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Diritto Pubblico

Franco Modugno
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo I
Ordinamento, diritto, Stato

Ordinamento e giuridicità
Il concetto di “ordinamento” è fortemente legato all’idea di ordine. L’ordinamento, infatti, è ordine
in un duplice senso:
• Strutturale in quanto sistema, ossia insieme ordinato di parti;
• Teleologico, cioè finalistico, in quanto volto alla produzione di un ordine sociale.
Esso è al tempo stesso promotore di un ordine fuori di sé, ma è anche costruttore e manutentore di un
ordine dentro di sé, e si presenta per questo sotto le due spoglie di ordo ordinans (ordine che ordina)
e ordo ordinatus (ordine che è ordinato).
Nel sintagma “ordinamento giuridico”, al sostantivo “ordinamento”, inteso come composizione di
elementi in “insieme” o “sistema” per realizzare un “ordine”, si accompagna l’aggettivo “giuridico”
che qualifica il fenomeno che noi chiamiamo “diritto”. Esso può indicare:
• Sia l’insieme delle norme (diritto in senso oggettivo, come norma agendi);
• Sia gli aspetti subiettivi del diritto (diritto in senso soggettivo, come facultas agendi).
La qualificazione di soggetto nell’ordinamento appartiene a:
• Tutti gli individui-persone fisiche che operano e interagiscono nell’ordinamento stesso,
anche se privi della capacità di agire;
• Enti-persone giuridiche (in genere un gruppo di persone che vogliono realizzare interessi);
• La collettività;
• L’intero popolo.
Le posizioni subiettive ascrivibili al soggetto sono ricondotte sotto l’etichetta comprensiva di
situazione giuridica soggettiva e l’idoneità ad esserne titolari si definisce capacità giuridica.
• È l’ordinamento (cioè il diritto in senso oggettivo) a stabilire che per i soggetti-persone fisiche
la capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Tuttavia, sempre per le persone-
fisiche, soggettività e capacità giuridica possono disgiungersi.
• Diversa dalla capacità giuridica è la capacità d’agire, cioè l’idoneità del soggetto a compiere
direttamente attività rilevanti per il diritto. Essa si acquista con il raggiungimento della
maggiore età (art. 2 c.c.) e si estingue con la morte. Tuttavia, in presenza di situazioni che
rendono il soggetto in tutto o in parte incapace di curare i propri interessi, la capacità d’agire
può essere limitata o esclusa in seguito a interdizione o inabilitazione.
Per l’ordinamento il contrassegno della giuridicità consiste nella capacità qualificatoria della
condotta umana (statuente ciò che è lecito, illecito, doveroso, obbligatorio, permesso, vietato ecc.)
secondo un modello esclusivo (regola o norma) che costituisce l’anticipazione logica, “voluta” e
prospettata, della condotta medesima (il suo “dover essere”). Pure “giuridico” va considerato non
soltanto l’efficacia condizionante del comportamento (vale a dire la sua regolazione), ma anche il
fatto dell’adeguarsi di quest’ultimo a quello, vale a dire la sua regolarità.
Possiamo dire che la giuridicità è qualità che attiene alla condotta come prospettata dalla norma ed
alla condotta come conformemente posta in essere dal destinatario della norma stessa.
L’ordinamento giuridico non si occupa della regolazione-qualificazione di ogni comportamento
umano. Infatti non ogni condotta risulta appartenere alla sfera del “giuridicamente rilevante”.
Es: un ragazzo che in un autobus non ceda il posto ad un’anziana non è giuridicamente rilevante
La valutazione (il giudizio di valore) della condotta rispetto alla “regola” prefissata, propria
dell’ordinamento giuridico, assume ad oggetto la condotta del singolo solo in funzione
dell’ordinazione complessiva della società, del gruppo sociale cui il singolo appartiene. In tal senso
si parla di necessaria plurisoggettività dell’ordinamento e delle regole ordinamentali.
L’ordinamento giuridico si presenta nella duplice veste di ordo ordinans e di ordo ordinatus.

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Esaminando l’ordinamento giuridico quale ordo ordinans (societatis) poniamo subito


un’acquisizione che ci deriva dalla teoria dei sistemi: ogni ordinamento è un sistema valutativo-
deontico tendenzialmente chiuso, vale a dire che esso in quanto sistema che legge, valuta e ordina
la realtà sociale, muove sempre da una determinata prospettiva di valori; prospettiva che per forza
di cose non può che essere parziale. L’ordinamento, per ordinare, deve risultare esso stesso ordinato.
È per questa esigenza di autodisciplina che accanto alle norme ordinative della realtà esterna (regole
di comportamenti) esso annovera altre norme ordinative, sì, ma dell’ordinamento stesso (regole
organizzatorie, costitutive della normazione, della soggettività, ecc.). Queste ultime sono meta-
norme (o norme sulla normazione), il cui compito essenziale è definire le condizioni alla cui stregua
una norma può sorgere e permanere nell’ordinamento.
Laddove una norma non risulti conforme al modello preordinato per essa da altra norma, la
conseguenza che se ne trae è, appunto, la sua invalidità come inidoneità a validamente ordinare,
qualificare, costituire il suo oggetto. L’invalidità altro non sarebbe che la conseguenza di un vizio
della norma, derivante dalla sua disformità dal modello previsto dalla rispettiva norma sulla
normazione. Ciò sta a significare che non vi è assoluta corrispondenza tra il binomio validità-
invalidità e quello di efficacia-inefficacia. Una norma può essere giuridicamente efficace anche se
invalida, oppure può essere valida ma non giuridicamente efficace, laddove la sua efficacia sia
sospesa o condizionata ad opera di un’altra norma (c.d. quiescienza della norma valida).
Quando si parla di invalidità va tenuto presente che essa può presentarsi in duplice forma:
• Invalidità “in senso forte”. Si ha quando il vizio della norma discende da una disformità dallo
schema normativo o di riferimento talmente radicale da incidere sull’appartenenza stessa della
norma all’ordinamento.
o Effetti: da un vizio di invalidità forte dovrebbe derivare una situazione di
nullità/inesistenza che impedirebbe all’atto di produrre effetti.
• Invalidità “in senso debole”. Consiste nell’ordinaria invalidità delle norme, che si presenta
quale conseguenza della violazione di una qualsivoglia norma sulla formazione la quale, però,
pur viziandola, non ne revoca in dubbio il suo status di norma.
o Effetti: da un vizio dell’invalidità debole deriva l’annullamento o la disapplicazione
dell’atto-norma a seguito di un procedimento teso ad accertarne la natura viziata.
Sia l’annullamento che la disapplicazione rispondono all’esigenza di impedire che la norma continui
a produrre i suoi effetti, sino a giungere, nel primo caso, a una rimozione anche degli effetti generati
in precedenza. Dunque l’efficacia ha uno speciale rapporto con l’invalidità.

In conclusione, l’ordinamento giuridico è l’insieme delle norme giuridiche che regolano la vita di
un gruppo sociale organizzato stabilito su un determinato territorio, e i caratteri generali sono:
• Plurisoggettività: esistenza di una pluralità di persone sul suo territorio;
• Normazione: sussistenza di un complesso di norme che regolano la vita di una collettività e
che ne disciplinano gli interessi primari;
• Organizzazione: presenza di un potere organizzato per raggiungere gli scopi collettivi;
• Effettività: adesione dei singoli individui alle regole imposte nella comunità.

Il diritto come linguaggio e come significato: l’interpretazione


L’interpretazione consiste nell’attribuire significato ai termini, ai sintagmi e alle espressioni
utilizzati dall’autore dell’atto. La concreta produzione del diritto si compie ex post, ossia al momento
della sua determinazione di senso (nel momento in cui l’operatore del diritto ricava una regola da
applicare alle disposizioni normative).
Il significato attribuito all’enunciato prescrittivo dotato di valore autonomo si definisce come norma.
Nel procedere all’interpretazione di un enunciato giuridico prescrittivo, l’operatore giuridico può
attingere a diverse modalità e tecniche ermeneutiche.

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• Interpretazione letterale: attribuisce alle disposizioni il significato proprio delle parole così
come risulta dall’uso comune e dalle connessioni sintattiche fra le stesse;
• Interpretazione teleologica: fa riferimento all’intento proprio del precetto in esame;
l’interprete deve fare riferimento alla c.d. intenzione del legislatore. Bisogna dare prevalenza
alla ratio oggettiva anziché all’intenzione soggettiva del legislatore, giacché gli atti normativi
sono destinati a perdurare e dispiegare i propri effetti anche per un tempo molto lungo;
• Interpretazione sistematica: inserisce la disposizione in un contesto più ampio, e alla luce
di questo la interpreta;
• Interpretazione evolutiva: la disposizione da interpretare viene adattata al contesto storico e
socio-culturale dell’epoca in cui è stata formulata;
• Interpretazione adeguatrice: adatta il significato della disposizione a quello di altre norme
di rango superiore.
• Interpretazione estensiva: estende il significato della disposizione oltre il dato letterale;
• Interpretazione restrittiva: riduce l’ambito applicativo di una norma.
L’attività interpretativa può essere tipizzata anche in relazione alla provenienza dell’operazione
ermeneutica:
• L’interpretazione privata identifica l’attività ermeneutica svolta da soggetti che non sono
dotati di specifica autorità riconosciuta dall’ordinamento. Chiunque può interpretare
l’enunciato di una prescrizione giuridica per assegnare ad esso un determinato significato, ma
la soluzione interpretativa prescelta non può che essere una mera proposta di interpretazione.
Rientrano in quest’ambito:
o L’interpretazione dottrinale (quella dei giuristi, la cui autorevolezza è in grado di
influenzare l’attività del giudice);
o L’interpretazione dell’avvocato (che è caratterizzata per la sua finalizzazione
all’interesse della parte e per un più deciso orientamento ai fatti).
• L’interpretazione ufficiale riguarda quella resa da organi dei pubblici poteri nello
svolgimento delle loro funzioni. Al suo interno rientrano:
o L’interpretazione della Pubblica Amministrazione, resa nell’esercizio di attività
deputate esplicitamente alla funzione ermeneutica;
o L’interpretazione giudiziaria, espletata dai giudici nello svolgimento della funzione
giurisdizionale. Essi decidono sulla controversia pronunciandosi altresì sul significato
da attribuire alla legge. Può assumere anche un’efficacia persuasiva di più ampia
portate, specie se resa dalla Corte di Cassazione cui l’art. 65 dell’ordinamento
giudiziario attribuisce il compito di assicurare l’uniforme interpretazione della legge;
o L’interpretazione autentica, ossia l’esegesi posta in essere dall’autore del
documento interpretato.

Tratti differenziali della norma giuridica


All’interno del genus della regola giuridica è necessario distinguere una species costituita dalla
norma giuridica. La norma è una regola che prevede un comando o divieto, detto precetto, rivolti ad
una pluralità indeterminata di destinatari che prescrive determinati comportamenti, accompagnata
dalla minaccia di una sanzione in caso di inosservanza. I caratteri della norma sono:
1. Esteriorità. Le norme hanno ad oggetto solamente i comportamenti esteriori dell’uomo (non
anche il pensiero). Se ne è parlato in due termini:
a. Eteronomia: indica che la regola giuridica si caratterizza ordinariamente per il fatto
di essere posta in essere da un soggetto diverso dal suo destinatario;
b. Oggettività: indica che la condotta qualificata dalla regola giuridica è valutata
oggettivamente, al netto cioè degli elementi intenzionali che ne costituiscono il
movente soggettivo o quale azione esterna, in quanto compiuta.

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2. Coercibilità: tale concetto si traduce nella presenza per ogni norma di una sanzione disposta
nel caso di trasgressione e nel fatto che si può ricorrere anche alla forza fisica per imporre un
determinato comportamento;
3. Bilateralità: la norma insiste su un rapporto incentrato sulle figure contrapposte del diritto e
dell’obbligo, la cui affermazione risulta andare incontro alla duplice obbiezione per cui:
a. Da un verso, esso non pare tener conto dell’esistenza di figure soggettive attive cui
non corrisponderebbero le rispettive situazioni passive;
b. Dall’altro, non renderebbe ragione della presenza di doveri, ovvero di situazioni di
permissione, di libertà o liceità, cui non corrispondono, rispettivamente, diritti di
chicchessia né obblighi di non impedire.
4. Comando è quella norma giuridica che va sotto il nome di imperativismo, in cui vi è
contrapposizione fra la volontà di chi comanda e quella di chi riceve il comando: l’imperativo
giuridico è contrapposto alla volontà del destinatario (c.d. imperativo eteronomo).
5. Generalità: deve essere applicabile a un numero indeterminato di destinatari;
6. Astrattezza (o ripetibilità): deve essere applicabile a un numero indefinito di casi.

Coerenza e completezza dell’ordinamento


Abbiamo parlato dell’ordinamento come ordine in senso:
• Teleologico e deontico, ordine che deve essere imposto alla realtà sociale (ordo ordinans);
• Strutturale e ontologico, come ordine interno al sistema stesso (ordo ordinatus).
Bisogna soffermarsi su due qualità tipiche e fondamentali dell’ordinamento giuridico:
• Coerenza, intesa come esigenza di superamento delle contraddizioni interne (antinomie);
• Completezza, intesa come mancanza di lacune.
I problemi della coerenza e della completezza si presentano come una vera e propria necessità
deontologica, eppure contro tale necessità congiurano almeno due problemi di ordine ontologico:
• L’impossibilità per l’ordinamento di prevedere le conseguenze nate dall’evoluzione sociale;
• Il continuo germinare della normazione che può metterne in dubbio la coerenza.
Dunque coerenza e completezza sono elementi necessari dell’ordinamento che devono essere assunti
quali necessità problematiche.

La relazione di coerenza è la relazione fra le norme per la quale l’insieme di esse tende a diventare
unità sistematica o sistema. Il problema sorge dal contrasto fra la possibilità e l’esistenza di norme
tra loro incompatibili e l’impossibilità per esse di venire contemporaneamente applicate.
In relazione alla maggiore o minore estensione del contrasto tra due norme, si distinguono poi tre tipi
di antinomie:
1. L’antinomia totale-totale si ha se le due disposizioni hanno eguale estensione (es: è permesso
fumare / è vietato fumare). Ciascuna non può essere applicata senza confliggere con l’altra;
2. L’antinomia parziale-parziale si ha quando una parte dell’estensione di una disposizione
coincide con una parte dell’altra (es: è vietato fumare la pipa e il sigaro / è permesso fumare
il sigaro e la sigaretta). Vi è un campo di applicazione delle due disposizioni in cui si verifica
il conflitto con l’altra e un altro campo in cui non si verifica alcun conflitto;
3. L’antinomia totale-parziale si ha quando l’estensione di una disposizione è parte
dell’estensione dell’altra (es: è permesso fumare / è vietato fumare il sigaro): la portata della
seconda è del tutto ricompresa in quella più ampia della prima.
Solo l’antinomia totale-totale è vera antinomia. Si dicono dunque:
• Proprie (reali) le antinomie che avvengono fra norme: sono proprie perché anche all’esito
dell’attività interpretativa permane una situazione di incompatibilità fra le norme.
• Improprie (apparenti) le antinomie fra disposizioni: queste sono antinomie tramite
l’interpretazione che tragga dal testo delle due disposizioni in contrasto due norme, ossia
due significati, tra loro compatibili.
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Le antinomie vere e proprie possono essere risolte soltanto dall’interprete (e quindi in buona misura
dal giudice), utilizzando criteri di risoluzione logicamente enucleati o positivamente disposti.
In genere si distinguono:
• Criteri logico-teoretici, ossia il criterio cronologico e il criterio di specialità;
• Criteri storico-positivi, ossia il criterio gerarchico e il criterio di competenza.
I criteri di risoluzione delle antinomie sono quattro:
• Criterio cronologico (o logico-teoretico): fa sì che, in caso di contrasto, prevalga la norma più
recente rispetto a quella temporalmente precedente, in quanto ritenuta più aderente all’attuale
assetto dell’evoluzione sociale. Esso definisce tre forme di abrogazione:
a. Espressa, cioè disposta dallo stesso legislatore attraverso specifica dichiarazione;
b. Tacita, in cui si rileva incompatibilità fra la disciplina dettata da due norme in ordine
alla medesima fattispecie;
c. Nuova disciplina dell’intera materia: interessa il caso di successione nel tempo di due
normative organiche di una certa materia, nel quale l’una – la più recente - sostituisce
l’altra - la preesistente - integralmente anche in assenza di specifici contrasti tra singole
norme o esplicita dichiarazione abrogativa.
L’applicazione del criterio cronologico ha come effetto l’abrogazione delle norme precedenti da
parte delle successive. Tale effetto consiste nella delimitazione dell’efficacia temporale della
norma più risalente nel tempo senza tuttavia che si abbia alcuna incidenza sulla validità di
quest’ultima. La norma abrogata è ancora presente nell’ordinamento, ma dispiega la sua
efficacia solo per i fatti anteriori all’avvenuta abrogazione, ossia precedenti al momento
dell’entrata in vigore della norma successiva di pari grado. L’effetto abrogativo si produce
automaticamente perché entra in vigore la norma incompatibile posteriore, senza che vi sia
bisogno (come nel caso dell’annullamento) dell’intervento di alcun organo. La norma superiore
non abroga, bensì invalida, la fonte inferiore.
• Criterio di specialità: limita il criterio cronologico. La norma speciale viene preferita a quella
generale e quindi applicata anche se precedente nel tempo rispetto a quella generale antinomica.
Per norma speciale si intende quella che, regolando una fattispecie particolare rispetto ad altra
di maggiore ampiezza (fattispecie generale) oggetto di diversa norma, la sottrae alla disciplina
di quest’ultima. Il ricorso al criterio della specialità non implica l’invalidità della norma
antinomica, ma consente l’individuazione della norma applicabile al caso concreto. La norma
generale non viene sostituita, come nel caso dell’abrogazione, bensì derogata da quella speciale,
ambo restando in vigore (la deroga è un’eccezione alla regola).
• Criterio gerarchico: si applica nel caso in cui le norme confliggenti provengano da fonti
diverse. Il criterio gerarchico postula che, fra due norme in contrasto, prevalga quella posta da
fonte gerarchicamente sopraordinata anche nel caso in cui quella posta da fonte subordinata
fosse posteriore. Il criterio gerarchico è di stretto diritto positivo. La risoluzione dell’antinomia
attraverso il criterio gerarchico fa sì che la norma sottordinata venga pregiudicata non solo nella
sfera di efficacia, ma anche in quella di validità. La norma sopraordinata invalida la norma
sottordinata. l’annullamento si sostanzia in una espunzione della norma dall’ordinamento
giuridico, mercé la rimozione ex post di tutti gli effetti prodotti dalla sua entrata in vigore.
L’annullamento infatti ha ordinariamente efficacia generale e portata retroattiva, incontrando,
tuttavia, il limite dell’intangibilità dei rapporti definitivamente conclusi.
• Criterio di competenza: fra due norme, l’una posta dalla fonte competente, l’altra invece da
quella non competente, va assegnata la prevalenza alla prima. È un criterio di carattere positivo
che si ispira al principio della distribuzione delle funzioni, che può avvenire in due modi:
a. Riserva: separazione fra le fonti incentrata sull’attribuzione della competenza a
regolare determinate materie con l’esclusione dell’intervento di altre fonti;
b. Preferenza: la Costituzione preferisce una fonte ad un’altra nella disciplina di una
particolare materia. La fonte preferita prevale solo quando introduce la sua disciplina.
Tale criterio determina l’invalidità della norma incompetente.
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I conflitti fra criteri


I criteri proposti per la risoluzione delle antinomie possono risultare sovrabbondanti o insufficienti.
Quest’ultima è un’ipotesi che si verifica nel caso di due norme antinomiche con la stessa sfera di
validità, contemporanee, pari ordinate, appartenenti alla stessa sfera di competenza normativa,
entrambe generali o speciali, per le quali dunque nessun criterio si appalesa idoneo a risolvere
l’antinomia.
• L’inapplicabilità di qualsiasi criterio trasforma un’antinomia reale tra norme in lacuna delle
norme sulla normazione;
• Se più di un criterio è applicabile, vi sarà antinomia (di secondo grado) che corre fra gli stessi
criteri: si tratta cioè di incoerenza meta-normativa.
Per risolvere queste eventualità, si è stabilito un meta-criterio risolutivo che determina una sorta di
gerarchia tra i vari criteri:
1. Criterio di competenza;
2. Criterio gerarchico;
3. Criterio di specialità;
4. Criterio cronologico.
La completezza è il punto di equilibrio tra la sovrabbondanza e la carenza di norme rispetto alle
fattispecie, ossia dell’ordinamento normativo rispetto alla società. Tanto l’incoerenza quanto
l’incompletezza sono situazioni oggettive di instabilità che sollecitano la ricerca e la determinazione
dell’unità dell’ordinamento giuridico, ossia la costruzione del sistema giuridico.
L’eventualità che vi siano antinomie insolubili è manifestazione della possibilità di presenza,
all’interno dell’ordinamento, di lacune, ossia mancanze di norme per la soluzione di una qualsiasi
questione giuridica. Furono diversi i tentativi di affrontare la questione della lacunosità:
• Teoria dello spazio giuridico vuoto: nel caso in cui ci si trovasse di fronte ad una fattispecie
non direttamente regolata da una norma, si dovrebbe concludere che quella fattispecie non è
giuridicamente rilevante;
• Esistenza di una sfera di libertà non protetta per cui la protezione dell’aggressione altrui
era esperibile solo mediante l’uso della forza privata;
• Norma fondamentale generale e negativa: non vi sono lacune perché il diritto c’è sempre e
tutto ciò che non risulta regolato da norme deve ritenersi regolato in modo opposto (tutto ciò
che non è vietato è lecito).
L’ordinamento è incompleto sul piano ontologico ma tende a completarsi sul piano deontologico.
L’ordinamento giuridico, che da un punto di vista statico non è completo, da un punto di vista
dinamico è completabile attraverso gli strumenti di integrazione.
Il sistema giuridico può essere completato tramite alcuni mezzi che permettono al giudice di decidere
una materia non espressamente disciplinata:
• Mezzi di autointegrazione (l’ordinamento colma la lacuna la proprio interno):
o Argumentum a simili – estende l’area di qualificazione ordinamentale;
§ Analogia legis: a casi non previsti è applicata la disciplina prescritta per
fattispecie simili aventi la stessa ratio;
§ Analogia iuris (ricorso a principi generali): nel caso in cui il ragionamento
analogico non sia sufficiente, si ricorre ai principi generali dell’ordinamento
giuridico.
o Argumentum e contrario – ritrae l’area di qualificazione ordinamentale
§ ciò che non risulta positivamente regolato da norme deve considerarsi regolato
in modo opposto, onde, ad esempio, i comportamenti non obbligatori o non
vietati devono essere considerati leciti o permessi.
• Mezzi di eterointegrazione: attingono ad ordinamenti diversi da quello da completare.
I mezzi veri e propri dell’ordinamento si riducono ai tre tradizionali strumenti della c.d.
autointegrazione (analogia legis, analogia iuris, argumentum e contrario).

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Lo Stato
Lo Stato, in quanto società organizzata, può essere definito quale ordinamento giuridico. Lo Stato
è un’organizzazione del potere politico cui spetta l’uso legittimo della forza su una comunità di
persone presenti su un determinato territorio. Gli aspetti tipici dello Stato sono:
• Plurisoggettività che si traduce nel popolo (Stato-collettività);
• Organizzazione che si traduce nel governo (Stato-governo);
• Normazione che si traduce nella normazione originaria prodotta dalle fonti legali ed
efficace nell’ambito spazio-temporale dominato dal governo (Stato ordinamento).
Ma il quid proprium dello Stato è rappresentato da due aspetti congiuntamente considerati:
• Sovranità, che si scinde in tre aspetti:
o Indipendenza dall’esterno;
o Supremazia all’interno;
o Originarietà (con riferimento all’ordinamento).
• Territorialità
Questi sono profili rinvenibili anche in enti non statali, come la chiesa e la comunità internazionale,
che tuttavia non sono territoriali. D’altra parte, vi sono enti sicuramente territoriali, ma non sovrani
(nell’ordinamento italiano: Regioni, Comuni e Province). Lo stato è insomma il solo ordinamento
conosciuto territoriale e sovrano.

Gli aspetti fondamentali dello Stato


Gli aspetti fondamentali dello Stato sono tre:
• Popolo (elemento personale);
• Territorio (elemento spaziale);
• Sovranità (elemento organizzativo).

Popolo: comunità di individui ai quali l’ordinamento giuridico statale attribuisce lo status di cittadino.
È il gruppo sociale che si forma per il soddisfacimento di interessi indefiniti e illimitati.
• Piena autodeterminazione;
• Convivenza: trovarsi insieme per un certo tempo in uno stesso luogo, coesistenza spazio-
temporale degli individui costituenti il gruppo.
Si può definire il popolo come la collettività umana sottoposta stabilmente, in un determinato ambito
spazio-temporale, ad un potere effettivo e indipendente. Non fa parte del popolo:
• Chi si trova sottoposto al potere dello Stato solo occasionalmente e temporaneamente;
• I residenti stabili in un territorio ma privi di cittadinanza;
• Chi è sottoposto al potere dello Stato solo per motivi contingenti o particolari.
La cittadinanza è la condizione riconosciuta dallo Stato cui sono riconnessi una serie di diritti e di
doveri. La cittadinanza italiana si acquista per:
• Ius sanguinis: padre o madre italiani;
• Ius soli: chi nasce in Italia e ha genitori ignoti o apolidi, oppure se il figlio non segue la
cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono;
• Nascita da ignoti e ritrovamento nel territorio della Repubblica.
Sono apolidi coloro che non hanno cittadinanza, a causa della perdita della cittadinanza in uno Stato
e al mancato riacquisto di un’altra cittadinanza.
In alcuni casi la cittadinanza può essere concessa a seguito della proposta del Ministro dell’Interno,
del parere del Consiglio di Stato e del decreto del Presidente della Repubblica. L’istanza può essere
presentata:
• Dal coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano in presenza di determinate condizioni
(risiedere legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica o, qualora non
residente, dopo tre anni dalla data del matrimonio valido e vincolante a tutti gli effetti);

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• Dallo straniero maggiorenne, adottato da cittadino italiano, che risiede legalmente nel
territorio della Repubblica da almeno 5 anni successivamente alla adozione;
• Dallo straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno 5 anni alle dipendenze
dello Stato;
• Dal cittadino di uno Stato membro della Comunità europea se risiede legalmente da almeno
4 anni nel territorio della Repubblica;
• Dall’apolide che risiede legalmente da almeno 5 anni nel territorio della Repubblica;
• Dallo straniero che risiede legalmente da almeno 10 anni nel territorio della Repubblica.
Gli artt. 11 e 12, legge n. 91/1992 disciplinano le ipotesi di perdita della cittadinanza:
• Per rinuncia: il cittadino italiano risiede o stabilisce la residenza all’estero
• Automaticamente al ricorrere di determinati requisiti:
o Il cittadino italiano, avendo accettato un impiego pubblico o una carica pubblica da
uno Stato o ente pubblico estero o da un ente internazionale cui non partecipi l’Italia,
ovvero prestando servizio militare per uno Stato estero, non ottempera, nel termine
fissato, all’intimazione che il governo italiano può rivolgergli di abbandonare
l’impiego, la carica o il servizio militare;
o Rispetto al cittadino italiano che, durante la guerra con uno Stato estero, abbia
accettato o non abbia abbandonato un impiego o una carica pubblica, o abbia prestato
servizio militare per tale Stato senza esservi obbligato, ovvero ne abbia acquistato
volontariamente la cittadinanza al momento della cessazione dello stato di guerra.
Chi ha perduto la cittadinanza può riacquistarla:
• Se presta servizio militare per lo Stato italiano e dichiara previamente di volerla riacquistare;
• Se, assumendo o avendo assunto un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche
all’estero, dichiara di volerla riacquistare;
• Se dichiara di volerla riacquistare ed ha stabilito o stabilisce, entro un anno dalla
dichiarazione, la residenza nel territorio della Repubblica;
• Dopo un anno dalla data in cui ha stabilito la residenza nel territorio della Repubblica, salvo
espressa rinuncia entro lo stesso termine;
• Se, avendola perduta per non aver ottemperato all’intimazione di abbandonare l’impiego o la
carica accettati da uno Stato, da un ente pubblico estero o da un ente internazionale, ovvero il
servizio militare per uno Stato estero, dichiara di volerla riacquistare, sempre che abbia
stabilito la residenza da almeno due anni nel territorio della Repubblica e provi di aver
abbandonato l’impiego o la carica o il servizio militare.
Alla cittadinanza italiana si accompagna la cittadinanza dell’Unione europea, riconosciuta a
chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Si tratta di una cittadinanza di secondo grado,
il cui presupposto è la cittadinanza di uno Stato membro, dalla quale derivano una serie di diritti e
doveri tra i quali il diritto di entrare, risiedere e circolare liberamente in ogni stato membro
dell’Unione europea e l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo, anche per i residenti di uno stato
membro di cui non sono cittadini, nelle elezioni comunali ed europee.

Sovranità: potestà di governo originaria, assoluta ed esclusiva che fa capo allo Stato, il quale la
esercita in posizione di supremazia nell’ambito di un determinato territorio e nei confronti della
comunità in esso stanziata (cittadini, stranieri, apolidi). La sovranità presuppone l’originarietà, ossia
la negazione di qualsiasi derivazione, dipendenza, legittimazione delle sue norme da quelle di altri
sistemi normativi. L’originarietà equivale ad esclusività e quindi ad impenetrabilità nei confronti di
ogni altro ordinamento. L’esclusività si traduce poi in esclusione dall’ambito spaziale-personale del
gruppo di ogni potere estraneo che voglia contrapporsi al potere dello Stato.
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che
la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. [Art. 1]

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Territorio: sede su cui è stabilmente organizzata la comunità statale e costituisce l’ambito spaziale
entro il quale lo Stato esercita la propria sovranità. La Costituzione impone l’autorizzazione del
Parlamento per la ratifica dei trattati internazionali aventi ad oggetto variazioni del territorio
nazionale. È possibile identificare il territorio dello Stato nel complesso delle sue componenti:
• La terraferma, che è quella porzione di territorio segnata dai confini naturali (elementi
naturali adottati dalle convenzioni internazionali quali linee di demarcazione del territorio) o
artificiali; vi rientrano le acque interne, comprese nei confini;
• Il mare territoriale, che è quella porzione di mare entro una determinata distanza dalla costa,
segnata oggi dalle convenzioni internazionali in 12 miglia marine;
• La piattaforma continentale, identificabile in quella parte di fondo marino contiguo alle terre
emerse, rispetto al quale è riservata agli Stati l’utilizzazione delle risorse naturali estraibili,
purché sia assicurata la libertà delle acque;
• Lo spazio atmosferico sovrastante;
• Le navi ed aeromobili battenti bandiera dello stato: quando si trovano in spazi non soggetti
alla propria sovranità, si parla al riguardo di extra-territorialità;
• Le sedi e le rappresentanze diplomatiche all’estero. In forza di una norma di diritto
internazionale consuetudinario, l’Italia rinuncia poi alla sovranità sulle sedi delle
rappresentanze diplomatiche estere. Si parla al riguardo di immunità territoriale.
L’esclusività dell’ordinamento statale si traduce in impenetrabilità proprio perché la potestà dello
Stato ha l’effettiva possibilità di escludere qualsiasi altro potere dal suo ambito. Debbono ritenersi
privi della natura statuale i cosiddetti governi in esilio e non sono Stati neppure quei soggetti
dell’ordinamento internazionale privi di base territoriale (es. Santa Sede, Ordine di Malta) che sono
appunto equiparati agli Stati per ragioni storiche.
La territorialità non viene meno nelle ipotesi di Stati il cui territorio è temporaneamente (anche se
in toto) occupato da eserciti, nemici, o di Stato nomade, che trasmigra da un luogo all’altro, perché il
territorio va considerato con riferimento anche all’aspetto temporale.

Le forme di Stato
• Forma di Stato: indica il rapporto che intercorre tra governanti e governati;
• Forma di Governo: indica i modi in cui il potere è distribuito fra gli organi dello Stato-
apparato e i rapporti che si instaurano fra essi.
Le varie forme di Stato si possono classificare in base a diversi criteri:
1. Criterio relativo alla struttura. Stato unitario e Stato composto
a. Stato unitario: esercita la potestà di imperio su tutto il territorio e tende a trasformarsi
da Stato accentrato in Stato decentrato. Presenza di un unico governo sovrano che
opera a livello sia centrale che periferico attraverso il decentramento burocratico;
b. Stato composto: vede operare, accanto al Governo centrale, diversi governi locali di
natura statale;
c. Stato federale: modello di Stato composto. Può sorgere:
a. A seguito della progressiva unificazione fra Stati
precedentemente sovrani (es: Stati Uniti);
b. A seguito di un mutamento istituzionale che porti
decentramento all’interno di uno Stato unitario originariamente
accentrato (es: Canada).
Distinguere lo Stato federale dallo Stato unitario risulta problematico. Il federalismo è stato
concepito come insieme di obiettivi, ossia quale dinamica sempre in atto diretta a realizzare
quella organizzazione della forma costituzionale, ove la distribuzione delle competenze fra
centro e periferia sia quella ottimale per la soddisfazione delle concrete esigenze. Al governo
centrale si contrappongono governi locali dotati di poteri sovrani autonomi ed esclusivi.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

2. Criterio relativo al rapporto tra governanti e governati: Stato autoritario e democratico


a. Struttura democratica dello Stato: la titolarità del potere troverà fondamento nella
rappresentanza politica;
b. Struttura autoritaria: la titolarità del potere trova fondamento nella ereditarietà, nella
investitura ricevuta da un gruppo di notabili ovvero nella forza militare o di polizia.

3. Criterio relativo alla tutela dei diritti dei cittadini


Sulla base del terzo criterio di classificazione delle forme di Stato, imperniato sul livello di
protezione garantito alle situazioni giuridiche soggettive dei cittadini, vengono individuati:
1. Ordinamento patrimoniale: il patrimonio pubblico e quello del sovrano si
confondono. L’ordinamento si regge sulle autonomie locali. I titolari dell’esercizio di
funzioni pubbliche sono funzionari del re e le cariche sono compravendute;
2. Stato assoluto: centralizzazione del potere. Riconoscimento al sovrano del potere
autoritario di dettare regole, in ragione di una posizione di prevalenza gerarchica
rispetto ai sudditi e della sua derivazione divina;
3. Stato di polizia: tendenza a perseguire il benessere della polis e cura per l’attività di
governo, che pretende di essere libera nella determinazione dei fini e nella scelta die
mezzi. Deve tendere ad assicurare ai sudditi il più elevato livello possibile di
benessere. Viene istituito il fisco, entità cui fanno capo rapporti patrimoniali, che può
essere chiamata in giudizio dal singolo e che dispone delle risorse finanziarie per
soddisfare l’eventuale risarcimento in caso di accertata lesione di un diritto. Nasce il
principio di legalità dell’amministrazione.
4. Stato di diritto: soggezione di tutti i pubblici poteri dalle norme giuridiche, che segna
il tramonto definitivo della figura del Sovrano legibus solutus. Gli aspetti
caratterizzanti questa forma di Stato sono:
o Divisione del potere in legislativo, esecutivo e giudiziario;
o Legalità dell’amministrazione, intesa come soggezione alla legge
parlamentare e fondamento dell’azione amministrativa nella legge;
o Previsione delle libertà individuali dalla Costituzione e dalle leggi;
o Indipendenza dei giudici;
o Eguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge.
In realtà l’elettorato attivo e passivo è rimasto a lungo riservato ai soli ceti dominanti.

4. Criterio dell’interesse pubblico in campo economico


L’ultimo criterio riguarda le modalità di realizzazione dell’interesse pubblico, avuto riguardo
in particolare all’area dei rapporti economici.
1. Stato liberale: l’intervento pubblico in campo economico è volto alla fissazione di
regole dirette ad assicurare una pacifica convivenza, confidando nel fatto che grazie
alla libera concorrenza si massimizza il livello di benessere;
2. Stato socialista: vede la gestione dei mezzi di produzione del reddito affidata alla
pubblica autorità, in vista di una sua equa distribuzione tra tutti i cittadini.
3. Stato sociale: l’azione dei pubblici poteri è improntata al superamento delle
diseguaglianze esistenti tra i cittadini, che siano tali da ostacolare il reale godimento
dei diritti civili e politici, nonché la concreta partecipazione dei consociati
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Lo Stato sociale persegue
fini ulteriori ed aggiuntivi rispetto a quelli dello Stato di diritto, nel senso che consente
allo Stato di realizzare politiche di solidarietà sociale. La democrazia sociale va a
contrapporsi alla democrazia liberale:
a. La democrazia sociale ha il compito fondamentale di intervenire nei rapporti
sociali ed in economia al fine di ridurre gli squilibri fra i diversi gruppi che
compongono la società, operando una redistribuzione di beni economici;

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

b. La democrazia liberale implica il non-interventismo in nome della fede nel


libero gioco dell’iniziativa economica e nell’autonomia nella sfera
dell’economia.
Lo Stato sociale però si distingue dallo Stato socialista in quanto non tende ad
eliminare l’iniziativa privata o l’economia di mercato, ma si limita ad introdurre nel
sistema istituti o strutture tipiche dell’economia di Stato. Lo stato è chiamato ad una
redistribuzione di alcuni beni in ragione dell’affermazione della giustizia sociale, al
fine di realizzare l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del paese, e il pieno sviluppo della persona umana. Alla
tutela delle libertà individuali si affiancano i c.d. diritti sociali volti ad eliminare le
diseguaglianze esistenti all’interno della società, garantendo ai soggetti delle
posizioni attive di pretesa nei confronti dei poteri pubblici. In Italia tali diritti sono
costituzionalizzati. L’azione dello Stato sociale opera principalmente verso:
1. Il diritto al lavoro, che assicura la tutela dei lavoratori, in quanto soggetti
deboli, nei rapporti con i datori di lavoro;
2. Il diritto alla previdenza e all’assistenza sociale concepito a vantaggio di
categorie di soggetti che si trovano nelle stesse condizioni;
3. Il diritto pubblico dell’economia, che legittima interventi diretti delle
pubbliche amministrazioni nella sfera economica, per sostenere e correggere
in termini solidaristici le possibili disarmonie prodotte dalle economie che
fanno leva sull’iniziativa privata;
4. Il diritto all’istruzione;
5. Il diritto alle prestazioni sanitarie.

Le forme di governo
L’espressione “forma di governo” sta ad indicare i modi in cui il potere supremo è distribuito fra gli
organi dello Stato-apparato. Nel nostro ordinamento, la nozione è stata recepita dalla Costituzione
all’art. 123, laddove si prevede che lo Statuto di ogni regione ne possa appunto determinare, in
armonia con la Costituzione, la forma di governo.
È nota la concezione aristotelica delle tre forme pure di governo:
• Monarchia (ove la sovranità è di uno), che degenera in tirannide;
• Aristocrazia (ove la sovranità è di pochi), che degenera in oligarchia;
• Politeia (ove la sovranità è di molti), che degenera in democrazia.
Queste tre forme pure si può aggiungere il governo misto. Alcuni sostengono che la costituzione
migliore deve essere una combinazione di tutte le costituzioni, perché quello che risulta da più
costituzioni è migliore.
Si hanno:
• Forme pure, in cui il grado di concentrazione del potere è di tipo assoluto, in ragione
dell’accentramento del potere in un unico soggetto
o Monarchia assoluta, nella quale il potere supremo è attribuito a un unico organo;
o Democrazia diretta, ove il potere supremo è esercitato direttamente da tutto il popolo.
• Forme miste, in cui il grado di concentrazione del potere è relativo, in quanto il potere viene
in vario modo distribuito tra una pluralità di soggetti. Risultano caratterizzate dal
coinvolgimento di una pluralità di organi nella direzione dello Stato.
Le più importanti forme di governo sono:
• Monarchie costituzionali;
• Repubbliche presidenziali;
• Governi direttoriali;
• Governi parlamentari.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

o La monarchia costituzionale vede il superamento dell’assolutismo regio mediante


l’istituzione di una Costituzione o Statuto. Il Governo non è legato al Parlamento da un
rapporto fiduciario, ma risponde solo dinanzi al Re. Limitazioni al potere del sovrano
potevano derivare solamente per espressa previsione della Costituzione. La monarchia
costituzionale si presentava come forma tipicamente duale, in cui il Parlamento costituisce
l’organo che poteva contrapporsi all’autorità del Re, sovrano per grazia di Dio e volontà della
Nazione. Al Re spettava nominare e revocare i suoi ministri e sovrintendere alla loro azione
di governo ed il Parlamento, tramite l’esercizio del potere legislativo, tentava di porre dei
limiti all’Esecutivo, senza poter concorrere alla determinazione dell’indirizzo politico. Le
origini di tale forma di governo vanno ricercate nell’Inghilterra del XVII secolo: al Re
spettava il potere esecutivo, mentre il potere spettava alle assemblee parlamentari;

o Il sistema presidenziale è imperniato sulla dialettica tra due soggetti:


a. Il Presidente della Repubblica (funzione esecutiva e di indirizzo politico);
b. Le Assemblee elettive (funzione legislativa e alcuni poteri di controllo).
A differenza della monarchia costituzionale, la legittimazione del sistema presidenziale va
identificata nella comune derivazione democratica di tipo elettivo, in omaggio al principio di
sovranità popolare.
Il Parlamento degli Stati Uniti d’America, denominato Congresso, ha struttura bicamerale: si
compone della Camera dei rappresentanti (465 membri) e del Senato (100 membri) eletti
a suffragio universale. Si rinnovano ogni 2 anni, la prima del tutto e il secondo solo per 1 3.
Il Presidente degli Stati Uniti resta invece in carica 4 anni a seguito di un’elezione indiretta
o di secondo grado, articolata in una prima fase di selezione e designazione dei candidati alla
presidenza e alla vicepresidenza ad opera dei partiti democratico e repubblicano, cui segue
una seconda fase consistente nella votazione a scrutinio segreto da parte del collegio dei
“grandi elettori”. Sono eletti coloro che ottengono la maggioranza assoluta dei voti.
Il Presidente, oltre ad essere Capo dello Stato, è anche capo dell’esecutivo, nomina e revoca
i componenti del Governo posti al vertice dei vari Dipartimenti (corrispondenti ai nostri
Ministeri), denominati Segretari, fra i quali spicca il responsabile del dipartimento degli affari
esteri, chiamato Segretario di Stato. L’insieme di Presidente e Segretario costituisce l’organo
collegiale Gabinetto. Fra Presidente e Congresso non c’è rapporto di fiducia. Al Presidente
non sono riconosciuti né poteri di convocazione, né di scioglimento del Congresso. Questi,
tuttavia, è tributario di un potere di veto rispetto alle leggi approvate dal Congresso.
Ma è soprattutto il potere di approvazione del bilancio federale, presentato dal Presidente,
a costituire un importante strumento di condizionamento delle politiche presidenziali.
La forma di governo statunitense pare ispirarsi ad un bilanciamento di poteri, in base al quale
attraverso un sistema di checks and balances (freni e contrappesi) ogni potere ha la possibilità
di controllare e condizionare gli altri nell’esercizio delle funzioni.
Va rivelato come il sistema presidenziale non sia del tutto immune da una possibile
degenerazione in senso autoritario per via del carattere plebiscitario che verrebbe ad assumere
la formazione del consenso politico attorno al Presidente.

o La forma di governo semi-presidenziale: il tratto qualificante dei regimi parlamentari, il


rapporto di fiducia fra Governo e Parlamento, convive con la figura tipica dei regimi
presidenziali, il Presidente eletto dal popolo e dotato di poteri significativi. Un esempio è
quello della Repubblica di Weimar. Il Potere esecutivo e quello legislativo sono esercitati da
due diversi organi legati fra loro da un rapporto di fiducia; tuttavia il Capo dello Stato,
solitamente eletto dal corpo elettorale, è anche titolare di importanti funzioni di indirizzo
politico e ha il potere di sciogliere l’assemblea legislativa
È il regime della V Repubblica francese come modellato dalla Costituzione del 1958 e della
revisione del 1962 ad esser stato specificatamente denominato “semipresidenziale”.
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

In questo sistema il Presidente, che dura in carica cinque anni, viene eletto dal popolo, è il
capo dell’esecutivo, nomina il Presidente del Consiglio e lo costringe alle dimissioni in caso
ritenga di doverlo sostituire; può sciogliere il Parlamento anche qualora reputi politicamente
opportuno andare a nuove elezioni. Fra i suoi più rilevanti poteri – che non sono soggetti a
controfirma ministeriale – vanno annoverati anche il ricorso al referendum legislativo e
l’attribuzione di poteri straordinari in tempi di crisi.
Quanto al Governo, si può parlare di bicefalismo giacché, accanto al Presidente della
Repubblica, vi è anche la figura del Presidente del Consiglio. Il Presidente del Consiglio
svolge la funzione di capo dell’esecutivo, mentre il governo decide la politica nazionale che
viene diretta dal primo ministro. Il Parlamento si compone di due Camere:
o L’Assemblea Nazionale, i cui membri sono eletti a suffragio universale. Durano in
carica per cinque anni;
o Il Senato, in cui risiedono i rappresentanti delle collettività nazionali eletti a suffragio
indiretto; durano in carica per sei anni, ancorché il Senato si rinnovi per metà ogni tre.
Ad ambo le Camere spetta il potere legislativo. Per la costituzione dell’Assemblea nazionale
non è necessario un voto iniziale di fiducia, mentre la sua dissoluzione può essere ottenuta
attraverso l’approvazione, a maggioranza assoluta, di una mozione di censura (che
corrisponde alla nostra mozione di sfiducia). Il che non esclude che il Presidente della
Repubblica possa scioglierle. Si ha quindi una prevalenza dell’Esecutivo sul Legislativo. Se
la maggioranza formatasi in seno all’Assemblea nazionale si trova in sintonia politica con il
Presidente, questi di fatto assume la direzione del Governo e il ruolo di Primo Ministro si
riduce a quello di “comandante in seconda”, chiamato a coprire politicamente
l’irresponsabilità del Presidente. Se, invece, non si dà tale sintonia politica fra Presidente e
maggioranza parlamentare, si determina la coabitazione: il Presidente è chiamato a nominare
un Primo Ministro e un Governo di segno politico a lui avverso, in quanto espressione della
maggioranza politica presente in Parlamento. In caso di coabitazione è il Primo Ministro a
dirigere effettivamente la politica del Governo. Il Presidente esercita un ruolo decisivo nella
politica estera e di difesa, può incidere sulla Politica di Governo e può deferire al Consiglio
costituzionale, prima della promulgazione, le leggi approvate in Parlamento.

o La forma direttoriale: l’esecutivo ristretto, detto Direttorio, assume anche la veste di Capo
dello Stato ed è scelto direttamente per cooptazione da tutte le forze politiche presenti in
Parlamento che, però, non può revocarlo per tutta la durata del suo mandato. Prende il nome
dal “Direttorio” che per un periodo guidò la Francia in forza della Costituzione del 1795. Il
Parlamento ed il Governo si presentano quali organi costituzionali necessari, mentre non è
formalmente prevista la figura del Capo dello Stato. Nell’ordinamento costituzionale
svizzero, fra i componenti del Consiglio Federale, viene eletto dall’Assemblea Federale il
Presidente della Confederazione Elvetica, con mandato annuale, che ha funzione di presiedere
il Consiglio Federale stesso, senza assumere una posizione di predominio, essendogli
riconosciuto un ruolo di primus inter pares.
Il Direttorio esercita la suprema autorità di governo e viene eletto dal Parlamento, che in
Svizzera ha struttura bicamerale, costituito dal Consiglio Nazionale e dal Consiglio degli stati,
riuniti insieme nell’Assemblea federale. Se allora la derivazione del Governo dal Parlamento
rappresenta un elemento comune sia alla forma di governo parlamentare sia a quella
direttoriale, la forma di governo direttoriale si distingue dalla parlamentare per la:
a. Non revocabilità del governo;
b. Assenza di crisi ministeriali;
c. Mancata previsione dello scioglimento anticipato delle assemblee.
È stato sottolineato come la forma direttoriale sia particolarmente adatta alle piccole
democrazie, caratterizzate da un corpo elettorale piuttosto omogeneo.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

o La forma parlamentare: il Governo detiene il potere di indirizzo politico, del quale risponde
solo dinanzi al Parlamento, in base al rapporto di fiducia che dà la possibilità al Parlamento
di revocare il Governo in qualsiasi momento attraverso la sfiducia. Nasce dalla monarchia
costituzionale.
Vengono a costituire gli elementi indefettibili del sistema parlamentare: il Governo, composto
dai ministri uniti dalla condivisione di un progetto politico da tradurre in azione di governo e
legati alla maggioranza parlamentare del rapporto di fiducia, il Capo dello Stato, il
Parlamento e il corpo elettorale, chiamato ad eleggere il Parlamento.
Il rapporto di fiducia, che lega il Governo al Parlamento, resta il tratto qualificante della
forma di governo parlamentare; esso deve sussistere con continuità; il suo venir meno
comporta l’obbligo per il Governo di dimettersi, aprendo la “crisi di governo”.
La nomina del nuovo Governo spetta al Capo dello Stato (Re o Presidente della Repubblica),
che viene quindi ad assumere un ruolo particolarmente significativo nella soluzione della crisi.
Occorre distinguere tra:
o Forme dualistiche: regimi ove al Capo dello Stato è riconosciuto un potere autonomo
equilibratore o di coordinamento con cui intervenire nella direzione politica
dell’attività di governo;
o Forme monistiche: regimi in cui il Capo dello Stato esercita soltanto funzioni di
rappresentanza dell’unità statale, ovvero di controllo, nonché il delicatissimo potere
di scioglimento delle Camere.
La forma di governo parlamentare ha una triplice morfologia:
1) A prevalenza del Capo dello Stato: va distinto dalla forma di governo presidenziale,
ove i due organi costituzionali non possono incidere sulla rispettiva permanenza in
carica. Al Capo dello Stato sono riconosciute importanti prerogative: nomina e revoca
i ministri, sanziona le leggi e partecipa all’esercizio della funzione legislativa;
2) A prevalenza del corpo elettorale: esige la partecipazione da parte dei cittadini alla
definizione degli orientamenti politici generali tramite dei partiti politici L’esecutivo
sarà diretta espressione del partito vincente;
3) A prevalenza del Parlamento;
Non di rado il Capo dello Stato viene ad occupare una posizione talmente preminente da
determinare nella sostanza la dissoluzione del regime parlamentare.
La tripartizione sopra richiamata viene allora a risolversi in realtà nella bipartizione tra:
• Forma di governo parlamentare a “prevalenza del Parlamento”;
• Forma di governo parlamentare “maggioritaria” (prevalenza di governo e corpo
elettorale).
Stando ad un’altra classificazione i sistemi parlamentari si dividono in:
o Parlamentarismo non maggioritario: il parlamento è titolare dell’indirizzo politico
e il ruolo del governo si riduce a quello di organo meramente esecutivo della volontà
dell’Assemblea (governo assembleare). Si può avere un buon rendimento qualora la
maggioranza stabile ed omogenea riesca ad orientare le scelte fondamentali della
Nazione senza trascurare il ruolo e le esigenze della minoranza;
o Parlamentarismo maggioritario: terreno ideale per società che non presentano
radicali divisioni interne. Il consenso elettorale si concentra tendenzialmente in due
partiti ognuno dei quali ricoprirà il ruolo del partito al governo o all’opposizione. Il
Governo diviene un comitato direttivo dell’attività parlamentare ove si esplica la
leadership del primo ministro. Il leader del partito diviene il premier;
o Neo-parlamentarismo: caratterizzata dall’elezione diretta del Primo ministro
contestuale a quella del Parlamento. Un “patto di legislatura” lega Premier e
Parlamento: se il Governo è colpito da voto di sfiducia o se il Parlamento viene sciolto,
è necessario procedere alla ricostruzione di entrambi.
La flessibilità del sistema parlamentare è la caratteristica propria di tutte le forme di Governo

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La forma di governo in Italia


Per meglio comprendere la forma di governo italiana e il suo funzionamento giova a partire proprio
dal modo in cui il principio della divisione dei poteri risulta impiegato nel nostro ordinamento.
Numerosi sono gli organi costituzionali e gli enti cui la costituzione riconosce particolare rilevo:
• Parlamento
• Presidente della Repubblica
• Governo
• Magistratura
• Enti territoriali
• Corte Costituzionale
Nel disegno costituzionale sembra emergere il principio della competenza, che sul piano
dell’organizzazione dei poteri si contrappone al principio della divisione dei poteri.
Va osservato che la forma di governo delineata nella Costituzione italiana corrisponde al tipo
parlamentare, sia pure con alcuni correttivi che producono un’alterazione del modello puro.
L’assemblea costituente conseguentemente fissò le regole sull’organizzazione costituzionale dei
poteri contemplando quelli che sono i caratteri comuni delle forme di governo parlamentari:
o Funzione legislativa: l’art. 70 Cost. la riserva collettivamente alle due Camere;
o Potere esecutivo: l’art. 95 lo attribuisce al Governo, che lo esercita collegialmente sotto la
direzione e la responsabilità del Presidente del Consiglio (art. 95, I comma, Cost.).
o Fiducia: l’art. 94 Cost. consacra l’instaurazione di un rapporto di fiducia fra Parlamento e
Governo delineando quindi una forma di responsabilità politica del secondo verso il primo.
Il rapporto di fiducia presuppone il mantenimento di un’armonia continua nei rapporti fra l’organo
legislativo e quello esecutivo. Il Governo entro dieci giorni dalla sua formazione si presenta alle
Camere per ottenere la fiducia, tramite il voto sulla mozione di fiducia presentata dai parlamentari
di maggioranza. Solo dopo aver ricevuto la fiducia da parte delle Camere il Governo entra nella
pienezza dei suoi poteri. Il mantenimento del rapporto di fiducia può essere verificato:
o Dal Parlamento facendo ricorso allo strumento della mozione di sfiducia;
o Dal Governo per mezzo della questione di fiducia.
La razionalizzazione del sistema parlamentare ha inserito alcune particolarità:
• Le modalità di elezione (indiretta e ad opera di uno speciale collegio);
• La collocazione costituzionale;
• Il ruolo del Presidente della Repubblica;
• La funzione della controfirma ministeriale (art. 89 Cost.) correlata alle limitatissime ipotesi
di responsabilità (art. 90 Cost.).
Il Presidente della Repubblica ha il potere di nomina del Presidente del Consiglio e di scioglimento
delle Camere. Egli può inoltre nominare con decreto i giudici della Corte costituzionale.
Ulteriore fattore di scollamento dal modello parlamentare puro è dato dalla previsione di un quarto
organo costituzionale, la Corte costituzionale, a cui viene affidato il compito di pronunciarsi sulla
legittimità delle leggi (e degli atti aventi forza di legge) statali e regionali.
Assume particolare rilievo l’introduzione del referendum abrogativo, attraverso il quale è dato ai
cittadini il potere di opporsi alle leggi del Parlamento
Dalla rappresentanza parlamentare si suole distinguere, poi, la rappresentanza di interessi, che
individua quel particolare rapporto che lega il singolo ad organizzazioni complesse che svolgono
un’attività di tutela e promozione di interessi determinati riferibili al singolo stesso e agli altri soggetti
latori dei medesimi interessi.
Va sottolineato il particolare tipo di decentramento politico e amministrativo che trova il suo primo
fondamento costituzionale nell’art. 5 Cost. e specifica disciplina nel titolo V, Parte II della
Costituzione. In Assemblea costituente non poco si discusse sul quantum di autonomia da riconoscere
alle regioni, che vennero ad affiancarsi agli altri due enti locali già esistenti (Comuni e Province).

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La Costituzione non impone il modello da adottare per quanto riguarda il sistema elettorale. Tale
scelta è stata quindi affidata alla legge ordinaria.
Il tratto qualificante la forma di governo italiana è dato dalla interazione fra ruolo centrale dei
partiti e misure di stabilizzazione del sistema parlamentare: questa dinamica da subito ha prodotto
un equilibrio tutto spostato a vantaggio dei partiti.
o La sede autentica della decisione politica è andata via via spostandosi al di fuori della
rappresentanza politica per concentrarsi in linea di massima nell’Esecutivo;
o Per lungo tempo la forma di governo italiana si è caratterizzata in primo luogo come
democrazia compromissoria, in cui il partito di maggioranza relativa, la Democrazia
cristiana, si era imposto quale ineliminabile partito di governo.
o La progressiva affermazione del regime di democrazia bloccata in cui le responsabilità di
governo venivano attribuite ai soli partiti che condividevano la linea politica internazionale
del Paese, ha determinato l’esclusione dall’area di governo del maggior partito di opposizione
di sinistra e dei suoi alleati, attesi i loro strettissimi legami con l’Unione Sovietica. In questo
modo, quindi, l’organo in cui veniva a formarsi l’indirizzo politico era proprio il Parlamento;
o Emerse nel nostro sistema il problema della continuità e della solidità dell’azione di governo
(c.d. ingovernabilità o instabilità governativa). I governi si mostravano estremamente
deboli. L’ingovernabilità può essere definita come quella situazione di difficoltà dei massimi
organi costituzionali (Parlamento e Governo) di prendere decisioni conformi ad un indirizzo
politico, che sia applicabile in concreto.
Nel nostro sistema, forse proprio perché legato all’esigenza della governabilità, il problema
dell’ammodernamento delle istituzioni è stato spesso affrontato da ipotesi di riforme elettorali.
o Nel 1953 De Gasperi propose di modificare la legge elettorale, introducendo un premio di
maggioranza da assegnare al gruppo di liste che avesse raggiunto almeno la metà più uno dei
voti validi, così da correggere il principio di proporzionalità fra voti ottenuti e seggi
assegnati al fine di garantire maggioranze di governo più stabili;
o A partire dai primi anni ‘80, a seguito del fallimento del “decalogo Spadolini”, si aprì la c.d.
fase delle Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali, nel corso della quale si
ebbero tre diversi tentativi di revisione della forma di governo. Nessuna riforma riuscì a
condurre in porto la riforma del sistema di governo, in ragione di un dissenso non componibile
fra la maggioranza e la minoranza proprio sul merito delle riforme proposte.
o Negli anni ’90 la crisi dei partiti raggiunse livelli intollerabili. Le inchieste giudiziarie che
portarono alla decapitazione della classe politica italiana favorirono il superamento del
parlamentarismo compromissorio, unitamente all’effetto di due referendum popolari:
a. 1991: per l’abolizione del voto di preferenza plurimo;
b. 1993: per l’abrogazione della legge elettorale del Senato della Repubblica nella parte
che impediva di fatto l’operatività del previsto meccanismo maggioritario di
assegnazione dei seggi.
Il nostro sistema politico istituzionale, dunque, viene così a delinearsi per effetto dell’approvazione
nel 1993 di una legge elettorale di tipo maggioritario, nella forma della democrazia maggioritaria,
basata sui principi del bipolarismo e dell’alternanza, tradotti nella formazione di coalizioni pre-
elettorali e nella individuazione preventiva del leader di coalizione con un indubbio rafforzamento
del ruolo dell’Esecutivo.
La legge n. 270/2005 ha reintrodotto un sistema di impianto proporzionale ma con effetti
maggioritari, grazie alla previsione di un premio di maggioranza a vantaggio della coalizione che ha
ottenuto più consensi ed alla fissazione di soglie di sbarramento.
Il Governo è, nella fase attuale, istituzionalmente “troppo forte” rispetto al Parlamento. Basti pensare
alla tolleranza mostrata nei confronti degli abusi nel ricorso ai decreti legge e ai decreti legislativi
delegati, e all’abuso della questione di fiducia, posta spessissimo sui c.d. maxi-emendamenti.
La centralità assunta dal Governo è dovuta altresì alla sua collocazione all’interno di un quadro
politico-amministrativo, che vede ai suoi estremi istituzioni comunitarie e autonomie territoriali.
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo II
Le Fonti del Diritto
Nozione di fonte del diritto
Se per diritto va inteso l’insieme delle norme che disciplinano una determinata società o comunità
umana (c.d. diritto in senso oggettivo o ordinamento in senso normativo), dobbiamo definire le fonti
del diritto come ogni fatto o atto abilitato dall’ordinamento ad innovare il diritto oggettivo.
Nello studio delle fonti del diritto ci si può porre da due diversi punti di vista:
• Teoretico (proprio degli studi di teoria generale del diritto): offre una definizione
universalmente valida di fonte del diritto, indipendente dalle scelte di un ordinamento dato.
Vi sono atti che per loro natura sono produttivi di diritto: sono fonti del diritto tutti quei fatti
o atti che presentino tale natura. È fonte del diritto ogni fatto o atto produttivo di norme
giuridiche, ossia di enunciati che presentano il carattere della generalità, astrattezza e
ripetibilità (nozione sostanzialistica, cioè ricavata da elementi che attengono al contenuto);
• Dogmatico (proprio del diritto costituzionale inteso come studio di concreti ordinamenti): dà
una definizione formale di diritto, in quanto ogni atto approvato dalle due Camere del
Parlamento è legge. Tale concezione considera fonti tutti e solo quei fatti e atti che
l’ordinamento prescrive siano fonti. Fonti del diritto sarebbero dunque solo le fonti legali,
ossia i fatti qualificati da una norma dello stesso ordinamento come idonei alla produzione di
altre norme.

