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L'ultimo Cesare: Il caso dei Lupercalia

Conference Paper · January 2011

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Steven Nicastro
Università Ca' Foscari Venezia
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Sommario
Introduzione ...................................................................................................................... 2
Primo Capitolo - Le fonti antiche....................................................................................... 5
1.1 Cicerone................................................................................................................... 5
1.2 Livio ........................................................................................................................ 9
1.3 Nicola di Damasco ................................................................................................. 10
1.4 Velleio Patercolo .................................................................................................... 13
1.5 Floro ...................................................................................................................... 15
1.6 Plutarco.................................................................................................................. 15
1.7 Svetonio ................................................................................................................. 19
1.8 Appiano ................................................................................................................. 20
1.9 Cassio Dione .......................................................................................................... 22
Secondo Capitolo – I problemi ........................................................................................ 24
2.1 Lupercalia: origine, leggenda e contesto ................................................................ 24
2.1.1 Virgilio ............................................................................................................... 26
2.1.2 Varrone ............................................................................................................... 27
2.1.3 Livio ................................................................................................................... 27
2.1.4 Ovidio ................................................................................................................. 28
2.1.5 Plutarco ............................................................................................................... 38
2.1.6 I Luperci ............................................................................................................. 41
2.1.7 La figura del flamen Dialis .................................................................................. 43
2.1.8 Il rituale .............................................................................................................. 44
2.1.9 Quale festa? ........................................................................................................ 45
Terzo Capitolo - I protagonisti della vicenda ................................................................... 48
3.1 Cesare .................................................................................................................... 48
3.2 Antonio .................................................................................................................. 59
3.3 C. Epidio Marullo e L. Cesezio Flavo .................................................................... 67
Conclusione .................................................................................................................... 68
Bibliografia ..................................................................................................................... 71
“ Allora Cesare, irritato, si alzò dalla tribuna e, scostando la toga dal collo, gridò
che lo offriva a chi volesse ucciderlo 1 ”

Introduzione
Il pittoresco episodio ai Lupercalia, datato 15 febbraio 44 a.C., è un avvenimento
notissimo: non solo forse uno dei più discussi degli ultimi mesi di vita di Cesare, ma
probabilmente anche uno dei più raccontati. Qui sarà raccontato di nuovo per esteso, e si
metteranno in rilievo gli aspetti più significativi, quelli che poi costituiranno la griglia
dell’indagine.

Il 15 febbraio del 44 a.C., giorno della festa dei Lupercalia, Cesare, seduto su un trono
d’oro, vestito di porpora e cinto intorno al capo con una corona d’oro, assisteva nel Foro
dalla tribuna degli oratori (i rostra) alla corsa rituale compiuta dai luperci. Essi
costituivano a Roma uno strano ed arcaico sodalizio: una volta all’anno, in questa data,
correvano “nudi” intorno al Palatino, non avendo altro che una striscia di pelle di capra
intorno alla vita ed una in mano. Queste pelli provenivano da un precedente sacrificio
eseguito al Lupercal, la grotta, alla falde del Palatino, dove secondo la tradizione la lupa
avrebbe allattato Romolo e Remo. Nella tumultuosa e scatenata corsa, i luperci con la
striscia di pelle in mano battevano la folla che si accalcava al loro passaggio e che offriva il
dorso o le palme delle mani: “come a scuola” aggiunge un Plutarco stupefatto ed ironico 2.
Ma erano soprattutto le donne a farsi avanti, sterili oppure ormai pronte alla maternità, che
cercavano così di assicurarsi un facile concepimento o un parto miracoloso. Marco
Antonio, console insieme a Cesare in quell’anno e suo secondo in comando, correva
anch’egli tra i luperci. All’improvviso si stacca dai compagni e si dirige verso i rostra; sale
sulla tribuna, mostra un diadema e cerca di imporlo sul capo di Cesare. Nel racconto di
Cicerone3, il popolo sarebbe scoppiato a piangere, e sembra che solo pochi abbiano
applaudito. Cesare allora rifiuta il diadema e a questa mossa il plauso è concorde. Quando
Antonio tenta di nuovo, Cesare oppone di nuovo il suo rifiuto; ordina quindi di portare il
diadema sul Campidoglio nel tempio di Giove Ottimo Massimo, in quanto solo lo stesso
Dio può essere definito re. Inoltre, l’accaduto viene fatto registrare nei Fasti, dove lo stesso

1
Plut. Caes. 60,4.
2
Plut. Caes. 61.
3
Cic. Phil. 2,34,78-79.
2
Antonio, mette per iscritto che “Cesare, dittatore perpetuo, ha rifiutato il regno offertogli
dal console per volere del popolo”.

Il brevissimo racconto appena delineato degli avvenimenti relativi a quel fatidico 15


febbraio non entra volutamente nel merito e nella discussione di singoli dettagli e varianti;
questi, spesso notevoli, sono stati oggetto di ampi studi che si pongono, nei confronti della
ricerca, come un quadro di riferimento in qualche modo prioritario. Si osservi che le linee
del racconto hanno cercato di attestarsi con la maggiore aderenza possibile sullo stesso
versante della tradizione antica, enucleandone gli ampi margini di concordia. Se lo
svolgimento della festa in età arcaica, soprattutto in epoca tardo-repubblicana, sembrava
non offrire alcun elemento di raccordo, se fosse stato presente, i Lupercalia sono stati
interpretati, quanto alle loro origini, come la festa del nuovo anno in età regia e pertanto
come momento privilegiato perché Cesare potesse avanzare aspirazioni romulee, oppure
come festa connessa con il potere e dunque, anche da un simile punto di vista, più adatto
per la creazione di un re. Sull’origine ed il significato dei Lupercalia, il problema è stato,
già in antico, posto dagli eruditi romani; più raffinate e tentando nuove vie, le ipotesi
moderne hanno saputo, e ancora negli ultimi tempi, portare nuove chiavi di lettura per
questo famosissimo episodio. I Lupercalia furono una delle ultime feste romane ad essere
abolite dai cristiani. In una lettera di papa Gelasio I 4, scritta ad Andromaco (l’allora
princeps Senatus), si riferisce che a Roma durante il suo pontificato (492-496 d.C.) si
tenevano ancora i Lupercali, sebbene ormai la popolazione fosse da tempo, almeno
nominalmente, cristiana. Si ignora se la festa sia stata abolita quell’anno, come riteneva il
cardinale Cesare Baronio 5, o se sia sopravvissuta per qualche tempo ancora. William
Green6 riteneva che probabilmente il significato religioso della festa fosse andato perduto e
che ormai avesse un carattere folklorico.

La mia intenzione, come afferma anche Ugo Bianchi in un breve articolo del 1958 7, è
quella di studiare, in relazione all’episodio dei Lupercali, i fondamenti mitologici sui quali
il dittatore, e coloro che lo circondavano, abbiano potuto immaginare una teoria di

4
Gelas. : “Adversus Andromachum senatorem et caetores Romanos qui Lupercalia secundum morem
pristinum colenda constituunt”. Collectio Avellana, epistula 100; cfr. Pomares 1959 pp. 131 ss.
5
Baron. Annales Ecclesiastici, 4-7, p. 616.
6
Green 1931, pp. 60-69.
7
Bianchi 1958, pp. 253-259.
3
legittimità regale. A tale proposito un nuovo ed ulteriore approccio a questa questione così
dibattuta dovrebbe articolarsi su tre punti meritevoli di approfondimento:

1) innanzitutto il riesame delle fonti antiche, cioè la tradizione storiografica, per cercare di
coglierne lo sviluppo cronologico e, in particolare, di distinguere la versione più antica (e
la sua tendenza) dalle successive “risposte” polemiche o apologetiche;

2) in secondo luogo l’analisi dei principali problemi riguardanti l’origine, le leggende, i


contesti ed ogni singolo particolare legato ai Lupercalia, riesaminando il senso e il valore
della festa per l’opinione pubblica romana dell’età di Cesare;

3) in terzo e ultimo luogo l’approfondimento circa la figura politica dei protagonisti,


ricavando in base alle analisi del punto precedente, un’interpretazione plausibile del ruolo
e dell’intenzione degli stessi.

Per ognuno di questi punti la ricerca terrà conto, come è naturale, di studi e ricerche di
autorevoli studiosi precedenti, e nel cui tracciato si inserisce, mirando a riordinare e a
sintetizzare i risultati preziosi quanto frammentari.

4
Primo Capitolo - Le fonti antiche
Le fonti antiche, più o meno concordi sulla dinamica di base dell’accaduto, rivelano però la
loro tendenza, o quella degli autori cui a loro volta alcune di esse si rifacevano, proprio per
il modo in cui interpretano la vicenda; dalla loro divergente versione del fatto hanno
origine quelle analogamente diverse degli studiosi moderni.

Secondo Cicerone, Livio (Periochae), Velleio Patercolo, Plutarco, Svetonio, Floro,


Appiano e Cassio Dione, nel corso della cerimonia dei Lupercalia, l’autore dell’iniziativa
di offrire un diadema a Cesare fu Antonio; secondo Nicola di Damasco sarebbe stato
invece un Licinio a porgere per primo il diadema al dittatore, imitato dai futuri cesaricidi
Cassio e Casca, e solo in ultima istanza da Antonio.

Ma andiamo ad analizzare le principali fonti antiche con particolare attenzione.

1.1 Cicerone
La più antica versione di quel che accadde il 15 febbraio 44 dista dall’avvenimento press’a
poco nove mesi, poiché è costituita dal breve racconto contenuto nella II Filippica di
Cicerone, che certo fu testimone oculare, terminata e pubblicata tra la fine di ottobre e gli
inizi di dicembre del medesimo anno 8:

“ Sed ne forte ex multis rebus gestis M. Antoni rem umanum pulcherrimam


transiliat oratio, ad Lupercalia veniamus. Non dissimulat, patres conscripti,
apparet esse commotum: sudat, pallet. Quidlibet, modo ne nausiet, faciat, quod in
porticu Minucia fecit. Quae potest esse turpitudinis tantae defensio? Cupio audire,
ut videam ubi retori sit tanta merces, ubi campus Leontinus appareat. Sedebat in
rostris collega tuus, amictus toga purpurea, in sella aurea, coronatus. Escendis,
accedis ad sellam – ita era Lupercus ut te consulem esse meminisse deberes -,
diadema ostendis. Gemitus toto foro. Unde diadema? Non enim abiectum
sustuleras, sed attuleras domo: meditatum et cogitatum scelus. Tu diadema
imponebas cum plangore populi, ille cum plausu reiciebat. Tu ergo unus, scelerate,
inventus es qui, cum auctor regni esse eumque quem collegam habebas dominum
habere velles, idem temptares quid populus Romanus ferre et pati posset. At etiam
misericordiam captabes: supplex te ad pedes abiciebas. Quid petens? Ut
serviremus? Tibi uni peteres qui ita a puero vixeras ut omnia paterere, ut facile
8
Cic. Phil. 2,84-87. Per la data Marinone 1997, pp. 236 ss.; con il commento di Cristofoli 2004, pp. 34 ss.
5
servires; nobis populoque Romano mandatum id certe non habebas. O praeclaram
illam eloquentiam tuam, cum es nudus contionatus! Quid hoc turpius, quid foedius,
quid suppliciis omnibus dignius? Num exspectas dum te stimulus fodiamus? Haec
te,si ullam partem habes sensus, lacerat, haec cruentat oratio. Vereor ne
immunuam summorum virorum gloriam; dicam tamen dolore commotus: qui
indignius quam vivere eum qui imposuerit diadema, cum omnes fateantur iure
interfectum esse qui abiecerit? At etiam ascribi iussit in fastis ad Lupercalia:
C.Caesari, dictatori perpetuo, M.Antonium consulem populi iussu regnum
detulisse; Caesarem uti noluisse ”.

“ Ma per non correre il rischio di saltare nel mio discorso, tra le tante belle gesta di
Antonio, proprio quella che è di gran lunga la più bella, veniamo alle feste in onore
di Luperco. Non riesce, senatori, a fingere di non sapere nulla, il suo turbamento è
evidente: suda, impallidisce. Ad ogni modo è libero di fare quello che vuole, purché
non si metta a vomitare, com’è avvenuto nel portico Minucio. Cosa potrebbe dire a
sua difesa davanti a tanta infamia? Sono proprio desideroso di ascoltarlo, per
vedere dov’è andato a finire il lauto onorario dato al suo professore di retorica,
dov’è che si vedono i frutti della tenuta di Lentini. Il tuo collega, con indosso una
toga purpurea e in testa una corona d’alloro, sedeva in tribuna su di un seggio
dorato. Tu sali sulla tribuna, ti avvicini al seggio – la tua qualità di Luperco non
avrebbe dovuto farti dimenticare che eri un console! - , gli porgi il diadema. Un
gemito si leva da tutto quanto il foro. Donde era uscito quel diadema? Che non
l’avevi certo raccolto da terra tra i rifiuti, ma l’avevi portato da casa: un crimine
premeditato e intenzionale! Tu facevi l’atto di porgli il diadema in testa in mezzo
all’evidente cordoglio popolare: lui lo rifiutava tra le acclamazioni. Tu dunque,
scellerato, sei stato l’unico a prendere l’iniziativa della restaurazione della
monarchia e a voler avere come padrone quello che avevi come collega; ma volevi
pure sperimentare fino a che punto di sofferta sopportazione sapesse giungere il
popolo romano. Peraltro cercavi pure di commuoverlo, gettandoti supplice ai suoi
piedi. Per chiedergli cosa? La nostra schiavitù? Ma è per te solo che dovevi
chiederla, per te che fin dalla fanciullezza eri vissuto disposto a subire qualunque
bassezza, ad accettare docilmente la schiavitù; non è certo da noi, né dal popolo
romano che avevi ricevuto quell’incarico. Che splendida eloquenza la tua, quando ti

6
sei messo tutto nudo ad arringare il popolo! Potrebbe esistere uno spettacolo più
vergognoso di questo, più ripugnante, più degno di qualunque supplizio? Aspetti
forse che ti leviamo la pelle a scudisciate? Ma se hai ancora un briciolo di
sensibilità, è questo mio discorso che ti strazia, che ti ferisce a sangue. Ho una gran
paura di recar danno alla gloria di eminentissimi cittadini, ma tuttavia il dolore mi
spinge a parlare; ché è la maggiore delle vergogne che continui a vivere chi pose il
diadema sul capo del tiranno, mentre è stato ucciso giustamente, per generale
ammissione, chi lo rifiutò. Per di più ha fatto aggiungere nei fasti, alla data dei
Lupercali, quest’annotazione: « Il console Marco Antonio ha per la volontà del
popolo offerto il trono al dittatore a vita Gaio Cesare, che l’ha rifiutato ». Ormai
non c’è proprio da stupirsi che sia tu a turbare la pace pubblica, ad avere in odio
non solo Roma ma addirittura la luce del giorno, a trascorrere la tua vita non solo di
giorno ma pure fino al ritorno del giorno col fior fiore dei briganti ”.

(trad. di Giovanni Bellardi)

Cicerone descrive una sequenza fattuale di questo tipo: Cesare è seduto sulla tribuna, sul
suo seggio in oro9, con la toga purpurea e la corona d’alloro 10; Antonio, dopo la corsa con
gli altri Luperci, giunto ai Rostri dove era Cesare, tenne un’arringa al popolo, che Cicerone
menziona più avanti nel capitolo e non fissa in una cronologia precisa, ma che possiamo
forse individuare in questo punto della sequenza evenemenziale grazie alla testimonianza
di Phil. 3,5,12:

“ … Nec vero M. Antonium consulem post Lupercalia debuistis putare; quo enim
ille die, populo Romano inspectante, nudus, unctus, ebrius est contionatus et id egit
ut collegae diadema imponeret, eo die se non modo consulatu, sed etiam libertate
abdicavit. Esset enim ipsi certe statim serviendum, si Caesar ab eo regni insigne
accipere evoluisse. Hunc igitur ego consulem, hunc civem Romanum, hunc liberum,
hunc denique hominem putem qui foedo illo et flagitioso die et quid pati Caesare
vivo posset et quid eo mortuo consequi ipse cuperet ostendit? ”

“ … D’altra parte, dopo i Lupercali M. Antonio console non avreste dovuto più
considerarlo; che in quel giorno in cui, sotto gli occhi del popolo romano, nudo,

9
Rappresentato tra l’altro nell’aureus in Crawford 1974, pl. LVIII, 491/1a.
10
Vd. Weinstock 1971, pp. 338 ss.
7
profumato ed ebbro si diede ad arringare la folla e giunse al punto di voler porre il
diadema reale sul capo del suo collega, allora egli ha rinunciato non solo al
consolato, ma addirittura alla libertà; che sarebbe certamente toccata immediamente
proprio a lui la condizione di schiavo se Cesare avesse voluto accettare dalle sue
mani l’insegna delle dignità regale. È costui dunque che io dovrei considerare un
console, un cittadino romano, un essere libero, insomma un uomo? Costui che in
quel giorno abominevole e turpe ha dimostrato non solo fino a che punto di
servilismo fosse capace di piegarsi finchè Cesare era vivo, ma pure fino a che punto
si spingessero le sue mire ambiziose dopo la morte del suo padrone? ”

(trad. di Giovanni Bellardi)

Terminata l’arringa, condannata dall’Arpinate come inopportuna perché tenuta con i


succinti vestiti di pelle caprina che portavano i Luperci, Antonio (che Cicerone – con
allusione malevola – ricorda abituato a omnia paterere) si avvicina a Cesare e gli porge un
diadema11. Il diadema, come è noto, è testimoniato anche dalla documentazione
numismatica romana nel I secolo a.C.12, era il tipico contrassegno della regalità, e come
tale era stato adottato a simbolo del proprio potere già dai re ellenistici, dopo che la sua
prima introduzione nel mondo greco risaliva a Dionigi I di Siracusa13. La folla presente nel
foro esprime disapprovazione per l’iniziativa di Antonio; Cesare rifiuta il diadema tra gli
applausi della gente; Antonio insiste nella sua offerta, arrivando a gettarsi ai piedi di
Cesare supplicandolo di accettare; Cesare rifiuta ancora, Antonio desiste e fa registrare nei
Fasti l’accaduto, cioè che per volontà del popolo (populi iussu) il collega gli aveva offerto
il regno, ma che egli non aveva voluto accettarlo (uti noluisse). Si evince quindi, la
responsabilità del gesto premeditato sarebbe del solo Antonio, ma nello stesso tempo si dà
il massimo rilievo al diniego di Cesare e non si stabilisce alcun nesso tra l’episodio e il
cesaricidio. La testimonianza di Cicerone, che peraltro fu la base di tutte quelle che poi
verranno, potrebbe rispecchiare la più attendibile sequenza ideologico-evenemenziale della
vicenda; Antonio avrebbe glorificato così il nome di Cesare come quello di colui che, al
culmine del potere, scelse tuttavia di lasciare la libertà ai Romani.

11
Il gesto, del porre il diadema, avvenne tra la costernazione del magister equitum Lepido: vd. Cic. Phil.
5,14,38; e cfr. Hohl 1941, p. 107; Hayne 1971, p. 110, n. 13.
12
Cfr. Crawford 1974, pl. LI, 425/1: denarius raffigurante Anco Marzio; pl. LIII, 446/1: denarius
raffigurante Numa Pompilio.
13
Liv. 24,5,4.
8
Ma è ancora dallo stesso Cicerone, dalla XIII Filippica del 20 marzo 43, che si ricava un
nuovo particolare, compatibile con la suddetta versione 14:

“ Quis fortunatior Lepido, ut ante dixi, quis eodem sanior? Vidit eius maestitiam
atque lacrimas populous Romanus Lupercalibus; vidit quam abiectus, quam
confectus esset cum Caesari diadema impones Antonius servum se illius quam
collegam esse malebat ”.

“ Ebbene, chi più di Lepido è stato favorito dalla fortuna, com’ho detto prima, chi
più di lui è dotato di buon senso? I Romani hanno visto con i loro occhi la sua
mestizia e le sue lacrime durante le feste Lupercali; hanno visto il suo abbattimento
e la sua costernazione quando Antonio, ponendo il diadema sul capo di Cesare,
preferiva esserne lo schiavo piuttosto che il collega ”. (trad. di Giovanni Bellardi)

Il passo ricorda come il magister equitum Lepido manifestasse costernazione davanti


all’iniziativa di Antonio; e nella stessa orazione inoltre si stabilisce, come si è visto 15, un
nesso casuale diretto tra l’episodio e il cesaricidio.

1.2 Livio
La versione di Velleio Patercolo, da come si potrà vedere, è affine a quella di Nicola da
Damasco, Livio (o meglio quel poco che ne resta) è molto vago e deludente 16:

“ Cesare ex Hispania quintum triumphum egit. Et cum plurimi maximique honores


ei a senatu decreti essent, inter quos ut parens patriae appellaretur et sacrosanctus
as dictator in perpetuum esset, invidiae adversus eum causam praestiterunt, quod
sanatui deferenti hos honores, cum ante aedem Veneris Genetricis sederet, non
adsurrexit, et quod a M. Antonio consule, collega suo, inter lupesco currente
diadema capiti suo impositum in sella reposuit, et quod Epidio Marullo et Caesetio
Flavo tribunis plebis invidiam ei tamquam regnum adfectanti facientibus potestas
abrogata est. Ex his causis conspiratione in eum facta … ”.

14
Cic. Phil. 13,17.
15
Cic. Phil. 13,41: “… nam Caesari plura et maiora debentur. Deceptum autem patrem Cesarem a me dicere
audes? Tu, tu, inquam, illum occidisti Lupercalibus; cuius, homo ingratissime, flaminium cur reliquisti? “; il
cesaricidio è per Cicerone la legittima risposta all’incoronazione di Cesare.
16
Liv. Per. 116.
9
“ Cesare celebrò il quinto trionfo sulla Spagna. E dopo che gli furono decretati dal
senato moltissimi ed altissimi onori, fra cui quello di essere chiamato padre della
patria, di essere inviolabile nella persona e dittatore a vita, provocarono contro di
lui motivo di malumore non essersi alzato, mentre stava seduto dinanzi al tempio di
Venere Genitrice, al momento che il senato gli conferiva quegli onori, aver deposto
sul seggio il diadema messogli in testa ˂ dal ˃ console M. Antonio, suo collega, che
percorreva di corsa la città fra i Luperci, e aver revocato la carica di tribuni della
plebe a Epidio Marullo e Cesenzio Flavo, ˂ che gli arrecavano ˃ impopolarità
propalando che aspirasse a divenire re. Per questi motivi fu ordita una congiura
contro di lui … ”. (trad. di Giovanni Pascucci)

Tuttavia nella Periocha CXVI emerge che i Lupercalia furono solo uno tra gli episodi che
suscitarono l’invidia verso Cesare e che la sua adfectatio regni era per lo meno dubbia17.
Non si riesce però a capire bene – anche a causa della brevità del testo – se Livio afferma
che l’impopolarità era dovuta al fatto che gli fosse stato offerto un diadema, o al fatto che
Cesare lo avesse rifiutato. Questa fonte, dunque, riporta i motivi che porteranno alla
congiura, ma anche la presenza dei due tribuni della plebe, i quali sembrano legati
all’episodio della tentata incoronazione ma che poi saranno implicati ad essa.

