 93, Orfismo (v. anche Religione
107, 527; aristie 100; scudo greca) 754, 756, 948, 1196.
d'Achille 108 s.; discorsi 68 Oribasio 1404.
ss.; 77-78, 80 ss., 139, 179 (v. Oriente 3 s., 9 s., 19, 56, 108,
anche Esempio); Patroclia 112, 288, 293.
143; - Odissea Lib. 1 capp. Ortagora di Tebe 874.
I-III passim (specialmente orthoepeia 540.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1897

padre: azione educativa sul 1049 ss., 1089 s.; - p. e


figlio, forma elementare di 'tpo<j>il (allevamento) 1080,
paideia 1290 s. 1113 s., 1252, 1227 n. 337,
paideia (v. anche, Atene, 1323 n. 35; - i Greci conce-
Educazione, Dio, Isocrate, pivano solo una p. dei liberi
Medicina, Platone, Persiani, 927 n. 78; - ideale di p. del
Senofonte, Socrate, Sofisti, IV sec. 694, 697 s.; - educa-
Sparta, ecc.) 30, 31 n. 7, 495; zione ad Atene 1123; - a
- concetto di paideia 1414 e Sparta, v. Sparta; - esigenza
n. 3; - storia greca e p. 6; - di un'educazione statale ad
p. e unità del mondo greco- Atene 697 s., 1210 n. 112; -
romano 6; - p. ideale e in- educaz. socratica 761 ss., 804,
dividuale 15 s.; - e belle arti 805; - il termine «p.» evi-
19 ss.; - e studi classici 21 tato da Socrate 785, 896; - p.
s.; - omerica 85 ss.; - nel discorso di Callicle nel
forma più antica 25 ss. e Gorgia 925, 926; - autoedu-
note, v. anche Rispetto; - cazione 1165 n. 389; - p. e
Telemachou paideia 73 ss.; - teologia 1180 n. 39; - p. e
definizione platonica 219; - paidià 1239-1241; - p. ed
prima attestazjone della Eros 1003; - p. e potenza
parola 31 n. 7, 495 n. l; - (dynamis) contrapposti in
poesia come p. 85 ss., 210 n. Platone 913, 925; - p. e poli-
31, 636 ss.; - polis come p. teia in Platone 1030; - sino-
169, 548; - valore del con- nimo di kalokagathia 942 n.
cetto greco di p. 6 ss., 495 ss.; 131; - inizio della trivializ-
- diviene un ideale educati- zazione del termine 1639 n.
vo consapevole 7, 495 ss. 92; - p. e retorica 1416 s.,
passim, 520-523; - p. ed 1421 s., 1426 s., 1434, 1440 s.,
areté 29 n. 5, 496 ss.; - e 1443 ss., 1486, 1511, 1515,
ideale greco di cwtura 498, 1611, 1672 e n. 71; - contesa
1361 s., 1476 s., 1726; - e di retorica e filosofia 1413;
cultura universale 517; - in - p. ed umanesimo 1414 ss.;
quanto formazione dell'uo- - «filosofo» rappresentante
.mo 1 s., 14 ss., 519; - vari della p. 1361 e n. 36; - pri-
significati 521 s.; - ideale mato della filosofia 1487,
dell'antica p. in Aristofane 1515, 1697 s., 1801; - teoria
627 ss., 631 ss.; - p. nobilia- dei gradi 1583; - importan-
re 877, 1113 s., 1252; - gin- za dell'Eros filosofico per la
nastica e musica, fonda- p. 1661 in. 24; - p. come
mento della p. tradizionale strada verso Dio 1802 n. 382;
1898 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

- supremo termine ideale ss., 1833 n. 66; - p. nobilia-


della p. è Dio 1764 n. 222; - re e delle élites 1508, 1614,
p. e poesia 1482 s., 1719, 1616; - educazione del
1790; - p. e techne 1360 s., principe 1479-1516 (precetti-
1365, 1449; - p. e medicina stica regale 1505-1507);
1356 s., 1372, 1380; - alleva- 1616; - p. persiana 1493,
mento dei bambini 1640; - 1613-1625, 1751, 1752 nn.
importanza di un buon alle- 166 e 170 (p. persiana e greca
vamento 1725; - coedu- 1617, 1620; - analogie colla
cazione di maschi e femmine p. spartana 1623; - contra-
1777; - addestramento «am- sto col costume dei Medi
bidestro» 1777 n. 272; - ed. 1625; - ed. della «piazza
della vita degli istinti 1723 libera» 1620); - p. spartana
ss.; - ed. ginnica 1341; - 1617 n. 34, 1625-1633, 1718,
parallelismo tra ginnastica 1721, 1752 n. 171; - p. ad
ed ed. intellettuale 1581; - Atene 1468; 1538, 1600 e n.
p. e giuoco giovanile 1776, 147, 1603 n.; - p. e idea
1780, 1784; - musica e nazionale 1425 s., 1567,
danza 1735, 1754 n. 179, 1778 1847; - p. e panellenismo
ss.; - p. naturale inconscia 1462; - p. e Logos 1490 n.
1386; - p. come pedagogia 32, 1733; - p. e «modello»
1732, 1772 ss.; - radicali- 1543 s.; - successo persona-
smo pedagogico 1541; - ed. le 1569; - «buonconsiglio»
individuale e della comunità 1491; - p. e megalopsychia
1377; - posto centrale della 1575; - p. militare 1612,
p. nella comunità umana 1619 n. 39, 1621, 1624; - p. e
1703; - costumi ed abi- agricoltura 1387 e n. 81,
tudini 1775; - ed. del citta- 1466, 1622, 1623 n. 55, 1676
dino 1494, 1495 e n. 54; - s.; - importanza della caccia
istruzione scolastica e popo- 1622, 1794 rt. 353; - p. eco-
lare 1538 n. 51, 1769, 1791 nomica 1540, 1639 n. 92; -
ss.; 1827; -p. e polis 1528 n. fine pratico della p. 1454; -
22; - p. nello stato tirannico p. pratica ed educaz. intellet-
1484, 1502; - legislazione e tuale 1672; - p. e storia 1510
pubblico controllo .1525 ss., ss.; - p. ed etica 1733 s.; -
1539, 1542, 1711, 1713; - p. problema della forma 1515;
e politica 1483, 1509 ss., - p. e forme rituali 1467,
1571; - ed. dei reggitori 1783 n. 303; - p. «cadmea»
1481, 1493, 1512, 1581 n. 85, 1724; - p. e oratoria 1439,
1708 n. 11, 1768, 1791, 1798 1448 n.; - istruzione «reali-
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1899

stica» 1794; - viaggi istrut- - influenza di Anassiman-


tivi 1796; - falsi educatori dro su P. 326 s., 326 n. 28; -
1831; - «educazione degli ÙtKTj in P. 326 s.; - concetto
educati» 1723; - p. e phrone- dell'Essere 327 ss.; - nega-
sis 1423 n. 20, 1433; -psica- zione del divenire 328; -
gogia 1437, 1438 e n. 55, predicati dell'Essere 329; -
1445, 1514 s.; - valore uni- rapporti coi pitagorici 329 e
versale della p. 1433 e n. 42, n. 141; - critica della filo-
1472 s. sofia naturale 329; - «Via>)
paideusis 1444, 1466, 1470 s., del pensiero 329 s.; - verità
1499 e n. 67. e opinione 330; ~ proemio
paidià, contrapposta a spoudé e della sua opera 331 s.; - i
a paideia 1239-1241. «misteri del vero» 331; -
paidonomos (v. anche paideia concezione dell'uomo saggio
spartana) 1631. 331; - vociv, v6Tjµa in P.
Palamede 443, 588, 1211. 335 e n.157.
palestra, v. Ginnasio. Parrasio 485 n. 25, 760, 1442 n.
Palm, A. 1400 n. 106, 1401 n. parrhesìa 615.
109, 1402 n. 112. partiti politici Lib. I cap. X pas-
Panatenee 411; 628. sim, 403 ss.; v. anche Atene,
Pandaro 1088. Pericle, Aristocrazia, Demo-
Pandora 129 e n. 16, 138 s. crazia.
panegyris 1462, 1469, 1602. Pasquali, Giorgio 1679 n., 1698 n.
panellenismo {v. Atene, Isocra- patria {7ta'tpii;, m:i'tpa) 42 n. 26.
te) 1460 n. 3, 1471, 1475, Patroclo 37, 67, 70, 104, 105,
1517 s., 1546, 1564, 1567, 364, 638, 1067.
1601; - p. e polis 1476 n. 49; Pausania, scrittore 172 n. 28.
- ideale politico-educativo Pausania (personaggio del
1483; - p. e concetto di Simposio di Platone) 998-
«accordo» 1480. 1001, 1002, 1011, 1018,1660.
paradeigma, paradigma, v. Pausone 1079.
Esempio. pedagogia, termine platonico
Paralo 871. 1018, 1022.
parenèsi 140 ss., 226, 232, 239, pedotriba 531.
426, 510 n. 26. Peleo 37, 66, 68, 71, 393, 630,
Parmenide 137 n. 31, 317, 325 1291 n..
ss., 578, 1001, 1221 n. 151, Pelope 187, 376.
1367 n., 1590 n. 124, 1591 e Peloponneso {guerra del - ):
n.; - carattere strettamente 163, 551, 567, 569 ss., 596,
fogico del suo pensiero 326; 634, 645 ss., 732, 1034, 1279,
1900 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

1520, 1534, 1555, 1808; - peripatetica, scuola 87 n. 8,


pestilenza durante la guerra 236,289,538, 1399.
1359; - lotte intestine nel P. Persia, persiani (v. anche pai-
1743; - crollo di Messene deia, Senofonte) 415, 692,
ed Argo 1750. 730, 731, 913, 1130, 1273;
pena, concezione sofistica e - guerre persiane 355, 399,
platonica 917 e n. 54. 421, 449 ss., 550, 566 s., 642,
Penelope 61, 62, 63, 117. 649; - sistema sociale 1622
Penia 1008, 1010. s.; - ragioni della sua deca-
itepwyroyil, v. Conversione denza 1624 s.; - attività
Periandro 407, 411, 415. agricola dei re 1637 s.;
Pericle, età periclea (v. anche distruzione dell'impero p.
Atene) 217, 244, 419, 475, 1805; - efebi p. 1621 s.,
479, 503, 545, 547, 548, 550, 1779.
560 s., 566 ss., 590, 617 s., 643 <)>t/\.au'tia; v. Amor di sé.
ss. passim, 657, 678 s., 691, <)>t/\.onµia 43 n. 31.
693, 729, 730, 731, 733, 767 n. phronesis (v. anche Areté, Pai-
102, 871, 876, 903, 921, 935, deia, Aristotele, Platone),
943, 1054, 1108, 1111, 1373, 335, 34L 450, 49~ 79~ 79~
1422,1424, 1496, 1497, 1503, 912 n. 37, 1184 n. 47, 1201 s.,
1511, 1531, 1542 n. 66, 1547, 1303, 1423 n. 20, 1433, 1492,
1585, 1593 n. 129, 1603, 1592 e n. 128, 1733 n. 92,
1619 n. 39, 1668 rt. 56, 1669, 1799; - distinzione aristote-
1808, 1812, 1829 e n. 52, 1836 lica tra phron. e sophia 1300.
n. 75; - busto di P., di physis (v. anche Natura) 288,
Cresila 480; - concezione 292, 303, 525; - e nomos 213
dello stato 548; - concre- n. 40, 557 ss., 569.
tezza realistica 568; - svi- piacere e bene (v. anche Bene)
luppo dello stato ateniese 927 ss., 1174 s.; - p. nella
566 ss., 569 ss.; - vita intel- vita del giusto e in quella
lettuale 574 -ss.; - politica dell'ingiusto 1298-1303; -
periclea 678 s., 680 ss.; - sua «farsi vincere dal p.» (TJ't-
caratterizzazione e idealizza- 'téicr0at 'tcùv i]oovrov) 795 n.
zione in Tucidide 680 ss.; - 171, 887, 888, 890.
sua caricatura nella comme- Pickard-Cambridge, A.W. 1806
dia 617 s., 681; - cultura n. 6.
democratica dell'Atene di P. Pilade 586.
30 n. Pilo 74, 669.
Pericle il giovane 770 s., 772 n. Pindaro 26 n. 1, 67, 77, 83, 181,
118, 1610 n. 17, 1634. 236, 249, 272, 313, 323, 343-
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1901

346, 372 ss. passim, 401, 415, Pitagora, Pitagorici 290, 303 ss.,
422 s., 523, 527, 533, 603, 316, 1160, 1219 n. 146, 1320,
774, 877, 878, 924, 927 n. 78, 1344, 1368 n. 43, 1591 n.; -
964, 1040, 1053, 1252, 1290 n. P. come educatore 307;
370, 1344, 1403 n., 1442, concetto di armonia 308 s.,
1481, 1482 n. 8, 1483 n. 10, 339; - mathemata 541; -
1646, 1647 n. 130, 1760 n. sodalizio pitagorico 1160 s.,
210; - come banditore del- - concezioni matematiche e
l'ideale aristocratico 372 ss., astronomiche dei P. 1214-
388, 398, 497, 525; - e l'atle- 1216, 1221, 1222; v. anche
tica 372 ss. passim; - suo Neopitagorici.
arcaismo 374 s.; - forma Pittaco 411.
della sua poesia 375 ss.; - pittura 15, 474 n. 8, 605.
inni trionfali, epinici 19-20, Platea 669; - battaglia di 643,
375, 378 ss., 382 ss.; - nesso 1273 n. 327, 1759.
tra inni e giochi 378 ss.; - Platone 13, 28, 44, 70, 77, 83,
carattere religioso della sua 168, 203, 208, 210, 246 s.,
poesia 379; - sue idee sulla 259, 347, 349, 372, 392, 394,
missione del poeta 380 s., 398, 402, 423, 434, 479, 485,
384, 391, 396 s.; - storia 503, 506, 507, 522, 535, 544,
dell'interpretazione di P. 546, 557, 561, 615, 655; 692,
382 s.; - concezione dell'a- 699, 700, 703, 712, 714, 715,
reta 383 ss., 388 ss., 397; - 716, 719, 720, 724, 725, 727,
areta e forma dell'inno 384 728, 734, 736, 740, 742, 743,
s.; - rapporti con Simonide 744, 745, 749 n. 67, 750, 754,
e Bacchilide 385 ss., 398 s.; 761, 762, 764, 766, 769, 778,
- esaltazione degli antenati 785, 791, 796, 798 n. 177, 799,
388; - uso paradigmatico 802 n. 185, 803, 806, 815,
dei miti 391, 393 s., 426; - 817-1335 passim; 1340, 1349
l'arte poetica non può essere n., 1351, 1361, 1413 s., 1415
appresa 395; - P. e la società n. 3, 1419, 1420 e n. 16, 1421,
del suo tempo 398 ss.; - 1422 n., 1423, 1425, 1426,
idee sull'educazione dei re 1428, 1430 n. 34, 1431, 1432 e
398 e n. 123; - Herder e nn., 1433 e n. 42, 1434, 1436,
Humboldt riscopritori di P. 1437 nn. 52-54, 1438, 1441,
373 n. 64. 1446, 1448 n., 1451 s., 1454
Pireo 578. s., 1457, 1460, 1475 n. 47,
Piritoo 364. 1477, 1481 e n. 3, 1483, 1487,
Pisistrato, Pisistratidi 261, 269, 1490, 1492 n. 38, 1495, 1500
402 ss., 419, 434, 511, 577. s., 1508 s., 1515, 1521, 1538
1902 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

n. 51, 1539, 1542, 1544 n. 71, datazione del F. 1653 n. 5,


1567 s., 1569 n. 44, 1578, 1654 n.; - nuovo atteg-
1584 ss., 1588 e n. 115, 1589, giamento di fronte alla reto-
1591 e n., 1592 e n. 128, 1593 rica 1657, 1660; - l'unità del
e n. 129, 1594, 1595 e n. 133, F. nel problema della retorica
1596 e n. 138, 1597, 1602, 1654, 1660; - discorsi di So-
1605 s., 1608, 1614, 1615 n. crate su Eros, 1651-1667,
26, 1618, 1619 n. 39, 1631, 1671 n. 67); - Filebo 608 e n.
1626 ss., 1637, 1639 n. 92, 4, 930, 1174 s., 1301 s.., 1378
1650 n. 146, 1679-1802, 1796 («dialoghi dialettici» 822-
n. 359, 1811; Dialoghi: - 824, 1236); - Gorgia 553,
Apologia 747, 750 n. 66, 809, 809, 842, 863, 899-960, 990,
845, 954 s., 1158, 1561 e n. 9, 1032, 1037 s., 1138 s., 1144 s.,
1683, 1702; - Carmide 845 1242, 1263, 1295, 1297, 1331
s.; - Cratilo 1441 n. 64; - n. 63, 1341 n., 1372 ss., 1383
Critone 533, 805 e n. 188, n. 70, 1416, 1417 e n., 1427 n.,
1210 n. 112, 1242; - Crizia 1430 e n. 34, 1432 e n. 39,
1610 n. 16; - Epinomide 1434 n. 44, 1435 e n. 46, 1443,
1183 n. 43, 1204, 1223, 1764 e 1447, 1449 s., 1490, 1493,
n. 225, 1792 n. 342 (sull'au- 1495 e n. 54, 1496, 1541, 1560
tenticità dell'E. 1708 e n. 12); n. 3, 1569, 1571n.,1585, 1586
- Eutidemo 984, 1432 n. 38; n. 111, 1587 n. 112, 1590 e n.
- Eutifrone 1205 s.; - 123, 1592, 1593 n. 129, 1596 e
Fedone 608; 714, 733 s., 932, n. 137, 1597 nn. 139 e 140,
984, 1087, 1203, 1381, 1383 n. 1655, 1657 e n. 12, 1663 e h.
70, 1653 n. 5 (coincidenze tra 33, 1670, 1700, 1711, 1748 e
Fedone e Gorgia 930 s.); - n. 148, 1800 n. 375, 1810 e n.
Fedro 782, 834 n. 6, 899 n. 1, 12 (parallelismo tra il
1024, 1173 n. 11, 1349 n., Protagora e il Gorgia 901;
1373 ss., 1380, 1391, 1422 n., contrasto tra i due dialoghi?
1427 n., 1430 n. 34, 1432 n. 930-932); - Ione 1317; -
37, 1447, 1505, 1587 rt. 112, Ippia minore 61 n. 16; - La-
1588, 1636, 1651-1677, 1696 chete 866 n. 2, 883 n. 50; -
s., 1790 (sintesi delle idee di Leggi 159, 162, 190, 192, 207,
P. nel F. 1651, - carattere 219, 591, 753 n. 74, 764, 824,
«giovanile» del F. secondo la 993, 1045 n. 45, 1059, 1066,
critica antica 1651 n. 2; - il 1091 n., 1128, 1182 n., 1183 n.
F. opera della maturità se- 43, 1184, 1185 n., 1204, 1216,
condo la critica del XIX sec. 1240,1241,1245,1255n.261,
1652 s.~ - problema della 1263 n. 286, 1266, 1357, 1383
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1903

n. 70, 1441 n. 64, 1445 n. 78, 1418, 1430 n. 34, 1585, 1593 e
1627 e n. 65, 1632 n. 73, n. 129; - Parmenide 1221 n.
1644-1646, 1653 n. 5, 1674 e 151; - Politico 1141, 1366 n.
n. 79, 1679, 1684, 1689 ss., 46, 1591 e n., 1341 n., 1377,
1705-1802 (composizione del- 1441 n. 64, 1707, 1730 n. 81,
le L. 1567; 1610; - scarsa 1748 n. 148; - Protagora
considerazione della critica 387, 485, 515 ss., 523, 528 ss.,
per le L. 1705; - posizione 533, 578, 624, 746 e n. 62,
delle L. nel complesso del- 749, 833, 846 s., 863, 865-898,
l'opera pl. 1706; -vicinanza 906 s. e n. 22, 929-932, 951,
delle L. al metodo d'Ari- 961 s., 1301 n. 411, 1320,
stotele 1709; - carattere for- 1331 n. 63, 1341 n., 1349 n.,
male e linguistico delle L. 1369 n. 46, 1416, 1417 e n.,
1713 e n. 22; - «assiomi» 1421 n., 1430 e n. 34, 1432,
delle L. 1749 s., 1784); - 1460, 1511, 1540, 1583, 1712,
Lettere 825-827, 1130, 1273, 1746 n. 141, 1800 n. 375 (cro-
1461; - L. VI 1569 n. 44 (sul- nologia 866 n. 2, 899-901;
l'autenticità 1679 n.); Lettera presuppone i dialoghi socra-
VII 849, 850, 853, 956 s., 987, tici 881 n. 47, 883); -
1083, 1151, 1158, 1161, 1201, Repubblica 167, 207, 216,
1222 n. 154, 1237, 1249, 1276 385, 553, 562, 776, 1027 ss.
n. 334, 1420 n. 16, 1481, 1517 passim, 1341 n., 1394 n. 93,
n. 1, 1534 nn. 42 e 43, 1675, 1420 n. 16, 1425, 1432 n. 38,
1677, 1679-1704, 1760 n. 206, 1442 n., 1445 e n. 78, 1460,
1790 (autenticità della L. VII 1470, 1481, 1485 n. 15, 1493,
e VIII 1679 e n.; - finalità 1527, 1529 n. 25, 1534 n. 42,
politica nella L. VII 1680 s.; 1539 s., 1543, 1556, 1581 e n.
- valore di fonte 1679, 1682; 85, 1589 n. 117, 1592, 1632 n.
- esame della situazione 73, 1653 n. 5, 1672 n. 71, 1673
siracusana 1688-1696; - e nn. 73 e 74, 1674, 1677,
importanza dell'elemento 1680 ss., 1684 e n. 11, 1685 e
personale nella L. VII 1690 n. 13, 1686, 1689 ss., 1697,
s.; - valore della L. VII per 1699, 1701 n. 67, 1702, 1705-
la paideia 1698 e n. 53; - 1802, 1810 n. 14 (I libro della
parallelismo coll'Antidosi di Repubblica 844; legame della
Isocrate 1704); - Liside 782, Rep. coi dialoghi giovanili
987, 988-990 (cronologia 989 845, 848, 1027, 1187, 1202;
n. 7); - Menesseno 996 s., data di composizione della
1273, 1653 n. 5, 1657; - Rep. 853, 1221 n. 150, 1262,
Menone 961-985, 1005, 1199, 1683 - Simposio 47, 359,
1904 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

608, 612, 626, 782, 990-1025, 983, 1152 s., 1164, 1166 s.,
1238, 1358, 1597 n. 140, 1653 1187, 1317, 1320, 1416 s.;
e n. 5, 1654, 1659 n. 18, 1661 - parodia dei Sofisti 511; -
e n. 24, 1699, 1713, 1766 (di- posizione di P. nella storia
scorso di Erissimaco su Eros della paideia greca 829 s.,
1358; - discorso di Pausania 1049 s., 1052 n. 58, 1070,
su Eros 1660); - Sofista 1080 s., 1123; - concetto di
1341 n., 1377 n. 57, 1452 n. paideia in P. 914, 950, 982 s.,
90; - Teeteto 1161 s., 1165, 1016, 1022, 1145-1147, 1162,
1186, 1221, 1225 s., 1441 n. 1164, 1165 n. 389, 1186, 1305,
64, 1591 e n., 1674, 1677 e n. 1726 e n. 68, 1727 e n. 71,
90, 1810; - Timeo 1028, 1739 n. 113; - la sua paideia
1063, 1182 n., 1183 n. 43, e lo spirito religioso più
1204, 1217, 1387 n. 82, 1441 antico 520; - collegamento
n. 65, 1653 n. 5, 1681, 1684 n. di «paideia» con «pais» 1724
8, 1699, 1764; - come fonte s., 1732; - interesse politico
per la ricostruzione del al centro del pensiero plato-
Socrate storico 712 s., 716 s., nico 826, 828, 847, 908, 911,
718 n. 16, 721, 723, 725 n. 26, 1027 ss. passim; - il proble-
765, 767, 775, 779, 794, 799 ma della paideia al centro
s., 801, 807 n. 189; - profu- della Repubblica 1048, 1134 e
go a Megara dopo la morte di passim; - funzione dei
Socrate 813; - come la con- guerrieri nello Stato della
danna di Socrate contribuì Repubblica 1046; - loro
alla formazione del pensiero scelta 1046 s.; - loro educa-
politico di Platone 810 s., zione 1047 ss., 1170, 1314 n.
851, 1158; - eredità socrati- 1; - scelta dei reggitori 1092
ca nel pensiero platonico s., 1112 ss., 1232 ss.; -
829, 848 ss. e passim; - giu- comunanza di donne e figli
dizio su Socrate 1432 n. 38; 1104-1107; - educazione
- dialoghi socratici 789 s., delle donne 1107-1111; -
794, 831-864, 989 n. 7; - ciò abolizione del matrimonio e
che vi è di platonico nei dia- politica demografica 1115-
loghi socratici 841 ss.; - 1118; - educazione e legis-
politicità dei dialoghi socra- lazione militare 1121-1133;
tici 844 ss.; - e Senofane - educ. dei reggitori 1169
325; - P. e l'umanismo dei ss., 1233 ss.; - carattere uto-
Sofisti 520; - polemica con- pistico della Repubblica
tro l'educazione sofistica 1105; - esclusione del pro-
865-898, 953 e n. 160, 979, gresso nello stato perfetto
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1905