L’identificazione delle fonti normative


Dal punto di vista dogmatico, per sapere se un certo atto o fatto è fonte occorre conoscere se esso è o
meno contemplato da una norma di riconoscimento.
Nell’ordinamento italiano, in mancanza di un’elencazione esplicita, completa e tassativa delle fonti
in Costituzione, è opportuno ricorrere per una prima individuazione dei tipi di fonti, alle disposizioni
preliminari al codice civile che, nei primi quattro articoli, enumerano, specificano e graduano:
• Le leggi, i regolamenti, le “norme corporative”, gli usi (art. 1);
• Gli atti del Governo aventi forza di legge, le leggi di carattere costituzionale (art. 2);
• Il potere regolamentare del governo e di altre autorità” (art. 3);
• Gli “usi nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti” hanno efficacia “solo in quanto
sono da essi richiamati” e sono subordinati alle “norme corporative”, “anche se richiamati
dalle leggi e dai regolamenti, salvo che in esse sia diversamente disposto” (art. 8).
La completezza di questa elencazione è stata certamente superata dall’intervento della Costituzione
repubblicana. Quest’ultima disciplina però una serie di fonti nuove rispetto a quelle elencate nell’art.
1 delle disposizioni preliminari, alcune delle quali del tutto sconosciute in passato.
Così l’art. 1 delle disposizioni preliminari contiene oggi solo un elenco di larga massima, e comunque
insufficiente, di quelle che sono le fonti del nostro ordinamento, elenco che deve essere integrato in
primo luogo tenendo presenti le numerose nuove fonti introdotte dalla Costituzione, e considerando
altresì che uno dei quattro tipi di fonti elencati nell’art. 1 delle disposizioni preliminari (le fonti di
“norme corporative”) è scomparso.
Nel nostro ordinamento una delle principali cause della esistenza di una pluralità di norme di
riconoscimento è legata alla successione tra l’ordinamento prerepubblicano e quello attuale, che ha
comportato il sovrapporsi, all’elenco delle fonti operato dal codice del 1942, delle nuove fonti.
Peraltro l’intervento della Costituzione repubblicana non esaurisce né preclude la nascita di
nuove fonti. Si ritiene, infatti, che le fonti di livello primario possano essere create con legge
costituzionale e che la legge e gli atti aventi forza di legge (c.d. fonti di livello primario) possano
creare a loro volta fonti di livello secondario, cioè di livello inferiore a sé stesse.
Il nostro ordinamento ha assistito più volte al nascere di fonti del diritto non contemplate in
Costituzione che sono andate ad arricchire il livello “secondario” delle fonti.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Un altro fenomeno che ha comportato l’introduzione di nuove fonti nel nostro ordinamento è
l’appartenenza all’Unione europea, che ha determinato l’operatività nel nostro sistema delle fonti c.d.
comunitarie. Inoltre le norme sulla normazione possono essere abrogate o modificate, con la
conseguenza che fonti un tempo previste non sono più vigenti o sono state modificate.
Le fonti del diritto sono soggette a una disciplina diversa da quella di altri fatti e atti giuridici, per
cui conoscere la natura o meno di fonte di un certo atto o fatto è determinante per stabilirne la
disciplina, gli effetti, ecc. In particolare:
a) Le fonti del diritto trovano come prima componente del loro regime le regole di
interpretazione: le fonti del diritto vengono interpretate secondo vari criteri;
b) È proprio delle fonti del diritto (seppure non di tutte le fonti) l’essere esenti da onere della
prova, in quanto le si presume conosciute dal giudice;
c) Soltanto le norme di diritto costituiscono parametro del giudizio: nelle singole controversie,
non solo il giudice “conosce” il diritto ma “giudica solo secondo il diritto”;
d) Soltanto le norme giuridiche sono capaci di determinare l’insorgere di:
a. Antigiuridicità: il fatto realizza i presupposti cui l’ordinamento collega una sanzione;
b. Illegittimità: un fatto si manifesta in modi o forme diversi da quelli che sono per esso
prescritti da una norma (es: vizi degli atti);
e) Soltanto la violazione di norme del diritto oggettivo, la violazione di legge, di cui parla l’art.
111, 7° comma, Cost., o la violazione o falsa applicazione di norme di diritto ad opera di un
giudice nell’esercizio della sua funzione può costituire ragione per ricorrere avverso sentenze
e provvedimenti giurisdizionali alla Corte di Cassazione, cui compete la c.d. funzione di
“nomofilachia” diretta ad assicurare “l’esatta osservanza e l’applicazione della legge”.

Tipologia e morfologia delle fonti del diritto


• Fonti di produzione: dettano le regole che vanno a comporre il diritto oggettivo.
o Classificate in base al contenuto:
§ Fonti di produzione in senso stretto: pongono le regole di condotta e le
norme costitutive;
§ Fonti sulla produzione: fonti che regolano altre fonti;
• Di riconoscimento: definiscono quali siano le fonti;
• In senso lato: disciplinano qualsiasi altro aspetto.
o Classificate in base alla natura:
§ Fonti atto: manifestazioni di volontà di organi o enti nell’esercizio dei poteri
loro attribuiti. Si tratta di fonti scritte caratterizzate dalla volontarietà;
§ Fonti fatto: comportamenti umani o atti giuridici assunti nella loro oggettività
come idonei a produrre diritto (es: consuetudini). In genere si tratta di fonti non
scritte, caratterizzate da un processo che non include la volontà umana.
• Fonti di cognizione: ogni atto scritto che si limita ad agevolare la conoscenza di norme poste
dalle fonti del diritto.
Al tema delle fonti-atto (categoria alla quale appartengono di solito tutte le fonti sulla produzione e
la maggior parte delle fonti di produzione), afferisce la problematica della definizione dei concetti
fondamentali di atto, disposizione e norma.
• Atto è termine che ha un duplice significato:
o Atto come attività, rivolta allo scopo o al conseguimento di un risultato, ovverosia
atto come procedimento. Può essere inficiato da vizi formali;
o Il risultato dell’attività, o del procedimento, è l’atto nella sua altra accezione, quella di
atto come documento. Può essere inficiato da un vizio sostanziale.
Es: la legge del Parlamento è un atto sia perché perché è attività rivolta alla formazione del
documento legislativo, sia perché è il risultato del procedimento, ossia la legge come
documento legislativo

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Disposizione: enunciato normativo dotato di senso autonomo, contenuto nel testo di un atto
normativo. Può coincidere con il testo (o una parte) di un articolo o di un comma;
• Norma: è il significato attribuito alla disposizione attraverso il processo interpretativo. Essa
è quindi il prodotto dell’interpretazione. Una norma può anche nascere dal combinato
disposto di più disposizioni.

Il c.d. sistema delle fonti del diritto


Il sistema delle fonti del diritto è proprio degli ordinamenti giuridici di tipo legislativo, in quanto
rinviene nella legge la fonte principale delle regole di formazione e trasformazione dell’ordinamento.
Si delinea un sistema gerarchico di fonti. Il criterio gerarchico ordina le fonti secondo la loro “forza”,
definibile complessivamente come l’efficacia che è propria di ciascun tipo di fonte. La diversa
“forza” di ciascun tipo di atto normativo dipende dalla collocazione che in quell’assetto assume il
potere normativo di cui l’atto è espressione. Da essa va distinto il c.d. “valore” di legge, inteso come
il regime giuridico cui è sottoposto l’atto: ad esempio, leggi e atti aventi forza di legge dello Stato
e delle Regioni sono sottoposti soltanto al sindacato della Corte costituzionale ex art. 134 Cost.
L’introduzione della “forma legale costituzionale” (ossia l’opzione per una Costituzione rigida non
modificabile nelle vie ordinarie) rappresenta un primo ma già decisivo elemento di perturbazione
dello schema gerarchico. La Costituzione, per sua natura, si interessa (anche) delle fonti del diritto.
In particolare, “crea” le fonti, le individua ma, al tempo stesso, le conforma e le condiziona.
Nel nostro ordinamento esistono fonti atipiche. Le fonti atipiche sono leggi che, pur presentando la
stessa forma della legge, hanno una posizione particolare nel sistema delle fonti, giacché:
• Dotate di una forza passiva potenziata: non sono abrogabili dal referendum;
• Leggi meramente formali: non introducono norme capaci di produrre effetti giuridici
nell’ordinamento.
Non può dirsi esistente oggi un sistema delle fonti configurabile a priori e in generale, ma esistono
tanti diversi sistemi in relazione alle singole materie che vengono in osservazione o in ordine alle
quali l’ordinamento offre un diverso panorama quantitativo e qualitativo di norme primarie.
Si distinguono tre livelli fondamentali sui quali si collocano vari tipi di atti normativi:
a) Livello costituzionale o superprimario cui appartengono, oltre ai fatti normativi primari,
istaurativi o istituzionali, gli atti normativi costituzionali;
b) Livello primario, cui appartengono le leggi ordinarie (statali e regionali) e gli altri atti
legislativi o atti normativi primari;
c) Livello secondario, cui appartengono gli atti normativi secondari o derivati, sia di
provenienza statale, governativa e non, sia di provenienza autonoma.

Riserva di legge e principio di legalità


Forte impatto sul sistema delle fonti hanno la riserva di legge e il principio di legalità. Il legislatore
non è libero di emanare leggi che ritiene necessarie, ma solo quelle compatibili con l’ordinamento
dello Stato e con le fonti generali del diritto.
• Riserva di legge: istituto attraverso cui la costituzione e le leggi costituzionali riservano la
disciplina di materie particolarmente delicate esclusivamente alla legge (ordinaria),
escludendo in tutto o in parte il ricorso del potere regolamentare del Governo. Trattandosi di
un istituto che consiste nella creazione di un obbligo, o vincolo, a carico del legislatore, la
riserva di legge è precipuamente legata a ordinamenti a Costituzione rigida. Esse sono:
o Assolute: la Costituzione prevede che sia la legge a dettare la disciplina integrale della
materia (es: art. 13);
o Relative: la Costituzione richiede che la legge debba limitarsi a disciplinare la materia
negli aspetti fondamentali (es: art. 41);
o Rinforzate: la Costituzione, oltre a riservare una materia al legislatore, fissa ulteriori
limiti che possono riguardare il contenuto o il procedimento (es: art. 16).

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La distinzione tra riserva assoluta e relativa viene operata mediante tre considerazioni:
o Materia: le riserve assolute riguardano principalmente le libertà fondamentali, mentre
per le altre materie si utilizza la riserva relativa;
o Linguaggio: la riserva è assoluta quando la Costituzione utilizza espressioni che
delimitano in modo preciso e rigoroso la sfera attribuita alla legge;
o Considerazioni sistematiche: l’eventuale presenza di una riserva di giurisdizione
implica che si tratti di una riserva assoluta.
Si suole distinguere anche tra:
o Vere e proprie riserve di legge, dalle quali nasce un preciso vincolo a carico del
legislatore, di dettare in tutto o in parte la disciplina di una certa materia;
o Meri rinvii alla legge, che equivalgono alla mera previsione che l’ordinamento
provvederà in un certo modo.
Nel caso in cui non ricorra nessuno dei tre argomenti, si tratta sempre di un mero rinvio alla
legge. La ratio della riserva di legge è l’obbligo per il legislatore di disciplinare alcune
materie. Si tratta generalmente di materie legate alla sfera della libertà individuale. La riserva
di legge, in linea di principio, dovrebbe essere sempre assoluta, cioè finalizzata ad imporre
alla legge la disciplina integrale della materia oggetto della stessa.
La riserva di legge è un istituto, appartenente all’ampio genus delle riserve di competenza, la
cui funzione è vincolare il legislatore a intervenire in date materie ritenute dalla Costituzione
particolarmente importanti e delicate; la riserva può essere soddisfatta in linea di principio
anche da atti aventi forza di legge. Pertanto possiamo trovare anche:
o Riserva di legge formale: caso in cui l’atto normativo cui la riserva si riferisce è la
sola legge ordinaria;
o Riserva di assemblea: assicura che in alcune materie particolarmente delicate le
decisioni vengano prese dal Parlamento.
• Principio di legalità: esprime la necessità che ogni atto esecutivo concreto (es: l’esazione di
un tributo) sia fondato su una previa norma, che stabilisca preventivamente e in modo generale
e astratto i casi in cui quel provvedimento può essere adottato. È un principio di limitazione
dei poteri dell’esecutivo. Tuttavia, la versione più classica del principio di legalità lo intende
come principio che presiede ai rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, e che esprime
l’esigenza secondo cui ogni atto dell’esecutivo sia adottato sulla base di una previa norma di
legge. Di questa seconda versione del principio di legalità esistono due accezioni:
o In senso sostanziale: gli atti dei pubblici poteri devono essere disciplinati dalla legge
secondo specifici criteri e modalità. In tal senso pone forti vincoli al potere esecutivo,
che deve essere autorizzato e disciplinato dalla legge;
o In senso formale: gli atti dei pubblici poteri devono trovare il loro fondamento e
autorizzazione nella legge.
• Il principio di legalità è presupposto esistere, ma non si riesce a trovare la precisa base
costituzionale. Principio di legalità e riserva di legge si distinguono per vari aspetti:
Riserva di legge Principio di legalità
Istituto costituzionale Mero principio generale dell’ordinamento
Investe la legge statale – mai derogabile Può essere derogato
Ratio e origine storica Ratio e origine storica
Modalità di soddisfacimento: richiede Modalità di soddisfacimento: anche grazie
l’intervento della legge o atto equiparato all’intervento di atti normativi
Grado di espansività: vale in quanto Grado di espansività: operante solo nei casi in
espressamente stabilita dalla Costituzione cui sia deducibile dalla Costituzione

Si può ritenere che la riserva di legge costituisca un limite all’estensione del principio di legalità
sostanziale.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il c.d. livello costituzionale


Appartengono al c.d. livello costituzionale la Costituzione repubblicana del 1948 e gli atti normativi
costituzionali (atti costituzionali instaurativi, leggi di revisione della Costituzione, e “altre” leggi
costituzionali).
• Costituzione: è norma o principio costitutivo, ossia la legge fondamentale di uno Stato, l’atto
che ne delinea le caratteristiche essenziali, descrive i valori e i principi che ne sono alla base,
Il costituzionalismo moderno vede nella Costituzione la legge voluta dal popolo. La
Costituzione è espressione della volontà consapevole del popolo e quindi atto, deliberazione.
È scritta, ossia consacrata in un testo scritto redatto in forma solenne, la carta costituzionale.
La scrittura viene sentita come garanzia dei principi contenuti in Costituzione, congeniale
ad un atto destinato a protrarsi nel futuro. La Costituzione diviene così legge, ma in posizione
eminente rispetto alle altre leggi per il suo contenuto, proprio in quanto legge fondamentale.
La Costituzione “scritta” presenta maggiore stabilità e resistenza al mutamento. La maggiore
stabilità e resistenza al mutamento è ulteriormente garantita dalla eventuale previsione di un
apposito procedimento aggravato (art. 138) per la modificazione delle sue parti, che richiede
una maggioranza qualificata (carattere della c.d. rigidità).
La Costituzione repubblicana appare il il frutto di un irripetibile potere costituente esauritosi
con la definitiva approvazione della Carta costituzionale.
Il Patto di Salerno del 1944 (che nominò un Luogotenente al posto del Re) e il dl n. 151/1994
(che attribuiva al popolo italiano la scelta delle forme istituzionali) sono due atti normativi
costituzionali. Il referendum del 2 giugno 1946 favorì la scelta per la forma repubblicana.
La Costituzione venne approvata definitivamente il 22 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1°
gennaio 1948. Essa non è modificabile per quanto riguarda la forma repubblicana (art. 139).
• Leggi costituzionali comprendono
o Leggi di revisione costituzionale (art. 138)1: sono leggi che incidono sul testo
costituzionale modificandolo, sostituendolo o abrogandolo.
Sono caratterizzate da un procedimento di approvazione aggravato, ex art. 138.
Sono soggette al controllo della Corte costituzionale ai fini del rispetto della procedura
prevista dal suddetto articolo. Esse hanno:
§ Limiti espliciti: imposti direttamente dalla Costituzione (es: art. 139);
§ Limiti impliciti: imposti indirettamente dalla Carta o individuati dalla dottrina
o dalla Corte costituzionale (es: inviolabilità dei diritti umani).

1
Procedimento ex art. 138:
• Le leggi di revisione della costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna
Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di 3 mesi, e sono approvate
a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione;
• Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro 3 mesi dalla loro
pubblicazione, ne facciano domanda 1/5 dei membri di una Camera o 500 mila elettori o 5
consigli regionali;
• La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei
voti validi;
• Non si dà luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna
della Camere a maggioranza dei 2/3 dei componenti.
N.b.: i Regolamenti parlamentari hanno optato per la forma alternativa (una volta in una Camera,
una volta nell’altra e, trascorsi tre mesi, di nuovo in ciascuna Camera) anziché per la forma
consecutiva (due volte in una Camera e due volte nell’altra).
Il referendum è atto eventuale e facoltativo indetto con decreto del Presidente della Repubblica e
approvato nel caso in cui si abbia la maggioranza dei voti validi. Non è richiesto alcun quorum. Il
progetto si trasforma in legge, che sarà promulgata e pubblicata.
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

o Altre leggi costituzionali: sono leggi che si limitano a derogare o integrare una norma
costituzionale, senza modificarla in via definitiva (e quindi si differenziano dalle leggi
di revisione per il contenuto che possono assumere). Fanno parte delle altre leggi
costituzionali tutte le leggi definite tali dalla costituzione (es: artt. 132 e 137).
Prevedono il procedimento aggravato ex art. 138.
Le differenze con le leggi di revisione costituzionale sono le seguenti:
§ Le altre leggi costituzionali possono solo integrare la disciplina di un istituto,
mentre le leggi di revisione possono modificarne liberamente le restanti parti;
§ Un’altra legge costituzionale non può abrogare o modificare stabilmente le
disposizioni della Costituzione, ma solo derogarvi o sospenderne
l’applicazione.
All’interno del genus altre leggi costituzionali possiamo trovare:
§ Leggi costituzionali intese come atti a competenza delimitata:
• Conferimento del potere di iniziativa legislativa (art. 71);
• Stabilire condizioni, forme e termini di proponibilità dei giudizi davanti
alla Corte Costituzionale, garanzia indipendenza dei giudici (art. 137);
• Disporre la fusione di Regioni esistenti e creazione di nuove Regioni
(art. 132);
• Attribuzione a determinate Regioni, mediante statuti speciali, forme e
condizioni particolari di autonomia (art. 116).
§ Statuti speciali: adottati con leggi costituzionali territorialmente differenziate
(art. 116);
§ Leggi di revisione costituzionale con riferimento a leggi che modifichino
unilateralmente i Patti Lateranensi (art. 7, 2° comma);
§ Indizione di un referendum costituzionale sul conferimento di un mandato
costituente al Parlamento europeo (legge n. 2/1989).
I rapporti che si colgono a livello di fonti “costituzionali” e le articolazioni di forma e di forza di
queste fonti sono assai più complessi, come si evince dal fatto che in questo livello si inseriscono:
1. I principi “supremi” o fondamentali o inderogabili, e le norme di riconoscimento dei
diritti inviolabili, che rappresentano limiti alla revisione costituzionale;
2. Il testo della Costituzione nella parte in cui non esprime un principio supremo, testo che
è rivedibile, e le leggi di revisione che, se vi sono, entrano a far parte integrante di quel testo;
3. Le “altre” leggi costituzionali, se intese come tipo idoneo a realizzare soltanto integrazioni,
deroghe, rotture, limitazioni, sospensioni della Costituzione;
4. All’interno del genus “altre” leggi costituzionali vanno poi distinte le leggi costituzionali
specificatamente previste dalla Costituzione o a cui la Costituzione fa espresso rinvio, che
possono essere considerate come “atti” con una competenza “delimitata”;
5. La figura delle leggi costituzionali provvedimento, esemplata sinora almeno dalla legge
Cost. 3 aprile 1989, n° 2, per indizione di un referendum consultivo sul conferimento di un
mandato costituente al Parlamento europeo.

Il c.d. livello primario. Le leggi formali ordinarie dello Stato


Al c.d. livello primario sono collocate: la legge formale del Parlamento, gli atti legislativi
dell’esecutivo (decreto legislativo delegato e decreto legge), le fonti a competenza costituzionalmente
riservata (regolamenti parlamentari e regolamenti degli altri organi costituzionali: quasi sicuramente
quelli della Corte Costituzionale, probabilmente quelli della Presidenza della Repubblica e del
Consiglio superiore della magistratura) nonché le leggi regionali. Ad esso vanno aggiunti una vasta
serie di atti (o fatti) normativi,di cui è quanto meno dubbio contestare la primarietà: referendum
abrogativo, regolamenti delle Camere, della Corte costituzionale e della Presidenza della Repubblica,
atti normativi dell’Unione europea, atti aventi forza di legge delle Regioni, contratti collettivi di
lavoro, norme internazionali, leggi e fonti di altri ordinamenti statali e consuetudini.
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Le leggi ordinarie costituiscono il tipo classico di atto normativo primario. La potestà


legislativa è attribuita collettivamente alle due Camere (art. 70).
Il procedimento legislativo si articola in più fasi:
• Fase di iniziativa. Consiste nella presentazione di un progetto di legge ad una delle Camere,
redatto in articoli e accompagnato da una relazione che ne illustri le principali caratteristiche.
I titolari del potere di iniziativa sono:
o Governo (disegni di legge);
o Parlamentari (progetti di legge)
o Popolo (proposta di legge), attraverso la proposta di un progetto di legge firmato da
almeno 50.000 elettori;
o CNEL, per le materie di propria competenza (art. 99);
o Consigli regionali.
In realtà la posizione politica del proponente incide sull’iter legislativo. Gli atti di iniziativa
legislativa decadono alla fine della legislatura, ad eccezione di quelli di iniziativa popolare,
quelli già approvati dalle Camere ma ad esse rimandati dal Presidente e quelli di conversione
dei decreti legge.
• Fase istruttoria e deliberativa: le Commissioni legislative permanenti esaminano e talvolta
votano ciascun progetto di legge. Riferiscono sul progetto di legge all’Assemblea e preparano
una relazione di maggioranza ed una o più relazioni di minoranza; nominano un Comitato di
nove membri che ha il compito di pronunciarsi su eventuali emendamenti; nominano il
relatore dell’Assemblea.
Le leggi devono essere approvate sullo stesso testo; qualsiasi emendamento comporta una
nuova deliberazione. Si possono avere tre diversi procedimenti.
o Procedimento ordinario: il testo è esaminato da una Commissione e poi dalla
Camera. In Aula si tiene la discussione e la votazione dei singoli articoli, per giungere
poi alla votazione finale. Alla discussione e alla votazione del progetto di legge
partecipa tutta l’Assemblea mentre la Commissione competente ha solamente una
funzione istruttoria. È obbligatorio per i progetti di legge (art. 74):
§ Costituzionali ed elettorali;
§ Di delegazione legislativa;
§ Di autorizzazione di bilanci e consuntivi;
§ Di conversione dei decreti-legge;
§ Rinviati alle Camere dal Presidente della Repubblica.
o Procedimento decentrato: le fasi del procedimento (esame, discussione, votazione
dei singoli articoli e votazione finale) sono attribuite alla Commissione competente
per materie. Questo procedimento non è ammesso per le leggi previste dall’art. 72;
o Procedimento misto: è un procedimento intermedio che comporta una collaborazione
fra l’Assemblea e le Commissioni.
§ Alla Camera l’Assemblea può deferire alla commissione la formulazione
degli articoli di un progetto di legge, riservandosi l’approvazione dei singoli
articoli e del testo finale;
§ Al Senato, il Presidente può assegnare alla Commissione un progetto di legge
per il voto sui singoli articoli, riservando all’Assemblea l’approvazione del
testo finale.
Se il progetto è respinto immediatamente dalla prima Camera, non viene trasmesso alla
seconda; se è respinto dalla seconda Camera, non si perfeziona l’iter legislativo; se è
approvato dalla seconda Camera con emendamenti, deve essere ripresentato alla prima
Camera per l’approvazione degli emendamenti.
La votazione avviene solitamente a scrutinio palese. È richiesta la maggioranza semplice.
• Fase dell’integrazione dell’efficacia: la legge approvata deve seguire ulteriori fasi.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

o Promulgazione (art. 73): entro un mese dall’approvazione il Presidente della


Repubblica deve promulgare la legge (termine abbreviabile per provvedimenti
urgenti).
Se il Presidente della Repubblica riscontra un vizio formale o sostanziale può rinviare
la legge alle Camere per un riesame, con un messaggio motivato che spiega le ragioni
del rinvio, ragioni che dovranno essere discusse dalle assemblee (art. 74).
o Visto del Guardasigilli: il Ministro della Giustizia accerta che l’atto non presenti
irregolarità formali e pone il proprio visto sull’atto;
o Pubblicazione: comunicazione con cui la legge viene portata ufficialmente a
conoscenza dei suoi destinatari ed acquista efficacia;
o Entrata in vigore: dopo 15 giorni dalla pubblicazione (c.d. vacatio legis), le legge
entra in vigore, salvo diverso termine stabilito.

L’art. 70 Cost. attribuisce alle due Camere collettivamente l’esercizio della funzione legislativa. Vi
sono (almeno) due modi di intendere l’espressione “esercizio della funzione legislativa”:
• Sostanzialistica: l’attribuzione alle Camere della funzione legislativa avrebbe il significato
di ascrivere alle Camere il potere di porre in essere atti caratterizzati da quel certo contenuto
che sarebbe proprio delle leggi. L’art. 70 attribuirebbe alle Camere la funzione normativa;
• Formalistica: ascrizione alle Camere del potere di porre in essere atti rivestiti della forma e
quindi della forza della legge, indipendentemente dal contenuto normativo.
L’interpretazione dell’art. 70 affermatasi è la seconda. Alla legge non è precluso assumere contenuti
particolari, ma ad essa è comunque precluso assumere quei contenuti che, secondo la Costituzione,
devono essere deliberati da poteri diversi dal legislativo: in particolare la legge non può avere per
contenuto la decisione di una controversia costituzionale.
Non sono invece rinvenibili riserve di competenza nei confronti del potere esecutivo. Si può dire che
il significato comunemente attribuito al conferimento alle Camere della funzione legislativa sta nel
riconoscimento alle Camere del potere di rivestire della forma di legge qualsiasi contenuto,
purché conforme alla Costituzione e non riservato ad altre fonti o ad altri poteri.
Dunque la legislazione è il contenuto necessario della Costituzione, senza per questo esserne il
contenuto esclusivo. Dalla Costituzione deve dedursi almeno la struttura della legislazione.
La funzione legislativa consiste propriamente nel mantenimento e nello sviluppo (svolgimento) della
Costituzione, ossia dei valori fondamentali di cui è sostanziato l’ordinamento. Limiti, positivi e
negativi, alla funzione legislativa possono derivare dunque solamente dalla Costituzione.
La legislazione può assumere qualunque contenuto non contrasti con la Costituzione e anche un
contenuto puntuale e concreto, insuscettibile di ulteriori svolgimenti, ma giustificato in quanto
rispondente ai valori costituzionali. Ciò si traduce poi nella supremazia della legge nei confronti di
tutti gli altri atti giuridici. La legge è subordinata alla costituzione.
• Le leggi rinforzate presentano elementi aggiuntivi e caratteristici rispetto alle leggi ordinarie.
Tra di esse si possono annoverare:
o Le leggi riservate all’Assemblea che escludono il procedimento decentrato ex art. 72;
o Le leggi disciplinanti i rapporti con lo Stato delle confessioni religiose diverse dalla
cattolica, che devono essere precedute dalle relative intese ex art. 8;
o Le leggi di modifica dei Patti Lateranensi precedute da nuovi accordi ex art. 7
o Le leggi disponenti la modificazione di enti territoriali;
o La legge di amnistia e indulto che, in base all’art. 79 revisionato dalla legge Cost.
n.1/1992, deve essere deliberata a maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna
Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale (rafforzatissime: richiesta una
riserva di assemblea e una maggioranza superiore a quella delle leggi costituzionali);
o Leggi per attribuire alle Regioni particolari autonomie (stabilite con legge dello Stato
e approvate a maggioranza assoluta su iniziativa della regione interessata).

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• Leggi atipiche: leggi vincolate ad essere meramente formali o comunque a competenza


limitata. Tra di esse si annoverano:
o Leggi di autorizzazione o di approvazione (artt. 80, 81 Cost.) che presuppongono un
atto il cui contenuto è fatto proprio dalla legge;
o Leggi precedute da accordi internazionali (ex art. 10 cpv. e 11) che vengono recepiti;
o Legge che trasferisce allo Stato o ad enti pubblici o a singole comunità di lavoratori o
utenti determinate categorie di imprese (art. 42 Cost.);
o Leggi condizionate a disporre solo in generale;
o Leggi sottratte a referendum, ecc.
La legge è fonte generale laddove non operi la competenza di altre fonti.

• Atti normativi equiparati alla legge ordinaria: possono distinguersi con riferimento
all’organo titolare della potestà di adottarli. La regola è che la funzione legislativa sia
esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70 Cost.). Vi sono due eccezioni:
o Possibilità per il Governo di esercitarla soltanto a condizione di riceverne la delega da
parte delle Camere (art. 76 e 77, 1° comma, Cost.);
o Potestà per il governo di autoassumersi la potestà legislativa “in casi straordinari di
necessità e urgenza” da svolgersi in atti dotati di efficacia temporanea (art. 77).
Il Governo può dunque adottare atti aventi “valore di legge ordinaria” sulla base di una legge
formale. Ipotesi particolari sono quelle di:
o Atti adottati dal Governo in caso di guerra sul fondamento delle leggi di conferimento
di “poteri necessari” (art. 78 Cost.);
o Decreti contenenti le “norme di attuazione” degli statuti costituzionali delle Regioni
ad autonomia speciale.
Gli elementi formali idonei ad identificare gli atti del Governo equiparati alla legge sono:
o Emanazione del Presidente della Repubblica;
o Deliberazione da parte del Consiglio dei Ministri;
o Pubblicazione dell’atto nei modi previsti dal Testo Unico del 1931;
o Per il decreto legge, richiamo nel preambolo alla necessità e urgenza;
o Per il decreto legislativo delegato, al richiamo alle disposizioni deleganti e all’art 76.
Dagli atti normativi equiparati alla legge e adottati dal Governo si distinguono quelli che non
provengono dal Governo, ma che, o per l’incidenza sulle leggi e sugli atti legislativi o per la
sfera di riserva di competenza loro assegnata, possono ad essi comunque equipararsi. Tali il
referendum abrogativo, i regolamenti parlamentari e, forse, quelli della Corte costituzionale e
della Presidenza della Repubblica, i bandi militari e, qualora fosse possibile affermarne
l’esistenza, i contratti di lavoro collettivi dotati di efficacia erga omnes.

• I decreti legislativi delegati sono atti aventi forza di legge emanati dal Governo sulla base di
una legge delega approvata dal Parlamento che ne definisce principi di adozione e limiti di
esercizio (art. 76). Hanno valore di legge ordinaria previa delegazione delle Camere. Vi è
quindi una legge di delegazione, che deve essere:
o Adottata da ciascuna Camera in Assemblea (riserva di assemblea, art. 72);
o Deve definire gli oggetti su cui il Governo è autorizzato a dettare la disciplina;
o Deve fissare i principi e i criteri direttivi cui il Governo deve attenersi.
È adottato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica con l’indicazione della
deliberazione del Consiglio dei Ministri. L’emanazione deve avvenire entro il termine fissato
e il testo va trasmesso al Presidente della Repubblica almeno 20 giorni prima che scada.
Se la delega si riferisce ad una pluralità di oggetti distinti è possibile il c.d. esercizio
frazionato che consiste nell’emanazione di più atti successivi per uno o più oggetti.
La sua validità è subordinata alla validità della legge di delegazione. La legge n. 400/1988 ha
sottratto al controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti tutti gli atti aventi forza di

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

legge del Governo, e cioè i decreti legislativi e i decreti legge. La Presidenza di ciascuna
Camera può chiedere tuttavia le valutazioni della Corte. Ogni delegazione è revocabile in
qualunque tempo. I decreti sono dunque condizionati alla non disformità della legge di
delegazione.
Si ha eccesso di delega quando il decreto legislativo esce dai confini della legge di delega.
Oltre al contenuto minimo necessario è presente un contenuto ulteriore. È possibile infatti
che la legge di delega contenga anche disposizioni regolanti con efficacia immediata la
materia cui la delega si riferisce. In tal caso l’atto assume la duplica figura di legge e legge
delega. Tale contenuto ulteriore è formato da:
o Contenuto delegante;
o Contenuto dispositivo diretto non delegante.
La legge di delega è fondamento del potere legislativo del Governo e conferisce valore
legislativo al decreto delegato. La legge delega si pone come norma interposta tra la previsione
dell’art. 76 e il singolo decreto. Sia le leggi delega che i decreti legislativi sono sottoposti al
controllo della Corte costituzionale.
I limiti alla delega sono i seguenti:
o Può essere conferita solo con legge;
o Deve essere esercitata entro un termine prefissato;
o Deve essere discussa e approvata in Assemblea da ciascuna Camera (riserva di
assemblea, art. 72): il Governo deve richiedere il parere delle Camere espresso dalle
commissioni entro 60 giorni;
o Esaminato il parere, nei 30 giorni successivi il Governo ritrasmette con eventuali
modifiche ed osservazioni;
o Deve rivolgersi al Governo nel complesso e non ai singoli organi (es: a un Ministro);
o Non può riguardare materie che devono essere disciplinate da legge costituzionale;
o Non può riguardare atti che costituiscono approvazione, conversione ecc. di atti dello
stesso Governo, sul quale il Parlamento esercita un potere di controllo.

• Decreti legge: provvedimenti provvisori con forza di legge, adottati dal Governo di sua
iniziativa e sotto la sua responsabilità in presenza di particolari presupposti. Essi divengono
definitivi solo dopo la conversione in legge ad opera del Parlamento (art. 77). La loro
caratteristica consiste nell’omogeneità sostanziale dell’oggetto su cui devono vertere
(puntualità). In quanto puntuali, essi devono essere motivati.
In base all’art. 77 il Governo può adottare decreti legge ricorrendo l’ipotesi di straordinaria
necessità e urgenza. Tali decreti devono essere convertiti in legge dalle Camere entro 60
giorni dalla loro emanazione.
I presupposti sono:
o Verificarsi di condizioni di necessità e urgenza;
o Necessità di intervenire con una disciplina legislativa che trovi immediata
applicazione;
Gli organi deputati al controllo dei presupposti sono:
o Presidente della Repubblica, che può farlo in via preventiva, in casi eccezionali in
sede di emanazione del decreto;
o Parlamento ex art. 78: le Camere effettuano un primo controllo mediante le
Commissioni competenti e il Comitato per la legislazione, che esprimono un parere e
possono chiedere al governo di interare gli elementi forniti nella relazione di
accompagnamento; il Senato invece prevede il deferimento del disegno di legge di
conversione alla commissione competente e alla Commissione affari costituzionali
che trasmette entro 5 giorni il proprio parere. Se il parere è contrario, il Presidente del
Senato deve sottoporlo entro 5 giorni al voto dell’Assemblea;
o Corte costituzionale, in via successiva in sede di giudizio di legittimità.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il decreto legge non può:


o Abrogare;
o Conferire deleghe legislative;
o Provvedere nelle materie di cui all’art. 72 comma 4 (materia costituzionale ed
elettorale, autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, approvazione di
bilanci e consuntivi);
o Rinnovare le disposizioni di decreti legge non convertiti;
o Regolare rapporti giuridici sorti sulla base di decreti non convertiti;
o Ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime per vizi non in procedendo
La conversione deve avvenire entro 60 giorni dall’emanazione: in mancanza, il decreto legge
perde efficacia ex tunc (si ha come mai posto in essere). La conversione ha luogo mediante
l’approvazione parlamentare. Le Camere possono regolare con legge i rapporti giuridici sorti
in base a decreti non convertiti.
I decreti leggi possono avere alcuni vizi:
o Vizio ut sic: difetto del presupposto dell’eccezionalità;
o Vizio materiale: difetto di puntualità (vizio del contenuto);
o Vizio formale: difetto di motivazione dell’atto che può investire l’incertezza sul
presupposto e il tenore del contenuto.
I decreti legge sono sindacabili in ogni tempo, con riferimento al presupposto di necessità e
urgenza. Inoltre il sindacato può esercitarsi ogni volta in cui il decreto violi limiti di materia
anche indirettamente desumibili dalle norme costituzionali.
Altra forma di abuso è quella della iterazione o reiterazione del decreto legge: è la prassi
consistente nell’adozione da parte del Governo di un nuovo decreto legge, il quale produce il
contenuto del decreto precedente, di fatto prorogandone la disciplina in violazione della
provvisorietà imposta dal decreto legge dall’art. 77. L’art. 15, legge n° 400/1988, vieta la
rinnovazione delle disposizioni dei decreti-legge dei quali sia stata negata la conversione in
legge con il voto contrario di una delle due Camere. Nelle altre ipotesi il Governo può sempre,
a patto che sussistano i presupposti, rinnovare le disposizioni di un decreto legge. A fronte del
crescente ricorso alla reiterazione, la Corte, dopo un primo monito a Governo e Parlamento
(sent. n. 302/2008), condanna seccamente tale prassi. Il giudice delle leggi, infatti, la reputa
in violazione dell’art. 77 Cost. “perché altera la natura provvisoria della decretazione
d’urgenza” (sent. n. 360/1996). Nella medesima decisione la Corte indica le condizioni perché
un’iterazione possa dirsi legittima:
o Diversità sostanziale dei contenuti normativi;
o Presupposti giustificativi nuovi e sopravvenuti di natura straordinaria.
Il divieto di reiterazione è facilmente raggirabile.
Di decreti legge si devono annoverare due diversi distinti tipi o sottotipi che sono dotati di
caratteristiche differenziali:
o Decreti legge ordinari
o Decreti legge straordinari.

Altri atti legislativi del Governo


Tra gli atti legislativi del Governo possono problematicamente essere inserite alcune fonti, quali:
• Gli atti adottati dal Governo in caso di guerra: dopo la dichiarazione dello Stato di Guerra
le Camere conferiscono al Governo i poteri necessari ex art. 78. Tali atti sono assimilati ai
decreti legislativi, ma c’è chi ritiene che andrebbero invece assimilati ai decreti legge. Lo stato
di guerra legittima la sospensione delle garanzie dei diritti e delle libertà;
• Decreti di amnistia e indulto: necessitano della delegazione;
• I decreti legislativi di attuazione degli statuti speciali: attribuiti al Governo da disposizioni
di rango costituzionale. Non si ha né decreto legge né decreto legislativo, ma una competenza
specifica del Governo. Il procedimento prevede il parere di commissioni statali-regionali. Non

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

sono idonei ad abrogare, modificare, derogare leggi e atti a queste equiparati, se non nella
materia di propria competenza ed essi esclusivamente riservata. Sono stati ritenuti sindacabili
dalla Corte costituzionale e possono costituire parametro di legittimità nel giudizio. Le leggi
regionali e le leggi statali che non presentino certe caratteristiche formali e sostanziali non
sono ritenute idonee a modificare le disposizioni dei decreti di attuazione. La modifica dello
statuto o la sostituzione con un altro statuto non comportano di per sé invalidità o inefficacia
delle norme di attuazione del vecchio, sempre che esse non contrastino con il nuovo statuto o
riguardino disposizioni statuarie non recepite nel nuovo, e quindi abrogate per disciplina
dell’intera materia. Qualora la materia sia sufficientemente individuata dalla fonte statuaria,
le Regioni speciali e le province autonome possono esercitare, anche in caso di mancata
emanazione delle norme di attuazione, le potestà loro spettanti in base allo statuto.

Il referendum abrogativo
Il referendum abrogativo è il referendum attraverso cui il corpo elettorale è chiamato, su iniziativa di
500.000 elettori o di 5 Consigli regionali, a deliberare sull’abrogazione totale o parziale di una legge
o di un atto avente forza di legge (art. 75). È un tipico istituto di democrazia diretta.
o È una vera e propria fonte del diritto, con la stessa efficacia della legge formale;
o Hanno diritto di parteciparvi tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati;
o La proposta soggetta a referendum si intende approvata se alla votazione si è presentata la
maggioranza degli aventi diritto e i voti favorevoli hanno raggiunto la metà più uno di quelli
validamente espressi (c.d. doppio quorum).
o L’art. 75 rinvia inoltre alla legge ordinaria (legge n. 352/1970) la determinazione delle
“modalità di attuazione del referendum”.
Il procedimento è così articolato:
o Iniziativa: nel caso di referendum di iniziativa popolare, i promotori (almeno 10) devono
presentarsi alla cancelleria della Corte di Cassazione indicando la legge o l’articolo per la
quale intendono promuovere la raccolta delle firme (almeno 500.000). La cancelleria
provvede a darne notizia nella Gazzetta Ufficiale;
o Raccolta delle firme: deve svolgersi entro tre mesi e le firme devono essere autenticate da
un notaio o da un funzionario abilitato a conferire pubblica fede ai documenti;
o Deposito delle sottoscrizioni: la raccolta delle firme assieme alla richiesta di referendum e ai
certificati elettorali dei sottoscrittori, va depositata entro il 30 settembre di ogni anno
all’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione;
o Controllo di legittimità costituzionale: la Corte costituzionale decide, con sentenza da
pubblicarsi entro il 10 febbraio, quali richieste siano ammissibili e quali siano da respingere;
o Indizione: il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, indice
il referendum per le richieste ammesse, fissando l’espletamento delle votazioni in una delle
domeniche comprese tra il 15 aprile e il 15 giugno;
o Votazione e scrutinio: le modalità delle consultazioni sono quelle prescritte per le elezioni
politiche;
o Proclamazione dei risultati:
o Risultato sfavorevole all’abrogazione: se ne dà semplice notizia sulla G.U. e non può
proporsi nuovo referendum con medesimo oggetto prima che siano trascorsi 5 anni;
o Risultato favorevole all’abrogazione: il Presidente della Repubblica con proprio
decreto (avente natura normativa e paralegislativa), dichiara l’avvenuta abrogazione
della legge, che ha effetto a decorrere dal giorno successivo a quello della
pubblicazione del decreto nella G.U.
Il Presidente della Repubblica può ritardare l’abrogazione per un massimo di 60 giorni (c.d.
ultrattività).

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Qualora il Parlamento non si attivi subito dopo l’abrogazione referendaria, il vuoto così generato
andrà colmato dagli interpreti e, in particolare, dai giudici. Si determina, automaticamente, una
normativa di risulta, frutto della saldatura fra il referendum e la disciplina legislativa residua.
Il referendum conosce limiti di competenza espressi dalla Costituzione. Infatti non può abrogare:
o Norme derivanti da fonti secondarie o leggi regionali (art. 75, comma 1);
o Leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati
internazionali (art. 75, 2° comma);
o Norme di rango costituzionale.
L’uso normale del referendum dovrebbe essere determinato, in via molto generale, da una situazione
(di fatto) non ordinaria, ma straordinaria; non normale, ma eccezionale.
Governo e corpo elettorale potrebbero solo eccezionalmente sostituirsi al Parlamento nell’esercizio
della funzione legislativa. È il Parlamento che, secondo la nostra Costituzione, dovrebbe far fronte
alle situazioni di normalità-ordinarietà attraverso l’esercizio della funzione legislativa.
La mancanza del presupposto, nel caso del referendum, produce dunque quello che viene definito
come “abuso” del ricorso ad esso. L’abuso può risultare da un uso eccessivo, quantitativamente
sovrabbondante rispetto alla eccezionalità dell’istituto, o da un uso distorto, per eccesso qualitativo.
È il noto fenomeno dei referendum manipolativi esplicitamente censurato dalla Corte costituzionale,
ove si è affermato il principio dell’inammissibilità di richieste ablatorie che si propongono, mediante
la “soppressione di mere locuzioni verbali, peraltro inespressive di qualsiasi significato normativo,
[…] la sostituzione della norma abroganda con altra assolutamente diversa”.
Il referendum sarebbe inoltre un atto normativo dotato, secondo le prescrizioni dell’ordinamento, di
un particolare vincolo di contenuto, che può individuarsi nella “puntualità”, ossia nella richiesta
(dalla giurisprudenza costituzionale) omogeneità sostanziale dell’oggetto su cui verte.
Il referendum manifesta una volontà irripetibile e definitiva. Ne consegue che l’abrogazione tramite
referendum di una disciplina legislativa “non potrebbe consentire al legislatore la scelta politica di
far rivivere la normativa ivi contenuta”, neppure “a titolo transitorio”.
Tuttavia, la resistenza a futuri interventi legislativi va limitata alla sola ipotesi che la legge posteriore
riproduca la normativa già abrogata dal popolo, ponendo nel nulla la deliberazione popolare,
ripristinando di fatto la situazione normativa preesistente al referendum.
Il legislatore che volesse reintervenire ex post sul tessuto normativo inciso dal referendum sarebbe
libero di farlo in ogni altro modo.
Al legislatore è, insomma, precluso di meramente ripristinare la normativa abrogata. In assenza dei
mutamenti potenzialmente idonei a giustificare la reintroduzione delle disposizioni abrogate, la legge
“ripristinatoria” deve ritenersi incostituzionale per violazione dell’art. 75 Cost. (sent. n. 199/2012).

Fonti a competenza costituzionalmente riservata ed altri atti normativi problematicamente


rientranti nel c.d. livello primario
Possono essere collocate al c.d. livello primario alcune fonti a competenza costituzionalmente
riservata, quali i regolamenti parlamentari e i regolamenti degli altri organi costituzionali:
L’autonomia degli organi costituzionali si fonda sull’assunto che la disciplina di tutto quanto riguarda
l’organizzazione e il funzionamento di tali organismi dovrebbe essere rilasciato alla libera
determinazione degli stessi, salve sempre le norme costituzionali.
• Regolamenti parlamentari: atti distinti delle due Camere, contenenti norme
sull’organizzazione e il funzionamento delle assemblee legislative, nonché sui rapporti fra
queste e gli altri organi costituzionali (ad esempio il Governo). Ciò basta a distinguerli, in
quanto atti monocamerali e per la speciale maggioranza richiesta, dalle leggi. Neanche la
legge ordinaria può validamente interferire.
o L’art. 64 non rilascia alle Camere le modalità di approvazione degli stessi;
o Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi
componenti (art. 61, 1° comma);

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

o Obbligo di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.


o Ogni disegno di legge “presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo
regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva
articolo per articolo e con votazione finale” (art. 72, 1° comma);
o I regolamenti parlamentari possono introdurre norme derogatorie rispetto a quelle che
disciplinano il procedimento ordinario di approvazione delle leggi (art. 72);
o Riserva di competenza in materia di organizzazione e funzionamento delle Camere:
hanno la primarietà propria degli atti legislativi (subordinazione alle sole norme
Costituzionali);
o Non sono oggetto di sindacato di legittimità costituzionale (art. 134) né di referendum
abrogativo: alle Camere è riconosciuta l’indipendenza verso ogni altro potere.
• Regolamenti della Corte costituzionale: espressione di autonomia normativa di un organo
supremo. Non trovano fondamento espresso nella Costituzione.
o La legge ordinaria di attuazione dell’art. 137 prescrive che la Corte può disciplinare
l’esercizio delle proprie funzioni con regolamento approvato a maggioranza dei suoi
componenti;
o I regolamenti disciplinano le funzioni e l’organizzazione interna della Corte; inoltre
contengono le norme integrative per i giudizi innanzi a sé;
o Si distingue dai regolamenti parlamentari in quanto trova fondamento in una legge
ordinaria.
• Regolamenti del Presidente della Repubblica: nella Costituzione non è presente alcuna
previsione relativa all’istituzione e organizzazione dell’ufficio del Presidente.
o Trovano fondamento in una legge ordinaria;
o Non appartengono al livello primario;
o Emanati su proposta del Segretario alla Presidenza con la forma di un decreto del
Presidente della Repubblica senza controfirma.
• Regolamenti delle Autorità indipendenti: dispongono solitamente di significative potestà
normative che si tende a definire “primarie” o “paraprimarie”. Manca un fondamento anche
indiretto di tali atti nella Costituzione. La peculiarità è costituita dal fatto che le leggi istitutive
delle Autorità tendono a porsi come leggi di carattere organizzatorio, attribuendo alle Autorità
un potere regolamentare o comunque il compito di promuovere la formazione di regole da
parte dei soggetti attivi nel settore interessato. Si ha qui una sorta di autolimitazione della
legge, che attribuisce ad altre “fonti” la competenza per la normazione di certi settori. Ma, in
questo caso, non vi è alcun ostacolo, proprio per la mancanza del fondamento costituzionale,
ad una riappropriazione della materia da parte della legge.
Appare discussa in dottrina la collocazione nel livello primario e addirittura in alcuni casi tra le stesse
fonti del diritto di alcuni atti:
• Decreti presidenziali recettizi: abbiamo due ipotesi.
o Dichiarazione dell’avvenuta abrogazione referendaria. È un atto normativo,
collocabile a livello primario sia perché “l’abrogazione ha effetto a decorrere dal
giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale”,
sia, soprattutto, perché il Presidente della Repubblica, “su proposta del Ministro
interessato, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri”, può “ritardare l’entrata
in vigore della abrogazione per un termine non superiore a 60 giorni”;
o Decreto di ratifica dei trattati internazionali: le norme internazionali pattizie
necessitano, per avere efficacia nell’ordinamento, di un atto fonte di quest’ultimo che
le recepisca. La recezione avviene attraverso l’“ordine di esecuzione” contenuto o
nella legge di autorizzazione alla ratifica del trattato o nel decreto presidenziale di
ratifica. L’atto fonte che opera la recezione ha, nei due casi, valore legislativo-
primario e normativo-secondario. Se le norme incidono sulla legislazione o
normazione primaria il decreto presidenziale assume valore paralegislativo;

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Ordinanze di necessità ed urgenza: casi che si pongono al limite tra fonte e provvedimento.
Si tratta di atti di autorità amministrative, adottabili in casi di necessità e urgenza, per materie
e fini genericamente indicati dalla legge, che si differenzierebbero da ogni altro atto
amministrativo perché il loro contenuto non è prestabilito da una previa norma, ma
discrezionalmente determinabile.
In linea di principio, le ordinanze di necessità e urgenza, pur potendo incidere
derogativamente o sospensivamente sulla legislazione in vigore incontrano, oltre i limiti
cronologici connessi al perdurare dell’“urgenza” della “grave necessità pubblica”, anche
limiti oggettivi. La Corte costituzionale ha ristrutturato il potere di ordinanza prefettizio,
escludendo che esso possa incidere su diritti costituzionalmente garantiti o su materie
“riservate” alla legge. Il potere di ordinanza viene considerato legittimo se è adeguatamente
circoscritto nell’oggetto e tale da derogare a settori di normazione che non siano richiamati in
termini assolutamente generici. Ammettere la legittimità delle ordinanze equivale ad
ammettere la loro potenzialità legislativa. Esse possono essere analizzate da due punti di vista:
o Formale, intese come veri e propri atti amministrativi che devono rispettare le
condizioni (forma scritta, motivazione adeguata, comunicazioni e pubblicazione. Ad
esempio, le ordinanze del Sindaco);
o Strutturale: atto che pone prescrizioni ripetibili o che incide su prescrizioni già di per
sé dogmaticamente considerate normative.
Le ordinanze sono soggette a controllo dei giudici ordinari od amministrativi. Il solo vizio
concretamente censurabile sembrerebbe quello dell’eccesso di potere.
• Ordinanze legislative: contrapposte alle ordinanze di necessità e urgenza; possono essere
adottate dal Ministro dell’Interno, dai prefetti o da autorità militari, nei vari casi, sul
presupposto della dichiarazione dello “stato di pericolo pubblico” o dello “stato di guerra”
(interna: c.d. stato di assedio). Tali disposizioni appaiono, in presenza dell’art. 78 Cost., affette
da illegittimità costituzionale, che però andrebbe dichiarata dalla Corte Costituzionale;
• Bandi militari: sono riconosciuti come atti aventi “valore di legge della zona” sia pure
limitatamente alle materie “attinenti alla legge e alla procedura militare di guerra” come pure
“agli ordinamenti giudiziari militari”. L’applicazione di questi atti “legislativi” è subordinata
alla intervenuta dichiarazione di guerra, per cui il fondamento della forza di legge ad essi
attribuita potrebbe rinvenirsi nell’art. 78 Cost. Si riconosce espressamente il valore
derogatorio nei confronti delle leggi di tali atti;
• I contratti collettivi di lavoro “con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle
categorie alle quali il contratto collettivo si riferisce” si sarebbero, probabilmente, collocati al
livello primario, qualora fosse stata data attuazione all’art. 39 Cost. La Costituzione sottopone
la stipulazione e l’efficacia erga omnes a due condizioni:
a) Che i sindacati contraenti abbiano ottenuto la personalità giuridica mediante
la registrazione (per ottenere la quale dovrebbero avere statuti che sanciscano
un ordinamento interno a base democratica);
b) Che la stipulazione sia affidata ad una rappresentanza unitaria composta in
modo proporzionale al numero degli iscritti ai vari sindacati stipulanti.
L’attuale inesistenza (impossibilità) di configurare contratti collettivi dotati di efficacia erga
omnes ha determinato una situazione atipica. Unici contratti collettivi che possano oggi
stipularsi sono perciò quelli di diritto comune (libro IV c.c.), efficaci limitatamente ai soggetti
iscritti alle associazioni che li stipulano. I contratti collettivi di diritto comune non siano
suscettibili di controllo da parte della Corte Costituzionale. Dall’art. 39 può trarsi il
fondamento della autonomia collettiva, che va intesa come corollario della libertà sindacale.
I contratti collettivi di fatto affermatisi come valevoli erga omnes sono fonti atipiche, in
quanto diverse e distinte dai contratti collettivi ex art. 39, ma giustificate e fondate sulla
autonomia collettiva riconosciuta dallo stesso art. 39 Cost. I contratti collettivi sono dotati di
valore normativo primario.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Statuti e leggi regionali


Gli statuti sono atti con i quali le Regioni disciplinano la propria organizzazione e il proprio
funzionamento. Essi sono regolati da due articoli diversi:
• Statuti delle Regioni ordinarie (art. 123):
o Assumono la forma di leggi regionali rinforzate in quanto sono approvati dai
Consigli regionali a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni
successive adottate ad intervallo non minore di due mesi;
o Sono norme interposte tra la Costituzione e le leggi regionali;
o Il Governo ha la possibilità di promuovere la questione di legittimità costituzionale
sugli statuti regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro 30 giorni dalla loro
pubblicazione (controllo preventivo ed eventuale);
o Lo Statuto può essere sottoposto a referendum se, entro 3 mesi dalla sua pubblicazione,
ne faccia richiesta 1/50 degli elettori della Regione o 1/5 dei componenti del Consiglio
regionale. Lo statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato
dalla maggioranza dei voti validi (controllo politico);
o Non deve essere approvato con legge della Repubblica: è un atto regionale;
o Non si è in presenza di Carte costituzionali, ma di fonti regionali “a competenza
riservata e specializzata”, cioè di statuti di autonomia;
o È affermata la superiorità dello statuto rispetto alla legge regionale, infatti:
§ Lo Statuto necessita di un procedimento aggravato;
§ Lo Statuto può essere sottoposto a referendum;
o Per quanto concerne il contenuto, esso deve regolare, in armonia con la Costituzione:
§ La forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento della Regione;
§ L’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti
amministrativi della Regione;
§ La pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali, nonché disciplinare
il Consiglio delle autonomie locali (organo di consultazione tra Regione ed
enti locali),
§ Eleggere il Presidente della Giunta regionale a suffragio universale e diretto,
salvo che lo Statuto disponga diversamente (art. 122);
• Statuti delle Regioni speciali (art. 116):
o Sono adottati con leggi costituzionali in quanto adottati dal Parlamento con
procedimento aggravato;
o Possono derogare alla Costituzione (nel limite del rispetto dei principi fondamentali)
ma non sono espressione dell’autonomia regionale;
o Per la modifica delle disposizioni la legge prevede la consultazione della Regione
interessata e la non esperibilità del referendum abrogativo;
o Le Regioni a statuto speciale sono: Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Valle
d’Aosta, Sicilia e Sardegna;
o Ulteriori condizioni particolari possono essere attribuite anche ad altre Regioni
mediante legge di Stato, da approvare a maggioranza assoluta, su iniziativa della
Regione interessata e sentiti gli enti locali.

Le leggi regionali sono atti aventi valore di legge ordinaria, adottati dalla Regione in base alla
competenza legislativa attribuitale dall’art. 117 e con efficacia limitata al territorio regionale. Ad esse
sono equiparate le leggi provinciali adottate dalle Province autonome di Trento e Bolzano.
• Sono in rapporto con le leggi statali in una forma di competenza-concorrenza;
• La potestà legislativa deve essere esercitata nel rispetto della Costituzione;
• Le province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle
decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato;
• La funzione legislativa regionale è esercitata da un’unica Camera, il Consiglio regionale;
• La legge regionale viene promulgata dal Presidente della Giunta, pubblicata nel Bollettino
Ufficiale della Regione e riprodotta, a fine di conoscenza, nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica. Il termine di vacatio per l’entrata in vigore è di 15 giorni dalla pubblicazione;
• Entro 60 giorni dalla pubblicazione, il Governo, quando ritenga che la legge regionale ecceda
la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale (art.
127). La stessa possibilità è data alla Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente
valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza;
• Il tipo “legge regionale” è una fonte a competenza specializzata, delimitata non solo
territorialmente ma anche in relazione alle materie che spettano alla Regione;
• La potestà legislativa regionale può distinguersi in residuale e concorrente:
o Residuale: spetta alle Regioni in riferimento ad ogni materia non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato e a quella concorrente (c.d. ripartizione
orizzontale di competenza);
o Concorrente: spetta alle Regioni nei settori individuati dal comma 3 dell’art. 117 nel
rispetto dei principi fondamentali fissati dallo Stato (c.d. ripartizione orizzontale);
• La potestà regionale assume oggi carattere generale e residuale;
• La potestà bipartita o concorrente incontra l’ulteriore limite dei principi fondamentali stabilita
dalla legislazione statale. In mancanza di principi fondamentali, la potestà regionale non
potrebbe essere “arrestata” con la conseguenza che le Regioni ben possano legiferare senza
dovere aspettare la posizione di nuovi principi da parte della legge statale;
• Il principio di legalità conduce ad escludere che le singole Regioni, con discipline
differenziate, possano regolare e organizzare funzioni amministrative attratte a livello
nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto;
• In base al principio di sussidiarietà, quando un’attività amministrativa non può che essere
svolta dallo Stato, è a quest’ultimo che spetta adottare le leggi per regolarla e amministrarla.
In questi ultimi casi, tuttavia, le leggi statali potranno essere sottoposte ad uno scrutinio stretto
da parte della Corte costituzionale, rivolto a verificare la ragionevolezza dell’intervento;
• Tendenzialmente l’ammissibilità di atti che possano essere definiti come “atti aventi forza di
legge” è negata per le leggi regionali. Tuttavia, esistono atti normativi regionali primari:
o Referendum abrogativo: ha forza di legge in quanto idoneo all’abrogazione di leggi;
o Regolamenti consiliari: al loro interno trovano disciplina gli aspetti inerenti al
funzionamento del Consiglio stesso che li adotta. Sono atti normativi anche se non
sono dotati di riserva di competenza. Non hanno valore di legge ai fini della
sottoponibilità al sindacato.
L’art. 117 suddivide la competenza:
• Il comma 2 individua le materie di legislazione esclusiva statale;
• Il comma 3 individua le materie di legislazione concorrente;
• Il comma 4 individua le materie di legislazione esclusiva regionale.