1.3 Nicola di Damasco


Che Augusto trattasse dei Lupercalia si ricava, soprattutto, dalla Vita di Augusto di Nicola
di Damasco, scritta verso il 20 a.C., sulla base dell’Autobiografia del principe 18(scritta nel
23 a.C.):

XXI: “Τνηαῦηα κὲλ δὴ ηόηε ἐιέγεην· κεηὰ δὲ ηαῦηα ἑνξηὴ ἐλ ηῆ Ῥώκῃ ἐγέλεην
ρεηκῶλνο, Λνππεξθάιηα θαιεῖηαη, ἐλ ᾗ γεξαηνί ηε ὁκνῦ πνκπεύνπζη θαὶ λένη, γπκλνὶ,
ἀιειηκκέλνη ηε θαὶ δηεδσζκέλνη, ηνύο ηε ὑπαληῶληαο θαηαθεξηνκνῦληεο θαὶ ηύπηνληεο
αἰγείαηο δνξαῖο. Τόηε δὲ ἐλζηάζεο, ἡγεκὼλ ᾑξέζε Μάξθνο Ἀληώληνο· θαὶ πξνῄεη δηὰ
η῅ο ἀγνξᾶο, ὥζπεξ ἔζνο ἦλ, ζπλείπεην δὲ αὐηῷ θαὶ ἄιινο ὄρινο. Καζεκέλῳ δὲ
Καίζαξη ἐπὶ ηῶλ ἐκβόισλ ιεγνκέλσλ ἐπὶ ρξπζνῦ ζξόλνπ, θαὶ ἱκάηηνλ ἁινπξγὲο
ἀκπερνκέλῳ, πξῶηνλ Ληθίληνο δάθληλνλ ἔρσλ ζηέθαλνλ, ἐληὸο δὲ δηάδεκα πεξη-
θαηλόκελνλ , πξνζέξρεηαη (ἦλ γὰξ ὑςειὸο ὁ ηόπνο ἐθ’ νὗ Καῖζαξ ἐδεκεγόξεη,
βαζηαρζεὶο ὑπὸ ηῶλ ζπλαξρόλησλ) θαὶ θαηέζεθελ αὐηνῦ πξὸ ηῶλ πνδῶλ ηὸ δηάδεκα.

17
Si delinea già nel CXVI libro quell’imbarazzo nel narrare le scottanti vicende contemporanee, conciliando
rispetto verso il princeps e libertà di giudizio, che portò Livio a rinviare la pubblicazione dei libri CXXI-
CXLII dopo la morte di Augusto: cfr. Zecchini 1987, p. 80 nota 98.
18
Nic. Dam. Vita Caes. 21,71-75.
10
Βνῶληνο δὲ ηνῦ δήκνπ, ἐπὶ ηὴλ θεθαιὴλ ηίζεζη· θαὶ ἐπὶ ηνῦηνλ Λέπηδνλ θαινῦληνο
ηὸλ ἱππάξρελ, ὁ κὲλ ὤθλεη· ἐλ ηνύηῳ δὲ Κάζζηνο Λνγγῖλνο, εἷο ηῶλ ἐπηβνπιεπόλησλ,
ὡο δ῅ζελ εὔλνπο ὢλ, ἵλα θαὶ ιαλζάλεηλ κᾶιινλ δύλαηην, ὑπνθζὰο ἀλείιεην ηὸ
δηάδεκα θαὶ ἐπὶ ηὰ γόλαηα αὐηνῦ ἔζεθε. Σπλ῅λ δὲ θαὶ Πόπιηνο Κάζθαο . Καίζαξνο δὲ
δησζνπκέλνπ θαὶ ηνῦ δήκνπ βνῶληνο, ηαρὺ πξνζδξακὼλ Ἀληώληνο γπκλὸο ἀιειηκ-
κέλνο , ὥζπεξ ἐπόκπεπελ, ἐπὶ ηὴλ θεθαιὴλ ἐπηηίζεζη. Καῖζαξ δὲ ἀλειόκελνο αὐηὸ εἰο
ηὸλ ὄρινλ ἔξξηςε. Καὶ νἱ κὲλ ηειεπηαῖνη ἐθξόηεζαλ ἐπὶ ηνύηῳ, νἱ δὲ πιεζίνλ ἐβόσλ
δέρεζζαη θαὶ κὴ δησζεῖζζαη ηὴλ ηνῦ δήκνπ ράξηλ. Ἄιινη γὰξ ἄιιελ γλώκελ πεξὶ ηῶλ
δξσκέλσλ εἶρνλ· νἱ κὲλ γὰξ ἐδπζρέξαηλνλ, ἅηε δπλαζηείαο δήισζηλ κείδνλνο ἢ θαηὰ
δεκνθξαηίαλ· νἱ δὲ ραξίδεζζαη νἰόκελνη ζπλέπξαηηνλ· νἱ δὲ νὐθ ἔμσ η῅ο γλώκεο
αὐηνῦ δηεζξόνπλ ηνῦην Ἀληώληνλ πεπνηεθέλαη· πνιινῖο δ’ ἦλ θαὶ βνπινκέλνηο
βαζηιέα αὐηὸλ ἀλακθηιόγσο γελέζζαη. Παληνδαπαὶ κὲλ θ῅καη ἐλ ηῷ ὁκίιῳ ἦζαλ. Τὸ
δ’ νὖλ δεύηεξνλ Ἀλησλίνπ ἐπηηηζέληνο, ὁ δ῅κνο ἐβόεζε «Χαῖξε βαζηιεῦ» η῅ο ἑαπηνῦ
γιώηηεο. Ὁ δὲ νὐ δερόκελνο ἐθέιεπζελ εἰο ηὸ ηνῦ Καπηησιίνπ Δηὸο ἱεξὸλ ἀπνθέξεηλ
αὐηό· ἐθείλῳ γὰξ κᾶιινλ ἁξκόηηεηλ. Καὶ πάιηλ ἐθξόηεζαλ νἱ αὐηνὶ, ὥζπεξ θαὶ πάιαη.
Λέγεηαη δὲ θαὶ ἕηεξνο ιόγνο, ὡο ηαῦηα ἔπξαηηελ Ἀληώληνο ἐθείλῳ κὲλ, ὥο γε ᾤεην,
ραξίδεζζαη βνπιόκελνο, αὑηῷ δὲ ἐιπίδα κλώκελνο εἰ γέλνηην πνηεηὸο πἱόο.
Τειεπηαῖνλ δὲ ἀζπαζάκελνο Καίζαξα δίδσζη ηῶλ παξεζηώησλ ηηζὶλ ἐπηζεῖλαη αὐηὸ
ἐπὶ ηὴλ θεθαιὴλ ηνῦ πιεζίνλ ἀλδξηάληνο Καίζαξνο· νἱ δὲ ἐπέζεζαλ. ἖λ δ’ νὖλ ηνῖο
ηόηε νὐδελὸο ἧηηνλ θαὶ ηόδε πξαρζὲλ ἤγεηξε ζᾶηηνλ ηνὺο ἐπηβνπιεύνληαο, πίζηηλ ἐλ
ὀθζαικνῖο κείδσ παξαζρὸλ ηῶλδ’ ἃ δη’ ὑπνςίαο εἶρνλ ”.

XXI, 71: “ Tali erano i discorsi che si facevano allora. Nell’inverno si celebrava a
Roma una festa (chiamata i Lupercali), durante la quale vecchi e giovani insieme
partecipavano a una processione, nudi, unti e cinti, schernendo quanti incontravano
e battendoli con strisce di pelle di capra. Siccome allora ricorreva questa festa, era
stato eletto a guidare la processione Antonio; egli attraversava il Foro, secondo il
vecchio costume, seguito da molta gente. Cesare era seduto sui cosiddetti Rostri, su
un trono d’oro, avvolto in un mantello di porpora. Dapprima lo avvicinò Licinio
con una corona d’alloro, all’interno della quale appariva visibilmente un diadema.
Dato che il posto da cui Cesare parlava al popolo era in alto, Licinio, sollevato dai
colleghi, depose il diadema ai piedi di Cesare ”.

72: “ Il popolo gridava di porlo sul capo e invitò il magister equitum, Lepido, a
farlo, ma questi esitava. In quel momento Cassio Longino, uno dei congiurati, come
se fosse veramente benevolo e anche per poter meglio dissimulare le sue malvagie
intenzioni, lo prevenne prendendo il diadema e ponendoglielo sulle ginocchia. Con

11
lui anche Publio Casca. Al gesto di rifiuto da parte di Cesare e alle grida del popolo
accorse Antonio, nudo, unto d’olio, proprio come si usava durante la processione e
glielo depose sul capo. Ma Cesare se lo tolse e lo gettò in mezzo alla folla. Quelli
che erano distanti applaudirono questo gesto, quelli che erano vicini invece
gridavano che lo accettasse e non rifiutasse il favore del popolo ”.

73: “ Su questa vicenda si sentivano opinioni discordanti: alcuni erano sdegnati


poiché, secondo loro, si trattava dell’esibizione di un potere che superava i limiti
richiesti dalla democrazia; altri lo sostenevano credendo di fargli cosa gradita. Altri
ancora spargevano la voce che Antonio avesse agito non senza il suo consenso.
Molti avrebbero voluto che diventasse re senza discussioni. Voci di ogni genere
circolavano tra la massa. Quando Antonio gli mise il diadema sul capo per la
seconda volta, il popolo gridò nella sua lingua: « Salve, re! ». Egli non accettò
nemmeno allora e ordinò di portare il diadema nel tempio di Giove Capitolino, al
quale, disse, più conveniva. Di nuovo applaudirono gli stessi che prima avevano
applaudito ”.

74: “ C’è anche un’altra versione: Antonio avrebbe agito così con Cesare volendo
ingraziarselo, anzi con l’ultima speranza di essere adottato da lui ”.

75: “ Alla fine abbracciò Cesare e passò la corona ad alcuni dei presenti, perché la
ponessero sul capo della vicina statua di Cesare. Così fu fatto. In un tale clima,
dunque, anche questo evento non meno di altri avvenimenti contribuì a stimolare i
congiurati ad un’azione più rapida; esso infatti aveva dato una prova più concreta di
quanto sospettavano ”. (trad. di Barbara Scardigli)

Questo racconto, da come si può vedere, è contenuto nei paragrafi 71-72; l’inserimento del
paragrafo 73, tra i paragrafi 71-72 e 74-75, conferma una seconda fonte oltre i
Commentarii augustei, che è peraltro riconosciuta anche in linea generale da quasi tutti gli
studiosi19. Qui infatti si elencano le diverse interpretazioni dell’episodio e l’autore sembra
non volersi pronunciare su di loro; poi, improvvisamente, torna dal commento alla
narrazione. Quindi il doppio tentativo di Antonio del paragrafo 73 non si accorda col
triplice tentativo nei paragrafi 71-72: Nicola deve aver fuso maldestramente due fonti, di

19
Status quaestionis in Scardigli – Delbianco 1983, pp. 15-18.
12
cui la prima è Augusto, mentre la seconda è la medesima di Appiano 20. Nicola di Damasco
rivela palesemente l’influsso della propaganda augustea nella sua ricostruzione: Cesare
rifiuta un diadema coralmente offertogli almeno dai suoi sostenitori, e l’offerta stessa del
diadema è narrata con sensibilità scenografica presentando il particolare della sua ascesa;
difatti il diadema è posto prima ai piedi, poi sulle ginocchia e infine sul capo di Cesare 21. I
paragrafi 74-75, invece, si commentano spiegando come Antonio abbia agito così nella
speranza di ingraziarsi Cesare e di farsi adottare da lui, ma in realtà ciò contribuì, insieme
ad altri episodi, a spingere i congiurati ad agire. Il commento è molto sfavorevole ad
Antonio e anche, per mera duplice tendenza, anticesaricida e antiantoniana, mira ad attuare
una vera e propria opposta coincidenza (tra congiurati e console) e a salvare il solo Cesare,
vittima delle trame altrui, attaglianatosi perfettamente alle esigenze della propaganda
augustea. Come Cicerone aveva sostenuto nelle Filippiche: si trattava di salvare la
memoria di Cesare e, allo stesso tempo, di diradare nubi e sospetti sulle future intenzioni
del figlio, di compiere insomma un’operazione rivolta al passato, ma con una ben precisa
ricaduta nel presente. Ciò spiega come ha potuto fornire una versione dei Lupercalia del
tutto nuovo, che non ha riscontro nella tradizione storiografica.

1.4 Velleio Patercolo


Con Velleio Patercolo, che segue una versione certamente antiantoniana dell’accaduto, il
biasimo ricade ovviamente tutto su Antonio, autore di questa inopportuna iniziativa; ma
affiora anche il sospetto di una complicità di Cesare in essa, o almeno di un suo
gradimento22:

“ Neque illi tanto viro et tam clementer omnibus victoriis suis uso plus quinque
mensium principalis quies contigit. Quippe cum mense Octobri in urbem
revertisset, idibus Martiis, coniurationis auctoribus Bruto et Cassio, quorum
alterum promittendo consulatum non obligaverat, contra differendo Cassium
offenderai, adiectis etiam consiliariis caedis familiarissimis omnium et fortuna
partium eius in summum evectis fastigium, D. Bruto et C. Trebonio allisque clari

20
Così da Laqueur 1936 e ora Scardigli – Delbianco 1983, mentre Dobesch 1978 preferisce non far nomi.
Risulta difficile negare la presenza di Asinio Pollione in Nicola da Damasco.
21
È sorprendente il fatto che non pochi autorevoli studiosi abbiano privilegiato proprio la testimonianza di
Nicola da Damasco: già Pareti 1955, p. 345, il quale riteneva che Antonio intendesse forzare la mano a
Cesare e fargli accettare il titolo di monarca per le sue “concezioni alessandrine”; inoltre, fra gli altri,
Carcopino 1968, p. 561 e ss.; Sordi 2000, pp. 305 ss.
22
Vell. 2,56,4.
13
nominis viris, interemputs est. Cui magnam invidiam conciliarat M. Antonius,
omnibus audendis paratissimus, consulates collega, inponendo capiti eius
Lupercalibus sedentis pro rostris insigne regium, quod ad eco ita repulsum erat, ut
non offensus videretur ”.

“ A quest’uomo così grande e che tanta clemenza aveva usato verso tutti, non
toccarono in sorte più di cinque mesi di pacato dominio. Rientrato in Roma durante
il mese di ottobre, venne assassinato alle idi di marzo da una congiura promossa da
Bruto e Cassio (la promessa del consolato non gli era bastata per legare a sé il
primo dei due, mentre Cassio nutriva risentimento per il ritardo nel concedergli la
stessa carica), a cui si erano aggiunti come istigatori dell’eccidio i suoi amici più
intimi, saliti alle più alte fortune con il successo del partito cesariano, come Decimo
Bruto, Gaio Trebonio, e altri personaggi illustri. Grande impopolarità si era
addensata su di lui per causa del suo collega di consolato Marco Antonio uomo
disposto ad ogni temerità, che durante i Lupercali aveva deposto sul capo di Cesare,
assiso davanti ai rostri, l’insegna regale, che questi rifiutò, ma in modo tale da non
mostrarsi sdegnato ”. (trad. di Leopoldo Agnes)

Come si nota, il dittatore rifiutò il diadema in maniera tale ut non offensus videretur. Lo
storico tiberiano accenna in modo breve, ma denso ai Lupercalia del 4423, articolando la
sua sintesi nei seguenti punti: 1) questo episodio fu una delle principale cause
dell’omicidio; 2) responsabile ne fu Antonio; 3) egli era un temerario e un irriflessivo; 4) il
rifiuto di Cesare non fu abbastanza chiaro. I primi due punti ricalcano una matrice augustea
e cioè di tendenza antiantoniana, mentre i restanti due cercano di distogliere da Antonio le
accuse più gravi di premeditazione, cercando anche di spiegare il gesto di Cesare
(ritroviamo qui la linea di Pollione) 24. Costituisce un pendant a questa versione quella di

23
Col breve commento di Woodman 1983, pp. 110-111.
24
Paladini 1953, pp. 465-468; Dihle 1955, pp 637-659; Zecchini 1982, pp. 1287-1288. Più vago
Hellegouarc’h 1984, pp. 404-436. Asinio Pollione è stato un politico,oratore e letterato romano; figlio di una
ricca famiglia, fu un seguace di Cesare e poi di Marco Antonio, console nel 40 a.C. e proconsole l’anno
successivo. Grande ed erudito oratore era secondo solo a Cicerone; il suo più importante lavoro furono le
Storie, 17 libri andati perduti nei quali erano descritte le guerre civili che avevano dilaniato il popolo Romano
fra il primo triunvirato e la battaglia di Filippi e furono citate da Appiano e Plutarco. Egli dovette basarsi su
testimonianze e impressioni altrui e questo può giustificare in parte l’incongruenza di una versione, dove
Antonio agisce di testa sua, danneggia Cesare, sia pur volontariamente, ma il quale non si adira con lui;
inoltre solo in antoniano critico come Pollione poteva rappresentare Antonio quale responsabile
dell’episodio.
14
Floro25, dove lo storico non riesce a fornire una spiegazione sensata del comportamento di
Cesare e di Antonio durante i Lupercali.

1.5 Floro
“ Itaque non in gratis civibus omnes unum in principem congesti honores: circa
templa imagines, in theatro distincta radiis corona, suggestus in curia, fastigium in
domo, mensis in caelo, ad hoc pater ipse patrie perpetuusque dictator, novissime,
dubium an ipso volente, oblata pro rostris ab Antonio consule regni insignia ” .

“ Pertanto, non essendo ingrati i cittadini, essi concentrarono tutte le cariche in un


solo capo. Statue di Cesare furono collocate nei templi, in teatro gli fu posta una
corona ornata di raggi; aveva un posto distinto in Senato. Sulla sua casa fu posto un
pinnacolo, nel calendario gli fu dedicato un mese. Oltre a ciò egli fu nominato
padre della patria e dittatore a vita. Da ultimo, non si sa bene se egli fosse
d’accordo, gli furono offerte davanti ai rostri dal console Antonio le insegne del
regno ”. (trad. di Jolanda Giacone Deangeli)

Storico e poeta romano, Publio Annio Floro, riporta in questo piccolo passo un elenco delle
cariche e degli onori, che il senato diede a Cesare, e in ultimo non riesce a fornire una
spiegazione di quanto accaduto nella festa dei Lupercalia, e del comportamento dei due
protagonisti principali.

1.6 Plutarco
Plutarco, nella biografia di Cesare, per porre in buona luce il protagonista introduce il
dettaglio di una parte della folla che applaude durante entrambi i tentativi di Antonio di far
accettare il diadema a Cesare; ma la maggior parte della folla prorompe in fragorosi
applausi dinanzi ai due rifiuti dello stesso Cesare, che alla fine fa portare quel diadema sul
Campidoglio 26:

“ ἖πηγίλεηαη ηνύηνηο ηνῖο πξνζθξνύζκαζηλ ὁ ηῶλ δεκάξρσλ πξνπειαθηζκόο. ἦλ κὲλ


γὰξ ἡ ηῶλ Λνππεξθαιίσλ ἑνξηή, πεξὶ ἧο πνιινὶ γξάθνπζηλ ὡο πνηκέλσλ ηὸ

25
Flor. 2,13,91.
26
Plut. Caes. 61,1-7 . Sul passo cfr. Garzetti 1954, pp. 217-222.
15
παιαηὸλ εἴε, θαί ηη θαὶ πξνζήθεη ηνῖο Ἀξθαδηθνῖο Λπθαίνηο. ηῶλ δ’ εὐγελῶλ
λεαλίζθσλ θαὶ ἀξρόλησλ πνιινὶ δηαζένπζηλ ἀλὰ ηὴλ πόιηλ γπκλνί, ζθύηεζη ιαζίνηο
ηνὺο ἐκπνδὼλ ἐπὶ παηδηᾷ θαὶ γέισηη παίνληεο· πνιιαὶ δὲ θαὶ ηῶλ ἐλ ηέιεη
γπλαηθῶλ ἐπίηεδεο ἀπαληῶζαη παξέρνπζηλ ὥζπεξ ἐλ δηδαζθάινπ ηὼ ρεῖξε ηαῖο
πιεγαῖο, πεπεηζκέλαη πξὸο εὐηνθίαλ θπνύζαηο, ἀγόλνηο δὲ πξὸο θύεζηλ ἀγαζὸλ εἶλαη.
ηαῦηα Καῖζαξ ἐζεᾶην, θαζήκελνο ὑπὲξ ηῶλ ἐκβόισλ ἐπὶ δίθξνπ ρξπζνῦ, ζξηακβηθῷ
θόζκῳ θεθνζκεκέλνο. Ἀληώληνο δὲ ηῶλ ζεόλησλ ηὸλ ἱεξὸλ δξόκνλ εἷο ἦλ· θαὶ γὰξ
ὑπάηεπελ· ὡο νὖλ εἰο ηὴλ ἀγνξὰλ ἐλέβαιε θαὶ ηὸ πι῅ζνο αὐηῷ δηέζηε, θέξσλ δηάδεκα
ζηεθάλῳ δάθλεο πεξηπεπιεγ αὐηῷ δηέζηε, θέξσλ δηάδεκα ζηεθάλῳ δάθλεο
πεξηπεπιεγ κέλνλ ὤξεμε ηῷ Καίζαξη· θαὶ γίλεηαη θξόηνο νὐ ιακπξόο, ἀιι’ ὀιίγνο ἐθ
παξαζθεπ῅ο. ἀπσζακέλνπ δὲ ηνῦ Καίζαξνο, ἅπαο ὁ δ῅κνο ἀλεθξόηεζελ· αὖζηο δὲ
πξνζθέξνληνο, ὀιίγνη, θαὶ κὴ δεμακέλνπ, πάιηλ ἅπαληεο. νὕησ δὲ η῅ο
πείξαο ἐμειεγρνκέλεο, Καῖζαξ κὲλ ἀλίζηαηαη, ηὸλ ζηέ θαλνλ εἰο ηὸ Καπηηώιηνλ
ἀπελερζ῅λαη θειεύζαο ”.

“ A questo punto si aggiunse l’offesa fatta ai tribuni della plebe. Era la festa dei
Lupercali, che fin dall’antichità, come scrivono molti, veniva celebrata dai pastori,
e che ha una qualche relazione con quelle degli arcadici Licei. In quella occasione
molti giovinetti della nobiltà e alcuni magistrati corrono nudi per la città colpendo
per gioco e per ridere con cinghie villose di cuoio tutti quelli che incontrano, e vi
sono donne di alto rango che si lasciano colpire a bella posta, così come gli scolari
offrono le mani alle percosse, convinte che ciò faciliti il parto o scacci la sterilità.
Ebbene, Cesare stava assistendo a questa cerimonia seduto su uno scranno d’oro
nella tribuna rostrata trionfalmente abbigliato, allorché Antonio, che partecipava a
quella corsa sacra in qualità di console, entrato nel Foro e infilatosi in mezzo alla
folla che si apriva al suo passare, porse a Cesare una corona intrecciata con foglie di
alloro. Si levò un applauso piuttosto fiacco, come se fosse stato organizzato, non
forte e spontaneo, ma appena Cesare fece la mossa di respingere quell’offerta fu
un’ovazione generale. Antonio ripeté il gesto, e nuovamente gli applausi furono
pochi e deboli, ma come Cesare anche questa volta rifiutò la corona applaudirono
tutti. Finita quella prova generale, il dittatore si alzò e diede ordine di portare la
corona sul Campidoglio ”. (trad. di Mario Scaffidi Abbate)

16
Nella Vita di Cesare questi fatti sono descritti, da Plutarco, con considerazioni di sapore
strettamente anticesariane, che il desiderio di essere re, fanno emergere il lato cesariano.
Ciò suscitò un odio davvero mortale, qualificando l’episodio dei Lupercalia come una
prova effettuata a tale scopo da Antonio in sintonia con Cesare, ma fallita.