platonico 1095; - carattere blica 1710, 1724-1733; -


anazionale dello stato plato- «imparare giocando» 1780;
nico 1119 s., 1206; - lo stato - pedagogia 1774 ss.; -
della Repubblica e quello educazione superiore 1768,
delle Leggi 1203; - teoria 1769 n. 241; - educazione e
delle forme politiche viziose politica nelle Leggi 1769 ss. ;
1245 ss.; - descrizione psi- - educazione della classe
cologica delle forme politi- dirigente dello stato ideale
che 1254 ss., 1259 n. 275; - 1496 e n. 58, 1686 s., 1770; -
P. precursore della psicanali- educazione statale ed educa-
si 1287; - critica della de- zione popolare 1632 n. 73,
mocrazia ateniese 1097 s., 1708, 1769 ss.; - magistra-
1142 s., 1154 s., 1256, 1263, to supremo dell'educazione
1270-1280 e passim, 1628; - 1786 ss., - stato perfetto
giudizio negativo sui grandi attuazione della perfetta pai-
uomini politici ateniesi 935, deia 1682, 1691 s.; - paideia
943; - su Pericle 1373; - come autodominio 1721,
idealizzazione di Sparta 162, 1731; - ricerca della «peda-
166-168, 175; - critica dello gogia» divina nella storia
stato spartano 1255-1263, 1689; - cammino della pai-
1267, 1282; - retorica ed deia fino al divino 1674,
eloquenza 1596, 1657, 1660, 1727 s.; - politica e paideia
1663-1677; ideale di 1759; - genesi storica dello
eloquenza come unione di stato 1740 ss., 1756, 1759 ss.;
retorica e filosofia 1669; - - stato ideale 1527, 1706,
dipendenza della retorica 1760; - carattere dello stato
dalla dialettica 1666 s.; - P. «secondo dopo l'ottimo»
e Isocrate 1435 n. 46, 1436, 1706 n. 6; 1747; - stato
1656; - P. e Lisia 1655 n. 7, .come unità ecclesiastica 1783
1665; - concetto di techne n. 303, 1784 s.; - natura e
1663, 1667, 1669; - funzio- valore della legislazione
ne «sinottica» e «diairetica» 1707, 1713 s., 1729, 1765,
del metodo dialettico 1667; 1767; - proemi delle leggi
- valore educativo della 1712 e n. 20, 1765; - opera e
dialettica 1799; - il «lungo compiti del legislatore 1711,
giro» della sua paideia passa 1729 n. 78, 1730 e n. 82; -
per la dialettica 1673 e n. 73, primato della temperanza e
1677; - la paideia nelle della giustizia 1741;
Leggi 1734; - differenze con democrazia e tirannide 1748;
la trattazione della Repub- - consenso dei sudditi alla
1906 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

forma perfetta di governo 976 s.; - relazione tra l'Idea


1733 e n. 81; - l'incoltura e il molteplice fenomenico
causa della rovina degli stati 969; - dottrina delle Idee-
1748; - teoria dei mutamen- numeri 306, 861; - interesse
ti della vita politica 1741 s.; per la matematica 973 s., 976,
- stato ideale e tirannide 1210 ss.; - rapporti con
1461, 1685, 1687, 1693; - matematici greci 1221-1223;
giudizio su Atene nelle - viaggio a Cirene? 1221 s.;
Leggi, 1753 s., 1758; - su - rapporti coi Pitagorici
Sparta 1715 s., 1745 n. 138, 1214-1216, 1221, 1222; -
1737, 1743, 1744 e n. 133, atteggiamento verso le scien-
1746 s., 1751, 1756 s., 1758 n. ze empiriche 1225 s.; -
197, 1772; - rinunzia di P. gradi della conoscenza 1188-
alla partecipazione alla vita 1193, 1231; - idea del Bene
politica 1157-1159, 1161; - 1494, 1674 n. 79, 1761, 1798;
fondazione dell'Accademia - similitudine della caverna
1105-1162; - P. e l'esperien- 1193-1198; - concetto della
za siciliana 1680, 1682, 1691- divinità 1060, 1063, 1180-
1702; - differente valuta- 1187, 1690, 1698 s., 1724 n.
zione della tirannide nelle 62, 1729 n. 75, 1761 ss., 1800
Lettere e nella Repubblica ss., 1800 n. 378 (v. anche Dio,
1273; - P. e Dione 1691 s., teologia); - teoria dell'ani-
1703; - vincolo con Dione ma 1402, 1735-1740, 1762,
come «comunione di una 1767 n. 237; - immortalità
libera paideia» 1700; - dell'anima 948-950, 975,
«idee» platoniche 13, 14, 83, 1328 ss.; ~ influssi orfici
392, 485, 655, 1376, 1587 n. 948, 1196; - obbedienza
113, 1665, 1671 s.; - forma- dell'anima al Logos 1729; -
zione della dottrina delle mistagogia o ascesa dell'ani-
Idee e suo rapporto con la ma al Bello eterno 1699; -
scoperta socratica del cortcet- natura e valore dell'Eros 253,
to, secondo Aristotele 720- 347 s., 358, 1358, 1651 s.,
722, 835, 857, 968, 970; 1658, 1659 e n. 18, 1661n.24,
secondo la scuola scozzese 1662; - atteggiamento di P.
725 s.; secondo H. Maier 791 di fronte all'eros maschile
s.; secondo la scuola di nel Simposio 994 ss., 1001;
Marburg 968 n. 20; secondo nelle Leggi 1001; - arte e
l'autore 856-862, 968-971; poesia 934, 991, 1053 ss.,
- dall'«ignoranza» socratica 1064 ss., 1069, 1313 ss., 1737
al nuovo concetto di scienza n. 104, 1737 ss., 1742 s., 1743
INDICE DEI NO:MI E DELLE COSE 1907

n. 128, 1755 s., 1788 ss.; - - punto di vista dell'autore


critica di Omero 85-90, 94, nella presente trattazione
593, 1053 ss., 1064 ss., 1122, 827 s.
1315 ss.; - interpretazione itA.cinnv (v. Educazione, Pai-
di Tirteo 207, 1719 ss., 1738, deia) 925, 1046 n. 48, 1052 n.
1782; - commedia come 58, 1165, 1306.
massima espressione della pleonexia (v. anche Platone)
libertà democratica 615 ss.; 214, 299, 314, 687, 1412,
- teorie musicali, danza e 1487, 1554, 1556, 1596 e nn.
canto 1736, 1752, 1754 e n. 137-138, 1597 n. 140, 1747-
179; - funzione del mito in 1751, 1815.
P. 286, 947; - il paradosso Plotino 818.
come mezzo di espressione Plutarco 162, 186, 192, 731 n.
filosofica 909 s. e n. 31; - P. 30, 992 n. 13, 1129 n. 283,
e la medicina 1339, 1348, 1213 n. 122, 1222 n. 154;
1357, 1372 ss., 1380 ss., 1394 1414, 1537 n. 48, 1680, 1705,
s., 1401; - eugenetica 1772 1772, 1810, 1812; - pseudo-
ss.; - matrimonio 1765 s., Plutarco 87 n. 9, 534 s., 1074
1771; - virtù educativa dei n. 101,1317, 1430n.33,1540
simposi 1723, 1731; -valore e n. 63, 1560 n. 4, 1583, 1632
della caccia per la paideia nn. 35 e 37, 1754 n.179, 1812.
1644-1646; - P. e la paideia Plutos 1264, 1269.
persiana 1620, 1752 e n. 171; poesia (per le sue varie forme,
- fortuna di Platone: nel v. Letteratura grecà): p. e glo-
pensiero cristiano 817; - ria, 54 e n. 9, 93, 95 s., v.
nell'umanesimo 817 s.; - in anche KÀEa àvporov; - ele-
Schleiermacher 818-820, v. mento retorico nella p. 587 n.
Schleiermacher; - nella fi- 33; - ideale greco di p. 94;
lologia del sec. XIX 820-822, - elemento edonistico 243
824 s., 841; - valutazione ss.; - p. e filosofia 89; -
della Repubblica nel secolo canto eroico 96; - unica
scorso 1031 s.; - P. «cattivo fonte storica per il periodo
cittadino» secondo il Nie- più antico 21; - p. e mito
buhr 1311 n. 435; - inter- 94-96; - e scultura 474 e n.
pretaz. neokantiana 822 s.; 9, 475; - e pittura 474 n. 8;
- Wilamowitz 825, 827; - - p. e polis arcaica 221 ss.;
questione dell'autenticità - ammirazione estetica dei
824 s.; - falsa interpretazio- Cristiani per la p. greca
ne biografica e psicologica 86-87; - sentimento indivi-
dei dialoghi platonici 899 s.; duale nella p. greca e nella
1908 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

.moderna 224 s.; - come pai- Policrate d'Atene, sofista 717,


deia 85 ss., 210 n. 31, 636 ss., 718 n. 16, 1024, 1419 n. 13,
1055-1058, 1739 e n. 112; - 1608, 1609 e n. 10.
come «psicagogia» 89; - Polignoto 1079.
come unico ricordo durevole Polinnia 1004.
del passato 92; - progresso polis, v. Città-stato.
del poeta omerico rispetto Polisseno 399.
all'ao186ç primitivo 102; - politeia, v. Città-stato, Costi-
come esaltazione dell' areté tuzione.
56-57, 94 n. 12, 177 ss., 381 politica ed etica, per i Greci e
ss.; - vocazione poetica 123, per noi 789, 958; - p. me-
154; - p. e verità 154; - ramente empirica e p. filo-
come voce della collettività sofica 1195 n. 71.
176 ss.; - passaggio dal Polluce 318 n.
mito alla realtà della vita Polo, personaggio del Gorgia
154, 179 s., 426; - ionica di Platone 904-917 passim,
195, 223 ss., 378, 381, 594; - 923, 927.
eolica 223 ss., 248 ss., 378, Porfirio 1030 n. 7.
382, 594; - politica 196, Lib. Porfirione 177 n. 41.
1 capp. V e VIII passim.; - Poros 1008, 1010.
p. e spirito della legge 1782; Post, Levi Arnold 1705 n. 2.
- cessazione della sua fun- potenza, potere (lìuvaµtç) 912 e
zione educativa nel IV sec. n. 37, 912 n. 37, 913, 923,
702; - critica platonica della 1137, 1138 s.
p. 85-90, 94, 934, 991, 1053 Potidea 740.
ss., 1064 ss., 1313 ss.; - p. povertà 146, 149, 366 ss.
ditirambica 934 n. 105; - Praechter, K. 791n.167.
ellenistica 1636. itpaO'tT]ç, mitezza 1484 e n. 14.
poeta: cro<j>ia del p., contrap- Prassagora 1349.
posta alla 'tÉXV'll 395 e n. 112. predica cristiana: sua connes-
poetica antica 85, 103. sione con l'esortazione so-
Pohlenz, Max 841 n. 10, 854 n. cratica 753.
38, 857 n. 44, 930 n. 90, presocratici (v. anche singoli
990 n. esponenti: Empedocle, Era-
Polibio 407 e n. 15, 1603. clito, ecc.): teologia dei p.
Polibo 1352 e n. 20. 1180 n. 39; - loro partecipa-
Policleto 484 n. 21, 515, 868, zione alla vita politica 1209 e
1136 n. 308, 1348. n.111.
Policrate di Samo, tiranno 411, Pri;imo 104, 228.
415. Frodo 1219 n. 146, 1684 n. 8.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1.909

Prodico di Ceo 528, 538, 754, npoi:pertnx:c\ç ì.,c\yoç, v. Esor-


785 n. 149, 786 n. 153; 866, tazione.
871, 874, 878, 1417, 1418. npénet v = «esser simile» 1060
professio, professor 872 e n. 18. n. 71.
profeti di Israele 1167 n. 393. npénov 309.
progresso: concetto del p. in Prussia 661.
Eschilo 458 ss.; - fede mo- psicagogia (v. anche paideia,
derna nel p. 632. retorica) 89, 436, 1514 s.; -
Prometeo (v. anche Eschilo) arte dell'oratore (v. Platone)
129, 138, 140, 240, 306, 442 1664 n. 36, 1670.
s., 458 ss., 483, 515, 880. psicoanalisi 1287.
propaideia intellettuale 1733. psicologia 524, 597.
npc\<j>amç 658 s., 659 n. 33, 663 woyoç 40, 231.
n. 41. psyché, v. Anima.
prosa: primo libro in prosa 'V1.lX'(Ì xaptçc\µevoç (contrap-
291; - sviluppo storico del- posto a vc\µoç) 244 n. 60.
la prosa arcaica 429; - prosa
attica più antica 550 n. 104; Quintiliano 1414, 1586 n. 111,
- la prosa nel IV sec. 699 s., 1669.
701.
Protagora 507, 551, 557, 561, Radermacher, Ludwig 1646 n.
920 n. 61, 1184 n. 46, 1417 124, 1648 n. 135.
ss., 1582, 1590 n. 124, 1591 Raeder, Hans H. 841 n. 10, 857
n., 1674 n. 79, 1712; - sul- n. 44, 930 n. 90.
l'euharmostia e l'euritmia Ranke, Leopold von 661.
485; - sull'origine della rapsodi 127, 321 e n. 114.
società 488 e n. 29; - conce- razionalismo 136 s., 143, 285
zione politica dell'educa- ss., 590 ss., 633, 655.
zione 505, 515 ss., 548, 549; re greci 165, 188, 197 s., 398,
- techne politica 514, 875, 408, 442, 502.
878 ss.; - suo umanismo religione greca (v. anche Dio,
516; - suo relativismo 518; Teologia, Orfismo, Anima,
- suoi scritti 523 s.; - sua Socrate, Platone), fondata
teoria pedagogica 528 ss.; - sull'«onorare la divinità» 41;
la società presuppone l'edu- - dèi omerici 111 ss.; - pro-
cabilità dell'uomo 529; - blema della teodicea 1333 s.:
Antilogie 539; - come per- nell'Odissea 115 s., 270; in
sonaggio del dialogo di Pla- Esiodo 138 ss.; in Solone 270
tone 866-898 passim, 901, s.; in Anassimandro 302; in
904 n. 15. Eschilo 451, 487; - teogonia
1910 INDICE DEI NOMI. E DELLE COSE

136 s.; - triadi divine 145; alla filosofia 1666; - R. di


- r. e polis 186; - problema Anassimene 539; - di Pro-
del male, v. Male; - con- tagora 539; - degli oratori
cezione immanente del di- attici 540; - in Euripide 587
vino 300 s.; - Orfismo, ss.; - encomio 663 n. 42; -
Orfici 304, 310-316, 412, 508; come mezzo dell'attività
esigenza di purezza 311 s.; politica 1457; - metodo
astinenza 311 n. 80; conce- della r. 1469; - r. e dialettica
zione orfica dell';mima 311, 1587 e n. 112; - r. nell' Ac-
315; controversie sull'Or- cademia platonica 1585 ss.,
fismo 310 n. 78; lamine orfi- 1594; - attività ed ufficio
che 315 n. 85; - r. delfica, dei retori 1489, 1491 n. 35;
312 s.; - critica degli dèi 1494; - il metodo dimostra-
omerici 318 ss.; - linguag- tivo del r. opera per mezzo
gio religioso nei filosofi, 299 della similitudine 1664; -
ss., 331 s., 336; - r. dei miste- terminologia della r. tradi-
ri 421 (v. anche sopra, zionale 1668.
Orfismo); - paideia di Pla- retribuzione divina ('ticriç,
tone e r. primitiva 520; - nµropia) 265, 272, 300, 451.
come fondamento della legge Rey, Abel 1343 n.
e della morale 562; - esigen- Riano di Bene 172 n. 28.
za religiosa nel IV sec. 698. ricchezza (oA.~oç, -rrA.ou'toç) 35
reminiscenza (avaµvT)01.ç) 975, n. 14, 59, 135, 146 e n. 51,
978. 149, 182, 272, 275, 366 ss.; -
responsabilità 73, 270, 311, come base della conside-
1062 s., 1332 s.; v. anche razione sociale 1264- 1269 (v.
Ate. anche Areté).
restaurazione politica in Atene Rinascimento 413 s., 414 n. 29,
696. 511.
retore: l'uomo politico come r. rispetto per dèi, genitori e
502; 901. ospiti 25 n. 1.
retorica (oratoria, eloquenza; v. ritmo, pu8µoç (v. anche Mu-.
anche Isocrate, Demostene, sica): concetto 240 s., 1076-
Paideia, Platone) 901 ss., 1078; - r. della vita 239,
952, 1242; - nella poesia 280; - e armonia 20, 309,
134 n. 24, 182 e n. 57, 587 n. 531, 538, - etimologia di
33; - come ideale educativo pu8µoç 241 n. 53.
501 s., 506, 539-541; - batta- Ritter, Costantino 711 n. 5, 712
glia tra la filosofia e la reto- n. 6, 724 n. 25, 857 n. 45, 862
rica 514; - critica dei retori n. 51, 1376 n. 55.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1911

Robin, V. 1798 n. 368. Schmitz-Kahlmann, Gisela 1513


Rohde, Erwin 299, 751 s. n.107.
Roh.r, G. 1741n.122. Schopenhauer, Arthur 708, 709
Rolando (Canzone di - ) 91. n.3.
Roller, R. 1034 n. 17. Schwartz, Eduard 1831 n. 56.
Roma, Romani 3, 4, 10, 17; - scienza, v. Episteme
età imperiale, 495. Scilace 297.
Romaici 1132. Scilla 784.
romanticismo 53. Scopa 386, 1833.
Rosenbaum 1340 n. 2. scopo della vita {'téì..oc;, o'kO-
Ross, William D. 722 n. 21, no c;, V. anche ~ioc;, Scelta
1216 n.138. della vita, Socrate), concetto
Rousseau, Jean Jacques 1032. socratico e platonico 802-
804, 889 n. 71, 898, 930, 932,
Sabino 1352 n. 20. 938 e n. 117, 989 n. 5, 1208 n.
Sachs, Eva 1219 nn. 146-148. 107.
Saffo 248 ss., 251-256, 429. scultura 20; - la «dea ritta» di
saggezza, sapienza (cro<)>ia) 325 Berlino 262; - ideale del-
e n. 125, 338, 395 s., 602. 1' atleta nella s. 373 n. 63; - e
Salamina (battaglia di - ) 399, areté 373, 385; - frontone
400, 421, 425, 567, 643, 665, d'Olimpia 447; - s. e poesia
1273 n. 327, 1464, 1759. 474 s.; - busto di Pericle, di
Samo 730. Cresila 480; - Sofocle del
Santippe 781. Laterano 480; - fregio del
Santippo 871. Partenone 480; - armonia
savii .(i sette - ) 279, 411. nella s. 484 s.; - relazione
scelta della vita (~iou atpEmc;, con l'educazione e la poesia
v. anche ~i.oc;, Scopo della 485; - ritratto di Euripide
vita, Socrate), 9, 45 n. 143, 602.
981, 1331 ss. scuole filosofiche nell'antichi-
Schaefer, Amold 1804 n. 3, tà 1159-1161.
1817 n. 28. Segesta 675.
Scheler, Max 1801 n. seisactìa 260.
schiavi: atteggiamento del sag- selezione razziale 1113 ss.
gio verso gli s., sec. Platone Selinunte 675.
1258 n. 271. Semonide d' Amorgo 232, 233,
Schleiermacher, Friedrich 719 242 ss, 274, 280.
s., 722, 723, 818-820, 821, Senocrate di Agrigento, fratel-
822, 840, 841 n. 8, 863 n. 52, lo del tiranno Terone 1290 n.
1651, 1652 e n. 3, 1653 e n. 5. 370.
1912 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Senocrate, filosofo 993 n. 14, 1617-1625, 1633, 1644, 1752 e


1242, 1484 n. 14, 1591 n. n. 171 (autenticità dei capp.
474. finali della C. e della Costi-
Senocrito di Locri 381 n. 82. tuzione degli Spartani 1624);
Senofane (v. anche Silloi) 181, - Economico 127 n. 12, 574
191 e n. 75, 303, 316 ss, 396, n. 17, 1613, 1622, 1623 n. 55,
504,508,511; 780n.136,964 1634-1643, - Ipparchico
n. 3, 992, 1053, 1054, 1056, 1610 n. 17, 1611en.18, 1619,
1060 n. 71, 1316 1462 s., 1591 1650 n. 148; - La costituzio-
n.; - suo presunto poema ne degli Ateniesi 1627 n. 65;
didascalico 317 n. 90; - - La costituzione degli Spar-
polemica contro Omero e tani 161, 168, 170, 192, 1607,
Esiodo 318 ss., 593; - con- 1610, 1617 n. 34, 1620 n. 42,
cetto della divinità 319; 1622 e n. 52, 1623 n. 55, 1624
non fu un rapsodo 321; - e n. 59, 1625-1633, 1644; -
carme conviviale 322; - Memorabili 1358 s., 1360 s.,
virtù dello spirito ed euno- 1436 n. 49, 1608, 1609 e n. 1,
mia 322 ss.; - sua concezio- 1610 e n. 17, 1627, 1633, 1634
ne della vera areté 322 ss.; - n. 77, 1681, 1723 n. 55, 1792
contro l'ideale atletico 323 s., (composizione 717 s.); -
345, 377; - riecheggia un'e- Symposium 1788 e n. 325; -
legia di Tirteo 191 n. 75. Storie Elleniche 1607, 1609,
Senofonte 479, 699, 706; 742, 1610 n. 14, 1630 e n. 71, 1631
761, 762, 766, 770, 771, 772, n. 72, 1633 e n. 75, 1808 s.,
780 n. 136, 785, 1114, 1155, 1814 (composizione 718 n.
1296 n. 396, 1482 n. 9, 1521, 17); - Sull'equitazione 1611
1539, 1541 n., 1605-1650, e n. 18, 1639 n. 92; - Sulle
1752 n. 171, 1753, 1772; - entrate 1551, 1611, 1631 n. 72
Anabasi 1606 e nn., 1607, (autenticità 1815 n. 25); -
1613 e n. 21, 1614 n., 1615 s., come fonte per la ricostru-
1617 n. 34; - Apologia di zione del Socrate storico 712
Socrate, problema dell'au- s., 716, 717-720, 722, 723, 719
tenticità 717 e n. 13 - Cine- s., 733, 735, 736, 737 n. 47,
getico 1622 e n. 52, 1643-1650 739, 760, 764, 765, 767, 769,
(autenticità del C. 1643 n. 770 s., 775, 779, 782, 791,
116, 1648 n. 135; - data di 792, 796 n. 72, 799, 856 n. 43,
pubblicazione del C. 1611 e 1217; - influenza socratica
n. 20, 1644); - Ciropedia su S. 1633; - difesa di
1481, 1607, 1612, 1613 e n. Socrate 1607; - giudizio
24, 1614 n., 1615 n. 27, sulla condanna di Socrate
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1913

808; - influenza di Anti- iatrosofisti 1358 s.; - rela-


stene 1649; - vocazione zione della cultura con l'a-
pedagogica di S. presente in gricoltura 1634-1643;
quasi tutte le opere 1611; - amore dei campi 1607, 1635
contro l'educazione sofistica s.; - problema di campagna
1648; - l'educazione della e città 1635.
donna 1639; - ideale di Serse 1752 e n. 170, 1753 n. 175,
donna 1640 s.; - filosofia 1758, 1759 n. 200.
della cooperazione di ele- Shakespeare, William 491.
mento maschile e femminile Shorey, Paul 863 n. 52, 930 n.
1641 n. 99; - valore della 90, 1182 n., 1186 n. 50, 1706.
caccia per la paideia Sicilia 321, 402, 674 ss., 1130,
1644-1650; - non tutte le 1151, 1221.
forme di caccia simo utili per Silio Italico 1509.
la paideia 1645; - paideia silloi (v. anche Senofane) 318 e
del palafreniere 1639 n. 92; n. 91.
- ideale di soldato 1618; - Simonide di Ceo 379, 385 ss,
il guerriero deve avere fede 399, 411, 415 s., 484, 485,
in Dio 1619; - educazione 490, 873, 885, 964, 1062,
del soldato superiore alla 1311.
carriera del politico 1619 n. simposio 190, 322, 742, 991-
39; - S. e Sparta 1258 n. 272, 994; - poesia simposiale
1606 e n. 3; - ideale di vita 250, 347, 574 s.; - «leggi per
militare realizzato in Sparta il simposio» 993 e n. 14.
1629; - critica degli errori sinossi (concetto platonico)
commessi dagli Spartani 860, 884, 970 s. e n. 22, 1019,
1632; - S. e Atene 1627 ss.; 1177.
- critica della democrazia Siracusa 674, 686, 852, 1161,
ateniese secondo i suoi idea- 1213 n. 122, 1222 n. 154,
li di soldato 1628; - ostile ai 1308 n.
tentativi di soluzione del Sirene 784.
problema sociale dati dal sistema (crucrTI]µa) 1028 n. 4.
proletariato cittadino 1630; sociale (guerra - ) 1522 ss.,
- fede nell'avvenire di 1551.
Atene 1634; - esaltazione Socrate 217, 219, 247, 284, 287,
della potenza persiana 1612; 385, 387, 425, 484, 503, 504,
- lodi della paideia persia- 524, 528, 533, 545, 547, 578,
na 1625, 1752 e n. 171; - S. e 580, 617, 625 ss., 633, 705-
la paideia delle élites 1616 s.; 815 passim, 828 ss., 865 ss.,
- ideale di cultura degli 1298 n. 400, 1340, 1349 n. 16,
1914 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

1359, 1411, 1417, 1419 ss., - la scoperta del concetto


1423, 1425, 1431, 1437, 1438 722, 791, 857 s., 968 s.; -
n. 55, 1443, 1454, 1476, 1483, dialettica socratica 742 s.; -
1493, 1499, 1507 n. 92, 1517 il ginnasio ambiente della
n. 1, 1560 n. 3, 1561 e n. 9, conversazione socratica 740
1562 n. 14, 1570, 1580, 1588, ss.; - esortazione 746; -
1592, 1598 n. 141, 1606 n., confutazione (elenchos) 746,
1609 e n. 10, 1610 n. 17, 1619, 790; - S. e i Sofisti 743, 746,
1633, e., 1636 ss., 1649, 1675, 762, 784 n. 147, 785 n. 149,
1681 s., 1713, 1734, 1767, 786 n. 153, 1436; - elementi
1792; - nel medioevo e nel eristici nel dialogo socratico
rinascimento 705 s.; - nel 793 s., 1432 e n. 38-39; -
pensiero moderno 706 ss.; - maniera socratica di educa-
paragone di S. con Cristo zione 761 ss., 1361 e n. 36,
707; - S. secondo Nietzsche 1634 n. 77, 1791; - non pre-
708 ss., 723; - problema tende di essere maestro 784
della ricostruzione del vero s., 896, 982 s.; - concezione
S. 711 ss.; - letteratura dell'amicizia 782; - accusa-
socratica (Platone, Senofonte to di minare l'unità della
ecc.) 712 s., 831 ss.; - forma famiglia 781, 1291 n.; -
letteraria del dialogo 714, atteggiamento politico e so-
715; - il S. di Platone e ciale 731 ss.., 765 ss., 770 ss.,
quello di Senofonte 716, 717 788 ss.., 805 ss., 845 n. 14,
ss., 799 s., 808 s., 831 ss. pas- 848, 921, 928 n. 83, 954, 1143,
sim, 953 (v. anche Platone, 1173, 1450; - atteggiamento
Senofonte); - testimonianza verso la scienza medica 736
di Aristotele 720-724, 734, ss.; - il metodo di S. e il
736, 737 n. 47, 738, 755 n. 77, modello della medicina 1339,
791; studi recenti (Maier, 1375; - «cura dell'anima»
Burnet, Taylor) 724 ss.; - 748, 749, 751, 761 s., 839,
attaccamento di S. ad Atene 869, 1134 n. 303; - nuovo
729, 807, 809, 811 ss.; - gio- concetto di anima 750 ss.,
vinezza e formazione cultu- 869 e n. 8; - fede nell'im-
rale 730 s., 733 s.; - rapporti mortalità dell'anima? 754 s.,
con Damone 1075, 1077 n. 948; - rapporti con l'Or-
110; - S. come logico 855 s.: fismo? 754 ss.; - prean-
- attribuzione a S. della nunzia il Cristianesimo? 753
dottrina delle Idee 720, 734 s., 755; - concetto di «asce-
(v. anche Platone: formazio- si» 762, 773; - il daimonion
ne della dottrina delle Idee); 814 s.; - nuovo concetto di
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1915