Il c.d. livello secondario. I regolamenti dell’esecutivo


Sul piano positivo, la tipologia delle fonti “secondarie” si presenta variegata e più complessa della
formula accolta dalle disposizioni preliminari, in base alla quale il livello “secondario” dovrebbe
accogliere i regolamenti del Governo e delle “altre autorità”. La fonte secondaria, in una costruzione
gerarchica del sistema, dovrebbe essere descritta come dotata di una forza attiva e passiva minore di
quella della legge e qualificata da un rapporto con la legge riassunto nel principio di legalità. Tuttavia
la prassi ha portato ad una pluralizzazione delle fonti secondarie.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Regolamenti governativi: atti “amministrativi” dal punto di vista soggettivo e formale, ma


legislativi dal punto di vista materiale, in quanto costitutivi del diritto oggettivo. La previsione
dei regolamenti quali fonti del diritto si rinviene nelle disposizioni preliminari. L’art. 87, 5°
comma, prevede che i regolamenti siano emanati dal Presidente della Repubblica; l’art. 117,
6° comma, limita la potestà regolamentare del Governo alle sole materie sulle quali lo Stato
ha potestà legislativa esclusiva, riservando alle Regioni il potere regolamentare in tutte le altre.
I regolamenti governativi vengono deliberati dal Consiglio dei Ministri, udito il parere del
Consiglio di Stato, ed emanati con decreto del Presidente della Repubblica. Tutti i regolamenti
debbono inoltre recare la denominazione di “regolamento” ed essere sottoposti al visto e alla
registrazione della Corte dei conti, prima della pubblicazione. I regolamenti sono quindi
inseriti nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana, pubblicati sulla
Gazzetta Ufficiale, ed entrano in vigore dopo un periodo di vacatio di 15 giorni dalla
pubblicazione. Essi si distinguono in:
o Regolamenti esecutivi che disciplinano “l’esecuzione delle leggi e dei decreti
legislativi, nonché dei regolamenti comunitari”. Pongono norme secondarie e
complementari rispetto alle leggi cui si riferiscono. Serve ad interpretare la legge cui
si riferisce. Il regolamento di “stretta” esecuzione della legge può intervenire anche in
materie coperte da riserva assoluta;
o Regolamenti di attuazione e integrazione, per “l’attuazione e l’integrazione delle
leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie
riservate alla competenza regionale”. Si ipotizza che l’atto legislativo di riferimento
contenga solo norma di principio e dunque, implicitamente, si afferma la possibilità di
intervento regolamentare limitatamente alle ipotesi di riserva relativa di legge;
o Regolamenti indipendenti, che possono intervenire nelle materie “in cui manchi la
disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di
materie comunque riservate alla legge”. Questi regolamenti disciplinano
autonomamente, senza essere collegati ad una previa legge, una certa materia, non
disciplinata dalla legge o da atti aventi forza di legge e non coperta da riserva di legge;
o Regolamenti di organizzazione, che riguardano la materia dell’organizzazione dei
pubblici uffici, coperta ex art. 97 Cost., da riserva relativa di legge. In un certo senso
sono dunque assimilabili ai regolamenti esecutivi o attuativi della legge di riferimento.
Tuttavia la materia ha assunto la qualità di materia delegificata;
o Regolamenti di esecuzione delle ulteriori intese: le ulteriori intese dovrebbero essere
recepite o attuate con un atto interno di natura regolamentare;
o Regolamenti di attuazione delle direttive comunitarie: tali regolamenti sono posti
in una posizione intermedia tra i regolamenti indipendenti e quelli autorizzati. Devono
tuttavia regolare materie non riservate assolutamente alla legge. La legge n. 234/2012
dispone che nelle materie di cui all’art. 117, 2° comma, Cost., già disciplinate con
legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge, le direttive possono essere attuate
mediante regolamento se così dispone la legge comunitaria. Inoltre, nelle materie di
cui all’art. 117, 2° comma, Cost., non disciplinate dalla legge o da regolamento e non
coperte da riserva di legge, le direttive possono essere attuate con regolamento
ministeriale o interministeriale o con atto amministrativo generale da parte del
Ministro con competenza prevalente per la materia, di concerto con gli altri Ministri
interessati. Gli atti normativi possono essere adottati nelle materie di competenza
legislativa delle Regioni e delle province autonome al fine di porre rimedio
all’eventuale inerzia dei suddetti enti nel dare attuazione a norme comunitarie.
o Regolamenti ministeriali ed interministeriali: disciplinati dall’art. 17 della legge n.
400/1988, la quale prevede la possibilità di adottare, con decreto ministeriale,
regolamenti nelle materie di competenza del Ministro o di autorità sottordinate al
Ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Tali regolamenti, per materie di competenza di più Ministri, possono essere adottati
con decreti (o altri atti) interministeriali, ferma restando la necessità di apposita
autorizzazione da parte della legge. I regolamenti ministeriali ed interministeriali non
possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo e
debbono essere comunicati al Presidente del Consiglio prima della loro emanazione.
Anche per essa è prescritta la denominazione di “regolamento”, l’obbligatoria
audizione del parere del Consiglio di Stato e la registrazione della Corte dei conti,
nonché la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e la ripubblicazione nella Raccolta
ufficiale degli atti normativi della Repubblica. Viene in tal modo operata e imposta
una differenziazione anche nella forma (denominazione, parere del Consiglio di Stato,
controllo della Corte dei conti, pubblicazione nella Raccolta) dai comuni
provvedimenti amministrativi. Inoltre, non potendo dettare norme contrarie non solo
alla legge ma anche ai regolamenti governativi, questi regolamenti sono da ritenere
fonti terziarie e non secondarie.
o Regolamenti “in delegificazione” (o “autorizzati”) “per la disciplina delle materie,
non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi
della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del Governo,
determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione
delle norme vigenti, con effetto dall’ entrata in vigore delle norme regolamentari”. Il
regolamento in delegificazione si sostituisce alle precedenti disposizioni contenute
nelle leggi o in atti aventi forza di legge, sulla base di una legge di autorizzazione.
La delegificazione è un fenomeno complesso che si caratterizza per il trasferimento-
dismissione da parte del legislatore di una materia o parte di materia ad una sede
diversa da quella legislativa.
La delegificazione presuppone una rinuncia da parte dello Stato a disciplinare materie
o attività, in quanto ritenute non più meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento. In
questi casi si potrebbe parlare di deregulation: lo scopo è quello di ridurre la disciplina
pubblica di una materia o attività limitando il potere di porre regole da parte dei
pubblici poteri e quindi anche dell’esecutivo.
In senso tecnico la delegificazione consiste nel trasferimento della funzione normativa
(su materie e attività determinate) dalla sede legislativa statale ad altra sede. Ove tale
trasferimento avvenga nei confronti della potestà legislativa regionale e delle altre
fonti di autonomia territoriale si potrà parlare di decentramento legislativo. In
entrambi i casi si verifica trasformazione della fonte di diritto abilitata a porla.
In base alla legge n. 400/1988, la legittimità dei regolamenti in delegificazione è
subordinata alla presenza dei seguenti requisiti:
§ L’assenza di riserva assoluta di legge;
§ L’autorizzazione legislativa all’esercizio della potestà regolamentare;
§ La determinazione nella legge di delegificazione delle norme generali
regolatrici della materia;
§ La contestuale abrogazione delle norme vigenti con effetto dall’entrata in
vigore delle norme regolamentari.
Ma lo schema così delineato non è stato in verità rispettato nella prassi legislativa.
D’altra parte, il Consiglio di Stato ha di fatto avallato questa tendenza non ritenendo
necessario che la legge di delegificazione indichi puntualmente le disposizioni di legge
abrogabili. Il ricorso alla delegificazione è divenuto strumento di normazione
continua.
Può attribuirsi alle norme in delegificazione forza di legge, nonostante si tratti di
norme secondarie? No, sono sindacabili solo le leggi e gli atti aventi forza di legge
dello Stato e delle Regioni.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il controllo sulla conformità dell’atto ai parametri stabiliti dalla legge spetta al giudice
comune: il giudice ordinario potrà disapplicare il regolamento in violazione di legge,
il giudice amministrativo direttamente annullarlo. Si ha sindacato diffuso sul rispetto
dei principi e dei limiti posti alla potestà regolamentare in funzione delegificante.
Al massiccio ricorso, da parte dello Stato, alla delegificazione registrato negli anni
Novanta corrisponde oggi un’attenuazione del fenomeno. Ciò è dovuto alla previsione
del nuovo art. 117, 6° comma, secondo il quale allo Stato è attribuito il potere
regolamentare nelle sole materie di competenza esclusiva. Tale previsione ha ridotto
l’ambito di azione dei regolamenti in delegificazione ai quali ora è precluso
l’intervento nelle materie di competenza concorrente e residuale delle Regioni.
La delegificazione è stata per molti anni associata alla semplificazione normativa, fino
a divenire strumento periodico di normazione e semplificazione.
§ Testi unici: atti che raccolgono e coordinano disposizioni di molteplici testi normativi
succedutisi nel tempo, disciplinanti la stessa materia. Esistono due categorie:
o Testo unico di coordinamento (normativo o innovativo): coordina i testi normativi
preesistenti. Il testo unico è in grado di modificare la disciplina preesistente. Rientrano
in questa disciplina:
§ Testo unico legislativo (che ha ad oggetto disposizioni precedentemente
comprese in leggi ordinarie e assume la forma o della legge ordinaria o del
decreto legislativo);
§ Testo unico misto (adottato dal Governo per attuare il programma di riordino
delle norme legislative e regolamentari in determinate materie);
o Testo unico di mera compilazione (interpretativo): non rientra tra gli atti legislativi
del Governo, in quanto privo di forza paragonabile alle disposizioni che ne formano
oggetto. Rientrano in questa categoria:
§ Testi unici redatti dal Governo in difetto di delega legislativa, ma preceduti da
legge di autorizzazione;
§ Testi unici di leggi costituzionali emanati dal Governo;
§ Testi unici di leggi delle Regioni emanati con atto non legislativo del Consiglio
o con atto della Giunta regionale (la quale non ha poteri legislativi neppure
delegati).
Due leggi di semplificazione a distanza di pochi anni hanno introdotto notevoli novità in tali ambiti.
§ Legge di semplificazione per il 2001: ha previsto la soppressione della figura dei testi unici
misti, introducendo la nuova figura di decreti legislativi di riassetto (codici di settore). Tale
legge prevede l’adozione di decreti legislativi e regolamenti (di esecuzione e in
delegificazione) per la semplificazione e il riassetto normativo. I decreti legislativi di
riassetto sono atti abilitati a fare qualcosa di più rispetto ai testi unici, permettendo al Governo
di porre in essere anche ampie modifiche del settore nel quale opera il riassetto, sia pure in
presenza di principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere e orientare l’azione governativa;
§ Legge n. 246/2005: ha ulteriormente sviluppato il ricorso ai codici di settore e ha previsto un
meccanismo di vero e proprio “disboscamento” della legislazione: il cosiddetto taglia-leggi
che dispone una abrogazione generalizzata della legislazione pubblicata anteriormente al 1°
gennaio 1970.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo III
L’Italia e l’Unione Europea
Le fonti dell’Unione europea
Il sistema normativo dell’Unione comprende:
• Fonti di diritto primario, ovvero i Trattati istitutivi delle comunità europee, come modificati
ed integrati da atti ed accordi successivamente stipulati e, a partire dall’ entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, anche la carta dei diritti fondamentali;
• Fonti di diritto secondario o derivato, ovvero gli atti adottati dalle istituzioni comunitarie,
nei limiti delle competenze ad esse attribuite dai Trattati;
• Una categoria di fonti eterogenea composta da norme di diritto internazionale generale,
accordi internazionali e principi generali dell’ordinamento europeo.
I Trattati istitutivi delle Comunità europee non prevedono una ripartizione gerarchica tra le diverse
fonti comunitarie. Il diritto primario è gerarchicamente sovraordinato rispetto al diritto derivato.
Non esiste invece alcuna gerarchia tra le stesse norme del diritto comunitario primario, né tra gli atti
di diritto secondario, con la conseguenza che l’eventuale antinomia nell’ambito di un medesimo
livello normativo deve essere risolta ricorrendo al criterio di specialità.
Le norme del diritto internazionale generale e pattizio occupano una posizione intermedia tra i
Trattati e la normativa secondaria: sono quindi subordinate rispetto al diritto primario ma prevalenti
rispetto agli atti adottati dalle istituzioni.
I principi generali sono solitamente equiparati al diritto primario rientrando, insieme ai Trattati, nella
nozione di “Costituzione della Comunità”. Tuttavia, secondo un diverso orientamento, sarebbe
preferibile collocarli in posizione intermedia tra il diritto comunitario primario e quello derivato. La
qualificazione dei principi come regole di diritto induce a ritenere tali norme sovraordinate rispetto
alle fonti derivate.

Il diritto primario
Le norme contenute nei Trattati istitutivi delle comunità europee e negli accordi internazionali
successivamente stipulati per integrare o modificare i trattati stessi costituiscono la fonte primaria del
sistema normativo comunitario. Esse si distinguono in:
1. Norme materiali, volte a disciplinare i rapporti tra i soggetti dell’ordinamento comunitario;
2. Norme formali o meta norme, volte ad istituire ulteriori fonti, attribuendo portata normativa
agli atti posti in essere dalle istituzioni europee.
A livello formale, il trattato CEE nasce come accordo internazionale. A livello sostanziale, non può
escludersi che il Trattato, nel definire il quadro istituzionale, assolva ad una funzione costituzionale.
Tuttavia non è possibile ricondurre il trattato ad una o all’altra categoria.
• La ratio del Trattato induce a rilevare che esso, in quanto strumento dell’integrazione europea,
sia molto di più di un mero accordo internazionale;
• Poiché i soggetti dell’ordinamento dell’Unione europea non sono solo gli Stati membri e le
istituzioni europee ma anche i cittadini dei singoli ordinamenti giuridici, non è possibile
definire il trattato come un mero accordo internazionale.
Infine, “a differenza dei comuni Trattati internazionali, il trattato CEE ha istituito un proprio
ordinamento giuridico integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata
in vigore del Trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare”.
L’ordinamento comunitario si distingue, quindi, dall’ordinamento internazionale, mancando quel
rapporto di separazione e di differenziazione tra ordinamenti che è tipico del diritto internazionale. Si
caratterizza, invece, in forza del rapporto di integrazione che sussiste tra le norme da esso prodotte e
gli ordinamenti nazionali in cui esse devono trovare applicazione. Poiché l’ordinamento dell’UE
opera all’interno del territorio degli Stati membri, esso necessita della cooperazione di tali stati, non
disponendo la comunità europea di una propria sfera di signoria. La comunità esercita delle

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

competenze che in precedenza erano esclusivo appannaggio degli stati. Questi ultimi infatti,
recependo i trattati istitutivi, hanno limitato i loro poteri sovrani e attribuito poteri effettivi, sia pure
in campi circoscritti, ad un ordinamento sovranazionale, capace di produrre norme. Peraltro,
l’ordinamento istituito tramite i Trattati può essere modificato solo dai successivi trattati.

Il diritto derivato
Caratteristica essenziale del sistema comunitario è la possibilità per le istituzioni comunitarie di
adottare atti normativi, che costituiscono le fonti di diritto comunitario secondario o derivato. È
opportuno distinguere tali fonti in:
• Atti tipici, i quali hanno la finalità di ravvicinare le legislazioni nazionali, che può essere
perseguita mediante atti immediatamente applicabili in tutti gli Stati membri o mediante atti
che fissano i principi generali a cui le singole legislazioni devono uniformarsi (e in questo
secondo caso l’atto comunitario necessita di un’attuazione da parte dello Stato membro per
produrre effetti). Sono disciplinati dall’art. 288 TFUE:
o Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e
direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. Ha carattere normativo;
o La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma
e ai mezzi. Assistiamo così ad un processo normativo articolato in due fasi:
§ A livello comunitario vincola i soli Stati al raggiungimento di un risultato;
§ A livello nazionale consiste nella trasposizione nel diritto interno degli
obiettivi individuati dalle direttive.
o Le decisioni sono atti vincolanti diretti a destinatari specificatamente individuati;
o Le raccomandazioni sono atti ad efficacia non vincolante, manifestazioni di carattere
esortativo indirizzate a Stati membri, istituzioni europee o privati cittadini affinché
orientino il loro comportamento conformemente agli interessi dell’Unione;
o I pareri sono atti ad efficacia non vincolante, comunicazioni di carattere conoscitivo
attraverso i quali le istituzioni europee esprimono opinioni su fatti e questioni.
• Atti atipici: sono contemplati da altre disposizioni del Trattato (regolamenti interni, atti
preparatori, programmi generali) o si sono affermati in via di prassi (comunicazioni, inviti,
risoluzioni, dichiarazioni, accordi), e hanno efficacia diretta o indiretta negli Stati, secondo
quanto ricostruito, caso per caso, dalla Corte di giustizia.
Le modifiche introdotte dal trattato di Lisbona hanno ora anche previsto la possibilità di una
normazione delegata, di carattere prettamente secondario, che crea un’ulteriore gerarchia delle fonti.

Diritto internazionale generale e pattizio e i principi generali del diritto dell’Unione europea
• Diritto internazionale generale e pattizio: poiché la comunità ha “personalità giuridica”,
essa è tenuta a rispettare le norme del diritto internazionale generale che assolvono ad una
funzione strumentale, in quanto criteri interpretativi e parametri di legittimità degli atti adottati
dalle istituzioni comunitarie. Per quel che riguarda invece gli accordi internazionali, essi si
distinguono a seconda del soggetto che li pone in essere.
o L’Unione europea può concludere accordi con Stati terzi o con altre organizzazioni
internazionali. Si tratta di accordi vincolanti sia nei confronti delle istituzioni
comunitarie che degli stati membri;
o Gli stati membri possono concludere accordi con stati terzi, anteriormente o
successivamente all’entrata in vigore del trattato CEE, purché compatibili con gli
obblighi comunitari assunti.
Inoltre, nelle materie di competenza concorrente, la Comunità e gli Stati membri possono
concludere i c.d. accordi misti che, negoziati da una delegazione comune di rappresentanti
della commissione e degli Stati membri, contemperano esigenze comunitarie e nazionali.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• I principi generali del diritto comunitario occupano una posizione rilevante nel complesso
sistema normativo, assolvendo ad una triplice funzione, in quanto:
1. Parametri di legittimità degli atti adottati dalle istituzioni europee;
2. Criteri interpretativi;
3. Strumenti per integrare o colmare eventuali lacune normative.
Essi si suddividono in tre categorie:
o Principi originari del diritto comunitario, vale a dire i principi strettamente connessi
alla natura e alle finalità proprie dell’ordinamento comunitario. Tali principi sono stati
enucleati dalla Corte di giustizia (es: il principio del primato e degli effetti diretti del
diritto comunitario) o sono espressamente sanciti tradizionalmente dalle disposizioni
del TCE (es: il principio di eguaglianza, il principio di leale collaborazione, il principio
di sussidiarietà ed il principio di proporzionalità) e ora riportati anche nel TFUE;
o Principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli stati membri. Si tratta
di una sorta di sintesi, enucleata dalla corte di giustizia, dei principi appartenenti ai
diversi ordinamenti giuridici degli Stati membri (es: il principio della certezza del
diritto, il principio di legalità, il principio del legittimo affidamento);
o Principi sulla tutela dei diritti fondamentali: è una categoria di principi sui generis.

Le fonti direttamente applicabili


In che misura le fonti dell’Unione europea incidono sull’ordinamento italiano?
Hanno portata dirompente gli atti direttamente applicabili:
• I regolamenti;
• Le direttive self executing.
Alle norme contenute in tali atti viene generalmente riconosciuta immediata e completa prevalenza
sulle norme interne confliggenti (salve le ipotesi limite dei c.d. controlimiti, e cioè di quei casi in
cui si profili un contrasto con i principi supremi o con i diritti inviolabili dell’uomo).
La natura sui generis dell’ordinamento comunitario, quale ordinamento giuridico integrato con quelli
nazionali, implica quindi la prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.
Il principio della primauté esclude che qualsiasi norma nazionale possa ostacolare l’applicazione del
diritto comunitario all’interno degli ordinamenti degli Stati membri. Quando una norma comunitaria
direttamente efficace “incontra” una norma interna incompatibile, la primauté impone che la norma
comunitaria prevalga su quella interna (primauté = efficacia diretta + primato).
Il giudice nazionale incaricato di applicare nell’ambito della propria competenza le disposizioni di
diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando
all’occorrenza di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale,
senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro
procedimento costituzionale.
La prevalenza del diritto comunitario comporta la disapplicazione delle norme nazionali ad opera
di ogni operatore del diritto e, dunque, non solo da parte dei giudici, ma anche da parte dei pubblici
funzionari che si trovino a doverle applicare.
La disapplicazione della norma interna incompatibile con quella comunitaria non implica l’invalidità,
l’abrogazione o la nullità della stessa, bensì uno stato di quiescenza. La norma nazionale, pur valida
e legittima, non può essere applicata, salvo l’eventuale venir meno della norma comunitaria che ne
ostacola l’applicazione. La disapplicazione non esime lo Stato interessato dal provvedere
all’abrogazione della norma incompatibile o alla sua modifica.
A livello nazionale, la piena accettazione del primato da parte della Corte costituzionale si è rivelata
piuttosto problematica.
• Nella sent. n. 170/1984 la Corte ha statuito che l’effetto connesso con la vigenza delle norme
contenute in regolamenti comunitari è “quello non già di caducare, nell’accezione propria

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo
per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale”;
• Con la sent. n. 113/1985 tale diretta applicabilità è stata estesa alle statuizioni risultanti dalle
sentenze interpretative della Corte di giustizia dell’Unione europea;
• Con la sent. n. 289/1989, la diretta applicabilità è stata estesa alle sentenze di condanna della
Corte comunitaria;
• Con la sent. n. 168/1991, la diretta applicabilità è stata estesa alle c.d. direttive dettagliate,
cioè alle direttive cui, malgrado il mancato recepimento negli ordinamenti nazionali, viene
comunque riconosciuta diretta applicabilità negli stessi.
Sulla base della copertura costituzionale dell’art. 11 Cost., si è riconosciuto che le norme comunitarie
direttamente applicabili prevalgono rispetto alle norme di rango costituzionale, con il limite, però, dei
principi supremi dell’ordinamento dei diritti inviolabili dell’uomo.
Gli atti comunitari, in forza del solo appiglio interpretativo all’art. 11 Cost., non solo prevalgono
stabilmente su tutti gli atti legislativi nazionali, ma possono anche derogare alla Costituzione.
Gran parte del dibattito, in Italia, si è incentrato sul problema dei controlimiti, cercando di delineare
ambiti e modalità di resistenza del “nucleo duro” di principi costituzionali alla primauté.

Le fonti non direttamente applicabili


Le norme comunitarie non direttamente applicabili pongono soltanto un obbligo di risultato per
gli Stati membri: il vincolo non riguarda infatti i cittadini, ma sono i singoli Stati membri ad essere
obbligati a recepirle entro un termine fissato dall’atto stesso, secondo le forme e i mezzi ritenuti più
idonei, in armonia con i principi fondamentali stabiliti dai Trattati (art. 10 TCE).
Negli anni la Corte di giustizia ha sviluppato una serie di orientamenti giurisprudenziali tesi ad
“aumentare” il grado di vincolatività degli atti non self executing negli ordinamenti statali. Così
si è affermata:
• L’esigenza per gli Stati di astenersi dall’adottare disposizioni che possano gravemente
compromettere la realizzazione del risultato indicato dalla direttiva, fino ad ammettere vincoli
di “pre-conformazione” anche prima della scadenza del termine di recepimento;
• L’idoneità delle direttive ad esplicare effetti diretti (diventano direttamente applicabili)
qualora sia scaduto il termine di recepimento, limitatamente alle parti concretamente
applicabili;
• L’obbligo dei giudici nazionali di interpretare la normativa nazionale conformemente alle
disposizioni comunitarie prive di effetto diretto e in particolare alle direttive non attuate. Essa
“costituisce uno degli effetti strutturali della norma comunitaria che consente, assieme allo
strumento dell’efficacia diretta, l’adeguamento del diritto interno ai contenuti e agli obiettivi
dell’ordinamento comunitario”;
• La responsabilità patrimoniale degli Stati nei confronti dei singoli per i danni provocati dalla
mancata (o cattiva) attuazione.
Anche in virtù di questa maggiore “spinta” al recepimento delle fonti comunitarie non direttamente
applicabili, il legislatore italiano ha cercato di superare la sua tradizionale lentezza attuativa
ricorrendo all’innovativo strumento della “legge comunitaria”, ideato dalla legge 9 marzo 1989 n.
86. Con essa, si tende ad assicurare l’adeguamento periodico, tempestivo e completo,
dell’ordinamento nazionale all’ordinamento dell’Unione europea.
Entro il 31 gennaio di ogni anno il Governo presentava alle Camere il disegno di legge comunitaria,
indicando gli strumenti normativi cui ricorrere per dare attuazione alla normativa dell’Unione da
recepire.
• Per accelerare i tempi di approvazione, si è introdotto uno sdoppiamento della delegazione
comunitaria, prevedendo che, entro il 28 febbraio di ogni anno, il Governo debba presentare
il disegno di legge di delegazione europea, contenente deleghe al governo per l’attuazione
delle sole direttive e decisioni quadro da recepire in Italia e, se necessario, il disegno di legge

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

europea, contenente invece l’indicazione degli strumenti normativi per dare attuazione a tutti
gli atti europei e ai trattati internazionali posti in essere nelle relazioni esterne dell’Unione.
• L’insufficiente partecipazione italiana alla formazione delle norme europee ha
tradizionalmente fatto sì che molto spesso gli organi nazionali si siano trovati a dover recepire
disposizioni che piovono sul nostro ordinamento senza averne potuto valutare in anticipo i
problemi di compatibilità col sistema giuridico interno (fase ascendente).
La novella legislativa del 2012 ha rafforzato notevolmente il coinvolgimento diretto dei Parlamenti
nazionali e delle autonomie locali nella fase ascendente del diritto dell’Unione europea. Vengono
dunque introdotti più numerosi e stringenti vincoli informativi a carico del Governo e la necessità per
quest’ultimo di motivare adeguatamente l’eventuale scelta di posizioni non conformi agli atti di
indirizzo predisposti dal Parlamento.

L’impatto del sistema europeo su forma di Stato e forma di governo


Ciascun ordinamento giuridico è un processo in fieri. L’unità, la coerenza e la completezza sono
fini cui l’ordinamento tende senza mai realizzarli in modo definitivo.
Il sistema comunitario ha trovato la fonte della sua legittimazione nell’art. 11 Cost., ove si parla di
limitazioni di sovranità dell’ordinamento italiano: tali limitazioni sono state, con il progressivo
sviluppo della comunità, così ampie da determinare profonde modifiche tacite della nostra
Costituzione. L’Italia, infatti, al pari degli altri Stati membri, ha rinunciato (sia pur in settori limitati)
ad ampie sfere della propria sovranità attribuendo poteri normativi ed amministrativi in capo alle
istituzioni comunitarie. Il graduale trasferimento di compiti e funzioni a favore delle istituzioni di un
ordinamento sovranazionale (c.d. spillover effect), in continuo sviluppo ed evoluzione, quale
l’ordinamento comunitario, ha inciso profondamente sugli equilibri istituzionali e normativi del
sistema giuridico italiano.
• Si pensi ad esempio al sistema delle fonti del diritto, sconvolto dal congiunto operare del
primato e dell’efficacia diretta delle norme comunitarie. Le fonti nazionali, sia statali, sia
regionali, hanno perso la loro primarietà, in quanto condizionate, ed anzi subordinate, rispetto
alle fonti comunitarie. Le giurisdizioni nazionali sono vincolate dal rispetto delle norme
comunitarie, prima ancora di quelle nazionali, con facoltà, e talora obbligo, di adire la
Corte di giustizia sulle vertenze che riguardano i sempre più ampi ambiti di applicazione del
diritto comunitario. Il controllo sulle leggi non è più accentrato nella Corte costituzionale,
dato il potere diffuso di disapplicare le leggi nazionali contrastanti con il diritto dell’Unione;
• Si pensi poi alle conseguenze derivanti dall’impatto della cittadinanza europea, o della
cittadinanza dell’Unione sulla cittadinanza italiana;
• Inoltre, l’incidenza dell’ordinamento comunitario sull’ordinamento nazionale spinge a dovere
leggere i diritti civili alla luce di quelli comunitari, elencati nella carta di Nizza. Anche le
libertà economiche sono state profondamente influenzate dai principi comunitari, tanto che
alcune norme costituzionali sono ormai del tutto inoperative;
• Il sistema della Banca centrale europea e soprattutto la creazione dell’euro quale moneta
unica hanno di molto inciso sulle prerogative della Banca d’Italia e, più in generale, sui poteri
di gestione dell’economia nazionale.
Tali considerazioni dimostrano come l’impatto del sistema comunitario abbia inciso non solo sulla
forma di governo italiana ma anche sulla forma di Stato.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo IV
Il Parlamento
Il Parlamento italiano e la sua storia: dalle origini alla Costituzione
La prima seduta del Parlamento italiano si tenne il 18 febbraio 1861, inaugurata dal re Vittorio
Emanuele II. Si avviava così a conclusione il processo di unificazione della Nazione, che vedrà di lì
a poco la proclamazione del Regno d’Italia tramite l’approvazione della legge 17 marzo 1861, n.
4671, con la quale si riconosceva a Vittorio Emanuele II e ai suoi successori il titolo di “Re d’Italia”.
Tuttavia, la prima seduta non apriva la prima, bensì l’ottava legislatura.
Le prime assemblee parlamentari moderne presero avvio a partire dal 1796 con il diffondersi degli
ideali della Rivoluzione francese.
Dopo la costituzione di Assemblee costituenti nelle città di Modena, Reggio, Bologna e Ferrara, il
secondo congresso cispadano, iniziato nel 27 dicembre 1796, rappresentò la prima assemblea elettiva
nazionale, la quale stabilì di affidare il potere legislativo a due Camere denominate il Consiglio dei
Sessanta e il Consiglio dei Trenta.
In seguito alla fusione delle Repubbliche Cispadana e Cisalpina avvenuta nel luglio 1797, Napoleone
impose una nuova costituzione la quale prevedeva un parlamento strutturato in due camere
denominate Gran Consiglio (160 membri) e Consiglio dei seniori (80 membri).
In Sicilia prese corpo una breve esperienza parlamentare (1812-1813), che risultava ispirata alla
tradizione costituzionale anglosassone con un parlamento a struttura bicamerale.
Tre furono i modelli, tutti di ascendenza monarchica e di impostazione liberale moderata, che
ispirarono i parlamenti istituiti nella penisola italiana:
1. Modello di tradizione inglese (influenza la Costituzione siciliana e il parlamento subalpino);
2. Modello democratico rappresentato dalla Costituzione di Cadice del 1812;
3. Modello conservatore ispirato alla Charte concessa da Luigi XVIII ai francesi del 1814.
Nel Regno di Sardegna e Piemonte si giunse nel 1848 alla concessione della Costituzione da parte
del re Carlo Alberto (lo Statuto Albertino), con la quale si realizzava una profonda modifica della
forma di governo sino ad allora vigente, avviando l’esperienza della monarchia costituzionale.
Lo Statuto prevedeva un sistema bicamerale fondato su una Camera elettiva (Camera dei deputati) e
un Senato composto da membri vitalizi nominati dal re, oltre al riconoscimento di libertà individuali.
Tuttavia il regime costituzionale previsto nello Statuto albertino non era di tipo parlamentare, in
quanto manteneva una posizione di indubbia centralità al sovrano, che governava attraverso i suoi
Ministri, dallo stesso nominati e revocati. Questi, infatti, non cessarono di essere considerati
destinatari della necessaria fiducia (anche) del Re. Quest’ultimo interveniva direttamente non solo
nell’attività amministrativa, ma anche nell’attività legislativa:
• Sia direttamente, attraverso lo strumento della sanzione, che comportava, per la legge,
un’approvazione del Re affiancata a quella delle Camere;
• Sia indirettamente, per mezzo del Senato, composto da membri di nomina monarchica.
L’ordinamento costituzionale, tuttavia, finì con il tempo per assumere connotazioni sempre più
marcatamente parlamentari, valorizzando il ruolo politico-rappresentativo della Camera elettiva.
Attraverso la progressiva annessione al Regno sabaudo dei diversi Stati preunitari, il sistema statuario
e parlamentare subalpino venne esteso a tutta la nazione tramite pronunciati plebiscitari.
La seduta del nuovo Parlamento, del quale facevano ormai parte anche i rappresentanti della
Lombardia liberata e dell’Italia centrale, si inaugurava a Torino il 2 aprile 1860 con un discorso del
Re Vittorio Emanuele II, il quale poteva salutare la nazione “non più campo aperto alle ambizioni
degli stranieri ma l’Italia degli italiani”.
La definitiva riunificazione nazionale, sancita dalle conquiste nel sud della penisola realizzate grazie
alle imprese garibaldine ed alla capitolazione del regno borbonico, portò a nuove elezioni politiche
generali ad inizio del 1861 da cui scaturì, all’atto della proclamazione del Regno d’Italia nel marzo
1861, il nuovo Parlamento nazionale. Fin dal periodo cavouriano, il potere della Camera elettiva

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

era andato accrescendosi a discapito tanto del Senato di nomina regia, quanto dei poteri della Corona.
Non a caso si parlerà in proposito di “bicameralismo zoppo”.
Progressivamente si ebbe ad assistere all’affermazione, in via consuetudinaria, dell’istituto della
fiducia parlamentare al Governo.
Sul versante del diritto parlamentare si registrò una serie di modifiche dei regolamenti parlamentari
in rapida successione, sino a giungere alla riforma del 1° luglio 1900 con l’approvazione del c.d.
Regolamento Villa, che realizzò un’operazione di razionalizzazione dei lavori parlamentari.
La definitiva trasformazione in senso parlamentare della forma di governo si ebbe grazie al
progressivo allargamento del suffragio elettorale, avvenuto con le riforme del 1882 e del 1912-1913,
il quale culminerà nell’introduzione del suffragio universale maschile e del sistema proporzionale,
con la legge elettorale del 1919. Il che sancirà il ruolo centrale assunto dai grandi partiti popolari e di
massa, i quali conferiranno al sistema politico un carattere rappresentativo e democratico.
Sul piano più strettamente parlamentare, ciò portò all’importante riforma regolamentare del 1920,
con cui vennero istituite alla Camera le commissioni permanenti, le quali con la successiva riforma
del 1992 furono portate da nove a dodici, sancendo altresì l’obbligo per ciascun deputato di farne
parte. La novella dette luogo alla nascita dei gruppi parlamentari e del complesso sistema di
relazioni tra gruppi parlamentari e partiti politici, cui si accompagnò la trasformazione del
tradizionale governo di gabinetto in governo di partito.
Terminato il primo conflitto mondiale, il progressivo precipitare degli eventi portò, dopo la Marcia
su Roma delle milizie fasciste nell’ottobre 1922, alle dimissioni del Governo Facta, per la mancata
concessione del richiesto stato d’assedio da parte del sovrano, e quindi all’incarico di formare il nuovo
esecutivo a Benito Mussolini. Questi ottenne l’appoggio anche di esponenti della destra storica e dei
popolari (con aperto dissenso di Luigi Sturzo). La “fascistizzazione” delle istituzioni e della società
civile relegò le istituzioni parlamentari ad un ruolo sempre più marginale.
Con la c.d. legge Acerbo del 1923 venne approvata la riforma della legge elettorale, che prevedeva
un unico collegio nazionale e l’assegnazione dei 2/3 dei seggi alla lista che avesse ottenuto il maggior
numero di voti, nonché la ripartizione con criteri proporzionali dei seggi restanti.
Dopo aver provveduto al rafforzamento dei poteri del Governo e del suo capo con la legge
“fascistissima” 24 dicembre 1925, n. 2263, sulle prerogative e attribuzioni del capo del Governo
(che assegnava a quest’ultimo notevoli poteri di ingerenza sull’attività della Camera), il regime
fascista realizzò un’operazione di limitazione dei diritti civili e politici con la legge 25 novembre
1926, n. 2008 e, infine, con due successive leggi nel 1928 e nel 1929, pose mano alla
costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo, il quale così, da organo di partito, finì per
trasformarsi in organo dello Stato.
La definitiva soppressione della Camera dei Deputati avvenne con la legge 19 gennaio n. 129, che
previde la sostituzione della stessa con la Camera dei fasci delle corporazioni.
Fu così che si realizzò il definitivo annullamento del potere parlamentare, spazzando via quanto di
liberale, democratico e rappresentativo ancora esprimevano le deboli istituzioni del Novecento.
La fugace vita della Camera dei fasci e delle corporazioni si consumò tra il 1939 e il 1943. Si
provvederà al suo scioglimento il 2 agosto del 1943.
Sancito il Patto di Salerno il 12 aprile 1944 e la “tregua istituzionale” che ne conseguì, fu emanato un
decreto nel 1944 in base al quale fu stabilito di convocare un’Assemblea costituente eletta a suffragio
universale che avrebbe individuato sia la nuova Costituzione, sia la forma istituzionale.
Con il decreto del 16 marzo 1946 si decise di rimettere direttamente al popolo, tramite apposito
referendum, la scelta sulla forma repubblicana o monarchica delle nascenti istituzioni democratiche.
Dopo la vittoria repubblicana del 2 giugno 1946, venne disposta la cessazione delle funzioni del
Senato vitalizio. Approvata il 27 dicembre 1946, la Costituzione entrò in vigore il 1 gennaio 1948.
Con l’avvento della Repubblica democratico – costituzionale venne così inaugurata una nuova
stagione di libertà e di partecipazione democratica, al centro della quale, ancora oggi, si pone l’attuale
regime parlamentare a bicameralismo paritario.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Sezione I
Struttura, formazione, organizzazione e autonomia
Il principio bicamerale nell’ordinamento italiano
Il nostro Parlamento presenta un’articolazione strutturale in due camere (art. 55, 1 comma, Cost.):
• La Camera dei deputati;
• Il Senato della Repubblica.
Il Parlamento è l’organo permanente che caratterizza la nostra forma di governo (Repubblica
parlamentare). Rappresenta il popolo sovrano e svolge la funzione legislativa, di revisione
costituzionale, di controllo (attraverso la fiducia del Governo), nonché tutti gli altri compiti ad esso
assegnati dalla Costituzione.
A risultare determinante fu la considerazione del pericolo di una sorta di assolutismo parlamentare,
cui avrebbe potuto portare l’accoglimento della soluzione monocamerale, quale effetto della
concentrazione del potere legislativo in una sola Camera.
L’art. 57, comma 1, Cost., nel prevedere che il Senato è “eletto a base regionale”, attribuisce alla
Regione soltanto il ruolo di mera circoscrizione elettorale, all’interno della quale deve svolgersi
l’elezione dei senatori. Inoltre la legge Cost. n. 3/2001 ha valorizzato il nesso tra Parlamento ed
autonomie territoriali.
A prevalere, in seno all’Assemblea costituente, fu l’idea che, con la sua presenza, il Senato avrebbe
dovuto incarnare il ruolo di “Camera di riflessione o di raffreddamento”, destinata a garantire una
maggiore ponderazione e una migliore tecnica redazionale nell’esercizio della funzione legislativa,
nonché ad evitare eccessi di concentrazione di potere. Ad essa, peraltro, si accompagnò la scelta di
una fondamentale parità funzionale tra le due Camere, che delineò un Parlamento ispirato al
modello del c.d. bicameralismo perfetto (o paritario): “La relazione fiduciaria è nelle mani sia della
Camera che del Senato che, ai sensi dell’art. 94 Cost., debbono conferire la fiducia al Governo.
Identiche appaiono, per senatori e deputati, le prerogative che ne caratterizzano lo status”.
• Le due Camere sono poste su di un piano di assoluta parità con poteri e funzioni identici;
• Ciascuna Assemblea partecipa assieme all’altra alla funzione legislativa nazionale, mentre
quella ispettiva spetta singolarmente a ciascuna assemblea;
• Non esiste alcuna distinzione di competenza tra le due Assemblee;
• Entrambe sono elette (con sistemi diversi) dal corpo elettorale.
Invero, una certa differenza fra le due Camere emerge dal testo costituzionale. L’art. 60 prevedeva:
• Una durata in carica differenziata per la Camera (5 anni) e il Senato (6 anni). Con la legge
cost. n. 2/1963 si pervenne alla modifica dell’art. 60 nel senso della parificazione della durata
del Senato a quella della Camera (5 anni ciascuna);
• Con l’approvazione del c.d. ordine del giorno Nitti poi si auspicava l’adozione, per il Senato,
di un sistema elettorale di stampo maggioritario-uninominale. Indicazione che la stessa
assemblea mostrò di non accogliere, quando approvando la legge elettorale per il Senato
prescelse un meccanismo di assegnazione dei seggi di tipo solo apparentemente
maggioritario-uninominale, ma in realtà proporzionale.
Ciò che resta, oggi, della differenziazione è ben poco e si riduce, in buona sostanza:
1. Nella ridotta composizione del Senato (315 membri, in luogo dei 630 della Camera);
2. Nella presenza di una limitata componente non elettiva del Senato, costituita dai Senatori di
diritto e a vita (gli ex Presidenti della Repubblica, art. 59) e dai cinque senatori a vita, nominati
dal Capo dello Stato fra i cittadini che abbiano “illustrato la patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario” ex art. 59;
3. Requisiti di elettorato attivo (18 anni alla Camera, 25 anni al Senato);
4. Requisiti di elettorato passivo (25 anni alla Camera, 40 anni al Senato).

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Diritto di elettorato, sistemi elettorali e rinnovazione delle Camere nel nostro ordinamento
L’attribuzione del diritto politico è alla base di qualsivoglia processo elettivo: il diritto di voto o
diritto di elettorato attivo. Di esso si occupa l’art. 48 Cost. Il diritto di elettorato attivo è la capacità
di votare, ossia di esprimere liberamente la propria volontà politica attraverso il proprio voto.
I requisiti del diritto politico in questione sono due:
1. La cittadinanza italiana;
2. La maggiore età per la Camera e i referendum (per il Senato occorrono i 25 anni).
Si tratta di requisiti positivi, che cioè bisogna possedere ai fini dell’imputazione del diritto di voto,
ma che possono non essere sufficienti all’esercizio dello stesso ogniqualvolta ad essi si accompagni
la presenza di condizioni ostative (ossia di requisiti negativi). La previsione costituzionale dei due
requisiti esclude che altre condizioni vengano aggiunte dal legislatore ordinario.
Il riferimento alla cittadinanza fa del diritto di voto un tipico diritto politico, posto che spetta ai cives
la decisione basilare circa l’orientamento fondamentale della politica nazionale. Tuttavia sono state
poste due importanti questioni:
• Cittadinanza europea: ciascun cittadino dell’Unione residente nel nostro Paese, pur non
possedendo la cittadinanza italiana, si vede attribuita la capacità elettorale (attiva e passiva)
nelle elezioni per il Parlamento europeo e per il rinnovo degli organi comunali;
• Diritto di voto per i cittadini italiani residenti all’estero: viene introdotta una nuova
circoscrizione elettorale “estero” per il Parlamento, rinviando poi alla legge costituzionale la
determinazione del numero dei seggi da assegnare ad essa (legge cost. n. 1/2001 ha attribuito
12 seggi per la Camera e 6 seggi per il Senato, il cui numero ha diminuito a 618 i deputati e a
309 i senatori eletti nelle circoscrizioni nazionali.
Per quanto concerne i c.d. requisiti negativi, l’art. 48 prevede che il diritto di voto non può essere
limitato se non per:
• Incapacità civile: incapaci sono i minori, gli interdetti e parzialmente gli inabilitati;
o Incapaci elettoralmente: capi responsabili del regime fascista e i discendenti di Casa
Savoia, oltre a coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione di polizia o a misure
di sicurezza, ovvero i condannati alla pena dell’interdizione temporanea o perpetua
dei pubblici uffici;
• Effetto di sentenza penale irrevocabile: la legge stabilisce quali siano tali sentenze;
• Casi di indegnità morale indicati dalla legge: alcune ipotesi sono state espressamente
previste dallo stesso costituente, oltre che dal legislatore ordinario.
I caratteri del voto sono i seguenti:
• Personalità del voto: la Costituzione esclude sempre e comunque il voto per procura. Indica
l’esigenza di una relazione diretta fra titolare del diritto ed esercente il diritto medesimo;
• Eguaglianza: vale il principio una testa, un voto, in quanto il voto di ciascun elettore ha il
medesimo peso;
• Libertà del voto: ogni elettore ha facoltà di attribuire il proprio voto al partito che ritenga più
opportuno, senza coazioni: la scelta del candidato è stata, invece, negata agli elettori da
quando è entrato in vigore il sistema delle liste bloccate sia per tutti i candidati che per i soli
capilista in ogni circoscrizione;
• Segretezza del voto: soltanto coloro che sono impediti per motivi fisici (es: ciechi) per poter
votare possono essere accompagnati da un aiutante nelle cabine elettorali. Inoltre, è stato posto
il divieto di introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari ed altre
apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini.
In merito poi alla qualificazione di dovere civico, va detto che la formulazione dell’art. 48 appare di
difficile decifrazione, soprattutto da quando il legislatore ha inteso escludere qualsivoglia
conseguenza giuridica per il mancato esercizio del voto. Da allora, l’astensione è lecita. Semmai si
tratterebbe di una sorta di “etica pubblica”.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Per il diritto di elettorato passivo l’ordinamento prevede specifiche limitazioni. L’elettorato passivo
è la capacità di essere eletti: alla Camera occorre aver compiuto 25 anni, al Senato 40 anni.
L’art. 51 Cost. sancisce che “La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari
opportunità tra uomini e donne”. Lo stesso vale per le leggi regionali (art. 117 Cost.).
Le limitazioni al diritto di elettorato passivo sono le seguenti (valgono per Deputati e Senatori):
• Ineleggibilità: condizione soggettiva di impedimento all’elezione che incide sulla capacità
elettorale e causa l’invalidità dell’elezione stessa, qualora questa abbia avuto luogo (comporta
la nullità dell’eventuale elezione). Le cause sono individuate dal Testo Unico delle leggi per
l’elezione della Camera dei Deputati:
o Titolarità di determinate cariche elettive a livello locale: Presidenti di province o
Sindaci di comuni con almeno 20.000 abitanti;
o Titolarità di uffici di particolare rilevanza: alti dirigenti della polizia, prefetti, vice
prefetti, alti ufficiali delle forze armate e magistrati nelle circoscrizioni in cui operano;
In questi due casi, onde evitare l’ineleggibilità, coloro che si trovino in tali condizioni debbono
cessare dall’esercizio delle funzioni almeno 180 giorni prima della scadenza della legislatura
(sei mesi nel caso dei magistrati);
o Si trovi in determinati rapporti di natura economica con lo Stato: concessionari di
pubblici servizi, titolari di società sovvenzionate dallo stato (art. 10);
o Si abbiano rapporti di impiego con Governi esteri: diplomatici, consoli (art. 9).
In questi casi la causa di ineleggibilità non va considerata operante, laddove la carica sia stata
abbandonata al momento di accettazione della candidatura.
Nel caso di scioglimento anticipato delle Camere, la causa di ineleggibilità non avrà effetto
ove il candidato abbia cessato dall’esercizio delle funzioni entro 7 giorni dalla pubblicazione
del decreto di scioglimento. Perché si possa parlare di scioglimento anticipato, è necessario
che il relativo decreto presidenziale determini la dissoluzione delle Camere prima di 120
giorni dalla scadenza ordinaria della legislatura.
Recentemente è stata introdotta l’ineleggibilità per coloro che abbiano violato la normativa in
tema di spese sostenute durante la campagna costituzionale, cui va aggiunta quella riguardante
i giudici costituzionali e quella relativa ai direttori delle Aziende sanitarie.
Non è invece prevista l’ineleggibilità del Presidente della Repubblica.
In caso di ineleggibilità sopravvenuta, si ha solamente l’obbligo di optare tra le due cariche.
• Incompatibilità: situazione in cui versa l’eletto in ragione del fatto di esercitare funzioni o
ricoprire cariche che non risultano cumulabili con il mandato parlamentare. Due ipotesi:
o Quando il candidato possa negativamente influire sulla correttezza della competizione
elettorale, alternando la par condicio fra i candidati;
o Influenzando o condizionando il voto, incidendo quindi sulla libertà del suo esercizio.
Al deputato o senatore che voglia rimanere tale si chiede semplicemente di rimuovere la
situazione di inammissibile concorso, abbandonando la carica reputata inconciliabile col
mandato parlamentare. Impone quindi una scelta. Le cause sono individuate dalla
Costituzione:
o Art. 65: impossibilità di contemporanea appartenenza ad ambo le Camere;
o Non cumulabilità della carica di parlamentare con quella di Presidente della
Repubblica (art. 84), con quella di giudice costituzionale (art. 135), di membro del
Consiglio superiore della magistratura (art. 104), di componente del Consiglio
regionale e di membro della Giunta regionale (art. 122).
Altre cause risalgono alla legge ordinaria.
• Incandidabilità: non possono candidarsi alle elezioni per le Camere (divieto di elettorato
passivo) coloro che sono stati condannati in via definitiva a pena detentiva superiore a 2 anni
di reclusione per delitti particolarmente gravi (es: mafia, terrorismo, stupefacenti) o per un
delitto per il quale sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni. In
caso di incandidabilità sopravvenuta, la Camera delibera in sede di verifica dei poteri (art. 66).

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Sistemi elettorali
I sistemi elettorali sono l’insieme delle regole e delle procedure che determinano le modalità di voto
e stabiliscono il criterio in base al quale i voti vengono tradotti in seggi. Analizzando la formula
elettorale, ossia il meccanismo mediante cui si perviene alla distribuzione dei seggi in base ai voti
validamente espressi dagli elettori, si individuano due grandi famiglie:
• Sistemi maggioritari: caratterizzati per il fatto che determinano l’attribuzione del seggio (o
seggi) in palio in una determinata circoscrizione elettorale al candidato (o alla lista) che abbia
ottenuto la maggioranza dei voti. Una prima rilevante distinzione è fra:
o Sistemi c.d. majority, abbastanza rari, che assegnano il seggio al candidato che abbia
conseguito la maggioranza assoluta (il 50% + 1 dei votanti)2;
o Sistemi c.d. plurality, che assegnano il seggio al candidato che abbia conseguito la
maggioranza relativa (un numero di voti superiore a quello ottenuto dagli altri
candidati).
Hanno una riconosciuta capacità di semplificazione o di riduzione della frammentazione del
sistema politico. Per contro, presentano lo svantaggio di una rappresentazione infedele degli
indirizzi e delle scelte politiche dell’elettorato. Il voto è concepito eguale solo in partenza e
non anche a destinazione.
• Sistemi proporzionali: determinano una fedele rappresentazione dell’orientamento politico
del corpo elettorale. Sono caratterizzati dal principio base secondo cui l’assegnazione dei
seggi avviene in proporzione al numero di voti conseguiti da ciascuna forza politica. Ciò
avviene mediante la determinazione della cifra elettorale circoscrizionale, pari al numero
dei voti validamente espressi nella circoscrizione, che, divisa per il numero dei seggi da
assegnare in quella circoscrizione, dà il quoziente elettorale circoscrizionale, il quale
costituisce il patrimonio di voti che ciascuna lista deve aver conseguito per ottenere il seggio.
Tutte le liste che raggiungono tale quoziente partecipano alla ripartizione dei seggi:
determinata infatti la cifra elettorale di lista, data dal numero dei voti ottenuti nella
circoscrizione da ciascuna lista, i seggi verranno distribuiti in base al rapporto instauratosi fra
cifra elettorale di lista e quoziente.
I sistemi proporzionali creano frammentazioni di partiti (c.d. multipartitismo estremo), ma
consentono una rappresentanza adeguata anche a forze politiche minoritarie che i sistemi
maggioritari escludono.
Il calcolo dei seggi può essere effettuato mediante due meccanismi:
• C.d. metodo del quoziente, in base al quale i seggi vengono assegnati a ciascuna lista in
misura pari al risultato della divisione fra cifra e quoziente.
Es: Dato il quoziente elettorale pari a 100, se la lista A ha ottenuto 500 voti, ad essa verranno assegnati 5
seggi. Tuttavia, a volte la divisione non dà un risultato intero ma genera dei resti.
Es: Se i seggi da attribuire sono 10 e la cifra elettorale circoscrizionale è 1000, il quoziente è 100.
Lista A: 355 voti (3 seggi + avanzo 55 voti)
Lista B: 251 voti (2 seggi + avanzo 51 voti)
Lista C: 187 voti (1 seggio + avanzo 87 voti)
Lista D: 122 voti (1 seggio + avanzo 22 voti).
Rimangono 3 seggi da assegnare [10 – (3 + 2 + 1 + 1)]: saranno assegnati alle liste con più alti resti: 1
seggio alla lista C (87 resti), 1 seggio alla lista A (55 resti), 1 seggio alla lista B (51 resti)
• Altro meccanismo abbastanza utilizzato è quello definito metodo d’Hondt.
Se i seggi da assegnare sono 5, la cifra elettorale sarà divisa per cinque volte.

2
Nel caso in cui nessuno dei candidati ottenga la maggioranza prevista si può ricorrere al voto
alternativo: ogni elettore è chiamato ad esprimere il voto per ciascuno dei candidati presentatisi,
indicando l’ordine di preferenze. Secondo il sistema del voto a doppio turno, il mancato
raggiungimento della maggioranza comporta il voto di ballottaggio (seconda votazione tra i due
candidati che abbiano ottenuto la maggioranza dei voti).
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Fatto questo, si procederà ad individuare i quozienti più alti, sempre fino a concorrenza del numero dei
seggi in palio.
Es: supponiamo di avere quattro liste, per un totale di 680 voti e 5 seggi da assegnare.
Lista A: 250 voti (250/1=250, 250/2=125, 250/3=83.3, 250/4=62.5, 250/5=50)
Lista B: 180 voti (180/1=180, 180/2=90, 180/3=60, 180/4=45, 180/5=36)
Lista C: 150 voti (150/1=150, 150/2=75, 150/3=50, 150/4=37.5, 150/5=30)
Lista D: 100 voti (100/1=100, 100/2=50, 100/3=33.3, 100/4=25, 100/5=20)
Dal momento che devono essere scelti i quozienti più alti, verranno assegnati due seggi alla lista A, un
seggio alla lista B, un seggio alla lista C e un seggio alla lista D.
Qualunque sia il meccanismo di calcolo prescelto dal sistema per attribuire i seggi a ciascuna lista
proporzionalmente al numero di voti ottenuto, si tratta poi di passare in concreto ad individuare quali
candidati saranno effettivamente eletti. Per far questo si possono seguire diverse strade:
a) Tener conto delle preferenze indicate da ciascun elettore e considerare eletti i candidati con
maggior numero di preferenze, fino alla concorrenza del numero dei seggi assegnati alla lista;
b) Tener conto dell’ordine dei candidati della lista, laddove non sia data all’elettore la possibilità
di esprimere delle preferenze (c.d. lista bloccata) e ritenere eletti progressivamente i candidati
posti in posizione più elevata nella lista (il primo, il secondo, etc.), sempre sino alla
concorrenza del numero dei seggi attribuiti alla lista (è quanto oggi prevede la recente legge
elettorale per la Camera e per il Senato).
Un elemento di particolare rilevanza è dato dalla conformazione delle circoscrizioni elettorali in cui
può essere suddiviso il territorio nazionale ai fini di attribuzione dei seggi (i c.d. collegi elettorali).
È assai raro che per l’elezione del Parlamento l’intero territorio nazionale si costituisca in collegio
unico; molto più di frequente si ha la ripartizione in una pluralità di collegi cui vengono imputati
per quota parte dei seggi parlamentari da ricoprire. La distinzione è tra:
• Sistemi imperniati su collegi uninominali (tipici dei sistemi maggioritari), in presenza di
circoscrizioni elettorali nelle quali gli elettori sono chiamati a scegliere un solo rappresentante
fra i vari candidati in lizza, in quanto è uno solo il seggio che in quel collegio si assegna.
Richiede che il territorio sia suddiviso in tanti collegi quanti sono i parlamentari da eleggere.
Assicura una più diretta relazione fra candidato ed elettori del collegio, e quindi determina
una riduzione del ruolo dei partiti nella selezione dei candidati;
• Sistemi imperniati su collegi plurinominali (tipici dei sistemi proporzionali), caratterizzati
per il fatto che gli elettori sono chiamati a scegliere in quella circoscrizione due o più
rappresentanti, in ragione del numero (plurale, appunto) dei seggi imputati al collegio. Non
è escluso che si abbiano anche sistemi di stampo maggioritario imperniati su questi ultimi (il
caso più noto è quello dell’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America). In tale
eventualità si parla di sistema maggioritario di schiacciamento, in quanto la forza politica
che ha la maggioranza di voti nel collegio si prende tutti i seggi in palio.
Nei collegi plurinominali cresce proporzionalmente il peso dei partiti.
Esistono poi:
• Sistemi misti, che possono contribuire diverse varianti o correttivi introdotti nei diversi
sistemi. È il caso, ad esempio, del sistema elettorale per l’elezione della Camera e del Senato
in Italia in seguito all’esito del referendum abrogativo in materia elettorale in cui
l’assegnazione dei seggi avveniva in parte con meccanismo maggioritario (circa i ¾) e in parte
con formula proporzionale (il restante quarto).
Onde attenuare l’effetto di frammentazione che può accompagnarsi all’utilizzo di sistemi elettorali
proporzionali, sono previsti correttivi come:
• Le clausole di sbarramento (che consentono di partecipare alla ripartizione dei seggi soltanto
alle forze politiche che abbiano raggiunto un quorum minimo di suffragi);
• L’introduzione di un premio di maggioranza mediante il quale si attribuisce alla(e) forza(e)
che abbiano superato un certo quorum di voti di vedersi attribuito un numero di seggi ulteriore
di modo da ottenere la maggioranza dei seggi in Parlamento.
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La legge n 270/2005 ha mutato il sistema elettorale maggioritario-uninominale introdotto nel 1993.