Questo episodio viene trattato, ancora una volta, nella Vita di Antonio, dove Plutarco narra
che, tra gli applausi dei pochi e la riprovazione dei molti, Antonio offrì per due volte a
Cesare il diadema, facendosi sollevare verso la tribuna dagli altri Luperci; Cesare rifiutò e
teatralmente offrì il proprio collo ai colpi di chi nutriva odio vero di lui 27; la corona fu
posta su una delle sue statue, da cui la tolsero i tribuni Cesezio e Marullo 28:

“ Κἀθείλνηο δὲ ηὴλ εὐπξεπεζηάηελ πξόθαζηλ ἄθσλ παξέζρελ Ἀληώληνο. ἦλ κὲλ γὰξ ἡ


ηῶλ Λπθαίσλ ἑνξηὴ Ῥσκαίνηο ἣλ Λνππεξθάιηα θαινῦζη, Καῖζαξ δὲ θεθνζκεκέλνο
ἐζζ῅ηη ζξηακβηθῆ θαὶ θαζήκελνο ὑπὲξ βήκαηνο ἐλ ἀγνξᾷ ηνὺο δηαζένληαο ἐζεᾶην·
δηαζένπζη δὲ ηῶλ εὐγελῶλ λένη πνιινὶ θαὶ ηῶλ ἀξρόλησλ ἀιειηκκέλνη ιίπα, ζθύηεζη
ιαζίνηο θαζηθλνύκελνη κεηὰ παηδηᾶο ηῶλ ἐληπγραλόλησλ. ἐλ ηνύηνηο ὁ Ἀληώληνο
δηαζέσλ ηὰ κὲλ πάηξηα ραίξεηλ εἴαζε, δηάδεκα δὲ δάθλεο ζηεθάλῳ πεξηειίμαο
πξνζέδξακε ηῷ βήκαηη, θαὶ ζπλεμαξζεὶο ὑπὸ ηῶλ ζπλζεόλησλ ἐπέζεθε ηῆ θεθαιῆ ηνῦ
Καίζαξνο, ὡο δὴ βαζηιεύεηλ αὐηῷ πξνζ῅θνλ. ἐθείλνπ δὲ ζξππηνκέλνπ θαὶ
δηαθιίλνληνο, ἡζζεὶο ὁ δ῅κνο ἀλεθξόηεζε· θαὶ πάιηλ ὁ Ἀληώληνο ἐπ῅γε, θαὶ πάιηλ
ἐθεῖλνο ἀπεηξίβεην. θαὶ πνιὺλ ρξόλνλ νὕησ δηακαρνκέλσλ, Ἀλησλίῳ κὲλ ὀιίγνη ηῶλ
ηῶλ θίισλ βηαδνκέλῳ, Καίζαξη δ’ ἀξλνπκέλῳ πᾶο ὁ δ῅κνο ἐπεθξόηεη κεηὰ βν῅ο· ὃ
θαὶ ζαπκαζηὸλ ἦλ, ὅηη ηνῖο ἔξγνηο ηὰ ηῶλ βαζηιεπνκέλσλ ὑπνκέλνληεο, ηνὔλνκα
ηνῦ βαζηιέσο ὡο θαηάιπζηλ η῅ο ἐιεπζεξίαο ἔθεπγνλ. ἀλέζηεκὲλ νὖλ ὁ Καῖζαξ
ἀρζεζζεὶο ἀπὸ ηνῦ βήκαηνο, θαὶ ηὸ ἱκάηηνλ ἀπάγσλ ἀπὸ ηνῦ ηξαρήινπ ηῷ βνπινκέλῳ
παξέρεηλ ηὴλ ζθαγὴλ ἐβόα. ηὸλ δὲ ζηέθαλνλ ἑλὶ ηῶλ ἀλδξηάλησλ αὐηνῦ πεξηηεζέληα
δήκαξρνί ηηλεο θαηέζπαζαλ, νὓο ὁ δ῅κνο εὐθεκῶλ κεηὰ θξόηνπ παξείπεην, Καῖζαξ δὲ
η῅ο ἀξρ῅ο ἀπέζηεζελ “.

“ E a quelli [cesaricidi] Antonio, senza volerlo, offrì il pretesto più conveniente. Si


celebrava infatti la festa dei Licei, che i romani chiamano Lupercali, e Cesare, con

27
Plut. Caes. 60,4. “Scoprendosi e offrendo il collo e il petto, come è tramandato, in ogni caso plasticamente
dimostrò che rispettava la concezione romana secondo la quale chi aspirava alla corona era degno di morte”
(vd. Meier 1993, p. 486).
28
Plut. Ant. 12,1-7 (si vedano i commenti di Scuderi 1984, 41-43 e di Pelling 1988, 144-147).
17
la veste trionfale, seduto sulla tribuna, guardava quelli che correvano nel foro.
Partecipavano alla corsa molti rampolli di famiglia nobile e giovani magistrati, i
quali, unti d’olio, con scudici ricoperti di pelo, colpiscono per scherzo quanto
incontrano. Antonio, che correva fra questi, trascurando la tradizione patria, ricoprì
una diadema con un serto d’alloro e, passando di corsa davanti alla tribuna e fattosi
sollevare dai suoi compagni, lo pose sulla testa di Cesare, volendo significare che
gli si addiceva essere re. Poiché quello ostentava di rifiutarlo sdegnosamente, il
popolo, entusiasta, si mise ad applaudire; e di nuovo Antonio tentò di mettergli in
capo il diadema e di nuovo egli si rifiutò. Mentre questa contesa durava, ad Antonio
che cercava d’imporsi applaudivano pochi amici, invece a Cesare che ricusava
applaudiva tutto il popolo con alte grida. Era straordinario il fatto che coloro che in
pratica sopportavano la condizione di sudditi rifiutassero però il nome di re, nella
convinzione che distruggesse la libertà. Allora Cesare, irritato, si alzò dalla tribuna
e, scostando la toga dal collo, gridò che lo offriva a chi volesse ucciderlo. La corona
fu posta in capo a una delle sue statue, ma gliela strapparono alcuni tribuni della
plebe, che il popolo accompagnò con elogi e applausi. Però Cesare li destituì dalla
carica “. (trad. di Osvalda Anderi e Rita Scuderi)

L’iniziativa avventata di Antonio, di cui Cesare sembra essere all’oscuro, fornì, sia pure
senza volerlo, agli oppositori il pretesto per la congiura. Ora il racconto nelle due biografie
è abbastanza impreciso, ciò è dovuto anche ad alcuni abbellimenti letterari (ad es.
l’intervento dei due tribuni sulle statue che è in realtà precedente, il fatto che il console sia
sollevato dagli altri Luperci e la teatrale reazione di Cesare), ma pare vicino a quello
appianeo soprattutto riguardo al doppio tentativo di Antonio e alle reazioni della folla; ciò
non stupisce, date le ben note affinità tra Appiano e Plutarco sulle guerre civili, risalenti a
Asinio Pollione; stupisce invece che, in palese contrasto con Appiano, Plutarco attribuisca
a Cesare la volontà di farsi re e di saggiare in tal senso l’opinione pubblica e colleghi i
Lupercalia al cesaricidio. Il problema in questa fonte, è più complicata del previsto, perché
Plutarco ci presenta due versioni totalmente diverse dell’accaduto; in una Antonio e Cesare
sono d’accordo e fanno una prova generale, mentre nell’altra è il solo Antonio che opera
all’oscuro di Cesare. Inoltre il focus dell’autore è l’offesa dei due tribuni della plebe,
Cesezio e Marullo, e di come essa è collegata alla scena dei Lupercalia.

18
Allora il biografo ci mostra di seguire i fatti come riferisce Appiano, ma anche di
conoscere la fonte anticesariana utilizzata da Cassio Dione, creando così una terza
versione.

1.7 Svetonio
La versione di Svetonio è molto sintetica, e la si ricava in un capitolo della biografia di
Cesare nelle Vite dei Cesari, in cui viene affacciato il sospetto che, in riferimento anche ad
altri episodi, Cesare fosse deluso vedendo che non gli si voleva concedere un potere più
ampio, e nemmeno gli si offriva la possibilità di rifiutarlo 29:

“ Neque ex eo infamiam affectati etiam regii nominis discutere ualuit, quanquam et


plebei regem se salutanti « Caesarem se, non regem esse » responderit et
Lupercalibus pro rostris a consule Antonio admontum saepius capiti suo diadema
reppulerit atque in Capitolium Ioui Optimo Maximo miserit ”.

“ Da allora, a mondarlo dal sospetto di aspirare al titolo regio non valse nemmeno il
fatto che, quando la plebe lo salutò chiamandolo « re », rispose: « Mi chiamo
Cesare! », e che durante i Lupercali, sui Rostri,dopo aver respinto a varie riprese il
diadema che il console Antonio cercava di porgli in capo, avesse infine ordinato di
portarlo in campidoglio a Giove Ottimo Massimo ”. (trad. di Felice Dessì)

Questa breve versione del racconto precisa soltanto come Antonio fece più tentativi
(saepius) di incoronare Cesare, ma chiarisce poco sopra che Cesare rivendicava la gloria di
aver rifiutato il titolo di re, mentre in realtà era irritato per lo scarso favore con cui la
proposta di quel titolo era stata accolta:

“ … dolens seu parum prospere motam regni mentionem siue, ut ferebat, ereptam
sibi gloriam recusandi, tribunos grauiter increpitos potestate priuauit …”

“ … sia che fosse seccato per lo scarso successo di quell’accenno al regno, sia,
come disse egli stesso, perché gli avevano strappato la gloria di rifiutare
personalmente quell’onore, dopo aver fatto una scenata ai due tribuni[ Cesezio e
Marullo ], li rimosse dalla carica …” (trad. di Felice Dessì)

29
Svet. Iul. 79,2.
19
1.8 Appiano
Più che la narrazione dell’episodio, in Appiano, è rilevante il fatto che lo storico egizio
attribuisca a Cesare una forte delusione per non essere riuscito, con l’iniziativa di Antonio,
a diventare re; una delusione che poi gli fece prendere la decisione di muovere guerra
contro i Geti e i Parti30:

“ Oὐ κὴλ αἵ γε πεξὶ η῅ο βαζηιείαο πεῖξαη θαηεπαύνλην νὐδ’ ὥο, ἀιιὰ ζεώκελνλ αὐηὸλ
ἐλ ἀγνξᾷ ηὰ Λνππεξθάιηα ἐπὶ ζξόλνπ ρξπζένπ, πξὸ ηῶλ ἐκβόισλ, Ἀληώληνο
ὑπαηεύσλ ζὺλ αὐηῷ Καίζαξη θαὶ δηαζέσλ ηόηε γπκλὸο ἀιειηκκέλνο, ὥζπεξ εἰώζαζηλ
νἱ η῅ζδε η῅ο ἑνξη῅ο ἱεξέεο, ἐπὶ ηὰ ἔκβνια ἀλαδξακὼλ ἐζηεθάλσζε δηαδήκαηη. θξόηνπ
δὲ πξὸο ηὴλ ὄςηλ παξ’ ὀιίγσλ γελνκέλνπ θαὶ ζηόλνπ παξὰ ηῶλ-
πιεηόλσλ, ὁ Καῖζαξ ἀπέξξηςε ηὸ δηάδεκα. θαὶ ὁ Ἀληώληνο αὖζηο ἐπέζεθε, θαὶ ὁ
Καῖζαξ αὖζηο ἀπεξξίπηεη. θαὶ ὁ δ῅κνο δηεξηδόλησλ κὲλ ἔηη ἡζύραδε, κεηέσξνο ὤλ,
ὅπῃ ηειεπηήζεηε ηὸ γηγλόκελνλ, ἐπηθξαηήζαληνο δὲ ηνῦ Καίζαξνο ἀλεβόεζαλ ἥδηζηνλ
θαὶ αὐηὸλ ἅκα εὐθήκνπλ νὐ πξνζέκελνλ ”.

“ Neppur così, comunque, ebbero fine i tentativi di farlo re: mentre assisteva ai
Lupercali nel foro, seduto su un trono d’oro davanti ai rostri, Antonio, suo collega
nel consolato, correndo nudo con il corpo unto d’olio, secondo l’uso dei sacerdoti
di questa festa, salì sui rostri e gli pose sul capo il diadema. A quella vista mentre
pochi applaudivano, i più manifestarono dolore e Cesare respinse la corona.
Antonio di nuovo gliela pose in capo, e di nuovo Cesare la rifiutò. Mentre i due
contendevano in tal modo il popolo assisteva silenzioso, incerto su come sarebbe
andata a finire; quando la vinse Cesare, applaudirono con grandissimo entusiasmo,
e nello stesso tempo lo esaltarono per non aver accettato ”.

(trad. di Emilio Gabba e Domenico Magnino)

Si può intravvedere, come fonte dello storico egizio, l’influsso di Asinio Pollione il quale
mette Cesare in buona luce e smaschera le sue ambizioni. Cesare non sollecita, ma si limita
ad accettare gli onori che gli vengono conferiti senza misura, e per di più vieta che solo si
parli tra i suoi amici dell’eventualità di proclamarlo re, dato che non è questa la sua
volontà. Subito dopo lo storico presenta delle letture alternative dell’episodio:
30
App. civ. 2,109,456-110,459.
20
“ Ὁ δέ, εἴηε ἀπνγλνύο, εἴηε θάκλσλ θαὶ ἐθθιίλσλ ἤδε ηήλδε ηὴλ πεῖξαλ ἢ δηαβνιήλ,
εἴηε ηηζὶλ ἐρζξνῖο η῅ο πόιεσο ἀθηζηάκελνο, εἴηε λόζεκα ηνῦ ζώκαηνο ζεξαπεύσλ,
ἐπηιεςίαλ θαὶ ζπαζκὸλ αἰθλίδηνλ ἐκπίπηνληα αὐηῷ κάιηζηα παξὰ ηὰο ἀξγίαο, ἐπελόεη
ζηξαηείαλ καθξὰλ ἔο ηε Γέηαο θαὶ Παξζπαίνπο, Γέηαηο κὲλ αὐζηεξῷ θαὶ θηινπνιέκῳ
θαὶ γείηνλη ἔζλεη πξνεπηβνπιεύσλ, Παξζπαίνπο δὲ ηηλύκελνο η῅ο ἐο Κξάζζνλ
παξαζπνλδήζεσο. ζηξαηηὰλ δὴ πξνύπεκπελ ἤδε ηὸλ Ἰόληνλ πεξᾶλ, ἑθθαίδεθα ηέιε
πεδῶλ θαὶ ἱππέαο κπξίνπο. θαὶ ιόγνο ἄιινο ἐθνίηα, Σηβύιιεηνλ εἶλαη πξναγόξεπκα κὴ
πξὶλ ὑπαθνύζεζζαη Ῥσκαίνηο Παξζπαίνπο, εἰ κὴ βαζηιεὺο αὐηνῖο ἐπηζηξαηεύζεηε. θαί
ηηλεο ἀπὸ ηνῦδε ἐηόικσλ ιέγεηλ, ὅηη ρξὴ Ῥσκαίσλ κὲλ αὐηόλ, ὥζπεξ ἦλ, δηθηάηνξα
θαὶ αὐηνθξάηνξα θαιεῖλ θαὶ ὅζα ἄιια ἐζηὶλ αὐηνῖο ἀληὶ βαζηιείαο ὀλόκαηα, ηῶλ δὲ
ἐζλῶλ, ὅζα Ῥσκαίνηο ὑπήθνα, ἄληηθξπο ἀλεηπεῖλ βαζηιέα. ὁ δὲ θαὶ ηόδε παξῃηεῖην
θαὶ ηὴλ ἔμνδνλ ὅισο ἐπεηάρπλελ, ἐπίθζνλνο ὢλ ἐλ ηῆ πόιεη ”.

“ Egli però, deluso, o stanco, lasciando perdere ormai questo tentativo ed evitando
l’accusa, o per staccarsi dalla città per via di certi nemici, o per curare una sua
malattia, cioè l’epilessia e le improvvise convulsioni che lo coglievano soprattutto
nei periodi di inattività, decise di fare una lunga spedizione contro Geti e Parti,
attaccando prima di Geti, una popolazione vicina, rigida e bellicosa, e poi i Parti,
per punirli d’aver violato gli accordi presi con Crasso. E già mandò innanzi per
passare lo Ionio un esercito costituito da sedici legioni di fanti e diecimila cavalieri;
ma si diffuse la voce che secondo una profezia dei libri Sibillini i Parti non
sarebbero divenuti sudditi dei Romani se non avesse portato loro guerra un re. Fu
per questo che alcuni usarono dire che bisognava chiamarlo dittatore o imperatore
dei Romani, come effettivamente egli era, o con qualunque altro nome che i
Romani hanno per significare un potere monarchico; ma delle genti soggette ai
Romani lo si doveva dire esplicitamente re. Egli però rifiutò anche questa
scappatoia e affrettò comunque la partenza, perché era diventato odioso in città ”.
(trad. di Emilio Gabba e Domenico Magnino)

Qui, l’autore, osserva che la successiva decisione di Cesare di partire per la guerra partica
poteva essere spiegata sia dalla delusione per la fredda accoglienza al tentativo di Antonio,
sia dalla stanchezza di doversi opporre a questo genere di iniziative, interpretabili o come
prova di incoronazione o come calunniose insinuazioni; questa alternativa è però presto

21
risolta: Cesare rifiutò il titolo anche limitato ai popoli soggetti ai Romani e dimostrò così
che solo l’invidia muoveva i suoi nemici interni. La tendenza di Appiano è quindi del tutto
inequivoca: Cesare è del tutto in buona fede e quasi inerme di fronte all’odio e alle
calunnie dei suoi avversari. Durante i Lupercalia l’iniziativa è di Antonio, ma il
protagonista è Cesare con il suo rifiuto; il suo fermo atteggiamento ha comunque il
sopravvento e l’episodio non risulta decisivo nell’avviare la congiura 31.

1.9 Cassio Dione


Non Antonio, ma Cesare è protagonista della versione di Cassio Dione 32:

“ ηνύησλ δ’ νὖλ νὕησ γελνκέλσλ ηνηόλδε ηη ἕηεξνλ, νὐθ ἐο καθξὰλ ζπλελερζέλ, ἐπὶ
πιένλ ἐμήιεγμελ ὅηη ιόγῳ κὲλ δηεθξνύεην ηὴλ ἐπίθιεζηλ, ἔξγῳ δὲ ιαβεῖλ ἐπεζύκεη.
ἐπεηδὴ γὰξ ἐλ ηῆ ηῶλ Λπθαίσλ γπκλνπαηδίᾳ ἔο ηε ηὴλ βαζηιείαλ ἐζ῅ιζε, θαὶ ἐπὶ ηνῦ
βήκαηνο ηῆ ηε ἐζζ῅ηη ηῆ βαζηιηθῆ θεθνζκεκέλνο θαὶ ηῷ ζηεθάλῳ ηῷ δηαρξύζῳ
ιακπξπλόκελνο ἐο ηὸλ δίθξνλ ηὸλ θερξπζσκέλνλ ἐθαζίδεην, θαὶ αὐηὸλ ὁ Ἀληώληνο
βαζηιέα ηε κεηὰ ηῶλ ζπληεξέσλ πξνζεγόξεπζε θαὶ δηαδήκαηη ἀλέδεζελ, εἰπὼλ ὅηη
ηνῦηό ζνη ὁ δ῅κνο δη’ ἐκνῦ δίδσζηλ, ἀπεθξίλαην κὲλ ὅηη <Ζεὺο> κόλνο ηῶλ
Ῥσκαίσλ βαζηιεὺο εἴε, θαὶ ηὸ δηάδεκα αὐηῷ ἐο ηὸ Καπηηώιηνλ ἔπεκςελ, νὐ κέληνη
θαὶ ὀξγὴλ ἔζρελ, ἀιιὰ θαὶ ἐο ηὰ ὑπνκλήκαηα ἐγγξαθ῅λαη ἐπνίεζελ ὅηη ηὴλ βαζηιείαλ
παξὰ ηνῦ δήκνπ δηὰ ηνῦ ὑπάηνπ δηδνκέλελ νἱ νὐθ ἐδέμαην. ὑπσπηεύζε ηε νὖλ ἐθ
ζπγθεηκέλνπ ηηλὸο αὐηὸ πεπνηεθέλαη, θαὶ ἐθίεζζαη κὲλ ηνῦ ὀλόκαηνο, βνύιεζζαη δὲ
ἐθβηαζζ῅λαί πσο ιαβεῖλ αὐηό, θαὶ δεηλῶο ἐκηζήζε … ”.

“ Oltre a questi fatti ne accadde poco dopo un altro che dimostrava ancora meglio
che Cesare respingeva a parole il titolo di re, mentre in realtà lo desiderava
ardentemente. Durante la festa dei Lupercali egli era entrato nella Reggia e si era
seduto nella tribuna sul suo seggio dorato, tutto splendente nell’abito regale e con la
rilucente corona d’oro sul capo; Antonio insieme ai suoi colleghi sacerdoti lo salutò
re e gli pose in capo il diadema, dicendo: « È il popolo che te lo dà per mio mezzo
». Cesare rispose: « Solo Giove è re dei Romani », e mandò il diadema al dio in
Campidoglio. Non si adirò, ma volle che nel verbale della seduta si scrivesse che
egli ha rifiutato il titolo di re offertogli dal popolo attraverso il console. Si ebbe

31
Zecchini 2001, pp. 19-20.
32
Cass. Dio 44,11,1-3.
22
perciò il sospetto che avesse preparato l’avvenimento d’accordo con gli altri, che
desiderasse ardentemente quel titolo e che volesse essere costretto ad accettarlo: il
che gli procurò un forte odio ”. (trad. di Giuseppe Norcio)

Nel XLIV libro sta combinando due fonti contemporanee e di opposta tendenza: quella
cesariana la si ricava fino al capitolo 10, cioè fino al contrasto con i tribuni Epidio Marullo
e Cesezio Flavo, dove si nota che i nemici del dittatore si sforzavano di metterlo in cattiva
luce coprendolo di onori eccessivi. Ma veniamo alla nostra tendenza di tipo anticesariana33,
che riguarda l’episodio dei Lupercalia; essa inizia con la perentoria affermazione che
Cesare a parole rifiutava il titolo di re, ma di fatto lo desiderava. Segue subito dopo il
racconto della congiura e pare quindi che l’autore utilizzato da Dione suggerisca un
collegamento tra i Lupercalia e le Idi di Marzo. La condanna delle aspirazioni
monarchiche di Cesare si accompagna, nella narrazione dello storico severiano, alla
condanna della sua vanagloria: sarebbe infatti stato Cesare, e non Antonio, a far mettere
per iscritto nei Fasti il rifiuto del diadema.

33
Naturalmente la conoscenza di una versione anticesariana emerge anche prima, per esempio laddove si
riconosce che Cesare non riuscì a giustificare in modo persuasivo il fatto di essere rimasto seduto davanti al
senato (Cass. Dio 44,8,2-4) o si afferma che la sua ira verso Cesezio e Marullo fu eccessiva (Cass. Dio
44,10,2), ma col cap. 11 tale tendenza, prima minoritaria e sempre inserita in un contesto di segno opposto,
prende un deciso sopravvento.
23
Secondo Capitolo – I problemi
Dato che tutte le fonti ambientano l’episodio nell’ambito della festa dei Lupercalia, il fatto
che un tentativo di innovazione politica si sia innescato in un contesto rituale è
particolarmente interessante, dunque la prima questione da trattare riguarda la festa, le sue
origini, le sue funzioni, e quindi il senso e il valore dei Lupercalia per l’opinione pubblica
romana dell’età di Cesare.