<<filosofia» 744 ss., 748; - n. 139, 1674 n. 79, 1769; -


concetto di scopo della vita maestri di areté 483, 495 ss.
700, 802 ss.; - autarchia e passim, 506; - teorie pe-
autodominio 77 4 ss., 778 ss., dagogiche dei S. 693, 763 ss.,
928 e n. 83; - opposizione 867 S.S. passim, 877, 895 s.,
alla visione della vita espres- 915, 954, 1080 s., 1113, 1212
sa dalla tragedia 801; - s., 1214, 1225, 1316, 1387,
intellettualismo etico 794 ss., 1650 e n. 146; - rapporto
800 ss., 916; - riduzione di con l'antica paideia aristo-
tutte le virtù alla scienza del cratica 501; - agricoltura e
Bene 797 ss., 1732; - !'«uni- natura dell'educazione 1635,
tà della virtù» 1798 n. 368; - 1676; - concetto di virtù
interessi militari 768 ss.; - 1649; - a chi si rivolgono i
ragioni della condanna 808 S. 501 ss.; - ideale educati-
ss.; - come personaggio dei vo dell'eloquenza 501 s.,
dialoghi di Platone 831 ss. 506, 539-541; - metodi edu-
passim, 834 n. 6; - alleanza cativi 528 ss., 629 ss.; metodo
di educazione e stato 1681; «formale» e «enciclopedico»
- profezia di S. su Isocrate 504 s.; - fondatori delle arti
1422 n., 1505; - spirito s. liberali 505, 538, 540 s.; -
1767 n. 237; - condanna a limiti del loro sistema pe-
morte di S. 1783 n. 303; - dagogico 506; - loro posto
interesse politico nei suoi nella storia della filosofia
scolari 1731. greca 506 ss.; - eredi della
Sofisti (v. anche Protagora, tradizione educativa dei poe-
Gorgia, Educazione, Areté, ti 510; - emulazione dei
Razionalismo), Lib. II cap. poeti 997; - parodiati da
III, 703, 737, 743, 746, Platone 512, 528; - loro
762-766, 767, 774, 784, 785 e cosmopolitismo 511; - indi-
n., 830, 866, 872, 873, 902, vidualismo 512; - primi
917, 921, 928 n. 81, 944, 952, educatori di professione 514
953, 961, 964, 983, 1142, s.; - interpreti di opere poe-
1149, 1152 s., 1166 s., 1184, tiche 510 s., 885 e n. 55; -
1187, 1254, 1316 s., 1320, sapere tecnico e cultura uma-
1325; 1356, 1360, 1367, 1369 nistica 516 s.; - incom-
n. 46, 1387 n. 81, 1404, 1411, pletezza del loro umanismo
1414, 1416, 1420 s., 1436, 513 e n. 35, 518-520; - epi-
1441 s., 1443, 1452, 1466, deixis 524; - «trinità peda-
1482, 1500, 1532, 1538 n. 51, gogica» 525, 534, 1668; -
1578 n. 74, 1582, 1647, 1649 rapporto tra educazione e
1916 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

natura umana 526 s.; - con- poeta della civiltà. periclea


cetto di «physis» umana 476-477; - leggende sulla
1346; - teleologismo del- vita di S. 478; - sua serenità
l'organismo umano 1384; - 478; - sua urbanità 479; -
ottimismo pedagogico 527; S. e Ione di Chio 479; - sta-
- i S. primi umanisti 513, tua lateranense 480; - senso
516, 536; - èìtcrcroi. J..Oyot di equilibrio 480 ss.; -
539; - studi grammaticali nuova libertà interiore 480;
538 s.; - «ginnastica dello - sophrosyne 481 s.; -
spirito» 540; - mathemata conoscenza e dolore 492; -
304 n. 65, 541 s.; - e la crisi autodifesa di Edipo 493; -
dello Stato 549 ss.; - teoria carattere di Odisseo in S. 61
dei diritto del più forte 553 n. 16; - e l'areté 473 n. 7,
ss., 671-674; - idee sulla 483 ss.; - !'«anima» 484; -
legge e la giustizia 551, 552 interesse per l'umanità 485
ss.; - utopie politiche 1033 s.; - figure di donna 486; -
s.; - opposizione ai S. 544 inno alla grandezza del-
ss., 576 e n. 22; 873, 919 n. l'uomo nell'Antigone 488 s.;
59, 954; - attacchi anti- - debolezza, nullità del-
sofistici nella commedia 623 l'uomo 489; - nobiltà del
ss.; - influenza dei S. su dolore 488, 493; - rapporto
Tucidide 655, 658 n. 31, 672, con Solone 490; - con
674; - i S. e Aristotele 284 n. Simonide 490 e n. 31; - iro-
3; - riabilitazione per opera nia tragica 489; - Aiace 61
di Hegel 284 n. 3. n. 16; - Antigone 487 ss.; -
Sofocle 383, 425, 433, Lib. II Elettra 491; - Edipo re 491;
cap. Il, 565 s., 602, 730, 1791; - Filottete 61n.16; - Edipo
- rapporto con Eschilo e con a Colono 493 s., 589.
Euripide, 467, 468 ss., 477 s., Sofrone 86 n. 5, 610.
486 ss.; - efficacia scenica Solmsen, Friedrich 1182 n.,
471 s., 490 s.; - pietà religio- 1216 n. 135, 1221n.149, 1587
sa 471; - S. e la critica nn. 111 e 112, 1658 n. 15.
moderna 469 s., 470 n. 5; - i Solone 52, 139, 181, 195, 196,
suoi personaggi 472 s., 476 198, 200, 223, 224, 232, Lib. I
s.; - loro carattere «plasti- cap. VIII passim, 288, 299,
co» 474 s., 485; - e Fidia 308, 311, 343 s., 367-370, 372,
475, 481; - classicità 475; - 374, 402, 420, 422, 423, 431,
forma e norma in S. 476; - i 446, 447 ss., 452 s., 490, 624,
suoi personaggi, «figure 644, 654, 684, 729, 730, 806,
ideali» 476, 483; - come 913, 937, 1017, 1033, 1040 n.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1917

32, 1042 n., 1062, 1065, 1096 372, 496, 914 n. 44, 1076,
n. 176, 1265, 1270, 1272 n. 1109, 1129, 1267, 1282; -
324, 1282, 1332, 1334, 1344 sua idealizzazione nella filo-
s., 1489 n. 30, 1493 n. 41, sofia greca 160 ss.; - monar-
1519, 1526, 1528, 1531, 1537, chia degli Eraclidi 165, 187,
1542, 1545, 1585, 1593 n. 129, 188; - costituzione spartana
1701, 1713, 1796 e n. 359, 165 ss., 186 ss., 1539; - rhe-
1807 n., 1829 e n. 52, 1830, tra 165 n. 17, 166 e n. 19, 170,
1832, 1833; - come fonte 186 s.; - lo stato spartano
storica 258 e n. 2; - come additato come modello di
autore scolastico ad Atene eunomia 1254; - carattere
257, - rappresentante dello conservatore e autoritario
spirito attico 258 ss., 282; - dello stato 164 ss.; - S. e
come pensatore politico 260, l'individualismo greco po-
267 ss.; - come poeta 260 e steriore 167; - educazione
Lib. 1, cap. VIII passim; - statale Lib. 1 cap. V passim,
influenza ionica 262 s.; - 210, 496, 696, 1049, 1114,
influenza esiodea 265 g.; - 1123, 1127, 1236; - interpre-
contro l'ingiustizia sociale tazione «pedagogica» della
266 s.; - esaltazione dell'eu- costituzione spartana 168-
nomia 267, 369, 549 s.; - 170; - paideia spartana e
teodicea 270 ss., v. Religione aristocratica arcaica 171; -
greca; - esortazione ali' atti- formazione dello stato spar-
vità 271, 274 s.; - giustifica- tano 170 s.; - phylai 174; -
zione della propria opera riserva su S. 175, 192; -civi-
legislativa 275 ss.; - S. e smo dorico 190; bandito da
Creso 278; - uno dei sette Tirteo 190 s.; - educazione
savi 279; - concetto di musicale 193; - la condizio-
misura 281; - e Teognide ne della donna a S. 193 s.; -
361, 367-370; - ricchezza e vita familiare e costume
povertà secondo S. 273, 275; matrimoniale 1106; - euge-
- parte spettante all'uomo netica 1631; - cura della
nella propria sorte 270 s., 369 prole 1772; - amore maschi-
s.; - irrazionalità dell'Ate le 1000 s., 1721 n. 49; -
490. ayroyr'\ 171 n. 27, 359, 496; -
sophrosyne 313, 481-482, 1640 in Tucidide 661 ss. passim;
n. 96, 1731 nn. 83-84. - cronologia dell'eforato
Sparta (v. anche Senofonte, 166 n. 18; - stima per S.
Isocrate) 62, 74, Lib. I cap. V scossa dopo la batt. di
passim, 217, 244, 258, 367, Leuttra 1106, 1262; - autori-
1918 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

tà regale fondata sull'onore nuova città 1757; - fonda-


1554; - S. e il Peloponneso zione di una colonia nuova
1520; - fronte delle città 1757 n. 193; - diritto del più
greche contro S. 1459; S. e forte ed educabilità del
Atene 1424, 1468, 1474 s.; - tiranno 1760 e n. 210, 1761;
crollo dell'egemonia sp. - fondazione dello s. di
1522, 1555, 1609, 1610 n. 14, diritto 1720; - lo s. e l'unità
1624, 1747 n. 146, 1814; - greca 1847 s.
effetti della caduta della sua stato, v. Città-stato, Uomo di
potenza 1743 n. 132; - ere- stato.
dità della potenza ateniese Stenebea 638.
1808; - costituzione mista Stenelaida 668.
1757; - sistema di vita civi- Stenzel, Julius 832 n. 1, 857 n.
le 1626; - paradossalità 45, 969 n., 1027 n. 3, 1654 n.,
della vita e del sistema edu- 1698 n. 53, 1706 n. 5.
cativo 1629; - la suprema stereometria 1218 s.
virtù c.ivile 1626; - filolaco- Stesicoro 381 n. 82, 428, 1303.
nismo 1627, 1716. Stilpone 804, 805.
Spartani, re (v. anche sopra, crwxcisio:crSat 803 n. 186.
Sparta): Teopompo 168, 172; Stocks, J. L. 1160 n. 375.
- Polidoro 168. Stoici 87 n. 8, 298, 1056 n. 66.
Spercheo 1067. storia e storiografia, icrwpi 'T]
Speusippo 992 n. 13, 993 n. 14, 293, 333-334, 507, 513, 641;
1401, 1591 e n., 1664. - e oikoumene, 3-4; - carat-
spoudé 1241. tere ellenocentrico della
Spranger, Eduard 708 n. 2. nostra storia 4; - concezio-
Sprengel 1340 n. 2, ne puramente antropologica
cri;cicnç 1130, 1252, 1254. della s. 5; - storia greca e
stato (v. anche Città-stato, civiltà occidentale 6; - s.
polis, Platone): «stato e chie- greca es. orientale 9; - inizi
sa» 814; - problema dello della storiografia greca 641
«S. perfetto» 1033, 1254 e n. ss.; - rapporti con la tradi-
259; - esclusione ddla no- zione ·epica 642; - necessità
zione di progresso da un storica 645, 659, ·660 ss., 665
simile ideale 1095; - il sag- n. 47; - inizio della storio-
gio, cittadino dello stato grafia politica 645; - influs-
ideale 1309 s.; - concetto di so del naturalismo .ionico
s. 1461; - genesi storica 651; - la «.storia» lodata da
dello s. 1756; - s. pericleo Euripide 651 e n. 18; - «la
1378; - fondazione cii una storia si ripete» 652 s.; -
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1919

forma poetica della tra- 12, 1438 e n. 57, 1447, 1583 n.


dizione più antica 21; - la 97, 1587 n. 112, 1759; -
polis centro della s. greca significato del termine in
156, - concezione romantica greco 905 s.; - in Platone
della s. greca 522 s. 907 e n. 23, 909, 933, 951 s.,
cn:p01:6ç, nel senso di «gente», 957, 1190, 1211, 1220, 1230,
«popolo» 165 n. 16. 1317 n. 12; - in Aristotele
Stratone 1405 e n. 119. 906 n. 20.
Stumpf, Karl 1181 n. 41. Teeteto 1219, 1221, 1227.
Sturz, Friedrich 775 n. 126. Telamone 393.
Suda 1219 n. 146, 1223 n. 158. Telemachia 65, 73 ss., 93; v.
suovetaurilia 26 n. anche Omero.
syssitia (v. paideia spartana); Telemaco 58, 61, 64, 73 ss. pas-
- approvati da Platone 993. sim, 94; 1290 n. 370.
Temisone 1481 n. 3.
Tacito 1752 n. 171. Temistocle 425, 501, 568, 644,
'tà Éavtoù npci't't:Etv, 846, 1044. 654, 903, 935, 943, 1496,
Talete 286, 290 s., 332, 806, 1585, 1593 n. 129.
1342 n. 6. Teocrito 86 n. 4.
'tcl't'tELV, 'tci1;1ç 299 e n. 50. teodicea, v. Religione greca,
Taylor, Alfred E. 712 n. 6, 722 problema della teodicea.
n. 21, 724, 726 n. 27, 754 n. Teodoro di Cirene 1221 s.
75, 755 n. 77, 791 n. 166, 853 Teofrasto 1253, 1405 e n. 119,
n. 37, 854 n. 39, 856 n. 42, 930 1635 n. 82.
n. 90, 1370 n. 48, 1706 n. 5, Teognide 272, Lib. I cap .. X
1708 n. 12, 1750 n. 155. passim, 404, 415, 487, 782,
Teagete 1156 n. 370. 964, 992, 1062, 1113 s., 1265,
teatro 434 ss., 572 s., 615; v. 1482, 1500, 1504, 1515, 1650
anche Tragedia, Commedia, n. 145, 1720 e n. 36, 1721,
e i singoli autori: Eschilo, 1755 n. 183; - sua poesia
Sofocle, ecc. gnomica Lib. I cap. X; - tra-
Tebe, Tebani 399, 669; - sua dizione del suo libro 346 ss.;
crescente potenza 1610 n. 17; - recitato nei simposii 347;
- ascesa sotto Epaminonda - aggiunte posteriori 347-
1813; - piano di egemonia 350; - l'eros in T. 347-348,
marittima 1814 n. 23; - 357 ss.; - apostrofe a Cimo
minaccia di T. contro Atene 348 s., 350 ss.; - strati-
1611n.18. ficazioni posteriori 34 7 ss.;
techne (v. anche paideia, retori- - il «sigillo» 350 ss.; - cro-
c~ 2~ 514,51~51~1419 n. nologia di T. 355; - accenni
1920 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

alle guerre persiane 355; - Theiler, Willy 735 n. 43, 1381


codificatore della tradizione n., 1384 nn., 1709 n. 12.
educativa aristocratica 356 themis 201 s.
ss., 496, 525; - e Solone 9epmteueiv 9eouç, «servizio di
360, 361, 367-370; - concet- Dio» 749 n. 66, 762, 812,
to di giustizia 361 s., 370 s.; 1063.
- ed Esiodo 361 s.; - par- 9erope'ìv = «sostenere la vista
zialità di Classe 361 ss.; - di...» 1125 s.
valore del termine àya0oç theor6i, «osservatori» della
363; - areté e condizione civiltà 1795.
economica 366 ss.; - proble- timocrazia 1254-1263, 1291.
ma della giustizia divina 369 Timoteo (v. Atene, Isocrate)
s.; - fede nell'aristocrazia 1481, 1485, 1499, 1532, 1533
del sangue 371 s. e n. 40, 1534, 1550 s., 1570-
teogonia 319 n. 95; v. Esiodo, 1576, 1609 n. 9, 1619 n. 39,
Omero, ecc. 1809 s.; - stratega nella
teologia (v. anche Dio, Pla- guerra sociale 1498 n. 63; -
tone): prima attestazione T. e la signoria della Grecia
della parola in Platone 1060 1524; - morte di T. 1551; -
n. 70, 1181; - t. dei presocra- T. e la politica interna atenie-
tici 1180 n. 39; - t. platonica se 1576.
1181 ss., 1204-1207; - con- Timoteo, musico 1076.
trapposizione di «t.» e «re- tiranni, tirannide 314, 393, 396,
ligione» 1205 s. Lib. 1 cap. XI passim, 686; -
Teopompo 1513. in Sicilia 401 e n. 1, 407; -
Teramene 1531 s., 1534. ad Atene, v. Pisistrato; -
Termopili 630. come fenomeno culturale
Terone di Agrigento 388, 392, 403 ss.; - come manifesta-
398. zione di individualismo 410
Terpandro 193, 1076. s.; - odio ai t. 408; - tiran-
Tersite 27 n. 4, 57, 97, 607, nicidi 412 e n. 27; - Trenta
1334. tiranni 695, 765 n. 91, 768,
Teseo 364, 1466. 850; - critica platonica 939
Tessali 1132. s., 1263, 1273, 1280-1288,
Tetide 43, 66, 630. 1290-1295.
Teucro 638. Tirteo 139, lib. I cap. V passim,
Teuth 1674. 196, 197, 206, 221, 223, 224,
Thamus 1674. 226, 264, 325, 344, 367, 415,
0eia µo'ìpa, 9eia i:ux11 982, 421, 496; 964 n. 3, 1033, 1040
1151, 1307. n. 32, 1066, 1125, 1127, 1329,
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1921

1626, 1718 e n. 31, 1719 n. 32, no umano 445; - dolore e


1720 e n. 36, 1738 e n. 109, conoscenza 450, 463 ss.; -
1739 n. 112, 1782 n. 298; - tragedie di argomento stori-
epigramma ellenistico su T. co 449 s.; - il coro come
190 n. 72. spettatore ideale 463; -
Tisandro di Afidna 920 n. 61. Nietzsche e la t. 463; - dife-
Titani 462. sa della tragedia antica in
tradizione, v. anche Aristo- Aristofane 633 ss.; - timore
crazia, Esiodo, Omero (tradi- e compassione, v. Eschilo; -
zione omerica); - autorìtà critica socratica e platonica
della tradizione a Sparta e della t. 801, 1061 s., 1316,
nella Ionia 187. 1322, 1332.
tragedia (v. anche i singoli Trasibulo di Agrigento, figlio
autori: Eschilo, Sofocle, Eu- di Senocrate 1290 n. 370.
ripide) 419-494, 565-603, Trasimaco 553, 1037, 1760 n.
655, 698 s.; - t. ed epica 425; 210.
- sua origine dal ditirambo Treitschke, Heinrich 1465.
431; - t. e mito 431, 438, 442 Triballi 1132.
ss.; - forma più antica di t. trilogia 445 ss.; - motivo del
431, 438 s.; - come manife- destino nella t. 446; -
stazione spirituale unitaria abbandono della t. 486.
432; - sua funzione politi- Troia 37, 41, 61, 62, 1211, 1303.
co-culturale 433; - sua 'tpoq)Tj v. Paideia.
influenza suggestiva sugli 'tUXT], v. 9eia µoipa.
spettatori 435 ss.; - riflessi Tucidide 111, 259, 352, 401,
nella commedia 433, 437; - 421, 433, 501, 503, 524, 526,
rappresentazioni nelle feste 540, 544, 545, 548 s., 569 s.,
di Dioniso 434 s.; chorodi- 579, 619, 641 ss., 691, 693,
daskalia 435; - linguaggio 694, 718 n. 17, 737, 770, 914
sublime 436 s.; - estasi dio- n. 44, 921, 928, 1109, 1254,
nisiaca 435, 437; - il coro 1278, 1279 n., 1308, 1346 e n.
diviene attore 438; - svolgi- 14, 1359, 1419, 1425, 1464,
mento della t. attica 438 ss., 1466, 1468, 1471, 1473 n. 40,
467 ss.; - sympatheia 439; 1474, 1503 e n. 77, 1510 e n.
- tyche 439; - definizioni 102, 1511 s., 1519, 1542 n. 66,
della t. greca 431, 440; - 1548 e n. 86, 1603, 1605,
rappresentazione del dolore 1632, 1806, 1809, 1812, 1829
440; - conoscenze geografi- e n. 52, 1836 n. 75, 1845; -
che nella t. 443; - miti pre- T. e Atene 1466, 1473 n. 40,
diletti 445; - idea del desti- 1474 e n. 42, 1845; - analisi
1922 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

della crisi sociale ateniese Pericle 679 ss.; - Pericle co-


569 s.; - necessità storica me uomo di stato ideale
645, 659, 660 ss., 665 n.. 47, 681; - arte di governo di
667, 1806; - formazione di Pericle 1503; - problema
T. come storico 645 s., 660 s.; della direzione politica in
- suo atteggiamento di fron- regime democratico 678 s.,
te al passato 646-648; - 684-686; - commemorazione
l'«archeologia» 647 ss.; data dei caduti 683; sua data di
di composizione 649 n. 15; - composizione 663 n. 41; -·
il problema della potenza data del proemio 644 n.. 5; -
648 s., 661 ss., 671 ss., 675 s.; in che senso la sua narrazio-
- sua esperienza diretta ne abbia carattere «tragico»
politico-militare 646; - fine 676 e n. 78; - senso della
pratico della sua opera 650 parola «filosofia» 1419; -
s.; - influsso su T. della concetto di cultura 1471; -
mentalità scientifica ionica T. come modello a Isocrate
651 e n. 19, 658-659; - ricer- 1464, 1510.
ca di leggi storiche uni- i:unoc;, i:unouv (v. anche Scopo)
versali 652 ss.; - concetto di 60 n.15.
storia come «possesso per Tyche (v. anche 9Eia µol:pa) 237
sempre» 1510; - concetto di s., 370, 439, 598 s., 1601; - T.
«natura umana» 1346; - dis- come disposizione divina
corsi 656-658, 662 ss., 668 ss.; 1685 s., 1689; - intervento
- dialogo dei Melii 656, 669, che vale a preservare la
671 ss.; - sulle cause della «natura filosofica» 1690 s.;
guerra 658 ss., 663 n. 41; - - T. come dominatrice della
concetto ab biettivo di vita umana 1759; - T. e gli
«causa» 658 s., 1346 n. 14; - «uomini divini» 1795.
excursus sulla pentecontetia
659 s., 663 n. 41; - sullo svi- Ueberweg, Friedrich 841 n. 8.
luppo della potenza d'Atene Ulisse, v. Odisseo.
661 ss.; - giudizio sulle for- Ulrico di Hutten 1115.
tune ateniesi 1809; - contra- umanismo, umanisti: umani-
sto fra il carattere ateniese e smo antistorico 16; - esi-
spartano 662 s. e passim; - genza di un nuovo umani-
allievo dei Sofisti 654 s., 658 smo 17 ss.; - uomo come
n. 31, 672, 674; - narrazione sc:.i?ov ltOAt'tlKOV 2, 18; -
della guerra 671 ss.; - «vita contemplativa» del tar-
spedizione di Sicilia 674 ss.; do umanismo greco 17; -
676 n. 78, 680 s.; - politica di ideale umanistico di cultura
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1923

nella polis 220; - nei Sofisti 24, 330; - in Parmenide 330;


513, 516, 536; - umanismo - libro di Antifonte sulla v.
moderno e antichità classica 557 s.
517-518; - differenti conce- Virgilio 222.
zioni dell'u. 518 s.; - u. e vita: parole greche che desi-
Cristianesimo 519, 527; - u. gnano questo concetto 1298
e indifferentismo religioso s.; - vita contemplativa
518; - «l'uomo come misura 1208, 1243; v. anche j3ioç,
di tutte le cose» 518; - u. Scelta della vita, Scopo della
consapevole e tradizione vita.
educativa greca 519 s.; - vocazione (concetto cristiano
Platone e l'u. sofistico 513, di - ), Beruf 516.
518, 520; - u. e problema Vogt, H. 1219 n. 146.
del valore supremo 513 n. volontà, volontarietà 800-802 e
35; - concetto di nobiltà n.181.
dell'uomo 31 n. 6; - sistema Vourveris, Konstantinos 1741
pedagogico umanistico 538- n.122.
544. Walzer, Richard 1734 n. 94.
umanità: Prometeo come sim- Wagner, Richard 708 n. 2.
bolo dell'u. 460. Welcker, Friedrich G. 420, 445.
universale (Ka96A.ou) 967, 970. Wellmann, Max 1351 n., 1353
uomo di stato (vedi anche n. 22, 1401 n. 108, 1404 n.
Città-stato), Lib. I cap. VIII 117.
passim, 681, 682; - forma- Wendland, Paul 1549 n. 87.
zione dell'uomo di stato, 501 Wilamowitz-Moellendorff,
s.; - come oratore 502; - Ulrich von 50, 382, 612, 711
Pericle come uomo di stato n. 5, 774 n. 124, 779 n. 135,
ideale 681. 825, 827, 832 n. 2, 833 nn.
"Yno9fìKm 66, 356 n. 16. 3-5, 841 n. 9, 847 n. 22, 857 n.
Urania 1004. 44, 866 n. 2, 899 n. 1, 900 n. 2,
Usener 1653 n. 5. 930 n. 90, 1430 n. 34, 1475 n.
utopie politiche in Grecia 1033 46, 1514 n. 108, 1531 n., 1653
s.; - carattere utopistico n. 5, 1679 n., 1698 n. 53, 1706
della Repubblica platonica n. 5, 1779.
1105. Wilcken, Ubrich 1805 n. 4, 1837
n. 77.
Vahlen, Johannes 1438. Winckelmann, J. J. 20.
Varrone 15, 1340. Woessner, Walter 1130 n. 289,
Venezia 414 n. 29. 1554.
Verità, aA.ft9eta 154, 292 e n. Wolf, Erwin 745 n. 60.
1924 INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Wolf, Hieronimus 1561 n. 9. Zeus 26 n. 1, 72, 82, 112, 131,


Woods, Virginia 1833 n. 66. 134, 138, 142, 143 s. e nn. 45
e 46, 173, 187, 242, 264, 269,
Zeller, Eduard 708, 709 n. 3, 270, 272, 275 n. 52, 300, 376,
720 n. 20, 723, 779 n. 134, 397, 422, 442, 444, 459, 462,
843, 1705. 463, 464 s., 474, 515, 592,
Zenone eleate 329, 578, 1221 631, 880, 1054, 1183 n. 42,
n. 151, 1452, 1590 n. 124, 1285.
1591 n. Zeusi 1442 n.
Zeto 920. Zeusippo 874.
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI CITATI

N.B. I numeri tra parentesi quadre si riferiscono alle pagine in


cui l'opera è citata in modo generico.