Assegnazione dei seggi per la Camera
• La legge n. 270/2005 prevedeva il meccanismo di assegnazione proporzionale dei voti a
ciascuna lista o coalizione, con eventuale premio di maggioranza alla forza politica (o alla
coalizione) che avesse conseguito il miglior risultato su scala nazionale, senza raggiungere,
però, la soglia dei 340 seggi. A questa lista o coalizione veniva attribuito il premio necessario
per raggiungere quota 340, pari alla maggioranza assoluta dei seggi della Camera. Non era
peraltro previsto il raggiungimento di una soglia minima da attingere per beneficiare del
premio stesso, essendo sufficiente avere ottenuto un maggior numero di voti rispetto alle altre
liste concorrenti. Questo meccanismo è stato poi dichiarato incostituzionale nella sent. n.
1/2014, perché comprimeva troppo la rappresentatività dell’assemblea parlamentare.
o Le soglie di sbarramento (10% per le liste coalizzate e 4% per le liste singole)
rendevano il sistema complesso: il loro superamento era condizione per partecipare al
riparto dei seggi;
o Le liste erano bloccate (predeterminate dai singoli partiti; l’elettore non poteva
esprimere alcuna preferenza);
• Italicum (l. n. 52/2015):
o Il sistema elettorale è di tipo proporzionale a correzione maggioritaria con premio di
maggioranza, che assegna alla Camera un numero fisso di 340 seggi su 630 alla lista
che guadagna almeno il 40% dei voti. Non sono previste coalizioni. Il sistema del
ballottaggio è stato cancellato: non è previsto alcun secondo turno;
o Lo sbarramento per i partiti è al 3%. Il superamento è condizione per partecipare al
riparto dei seggi, salve le disposizioni particolari per la Valle d’Aosta e il Trentino
Alto Adige.
o Obbligo per i partiti politici che intendono presentare le liste nei collegi plurinominali
di depositare il proprio statuto (la dotazione dello statuto è condizione di accesso);
o Obbligo di indicare nome e cognome del capo della forza politica;
o Presentazione delle liste: subordinata alla sottoscrizione di almeno 1500 iscritti nelle
liste elettorali dei comuni ricompresi nel collegio dove è stata presentata la candidatura
o nelle sezioni elettorali se il collegio è interno ad un solo comune. Ciò a meno che
non si tratti:
§ Di partiti o gruppi politici costituitisi in gruppo parlamentare in ambo le
Camere nella legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi;
§ Di partiti o gruppi politici rappresentativi di minoranze linguistiche che
abbiano ottenuto almeno un seggio nelle ultime elezioni politiche per la
Camera o il Senato.
o Compilazione delle liste: devono essere composte da un candidato capolista e da un
elenco di candidati in ordine numerico. Il numero di candidati di ciascuna lista deve
essere pari almeno alla metà e comunque non superiore al numero dei seggi assegnati
al collegio plurinominale. Solo la candidatura del capolista risulta bloccata, mentre per
gli altri candidati si possono esprimere una o due preferenze (si devono scegliere due
candidati di sesso diverso). Al fine di garantire l’equilibrio della rappresentanza di
genere è previsto a pena di inammissibilità della lista che:
§ Nel complesso delle candidature circoscrizionali nessuno dei due sessi può
essere rappresentato in misura superiore al 50%;
§ I candidati sono collocati in ordine alternato di genere;
§ Nel numero complessivo dei candidati capolista nei collegi di ciascuna
circoscrizione non possono esservi più del 60% di candidati dello stesso sesso.
o Candidature plurime: prima della legge elettorale erano consentite per tutti i
cittadini. La nuova disciplina prevede invece che i soli candidati capilista (che sono
bloccati) possano essere inclusi in liste con il medesimo contrassegno in una o più

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

circoscrizioni fino ad un massimo di 10 collegi, restando esclusa per gli altri candidati
non capilista la possibilità di pluricandidature. Se un candidato è eletto
contemporaneamente in più collegi, non sarà lui a poter scegliere il collegio ma si
procederà ad un sorteggio;
o Voto degli Italiani all’estero: prima potevano votare alle elezioni politiche nazionali
e per i referendum i soli cittadini italiani residenti all’estero. La legge 52/2015 ha
esteso tale possibilità anche agli elettori temporaneamente residenti all’Estero per tutte
le elezioni politiche e i referendum. Tuttavia, per esercitare questo diritto sono
necessarie due condizioni:
§ I cittadini devono trovarsi all’estero da almeno tre mesi;
§ L’assenza deve essere giustificata da motivi di lavoro, studio o cure mediche.
Per poter votare, i cittadini temporaneamente residenti all’estero devono esercitare tale
opzione mediante l’invio della richiesta al comune di iscrizione elettorale.

Assegnazione dei seggi per il Senato


• La principale ragione di differenziazione rispetto al sistema elettorale della Camera è dovuta
alla previsione dell’art. 57, secondo cui il “Senato della Repubblica è eletto a base
regionale”. Essa comporta che il meccanismo per l’attribuzione dei seggi deve operare al
livello regionale, così come il premio di maggioranza e le soglie di sbarramento.
• La legge n. 270/2005 prevedeva che il premio di maggioranza su scala regionale non garantiva
l’acquisizione della maggioranza dei seggi senatoriali alla lista o coalizione che su scala
nazionale avesse conseguito il maggior numero di voti, limitandosi a garantire l’ottenimento
della maggioranza dei seggi imputati a ciascuna Regione. Con la possibilità, quindi, non
soltanto della formazione di una maggioranza diversa da quella della Camera, ma anche che
i premi di maggioranza regionali si bilanciassero fra loro, non consentendo così la formazione
di una sicura maggioranza in Senato. Questo meccanismo è stato ritenuto irragionevole dalla
Corte costituzionale.
o In ordine alle soglie di sbarramento, la legge prevedeva che accedevano al riparto
dei seggi soltanto le coalizioni e le liste indipendenti che avessero raggiunto,
rispettivamente, almeno il 20% e l’8% dei voti validamente espressi nella Regione;
o Le liste erano bloccate (predeterminate dai singoli partiti; l’elettore non poteva
esprimere alcuna preferenza);
• Porcellum (l. n. 270/2005):
o Il territorio nazionale è suddiviso il 20 circoscrizioni (art. 57), corrispondenti alle
Regioni, suddivise nell’insieme in 100 collegi plurinominali (determinati con decreto
legislativo del Governo);
o L’attribuzione dei seggi si realizza su base proporzionale in ragione delle percentuali
di consensi ottenute da partiti e coalizioni su scala regionale;
o Il premio di maggioranza è stato ritenuto incostituzionale con la sent. 1/2014 e quindi
abolito, in quanto distorsivo della maggioranza perché attribuiva al partito seggi senza
l’obbligo di raggiungere una soglia minima di voti;
o Per eleggere i senatori, le liste devono ottenere almeno l’8% dei voti;
o Soglie di sbarramento: partecipano alla ripartizione dei seggi le coalizioni con
almeno il 20% dei voti; i partiti non coalizzati che ottengono l’8% dei voti e i partiti
in coalizione che ottengono almeno il 3%;
o Una lista o coalizione potrebbe superare lo sbarramento in una regione ed eleggere
alcuni senatori, e mancarlo in un’altra, non riuscendo ad eleggere nessuno;
o Possibilità di esprimere il voto di preferenza.
Pertanto, quel che complessivamente è residuato dalla sentenza della Corte, è per entrambe le Camere
un sistema elettorale proporzionale, con soglie di sbarramento e possibilità di esprimere preferenze.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Campagne elettorali: rimane in vigore la legge del 1993.


• Disciplina delle spese elettorali. Il mandatario elettorale deve raccogliere i fondi per la
campagna elettorale e deve assicurare il rispetto delle regole e dei limiti previsti, primo fra
tutti il rispetto del tetto di spesa;
• Il rendiconto delle spese sostenute va sottoposto al Collegio regionale di garanzia elettorale,
cui spetta il potere di controllo con l’attribuzione di poteri sanzionatori;
• Per quanto concerne i partiti e i movimenti politici, il consuntivo delle spese elettorali va
inviato ai Presidenti delle Camere e ad un apposito Collegio istituito presso la Corte dei
Conti, cui è attribuito il compito di verificare l’esistenza di eventuali violazioni e, in caso di
esito positivo, irrogare sanzioni pecuniarie, in grado di incidere sui contributi pubblici per
rimborso delle spese elettorali, che è attualmente calcolato in proporzione ai voti conseguiti
da ciascun partito o movimento;
• Accesso ai mezzi di comunicazione di massa: principio fondamentale è la parità di
trattamento e di chances fra le varie forze politiche, ossia la par condicio. La legge n.
28/2000 estende l’applicazione della propria disciplina, non soltanto alle sole elezioni
politiche nazionali in occasione della rinnovazione delle Camere, bensì ad ogni consultazione
popolare a livello europeo, nazionale e locale, ivi compresa quella relativa ad ogni forma di
referendum, sulla scia di quanto previsto dalla catena dei decreti-legge del 1995 (c.d. decreti
Gambino) con cui si era introdotto per la prima volta il regime della par condicio.
o Comunicazione politica: forma di confronto fra posizioni politiche realizzata
attraverso programmi, come tribune politiche, dibattiti, tavole rotonde ecc., nei quali
assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politiche;
o Messaggi politici autogestiti, quali mezzi di comunicazione unilaterale consistenti in
una “motivata esposizione di un programma e di un’opinione politica, di durata
compresa fra 1 e 3 minuti per le emittenti televisive e da 30 a 90 secondi per le
emittenti radiofoniche, a scelta del richiedente”.
La legge impone a carico delle emittenti nazionali, siano esse pubbliche o private, l’obbligo di diffusione di
programmi di comunicazione politica; obbligo che, per i messaggi autogestiti richiesti dai soggetti politici
legittimati, è invece limitato soltanto alla concessionaria pubblica (RAI). Questi ultimi debbono essere
collocati entro spazi predisposti (contenitori), di modo da risultare chiaramente distinguibili dagli altri
programmi, non possono eccedere una certa percentuale del tempo destinato ai programmi di
comunicazione politica e sono accessibili ai richiedenti in condizioni di parità e gratuità (per le emittenti
nazionali) e onerosità (per quelle locali).
È previsto un divieto nella diffusione di sondaggi politici ed elettorali nei 15 giorni precedenti la data delle
votazioni, onde escludere un condizionamento dell’opinione dell’elettore.
Il controllo del rispetto di tali condizioni spetta alla:
• Commissione parlamentare bicamerale per l’indirizzo generale e la vigilanza sui servizi
televisivi, per l’emittente pubblica;
• Autorità per le garanzie sulle comunicazioni, per quelle private.

Organizzazione interna e regime di autonomia delle Camere


Le Camere sono caratterizzate da un ampio regime di autonomia: esse infatti hanno la capacità di
modellare una propria fisionomia organizzativa, la quale risulti frutto di scelte prive di
condizionamenti non solo esterni (dell’esecutivo o del Capo dello Stato), bensì pure ad opera
dell’altra Camera (salvo che per gli organi a composizione mista). Essa si delinea come potestà di
auto-organizzazione di ciascuna Camera, singolarmente considerata.
Secondo il disposto dell’art. 63 Cost., il compito di ciascuna Camera è quello di “eleggere fra i suoi
componenti il Presidente e l’Ufficio di Presidenza”, cui segue il successivo art. 64 a precisare che la
capacità di autoregolarsi spetta individualmente ad ognuna delle camere che è chiamata, a tal fine,
ad adottare un “proprio regolamento a maggioranza assoluta dei propri componenti”.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Gli organi interni di ciascuna Camera


• Presidenti: tra i primi compiti che spettano alle Camere neo-costituite c’è quello di dotarsi di
un Presidente (e di scegliere i membri dell’Ufficio di Presidenza). Al primo giorno di seduta
è prevista la costituzione di un Ufficio di presidenza provvisorio che:
o Alla Camera è chiamato a presiedere il più anziano per elezione tra i vicepresidenti
della precedente legislatura presenti alla prima seduta. L’elezione ha luogo a scrutinio
segreto e a maggioranza dei 2/3 dei propri componenti; ove non si raggiunga tale
quorum in sede di prima votazione, a partire dalla seconda la maggioranza necessaria
si riduce ai 2/3 dei votanti, comprese le schede bianche; per passare, poi, dal terzo
scrutinio alla maggioranza dei votanti. È richiesto un quorum più elevato che al Senato
al fine di assicurare un più vasto consenso intorno alla sua figura (dato che il Presidente
della Camera è anche il Presidente del Parlamento in seduta comune);
o Al Senato è chiamato a presiedere il senatore più anziano d’età. Il regolamento
prevede che, sempre a scrutino segreto, venga eletto Presidente il candidato che abbia
ottenuto la maggioranza assoluta dei voti dei componenti del Senato. In caso di esito
negativo reiterato in una seconda votazione, a partire dalla terza il quorum richiesto si
abbassa alla maggioranza dei presenti, anche in questo caso computando tra i voti le
schede bianche. Laddove neppure nella terza votazione vi sia un candidato che
raggiunga la maggioranza richiesta, si procede al ballottaggio fra i due candidati che
abbiano conseguito più voti nello scrutinio precedente. Il quorum richiesto è minore
che alla Camera, al fine di evitare di lasciare il posto vacante (dato che il Presidente
del Senato svolge le funzioni di supplente del Presidente della Repubblica ex art. 86).
Ambo i Presidenti debbono essere sentiti dal Capo dello Stato prima di procedere allo
scioglimento delle Camere. I Presidenti di Camera e Senato vengono altresì ascoltati dal
Presidente della Repubblica nel corso delle consultazioni svolte per la risoluzione delle crisi
di governo.
I compiti del Presidente di assemblea parlamentare possono essere individuati in funzioni:
o Di rappresentanza e di esternazione della volontà dell’organo che presiede;
o Di direzione dei lavori parlamentari e di salvaguardia del loro buon andamento (“dà
la parola, dirige la discussione, mantiene l’ordine, pone le questioni, stabilisce l’ordine
delle votazioni, chiarisce il significato del voto e ne annunzia il risultato”);
o Di presidio del rispetto delle norme regolamentari;
o Di vigilanza e di garanzia del buon andamento dell’amministrazione interna.
• Ufficio di presidenza: coadiuva il Presidente nelle sue funzioni. Al Senato prende il nome di
Consiglio di Presidenza. È composto da:
o 4 vice presidenti, che sostituiscono il Presidente in caso di assenza o impedimento;
o 3 questori, curano il buon andamento dell’amministrazione delle Camere e il
mantenimento dell’ordine nella sede di ciascuna Camera, oltre che la funzione di
sovrintendere alle spese e redigere il progetto di bilancio e il conto consuntivo;
o 8 segretari, cui spetta, fra l’altro, di sovrintendere alla redazione dei processi verbali
delle sedute e di coadiuvare il Presidente nelle operazioni di voto.
I membri dell’Ufficio di Presidenza, che deve rappresentare i gruppi parlamentari
dell’Assemblea, sono eletti da ciascuna Camera nella seduta successiva a quella di elezione
del Presidente.
• Gruppi parlamentari: hanno un ruolo centrale nell’organizzazione e nel funzionamento di
ciascuna Camera. Si tratta di unioni di deputati o senatori che si costituiscono sulla base
dell’appartenenza ad un medesimo partito o movimento politico. La loro esistenza risponde
ad esigenze di efficienza e di buon funzionamento dell’attività delle Camere, oltre che di
semplificazione del processo decisionale parlamentare.
I regolamenti delle Camere prevedono l’appartenenza necessaria del parlamentare ad un
gruppo, richiedendo che questi esprima entro due giorni dalla prima seduta dell’Assemblea a

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

quale gruppo intende afferire. Ai fini della costituzione del gruppo parlamentare, è richiesto
un minimo di consistenza numerica:
o 20 deputati alla Camera;
o 10 senatori al Senato.
Il presidente può autorizzare la costituzione di un gruppo anche in deroga ai minimi indicati.
Qualora un parlamentare non effettui alcuna scelta in ordine all’appartenenza ad un gruppo
parlamentare o dichiari esplicitamente di non volere appartenere a nessuno dei gruppi
costituitisi, stante il suddetto principio di “appartenenza necessaria”, è collocato in un
apposito gruppo “misto”, in cui peraltro confluiscono anche tutti i parlamentari di quelle
formazioni politiche che non riescono a raggiungere la consistenza numerica richiesta dai
regolamenti per dar vita ad un gruppo autonomo.
Il mandato parlamentare deve svolgersi “senza vincolo di mandato”. Tale principio del divieto
di mandato imperativo assicura al parlamentare la posizione di necessaria autonomia, non
più tanto nei confronti dei propri elettori, quanto soprattutto dello stesso partito nelle cui liste
egli è stato eletto. Ove si venisse a trovare in contrasto con il proprio gruppo (e/o partito),
tanto da assumere posizioni incompatibili con la sua permanenza all’interno dello stesso, ciò,
comportando eventualmente la sanzione dell’espulsione o delle dimissioni dal gruppo (o dallo
stesso partito), non determinerebbe la decadenza dalla carica del parlamentare, quanto
piuttosto il passaggio ad un gruppo diverso o la sua immissione in quello misto.
Ai Gruppi parlamentari spettano vari compiti:
o Designare, in qualità di rappresentanti, i membri delle commissioni parlamentari;
o I rispettivi Presidenti devono determinare programma e del calendario dei lavori
della Camera. Questi atti sono approvati dalla Conferenza dei Presidenti di gruppo.
Bisogna tenere conto delle priorità indicate dall’esecutivo. Al Senato vige per
l’approvazione la regola dell’unanimità, mentre alla Camera è sufficiente la
maggioranza qualificata, pari al consenso dei Presidenti dei Gruppi che siano
rappresentativi di almeno ¾ dei membri dell’Assemblea. In caso di mancata
approvazione, i regolamenti di Camera e Senato prevedono l’intervento surrogatorio
del Presidente di Assemblea (alla Camera costituisce un potere sostitutivo, mentre al
Senato costituisce un potere di proposta);
o Partecipare alle consultazioni del Capo dello Stato per risolvere le crisi di Governo.
È discusso se i gruppi siano organi delle Camere o associazioni private fra parlamentari.
• Commissioni parlamentari: è attraverso di esse che può essere esercitato un effettivo potere
di indirizzo (e controllo) parlamentare sull’attività del Governo. Si distinguono, in proposito:
o Commissioni speciali: sono costituite ad hoc per l’esame di questioni particolari;
o Commissioni permanenti, in carica per l’intera legislatura. Sono organi necessari
delle Camere e nel loro insieme (attualmente sono 14 in ambo le Camere) danno vita
ad un complesso costituito da organi collegiali, ciascuno con specifiche competenze
per materia. Vige il principio della “appartenenza necessaria”, posto che ciascun
parlamentare deve far parte di almeno una Commissione, con esclusione dei soli
parlamentari membri del Governo, i quali risultano a tal fine sostituiti da un collega di
gruppo. Essi debbono rispecchiare la proporzione fra i gruppi parlamentari presenti
nell’Assemblea. Hanno varie funzioni:
§ Afferenti al procedimento legislativo;
§ Di indirizzo, mediante l’approvazione di apposite risoluzioni volte a
manifestare orientamenti su specifici argomenti;
§ Di controllo, attraverso cui far valere la responsabilità politica del Governo.
§ Di tipo consultivo, esercitate ogni qual volta che sia necessario acquisire il
parere di una commissione per gli aspetti di sua specifica competenza;
§ Conoscitive, esercitate attraverso la promozione di specifiche indagini, la cui
importanza in ordine al processo decisionale parlamentare è ormai centrale.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

o Commissioni bicamerali, se formate in egual numero da deputati e senatori per


determinate questioni per le quali il Parlamento deve tenere un comportamento
univoco. Vige il principio della composizione proporzionale alla consistenza dei
gruppi parlamentari; in questo caso il calcolo va fatto non già con riferimento alla
singola Camera, bensì con riguardo al Parlamento nel suo complesso. La fonte della
disciplina dei lavori di tali commissioni è da rintracciarsi nel regolamento della
Camera presso la quale ha sede la commissione, anche se in via di prassi si adotta in
genere il criterio di applicare il regolamento della Camera di appartenenza del
Presidente della Commissione. Tale fenomeno segna, in qualche modo, il superamento
della rigida separazione fra le due Camere.
§ Es: commissioni bicamerali di inchiesta.
• Giunte: organi collegiali, di carattere permanente, i cui membri, a differenza delle
commissioni, non sono designati dai rispettivi gruppi parlamentari, ma sono nominati
direttamente dal Presiedente di ciascuna Camera. Esse alla Camera sono:
o La Giunta per il regolamento: la Presidenza spetta al Presidente d’Assemblea. Ha il
compito di elaborare e proporre all’aula le modifiche da apportare al regolamento,
nonché di esprimere, su sollecitazione dello stesso Presidente, il proprio parere su
questioni relative all’interpretazione delle disposizioni regolamentari, la cui
risoluzione resta affidata primariamente al medesimo Presidente. Ha potere consultivo
in tema di conflitti di competenza fra le Commissioni, la cui risoluzione spetta sempre
al Presidente d’Assemblea. Alla nomina dei membri della Giunta egli procede tenendo
presente, per quanto possibile, il criterio della proporzionalità nella rappresentanza dei
gruppi parlamentari;
o La Giunta per le elezioni: ha la funzione di riferire all’Assemblea sulla regolarità
delle operazioni elettorali e sui titoli di ammissione di ogni parlamentare eletto,
formulando le proprie proposte di convalida, di annullamento o di decadenza. Essa
elegge nel proprio seno un Presidente ed opera sulla base di un regolamento la cui
approvazione, a maggioranza qualificata (assoluta), spetta all’Assemblea;
o La Giunta per le autorizzazioni a procedere: istruisce le richieste di autorizzazione
inviate dall’autorità giudiziaria al Presidente di ciascuna Camera. Il termine per
concludere l’istruttoria e proporre la concessione o il diniego dell’autorizzazione è di
30 giorni dalla trasmissione della richiesta, decorso inutilmente il quale, ove non sia
stata accordata una proroga, la richiesta “dovrebbe” venire iscritta all’ordine del
giorno dell’aula. Il voto dell’Assemblea sulle proposte della Giunta avviene a scrutinio
palese, anche laddove i regolamenti consentirebbero il voto segreto. Ha anche il
compito di esaminare le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti del
Presidente del Consiglio e dei Ministri nelle ipotesi di “reati ministeriali”.
Al Senato si contano invece due giunte, dal momento che la Giunta per gli affari delle
Comunità europee è stata trasformata in commissione per le politiche dell’Unione europea:
o La Giunta per il regolamento: la Presidenza spetta al Presidente d’Assemblea. Ha il
compito di elaborare e proporre all’aula le modifiche da apportare al regolamento,
nonché di esprimere, su sollecitazione dello stesso Presidente, il proprio parere su
questioni relative all’interpretazione delle disposizioni regolamentari, la cui
risoluzione resta affidata primariamente al medesimo Presidente.
o La Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, che assomma in sé le
competenze che alla Camera sono imputate a due distinti organi: si occupa anche delle
immunità. Ha la funzione di riferire all’Assemblea sulla regolarità delle operazioni
elettorali e sui titoli di ammissione di ogni parlamentare eletto, formulando le proprie
proposte di convalida, di annullamento o di decadenza. Essa elegge nel proprio seno
un Presidente ed opera sulla base di un regolamento la cui approvazione, a
maggioranza qualificata (assoluta), spetta all’Assemblea.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Comitato per la legislazione: organo di recente istituzione presso la Camera dei deputati. È
composto da 10 deputati divisi in parti eguali fra appartenenti alla maggioranza e
all’opposizione, di nomina del Presidente della Camera. Al comitato compete una funzione di
consulenza in tema di qualità della legislazione, essendo deputato ad esprimere pareri circa
la omogeneità, semplicità, chiarezza e proprietà della formulazione del testo dei progetti di
legge inviati dalle Commissioni, nonché riguardo la loro efficacia in ordine alla
semplificazione e al riordino della legislazione vigente. La funzione consultiva è esercitata,
in merito ai rispettivi progetti di legge, nelle ipotesi di delegazione legislativa e di
delegificazione: il comitato può avanzare richiesta di soppressione delle disposizioni che
risultino in contrasto con le esigenze previste dalla legislazione vigente.
Per lo svolgimento delle proprie funzioni ciascuna Camera si avvale di un apparato burocratico. Al
suo vertice v’è il Segretario generale, nominato dall’Ufficio di Presidenza, vero e proprio snodo fra
l’amministrazione e la componente politica delle Camere.

Il regime di autonomia: l’autonomia normativa


La condizione parlamentare del nostro ordinamento è caratterizzata da un ampio regime di autonomia.
• L’autonomia organizzativa delle Camere discende dal presupposto della capacità di
autonomia, intesa nel senso di potestà di “darsi norma”. L’autonomia organizzativa si
esprime come competenza a regolare l’assetto organizzativo.
È quanto accade per le Camere, la cui organizzazione interna e l’esercizio delle proprie
funzioni trova, oltre che nelle disposizioni della Costituzione, la propria fonte di disciplina in
atti di autoformazione che si denominano regolamenti parlamentari. Difatti l’art. 64
attribuisce a ciascuna Camera il compito di dotarsi di un proprio regolamento, da approvarsi
a maggioranza assoluta dei propri componenti, cui il successivo art. 72 fa riferimento per la
disciplina delle forme e dei modi di esercizio della funzione legislativa. Dalla previsione
dell’art. 64 si ricavano conseguenze:
o La “materia regolamentare” è oggetto di una riserva di competenza in favore della
fonte di auto normazione;
o Il regolamento parlamentare deve essere adottato con una maggioranza qualificata
(nella specie la maggioranza assoluta) che assicuri al regolamento un vasto consenso.
Ciò assicura anche un maggior grado di stabilità alle norme regolamentari.
• Principio di insindacabilità degli interna corporis acta: è esclusa qualsiasi forma di
controllo esterno al Parlamento sugli atti e i procedimenti relativi all’esercizio delle funzioni
delle Camere. La disciplina dei regolamenti di Camera e Senato ha rispecchiato nella sua
evoluzione i mutamenti subiti, nel tempo, dalla forma di governo e dall’equilibrio dei rapporti
tra le forze politiche e, specialmente, fra maggioranza e opposizione. Così che l’adozione dei
nuovi regolamenti ha espresso il clima di compromesso fra maggioranza e opposizione e di
centralità del Parlamento. Le riforme successive, dall’abolizione del voto segreto
all’abbandono del principio di parità fra gruppi, hanno invece manifestato la tendenza ad un
progressivo rafforzamento del ruolo del Governo, fino ad arrivare alle riforme degli anni
Novanta che testimoniano il mutamento complessivo nei rapporti fra maggioranza e
opposizioni alla luce della svolta elettorale in senso maggioritario del 1993.
• Per quel che concerne i regolamenti minori, ci sono:
o Quelli più propriamente amministrativi interni (regolamento del personale, della
biblioteca, dei servizi e degli uffici etc.);
o Quelli riguardanti specifici organi (il regolamento per la verifica dei poteri (al Senato)
e della Giunta delle elezioni (alla Camera) approvati dall’assemblea a maggioranza
assoluta e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale;
o Quelli riguardanti organi specifici, ma approvati da quest’ultimi (es: regolamento della
commissione bicamerale per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi televisivi),
con o senza maggioranza qualificata e pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il regime di autonomia: le altre forme


Sempre per rimanere sul piano della condizione di autonomia e di indipendenza delle Camere,
bisogna trattare di altri aspetti che ad essa si richiamano e che contribuiscono a definirla.
o L’autonomia contabile e finanziaria: la possibilità di non dipendere finanziariamente dai
Governi e, quindi, dal monarca è apparsa subito come necessaria ad assicurare margini di
libertà all’azione parlamentare. Nel nostro ordinamento sono le Camere che, attraverso
l’approvazione del bilancio e del conto consuntivo, predisposti dagli Uffici di Presidenza e
approvati dalle Assemblee, definiscono autonomamente la scorta di risorse finanziarie di cui
hanno bisogno. Le Camere, assieme alla Presidenza della Repubblica e alla Corte
Costituzionale, godono di un regime privilegiato di sottrazione dall’obbligo di
rendicontazione delle spese alla magistratura contabile (Corte dei Conti), il quale è stato
considerato come il riflesso dell’autonomia costituzionale ad esse spettante;
o Immunità della sede: è codificata nei regolamenti parlamentari che prevedono il divieto di
introdursi nelle aule parlamentari, come nelle sedi decentrate di organi o uffici, non solo da
parte di estranei, bensì pure della forza pubblica, se non per ordine del Presidente e dopo che
sia stata tolta o sospesa la seduta. A ciascuna Camera è imputata la funzione di preservare
l’ordine e la polizia all’interno delle sedi parlamentari; funzione il cui concreto esercizio è
rimesso al rispettivo Presidente. A questa si accompagna la tutela penale, discendente dalla
previsione di apposite figure di reato di compromissione del libero esercizio delle funzioni
parlamentari e di pubblico vilipendio delle Assemblee legislative;
o L’autodichia o giurisdizione domestica consiste nella potestà assegnata a ciascuna Camera
di giudicare direttamente sullo status giuridico dei suoi dipendenti in ogni grado di giudizio.
Spetta agli uffici di Presidenza di ambo le Camere di pronunziarsi sui ricorsi presentati dai
propri funzionari ed impiegati. Non v’è alcun dubbio che la potestà di autodichia si ponga in
conflitto con i principi costituzionali relativi al diritto di difesa dei propri diritti soggettivi ed
interessi legittimi, dinanzi ad un giudice provvisto di necessari requisiti di terzietà ed
imparzialità. Il diritto ex art. 24 ad avere un giudice ed un giudizio idonei ad assicurare
un’effettiva tutela giurisdizionale è stato eretto a principio supremo dell’ordinamento;
o Verifica dei poteri: esercitata dalle Camere. È il potere di accertamento della regolarità delle
elezioni, del possesso dei requisiti di eleggibilità del parlamentare e dell’assenza di cause di
incompatibilità originaria o derivata. L’assunzione della carica richiede di essere
convalidata dalla camera di appartenenza, essendo quello un controllo necessario, cui va
sottoposta ogni elezione a deputato e senatore. Il carattere generale dell’istituto non risparmia
neppure i senatori a vita.
Ambo le Camere si sono dotate di apposite Giunte, cui spetta il compito di vagliare in prima battuta
le elezioni dei singoli parlamentari. In questa fase la Giunta, qualora non abbiano a riscontrare
irregolarità, procede ad un riscontro “a tappeto” che è di mera deliberazione e si conclude con una
proposta di convalida dell’elezione dell’assemblea che, di regola, si limita ad una semplice presa
d’atto. Per le elezioni in ordine alle quali emergano profili di possibile irregolarità, la Giunta procede
ad un’indagine più approfondita che può portare all’apertura di una fase ulteriore: la contestazione
dell’elezione. Il procedimento prevede la garanzia della udienza pubblica, con redazione di apposito
resoconto stenografico, e della necessaria motivazione della decisione assunta dalla Giunta in Camera
di Consiglio. Al termine di questa fase, la Giunta delibera circa la proposta da fare all’assemblea, che
può essere di convalida, ovvero di annullamento o di decadenza, spettando comunque a quest’ultima
ogni decisione definitiva. Recenti modifiche regolamentari hanno accentuato il ruolo svolto dalle
Giunte, che offrono qualche maggiore garanzia in termini di oggettività rispetto all’assemblea.
In caso di annullamento dell’elezione, la decisione parlamentare non ha efficacia che per il futuro,
non pregiudicando la legittimità degli atti compiuti dal parlamentare, né imponendo la restituzione
delle indennità percepite per il tempo precedente l’annullamento. Ciò in quanto si applica il principio
generale del c.d. funzionario di fatto, in base al quale l’illegittima preposizione del soggetto
all’ufficio non inficia la validità degli atti posti in essere prima dell’accertamento dell’illegittimità.

57
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Tale principio non trova invece applicazione in caso di pronuncia di decadenza del mandato
parlamentare: la decadenza, infatti, opera ex nunc, proprio perché il parlamentare finché non viene
dichiarato decaduto gode a pieno titolo di tutte le prerogative connesse al proprio ufficio ed esercita
pleno iure le sue attribuzioni.

Le prerogative e l’indennità
Le prerogative, pur attenendo allo status del singolo parlamentare, si configurano come conferite non
ad utilità personale, bensì a presidio dell’indipendenza dell’organo e della funzione parlamentare.
È il caso delle immunità, di cui all’art. 68 Cost., consistenti in:
o Insindacabilità, ossia irresponsabilità dei membri delle Camere per le “opinioni espresse e i
voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” (1° comma). Si tratta di una scriminante della
responsabilità civile, penale, amministrativa e disciplinare del parlamentare che è di tipo
assoluto, in quanto esclude che il deputato o senatore possa rispondere dei comportamenti
coperti da immunità anche alla cessazione della carica.
o Inviolabilità, in base alla quale nessun parlamentare può essere sottoposto a misura in qualche
modo limitativa della libertà personale, ovvero ad intercettazione delle comunicazioni o
sequestro della corrispondenza, senza “autorizzazione della Camera alla quale appartiene”
(2° e 3° comma). L’inviolabilità offre al parlamentare una tutela che è temporalmente
circoscritta alla durata del mandato parlamentare, in quanto pone solo un ostacolo
procedurale allo svolgimento dell’azione penale. Quest’ultima, pertanto, potrà liberamente
svolgersi, se del caso, alla scadenza del mandato del parlamentare non rieletto, anche se
riferita a fatti e comportamenti tenuti dallo stesso quando era in carica.
Essa “esclude ogni forma di responsabilità giuridica dei parlamentari” (penale, civile,
amministrativa, disciplinare e contabile) ed ha un ambito di applicazione che deve ritenersi
limitato alle fattispecie lì indicate e non può quindi estendersi anche a comportamenti
materiali, anche se tenuti nelle aule parlamentari e in qualche modo riconducibili all’esercizio
delle funzioni. Inoltre richiede l’esistenza di un nesso fra i comportamenti assunti e l’esercizio
delle funzioni parlamentari.
Il legislatore è intervenuto dettando con la legge n. 140/2003 la disciplina di attuazione dell’art. 68.
L’insindacabilità è applicabile non soltanto con riferimento agli atti espressivi della funzione
parlamentare, ma anche con riguardo “ad ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e
di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori dal parlamento”.
La legge n. 140 introduce quella che è stata definita come una sorta di “pregiudiziale parlamentare”,
stabilendo che il giudice, qualora ritenga sussistenti le ragioni per invocare l’applicazione dell’art.
68, provvede con sentenza o con decreto di archiviazione, a seconda delle diverse ipotesi contemplate
nei codici di rito. In caso contrario, egli è tenuto ad investire la Camera di appartenenza del
parlamentare, la quale può essere chiamata in causa anche da chi ritenga che il fatto oggetto del
giudizio rientri nella sfera applicativa del 1° comma dell’art. 68, inviando ad essa copia degli atti.
Ne consegue la sospensione della carica, fintantoché la Camera non decida e, comunque, non oltre
90 giorni dalla ricezione degli atti da parte di quest’ultima (termine prorogabile di altri 30 giorni su
richiesta della medesima Camera). La decisione della Camera viene poi trasmessa al giudice perché
questi, qualora essa escluda l’insindacabilità, prosegua nello svolgimento del giudizio, mentre, in
caso contrario, o vi si conformi, o sollevi il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato dinanzi alla
Corte costituzionale.
Accanto all’insindacabilità, vi è la prerogativa della inviolabilità. È proprio su questa che la
revisione dell’art. 68, con legge Cost. n. 3/1993 è stata particolarmente incisiva. Essa ha eliminato
l’autorizzazione a sottoporre il parlamentare a procedimento penale (c.d. autorizzazione a
procedere) prevista nell’originario testo dell’art. 68 cpv., circoscrivendo l’ambito del potere
autorizzatorio delle Camere a specifiche ipotesi, riguardanti la sottoposizione a perquisizione
personale o domiciliare, l’arresto o, comunque, l’adozione di misure restrittive della libertà personale
o, ancora, il mantenimento in detenzione, “salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza”. L’autorizzazione è altresì richiesta “per sottoporre i membri del
parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di
corrispondenza”.
La ratio di questa forma di immunità resta la stessa che in passato: proteggere il parlamentare da
interventi dell’autorità giudiziaria che abbiano intento intimidatorio o persecutorio (ispirati al c.d.
fumus persecutionis), mediante l’accertamento ad opera della Camera di appartenenza del
parlamentare (attraverso l’apposita Giunta) della manifesta infondatezza dell’accusa ovvero del
carattere politico della stessa. Va rilevato che la richiesta di autorizzazione, in caso di rielezione del
parlamentare, va ripresentata alla nuova Camera, sia in caso di concessione che di negazione.
Prescrivendo la previa autorizzazione delle Camere in caso di perquisizione o di intercettazione, o
ancora di sequestro della corrispondenza del parlamentare, la nuova normativa finisce per vanificare
l’utilità di questi provvedimenti, la cui efficacia è strettamente legata al fatto che essi vengano adottati
all’insaputa dell’interessato. Particolari problemi, in proposito, sono posti dalla già citata legge n.
140/2003, per la parte che si interessa delle c.d. intercettazioni indirette, riguardanti, cioè, non
l’utenza del parlamentare ma le comunicazioni cui il parlamentare abbia preso parte, le quali siano
state intercettate nel corso di indagini relative a procedimenti a carico di terzi. La normativa prevede
che il giudice, il quale ritenga irrilevanti, ai fini del proprio giudizio, le intercettazioni in parola, deve
procedere a distruggere i relativi verbali o registrazioni. Nel caso opposto, egli deve richiedere
l’autorizzazione alla Camera di appartenenza del parlamentare e, in caso di diniego, procedere alla
distruzione della relativa documentazione.
Va, infine, fatto cenno alla legge n. 124/2008, nota come legge Alfano, con la quale si è introdotto
nel nostro ordinamento un regime di temporanea immunità per le quattro più alte cariche dello stato:
Presidente della Repubblica, Presidenti di Camera e Senato e Presidente del Consiglio dei
Ministri. Si è trattato della sospensione dei processi penali a loro carico per reati estranei all’esercizio
delle rispettive funzioni per l’incarico al Presidente del Consiglio all’interno della stessa legislatura.
Viene esclusa la possibilità di continuare a godere della sospensione nel caso di passaggio ad un’altra
delle cariche in parola. In tal modo si configurava per i Presidenti dei due rami del Parlamento un
regime di responsabilità differenziato rispetto a quello degli altri membri delle Camere, sia perché
riguardante ogni tipo di reato, senza alcuna limitazione, sia perché concernente reati extrafunzionali,
sia in quanto beneficio rinunziabile da parte del destinatario. Tale disciplina è stata dichiarata
costituzionalmente illegittima dalla corte costituzionale con la recente sent. n. 262/2009.
Per quanto riguarda il trattamento economico dei membri delle Camere, l’art. 69 Cost. prevede
che i deputati e i senatori “ricevono un’indennità stabilita dalla legge”, ribaltando l’assunto statuario
secondo cui “le funzioni di deputato e senatore non danno luogo ad alcuna retribuzione o indennità”.
La legge n. 126/1965 prevede un trattamento economico articolato in una voce fissa mensile e una
diaria rimborso per le spese di soggiorno a Roma, la quale, peraltro, può subire decurtazioni, in
relazione alle assenze accertate del parlamentare nelle sedute cui è chiamato a partecipare. Ad esse si
aggiungono una serie di benefit che vanno dalla gratuità per la circolazione sui treni della rete
nazionale, al rimborso dei biglietti di aereo, fino all’erogazione di una somma da destinare alla stipula
di un contratto di collaborazione con un soggetto esterno (c.d. assistente parlamentare).

Il Parlamento in seduta comune


Il Parlamento in seduta comune costituisce un organo collegiale permanente distinto dalle due
Camere, sebbene sia composto dai parlamentari di Camera e Senato.
Vi entrano a far parte i parlamentari in quanto tali e non sulla base di una specifica nomina od
elezione. Questo accade per i soli delegati regionali che ne integrano la composizione in occasione
dell’elezione del Presidente della Repubblica, la cui presenza testimonia della irriducibilità del
Parlamento in seduta comune ad una mera sommatoria delle due Camere.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Nel computo dei quorum funzionali e strutturali si fa riferimento ai membri del Parlamento in seduta
comune e non già delle singole Camere: si presenta come organo distinto dalle rispettive conferenze
dei capigruppo.
Il fatto che ad esso siano affidate specifiche funzioni distinte da quelle ascritte alle camere e
soprattutto da queste singolarmente non altrimenti esercitabili avvalora la tesi dell’organo collegiale
autonomo.
È stato sostenuto che le due Camere ed il Parlamento in seduta comune andrebbero intesi quali “organi
distinti di un solo organo”, cioè a dire organi del “Parlamento nella sua unitaria configurazione”.
L’art. 55, 2° comma, Cost., stabilisce che il Parlamento si “riunisce in seduta comune dei membri
delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione”.
Il 2° comma dell’art. 63 Cost. aggiunge che quando “il Parlamento si riunisce in seduta comune, il
Presidente e l’Ufficio di presidenza sono quelli della Camera dei deputati”. Si tratta di un organo a
competenza specializzata ed esclusiva.
Al Presidente della Camera dei deputati spetta il potere di convocazione del Parlamento in seduta
comune, che si riunisce nella sede della Camera a Palazzo Montecitorio. Le funzioni attribuite dalla
Costituzione ai Parlamenti in seduta comune possono distinguersi in:
• Elettorali:
o Elezione del Presidente della Repubblica: in questo caso il collegio è integrato da
tre delegati per ogni Regione (ad eccezione della Valle d’Aosta che ne ha solo uno)
designati dai rispettivi Consigli regionali (art. 83);
o Elezione di un 1/3 dei membri del Consiglio superiore della Magistratura (art. 104);
o Elezione di cinque giudici della Corte Costituzionale (art. 135);
o Approvazione dell’elenco dei 45 cittadini dal quale estrarre a sorte i 16 giudici
integranti la Corte costituzionale nella veste di giudice della messa in stato di accusa
del Presidente della Repubblica;
• Di accertamento: una funzione è ascritta dall’art. 91 Cost., laddove prevede che Il Presidente
della Repubblica, prima di assumere le funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica
e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune;
• Accusatorie: la decisione circa la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica
per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90).
Circa la questione della natura dell’organo si discute se esso possa configurarsi come collegio
“perfetto” o “imperfetto”: gli va riconosciuta la capacità di discutere prima di deliberare?
La stessa previsione costituzionale del 2° comma dell’art. 64 Cost., secondo cui “ciascuna delle due
Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta” fa sì che
debba propendersi per la soluzione favorevole al collegio perfetto, giacché una simile decisione non
potrebbe certo essere presa se non a seguito di una discussione.
È un collegio perfetto nelle funzioni elettorali e di accertamento; è imperfetto per l’accusatoria.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Sezione II
Le Funzioni
Principi generali e funzionamento
Le Camere durano in carica cinque anni, anche se questa durata può essere abbreviata in caso di
scioglimento anticipato ad opera del Capo dello Stato, ai sensi dell’art. 88 Cost.
Il termine normalmente utilizzato per designare il periodo di durata in carica delle Camere è la
legislatura, che viene contraddistinta dalla apposizione di un numero romano, con numerazione
progressiva crescente, a partire dall’entrata in vigore della Costituzione.
Il Parlamento repubblicano è organo continuo. Anzi, il principio di continuità costituisce uno dei
principi cardine che caratterizzano la condizione dell’organo Parlamento nel nostro ordinamento.
La Costituzione, se per un verso prevede un termine massimo abbastanza lungo per l’elezione delle
nuove Camere (pari a 70 giorni dalla fine delle Camere scadute, art. 61), d’altro canto statuisce
congiuntamente che, sin tanto che non siano riunite le Camere neo-elette, “sono prorogati i poteri
delle precedenti” (art. 61, 2° comma). Si tratta dell’istituto che comunemente è definito della
prorogatio (delle Camere) e che tradizionalmente è assunto quale figura espressiva tipica del
principio di continuità di funzionamento, con particolare riferimento agli organi costituzionali.
La sovrapposizione di due Parlamenti e di due serie di parlamentari è soltanto apparente, poiché solo
un Parlamento e una serie di parlamentari sarebbe, comunque, in grado di esercitare le proprie
funzioni fino alla vigilia della convocazione della prima seduta delle nuove Camere: quello costituito
dalle vecchie Camere e, quindi, dai vecchi parlamentari.
I poteri prorogati esercitabili dalle Camere ormai scadute sono delimitati: nell’ordinaria
amministrazione, andrebbero inclusi anche gli atti di “straordinaria amministrazione”, cioè gli atti
che, anche se espressivi di scelte di indirizzo politico, diverrebbero adottabili in presenza di
circostanze di urgenza e di necessità tali da renderli indifferibili. Tale limitazione è volta a
salvaguardare la sfera decisionale dei futuri codeterminatori dell’indirizzo politico (le nuove Camere
e il nuovo Esecutivo) da condizionamenti discendenti da un indirizzo politico ormai morente.
L’istituto della prorogatio non va assolutamente confuso con quello della proroga delle Camere.
Quest’ultimo risponde alla diversa esigenza che le Camere stesse prolunghino il proprio mandato
oltre il limite temporale massimo costituito dal quinquennio (art. 60, 2° comma: “la durata di
ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra”).
Le differenze tra la prorogatio e la proroga sono le seguenti:
o La prorogatio è tesa ad assicurare continuità funzionale nel passaggio fra vecchie e
nuove Camere, mentre la proroga è volta proprio ad escludere quel passaggio;
o La natura ordinaria della prorogatio, a fronte della straordinarietà della proroga;
o Il fatto dell’instaurazione automatica dell’una, cui si giustappone il carattere di scelta
voluta e positivamente adottata dell’altra;
o L’assenza di effetti sull’esercizio dei poteri delle Camere nel caso della proroga, alla
quale si oppone la riduzione in caso di prorogatio.
La proroga delle Camere configura un’ipotesi eccezionale, non fosse altro per la ragione per cui il
prolungamento della durata delle Camere comporta la (grave) conseguenza di sottrarre i parlamentari
al giudizio degli elettori, recando con sé un vulnus al principio di responsabilità politica e, per il suo
tramite, allo stesso principio democratico.
L’art. 60, 2° comma, Cost., circoscrive questa possibilità all’eventualità che ricorra “un caso di
guerra”, prescrivendo che la decisione sulla proroga venga adottata con legge.
Come ogni altro organo collegiale, anche la Camera ed il Senato richiedono di essere convocati per
esercitare le rispettive funzioni. Nel nostro ordinamento costituzionale il potere di convocazione
viene attribuito al Presidente di ciascuna Camera, anche qualora l’iniziativa della convocazione
venga ad essere assunta da un soggetto diverso. A questo riguardo si è soliti distinguere tre forme di
convocazione delle Camere:

61
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• La convocazione ordinaria è quella cui comunemente si ricorre. Può essere disposta dal
Presidente alla fine della seduta, attraverso la comunicazione dell’ordine del giorno della
seduta successiva. Ove la Camera sia alla vigilia di un periodo di sospensione dei propri lavori
(c.d. periodo di aggiornamento), come ad esempio a ridosso delle ferie o durante le crisi di
governo, la convocazione può avvenire anche con la delibera di aggiornamento, con fissazione
della seduta al termine dell’intervallo di sospensione;
• La convocazione di diritto avviene per le Camere, ai sensi dell’art. 62, “il primo giorno non
festivo di febbraio e di ottobre” (1° comma);
• La convocazione in via straordinaria, come sancito dall’art. 62, può avvenire “per iniziativa
del suo Presidente [di ciascuna Camera] o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei
suoi componenti” (2° comma). Deve trattarsi di motivi legati a questioni improvvise e di
particolare rilevanza, tali da non poter far attendere la normale ripresa dei lavori.
Un principio di carattere generale, in linea col carattere perfetto del nostro bicameralismo, è quello
posto dall’ultimo comma dell’art. 62 Cost., secondo cui, quando “si riunisce in via straordinaria
una Camera è convocata di diritto anche l’altra”.

È la stessa Costituzione a fissare i requisiti generali di validità delle riunioni e delle deliberazioni
delle Camere, prescrivendo all’art. 64 che le “deliberazioni di ciascuna Camera non sono valide se
non è presente la maggioranza dei loro componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti
salvo che la Costituzione non preveda una maggioranza speciale”.
• Il primo requisito attiene al c.d. quorum strutturale e individua il numero minimo di deputati
o senatori sufficiente a radicare la valida costituzione della seduta: ciò che normalmente viene
definito come numero legale;
• Il secondo sostanzia il c.d. quorum funzionale, che individua il numero di senatori o deputati
in grado di dar luogo alla maggioranza sufficiente a far ritenere approvata una deliberazione
delle Camere.
Esso fa ordinariamente riferimento alla c.d. maggioranza semplice, che è pari alla metà più uno dei
membri di ciascuna Camera presenti in aula. Ad essa si contrappone la c.d. maggioranza qualificata
che, nelle ipotesi espressamente previste dalla Costituzione, richiede il concorso di metà più uno dei
componenti di ciascuna Camera (c.d. maggioranza assoluta) o anche di un numero maggiore di
deputati o senatori.
I regolamenti di Camera e Senato accolgono il principio secondo cui l’esistenza del numero legale
è sempre presunta all’inizio di ogni seduta. Per procedere alla sua verifica è necessario, di regola,
che ne facciano espressa richiesta un certo numero di parlamentari (20 deputati o 12 senatori).
Questo, ovviamente, laddove non si tratti di sedute destinate a concludersi con votazioni di tipo
formale o qualificate (come in caso di scrutinio segreto o per appello nominale), il cui esito, indicando
esattamente il numero di favorevoli, contrari e astenuti, determina una forma di accertamento
automatico del numero legale. L’esistenza del numero legale è prescritta dalla Costituzione come
condizione di validità delle deliberazioni, per cui essa non costituisce condizione di validità (né può
esserne richiesta la verifica) delle sedute non destinate a concludersi con un voto.
Per quanto concerne il quorum funzionale o deliberativo, va rilevata una significativa divaricazione:
o Alla Camera il regolamento non considera gli astenuti tra i presenti;
o Al Senato il regolamento considera presenti gli astenuti (astensione vale come voto contrario),
Sempre dall’art. 64 (ma 2° comma) si ritrae il principio della generale pubblicità dell’attività
parlamentare, rispetto al quale la possibilità per cui “ciascuna Camera e il Parlamento a Camere
riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta” costituisce un’eccezione alla regola.
Per il Parlamento la regola della trasparenza e conoscibilità dell’esercizio della sua funzione
rappresenta una sorta di cifra caratteristica dell’organo. Ed allora è facile comprendere perché
l’attività delle Camere è soggetta ad un regime di pubblicità assai più pronunciato di quello relativo
all’operato degli altri organi costituzionali. La pubblicità può esplicarsi tramite:

62
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

o Resoconti (stenografici o sommari) delle sedute dell’Assemblea, in cui si riportano gli


interventi che hanno animato il dibattito, le deliberazioni assunte e l’andamento complessivo.
o Il verbale riporta semplicemente gli atti e le deliberazioni adottati;
o Sito internet: permette comodamente l’accesso agli atti parlamentari (www.parlamento.it);
o Ripresa e trasmissione televisiva delle sedute più rilevanti politicamente;

Per quanto riguarda le modalità di voto, la Costituzione appare sul punto pressoché silente, ove si
eccettui il riferimento allo scrutinio per appello nominale per la votazione di mozioni di sfiducia e di
fiducia, contenuto nell’art. 94, 2° comma. La disciplina è rimessa ai regolamenti parlamentari.
Si suole distinguere fra votazioni formali o qualificate e votazioni informali.
• Le votazioni formali consentono la verifica automatica del numero legale: fra esse vanno
computate le votazioni nominali, per appello nominale e con procedimento elettronico;
• Fra le votazioni informali vanno annoverate le votazioni per alzata di mano, per divisione,
per alzata e seduta.
Ma la distinzione più importante è tra votazioni a scrutinio palese ed a scrutinio segreto:
• Le votazioni a scrutinio palese, rendendo manifesta l’imputazione soggettiva del voto, sono
espressive del principio di responsabilità politica del parlamentare nei confronti
(peculiarmente) dell’elettorato. Sono principalmente quelle per alzata di mano, alzata e
seduta, divisione, nominali, e per appello nominale;
• Le votazioni a scrutinio segreto, escludendo la conoscenza di quell’imputazione, paiono
assicurare il maggior presidio possibile al principio di libertà. Sono principalmente quelle fatte
attraverso schede, deposizione di palline colorate o procedimento elettronico.
Fino alla modifica dei regolamenti di fine anni ‘80, le votazioni a scrutinio segreto costituivano la
regola per le decisioni assunte dalle Camere; oggi, invece la situazione s’è radicalmente capovolta,
giacché gli artt. 49 e 113 RS prevedono che le Camere votino normalmente a scrutinio palese, salvo
i casi in cui le stesse norme regolamentari impongano o consentano il voto segreto.
Il ricorso al voto segreto, è dai regolamenti parlamentari, reso obbligatorio nel caso di elezioni e di
votazioni sulle persone; mentre nelle ipotesi di approvazione di leggi che incidono sui diritti di libertà,
sui diritti di famiglia e, infine, sui diritti della persona, come pure di proposte di modifica al
regolamento, il voto segreto può essere richiesto da un prescritto quorum di membri della Camera
(20 deputati) o del Senato (15 senatori).
Ambo i regolamenti statuiscono il divieto di voto segreto per l’approvazione di leggi finanziarie, di
bilancio; per le leggi c.d. collegate alla manovra di bilancio e per qualsiasi deliberazione che abbia
conseguenze di ordine finanziario.
Nelle Commissioni il voto è sempre palese, salvo che non si tratti di votazioni sulle persone, per le
quali è richiesto lo scrutinio segreto.
In questi anni si è verificata una prassi abusiva, cui danno luogo i parlamentari che, nel corso di una
votazione con procedimento elettronico, votano non soltanto per sé, ma anche per i colleghi assenti
vicini di posto, i quali abbiano ad essi preventivamente rilasciato la propria scheda magnetica
personale. Tali parlamentari plurivotanti, sono nel gergo chiamati senatori o deputati “pianisti”.

La funzione legislativa
Nello stabilire che la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere, l’art. 70
Cost., da un lato, conferma in maniera evidente il carattere bicamerale perfetto del nostro sistema
parlamentare e, dall’altro, costituisce norma di imputazione ordinaria della funzione legislativa
all’organo parlamentare.
Sia il legislatore statale che quello regionale sono poi posti su di un piede di assoluta parità in ordine
alle limitazioni cui risultano soggetti nell’esercizio della funzione legislativa, dovendo entrambi
svolgerla “nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali” (art. 117).

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

A ciò si aggiunga l’ulteriore considerazione del peso sempre più crescente della normativa
comunitaria che, se direttamente applicabile, sostituisce la legislazione nazionale, anche ai fini del
rispetto delle riserve di legge previste in Costituzione, precludendo al legislatore nazionale anche la
possibilità di un successivo reintervento nella disciplina della materia.
Quella legislativa si configura come funzione eminente e tipica fra quelle attribuite al Parlamento.
Tale funzione oggi non appare più monopolista, da parte delle Camere, bensì oligopolista.

La funzione di indirizzo e controllo


Accanto alla funzione legislativa, nel nostro ordinamento le Camere sono titolari di:
• Funzioni di indirizzo: attività del Parlamento che consiste nel formulare scelte con cui si
individuano i fini che lo Stato intende perseguire in un determinato momento storico
attraverso l’attività amministrativa. Si estrinseca attraverso atti politici;
• Funzioni di controllo nei confronti del Governo che le Camere possono esercitare per far
valere la responsabilità politica del Governo verso di loro.
In realtà l’attività di indirizzo e controllo parlamentare sull’azione dell’Esecutivo discende
dall’esistenza del rapporto di fiducia. Quest’ultimo, legando il Governo alle Camere, importa altresì
l’attribuzione a queste ultime degli strumenti per la sua gestione in concreto.

La funzione di indirizzo e controllo: le leggi


Con la formula “leggi meramente formali” si sono volute identificare quelle situazioni in cui alla
forma legge non corrisponde una sostanza normativa, rispondendo lo strumento legislativo ad
esigenze funzionali diverse da quella di “porre norme”. Casi emblematici sono costituiti da:
• Legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali (art. 80): sono soggetti ad
autorizzazione i trattati:
o Di natura politica (di alleanza, di non aggressione, di garanzia, ecc);
o Di regolamento giudiziario, cioè relativi ai modi di risoluzione delle controversie
nazionali, che importano:
§ Variazioni al territorio italiano
§ Oneri alle finanze
§ Modificazioni di leggi
Tale pratica garantisce il principio di pubblicità, ulteriormente valorizzato con l’obbligo di
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale anche dei trattati conclusi in forma semplificata (cioè
senza autorizzazione Parlamentare e senza ratifica ad opera del Capo dello Stato).
Il principio di inemendabilità sancisce che l’autorizzazione alla ratifica dei trattati esclude
la possibilità di modificarli, il che induce a ritenere che la scelta delle Camere si risolverebbe
in una sorta di “prendere o lasciare”.
L’autorizzazione alla ratifica consente che si proceda al perfezionamento dell’atto, ma non è
sufficiente acché il trattato divenga operativo nell’ordinamento interno, richiedendosi a tal
fine uno specifico atto di recepimento (legislativo) che contiene il c.d. ordine di esecuzione.
Questo rinvia al contenuto del trattato e lo immette nell’ordinamento nazionale facendolo
divenire il contenuto prescrittivo della legge stessa (c.d. adattamento speciale).
Le Camere possono inserire già in sede di autorizzazione la legge di esecuzione. Ciò è
possibile solo qualora si tratti di accordi internazionali suscettibili di immediata trasposizione
nell’ordinamento interno (c.d. trattati self executing). Nel caso in cui vi sia necessità di una
disciplina specifica per l’immissione di tale prescrizione nell’ordinamento, l’autorizzazione
alla ratifica e l’esecuzione saranno collocati in atti distinti (c.d. adattamento ordinario).
Per le leggi di esecuzione vi è riserva di assemblea e divieto di sottoporle a referendum.
• Leggi di bilancio (art. 81): il bilancio dello Stato è un atto contabile destinato a rappresentare
annualmente il quadro delle entrate e delle uscite che lo Stato prevede di incassare e spendere
nel corso dell’anno finanziario.

64
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Si tratta di un bilancio di previsione che viene redatto in termini di competenza (avendo


riguardo al fatto che nel corso dell’anno si prevede che maturi il titolo giuridico in base al
quale lo Stato potrà acquisire risorse ed erogarle) e in termini di cassa (con riferimento agli
importi che lo Stato prevede effettivamente di incassare o spendere, ma il cui titolo giuridico
potrebbe essere maturato anche nell’anno precedente).
L’art. 81, 3° comma, Cost., prima della modifica costituzionale, escludeva l’introduzione con
legge di bilancio di “nuovi tributi e nuove spese”. In ragione di ciò quest’ultima è stata
qualificata come legge meramente formale. A seguito della legge costituzionale 1/2012 è stato
introdotto il vincolo di bilancio, imposto dall’Unione europea a tutti i Paesi membri firmatari
del fiscal compact. Successivamente, il principio del pareggio di bilancio è stato attuato dalla
l. 243/2012. Ogni anno, le Camere approvano con legge il bilancio e il rendiconto
consuntivo presentati dal Governo entro il 30 giugno successivo all’anno di riferimento del
bilancio. Questo è sottoposto al c.d. giudizio di parificazione effettuato dalla Corte dei Conti.
L’appartenenza all’Unione europea e all’Unione monetaria comporta dei vincoli. Il Trattato
CE prevede che i bilanci statali siano sottoposti, due volte l’anno, ad una procedura di esame,
volta ad evitare una situazione di disavanzo eccessivo, che si determina qualora:
o Il deficit di bilancio superi il 3% del Pil;
o Il debito pubblico superi la soglia del 60% del Pil.
La legge di bilancio è apparsa del tutto assimilabile alla legge di approvazione del rendiconto
consuntivo, il quale costituisce una sorta di documento riepilogativo della gestione del
bilancio di previsione, sottoposto al c.d. giudizio di parificazione effettuato dalla Corte dei
Conti.
Laddove si verifichi una condizione di disavanzo eccessivo, la Commissione europea è
chiamata ad informarne il Consiglio europeo, il quale può formulare delle raccomandazioni
allo Stato che, ove non raccolte, possono comportare prima la pubblicazione delle stesse
raccomandazioni, poi l’intimazione ad adottare le misure necessarie al rientro dal disavanzo
e, infine, in caso di perdurante inadempienza, una serie di sanzioni, anche pecuniarie. Inoltre
i singoli Stati hanno sottoscritto il c.d. patto di stabilità che li impegna “a rispettare
l’obiettivo di un saldo di bilancio a medio termine prossimo al pareggio o positivo ed ad
adottare le misure correttive di bilancio che ritengono necessarie”. Tuttavia, si è ammessa la
possibilità di un superamento del limite del 3% del Pil per l’ammontare del deficit di bilancio,
purché sia uno sforamento transitorio.
A livello comunitario è stato introdotto il c.d. semestre europeo, con il quale si è provveduto
al coordinamento ex ante delle politiche economiche e di bilancio degli Stati membri.
L’approvazione del bilancio deve avvenir entro l’anno (art. 81). Laddove ciò non avvenga, è
previst xo il ricorso al c.d. esercizio provvisorio, il quale non può essere concesso se non per
legge e per periodi non superiori complessivamente a 4 mesi (art. 81).
Documento di Economia e finanza (DEF): deve essere presentato annualmente dal Governo
alle Camere entro il 10 aprile, ed espone il quadro della programmazione economico-
finanziaria su base almeno triennale e contiene due schemi:
o Il Programma di stabilità (PS): contiene le informazioni e gli elementi richiesti dai
regolamenti dell’Unione europea per l’attuazione del patto di stabilità e di crescita,
con specifico riferimento agli obiettivi di riduzione del debito pubblico;
o Il Programma nazionale di riforma (PNR) contiene le indicazioni previste dal diritto
dell’Unione europea necessarie a verificare lo stato di avanzamento delle riforme
avviate, nonché le principali riforme da attuare in vista del conseguimento degli
obiettivi di crescita economica e di rafforzamento della competitività.
Il DEF è inviato anche alla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza
pubblica (legge n. 42/2009).