2.1 Lupercalia: origine, leggenda e contesto


I Lupercalia avevano una funzione speciale, adatta a qualche tipo di incoronazione regale,
o era una prima occasione di offerta34? Pare difficile pensare che l’iniziativa, così
clamorosa, dell’offerta del diadema al dittatore, da qualunque parte provenisse, possa esser
stata casuale e non collegata in qualche modo alla cerimonia in atto. La moderna
interpretazione dei Lupercalia quale festa di regalità risalente a Romolo 35 discende
dall’interpretazione stessa dell’episodio del 15 febbraio 44, visto come tentativo di
restaurazione monarchica da parte di Cesare; è quindi un ipotesi fondata su un'altra ipotesi,
ma senza nessun dato di appoggio nelle fonti antiche 36. Si ritiene che nessuno a Roma
ignorasse il calendario, visto che esso organizza il tempo e l’azione dei cittadini, indicando
la natura religiosa e politica di ogni giorno. Il 15 febbraio si inserisce nel più ampio
periodo dei Parentalia, gruppo di nove giorni che si dispongono dal 13 al 21 dello stesso
mese; questi sono definiti giorni funesti (ferales) in cui ogni famiglia si occupa dei propri
morti. Si osservi comunque che solo l’ultimo, il 21 febbraio, è festa pubblica (Feralia);
mentre l’intero ciclo è destinato a chiudersi il 22 con i Caristia o cara cognatio: un
banchetto che, dopo la pacificazione con i defunti, vede riunito e pacificato al suo interno il
gruppo familiare dei vivi37. Inoltre, a partire dall’ora sesta del 13 fino al 21 febbraio, i
magistrati abbandonano le insegne e “procedono vestiti come privati cittadini” 38; i templi
degli deì sono chiusi, non si svolgono sacrifici, non si accendono fuochi, è proibito
contrarre matrimoni. Da questo si può comprendere bene perché Plutarco parli di come la
festa cada “nei giorni nefasti” (en hemerais apophrasi) del mese di febbraio 39, in un

34
Weinstock 1971, p.332, o cfr. Welwei 1967, pp. 44 ss.
35
Così Bianchi 1958, pp.253 ss., e Binder 1964, pp. 103.
36
Scholz 1981, pp. 289-328; Welwei 1967, pp. 44-69; Fraschetti 1986, pp. 165-186. Sui Lupercalia in genere
cfr. la sistematica indagine di Ulf 1982, a cui si aggiunga ora Wiseman 1995, pp. 1-22, e Schablin 1995, pp.
117-125.
37
Per i Parentalia, Bömer 1943, pp. 29 ss.; Dumézil 1974, p. 378; Schullard 1981, pp. 74-76; Scheid 1984.
38
Iohan. mens. 4, 29.
39
Plut. Rom.. 21,4.
24
momento in cui la civitas religiosa dei magistrati e dei sacerdoti è costretta come ad
arretrare, se i magistrati rinunciano alle loro insegne e i templi degli dei sono chiusi, tempo
in cui la città è ritualmente impura. Questo è il tempo dei Lupercalia, mentre il luogo
d’inizio della loro celebrazione è una grotta ai piedi del Palatino: il Lupercal. Da questa
grotta, secondo la tradizione antica, avrebbero preso nome i Luperci, poiché proprio qui si
compiono i sacra nel giorno della festa (Luperci, quod Lupercalibus in Lupercali sacra
faciunt)40. Dionigi d’Alicarnasso è l’unico che ci offre una descrizione del Lupercal, sia
come presumibilmente doveva essere in origine, sia come si era conservato ai suoi tempi 41:

“ θνῦ ὁκίινπ ἀπῄεη. θαὶ ἦλ γάξ ηηο νὐ πνιὺ ἀπέρσλ ἐθεῖζελ ἱεξὸο ρῶξνο ὕιῃ βαζείᾳ
ζπλεξεθὴο θαὶ πέηξα θνίιε πεγὰο ἀληεῖζα, ἐιέγεην δὲ Παλὸο εἶλαη ηὸ λάπνο, θαὶ
βσκὸο ἦλ αὐηόζη ηνῦ ζενῦ· εἰο ηνῦην ηὸ ρσξίνλ ἐιζνῦζα ἀπνθξύπηεηαη. ηὸ κὲλ νὖλ
ἄιζνο νὐθέηη δηακέλεη, ηὸ δὲ ἄληξνλ, ἐμ νὗ ἡ ιηβὰο ἐθδίδνηαη, ηῷ Παιιαληίῳ
πξνζῳθνδνκεκέλνλ δείθλπηαη θαηὰ ηὴλ ἐπὶ ηὸλ ἱππόδξνκνλ θέξνπζαλ ὁδόλ, θαὶ
ηέκελόο ἐζηηλ αὐηνῦ πιεζίνλ, ἔλζα εἰθὼλ θεῖηαη ηνῦ πάζνπο ιύθαηλα παηδίνηο δπζὶ
ηνὺο καζηνὺο ἐπίζρνπζα, ραιθᾶ πνηήκαηα παιαηᾶο ἐξγαζίαο. ἦλ δὲ ηὸ ρσξίνλ ηῶλ
ζὺλ Εὐάλδξῳ πνηὲ νἰθηζάλησλ αὐηὸ Ἀξθάδσλ ἱεξὸλ “.

“ C’era poco distante da lì un luogo sacro, ombreggiato da una folta selva, e una
roccia cava da cui scaturiva una sorgente; il bosco si diceva che fosse sacro a Pan, e
vi sorgeva infatti un’ara del dio. La lupa si recò in questo luogo e vi si celò. Il bosco
non sussiste più ma si indica ancora la grotta da cui fuoriesce la sorgente, edificata
di fronte al Pallatino lungo la via che porta all’ippodromo, e vicino ad essa c’è un
recinto sacro su cui sorge, in memoria dell’avvenimento, una statua che raffigura
una lupa mentre offre le poppe a due bambini, un complesso bronzeo di antica
fattura. Si racconta anche che il luogo fosse un’area sacra agli Arcadi che sotto la
guida di Evandro si stabilirono anticamente nella regione “.
(trad. di Floriana Cantarelli)

Una grotta, quindi, circondata da un bosco, con sorgenti che sgorgavano dalle rocce; più
tardi il bosco era scomparso, sopraffatto dagli edifici; ma la grotta, con una sorgente,

40
Varro. ling. 5, 85.
41
Dionys. 1, 32, 4 e 1, 79, 8.
25
esisteva ancora a ridosso del Palatino, lungo la via che conduceva al circo Massimo. Ciò
pone dunque la sua collocazione ai margini della “città” di Romolo; un luogo che Evandro
avrebbe consacrato in origine al culto di Pan Liceo.
I Lupercalia si svolgevano in onore di Faunus, divinità ufficiale della festa, la quale
presiede, seconda la bella definizione di Georges Dumézil 42, alla “foresta vicina”, alla
campagna. È possibile che in origine i Lupercalia fossero legati al mondo pastorale con
funzioni apotropaiche nei confronti dei lupi e di analoghe minacce alle greggi e agli
armamenti43; certo però già alla fine del III secolo a.C. Fabio Pittore, il più antico storico
che ne parla, li collega a Romolo e alla sua miracolosa infanzia, giacchè egli sa che il
Lupercal è la spelunca Martis, dove la Lupa allattò i due gemelli figli del Dio e di Rea
Silvia 44. Egli afferma anche che la suddetta festa si sia ispirata ai sacrifici arcadici in onore
di Pan Liceo, che fu introdotta dall’arcade Evandro ed è per questo può essere definita
preromulea45.
Le principali fonti che parlano e descrivono questa festa sono: Virgilio, Varrone, Livio,
Ovidio e Plutarco.

2.1.1 Virgilio
Nell’Eneide, poema epico che narra la storia di Enea, Virgilio ci parla del Lupercale 46:

“ Hinc lucum ingentem quem Romulus acer Asylum rettulit et gelida monstrat sub
rupe Lupercal, Parrhasio dictum Panos de more Lycaei “.

“ Poi il bosco immenso che Romolo, acuto, ad Asilo ridusse, e sotto la gelida rupe
mostra il Lupercale, secondo il costume parrasio dedicato a Pan Liceo “.
(trad. di Carlo Carena)

Virgilio collega il Lupercale agli stessi riti che già Fabio Pittore aveva indicato. Secondo la
leggenda, Evandro sarebbe stato figlio di Hermes e di Carmenta; fu re dell’Arcadia,
regione montuosa al centro del Peloponneso; prima della caduta di Troia sarebbe stato
costretto dagli Argivi ad andare in esilio con il suo popolo, trasferendosi, appunto nel
42
Dumézil 2007, pp. 306 ss.
43
Almeno se vale l’etimologia da lupus + arceo: Serv. Aen. 8,343.
44
Fab. Fr. 4, p.109 Peter apud Serv. Aen. 8,630.
45
Dionys. 1,79,8 (e anche Plut. Romul. 21,4).
46
Verg. Aen. 8,342-344.
26
Lazio, ove poi lo avrebbe incontrato Enea. Secondo alcuni studiosi moderni, nella
leggenda della venuta di Evandro nel Lazio si nasconderebbe la traccia di un’antica
migrazione greca nel Lazio in epoca pre-micenea.

2.1.2 Varrone
Nel V libro del De Lingua Latina, Varrone ci spiega il significato del nome Luperci47:
“ Luperci, quod Lupercalibus in Lupercali sacra faciunt “.
“ I Luperci sono detti così dal fatto che durante i Lupercali compiono i loro riti nel
Lupercale “. (trad. di Antonio Traglia)

Sempre Varrone, di nuovo nel VI libro ci fornisce una spiegazione del termine
Lupercalia48,:
“ Lupercalia dicta, quod in Lupercali Luperci sacra faciunt. Rex cum ferias
mestrua Nonis Februariis edicit, hunc diem februatum appellat; februm Sabini
purgamentum, et id in sacris nostris verbum non ˂ignotum: nam pellem capri,
cuius de loro caeduntur puellae Lupercalibus, veteres februm vocabant˃, et
Lupercalia Februatio, ut in Antiquitatum libris demonstravi “.

“ I Lupercali sono chiamati così perché durante questa festa i Luperci fanno
sacrifici nel Lupercale. Quando il re dei sacrifici annuncia le feste mensili nelle
none di febbraio, chiama februatus il giorno dei Lupercali. Februm è un termine
sabino che significa purificazione, ed esso non è ignoto nei nostri sacrifici, giacché
gli antichi chiamavano februs la pelle di capro di cui era fatta la sferza con la quale
durante i Lupercali venivano colpite le giovani donne, e i Lupercalia erano
chiamati dagli antichi Februatio (festa della purificazione), come ho dimostrato nei
Libri delle Antichità “. (trad. di Antonio Traglia)

2.1.3 Livio
Sulla stessa linea di Virgilio, anche Livio nel I libro della Storia di Roma, narra dei
Lupercalia e di come essi siano collegati ad Evandro49:

47
Varro ling., 5,85.
48
Varro ling., 6,13.
49
Liv. 1, 5.
27
“ Iam tum in Palatio monte Lupercal hoc fuisse ludicrum ferunt, et a
Pallanteo, urbe Arcadica, Pallantium, dein Palatium montem appellatum;
ibi Euandrum, qui ex eo genere Arcadum multis ante tempestati bus tenuerit
loca, sollemne allatum ex Arcadia instituisse ut nudi iuuenes Lycaeum Pana
uenerantes per lusum atque lascivia currerent, quem Romani deinde
uocarunt Inuum. Huic deditis ludicro cum sollemne notum esset insidiatos
ob iram praedae amissae latrines, cum Romulus ui se defendisset, Remum
cepisse, captum Amulio tradidisse, ultro accusantes “.

“ Dicono che già allora si celebrava sul monte Palatino la nostra festa dei
Lupercali, e che da Pallanteo, città dell’Arcadia, quel monte fu chiamato
Pallanzio, poi Palatino; che ivi Evandro, il quale discendeva appunto dalla
gente degli Arcadi e già da gran tempo aveva occupato quei luoghi, istituì
tale festa portata dall’Arcadia, in cui i giovani correvano nudi
abbandonandosi a lascivi lazzi in onore di Pane Liceo, chiamato in seguito
dai Romani Inuo; che, intenti com’erano a questa festa, la cui ricorrenza era
ben nota, i ladroni, furiosi per aver perduto la loro preda, tesero ad essi un
agguato, catturarono Remo – Romolo s’era invece validamente difeso -, e lo
consegnarono al re Amulio, accusandolo per giunta “.
(trad. di Mario Scàndola)

Inoltre, dal passo, si apprende un primo dato riguardante il rito: cioè l’aspetto ludico della
festa, durante la quale dei giovani correvano nudi “ abbandonandosi a lascivi lazzi in onore
di Pan Liceo ”; ma non solo, la festa è qui ricordata e collegata ad un fatto accaduto a
Romolo e Remo, i quali subirono un attacco da alcuni ladroni.

2.1.4 Ovidio
Uno di questi scontri dei gemelli con alcuni ladri di bestiame è evocato anche da Ovidio
nei Fasti, dedicati alla descrizione delle feste dell’anno romano 50.

“ Tertia post Idus nudos Aurora Lupercos


Aspicit et Fauni sacra bicornis eunt.

50
Ovid. fast. 2, 267-358.
28
Dicite, Pierides, sacro rum quae sit origo,
Attigerint Latias unde petita domos.
Pana deum pectoris ueteres coulisse feruntur
Arcades; Arcadiis plurimus ille iugis.
Testis erit Pholoe, testes Stymphalides undae
Quique citis Ladon in mare currit aquis
Cinctaque pinetis nemoris iuga Nonacrini
Altaque Tricrene Parrhasiaeque niues.
Pan erat armenti, Pan illic numen equarum,
Munus ob incolumes ille ferebat oues.
Transtulit Euander siluestria numina secum :
Hic ubi nunc Vrbs est, tum locus urbis erat.
Inde deum colimus deuectaque sacra Pelasgis :
Flamen ad haec prisco more Dialis erat.
Cur igitur currant et cur (sic currere mos est)
Nuda ferant posita corpora ueste, rogas.
Ipse deus nudus nudos iubet ire ministros ;
Nec satis ad cursus commode uestis erit.
Ante Iouem genitum terras habuisse feruntur
Arcades et Luna gens prior illa fuit.
Vita feris similis, nullos agitata per usus ;
Artis adhuc expers et rude uolgus erat.
Pro domibus fronds norrant, pro frugibus herbas,
Nectar erat palmis hausta duabus aqua.
Nullus anhelabat sub adunco uomere Taurus,
Nulla sub imperio terra colentis erta.
Nullus adhuc erat usus equi; se quisque ferebat.
Ibat ouis lana corpus amicta sua.
Sub Ioue durabant et corpora nuda gerebant,
Docta graues imbres et tolerare Notos.
Nunc quoque detecti referent monimenta vetusti
Moris et antiquas testificantur opes.
Sed cur praecipue fugiat uelamina Faunus
29
Traditur antiqui fabula plena ioci.
Forte comes dominae iuuenis Tirynthius ibat :
Vidit ab excelso Faunus utrumque iugo.
Vidit et incaliut : « Montana » que « numina », dixit,
« Nil mihi uobiscum est : hic meus ardor erit ».
Ibat odoratis umeros perfuse capillis
Maeonis, aurato conspicienda sinu.
Aurea pellebant tepidos umbracula soles,
Quae tamen Herculae sustinuere manus.
Iam Bacchi nemus et Tmoli uineta tenebat,
Hesperus et fusco roscidus ibat equo.
Antra subit tofis laqueata et pumice uiuo ;
Garrulus in primo limine riuus erat.
Dunque parant epulas potandaque uina ministri,
Cultibus Alciden instruit illa suis.
Dat tenuis tunicas Gaetulo murice tinctas,
Dat teretem zonam qua modo cincta fuit.
Ventre minor zona est; tunica rum uincla relaxat,
Vt posset magnas exeruisse manus ;
Fregerat armillas non illa ad brachia factas,
Scindebant magni uincula parua pedes.
Ipsa capit clauamque grauem spoliumque leonis
Conditaque in pharetra tela minora sua.
Sic epulis functi, sic dant sua corpora somno
Et positis iuxta secubuere toris :
Causa, repertori uitis quia sacra parabant,
Quae facerent pure, cum foret orta dies.
Noctis erat medium. Quid non amor improbus audit ?
Roscida per tenebras Faunus ad antra uenit ;
Vtque uidet comites somno uinoque solutes,
Spem capit in dominis esse soporis idem.
Intrat et huc illuc temerarius errat adulter
Et praefert cautas subsequiturque manus.
30
Venerat ad strati captata cubilia lecti
Et felix prima sorte futurus erat ;
Vt tetigit fului saetis hirsute leonis
Vellera, pertimuit sustinuitque manum
Attonitusque metu rediit, ut saepe uiator
Turbatum uiso rettulit angue pedem.
Inde tori qui iunctus erat uelamina tangit
Mollia, mendaci decipiturque nota ;
Ascendit spondaque sibi propiore recumbit
Et tumidum cornu durius inguen erat.
Interea tunicas ora subducit ab ima :
Horrebant densis aspera crura pilis.
Cetera temptantem subito Tirynthius heros
Reppulit : e summo decidit ille toro.
Fit sonus, inclamat comites et lumina poscit
Maeonis; illatis ignibus acta patent.
Ille gemit lecto grauiter deiectus ab alto
Membraque de dura uix sua tollit humo.
Ridet et Alcides et qui uidere iacentem,
Ridet amatorem Lyda puella suum.
Veste deus lusus fallentes lumina uestes
Non amate et nudos ad sua sacra uocat “.

“ La terza Aurora dopo le Idi vede i nudi


Luperci, e vengono i sacri riti del bicorne Fauno.
Dite, o Pieridi, qual sia l’origine di tali riti,
e di dove desunti abbiano poi dimorato fra i Latini.
Si narra che gli antichi Arcadi venerassero Pan, dio
delle greggi; egli era soprattutto presente sui monti d’Arcadia.
Ne sarà testimone il Foloe, lo attestano le onde dello Stinfalo,
e il Ladone che con le sue veloci acque corre al mare,
e le alture del bosco di Nonacris cinte di pini,
e l’albero Cillene e le cime nevose della Parrassia.
31
Là Pan era nume tutelare di armenti e cavalle
e riceveva offerte votive perché proteggesse i greggi.
Evandro nel suo esilio portò con sé gli dei silvestri,
e qui dov’è ora la Città, v’era solo lo spazio per una città.
Perciò onoriamo quel dio e riti desunti dai Pelasgi:
ad essi per antica usanza era addetto il flamine diale.
Perché i Luperci corrono, chiedi, e perché – così è l’uso
di correre – deposta ogni veste hanno i corpi nudi ?
Il dio stesso veloce gode di correre sugli alti
monti, e anch’egli prende all’improvviso la fuga;
e il dio stesso nudo ordina ai seguaci di correre
nudi: le vesti non saranno certo adatte alla corsa.
Si favoleggia che gli Arcadi abitassero la terra prima che Giove
nascesse e che il loro popolo fosse più antico della Luna.
La vita era simile a quella delle fiere, senza alcuna cura
di usanze: era gente rozza e priva di qualsiasi arte.
Come loro dimora conoscevano il fogliame, come cibo le erbe,
era nettare l’acqua bevuta dal cavo delle mani.
I tori non ansimavano sotto il ricurvo aratro,
e la terra non era in potere di alcun coltivatore;
non v’era uso di cavalli; ognuno portava se stesso:
la pecora andava coperta della propria lana.
Vivevano a cielo aperto e avevano i corpi nudi,
avvezzi a sopportare le piogge e i minacciosi venti.
E anche ora ignudi ricordano l’uso di un antico
costume, e attestano la loro antica povertà.
Ma a spiegare perché specialmente Fauno rifuggia dalle vesti,
si tramanda una favola piena di antica ilarità.
Per caso il giovane Tirintio accompagnava la sua signora;
Fauno da un alto monte li scorse entrambi.
Vide, e s’accese tutto «O ninfe montane», disse,
«nulla ho più a che fare con voi: questa è la mia fiamma».
Andava la Meònide sparsa le spalle dell’oderosa
32
chioma, e splendida nella sua veste intessuta d’oro.
La teneva al riparo dei tiepidi raggi del sole un aureo
ombrello che intanto reggevano le mani di Ercole.
Già ella camminava nel bosco di Bacco e tra i vigneti del Tmolo;
il rugiadoso Vespero avanzava sul suo oscuro cavallo.
Entra in una grotta con la volta di tufi e di viva pomice;
al limitare della soglia scorreva un mormorante ruscello.
Mentre i servi preparano le vivande e il vino da bere,
ella veste l’Alcide con il suo proprio abbigliamento:
gli dà le lievi tuniche tinte di porpora di Getulia,
gli dà la levigata fascia di cui poc’anzi era incinta.
Ma la fascia è più stretta del ventre di lui, che allenta i legami
delle tuniche, per far sì che ne possano uscire le sue grandi mani.
E aveva infranto i braccialetti non fatti per i suoi bicipiti,
e grandi piedi rompono i lacci delle piccole calzature.
Lei prende la pesante clava e la pelle di leone
e le armi più piccole serrate nella loro custodia.
Così, dopo aver banchettato, abbandonano i loro corpi al sonno,
sdraiandosi su letti separati disposti uno accanto all’altro.
La ragione di ciò: preparavano i riti in onore del dio
scopritore della vite; al sorgere del sole volevano celebrarli castamente.
Era la mezzanotte. Che cosa non tenta un amore sfrenato?
Attraverso le tenebre Fauno viene all’antro coperto di rugiada.
E come vede la servitù immersa nel sonno e nel vino,
spera che anche i padroni giacciano nello stesso torpore.
Il temerario adultero entra ed erra brancolando qua e là,
protende cautamente le mani e ne segue la direzione.
Era giunto al primo giaciglio in cui s’era imbattuto a tastoni,
e sarebbe stato fortunato in quel primo incontro;
ma come toccò gli irsuti peli del vello del fulvo
leone, rabbrividì, ritrasse di scatto la mano,
e arretrò annichilito dallo spavento, come spesso il viandante
ritrae il piede sgomento alla vista d’un serpente.
33
Quindi tocca le molli stoffe del letto disposto
accanto all’altro, e viene ingannato da quell’indizio mendace.
Vi sale, e si sdraia sulla sponda a lui più vicina:
il suo membro rigonfio era già più duro del corno.
Intanto solleva la veste dal bordo inferiore:
ma erano gambe ruvide e aspre di folti peli.
Di colpo l’eroe Tirintio lo ributta mentre tentava
ben altro: e quello piomba in terra dall’alto del letto.
Si produce un fracasso, la Meònide chiama i servi e chiede
si faccia luce: portate le torce, i fatti sono chiari.
Quello geme, caduto pesantemente dal sommo del giaciglio,
e a stento riesce a sollevare le membra della dura terra.
Ride anche l’Alcide insieme a quanti videro Fauno giacere,
e la fanciulla lidia deride quel suo aspirante amoroso.
Il dio ingannato da una veste non ama dunque vesti
Che ingannino l’occhio, e chiama gente nuda ai suoi riti “. (trad. di Luca Canali)

In questo caso il poeta tratta delle origini dei Lupercalia: la festa si svolgeva a Roma il 15
febbraio di ogni anno e poteva costituire in epoca storica uno spettacolo culturale-sociale
dove gruppi di giovani coperti solo da un perizoma lambivano, in una corsa scatenata, le
falde del Palatino51. Ovidio dunque, tra le varie origini di questa festa arcaicissima (una
delle quali era connessa anche a uno scabroso episodio che avrebbe avuto come
protagonisti Ercole, Onfale e Fauno), riportava anche quella che segue, direttamente legata,
invece, alla giovinezza dei due gemelli52:

“ Adde peregrinis causas, mea Musa, Latinas


Inque suo noster puluere currat equus.
Cornipedi Fauno caesa de more capella
Venit ad esigua turba uocata dapes
Dumque sacerdotes ieri bus transuta salignis
Exta parant, medias sole tenente uias,

51
Fraschetti 2002a, p. 19.
52
Ovid. fast. 2, 359,380.
34
Romulus et frater pastoralisque iuuentus
Solibus et campo corpora nuda dabant.
Caestibus et iaculis et misso pondere saxi
Brachia per lusus experienda dabant.
Pastor ab excelso : «Per deuia rura iuuencos,
Romule, praedones, et Reme», dixit, «agunt».
Longum erat armari : diuersis exit uterque
Partibus, occurs praeda recepta Remi.
Vt rediit, ueribus stridentia detrahit exta
Atque ait : «Haec certe non nisi uictor edet».
Dicta facit Fabiique simul. Venit inritus illuc
Romulus et mensas ossaque nuda uidet.
Risit et indoluit Fabios potuisse Remunque
Vincere, Quintilios non potuisse suos.
Fama manet facti : posito uelamine currunt
Et memorem famam quod bene cessit habet.
Forsitan et quaeras cur sit locus ille Lupercal
Quaeue diem tali nomine causa notet “.