AGOSTINO A9 214, 267 n. 33, 299-300


De civitate Dei e nn. 46-54, 338-339
AlO 298
[817, 1181 n. 40 (lib. VIII)]
All 296,298
Soliloquia A15 298, 302 e n. 57
[239 n. 44] Bl v.A9
ALCEO ANASSIMENE
Fragmenta (Diehl) Testimonia et fragmenta
(Diels-Kranz)
30 250
B2 298, 301 e i:t. 55
ALCMEONE
Fragmenta (Diels-Kranz) ANDOCIDE

4 1370 Contra Alcibiadem


ALESSANDRO DI AFRODISIA 11 299 n. 50
In Aristotelis Metaphysica ANECDOTA GRAECA (Bekker)
Vl, 1024 b 33 1452 n. 90 733, 13 152 n. 60

ANASSAGORA ANONIMO

Fragmenta (Diels-Kranz) De .sub limitate


B9 290 44, 1 390 e n. 99

ANASSIMANDRO ANONIMO
Testimonia et fragmenttl In Aristotelis Ethicam
(Diels-Kranz) Nichomacheam
A6 295 n. 27, 296 145 420 n. 4
1926 ll\TIICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

ANONIMO 54 224 e n. 5
Vita Aeschyli 56 250 n. 74
II 420-21, 437 58 237, 246 n. 65
60 224 e n. 5, 235
.ANONYMUS lAMBLICfil 64 224 e n. 5, 230 e n. 18
(Diels-Kranz) 65 230 e n.18
2 1042 n. 35 67 a 238 e n. 43
67 a, 7 239 n. 46, 240 e n. 48
ANTIFONTE
68 231, 237 n. 41, 246 n. 65
Fragmenta (Diels-Kranz) 73 238 n. 41
B 10 780 n. 136 79 236 e n. 34
B44A 557-58, 206 n. 23 79, 12 ss. 236 e n. 36
B 44, A 4, 1 ss. 928 81 232
B 44 A, col. 1, 6 559 n.116 85 224en.5
B 44 A, col. 2, 26 559 88 235
B 44 A, col. 4, 5 559 88,4 224en.5
B 44 A, col. 4, 9 ss. 561 89 232
94 200 n. 11, 224
APOLLONIO RODIO 96 236 e n. 37
Argo nautica 109 224 e n. 5

IV 1726 233 n. 28 ARISTOFANE

ARCHILOCO Acharnenses
Fragmenta (Diehl) [620 e n. 29]
1 226 10 572
2 227 11 435 n. 25
3 227 e n. 8 395 ss. 601
6b 227-228 411-479 585 n. 30
7 237 454 602
7, 1-2 224en.5 530-531 617-18
7, 7 275 n. 52 738 613
8 237, 246 n. 65
9 224 e n. 5, 229-230 Aves
12-14 280 [623]
17 280 992 ss. 577-78
19 280 1035 560
22 238 e n. 42, 404 n. 8, 913
49 1180 n. 37 Babylonii
52 224 e n. 5 [618-19, 620 e n. 29]
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANT'IcHI 1927

Convivae 1309 ss. 595 n. 48


[623-25, 1635] 1491 ss. 632-33
1500-1503 640
Ecclesiazusae
[854 e n. 39] ARISTOTELE

Equites Analytica posteriora

[619, 620 ss.] II 13, 97b15 44


II 13, 97 b 16-25 815 n. 209
507 ss. 612
525 ss. 612 Atheniensium constitutio
535 612 [258 n. 8, 406, 1514 n. 108)
539 613 2, 2 405
Nubes 4 261n.9
[624 ss., 1543, 1778] 6 260 n. 6, 266 n. 26
13 260 n. 6
537 ss. 614
13, 1 403
549 614
13, 4-5 403
887 632n.42
14 403
889 ss. 627-28
16 408-9
961 ss. 628 e n. 36
16, 5 409
1036 ss. 629
16, 6 409
Pax 16, 7 409
[620 n. 29] 18, 1 412
Ranae 25, 1-2 1531n. 34
25-26 425
[616, 636 ss.]
27, 1 1757-58
52 ss. 572-73 28 406 n.13
82 478,481 35, 2 1531
790 467
De partibus animalium
830 ss. 573
840 420en.1 I 1, 639a1 1359
886-87 420 Il, 642 a28 722 n. 21, 737
1004 436 en.47
1008 636 III 10, 673 a 8 607
1009 637 III 10, 673 a 28 607
1032 ss. 311n.80 De sensu et sensibili
1043-1044 638
1, 437 a 5 1079 e n.115
1054-1056 638
1060 ss. 638 De somniis
1069 ss. 639 [1403]
1928 INDICE DEI PASSI PEGLI AUTORI ANTICID

Ethica Eudemia IX 8, 1168 b 1 1014 n. 69


I 6, 1216 b 40 1749 IX 8, 1168 b 27 1013 n. 68
VIII 3, 1248 b 8 1150 n. 345 IX 8, 1168 b 27 46, 1013 n. 68
VIII 15 45 n. 35 IX 8, 1169 a 18 ss. 47
IX 8, 1169 a 21 1013 n. 68
Ethica Nichomachea X 1-5 247 n. 69
[36 n. 15 (lib. IV), 247 n. 69 X 6, 1176 b 23 ss. 1240
(VIII), 325 n. 125 (VI), 504 X7 1208 n. 108, 1300
(VI), 988, 1150 n. 345, 1223, X 7, 1177 b 1 779 n. 134
1734) X 7, 1177 b 30-33 1205
X8 1300
I 1, 1094 a 27 789
X 10 789
I 2, 1095b10 148
X 10, 1179 b 10 45 n. 35
I 5, 109.5 b 26 39
X 10, 1180 a 15 ss. 213 n. 38
I 12 41n.25
X 10, 1180 a 24 ss. 210, 1049,
I 12, 1102 a 4 41n.25
1632 n. 73
II 2, 1104 a 9 1337 e n. 58
X 10, 1180 a 26 1210 n.112
II 2, 1104 b 8 795 n.172
X 10, 1180 b 7 1337
II 7, 1108 a 26 1635 n. 82
II 7, 1108 a 31 ss. 36 n. 15 Historia animalium
III 1, 1109 b 30 40 [641 n.1]
III 2-3 800 e n. 181
III, 3, 512 b 12-513 a 7 1352 e
III 2, 1111 a 10 420
n.20
III 5, 1112 b 5 1337 e n. 58
IVl 367 n. 42 Magna moralia
IV 1-6 35 n. 14, 1264 e n. 292 [1734)
IV4 43 n. 31, 367 n. 42 Metaphysica
IV7 104 n. 24
[332 n. 151, 861 (lib. XIII-XIV),
IV 7, 1124a1 44
IV 7, 1124 a4 45 n. 35 1591 n.125)
IV 7, 1123 b 35 45 Il, 981a5 906 e n. 20
IV 7-9 43 e n. 32 I 1, 981a12 906 n. 21
IV 15 36 n. 15 I 2, 982 b 28 ss. 763-64, 1205
V 3, 1129 b 27 208 I 2, 983 a 1 290 n. 20
VI 13, 1144 b 17 ss. 795 e n. 172 I 3, 983 b 6 ss. 298 n. 39
VIII 1, 1155 a 33 ss. 988 I 3, 983 b 30 286 n. 5
VIII 14, 1163 b 16 26 n. 1 I 3, 984 a 3 577 n. 24
IX 4, 1166 a 1 ss. 1014 e n. 69 I 3, 984 b 8 ss. 1203
IX 4, 1166 a 20 1013 n. 68 I 4, 985b16 241
IX 8 46, 1013 e n. 68 I 5, 985 b 23 304, 306 n. 72
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1929

I 5, 985 b 27 305 6, 1450 b 7 422


I 5, 985 b 27 ss. 306 13, 1453a18 445
I 5, 986 a 1 ss 307 n. 75, 308 25, 1460 b 34 476
I 5, 986 a 15 ss. 305 Politica
I 5, 986 a 30 306 n. 72
[1250 n. 244 (lib. IV), 1307 n.
16 1222
431 (l. II)]
I 6, 987 a 32 835
I 6, 987 a 32-b 10 722 n. 21, I 2, 1252b10 63 n. 24
737 e n. 47, I2,1253a3 218-219 e n. 54
857-58 I 2, 1259 a 6 291n.21
I 6, 987 b 1789, 791, 968, 1203 1.2, 1259 a 19 1260 e n. 276
I 9, 990 b 1 968 I 2, 1259 a 25 1260 e n. 276
I 9, 992 a 32 1749 II 1, 1260 b 1254 n. 259
II 3, 995 a 9 ss. 1075 n.104 II 7-8 1033
II 4, 1000 a 18 138 n. 32, II 7, 1266 b 29-33 1034
286 n. 6 II 8 578
III 3, 1005 a 20 1749 II 8, 1268 b 26 ss. 560
V 29, 1024 b 33 1452 n. 90 II 9 162
VI 1, 1026 a 19 1204 e n. 94 II 9 ss. 1262 e n. 284
XII 8, 1073 b 32 1216 n. 137, II 9, 1269 b 12 ss. 1106
1223 n. 157 II 9, 1269 b 17 ss. 194 n. 79
XIII 4, 1078 b 17-32 722 n. 21, Il 9, 1269 b 37 1106
737 e n. 47, 968 Il 9, 1270 a 194 n. 79
XIII 3, 1078 b 18 791 Il 9, 1271 b 1 ss. 163
XIII 3, 1078 b 25 1228 n. 166 II 9-11 1254 n. 259
XIII 3, 1078 b 27 791 Il 13 201n.13
XIII 9, 1086 b 2-7 722 n. 21, III 1, 1275 b 3 212
737 e n. 47 III 4 1311n.435
III 7 1247
Physica
III 7, 1279 b 4-10 1272 e n. 325
[332 n. 151] III 11, 1282 a 1-7 1360
III 7, 207 b 35 298 III 14, 1285 a 37 250 n. 73
III 15, 1285 b 1 411n.24
Poetica
III 17, 1287 b 39 408 n. 17
[177 n. 41, 425 n. 17] III 17, 1288 a 28 408
2, 1448a1 606-7 IVl 1246-47
4, 1448 b 24 606-7 IV 4, 1291 b 15 ss. 1272 e n. 325
5, 1449 a 37 ss. 609 VI 2, 1324 a 16 808 n. 193
5, 1449 b 24 ss. 441n.34 VII 5, 1327 a 1 1120 n. 255
6, 1450a10 437 n. 28 VII 8-9 1126
1930 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICill

VII 4, 1326 a 15 1349 n.16 80 236 n. 38


VII 7, 1327 b 29-33 1461; 1745 544 163 n.13
n.139 658 1129 n. 283
VII 7, 1327 b 32 1848 666 39 n. 21
VII 11, 1331 a 1 1124 675 815 n. 209
VII 16 ss. 372 n. 61 ARRIANO
VIII 1, 1337 a 14 212 n. 36
Anabasis Alexandri
VIII 2, 1337 b 8 1362 n. 37
VIII 2, 1337 b 15 1362 e n. 37 I 12, 3-4 1615 n. 29
VIII 2, 1337 b 25 1079 ATENEO
VIII 5 1078 Deipnosophistae
VIII 5, 1340 a 18-30 10'78
I 3 ss. 993 n.14
VIII 5, 1340 a 30 ss. 1078-79
I 22 a-b 482-83
VIII 5, 1340 a 36 1079
X413 e 377 n. 72
Protrepticus XIII 603 e 479-80
[535 e n. 72, 1208, 1254 n. 259, XIV, 636 e 1076
1481, 1714 e n. 24] BACCillLIDE

Rhetorica Fragmenta (Diehl)


[1586 n. 111] 17, 2 196 n. 4
I 5, 1361b5 1394 e n. 93 BASILIO
III 1, 9 134 n. 31 Oratio ad juvenes, quo ratione
III 7, 1408 a 32 1635 n. 82 cum fructu legere possint
III 14, 1414 b 26 1452 n. 89 Graecorum libros
III 17, 1418 b 28 238 n. 42
[87 n. 7]
Fragmenta (Rose) CATONE
[158 n. 4 (Politeiai), 315 n. 86 De agricoltura
(Eudemus e De philosophia),
1185 n. 49 (Carmina), 1586 n. 141 26 n.1
111, 1587 n. 112 (Grillus)] CELSO (A. CORNELIO)
7 412 De medicina
10 1403 n. 115 I proem. 6 1342 n. 6
15 756 n. 78
26 1183 n. 41 CICERONE
45 966 n. 11, 1383 n. 70 Brutus
52 1367 n. 43
28 1429 n. 28
60 299 n. 49
73 716 Somnium Scipionis
79 1185 [185 n. 63]
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1931

De natura deorum 33 1355 n. 23


I 13, 33 1183 n. 41 45 1355 n. 23
De aere
De oratore
1-2 1397 n. 98
[1669 e n. 59]
12 1345 nn. 11 e 12, 1382
I, 7-10 13 n. 2 e n. 69
III 57 38 n.19 16 1101 n.190
De Republica De alimentibus
[1603]
15 1388
I 10, 15-16 737 n. 47 39 1386 e n.80
I 10, 16 716-17 e n. 12 De arte
Orationes [1358]
8, 24 ss. 1737 1 1356 n. 25
9, 28 1737 De carnibus
13, 42 1656 n.10
12-13 1344 n. 9
Tusculanae disputationes
De corde
V3,8 1160 n. 375 [1384]
V4, 10 737-38
De flatibus
CLEMENTE ALESSANDRINO
1 1355 n. 23
Stromata 2 1376 n. 56
II 60, 3 420 n. 4 De hebdomadibus
V81, 1 281 n. 73
5 1344 n. 9
CORNELIO NEPOTE
De locis in homine
Themistodes
26 1382 n. 69
5 421
De morbo sacro
CORPUS HIPPOCRATICUM
[1356 n. 25]
Aphorismi 1 1347
Il 1369 e n. 47 21 1347

De aere, aquis, locis De natura hominis


[302 n. 59, 597 n. 49, 1346-47] [1356 n. 25, 1358, 1371, 1375,
1391]
De affectibus 1-8 1352 n. 20
[1390] 4 1382 e n. 69
1 1355 n. 23, 1358 n. 27 11 1352 n. 20
1932 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICID

De veteri medicina De victu acutis


[1356 n. 25, 1361 n. 46, 1374 ss., [1375]
1391 ss.] 1 1353 e n. 21
1 1356 n. 25 3 1376 e n. 56
1 ss. 1365 6 1355 n. 23
1-2 1355 n. 23 8 1355 n. 23, 1356 n. 25
2 1357-58 15 1345 n. 11, 1383
4 1366 17 1345 n.11
5 1366, 1382 e n. 68 18 1345 n. 11
8-9 1366 57 1383
9 1366 e n. 42, 1337 e n. 58, De victu salutis
1382 e n. 68 [1389 ss.]
12 737, 1356 n. 25, 1365,
1 1355 n. 23
1370 e n. 49
7 1391n.36
14 1345 n. 12, 1370 e n.
50, 1382 e n. 69 Epidemiae
15 1370 e n. 50, 1371 n. [1350 n. 17, 1353 n. 21, 1368 ss.,
52, 1377 e n. 57 1375]
20 737, 1367 e n. 43, 1368, VI 3, 18 1394 e n. 93
1394 n. 90, 1396-97 e n. 97 VIS 1385 e n. 78
23 1370 e n. 49 VI 5, 5 1387 e n. 83, 1397
De victu Lex
[1356 n. 25, 1371, 1389 ss.] 3 536 n. 73, 1387 n. 82

I 1003 CORPUS MEDICORUM


Il 1399 n. 104, 1404 GRAECORUM

I2 1393-97 e nn. 90, 96 e 98 I 1, 4 1351-52


I 8-9 1382 n. 69 I 1, 8 1355
I 11 1384 V9, 1 1352 n. 20
I 15 1384
II 37 1393 n. 39 CRIZIA

II 39 1393 n. 39 Fragmenta (Diels-Kranz)


II 51 1397 n. 97 B6 1722
II 61 1388 n. 83, 1397-98 B25 562
II 65 1398 B 32 1114, 1772
III 68 1355 n. 23, 1411 n. 127 B 44 227 nn. 10 e 11
III 69 1382 e n. 68, 1411 n.127 B 48 586
IVl 1403 e n. 115 B 53 ss. 1619 n. 40
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1933

DE DIFFERENTIIS COMICORUM 13 1827 n. 46


25 ss. 1842-43
3 0~05
32 1616 e n. 30
DEMETRIO
36 1827 e n. 46
De stylo
De corona
4 1369 n. 47
[1819 n. 31, 1843 n. 97, 1847]
DEMOCRITO
66 ss. 1843 n. 98
Fragmenta (Diels·Kranz) 67-68 1832 n. 64
B 116 578 145 ss. 1845 n.100
B 261 1345 n. 11 169 1620
B 264 563 170 176
ÙEMOSTENE
206-208 1848-49
234 1551
Adversus Androtionem
De pace
[1817 e n: 29, 1818 n. 30, 1826
n. 44] [1835 e n. 70; 1836]
51 1484-85 e n. 15 12 1836 n. 75
14 1835
Adversus Aphobum
25 1835
[1817 n. 28] 69 1843 e n. 95
Adversus Aristocratem Olynthiacae
[1820 e n. 33, 1823, 1826 n. 44] [1826 n. 44 (or. III), 1831 n. 59
102-103 1824 n. 39 (I), 1836]
260 ss. 1826 e n. 45 11 1829 n. 52
Adversus Leptinem I 12-13 1832 n. 64
[1817 e n. 29, 1818 n. 30] I 13 1825 n. 41
116-18 1831 n. 58
Adversus Onetorem
I 24 1831 ri. 59
[1817 n. 28] II 3 1831 n. 60
Adversus Timocratem II 5 ss. 1831-32
[1817 e n. 29, 1818 n. 30] II 22 1832 e n. 64, 1836
III 4 1831en.56
De Chersoneso III 5 1825
[1841] III 25 ss. 1826 n. 45
De classibus Philippicae
[1819 e n. 31, 1826 n. 44, 1827 e [1778-79 (I), 1827 e n. 48, 1831 ri.
n. 47, 1835] 56 (I), 1836 (I), 1840 CID, 1841
9 1616 e n. 30 (III), 1843 n. 97, 1846, 1847]
1934 INDicÈ DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

Il 1827 e n. 49 DIDIMO
12 1829 De Demostene commenta
I3 1830 (Diels-Schubart)
I4 1830 col. 5, 52 1484 n.14
I 5, 10 1832 n. 64
I 10-11 1831 n. 56 DIOCLE DI CARISTO
I 16-29 1831en.58 Fragmenta (Wellmann)
I 20 1046 n. 47 112 1407 e n.124
I 35 772 n. 117, 1723 n. 55 141 1398, 1405, 1408 ss.
I 42 1829 n. 52 147 1398
I 47 1046 n. 47 177 1344 n. 9
II 19 ss. 1839 DIODORO
II 27 1839 n. 81
Bib liotheca historica
III 33 1841
III 41 ss. 1841n.92 XV47 1480 n. 2
III 49-52 1845 e n. 100 DIOGENE DI APOLLONIA
III 53-55 1841-42
Fragmenta (Diels-Kranz)
III 56-62 1842
III 63, ss. 1842 B5 1385 e n. 79
III 68 1842 B7 1385 n. 79
III 69 1842 B8 1385 n. 79
III 70 1842 DIOGENE LAERZIO
IV 34 1839 n. 80 Vitae philosophorum
IV 31-34 1845 e n.101
I 51 ss. 268 n. 35
IV 35-45 1846
I 68 166 n.18
IV52 1845 e n.101
II 7 290
Pro Megalopolitis II 23 730
[1820-21 e nn. 33-34, 1822 n. 36, II 39 1609 n.10
1824 n. 39, 1835] II 55 1482 n. 9
II 62 1437 n. 52
1-4 1840 II 65 1437 n. 52
Pro Rhodiorum libertate II 80 1437 n. 52
II 116 805
[1820 n. 33, 1822, 1824, 1835]
III 6 813, 1221, 1222 n. 154
8-10 1823 III 34 1752
13 1823 III 37 1708 n.12
15-16 1823 n. 37 III 38 i651 n. 2, 1656 n. 10
25 1823 V 52 784 n. 148
VI14 1437 n. 52
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIClil 1935

VIII 26 311n.80 ENEA TATIICO


IX18 318,321 Strategica
IX20 222 n.1, 321 10,10 1796 n. 359
LIII, 37 715
ENNIO
DIONE DI PRUSA Poesis reliquiae (Vahlen)
Orationes p.191 547
XXXIII 11 96 s. EPICARMO
XXXIII 12 231
Fragmenta (Diels-Kranz)
DIONIGI DI ALICARNASSO B 4, 6-7 495 n. 1, 1386 e n. 81
B 20 314
AdAmmaeum
EPICRATE
4 1831 n. 56
De Isocrate Fragmenta (Kock)
1 1531-32 287 1125, 1400
18 1429 e nn. 28 e 31, 1562 ERACLITO
n. 16
Fragmenta (Diels-Kranz)
De Thucidide
10 ss. 670 n. 58 Bl 291, 333 n. 152, 335 e n.
158, 336 n. 162, 338
B2 13, 215 n. 45, 333 n. 152,
Drssor LOGOI (DIALEXEIS)
336 n. 161, 336 n. 166, 337
(Diels-Kranz)
B8 339
6 897 n. 97 B 10 340 n. 183
18 539 e n. 78 B30 333 e n. 153, 338 n. 171
B 31 338 n. 171, 339
ECATEO
B 32 338,341
Fragmenta
B 33 341
(Frag. Gr. Hist., ed. Miiller)
B 34 336 n.162
la 291 B 36 342 e n.191
ELIANO
B 40 303 e n. 63, 334 e n. 154
B 42 230 n. 18, 234 n. 29
Varia historia
B 44 213
VIII 10 26 n.1 B 45 334
B 50 339
EMPEDOCLE
B 51 339-340 e nn. 184-185
Fragmenta (Diels-Kranz) B 53 339,552
B 115, 23 316 B 56 336 n.163
B 129 316 B 62 339
1936 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIC!Il

B 64 338 n. 171 I 207 240


B 65 338 n. 171 II 33 297
B 67 339 e n. 175 II 53 319 e n. 95
B 67a 1383 n. 72 II 81 304 n. 66, 311 n. 80
B 73 335 e n. 158, 336 n. 162 III 80 1035 n. 18
B 75 333 e n. 153, 336 n. 162 IV 49 297
B 77 342 e n.191 IV49 297
B 84 339 IV 95 304
B 88 339 V67 376
B 89 333 e n. 153, 336-337 VI21 436 e n. 26
B 90 339 VII 6 412
B 92 336 n.163 VII 102 122
B 93 336 n.163 ESCHILO
B 101 334 e n. 155
Orestea
B 112 335 e n. 158, 335 n.
161,338 [453 ss., 464-65]
B 113 336 nn. 161 e 166 Agamemnon
B 114 301 n. 54, 336 n. 161 [461]
e 166, 337, 338, 341, 500-1
160 464
B 116 336 n.161
176 341n.189
B 117 342 e n. 191
249 423 n. 14
B 118 342 e n. 191
810 ss. 423 n. 14
B 119 108, 335, 452, 1296
921 ss. 442
B 123 336
1547 141n.41
ERATOSTENE
Danaides
De comoedia
fr. 44 137 n. 31
[399 n. 124]
Eumenides
ERODOTO [444, 456, 1468]
Historiae 490 ss. 26 n. l
15 240 n. 47 491 26 n. l
18 1108 511 26 n.1
I 29 ss. 278 539 26 n. l
I 30 278 e n. 62 534-549 26 n. l
I 59 403 691 424 n.14
I 65 166 n. 18 698 424 n. 14
I 65 ss. 169 n. 25, 170 n. 26 916 ss. 26 n. 1, 422, 444 n. 44
I 74 291n.21 980-987 1459
1170 291n.21 985 1120 n. 254
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1937

Persae 546 462


[449 ss., 456 ss., 1274] 550-552 462 n. 79
553 ss. 462-65
41 196 n. 4 790 ss. 443 n. 41
103-113 1758 e n. 200 944 443 e n. 39
107-116 451 1011 443 n. 39
164 1296 1039 443 e n. 39
739 ss. 1752 1071 451-52
747 240 e n. 50
Septem contra Thebas
800 ss. 1759
818 450-51 [444, 455 ss.]
825 1296 18 31 e n. 7, 495 e n. 1,
Prometheus liberatus 1080 n. 122, 1387 n. 81
610 207-208 e n. 27
[461, 462]
592 562 e n. 123
Prometheus vinctus 792 ss. 457 e n. 65
[442, 446, 458 ss., 515] 953 452
1005 ss. 454 n. 59
28 460 n. 75
35 1485 n. 15 Supplices
45 1355 n. 23 [438, 457 ss., 461]
62 443 e n. 39 86 ss. 422
197-241 443 368 ss. 442
212-213 462 517 442
235 ss. 460 n. 75 600 ss. 442
241 240 e n. 50 624 ss. 444 n. 44
254 459 n. 69 698-709 26 n. l
266 458 524 ss. 422
276 275 n. 52 708 26 n. l
307 ss. 444 e n. 42 709 26 n. l
441 ss. 459 n. 69, 460 n. 75 911-917 897 n. 97
459 306 e n. 74, 443 n. 39
Fragmenta (Nauck)
470 443 n. 39
506 320 n. 109, 459 n. 69 191 462 n. 81
507 460 n. 75 192 462 n. 81
514 461 e n. 78 192-199 443 n. 41
515-525 461
ES CHINE
516 461-62
526 ss. 462 n. 79 De falsa legatione
542 460 n. 75 14-15, 56 1834 n. 69
1938 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICTII