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il disegno di legge di stabilità viene presentato entro il 15 ottobre. La legge di stabilità dispone
annualmente il quadro di riferimento finanziario per il periodo compreso nel bilancio
pluriennale.
La Nota di aggiornamento del DEF viene presentata entro il 20 settembre. Essa consente di
aggiornare le previsioni economiche e di finanza pubblica in relazione alla maggiore stabilità
e affidabilità delle informazioni disponibili sull’andamento del quadro macroeconomico. Essa
permette, inoltre, di adeguare e correggere gli obiettivi programmativi anche alla luce delle
eventuali raccomandazioni provenienti dal Consiglio dell’Unione europea.
La riforma del 2012 ha fatto emergere l’obbligo del pareggio di bilancio: lo Stato è tenuto
ad assicurare “l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle
fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”. Ne deriva che “l’indebitamento
economico è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e al
verificarsi di eventi eccezionali”. La legge costituzionale ha introdotto inoltre
l’armonizzazione dei bilanci pubblici ed ha attribuito alle Camere la “funzione di controllo
sulla finanza pubblica con particolare riferimento all’equilibrio tra entrate e spese nonché
alla qualità e all’efficacia della spesa delle pubbliche amministrazioni”.
• Deliberazione dello Stato di guerra (art. 78): tale deliberazione costituisce un atto politico
bicamerale, per il quale non è necessaria l’emanazione di una legge formale con cui viene
decisa l’entrata in guerra del nostro Paese. La deliberazione ha efficacia immediata per
l’ordinamento interno, in quanto determina l’entrata in vigore della legislazione eccezionale
prevista per il tempo di guerra. Secondo quanto sancito dall’art. 78, infatti, le Camere
deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari. È dubbio se possa
ricondursi entro gli schemi della delega legislativa.

La funzione di indirizzo e controllo: gli strumenti forgiati dal diritto parlamentare


Gli istituti che risultano ordinati alla funzione di indirizzo e controllo sono: interrogazioni,
interpellanze, mozioni, risoluzioni, ordini del giorno, inchieste e indagini conoscitive.
a) L’interrogazione consiste in una “domanda semplice”, cioè chiara, diretta, rivolta per
iscritto ad un Ministro o al Presidente del Consiglio ad opera di uno o più parlamentari, per
avere notizie circa la conoscenza del Governo di un determinato fatto, riguardo la posizione
assunta o da assumere ad opera del Governo stesso. La risposta all’interrogazione può essere
scritta od orale, può avvenire in Commissione invece che in Assemblea, può essere immediata
o differita con indicazione di un termine e, infine, può anche mancare (e in quest’ultimo caso
il Governo dovrà darne specifica motivazione). Alla risposta segue una replica
dell’interrogante, che potrà dichiararsi soddisfatto o meno. I regolamenti di Camera e Senato
prevedono una particolare forma di interrogazione a risposta immediata con ripresa televisiva
diretta e con un particolare regime di pubblicità (c.d. question time): le interrogazioni,
presentate entro le ore 12 del giorno precedente la seduta, sono ammesse in numero limitato
e per il loro svolgimento sono previsti tempi ridottissimi che non possono essere superati;
b) L’interpellanza si differenzia dall’interrogazione essenzialmente per la sua rilevanza politica,
sostanziandosi in una domanda anche in questo caso in forma scritta, posta al Governo
riguardo “i motivi e gli intendimenti della sua condotta in questioni che riguardano la sua
politica” o “di particolare rilievo e di carattere generale”. Il suo scopo è quello di costringere
il Governo ad esporre la propria posizione e il proprio indirizzo in merito all’ oggetto
dell’interpellanza. Essa viene illustrata dal presentatore che ne spiega la motivazione, è
discussa in Assemblea e laddove il Governo non intenda rispondere o semplicemente voglia
differire la risposta, l’interpellante può comunque ottenere che la data di discussione sia quella
da lui richiesta. Alla Camera l’interpellante non soddisfatto può presentare una mozione sul
medesimo argomento e, quindi, ottenere una discussione e un voto da parte dell’Assemblea.
Esistono le interpellanze con procedimento abbreviato e le interpellanze urgenti, le quali
sono presentate da un Presidente di gruppo a nome del gruppo stesso.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Sia le interrogazioni che le interpellanze sono sottoposte ad un vaglio di ammissibilità da parte dei
Presidenti di ciascuna Camera.
c) La mozione è un atto scritto che non si presenta come atto individuale, in quanto deve essere
sottoscritto da un quorum minimo di deputati (10) o senatori (8) e deve suscitare una
discussione e un voto dell’assemblea. La mozione (salvo che nel caso della mozione di
fiducia che è presentata al termine della discussione sulle comunicazioni del nuovo governo)
è destinata a concludersi con una presa di posizione dell’organo parlamentare. Essa consta di:
a. Una premessa motivata, illustrativa dell’argomento su cui verte;
b. Un dispositivo, con il quale si invita il Governo ad assumere un certo atteggiamento.
Una volta approvata (ovvero accettata dal Governo), la mozione determina un vincolo
(politico) di attuazione a carico dell’Esecutivo, che però ove ritenga di non poterla adempiere
può ricorrere allo strumento della questione di fiducia. Sull’attuazione delle mozioni da parte
del Governo vigilano le commissioni parlamentari competenti per materia, le quali possono
richiedere al Governo stesso di riferire circa lo stato di attuazione delle mozioni.
o Mozione di fiducia: le Camere accordano la fiducia al Governo;
o Mozione di sfiducia: il Parlamento revoca la fiducia;
o Questione di fiducia: posta dal Governo su una legge, qualificandola come
fondamentale alla propria azione politica e facendo dipendere dalla sua approvazione
la propria permanenza in carica.
d) Risoluzione: conclusione di un dibattito votata in aula o in Commissione. È uno strumento di
indirizzo diretto a manifestare orientamenti e a definire indirizzi. La Commissione ha
l’obbligo di invitare un rappresentante del Governo alla discussione. La risoluzione può essere
presentata anche in assemblea, ma non in modo autonomo, bensì al termine di un dibattito
introdotto da una mozione o dalle comunicazioni del Governo.
e) Ordine del giorno: designa sia il documento che indica l’elenco delle questioni sottoposte
all’esame di un organo collegiale parlamentare, sia lo strumento idoneo a rivelare la volontà
di quel medesimo organo (in Commissione come in Assemblea). Si tratta di un atto scritto,
proposto da ciascun parlamentare, suscettibile di piegarsi agli utilizzi più diversi. In questo
caso è teso ad esprimere una direttiva politica al Governo, intervenendo su di un aspetto o
argomento accessorio rispetto a quello in discussione. Non ha valenza autonoma, venendosi
a inserire in un procedimento già diversamente avviato. Il Governo esprime il proprio parere
sugli ordini del giorno, dichiarando di accoglierli o meno oppure di accoglierli solo come
raccomandazione. L’ordine del giorno, approvato dall’Assemblea o dalla Commissione,
ovvero accettato dal Governo, vincola quest’ultimo a darvi seguito, secondo un grado di
intensità che discende immediatamente dalla formula utilizzata. Anche sull’approvazione
degli ordini del giorno il Governo può porre la questione di fiducia.
f) L’inchiesta parlamentare: strumento di controllo dell’attività del Governo. È disposta da
ciascuna Camera al fine di acquisire conoscenza su una materia di pubblico interesse. In tal
caso viene istituita una Commissione di inchiesta formata con criteri proporzionalistici, che
riflettano cioè i rapporti numerici tra partiti. Possono essere:
a. Inchieste politiche (o di controllo) ad un accertamento funzionale a verificare e far
valere la responsabilità politica del Governo. Sono le più diffuse;
b. Inchieste legislative, ordinate allo scopo di reperire informazioni e dati necessari
all’adozione di appositi provvedimenti legislativi o alla verifica dell’impatto concreto
(o dello stato di attuazione) di leggi già in vigore.
Trovano il loro puntuale fondamento costituzionale nell’art. 82 Cost. La Commissione
d’Inchiesta è un autonomo potere dello Stato. Ciascun gruppo parlamentare ha un
rappresentante in Assemblea, mentre i gruppi maggiori ne hanno più di uno. Ciascuna Camera
può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. La prassi si è orientata a ricorrere a
commissioni bicamerali di inchiesta, composte in egual numero da deputati e senatori, di

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

regola istituite sulla base di una previa legge. Si può dire che quella bicamerale sia divenuta,
con il tempo, la forma ordinaria dell’inchiesta parlamentare.
L’atto istitutivo della Commissione d’inchiesta, sia esso una legge o una semplice delibera,
definisce gli aspetti fondamentali dell’inchiesta medesima; resta tuttavia fermo il potere di
ciascuna Commissione di adottare un proprio regolamento interno ed elaborare il proprio
programma di attività.
Per quanto riguarda la definizione dei poteri e i rapporti con l’autorità giudiziaria della
Commissione di inchiesta, vige il principio del parallelismo: la Commissione d’inchiesta
procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità
giudiziaria. La Commissione, tuttavia, non è un organo giudicante: ha solo poteri inquisitori.
In tal modo l’inquisito gode della stessa tutela goduta davanti all’autorità giudiziaria.
La Commissione di inchiesta può avvalersi anche di procedure informali.
Quanto al problema dei rapporti fra inchieste parlamentari e attività giudiziaria, nel caso
si trovino ad interessarsi delle stesse vicende, la Corte costituzionale ha chiarito che, nello
spirito di doverosa collaborazione che deve animarli, la Commissione parlamentare di
inchiesta può legittimamente opporre il diniego all’invio all’autorità giudiziaria della
documentazione relativa agli accertamenti svolti o disposti direttamente da essa, oltre che alle
discussioni che hanno avuto luogo nelle sedute, facendo leva sul c.d. segreto funzionale. Al
di fuori di tale ipotesi, ovvero per documentazione diversamente acquisita dalla Commissione,
l’obbligo di collaborazione impone a quest’ultima di trasmettere quanto richiesto dall’autorità
giudiziaria. I lavori della Commissione di inchiesta terminano con una o più relazioni (in caso
di relazioni di minoranza) all’assemblea, che è chiamata a discuterne e ad assumere le
determinazioni del caso;
g) Indagini conoscitive: possono essere disposte da ciascuna Commissione parlamentare nelle
materie di propria competenza, accordandosi con Presidente di Camera o Senato per acquisire
notizie, informazioni e documenti utili all’attività della Camera di rispettiva appartenenza. È
aperta alla partecipazione di chiunque sia in grado di fornire elementi utili. I convocatori sono
liberi di aderire o meno all’invito della Commissione;
h) Pareri parlamentari: espressi su atti di competenza del Governo, come nel caso di proposte
di nomina di alti dirigenti e di adozione di decreti legislativi (o regolamenti in delegificazione)
per i quali la legge di delega (o di autorizzazione) preveda l’acquisizione del parere delle
competenti commissioni parlamentari. Anche in tali ipotesi si può parlare di esercizio del
potere parlamentare di controllo sul Governo.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo V
Il Governo e la Pubblica Amministrazione
Linee evolutive del sistema di Governo in Italia
Il Governo è il titolare del potere Esecutivo. Ciò sta a sottolineare la subordinazione del Governo
al Parlamento ed alle sue leggi (secondo il principio di legalità), e ad esaltare il ruolo delle Camere.
La nascita dell’istituzione Governo intesa in senso moderno si ha soltanto tra la fine del XVII e
l’inizio del XVIII secolo in Inghilterra, con la nascita del c.d. gabinetto inglese, il quale vede
progressivamente affermarsi al suo interno la figura del Primo Ministro, quale trait d’union tra i
membri della compagine governativa e la corona.
In Gran Bretagna il gabinetto, pur rimanendo ancora di nomina regia, tende sempre più ad
autonomizzarsi dalla Corona.
Questo segna il passaggio, nella storia dello stato moderno, dalla monarchia assoluta, in cui tutte le
funzioni di governo sono concentrate nelle mani del sovrano, alla monarchia costituzionale, e quindi
alla monarchia parlamentare in cui le funzioni statali vengono invece ad essere articolate in una
pluralità di organi istituzionali affiancati al Re.
Si ha un processo di democratizzazione delle istituzioni conseguente al progressivo allargamento
del suffragio elettorale, che diventa universale in tutte le odierne democrazie rappresentative.
Anche in Italia, con la promulgazione, nel 1848, dello Statuto Albertino, si avvia, sul modello inglese,
l’esperienza della monarchia costituzionale, che stenta tuttavia a trasformarsi compiutamente in una
compiuta monarchia parlamentare, dove “il re regna ma non governa”, dato che il Governo si
sorreggeva sul duplice rapporto fiduciario non solo con la camera elettiva, ma anche con la Corona.
Nel periodo statuario si registrava ancora una forte presenza della Corona nel potere esecutivo,
tale da venir configurato come un vero e proprio limite allo sviluppo delle istituzioni italiane.
Ciò nonostante, la nostra forma di governo, sul modello di quella inglese, ha compiuto una
significativa evoluzione in epoca statuaria, nel corso della quale l’esigenza di rafforzare il nuovo
“governo costituzionale” sia rispetto alle Camere sia rispetto alla Corona venne perseguita tramite
l’adozione di tre noti decreti:
• Il decreto d’Azeglio del 1850, che affermava il principio di collegialità;
• Il decreto Ricasoli del 1867, che valorizzava il ruolo del Presidente del Consiglio;
• Il decreto Zanardelli del 1901, che riprendeva il decreto Ricasoli.
L’introduzione del sistema elettorale proporzionale nel 1919, inoltre, determinò un consolidamento
della posizione costituzionale dei partiti. Si affermò un sistema pluripartitico che favorì la
formazione di governi di coalizione, ove la nomina del Presidente del Consiglio vedeva ancora un
margine di scelta da parte del re certamente non irrilevante. Gli stessi partiti, poi, reclamarono un
preciso ruolo nella determinazione del programma di governo e nella indicazione dei Ministri, fino
al punto che questi ultimi vennero considerati rappresentanti dei partiti di cui erano espressione.
I forti problemi di instabilità governativa che ne conseguono, che danno origine a quella c.d. “crisi
di governabilità” protrattasi sino ai giorni nostri, forniscono l’immagine di un Presidente del
Consiglio cui veniva ormai riconosciuta essenzialmente la funzione di trovare un punto di mediazione
fra le diverse istanze dei partiti della coalizione.
Il ruolo del Presidente del Consiglio muta radicalmente durante il regime fascista. Si assiste al deciso
superamento del principio della collegialità con la c.d. legge Rocco, che all’art. 1 stabiliva che il
governo (ancora denominato “governo del Re”) fosse composto dal Primo Ministro segretario di
Stato e dai Ministri segretari di Stato, senza far riferimento all’organo Consiglio dei Ministri.
Il Primo Ministro, inoltre, era anche “Capo del Governo” ed unico titolare e responsabile
dell’indirizzo politico generale.
Il nucleo di rottura rispetto al precedente assetto costituzionale era rappresentato dall’abolizione
del raccordo fiduciario fra Governo e Parlamento, e dal riconoscimento in capo al Primo Ministro
di un potere di indirizzo politico sull’attività delle Camere.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il “patto di Salerno” della primavera del 1944 apre una “fase costituente”, che culminerà
nell’elezione dell’Assemblea costituente e nella deliberazione della “nuova Costituzione dello
Stato”. È proprio dalle scelte dei padri costituenti che è discesa l’attuale disciplina costituzionale
relativa al Governo della Repubblica.
In seno all’Assemblea si trovarono contrapposti sostanzialmente due orientamenti:
1) Quello dell’ala sinistra (PCI e PSI), che vedeva nel principio di collegialità il fondamentale
criterio organizzativo dell’azione di per salvaguardare l’unitarietà dell’indirizzo politico;
2) Quello dall’ala destra (DC), sostenitori del principio monocratico, per i quali la
responsabilità della politica del governo andava riferita al solo Presidente del Consiglio.
Si optò per una soluzione di compromesso, che tuttora si riflette sugli art. 92 e 95 Cost.: vengono
indicati i tre organi che costituiscono tradizionalmente l’organo complesso governo (Presidente del
Consiglio, Ministri e Consiglio dei Ministri) e ne viene sancita la responsabilità in ragione delle
rispettive funzioni, individuate solo con riferimento al Presidente del Consiglio.
L’art 95, 3° comma, Cost., inoltre affida alla legge l’ordinamento della Presidenza del Consiglio, la
determinazione del numero e delle attribuzioni dei Ministeri e la loro organizzazione.
I governi dell’età repubblicana si sono connotati quali governi di coalizione.
La tendenza consolidatasi nella realtà politica italiana alla frammentazione partitica, d’altra parte,
non poteva lasciare alternative anche quando l’introduzione del sistema elettorale prevalentemente
maggioritario, che avrebbe segnato il passaggio del parlamentarismo consensuale al
parlamentarismo maggioritario, ha favorito la “polarizzazione” delle diverse forze politiche su
due schieramenti alternativi.
Grazie alla “centralizzazione” del governo italiano intorno alla figura del Presidente del Consiglio
si è rafforzata la sua leadership rispetto alle componenti della coalizione; e questo per via della sua
“investitura popolare.
Il processo in atto di “riterritorializzazione” del potere politico finisce per assegnare proprio al
Presidente del Consiglio, per la posizione di primazia conquistatasi all’interno del gabinetto, il
delicato compito di promuovere la necessaria collaborazione tra i vari livelli di Governo, ossia con le
istituzioni europee da un lato e con il sistema delle autonomie dall’altro.

Il procedimento di formazione del Governo


Il complesso iter formativo del Governo consta di quattro fasi:
• Consultazioni (fase preparatoria): sono svolte dal Presidente della Repubblica e consistono
in una serie di incontri con personalità istituzionali e politiche che possano fornirgli elementi
utili diretti a verificare la sussistenza di una maggioranza parlamentare e gli orientamenti da
questa espressi, su cui poi individuare il personaggio più idoneo a formare il Governo.
• Incarico (fase preparatoria): se al termine delle Consultazioni il Presidente della Repubblica
non ritiene di dover acquisire ulteriori informazioni (nel qual caso può conferire un mandato
esplorativo ad uno dei Presidenti delle Camere o un preincarico al futuro Presidente del
Consiglio), egli procede al conferimento dell’incarico in forma orale, con due decreti di
nomina separati e successivi del Presidente del Consiglio e dei Ministri. L’incarico è accettato
con Riserva, che può essere sciolta dal Presidente del Consiglio in senso negativo (rifiuto) o
in senso positivo (definendo un programma di governo e una compagine ministeriale);
• Nomina (disciplinata dalla Costituzione: art. 92, 2° comma): sciolta positivamente la riserva,
si perviene all’emanazione contestuale di tre decreti del Presidente della Repubblica, tutti
controfirmati dal nuovo Presidente del Consiglio:
o Decreto di accettazione delle dimissioni del precedente Governo;
o Decreto di nomina del Presidente del Consiglio;
o Decreto di nomina dei Ministri.
Tuttavia, il potere di proposta dei nomi dei Ministri, sebbene riconosciuto dall’art. 92, è stato
sottoposto a continui condizionamenti da parte dei partiti e ai veti posti dal Capo dello Stato.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Giuramento (disciplinato dalla Costituzione: art. 93): avviene nelle mani del Presidente della
Repubblica, in forma separata, del Presidente del Consiglio e poi dei Ministri (assume anche
il significato di accettazione della nomina). Con esso il nuovo governo entra in carica,
avvicendandosi con il Governo uscente.
Sulle prime due fasi ha profondamente inciso il passaggio dal parlamentarismo consensuale a
quello maggioritario, che ha realizzato una bipolarizzazione del sistema politico, favorendo il
collegamento delle liste in due coalizioni politiche contrapposte, le quali devono anche inserire nella
scheda elettorale il simbolo e l’indicazione del nome del candidato alla guida del nuovo Governo. Ne
consegue che, essendo già precostitute le coalizioni, le fasi preparatorie assumono importanza minore
che in passato. La stessa nomina del Presidente del Consiglio risulta già precostituita nella persona
del leader della coalizione elettorale vincitrice. Le fasi preparatorie sono quindi svuotate di contenuto.

Le vicende del rapporto fiduciario


L’ultima fase del procedimento di formazione del Governo è la fiducia. La fiducia è un atto di
gradimento politico votato per appello nominale e maggioranza dei presenti in Parlamento (art. 64,
co. 3), con cui si approva il programma politico del Governo. La fiducia costituisce il momento
cruciale dell’avvicendarsi tra vecchio e nuovo Governo
La fiducia tra Governo e Parlamento è presupposto indefettibile per lo svolgimento della funzione di
indirizzo politico, oltre che per la stessa permanenza in carica del Governo.
La relazione fiduciaria è disciplinata dall’art. 94, il quale vuole procedimentalizzare:
• La mozione di fiducia (atto instaurativo della relazione fiduciaria);
• La mozione di sfiducia (atto interruttivo della relazione fiduciaria);
• La questione di fiducia (volta a verificare l’andamento della relazione fiduciaria).
Il governo che ha ricevuto la mozione di fiducia si avvicenda con il Governo dimissionario, rimasto
in carica per assicurare, secondo il principio di continuità degli organi costituzionali, il c.d. disbrigo
degli affari correnti, ossia lo svolgimento delle sole funzioni di ordinaria amministrazione ed
urgenti. Tuttavia, in attesa della concessione della fiducia parlamentare, si ritiene che non entri nella
pienezza dei suoi poteri, pur trovandosi in una posizione sostanzialmente diversa da quella del
Governo dimissionario, il cui rapporto fiduciario con le Camere si è ormai interrotto, non potendo
porre in essere atti immediatamente attuativi del programma di Governo non ancora approvato
dalle Camere e che quindi impegnino un indirizzo politico ancora non condiviso.
Entro 10 giorni dal giuramento il Governo si presenta alle due Camere per esporre il programma ed
ottenere la fiducia, che ciascuna Camera accorda o respinge (nel caso della mancata fiducia iniziale,
anche di una sola delle due Camere, il Governo è obbligato a dimettersi) con una mozione:
• Motivata: indica le motivazioni per cui il Parlamento condivide l’indirizzo politico;
• Votata per appello nominale e pertanto a scrutinio palese: per contrastare anche il fenomeno
dei c.d. franchi tiratori (parlamentari della maggioranza che non si conformano alle
indicazioni di voto della propria coalizione), con pubblica assunzione di responsabilità da
parte di ciascun parlamentare per la posizione assunta nei confronti del Governo;
• Votata a maggioranza semplice dei presenti, come di norma richiesto per tutte le
deliberazioni assembleari, ai sensi dell’art. 64, 3° comma, Cost., il che ha consentito anche a
governi di minoranza, privi cioè dell’appoggio della maggioranza assoluta dei componenti
delle assemblee, di ottenere la fiducia soltanto grazie all’astensione (alla Camera) o alla
mancata partecipazione al voto (al Senato) di una parte dei parlamentari.
Il Presidente del Consiglio avvia le dichiarazioni programmatiche previa deliberazione del
Consiglio dei Ministri, di fronte ad una sola delle due Camere (all’altra invia copia degli atti).
La sola ipotesi di atto interruttivo del rapporto fiduciario contemplata in Costituzione è rappresentata
dalla mozione di sfiducia. L’art. 94, 2° e 5° comma, Cost. prevede che questa:
• Deve essere motivata;
• Deve essere votata per appello nominale;

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Deve avere un quorum di presentatori pari ad “almeno 1/10 dei componenti della Camera”;
• Non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione”, in modo
tale che la discussione non immediata assicuri ai parlamentari un adeguato lasso temporale
di riflessione, che ponga in questo modo il Governo al riparo da improvvisi colpi di mano.
A garanzia della stabilità dell’Esecutivo si muove anche la disposizione contenuta nell’art. 94, 4°
comma, Cost., secondo cui il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su di una proposta del
Governo non comporta l’obbligo delle sue dimissioni. Tuttavia, il fatto che il Governo non sia
costituzionalmente obbligato a dimettersi non esclude che possa ugualmente farlo. Il Governo infatti,
oltre a poter rassegnare sempre spontaneamente le proprie dimissioni, ha a disposizione uno
strumento che può avere ripercussioni dirette e immediate sul rapporto: la c.d. questione di fiducia.
• Non è contemplata in Costituzione ma è regolata dall’art. 116 del Regolamento della Camera,
e successivamente da quello del Senato;
• È un’iniziativa assunta dal Presidente del Consiglio previo assenso del Consiglio dei Ministri,
diretta a subordinare la permanenza in carica del Governo all’approvazione parlamentare di
deliberazioni assembleari (ad eccezione di quelle espressamente escluse dai regolamenti
parlamentari) ritenute dal Governo fondamentali per l’attuazione dell’indirizzo politico
concordato in sede di conferimento della fiducia parlamentare, ed in relazione alle quali mira
a ricompattare la maggioranza governativa, conseguendo tuttavia anche l’effetto indiretto,
non meno importante, di contrastare l’ostruzionismo della minoranza (c.d. fiducia tecnica).
• Si vota per appello nominale, non prima di 24 ore, ed è escluso il voto degli emendamenti
presentati al testo su cui il Governo ha posto la fiducia, i quali si intendono respinti all’esito
del voto favorevole della Camera sulla fiducia.

Vicende del Governo: il Governo resta in carica per tutta la durata della legislatura (5 anni), a meno
che non sopraggiungano crisi che ne determinano anticipatamente la caduta.
• Crisi di Governo:
o Parlamentari, in due casi:
§ Mancata concessione iniziale della fiducia anche da parte di una sola Camera;
§ Mozione di sfiducia (mai accaduto nella storia repubblicana);
§ Voto contrario alla questione di fiducia posta dal Governo.
o Extraparlamentari: non si ha voto delle Camere, in quanto sono dirette proprio ad
evitare la sanzione formale di un voto parlamentare di sfiducia. Le Camere sono
relegate in una posizione di spettatrici impotenti. Di qui l’iniziativa di
parlamentarizzare le crisi nate fuori dal Parlamento: il Governo dimissionario è
invitato a presentarsi dinanzi alle Camere per esporre le ragioni della crisi e consentire
un eventuale dibattito, al fine di far assumere ai Partiti le loro responsabilità anche di
fronte all’opinione pubblica. Possono essere determinate da:
§ Dimissioni spontanee del Governo;
§ Dimissioni spontanee del Presidente del Consiglio;
§ Morte o malattia del Presidente del Consiglio.
• Rimpasti governativi: sostituzione da parte del leader di uno o più ministri all’interno
dell’Esecutivo per motivi di carattere politico o personale, con conseguente modifica delle
responsabilità ministeriali nell’ambito della compagine governativa, senza tuttavia aprire la
crisi dell’intero Esecutivo. Il Presidente del Consiglio ha il solo obbligo di comunicare alle
Camere ogni mutamento relativo alla composizione del Governo.
• Mozione di sfiducia individuale al singolo Ministro: il Parlamento può votare una mozione
di sfiducia nei confronti di un singolo Ministro (ad es. perché si è reso responsabile di presunti
illeciti). Non è contemplata dalla Costituzione ma è regolata dal regolamento della Camera.
Non è utilizzabile dall’opposizione. È costituzionalmente legittima verso i ministri, ma non è
configurabile verso il sottosegretario o il vice ministro. Unico caso: Filippo Mancuso.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La composizione del Governo


La struttura del Governo è essenzialmente disciplinata da:
• La legge n. 400/1988;
• Dai decreti legislativi 30 luglio 1999, nn. 300 e 303;
• La legge 26 febbraio 2010, n. 26.
Con queste ultime diposizioni il numero totale dei componenti della compagine governativa, a
qualsiasi titolo (comprensivo, quindi, non solo dei Ministri con e senza portafoglio, ma anche dei
Vice Ministri e Sottosegretari di Stato) non può essere superiore a 65, e la composizione del Governo
deve essere coerente con il principio di pari opportunità tra donne e uomini (art. 51, 1° comma).
L’art. 92, 1° comma, Cost., definisce il Governo come un organo complesso, costituito da:
• Più organi individuali (il Presidente del Consiglio ed i singoli Ministri);
• Un organo collegiale (il Consiglio dei Ministri) composto di titolari degli organi monocratici.
Accanto a questi, che sono considerati gli organi governativi necessari, ve ne sono altri che possono
concorrere a completare la struttura governativa (organi governativi non necessari).

Gli organi governativi necessari


Le diverse soluzioni interpretative dell’art. 95 Cost. elaborate dalla dottrina individuano tre distinti
principi organizzativi e di ripartizione delle funzioni, che valorizzano alternativamente il ruolo
delle 3 componenti governative necessarie. Essi sono:
1) Il principio collegiale, teso a valorizzare il ruolo del Consiglio dei Ministri;
2) Il principio monocratico, diretto ad assicurare la preminenza del Presidente del Consiglio;
3) Il principio della competenza ministeriale, che esalta l’autonomia del singolo Ministro.
Tuttavia, il modello inveratosi a livello normativo con la legge n. 400/1988 individua una soluzione
intermedia, volta coniugare e rafforzare sia il principio collegiale sia quello monocratico,
attribuendo al Presidente del Consiglio la direzione della politica generale del Governo, ed al
Consiglio dei Ministri la sua determinazione.
• Consiglio dei Ministri: organo collegiale costituzionale composto da tutti i Ministri (che vi
partecipano in posizione paritaria, inclusi quelli senza portafoglio) e dal Presidente del
Consiglio che lo presiede; alle riunioni del Consiglio assiste il Sottosegretario di Stato alla
Presidenza del Consiglio che svolge funzioni di Segretario del Consiglio, e possono altresì
partecipare, senza diritto di voto, su invito del Presidente del Consiglio, d’intesa con il
Ministro competente, i vice ministri per riferire su questioni attinenti la materia loro delegata.
Costituisce il cuore del Governo della Repubblica, in quanto determina la politica generale
del Governo e l’indirizzo generale dell’azione amministrativa.
Incide anche sulla composizione del Governo, in quanto può:
o Attribuire ad uno o più Ministri delle funzioni di vicepresidente del Consiglio;
o Nominare Commissari straordinari del Governo;
o Essere sentito sulla delega di funzioni a Ministri senza portafoglio e sul conferimento
di incarichi speciali ad un Ministro, nonché sulla nomina di sottosegretari di Stato e
vice Ministri.
Ai sensi della legge n. 400/1988, il Consiglio dei Ministri si pronuncia in ordine a:
o Iniziativa del Presidente del Consiglio di porre la fiducia innanzi alle Camere;
o Disegni di legge e proposte di ritiro dei disegni di legge già presentati;
o Proposte di sollevare conflitti di attribuzione tra Stato, Regioni e Province;
o Linee di indirizzo in tema di politica internazionale e comunitaria;
o Atti concernenti i rapporti con le confessioni religiose;
o Rilascio dell’autorizzazione a disattendere il parere del Consiglio di Stato nei
confronti di un Ministro competente;
o Potere straordinario di annullamento degli atti amministrativi illegittimi delle p.a.;
o Nomine alle Presidenza di enti, istituti e aziende di carattere nazionale.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Presidente del Consiglio: dirige la politica generale del Governo, assumendone la


responsabilità, e mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e
coordinando l’attività dei Ministri (art. 95). È considerato come un primus inter pares.
La legge n. 400/1988 disciplina le sue principali attribuzioni, distinguendo tra
o Poteri di rappresentanza, che esercita a nome del Governo nei rapporti con gli altri
organi costituzionali): comunicazione alle Camere della composizione del Governo e
di ogni mutamento in essa intervenuto;
§ a) Richiesta alle Camere della fiducia o apposizione della questione di fiducia;
§ b) Richiesta al Presidente della Repubblica dell’autorizzazione a presentare un
disegno di legge o all’emanazione di un atto normativo del Governo;
§ c) Controfirma delle leggi e degli atti aventi valore di legge;
§ d) Presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa e
richiesta di trasferimento di sede nel corso dei procedimenti legislativi;
§ e) Rappresentanza processuale del Governo dinanzi alla Corte costituzionale.
o Poteri di promozione e coordinamento dell’attività dei Ministri (espressione di
competenze propriamente presidenziali): adozione di direttive politiche ed
amministrative rivolte ai Ministri in attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei
Ministri, oltre che di quelle connesse alla responsabilità presidenziale di direzione
della politica del governo:
§ a) Coordinamento e promozione dell’attività dei Ministri in ordine agli atti che
riguardano la politica generale del Governo;
§ b) Sospensione dell’adozione di atti da parte dei Ministri competenti in ordine
a questioni politiche e amministrative per, sottoporle al Consiglio dei Ministri;
§ c) Deferimento al Consiglio dei Ministri della decisione inerente questioni
sulle quali siano emerse valutazioni contrastanti tra le amministrazioni
pubbliche coinvolte; accordo con i Ministri interessati sulle pubbliche
dichiarazioni che essi intendano rendere qualora possano impegnare la politica
generale del Governo;
§ d) Adozione delle direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e
l’efficienza della pubblica amministrazione;
§ e) Istituzione di Comitati di Ministri, nonché di gruppi di studio e di lavoro
composti in modo da assicurare la presenza di tutte le componenti dicasteriali
interessate, ed eventualmente anche di esperti esterni.
o Poteri di direzione di organi collegiali: presiede il Consiglio dei Ministri, ed il
regolamento consiliare interno gli attribuisce tutti i poteri relativi al funzionamento
del Consiglio, primi fra tutti quelli di convocarne le riunioni, di fissarne l’ordine del
giorno, di dirigerne i lavori e di aprirne e chiuderne le riunioni; presiede altresì il
Consiglio di gabinetto, i Comitati di Ministri e quelli interministeriali, le conferenze
permanenti e la conferenza unificata per i rapporti con il sistema delle autonomie
territoriali; ha inoltre la vicepresidenza del Consiglio supremo di difesa, ed esercita i
relativi poteri d’intesa con il Presidente della Repubblica.
o Attribuzioni in materia di servizi di sicurezza e segreto di Stato che possono formare
oggetto di delega, purché non si tratti di funzioni attribuite in via esclusiva, soltanto in
favore di un Ministro senza portafoglio ovvero di un Sottosegretario di Stato (che
assume la denominazione di autorità delegata).
o Rivestono una particolare importanza anche i poteri del Presidente del Consiglio di
promozione e coordinamento dell’azione del Governo per quanto attiene i rapporti
con le istituzioni comunitarie e con il sistema delle autonomie territoriali.
L’art. 95, 1° comma, Cost., nell’attribuire al Presidente del Consiglio la direzione della
politica generale del governo, lo chiama poi a risponderne anzitutto nei confronti del
Parlamento. Si tratta della sua responsabilità politica per tutti gli atti del Governo.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Ministri. Svolgono una duplice funzione:


o Soggetti che, in quanto componenti del Consiglio, partecipano alla determinazione
dell’indirizzo politico del Governo. Rientrano qui tutte le competenze che i Ministri
esercitano partecipando al Consiglio dei Ministri (art. 92). Per l’esercizio di tali
funzioni si assumono una responsabilità collegiale;
o Organo di vertice di un particolare settore dell’amministrazione. In questo senso si
assumono una responsabilità individuale.
I Ministri possono essere titolari di un Ministero (il cui numero è determinato per legge,
unitamente alle attribuzioni ed all’organizzazione, ai sensi dell’art. 95, 3° comma, Cost.)
ovvero di specifiche funzioni politico-amministrative (i c.d. Ministri senza portafoglio, il
cui numero all’interno del Governo non è in alcun modo limitato).
I Ministri incorrono in vari tipi di responsabilità:
o Politica;
o Civile e amministrativa: atti compiuti in violazione dei diritti (art. 28);
o Penale: l’art. 96 affida all’autorità giurisdizionale ordinaria, previa autorizzazione
parlamentare, la perseguibilità dei reati ministeriali (reati commessi dal Presidente
del Consiglio e dai Ministri (anche se cessati dalla carica) nell’esercizio delle funzioni.
La competenza a richiedere l’autorizzazione a procedere è attribuita ad un apposito
collegio giudiziario istituito presso il Tribunale del capoluogo del distretto della Corte
d’appello competente per territorio (c.d. Tribunale dei Ministri).
È stato inoltre ritenuto incostituzionale il lodo Alfano (sent. 262/2009), che prevedeva
la sospensione di tutti i processi penali per le quattro cariche più alte dello Stato.

Gli organi governativi non necessari


A completare ed arricchire l’articolazione dell’organo complesso Governo, affiancando gli organi
costituzionalmente necessari, possono contribuire una pluralità di organi governativi non necessari,
i quali possono essere suddivisi in:
• Organi collegiali (Consiglio di Gabinetto, Comitati di Ministri e Comitati interministeriali);
• Organi individuali (Vice Presidenti del Consiglio, Ministri senza portafoglio, Sottosegretari
di Stato, Viceministri e Commissari straordinari).
La legge n. 400/1988 prevede tali organi governativi non necessari:
• Il Consiglio di Gabinetto è stato istituto per ricondurre ad un collegio più ristretto, rispetto a
quello o dell’intero Consiglio dei Ministri, il compito della determinazione e della direzione
dell’indirizzo politico governativo (salve ed impregiudicate le competenze decisionali e
deliberative proprie del Consiglio dei Ministri).
È un organo individuale, che può essere istituito per coadiuvare il Presidente del Consiglio
nell’esercizio delle sue funzioni, composto da alcuni Ministri designati, sentito il Consiglio
dei Ministri, dal Presidente stesso, sulla base della loro rilevante importanza rivestita in al
dicastero cui sono preposti e al partito politico che rappresentano.
• I Comitati interministeriali sono organi governativi collegiali istituti per legge per svolgere
funzioni non solo di indirizzo, ma anche di natura normativa e/o provvedimentale a rilevanza
esterna, al fine di meglio coordinare l’attività del Governo in un determinato settore di
interesse comune a più Ministri, che ne concorrono alla composizione sotto la presidenza del
Presidente del Consiglio o di un Ministro da lui delegato.
• I Comitati di Ministri sono invece istituiti con decreto del Presidente del Consiglio con
compiti sostanzialmente istruttori, ossia quello di esaminare in via preliminare questioni di
comune competenza tra i Ministri che ne fanno parte, nonché quello di esprimere parere sulle
direttive dell’attività del Governo e su problemi di rilevante importanza da sottoporre al
Consiglio dei Ministri, eventualmente anche avvalendosi di esperti esterni alla pubblica
amministrazione.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri è stato formalmente previsto soltanto con l’art.
8, legge n. 400/1988, che conferisce al Presidente del Consiglio il potere di proporre al
Consiglio dei Ministri l’attribuzione ad uno o più Ministri delle funzioni di Vicepresidente
del Consiglio dei Ministri, cui, da un punto di vista giuridico, spettano soltanto funzioni di
supplenza del Presidente in caso di assenza o impedimento temporaneo, equiparandolo per
il resto agli altri Ministri. La figura riveste un ruolo specificamente politico.
• I Ministri senza portafoglio possono essere nominati (secondo le ordinarie modalità di
nomina dei Ministri) all’atto della Costituzione del Governo, senza tuttavia essere preposti ad
alcun dicastero, ma al solo fine di svolgere le funzioni loro delegate dal Presidente del
Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio dei Ministri e con provvedimento da pubblicare
sulla Gazzetta Ufficiale; per l’espletamento di tali funzioni si avvalgono di apposite strutture
della Presidenza, nonché di uffici di diretta collaborazione. Nel caso in cui questi non venga
nominato, le relative competenze si intendono attribuite al Presidente del Consiglio.
• I Sottosegretari di Stato sono disciplinati dall’art. 10 della legge n. 400/1988, che riconosce
loro, sia pure in virtù di una delega, rilevanti funzioni di Governo, dal momento che
coadiuvano il Ministro (o il Presidente del Consiglio) ed esercitano i compiti che questi
conferisce loro con decreto ministeriale pubblicato nella Gazzetta Ufficiale; non fanno parte,
pertanto, del Consiglio dei Ministri (ad eccezione del Sottosegretario di Stato alla Presidenza
del Consiglio, che vi partecipa soltanto con funzioni di segretario verbalizzante), ma possono
intervenire, in qualità di rappresentanti del Governo, ai lavori parlamentari, proprio al fine di
realizzare un migliore raccordo tra l’Esecutivo e le Camere, attenendosi in ogni caso alle
direttive impartite loro dal ministro. Devono essere nominati con decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio. Devono prestare giuramento.
• I Vice Ministri sono quei Sottosegretari di Stato (in numero non superiore a 10) cui possono
essere conferite, da parte del Ministro competente, deleghe di particolare ampiezza, relative
ad “aree o progetti di competenza di una o più strutture dipartimentali ovvero di più direzioni
generali” nell’ambito del dicastero, le quali devono essere approvate dal Consiglio dei
Ministri su proposta del Presidente del Consiglio. Possono partecipare alle sedute del
Consiglio dei Ministri senza diritto di voto. Sono stati istituiti per controbilanciare la riduzione
dei Ministri con portafoglio.
• I Commissari straordinari del Governo sono nominati con decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del
Consiglio dei Ministri, al fine di “realizzare specifici obiettivi determinati in relazione a
programmi o indirizzi deliberati dal Parlamento o dal Consiglio dei Ministri o per particolari
e temporanee esigenze di coordinamento operativo tra amministrazioni statali”, ferme
restando le attribuzioni dei Ministeri interessati.
Esiste il possibile conflitto tra interessi pubblici e privati in cui possono incorrere proprio i titolari
di cariche di Governo, allorché fanno loro capo interessi di natura privata suscettibili di pregiudicare
il corretto adempimento delle pubbliche funzioni di cui assumono nel contempo la titolarità e che
hanno l’obbligo di perseguire nel più totale “disinteresse privato”.
La necessità di disciplinare il conflitto di interessi in ambito pubblicistico è stata avvertita soltanto
nel 1994, nel momento in cui la carica di Presidente del Consiglio è stata assunta dal proprietario di
un importante gruppo imprenditoriale italiano, ed ha condotto al varo della legge, n. 215/2004 (c.d.
legge Frattini). Questa legge statuisce che i titolari di cariche di Governo (Presidente del Consiglio,
Ministri, Vice Ministri, Sottosegretari di Stato e Commissari straordinari del Governo) nell’esercizio
delle loro funzioni “si dedicano esclusivamente alla cura degli interessi pubblici e si astengono dal
porre in essere atti e dal partecipare a deliberazioni in situazioni di conflitto di interessi”.
La situazione di conflitto di interessi sussiste allorché il titolare di cariche di Governo partecipa
all’adozione di un atto, ovvero alla sua omissione nel caso di atti dovuti, ovvero quando dall’atto o
dall’omissione ne possano derivare conseguenze sul patrimonio proprio, dei familiari più stretti,
ovvero delle imprese da essi controllate, con danno per l’interesse pubblico.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Le funzioni di Governo: di indirizzo politico; amministrative; normative (rinvio)


Le funzioni governative sono reciprocamente implicate tra loro. Il Governo si è progressivamente
distaccato dal suo ruolo tradizionalmente esecutivo, di comitato esecutivo delle scelte politiche
generali compiute dal Parlamento, per trasformarsi in organo politicamente direttivo assumendo
sempre più il ruolo di comitato direttivo della maggioranza parlamentare. Le funzioni sono:
• Funzioni di indirizzo politico: l’art. 95 individua il centro di imputazione dell’esercizio della
funzione di indirizzo politico nel Governo, inteso come organo complesso, attribuendo al
Consiglio dei Ministri la competenza a determinare i contenuti della politica generale (che il
Presidente del Consiglio dei Ministri dirige), nonché l’indirizzo generale dell’azione
amministrativa, e chiamandolo altresì a deliberare “su ogni questione relativa all’indirizzo
politico fissato dal rapporto fiduciario con le Camere”. L’indirizzo politico viene così ad
essere condiviso da Governo e Parlamento, anche se è il Governo che riveste il ruolo di organo
direttivo delle scelte politiche fondamentali. L’indirizzo politico consta di tre fasi:
o Fase teleologica (o di predisposizione dei fini): le Camere instaurano la relazione
fiduciaria e detengono gli strumenti per la sua gestione in concreto. Il rapporto
fiduciario è un assenso all’indirizzo politico proposto dal Governo;
o Fase strumentale (o di apprestamento dei mezzi): gli organi che hanno la contitolarità
dell’indirizzo politico collaborano alla sua gestione in concreto. Emerge la centralità
del Governo nella realizzazione delle politiche pubbliche, avvalendosi di strumenti
giuridici espressivi dell’indirizzo politico (c.d. atti di indirizzo politico). Essi sono:
§ Politica economica e finanziaria, le cui scelte sono adottate con la manovra
di bilancio (allocazione e distribuzione delle risorse);
§ Politica estera, sia per quel che concerne i rapporti internazionali (il Governo
deve negoziare e stipulare i Trattati internazionali), sia per quel che riguarda i
rapporti con le istituzioni comunitarie (detenuti in via esclusiva dal Governo);
§ Politica militare e di difesa, di cui il Governo è il titolare e risponde
dell’esercizio dei relativi poteri dinanzi alle Camere;
§ Politica dell’informazione per la sicurezza della Repubblica: la legge n.
124/2007 ne affida l’alta direzione, la responsabilità generale e il
coordinamento al Presidente del Consiglio dei Ministri, coadiuvato a tal fine
dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), istituito presso
la Presidenza del Consiglio dei Ministri in sostituzione del comitato esecutivo
per i servizi di informazione e di sicurezza (CESIS).
§ Strutture di intelligence che rispondono al Presidente del Consiglio:
• AISE (Agenzia informazioni e sicurezza esterna);
• AISI (Agenzia informazioni e sicurezza interna).
o Fase effettuale (realizzazione dei fini): spetta all’organizzazione centrale e periferica
dello Stato. In questa fase i Ministri, oltre a determinare l’indirizzo politico del
Governo, devono anche dargli attuazione. È di appannaggio esclusivo del Governo
che, attraverso i Ministri, ha la direzione dell’amministrazione statale.
• Funzioni amministrative: tali funzioni facenti capo al Governo si sono progressivamente
erose oltre che, per effetto della valorizzazione del ruolo della dirigenza pubblica nella
gestione dell’attività amministrativa, anche per la concomitante devoluzione delle funzioni
amministrative a beneficio delle autonomie territoriali, nonché per il dilagare delle c.d. nuove
amministrazioni, corpi amministrativi separati dall’amministrazione ministeriale e talora
anche svincolati dai vertici politici. Alcune funzioni in capo al Governo sono:
o Nomina di alcuni componenti del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti;
o Annullamento in via straordinaria degli atti amministrativi illegittimi;
o Potere sostitutivo nei confronti delle Regioni e degli enti locali;
o Competenze in materia di gestione del bilancio statale.
• Funzioni normative.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La centralità del Governo nei rapporti con le istituzioni comunitarie


Anche le relazioni comunitarie sono saldamente nelle mani dei Governi degli Stati membri, i cui
rappresentanti compongono il Consiglio dell’Unione europea (il c.d. Consiglio dei Ministri),
l’organo che nell’ambito delle istituzioni comunitarie detiene la parte più consistente del potere
decisionale, soprattutto nel procedimento di formazione del diritto comunitario.
Il Parlamento non è mai stato sistematicamente coinvolto nella formazione e nell’attuazione della
normativa comunitaria, mentre è stato piuttosto il Governo a porsi come unico interlocutore nei
confronti dell’Europa, lasciando assai raramente le scelte alla discussione in sede parlamentare
nazionale, salvo che per l’approvazione della “legge La Pergola” 9 marzo 1989.
Nella c.d. fase ascendente (quella volta alla formazione del diritto comunitario) la posizione italiana
si è sempre formata senza seguire un iter definito legislativamente, ma in seno alle amministrazioni
competenti in relazione al progetto di atto comunitario e grazie al lavoro di funzionari specializzati
che si occupavano di interagire con la Rappresentanza d’Italia presso l’Unione europea
(ITALRAP), organo del Ministero degli Esteri, che poi provvedeva a presentare le “intenzioni” statali
in seno al Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER). La responsabilità delle posizioni
portate in sede europea è attribuibile in prima istanza al Ministro competente per materia, nonché,
naturalmente, al Governo nel suo complesso.
La legge n. 400/1988 prima e il d.lgs. n. 303/1999 poi hanno provveduto, infatti, ad individuare nel
Presidente del Consiglio dei Ministri il responsabile della promozione, del coordinamento
dell’azione di Governo e della pubblica amministrazione e della comunicazione e informazione del
Parlamento di tutto quanto riguardi la partecipazione dell’Italia all’Unione europea e lo sviluppo del
processo di integrazione europea.
Per svolgere tale compito in maniera efficace e considerata la propria responsabilità politica per
l’attuazione degli impegni assunti in sede comunitaria, il Presidente del Consiglio ha di norma
delegato un Ministro senza portafoglio, il Ministro per le politiche comunitarie, che si avvale del
Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie per coordinare, nella fase di
predisposizione della normativa comunitaria, le amministrazioni dello Stato competenti per settore,
le Regioni, gli operatori privati e le parti sociali al fine della “definizione della posizione italiana da
sostenere, d’intesa con il Ministero degli affari esteri, in sede di Unione europea”.
La legge “La Pergola” prevedeva la necessità di presentare annualmente alle Camere una relazione
sulla partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea. La relazione è divenuta però,
nella prassi, una relazione sull’operato del Governo in sede di Consiglio dell’Unione europea, un
mero resoconto di quanto già avvenuto che, in verità, lascia ben poco margine ad un reale contributo
parlamentare nella definizione delle scelte future.
La fase ascendente prevede informative obbligatorie, audizioni varie e un organo istituzionalizzato
cui riferirsi per concordare la posizione italiana e precostituire un consenso intorno alla normativa
approvanda in sede comunitaria.
A tal fine opera, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Comitato interministeriale per
gli affari europei (CIAE), che costituisce la sede istituzionale ove “concordare le linee politiche del
Governo nel processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti
dell’Unione europea”. Il CIAE, presieduto dal Presidente del Consiglio o dal Ministro per le politiche
comunitarie e composto dal Ministro per gli affari esteri, il Ministro per gli affari regionali e gli altri
Ministri aventi competenza nelle materie inserite all’ordine del giorno, è organo a composizione
variabile, che dovrebbe porsi nel tempo come unico e istituzionale luogo di dialogo sulla formazione
della posizione italiana. Il CIAE è affiancato da un Comitato tecnico permanente, istituito presso il
dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie, per la “preparazione delle riunioni”
del CIAE. Del comitato tecnico fanno parte direttori generali o alti funzionari con qualificata
specializzazione in materia, designati da ognuna delle amministrazioni del Governo. Quando si
trattano questioni che interessano anche le Regioni e le Province autonome, il Comitato tecnico,
integrato dagli assessori regionali competenti per le materie in trattazione o loro delegati, è convocato
e presieduto dal Ministro per le politiche comunitarie.
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo VI
Il Presidente della Repubblica
I presupposti della disciplina costituzionale del Presidente della Repubblica
La disciplina costituzionale del Presidente della Repubblica dipende da due scelte, la prima delle
quali esterna all’Assemblea costituente, la seconda, invece, effettuata da questa.
a) La scelta istituzionale a favore della Repubblica, espressa dal popolo italiano in occasione del
referendum del 2 giugno 1946, è quella che ha condizionato dall’esterno l’Assemblea
costituente. Qualunque fosse stata la decisione, si sarebbe dovuto comunque prevedere un
organo elettivo e con un mandato temporalmente definito (non vitalizio).
L’esito del referendum istituzionale non precisava se dovesse trattarsi di un organo
monocratico o collegiale. Si scelse un organo monocratico: l’Assemblea costituente “come
suo primo atto” avrebbe dovuto eleggere il Capo provvisorio dello Stato. L’Assemblea
avrebbe poi scelto Enrico de Nicola, fino all’elezione di Einaudi.
Al “capo” alla Repubblica doveva essere assegnato un carattere elettivo e temporalmente
delimitato, per essere la Repubblica caratterizzata dalla rappresentatività popolare;
b) La scelta della Costituente è quella espressa il 5 settembre 1946 dal voto a favore del noto
ordine del giorno proposto da Tomaso Perassi, in base al quale ci si orientò, “per l’adozione
del sistema parlamentare”.
Corollari di tale scelta furono, da un lato, l’esclusione della diretta elettività della carica di
Presidente della Repubblica e, dall’altro, la separazione del Capo dello Stato dall’esecutivo.

L’elezione del Presidente della Repubblica


Il Presidente della Repubblica italiana è eletto da uno speciale collegio, previsto dall’art. 83 Cost.:
si tratta del Parlamento in seduta comune, integrato con rappresentanti delle Regioni. In particolare,
ogni Regione ha il potere di designare tre delegati, ad eccezione della Valle d’Aosta (un delegato).
Ciascun consiglio elegge due rappresentanti, designati dai partiti di maggioranza nella Regione,
ed uno, espressione dei partiti dell’opposizione.
In base all’art. 85 Cost., il Parlamento in seduta comune deve essere convocato dal Presidente della
Camera dei deputati 30 giorni prima che scada il mandato. Nel caso in cui le Camere siano sciolte o
manchino meno di tre mesi alla loro cessazione, l’elezione si deve svolgere entro 15 giorni dalla
riunione delle Camere nuove. Nel frattempo, sono prorogati i poteri del Presidente in carica. In caso
di impedimento permanente, di morte o di dimissioni del Capo dello Stato, il Presidente della
Camera deve effettuare la convocazione nel più breve termine di 15 giorni.
Il Parlamento in seduta comune integrato si riunisce nella sede della Camera dei deputati ed è
presieduto dal Presidente della Camera. Durante i suoi lavori, viene applicato il regolamento della
Camera. Non può esserci dibattito, ma debbono svolgersi soltanto le votazioni, il computo dei voti,
la proclamazione dei risultati.
L’elezione del Presidente della Repubblica si svolge a scrutinio segreto. Viene eletto chi ottenga
il voto dei 2/3 dei componenti dell’Assemblea. Se al terzo scrutinio nessuno abbia ricevuto tale
somma di consensi, nelle votazioni successive è sufficiente la maggioranza assoluta.
È avvenuto solo in due occasioni che il Presidente della Repubblica sia stato eletto al primo
scrutinio (Francesco Cossiga, nel 1985, e Carlo Azeglio Ciampi, nel 1999).
L’alto quorum richiesto nelle prime tre votazioni testimonia la volontà di selezionare un candidato
in grado di acquisire il consenso di un’ampia maggioranza, che superi quella governativa,
coinvolgendo settori dell’opposizione.
Mentre in passato, quando i sistemi elettorali di Camera e Senato erano fondati su un principio
accentuatamente proporzionale, anche la più ridotta maggioranza assoluta, prevista dalla quarta
votazione in poi, si poteva considerare una soglia idonea a garantire la ricerca di una
maggioranza trasversale, dopo le leggi elettorali approvate nel 1993 e nel 2005, in vario modo
ispirate ad un principio maggioritario, sarebbe necessario un ripensamento.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

I requisiti di eleggibilità
I requisiti personali richiesti per l’elezione alla carica di Presedente della Repubblica all’art. 84, 1°
comma, Cost., sono:
• Il possesso della cittadinanza italiana;
• L’età superiore ai 50 anni;
• Il godimento dei diritti politici e civili.
È pressoché pacifica l’opinione secondo la quale tali condizioni debbono essere possedute al
momento dell’elezione, e non all’inizio del procedimento elettorale.
Per quanto riguarda il requisito dell’età, questa ipotesi è rimasta sinora teorica, giacché non è
avvenuto che sia stato eletto un Presidente con meno di 57 anni (era il caso di Francesco Cossiga).
Inoltre, salvo che nel caso di Carlo Azeglio Ciampi e di Sergio Mattarella, si è sempre trattato di
parlamentari in carica. Non è casuale che i prescelti sono sempre stati uomini con una (più o meno
breve) esperienza nelle istituzioni rappresentative alle spalle.
Tornando ai requisiti formali, va aggiunto che non esiste alcun limite alla rieleggibilità del Presidente
della Repubblica. La giustificazione della mancanza di un divieto di rielezione sta nella
considerazione che sia inopportuno lasciare inutilizzate le alte capacità che abbiano ricevuto il
collaudo delle prove già fornite durante l’esercizio del mandato.
Nell’esperienza costituzionale italiana, si è avuto un solo caso di rielezione del Presidente uscente:
Giorgio Napolitano, nel 2013. Egli, tuttavia, si dimise durante il secondo mandato.

Il giuramento
A norma dell’art. 91 Cost., “Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta
giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in
seduta comune”. È una previsione presente in ogni ordinamento costituzionale moderno.
Dopo la lettura della formula di giuramento (“Giuro di essere fedele alla Repubblica e di
osservarne fedelmente la Costituzione”), secondo una prassi consolidata, il Capo dello Stato legge
un messaggio nel quale si preannunciano le linee generali dello “stile” della nuova Presidenza, ma
che non può condizionare la portata del giuramento o da interferire con la politica governativa e
parlamentare. Il messaggio d’insediamento non è sottoposto a controfirma ministeriale.
Il giuramento viene pronunciato davanti alle Camere riunite e non di fronte al Parlamento in seduta
comune, che esaurisce la sua funzione con l’elezione del nuovo Presidente.
Al giuramento sono connessi alcuni rilevanti effetti giuridici:
o Costituisce l’atto con il quale è espressa pubblicamente la volontà di accettare la carica;
o Alla data del giuramento è legata la decorrenza del mandato. Di conseguenza, solo gli atti
compiuti a seguito del giuramento assumeranno validità e godranno dello speciale regime
giuridico connesso agli atti presidenziali;
o Per effetto del giuramento, si ritiene che il presidente decada automaticamente da tutte le
cariche ricoperte in precedenza, le quali sono assolutamente incompatibili (art. 84).

La durata del mandato


Il mandato del Presidente della Repubblica è di 7 anni a decorrere dal giorno del giuramento. Una
così lunga durata si giustifica con due ragioni:
o Esigenza di affrancare il mandato del Presidente della Repubblica da qualsiasi dipendenza dal
Parlamento che lo ha espresso (la Camera e il Senato, infatti sono elette per 5 anni, art. 60);
o Dare continuità, stabilità e permanenza all’esercizio delle funzioni presidenziali.
La durata della carica, oltre a poter essere ridotta da eventi naturali quali la morte o l’impedimento
permanente, ovvero dal verificarsi di circostanze come la perdita della cittadinanza, o del godimento
dei diritti politici e civili, può interrompersi per un atto volontario del Presidente: le dimissioni.
Le dimissioni sono considerate un atto personale del Presidente e, pertanto, non vengono assoggettate
alla controfirma ministeriale; l’atto di dimissioni viene ricevuto dal Segretario generale della
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Presidenza della Repubblica, che assiste alla sottoscrizione e ne dà comunicazione ai Presidenti delle
Camere e al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nell’esperienza costituzionale, si sono dati ben otto casi (su 11 Presidenze) di dimissione che
hanno anticipato la fine del mandato, ma con motivazioni sensibilmente diverse.
Il mandato del Capo dello Stato ha termine con lo scadere del settimo anno di Presidenza. Se,
nonostante l’anticipo di 30 giorni sulla scadenza del mandato, previsto dall’art. 84, 2° comma, Cost.
per le operazioni elettorali del Parlamento in seduta comune integrato, non si riuscisse a raggiungere
un accordo tra le forze politiche, si ritiene che siano prorogati i poteri del Presidente in carica. In tal
caso, tuttavia, i poteri del Presidente dovrebbero ritenersi alquanto ridimensionati, in quanto secondo
il principio generale che regola la prorogatio possono essere adottati solo gli atti di ordinaria
amministrazione. L’art. 85 Cost. prevede la prorogatio nella sola ipotesi in cui “le Camere sono
sciolte, o manca meno di 3 mesi alla loro cessazione” e che l’art. 86, 1° comma, prescrive che “le
funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate
dal Presidente del Senato”.
Alla scadenza del mandato, il Presidente della Repubblica entra di diritto a far parte del Senato, salvo
rinunzia. I motivi di questa previsione vanno rintracciati nella volontà di avvalersi del patrimonio di
esperienza di coloro che hanno ricoperto la più alta carica dello Stato, senza sottoporli ad elezione.
È possibile che l’ex Presidente si dimetta da senatore? Sì: tutti gli uffici sono rinunciabili.