“ Ma tu, o mia Musa, aggiungi le origini latine


a quelle straniere, e il mio cavallo corra sulla propria pista.
Sacrificata secondo il rito una capretta al cornìpede Fauno,
la turba invitata viene al modesto banchetto.
E mentre i sacerdoti preparano le viscere infitte su spiedi
di salice, nell’ora che il sole era a metà del cammino,
Romolo e il fratello insieme con i giovani pastori nel campo,
offrivano al sole i loro corpi nudi.
Per passatempo impegnavano le braccia nell’esercizio
dei cesti, e nel lancio di frecce e di pesanti macigni.
Un pastore grida: «In campi fuori di mano, o Romolo,
o Remo, i predoni cacciano i nostri giovenchi».
Armarsi era troppo lungo: entrambi si slanciano in direzioni
opposte, e la sortita di Remo ottiene il recupero della preda.
35
Come ritorna, sfila dagli spiedi le viscere stridenti, e dice:
«Queste di certo non le mangerà nessun altro che il vincitore».
Detto, fatto, insieme con i Fabii. Ritorna Romolo
a mani vuote, e vede le mense e le nude ossa.
Rise, ma in cuor suo si dolse che avessero vinto Remo
e i Fabii, e che la vittoria non fosse stata dei suoi Quintili.
Resta la memoria dell’evento: perciò i Luperci corrono nudi,
e il fortunato episodio serba una memore fama.
Forse chiedi anche perché quel luogo si chiami Lupercale,
e per quale motivo si indichi quel giorno con tale nome “. (trad. di Luca Canali)

Una simile tradizione, dunque, identificava i prototipi dei Luperci con Romolo, Remo e i
loro compagni. Un giorno, quindi, dopo aver sacrificato una capretta in onore di Fauno,
praticavano esercizi fisici «nudi», mentre le carni della vittima arrostivano sugli spiedi.
All’arrivo dei ladri che cercavano di sottrarre il bestiame, si divisero in due schiere e si
gettarono all’inseguimento. Remo lo recuperò insieme ai suoi compagni, i Fabii; al loro
ritorno strapparono dagli spiedi le carni ancora semicrude della capretta e le mangiarono
essi soli senza attendere i compagni. A Romolo, giunto successivamente con i suoi
Quintilii, non restò che scoppiare a ridere, come se la vista dello spettacolo lo divertisse 53.
Pertanto i Lupercalia sarebbero stati istituiti a commemorazione di un simile episodio che i
luperci di epoca storica ripetevano ogni anno conservandone durevole memoria dei riti.
Assai interessante il racconto eziologico di Ovidio, che nell’esporre le causas latine della
festa, le fa derivare da un oracolo delle dea Iuno54:

“ Nam fuit illa dies, dura cum sorte maritae


Reddebant uteri pignora rara sui.
« Quid mihi » clamabat « prodest rapuisse Sabinas, »
Romulus (hoc illo sceptra tenente fuit)
« Si mea non uires, sed bellum iniuria fecit ?
Vtilius fuerat non habuisse nurus ».
Monte sub Esquilio multis incaedus annis

53
Fraschetti 2002a, p. 20.
54
Ovid. fast. 2, 429-452.
36
Iunonis magnae nomine lucus erat.
Huc ubi uenerunt, pariter nuptaeque uirique
Suppliciter posito procubuere genu,
Cum subito motae tremuere cacumina siluae
Et dea per lucos mira locuta suos.
« Italidas matres », inquit, « sacer hircus inito ».
Obstipuit dubio territa turba sono.
Augur erat, nomen longis intercidit annis;
Nuper ab Etrusca uenerat exul humo.
Ille caprum mactat ; issuae sua terga puellae
Pelli bus exsectis percutienda dabant.
Luna resumebat decimo noua cornua motu
Virque pater subito nuptaque mater erat.
Gratia Lucinae : debit haec tibi nomina lucus,
Aut quia principium tu, dea, lucis habes.
Parce, precor, grauidis, facilis Lucina, puellis
Maturumque utero molliter aufer onus “.

“ Vi fu infatti un tempo in cui per dura sorte


le spose davano rari pegni del loro ventre.
E Romolo esclamava: «A che mi giova aver rapito le Sabine
- ciò avveniva quando egli reggeva lo scettro -,
se la mia violenza non ha prodotto nuova potenza ma guerra?
Sarebbe stato meglio non avere affatto donne».
Ai piedi del monte Esquilino v’era un bosco rimasto intatto
per lunghi anni, consacrato al nome della grande Giunone.
Come giunsero qui le spose con i loro mariti,
si prostrarono in terra in ginocchio in atteggiamento supplichevole.
Quand’ecco all’improvviso il bosco fu scosso e ne tremarono le cime,
e la dea attraverso la selva pronunciò strane parole
«Un caprone sacro», disse, «penetri le madri italiche».
Stupì la folla, atterrita da questa frase ambigua.
V’era un àugure – il nome s’è perduto negli anni –
37
venuto di recente esule dalla terra etrusca;
egli sacrifica un caprone: al suo ordine le spose offrono
le spalle alle percosse delle strisce di pelle recisa.
La luna rinnovava le corna nel suo decimo ciclo,
e il marito ben presto diventava padre, e la sposa madre.
Per grazia di Lucina, risparmia, ti prego, le donne incinte,
e sgravale dolcemente del peso maturo nel loro grembo “. (trad. di Luca Canali)

Quindi, c’era stato un tempo in cui a Roma le spose generavano di rado. In processione le
donne con i loro mariti si erano recate ai piedi del monte Esquilino, ove era una selva sacra
alla dea Iuno. In preghiera restavano prostrate, allorquando la dea fece sentire per la selva
il suo responso: « italica matres, sacer hircus inito ». Un comprensibile stupore si diffonde
tra i presenti. Interviene un augure: egli sacrifica un caprone ed ordina alle spose di offrire
le spalle ai colpi della pelle recisa in strisce. In seguito a ciò, al decimo mese il marito fu
padre e la moglie madre55.

2.1.5 Plutarco
Sappiamo poco del rito che si svolgeva nella grotta prima che i Luperci cominciassero a
correre. Al riguardo l’unica testimonianza è quella fornita da Plutarco nella Vita di
Romolo56:

“ Τὰ δὲ Λνππεξθάιηα ηῷ κὲλ ρξόλῳ δόμεηελ ἂλ εἶλαη θαζάξζηα· δξᾶηαη γὰξ ἐλ


ἡκέξαηο ἀπνθξάζη ηνῦ Φεβξνπαξίνπ κελόο, ὃλ θαζάξζηνλ ἄλ ηηο ἑξκελεύζεηε, θαὶ
ηὴλ ἡκέξαλ ἐθείλελ ηὸ παιαηὸλ ἐθάινπλ Φεβξάηελ. ηνὔλνκα δὲ η῅ο ἑνξη῅ο ἑιιεληζηὶ
ζεκαίλεη Λύθαηα, θαὶ δνθεῖ δηὰ ηνῦην πακπάιαηνο ἀπ’ Ἀξθάδσλ εἶλαη ηῶλ πεξὶ
Εὔαλδξνλ. ἀιιὰ ηνῦην κὲλ θνηλόλ ἐζηη· δύλαηαη γὰξ ἀπὸ η῅ο ιπθαίλεο γεγνλέλαη
ηνὔλνκα. θαὶ γὰξ ἀξρνκέλνπο η῅ο πεξηδξνκ῅ο ηνὺο Λνππέξθνπο ὁξῶκελ ἐληεῦζελ,
ὅπνπ ηὸλ Ῥσκύινλ ἐθηεζ῅λαη ιέγνπζη. ηὰ δὲ δξώκελα ηὴλ αἰηίαλ πνηεῖ δπζηόπαζηνλ·
ζθάηηνπζη γὰξ αἶγαο, εἶηα κεηξαθίσλ δπνῖλ ἀπὸ γέλνπο πξνζαρζέλησλ αὐηνῖο, νἱ κὲλ
ᾑκαγκέλῃ καραίξᾳ ηνῦ κεηώπνπ ζηγγάλνπζηλ, ἕηεξνη δ’ ἀπνκάηηνπζηλ εὐζύο, ἔξηνλ
βεβξεγκέλνλ γάιαθηη πξνζθέξνληεο· γειᾶλ δὲ δεῖ ηὰ κεηξάθηα κεηὰ ηὴλ ἀπόκαμηλ. ἐθ

55
Martorana 1976, p. 245.
56
Plut. Rom., 21, 4-10.
38
δὲ ηνύηνπ ηὰ δέξκαηα ηῶλ αἰγῶλ θαηαηεκόληεο, δηαζένπζηλ ἐλ πεξηδώζκαζη γπκλνί,
ηνῖο ζθύηεζη ηὸλ ἐκπνδὼλ παίνληεο. αἱ δ’ ἐλ ἡιηθίᾳ γπλαῖθεο νὐ θεύγνπζη ηὸ παίεζζαη,
λνκίδνπζαη πξὸο εὐηνθίαλ θαὶ θύεζηλ ζπλεξγεῖλ. ἴδηνλ δὲ η῅ο ἑνξη῅ο ηὸ θαὶ θύλα
ζύεηλ ηνὺο Λνππέξθνπο. Βνύηαο δέ ηηο, αἰηίαο κπζώδεηο ἐλ ἐιεγείνηο πεξὶ ηῶλ
Ῥσκατθῶλ ἀλαγξάθσλ, θεζὶ ηνῦ Ἀκνπιίνπ ηνὺο πεξὶ ηὸλ Ῥσκύινλ θξαηήζαληαο
ἐιζεῖλ δξόκῳ κεηὰ ραξᾶο ἐπὶ ηὸλ ηόπνλ, ἐλ ᾧ λεπίνηο νὖζηλ αὐηνῖο ἡ ιύθαηλα ζειὴλ
ὑπέζρε, θαὶ κίκεκα ηνῦ ηόηε δξόκνπ ηὴλ ἑνξηὴλ ἄγεζζαη, θαὶ ηξέρεηλ ηνὺο ἀπὸ γέλνπο
ηνὺο ἖κπνδίνπο ηύπηνληαο, ὅπσο ηόηε θάζγαλ’ ἔρνληεο ἐμ Ἄιβεο ἔζενλ Ῥσκύινο
ἠδὲ Ῥέκνο. θαὶ ηὸ κὲλ μίθνο ᾑκαγκέλνλ πξνζθέξεζζαη ηῷ κεηώπῳ ηνῦ ηόηε θόλνπ
θαὶ θηλδύλνπ ζύκβνινλ, ηὴλ δὲ δηὰ ηνῦ γάιαθηνο ἀπνθάζαξζηλ ὑπόκλεκα η῅ο ηξνθ῅ο
αὐηῶλ εἶλαη. Γάηνο δ’ Ἀθίιηνο ἱζηνξεῖ πξὸ η῅ο θηίζεσο ηὰ ζξέκκαηα ηῶλ πεξὶ ηὸλ
Ῥσκύινλ ἀθαλ῅ γελέ- ζζαη· ηνὺο δὲ ηῷ Φαύλῳ πξνζεπμακέλνπο ἐθδξακεῖλ γπκλνὺο
ἐπὶ ηὴλ δήηεζηλ, ὅπσο ὑπὸ ηνῦ ἱδξῶηνο κὴ ἐλνρινῖλην· θαὶ δηὰ ηνῦην γπκλνὺο
πεξηηξέρεηλ ηνὺο Λνπ- πέξθνπο. ηὸλ δὲ θύλα θαίε ηηο ἄλ, εἰ κὲλ ἡ ζπζία θαζαξκόο
ἐζηη, ζύεζζαη θαζαξζίῳ ρξσκέλσλ αὐηῷ· θαὶ γὰξ Ἕιιελεο ἔλ ηε ηνῖο θαζαξζίνηο
ζθύιαθαο ἐθθέξνπζη θαὶ πνιιαρνῦ ρξῶληαη ηνῖο ιεγνκέλνηο πεξηζθπιαθηζκνῖο· εἰ δὲ
ηῆ ιπθαίλῃ ραξηζηήξηα ηαῦηα θαὶ ηξνθεῖα θαὶ ζσηήξηα Ῥσκύινπ ηεινῦζηλ, νὐθ
ἀηόπσο ὁ θύσλ ζθάηηε- ηαη· ιύθνηο γάξ ἐζηη πνιέκηνο· εἰ κὴ λὴ Δία θνιάδεηαη ηὸ
δῷνλ ὡο παξελνρινῦλ ηνὺο Λνππέξθνπο ὅηαλ πεξηζέσζη “.

“ I Lupercali, dato il tempo in cui erano celebrati, potrebbe sembrare che fossero
feste purificatorie: si svolgevano infatti nei giorni nefasti del mese di febbraio,
nome che potrebbe essere interpretato come «purificatorio», e il giorno preciso
della festa chiamavano «Febrata». Il nome della festa corrisponde a quello dei greci
Lykaia, e per questo sembra che tale festa sia assai antica, derivata dagli Arcadi che
erano con Evandro. Ma tale spiegazione del nome è comunemente accettata; può
infatti il nome aver da fare con la lupa della leggenda, giacché vediamo che i
Luperci dànno inizio alla loro corsa partendo dal punto in cui dicono sia stato
esposto [e non allattato!] Romolo. Tuttavia le cerimonie che si svolgono durante la
festa rendono difficile spiegare la ragione del nome. Infatti i Luperci uccidono delle
capre; poi, fatti avanzare due fanciulli di nobile famiglia, alcuni toccano loro la
fronte con una spada insanguinata, altri subito gliela detergono con un batuffolo di
lana imbevuto di latte. Dopo la detersione i fanciulli debbono ridere. Quindi,
tagliate in strisce le pelli delle capre, i Luperci corrono nudi, con la sola cintura
indosso, colpendo con gli scudisci coloro in cui s’imbattono. Le donne in giovane
età non evitano di essere colpite, pensando che ciò le aiuti per un felice

39
concepimento e parto. Particolare poi di questa festa è che i Luperci sacrificano
anche un cane. Un certo Buta, che nelle sue elegie passa in rassegna alcuni fatti
mitici, relativi alla storia umana, dice che quelli che erano con Romolo, dopo aver
vinto Amulio, giunsero giubilanti nel luogo in cui a Romolo e Remo fanciulli la
lupa aveva dato il latte, e che in questa festa si faceva l’imitazione della corsa di
allora, a cui prendevano parte giovani di nobile famiglia «che davano percosse a
quelli che incontravano, come allora con le armi in pugno avevano corso da Alba
Romolo e Remo». E aggiunge che mettere sulla fronte un spada insanguinata
simboleggia la morte e il pericolo di quel giorno, mentre la detersione col latte è il
ricordo del loro allattamento. Ma Gaio Acilio 57 narra che prima della fondazione
della città l’armamento di Romolo, custodito dai suoi pastori, andò smarrito e che
essi fecero voto a Fauno di effettuare una corsa alla sua ricerca nudi, affinché il
sudore non desse loro fastidio e che questo è il motivo per cui i Luperci corrono
nudi. Quanto al cane, dato che si tratta di un sacrificio purificatorio, si potrebbe
pensare che era sacrificato come vittima per la loro purificazione. I Greci infatti nei
sacrifici espiatori immolano dei cuccioli e da per tutto praticano i riti chiamati
periskylakismoi. Orbene, se compiono questi sacrifici in onore della lupa come
rendimento di grazie per l’allevamento e per la salvezza di Romolo, non è senza
ragione che immolano il cane. Il cane infatti è nemico dei lupi; a meno che, per
Zeus, questo animale non venga punito perché molesta i Luperci nella loro corsa ”.
(trad. di Antonio Traglia)

La presentazione dei due giovani e le operazioni che seguono debbono essere interpretate
evidentemente come un rituale iniziatico, in cui Romolo e Remo rappresentano i due
gruppi dei luperci Fabii e Quintilii58, così come il loro riso avrebbe dovuto
«commemorare» il riso di Romolo al suo arrivo quando vide che Remo e i suoi compagni
avevano mangiato ormai tutte le carni. Dopo questi riti preliminari, sotto il segno di Fauno
e a somiglianza del loro Dio, i luperci cominciano nudi la loro corsa scatenata intorno al
Palatino; di fatto si sono come trasformati in creppi, in «caproni», dal «crepitio» delle pelli
di capra che stringono in mano 59.

57
È stato un senatore e storico romano; vd. La Penna 1991, pp. 13 ss.
58
Sui due gruppi di luperci: Corsaro 1999, pp. 114 ss.
59
Per la loro trasformazione in creppi Paul.-Fest. Lindsay, p.49: Crep[p]pos, id est lupesco, dicebant a
crepitu pellicularum, quem faciunt verberantes. Cfr., p. es., Kerényi 1979, pp. 357 ss., anche per la
connessione etimologica di lupercus con lupus, discussa – com’è ben noto – da Frazer 1928, pp.337 ss., che
sosteneva invece una loro trasformazione in “caproni”. Se è indubbia la connessione etimologica di lupercus
con lupus, va osservato tuttavia che i luperci in epoca tardo repubblicana e augustea potevano essere
assimilati piuttosto a hirci, “caproni”, come dimostra non solo Paul.-Fest., p.42 Lindsay (Caprae dictae, unde
omne virgultum carpebant, sive a crepitu crurum. Unde et crepas eas prisci dixerunt), ma anche uno degli
aitia dell’istituzione della festa in Ovidio, dove essa veniva messa in rapporto alla sterilità delle Sabine
rapite.
40
2.1.6 I Luperci
I luperci sono rappresentati nella documentazione iconografica in nostro possesso come
cinti da un perizoma60. In che senso allora potevano essere definiti latinamente nudi e in
greco Γπκλνί ? I luperci sono nudi non in quanto completamente svestiti o non coperti da
alcun perizoma. Sono definiti così, in senso pregnante, poiché privi della toga che a Roma
è l’abito per eccellenza dei cittadini: l’abito che i cittadini debbono necessariamente
indossare all’interno della città a definizione del proprio statuto e che è rigorosamente
proibito non solo agli stranieri ma anche agli esuli (romani) 61. I luperci in effetti sono
percepiti come nudi allo stesso modo per es. – e si tratta di un aneddoto notissimo – in cui
L. Quinctius Cincinnatus, mentre lavora trans Tiberim i suoi quattro iugeri di terra,
accoglie nudus i legati senatorii ed è invitato da costoro ad indossare la toga “per ascoltare,
vestito con la toga, le istruzioni del senato” (ut … togatus mandata senatus audiret)62.
Siamo in presenza di un aspetto caratteristico della rappresentazione della “nudità” del
cittadino, che potrebbe essere illustrata ulteriormente sia dall’episodio di Romolo e Remo
che si abbandonano alla corsa, secondo una delle leggende di fondazione dei Lupercalia,
sia dell’abbinamento della “nudità” con un altro tipo di atteggiamenti, i quali si connotano
sempre come comportamenti vietati al cittadino o come modi di fare che, in ogni caso, si
ritengono a lui non convenienti. Per quanto riguarda la corsa, altro elemento caratteristico
dei luperci, è merito di Georges Dumézil aver illustrato su di un piano più generale il
contrasto di fondo che esiste, a Roma, “tra la mistica della celeritas e la morale della
gravitas”63. Esso si esemplificava nelle figure di Romolo e Numa, mentre è importante
osservare che a Roma, ancora in piena epoca storica, la corsa – quella stessa corsa che in
Ovidio induce Faunus ad abbandonare le vesti e fonda anche per questa via la “nudità” dei
luperci – non si addice allo statuto dell’uomo libero, cioè del cittadino. Nel Poenulus di
Plauto, per es., ad Agorastocles che grida loro di affrettarsi, uno degli advocati risponde: “è
più conveniente che gli uomini liberi camminino per la città a piccoli passi; io credo che
correre ed affrettarsi sia tipico dello schiavo”64. Sempre da questo punto di vista, si può
richiamare l’attenzione su una particolare attitudine del buon imperatore Severo
Alessandro nell’Historia Augusta65: dove il sovrano buono e giusto per eccellenza avrebbe
avuto come cursores solo propri schiavi, adducendone a motivo che “un uomo libero non
deve correre, se non nel sacro certame”. Ancora una volta la corsa, come la “nudità”, viene
percepita a Roma “dalla parte della natura”, dalla parte del dio Faunus.
60
Zanker 1989, p. 139 (fig. 105). Di recente sono state ritrovate statue onorarie di luperci di età proto
augustea, dove la nudità, classicamente stilizzata, e gli attributi rituali del perizoma e della frusta di pelle di
capra, formavano un quadro d’insieme accettabile anche per un pubblico raffinato.
61
Per il rapporto tra toga e cittadinanza, per es., D. 49, 14, 32 (Marciano, libro quarto decimo institutionum).
Per gli esuli mi basti il classico rimando a Plin. epi. 4, 11, 3, con il commento di Scherwin-White 1966, p.
281.
62
Per la caratteristica di nudus riferita a Cincinnato nel corso di questo episodio Plin. nat. 18,20; per l’invito
da parte dei messi del senato a indossare la toga Liv. 3, 26, 9.
63
Ved. Dumézil 1948, pp. 38 ss.; per la gravitas cfr. Dumézil 1969, pp. 142 ss.
64
Plaut. Poen. 522-523: “liberos nomine per urbem modico magis par est gradu ire; servile esse duco
festinantem currere”.
65
Hist. Aug. AS 42,2: “cursorem numquam nisi servum suum, dicens ingenuum currere nisi in sacro
certamine non debere …”. Per la corsa dei luperci Piccaluga 1962, pp. 51 ss.
41
Con estrema coerenza rispetto al loro stile di vita e alle loro attitudini comportamentali i
luperci, come testimonia esplicitamente Varrone, non entrano nella “città di Romolo”,
nell’antiquum oppidum del Palatino: essi si limitano a lambirlo rimanendone ai margini 66.
Allo stesso tempo, è emblematica anche la formulazione di Valerio Massimo: “in verità,
due volte ogni anno, la gioventù dell’ordine equestre riempiva Roma di folla”; ai
Lupercalia, istituiti da Romolo e Remo, e alle idi di luglio quando, nel corso della
transvectio equitum (parata dei cavalieri), istituita nel 304 a.C. da Quinto Fabio Massimo
Rulliano, i giovani dell’ordine equestre sfilavano a cavallo abbigliati composamente con la
trabea67. Si tratta però, in effetti, di un abbinamento abbastanza diffuso, almeno nei primi
due secoli dell’età imperiale, come dimostrano una serie di rilievi funerari raccolti e messi
in serie da Paul Veyne68. In questi rilievi69, il defunto su un lato viene rappresentato come
lupercus, nudo, con il perizoma e con il februum in mano, su di un altro mentre monta a
cavallo, vestito con la trabea e cinto da una corona. Siamo in presenza evidentamente di
giovani dell’ordine equestre premorti, che non avevano potuto continuare la loro carriera e
per i quali, come unici momenti salienti, si ricordavano la partecipazione ai Lupercalia e
quella alla transvectio equitum. Un mondo, quindi, popolato di giovani, che Alföldi e
Dumézil70 hanno messo in rapporto con un punto centrale, sebbene in maniera diversa,
nell’ambito della loro riflessione storiografica: le sopravvivenze del “Männerbrund”
indoeuropeo. Ulteriore confronto può essere operato con gli efebi ateniesi, che erano
chiamati peripoloi, “quelli che girano intorno alla città”, e per i quali – come dimostra
Vidal-Naquet71 – tale comportamento non si trattava di una marginalità solo topografica.
Ma rispetto alla specificità dei fatti romani, rispetto ai luperci si impone a questo punto la
testimonianza di Cicerone 72; a suo avviso, essi sono una “confraternita selvaggia, tutta
pastorale e agreste …”, la cui unione (coitio) fu istituita nelle selve prima dell’umanità e
delle leggi (humanitas atque leges), a tal punto “prima della humanitas e delle leggi” che i
luperci, pur appartenendo a una stessa confraternita, si sarebbero citati mutualmente in
tribunale dichiarando, appunto mentre si accusavano, di far parte dello stesso sodalizio. Lo
“stile di vita” e le attitudini comportamentali dei luperci sono destinati a definirsi come
assolutamente antitetici allo “stile di vita” e alle attitudini comportamentali dei cittadini. I