Contra Timarchum 213 ss. 125, 265 n. 20


141 1055 218 450 e n. 53, 653
ESIODO
219 ss. 142
221 125
Opera et dies
225 ss. 265 n. 20, 266 n. 23,
[29 n.6, 121ss.,178 ss., 256, 357, 1040 n. 32
362] 236 123 n. 2
1 ss. 134 n. 31 238 ss. 265 n. 20, 266 n. 23
10 154 248 125, 142
11 139 n. 37 252 144 n. 46
11 ss. 134 e n. 25, 998 256-260 144 n. 46
19 135 n. 26, 296 n. 31 262 125
27 142 264 125
27 ss. 131 274 ss. 142
27-39 125 276 515
39 125 286-297 132 n. 31
40 135, 201, 243 n. 56 293 147-148
41 ss. 138 298 ss. 132 n. 31, 135 n. 28,
48 129 n.16 149, 216
56-105 139 n. 35 311 ss. 149
58 243 312-313 146 n. 51
63 146 n. 51 313 367 e n. 43
81 ss. 129 320 123 n. 2
83 233 n. 26 373 63 n. 24, 233 n. 26
90 ss. 459 381-382 146 n. 51
90-92 139 n. 35 383 146 n. 51
100 242 405 63 n. 24
106 140,142 493 125
122 ss. 144 n. 46 501 125en.5
147 154 597 124 n. 4
174 153 602 124 n. 4
183 ss. 25 n.1 618-694 122 n. 2
197-201 126 633 ss. 145,.153
199 1543 n. 68 678 122 n. 2
202 141 682 122 n. 2
202 ss. 132 695 ss. 63 n. 24
206 ss. 146 760 125en.6
207 141 761 125en.6
213 142 763 125 e n. 5, 229 n. 15
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1939

Theogonia Hecuba
1-21 123 n. 3 785 598-99
22 ss. 123 n. 3, 153 864 598
27 154 Helena
81 ss. 502
[599]
99 ss. 380 n. 74
120 ss. 136, 137 e n. 31, 1001 Hercules
226 135 n. 25 [593 e n. 42]
521 459 e n. 70 745-46 e n. 61
673 ss.
535 ss. 130 n. 16 780 n.136
1345
585 ss. 129
590 233 n. 26 Hippolytus
590-612 63 n. 24 [597]
591 ss. 129 73 ss. 595
616 459 e n. 70 433 588
728 296 n. 31 952 ss. 311 n. 80
812 296 n. 31
Iphigenia Aulidensis
869 ss. 145
869-877 123 n. 2 [599]
902 134 n. 31,.145, 267 Ion
[599-600]
EUCLIDE
Medea
Elementa
[597]
[1219enn.146e148 (lib. XIII)]
230 ss. 585 e n. 31
824 ss. 596 e n. 49, 602,
EUPOLI
1469-70
Adulatores
Orestes
[624]
Demi [586]
[636 n. 45] Phoenissae
[600]
EURIPIDE
521-525 456 n. 63
Andromacha
535 ss. 552-53
[594 e n. 45]
Supplices
Antiope
[455 n. 60, 594 e n. 451
[26 n. 1, 920]
311 26 n. l
Bacchae 399-408 553 n.106
[434, 455 n. 59, 595-96, 601] 521-525 593 n. 44
1940 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIOil

526 26 n.1 De vita Pythagorica


671 26 n.1 (Deubner)
Troades 138, 3-5 1289

[593 e n. 43) GORGIA

884 ss. 592 Helenae encomium


914 588 (Diels-Kranz)
948 590 e n. 38
15 590 n. 38
Fragmenta (Nauck)
IPPIA
282 325 n. 126
663 602 Testimonia (Diels-Kranz)
796 1586 e n.111 A 1-12 539 e n. 77
910 651 A 11-12 541
1047 397, 603 ISOCRATE

FERECIDE Ad Nicoclem
Fragmenta (Diels-Kranz) [1526, 1544, 1565 ss.]
2 296 n. 31 4 398 n.123
FILODEMO
8 1484 n.14
Poetica 12 1500 e n. 71, 1501 e n. 72
14 1501
(87 n. 8)
15 1502 e n. 74
Rhetorica (Sudhaus) 16 1503, 1503 n. 79
II 50 1586 n.111 17 1503 n. 80, 1504
18 1504
FOCILIDE
20 1505-6
Fragmenta (Diehl) 21 1506
10 207 22 1506
23 1484 n. 14, 1506
GELLIO
24 1506
Noctes Atticae 25 1506
XIII 17 15 n. 6, 1502 n. 75 26 1506-7
27 1507
GIAMBLICO 28 1507
29 1507 e n. 92
Protrepticus
30 1507-8
[536 n. 72) 31 1508
51, 8 290 31 ss. 1525
51, 13 290 n. 18 34 1508 e n. 95
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIOil 1941

35 1509 e n. 99, 1512 n. 105 16-17 1671


39 1507 n. 92 17 1435 n. 46, 1445,
40-41 1515 1446 e n. 80
42-43 1514 18 1445-46 e n. 78, 1563
43 356 n. 16, 510 n. 26, 19 ss. 1562
1482,1515 19-20 1449, 1516
44 775 n. 126, 1514 20 1449
45 1514 21 1449, 1500, 1571 e n.
48-49 1514 49, 1595 e n. 134
51 1516 e n.113
Aegineticus
52, 53 1516
(1429 n. 32]
Adversus Sophistas
(921 n. 63, 1426 n. 25, 1430 ss., Antidosis
1454, 1579 ss., 1656] (1428, 1432 n. 37, 1480, 1704]
1 1410 n. 13, 1431-32 e 1 1462 n.11
n. 37, 1443-44 2 1429, 1442 n. 69, 1562
2 1431 n. 36, 1432-33 3 1457 n.1
2-4 1433 4-5 1559-60
4 1500 6 1561-62 e n. 13
5 1433 6-8 1560
6 1436,1500 7 1561 n.12
7 1436, 1655 n. 7 8 1524 n. 14, 1560 n. 4,
8 1436-37 e nn. 52-54, 1560-61
1443-44, 1589 n. 119 9 1559 n. 1, 1561
9 1438-39 e nn. 56, 57 e 60 10 1560, 1562 n. 13
9-10 1419 n.12 11-12 1560 e n. 6
10 1439 13 1524 n. 14, 1560 n. 4
11 1431n.36 30 1562 e n.14
12 1431 n. 36, 1441, 1668 38 ss. 1562 n.14
n.57 39 1563
12 ss. 1440 40 1479 n. 1, 1565, 1577
13 1441 e n. 67 41 1563
14 1444 46 1562-63
14-15 1500, 1512 n. 105, 46-47 1563
1583 n. 97 48 1563
14-18 1582 n. 89 54 ss. 1563 e n. 22
15 1444 57 ss. 1564 e n. 26
16 1560 n. 6 62 ss. 1565
16 ss. 1668 e n. 57 67-70 1565-66
16 1445 70 1566 e n. 36
1942 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

84 1567-68 188 1512 n.105


85 1568 191 1512 n.105
95-96 1569-70 192 1512 n.105
98 ss. 1570 193 1430 n. 34
104 1570 194 1582 e n. 89
107 1572 196 55. 1582
108-113 1572 197 1582
114-117 1572-73 198 1582
117-118 1573 199-201 1583
119 1573 201-204 1583 e n. 97
121 1573 205-206 1583
121-124 1573 209-214 1583
128 1573 215 1584 n. 99
130 1574 215 S5. 1434 n. 45
131 1533, 1574,1609n.9 217 55. 1584 n. 99
132 1574 220 1584
133 1575 221-222 1584
134 1576 223-224 1584
135 1576 224-226 1584
136 1576 230-236 1585
138 1576 233-234 1593 n.129
140 S5. 1576-77 251-252 1585
141 1577 e n. 69 253-257 1585 e n.108
145 ss. 1577 e n. 72 258 1588 n.155
155 1418 n. 11, 1578 n. 74 258 1585-86
156 1578 e n. 74 259 1586
157 1577-78 261 1589 e n. 116
158 1578 e n. 74 262 1437 n. 53, 1589
159 ss. 1577 263-265 1589
161 1429 n. 28, 1578 n. 77 265 543
164 1578 266 1589, 1590 n. 122
168 1579 268 1590 e n.123
174 1579 268-269 1590 e n.124
175 1580 270 1410 n.13
178 1410 n.12 270 ss. 1591-92
180-181 1580 271 1592 e n.128
182-183 1581en.86 274 1593
184 1581n.86 274-275 1594 e n.132
187 ss. 1582 275 1595 e n. 133, 1596 n. 138
187 1512 n.105 276-277 1595
lNDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1943

278 1596 17 1573 n. 56


281 1596 n.138 20 1278 n. 342, 1528 n. 22
282 1597 e n. 140 21 1528, 1566 n. 37
283 1597 n. 140 21-22 1272 n. 324
285 1591n.125, 1597 e n. 140 22 1528 e n. 24
286-290 1597-98 e n. 141 24 1268 n. 305, 1529 e n. 25
291-319 1600 n. 146 25 1529
293 ss. 1599 e n. 144 26 1529
295-297 1599 e n.144 27 1529 e n. 28
296 1593-94, 1598-99 29 1535
297-298 1599 30 1535
299-301 1600 n.147 31-32 1536-37
300 1485 e n.15 33-35 1537, 1577 n. 71
302 1599 e n. 144 36-37 1537
304 1598 n.141 37 1538 e n. 51
306-308 1601 n.148 38 1538
39 1538
Archidamus
39-40 1539
[1480, 1746] 40 ss. 213 n. 40
41-42 1539
Areopagiticus
43 1540
[1424 n. 21, 1514, 1517 ss., 1546 44 1540
ss., 1600, 1602, 1610 e n.16, 44-45 1541en.62
1753 e n. 177, 1758 e nn.
46 1542
196-197, 1816]
47 1542 e n. 66
1-2 1519 48 1543 e n. 68
3 1519-20 48-49 1542-43 e nn. 69-70
4-5 1520 48-49 1540 n. 59
3-13 1545-46 50 1540 n. 59, 1556 n. 107
5 1521 56-59 1530, 1534 n. 41
6-7 1520-21 56 ss. 1577 n. 71
7 1521 57 1533, 1544, 1560 e
8 1521, 1573 n. 56 n. 3, 1609 n. 9
8-10 1523 58-59 1545
9-10 1524 e n.14 60 1545
12 1524, 1532 61 1545
13 1526 62 1545
14 1524-25 63 ss. 1545
15 1525, 1547 n. 82, 1576 64 1546
16 1526 65 1547
1944 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIOll

66 1547 e n. 81 102 212


71 1547 111 ss. 1554 e n.103
72-73 1547 124 1576
74 1548 133 1530, 1554 n. 101
76 1548 n. 85 134 1129 Il. 283
78 1547 n. 82 142 1564 n. 29
79 1567 142 ss. 1554 n.102
80-81 1523 175 1554 n. 103
81 1524 e n. 14, 1567 e n. 41, Epistulae
1573 n. 56
2,15 1602 e n. 150, 1837 e n. 78
82 1567, 1778-79
Evagoras
Busiris
7-11 1482 n. 8
1 1410 n. 13 9 43 n. 31
5 1608 12-18 1483 n. 10
5 ss. 1025 43 1502 n. 74
De pace 47-64 1483 n.11
78 1480 n. 2
[1424 n. 21, 1524 n. 14, 1565 e n.
80 1479 n. 1
31, 1600, 1610 e n. 16]
Helena
4 1554 n.101
[1451 ss., 1579, 1656]
13 1530
16 1550-51, 1553 1 1437 n. 52, 1452 e n. 90
27 1554 1-3 910 n. 31
28-29 1550 n. 90 2-3 1452-53, 1590 n. 124
31 ss. 1597 n. 139 4 1437 Il. 54, 1452
31-35 916 n. 52 4 ss. 1672 n. 72
33 1596-97 n. 139 5 1512 n. 105, 1453, 1571 e n. 49
35 1560 n. 3 6 1410 n. 13, 1453, 1672 n. 72
36 1576 7 1453
39 1560 e n. 3 8 1453-54, 1672 Il. 72
44~48 1046 n. 47 9 1454
63 1556 n.107 12-13 1457 n. 1
64 1564 n. 29 66 1451
69-70 1555en;105 67 1451
77 1528 n. 22, 1556 e n. 107
Nicocles
95-115 1556-57
100 1521 [1501]
101 Ss. 1552 e n. 97 4 1569
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICID 1945

5-9 1585 n.108 4 1457


6 1580 n. 83 10 468 e il. 2
7 1595 e n.134 10-14 1463
11 1480 n. 2, 1483-84 e n. 13 17 1464 e n.16
16-17 1484 n. 14 20 1464
24 ss. 1485 e n.16 22 1464 e n. 19
31 1480 n. 2 23 ss. 1464 n.19
32 1484 n. 14 28 1467, 1590 n. 123
55 1484 n.14 29 1502 n. 74
Panathenaicus 30-33 1603 n.153
40 1468 e n. 28
[1424 n. 21, 1518, 1525, 1758 n.
42 1468
1971
42-45 1469
2-4 1602 e n.151 46 1469
3 1602 n.152 47 1420 e n. 15, 1469 e
10 1423 n. 19 n.33,1470
18 1590 n.123 47-50 1598
15 1590 n. 123 48 1470
26 543, 1589 n. 116 48 ss. 1580 n. 83
30 ss. 1726 n. 68 49 1471en.27
34 1581 n. 85 50 1471, 1616
41 1254 n. 259 51 1471
56 ss. 1521 51 ss. 1473 ss.
63 671 n. 62 51-99 1474 n. 43
89 671 n. 62 82 212
109 1254 n. 259 89-90 1753 n.175
138 1526 100 671 n. 62
142 1573 n. 56 100 ss. 1474 n. 43
200 1254 n. 259, 1577 n. 69 110 671 n. 62
200 ss. 1577 n. 69 119 1475, 1552 e n. 96
216 1254 n. 259 120-121 1553
270 1602 n. 152 122 ss. 1475
Panegyricus 145 1616 e n. 30
Philippus
[567 n. 5, 1418, 1451, 1480, 1518
ss., 1546, 1552 ss., 1564 ss. e [1424 n. 21, 1480, 1553, 1836 n.
nn. 26, 28 e 31, 1600 ss.] 76]
1 1462 8-9 1601
2-3 1463 12 1450-51, 1462 n. 11, 1475 n.
3-4 1571en.49 47, 1701, 1745 n. 139
1946 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

47 1521 Ad Philippenses
81-82 1423 nn.19-20 [123 n. 2]
119 1616 n, 30
1,27 213 n. 53
Plataicus 3,30 213 n. 53
[1476 n. 48]
0LIMPIODORO
Trapeziticus
Vita Platonis
[1429 n. 32]
3 1651n.2
LICURGO
OMERO
Contra Leocratem
Ilias
102 1055
107 185 n. 65 [41 ss., 49 ss., 54 ss., 179, 205,
376 (lib. XXIII), 427-28 (lib.
LUCREZIO Il), 438, 445]
De rerum natura
I 106 ss.
I 1 ss. 137 n. 31
I 1 ss. 101 n. 20, 111
MICHELE DI EFESO 15 112 e n. 32
In Aristotelis Ethicam I 113 ss. 64
Nichomacheam I 320 ss. 68 n. 37
I 411-412 107 e n. 26
p. 8 (V 2, 1129 b 27) 370 n. 57
I 412 40 e n. 27
MIMNERMO
I 505 ss. 43
II 204 197
Fragmenta (Diehl)
II 206 201
1 245 II 211 ss. 57
1, 9 358 n. 20 II216 27 n.4
2 246 n. 66 II 239-240 42en.27
2, 13 358 n. 20 II 265 ss. 607
5 246 n. 66 III 101
6 246 n. 66, 279 e n. 63 III 164 62
12 246, 358 n. 20 V 100
12,13 196 n. 5 VI 208 37, 1290 e n. 370
13 246 VII 101
14 246 VIII 5-27 115 n. 36
22 279 e n. 63 VIII 498 33 n.8
VIII 555-559 251
Nuovo TESTAMENTO
IX 93, 107
Actus Apostolorum IX106 68 n. 37
23, 1 213 n. 53 IXllO 42 e n. 27
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 19.47

IX 116 42 e n. 27, 107 n. 26 XXIV 105


IX 182 ss. 68 n. 37 XXIV 602 ss. 228
IX 189 54 n. 9, 93
Odyssea
IX 315-322 42 e n. 27
IX 432 ss. 65 ss., 1575 [34, 49 ss. 52 n. 6 (libb. I-IV), 54
IX438 71 ss., 61 73 ss. (libb. I-IV), 93
IX443 38 e n. 19, 217 (libb. I-IV), 114 ss., 198-199,
IX447-453 64 205, 438, 448 (lib. I), 496]
IX 480-484 67-8 I 1 ss. 101n.20
IX 490 ss. 71 I 32 78 n. 57
IX 502 ss. 71 I 32 ss. 115, 270
IX 502-512 72 I 32-47 81-2
IX 510-512 107 n. 26 I 37 270 n. 32
IX 523 70 I 90 78 n. 57
IX 524 93 I 105 73
IX 524 ss. 80 e n. 58 I 113 ss. 58
X 99 n.18 I 179 ss. 78, 94
XI 101 I180 73
XI 514 1341-42 I 252 78
XI 779 201 I 252 ss. 78 n. 57
XI 784 37 e n. 18, 1290 e n. 370 I 252-305 75 n. 54
XI 830-832 67 I 255 80 n. 58, 1290 n. 370
XII 243 43 n. 26, 101, 180 n. 46 I 279 77 e n. 56
XIV 115 n. 37 I 296 ss. 81
XIV 201 285-286 I 298-302 81
XIV 246 285-286 I 330 ss. 63
xv 641 ss. 33 e n. 11 I 338 93 e n. 10, 991-92
XVI 101 I 428 ss. 64
XVI 59 42 e n. 27 II 401 74
XVI 384-393 143 e n. 45 III 79 s. 58
XVI 596 201 III 195-200 82
XVIII 478 ss. 108-110, 114 n. 35 III 306-316 82
XVIII 503 197 IV 120 ss. 62
XVIII 556 197 IV 131 62
XIX 56 ss. 107 IV 138 ss. 62
XIX 86 ss. 107 V 59 ss. 65
XIX 93 452 VI25 80 n. 58
XIX 137 107 VI 149 ss. 65
XXIII 276 33 n. 8 VI 186 ss. 58
XXIII 374 33 n. 8 VI 310-315 63 e n. 32
1948 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

VII 66-70 63 n. 22 Sermones


VII 69-70 80 n. 58 [1665 n. 44]
VII 71-74 62-3
14 611
VII 73 93
I 9, 66 236 n. 37
VII 81 ss. 58, 65
VII Ì42 ss. 63 ORFEO

VIII 75 61 n.16 Testimonia (Diels-Kranz)


VIII 487-498 61 n.17 17 ss. 315 e n. 85
VIII 500 101n.20
XI 14 199 PARMENIDE
XI 543 ss. 43 Fragmenta (Diels-Kranz)
XIII 49 ss. 58
Bl 331
XIV 48 ss. 58
B 1,2 329
XIV 56 201
B 1,3 331 e n.149
Xvi:4o ss. 58
B 1, 29, 30 327 n.129
XVI75 229 n.15
B4 327, 329
XVI 409-451 63
B5 328
XVII 322 33
B6 327,329
XVIII 136 231
B 6, 4 ss. 340 n. 185
XVIII 136 ss. 238 n. 42
B 6, 8 328
XVIII 158 63
B 6, 9 340 n.185
XIX 527 229 n.15
B7 327
XX18 239
B8 328
XXI 63 ss. 63
B 8, 1 329
XXIV 200 229 n.15
B 8, 3, 7 ss. 328
ORAZIO B 8, 12 327 n.129
Ars poetica B 8, 13 ss. 328
B 8, 14 327 e nn. 130-
23 1665 n. 44 131,328
34 1665 n. 44 B 8, 16, 37 327 e n. 130
77 177 n. 41 B 8, 38 328
147 103 B 8, 50-52 330 e n. 145
202 ss. 1074 B 15 a 296 n. 31
343 1325
361 474 n. 8 PAUSANIA

Carmina Graedae descriptio


[172 n. 28 Oib. IV)]
I 3, 9-10 122 n. 2
I 6, 6 107 VII 27, 10 233 n. 28
I 13, 4 236 n. 37 IX 31, 4 123 n. 3, 134 n. 34
INDICE DEI PASSI DEGLI AUfORI ANTICIIl 1949

PINDARO Pythica
Isthmia II 54-58 391
II 55 231 n. 22, 236
II 6 379 e n. 73
II 72 391en.102
IV 16 314
II 86 396
VIII 9 ss. 399
III 5 ss. 67
Nemaea III 110 272 n. 45
III 6 380 VI 1290 n. 370
Ili 29 380 e n. 78 VIS 384
III 38 ss. 394 VI 19 ss. 67, 392 e n. 104
III 43 164 e n.15 VI33 26 n.1
III 43 ss. 67 VI44 393
III 50 ss. 393-94 IXlO 381n.79
III 56 110-11 XI 41 379 n. 73
III 58 67 Fragmenta (Snell)
III 77 397 64 400.
IV7 381 131 b 1403 n. 115
rvs 396 152 211 e n. 34, 533
Vl 384 198 495 n. l
V54 164 n.15
VII 28 164 e n.15 PLATONE
IX7 381 Apologia Socratis
IX17 164 e n.15
(626 n. 33, 718 n. 17, 725 n. 26,
IX45 272 n. 45
743 ss., 808, 832-33, 839,
IX.47 314
863, 865, 920 n. 59, 946, 953
X7 164 n.15
ss., 1063, 1702)
Olympia 17 d 813 n. 204
118 380 18 b 738
I 28 b 396 19 e 733, 786 e n. 153
II 1 ss. 388-89 19 d-e 785 e n.150
II 15 ss. 389 19 e 785 n. 149, 896 n. 95
II 53 272 n. 45, 1264 n. 291 19 e-20 e 896
II 83 396-97 20 b 896 n. 95
II 94 397,497 20 e 1561en.9
III 7 381 n. 79 20 d 763
Vll 384 20 d ss. 807 e n, 189
20 e '763-64
Paeanes Z3 e 784 n.147
Vl6 396 23 d 738
1950 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

24 b 814 50 a 533, 811, 845


25 a 786, 815 n. 207 52 b 811
26 d 733 52 e 1331n.63
28 b-d 815 n. 209 54 b 206 n. 23
28 e 731 Critias
29 d 744, 745 n. 61, 809, (1610 n. 16]
815, 869, 945 n. 143
29 d ss. 747-48, 761-62 Epinomis
29 e 749-50 (1183 n. 44, 1204 nn. 95-96,
30 a 807-8 e n. 189, 811 1223, 1708 n. 12, 1801]
30 b 748, 749 n. 66, 869 978 e 1792 n. 342
30 e 845 n.14 981 e ss. 1216 n. 137
31 a 807 e n. 189, 845 n. 14 984d 5 1764 e n.. 225
31 e 731 n. 33, 851 n. 30, 1158 988 a 1205
32 a 732 990 a ss. 1764 e n. 225
33 a 784 n. 147
33 b 784 n.147 Epistulae
36 b 851en.30 (827, 852 ss., 987 (VII), 1027
36 e 845 e n. 14, 849, 851 (VII), 1182 n. 41 (VII), 1481
37 e 815 n. 207 (VII), 1569 n. 44 (VI)]
39 a 1331n.63
VII, 314 d 527
39 e 712
VII, 324 a 1688
39 c-d 855 n. 40
VII, 324 b 1461, 1682
40 c-41 e· 754
VII, 324 d 554
Charmides VII, 324 d-e 850
(725 n. 26, 831, 844 ss., 881] VII, 324 e 956 nn. 163-164
154 d-e 740 VII, 325 a ss. 850, 1534
846 e n.17 VII, 325 b 956
161 b
161 e 846 n.17 VII, 325 b ss. 1158
170 b 846 e n. 20 VII, 325 b-326 b 956
171 d-e 846 VII, 325 e-e 852
173 b 846 e n. 20 VII, 325 d 849-50, 987
174 e 846 e n. 20 VII, 325 e--326 b 850-51 e n. 30
175 b 846 n.19 VII, 325 e ss. 1684
VII, 326 a 854 e n. 39, 1249,
Cratylus 1420 n. 16, 1517 n. 1,
(1441n.65] 1534 n. 42, 1760 n. 206
Crito VII, 326 a-b 849, 1685 n. 16
(725 n. 26, 824, 832-33, 946, VII, 326 b 851-52, 1692
1210 e n. 112, 1242] VII, 326 e 1151, 1689 e n. 23
INDICE DEI PASSI DEGU AUTORI ANTICID 1951

VII. 326 e ss. 1682 VII, 343 e-344 b · 1083


VII, 327 ss. 1685 VII., 344 a 1201, 1237
VII, 327 e 1686 VII, 344 b 1237, 1698 n. 51
VII, 327 e 1685 n.11 VII, 344 b ss. 1700
VII, 327 e ss. 1685-86 VII, 344 e 1699
VII, 328 a 1687-88, 1692 VII, 344 d 1699
VII, 328 b 1692 VII, 344 d-e 1675
VII, 328 e 1692-93 VII, 350 e 1703 e n. 69
VII, 328 d 1695 VII, 350 d 1700-1
VII, 329 b, ss. 1693 VIII, 353 a ss. 402, 1130
VII, 330 a 1694 VIII, 353 e 1273 n. 326
VII, 330 b 1694 e n. 35 VIII, 355 d 1273 n. 326
VII, 330 d-331 d 1276 e n. 334 VIII, 357 a 1273
VII, 331 b-d 1161,1703 Euthydemus
VII, 331 d 957
[539, 1432 n. 38]
VII, 331 d ss. 1130
VII, 332 b 1694 272 a 222 n. 2
VII, 333 b 1694 278 e-282 d 984
VII, 333 e 1694 e n. 35 Euthyphro
VII, 335 d 212 [725 n. 26, 798 n. 177, 831-33,
VII, 336 a 1130 842, 844 ss., 881, 1182 n. 41]
VII, 338 a 1695 n.42
5d 968 n.18
VII., 338 e 1222n.154
6d 1206 n.100
VII, 338 d 1695 n. 45
6 d-e 968 n.18
VII, 339 a 1695
6e 862
VII, 339 b 1695
10 a 1206 n.100
VII, 339 e 1695 e n. 42
11 e 1205-6 e n. 100
VII, 339 d 1695
VII, 339 d-e 1695 Gorgias
VII,340 b 1695 [549 n. 101, 827, 833, 840, 842,
VII, 340 e 1696 846 e n. 20, 863, 870, 897-98,
VII, 341 a 1696 899 ss., 961 ss., 979, 990 ss.,
VII,341 b 1696 1027, 1030, 1037-38, 1103,
VII, 341 e 971 e n. 24, 1237, 1137, 1138, 1143, 1158, 1174,
1677,1697,1699,1790 1185 n. 47, 1308, 1328, 1330,
VII, 341 c-d · 1675 1373, 1416-17 e n. 8, 1430 e n.
VII, 341 e-e 1201 n. 83 34, 1432, 1435 e nn. 46-47,
VII, 341 d 1698 e n. 51 1447 ss., 1541, 1560 n. 3,
VII, 341 e 1677 n. 89 1569, 1586 n. 111, 1587 n. 112,
VII,342 b 1698 1592, 1593 n. 129, 1597 nn.
1952 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