Le incompatibilità
La Costituzione prevede all’art. 84, 2° comma, l’incompatibilità con qualsiasi altra carica. Anche
questa previsione è disposta a garanzia dell’indipendenza assoluta del Presidente della Repubblica
nell’adempimento delle sue funzioni.
Si ritiene che non possa esser mantenuta l’iscrizione ad un partito politico. La mancanza di una
disciplina organica sui conflitti d’interessi non consente di concludere diversamente in ordine a
questo principio.

La supplenza
In ogni caso in cui il Presidente non possa adempiere le sue funzioni, queste sono esercitate dal
Presidente del Senato (art. 86, 1° comma, Cost.). Tale esercizio di funzioni viene usualmente
denominato supplenza, ed è giustificato dall’esigenza di continuità di esercizio delle funzioni stesse.
La previsione, tuttavia, è alquanto evasiva: non precisa chi debba accertare l’impedimento
presidenziale né come questo debba essere accertato. Ora, mentre di fronte a fatti incontrovertibili
(come la morte o le dimissioni) non vi è dubbio circa l’avvio della supplenza, più problematica si
presenta l’ipotesi in cui l’impedimento debba essere accertato.
La soluzione adottata quando il Presidente Segni venne colto da un grave ictus nell’estate del 1964,
fu la seguente: il Segretario generale della Presidenza della Repubblica comunicò un bollettino
medico sottoscritto da tre clinici al Presidente del Consiglio ed ai Presidenti dei due rami del
Parlamento; il Presidente del Consiglio convocò il Consiglio dei Ministri. Si prese atto
dell’impossibilità per il Presidente di adempiere alle sue funzioni; tale accertamento fu comunicato
al Presidente del Senato, il quale convocò il Presidente del Consiglio ed il Presidente della Camera
per le opportune valutazioni. Il Collegio così formato ritenne unanimemente la sussistenza delle
condizioni previste dall’art. 86, pertanto il Presidente del Senato assunse le funzioni.
D’altro canto, va considerata la prassi della supplenza, in occasione dei viaggi all’estero del Capo
dello Stato: in questa ipotesi il Presidente adotta un decreto col quale dispone che il Presidente del
Senato svolga l’esercizio temporaneo delle funzioni presidenziali non inerenti allo svolgimento della
missione stessa, dalla partenza fino al rientro nel territorio nazionale. Tale decreto non costituisce un
atto d’investitura, giacché il supplente entra in carica automaticamente, al verificarsi
dell’impedimento, e non deve prestare giuramento. Vale anche per la supplenza il limite dell’ordinaria
amministrazione, nel senso che il Presidente del Senato non potrà adottare che atti improrogabili.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La responsabilità presidenziale
La responsabilità presidenziale è circoscritta ai due reati, per i quali il Presidente può essere messo in
stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta e giudicato dalla Corte
costituzionale in composizione integrata, secondo quanto prescrive l’art. 135, ult. comma, Cost. Si
tratta di due fattispecie criminose solo enunciate dal testo costituzionale e non determinate e
tipizzate. Tali reati sono:
o Alto tradimento: ogni comportamento doloso del Presidente che leda la personalità interna e
internazionale dello Stato e costituisce violazione del dovere di fedeltà alla Repubblica;
o Attentato alla Costituzione: ogni comportamento doloso diretto a sovvertire le istituzioni
costituzionali (colpo di stato) o a violare lo spirito e la lettera della Costituzione.
Fatte salve le due ipotesi limite di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, il Presidente
non è responsabile per gli atti adottati nell’esercizio delle sue funzioni, sia sotto il profilo politico, sia
sotto quello penale e civile. Infatti, l’art. 89 prevede che “nessun atto del Presidente della Repubblica
è valido se non controfirmato dai Ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”.
L’istituto della controfirma ministeriale (ovverosia della firma del Presidente del Consiglio e/o dei
Ministri apposta sugli atti presidenziali in calce alla sottoscrizione del Capo dello Stato) nasce molto
prima degli ordinamenti contemporanei; la controfirma era destinata, da un lato, ad assumere “il
significato di una certificazione o confessione che il Ministro ha personalmente collaborato con il
Capo dello Stato ed esercitato la propria influenza su di esso, quando il Capo dello Stato compiva
l’atto”, dall’altro ad imputare al Ministro controfirmante la responsabilità dell’atto di fronte al
Parlamento, in ossequio al principio riassunto nella nota espressione “The King cannot wrong”. In tal
modo, la controfirma consentiva di svolgere la duplice funzione di individuare un soggetto
responsabile degli atti del monarca, da un lato, e, dall’altro “realizzava lo strumento che consentiva
al Parlamento d’intervenire, attraverso l’influenza esercitata dal Ministro responsabile, nelle scelte
del Sovrano attinenti alla sfera del potere esecutivo”.
L’art. 89 Cost. prevede che nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non controfirmato
dai Ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità e richiede che per gli atti legislativi occorra
anche la controfirma del Presidente del Consiglio dei Ministri. In dottrina si è molto discusso
sull’espressione “Ministri proponenti”, ritenendosi da una parte che solo gli atti adottati su proposta
dei Ministri dovessero essere controfirmati, e dall’altra che tutti gli atti presidenziali debbano essere
controfirmati, indipendentemente da chi li abbia proposti: la soluzione adottata è la secoonda.
Il Capo dello Stato, di norma, viene informato preventivamente sui contenuti degli atti d’iniziativa
governativa: questa è l’occasione per svolgere eventuali osservazioni ed eventualmente, in casi limite,
per rifiutare la firma su un determinato atto.
Concludendo in relazione alla responsabilità del Presidente della Repubblica va osservato che, con
riferimento agli atti compiuti fuori dall’esercizio delle sue funzioni, ovvero prima dell’esercizio
del mandato, si ritiene che sussista pienamente sia la responsabilità civile sia quella penale.

L’assegno e la dotazione. Il Segretario generale della Presidenza della Repubblica


“L’assegno e la dotazione del Presidente sono determinati per legge” [art. 84, 3° comma]
o Assegno: remunerazione attribuita al Presidente per il soddisfacimento delle esigenze della
sua vita e della sua famiglia;
o Dotazione: beni immobili destinati alla Presidenza ed agli uffici del Presidente (il Palazzo del
Quirinale, a Roma, la tenuta di Castel Porziano, Villa Rosebery, a Napoli) oltre che alle risorse
finanziarie necessarie per le esigenze della Presidenza della Repubblica .
Con legge 9 agosto 1948, n. 1077, è stato istituito il Segretariato generale della Presidenza della
Repubblica, che comprende “tutti gli uffici ed i servizi necessari per l’espletamento delle funzioni
del Presidente della Repubblica e per l’amministrazione della dotazione”. Il Segretariato generale
gode di un’ampia autonomia regolamentare, amministrativa e contabile, paragonabile a quella
prevista per le Camere e per la Corte costituzionale, ma non perfettamente coincidente.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Per la Presidenza della Repubblica, le Camere e la Corte stessa, l’unico dato comune a tali organi
è l’autonomia contabile, ovverosia l’esonero del giudizio di conto di competenza della Corte dei
conti. Per quanto riguarda l’autonomia regolamentare, è controverso se possa ritenersi
equiparata a quella riconosciuta alle Camere o alla Corte costituzionale. Va ricordato che, per
quanto riguarda gli “uffici”, ai quali spettano “i compiti connessi all’esercizio delle funzioni del
Presidente della Repubblica”, la Corte costituzionale ha ritenuto che si fondino sulla Costituzione.
Piuttosto contrastata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione è stata la giurisdizione sui
ricorsi del personale dipendente (o autodichia); spesso si è affermato che tale giurisdizione spetti
al giudice amministrativo.
Discussa è anche la previsione di cui all’art. 3, legge n. 1077/1948, che impone un parere preventivo
del Consiglio dei Ministri, oltre alla controfirma da parte del Presidente stesso, nell’atto di nomina
del Segretario generale. Tuttavia, la prassi attuativa di tale previsione è andata svolgendosi nel senso
del rispetto della volontà del Presidente nella designazione e nomina del suo principale collaboratore.

Le attribuzioni del Presidente della Repubblica


Al Presidente della Repubblica sono conferite numerose attribuzioni. L’art. 87 dispone che “il
Presidente della Repubblica è il capo dello stato, e rappresenta l’unità nazionale”.
L’espressione Capo dello Stato evoca una sorta di superiorità gerarchica del Presidente nei riguardi
degli altri poteri dello Stato. Il costituzionalismo democratico ha operato nel senso di erodere i poteri
dei Capi di Stato, distribuendo le funzioni di direzione politica fra diversi organi. Nelle democrazie
parlamentari al Capo dello Stato è sottratta la direzione dell’esecutivo e vengono attribuite funzioni
enumerate, che possono tutte ricondursi nella funzione individuata dall’art. 87, 1° comma Cost.:
quella di rappresentante dell’unità nazionale.
Il Capo dello Stato si distingue dagli altri organi in quanto è ritenuto il simbolo vivente dello Stato
nella sua unitarietà, e solo per questo destinatario di particolari onori.
Gli atti del Presidente della Repubblica sono classificati in tre categorie:
a) Presidenziali in senso stretto;
b) Formalmente presidenziali e sostanzialmente complessi;
c) Formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi.
Questa tripartizione degli atti del Presidente della Repubblica sembra ora essere stata recepita dalla
Corte costituzionale in una pronuncia in tema di esercizio del potere di concessione della grazia e
quindi assume un valore istituzionale.
La tripartizione ora ricordata può considerarsi riduttiva di una realtà che può presentarsi assai più
complessa. È innegabile che tutti gli atti presidenziali siano frutto di una sostanziale condivisione
della volontà di volta in volta espressa nella forma del decreto del Presidente stesso.
Dunque le attribuzioni del Capo dello Stato si classificano con riferimento ai poteri cui si riferiscono.

Presidente della Repubblica e Parlamento


Nei confronti del Parlamento, il Presidente della Repubblica vanta vari poteri:
• Indire le elezioni alle Camere e di fissarne la prima riunione (art. 87, 3° comma, Cost.);
• Indire il referendum nei casi previsti dalla Costituzione, ed anche qui la concreta
individuazione della data spetta al Consiglio dei Ministri;
• Convocazione straordinaria delle Camere, ai sensi dell’art. 62, 2° comma, Cost;
• Sciogliere le Camere (art. 88, 1 comma): il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro
Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse;
• Promulgazione delle leggi (artt. 73 e 87, 5° comma, Cost.);
• Rinvio delle leggi alle Camere per una richiesta di riesame (ex art. 74, Cost.). Le leggi devono
essere promulgate (fase di integrazione dell’efficacia), entro un mese dalla loro approvazione,
salvo il caso in cui, a maggioranza assoluta, le Camere ne dichiarino l’urgenza e stabiliscano
un termine inferiore. Egli può chiedere una ulteriore deliberazione prima della promulgazione;

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Rinvio presidenziale: se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere


promulgata (art. 74, 2° comma). Il rinvio non può essere un rifiuto assoluto di promulgazione
della legge, salvo che non sia affetta di vizi di forma tali da renderla nulla o inesistente;
• Potere di messaggio alle Camere (art. 87, 2° comma). Il messaggio espone quello che sarà lo
stile della Presidenza e non è soggetto a controfirma. Ne è stato fatto uno scarso uso;
• Potere di esternazione: vi rientrano tutte le pubbliche manifestazioni del pensiero del Capo
dello Stato, in occasione di incontri con la stampa, interviste, visite al Quirinale ecc.;
• Nomina di 5 cittadini a senatori a vita, i quali abbiano illustrato la Patria per altissimi meriti
nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario (art. 59, 2° comma).
Vi sono due interpretazioni di questo articolo:
o Non possono sedere in Senato più di 5 senatori di nomina presidenziale;
o Ciascun presidente può nominare 5 senatori a vita.
Nella prassi più recente sono stati ricoperti solamente i seggi lasciati vacanti (massimo 5).

Presidente della Repubblica e Governo


Nei confronti del Governo, il Presidente della Repubblica vanta vari poteri:
• Nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questi, dei Ministri;
• Accettazione delle dimissioni del Governo;
• Autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge governativi delle Camere: essendo
imputata al Governo l’iniziativa legislativa, il Presidente può limitarsi a chiedere un riesame
del disegno di legge, ma non può porre un diniego assoluto di autorizzazione;
• Emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti (art. 87, 5° comma);
• Nomina dei funzionari dello Stato (art. 87, 7° comma): è un potere solo formalmente
presidenziale, il cui esercizio si svolge sulla base di scelte adottate in sede governativa;
• Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici e ratifica i trattati internazionali previa,
quando occorra, autorizzazione parlamentare (art. 80);
• Comando delle Forze Armate e del Consiglio supremo di difesa (art. 87, 9° comma): non
consiste in una vera e propria sovraordinazione gerarchica nei confronti dei corpi militari, ma
si tratta piuttosto di un’attribuzione simbolica. Il Consiglio deve riunirsi due volte l’anno oltre
a poter essere convocato tutte le volte che se ne ravvisi la necessità, dal Presidente della
Repubblica, di propria iniziativa o su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri;
• Dichiarazione dello stato di guerra deliberato dalle Camere (art. 87, 9° comma);
• Conferimento delle onorificenze della Repubblica, che non è più una prerogativa del Capo
dello Stato ma si svolge attraverso decreti solo formalmente presidenziali;
• Firma di alcuni atti, quali:
o Scioglimento anticipato di Consigli provinciali e comunali;
o Nomina dei relativi commissari;
o Concessione della Cittadinanza italiana;
o Decisioni di ricorsi straordinari di atti amministrativi illegittimi;
o Ricompense al valore e al merito civile e militare;
o Concessione di bandiere, stemmi, gonfaloni e insegne;

Presidente della Repubblica e potere giudiziario


Nei confronti del potere giudiziario, il Presidente della Repubblica vanta due poteri:
• Presiede il Consiglio Superiore della Magistratura (atti esenti da controfirma);
• Poteri clemenziali: fino al 1992, al Presidente spettava di emanare i decreti di amnistia e
indulto. Oggi sono concessi con legge approvata a maggioranza dei 2/3 di ciascuna Camera;
• Potere di grazia: condonazione (in tutto o in parte) di una pena, o sostituzione di una pena
con un’altra meno grave;
• Conversione della pena: conversione di una pena capitale in pena detentiva (istituto desueto).
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Presidente della Repubblica e Corte costituzionale


Tra i poteri presidenziali in senso stretto va fatto rientrare il potere di nomina di cinque dei quindici
giudici che compongono la Corte costituzionale, ex art. 135, 1° comma, Cost.
Il decreto di nomina è controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Tutti i giudici
costituzionali (non solo quelli di nomina presidenziale) giurano nelle mani del Capo dello Stato.

Presidente della Repubblica e sistema delle autonomie


Nei confronti delle autonomie, il Presidente della Repubblica vanta vari poteri:
• Dispone lo scioglimento del Consiglio regionale con decreto motivato (art. 26);
• Dispone la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto “atti contrarti alla
Costituzione” o “gravi violazioni di legge”, oltre che per ragioni di “sicurezza nazionale”.
Il decreto è adottato sentita una Commissione di deputati e senatori costituita, per le questioni
regionali, nei modi stabiliti con legge della Repubblica. L’iniziativa dell’atto spetta al Presidente del
Consiglio dei Ministri, previa delibera del Consiglio stesso. La ratio della previsione è da rinvenirsi
nella posizione di garanzia dell’unità nazionale del Capo dello Stato.
• Potere di scioglimento dei Consigli degli enti locali.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo VII
Principi in tema di Amministrazione
La nascita e l’affermazione di una amministrazione pubblica nello Stato liberale
La nascita della pubblica amministrazione intesa come apparato dello Stato dotato di una sua
autonomia ha origine nella crisi del sistema feudale e nell’ affermarsi del concetto di “nazione”.
La nascita della pubblica amministrazione come apparato dello Stato avviene intorno alla metà del
‘700, quando comincia a profilarsi la distinzione tra il giudicare e l’amministrare.
Con l’avvento dello Stato liberale tale modello si sviluppa ed assume la fisionomia che lo
contraddistingue tuttora. Il principio della divisione dei poteri sul quale lo Stato era plasmato mirava
a garantire la separazione e l’autonomia della funzione legislativa, giudiziaria ed esecutiva.
All’interno della funzione Esecutiva, nella quale l’amministrazione si trova accorpata con il Governo,
si inserisce la funzione dell’amministrazione, intesa come funzione di sola esecuzione della legge.
L’amministrazione si sviluppa così in un regime di netta separazione rispetto alla società e trova solo
nell’organo di vertice (il Ministro) un collegamento col resto della società.
Nel 1853, per forte spinta di Cavour, viene approvato il riordinamento della pubblica
amministrazione, con la quale si rafforza un’organizzazione per “Ministeri”. Il Ministro diviene cosi
capo dell’intero apparato amministrativo con un pieno potere di direzione e, al tempo stesso, con la
piena responsabilità (sua e del Governo) nei confronti del Parlamento.
Si affermò anche un’amministrazione locale con l’introduzione di un ordinamento comunale e
provinciale. La legge 20 marzo 1865 finì per meglio definire la suddivisione dello Stato in una serie
di livelli di amministrazione che dal centro investivano l’intero territorio nazionale.
• Nel Comune, il Sindaco veniva nominato tra i consiglieri comunali ed assumeva non solo la
carica di capo dell’amministrazione, bensì anche quella di ufficiale di governo;
• Nella Provincia assumeva un ruolo decisivo il prefetto, rappresentante del potere esecutivo il
quale aveva anche il compito di vigilare sull’andamento di tutte le pubbliche amministrazioni,
di sovrintendere alla sicurezza pubblica e di garantire l’aderenza della politica provinciale a
quella centrale.
Nel periodo giolittiano cominciano a manifestarsi i primi segnali di una dilatazione della sfera
d’azione dell’amministrazione pubblica. Fenomeno analogo si manifestò all’intorno degli stessi enti
locali. Alla tradizionale amministrazione chiamata a svolgere funzioni di ordine e sicurezza, doveva
aggiungersi un’attività più complessa per rispondere al bisogno di servizi e di strutture imposte dalla
nuova realtà economica. Cominciava ad affermarsi un’amministrazione indiretta, affiancata dalla
tradizionale amministrazione statale.
Con l’avvento del fascismo i caratteri di accentramento e gerarchia dell’amministrazione si
svilupparono particolarmente. Vi fu un ridimensionamento dei poteri degli enti locali, coerente con
l’impianto centralistico ed autoritario del regime; gli spazi di autogoverno di Comuni e Province
vennero completamente eliminati con l’abolizione dei loro organi elettivi.

L’amministrazione nella Costituzione: principio di legalità, imparzialità e buon andamento


L’avvento della Costituzione segna un mutamento radicale della funzione amministrativa.
Lo Stato abbandona la posizione di semplice garante dell’ordine sociale e guardiano delle attività
private, ed assume compiti di assistenza, protezione sociale ed integrazione economico-sociale. La
conseguenza è un’ampia dilatazione delle attività amministrative. Accanto a questo fenomeno,
tuttavia, si pone anche quello della moltiplicazione delle amministrazioni, quale conseguenza del
principio di autonomia e della sua realizzazione mediante l’attribuzione agli enti territoriali (Regioni,
Province, Comuni, Città metropolitane) di darsi un indirizzo politico amministrativo anche diverso
da quello dello Stato (art. 114 Cost.).
L’amministrazione perde quasi del tutto la funzione di mera esecuzione della legge, ma rappresenta
una struttura al servizio dell’intera comunità statale. A sua volta, il principio di autonomia implica

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

che altre pubbliche amministrazioni siano chiamate ad agire al servizio delle rispettive comunità che
rappresentano strutture autonome non più ricollegabili e subordinate allo Stato persona.
La Costituzione dedica alla pubblica amministrazione una disciplina scarna, al fine di non irrigidire
eccessivamente l’azione amministrativa. Le disposizioni esplicitamente rivolte alla pubblica
amministrazione sono contenute solamente negli artt. 97 e 98, ma ad essa fanno riferimento anche
altre disposizioni costituzionali: per avere un quadro completo di come la Costituzione disciplini
l’amministrazione non ci si deve limitare a leggere quei due soli articoli bensì occorre avere presente
l’intera Carta costituzionale.
Principi costituzionali:
• Principio democratico: l’art. 95, 1° comma, prevede che sia il Presidente del Consiglio a
dover mantenere l’unità d’indirizzo politico e amministrativo del Governo. Si tratta di una
conseguenza del principio democratico espresso dall’art. 1 Cost., in forza del quale gli organi
elettivi si pongono in posizione di supremazia rispetto agli organi dell’amministrazione.
Tuttavia tale principio difficilmente può essere considerato interno all’organizzazione della
pubblica amministrazione, bensì è un principio sul quale si fonda la distinzione tra cariche
elettive e uffici della pubblica amministrazione (infatti ai pubblici uffici si accede mediante
concorso, secondo quanto previsto dall’art. 97, 3° comma, Cost.);
• Principio di legalità: secondo l’art. 23, nessuna prestazione personale o patrimoniale può
essere imposta se non in base alla legge; secondo l’art. 97, i pubblici uffici sono organizzati
secondo disposizioni di legge. Il principio impone che ogni attribuzione di poteri
amministrativi trovi fondamento in una specifica disposizione di legge. Occorre tuttavia
stabilire se a tale fonte spetti solo la facoltà di creare il potere amministrativo nei suoi aspetti
fondamentali, o di disciplinare per intero e dettagliatamente le potestà amministrative. Negli
artt. 23 e 97 Cost. vi è una riserva di legge relativa, pertanto l’ipotesi più accreditata è quella
che attribuisce alla legge la sola creazione del potere amministrativo nei suoi caratteri
essenziali
• Principio di imparzialità: tale principio è individuato dall’art. 97, 1° comma, ed è stato inteso
in una pluralità di significati. Uno di questi lo intende come divieto di disparità di trattamento:
l’imparzialità implica la necessità di adozione di criteri generali ed astratti cui ispirare l’azione
amministrativa. Ma l’imparzialità a livello organizzativo è stata intesa soprattutto come
dovere di strutturare l’amministrazione in modo che chi amministra sia disinteressato alla
materia sulla quale assumere decisioni, nonché come dovere di reclutamento in modo
imparziale dei funzionari;
• Principio di buon andamento: è strettamente collegato al principio d’imparzialità.
Inizialmente gli fu attribuito il senso di una clausola priva di valore giuridico, ma
successivamente è emersa una nozione che tende a far coincidere il buon andamento con
l’efficienza dell’azione amministrativa (intesa come rapporto fra obiettivi e risultati
concretamente ottenuti). Il buon andamento inteso come efficienza implica anche un’adozione
amministrativa caratterizzata dall’economicità nonché strettamente collegata al criterio
dell’efficacia, intesa come capacità di raggiungere gli obiettivi prefissati. Così inteso, il
principio finisce per esplicare i propri effetti anche sui meccanismi di riparto delle funzioni
amministrative, che trovano disciplina nell’art. 118;
• Principio di sussidiarietà: comporta una regola di distribuzione delle funzioni presso l’ente
più vicino alla base sociale. Può essere verticale, attinente ai rapporti tra le istituzioni
pubbliche, o orizzontale, per cui alcune funzioni pubbliche possono essere esercitate dai
cittadini stessi;
• Principio di differenziazione: comporta che a livelli costituzionali uguali (Comuni,
Province, Città metropolitane, Regioni) possano essere allocate funzioni diverse, se la
dimensione degli enti è differente, ossia se diverse sono le loro caratteristiche strutturali,
demografiche o territoriali.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Principio di adeguatezza: la funzione deve essere esercitata nella dimensione adeguata al


suo esercizio, cioè coniugandone prossimità efficacia, ed efficienza. Ciò comporta in
particolare l’idoneità organizzativa delle amministrazioni.

L’attività amministrativa
Il legislatore ha qualificato l’attività amministrativa come quell’attività che “persegue i fini
determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficienza, pubblicità e trasparenza
secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli
procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”.
In altri termini, la legge deve individuare i fini da perseguire o, per meglio dire, gli interessi che
devono essere tutelati dall’azione amministrativa. Una volta individuati dal legislatore divengono
interessi pubblici. Il legislatore incontra tuttavia dei limiti nelle norme costituzionali, nel senso che
“la Costituzione ci dice che certi interessi non possono essere qualificati come interessi pubblici”. Al
tempo stesso dalla Costituzione emergono una pluralità di indicazioni positive che discendono da
tutte quelle disposizioni costituzionali che esigono l’opera di sviluppo del legislatore e di concreta
realizzazione attraverso scelte lasciate alla determinazione delle pubbliche amministrazioni.
Ulteriore limite è imposto dal diritto comunitario, in quanto lo Stato non può individuare interessi
pubblici che risultino in contrasto con i principi del diritto comunitario.
Una volta individuati gli interessi, all’amministrazione spetta il potere di perseguirli concretamente.
Il potere amministrativo è dunque potere unilaterale, potere che consente all’autorità amministrativa
di attivare la sua azione e perseguire e realizzare concretamente gli interessi individuati dalle scelte
legislative. Talvolta il fine di interesse pubblico può essere raggiunto attraverso un accordo con il
soggetto destinatario del provvedimento.
Per il raggiungimento dei fini di interesse pubblico, i poteri possono essere di due tipi:
a) Poteri di tipo restrittivo, vale a dire destinati a restringere e circoscrivere la sfera giuridica
(come l’espropriazione per pubblica utilità, l’occupazione temporanea di un suolo, le
requisizioni, gli ordini o i divieti rivolti ai cittadini);
b) Poteri di tipo ampliativo, ossia destinati ad ampliare la sfera giuridica dei destinatari (come
le autorizzazioni e le concessioni).
In ogni caso, la legge predetermina il tipo di provvedimento che l’amministrazione può adottare
individuandone i presupposti d’esercizio; pertanto si parla, al riguardo, di principio di tipicità del
potere amministrativo, che non viene scalfito da quelle limitate ipotesi in cui la legge attribuisca
all’amministrazione la possibilità di adottare tutti i provvedimenti possibili. Si tratta in realtà di
disposizioni legislative che assumono un carattere residuale e marginale, e che comunque prevedono
l’attribuzione di poteri ammissibili solo nel rispetto dei principi costituzionali o dell’ordinamento.
Ma il potere risponde sempre al principio di tipicità. Il legislatore, infatti, nel disciplinare il potere,
può arrivare a prevedere rigidamente ogni aspetto del suo esercizio, in modo da ridurre l’attività
amministrativa ad una quasi meccanica esecuzione. In tal caso si parla di poteri vincolati,
nell’esercizio dei quali non residua all’amministrazione alcun potere di scelta.
Nella stragrande maggioranza dei casi, tuttavia, si parla di potere discrezionale. Il modello del potere
discrezionale prevede un’ampia facoltà di scelta per l’amministrazione. La libertà di scelta è limitata
però dall’interesse pubblico che è chiamata a realizzare. Nell’esercizio del potere discrezionale
l’amministrazione dovrà agire nel rispetto di una serie di principi, quali:
• Imparzialità (intesa come valutazione oggettiva e trattamento eguale di situazioni eguali);
• Completezza ed adeguatezza della valutazione e dell’istruttoria;
• Ragionevolezza e proporzionalità.
Per meglio comprendere le caratteristiche della discrezionalità amministrativa può essere utile il
raffronto con la libertà di agire del soggetto privato. Costui, nel suo agire, non è mai vincolato al
raggiungimento di un determinato fine, ma lo potrà di volta in volta liberamente scegliere, salvo il

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

rispetto di limiti dettati per tutti dalla legge. Al contrario, la “libertà” dell’amministrazione è
libertà determinata dalla legge, potrà insomma essere attivata ed utilizzata quando la legge avrà
stabilito il fine di interesse pubblico ed affidato all’amministrazione il compito di realizzarlo
concretamente scegliendo il modo più efficace per raggiungerlo.
Dalla discrezionalità amministrativa si distingue la c.d. discrezionalità tecnica, che caratterizza le
decisioni dell’amministrazione che si fondano su valutazioni e cognizioni di tipo tecnico-scientifico
e pertanto non consentono una vera e propria libertà di scelta in vista dell’interesse pubblico.

Atti e provvedimenti amministrativi


Il termine atto amministrativo è “impiegato correntemente per designare qualunque manifestazione
unilaterale di volontà, giudizio e conoscenza di una pubblica amministrazione avente rilevanza
esterna, vale a dire capacità di produrre effetti giuridici nei confronti di terzi”.
Tale definizione è stata recentemente considerata approssimativa in quanto non tutti gli atti
amministrativi si proiettano verso l’esterno, e non tutti esprimono volontà.
Pertanto si distingue fra:
• Meri atti amministrativi: semplici dichiarazioni di conoscenza assunte sulla scorta di
documentazione disponibile presso l’amministrazione (es: certificazioni);
• Provvedimenti: attraverso essi l’amministrazione manifesta la propria volontà diretta a
realizzare l’interesse pubblico. Incidono autoritativamente e unilateralmente sulla sfera
giuridica degli interessati, modificandola.
Un’ulteriore distinzione è fra:
• Atti autoritativi: tutti gli atti che rappresentano esercizio di potere amministrativo;
• Atti non autoritativi: tutti gli atti estranei alla nozione di atti autoritativi, ossia i contratti
stipulati dall’amministrazione e gli altri atti che incidono su rapporti assoggettati per legge al
diritto privato.
Il procedimento amministrativo che accompagna la conclusione dei contratti della pubblica
amministrazione e che segna la formazione della volontà dell’amministrazione, è denominato
evidenza pubblica. Esso è articolato in varie fasi:
• Deliberazione a contrarre, ossia un provvedimento amministrativo che deve precedere la
conclusione di qualsiasi negozio della p.a. predeterminando il contenuto del futuro contratto,
ossia con la predisposizione di un progetto di contratto,
• Scelta del contraente, attraverso vari sistemi quali, ad es., l’asta pubblica (che rappresenta lo
strumento per i contratti attivi, ossia quelli attraverso i quali l’amministrazione acquisisce
un’entrata), la licitazione privata (per i contratti passivi, che comportano una spesa) ecc.
• Stipulazione del contratto, che deve essere concluso per iscritto;
• Approvazione del contratto, attraverso l’adozione di un apposito atto della p.a. funzionale a
realizzare il controllo di regolarità amministrativa e contabile. Tale fase determina il momento
in cui sorge il vincolo contrattuale. Concluso il procedimento ad evidenza pubblica, si passa
all’esecuzione del contratto che è regolata dal diritto privato.
L’attività amministrativa diversa da quella che usa gli strumenti del diritto privato, si distingue in:
• Funzione pubblica, caratterizzata dell’esercizio unilaterale di poteri autoritativi capaci di
produrre conseguenze giuridiche nella sfera giuridica del destinatario indipendentemente dal
suo consenso (es: provvedimento di esproprio di un bene);
• Servizio pubblico, senza l’uso di poteri autoritativi, anche se il relativo comportamento è
adempimento di un obbligo imposto dalla legge a tutela di interessi generali (es: prestazioni
sanitarie).

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

I provvedimenti amministrativi sono contraddistinti da alcuni caratteri peculiari:


• Autoritarietà: è un carattere proprio dei provvedimenti per via della loro capacità d’incidere
sulla situazione giuridica del destinatario. In ragione di essa si producono conseguenze
giuridiche non appena il provvedimento avrà assunto l’efficacia propria del tipo di atto
previsto dalla legge per il raggiungimento di quel particolare interesse pubblico;
• Esecutività: i provvedimenti producono immediatamente i loro effetti imperativi e non
necessitano di alcun intervento dell’autorità giudiziaria (come avviene per atti privati);
• Tipicità: i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia
diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo. Ciascuno di essi è frutto di
una specifica previsione di legge e pertanto la sua adozione può avvenire da parte
dell’amministrazione solo quando la legge preveda il singolo tipo di atto;
• Esecutorietà: possibilità per l’amministrazione di portare ad esecuzione, anche forzatamente,
il provvedimento (eseguire il provvedimento anche contro la volontà del destinatario);
• Inoppugnabilità: i provvedimenti divengono inoppugnabili trascorso il termine breve (di
regola, 60 giorni) per la loro impugnazione dinnanzi al giudice amministrativo;
• Autotutela: possono ricondirsi al profilo dei caratteri del provvedimento:
o Annullamento d’ufficio: potere con il quale l’amministrazione dispone
l’eliminazione del provvedimento ritenendo sopravvenuta la sussistenza dell’interesse
pubblico al venir meno dell’atto;
o Revoca: l’amministrazione, a prescindere da vizi di legittimità dell’atto, in caso di
sopravvenute esigenze di pubblico interesse o mutamento della situazione giuridica di
fatto o di una nuova valutazione dell’interesse pubblico, può infatti revocare l’atto
originario; presupposto per la revoca è l’obbligo in capo alla p.a. di prevedere un
indennizzo a favore del soggetto nei confronti del quale la revoca esplica effetti;
o Convalida: è possibile se sussistono le ragioni di interesse pubblico ed entro un
termine ragionevole. Prevede la rimozione del vizio di legittimità che colpisce un
precedente provvedimento già emanato;
o Sanatoria: l’amministrazione sana, con un diverso successivo atto, l’illegittimità di
un precedente provvedimento;
o Ricorribilità in sede contenziosa: nei confronti di un provvedimento lesivo di un
interesse legittimo vi è la possibilità di rivolgersi al giudice amministrativo al fine di
ottenere l’annullamento dell’atto.
Il provvedimento amministrativo illegittimo non può essere annullato dal giudice ordinario, ma
solo da quello amministrativo. Il giudice ordinario può solamente procedere alla disapplicazione
dell’atto amministrativo qualora ne accerti l’illegittimità, e in questo caso deciderà la controversia
sottopostagli come se il provvedimento non esistesse.
L’ordinamento consente tuttavia anche un rimedio interno all’amministrazione mediante:
• Ricorso gerarchico: proposto nei confronti dell’autorità gerarchicamente sovraordinata a
quella che ha emanato l’atto, dinanzi alla quale si possono far valere sia vizi di legittimità, sia
vizi di merito. Oggi ci si può rivolgere direttamente al giudice;
• Ricorso in opposizione: ci si rivolge alla stessa autorità che ha emanato l’atto;
• Ricorso gerarchico improprio: ci si rivolge ad una autorità diversa da quella che ha emanato
l’atto ma che non è gerarchicamente sovraordinata a quella che ha assunto il provvedimento;
• Ricorso straordinario: ci si rivolge al Capo dello Stato, limitatamente a motivi di legittimità.
Si rinuncia quindi a proporre ricorso dinanzi al giudice. Tale ricorso può essere presentato da
chi ne abbia interesse entro il termine di 120 giorni.
La legge n. 241/1990, all’art. 21-septies, parla di elementi del provvedimento, facendo riferimento
sia a quegli elementi che sono necessariamente presenti in ogni tipo di atto, sia a quelli che possono
essere presenti in alcuni atti e mancare in altri.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Soggetto: è sempre rappresentato da una p.a. o da quell’organo di una p.a. al quale la legge
affida il potere di assumere il provvedimento;
• Oggetto: si intende la persona, la cosa, la situazione giuridica verso la quale si dirige l’atto.
In relazione al destinatario l’atto assumerà un certo contenuto, mirerà a provocare quelle
conseguenze giuridiche proprie del potere che si sta esercitando in relazione all’interesse
pubblico che si intende perseguire;
• Forma: assume la duplice rilevanza di documentare la rispondenza dell’atto allo schema
procedimentale e consente di conoscere quale sia il tipo di atto che l’amministrazione ha
voluto porre in essere. In alcuni casi la forma è vincolata (un certo tipo di atto potrà assumere
solo quella forma), in altri casi è libera. Prevale la forma scritta, ma non può escludersi che
un provvedimento sia orale o che possa consistere in un semplice comportamento.
Assume rilievo il silenzio dell’amministrazione che, talvolta, può tradursi in accoglimento. In alcuni
casi, la legge prevede che il silenzio abbia il significato positivo di accoglimento di istanze avanzate
dal privato (silenzio-assenso) o rilevanza di inadempimento dell’amministrazione.
Vi sono poi degli elementi eventuali, ossia:
a) Condizione, che assume una rilevanza simile a quelle prevista per il negozio;
b) Termine;
c) Modo, anche se difficilmente riferibile ai provvedimenti amministrativi.
Esistono inoltre una serie di atti che si suole ricondurre alla più ampia categoria degli atti
amministrativi:
• Sia perché sono riconducibili all’esigenza di affidare al Governo il completamento delle scelte
legislative (es: poteri normativi di tipo secondario di Governo, Regioni ed Enti locali, in
quanto condividono con gli atti amministrativi il regime di impugnazione);
• Sia perché consentono all’amministrazione di dettare linee di azione generale in settori nei
quali si rivela essenziale una attività di programmazione (es: atti di programmazione o
direttive amministrative, consistenti in atti di indirizzo con le quali un organo orienta e
indirizza il comportamento di altri organi, e le circolari, con le quali una amministrazione
adotta direttive ed istruzioni puntuali, anche di tipo tecnico).

Il procedimento amministrativo
Il procedimento amministrativo può essere considerato come una serie concatenata di atti
preordinati all’emanazione di un provvedimento finale diretto a produrre effetti nell’ordinamento.
La caratteristica del procedimento è data dunque dalla serie concatenata e preordinata di atti e dallo
scopo unitario che questi atti si prefiggono consistente nel raggiungimento dell’interesse pubblico
individuato dalla legge.
Il procedimento si inserisce all’interno dell’esercizio del potere e modifica fortemente la sua natura
originariamente unilaterale ed autoritaria; in questo senso può dirsi che attraverso la previsione del
procedimento si realizzano concretamente non solo i principi costituzionali di imparzialità e buon
andamento, ma anche lo stesso principio di legalità.
Il procedimento si articola in diverse fasi:
• Fase preparatoria: vengono raccolti gli elementi utili all’amministrazione per la decisione.
Di regola segue la comunicazione dell’avvio del procedimento e una accurata istruttoria;
• Fase costitutiva: adozione dell’atto da parte dell’autorità;
• Fase dell’efficacia: riguarda il momento in cui l’atto comincia a produrre i suoi effetti.
La disciplina del procedimento è contenuta nella legge n. 241/1990. In tale legge sono fissati dei
principi, principi di un procedimento “giusto”, quali:
• La tipicità del procedimento a tenore del quale l’amministrazione è tenuta a rispettare il
modello procedimentale individuato dalla legge;

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• L’obbligo di conclusione dei procedimenti, in forza del quale se un’amministrazione è


obbligata ad iniziare un procedimento, essa è anche obbligata a portarlo a compimento;
• La partecipazione al procedimento, che si traduce anche nella possibilità di accedere e
prendere visione degli atti, intervenire con memorie scritte e documenti che l’amministrazione
dovrà prendere in esame. I destinatari sono i soggetti verso i quali il provvedimento finale è
destinato a produrre effetti e verso altri soggetti portatori di interessi pubblici o privati. A tal
fine una garanzia particolarmente ampia è quella del diritto di accesso ai documenti
amministrativi, riconosciuto a “chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni
giuridicamente rilevanti”;
• L’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti, nella quale devono essere indicati i
presupposti di fatto e le ragioni che hanno determinato la decisione dell’amministrazione in
relazione alle risultanze dell’istruttoria. La motivazione riveste il duplice ruolo di garanzia
perché da un lato consente all’amministrazione di verificare la correttezza del proprio operato,
dall’altro permette ai destinatari di comprendere le ragioni delle scelte operate. In tal modo il
destinatario può eventualmente contestare la legittimità dell’azione;
• La previsione di un responsabile del procedimento, soggetto che viene posto a garanzia delle
regole che la legge stessa istituisce. È un funzionario che deve garantire la legittimità;
• Istituzione della c.d. conferenza dei servizi, qualora sia opportuno effettuare un esame di vari
interessi pubblici coinvolti in un procedimento può svolgersi telematicamente;
• Denuncia di inizio attività (DIA), atto del privato che può denunciare all’amministrazione
competente l’inizio di un’attività e, decorsi 30 giorni, avviarla concretamente. È stata
ribattezzata in “SCIA” (Segnalazione certificata di inizio attività). È subordinata
all’accertamento da parte dell’amministrazione di alcuni requisiti previsti dalla legge.
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione della legge n. 241/1900, contiene delle norme che si
applicano alle amministrazioni statali, agli enti pubblici nazionali e alle società con totale o prevalente
capitale pubblico per l’esercizio delle funzioni amministrative.

I vizi degli atti amministrativi


Nell’esercitare il potere che la legge attribuisce all’amministrazione, questa può incorrere in
violazioni delle prescrizioni che caratterizzano il potere-dovere di agire per realizzare l’interesse
pubblico. Tali violazioni possono produrre non invalidità, ma:
• Mere irregolarità: “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora sia palese che il suo contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello adottato in concreto” (art. 21-octies legge n. 241/1990). La
violazione pertanto risulta irrilevante, perché non produce lesioni a carico dei destinatari e
quindi l’ordinamento fa prevalere l’interesse al mantenimento dell’atto che ha raggiunto lo
scopo di tutelare e realizzare l’interesse pubblico;
• Nullità: “è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali o è
viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del
giudicato” (art. 21-septies). Si configura una situazione di nullità-inesistenza discendente
dall’assenza di quelle condizioni minime alla stregua delle quali un atto possa essere
considerato come esistente;
• Annullabilità: quando non ricorrano le altre due condizioni, tutte le ipotesi che residuano
dovrebbero considerarsi ad ipotesi di annullabilità. Sono vizi determinabili in via residuale.
L’individuazione dei vizi di legittimità dell’atto che producono la sua annullabilità è sempre avvenuta
sulla base della tripartizione contenuta nella legge n. 5992 che affidava al Consiglio di Stato il
giudizio sui ricorsi contro atti e provvedimenti amministrativi per:
• Incompetenza: è intesa come violazione delle disposizioni che disciplinano la ripartizione
delle attribuzioni fra i vari soggetti sui quali è distribuita la funzione amministrativa.

92
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

L’incompetenza assoluta produce nullità, quella relativa si traduce nella decisione di un atto
ad opera di un’autorità diversa fa quella cui le norme attribuiscono il potere di provvedere;
• Violazione di legge: è intesa come violazione di qualsiasi norma vigente che
l’amministrazione sia tenuta ad osservare. Assume carattere residuale e può individuarsi in
tutte quelle violazioni che non si traducano in incompetenza od eccesso di potere;
• Eccesso di potere: è il vizio di gran lunga più complesso. Per determinare i casi in cui vi sia
eccesso di potere, sono state individuate una serie di figure sintomatiche:
o Ingiustizia manifesta (incongruità del provvedimento);
o Disparità di trattamento (provvedimenti diversi per destinatari uguali);
o Travisamento dei fatti e dei presupposti (provvedimento assunto in base a conoscenze
erronee);
o Illogicità manifesta (emerge dinanzi a motivazioni tra loro confliggenti);
o Omessa valutazione e comparazione degli interessi in gioco (presuppone che
l’interesse collettivo sia ignorato per privilegiare un interesse pubblico poco dubbio);
o Insufficienza e omissione della motivazione;
o Violazione del principio di proporzionalità (evidente sproporzione tra le esigenze
dell’interesse pubblico perseguito e le limitazioni imposte ai privati).
La figura dell’eccesso di potere appare una formula con la quale si indicano tutti i vizi “che non si
esauriscono nella mera trasgressione di una specifica norma giuridica”.

L’attività amministrativa e il diritto comunitario


Il punto dal quale muovere per comprendere il rapporto tra l’attività amministrativa e il diritto
comunitario è dato dalla semplice constatazione che molte delle materie su cui agisce il diritto
comunitario, si riferiscono all’attività amministrativa.
Il principio che ispira l’ordinamento comunitario nel suo complesso è quello della c.d.
amministrazione indiretta (la Comunità affida ai singoli Stati membri il compito di sviluppare la
disciplina comunitaria). Tuttavia nel tempo si è sviluppata un’area di amministrazione diretta
affidata alla Commissione.
I problemi di maggior rilievo si pongono in evidenza con riferimento all’amministrazione diretta in
quanto le amministrazioni nazionali devono esercitare i loro poteri applicando il diritto comunitario,
ed in qualche misura anche lo stesso diritto nazionale. Deve qui distinguersi l’ipotesi in cui
l’amministrazione nazionale sia chiamata ad esercitare attività amministrativa discendente da
regolamenti comunitari da quella in cui sia chiamata a dare attuazione a direttive.
Nel caso in cui l’attività amministrativa discenda da un regolamento comunitario, il solo diritto
nazionale che l’amministrazione deve applicare, è quello relativo all’individuazione dell’autorità
competente per l’esercizio del potere. In altri termini le amministrazioni chiamate ad applicare le
norme comunitarie con efficacia diretta continueranno ad applicare le disposizioni interne che
distribuiscono la competenza ed individuano le regole procedurali.
Una diversa situazione si presenta rispetto alle direttive:
• La c.d. direttiva dettagliata è idonea ad esplicare effetti diretti solo in senso verticale (nei
confronti delle autorità pubbliche nei rapporti con gli altri soggetti);
• Un problema di applicazione della direttiva da parte dell’autorità amministrativa può porsi
nell’ipotesi in cui la normativa di recepimento sia contrastante con la direttiva: in tal caso,
l’autorità amministrativa deve applicare il diritto comunitario e non quello nazionale.
In buona sostanza, quando i poteri amministrativi previsti dal diritto comunitario debbano essere
esercitati dalle autorità amministrative nazionali si pone il problema della uniformità
dell’applicazione delle regole. Tutta la materia amministrativa è oggi “europeizzata”.
La legge n. 241/1990 richiama esplicitamente i principi dell’ordinamento comunitario quali principi
condizionanti per l’intera attività amministrativa, essendo più articolati (es: principio di
precauzione).
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo IX
Le autonomie territoriali
Dal sistema prefettizio alla Repubblica delle autonomie
Il tema del regionalismo e delle autonomie assume particolare consistenza dopo la seconda guerra
mondiale, in virtù dell’acquisita consapevolezza dell’inidoneità dello Stato ad assicurare il
soddisfacimento dei variegati interessi che si esprimono ai diversi livelli territoriali.
In Italia, l’istanza autonomistico-territoriale ha le sue “moderne” radici nl periodo successivo
all’unificazione. Le prime iniziative regionaliste muovevano nella direzione della realizzazione di un
decentramento delle funzioni statali. Già nel 1861 elaborarono progetti che prevedevano
l’istituzione dell’ente Regione, concepito come circoscrizione di decentramento amministrativo.
Si apriva la strada alla c.d. piemontesizzazione dell’Italia. Si trattava di un sistema “prefettizio”, in
quanto l’amministrazione centrale esercitava il controllo sugli enti locali (Province e Comuni)
attraverso una rete di organi che facevano capo al Prefetto
La scelta per un sistema amministrativo uniforme e centralizzato sembrava segnare l’abbandono
dell’ipotesi regionale, che pure venne più volte riproposta nel dibattito politico italiano.
Nella fase successiva alla seconda guerra mondiale, la complessità e contraddittorietà della realtà
politica italiana (legata sia al c.d. fattore geografico che al c.d. fattore storico) era destinata a
manifestarsi nelle forme più acute; la spinta regionalista si traduceva in istanza separatista.
Gli speciali ordinamenti autonomi, prefigurati prima dell’entrata in vigore della Costituzione,
verranno confermati dall’Assemblea costituente con l’approvazione di quattro leggi costituzionali,
nel 1948, contenenti gli statuti speciali della Regione Siciliana, della Sardegna, della Valle d’Aosta
e del Trentino Alto Adige, delle Province autonome di Bolzano e Trento. Queste Regioni, alle quali
deve poi aggiungersi nel 1963 il Friuli Venezia Giulia, dispongono, infatti, in virtù dell’art. 116
Cost., di “forme e condizioni particolari di autonomia”, secondo i rispettivi “statuti speciali”
adottati con legge costituzionale.
La Costituzione repubblicana affianca alle Regioni a statuto speciale ulteriori 14 Regioni “ordinarie”
(divenute 15 nel 1963, a seguite della separazione di Abruzzo e Molise). Le Regioni ordinarie furono,
in realtà, istituite solo nel 1970, quando si svolsero le prime elezioni dei consigli regionali. Ma solo
con il trasferimento delle funzioni amministrative nelle materie elencate nell’originario art. 117 Cost.,
le Regioni potevano esercitare in concreto le competenze legislative ed amministrative riconosciute.
Il dibattito sul regionalismo in Assemblea costituente si incentrò sul quantum di autonomia che alle
Regioni sarebbe dovuto spettare.
La scelta fu quella di privilegiare una competenza “concorrente” delle Regioni che sarebbero sì
potute intervenire in forma legislativa in una serie di materie elencate dalla Costituzione, ma pur
sempre nei “limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”, sempreché le norme
stesse non fossero “in contrasto con l’interesse nazionale o con quello di altre Regioni” (art. 117, 1°
comma). La potestà “piena” o “esclusiva” era riconosciuta alle sole Regioni a statuto speciale e alle
Province di Trento e Bolzano (art. 117, ult. comma).
L’autonomia trovava dunque espressione nella forma “ordinaria” della competenza legislativa
concorrente e nel riconoscimento del principio del parallelismo, per cui nelle stesse materie nelle
quali Regioni avevano potestà legislativa ad esse venivano attribuite le funzioni amministrative (art.
118, 1° comma). Lo Stato avrebbe comunque potuto “delegare” alle Regioni l’esercizio di altre
funzioni amministrative (art. 118, 2° comma) come pure attribuire funzioni amministrative alle
Province, ai Comuni e gali altri enti locali, qualora si trattasse di materie di interesse locale.
A queste previsioni si accompagnava l’attribuzione alle Regioni dell’autonomia finanziaria, “nelle
forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato,
delle Province e dei Comuni” (art. 119, 1° comma).
“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che
dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e metodi della
sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” (art. 5 Cost.).

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La preminenza dell’ordinamento statuale sulle autonomie risultava confermata nella


formulazione originaria dell’art. 114 Cost. La preminenza era altresì confermata dalla impossibilità
di considerare le Regioni come “enti a fini generali”, in quanto le loro competenze erano solo quelle
attribuite dalla Costituzione, valendo il principio della competenza generale dello Stato.
In sostanza, la Costituzione non sembrava fornire strumenti adeguati al fine di garantire le autonomie
nei confronti del potere statale. La “flessibilità” del dettato costituzionale ha reso possibile anche
evoluzioni legislative, realizzate “a Costituzione invariata”. Ad esempio, la c.d. legge Bassanini ha
disposto il ribaltamento della tecnica di riparto delle competenze tra centro e periferia; la legge 8
giugno 1900, n. 142, ha invece riconosciuto a Comuni e Province funzioni proprie.
La Riforma del Titolo V, Parte Seconda, della Costituzione ha disegnato una Repubblica delle
autonomie, articolata su diversi livelli di governo dotati di autonomia costituzionalmente garantita.
Mentre il testo originale prevedeva che “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”;
l’attuale dispone che “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Gli enti sono quindi considerati enti costituitivi
dell’ordinamento repubblicano, anche se “solo allo Stato spetta il potere di revisione
Costituzionale, e i Comuni, le Città metropolitane e le Province (diverse da quelle autonome) non
hanno potestà legislativa”. Ma, nonostante queste differenze, è indubbio ormai che l’autonomia sia
caratteristica propria di tutti gli enti locali.

Il riparto di competenze tra Stato, Regioni ed enti locali


Per quanto riguarda il riparto delle competenze legislative, il novellato art. 117 esprime la volontà di
realizzare una equiparazione tra il tipo “legge regionale” e il tipo “legge statale”, prevedendosi
per entrambi i tipi di fonte i medesimi limiti. A ciò si aggiunga il capovolgimento del criterio di
ripartizione della potestà legislativa rispetto all’originaria formulazione dell’art. 117:
• Lo Stato ha legislazione esclusiva su alcune materie (2° comma);
• Vi sono materie aventi legislazione concorrente di Stato e Regioni (3° comma);
• Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato (4° comma);
• La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega
alle Regioni (6° comma);
• La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia (7° comma);
• I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla
disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (8° comma).
Il principio del parallelismo è stato abbandonato con la Riforma. Il nuovo art. 118 prevede che “le
funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario,
siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”. Inoltre, al 2° comma è previsto che “i Comuni, le
Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite
con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
Il capovolgimento dei criteri tradizionali di ripartizioni delle funzioni amministrative serve ad
assicurare l’efficienza e l’effettività dell’azione dei pubblici poteri (c.d. sussidiarietà verticale), di
considerare le diverse caratteristiche degli enti nell’allocazione delle funzioni (differenziazione), di
tenere conto dell’idoneità organizzativa delle amministrazioni a garantire l’esercizio delle funzioni
(adeguatezza). Al principio di sussidiarietà verticale si accompagna quello della c.d. sussidiarietà
orizzontale, rivolto a favorire l’avvicinamento del cittadino all’amministrazione attraverso
“l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale” (art. 118, 4° comma, Cost.).
L’introduzione del principio di sussidiarietà verticale ha determinato conseguenze significative anche
sul modo stesso di intendere il riparto delle competenze legislative. Ove lo Stato avochi a sé
funzioni amministrative che non possano essere adeguatamente esercitate ad altri livelli di governo,

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

tali funzioni, in virtù del principio di legalità, devono essere organizzate e regolate dalla legge statale
(c.d. sussidiarietà legislativa).
Le più ampie forme di autonomia assicurate dall’attuale Titolo V riguardano in linea di principio le
sole Regioni a statuto ordinario. Tuttavia, essendo possibile che le Regioni ordinarie abbiano più
attribuzioni rispetto alle Regioni a statuto speciale, il legislatore ha previsto l’allineamento delle
competenze in modo tale che le disposizioni contenute nel Titolo V che prevedano forme di
autonomia più ampie si applichino anche alle Regioni speciali e alle Province autonome di
Trento e Bolzano. Secondo la nuova formulazione dell’art. 116, infatti:
1. Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle
d’Aosta/Vallee d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo
i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.
2. La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di
Bolzano.
3. Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo
comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle
lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere
attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti
gli enti locali, nel rispetto dei princıpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle
Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione
interessata.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo X
Diritti e libertà
I diritti nell’età del costituzionalismo
L’origine dei diritti costituzionali è ritrovabile nell’età delle grandi rivoluzioni borghesi, e
nell’affermarsi di una precisa idea di Costituzione.
L’idea base del costituzionalismo è il sottoporre il potere a regole, subordinandolo ai bisogni della
società e degli individui.
Le Carte costituzionali sono una tappa fondamentale nell’affermazione dei diritti costituzionali e i
loro contenuti si riveleranno capaci di trascendere le stesse esigenze proprie del ceto sociale che li
aveva fortemente voluti. In questa prima fase il riconoscimento dei diritti e delle libertà individuali
appare legato da un nesso funzionale con gli assetti dello stato borghese, e rappresenta il
soddisfacimento dell’abbattimento delle barriere che ostacolavano il libero sviluppo del mercato e
della concorrenza.
I contenuti delle Carte degli albori del costituzionalismo costituiranno la base per un significativo
processo di arricchimento e trasformazione, che avrà come esiti principali l’estensione del
riconoscimento dei diritti alla generalità degli individui e l’affermazione di un impegno concreto dello
Stato alla rimozione delle disuguaglianze. Tuttavia, mutamenti radicali saranno prodotti dalle
trasformazioni del costituzionalismo democratico del XX secolo.
Non va trascurata, inoltre, l’importanza delle esperienze greco-romana, cristiana e medievale
(“preistoria” dei diritti costituzionali), anche se non si può ritenere che esse siano approdate ad una
compiuta affermazione dei diritti individuali intesi come fondamento dell’ordine sociale e politico.
Solo con il superamento del particolarismo feudale e con la fondazione di un nuovo ordine sociale
imperniato sulla centralità del soggetto, si aprirà la strada per una diversa concezione dei diritti
individuali. Tale trasformazione si traduce in documenti costituzionali che segnano il riconoscimento
di diritti intangibili dell’individuo.
Tuttavia, la sfera degli interessi giuridicamente tutelati risulta ancora ristretta dal punto di vista dei
destinatari effettivi. Sarà solo con il superamento delle basi oligarchiche che soggetti estranei alla
classe borghese potranno divenire titolari di diritti costituzionali. Tale evoluzione è legata alla
progressiva estensione del suffragio elettorale.
A mutare è il ruolo delle Costituzioni stesse. La Costituzione si apre alla società e non è più
indifferente alle reali condizioni di vita del soggetto. Essa mira ad organizzare la libertà umana
nella realtà sociale.
È attorno ai principi di dignità e libertà della persona che ruotano le Costituzioni e le principali
codificazioni internazionali dei diritti del secondo dopoguerra.
La Costituzione è vista come un sistema di valori e i diritti fondamentali sono elementi costitutivi
dello stesso, i quali si condizionano reciprocamente. Essi si trovano infatti in rapporto di
complementarità: i diritti fondamentali si garantiscono e si rafforzano reciprocamente, trovano la loro
matrice unitaria in un certo concetto di libertà.
La libertà è sempre tensione verso un determinato obiettivo, è indipendenza e autodeterminazione.
Pertanto si dice che la libertà è valore, come tale inesauribile nelle sue esplicazioni e direzioni.
Tale condizionamento sussiste non solo tra i diritti fondamentali, ma anche tra questi e il principio
dello Stato sociale.
Le Costituzioni pretendono di tutelare la libertà “reale” e richiedono la rimozione di ostacoli di
carattere materiale che di fatto escludono la possibilità della partecipazione dell’individuo alla vita
della comunità. Garantire lo Stato sociale significa “rendere effettivi i diritti di libertà”.

I diritti fondamentali nella Costituzione italiana. Il riconoscimento dei diritti inviolabili


L’art. 2 della Costituzione italiana afferma solennemente che “la Repubblica riconosce e garantisce
i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità”.
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Tale formula sembra presupporre la preesistenza dei diritti riconosciuti rispetto all’ordinamento
riconoscente.
I diritti fondamentali ruotano tutti intorno al libero sviluppo della personalità. I diritti fondamentali
entrano perciò in una dimensione nuova, quella della partecipazione effettiva di tutti alla vita
economica, sociale e politica del Pase. Dimensione che trova la sua espressione nell’art. 2 Cost., nelle
forme di vari principi:
• Personalistico: riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo come singolo;
• Pluralistico: riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità;
• Solidaristico: richiedendosi l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale.
Principi che si collegano al principio democratico (art. 1 Cost.) e necessitano, per una loro effettiva
realizzazione, proprio della rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando
di fatto la libertà e l’uguaglianza tra i cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese” (c.d. eguaglianza sostanziale: art. 3, 2° comma, Cost.).
Ma quali sono i diritti riconosciuti come “inviolabili” nella Costituzione italiana?
• Secondo una prima interpretazione, l’art. 2 è inteso come norma ricognitiva dei diritti
enumerati, o “norma a fattispecie chiusa”.
• Un’altra interpretazione ritiene che tale articolo debba essere interpretato come “norma a
fattispecie aperta”, cioè riferibile ad ogni situazione di libertà, emergente a livello di
costituzione materiale. Questa tesi tuttavia trascura il significato dell’enumerazione dei diritti
fondamentali.
Entrambe le tesi appaiono insoddisfacenti per rispondere al quesito: “vi possono essere nuovi diritti
costituzionali rispetto a quelli enunciati? Quale valore può essere riconosciuto ai diritti emergenti
dall’evoluzione sociale?”.
Tali diritti sono nuovi rispetto al contenuto tradizionalmente riconosciuto ai diritti costituzionalmente
codificati. Ai c.d. nuovi diritti non corrispondono sempre situazioni giuridiche soggettive
effettivamente tutelabili, per cui è affidato alla legislazione ordinaria il compito di enuclearli e
specificarli per assicurarne riconoscimento e protezione.
Pertanto il problema dei “nuovi diritti” è più che altro un problema di tutela effettiva. Vi è quindi
una terza soluzione interpretativa secondo la quale all’enucleazione dei diritti non può essere
disgiunto il riconoscimento della loro inviolabilità.
In sostanza, la stessa possibilità di enucleare un nuovo diritto è sottoposta ad una duplice
condizione, dovendo esso essere ricondotto a un diritto enumerato ed essere riferibile al principio
supremo della libertà-dignità.
La libertà personale riconosciuta come inviolabile, è da intendersi la libertà “psicofisica” ossia della
mente e del corpo nella loro indissolubile unità. La libertà psicofisica è la vera matrice dei diritti
personali enumerati e degli eventuali altri diritti, che vanno considerati diritti positivi e della persona.