66
Nonostante i tentativi messi in atto da Kirsopp Michels 1953, pp. 35 ss., mi sembra comunque molto
difficile negare valore alla precississima testimonianza di Varro ling. 6, 34. Sul percorso seguito dai luperci
durante la loro corsa vedi ultimamente anche la discussione di Ziolkowski 1998-99, pp. 291 ss. Sullo spazio
marginale riservato ai giovani al momento della loro iniziazione è ancora fondamentale Gennep 1981, pp. 97
ss.; per Roma cfr. Fraschetti 1993, pp. 61 ss.
67
Val. Max. 2 , 3, 9. Per la tradizione, secondo cui la transvectio equitum sarebbe stata istituita da Q. Fabius
Maximus Rullianus nel corso della sua censura del 304 a.C., Weinstock 1937, coll. 2178 ss.; cfr. Broughton
1951, p. 168.
68
Veyne 1960, pp. 100 ss.
69
Per es. sul cippo di Ti. Claudius Liberalis, a Roma nei musei Vaticani: “ Tiberius Claudius Lupercus Actes
Lib.”
70
Vedi rispettivamente Dumezil 1929; Alföldi 1974.
71
Vidal-Naquet 1981, pp. 151 ss.
72
Cic. Cael. 26: Fera quaedam sodalitas et plane pastorizia atque agrestis germano rum lupercorum,
quorum coitio illa silvestris ante est instituta quam humanitas atque leges, liquide non modo nomina deferunt
inter se sodales, sed etiam commemorant sodalitatem in accusando, ut, ne quis id forte nesciat, timere
videantur!; cfr. Holleman 1975, pp. 198 ss.
42
luperci si collocano dunque dalla parte della “natura”, con maggiore esatezza sotto il segno
di Faunus. Alla “nudità” si aggiunge la corsa, sia dei luperci proto tipici sia di quelli che
ogni anno corrono ritualmente intorno al Palatino, e che il mondo della città composta e
ordinata rifiuta. Non sorprende che il gemello Remo – il cui nome veniva messo
significatamente in rapporto a remorari, “indugiare”, “attardarsi” - solo in questa
circostanza possa apparire in qualche modo superiore a Romolo, in qualche modo il più
“veloce”, recuperando il bestiame e impossessandosi delle carni del banchetto 73. Si può
notare che a livello di istituti e di pratiche sociali i luperci proto tipici sembrano non
conoscere non solo la doverosa cottura delle carni, ma neppure l’equa distribuzione delle
stesse attiva nella commensualità rituale 74. Sul sito della futura Roma, conosciamo un solo
banchetto dove la commensualità “equa” era ritualmente proibita: quello dei Potitii e dei
Pinari, le due gentes preposte al culto di Ercole all’Ara Massima. Poiché i Pinari giunsero
in ritardo al banchetto che avrebbero dovuto allestire insieme ai Potitii, essi – e con loro i
propri discendenti – furono privati per sempre degli exta, anche se in un simile contesto
tutto di “rito greco”, resta dubbio se con gli exta si debbano intendere solo le viscere o
anche le carni dell’animale sacrificato, come è sicuro invece nel caso del cibo di Romolo e
Remo75.

2.1.7 La figura del flamen Dialis


Se i luperci dunque si connotano tutti e nel loro complesso per attitudini che si situano “
dalla parte della natura”, il flamen Dialis sembra al contrario essere collocato per le
numerosissime interdizioni che gravano sul suo sacerdozio e che sono puntualmente
elencate da Aulio Gellio 76 su un versante polarmente opposto. Non solo egli non può né
andare a cavallo né vedere un esercito in armi (item religio est “classem praecintam” extra
pomerium, id est exercitum armatum videre), ma soprattutto nel suo statuto di cottidie
feriatus e nel suo stesso abbigliamento il flamen Dialis appariva a Plutarco una “statua
vivente e santa”: come infatti è stato scritto, “questo sacerdote “posseduto” dal suo dio
svolge, per tutta la vita, come su un palcoscenico, il ruolo di Giove”.

In un simile contesto, si è cercato di spiegare la sua presenza evidentemente almeno


“singolare” nel contesto dei Lupercalia in vari modi: Rose77 pensava che si trattasse da
parte di Ovidio di un semplice errore; Frazer 78 si chiedeva se almeno una volta all’anno il
flamen Dialis non fosse liberato da una delle sue interdizioni, quando appunto ricorrevano i
Lupercalia; a sua volta Brelich79 interpretava questa partecipazione come uno dei
fenomeni di contraddizione dell’ordine sociale che caratterizzano le feste di fine anno,
mentre secondo Bömer 80 il cane non sarebbe stato ritenuto da parte dei Romani animale

73
Ved. Paul.-Fest., p. 345 a proposito di remores aves.
74
Ved. Vidal-Naquet 1981, pp. 22-23.
75
Sul culto di Ercole all’ara massima Liv. 1, 7, 12; Dionys. 1, 40, 3-4; Serv. Aen. 8, 639.
76
Gell. 10, 15; cfr. in proposito Scheid 1986, pp. 213 ss.
77
Rose 1932-1933, p. 393.
78
Frazer 1929, commenti ai vv. 2, 281-282.
79
Brelich 1972, pp. 20 ss.
80
Bömer 1958, commenti ai vv. 2, 281-282.
43
impuro prima che influenze greche in questo senso giungessero fino a Roma. In anni più
recenti Holleman81 ha creduto di poter supporre una correlazione tra l’abbigliamento dei
luperci e la presenza del flamen Dialis alla cerimonia: se i luperci, in precedenza
completamente nudi, avrebbero ricevuto grazie all’opera moralizzatrice di Augusto una
sorta di perizoma, allo stesso modo sarebbe stato ammesso a partecipare alla festa oppure
vi assisteva già da lungo tempo anche il flamen Dialis. È stato dunque merito di Porte82
intervenire di nuovo su questi versi proponendo la seguente lettura:

“ Flamen ab hoc prisco more Dialis eat! ”

“ Il Flamen da questo nel modo antico di Giove, lasciatelo andare! ”

Si è trattato di una lettura dettata sia dalla presenza della casa del flamen Dialis sulla via
Sacra, sia dalla possibilità di incontri fortuiti di quel sacerdote con la corsa lasciva e
scatenata dei luperci. Non si può non ricorrere a una congettura degli editori più recenti83
dei Fasti che da parte loro non escludono di leggere:

“ Flamen ab hoc prisco more Dialis abit (abest) ”.

“ Il Flamen da questo nel modo antico di Giove se ne va ( è assente) ”.

In altri termini una conclusione può essere che, mentre si svolgono i Lupercalia e la corsa
dei luperci, il flamen di Giove secondo un costume del resto molto antico deve allontanarsi
impossibilitato dal suo stesso statuto ad assistere a quello spettacolo: sia allo spettacolo
della vista del sacrificio di una capra, animale che egli non può non solo toccare ma
neppure nominare, sia dalla nudità dei luperci, mentre il suo specifico sacerdozio gli
impone invece di rivestire comunque e compiutamente il suo abbigliamento, perchè egli
non può mai essere nudus, dal momento che si trova sempre e costantemente “sotto gli
occhi di Giove”. Egli, sempre vestito dalla testa ai piedi, si contrappone alla “nudità” dei
luperci, in modo tale che non può assistere alla festa di cui sono protagonisti. Tutto ciò
avviene non perché la sua dimora si trovi sulla via Sacra (basterebbe chiudere le finestre
per non vederli corrore nudi), ma per ragioni di incompatibilità più complesse 84.

2.1.8 Il rituale
Il rituale è abbastanza chiaro nel suo complesso, soprattutto se si pensa ai racconti che
parlano di Romolo e Remo, associati a questo rito. I due fratelli, figli di Marte, sono
presentati come i primi Luperci. I due giovinetti sono dei selvaggi, pastori e cacciatori,
destinati a scomparire perché, non essendo agricoltori, non hanno una casa e dei bambini:
l’uomo selvaggio è un mito. Per questo motivo Romolo e Remo devono fondare una città e
rapire delle donne, per uscire dallo spazio selvaggio dei pascoli e sopravvivere. Quello dei
due che non sa rispettare la distinzione degli spazi e rifiuta la creazione di uno spazio della

81
Holleman 1975, cit. n.8, pp. 222 ss.
82
Porte 1976, pp. 835 ss.
83
Alton, Wormell e Courtney 1997, p. 34.
84
Fraschetti 2002b, pp. 150 ss.
44
città è destinato a morire; Remo che oltrepassa con sarcasmo il sacro solco di Giove che
delimita la futura città di Roma, muore85. Come già citato da Plutarco86, nel rituale, due
giovani di nobile stirpe venivano fatti avvicinare ai sacerdoti; alcuni di questi toccavano la
fronte dei giovani con un coltello insanguinato, altri li detergevano rapidamente con lana
imbevuta di latte e i giovani, dopo essere stati detersi, dovevano ridere. Basandoci sulle
parole di Varrone “lustratur antiquum oppidum Palatinum gregibus humanis cinctum”87, si
può ritenere che lo scrittore latino si riferisca ai Luperci originariamente non sacerdoti del
rito, ma vittime sacrificali; in seguito, con il corpo nudo cinto di pelli caprine, avrebbero
rappresentato gli animali del sacrificio che aveva sostituito quello umano. Otto 88 si oppone
a questa ipotesi ritenendo che la cerimonia del sangue derivi dalla credenza nella forza
magica del sangue degli animali sacrificati e tutto ciò corrisponderebbe a un rito presente
presso altri popoli. Deubner89 osserva che si dovrebbe pensare a un rito di espiazione e a
conferma di ciò cita Apollonio Rodio, presso il quale si trova il riferimento alla
purificazione dopo un delitto effettuata macchiando la mano dell’uccisore con il sangue di
un maiale giovane e quindi togliendolo con altri liquidi 90. Si potrebbe supporre che i
giovani fossero in origine non le vittime nei Lupercalia, ma piuttosto gli uccisori che
dovevano essere purificati dal sangue della vittima. Terminata questa operazione, i giovani
diventavano tutt’uno con la vittima e il dio 91. Fowler92 non giustifica ad esempio la risata
dei giovani, a meno che non la si voglia considerare una espressione di gioia per essere
stati liberati dalla colpa del sangue e non si consideri erronea l’espressione di Plutarco:
originariamente forse si trattava non di una risata ma di un grido. Il coltello indica per
Deubner93 una uccisione simbolica; quindi appare logico ritenere che la cerimonia del
sangue possa essere definita così, solo se collegata con la seguente purificazione e con la
risata dei giovani: l’uccisione simbolica sarebbe stata seguita da un risveglio, da una nuova
rinascita.

2.1.9 Quale festa?


Dalle testimonianze delle fonti si comprende sia che si trattava di una festa di
purificazione, come dimostra anche la sua collocazione nel mese di febbraio, sia che lo
scopo della purificazione doveva essere innanzitutto la fecondità umana che si propiziava
con la flagellazione: infatti durante la corsa i luperci percuotevano coloro che si facevano
loro incontro con strisce ritagliate nelle pelli degli animali sacrificati. Esse venivano

85
Dupont 2008, pp. 217 ss.
86
Plut. Rom., 21, 6-7.
87
Varro ling., 6, 34.
88
Otto 1927, col. 2064.
89
Deubner 1910, p. 499.
90
Apoll. Rhod. 4, 704 ss.
91
Magioncalda 1989, pp. 606 ss.
92
Fowler 1899, p. 316 e n. 1.
93
Deubner 1910, p. 500.
45
chiamate februa, perché gli antichi chiamavano februm la pelle del capro94, e ciò spiega
Februarius a die februato, « poiché è in quel periodo che il popolo februatur, cioè che
l’antico monte Palatino, con grande affluenza di popolo, è purificato, lustratur, dai Luperci
nudi ». Alcuni autori95 mettono in evidenza le donne poiché il rituale appariva certamente
più significativo se riferito ad esse, sulle quali ricadeva la « colpa » della mancanza di
prole. Per questo la festa viene messa in relazione anche con la dea del parto Iuno e Festo
riferisce che la pelle ritagliata si chiamava amiculum Iunonis ed era pelle di capro che i più
indicano come la vittima del sacrificio e che veniva considerato simbolo di fertilità. I vari
momenti e i particolari del rituale inducono a supporre che venisse propiziata anche la
fecondità degli animali e la fertilità dei campi e ciò rivelerebbe l’originario carattere
pastorale della celebrazione. Come si è visto, solo Plutarco aggiunge che i Luperci
sacrificavano anche un cane e mette in evidenza il fatto come particolare della festa. Che
Plutarco fosse al riguardo molto incerto e piuttosto perplesso, lo dimostra il tentativo che
egli fa di fornirci varie possibili spiegazioni sull’uso di questa vittima, ma non
dimentichiamo che anche il cane aveva una sua collocazione nei culti agrari, come indica
l’antica usanza di sacrificare cuccioli di tinta rossiccia davanti alla Porta Catularia96 in
onore di Mars, cioè Quirinus97 (che mandava via la ruggine dal frumento98), come pure in
onore di Robigus99: perché il grano così giungesse a maturazione. Il sacrificio del cane
potrebbe testimoniare il contesto agricolo-pastorale tipico del rito delle origini, contesto
d’altra parte chiaramente dimostrato dall’altra vittima concordemente citata dalla maggior
parte degli autori, cioè il capro o la capra 100. Anche nel folklore popolare moderno, in
alcuni luoghi, si rappresenta sotto forma di capro lo spirito del grano, ossia la forza attiva
della vegetazione101. Anche i pastori videro nel capro il moltiplicatore degli armenti che
costituivano l’unica ricchezza della più antica comunità del Palatino 102; veniva considerato
l’animale lascivo 103 per eccellenza perché ritenuto appunto simbolo di fecondità e nel
mondo antico lo troviamo sempre collegato a questa simbologia. Il capro rappresenta
probabilmente la forma teriomorfica del dio della fertilità; per questo, quando un dio o un
eroe è coperto di pelle animale, in genere il fatto sta a indicarne le primitive, antichissime
sembianze104. In questo senso i diversi nomi che ci vengono tramandati, Faunus, Iuno,

94
Serv. Dan. ad Aeneid. 8, 343. Februm (o februum) pare essere un termine di origine sabina (Varro. Ling.
6, 13) e significa «mezzo di purificazione» (Varro ling., 6, 13; Ovid. fast, 2, 19; 4, 726; Aug. civ. 7, 7; cfr.
Cens. De die natali 22, 13 ss. Cfr. Kirsopp Michels 1967, pp. 16 ss; Della Corte 1969, pp. 89 ss.).
95
Cfr. Kerenyi 1948, pp. 316 ss.; Brelich 1976, pp. 65 ss.
96
Colum. 10, 342; Paul-Fest, 39, 13 ss.
97
Ovid. fast, 4, 901 ss.
98
Cfr. Serv. Aen. 7, 188; cfr. Mannhardt 1884, pp. 107 ss.
99
Ovid. fast 4, 901 ss.; cfr. Preller 1881, pp. 302. 379. 407.
100
Ovid. fast 2, 361; Val. Max. 2, 2, 9; Plut. Rom. 21, 6; Serv. Aen. 8, 343.
101
Cfr. Eliade 1999, pp. 348 ss.
102
Anche tra gli Ebrei il sacrificio primiziale dell’agnello primogenito indica un originario carattere pastorale
della Pasqua. (Brelich 1966, p. 321).
103
La lascività e la vitalità attribuita al capro hanno lasciato tracce nella medicina fino ai tempi moderni.
Secondo Montaigne 1571, il sangue di capro passava per una droga efficace se si eseguiva scrupolosamente
la «ricetta», ossia durante i mesi più caldi dell’estate l’animale doveva essere nutrito con erbe appropriate e
vino bianco.
104
Cfr. Reinach 1909, p. 119.
46
Lupercus, Pan, sono tutti riconducibili alla festa suddetta; essa era dunque propiziatrice di
fecondità umana e animale, ma anche di fertilità agricola, poiché i Luperci vestiti con pelli
di capro avrebbero potuto rappresentare demoni della vegetazione che rinascevano a nuova
vita insieme alla rinascita della natura che si desta in primavera dopo il tempo invernale. Se
dunque appare chiaro che la cerimonia in questione simboleggia un sacrificio, il significato
o i significati di quest’ultimo non sono definibili con assoluta certezza; innanzitutto se la
festa, almeno originariamente, aveva un carattere agricolo, l’uccisione delle vittime e il
successivo rito del sangue che aveva come protagonista i giovani, possono aver
simboleggiato la morte della natura, cioè, come osserva Mannhardt 105, del demone della
vegetazione che rinasce poi all’arrivo della primavera. Nel caso dei Lupercalia la rinascita
sarebbe stata rappresentata con il detergere per mezzo del latte la fronte insanguinata e con
il successivo atto del rituale, la risata dei giovani, simbolo del ritorno alla vita 106; se la
morte rende tristi e muti, il riso è la vita e può simboleggiarne l’inizio di una nuova come
viene dimostrato dalla successiva pulizia del latte che è bevanda dell’infanzia. Gli uomini-
lupo costituivano una società senza donne, la società impossibile dei figli di Marte. I
Lupercali ribadiscono ogni anno che non c’è uomo al di fuori della città, sotto la sovranità
politica di Giove e gli uomini-lupo di Marte non conoscono nessuna regola. Che la festa
fosse in declino nel I secolo a.C. è confermato da più indizi; gli sprezzanti giudizi di un
conservatore benpensante come Cicerone 107, la presenza di liberti quali magistri
Lupercorum108, infine il restauro della grotta del Lupercal intrapreso da Augusto109; questo
declino, senza dubbio risalente alla crisi religiosa provocata dall’ellenizzazione nel corso
del II secolo, trascinò con sé la deformazione in senso ludico di talune manifestazioni
rituali dei Lupercalia cosicché i Luperci stessi vennero soprannominati – è sempre Varrone
che ce lo attesta – ludii, un termine dalla trasparente etimologia, quod ludendo
discurrant110.

Dunque i Lupercalia erano nella tarda repubblica una festa in decadenza, ma, forse anche a
causa di questa decadenza, costituivano una cerimonia polivalente, dalle molte
sfaccettature, in cui la memoria mitico-storica di Romolo conviveva con riti di
purificazione e di fertilità e l’aspetto giocoso col culto dei morti in un’atmosfera di
anomalia e di trasgressione rispetto alle consuetudini e alle leggi preposte all’ordinata vita
dell’Urbe. Manca invece, è opportuno dirlo, ogni riferimento a pratiche di iniziazione
monarchica o di incoronazione: in nessun modo l’opinione pubblica del I secolo a.C.
poteva cogliere nei Lupercalia qualsiasi, ancorché recondita, allusione monarchica 111.

105
Mannhardt 1884, pp. 107 ss.
106
Cfr. Reinach 1812, pp. 109 ss.
107
Cic. Cael. 11, 26.
108
CIL 1, 2, 1004.
109
Res Gestae Div. Aug. 10, 19 (e Svet. Aug. 31, 4).
110
Fr. 80 Cardauns apud Tertull. De spect. 5, 3.
111
Zecchini 2001, pp.14 ss.
47
Terzo Capitolo - I protagonisti della vicenda

3.1 Cesare
Quanto sin qui osservato vale in genere per tutti i Romani contemporanei di Cesare; ma
riguardo a Cesare stesso si può dire qualcosa di più?

Schematizzando questi sono i particolari attestati delle testimonianze finora riassunte (nel
primo capitolo) – alcune delle quali sono molto succinte – circa l’offerta del diadema a
Cesare il 15 febbraio del 44:

Il rifiuto di
Antonio unico Cesare è deluso
Autori ed La folla non La folla Cesare è fatto
autore Cesare si adira pur senza darlo
opere: approva approva registrare nei
dell'iniziativa a vedere
Fasti da:

Cicerone, Phil.
x x Antonio
2,34,78-79

Non è l’unico
autore: prima di
Nicola di lui M. Licinio
Damasco, FGH Lucullo, P.
x
2,90, fr. 130, Servilio Casca
XXI, 71-75 e C. Cassio
Longino
(cesariani)

Livio, Per. 116 x

Velleio
Patercolo x
2,56,4

Plutarco, Ant.
x x
12,1-7

Plutarco,
x
Caes.61,1-7

Svetonio,
x
Iul.79,2

Floro 2,13,91 x

Appiano,
Civ.2,109,456- x x x
110,459

Cassio Dione
x Cesare
44,11,1-3

48
Cogliendo in uno sguardo d’insieme tutto questo, noteremo come quelle versioni che si
discostano in maniera più sostanziale da quella ciceroniana – in quanto era presente e
quindi spettatore dell’accaduto – si presentino altresì connotate da particolari poco
attendibili112.

Plutarco113 riporta un epilogo che da un lato è contraddittorio (Cesare, rifiutato il diadema,


non poteva certo dire di collocarlo sulle sue statue), dall’altro non può che rivelare una
commistione narrativa con l’episodio della metà di gennaio, quando i tribuni della plebe
Epidio Marullo e Cesezio Flavo avevano fatto rimuovere il diadema posto sulle statue di
Cesare sui Rostri.

Nicola di Damasco, dal canto suo, rivela palesemente l’influsso della propaganda augustea
nella ricostruzione. Ma non solo questi aspetti possiamo cogliere. Continuando ad
osservare la tabella, possiamo inoltre notare com’era il comportamento di Cesare difronte
al gesto di Antonio nelle varie testimonianze: si vede infatti che in una sola occasione egli
si adira (Plut. Ant. 12,1-7) o che rimane deluso pur senza darlo a vedere (App. civ.
2,109,456-110,459). Ulteriori ed importanti elementi che le testimonianze ci lasciano sono:
inanzitutto la figura di Antonio, e di come esso viene ritenuto unico autore dell’iniziativa
da tutte le fonti escluso Nicola da Damasco. Ma anche l’immagine e la presenza della folla
sono importanti per questa vicenda: infatti in ben due occasioni essa non approva il gesto
dell’offerta del diadema, e in una delle due (quella di Appiano) ricordiamo come Cesare ne
rimanga deluso; in una sola occasione la folla approva il gesto. Ultimo, ma importante
elemento, è rappresentato dalla registrazione nei Fasti del rifiuto all’incoronazione, operata
da Antonio nella testimonianza di Cicerone e da Cesare stesso in quella di Cassio Dione.

Ma quindi, Cesare che cosa è in questo momento: è l’orchestratore di questo episodio,


l’inconscio protagonista o la vittima? Per poter rispondere a queste domande, bisogna
inanzittutto collocare la figura di Cesare nel periodo preso in questione, vedere quali
magistrature detiene e da quando, ma anche soprattutto quali onori gli erano stati tributati.