139-140, 1655 ss., 1663 e n. 464 b ss. 1372


33, 1711, 1763 n. 219, 1800 n. 465 a 738, 909 e n. 30, 1372
375] 465 b-d 909
449 d 902, 1427 e n. 26 465 e 910-11
450 a 902, 1341 e n. 4 466 b 4 912 n. 27
451 a 902, 1427 e n. 26 466 b ss. 911 e n. 35, 916
451 b 222 n. 2 466b11 913 n. 38
451 d 902, 911 n. 34, 933, 466b11 ss. 912 n. 27
1571n.49 466 e 915
452 d 911n.34 466 d 1748 n. 148
453 b-e 1427 e n. 26 466 d 6 912 n. 27
454 b 902 466 d 7 913 n. 38
454 e ss. 732 467 a 1748 n.148
455 b 878 n. 39 467 a 8 912 n. 27, 913 n. 38
455 d 1427 e n. 26 467 e 802 n. 182
455 d-e 903 467 e 5-468 e 916 n. 51
456 a ss. 902, 911 n. 34 469 d 2 912 n. 27
456 b 6-c 902-3 469 e 913
456 d-457 e 903 469 e 3 913 n. 38
456 e 903-4 469 d 2 913 n. 38
456 e-457 e 1434 470 d-e 950 n. 153
457 e 903-4 470 e 913, 925, 939 n. 124,
459 e ss. 732 942 n. 131, 1700
459 d-e 904 470 e 6 942 n.131
460 a 904 e n. 15 470 e 9 914, 942 n. 131
460 d 904 471d4 917
460 d-461 a 1434 472 e 916
460 e ss. 1242 477 a ss. 917
461 b 887 n. 64 481 b-c 918
461 b ss. 905 481 e 911en.34
461 b-c 904 481 d 1263 e n. 287
462 b 905, 1147 482 e ss. 553
462 b-d 907 482 d ss. 887 n. 64
462 e 933 482 e 923
463 a 1435 n. 46 482 e ss. 1432 n. 39
463 b 908,933 483 b 923 n. 68, 939
463 d 908 483 b-c 924
464 a-e 5 909 483 e 8-çl. 924 e n. 70
464 e 5-d 909 483 d 553
464 b 1085, 1147, 1341 n. 4 483 e 554-55
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1953

483 e-484 e 924 e n. 71 502 e 935


484 e 925 503 b 935
484 e ss. 545-46 503 b ss. 1810
484 c-485 a 926 503 e 968 n.18
484 c-d 1590 n. 123 503 e-505 b 936 e n.108
484 e 920 504 b 965 e n. 11
484 e 926 n. 77 504 e 1383 n. 70
485 a 546 e n. 94, 926, 505 d 936
1144-45 e n. 329 505 d ss. 1043
485 e 546, 927 n. 78 507 e 938
485 e 5 923 n. 68 507 d 803 e n.186
485 d 546, 1157 507 d 6 938 e n. 117
485 d-e 919 507 e 989
485 e-486 e 920 507 e ss. 938
486 b 939 507 e-508 a 990 e n. 8
486 b-c 927 n. 78 508 1010 n. 58
487 b 6 927 508 a 938, 1596 e n. 137
487 e 920 e n. 61 509 b-d 939
488 b 8-489 a 928 509 d 7-510 a 939
491 b 928 510 a 939
491 d 928 510b 939 e n. 124, 1263 n. 287
491 e-492 d 929 510 e 939-40
492 e 930 510 e 7 1748 n. 148
494 a 930 510 d-511 a 940 e n.127
494 b-499 e 930 511 b 809,940
499 d-500 a 930 513 942 n.132
495 a 931 n. 91 513 a 1748 n.148
498 d 932 513 a-e 940
499 e 931 n. 91 513 e 936, 947 e n. 146
499 d 965 e n.11 513 d 941 e n.130
499 e 802 nn. 183 e 185, 889 513 e 942 e n.131
n. 71, 932 n. 98, 936 n. 108, 514 a-e - 942
938 n. 117, 968 n. 18, 514a1 942 n. 131
989 n. 5, 1331 n. 63 514 b ss. 942 e n. 133
500 a 933, 1331 n. 63 515 a-b 942-43
500 a 6 933 515 c-516 e 943
500 b 933 515 e 954 n. 161
501 a ss. 1372 517 a 943
501 d-502 d 934 e n.105 517 a ss. 810
502 e 1443 n. 70 517 b 943
1954 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIQil

517 b ss. 732 Laches


517 e 849 [725 n. 26, 793, 831, 842, 844 ss.,
517 c-518 e 944 e n.139 860, 881, 883 n. 50]
517 e 1341en.4
179 e 845
519 a 809-10, 849, 944
185 b 878 n. 39
519 b-c 944
191 d 798 n.177
519 e-520 b 944
199 e 797 e n.174
521 a 941 n. 130, 944-45 e
n. 143 Leges
521 c-522 a 945 [159 n. 5, 167 n. 21 (lib. I-III),
52ld 766, 849, 1032, 1657 n. 12 212 n. 37, 213 n. 38, 358 n. 21,
522 a 945 e n. 145 435 n. 24, 822, 824, 826-29,
523 a ss. 947 834 n. 6, 842-43, 934, 978,
523 b-d 949 n.150 1091 n. 159, 1182 n. 41, 1183
523 e 740, 949 e n. 150 n. 44, 1223, 1241, 1245,. 1255
524 a 950 n.152 n. 261(lib.1-11), 1267, 1441 n.
524 b-d 949,1297 65, 1567, 1610 e n.16, 1632 n.
525 b-c 950 n.152 73, 1644, 1653 n. 5, 1674,
525 c-d 950 e n. 153 1680, 1689 ss., 1727 n. 70 (l.
526 e 1208 n.108 III), 1756 (lib. I e III), 1762 n.
527 d 7 950 218 (lib. V e X), 1764 n. 223
527 e 950 (lib. X e XII), 1767 nn. 227-
228 (lib. IV-VI), 1788-89 Oib.
Hippias maior
II)]
[725 n. 26]
623 b ss. 1001
218 e 514 n. 36
625 a 2i2
285 a ss. 543 n. 87
625 e ss. 163 n.12
Hippias minor 625 e-628 d 1045
625 d-626 a 1719
[725 n. 26, 833 n. 3]
626 a 1627 e n. 65
363 a ss. 61n.16 626 b-c 1720 n. 35
368 b 511, 543 n. 87 629 a 173, 176, 177, 181, 1045;
373 e 800 e n. 180 1064, 1128, 1718 n. 31,
375 a-b 800 e n.180 1720 n. 36
Io 629 a ss. 161 n. 8, 175 n. 35
629b 190-191, 1718,
[725 n. 26, 833 n. 3] 1738 n. 107
531 e 1317 n. 12 629 e ss. 207
533 e 1317 n. 12 629 e 1125 n. 271
536 d 768 629 e-630 e 1738
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIC!Il 1955

630 a-e 1720 n. 36 643 a 1724, 1767 n. 227,


630 b 1720 1802 n. 382
630 b 2 1741 643 a 5-7 1728 n. 73
630 b 3 1741 643 a 7 1764 n. 222
630 e 8 1727 n. 71, 1741 643 a-644 b 1731n.84
630 d 1727 n. 71 643 b-c 1780
630 e 1720 643 b 5 1724
631 a 1720 643 e 8 1725 e n. 65
631 b 1720-21 643 e 8 ss. 1746 e n. 143
631 e 966 n. 11, 1720 643 d 7- e 2 1725
631e5 1799 n. 372 643 e 219
631e6 1721, 1730 n. 82 643 e 3 1726 e n. 68
632 e 1730 n. 82 644 a 1-5 1726
632 c4 1721 644 a 6-b 4 1726 e n. 70
633 a ss. 1721 644 b 3 1727 e n. 72
633 c-d 1721 644 e ss. 1728
634 a-e 1721 644 d 1784
635 b-d 1721 644 d 7-e 3 1728-29 e n. 75
635 d 1731n.83 645 a 1729
635 e 1731n.84 645 a-b 1730 n. 82, 1764 n. 222
636 a-b 1721 645 b 1729 n. 78, 1739 n. 113
636 e 1721en.49 {;45 b 7 1730 n. 81
637 a ss. 993-94, 1731 n. 83 645 b 8-c 3 1729 n. 79
637 e 1721n.49 645 e 3-d 1731n.83
638 e-e 1731n.83 645 d-e 1731
638 d-639 a 1722 646.a 4 1732 n. 89
639 a-640 d 1722 e n. 51 646 c-d 1731n.86
639 d 993-94, 1723 n. 55 646 e ss. 1732 n. 86
639 e 5 1723 649 d 1732
640 b 1723 653 a 1733 n. 92
641 a ss. 993-94 e n. 14 653 a ss. 1746 e n. 143, 1772
641b3 1723 e n. 55 n. 252
641b6 1723 n. 56 653 b 1733
641e1 1723-24 653 b 5 1746 e n. 143
641e2 1724 e n. 58 653 d 1735
641e5 1724 653 e-654 a 1736
641e8 1724 e n. 60 654 b 210 n. 31, 1726 n. 68,
642 a 1724 n. 60 1736 n. 98
642 b 1715 654 b 6-e 1736
642 e 1714 654 e 9-655 b 6 1736 e n.100
1956 INDICE DEI PASSI DEGU AUTORI ANTICfll

655 b 1726 n. 68 682 a 1743 n.128


655 d 1736 682 e ss. 1743
656 e 1780 682 e 8-683 a 1743
656 d ss. 1737 e n. 102 683 e 8 1744 e n. 133
656d1 1736 684 d-e 1744
656 e4 1737 n.102 685 d 1745
657 e-658 d 1737 e n. 104 686 a 7 1745 n. 139
658 a-d 1738 686 b 7 1744 e n.134
658 e 1780 e n. 286 687 a 5 1745 e n.139
659 a-e 1738 687 a 6 1744 n. 134
659 d 1726 n. 68, 1739 n. 113 687 a 6- b 1745
659 d ss. 1779 e n. 284 688 d 1746
659 e-660 a 1739 e n. 113 688 d-e 1746 e n.141
660 1739 e n.112 689a1-8 1746 e n.141
660 b 1738 e n.107 689 a-b 1747
660 e 161 n. 8, 181, 191-192, 689 e 1746 e n.141
207, 1064, 1128, 1718 n. 31 689 c-d 1713 n. 22, 1748
660 e 7 ss. 1738 n.109 690 a 1749 e n.152
660 e-661 a 175 n. 35 690 a 7 1766 n. 233
660 e-f 1066 690 a-e 1756-57
661b5 1738-39 690 a-d 1749-50
661 e 5-8 1739 e n. 110 690 d 1745-46 e n. 140,
661 d ss. 1739 1749 n.152
665 e 1739 690 d-691 a 1746
666 a 1739 690 e 1751 n.159
666 b 1740 691 a 1750-51 e n. 159
671 b 1740 691 e 1684
671 e 14 n. 5 691 d-692 a 1760 n. 210
673 à ss. 1740 691 d-693 a 1751
673 b 6 1779 n. 284 692 a 1757, 1758 n. 197
673d10 1740 e n.119 692 e-693 a 1715
674 e 5 1740 n.119 693 d-e 1751
677 a ss. 1742 693 d-701 b 1757
677 d 1742 694 a 1751 n.165
678 e-e 1742 694 e 1751-52
679 a-d 1742 694 e 1752 n.167
680 a 1742 694 e 1752
680 b ss. 1742-43 e n. 128 695 a 1752 e n.166
680 e 4 1743 n.128 695 e 6 1751 n.165
680 e 6-681 e 1743 695 d 1781en.295
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1957

695 d 7-e 1752 n.170 717 a 1761


695 e 1751n.165, 1752 e n.167 718 b 1712
695 e 2 1752 n. 170 718 b-c 1765 e n. 228
698 a ss. 1263 n. 286 718 d ss. 1712 n. 20
698 a-699 a 1752-53 719 e 591
698 b 5 1753 n. 176 719 e ss. 1712 n. 20, 1765 n. 228
699 a 1125 n. 271, 1753 n. 175 720 a ss. 1708 n. 12
699 e 4 1753 n. 176 720 e 6-8 1765 n. 228
700 a 1753 721 a-b 3 1765 n. 229
700 e 1755 721 b 6-d 6 1765 n. 229
700 d 634 n. 44, 1755 e n. 183 721 e 1766 e n. 230
700 d 4 1755 n. 183 721 d 1766 e n. 233
700 e-701 a 1755 722 b 1712 n. 20
701 b-c 1756 722 d 1766
700 a 9-b 1754 722 d ss. 1712 n. 20
701 a 1073 722e5 1766-67
702 b-c 1757 e n.193 723 c-d 1766
704 b 1757 734 a 1767 e n. 227
704 b ss. 1795 n. 354 734 e-735 b 1767 n. 238
706 b ss. 261 n.10 735 a 1171, 1768 e n. 240
707 a 7 ss. 1754 735 a4 1791n.338
707 b-c 1759 735 a 5 1786
709 a-e 1759 735 b ss. 1770 n. 242
709 e 6-710 b 1759-60 736 e 5 1745 n. 135
710 a 799 739 d 1706 n. 6
710 e 7-d 1760 e n. 206 739 e 1707 n. 6
711a6 1760 740 a 1707 n. 6, 1770 n. 242
712 a 1445 n. 78, 1760 740 a2 1771n.246
712 d-e 1760 n. 210 741 a ss. 1266
712e10-713 a 2 1760 e n. 210 747 e 1268 n. 306
714 b 1760 n. 210 751 e 212
714 d 1749 n. 152 764 c-f 1786
715 a 1760 n. 210 765 d 1786
715 b-c 1761n.211 765 e 2 1787
715 e 7 1761 766 a 1787
716 a 1 1762 n. 217 773 a 1383 n. 70
716 a 5-c 1761 782 e 311n.80
716 e 518, 1184 n. 46, 1185 n. 783 b 2 1771 n. 246
47, 1186 n. 51, 1203, 1762- 783 d-784 b 1771
63 e n. 219, 1784, 1800 n. 376 784 a-b 1771
1958 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

784 e ss. 1771-72 809 a 6 1787 e n. 318


788 a-b 1770 809 b 1787-88
788 e 1771, 1775 n. 266 809 b 7 1786 n. 318
789 a-e 1772 809 e-810 e 1788
789 c-790 e, ss. 1773 810 e 1788
791 c-d 1774 811 a 349, 1788
792 b 4, ss. 1774 e n. 262 811 e 222 n. 2
792 e 1774 e n. 263 811 e ss. 1788
793 a 1774 n. 262 811 e 6-10 1789
793 a 10-c 1775 811d5 1786 n. 318, 1788
793 d 1775 e n. 266 811 e-812 b, ss. 1789
793 d 7-e 1776 812e10 1786 n. 318
794 a 1780-81 813 a 6 1786 n. 318
794 a-e 1776-77 813 b ss. 1789
794 d-795 d 1777 e n. 272 813e1 1786 n. 318
795 d 6 ss. 1777 813 e 6 ss. 1777 e n. 275
796 a 1777 813 d 6 1777
796 b 628 n. 37, 1778 817 a-b 6, ss. 1790
796 c-d 1778 817 e 1792
796 e 1779 818 a 764 e n. 89, 1791 n. 338
797 a 1781n.295 818 b-819 e, ss. 1792-93
797 a 7 1780 818 c-d 1792 n. 342
797 b-c 1781 821 b-822 e 1793
797 e 5-d 1781 822 b-c 1794 e n. 350
798 b-d 1781en.294 822 d 1794
799 a 1781 n. 294, 1782-83 823 b ss. 1644
799 e-802 a 1782 823 b-c 1645
800 a ss. 1788 e n. 321 823 c-d 1645 n. 124
802 e 5 1783 e n. 301 824 a 1645
803 b-c 1784-85 857 c-d 1357
803 e 1729 n. 75, 1785 n. 307 857 d 1708 n. 12
803 d-e 1785 897 b 1763 e n. 220
804 b 1785 Il. 307 898 d-899 b 1216 n. 137
804 b 3 1729 n. 75 907 d-909 e 1783 n. 303
804 e-e 1785-86 909 a 753 e n. 74
804 e 1786 925 b 299 n. 50
807 d 6-e 1786 949 e 1795 e n. 354
807 e 1786 949 e 7 1795
808 e 1786 950 d 1795
809 a 1786 n. 318 951 a-e 1795
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1959

951e6 1796 e n. 360 241c 771 n. 115, 1273 n. 327


951 d-952 b 1797 258 b 771
952 c-d 1797 e n. 364 Meno
952 d-953 e 1796 n. 360
[754, 827, 842, 897, 922 n. 64,
961 e 1798
961 ss., 1430 n. 34, 1593 e n.
961 e 7-962 b 1798 e n. 366
129]
963 b 4 1798 n. 368
962c5 1798 n. 366 70 a 963
962d 1798 n. 368, 1800 n. 378 70 b 973 n. 30, 1418 e n. 11
963 a s5. 1798 e n. 367 71 a 964 e n. 3
963 a-964 e 1798 n. 368 71 d-e 964
963 b 4 1800 n. 378 72 a 964-65
963 e 5-e 1799 e n. 372 72 a-b 971n.22
965b 1768 e n. 240, 1791 n. 338 72 b 965 e nn. 4 e 8
965 b 1171, 1708 n. 11 72 e 965
965 e 1708 n.11 72 c-d 968 n.18
965 e 1799 e n. 371 72 e-e 965
966 a-b 1799-1800 72 e 965
966 b 4 1800 e n. 375 73 e 966
966 e 1800 e n. 376 74 a 966
966 d 1794 e n. 351, 1801-2 74 b 971 n. 22, 972-73
967 a ss. 1791-92, 1794 74 d 972 n. 28
967 d 1802 n. 382 74 e 972 n. 28
968 a 1794 n. 351 75 a 966, 971 n. 22
75 d 971, 1199
Lysis
76 b 55. 973 n. 30
[725 n. 26, 782, 831, 968 n. 18, 77 a 967
987 55.J 78 e 979-80
215 a 988 78 d 980
219 c-d 988-89 e n. 5 79 a-b 980
220 b 989 n. 5 80 a 977
220 d 989 n. 5 80 e 977
81 e, d, e 978
Menexenus
82 b 978
[996-97, 1653 n. 5, 1657] 82 b 55. 974
235 d 663 n. 42 84 a 978
238 b 1273 n. 327 84 e 977
238 e 1273 n. 327 84e11 978
238 d 685 n.100 84d1 978
239 a 771 n.115 85 b-d 975 e n. 35
1960 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

85 d 975 n. 35 68 a 931
85 e, d 978 69 a 932
85 d 3 978 76 e 755 n. 77
85 d4 979 e n. 47 82 a 799
85 e 6 978 82 b 1201
86 b 975, 978, 979 e n. 48 83 a 984
86 b-c 978 e n. 44 85 b 985
86 e 5 979 93 b-d 972 n. 28
86 e-87 a 974 n. 32 93 e 1383 n. 70
87 b 980 96 a-99 d 733
87 d ss. 980-81 96 a ss. 1381
88 e 5 981 97 b 508 e n. 22
89 e-91 b 981-82 97 b ss. 734
91 a ss. 506 98 b 735
91 e 576 99 a 812
92 e 786 Phaedrus
92 e ss. 920 n. 59
96 a ss. 1203 [782, 791 n. 165, 827, 831, 834 n.
97 b ss. 982 6, 899 n. 1, 900, 978, 987, 1173
98 a 982 n. 11, 1427 e n. 26, 1430 n. 34,
98 a ss. 1203 1432 e n. 37, 1447, 1587 n. 112]
99 b ss. 982 e n. 61 228 a 1655
99 e 982 n. 61 228 b-c 1658
100 e 982 e n. 61 230 811-12
Parmenides 230 d 1636
231 ss. 1660
[822, 834 n. 6, 991, 1221 n.
234 e ss. 1659
151, 1591 e n. 125]
237 e 1659
127 a 1369 n. 46 237 d-238 e 1660
135 c-d 1236 n. 200 238 d 1651, 1662
136 a, e 1236 n. 200 239 d 1661
Phaedo 241 e 1661n.24
241 e 1651
[315 n. 86, 608, 714, 726, 754- 242 b 1662
55, 831, 956 n. 164, 972, 975 244 a ss. 1661-62
n. 37, 978, 1087, 1102 e n. 197, 245 a 94 e n. 12, 1662 e n. 26
1177 n. 29, 1182 n. 41, 1328, 245 c-246 a, ss. 1662
1330] 247 e 1662
64 b 984 257 a ss. 213 n. 39
67 e 984 257 b 993 n.19
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1961

257 e 222 n. 2 273 e 1674 n. 79, 1677 n. 88


258 b 222 n. 2 273 e 1673 n. 73
258 e 222 n. 2 274 a 1673 n. 73
258 d 1655, 1663 274 e 1674
259 e 1663 274 e ss. 1696-97
260 e ss. 1663 e n. 33 275 a 1674-75
261 a 1670 e n. 61 275 d 1676
261 a ss. 1663 276 a, b 1676
261 a-b 1664 e n. 36 277 e 1790
261 d 1664 e n. 37 278 e 213 n. 39
261 e 1664 n. 36 279 a 1655
262 a ss. 1664 279 a-b 1422 n. 18, 1505
262 d 1666 n. 45 279 b-c 1024
263 a 1664 Philebus
263 b-c 1665 n.41
[834 n. 6, 930, 932, 1185 n. 47]
263 e-264 b 1665
264 e-e 1665 22 b 1175
264 e 1666 n. 45 24 a ss. 1302
264 e-265 a, ss. 1666-67 35 b 1270 n. 317
265 a 1664 n. 35, 1666 n. 45 41 e 1301n.411
265 a-d 1665 n. 41 49 e 616
265 d 860 n. 48, 971 n. 22 50 b 608
266 a 1665 n. 41 65 a 1175
266 b-c 1667 e n. 48 65 b-c 1174 e n.17
266 d-267 e 1667-68 67 a 779 n.134
269 a 1670 n. 60 Politicus
269 b-d 1667 e n. 51 [791 n. 165, 822, 834 n. 6, 846 e
269 d 1668 n. 20, 932, 1185 n. 47, 1236 e
269 e-270 a 1670 e n. 60 n. 200, 1441 n. 65, 1750]
270 b 1670 e n. 62
289 a 1341en.4
270 e 1670, 1349 n. 16
293 a 1730 n. 81
270 c-d 1373 e n. 54, 1380
294 a-b 213 n. 40
271 a 1670
294 a-297 e 1707
271 c-d 1670 n. 61
299 e 1337 e n. 58
271 d 1672 n. 71
300 e 1141n.319
271 d ss. 1671 e n. 67
272 a-b 1672
305 e 299 :n. 50
272 b 1672 n. 71 Protagoras
272 d 1673 [387 e n. 95, 528, 624 e n. 31,
272 e 1673-74 827, 833 e nn. 3-5, 840, 863,
1962 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORl ANTICIU

899 ss.; 934, 951 ss., 961 ss., 318 a 874


979 ss., 990, 1027, 1030, 1174, 318 e 874
1416-17 e n. 8, 1430 e n. 34, 318 d 517 e n. 42
1432 e n. 39, 1800 n. 375] 318 e 505 n. 15, 875 e n. 27
309 a 768 n. 103 318 e ss. 506
309 d 1369 n. 46 318 e 5-319 a 2 875
310 a ss. 868 319 a 514, 846-47 e n. 21,
311 a ss. 868 872 e n. 18, 875-76,
311 b 746 n. 62 907 n. 22
311 b-c 1349 n. 16 319 a 8 1147
312 a 545, 868-69, 1360 319 a-d 902
312 b 546 n. 94, 869 e n. 6 319 b-c 876
312 e 874 319 b 2 878 n. 40
313 ss. 878 n. 39 319 e 7 878 n. 39
313 a 749, 869 e n. 8 319 d 876
313 a ss. 746 n. 62, 870 319 e 876-77
313 e 512, 870 e n. 11 320 a, b 877
313 e ss. 1421 320 e ss. 515, 1583
313 d 1341en.4 321 d 548
313 d2 870 e n. 11 322 a 488 e il. 29
313 d 8 870 e n.11 322 b ss. 548, 880 n. 44
313 e 3 870 e n.11 323 a ss. 528-29
314 a 1-2 869 n. 8 324 a-b 529-30, 917 e n. 54
314b1 869 n. 8 324 d ss. 548
314 b 3 870 325 e 530
314 e ss. 870 325 e ss. 505
314 e-315 b 871 325 e-326 a 1511
315 a 545, 1360 326 a 541
315 e 871, 920 n. 61, 326 a-b 531, 537-38
1369 n. 46 326 b 484-85
315 d 871 326 e 1540, 1712
316 d 510 n. 26, 873 326 c-d 531-32, 548
316 d ss. 1320 326 e 533 n. 68
316 d-e 873 327 d 435 n. 25
317 b 873-74 e n. 22, 328 d-e 879
896 n. 95 328 e 878 n. 40
317 b 6 874 n. 22 329 b, e 880
317 e 873 329 e 6 881
317e1 874 n. 22 329 c-d 967
317 c-d 874 329 d 797 e n. 175, 882
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1963