Le garanzie dei diritti nell’ordinamento costituzionale italiano


Al riconoscimento dei diritti inviolabili si accompagna, nello stesso testo dell’art. 2 Cost., la
previsione della garanzia di essi. Esistono diverse forme con cui si esprime tale garanzia:
• Riserva di legge: costituisce un vincolo al potere legislativo a disciplinare per legge le materie
“riservate”. Ad esempio: la libertà personale, domiciliare e di comunicare riservatamente sono
presidiate da riserve assolute; la libertà di circolazione e di associazione, sono presidiate da
riserve rinforzate; alcune libertà economiche sono presidiate da riserve relative;
• Riserva di giurisdizione: comporta che le limitazioni possano avvenire solo per atto motivato
dell’autorità giudiziaria. Si traduce in una garanzia, richiedendo l’intervento dei magistrati,
rispetto ai quali la Costituzione proclama e tutela l’indipendenza, l’imparzialità e la terzietà;

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Tutela giurisdizionale: possibilità di agire e difendersi in giudizio per la tutela dei propri
diritti. Assume pieno significato solo se associata alle garanzie di indipendenza e imparzialità
della magistratura, nonché ad un’organizzazione del processo secondo regole garantiste;
• Garanzia dei diritti nei confronti della p.a.: è assicurata attraverso rimedi giurisdizionali e
tramite controlli preventivi di legittimità, che spettano alla Corte dei conti. È inoltre prevista
costituzionalmente la responsabilità diretta di funzionari e dipendenti pubblici che compiano
atti in violazione dei diritti;
• Sindacato di legittimità costituzionale: forma indiretta ma molto importante della garanzia,
spettando alla Corte costituzionale controllare che la legislazione ordinaria non comprima le
garanzie per i diritti fino ad annullarle.

Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana


Nell’art. 3 Cost. viene proclamato il principio dell’eguaglianza formale (“tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”).
A tale principio si affianca il principio dell’eguaglianza sostanziale (“è compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti
i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”).
Tale principio è figlio del moderno Stato sociale, che pone attenzione non solo sull’ampliamento
dell’area e delle dimensioni dei diritti costituzionali, ma anche sulla loro effettività.
Le moderne democrazie pluralistiche sono volte a realizzare una sintesi fra eguaglianza e libertà:
esse sono entrambe riconnesse al valore primario del libero sviluppo della personalità.
Secondo un’interpretazione letterale dell’art. 3 Cost., il principio di eguaglianza andrebbe applicato
ai soli cittadini, con l’esclusione quindi degli stranieri, ma ben presto ci si è resi conto che in realtà
è l’eguaglianza stessa ad impedire al legislatore di dettare una disciplina che dia vita ad una disparità
di trattamento delle situazioni giuridiche. Tale problema è stato superato attraverso
un’interpretazione sistematica dell’art. 3 Cost., che sancisce il riconoscimento e la garanzia dei
diritti inviolabili dell’uomo e non solo del cittadino, e dell’art. 10, 2° comma, Cost., che riserva alla
legge la disciplina dello status giuridico dello straniero “in conformità delle norme e dei trattari
internazionali”. In questo modi si è pervenuti a giustificare l’estensione dell’ambito soggettivo di
applicazione del principio anche agli stranieri e agli apolidi, nonché alle persone giuridiche.
A livello comunitario la Carta dei diritti fondamentali dell’UE fa riferimento a “tutte le persone”,
risolvendo così le dissonanze rinvenibili nelle diverse Costituzioni dei singoli Paesi.
La Corte costituzionale è pervenuta ad una parificazione della posizione giuridica di cittadini e
stranieri, che tuttavia resta affidata alla discrezionalità del legislatore.
Pertanto si riconosce agli stranieri il godimento pressoché integrale dei diritti contenuti nella
Costituzione, e pertanto ad essi vengono imposti i doveri pubblici costituzionalmente sanciti, ad
eccezione del dovere di difesa e di fedeltà alla Repubblica.

Allo stesso modo è tutelata la posizione dello straniero al “quale sia impedito, nel suo paese,
l’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”, riconoscendogli il diritto
di asilo nel territorio della Repubblica (art. 10, 3° comma) e vietandone l’estradizione per motivi
politici, ad esclusione dei delitti di genocidio (artt. 18 e 19 Carta dei diritti fondamentali dell’Ue).
Discorso a parte vale per la posizione giuridica degli stranieri che siano cittadini di uno degli Stati
membri dell’Unione europea. La cittadinanza europea si sostanzia in una serie di diritti che ogni Stato
membro deve garantire ai cittadini degli altri Stati dell’Unione che si trovino nel proprio territorio,
primo fra tutti il diritto di elettorato attivo e passivo nello Stato in cui si risiede. L’introduzione della
nozione di cittadinanza europea segna la fine del “tradizionale e radicato collegamento tra
cittadinanza ed esercizio del diritto di voto”.

99
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il principio dell’eguaglianza formale, di cui al 1° comma dell’art. 3, ha diversi significati:


• Eguaglianza davanti alla legge: la legge si applica a tutti. Viene così proclamata la pari
dignità sociale dei cittadini, che esprime la parità potenziale nei diritti. In questa accezione
non viene disciplinato il contenuto delle leggi ma solo la loro efficacia nei confronti di tutti,
ponendo così il principio della generalità della legge (non sussistono privilegi);
• Eguaglianza nella legge, il che comporta il vincolo di realizzare la pari soggezione di tutti ad
un’unica legge senza adottare trattamenti irragionevolmente differenziati (la legge deve essere
egualmente differenziata ossia trattare in modo eguale situazioni eguali ed in modo diverso
situazioni ragionevolmente diverse).
L’art. 3, comma 1, detta in quello che è definito il nucleo forte del principio di eguaglianza una
serie di sei specifici e tassativi divieti di discriminazione:
1. Divieto di discriminazione in base al sesso: posto a tutela della posizione sia della donna
che dell’uomo, trova applicazione nell’ambito della famiglia (in forza del principio di
uguaglianza morale di entrambi i coniugi), nei rapporti di lavoro (parità di trattamento tra
lavoratori di sesso diverso) e nell’accesso agli uffici e cariche pubbliche. La Repubblica
promuove le pari opportunità fra uomini e donne. Tale divieto si riflette anche sulla posizione
di omosessuali e transessuali;
2. Divieto di discriminazione in base alla razza: divieto di carattere assoluto (non incontra
deroghe in altre norme costituzionali). Oggi assume rilievo fondamentale in connessione al
dilagante fenomeno dell’immigrazione;
3. Divieto di discriminazione per motivi linguistici: pone le sue basi sul pluralismo etnico e si
risolve nella pretesa a non essere discriminati per l’uso dell’una o altra lingua (la Repubblica
tutela le minoranze linguistiche, ex art. 6 Cost.). Tuttavia, la lingua italiana non può non avere
posizione privilegiata;
4. Divieto di discriminazione in ragione della religione: piena parità di tutti i cittadini,
qualunque sia la fede professata ed anche se non credenti. Tale principio va letto in stretta
connessione con il principio dell’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla
legge (art. 8, 1° comma) sul cui combinato disposto la giurisprudenza ha fondato il principio
di laicità o non confessionalità dello Stato, riconosciuto quale principio supremo. È inoltre
correlato al principio della libertà religiosa, che garantisce a tutti il diritto alla pari professione
della propria fede religiosa in tutte le possibili manifestazioni. Tale diritto trova oggi ampio
riconoscimento anche nell’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Per i rapporti fra Stato e Chiesa, l’art. 7 non costituzionalizza i Patti lateranensi, ma il
principio concordatario, secondo cui i rapporti fra Stato e Chiesa devono essere disciplinati
consensualmente. I rapporti fra Stato e altre confessioni religiose (art. 8, 3° comma) sono
regolati con legge dello Stato, previa intesa con le rispettive rappresentanze;
5. Divieto di discriminazione per le opinioni politiche: affermazione della libertà di
manifestazione del pensiero (art. 21), divieto di privare il cittadino della propria capacità
giuridica, della cittadinanza e del nome per motivi politici (art. 22), ed il riconoscimento della
eguaglianza formale e sostanziale (art. 48). Alcuni limiti a tale diritto possono derivare dal
divieto di associazioni che perseguono scopi politici mediante organizzazioni a carattere
militare (art. 21), vincolo dei partiti politici a rispettare il metodo democratico nella
organizzazione interna (art. 49), e nel dovere di fedeltà dei cittadini alla Repubblica (art. 54);
6. Divieto di discriminazione in base alle condizioni personali e sociali: non sono in assoluto
vietate le discriminazioni fondate su condizioni personali e sociali, purché riguardino
categorie di soggetti e non singole persone e rispondano a criteri di razionalità. Il principio
dell’eguaglianza formale viene cosi dilatato diventando principio di ragionevolezza.
Dai sei specifici divieti di discriminazione è possibile far discendere una vera e propria presunzione
di illegittimità costituzionale di tutte quelle leggi che diano luogo a differenziazioni richiamandosi
ai parametri ivi indicati.

100
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

In ragione della natura multiforme dei principi ricavati dall’art. 3 Cost., sulla base del medesimo
articolo si sono sviluppati due tipi di controllo:
1. A carattere ternario: diretto a sindacare le disparità di trattamento. Il giudizio sul rispetto
del principio di eguaglianza si configura come un giudizio a carattere ternario. La norma
oggetto dell’impugnazione viene posta a confronto con un’altra norma che assurge a termine
di raffronto per verificare l’eventuale sussistenza di una disparità di trattamento;
2. A carattere binario: più ampio e pervasivo, c.d. giudizio di ragionevolezza. La
ragionevolezza prescinde da raffronti con altri termini di paragone. Solo nel caso in cui non
sia possibile ricondurre la disciplina ad alcuna esigenza protetta in via primaria o vi sia una
evidente sproporzione tra i mezzi approntati e il fine perseguito, si può affermare che ci sia
illegittimità costituzionale.
Il principio dell’eguaglianza sostanziale si sostanzia nella liberazione degli individui dal bisogno,
e nell’eliminazione delle disuguaglianze di fatto, pre-condizioni necessarie per rendere possibile
l’accesso ad eguali chances di libertà e l’effettivo godimento dei diritti da parte del singolo.
All’attuazione di tale programma di giustizia sociale, un contributo determinante è venuto dalla
Corte costituzionale, la quale sanciva la “giustiziabilità” del programma costituzionale, dal momento
che stabiliva che potessero fungere da parametro di costituzionalità anche le norme di natura
programmatica contenute nella Costituzione, estendendo in questo modo la garanzia del controllo a
tutto il piano costituzionale.
In dottrina si è sostenuto che la disposizione possiede tre potenziali effetti normativi:
• Uno interpretativo, necessario ad interpretare le clausole generali;
• Uno limitativo, risultando preclusiva di una legislazione contrastante con il programma di
emancipazione sociale finalizzato al raggiungimento dell’eguaglianza “di fatto”;
• Uno di rottura delle altre garanzie costituzionali.
L’uguaglianza sostanziale non rappresenta una negazione di quella formale, in quanto vi è
interpretazione unitaria dei due principi.
A livello comunitario il principio di uguaglianza trova espresso riconoscimento solo nella Carte dei
diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 2 TUE), la quale “mira a combattere le discriminazioni
fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità,
l’età o l’orientamento sessuale” (art. 10 TFUE).

Il “catalogo” dei diritti costituzionali: le libertà individuali


Per situazione giuridica soggettiva si intende la posizione giuridicamente rilevante di un soggetto
rispetto ad un altro. Si suole distinguere tali situazioni in:
• Attive, dette anche favorevoli o poteri in senso ampio:
o Diritto soggettivo: designa la pretesa o il potere di agire dei soggetti dell’ordinamento,
per il soddisfacimento di un proprio interesse riconosciuto e tutelato dal diritto
oggettivo; si distingue in:
§ Diritti assoluti, nel cui alveo ricadono sia i diritti della personalità o diritti
fondamentali dell’uomo come il diritto alla vita, all’integrità fisica, al nome,
all’immagine, all’onore, alla privacy, i diritti di libertà personale, di pensiero,
di religione, si associazione, di riunione, sia i diritti patrimoniali quali i diritti
reali. Possono essere fatti valere erga omnes;
§ Diritti relativi: esigono la collaborazione del terzo per la realizzazione
dell’interesse ad essi sotteso. Si tratta, di norma, di diritti di credito e sono
azionabili nei confronti di uno o più soggetti nell’ambito di un determinato
rapporto giuridico;
o Potere: consiste nella possibilità attribuita ad un soggetto di produrre determinati
effetti giuridici, ossia di costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico;

101
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

o Potestà: consiste in un potere-dovere attribuito ad un determinato soggetto al fine di


tutelare un interesse altrui che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela;
o Diritto potestativo: è riconosciuto nell’interesse dello stesso titolare. Esprime il
potere di produrre determinati effetti giuridici mediante una dichiarazione unilaterale
di volontà. Si esaurisce nell’esercizio di un potere (es: diritto ad accettare eredità);
o Permesso: consiste nella possibilità, riconosciuta dall’ordinamento giuridico, di
compiere liberamente un atto, un’azione (es: permesso di fumare all’aperto);
o Facoltà: non è una situazione giuridica soggettiva autonoma ma uno dei modi
attraverso i quali può esercitarsi un diritto. Forma parte del contenuto del diritto stesso.
o Interesse legittimo: sussiste qualora vi sia corrispondenza fra la pretesa del singolo e
l’interesse giuridicamente rilevante a che la p.a. esplichi la sua attività conformemente
alla legge. Consiste quindi nella pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa.
(Es: interesse del concorrente a che siano esclusi dalla graduatoria coloro che risultino
privi dei requisiti richiesti nel bando di un concorso);
o Aspettativa: posizione di attesa di un effetto acquisitivo incerto, che corrisponde ad
un diritto soggettivo in formazione. (Es: contratto sottoposto a condizione sospensiva).
• Passive, dette anche sfavorevoli o doveri in senso ampio:
o Dovere: il contenuto può avere ad oggetto una condotta commissiva (comando). È una
situazione imputabile ad una pluralità di soggetti, non sempre determinabili;
o Obbligo: il contenuto può avere ad oggetto una condotta omissiva (divieto). È la
situazione in cui si trova colui che è tenuto ad adottare un comportamento al fine di
soddisfare l’interesse del titolare del diritto soggettivo corrispondente;
o Onere: si ha quando un soggetto è tenuto ad un determinato comportamento al fine di
conseguire un proprio interesse;
o Soggezione: situazione in cui si trova colui che, pur non essendo tenuto a seguire una
certa condotta in forza di un preciso obbligo, deve tuttavia subire gli effetti della
potestà di altri (es: soggezione del minore ai genitori).
L’ordinamento riconosce soggettività giuridica anche alla collettività (situazioni attive).
• Interessi collettivi: esigenze comuni a un gruppo sociale ben definito, ossia appartenente ad
una stessa categoria e legato da un vincolo associativo (es: lavoratori). La tutela dei loro
interessi è garantita tramite l’attribuzione ad organismi rappresentativi degli interessi di
categoria (es: sindacati) del potere di agire e resistere in giudizio;
• Interessi diffusi: esigenze omogenee per una pluralità di soggetti. Sono tutelati in funzione
della loro rilevanza sociale, in quanto collegati a “bisogni della collettività”. Ad esempio:
salvaguardia del paesaggio (art. 92), tutela della salute (art. 32).
Quella delle c.d. libertà attinenti alla persona è una normativa costruita intorno a quell’unica
“libertà individuale” garantita dall’art. 26 dello Statuto Albertino.
La classica e primaria tra le libertà individuali è la libertà personale, qualificata come inviolabile
dall’art. 13 Cost., che si concreta in libertà dagli arresti arbitrari. L’art. 13 Cost. contempla il diritto
di disporre liberamente della propria persona senza coercizioni fisiche compiute in assenza
dell’intervento dell’autorità giudiziaria (e anche senza menomazioni della libertà morale).
Un’altra tesi dottrinale definisce la libertà individuale come libertà psicofisica, come libertà della
mente e del corpo nella loro indissolubile unità.
A questo “diritto fondamentalissimo della persona” possono ricondursi tanto i singoli diritti
personali enumerati in Costituzione, quanto quelli riconducibili agli aspetti essenziali della persona
come unità psicofisica.
In primo luogo vengono in evidenza i diritti di identità personale, posti a presidio dell’integrità
della sfera personale dell’uomo e della sua libertà di autodeterminarsi nella vita privata, quali:
• Il diritto al nome, segno distintivo dell’identità personale (art. 22 Cost.);
• Il diritto all’immagine, correlato con i diritti all’intimità o interiorità;

102
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Il diritto all’identità sessuale, inizialmente disconosciuto e ora riconosciuto come “aspetto


e fattore di svolgimento della personalità”;
• Il diritto alla c.d. libertà sessuale.
In secondo luogo vengono in rilievo i diritti all’integrità psicofisica della persona, tra cui:
• Il diritto alla vita, considerato un diritto implicito nella nostra Costituzione.
Infine occorre far riferimento ai diritti all’interiorità e alla coscienza, tra i quali vanno annoverati:
• Il diritto all’onore ed alla reputazione, qualificati come valori fondamentali;
• Il diritto alla rettifica di notizie che riguardano il singolo;
• Il diritto del proprio decoro, della propria rispettabilità, riservatezza, intimità.
In questo ambito, viene in particolare rilievo la libertà di coscienza, l’aspetto della personalità in cui
si manifesta il valore della dignità umana, capace di prevalere rispetto ad altri diritti fondamentali ed
inviolabili. Esso costituisce un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di
esenzioni privilegiate dell’assolvimento di doveri pubblici, qualificati dalla Costituzione come
inderogabili (c.d. obiezione di coscienza).
Vi è poi il diritto alla privacy il cui rispetto è assicurato dall’istituzione di un apposito “Garante per
la protezione dei dati personali”. In questi anni tale tema ha assunto ruolo rilevante.
L’art. 13 Cost. prevede che le restrizioni della libertà personale possono essere disposte solo nei casi
e modi previsti dalla legge, e con atto motivato dell’autorità giudiziaria. Abbiamo pertanto due
ordini di garanzie con riguardo alla disciplina restrittiva della libertà personale:
• Una riserva assoluta di legge, riferita alla sola legge statale, laddove si precisa che la legge
deve indicare tassativamente i casi eccezionali di necessità ed urgenza (tra cui rientrano gli
strumenti dell’arresto in flagranza ed il fermo dell’indiziato di delitto);
• Una riserva di giurisdizione, laddove si prevede l’adozione di un meccanismo procedurale
rigorosamente scandito nei tempi e nelle competenze: i provvedimenti provvisori devono
essere comunicati entro 48 ore all’autorità giudiziaria, che deve convalidarli entro tale
termine, altrimenti si intendono revocati.
L’art. 111, 7° comma, Cost. sancisce che contro i motivati procedimenti sulla libertà personale
pronunciati dall’autorità “è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge”, nonché
la legge istitutiva del c.d. Tribunale della libertà e l’istituto del riesame delle misure coercitive.
L’art. 13 Cost. prevede al 4° comma che sia “punita ogni violenza fisica e morale sulle persone
comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. L’art. 27, 3° comma, sancisce poi che “le pene non
devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato”. Da tale previsione si è ricavato il principio di umanizzazione della pena,
estrinsecazione del principio del rispetto della personalità e della pari dignità di tutti. La sanzione
detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione della libertà della persona, pur
costituendone grave limitazione, ma non la soppressione.
La libertà personale, in quanto libertà della persona, ha una tale valenza espansiva da non tollerare di
venir integralmente sacrificata neppure in caso di detenzione.
È inoltre attribuita alla legge, dal 5° comma dell’art. 13, la determinazione dei limiti massimi della
carcerazione preventiva (es. custodia cautelare), che non può trasmodare in una sorta di pena
anticipata in quanto deve coniugarsi con il principio della presunzione di non colpevolezza
dell’imputato.
Altre misure limitatrici della libertà personale si rinvengono nelle misure di sicurezza personali,
previste dall’art. 25, 3° comma, Cost, che le sottopone al principio di legalità; e nelle misure di
prevenzione previste dalle leggi di polizia, misure specialpreventive ma fondate di “fattispecie di
sospetto”, che sono state ritenute comunque legittime dalla Corte costituzionale, sull’assunto che
“l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti tra i cittadini deve essere garantito, oltre che dal
sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un parallelo sistema di adeguate misure
preventive contro il pericolo del loro verificarsi in avvenire”.

103
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Ulteriore forma di limitazione della libertà personale è stata introdotta dalla disciplina in tema
d’immigrazione e di trattamento degli stranieri extracomunitari. Al fine di introdurre un maggior
rigore nella gestione dei flussi migratori, sono state previste le misure dell’espulsione dello straniero
e del suo trattenimento presso i centri di permanenza temporanea per un tempo che oggi può
raggiungere i 18 mesi. Il legislatore ha introdotto come nuova circostanza aggravante la
clandestinità, prevedendo successivamente anche il reato di immigrazione clandestina.
Un cenno conclusivo va fatto alla tutela speciale e rafforzata della libertà personale dei parlamentari
ad opera dell’art. 68 Cost.
A livello comunitario la tutela della libertà personale può essere individuata nell’art. 6 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, in base alla quale “ogni persona ha diritto alla libertà e alla
sicurezza”. Altre disposizioni della Carta contengono specifiche previsioni relative al diritto alla vita,
con conseguente condanna alla pena di morte (art. 2), al diritto all’integrità fisica e psichica della
persona (art. 3), alla proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (art. 4),
al rispetto della vita privata e di quella familiare (art. 7) ed alla protezione dei dati personali (art. 8).
Istituto parzialmente derogatorio delle garanzie sin ora esaminate, è il mandato d’arresto europeo
(MAE). Con esso si sostituisce l’istituto dell’estradizione con un procedimento più snello e
semplificato, pertanto meno garantista.
L’art. 14 Cost. tutela la libertà di domicilio, intesa come situazione giuridica prossima alla libertà
personale dal momento che il domicilio è proiezione spaziale della persona. La Costituzione ha
esteso alla libertà di domicilio, qualificata anch’essa come inviolabile, le stesse garanzie prescritte
per la libertà personale (art. 14, 2° comma): il che significa che ispezioni, perquisizioni e sequestri
possono concretizzarsi solo sotto la duplice garanzia fondamentale della riserva assoluta di legge,
nonché della riserva di giurisdizione.
L’art. 14 introduce, al 3° comma, una deroga alla disciplina generale, prevedendo che leggi speciali,
per soli “motivi di sanità e incolumità pubblica o per fini economici o fiscali” possano regolare taluni
atti limitativi del domicilio, quali gli accertamenti e le ispezioni, svincolandosi in questo modo dalle
ordinarie forme della riserva di giurisdizione.
Domicilio: sede principale degli affari (codice civile) e luogo di privata dimora (codice penale), se
non luogo in cui il soggetto abbia la disponibilità a titolo privato per lo svolgimento di attività
connesse alla vita privata dal quale egli intende escludere terzi (nozione costituzionale).
L’art. 16 Cost., al 1° comma, garantisce al cittadino la libertà di circolare e soggiornare in qualsiasi
parte del territorio nazionale. Si ha una riserva di legge rinforzata, ritenuta, per di più, relativa, dal
momento che l’art. 16 affida alla legge il compito di stabilirne le limitazioni, escludendo restrizioni
determinate da ragioni politiche.
Tale articolo garantisce inoltre la libertà di espatrio non assoggettando il cittadino ad alcun limite
specifico se non quello di aver adempiuto agli obblighi di legge (dotarsi di un passaporto, il cui
rilascio costituisce un vero e proprio diritto soggettivo).
Strettamente collegata alla libertà d’espatrio è la libertà di emigrazione, intesa come tutela del diritto
di espatriare per prestare attività lavorativa all’estero.
La libertà di circolazione delle persone nell’ambito dell’Unione europea nasce come uno dei pilastri
dell’integrazione comunitaria, direttamente collegata all’esercizio di un’attività lavorativa in uno dei
Paesi membri (unitamente alla libertà di stabilimento), ed è considerato il primo corollario della
cittadinanza europea, tanto più dopo che con l’accordo di Schengen del 1990 sono venuti meno i
controlli sulle persone alle frontiere tra la maggior parte dei paesi dell’Unione europea.
L’art. 15 Cost. tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza, e di ogni altro mezzo di
comunicazione. Tale libertà si caratterizza per la presenza dell’intersoggettività (la comunicazione
deve essere indirizzata ad uno o più soggetti) e dell’attualità. L’ambito di protezione offerta (che non
a caso fa riferimento ad ogni forma di comunicazione) è inteso nel senso più ampio possibile,
tutelando sia la posizione del mittente che quella del destinatario. Anche le limitazioni di libertà e
segretezza sono garantite da una doppia riserva, di giurisdizione e di legge. Tuttavia, la tutela non

104
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

è assoluta: può incontrare limitazione nel caso in cui concorrano interessi meritevoli di altrettanta
tutela. Il diritto è restringibile dall’autorità giudiziaria soltanto nella misura strettamente necessaria
alle esigenze di indagine legate al compito di repressione dei reati.
L’art. 21 Cost. riconosce a tutti la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di
diffusione, nonché il libero uso dei mezzi di comunicazione. Il diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero incontra il limite esplicito del buon costume, concernente tutte le manifestazioni
del pensiero ad eccezione delle manifestazioni artistiche e scientifiche, che godono di tutela rafforzata
(art. 33 Cost.). Si possono incontrare ulteriori limiti impliciti, derivanti dall’esistenza di beni o
interessi diversi; in tali limiti rientrano quelli che discendono dai diritti della personalità (tutela
dell’onore, della reputazione, della riservatezza e del diritto d’autore), dalla protezione delle varie
forme di segreto (segreto di Stato, segreto d’ufficio e segreto professionale) e dall’ordine pubblico.
L’art. 21 Cost. tutela anche la libertà d’informazione intesa come interesse generale della collettività
all’informazione (ad informare e ad essere informati). Tuttavia, il diritto all’informazione dei
cittadini si scontra con l’esigenza di una tutela del principio del pluralismo dell’informazione, che va
difeso contro l’insorgere di posizioni dominanti o comunque preminenti.
Da tali premesse scaturiscono le diverse discipline dettate dai legislatori per assicurare il pluralismo
nella stampa e nel sistema radiotelevisivo, per finire con la più recente disciplina comunitaria
delle comunicazioni elettroniche, che impone agli interventi comunitari e statali in materia di
garantire “il pluralismo e la diversità culturale e linguistica”.
La libertà di stampa è l’unica disciplina analiticamente tutelata dalla Costituzione, quale mezzo di
diffusione tradizionale e tuttora insostituibile ai fini dell’informazione dei cittadini e quindi della
formazione di una pubblica opinione avvertita e consapevole. La previsione costituzionale prevede
la sottrazione della stampa a controlli preventivi (autorizzazioni o censure) o successivi (sequestro),
con la duplice garanzia di riserva assoluta di legge e riserva di giurisdizione. Solo nei casi di assoluta
urgenza in cui non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il 4° comma dell’art.
21 Cost. autorizza l’intervento dell’autorità di polizia a intervenire con dimezzamento dei tempi (24
ore anziché 48). Il successivo 5° comma prevede, al fine di assicurare la trasparenza della proprietà,
che il legislatore possa imporre di rendere noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.
A tale disposizione è stata data attuazione con la legge di riforma dell’editoria, la l. n. 416/1981,
che ha introdotto il primo esempio di normativa antitrust sulla cui applicazione è chiamata a vigilare
l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. È richiesto il pluralismo informativo.
La stessa preoccupazione costante di assicurare l’effettiva garanzia del valore fondamentale del
pluralismo si è avuta anche nella disciplina del sistema radiotelevisivo, che ha visto il passaggio da
un iniziale regime di monopolio pubblico all’attuale sistema misto pubblico-privato (c.d. legge
Mammì, l. n. 223/1990).
A tal fine, la Corte ritiene inizialmente che la legittimità della riserva allo Stato dell’attività
radiotelevisiva su scala nazionale si possa giustificare proprio onde evitare l’accentramento di questa
attività in situazioni di monopolio od oligopolio privati, e garantirne lo svolgimento in più favorevoli
condizioni di obiettività, imparzialità, completezza e continuità su tutto il territorio nazionale. Di lì a
poco la Corte costituzionale inizia a porre in discussione il monopolio pubblico.
Il costituirsi di un forte monopolio di un solo operatore privato, che ha assorbito la gran parte delle
emittenti locali, cominciando a trasmettere anche su scala nazionale, è stato possibile grazie ad una
disciplina legislativa transitoria che legittimava a posteriori la situazione di fatto creatasi (c.d. decreto
Berlusconi).
Per la nascita di un sistema radiotelevisivo pubblico-privato bisogna attendere la legge Mammì del
1990, che non fa altro che ratificare i rapporti già esistenti, individuando i principi fondamentali del
sistema radiotelevisivo, che si realizzano con il concorso di soggetti pubblici e privati. La legge
introduce altresì la normativa antitrust attraverso la determinazione del numero massimo di
concessioni radiotelevisive rilasciabili ad un unico soggetto. Tale limite (25% delle reti) è stato
considerato dalla Corte costituzionalmente illegittimo e pertanto è stato ridotto, con la legge
Meccanico, al 20% e si è consentita la prosecuzione dell’esercizio delle reti analogiche eccedenti.
105
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Tuttavia, la Corte ha censurato tale previsione fissando come unico termine per il trasferimento sul
satellite delle reti eccedenti il limite del 20% da parte dei soggetti privati titolari, il 31 dicembre 2003.
Tale termine tuttavia è stato reso inoperante per effetto dell’approvazione, nel 2004, della legge
Gasparri, ennesimo intervento legislativo che, oltre ad avviare la progressiva privatizzazione della
RAI, tenta di riportare nei limiti percentuali stabiliti dalla legge le posizioni dominanti attualmente
esistenti, promuovendo l’accelerazione del passaggio al digitale terrestre e operando una
razionalizzazione della normativa antitrust, attraverso di un limite raggiungibile da un unico soggetto,
calcolato sul totale dei ricavi provenienti dal c.d. sistema integrato della comunicazione (SIC).
A livello comunitario, la libertà di pensiero è tutelata dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali
(intesa come libertà di formare liberamente il proprio pensiero). L’art. 11 invece tutela la libertà di
espressione, intesa come libertà di comunicare liberamente le proprie idee ed opinioni. Nella
disposizione trova espresso riconoscimento la libertà di informazione (libertà ad informare e ad
essere informati), il cui rispetto deve essere garantito unitamente al fondamentale principio del
pluralismo dei media.
Uno dei corollari della libertà di manifestazione del pensiero è rappresentata anche dalla libertà
dell’arte e della scienza (art. 33, 1° comma), che deve essere protetta da indebite ingerenze dello
Stato, assicurando alle istituzioni di alta cultura, università ed accademie il diritto di darsi ordinamenti
autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato (art. 33, 6° comma, Cost.).
Alla Repubblica è affidato il compito di promuovere lo sviluppo della cultura (art. 9, 1° comma),
introducendo il principio del pluralismo scolastico (obbligo per lo Stato di istituire scuole statali per
tutti gli ordini e gradi, e il correlato diritto riconosciuto ad enti privati di istituire scuole ed istituti di
educazione che possono essere parificati a quelli statali, secondo quanto previsto dalla legge n.
62/2000). L’art. 33, 1° comma, prevede anche la libertà di insegnamento dell’arte e della scienza.
Tali libertà sono sancite anche dall’art. 13 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Le libertà collettive
L’esercizio delle libertà collettive presuppone il concorso di una pluralità di soggetti, accomunati da
un unico fine.

L’art. 17 riconosce il diritto di riunione a condizione che essa si svolga pacificamente e senza armi.
Tale libertà è caratterizzata dalla volontaria compresenza di più persone in un medesimo luogo e per
il perseguimento di uno scopo comune. La riunione si differenzia dall’associazione per l’assenza del
vincolo ideale intercorrente tra i membri dell’associazione.
Occorre distinguere fra riunioni:
• In luogo privato (a cui può accedere solo chi ha il consenso del soggetto che ne abbia la
responsabilità giuridica, come la riunione in una casa privata);
• In luogo aperto al pubblico (a cui può accedere chiunque a determinate condizioni fissate da
chi ne abbia la responsabilità giuridica, come il pagamento di un biglietto per il cinema);
• In luogo pubblico (a cui può accedere chiunque): queste ultime sono assoggettate all’obbligo
del preavviso all’autorità di pubblica sicurezza ed alla possibilità di divieto preventivo per
comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica.
L’art. 18 definisce la libertà di associazione, ossia la libertà sociale dei cittadini da tutelare come
diritto inviolabile. Introduce in materia una riserva in favore della sola legge penale. Essa va intesa
anche in senso negativo, ossia come libertà di non associarsi. Ciò non significa che occorre ritenere
lesiva della libertà negativa di associazione “l’imposizione da parte della legge di obblighi di
appartenenza, per la tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti”.
I fini per i quali i singoli possono associarsi sono individuati in negativo dall’art. 18 Cost. tra quelli
non vietati ai singoli dalla legge penale. Il che significa che l’art. 18 Cost. assicura alle associazioni
“una sfera di azione potenzialmente eguale a quella garantita ai singoli individui, ossia la proiezione,
sul piano dell’azione collettiva, della libertà individuale”.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Infine, il 2° comma dell’art. 18 introduce alla libertà di associazione due limiti specifici:
• Associazioni segrete: associazioni che perseguono il fine di condizionare i pubblici poteri,
svolgendo un’attività di interferenza illecita sui processi di decisione politica;
• Associazioni paramilitari: organizzate sulla base di una struttura gerarchica interna, di tipo
militare e che persegua scopi politici.
A tali divieti va aggiunto quello di riorganizzazione del disciolto partito fascista.
Alla libertà di associazione sono riconducibili gli artt. 39 e 49 Cost. a tutela, rispettivamente,
dell’associazione sindacale e di quella politica.
La libertà di associazione sindacale, oltre a dover essere intesa anche in senso negativo, garantisce
a tutti i lavoratori la libertà di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e svolgere attività sindacale
all’interno dei luoghi di lavoro, reprimendo nel contempo la condotta antisindacale del datore di
lavoro. Le organizzazioni sindacali possono svolgere questo fondamentale ruolo in sede di
contrattazione collettiva delle condizioni di lavoro con efficacia erga omnes (ossia efficacia
obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce), a prescindere
dalla loro iscrizione ai sindacati stipulanti ed alla duplice condizione che questi ultimi si dessero un
ordinamento interno a base democratica e si registrassero presso uffici per acquisire personalità
giuridica. Tali previsioni costituzionali, tuttavia, sono rimaste del tutto inattuate per consapevole
volontà delle stesse associazioni sindacali, da sempre diffidenti verso ogni forma di ingerenza
pubblica nella loro organizzazione interna.
La libertà di associarsi in partiti politici consiste nel “concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.). È prevista la possibilità dall’art. 98, 3° comma, di
vietare per legge il diritto di iscriversi ad un partito politico per una serie di pubblici dipendenti
(magistrati, militari, poliziotti, diplomatici e consolari all’estero). Oltre all’esplicito divieto di
ricostituzione del partito fascista, nessun altro limite di natura ideologica può essere fatto valere nei
confronti dei partiti politici, che sono pertanto assoggettati al solo limite del rispetto del metodo
democratico. Il che trova conferma nel fatto che le uniche forme di controllo sulla vita interna dei
partiti sono di carattere strettamente finanziario, e sono state introdotte con la legislazione sul
finanziamento pubblico dei partiti. Con il d.l. 13 dicembre 2013 si è disposta infine l’abolizione del
finanziamento pubblico diretto. In ambito comunitario a tali libertà fa riferimento l’art. 12 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

I diritti sociali
I diritti sociali sono stati relegati a lungo in una situazione di minorità rispetto ai diritti di libertà,
anche a causa della loro tarda e carente codificazione nelle Costituzioni scritte, avvenuta per la prima
volta nel 1919 con la Costituzione di Weimar.
Nella Costituzione italiana il catalogo dei diritti sociali (contentnte una loro classificazione sotto il
profilo tematico, che pone al centro la persona umana) si presente con caratteri di peculiare
originalità. La giurisprudenza costituzionale li ha riconosciuti come “diritti perfetti”, offrendo ad essi
una piena protezione di livello costituzionale. I diritti sociali si distinguono in:
• Originari o incondizionati: attengono a rapporti giuridici che si istituiscono su libera
iniziativa delle parti, al fine di qualificare il tipo o la quantità di talune prestazioni, e possono
essere fatti valere direttamente dagli aventi diritto;
• Derivati o condizionati: il loro godimento dipende dall’esistenza di un’organizzazione
necessaria e idonea all’erogazione della prestazione oggetto dei diritti stessi, e presuppongono
l’intervento legislativo, con la conseguenza che si configurano come pretese direttamente
azionabili soltanto allorché sussistono le condizioni di fatto prestabilite dal legislatore.
Anche i diritti sociali condizionati sono, al pari di tutti i diritti costituzionalmente riconosciuti, valori
costituzionali primari, e in quanto tali “oltre ad essere irrinunciabili, inalienabili, indisponibili,
intrasmissibili, essi tendono ad assorgere al rango di diritti inviolabili”.
Tra i diritti sociali se ne annoverano vari tipi:

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• Diritto al lavoro (art. 4): fondamentale diritto di libertà della persona umana che si estrinseca
nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa. Tale articolo non contempla alcun
riconoscimento né del diritto al conseguimento di un posto di lavoro, né di quello alla sua
conservazione. Esso costituisce il principio ispiratore nonché la norma fondamentale
dell’insieme dei diritti riguardanti il lavoro. L’art. 35 Cost. impone ai pubblici poteri la tutela
del lavoro perseguendo la cura della formazione e dell’elevazione professionale dei lavoratori.
L’art. 36 detta la regolamentazione su taluni punti essenziali del rapporto di lavoro come
l’obbligo retributivo in termini di proporzionalità e sufficienza (concetto di giusta
retribuzione), al fine di sopperire alle necessità di vita del lavoratore e dei suoi familiari. Vi
sono apposite garanzie costituzionali per quel che concerne la durata delle pause giornaliere,
settimanali e annuali, nell’art. 36, al fine di consentirgli di vivere un’esistenza libera e
dignitosa. L’art. 37 introduce il divieto di operare discriminazioni a danno delle donne e dei
minori e, nel contempo, introduce particolare tutela per le lavoratrici madri. Tale tutela si è
evoluta ad una tutela diretta ed autonoma della maternità e dell’infanzia, onde consentire alla
donna l’adempimento della sua essenziale funzione familiare ed assicurare alla madre e al
bambino un’adeguata protezione. Inoltre, al 2° e al 3° comma la Repubblica si impegna ad
assicurare la tutela del lavoro dei minori, avendo particolare riguardo al limite minimo di
età per il lavoro salariato;
• Diritto all’assistenza e previdenza sociale: introdotto dall’art. 38 Cost. Assistenza e
previdenza si differenziano sia nella diversità dei soggetti beneficiari che nel contenuto
finalistico. L’assistenza prevede dal lato attivo il diritto del cittadino al mantenimento ed
all’assistenza sociale e dal lato passivo l’obbligo di prestazioni dirette a provvedere ai mezzi
necessari per vivere; la previdenza prevede, dal lato attivo, che i lavoratori siano forniti dei
mezzi adeguati alle loro esigenze di vita al verificarsi delle specifiche condizioni
costituzionalmente previste (infortunio, invalidità, vecchiaia ecc.), e dal lato passivo l’obbligo
di prestazioni previdenziali idonee a garantire la realizzazione di tale diritto, alimentate
principalmente dalle contribuzioni versate e dunque attraverso un modello di tipo
mutualistico-assicurativo;
• Diritto di sciopero: strumento più efficace di autotutela degli interessi collettivi dei
lavoratori. Sancito dall’art. 40 Cost., che opera un rinvio alla legislazione. Si tratta di un
diritto individuale ad esercizio collettivo, condizionato dall’esistenza di un contratto di
lavoro. Il legislatore riconosce uno “statuto speciale” per lo sciopero effettuato a difesa
dell’ordine costituzionale, e a quello posto in essere per gravi eventi lesivi dell’incolumità e
della sicurezza dei lavoratori, esonerandoli dall’osservanza degli obblighi di preavviso e di
comunicazione della durata dello sciopero, previsti per tutti gli scioperi nei servizi pubblici
essenziali. La legge n. 146/1990 introduce la prima disciplina legale che interviene a
regolamentare il diritto di sciopero, e che opera solamente nella misura necessaria a garantirne
il bilanciamento con gli altri diritti fondamentali della persona. Il legislatore demanda
all’autonomia collettiva di specificare il concetto di prestazioni minime che, anche in
occasione di sciopero, devono essere garantite. Affida poi ad una Commissione di garanzia
per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali il potere di valutare
l’idoneità degli atti di autonomia collettiva posti in essere. In ambito comunitario la tutela dei
diritti attinenti il mondo del lavoro non assume centralità rilevante;
• Diritto alla salute: sancito dall’art. 32 Cost. Costituisce un valore costituzionale primario che
può essere scisso nei due aspetti di diritto dell’individuo e di interesse della collettività.
Nella tutela prevista dall’art. 32, 1° comma, sono comprese situazioni giuridiche diverse:
o Diritto alla complessiva situazione di integrità psico-fisica della persona umana in
tutte le attività in cui si realizza la sua personalità;
o Diritto ai trattamenti sanitari.
Il tema dei trattamenti sanitari obbligatori (malattie infettive, vaccinazioni obbligatorie,
accertamenti di tossicodipendenza e sieropositività HIV) è da considerarsi eccezione rispetto
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

al principio generale. Le condizioni di legittimità alle quali deve sottostare qualsiasi legge
impositiva di trattamenti sanitari obbligatori, vanno rinvenute nella riserva di legge statale e
nel limite irriducibile della persona umana nonché alla necessaria compresenza dell’interesse
alla salute del singolo ed anche della collettività. In ambito comunitario tale garanzia è
assicurata dall’art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;
• Diritto alla salubrità dell’ambiente: strettamente connesso con il diritto alla salute. È il
diritto ad un ambiente salubre che vanta ogni cittadino, individualmente e collettivamente, nel
contesto di una concezione unitaria del bene ambientale. Il valore all’ambiente assurge così a
valore primario e assoluto e si configura sia come interesse della collettività che come diritto
soggettivo individuale. È previsto anche un vero e proprio diritto di accesso alle informazioni
ambientali. In ambito comunitario ha rilevanza fondamentale;
• Diritto all’abitazione: ricavabile dagli artt. 42, 47 e 14 come diritto strumentale e concorrente
rispetto ad altre situazioni soggettive riconosciute di bisogno, diretto ad integrare la garanzia
delle condizioni minime essenziali per un’esistenza libera e dignitosa. Anche in ambito
comunitario l’art. 34 riconosce e tutela il diritto all’assistenza abitativa;
• Diritto allo studio: riconosciuto dall’art. 34 Cost. Si articola nella previa garanzia della libertà
di scelta della scuola, nel diritto a ricevere un insegnamento e all’intervento attivo di tutti i
pubblici poteri a garanzia dell’effettività del diritto allo studio. L’effettività dell’istruzione
dell’obbligo è garantita dalla sua gratuità mentre per l’istruzione superiore è garantita anche
a chi sia privo di mezzi, mediante borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze
pubbliche. In ambito comunitario è sancito dall’art. 14 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea.

Le libertà economiche
Alla base di quella che viene definita Costituzione economica si pongono l’insieme delle
disposizioni costituzionali ricomprese nel Titolo III, Parte Prima, della Carta costituzionale, dedicato
alla disciplina dei rapporti economici, nel cui ambito:
• Gli artt. 35-40 Cost. riguardano i rapporti di lavoro;
• Gli artt. 41-47 Cost. investono le libertà economiche, ossia quel complesso di norme
costituzionali che ruotano da un lato attorno alla libertà di iniziativa economica e
dell’esercizio del diritto di proprietà, e dall’altro alla disciplina dell’intervento pubblico.
Le pretese pubbliche d’intervento nello spazio economico privato, trovano espressione nei penetranti
vincoli cui la Costituzione sottopone la libertà dell’iniziativa economica e privata, che incontra il
limite negativo dell’utilità sociale e quello positivo dei fini sociali.
Il perseguimento dei fini sociali si è realizzato inizialmente con lo strumento della programmazione
economica nazionale, e in seguito con l’introduzione di una vera e propria legislazione antitrust,
diretta ad impedire la formazione di posizioni dominanti sul mercato.
Ulteriori vincoli sono posti dall’art. 43 Cost., che disciplina le nazionalizzazioni o le collettivizzazioni
di determinate imprese o categorie d’imprese. L’unico caso di nazionalizzazione è stato quello delle
imprese produttrici di energia elettrica, che ha dato vita all’Enel, ma recentemente si è sviluppata
l’opposta tendenza verso il superamento del monopolio pubblico e verso la privatizzazione delle
imprese pubbliche.
Anche il diritto di proprietà (che l’art. 42, 2° comma, Cost. riconosce e garantisce) incontra vincoli
penetranti che, da un lato, sono finalizzati ad assicurare la funzione sociale della proprietà e a renderla
accessibile a tutti e, dall’altro, a prevedere la possibilità di pervenire all’espropriazione per motivi
d’interesse generale, salvo indennizzo che, per quanto non possa ristorare integralmente il sacrificio,
non deve essere simbolico o rappresentativo, ma deve costituire un vero ristoro.
Le libertà economiche sono state enormemente valorizzate con l’affermarsi dei principi posti a
fondamento dell’integrazione europea, che esprimono una chiara scelta in favore di “un’economia di
mercato aperta e in libera concorrenza”, al fine di realizzare il mercato interno.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Nell’ambito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea le libertà economiche sono
contemplate negli artt. 16 e 17, relativi rispettivamente alla libertà di impresa e al diritto di
proprietà.

I doveri costituzionali
La Repubblica, ai sensi dell’art. 2 Cost., richiede l’adempimento ai “doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale”.
I richiamati doveri costituzionali vengono tradizionalmente distinti in:
• Doveri di solidarietà economica e sociale
o Dovere del lavoro: dovere di svolgere una funzione che concorra al progresso della
società (art. 4, 2° comma, Cost.);
o Obbligo di prestazioni personali e patrimoniali, ai sensi dell’art. 23 Cost., che
vengono tuttavia sottoposte ad una riserva relativa di legge, secondo il principio della
autoimposizione, che richiama la formula “no taxation without representation”;
o Doveri dei genitori nei confronti dei figli di mantenerli, istruirli ed educarli, anche
se nati al di fuori del matrimonio (art. 30, 1° comma, Cost.);
o Dovere di sottoporsi a trattamenti sanitari previsti dalla legge a tutela del diritto
fondamentale alla salute, sancito dall’art. 32, 2° comma, Cost.;
o Dovere d’istruzione nell’ambito della scuola pubblica (art. 34), per almeno 8 anni, la
quale è obbligatoria e gratuita, che va posto in relazione con l’obbligo gravante sulla
Repubblica, ex art. 33, di istituire scuole statali per tutti gli ordini e i gradi;
o Dovere di contribuire alle spese pubbliche, previsto dall’art. 53 Cost. anche per i
non cittadini, secondo il duplice criterio della proporzionalità (in ragione della capacità
contributiva di ciascuno) e della progressività delle imposte.
• Doveri di solidarietà politica
o Dovere di voto, qualificato dall’art. 48, 2° comma, come “dovere civico”; l’eventuale
mancato adempimento tuttavia non comporta alcuna conseguenza;
o Dovere di difesa della Patria, che l’art. 52, 1° comma, definisce “sacro dovere del
cittadino”, proseguendo poi a disciplinare il servizio militare. Il Parlamento,
nell’istituire il servizio militare professionale, ha finito con il sospendere
definitivamente la leva obbligatoria dal 1° gennaio 2005 (gli ultimi ad aver praticato
la leva obbligatoria sono stati i nati nell’85);
o Dovere di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle leggi,
sancito dall’art. 54, 1° comma, Cost. Al 2° comma è posto anche il dovere di
adempiere con disciplina e onore le funzioni pubbliche.

I diritti fondamentali nella dimensione europea (in specie nella CEDU e nella Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea)
Nel corso degli anni è andato sempre più sviluppandosi il processo di sovranazionalizzazione dei
diritti con il graduale affermarsi dell’idea della protezione dei diritti come specifico compito della
Comunità internazionale. Il diritto internazionale ha cominciato a interessarsi dell’uomo dopo la
seconda guerra mondiale e la caratterizzazione antropocentrica delle principali Carte internazionali,
si spiega come reazione agli orrori della guerra e dei regimi totalitari.
Tale processo ha portato in Europa nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), adottata nel 1950 dagli Stati membri del Consiglio
d’Europa. Tale Consiglio nel frattempo ha predisposto strumenti e misure ulteriori per la protezione
dei diritti dell’uomo, tra cui la Carta sociale europea. La CEDU (integrata da successivi protocolli) è
la più importante Carta di diritti adottata in seno al Consiglio d’Europa.
I diritti da essa previsti sono assistiti da specifiche garanzie giurisdizionali, potendo le violazioni
essere fatte valere dinnanzi la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha sede a Strasburgo. Ad essa
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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

possono ricorrere tutte le persone fisiche solo dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne; essa si
pronuncia in via definitiva con sentenza a cui le parti s’impegnano a conformarsi. Al Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa spetta vigilare l’esecuzione della sentenza accordando, se necessario,
un’equa soddisfazione della parte lesa. L’esecuzione della sentenza finisce, in realtà, per dipendere
dalla buona volontà dello Stato. Il Presidente del Consiglio promuove gli adempimenti di competenza
governativa conseguenti alle pronunce della Corte e le comunica tempestivamente alle Camere. Tali
disposizioni condizionano la legislazione statale e regionale.
L’eventuale incompatibilità di una norma ordinaria e una norma CEDU si presenta come questione
di legittimità costituzionale. Il giudice comune deve interpretare la disposizione interna in modo
conforme alla disposizione internazionale e, qualora ciò non sia possibile, deve investire la Corte
costituzionale della questione di legittimità.
Le disposizioni CEDU integrano il parametro costituzionale ma non hanno la forza costituzionale.
Hanno invece funzione promozionale esercitata dai contenuti normativi del diritto internazionale e
d’impulso alla modifica della legislazione interna, pure di rango costituzionale.
L’accresciuta rilevanze dei contenuti normativi CEDU trova poi significativi riscontri nel processo
di graduale emersione dei diritti fondamentali realizzatosi a livello dell’ordinamento comunitario.
In tal modo, è stata fornita la base legale per l’adesione dell’Unione alla CEDU.
In virtù del Trattato di Lisbona, “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali” (art. 6, TUE).
In origine i diritti dell’uomo avevano riconoscimento solo parziale nei trattati istitutivi delle Comunità
europee e risultavano in larga parte collegati a finalità economiche. A partire dalla metà degli anni
’60 vi fu una rilevante giurisprudenza in tema di diritti fondamentali che li fece progressivamente
riconoscere come parte integrante del diritto comunitario, in quanto principi generali.
Si è prevista, alla fine, persino una procedura sanzionatoria nei confronti degli Stati che commettano
gravi violazioni dei diritti umani, nonché, per effetto del Trattato di Nizza 2001, la possibilità di
attivare una procedura per accertare in via preventiva se esista il rischio di violazione (Agenzia
dell’Unione europea per i diritti fondamentali).
Importanza rilevante ha la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea adottata a Nizza il
7 dicembre 2000, cui solo ora è attribuito lo stesso valore giuridico dei trattati. Dal 1° dicembre 2009
la Carta è divenuta parametro di legittimità dell’azione degli organi dell’Unione europea, e in
particolare degli atti emanati dalle istituzioni comunitarie.
La Carta consolida “nuovi diritti” aggiornando il catalogo dei diritti nella dimensione europea. I diritti
fondamentali proclamati nella Carta non attengono ai rapporti tra gli Stati europei e i propri cittadini.
Essi vengono conferiti a tutti gli individui che vivono o si trovano in un Paese dell’Unione, nonché
degli Stati membri, ma limitatamente alle attività che esplicano nell’attuazione del diritto
dell’Unione. Di conseguenza le norme che pongono i suddetti diritti fondamentali non sostituiscono
le Carte costituzionali degli Stati membri dell’Unione. Ciò esclude pertanto che la Cara costituisca
uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea.
Si profila un riconoscimento (tutela) multilivello dei diritti fondamentali che si articola su tre piani:
• Livello europeo;
• Livello CEDU;
• Livello nazionale.
Il principio comunitario di eguaglianza pare ancora caratterizzato esclusivamente in senso formale,
traducendosi in diritti di non discriminazione. E ciò si spiega con le origini prettamente economiche
del processo di integrazione europea, secondo una logica che trascende la stessa dimensione europea,
caratterizzando il processo di globalizzazione dell’economia, di liberalizzazione del commercio
mondiale e dei capitali, condotto in questi anni soprattutto da Banca mondiale, WTO e FMI.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo XI
Principi in tema di giurisdizione
L’idea di un’attività diretta alla tutela dei diritti ed alla soluzione delle singole controversie che operi
in una sfera del tutto autonoma e separata rispetto al potere politico trova origine in quella fase storica
che precede la rivoluzione francese, nella quale cominciarono a delinearsi i tratti essenziali della
funzione giurisdizionale.
In Francia, la giustizia dell’antico regime (concentrazione del potere giudiziario nelle mani del
sovrano ma esercitata attraverso i parlamenti) finì per trasformarsi in un sistema frammentato in una
pluralità di giurisdizioni di vario livello che finì per provocare una situazione confusa di equilibri e
conflitti. Il recupero della concentrazione del potere nelle mani del sovrano era avvenuto con
l’istituzione dei c.d. tribunali supremi.
La rottura con questa impostazione avviene con la Costituzione rivoluzionaria del 1791, con la quale
si afferma l’idea che la giustizia è resa gratuitamente da giudici retribuiti dallo Stato, eletti a tempo
determinato dal popolo. Il giudice non può introdurre alcun elemento soggettivo e valutativo perché
questo significherebbe incidere sulla volontà espressa dalla legge. Si afferma l’istituto del référé
legislatif che prevede l’obbligo di rimettere all’Assemblea le divergenze interpretative sorte fra i
giudici per eliminare ogni loro possibile attività creativa. Nasce inoltre il Tribunal de Cassation, nel
quale trova la sua lontana origine la moderna “Corte di Cassazione”.
In Germania la rottura con l’antico regime si esprimeva nella creazione di una carriera professionale
dei magistrati e degli addetti all’amministrazione della giustizia, nonché nell’affermazione del
principio della soggezione del giudice alla legge e dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
In Austria il primo passo fu rappresentato dal rendere autonoma l’amministrazione della giustizia
dal sistema della amministrazione pubblica.
Lo schema del référé legislatif entrò in crisi di fronte alla necessità di interpretare le disposizioni
normative. Il Code Civil del 1804 restituì il potere interpretativo ai giudici.
In Italia lo Statuto Albertino del 1848 precisa che la giustizia è amministrata in nome del Re dai
giudici da quest’ultimo istituiti e condiziona l’intera carriera ed i meccanismi di promozione dei
magistrati ad una rigida sottoposizione all’esecutivo.
Ancora alla fine del 1800 stenta a farsi strada l’idea dell’esistenza del potere giudiziario come potere
autonomo e distinto dall’esecutivo. Si comincia a delineare quindi una funzione giudiziaria
rigorosamente distinta dall’amministrazione, anche se il potere giudiziario non viene ancora
concepito come potere autonomo e indipendente, distinto dall’esecutivo.
Nell’Italia unitaria il potere giudiziario rimarrà sottoposto all’esecutivo ed il giudice sarà considerato
funzionario pubblico, assoggettato alla gerarchia degli uffici, al Pubblico ministero e al Ministro.
Nel 1907 venne istituito il Consiglio Superiore della Magistratura.
A cavallo tra la seconda metà dell’800 e il 1900 si completa il quadro con il principio della tendenziale
sottrazione dell’attività amministrativa alla giurisdizione ordinaria e l’affidamento di tutte quelle
controversie nelle quali è parte l’Amministrazione a giurisdizioni speciali la cui struttura è
caratterizzata da magistrati reclutati all’interno delle stesse strutture dell’amministrazione.
Con il sistema del c.d. contenzioso amministrativo, di origine napoleonica, si attribuivano ai giudici
ordinari le questioni dei rapporti di diritto privato nei quali era interessato lo Stato, mentre si
devolveva a speciali tribunali la decisione su casi connessi al diritto pubblico. Tale sistema fu abolito
con legge 20 marzo 1865 e tale abolizione portò la possibilità di deferire all’autorità giudiziaria tutte
le controversie relative a diritti pubblici o privati ma con esclusione di una vasta area di affari.
Nel 1889 si riconobbe il principio secondo cui anche gli atti autoritativi dell’Amministrazione
dovessero essere sottoposti a controllo giurisdizionale. Tale assetto del potere giudiziario rimarrà
inalterato anche sotto il regime fascista.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La funzione giurisdizionale nella Costituzione del 1948


La Costituzione repubblicana del 1948 segna una svolta decisiva in quanto fissa alcuni principi di
carattere generale rivolti a tutte le forme di giurisdizione e prevede un insieme di principi e regole
relativi all’organizzazione del potere giudiziario.
L’art. 102 tuttavia non detta alcuna definizione della stessa funzione giurisdizionale, considerandola
in qualche modo “presupposta”. La ricerca di un concetto a priori di giurisdizione risulta
sostanzialmente improduttiva. D’altra parte non può disconoscersi che anche al giudice debba essere
riconosciuta un’attività creativa del diritto nel momento dell’interpretazione della norma in vista della
sua applicazione al caso concreto.
La funzione giurisdizionale risulta dall’incrocio tra funzioni di base diverse (normazione, attuazione,
controllo) in capo ad un soggetto istituzionale, il giudice, fornite del massimo grado d’indipendenza
dal potere politico riscontrabile nell’ordinamento.
Tale funzione mira alla garanzia ed alla conservazione del diritto e dell’ordine che da questo discende.

La soggezione del giudice "soltanto alla legge"


L’art. 101 afferma che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” e, pertanto, ogni provvedimento
giurisdizionale deve essere fondato su di una specifica norma di legge. Il termine legge assume un
significato atecnico in quanto è riferibile a qualsiasi norma di diritto e non solo alla legge formale.
Da ciò ne discende che:
• Non è possibile configurare gerarchie fra i giudici (la soggezione solo alla legge esclude la
soggezione ad un altro giudice);
• Le competenze del giudice devono essere previamente definite dalla legge in via generale ed
astratta;
• Garantisce la libertà interpretativa del singolo giudice;
• Diritto e dovere di interpretare tutte le norme giuridiche applicabili al caso concreto secondo
la propria coscienza e senza nessun condizionamento da parte di altri giudici.
Nell’attività interpretativa del giudice gioca un ruolo determinante l’applicazione diretta della
Costituzione, alla quale il giudice deve ricorrere per orientare e determinare il senso ed il significato
della regola legislativa. Egli dovrà ricercare l’interpretazione che maggiormente si adegua ai principi
costituzionali e solo ove ritenesse impossibile trarre dalla legge un significato compatibile con la
Costituzione dovrà sollevare la questione di legittimità costituzionale.
I giudici concorrono, nell’odierno Stato costituzionale, alla creazione del diritto, ma ovviamente in
un senso molto diverso dal legislatore.