Alla fine della prima campagna di Spagna, nel 49, Cesare prese il potere a Roma come
dictator, titolo che mantenne fino alla morte nel 44, e ottenne il consolato per l’anno
successivo. Dopo esser stato nominato dictator con carica decennale nel 47, e detenendo
anche il titolo di imperator, fu ripetutamente eletto console nel 46, nel 45 e nel 44 quando,
il 14 febbraio, ottenne anche la carica di dittatore a vita, che sancì definitivamente il suo
totale controllo su Roma. Era quindi la monarchia assoluta nella sua totalità e, pur con un
nome romano, si identificava sostanzialmente con quella dei basirei orientali, e dal giorno
dell’investitura considerò terminata la propria rivoluzione. Almeno dal 9 febbraio del 44
Cesare era dittatore perpetuo designato; ciò significa che in tale data non aveva ancora
rivestito ufficialmente quella carica, che pure gli era stata conferita (non sappiamo quando,
presumibilmente tra dicembre e gennaio) dal senato: evidentemente Cesare esitava a
compiere un passo così gravido di conseguenze e aspettava un’occasione sufficientemente
112
Cristofoli 2008, pp. 146 ss.
113
Plut. Ant. 12,1-7.
49
carica di significato per renderlo accettabile. Uno o due giorni prima dei Lupercalia, il 13 o
14 febbraio, in occasione di un sacrificio egli rivestì per la prima volta gli abiti e i segni
distintivi della sua nuova dignità; subito dopo, appunto il 15 febbraio si mostrò nello stesso
aspetto in una cerimonia pubblica, sacra e solenne, a cui assisteva tutto il popolo.

L’ipotesi che gli onori eccessivi e smodati siano stati conferiti a Cesare dal senato, nel 46,
ma, soprattutto nel 45 e nel 44, per screditarlo di fronte all’opinione pubblica e per farlo
giudicare un tiranno è presente già negli autori antichi 114. Tra i primi, Cassio Dione elenca
tutti gli onori che furono decretati a Cesare fino a questo momento 115:

“ ἐγέλεην δὲ ηὰ δνζέληα αὐηῷ κεη’ ἐθεῖλα ὅζα εἴξεηαη ηνζάδε θαὶ ηνηάδε· θαζ’ ἓλ γάξ,
εἰ θαὶ κὴ πάληα ἅκα κήηε ἐζελέρζε κήηε ἐθπξώζε, ιειέμεηαη. ηὰ κὲλ γὰξ πξῶηα
θαίλεζζαί ηε αὐηὸλ ἀεὶ θαὶ ἐλ αὐηῆ ηῆ πόιεη ηὴλ ζηνιὴλ ηὴλ ἐπηλίθηνλ ἐλδεδπθόηα, θαὶ
θαζέδεζζαη ἐπὶ ηνῦ ἀξρηθνῦ δίθξνπ παληαρῆ πιὴλ ἐλ ηαῖο παλεγύξεζηλ, ἐςεθίζαλην·
ηόηε γὰξ ἐπί ηε ηνῦ δεκαξρηθνῦ βάζξνπ θαὶ κεηὰ ηῶλ ἀεὶ δεκαξρνύλησλ ζεᾶζζαη
ἔιαβε. ζθῦιά ηέ ηηλα ὀπῖκα ἐο ηὸλ ηνῦ Δηὸο ηνῦ Φεξεηξίνπ λεὼλ ἀλαζεῖλαί νἱ ὥζπεξ
ηηλὰ πνιέκηνλ αὐηνζηξάηεγνλ αὐηνρεηξίᾳ [πνῖ] πεθνλεπθόηη, θαὶ ηνῖο ῥαβδνύρνηο
δαθλεθνξνῦζηλ ἀεὶ ρξ῅ζζαη, κεηά ηε ηὰο ἀλνρὰο ηὰο Λαηίλαο ἐπὶ θέιεηνο ἐο ηὴλ
πόιηλ ἐθ ηνῦ Ἀιβαλνῦ ἐζειαύλεηλ ἔδνζαλ. πξόο ηε ηνύηνηο ηνηνύηνηο νὖζη παηέξα ηε
αὐηὸλ η῅ο παηξίδνο ἐπσλόκαζαλ θαὶ ἐο ηὰ λνκίζκαηα ἐλεράξαμαλ, ηά ηε γελέζιηα
αὐηνῦ δεκνζίᾳ ζύεηλ ἐςεθίζαλην, θαὶ ἐλ ηαῖο πόιεζη ηνῖο ηε λανῖο ηνῖο ἐλ ηῆ Ῥώκῃ
πᾶζηλ ἀλδξηάληα ηηλὰ αὐηνῦ εἶλαη ἐθέιεπζαλ, θαὶ ἐπί γε ηνῦ βήκαηνο δύν, ηὸλ κὲλ ὡο
ηνὺο πνιίηαο ζεζσθόηνο ηὸλ δὲ ὡο ηὴλ πόιηλ ἐθ πνιηνξθίαο ἐμῃξεκέλνπ, κεηὰ ηῶλ
ζηεθάλσλ ηῶλ ἐπὶ ηνῖο ηνηνύηνηο λελνκηζκέλσλ ἱδξύζαλην. λεώλ ηε Ὁκνλνίαο θαηλ῅ο,
ὡο θαὶ δη’ αὐηνῦ εἰξελνῦληεο, νἰθνδνκ῅ζαη, θαὶ παλήγπξηλ αὐηῆ ἐηεζίαλ ἄγεηλ
ἔγλσζαλ. ὡο δὲ ηαῦηα ἐδέμαην, ηά ηε ἕιε νἱ ηὰ Πνκπηῖλα ρῶζαη θαὶ ηὸλ ἰζζκὸλ ηὸλ
η῅ο Πεινπνλλήζνπ δηνξύμαη βνπιεπηήξηόλ ηέ ηη θαηλὸλ πνη῅ζαη πξνζέηαμαλ, ἐπεηδὴ
ηὸ Ὁζηίιηνλ θαίπεξ ἀλνηθνδνκεζὲλ θαζῃξέζε, πξόθαζηλ κὲλ ηνῦ λαὸλ Εὐηπρίαο
ἐληαῦζ’ νἰθνδνκεζ῅λαη, ὃλ θαὶ ὁ Λέπηδνο ἱππαξρήζαο ἐμεπνίεζελ, ἔξγῳ δὲ ὅπσο
κήηε ἐλ ἐθείλῳ ηὸ ηνῦ Σύιινπ ὄλνκα ζώδνηην θαὶ ἕηεξνλ ἐθ θαηλ῅ο θαηαζθεπαζζὲλ
Ἰνύιηνλ ὀλνκαζζείε, ὥζπεξ πνπ θαὶ ηόλ ηε κ῅λα ἐλ ᾧ ἐγεγέλλεην Ἰνύιηνλ θἀθ ηῶλ
θπιῶλ κίαλ ηὴλ θιήξῳ ιαρνῦζαλ Ἰνπιίαλ ἐπεθάιεζαλ. θαὶ αὐηὸλ κὲλ ηηκεηὴλ θαὶ
κόλνλ θαὶ δηὰ βίνπ εἶλαη, ηά ηε ηνῖο δεκάξρνηο δεδνκέλα θαξπνῦζζαη, ὅπσο, ἄλ ηηο ἢ
ἔξγῳ ἢ θαὶ ιόγῳ αὐηὸλ ὑβξίζῃ, ἱεξόο ηε ᾖ θαὶ ἐλ ηῷ ἄγεη ἐλέρεηαη, ηὸλ δὲ δὴ πἱόλ, ἄλ
ηηλα γελλήζῃ ἢ θαὶ ἐζπνηήζεηαη, ἀξρηεξέα ἀπνδεηρζ῅λαη ἐςεθίζαλην. ὡο δὲ θαὶ
ηνύηνηο ἔραηξε, δίθξνο ηέ νἱ ἐπίρξπζνο, θαὶ ζηνιὴ ᾗ πνηε νἱ βαζηι῅ο ἐθέρξελην,
θξνπξά ηε ἐθ ηῶλ ἱππέσλ θαὶ ἐθ ηῶλ βνπιεπηῶλ ἐδόζε· θαὶ πξνζέηη θαὶ εὔρεζζαη
ὑπὲξ αὐηνῦ δεκνζίᾳ θαη’ ἔηνο ἕθαζηνλ, ηήλ ηε ηύρελ αὐηνῦ ὀκλύλαη, θαὶ ηὰ
πξαρζεζόκελα αὐηῷ πάληα θύξηα ἕμεηλ ἐλόκηζαλ. θἀθ ηνύηνπ θαὶ πεληαεηεξίδα νἱ ὡο
ἥξση, ἱεξνπνηνύο ηε ἐο ηὰο ηνῦ Παλὸο γπκλνπαηδίαο, ηξίηελ ηηλὰ ἑηαηξίαλ [ἣλ]
Ἰνπιίαλ ὀλνκάζαληεο, θἀλ ηαῖο ὁπινκαρίαηο κίαλ ηηλὰ ἀεὶ ἡκέξαλ θαὶ ἐλ ηῆ Ῥώκῃ θαὶ

114
Sordi 1999, pp. 151 ss.
115
Cass. Dio 44 3,1 ss.
50
ἐλ ηῆ ἄιιῃ Ἰηαιίᾳ ἀλέζεζαλ. θαὶ ἐπεηδὴ θαὶ ηνύηνηο ἠξέζθεην, νὕησ δὴ ἔο ηε ηὰ
ζέαηξα ηόλ ηε δίθξνλ αὐηνῦ ηὸλ ἐπίρξπζνλ θαὶ ηὸλ ζηέθαλνλ ηὸλ δηάιηζνλ θαὶ
δηάρξπζνλ, ἐμ ἴζνπ ηνῖο ηῶλ ζεῶλ, ἐζθνκίδεζζαη θἀλ ηαῖο ἱππνδξνκίαηο ὀρὸλ
ἐζάγεζζαη ἐςεθίζαλην. θαὶ ηέινο Δία ηε αὐηὸλ ἄληηθξπο Ἰνύιηνλ πξνζεγόξεπζαλ, θαὶ
λαὸλ αὐηῷ ηῆ <η’> ἖πηεηθείᾳ αὐηνῦ ηεκεληζζ῅λαη ἔγλσζαλ, ἱεξέα ζθίζη ηὸλ
Ἀληώληνλ ὥζπεξ ηηλὰ Δηάιηνλ πξνρεηξηζάκελνη. θαὶ ἅ γε κάιηζηα ηὴλ δηάλνηαλ αὐηῶλ
ἐμέθελελ, ἅκα ηε ηαῦηα ἐςεθίδνλην θαὶ ηάθνλ αὐηῷ ἐληὸο ηνῦ πσκεξίνπ πνηήζαζζαη
ἔδν- ζαλ· ηά ηε δόγκαηα ηὰ πεξὶ ηνύησλ γηγλόκελα ἐο κὲλ ζηήιαο ἀξγπξᾶο ρξπζνῖο
γξάκκαζηλ ἐλέγξαςαλ, ὑπὸ δὲ δὴ ηνὺο πόδαο ηνῦ Δηὸο ηνῦ Καπηησιίνπ ὑπέζεζαλ,
δεινῦληέο νἱ θαὶ κάια ἐλαξγῶο ὅηη ἄλζξσπνο εἴε. ἤξμαλην κὲλ γὰξ ηηκᾶλ αὐηὸλ ὡο
θαὶ κεηξηάζνληα· πξνρσξνῦληεο δέ, ἐπεηδὴ ραίξνληα ηνῖο ςεθηδνκέλνηο ἑώξσλ(πιὴλ
γὰξ ὀιίγσλ ηηλῶλ πάληα αὐηὰ ἐδέμαην), ἀεί ηη κεῖδνλ ἄιινο ἄιιν θαζ’ ὑπεξβνιὴλ
ἐζέθεξνλ, νἱ κὲλ ὑπεξθνιαθεύνληεο αὐηὸλ νἱ δὲ θαὶ δηαζθώπηνληεο. ἀκέιεη θαὶ
γπλαημὶλ ὅζαηο ἂλ ἐζειήζῃ ζπλεῖλαί νἱ ἐηόικεζάλ ηηλεο ἐπηηξέςαη, ὅηη πνιιαῖο θαὶ
ηόηε ἔηη, θαίπεξ πεληεθνληνύηεο ὤλ, ἐρξ῅ην. ἕηεξνη δέ, θαὶ νἵ γε πιείνπο, ἔο ηε ηὸ
ἐπίθζνλνλ θαὶ ἐο ηὸ λεκεζεηὸλ πξνάγεηλ αὐηὸλ ὅηη ηάρηζηα βνπιόκελνη ηνῦη’ ἐπνίνπλ,
ἵλα ζᾶζζνλ ἀπόιεηαη. ὅπεξ πνπ ἐγέλεην, θαίηνη ηνῦ Καίζαξνο θαὶ δη’ αὐηὰ ηαῦηα
ζαξζήζαληνο ὡο νὐθ ἄλ πνηε νὔζ’ ὑπ’ ἐθείλσλ ηνηαῦηά γε ςεθηδνκέλσλ νὔζ’ ὑπ’
ἄιινπ ηηλὸο δη’ αὐηνὺο ἐπηβνπιεπζεζνκέλνπ, θἀθ ηνύηνπ νὐδὲ ζσκαηνθύιαμηλ ἔηη
ρξεζακέλνπ· ηῷ γὰξ δὴ ιόγῳ ηὸ πξόο ηε ηῶλ βνπιεπηῶλ θαὶ πξὸο ηῶλ ἱππέσλ
ηεξεῖζζαη πξνζέκελνο, θαὶ ηὴλ ἐθ “.

“ Gli onori decretatigli furono, oltre a quelli già da me enumerati, i seguenti quanto
a numero e natura: li elencherò qui tutti insieme, anche se non furono tutti proposti
o decretati nello stesso giorno. Gli concessero innanzi tutto di mostrarsi nella stessa
Roma sempre vestito dell’abito trionfale; di sedersi sul seggio riservato ai
magistrati ovunque tranne che nei ludi, dove poteva assistere allo spettacolo dal
palco tribunizio insieme ai tribuni di volta in volta in carica; di deporre nel tempio
di Giove Feretrio le spoglie opime, come se avesse ucciso con le sue mani un
condottiero nemico; di essere sempre accompagnato da littori portanti rami di
alloro; di tornare a Roma a cavallo dal Monte Albano dopo le ferie Latine. Inoltre
lo chiamarono «Padre della patria» e incisero la scritta sulle monete; vollero che nel
suo genetliaco si facessero pubblici sacrifici; che si erigessero statue in tutte le città
soggette e in tutti i templi di Roma; che si collocassero accanto ai Rostri due statue,
adorne delle corone che si sogliono mettere in tali occasioni, che lo avrebbero
indicato una come salvatore dei concittadini e l’altra come liberatore di Roma
dall’assedio. Decretarono anche che si erigesse un tempio alla Nuova Concordia,
per dimostrare che per suo merito i Romani vivevano in pace, e che in onore di
questa dea si facesse ogni anno una festa. Dopo che Cesare ebbe accettato tali
onori, decretarono che prosciugasse le paludi Pontine; che tagliasse l’istmo di
Corinto; che costruisse una nuova sede per il Senato, poiché la curia Ostilia,
sebbene restaurata, era stata demolita. La demolizione era stata fatta col pretesto di
costruire in quel luogo il tempio della Fortuna (opera portata a termine da Lepido,
51
mentre era capo della cavalleria), ma in realtà si era voluto cancellare il nome di
Silla e costruire una nuova sede che portasse il nome Giulio, come avevano fatto
per il mese in cui Cesare era nato, che avevano chiamato «Giulio», e per una delle
tribù tratta a sorte, che avevano chiamato «Giulia». Inoltre decretarono che fosse
eletto censore unico a vita; che godesse dei diritti dei tribuni, affinché, se qualcuno
lo avesse offeso con atti o con parole, fosse ritenuto sacrilego e maledetto.
Decretarono pure che suo figlio, se ne avesse avuto qualcuno o lo avesse adottato,
fosse nominato pontefice massimo. Poiché egli gradiva questi onori, gli
assegnarono un seggio dorato e l’abito che una volta avevano indossato i re, nonché
una guardia del corpo costituita da cavalieri e senatori. Inoltre decretarono che ogni
anno si facessero pubbliche preghiere per lui, che si giurasse sulla sua Fortuna, che
si considerassero validi tutti gli atti che in futuro avrebbe compiuto. Decretarono
anche che per lui, come per un eroe, fossero istituiti una festa quinquennale e un
corpo di ispettori addetti alla festa dei Lupercali, costituenti un terzo collegio
chiamato «Giulio», e vollero che nei ludi gladiatori, sia in Roma sia in tutto il resto
d’Italia, ci fosse sempre un giorno dedicato a lui. E poiché egli si compiaceva anche
di questi onori, decretarono che nei teatri si portassero il suo seggio dorato e una
corona dorata e ornata di pietre preziose, come quella degli dèi, e nelle corse dei
cocchi il suo cocchio. Alla fine lo proclamarono addirittura «Giove Giulio» e
vollero che fosse consacrato un tempio a lui e alla sua Clemenza, eleggendo
sacerdote di entrambi Antonio come un flamen Dialis. Oltre agli onori che gli
furono decretati, gli concessero anche il diritto di essere sepolto dentro il pomerio: e
ciò rivelava nel modo più chiaro i loro sentimenti. Il decreto riguardante
quest’onore, inciso in lettere d’oro su una stele d’argento, fu collocato ai piedi della
statua di Giove Capitolino: con ciò gli ricordavano apertamente che era un mortale.
Essi avevano cominciato a onorarlo pensando che fosse un uomo dotato di
moderazione; proseguendo coi loro decreti, e visto che si compiaceva degli onori
decretati (infatti, tranne pochi, li accettò tutti), continuarono ad attribuirgliene altri
sempre più grandi, anzi esagerati, su proposta di questo o quel senatore, per
adularlo o per renderlo ridicolo. Alcuni proposero addirittura che gli fosse concesso
di far l’amore con qualunque donna volesse (Cesare infatti, benché avesse
cinquant’anni, soleva ancora frequentare molte donne): costoro, ed erano i più,
facevano tale proposta per suscitare al più presto contro di lui invidia e odio e
rovinarlo rapidamente. E così realmente accadde. Pensando, sulla base di queste
manifestazioni di stima, che non sarebbe stato mai insidiato da uomini che
decretavano tali onori, né da altri che sarebbero stati dissuasi dai suoi sostenitori,
Cesare non volle più servirsi di una guardia del corpo: in questo modo, cedendo alla
proposta di farsi accompagnare da senatori e cavalieri, rinunziò alla guardia che
fino allora lo aveva protetto “. (trad. di Giuseppe Norcio)

Ebbe il diritto a indossare sempre la veste trionfale e, più tardi, quello di portare una
corona aurea. Questa era la corona dei re etruschi, che al tempo della repubblica veniva
tenuta sul capo del generale vittorioso durante il trionfo. Cesare poteva portarla e con
52
questa apparire a tutti i festeggiamenti. Si deliberò inoltre che in diverse occasioni potesse
sedere su un sedile d’oro. Poi giunse il titolo di pater patriae. Il suo genetliaco fu
dichiarato festività pubblica. Il mese in cui era nato, Quinctilis, fu chiamato Julius. In tutti i
templi e i municipi dovette esserci uan statua di Cesare. Un tempio intitolato alla concordia
avrebbe suggellato l’armonia rifondata da Cesare, un tempio della felicitas la sua buona
fortuna. Inoltre ricevette la sacrosanctitas dei tribuni della plebe, vale a dire l’inviolabilità
garantita dal giuramento collettivo della plebe. I senatori s’impegnarono solennemente a
proteggere la sua vita. Gli fu data una guardia del corpo composta da senatori e cavalieri.
Tutti i magistrati dovevano giurare sulle sue deliberazioni. Infine la dittatura e i poteri
censori gli furono dati vita natural durante. Così anche l’apparenza della provvisorietà era
distrutta. Accanto a queste decisioni ce ne furono numerose altre che avvicinavano
ulteriormente Cesare agli dei. Ad esempio, avrebbe avuto un sacerdote e un culto in suo
onore insieme alla clementia. Gli avrebbero per di più eretto un tempio. È però verosimile
che il culto statale vero e proprio per il nuovo dio sarebbe stato avviato solo dopo la sua
morte. Le onorificenze proliferarono senza che, dopo la prima spinta, ne fossero visibili i
motivi. Si ha l’impressione che queste gli venissero tributate senza controllo. Molti di
questi onori erano in effetti contraddittori116 (come quelli che assimilavano Cesare alla
divinità, mentre prevedevano la sua sepoltura all’interno del pomerio) o addirittura
odiosi117, come quello di dedicare le spolia opima nel tempio di Giove Feretrio. Che
Cesare avesse percepito l’insidia insita in questi onori e li considerasse con fastidio
profondo, ce lo rivela un passo di Plutarco che, a causa di una battuta di Cesare, raccolta
dagli amici presenti, sembra derivare da Asinio Pollione 118:

“ Τὸ δ’ ἐκθαλὲο κάιηζηα κῖζνο θαὶ ζαλαηεθόξνλ ἐπ’ αὐηὸλ ὁ η῅ο βαζηιείαο ἔξσο
ἐμεηξγάζαην, ηνῖο κὲλ πνιινῖο αἰηία πξώηε, ηνῖο δ’ ὑπνύινηο πάιαη πξόθαζηο
εὐπξεπεζηάηε γελνκέλε. θαίηνη θαὶ ιόγνλ ηηλὰ θαηέζπεηξαλ εἰο ηὸλ δ῅κνλ νἱ ηαύηελ
Καίζαξη ηὴλ ηηκὴλ πξνμελνῦληεο, ὡο ἐθ γξακκάησλ Σηβπιιείσλ ἁιώζηκα ηὰ Πάξζσλ
θαίλνηην Ῥσκαίνηο ζὺλ βαζηιεῖ ζηξαηεπνκέλνηο ἐπ’ αὐηνύο, ἄιισο ἀλέθηθη’ ὄληα· θαὶ
θαηαβαίλνληνο ἐμ Ἄιβεο Καίζαξνο εἰο ηὴλ πόιηλ, ἐηόικεζαλ αὐηὸλ ἀζπάζαζζαη
βαζηιέα· ηνῦ δὲ δήκνπ δηαηαξαρζέληνο, ἀρζεζζεὶο ἐθεῖλνο νὐθ ἔθε βαζηιεύο, ἀιιὰ
Καῖζαξ θαιεῖζζαη, θαὶ γελνκέλεο πξὸο ηνῦην πάλησλ ζησπ῅ο, νὐ πάλπ θαηδξὸο νὐδ’
εὐκελὴο παξ῅ιζελ. ἐλ δὲ ζπγθιήηῳ ηηκάο ηηλαο ὑπεξθπεῖο αὐηῷ ςεθηζακέλσλ, ἔηπρε
κὲλ ὑπὲξ ηῶλ ἐκβόισλ θαζεδόκελνο, πξνζηόλησλ δὲ ηῶλ ὑπάησλ θαὶ ηῶλ ζηξαηεγῶλ,
ἅκα δὲ θαὶ η῅ο βνπι῅ο ἁπάζεο ἑπνκέλεο, νὐρ ὑπεμαλαζηάο, ἀιι’ ὥζπεξ ἰδηώηαηο ηηζὶ
ρξεκαηίδσλ ἀπεθξίλαην ζπζηνι῅ο κᾶιινλ ἢ πξνζζέζεσο ηὰο ηηκὰο δεῖζζαη. θαὶ ηνῦη’
νὐ κόλνλ ἠλίαζε ηὴλ βνπιήλ, ἀιιὰ θαὶ ηὸλ δ῅κνλ, ὡο ἐλ ηῆ βνπιῆ η῅ο πόιεσο

116
La contraddizione è qui rilevata dallo stesso Cass. Dio 44,6,3-7,1.
117
Weinstock 1971, pp. 230-233, nota il carattere eccessivo di questo onore (che egli data nel 45), perché
Cesare non aveva personalmente ucciso in battaglia nessun generale nemico, ma lo ritiene senz’altro
autentico. Ciò che poteva rendere odioso questo onore era il fatto che l’unico generale nemico che Cesare
aveva ucciso (non in battaglia, ma in prigione) era Vercingetorige, la cui uccisione dopo il trionfo, ricordata
in due occasioni dallo stesso Dione, che attinge a una fonte ostile, contemporanea a Cesare, era stata criticata
dai suoi avversari.
118
Plut. Caes. 60, 4 ss.
53
πξνπειαθηδνκέλεο, θαὶ κεηὰ δεηλ῅ο θαηεθείαο ἀπ῅ιζνλ εὐζὺο νἷο ἐμ῅λ κὴ
παξακέλεηλ, ὥζηε θἀθεῖλνλ ἐλλνήζαληα παξαρξ῅κα κὲλ νἴθαδε ηξαπέζζαη θαὶ βνᾶλ
πξὸο ηνὺο θίινπο ἀπαγαγόληα ηνῦ ηξαρήινπ ηὸ ἱκάηηνλ, ὡο ἕηνηκνο εἴε ηῷ βνπινκέλῳ
ηὴλ ζθαγὴλ παξέρεηλ, ὕζηεξνλ δὲ πξνθαζίδεζζαη ηὴλ λόζνλ· νὐ γὰξ ἐζέιεηλ ηὴλ
αἴζζεζηλ ἀηξεκεῖλ ηῶλ νὕησο ἐρόλησλ, ὅηαλ ἱζηάκελνη δηαιέγσληαη πξὸο ὄρινλ, ἀιιὰ
ζεηνκέλελ ηαρὺ θαὶ πεξηθεξνκέλελ ἰιίγγνπο ἐπηζπᾶζζαη θαὶ θαηαιακβάλεζζαη. ηόηε
δ’ νὐθ εἶρελ νὕησο, ἀιιὰ θαὶ πάλπ βνπιόκελνλ αὐηὸλ ὑπεμαλαζη῅λαη ηῆ βνπιῆ
ιέγνπζηλ ὑπό ηνπ ηῶλ θίισλ, κᾶιινλ δὲ θνιάθσλ, Κνξλειίνπ Βάιβνπ, θαηαζρεζ῅λαη
θήζαληνο· - νὐ κεκλήζῃ Καῖζαξ ὤλ, νὐδ’ ἀμηώζεηο ὡο θξείηηνλα ζεξαπεύεζζαη
ζεαπηόλ - .”