329 e 882 353 d-e 888-89


330 e ss. 883-84 354 a 802 n.183
330 e 797 e n.175 354 a-b 802 n. 185
331 a 887 n. 64, 904 n. 15 354 b 889
331 b 797 e n.174 354 b 6-7 889 n. 71
331b8 884 354 b 6 ss. 932
331 e 797 e n.175 354 e-e 802 n.183
332a1 884 354 d 929
332 à. ss. 883-84 354 d 1-3 932
333 e 887 n. 64, 904 n. 15 354 d2 889 n. 71
333 d ss. 883-84 354 d 7-e 2 932
333 e 884 354 d8 889 n. 71
335 b-c 884-85 354 e 8-355 a 5 932
336 e 1331n.63 355 a 929
337 e 557, 925 n. 73 355a1 889 n. 71
338 e 553 355 a5 889 n. 71
338 e 387, 885 e n. 55 355 a-b 795
339 a ss. 510-11 356 a, b 889
339 e-341 e 505 n. 14 356 C"e 890
342 b 160 n. 7 356 d 753 e n. 74
345 d 800 e n.180 356 d-357 b 931
345 e 885 e n. 57 356 d 8 890 n. 77
349 a 895 e n. 95 356 d-357 b 1184 e n. 47
349 b 797 e n. 174, 932 n. 356 e 753 e n. 74, 1301n.411
98, 967 356 e-357 a 890
349 d ss. 883 e n. 50, 885-86 e 357 a 753 e n. 74
n. 58, 891-92 357a1 890 n. 77
350 e ss. 886 357 a-b 890, 1673
350 c-351 b 884 357 b 890 e n. 77, 897 n. 98,
351 b ss. 886 962
351 d 886 357 b 2 890 n. 77
352 b 886 357 b 4 890 n. 77
352 e 946 n. 145 357 b 5 951
352 e 3-7 886 357 c-d 890
352 d 886"87 e n. 64, 904 n. 15 357 d 907 n. 22
352 d-e 887 357 d-e 1746 n.141
352 e 795 n.171 358 a 505 n. 14, 891
353 a 887-88 e n. 68 358 a ss. 561
353 e 795 n.171 358 b 6 891
353 e ss. 888 358 e 800 e n. 180, 950
1964 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIClil

358 d 891 359 a 1039


358 d 6 892 359 d 562-63, 1039
358 e 892 361 b 1042 n. 35
358 e 5 894 n. 94 361 d 385 e n. 91
359 a-360 e 797 e n. 174 362 e ss. 1040
359 d 797 e n. 175, 892-93 363 a-e 1040 e n. 32
360 b-c 893 364 a ss. 1040
360 d 5 893 365 e-e 1042
360 e 6 893 366 e 1040 e n. 32, 1041
361 a 894, 1147 367 b 1042 n. 35
361 b 982 367 b ss. 1041
361b2 894 e n. 94 367 d 1042 n. 35
361 e 897 e n. 97 368 d-e 1314
368 e 1043-44, 1099 n. 182
Respublica
369 a 1044
[207, 215 n. 45, 304 n. 65 (lib. 370 a ss. 1044
VII), 315 n. 86, 377 n. 72, 407 371 e 1044 n. 41
n. 15, 726, 769 e n. 107, 817, 372 e ss. 1045
824, 826-29, 840, 842-43, 844 373 b 1069 n: 85
ss. (lib. I), 846 e n. 20, 848, 373 e 1045
853 ss., 863, 912 n. 27, 916 n. 374 a-d, e 1046
52, 934, 940 e n. 127, 942 n. 375 a-e 1047
133,953,978,1014n.71,1025 375 e 1047
n. 109, 1148 (finale del l. V), 376 c-d 1099
1470, 1527, 1534 n. 42, 1543, 376 e-e 1047 e n. 52
1556, 1581, 1589 n. 117, 1590 376 d 9 1245 n. 228
n. 123, 1592, 1632 n. 73, 1653 376 e 210, 1049, 1051, 1084,
n. 5, 1674, 1680 ss. passim, 1089 n.154
1706 ,ss., 1724 ss., 1734, 1750, 376 e ss. 1064 n. 74
1760 n. 210, 1761, 1762 nn. 377 a 1051, 1057 e n. 68, 1084
216-217, 1763 n. 219 (lib. VI), 377 b 14 n. 5, 535, 1046 n. 48
1768 ss., 1780 ss., 1791 n. 338 377 e 1046 n. 48, 1052
(l. VII), 1796, 1798] 377 e 1060 e n. 71, 1069 n. 85
331 e ss. 511n.30 378 c-d 1054
335 b 33 n. 8 379 a 1060 e n. 70, 1183 n.
338 e 1037-38 44, 1204
353 b 33 n. S 379 e 1061
357 a 1038 380 a-e 1332-33
357 b-c 1038-39 383 e 1061
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIOil 1965

387 d 779 n.134 404 e 1085 n.139


387 d ss. 1067 404 e-405 a 1086 e n.143
389 d 1064 n. 74 405 a 1085
389 e 1067 406 a 1086, 1088-89,
390 e ss. 1067 1341n.4
391 d 1068 406 a-b 1394 e n. 93
392 a 1064 n. 74 406 d 1087
392 e 1064 n. 74, 1069 n. 84 407 a, b-c 1087
392 d 1069 n. 86 407 e 1088
395 a 1070 408 b 1088
395 b 1070-71 410 a 1088
395 d 1071n.91 410 b 1089
395 d-396 e 1071 410 e 1089 e n. 154
396 b 1070 410 d 1089
396 c-d, e 1072 410 e-412 a 1123 n. 254
397 a 1072 n. 94 411 a 1089
397 b 1085 411 e 1090
398 a 1072 411 e ss. 1090e n.158
398 b-c 1072-73 e n. 97 412 a 1091
398 d 1073 412 b 1090 n. 159, 1091
398 e ss. 1075 412 e 1169 n. 1, 1231 n. 181,
399 a-e 1075-76 1748
399 e-e 1076 412 d-414 a, b 1092
399 d 1085 412 d-e 1232 n.184
399 e 1076-77 412 d ss. 1233
400 a 1073 n. 99, 1077 n. 110 413 b 1231-32
400 b 1075, 1077 n. 110 414 d-415 d 1093
400 d 1073 n. 99, 1079 n. 118 416 a-b 1093 e n.166
401 a 1079 416 b 6 1093 n. 166
401 b-d 1080 416 e ss. 1094 e n.168
401 e 1081en.124 416 e 1093 n. 166, 1169 n. 1
401 d 1081 e n.125 416 e 993, 1106
401 d-402 a 1289 n. 365 419 a ss. 1120 n. 256
401 e 1082 419 a-420 b 1094
402 a 1082-83 420 b 1120 n. 256
402 e 103 421 b 1094
403 e 103 423 b 1094-95
403 d 1084 423 d-425 e 1099
403 e 1084 e n. 134, 1122 n. 260 423 e 1095
404 b 1084-85 424 a, b 1095
1966 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

424 e 1754 e n. 180 444 d-445 e 1250 n. 244


424 e 1095-96 444el 1251
424 d 1096 445 a 1103, 1304
424 d-e 1096 n. 176 445 e 1103-4
425 a-b · 1096 n. 176 445 e 5 1246
425 a-e 1707 445 e 9-d 6 1249
425 e 1096 e n.176 445 d 1112
426 e-427 a 1539 449 a 1104, 1246 e n. 229
427 a 1096 n.177 449 e 1169
427 d 1099 450 e 1104, 1105 n. 209
428 b-c 1314 n.. l 451 d 1104, 1107
428 b-e 1100 452 a 1104, 1107
429 a-e 1100 452 e 1108
430 b 1314 n.1 452 e ss. 1108-9
430 d-432 a 1100 452 e-456 e 1105 n. 209
433 a-d 1100 453 b-d 1110
433 b 208,846 454 a ss. 1110
434 e 1100 n.187 455 c-d, e 1110
434 d 1100-1 456 b-c 1110-11
435 b 1172 n. 9 457 a 1109 n. 220
435 b-c 1101 457 e 1112
435 c-d 1101 e n.190 458 b 1105 n. 209
435 d 1172 458 d l115-16
435 e 1101 458 e 1116
436 e ss. 1101 e n.192 459 a, b 1047 n. 50
439 e-441 a 1101 n.192 459 c-d 1116
441 e-e 1102 459 d 1117
441 e 1102 460 a 1116
442 a-b 1102 460 d-e 1117
443 e 1102 e n. 196, 1260 n. 461 e 1117 n. 242
277, 1295-96 461 d l118
443 d-e 1102 e n. 197, 1261 462 a-b 1119-20 e n. 254
443 e5 1244-45 462 b, c-d 1118
443 e6 1251 463 a-b 1118-19
444 e 1090 n.158 465 d-466 a 190
444 e ss. 1297 466 a 1120 n. 256
444 e-e 915 n. 48, 1103 e nn.. 466 d 1105 n. 209
199-200, 1248, 1304 n. 421 466 e 1122
444 d 1103 n. 202 466 e-467 a 1124
444 d 8-11 1253 467 e 1125 e nn. 270-271
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1967

467 d 1124-25 484 e 83 n. 70, 1141 e n. 320,


468 a 1122 n. 262, 1U6 1170 e n. 5, 1186 e n. 51,
468 a-471 e 1122 n. 263 1208 n.107
468 b-c, d, e 1127 484 e 8 1730 n. 80
469 b 1121, 1127, 1129-30 484 d 1142, 1149 n. 343
469 b ss. 1128, 1461 485-487 1232 n.184
469 b-c 1119 n. 251 485 b ss. 1445 n. 78
469 e 1130 485 e ss. 1148 e n. 341
469 e-e 1131 486 a 1145 n. 329
469 e-470 a 1131 487 a 1148 n. 341, 1150 n. 347
470 a 1119 n. 251 487 a 7 1149
470 b 1130 e n. 289 487 d ss. 1144
470 e 1129 488 a-f 1145
470 d 1131 488 b 1147
470 e 1131 488 b ss. 1327
471 a 1119 n. 251, 1130 e n. 488 b-e 1176 n. 24
289, 1131 488 e 1146-47
471 a-b 1131 489 e 1150 en. 345
471 b 1132 490 a 1420 n.16
471 e 1105 n. 209 490 d ss. 1150
471 e-e 1133 490 e ss. 1024
472 b-c 1136 e n. 309 491 b 1150 e n. 347
472 e 83 n. 70, 1134, 1135 491 e 1150
n. 305, 1202 n. 88 491 d 1150-51
472 c-d 1133-34, 1170 n. 5, 491 e 1151, 1152
1442 n. 69 492 a 1690-91
472 d 385 n. 91, 1134, 1135, 492 a-b 549 n. 103
1165 e n. 391 492 a 5-b 1152
472 d 5 1134 492 b ss. 953 n.160
472 d 9 1134 492 b-c 1153
473 a 1135 n. 305 492 d-e 1153
473 b 851 nn. 30 e 34, 1135 493a, a-b 1153
n.305 492 e 1151,1154
473 c-d 1137 492 e-493 a 1690-91
473 d 1445 n. 78, 1685, 493 a 7 1143
1760 n. 206 493 a-e 953 n. 160, 1142
474 b ss. 1139 e n. 316 493 b 7 1154
475 e 1149 e n. 342 493 e 1153-54
476 a ss. 1141, 1177 n. 29 493 e 8 1143
479 d 1141 494 a 1154
1968 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

494 e 1155 504 a 1170-71


495 b 1155 504 b 1101 n. 190, 1172 n. 9,
495 c-d 1156 1673 nn. 73 e 74
495 e 8-d 1149 n. 342 504 b-e 1171 n. 7
496 a 1196 n. 74 504 e 9 1172 n. 9
496 b 1810 Il. 14 504 d-e 1170-71
496 b-c 1156 n. 369 504 e 1173, 1198
496 e-e 1693 505 a 1170-71, 1020,1173,1198
496 e 5-e 2 1156-57 505 b 1174, 1178
496 e 8 987 505 e 1174 e n. 15, 1175
497 b 1143-44, 1163 n. 379 505 d, e 1175
497b7-c4 1163 506 e 1176
497 d 1091 506 d 1176
498 a 1164 n. 382, 1233, 1237 507 a 1177 e n. 29
498 a ss. 914 e n. 43, 926 n. 507 e 1178
77, 1677 n. 88 508 a 1178
498 b 1163-64 508 b 1079 n.115
498 d-499 a 1164 508 b ss. 1178-79
499a 1146 e n. 331, 1432 n. 38 508 d 1179
499 a-b 1164 508 e 1179 e n. 35, 1187 n. 53
499 b 1685 e n. 16 509 a 1179
499 e 1683 509 b 1180 n. 37
499 c-d 1167 509 e 6 1193 n. 69
500 a-b 1164 509d 1180, 1183 n. 42, 1189 ss.
500 b 1150 e n. 344, 1713 n. 22 509 e-510 a 1192 n. 66
500 e 1164 510 a 5 1193 n. 69
500 d 799, 1165 e n. 389, 510 a 9 1192 n. 65
1201, 1306 510 b 1190-91
500 e 83 n. 70, 1165, 1699 510b10 1191-92
501 a 1684, 1701 510 d 1190
501 b 1166, 1187 e nn. 54-55 510 d 7 1193 n. 69
501 e 1105 e n. 209, 1136, 510 e 1192
1684 n.11 511 a 1192
501e4 1245 n. 228 511 b 1187 e n. 53, 1191,
502 a-b 1684 n. 11 1202 e n. 89
502 c-d 1169 n. 3 511 b 5 1193
503 e, d 1171n.7 511e3 1191-92
503 e-e 1232 n.184 511e6 1190 e n. 58
503 e 1170-71 511 c-d 1191
503 e-504 b 1172 e n. 9 511 d 1192 e n. 65
INDICE DEI l'ASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1969

514 a 1193 e n. 69, 1198-99 527 b 9 1213


e n. 78 527 d 1218
515 e 1194 527 e 1218
516 e 8 ss. 1207 e n.106 528 a, a-b 1218
516 e 9 1195 e n. 71 529 a 1218
516 c-d 1282 530 b 1216
516 d 1195 n. 71 530 b 6 1215, 1235 n. 192
517 b, b 6, e 1196 531a1-3 1215
517 d 1197 531 e 1215
518 b 6 ss. 1200 531e3 1215
518 c-d 1200 e n. 82 531 d 1215-16 e n. 135, 1227
518 d, e 1201 531 e 1228
519 a-d 1210 532 a-b 1229
519 b 8-c 2 1208 e n. 107 532 b 4 1229
519 e 1207 e n.105 532 e 1180 n. 37, 1229
519 e 5 1208 e n.108 532 e 6 1186 n. 50
519 d-520 a 1209 532 d, e 1229-30
520 b 1210 e n.112 533 b 1-c 5 1230
521 a 5 1215 533 c-d 1230
521 b 1210 534 a, b, b 8-c 1231
521 e-522 a 1210-11 534 e 1237
522 b, c-d 1211 534 e 6 1231
522 e 1-3 1211, 1792 n. 342 534 e 7 1232
522 e 4 1212 534 d 8-10 1231
522 e ss. 764 534 e 1232
523 a 1212 e n. 120 535 a 1232
523 a 2 1213 535 a-536 b 1233
523 a 6 1213 536 d 542, 1229, 1233
523b1 1213 536 d 7 1234-35
523 d 8 1213 536 e 1234
524 b 4 1213 537 a 1234
524 d 2 1213 537 b 1235
524 d 5 1213 537 b3 1236 n.199
525a1 1213 537 e 859-60 e n. 48, 971 n.
525 b-c 1212 n. 118 22, 1235 e n. 195
525 e 1213 e n. 125, 1224 537 d, 3, 5 1236
526 b 1214 537 e 1241
526 b 2 1213 537 e-539 d 1239
526 e 1186 e n. 50 538 e ss. 1242
527 a 1213 539 b 1241n.213
1970 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIGfl

539 b6 1241 548 e 9-d 1257


539 e8 1241n.213 548 e 4-549 a 1257
539 d8 1214 549 a 2 1258 e n. 271
539 d 8-e 2 1236 e n.199 549 a 9-b 7 1258 e n. 273
539 e-540 a 1238, 1672 549 b 1244
540 a 83 n. 70, 1141 n. 320, 549 e-e 1291-92
1170 n. 5, 1186 n. 51, 549 c-550 b 1259
1242-43 550 b 1261, 1269
540 a 9 1730 e n. 80 550 e-551 a 1264-65
540 b 1208 n. 108, 1243 551 c-d, e 1265
540 e 385 e n. 91, 1243 551 e 6 1266
540 d 1243-44 552 a 1266-67
540 e 5 ss. 1245 552 e 1267, 1284 n. 354
541 a 1245 e n. 228 552 e 1267
543 e 9 1246 n. 229 553 a 9-10 1292
544 a 1246 553 a-b 1267
544 e 1246, 1250 n. 244, 553 b-c 1268 e n. 305
1254 n. 259 553 e 1529 n. 25
544 e 2 1714 e n. 24 553 e 3 1268 n. 305
544 e ss. 1249 n. 241 553 d 1268
544 d 212,1251 554 a ss. 1265
544 d 6-e 2 1260 e n. 278 554 b 4, 8 1269
544 d-545 a 1250 554 e 1269
544 e 484 n. 22, 1295 554 e 1269
544 e 4 1261n.278 555 a-b 1269-70
544 e 5 1251 555 b 9 1270
545 b 6 1254 555 e, d 1271
545 d 1251-52 556 c-d 1271
546 a 1252 556 e 1272
546 b 1253, 1255 557 a 1272
546 e 1253 557 b, b 8 1274
547 b-c 1255-56 557 d 1275
547 e 1255 557 e 1275-76
547 d 1255 e n. 261 558 a, b 1276
547 e 5 1254 558 e 11-d2 1292
547 d, e 1256 558d1 1276 n. 335
548 a 1256,1264 558 d 9 ss. 1277
548 b 1256 559 e-560 b 1277 e n. 337
548 b-c 1257 559 b 9 1276 n. 335
548 b 7 1262 n. 282 559 d 7 1276 n. 335
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIClll 1971

560b1 1276 n. 335 577 a, b 1294


560 b 5, 7 1277-78 577 c-578 a 1294-95
560 e 1278 578 b 6-c 1295
560 d 1278 e n. 341 578 e-579 d, d-e 1295
561 a 1279 580 b-c 1298 e n. 400
561 a3 1276 n. 335 580 d-582 a 1298
561 c-d 1279-80 582 a-d 1299
562 a 1280 582d11 1300 e n. 404
562 e 1282 582 e 1300
562 e-563 a 1283 583 b ss. 1301
563 b-c 1284 584 e 1301
563 e-564 a 1284 583 c-584 a 1301
563 e 9 1284 584 d-e 1301en.411
564 a 615, 1263-64, 1280 585 a, b, b-c 1302
564. b 4-c 1284 585 e-e 1302-3
564 b 5 1284 586 a-e, e 1303
564 e 6-565 d 1285 587 a-e 1303-4
565 e 5, 9 1284 588 b ss., c-d 1304
565 d-566a 1285-86 588 e-589 b 1304-5
566 a-e 1286 589 b 1305 e n. 425
566 d 1485 n.15 589 a 1022
566 e 6-567 b 1286 589 d 1306 n. 426
567b 1295 590 d 1306 n. 426
567 b 12-c 1286 590 e 1306
567 d-e 1287 591 e 1425, 1684, 1748
568 b-c 1481 591 e-592 a 1306
569 a 45 n. 35 591 e-592 b 1327
571 a-b 1287 592 a 1307
571 b 1288 n. 363 592 b 1307, 1310 e n. 434,
571 c-d 1287 1328 e n. 52, 1683, 1748
571d6-572 a 1289 595 a 5 1317
572 b 1288, 1290 595 b 9 1315-16
572b10-d 3 1290 595 e 70, 1316
572 d 8 1292 595 e ss. 1316 e n. 6
572 e 1292-93 598 b 1316 n.12
573 a-b, b-c 1293 598 d 511en.31
574 b-d 1293 598 d 8 1316 n. 5
574 e-575 a, b-c 1293 598 e 1316 e n. 12, 1788 e
575 d 1293-94 n.325
575 e-576 a 1294 598 e ss. 1316 e n. 7
1972 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIOll

599 e 1788 e n. 325 619 e 1334 n. 69


599 d-600 e 3, 5 1320 620 a 1334
601 b 1320 620 e 1334
602 a-b 1321 621e5 1335
602 e 7-d 1321en.29 621 d 1335
603 e 1321-22
Sophistes
603 d-e 1322
604 b, c-d 1322 [791 n. 165, 822, 834 n. 6, 1236
604 d-605 a 1322-23 n. 200]
605 b 1323 e n. 35 226 e 1341en.4
605 b 7 1323, 1326 n. 47 228 e 1341en.4
605 e 1323-24 251 b 1452 n. 90
605 e 10-d, e 1324 257 a ss. 1377 n. 57
606 a 1324 259 e 1377 n. 57
606 b-d 1325
Symposium
606 d 4 1323 n. 35
606 e 85 e n. 1, 768, 1316- [358 n. 22, 612, 626, 782, 831,
17 e n. 10 900, 985, 1177 n. 29, 1653 ss..
606 e-607 a, b-c, d 1325 e n. 5, 1657, 1659 s.s.. e nn. 18
607 e-608 b 1326 e n. 47 e 24]
608 e 1328 175 e 991
608 d-610 e 1328 177 d 997
611 c-d 1329 178 b 997, 1002 e n. 33
611-612 a 1329 178 d 358 e n. 23,
612 d 184 n. 62, 1329 e n. 56 997, 998 n. 26, 1016
612 e-613 b 1330 n. 60 180 d 998
613 b 1186 n. 52, 1202 n. 88 181 b ss. 998
613 b 9-614 a 1330 n. 60 182 a-d 999
614 a ss. 1329 n. 58 184 e 998-999 e n. 28
614 e-615 a 1330 184 d-e 998 e n. 27
615 a 1335 184 e 998-999 e n. 28
617 b-620 d 945 n. 143 186 a 1001, 1003 n. 37
617 e, d 6 1331n.64 186 a-e 1002
617 d ss. 1331 186 a-188 e 137 n. 31, 1358
617 d-e 1333 186 b 1002, 1003 n. 37
617 e 1331 e n. 63, 1334 n. 70 186 e 1270 n. 317, 1003 n. 37
618 b ss. 1335 186 d 1003 n. 37
618 e 981 e n. 57 186 d-e 1002
618 e 8-e 4 981n.57 187 a ss. 1003
619 b 1333, 1334 n. 70 187 c-d 1003-4
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1973

187 d-e 1004 211 e 1020


189 c-d 1004 215 a-b 1024
191 a 1005 215 e ss. 766, 1024
191 d ss. 1005 216 a 1025 n.109
192 b ss. 1005 219 a 1079 n.115
192 e-193 a 1005 223 d 608-9
194 e 1006
Theaetetus
195 a ss. 1007
196 a-197 e 1007 [991, 1441 n. 65, 1591 e n. 125,
199 e, d 1008 1674]
201 b 1009
143 e ss. 1221 e n.151
201 d ss. 1009
152 a 507
201 e-202 b 1010
155 a 894 n. 93
202 e 1010 e n. 58
169 b 740
203 b 1008
173 d ss. 1810
203 b-c, .e-e 1010
173 e ss. 1161
204 a 1023 n.102
174 e 290
204 a-b 1011
176 b 1165, 1186 n. 52
204 e 1007, 1011
176 e 83, 1202 e n. 88, 1763
204 d-205 a, b-c 1012
n.221
205 e 1013
186 e 1162 e n. 378, 1227,
206 a 1013 e n. 67, 1020,
1677 nn. 88 e 90
1597 n.140
206 b, b-c 1015 Timaeus
207 a ss., e, d 1015
[304 n. 65, 834 n. 6, 1028, 1063,
108-209 48, 1016
1183 n. 44, 1653 n. 5, 1762 n.
208 a-b 1015 216, 1763 e n. 221]
308 d-e 1766 n. 230
209 a 1016 28 e 1182 n. 41, 1699
209 b 1023 n. 103, 1713 34 b 779 n.134
209 b-e 1017 34 b-38 e 1216 e n.137
209 e 1018 n. 87 37 a 1764
209 d 222 n. 2 38 d 1216 n.138
210 a 331 n. 148, 1017, 1018 40 d 1204
210 b, e 1018 48 b 1441 n. 65
210 d 1019 56 b 1441n.65
210 e 331 n. 148, 1018, 1019 57 e 1441n;65
21lb 1020 68 e 779 n.134
211 e 1018,1019, 1020 77a 1387 n. 82
211 d 1019 90 a 1163 e n. 379
1974 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

PLUTARCO POLIBIO

Cimon Historiae

4 731n.30 [1603]
10 1537 VI7 407
De fortuna Alexandri VI 8, 6 407 n.15

l, 6 1129 n. 283 POLICLETO

328 e 1705 Testimonia (Diels-Kranz)


A3 1136
De liberis educandis
PROCLO
ld 534-35
In Platonis Timaeum
Demosthenes
I 75 d 1684 n. 8
5 1810
6 1812 PRODICO DI CEO
Dio Testimonia et fragmenta
11 1222 n. 154 (Diels-Kranz)
13 1213 n.122 A 13 ss. 539 en. 77
B2 774 e n.124
Lycurgus
PROTAGORA
6 165 n. 17, 166 n. 19, 186-187
7 166 n.18 Testimonia et fragmenta
13 166 n. 19 (Diels-Kranz)
13 ss. 167 n. 20 A 24-28 539 e n. 77
24,25 168 Bl 518 n. 46
B2 524 n. 53
De comparatione Aristophanis B3 525 e n. 55
et Menandri epitome B4 518
[608 n. 5] PSEUDO-ESIODO

Pericles Hoiai
32 576 [63 n. 25]
Chironis Praecepta
Quaestiones convivales
[66]
I 992 n.13
PSEUDO-ISOCRATE
Solon
Ad Demonicum
8 263
15 260 n. 6 [356 n. 16]
17 261n.9 19 1796 n. 359
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1975

PSEUDO-OMERO SAFFO

Hymni Fragmenta (Diehl)


XX,4 459 1 251 n. 76
PSEUDO-PLATONE 2 255
Hipparchus 27 a 256
228 b ss. 412 55 a 429 e n. 20
228 e 352
SCOLII AD ARISTOFANE
PSEUDO-PLUTARCO Ad Ranae
De liberis educandis 1028 399
SE 1540 e n. 63
SCOLII AGLI ELEMENTI DI
De musica EUCLIDE (Heiberg)
4 193 1. XIII 1219 e n.146
9 193 n. 78
15-17 1754 n.179 SCOLII AD EscmLO
27 1074, 1754 n. 179 Ad Persas
30 633 n. 44, 1076
432 421
42 193 n. 78
Ad Prometheum
De vita et poesi Homeri
241 241n.52
[87 n. 9]
1073 e ss. 1317 e n.12 SEMONIDE DI AMORGO

Decem oratorum vitae Fragmenta (Diehl)