L’autonomia e l’indipendenza della magistratura


L’art. 104 Cost. stabilisce che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da
ogni altro potere”. Tale articolo vuole svincolare la magistratura da ogni altro potere dello Stato,
assicurando così che l’esercizio della giurisdizione possa essere svolto senza alcun condizionamento,
soprattutto da parte dell’esecutivo. Ogni giudice può invocare quelle garanzie di autonomia e
indipendenza, che la Costituzione riconosce all’intero ordine nel suo complesso.
Il termine autonomia è strettamente collegato con il concetto di indipendenza. Strumento essenziale
di siffatta autonomia sono le competenze attribuite al Consiglio Superiore dagli artt. 105, 106 e 107
Cost., nelle quali deve rientrare ogni provvedimento che direttamente o indirettamente possa
menomarla. L’indipendenza si divide in
• Interna: impedire ogni interferenza all’interno del potere giudiziario, ogni possibile influenza
tra giudici ed evitare che tra i magistrati possano ipotizzarsi forme di condizionamento;
• Esterna: escludere ogni possibile forma di dipendenza dal potere esecutivo.
La legge n. 117/1988 prevedeva una forma di responsabilità indiretta nel caso in cui una delle parti
avesse subito un danno ingiusto a seguito di un errore giudiziario dovuto a dolo o a colpa grave.

113
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Recentemente (legge n. 18/2015) si è voluta ampliare la responsabilità del magistrato: solo il


meccanismo della responsabilità indiretta consente infatti che l’attività del magistrato si svolga
“libera da prevenzioni, timori, influenze che possono indurre il giudice a decidere in modo diverso
da quanto a lui dettano scienza a coscienza”.

Il Consiglio Superiore della Magistratura. L’inviolabilità dei magistrati. La riserva di legge in


materia di ordinamento giudiziario
La Costituzione appronta una serie di complessi strumenti specificamente rivolti a realizzare i
principi di autonomia e di indipendenza, tra i quali il Consiglio superiore della Magistratura.
Il CSM è lo strumento più penetrante per realizzare e garantire il principio di indipendenza dei
magistrati. La sua struttura, che lo vede oggi (dopo la riforma della legge 28 marzo 2002, n. 44)
composto da 27 membri, è in parte definita dalla Costituzione e in parte determinata dalla legge
ordinaria cui la Costituzione affida espressamente la sua disciplina. È composto da:
• 16 magistrati ordinari (eletti dai magistrati ordinari);
• 8 magistrati eletti dal Parlamento in seduta comune con maggioranza di 3/5, scelti fra
professori di materie giuridiche e avvocati esercenti da almeno 15 anni;
• 3 membri di diritto:
o Primo presidente della Corte di Cassazione;
o Procuratore generale della Corte di Cassazione;
o Presidente della Repubblica.
I membri del CSM, ad eccezione di quelli di diritto, restano in carica quattro anni e non sono
immediatamente rieleggibili.
La composizione mista del CSM, fatta di membri c.d. togati (i giudici) e laici (i membri eletti dal
Parlamento) esclude che si possa correttamente parlare di organo di autogoverno della magistratura.
L’affidamento della presidenza dell’organo allo stesso Presidente della Repubblica vuole essere
testimonianza della rilevanza costituzionale del Consiglio ed ulteriore rafforzamento della garanzia
di indipendenza da altri poteri e, segnatamente, dall’esecutivo. È consuetudine che il Presidente
conceda ampie deleghe al Vice presidente, il quale viene ad assumere nella sostanza funzioni
concretamente presidenziali di promozione dell’attività, di attuazione delle deliberazioni e di gestione
dell’apparato amministrativo di cui il CSM è dotato.
Le funzioni del CSM sono individuate dall’art. 105 Cost., e sono attinenti ai magistrati ordinari:
• Assunzioni;
• Assegnazioni;
• Trasferimenti;
• Promozioni;
• Provvedimenti disciplinari.
Il CSM si configura quindi come un organo che gestisce e amministra l’intero ordine giudiziario nel
suo complesso. Le deliberazioni del Consiglio costituiscono veri e propri atti amministrativi adottati
ora con decreto del Presidente della Repubblica, ora dal Ministro della Giustizia. Esse sono
impugnabili di fronte al giudice amministrativo qualora i destinatari le ritengano lesive dei propri
diritti ed interessi (in questo caso la competenza è affidata in esclusiva al TAR del Lazio).
Il ministro della Giustizia oltre che conservare competenze specifiche, può anche formulare richieste
relative allo status che il consiglio potrà adottare. Una situazione particolare riguarda il conferimento
degli uffici direttivi che il Consiglio può adottare solo sulla base di una proposta formulata da una
Commissione di concreto con il Ministro della Giustizia. La Corte costituzionale ha riconosciuto un
dovere di leale collaborazione tra Ministro e CSM.
Il legislatore è più volte intervenuto sulla disciplina del CSM, modificando nel tempo la originaria
legge del 1958 con specifici e puntuali adattamenti. Con la legge n. 44/2002 egli ha sensibilmente
ridotto il numero dei componenti del CSM con una decisione che per molti versi è apparsa rivolta a

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

restringere l’area d’azione dell’organo, riconducendolo al più stretto ambito dell’attività


amministrativa.
Solo una tra le funzioni del CSM non è assimilabile all’attività amministrativa: i giudizi in tema di
responsabilità disciplinare dei magistrati, nei quali il CSM, attraverso la sua Sezione disciplinare, può
decidere sanzioni a carico dei giudici mediante atti che assumono il valore e la sostanza di vere e
proprie sentenze e sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Vi è poi l’ulteriore garanzia dell’inamovibilità dei magistrati. Prevede l’art. 107 Cost. che “i
magistrati non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni
se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della Magistratura”. Si tratta di una garanzia
che completa il quadro del radicale distacco della magistratura dal potere esecutivo. Inoltre, la
nomina a magistrato può avvenire solo per concorso (art. 106 1° comma, Cost.) e la nomina di
“magistrati onorari” può avvenire solo se espressamente disciplinata dalla legge sull’ordinamento
giudiziario. Solo su decisione del CSM può procedersi alla nomina di consiglieri della Corte di
cassazione, per meriti insigni, di avvocati e professori universitari di materie giuridiche (art. 106).
Un’ulteriore garanzia è rappresentata dalla riserva di legge fissata dall’art. 108 secondo cui “le norme
sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge”. Alla legge in materia
di ordinamento giudiziario, fanno riferimento varie disposizioni della costituzione, confermando così
il particolare ruolo che essa riveste nel disciplinare la materia costituzionalmente rilevante.
La legge n. 150/2005 per prima introduce una nuova disciplina organica della materia. Tale legge è
stata poi modificata da varie leggi, ultima delle quali la legge n. 111/2007 che incide sui sistemi di
reclutamento dei magistrati e sul loro aggiornamento professionale, sulla distinzione e definizione
delle funzioni giudicanti e sui sistemi di valutazione della professionalità dei giudici.
La riserva di legge vuole escludere ogni intervento con atti normativi di natura regolamentare
dell’esecutivo, ma non esclude la possibilità di interventi paranormativi dello stesso CSM.

Le garanzie relative all’esercizio della funzione giurisdizionale: il diritto di azione e di difesa; il


principio del giudice naturale; il giusto processo
L’art. 24 Cost. stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi
legittimi”. Si tratta di una disposizione diretta a garantire il concreto ed effettivo accesso alla tutela
giurisdizionale da parte del cittadino. La Costituzione ha così affermato il diritto al processo e alla
tutela giurisdizionale. Non vi è dubbio che il diritto di azione concorra a definire uno dei tratti
essenziali del c.d. “giusto processo”, anche se questo nell’art. 111 non è riferito all’azione. La
giurisprudenza costituzionale in tema di diritto di azione di è rivolta a individuare, sanzionandole,
tutte quelle forme di vincoli che creavano un condizionamento alla possibilità effettiva di rivolgersi
ad un giudice per la tutela delle situazioni giuridiche soggettive. Furono così ritenute incostituzionali:
o Solve et repete: imponeva al soggetto che intendesse contestare la legittimità di
un’imposta, il suo preventivo pagamento;
o L’obbligo di preventiva cauzione nei processi civili quando si temeva che la
successiva ed eventuale condanna potesse rimanere insoddisfatta;
o Disposizioni di legge volte a stabilire incombenti di vario genere come elementi
condizionanti del diritto all’azione, da ritenere illegittimi costituzionalmente se mirano
a tutelare interessi estranei alle finalità del processo.
Speculare al diritto di azione si configura l’obbligo del giudice di decidere, che impone ad ogni
giudice di pervenire sempre alla decisione finale senza possibilità alcuna di sottrarsi al giudizio e in
tempi ragionevoli. L’art. 111 Cost. prevede infatti il principio della ragionevole durata dei processi.
Quanto al diritto di difesa sancito dall’art. 24, 2° comma, si tratta di concetto che deve essere
determinato attraverso un’opera di successiva integrazione.
Il principio del contraddittorio esprime una garanzia minima ed indefettibile di ogni processo
giurisdizionale, e ha trovato affermazione nell’art. 111 Cost. Ma la Corte ha poi riconosciuto alcuni
interventi che costituiscono esempi di come la Corte abbia ricavato, di volta in volta, il singolo progilo

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

del diritto di difesa assumendo come elemento di valutazione le indicazioni emergenti dal
sistema processuale. La giurisprudenza costituzionale ha però escluso la riconducibilità all’art. 24
di principi strutturali sui quali il legislatore ha modellato nel tempo i processi: è il caso del principio
del doppio grado di giurisdizione, riconosciuto nel solo processo amministrativo.
Un principio di altrettanto rilevante incidenza è quello fissato dall’art. 25, 1° comma, Cost., in forza
del quale “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Da tale
principio si desume l’esistenza di una riserva di legge assoluta nella definizione della competenza
giurisdizionale. L’individuazione del giudice competente sarà così frutto esclusivo dell’applicazione
dei criteri già predeterminati. Inoltre, il principio mira a garantire lo stesso organo giudiziario contro
possibili rischi che siano ad esso sottratti processi di sua competenza. Il principio, infine, implica il
divieto per il legislatore di istituire giudici straordinari, vale a dire giudici creati specificatamente per
giudicare alcune controversie dopo che le stesse controversie siano insorte, e di modificare le regole
sulla competenza e sull’assegnazione dei giudizi incidendo sui processi già in corso.
Con la legge cost. n. 2/1999 il legislatore costituzionale ha innovato l’art. 111 Cost, introducendo nel
nostro ordinamento il principio del “giusto processo”. Esso è stato arricchito di garanzie. La
maggior parte delle novità sembra diretta ad applicarsi al solo processo penale. La legge deve
garantire che l’imputato sia informato nel più breve tempo possibile, ed in forma riservata, circa la
natura e i motivi dell’accusa; sono poi previste la facoltà concessa all’accusato di interrogare o di far
interrogare la persona che renda dichiarazioni a suo carico, il diritto all’assistenza di un interprete se
l’accusato non parla o non comprende la lingua italiana, la garanzia che la colpevolezza non possa
essere provata sulle dichiarazioni di chi si è sempre volutamente sottratto all’interrogatorio.
Assumono un rilievo di carattere generale sia la nuova e più ampia formulazione del principio del
contraddittorio, sia il principio concernente la terzietà ed imparzialità del giudice. Esso consente di
distinguere più nettamente autonomia e indipendenza, e chiarisce come l’indipendenza del giudice
abbia come finalità ultima un’esigenza di correttezza e serenità del processo di formazione della
decisione giudiziale. La terzietà dovrebbe rappresentare un rafforzamento dell’imparzialità ed
implicare una posizione di distacco e di assoluta indifferenza rispetto alle parti nella formazione del
libero convincimento del giudice.
Una fondamentale garanzia è rappresentata dall’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti
giurisdizionali. Lo scopo di questa previsione è quello di garantire la massima trasparenza della
decisione del giudice.
Il ricorso per Cassazione per violazione di legge è un rimedio con il quale tutte le sentenze possono
essere sottoposte al controllo di legittimità da parte di un organo (la Cassazione) che è istituito
espressamente a questo scopo. La Cassazione infatti non è un giudice che può riesaminare i fatti che
hanno dato luogo al processo definito con una sentenza, ma deve limitarsi ad esaminare se il diritto
sia stato correttamente applicato dagli altri giudici e, se ritiene che vi sia stata una violazione, può
annullare la decisione. Essa svolge anche un ruolo di controllo democratico diffuso sulle decisioni
giudiziali e di conoscenza degli orientamenti interpretativi che si affermano.
La Costituzione non vincola il legislatore ad adottare un preciso modello di processo, lasciandolo
libero di scegliere a condizione che il processo realizzi, in ogni caso, pienamente quelle garanzie
fondamentali ed indefettibili che essa stabilisce.
Il processo civile è ispirato al principio dispositivo e a quello della corrispondenza tra chiesto e
pronunziato. In virtù del primo, l’azione volta ad ottenere tutela giurisdizionale di un diritto è frutto
dell’autonoma decisione di chi intende utilizzare il proprio diritto. Con il secondo principio si crea
un vincolo sul giudice che deve pronunciarsi nei limiti di ciò che è stato richiesto dalla parte. Esistono
diversi gradi di giudizio:
• Giudice di pace (controversie di ridotta entità);
• Giudice unico di primo grado (Tribunale monocratico o collegiale);
• Corte d’appello;
• Corte di Cassazione.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il processo penale s’ispira la modello accusatorio che si caratterizza per la formazione della prova
interamente davanti al giudice dinanzi al quale si svolge il dibattimento. Esistono diverse fasi:
• Indagini preliminari: tale fase è attivata dal p.m. e sottoposta al controllo di un giudice (g.i.p.);
• Dibattimento: cuore del processo. Davanti al giudice si confrontano accusa e difesa.
Anche per il processo penale esistono diversi gradi di giudizio:
• Giudice di pace (limitata competenza);
• Tribunale (che assume la veste di Corte d’assise per i reati più gravi);
• Corte d’appello;
• Corte di Cassazione.
Sul processo penale incidono anche altri due principi:
• Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che impone al p.m. l’obbligo di attivare
l’azione penale dinnanzi ad ogni notizia di reato, senza che possa essere esercitata alcuna
discrezionalità. Tale principio impedisce che il p.m. sia condizionato nella decisione
sull’esercizio dell’azione. Esso trova fondamento nell’art. 108;
• Altro principio è quello dell’indipendenza del pubblico ministero. Tuttavia, tale
indipendenza si scontra con la struttura di tipo gerarchico che caratterizza l’organizzazione
delle Procure della Repubblica. Recenti decreti legislativi, infatti, hanno riorganizzato gli
uffici del p.m. riconoscendo l’esclusiva appartenenza dell’azione penale ai capi degli uffici.
La legge n. 111/2007 ha inoltre stabilito che la possibilità di trasferimento della funzione
giudicante a quella inquirente può avvenire solo nel rispetto di precisi limiti temporali e per
un numero limitato di volte durante la carriera del singolo magistrato.
È indubbio, infine, che il p.m. sia, dalla stessa Costituzione, ricompreso nella figura del
magistrato, come può desumersi anche dall’art. 104, 3° comma, il quale sembra esigere che tutti i
magistrati appartenenti agli uffici del p.m. facciano riferimento allo stesso CSM.

I giudici speciali e la giurisdizione amministrativa


Il sistema costituzionale pone al centro dell’esercizio della funzione giurisdizionale la magistratura
ordinaria, e su questa modella i meccanismi di garanzia, ispirandosi al principio di unità della
giurisdizione. L’art. 102, al 2° comma, sembra voler rafforzare l’idea dell’unicità perché fissa
rigorosamente il divieto di istituire giurisdizioni speciali, cioè di frammentare la giurisdizione in una
pluralità di giudici cui affidare specifiche e circoscritte materie.
La stessa Costituzione, tuttavia, recepisce contraddittoriamente l’istituzione di tre giurisdizioni
speciali, costituzionalizzandole: i Tribunali militari, la Corte dei Conti e il Consiglio di Stato.
È stato riconosciuto il principio della translatio judicii, da collegare ad una esigenza fondamentale
dell’ordinamento, il quale riconosce l’esistenza di una pluralità di giudici affinché venga assicurata,
sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia.
I giudici speciali recepiti dalla Costituzione sono disciplinati da apposite leggi, che prevedono
l’ambito di materie loro riservato e la loro organizzazione interna.
Il legislatore ha poi istituito tre organi al fine di assicurare l’indipendenza delle giurisdizioni speciali,
tutti modellati sullo schema del CSM:
• Il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa;
• Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti;
• Il Consiglio della Magistratura militare.
Il problema sta nel comprendere se il sistema delle garanzie approntate dalla Costituzione si possa o
si debba estendere alle giurisdizioni recepite dall’art. 103 Cost. La risposta è positiva in quanto si
parte dal presupposto che dalla Costituzione emergano indicazioni da cui è possibile desumere
l’esistenza di un’unica magistratura composta da magistrati che esercitano forme differenziate di
attività giurisdizionale. La Costituzione riconosce e prevede una serie di giurisdizioni distinte tra
loro, ma ammette un solo tipo di magistrato, caratterizzato dalla posizione di indipendenza.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• I tribunali militari si dividono in:


o Tribunali militari in tempo di guerra: giurisdizione sui reati militari compiuti durante
un conflitto bellico;
o Tribunali militari in tempo di pace: giurisdizione sul personale militare in tutti gli
altri casi.
• La Corte dei conti ha funzioni giurisdizionali in due campi:
o Contabilità pubblica: esercita la giurisdizione su tutti i soggetti che all’interno delle
amministrazioni pubbliche utilizzano denaro o altri titoli al fine di accertare la
responsabilità contabile, ed è altresì competente ad accertare la responsabilità per
danni prodotti all’erario da amministratori, funzionari o dipendenti;
o Trattamenti pensionistici: spettano ad essa i giudizi in materia di trattamenti
pensionistici dei dipendenti pubblici e di pensioni di guerra.
• Ma il ruolo più rilevante spetta alla giurisdizione amministrativa: essa trova il suo
fondamento nella distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi.
o Diritti soggettivi: posizione giuridica che riceve una tutela piena ed immediata
dall’ordinamento, a garanzia di un bene della vita (es: diritto al nome). La
giurisdizione sui diritti è attribuita al giudice ordinario e può subire deroghe;
o Interessi legittimi: situazione tutelata nella misura in cui coincida con l’interesse
pubblico al rispetto della legalità. La giurisdizione su di essi è attribuita direttamente
dalla Costituzione al giudice amministrativo. Tale concetto si è arricchito nel tempo e
pertanto si distinguono:
§ Interessi pretensivi (interesse ad un esercizio del potere amministrativo che
mira ad ampliare la sfera del privato);
§ Interessi oppositivi (interessi che si oppongono ad atti che tendono a
restringere o a comprimere la sfera del privato);
§ Interessi procedimentali.
La giurisdizione amministrativa si occupa dei diritti soggettivi nell’ambito di alcune materie
indicate dal legislatore. A partire dalla seconda metà degli anni ’70 tale giurisdizione esclusiva
si è progressivamente ampliata e l’assetto che oggi assume appare rafforzato come mai era
avvenuto nell’esperienza costituzionale italiana.
TAR e Consiglio di Stato: l’articolazione del sistema della giustizia amministrativa, è imperniata su
giudici di primo grado (tribunali amministrativi regionali o TAR) e su di un giudice di secondo grado,
il Consiglio di Stato, istituito alla fine dell’800 e poi recepito integralmente dalla Costituzione
repubblicana. In Sicilia le funzioni del giudice d’appello sono svolte dal Consiglio della Giustizia
amministrativa per la Regione siciliana. Fin dalla sua nascita la giurisdizione amministrativa è stata
caratterizzata dall’assenza di una vera e propria legge processuale organica, differenziandosi così
nettamente dalla giurisdizione ordinaria. Oggi, tuttavia, questa situazione appare superata grazie
all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, che sostituisce integralmente le
numerose e frammentarie disposizioni legislative preesistenti e delineando un quadro normativo più
omogeneo.

I rapporti tra i giudici italiani e la giurisdizione sovranazionale


Il ruolo del giudice è oggi arricchito dalla dimensione c.d. sovranazionale della tutela dei diritti.
Nell’ambito europeo, infatti, il giudice nazionale è chiamato ad applicare tanto il diritto dell’Unione
quanto quello derivante dalla partecipazione dell’Italia al Consiglio d’Europa.
I giudici italiani sono chiamati ad applicare anche le norme comunitari, pertanto i giudici nazionali
sono considerati come giudici comunitari quando le controversie coinvolgono situazioni conformate
dal diritto della Comunità.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Esiste, nell’ordinamento nazionale, una giurisdizione comunitaria caratterizzata da una complessa


struttura di organi i cui rapporti con i giudici nazionali sono disciplinati dagli stessi trattati che hanno
dato vita alla Comunità.
Rilevanza assume il meccanismo del c.d. rinvio pregiudiziale per cui la Corte di Giustizia delle
Comunità europee è competente ad assicurare l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione
del diritto comunitario negli Stati membri, e ad essa i giudici nazionali hanno il dovere di rivolgersi
quando s’imbattono in problemi relativi all’interpretazione del diritto comunitario. Vi è quindi un
sistema di stretta integrazione tra i sistemi giurisdizionali.
Nell’opera di applicazione diretta del diritto comunitario assumono un particolare valore quegli
indirizzi giurisprudenziali che hanno concorso a risolvere il problema dell’efficacia delle direttive
comunitarie nell’ordinamento interno. Viene riconosciuta l’efficacia verticale delle direttive
comunitarie (efficacia nei rapporti fra Stato e cittadino) ma rimane esclusa l’efficacia orizzontale.
La Cassazione ha riconosciuto il ruolo di garanzia che spetta alla Corte comunitaria per assicurare
l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri (c.d. nomofilachia) sottolineandone la valenza quale
strumento destinato a costruire un vero ordinamento giuridico comunitario.
Inoltre, il carattere vincolante delle decisioni della Corte è stato ripetutamente ribadito. Esistono
tuttavia delle “zone grigie” nei rapporti che investono le due concorrenti funzioni di nomofilachia.
Oltre al ruolo di giudice naturale del diritto comunitario, il giudice nazionale assomma in sé anche
quello di giudice comune della Convenzione (CEDU). Il giudice italiano è infatti tenuto ad applicare
le norme della CEDU nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo.
Tali considerazioni pongono in evidenza quindi l’arricchimento e l’ampliamento dei poteri del
giudice italiano derivante dal diritto comunitario e dalla CEDU ed, al tempo stesso, testimoniano
della complessità delle funzioni e dei ruoli che egli è chiamato a rivestire: dalla decisione sulla non
applicazione del diritto interno che deve tener conto anche della esistenza del diritto comunitario, a
quella della ricerca della interpretazione conforme al diritto comunitario ed alla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo e dalla eventuale decisione sulla introduzione del giudizio pregiudiziale di
interpretazione di fronte alla Corte comunitaria o, ancora, la richiesta alla Corte di Strasburgo di pareri
consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle
libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli.
Si tratta, in ultima analisi, di un ruolo centrale del giudice nel sistema costituzionale che esalta la sua
funzione interpretativa e lo grava di una rilevante responsabilità nel mantenimento di quell’equilibrio
tra poteri che rappresenta elemento essenziale del moderno Stato costituzionale di diritto.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Capitolo XII
La Giustizia Costituzionale
L’origine della giustizia costituzionale e i suoi modelli
Il presupposto teorico dell’odierno controllo di costituzionalità delle leggi può essere rinvenuto
soltanto alla fine del’700, quando la Costituzione assume il significato di norma costitutiva e
regolativa della vita politica, di legge fondamentale capace di conformare l’intera vita costituzionale.
Il vero momento fondativo dell’idea moderna del sindacato di costituzionalità si fa risalire a quanto
accaduto all’inizio del XIX secolo negli Stati Uniti, la cui Costituzione del 1787 non prevedeva la
possibilità di un tale controllo e che, però, la Corte suprema ritenne di poter esercitare.
Con la sentenza Marbury vs Madison si può dire che nasce il giudizio sulle leggi, anche se manca
ancora una vera e propria Corte costituzionale.
Il controllo di costituzionalità statunitense viene definito diffuso, in quanto non esiste una Corte la
quale eserciti questo specifico compito, ma ogni giudice deve valutare se gli atti legislativi da
applicare siano conformi alla Costituzione.
Nell’esperienza europea si forma invece l’idea di affidare il sindacato di costituzionalità ad un
apposito Tribunale, essenzialmente per due ragioni:
a. Offrire una garanzia della Costituzione di carattere obiettivo, cioè a prescindere dalla tutela
dei diritti dei consociati;
b. Assicurare al legislatore il privilegio di non essere controllato da qualsiasi giudice, ma solo
da una Corte speciale, la cui composizione potesse tener conto delle implicazioni istituzionali.
La diffusione della giustizia costituzionale nel mondo è avvenuta secondo forme e tipologie
diversificate. La variabile fondamentale riguarda la presenza o meno di un apposito Tribunale
costituzionale, sul modello austriaco o accentrato. Qui la sentenza che dichiara l’illegittimità
costituzionale di una legge ha effetti erga omnes, nel senso che annulla una volta per tutte l’atto
dall’ordinamento con efficacia retroattiva.
Se invece il sindacato di costituzionalità compete a tutti i giudici, si parla di sindacato diffuso o
judicial review of legislation. Qui la decisione di incostituzionalità vale inter partes, ossia solo
rispetto alle parti del singolo giudizio in cui è stata pronunciata.
Le altre variabili da tenere in considerazione sono:
• Il sindacato giurisdizionale di costituzionalità opera dopo l'entrata in vigore della legge, quindi
in forma successiva. Esiste, tuttavia, anche una forma in via preventiva, quale ultima fase del
procedimento di formazione della legge. Il Parlamento è il vero interlocutore della Corte
costituzionale, in quanto le leggi sono giudicate per quello che dicono e non per quello che
fanno. Inoltre, il controllo preventivo impedisce ogni altro controllo successivo;
• Il controllo astratto non trae origine da un procedimento giudiziario, prescinde dalla tutela
dei diritti dei consociati e mira ad offrire una garanzia della Costituzione di carattere obiettivo,
nel senso che effettua un raffronto fra norme di grado diverso. Il controllo concreto riguarda
una norma di legge applicabile da un giudice nel corso di un qualsiasi giudizio, in cui sono in
discussione interessi concreti dei consociati e verte sulla conformità della applicazione delle
leggi rispetto ai precetti costituzionali. Il primo mira ad offrire una garanzia della Costituzione
di carattere oggettivo; il secondo a tutelare i diritti soggettivi dei singoli;
• Si può accedere al giudizio di costituzionalità in via principale (o diretta o d’azione), mediante
una azione di incostituzionalità, cioè su ricorso di soggetti specificatamente legittimati, in
genere per effettuare un controllo di tipo astratto. L’accesso incidentale (o indiretto o in via
d’eccezione) si collega alle forme di controllo concrete: la questione di costituzionalità deve
nascere nel corso di un processo davanti al giudice che, dovendo applicare una legge di
sospetta incostituzionalità, sospende il proprio giudizio e investe del problema la Corte. Una
forma di acceso particolare al giudizio di costituzionalità è quella relativa alla possibilità che
i singoli cittadini si rivolgano direttamente alla Corte costituzionale a tutela dei diritti e delle
libertà individuali, lesi da atti di autorità legislative, amministrative o giurisdizionali;

120
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

• La composizione incide in maniera significativa sulla autonomia e sull’indipendenza della


Corte costituzionale, in relazione alla maggiore o minore soggezione al potere politico. La
presenza di una apposita Corte costituzionale costituisce una variabile importante anche
nell’ottica più complessiva della forma di Stato e di governo di una Nazione. Il monopolio
affidato alla Corte costituzionale le attribuisce un significativo peso politico, quale custode
della Costituzione, organo di equilibrio e interlocutore del dibattito politico e istituzionale.

La mancanza di precedenti storici in Italia


Per l’ordinamento italiano, la creazione della Corte costituzionale costituisce una novità assoluta.
L’esigenza di un organo di garanzia costituzionale fu uno dei grandi temi su cui si discusse negli anni
del c.d. periodo transitorio. L’idea di istituire un sindacato di costituzionalità delle leggi fu a lungo
osteggiata in Assemblea costituente, facendo leva sulla valorizzazione della sovranità popolare, sul
primato della politica e sul principio di supremazia parlamentare.
L’Assemblea costituente approvò agevolmente l’articolazione delle competenze della Corte (art. 134)
e la sua composizione, senza tuttavia specificare le modalità di nomina dei 15 giudici (art. 135). L’art.
137 sancisce che “una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilità
dei giudizi di legittimità costituzionale e le garanzie di indipendenza dei giudici della Corte. Con
legge ordinaria sono stabilite le altre norme necessarie per la sua costituzione e funzionamento”.
L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il 1° gennaio 1948, non comportò l’immediata
entrata in funzione della Corte costituzionale, per la quale si dovettero attendere otto anni.

Una nascita difficile: l’ostruzionismo di maggioranza


I tempi per approvare le leggi sul funzionamento della Corte non furono brevi, in ragione dei contrasti
politici sulla sua istituzione e la funzionalità del sistema di giustizia costituzionale e dei dubbi sulla
definizione delle vie di accesso alla Corte e sulle modalità della sua composizione.
Il 31 gennaio 1948 fu approvata la legge cost. n. 1/1948. Così fu scelta la via incidentale per sollevare
la questione, attraverso un giudice, nel corso di un giudizio, e vennero dettate regole per
l’impugnazione in via diretta delle leggi statali da parte delle regioni, ove si verificasse una invasione
della propria sfera di competenza. La stessa Costituzione aveva previsto la possibilità di rinvio da
parte del Governo al Consiglio regionale del progetto di legge e l’impugnazione preventiva di esso.
Tuttavia, era ancora da colmare la lacuna sulle modalità di nomina dei giudici costituzionali, non
specificate dall’art. 135 Cost. e sulle quali si giunse a un accordo solo qualche anno dopo.
La rottura DC-PSI-PCI diede vita ad una conflittualità che poneva in dubbio anche l’accordo sulle
regole essenziali della vita collettiva. A fare le spese di questo “ostruzionismo della maggioranza”
furono il CSM (attivato nel 1958), le Regioni a statuto ordinario, il referendum abrogativo popolare
e il sistema di giustizia costituzionale.
Nel marzo 1953 si raggiunse un accordo per la elezione dei giudici con maggioranze speciali o
qualificate, seguendo le indicazioni di Luigi Einaudi, finalizzate ad evitare tirannie della maggioranza
e a garantire una più equilibrata democrazia. Si arrivò così, finalmente, all’approvazione della legge
cost. n. 1/1953 e della legge ord. n. 87/1953, entrambe datate 11 marzo.

Il controllo diffuso di costituzionalità tra il 1948 e il 1956


Negli otto anni che servirono per attivare la Corte, operò la forma provvisoria di controllo che
abilitava la magistratura ordinaria ad effettuare una forma di controllo diffuso di costituzionalità.
Il contributo dei giudici comuni, però, non fu mai rilevante: vennero disapplicate pochissime norme.
Tale situazione va letta nel quadro politico e istituzionale di quegli anni, nonché della diffusa ostilità.
L’argomento giuridico utilizzato fu rinvenuto nella distinzione delle norme costituzionali in
“programmatiche” e “precettive”. Si sosteneva che non tutte le norme costituzionali erano complete
e immediatamente applicabili; anzi, solo le poche norme costituzionali immediatamente precettive
potevano essere applicate anche dai giudici, comportando la disapplicazione delle leggi contrastanti.

121
Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

La composizione della Corte costituzionale


La particolarità delle funzioni attribuite alla Corte costituzionale spiega e giustifica la sua speciale
composizione, che bilancia esigenze giuridiche ed esigenze di sensibilità politico-istituzionale
L’art. 135 Cost., al 1° comma, stabilisce le modalità di nomina:
La Corte costituzionale è composta di 15 giudici nominati per 1/3 dal Presidente della Repubblica,
per 1/3 dal Parlamento in seduta comune e per 1/3 dalle supreme magistrature ordinaria e
amministrativa.
Al 2° comma, invece, l’art. 135 elenca i requisiti per essere nominati:
I giudici della Corte costituzionale sono scelti tra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni
superiori ordinarie e amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli
avvocati dopo venti anni di esercizio.
Tali garanzie rispondono alle esigenze perseguite nella composizione della Corte della sensibilità
politica, oltre che giuridica, dell’organo e l’alta qualità tecnico-giuridica dei membri.
La composizione della corte viene modificata solo nel caso in cui venga messo in stato d’accusa il
Presidente della Repubblica: in tal caso, ai 15 giudici ordinari vengono aggiunti 16 membri (giudici
aggregati) estratti a sorte da un elenco di cittadini eleggibili a senatore.
La Costituzione non stabilisce le procedure per giungere concretamente alla designazione dei giudici
costituzionali. Le maggiori difficoltà hanno riguardato la scelta parlamentare a causa delle
maggioranze qualificate richieste, che esprimono la necessità di accordi politici sui possibili
candidati.
È la stessa corte che verifica i requisiti per l’effettiva assunzione della carica di giudice (c.d. verifica
dei poteri). Ciò indica la posizione d’indipendenza della corte. Tale indipendenza è garantita, inoltre,
dall’immunità dei giudici, della sede e dall’autonomia organizzativa, finanziaria e contabile.
I giudici durano in carica nove anni e il loro mandato è incompatibile con ogni altra carica o funzione.
Espressamente disposti dalla Costituzione sono il divieto di rinnovo del mandato e la cessazione
dell’esercizio delle funzioni allo scadere del termine dei nove anni. Vale a dire che a loro non si
applica la prorogatio, cioè il principio in forza del quale i titolari di pubblici uffici a termine
continueranno a svolgere i propri compiti istituzionali sino alla concreta sostituzione, in maniera da
garantirne la continuità dell’ufficio.
La Corte elegge, tra i suoi componenti, il Presidente, che dura in carica tre anni ed è rieleggibile. Il
Presidente rappresenta la Corte e svolge funzioni di organizzazione, direzione e impulso dei lavori,
senza tuttavia assumere un ruolo determinante, stante il principio di collegialità.
Annualmente il Presidente svolge un significativo ruolo istituzionale, con la conferenza stampa in cui
si ripercorrono gli orientamenti dell’annata di giurisprudenza costituzionale, tracciando un bilancio.

Le attribuzioni della Corte costituzionale


La Corte costituzionale italiana svolge quattro funzioni, di cui le prime tre sono sancite dall’art. 134:
1. Il giudizio sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti
aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni;
2. Il giudizio sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni
e tra le Regioni;
3. Il giudizio sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica;
4. Relativamente al controllo, se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma
dell’art. 75 Cost. siano ammissibili ai sensi del 2° comma dell’articolo stesso.
Il sindacato di legittimità costituzionale degli atti legislativi costituisce la principale competenza
della Corte costituzionale italiana. Le altre competenze della Corte sono residuali.
Al di là degli elementi che caratterizzano le diverse competenze, le attribuzioni della Corte sono
accomunate da un obiettivo, quello di garantire la rigidità della Costituzione.
Attraverso l’esercizio delle sue competenze la Corte garantisce il principio di legittimità
costituzionale, ossia il principio della preminenza delle fonti costituzionali.
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Il giudizio di legittimità costituzionale


L’illegittimità costituzionale e i vizi delle leggi
Il controllo di costituzionalità è un giudizio di mera legittimità, nel senso che si tratta di una verifica
rivolta esclusivamente alla valutazione dei vizi di conformità giuridica alla Costituzione, senza
considerare gli eventuali vizi di merito (cioè di opportunità, di convenienza).
Il controllo della Corte si caratterizza per vertere su un oggetto e per essere condotto rispetto a un
parametro, ad un metro di paragone della legittimità: è generalmente un controllo a schema binario,
comparandosi una norma oggetto con una norma parametro (il parametro è la Costituzione).
Le norme costituzionali possono atteggiarsi in tre diversi modi rispetto alla legge, a seconda che:
a. Stabiliscano le regole procedurali per lo svolgimento dell’attività legislativa;
b. Impongano o escludano possibili contenuti delle leggi;
c. Individuino i soggetti competenti a legiferare.
Correlativamente ne discendono tre diversi tipi di vizi di costituzionalità:
a. Vizio formale, attinente al procedimento di formazione della legge, nel senso che non si
rispettano le norme costituzionali che disciplinano il procedimento legislativo;
b. Vizio materiale o sostanziale, relativo al contenuto dell’atto, alla sostanza della disciplina
recata. Tale vizio (il più comune) è configurabile quando si ha una violazione diretta di una
regola o un principio costituzionale;
c. Vizio di incompetenza, quando non viene rispettata la distribuzione delle competenze
legislative tra i diversi organi costituzionali.
Il rilievo di qualsiasi vizio comporta sempre la medesima conseguenza: l’invalidità della legge o
meglio delle sue disposizioni o delle norme da esse ricavabili o per esse proponibili.
Risulta utile distinguere tra:
• Incostituzionalità originaria, che si ha quando il vizio della legge deriva da una causa già
esistente al momento della sua entrata in vigore, per cui è l’atto è illegittimo da subito;
• Incostituzionalità sopravvenuta, che ricorre quando il vizio si determina nel corso della
vigenza della legge, in quanto il parametro sopravviene ad essa; l’atto cioè nasce legittimo.
I vizi formali non possono essere vizi sopravvenuti, mentre i vizi sostanziali possono nascere legittimi
e diventare illegittimi.

Il parametro del giudizio


Il parametro del giudizio di costituzionalità, è una nozione elastica e mutevole. Tale parametro è
costituito da tutte le norme di rango costituzionale (Costituzione e leggi costituzionali) con il
procedimento dell’art. 138 Cost. Tuttavia, su questa base si operano estensioni e restringimenti.
• Violazione indiretta: norme che non sono poste da leggi costituzionali ma che sono
richiamate da disposizioni costituzionali quali specifiche condizioni di validità di determinate
leggi o di determinate norme di leggi. Le leggi ordinarie divengono quindi parametro di
costituzionalità di altre leggi ordinarie, essendo svolgimento di principi costituzionale. Non è
stata invece riconosciuta l’idoneità a costituire norma interposta ai regolamenti parlamentari.
Altro caso emblematico ricorre nell’applicazione del principio di eguaglianza in questo caso,
al parametro costituzionale deve affiancarsi un ulteriore elemento di raffronto, il tertium
comparationis, necessario per far emergere il carattere trilaterale del controllo di uguaglianza:
accanto alla norma da valutare e al principio costituzionale occorre indicare la norma giuridica
di raffronto che consenta di cogliere la rottura dell’ordinamento;
• Principio di ragionevolezza delle leggi: emerge dall’art. 3 Cost. ed è un controllo che fa sì
che la Corte dichiari costituzionalmente illegittima una norma perché la ritiene irragionevole.
Si tratta di un metodo interpretativo.
Infine, possono esistere atti che la Corte sindaca rispetto a parti della Costituzione, per cui si può
parlare di parametro limitato o ristretto. Ogni atto sindacabile ha il suo parametro.

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L’oggetto del giudizio


L’indicazione dell’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale è rinvenibile già nell’art. 134
Cost., secondo cui la Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità
costituzionale “delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni”.
Non abbiamo un elenco esaustivo e tassativo di quali sono gli atti sindacabili dalla Corte, ma una
specificazione di quali criteri utilizzare per individuarli:
• Due categorie: leggi e atti aventi forza di legge;
• Un duplice criterio d’imputabilità, la riferibilità allo Stato o alle Regioni.
Con il termine “leggi” si intendono sia le leggi ordinarie che quelle statali e regionali. C’è stato
qualche dubbio riguardo le leggi anteriori alla Costituzione ma infine sono risultate assoggettabili al
controllo costituzionale.
Con il termine “atti aventi forza di legge” vi sono stati più problemi. La giurisprudenza si è limitata
caso per caso ad affermare la sindacabilità o meno dell’atto. Da ciò si è dedotto che sono oggetto del
controllo di costituzionalità il decreto legislativo, il decreto legge, il decreto di attuazione degli statuti
speciali, il decreto del Presidente della Repubblica che proclama l’abrogazione di una legge a seguito
di referendum abrogativo popolare ai sensi dell’art. 75 e alcuni atti di ordinamenti provvisori o
precedenti. È, al contrario, esclusa la sindacabilità dei regolamenti parlamentari, della Corte, dei
contratti collettivi di lavoro (anche di epoca fascista), delle fonti comunitarie direttamente applicabili
e dei regolamenti comunitari. Il secondo criterio è utilizzato solo marginalmente, soprattutto per
escludere il controllo sugli atti non riferibili allo Stato-ordinamento.
Questione apparentemente secondaria è quella relativa a cosa sia esattamente oggetto del controllo
di costituzionalità: se l’atto, la disposizione o la norma. La giurisprudenza si è orientata nel senso di
far scindere al giudice le diverse norme dalla singola disposizione, in modo tale che abbia la
possibilità di intervenire solo sui significati illegittimi, lasciando sopravvivere la disposizione per la
parte e per il significato costituzionalmente legittimo.
Il controllo della Corte incide sulle norme ma verte sulle disposizioni, essendo queste i mattoni che
compongono la struttura dell’ordinamento giuridico positivo.

Il procedimento in via incidentale


La legge incostituzionale, anche se affetta da un vizio, si presume valida ed applicabile fino a quando
non venga dichiarata illegittima dalla Corte.
Il procedimento in via incidentale inizia da un qualsiasi giudizio di fronte a un qualunque giudice. Se
il giudice ritiene che la legge da applicare sia incostituzionale può richiedere alla Corte, mediante una
eccezione di incostituzionalità, di verificare la validità della legge, nel caso la questione sia rilevante
per il giudizio, e non manifestamente infondata. In tal caso il giudice emana un’ordinanza con la quale
formula la questione, e la causa viene sospesa in attesa delle deliberazioni della Corte Costituzionale.
La via incidentale è un controllo di tipo successivo e concreto, poiché interviene su leggi e atti
legislativi già in vigore e in seguito ad una questione sollevata da una delle parti o rilevata d’ufficio
dallo stesso giudice nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale.
Essendo l’incostituzionalità un’opinione, la disobbedienza a tale legge sarà sanzionabile. Sono
legittimati ad instaurare un giudizio di costituzionalità (o ad essere giudici a quo) tutti gli organi che
presentino requisiti oggettivi e soggettivi della giurisdizione. Prima di investire la Corte della
questione di legittimità, il giudice a quo deve effettuare due importanti verifiche. Si tratta di controlli
finalizzati a verificare l’esistenza della norma al giudizio e la plausibilità della questione.
• Controlli di rilevanza: si vuole evitare che il giudizio ordinario possa divenire una mera
occasione per trasformare l’impugnativa incidentale in una forma di ricorso principale.
L’applicazione della norma di dubbia costituzionalità deve presentarsi come ragionevolmente
indispensabile per la decisione della controversia concreta;
• Controlli di non manifesta infondatezza: il giudice si limita ad una valutazione sommaria
della questione, per rilevare che esista un plausibile dubbio di costituzionalità.

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Il giudice ha inoltre l’obbligo di accertare di aver ricercato ed applicato tutte le possibilità


ermeneutiche per rinvenire una interpretazione delle norme impugnate conforme ai parametri
costituzionali invocati (ricerca della c.d. interpretazione adeguatrice o conforme a Costituzione).
Effettuati tali controlli il giudice investe la Corte della questione, con un’ordinanza (ordinanza di
rimessione) che deve indicare oggetto e parametro del giudizio, e motivare in ordine la rilevanza, la
non manifesta infondatezza e il tentativo di aver esperito un’interpretazione conforme alla
Costituzione. Notificherà poi l’ordinanza alle parti in causa e al Presidente del Consiglio. In seguito
la comunicherà ai Presidenti delle Camere e sospenderà il proprio giudizio.
Se l’istanza di costituzionalità è rigettata, essa può essere riproposta all’inizio di ogni grado ulteriore
del processo.

Le decisioni della Corte costituzionale


Pervenuto il giudizio alla Corte e svoltasi la eventuale udienza pubblica, la questione viene decisa in
Camera di consiglio, nella forma della sentenza o della ordinanza.
Entrambe le forme sono composte da un dispositivo e da una motivazione e sono numerate in una
numerazione unica annuale. Esse non sono in alcun modo impugnabili (art. 137, ult. comma).
Non vi è una rigida separazione delle due forme. Tuttavia, le decisioni sono sempre adottate con
sentenza; le decisioni che non la accolgono possono essere adottate in entrambe le forme.
Le ordinanze hanno struttura più snella e sono differenziabili in tre tipologie:
• Ordinanze a carattere interlocutorio: sono pronunce che non decidono nel merito la
questione di costituzionalità e possono svolgere due funzioni diverse:
o Restituire gli atti al giudice al giudice a quo, al fine di compiere ulteriori attività
(ordinanze di restituzione degli atti al giudice a quo, aprono una sorta di dialogo col
giudice che deve nuovamente valutare la questione);
o Disporre una fase istruttoria per una migliore conoscenza dei fatti (ordinanze
istruttorie finalizzate ad acquisire dati ecc.);
• Ordinanze di inammissibilità: pronunce, anche di manifesta inammissibilità, che rilevano la
sussistenza di una causa che impedisce la decisione della questione nel merito;
• Ordinanze di manifesta infondatezza: risolvono in via definitiva il giudizio senza bisogno
di verifiche approfondite. Sono adottate per casi analoghi a precedenti già decisi con sentenza
o quando il giudice abbia impropriamente sollevato la questione.
Forma assai particolare di ordinanza è l’ordinanza di correzione degli errori materiali, volta ad
eliminare da precedenti decisioni, sviste o imprecisioni.
I due tipi di sentenza hanno diversi effetti:
• La decisione di accoglimento dichiara illegittima la norma e la elimina dall’ordinamento;
• La decisione di rigetto non accerta la legittimità costituzionale della norma impugnata, ossia
non è intaccabile in futuro. Ad essere dichiarata non fondata è la questione sollevata di quella
norma: si tratta di un accertamento inter partes, solo rispetto al caso specifico che la ha
determinata. L’unica preclusione riguarda il giudizio a quo, nel senso che quel giudice non
può più continuare a dubitarne nei medesimi termini in cui ne dubitava. Si tratta quindi di un
effetto processuale limitato a quel singolo giudizio.
Talvolta la Corte si orienta nel senso della non fondatezza anche quando nella normativa impugnata
rileva disomogeneità o problemi., che tuttavia essa non può rimuovere. In casi del genere, la sentenza
di non fondatezza può contenere un invito al legislatore a provvedere per rimuovere la situazione
d’incostituzionalità (sentenze monitorie). È inoltre possibile che la Corte, pur constatando
l’incostituzionalità della norma, non sia in grado di eliminarla in modo univoco.
Il problema principale della decisione di incostituzionalità consiste nella determinazione della sua
portata e dei suoi effetti temporali.
L’art. 136 lascia intendere che la norma dichiarata incostituzionale viene eliminata con effetti solo
nel futuro, ma non consente e nemmeno vieta la possibilità di effetti retroattivi.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Pertanto tali sentenze si configurano come sentenze di annullamento retroattivo con efficacia erga
omnes, che eliminano una volta per tutte la norma dall’ordinamento, nel futuro e nel passato.
Non tutti i rapporti verificatisi nel passato vengono tuttavia modificati: i rapporti esauriti, ossia
definiti in maniera irretrattabile, non vengono alterati dalla decisione d’incostituzionalità.
Le principali cause di esaurimento di un rapporto sono determinate dal passaggio “in giudicato”. Gli
effetti di tale sentenza valgono invece per tutti i rapporti in cui la norma sarebbe ancora applicabile
(rapporti pendenti). Non vi sono limiti alla retroattività quando la norma è incriminatrice o
sanzionatoria a carattere penale (iper-retroattività).
Le sentenze hanno un doppio regime di pubblicazione:
a. Pubblicazione mediante deposito nella cancelleria della Corte;
b. Pubblicazione in Gazzetta ufficiale entro il decimo giorno dal deposito in cancelleria.
Qualche incertezza residua sulla determinazione del momento dal quale iniziano a prodursi gli
effetti della dichiarazione di incostituzionalità, sebbene sia dominante l’opinione secondo cui
l’effetto erga omnes si produce dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale della decisione, mentre dal
deposito in cancelleria discendono gli effetti rispetto al giudice a quo e a chi ne sia informato.
Anche in questo caso trova applicazione il principio della “corrispondenza tra chiesto e pronunciato”,
per cui il giudice non può di sua iniziativa “allargare” l’oggetto della controversia sottopostagli.
La Corte può, al contrario, dichiarare incostituzionali le altre disposizioni legislative la cui
illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata (c.d. illegittimità costituzionale
consequenziale).

L’armamentario decisionale costruito dalla giurisprudenza


La secca alternativa fra sentenze di accoglimento o di rigetto, negli anni è apparsa insufficiente. La
stessa Corte negli anni ha costruito un articolato “armamentario decisionale”. Il problema è emerso
a fronte di questioni relative a disposizioni alle quali sia possibile ascrivere significati diversi.
La corte ha sempre affermato il proprio potere di interpretare liberamente le disposizioni di legge alle
quali si riferisce la questione di legittimità costituzionale, senza essere vincolata dall’interpretazione
data dal giudice a quo (nei giudizi incidentali) o dal ricorrente (nei giudizi in via principale).
Tale attività della Corte può condurre a ricavare dalla disposizione in questione una norma conforme
al parametro costituzionale, a fronte di una costituzionalmente illegittima ricavata dal remittente.
• Sentenze interpretative: quando la Corte arriva ad una interpretazione conforme o meno al
parametro costituzionale, la sentenza si conclude con una declaratoria di non fondatezza o
fondatezza, ma il significato normativo è quello individuato dalla Corte. Tali sentenze sono:
o Interpretative di rigetto, le quali non hanno efficacia generale, per cui l’interpretazione
proposta non vincola tutti gli operatori giuridici. Hanno un valore meramente
persuasivo nei confronti dei giudici diversi dal rimettente, i quali potranno poi anche
continuare ad interpretare la disposizione in questione nel senso disatteso dalla Corte;
o Interpretative di accoglimento: pronunciando l’incostituzionalità di una disposizione
se ed in quanto se ne ricavi una data norma, eliminano tale possibile interpretazione
con l’efficacia propria della sentenza di accoglimento (erga omnes ed ex tunc)
Per quel che riguarda la vincolatività della decisione nel giudizio a quo, la dottrina ha proposto
diverse ipotesi:
o Vincolo positivo: il giudice è tenuto ad applicare nel processo la norma individuata
dalla Corte nel suo proprio significato;
o Vincolo meramente negativo: al giudice è soltanto precluso di interpretare la
disposizione nel senso disatteso dalla Corte, ed è possibile ogni altra interpretazione;
o Vincolo negativo specifico: al giudice è precluso di interpretare la norma nel senso
disatteso dalla Corte ma non seguendo qualsiasi altra interpretazione;
o Vincolo negativo generico: il giudice può reinterpretare come meglio ritiene la
disposizione, purché non giunga a farne applicazioni incostituzionali.

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• Sentenze manipolative: la Corte ha il potere d’intervenire sui significati delle disposizioni,


lasciandone inalterato il testo. Il passo successivo è compiuto dal giudice costituzionale che
opera anche positivamente, eliminando solo parti della disposizione in questione, o
aggiungendo norme non testualmente previste, o ancora sostituendo solo un frammento della
disposizione. Tali sentenze si dividono in
o Sentenze di accoglimento parziale: eliminano dal testo normativo un inciso, una
frase, una congiunzione;
o Sentenze additive: dichiarano l’illegittimità della omessa previsione di qualcosa che
avrebbe dovuto essere previsto dalla legge. In tal modo, la Corte aggiunge a una
disposizione una norma che da questa non era ricavabile e che però è necessaria perché
l’enunciato normativo sia conforme a Costituzione;
o Sentenze sostitutive: si dichiara l’illegittimità costituzionale di un frammento del
testo della disposizione, a cui si accompagna l’aggiunta di un nuovo frammento,
indispensabile per rendere la disposizione immediatamente applicabile.
Tali categorie di sentenze hanno dato il via a vivaci polemiche che osservavano come tali
interventi diano vita a nuove norme, con il rischio di sostituirsi concretamente al Parlamento.
Le critiche si sono estese al rapporto Corte – giudici. A tali critiche si è replicato ponendo in
evidenza l’inerzia del Parlamento che troppo spesso non ha dato adeguato seguito legislativo
a sentenze monitorie; l’intervento manipolativo della Corte, inoltre, non introduce liberamente
le disposizioni mancanti: esse sono desunte da altre norme o principi contenuti nel sistema.
Negli anni tali polemiche si sono lentamente assopite;
o Sentenze additive di principio: si tratta di decisioni in cui alla declaratoria
d’incostituzionalità fa seguito l’aggiunta di un principio generale o generalissimo. Tale
tecnica non invade la competenza parlamentare in quanto alle Camere è lasciato il compito di
scegliere fra una pluralità di soluzioni. È certamente più efficace delle sentenze monitorie.
Tali sentenze sono complesse, e in esse la parte demolitoria e la parte costruttiva finiscono
per separarsi. Così la Corte viene incontro a le obiezioni che ne denunciano la normatività. La
compiuta disciplina della materia talvolta è espressamente richiesta al legislatore; altre volte
la Corte stabilisce un minimo di rispetto dei principi costituzionale, riconoscendo al legislatore
la possibilità di una disciplina diversa. La regola generale è che la Corte non richiama i poteri
interpretativi o normativi, ma essi devono ritenersi implicitamente sottintesi. A volte la Corte
esclude che il giudice possa dare attuazione alla sentenza senza che il legislatore intervenga;
o Sentenze “di transizione” o “interlocutorie”: sono decisioni che seguono le sentenze
interpretative e manipolative o creative, volte a tutelare l’interesse costituzionale alla
continuità dell’ordinamento. Con tali sentenze, una disciplina legislativa vigente
caratterizzata da una possibile o probabile incostituzionalità viene “degradata” da disciplina
legislativa tendenzialmente stabile in disciplina precaria, senza però accertarne
l’incostituzionalità.
È stata dunque la stessa Corte, in mancanza di interventi legislativi, a provvedere al contenimento
degli effetti retroattivi delle proprie sentenze, stabilendo a partire da quando tali effetti dovessero
decorrere (c.d. sentenze “datate”). A tale scopo non solo è stata utilizzata la categoria della
incostituzionalità sopravvenuta, ma ci si è anche richiamati all’esigenza di un bilanciamento di
valori, tra l’effetto di annullamento dell’incostituzionalità ed altri principi incidenti sulla fattispecie
e, al limite, l’effetto di una più grave incostituzionalità.
La Corte ha inoltre cercato di recuperare e sviluppare un rapporto collaborativo con il Parlamento, in
maniera da salvaguardare più adeguatamente gli ambiti di discrezionalità del legislatore, utilizzando
le decisioni additive di principio.
Dopo la riforma costituzionale del 2001, il giudizio in via principale ha acquisito esigenze più
specifiche di composizione dei rapporti fra Stato e Regioni, portando anche alla creazione di nuove
tipologie di decisioni non retroattive, in ragione del principio di continuità e dell’esigenza di tutelare
i diritti della persona.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il giudizio in via principale


Il giudizio in via principale (o diretta o d’azione) rappresenta una forma speciale di giudizio di
costituzionalità, e riguarda le controversie sulle leggi, promosse dallo Stato contro le Regioni e
viceversa (difendere le proprie competenze legislative). Il Governo ha 60 giorni, dalla pubblicazione
della legge regionale, per proporre ricorso alla Corte, e lo stesso vale per la Giunta regionale. Lo Stato
può impugnare le leggi regionali anche nel caso in cui esse violino altre norme della Costituzione.
Dopo la riforma costituzionale del 2001, il giudizio principale è cresciuto: sono aumentati i ricorsi.
L’accesso diretto alla Corte Costituzionale è riconosciuto a:
o Lo Stato;
o Le Regioni;
o Le Province autonome di Trento e Bolzano.
Secondo quanto previsto dall’art. 127 Cost., “il Governo, quando ritenga che una legge regionale
ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale
dinanzi alla Corte Costituzionale entro 60 giorni dalla sua pubblicazione.
La Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra
Regione leda la sua competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale entro
sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto avente valore di legge”.
Si tratta di un controllo successivo a cui si può ricorrere entro 60 giorni dalla pubblicazione della
legge. Ha carattere astratto in quanto si tratta di un controllo di conformità della norma a prescindere
dalla sua concreta applicazione.
La riforma del 2001 ha posto Stato e Regioni su un piano di formale parità, entrambi potendo ricorrere
alla Corte solo successivamente all’entrata in vigore della legge. La Costituzione non prevede più il
limite di merito del rispetto dell’interesse nazionale e delle altre regioni.
Una disparità fra Stato e Regioni permane solo relativamente ai motivi del ricorso: lo Stato può
impugnare una legge per qualsiasi vizio, mentre le Regioni possono impugnare le leggi solo qualora
siano lesive di una loro competenza o quando la violazione di parametri costituzionali non attributivi
di competenze abbia determinato una seppur indiretta incisione delle attribuzioni regionali. Allo Stato
rimane comunque riservata una posizione peculiare che si traduce nel compito di assicurare l’istanza
unitaria.
L’atto introduttivo del giudizio dinanzi alla Corte costituzionale è sia per lo Stato che per le Regioni
un ricorso, preceduto per lo Stato da una delibera del Consiglio dei Ministri e per la Regione da una
delibera della Giunta regionale.
Il giudizio in via principale è un giudizio tra parti, a carattere contenzioso, in cui affinché ci sia un
giudizio almeno una parte (il ricorrente) deve essersi costituita. Inoltre, le parti hanno il potere di
determinare la cessazione della materia del contendere o l’estinzione del giudizio e della sua
politicità.
La mancata impugnazione in via principale nei termini non preclude allo Stato e alle Regioni una
successiva impugnazione in via incidentale, qualora essi siano parti in un giudizio e la legge o l’atto
avente forza di legge debbano essere applicati nel corso di quel giudizio.

Peculiarità per l’impugnazione degli Statuti delle Regioni a statuto ordinario e per le Regioni
Sicilia e Trentino-Alto Adige
Il ricorso dello Stato è ancora preventivo quando ad essere impugnato è lo statuto di una Regione a
statuto ordinario o una legge siciliana.
Il Governo può impugnare la delibera statutaria entro 30 giorni dalla pubblicazione a carattere
notiziale che precede l’eventuale referendum popolare. Lo statuto può essere impugnato per qualsiasi
vizio di legittimità costituzionale e anche se non rispetti il limite dell’armonia con la Costituzione.
Lo Statuto deve rispettare non solo la lettera ma anche lo spirito della Costituzione.

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Diritto pubblico – Domiziana Di Battista

Il ricorso nei confronti della delibera statutaria non comporta la sospensione dell’iter procedimentale,
cosicché può accadere che l’esito del giudizio sia di fatto successivo alla celebrazione del referendum
popolare e all’entrata in vigore dello Statuto.
Per quanto riguarda l’impugnazione delle leggi siciliane, l’art. 9 della legge n. 131/2003 ha fatto
espressamente salva la particolare forma di controllo preventivo prevista dallo statuto per le leggi
siciliane.
Anche in Trentino-Alto Adige sono presenti due peculiarità:
o L’art. 56 dello Statuto prevede il ricorso diretto dei gruppi linguistici attraverso le leggi che
siano ritenute lesive della parità dei diritti fra i cittadini dei diversi gruppi linguistici o delle
caratteristiche etniche e culturali dei gruppi stessi;
o L’adeguamento della legislazione regionale e provinciale, rispetto alla sopravvenuta
legislazione statale di principio, deve avvenire in un termine di sei mesi, decorso il quale lo
Stato può procedere all’impugnazione dinanzi alla Corte nei successivi 90 giorni.

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