832 B ss. 1812 1 242, 280
837 A 1560 n. 4 1, 1 246 n. 65
837 B 1430 n. 33 2 280
837 e 1531-32 9. 243
838 D 1418 n. 9 29 243 n. 56
839 e 1560 n. 4 29, 13 244 n. 60
PSEUDO-SENOFONTE
SENOCRATE
Atheniensium constitutio
Fragmenta (Heinze)
[550 e n. 104, 1254]
3 1242
QUINTILIANO SENOFANE
Institutio oratoria Testimonia et fragmenta
[1669] (Diels-Kranz)
III 1, 14 1586 n. 111 A1 318,321
X 1, 66 611 A 11 323
1976 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

A22 318 e n. 91 I 8, 27 1615 e nn. 26 e 28


A25 318 19 1613, 1616
B 1 .320 n. 110, 322, 992 e n. 11 I 9, 1 1613 n. 21
B 1, 20~24 322 e n.117 I 9, 2-6 1614 n. 26
B 1, 21 1054 n. 63 I 9, 6 1644
82 182 n. 55, 191 e n. 75, III 1, 4 1606 n. 2
320 n. 110, 322, 1462 III 1, 5 1606 n. 3
B 2, 11 377 en. 72 V3,6 1606 n. 3
B 2, 11 ss. 324,396,499 V 3, 7-13 1606-7
B 2, 11-22 209 n. 30, 324 VII 7, 57 1606-7
B 2, 12 338
B 2, 15-22 1463 Cynegeticus
B 2, 19 320 n.110
[1622, 1643 ss., 1644 n. 117]
B3 196 n. 4
B8 321 Il 1644, 1649 n. 141
B9 1054, 1316 e n. 8 12 ·1647
B 10 85 n.1, 318 I 5 ss. 1647
B 11 319 II-VIII 1647
B 12 319 IX, X, Xl 1648 e n.134
B 14 319 XII-XIII 1648 e n.135
B 15 319 XIII3e6 1648
B 16 319 Xli 1 1649
B 18 320, 459 n. 73 XII 2-6 1649 e n.138
B 22 1060 n. 71 XII 7-8 1649 e n.139
B 23 319 XII 15, 16, 17,18 1649 en.140
B 24 319 XII 18 1648 n. 135, 1649 e
B 25 319 nn.140e141
B 27 320 XIII 1611, 1649 n. 139
829 319-320 XIII 1 1650 n.146
B 30 319 XIII 1-3 1649-50
B 32 319 XIII3 1648
B 33 319 XIII 4 1650 e n. 143
C2 325 n.126 XIII 5 1650 n. 145
XIII 6 1648, 1650 e n. 146
SENOFONTE XIII 8, 9 1650 e n. 146
Anabasis XIII 10 1649 e n.140
XIII 11 ss. 1650
[1617 n. 34]
XIII 14 1649 e n. 140
I 7, 3 1615 n. 27 XIII 15 1650
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICID 1977

XIII 15-18 1650 e n. 148 VIII 8, 12 1613


XIII 17 1650 VIII 8, 15 1613 n. 24, 1625
XIII 22 1649 e n. 140 VIII 8, 26 1615 n. 26
Cyropaedia De re equestri

[779 n. 133, 1481, 1607, 1612 ss., I 1611 e n.18


1633, 1752 e n. 171] V 1639 n. 92
XII 14 1650 n. 143
I 1, 6 1617 n. 34
De vectigalibus
I 2, 2-3 1620
I 2, 3-4 1620 [1551, 1631 n. 72, 1815 e n. 25]
12, 5, 6 1621 V,9 1611 e n.19
I 2, 6 1618n.37,1620, 1621
Hellenica
I 2, 7, 8 1621
I 2, 8-9 1622 e n. 51 [644 n. 5, 1609-10 e n. 14]
I 2, 9-11 1644 I 1-2, 2 718 n.17
I 2, 10 1622 e n. 52 Vl,31 1808
I 2, 12 1622 VI 3, 10 ss. 1814
I 2, 15 1623 VI 3, 14 1809 n.11
I 2, 16 1614 n. 26 VI 3, 18 1809 e n.11
I 3, 2 1624 n. 59, 1625 VI 4, 3 1633 n. 75
I 3, 8 1618 n. 37 VII 1 1631 e n. 72
I 3, 18 244 n. 60 VII 4, 15 ss. 1630
I 4, 27 1624 n. 59 VII 5, 12-13 1633 n. 75
II 4, 20 1624 n. 59
Ipparchicus
III 3, 26 1624 n. 59
IV 2, 8 1624 n. 59 [1611, 1649 n. 148]
IV 3,2 1624 n. 59 Il, 2 43 n. 31
IV 3, 23 1624 n. 59 VII 1-4 1611 n.18
VII 5, 85 1625 VII 2 1610 n,17
VIII 1, 37 1624 n. 59 IX 8 1619
VIII 2, 4 1624 n. 59
Lacedaemoniorum Respublica
VIII 2, 7 1624 n. 59
VIII 3, 1 1625 [161 ss., 1607, 1610 e n.15, 1624
VIII 4, 5 1624 n. 59 e n. 59, 1625 ss., 1627 n. 65]
VIII 6, 16 1624 n. 59 I 1114
VIII 7, 10 1618 n. 35 I2 1628, 1628-29 e n. 67
VIII 8 1613, 1624 I 3-4 1629 n. 68
VIII 8, 4 1624 n. 59 14 1772
VIII 8, 1-2 1625 I 10 1629
1978 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICFil

II 1617 n. 34 I 2, 40 ss. 767 e n.102


II 1-2 1629 n. 68 I 2, 47 765 n. 91, 766
II 2 1628 I 2, 49 780-81
II 12-14 358-59 e n. 24 I 2, 56 ss. 768
II 13 1628, 1629 n. 68 I 2, 60 731n.32
II 14 1629 I 2, 62-64 808
III 2 1629 n. 68 14 735
IV 7 1622 n. 52, 1644 I 4, 5 ss. 735 e n. 43
VIl 1629 n. 68 I 4, 8 757
VI3-4 1622 n. 52, 1644 15 775
VII 1 1623 n. 55, 1629 n. 68 I 5, 5-6 775, 778 e n. 132
IX 1 1629 n. 67 I 5, 14 771
Xl 1629 n. 67 I 5, 15 771
X4 1620 n. 42, 1629 n. 67 I 6, 1 ss. 1436
X8 1629 n. 67 I 6, 10 780 e n. 136
XIl 1629 n. 67 I 6, 14 733 e n. 40
XIV 1624 I 6, 15 767 e n. 97
XIV6 1632 e n. 74 I 6, 18 733 n. 40
I 7, 2 ss. 1217
Memorabilia
I 7, 4 1217 e n.140
[1608 ss., 1627, 1634 n. 77] II 1 765 n. 91, 772, 808
I, 1 814 II 1, 6-8 773
11-2 717 n. 15, 718 n. 16 III, n 773
I 1, 2 814 II 1, 11-13 808 e n.193
I 1, 10 740 n. 54 II 1, 17 773 e n. 123, 788 n. 159
I 1, 12 737 e n. 47 II 1, 21 774 n. 124
I 1, 16 763, 765 e n. 92, 767 II 1, 34 774 n. 124
n.98 II 2 781
I 1, 17 765 n. 91 II 3 780 n. 137
I 1, 18 732 II 3, 4 781
I 1, 48 766 n. 94 II 3, 14 781
12 765 n. 91, 1155 II 3, 16 43 n. 31
I 2, 2 896 II 3, 18 ss. 780 n. 137
I 2, 4 739,762 II 5 781
I 2, 9 768 n.105 II 6, 14 783
I, 2, 12 ss. 1608 II 6, 28 784
I 2, 14 779 n.133 II 9 783
I 2, 31 765 n. 91 III 1-5 769
I 2, 31-38 768, 850 n. 28 III 1, 1 ss. 769
I 2, 39 1681 III 1, 1-3 785
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIOD 1979

III 1, 11 770 IV7, 6 763-64


III 2 770 n.112 IV7,8 764 n. 87
Iii 3 770 IV7,9 739, 762, 764 n. 87
III 4 770 e n.112 Oeconomicus
III 5 770, 1610 n:.17
III 5, 7 732, 770-71 [127 n. 12, 574 n. 17, 1634 ss.]
III 5, 14 732, 770-71 IVl 1636
III 5, 16 780 n. 137 IV 2-3 1636
III 5, 17 772 n.117 IV3 1623 n. 55
III, 5 18 1723 n. 55 IV4 1637-38 e n. 90
III 5, 20 772 e n.117 IV 4 ss. 1622, 1637
III 9, 10 767 n. 100, 788 n. 159 IV6 1637
III 10, 1-5 485 n. 25, 760 IV 8-12 1637
IVl,2 786-87 IV12 1638 n. 90
IV 1, 3-4 787 IV18 1613
IVl,5 787 IV 20-25 1637
IV2 787. Vl ss. 1638 n. 90
IV 2, ss. 767 VI 12-17 1638
IV2, 1 1361en.26 VII 4, 5 1639
IV 2, 4 788 VII 6 1640 n. 96
IV 2, 8 ss. 733 n. 40 VII 12 1639 n. 92
IV 2, 8-10 1359 VII 14 1640 e n. 97
IV 2, 10 1360-61 VII 18 ss. 1641
IV 2, 11 733 n. 40, 735, 765 ri. VII 21-22, 23, 24, 25 1641
91, 773 n. 123, 788 VII 32 1639
IV2,37 767 n. 98 VII 32-37 1641
IV 3 735 VII41 1641
IV 4, 14 ss. 767 VIII 1641
IV 4, 15 780 n.137 IXll-13 1642
IV 4, 16 ss. 767 IX-X 1642
IV4, 19 767 n.102 XI 14 1643
IV 5, 2-5 778 e n.132 XII4-XIV 1642 e n.110
IV6 722, 793 XII 17-18 1642
IV6,1 791 n. 165, 856 XII20 1643
IV 6, 12 767 XIII4 1642 n.110
IV6, 14 767 n. 98 XVl 1642 n. 110
IV7 763, 764 e n. 87 XVlO 1643
IV7, 1 785 XVIl 1643
IV7,2 764 n. 87 XXIlO 1643
1980 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTIClll

Symposium 258 55. 493 e n. 33


3, 5 1788 266 55. 589
4, 6 1317 n. 12, 1788 n. 325 270 490 n. 31
394 493
SESTO EMPIRICO 537-538 589
Adversus Mathematicos 545-548 589
86 n. 6 608 492 n. 32
I 298
707 141n.41
SILIO ITALICO
Oedypus tyrannus
Punica
[491 55.]
VIII 611 1509 n. 95
1186 55. 492 n. 32
SIMONIDE SOLONE
Fragmenta (Diehl) Fragmenta (Diehl)
4 386 e n. 93, 885 e n. 56
1 251 n. 76, 271, 276 n. 54, 368
4, 2 484 e n. 23
n.50,447-49, 1096
4, 7-9 490 e n. 31
1, 4 1042 n. 35
37 386 e n. 92
1, 7 55. 272 n. 45, 367
SOFOCLE 1, 8 265 e n. 21
Aiax 1, 13 265 e n. 21
1, 17-32 272 n. 46
[43 n. 28, 61n.16]
1, 25 300
125-126 492 e n. 32 1, 25-28 265 e n. 21
550-551 490 n. 31 1, 29-32 455
Antigone 1, 30 300
[454 n. 59] 1, 31 265 e n. 21
1, 32 1040 n. 32
582 55. 457 n. 64, 487
1, 33 273 n. 47
593 55. 457 n. 64
1, 34 147 n. 53, 273 n. 47
E le etra 1, 39-40 27 n. 4
[491 55.] 1,42 273 n. 47
Philoctetes 1, 63 274
1, 64 246 n. 65
[61n.16]
1, 67 273 n. 47
Oedipus Coloneus 1, 67-70 274
7 493 n. 35 1, 69 273 n. 47
8 490 n. 31 1, 71 S5. 275
75 490 n. 31 1, 71-76 354 n. 13
203 55. 493 e n. 33 1, 75 275 n. 52
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1981

1, 76 265 e n. 21 24 275 n. 53
3 52 n. 6, 134 n. 31, 24, 1-2 277 n. 57
275 n. 53 24,3 265 e n. 21, 277 n. 57
3, 1 269 24,6 277 n. 57
3, 5 ss. 367 24, 7-15 405 n. 10
3, 6 ss. 265 24, 18-19 203 n. 20
3, 16 265 e n. 21 24,22 679 e n. 85, 1542 n. 66
3, 17 266 n. 27 24, 22-25 276 n. 55
3, 17 ss. 266 e n. 24 24, 26-27 277 n. 57
3, 18 402 e n. 3 25 275 n. 53, 276 n. 55
3,28 266 25, 6 679 n. 85, 1542 n. 66
3,30 267 n. 29 25, 7 276 n. 56
3, 32 ss. 267 25, 8-9 277 n. 57
4 275 n. 53
STRABONE
4, 7 276 n. 55
4, 9-12 368 Geographica
4, 11-12 275 n. 52 362 173 e n. 33, 176, 177
4, 12 276 n. 54
5 275 n. 53, 276 n. 55 SUDA
5, 5 277 n. 57 s :o. eea'tT]wç 1219 e n.146
8 268 n. 35, 275 n. 53 s.v. km11:pa'tT]ç 1531-32
8,4 267 n. 27, 402 e n. 3 s.v. <1>tMcro<1>oç 1223, 1708 n. 12
10 268 e n. 34, 275 n. 53
10, 3-6 402 e n. 3 TACITO
12 357 n. 20 Germania
13 357 n. 20
[1752 n. 171]
14 182 n. 57, 368
14, 5 358 n. 20
TALETE
14,6 1345 e n. 10
15 280 Testimonia (Diels-Kranz)
16 275 n. 53, 281 e n. 73 A9 290
19,9 1345 e n. 10
20 263 n.15 TEOFRASTO
22 263, 1065 De causis plantarum
22, 5 280
V 8 ss. 1253 e n. 254
22, 7 279 e n. 63
23 275 n. 53, 278, 913 Characteres
23, 3 276 n. 56 [370 n. 57]
23, 13 ss. 276 n. 55 IV 126 n. 11, 574 n. 161,
23, 21 277 n. 57 635 n. 82
1982 INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI

Historia plantarum 183 ss. 371,405


[641 n. l] 197-208 368 n. 50
213 ss. 366
TEOGNIDE 220 366
Fragmenta (Diehl) 227 368 n. 50
227-232 354 e n.13
1-18 348 n. 6 233 366
19-26 350-351 237 ss. 359
23 352 e n.10 237-254 348 n. 6
27 356 239 992 e n. 12
31-38 363 e n. 31, 1114 245-252 352 e n. 10
39-52 360 267 368 n. 49
40 268 n. 36, 402 n. 3 315 368 n. 50
51 267 n. 28 319 368 n. 50
52 268 n. 36, 402 n. 3 351 275 n. 52, 368 n. 49
53-68 360-61, 363 n. 33 383 368 n. 49
54 371 n. 58 393 368 n. 49
59 365 585 368 IL. 50
60 1650 n. 145, 1755 n. 183 619 368 n. 49
69 ss. 364 621 368 n; 49
69-72 363 641 368 n. 49
77 ss. 364 659 368 n. 49
129 370 667 368 n. 49
133-142 368 n. 50 683 368 n. 50
134 246 n. 65 694 282 n. 73
142 246 n. 65 699-718 368 n. 49
145 ss. 272 n. 45 719 368 n. 50
147 207, 370 e n. 57 757-792 355
147-148 370 e n. 56 770 395 n.112
149-150 370 790 395 n. 112
153 370
TEO NE
157 246 n. 65
159 368 n. 50 Progymnasmata
(Rhetores Graeci, ed. Waltz)
149 ss. 368 n. 49
153 368 n. 50 I 153 237 n. 41
155 368 n. 50
TIMOTEO
161 368 n. 50
165 368 n. 50 Persae
173-182 368 n. 49 241 ss. 353 e n.11
INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICHI 1983

TIRTEO I 8, 3 648
Fragmenta (Diehl) 19 648
I 10, 3-4 648
1 174 nn. 33-34
I 11, 1 648
2 173 n. 33, 186 ss.
I 17 401n. l
3 ab 187 ss.
I 18, 1 401n.1
4 172
119 299 n. 50
5 172-173
I 21, 1 650
6, 1-2 180
I 22, 1 656 e n. 29, 1510 n. 102
6, 7 185 e n. 65
I 22,4 650, 652 e nn. 20-21,
7, 9 27 n. 4
1510 e n.102
7, 31 1125 e n. 271
I 23, 6 658, 667 e n. 53
8 173
I 36, 2 674
8, 21 1125 e n. 271
I 66-88 662
9 178, 180 ss., 188 n. 171, 191
I 66, 1 663 n. 41
n. 75, 368 n. 49, 1329 n. 57
I 68-71 666 n. 50
9, 1 ss. 181, 206
I 70 676
9, 3-32 1330
I 73-78 663 n. 41, 664, 666
9, 5-17 182 e n. 56,
n. 50
183, 209 n. 30
I 73-76 1464
9, 13 182 n. 57
I 74 421 e n. 7
9, 16 1125 e n. 271
I 75-76 914 n. 44
9, 23-32 180, 183
I 75, 3 665 e nn. 46-47,
9, 30 1040 n. 32
675-76
9, 37-42 185
I 76, 1 665 n. 47
TRAGICORUM GRAECORUM I 76, 2 665, 675-76
FRAGMENTA (N auck) I 76, 2-3 652 n. 21, 665 n. 47
I 77, 1 671
470 443 n. 40
I 77, 6 665-66 e n. 50
TUCIDIDE 188 662
I 89-118 572 n. 12, 659, 663 n.
De bello Peloponnesiaco
41, 664
I 1, 1 660 n. 37 I 93, 5 660 e n. 36
I 1, 1-2 124 n. 3 I 97, 2 · 659-60 e n.
I 1, 2 644 n. 5 35, 660 n. 37
I 2, 2 648 I 118, 2 667 n. 55
I 2-19 647 I 138, 3 501, 568 n. 7, 654
I 6, 3-4 424 I 140, 1 1829 n. 52
I 6, 5 1109 I 140-144 682-83
I 7, 1 648 I 144, 1 682
1984 INDICE DEI PASSI DEGLI AUfORI ANTICffi

II 8, 4 672 n. 63 IV59 675


II 8, 4-5 666 e n. 49 IV 61, 5 652 n. 21
II 35-46 259 n. 5, 683 V 25,3 667 e n. 54
II 36, 5 1473 n. 40 V 84-116 671
II 37 217, 1502 e nn 79-80 V89 672
II 37, 1 685,687n. 104,730 V 96, 97 672
II 37, 2 244,561 V 10.4-105 914 n. 44
II 37, 3 424 n.14 V105 673
II 40, 1 545, 687 n. 104, V105, 2 652 n. 21
921, 1410 V105, 4 928 n. 81
II 40, 2 160 n. 6, 686 VI 12~13 679
II 40, 3 1845 VI 15 676 e n. 76
II 41, 1 548,567,688,1466 VI 17, 1 679 n. 84
II 48, 3 1359 VI18, 3 675
II 48, 3 ss. 652 n . 21 VI54 412 n. 27
II 60-64 670, .683 VI 54 ss. 646 n. 9
II 60, 3 567 VI76 675
II 65 678-79 VIII 1 677 n. 78
II 65, 6 681 VIII 86, 4-5 676 n. 76
II 65, 7 679,682 VIII 86, 5 679 e n. 85, 1542
II 65, 8 680 e n. 86, 1542 n.66
n.66 VIII 97, 2 687 n.104
II 65, 8-9 1503 e n. 77
II 65, 9 677, 680, 684, 685 n. VARRONE
100, 1836 n. 75
Antiquitates rerum humanarum
II 65, 11 677 n. 78, 680
et divintirum
II 65, 12 681en.91
II 65, 13 678, 681 [1536]
III 37 685
III 37 ss. 619 VIRGILIO
III 82 569-70, 1425 Aeneis
III 82, 2 570, 652 n. 21
[222]
III 82, 4 1278 e n. 342
III 82, 6 364 n. 36 Georgica
III 82-84 670-71 II 490 651 n.18
INDICE DEGLI STUDI MODERNI CITATI

N.B. Per i riferimenti completi delle opere di W. Jaeger si riman-


da alla Bibliografia alle pp. xxxv-11 del presentè volume.

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ARNIM, HANS FRIEDRICH AUGUST VON, Leben und Werke des Dion
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IDEM, Platos Jugenddialoge und die Entstehungszeit des Phaidros,
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BECKER, OTFRIED, Das Bild des Weges im friihgriechischen Denken,
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INDICE GENERALE

INTRODUZIONE di Giovanni Reale p. VII


BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI w. JAEGER di Herbert Bloch XXXIII

PAIDEIA

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE LV


PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE LIX

INTRODUZIONE: Il posto dei Greci nella storia dell'edu-


cazione dell'umanità P· 1

LIBRO PRIMO
L'ETÀ ARCAICA

I. -Aristocrazia e areté 25
Il. -Cultura ed educazione dell'aristocrazia omerica 49
III. -Omero educatore 85
IV. -Esiodo e il popolo contadino 121
V. -L'educazione statale spartana 155
-La polis quale forma educativa e i suoi tipi 155
L'ideale spartano del IV sec. e la tradizione 160
L'esortazione di Tirteo all'areté 174
VI. - Lo Stato secondo il diritto e il s110 ide•de civico 195
VII. - L'autoformazione dell'individup nella poe~ia ioI\ico-
eolica 221
Vili, - Solone e gli inizi <!.ella rnlwr;i, poUtii;:a d' .t\.te11e 257
2006 INDICE GENERALE

IX. - Il pensiero filosofico e la scoperta del cosmo 283


X. - Reazione e trasfigurazione dell'aristocrazia 343
La tradizione del l.ibro di Teognide 346
La codificazione della tradizione educativa aristo-
cratica 356
La fede aristocratica di Pindaro 372
XI. - L'azione culturale dei tiranni 401

LIBRO SECONDO
APOGEO E CRISI DELLO SPIRITO ATTICO

I. - Il dramma eschileo 419


II. - L'uomo tragico di Sofocle 467
III. - I Sofisti 495
I Sofisti come fenomeno di storia della cultura 495
Le origini della pedagogia e dell'ideale della cultura 514
Crisi dello Stato e educazione 548
IV. - Euripide e l'età sua 565
V. - La commedia di Aristofane 605
VI. - Tucidide pensatore politico 641

LIBRO TERZO
ALLA RICERCA DEL DIVINO

I. - Il quarto secolo 691


II. - Socrate 705
Il problema socratico 711
Socrate come educatore 728
III. - Platone nella storia 817
IV. - I brevi dialoghi socratici. Il problema dell'«areté» 831
V. - Il Protagora. Paideia sofistica o socratica? 865
VI. - Il Gorgia. L'educatore come uomo politico 899
VII. - Il Menane. Il nuovo concetto della scienza 961
VIII. - Il Simposio. Eros 987
IX. - La Repubblica, I 1027
Introduzione 1027
Il problema della giustizia come guida allo stato ideale 1032
INDICE GENERALE 2007

La riforma della paideia antica 1045


La critica della «musica» 1051
Critica della ginnastica e della medicina 1083
Il posto dell'educazione nello stato della giustizia 1091
L'educazione delle donne e dei fanciulli 1104
Selezione razziale ed educazione dell'élite 1111
Educazione e legislazione militare 1121
La repubblica ideale come sede perfetta dell'uomo
filosofico 1133
X. - La Repubblica, Il 1169
La paideia dei reggitori 1169
Essenza e valore della conoscenza suprema 1169
La matematica come propaideia 1210
La formazione dialettica 1226
La teoria delle forme politiche come patologia
della personalità umana 1245
Lo stato in noi 1295
Xl. - La Repubblica, III 1313
Il valore educativo della poesia 1313
Paideia ed escatologia 1326

LIBRO QUARTO
IL CONFLITTO DEGLI IDEALI DI CULTURA
NELL'ETÀ DI PLATONE

I. - La medicina greca come paideia 1339


II. - La retorica d'Isocrate come ideale di cultura 1413
III. - Educazione politica e ideale panellenico 1457
IV. - L'educazione del principe 1479
V. - Autorità e libertà. Il conflitto nella democrazia
radicale 1517
VI. - Isocrate difende la sua paideia 1559
VII. - Senofonte: il gentiluomo e soldato ideale 1605
VIII. - Il Fedro platonico. Filosofia e retorica 1651
IX. - Platone e Dionisio. La tragedia della paideia 1679
X. - Le Leggi. Il legislatore come educatore 1705
Spirito delle leggi e vera educazione 1714
Le cause della decadenza dello stato 1740
2008 INDICE GENERALE

La norma divina nella fondazione degli stati I proemi


delle leggi 1756
Le leggi per l'educazione del popolo 1770
Educazione dei reggitori e conoscenza di Dio 1798
XI. -Demostene 1803

INDICI
a cura di Alberto Benanti

I. INDICE DEI NOMI E DELLE COSE 1853


Il. INDICE DEI PASSI DEGLI AUTORI ANTICIIl CITATI 1925
III. INDICE DEGLI STUDI MODERNI CITATI 1985
IV. INDICE GENERALE 2005
NELLA COLLANA IL PENSIERO OCCIDENTALE:

Aurelio Agostino, La Città di Dio


A cura di Luigi Alici.

Avicenna, Metafisica • La scienza delle cose divine


Traduzione dall'arabo, introduzioni, note e apparati di Olga Lizzini.
Prefazione, revisione del testo latino e cura editoriale di Pasquale Porro.

Marziano Capella, Le no;ae di Filologia e Mercurio


A cura di Ilaria Ramelli.

Filostrato, Vite dei sofisti


Testo greco a fronte. A cura di Maurizio Civiletti.

Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo (2a ediz.)


A cura di Gianni Vattiroo. Introduzione di Giovanni Reale.

Thomas Hobbes, Leviatano


Testo inglese a fronte del 1651. Testo latino in nota del 1668.
A cura di Raffaella Santi.

David Hume, Trattato sulla natura umana


Testo inglese a fronte. A cura di Paolo Guglielmoni.

Gregorio di Nazianzo, Tutte le Orazioni


Testo greco a fronte. A cura di Claudio Moreschini.

Gregorio Palamas, Atto e luce divina


A cura di Ettore Perrella, con la collaborazione di Marco
Zambon, Sofia Georgopoulos, Emanuele Greselin.

Charles Sanders Peirce, Opere


A cura di Massimo Bonfantini, con la collaborazione di
Giampaolo Proni.

Platone, Tutti gli scritti (3a ediz.)


A cura di Giovanni Reale.

Plotino, Enneadi
Testo greco a fronte. A cura di Giuseppe Faggin.

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