“ Ma ciò che gli attirò l’odio più palese e che lo portò alla morte fu il desiderio di
diventare re, un desiderio che per il popolo fu di quell’odio la causa prima e per
quelli che da tempo l’avversavano il pretesto migliore. Quelli che sostenevano la
necessità di conferire a Cesare la maestà regale sparsero la voce secondo cui dai
libri Sibillini risultava che i Romani avrebbero potuto vincere i Parti solo se
comandati da un re, diversamente quel popolo non sarebbe stato mai vinto. Per
questo, un giorno, mentre scendeva da Alba verso Roma, alcuni salutarono Cesare
chiamandolo Re, ma Cesare, poi, come tutti tacquero, se ne andò via con una
espressione che non era né lieta né benevola. Un giorno, in senato, mentre se ne
stava casualmente seduto sulla tribuna rostrata degli oratori, i consoli, i pretori e
tutta l’assemblea gli si avvicinarono per comunicargli che gli erano stati votati
ulteriori e grandissimi onori, ma lui non si alzò neppure e rivolgendosi a loro come
se fossero cittadini comuni rispose: «Invece di aggiungere onori ad onori,
rafforzatemi quelli che ho». Quella frase indispettì e offose non solo il Senato ma
anche il popolo, che in quell’assemblea vedeva rappresentata tutta la città, e molti
se ne andarono via mortificati. Egli stesso si rese conto di aver commesso una gaffe
e tornatosene subito a casa, togliendosi dal collo il mantello, si disse pronto ad
offrire la gola a chi avesse voluto ucciderlo. Più tardi addusse a sua giustificazione
l’epilessia, dicendo che quando si soffre di quel male lo stare in piedi e parlare ad
una folla turba e fuorvia le facoltà intellettive, si è presi da vertigini e la coscienza
vacilla. Ma le cose non erano andate così: egli in realtà avrebbe voluto alzarsi di
fronte al Senato, ma ne fu trattenuto – così dicono – da uno dei suoi amici, o
meglio, dei suoi adulatori, Cornelio Balbo, che così lo ammonì: «Ricordati che sei
Cesare, perciò devi ritenere giusto che ti si onori come un essere superiore» ”.

(trad. di Mario Scaffidi Abbate)

Si tratta del famoso episodio, databile all’autunno del 45 119, nel quale egli ricevette seduto
il senato che, in gran pompa, veniva a comunicargli gli onori votati tutti insieme in una
sola seduta; egli disse allora che quelli onori andavano diminuiti, non aumentati e, di fronte

119
Liv. Per. 116; App. civ. 2, 107,447; Cass. Dio 44,8: l’episodio si collega con gli onori decretati a Cesare
alla fine del 45. Solo Nicola Damasceno sposta l’episodio dopo i Lupercali.
54
all’offesa reazione del senato, tornando a casa, disse agli amici scoprendosi il collo, che era
pronto a lasciarsi uccidere; solo più tardi, forse ancora per consiglio degli amici, cercò una
giustificazione del suo comportamento in una malattia.

La storia dei provvedimenti in onore di Cesare e del conferimento del potere è quindi,
almeno nella sua ultima parte, una storia della debolezza di Cesare, ossia, detto più
precisamente, della sua mancanza di potere sugli avvenimenti. Se possiamo interpretare le
onorificenze come espressione di una riforma politica, questa avrebbe trovato la sua forma
e la sua legittimazione esclusivamente nell’evidenziare la qualità di Cesare, assolutamente
eccezionali e quasi divine. Ben diverso è il caso del duplice conferimento del diadema nel
gennaio e nel febbraio del 44. Il diadema era il simbolo della monarchia persiana ed
ellenistica e faceva di colui che ne era cinto un dominus divinizzato di fronte a dei sudditi-
servi: esso era dunque in esplicito contrasto con la tradizione romana. In ambedue i casi
non fu il senato a offrire Cesare il diadema, ma, nel primo, personaggi ignoti che ne
incoronarono la statua al tempo delle feriae latinae, il 26 gennaio del 44, nel secondo il
console Antonio durante i Lupercalia. Per cogliere il significato dei due episodi vale la
pena di tener presente che Cesare fra il 26 gennaio, quando era ancora dictator IV, e il 9
febbraio dello stesso 44, si fece conferire la dittatura perpetua, che, trasformando la sua
carica, fino allora rinnovata di anno in anno, in una carica vitalizia, sanzionava nel modo
più esplicito la nascita del nuovo regime e, scavalcando l’esperienza di Silla, risuscitava
antiche cariche prerepubblicane come quella del mastarna etrusco romano, che la
tradizione popularis esaltava in Servio Tullio 120. Che cosa aggiungesse il diadema,
screditato simbolo di screditate monarchie, al potere reale della dittatura perpetua è
difficile a dirsi. Ma vediamo le fonti sui due episodi.

Tutte le nostre fonti sono d’accordo nel collegare l’incoronazione della statua di Cesare e il
saluto a lui rivolto come re al suo ritorno della celebrazione delle Feriae Latinae, con lo
scontro fra Cesare e i tribuni Cesezio e Marullo e la loro deposizione dalla carica
tribunizia, ma invertono l’ordine dei due episodi: secondo Dione 121 e Appiano122 prima ci
fu l’incoronazione con una diadema legato intorno ad una corona di alloro di una statua di
Cesare sui rostri, poi il saluto a Cesare reduce da Alba come re con la famosa risposta
(Non sono Rex ma Caesar), e l’incriminazione in senato dei tribuni. Secondo Svetonio 123 i
due episodi sembrano contemporanei e collegati con i Lupercali mentre secondo
Plutarco124 il saluto rivolto a Cesare al ritorno da Alba sarebbe addirittura avvenuto prima e
l’incoronazione della statua dopo i Lupercali.

Ciò che i due tribuni avevano fatto rivelava, diceva Cesare, un disegno più vasto e
un’insidia più grande: l’intenzione di calunniarlo davanti al popolo. Egli imputava

120
Sulla differenza fra la dittatura perpetua e la dittatura sillana ved. Sordi 1976, pp. 151 ss. Su Servio Tullio
Mastarna ved. Bianchi 1985, pp. 57 ss.
121
Cass. Dio 44 9,10.
122
App. civ. 2, 108.
123
Svet. Iul. 79.
124
Plut. Caes. 60,3 – 61,8.
55
l’accaduto ai suoi stessi avversari e vedeva nell’offerta del diadema un mezzo per
incriminarlo; una domanda necessaria da porci è se l’assunzione della dittatura perpetua
subito dopo questo episodio non sia nata, nelle intenzioni di Cesare, dalla volontà di
dimostrare l’origine romana e non ellenistica del suo potere, e di smentire ogni sua
aspirazione al diadema e alle forme orientalizzanti di tale. Da un lato il significato mitico
della festa non poteva non interessare il nuovo pater patriae, l’uomo che
nell’abbigliamento si richiamava a Romolo. Infatti egli fu autorizzato a indossarlo a partire
dal 46 a.C., dopo la sua vittoria su Pompeo e i Pompeiani, e che si rifaceva fedelmente a
quello di un triumphator: dalla corona di alloro alla toga picta125, ed è proprio in tale
tenuta che egli assistette ai Lupercalia. È noto come un imperator al momento del trionfo
impersonificasse volutamente Iuppiter Capitolinus al punto che ciò che indossava era
indicato con l’unica espressione di ornatus Iovis126. L’onore di indossare le insegne
trionfali, in effetti, era già stato concesso ad altri prima di Cesare e per l’esattezza al suo
rivale Pompeo, ma egli era stato autorizzato a indossarle in ogni momento. Certo, come è
stato notato, la tradizione tardo repubblicana su Romolo non era affatto univoca: un filone
lo celebrava come autore della costituzione patria, come governante e legislatore così
saggio da aver meritato l’apoteosi col nome di Quirino, un opposto filone ne ricordava le
aspirazioni tiranniche, per cui i senatori erano stati costretti a sopprimerlo.
Un’indifferenziata imitatio Romuli era dunque ambigua e pericolosa, tanto più quella che
puntasse ad assumerne l’ormai esecrato titolo di re; tuttavia c’era un motivo di gloria per
Romolo che nessuno poteva mettere in discussione, l’esser stato il fondatore dell’Urbe, e
proprio a questo tratto romuleo, non a quello monarchico sembra che Cesare intendesse
riallacciarsi, quando tra il 46 e il 44 si fece dare o comunque accettò quelle sopra elencate
distinzioni onorifiche, che a Romolo appartenevano, il quale era il primo a trionfare. In
questa prospettiva proprio il collegamento dei Lupercalia con l’infanzia di Romolo e poi
con l’uccisione di Numitore e la fuga da Alba, quindi coi prodromi della fondazione di
Roma, non comunque con il suo successivo regno, poteva destare l’attenzione di Cesare, il
quale era così sensibile ed orgoglioso della sua asserita discendenza da Iulo, fondatore
appunto di Alba Longa, da cui proveniva a sua volta il fondatore di Roma, Romolo.

Dall’altro lato la compresenza nei Lupercalia di elementi ancora sacrali, lustrali per
l’esattezza, e di altri ludici, e quindi ormai desacralizzati, era emblematica della situazione,
in cui versava la religione romana tardo-repubblicana; Cesare, in quanto pontefice
massimo, era la suprema autorità di tale religione; una forte richiesta di ripristino degli
antichi culti e dei riti connessi era da tempo diffusa in settori non trascurabili dell’opinione
pubblica127: ce lo rilevano le numerose opere di argomento religioso e di carattere erudito-
antiquario composte nei decenni precedenti da aristocratici romani, nonché il ruolo
crescente assunto dall’aruspicina e, in genere, da concezioni religiose etruschizzanti
durante le guerre civili; culmine di questa produzione e di queste esigenze furono le

125
Weinstock 1971, pp. 35-79.
126
Cfr. Versnel 1970 (con dati e bibliografia precedente); Weinstock 1971, pp. 64 ss. D’altronde le fonti
latine sono esplicite in proposito: Iovis Optimi Maximi ornatu decoratus(Liv. 10,7-10).
127
Zecchini 2001, pp.15 ss.
56
Antiquitates rerum divinarum, che Varrone compose negli anni 50 e non casualmente
dedicò a Cesare128.

Più in particolare si è visto che nei Lupercalia era incluso un rito di fertilità: ora,
l’improrogabile esigenza di una politica demografica favorevole alla famiglia e alla natalità
era stata presentata nel 46 a Cesare da Cicerone nella Pro Marcello (propaganda
suboles)129; non è quindi da escludere che anche in questa prospettiva il dittatore
intendesse restituire prestigio alla confraternita dei Luperci e alla loro festa; è poi un fatto
che in seguito Augusto curò di assegnare a cavalieri e non più a liberti la carica di magister
dei Luperci e non solo restaurò il Lupercal, ma diede speciale rilievo all’avvenuto restauro
nelle Res gestae130, da cui si può osservare una continuità tra i progetti di Cesare e le
realizzazioni del princeps. Ricordo della fondazione romulea di Roma, volontà di
restaurazione religiosa, urgenza di un rilancio della natalità: tutti questi elementi
convergevano per rendere significativa la ricorrenza dei Lupercalia agli occhi di Cesare e
sono sufficienti per giustificare la sua scelta di presentarsi in pubblico per la prima volta
dopo che il senato gli aveva decretato solenni ornamenti (veste purpurea, calzari d’oro,
seggio di oro e d’avorio)131 e soprattutto dopo che gli aveva conferito (terminus ante quem
è il 9 febbraio) 132 il titolo di dittatore perpetuo. Probabilmente essi bastano anche per
spiegare un altro onore tributato a Cesare tra il 45 e il 44, e cioè la creazione di un terzo
collegio dei Luperci accanto ai due tradizionali dei Fabii e dei Quintilii, quello dei Iulii,
che ebbero per magister addirittura il console del 44 Marco Antonio 133; quindi non tanto
allo scopo di glorificare la propria persona, quanto la propria famiglia e di ribadire i legami
tra il suo capostipite Iulo, fondatore di Alba, e Romolo e Remo, originari di Alba e alla cui
fuga da Alba alla futura Roma avrebbe alluso la corsa dei Luperci134. Gli arcaici
Lupercalia, così reinterpretati e attualizzati attraverso una fitta trama di riferimenti
simbolici, venivano in sostanza ad essere la festa di fondazione di una nuova era per la
repubblica. Cesare sapeva dunque della possibilità di una congiura e l’aveva messa in
conto fin dal 46135: essa era il corrispettivo del potere assoluto, vitalizio e «senza
rendiconto» che egli possedeva. Ma un potere così grande egli voleva usarlo con consenso:
quello del popolo, ed è questo il senso della nova ratio vincendi e della diuturna victoria
della sua linea; che, apparentemente perdente alle idi di marzo, si rivelò, all’indomani
dell’uccisione di Cesare, senza alternativa, perché il consenso della maggioranza, popolo e
128
L’opera sarebbe stata dedicata a Cesare nel 58 per la comune curiosità antiquaria e non implicherebbe
alcun programma di restaurazione religiosa.
129
Cic. Marcell. 8,23.
130
Magister equestre dei Luperci: Val. Max. 2,2,9; Lupercal: Res Gestae Div. Aug. 10,19 e Svet. Aug. 31,4.
131
Per l’esattezza Cesare rivestì per la prima volta questi ornamenti in occasione del sacrificio compiuto il
13-14 febbraio in presenza del summus haruspex Spurinna, ma soli il 15 febbraio si presentò alla folla così
abbigliato (Cic. De divin. 1, 119; Plin. nat. 11, 71, 186; Val. Max. 1, 6, 13; Svet. Iul. 81,2; Plut. Caes. 63, 5-
6).
132
Il 9 febbraio Cesare era ancora designato alla dittatura perpetua quindi non l’aveva ancora rivestita, ma il
senato gliela aveva già assegnata ( Jos. AJ 14, 211).
133
Sui Luperci Iulii cfr. Cass. Dio 44,6 e Svet. Iul. 76.
134
Ribadendo i continui legami della propria famiglia con il fondatore di Alba Iulo, e Romolo e Remo,
Cesare continua a esaltare la doppia ascendenza, divina da Venere e regale da Anco Marcio.
135
Cic. Marcell. 8,25.
57
soldati, restò al dittatore ucciso e ai suoi uccisori non rimasero, dopo il breve compromesso
dei Liberalia136, se non la fuga e la guerra civile.

Al di là della finzione, inventata dagli avversari per accusare, Cesare il regno l’aveva già
assunto con la dittatura perpetua: Cicerone lo dice, al di fuori di ogni finzione, nella I
Filippica quando loda Antonio per avere, dopo i Liberalia, «non modo regno quod
pertuleramus, sed etiam regni timore sublato», con l’abolizione del nomen dictatoris,
divenuto odioso «propter perpetuae dictaturae recentem memoriam». E lo stesso Cicerone,
in un passo della Seconda Filippica, dice che Antonio aveva ormai “paura” di Cesare
dittatore.137 Oltre tutto – come egli stesso osserva – la dittatura era ormai già «una specie di
monarchia»138 Potere assoluto, vitalizio, la dictatura perpetua poteva essere assimilata alla
tirannide: ciò che la distingueva da essa, nell’intenzione di Cesare, era appunto il consenso.
Il potere di Cesare è dunque un potere assoluto, ma, come quello di un padre, un potere
fondato sul consenso, sull’ indulgenza reciproca, che come abbiamo detto è legata ad un
doppio filo con il popolo: egli deve correggere i difetti e premiare i meriti, ma, come nel
caso di un padre con i figli bambini, è nell’ordine della natura che egli comandi sui soldati
come sul senato, al quale peraltro chiede una spontanea e cordiale collaborazione 139.
Sull’esercizio di questo officium imperatoris si fonda la sua dignitas e, piuttosto che
perdere la dignitas, Cesare è pronto a morire e a lasciarsi uccidere. È interessante osservare
come la concezione cesariana dell’impero come diarchia fra l’imperator e il popolo in
armi, l’esercito, sia stata trasmessa intatta attraverso tutta la storia imperiale e le vicende
del principato e del dominato fino al tardo antico. A suo parere, infatti, l’interesse
superiore dell’impero esigeva che il dittatore dei Romani fosse esplicitamente designato «
re » dai propri sudditi. Per rispettare le forme, consultò i libri sibillini riguardo alla guerra
che aveva in programma: compiacentemente verso i suoi progetti, l’oracolo profetizzò che
i Parti sarebbero stati vinti soltanto da un re. Quella profezia implicava che la formula,
ideata da Cesare per salvaguardare l’onore della latinità e le nuove conquiste, fosse
legalizzata da un senatoconsulto prima della partenza per la spedizione contro i Parti
fissata per il 18 marzo. I Patres, convocati appositivamente da Cesare per il 15 marzo, su
proposta dello zio materno del dittatore, l’ex quindecemviro L. Aurelio Cotta, l’avrebbero
votata quel giorno stesso. Ma, prima dell’inizio di quella seduta decisiva, Cesare fu
assassinato140.

136
I Liberalia erano delle celebrazioni romane in onore di Liber Pater e della consorte Libera. La festa si
teneva il 17 marzo in occasione del sedicesimo anno di età di un ragazzo, quando cioè si deponeva la bulla e
la toga praetexta (o libera) e si prendeva la toga virilis.
137
Cic. Phil. 2, 91: «Optimum vero quod dictaturae nomen in perpetuum de re publica sustulisti : quo
quidem facto tantum te cepisse odium regni videbatur ut eius omne nomen propter proximum dictatoris
metum tolleres».
138
Cic. Phil. 1,3: «Dictaturam, qua iam vim regiae potestatis obsederat, funditus ex re publica sustulit».
139
Sordi 1999, pp. 159 ss.
140
Sull’oracolo e sul legame tra l’esecuzione delle sue previsioni e l’attentato contro Cesare, cfr. Svet. Caes.
79; Cass. Dio 44, 15, 3; App. civ. 2, 110, 460- 113, 470.
58
3.2 Antonio
Dai particolari, schematizzati nella precedente tabella, tutte le fonti ricordano l’iniziativa di
Antonio, amico di Cesare e console; il fatto che il dittatore stesso, pur rifiutando il diadema
e inviandolo a Giove Capitolino, «non si adirò»141 con Antonio contribuì certamente ad
accreditare il sospetto, già presente fra gli antichi, che Cesare fosse d’accordo con lui.
Come abbiamo potuto vedere nel primo capitolo, secondo Cicerone, Livio, Velleio
Patercolo, Plutarco, Svetonio, Floro, Appiano e Cassio Dione l’autore dell’iniziativa di
offrire un diadema a Cesare fu il solo Antonio; mentre secondo Nicola di Damasco sarebbe
stato invece un Licinio a porgere per primo il diadema, imitato poi dai futuri cesaricidi
Cassio e Casca, e solo in ultima istanza da Antonio. Come ormai sappiamo, la più antica
versione di quel che accadde dell’avvenimento è quella di Cicerone; esso fu testimone
oculare e ci descrive Antonio mentre, al termine della sua corsa, si avvicina a Cesare per
porgergli il diadema. A questo il dittatore rifiuta, ma il console non si perde d’animo ed
insiste, arrivando perfino a gettarsi ai suoi piedi e supplicarlo; anche questa volta il
diadema è rifiutato e come abbiamo visto Cesare ordina ad Antonio di far registrare
l’accaduto nei Fasti (cogliendo in questo la possibilità di rendere comunque un buon
servizio all’immagine del dittatore, e glorificando il suo nome). Particolare interessante è
che non Antonio, ma Cesare è protagonista della versione di Cassio Dione, il quale è egli
stesso che, dopo aver rifiutato il diadema dal console (non è detto quante volte), fece
iscrivere tale rifiuto nei fasti, ma la sua sincerità non fu creduta, anzi lo sospettò di aver
combinato tutto con Antonio. La versione di Nicola da Damasco è l’unica a non attribuire
ad Antonio l’iniziativa, che il collega di Cesare nel consolato si sarebbe limitato a cercare
di portare ad effetto dopo che tre uomini prima di lui non c’erano riusciti. Ad offrire per
primo il diadema è qui un non meglio identificato Licinio (con ogni probabilità M. Licinio
Lucullo), che lo depose ai piedi di Cesare, ma che egli non raccolse; dopo di lui, mentre
Lepido rimaneva impassibile alle esortazioni del pubblico di incaricarsi di ripetere
l’offerta, due cesariani ( che poi presero parte alla congiura) P. Servilio Casca e C. Cassio
Longino, se ne rendono nuovi protagonisti, ponendo il diadema questa volta sulle gambe.
Al nuovo rifiuto sarebbe allora entrato in scena Antonio, che collocò il diadema sul capo
del dittatore, il quale per la terza volta lo rifiutò. Da questo punto di vista si può ben dire
che fino all’ultimo la vicenda di Cesare è stata aperta ad esiti opposti. Ma resta ancora
aperta la questione principale: quello di Antonio è stato un errore di calcolo, un gesto di
insensato servilismo, una messinscena concordata con Cesare, o, appunto, una
provocazione? A questo e ad altro cercherò di rispondere analizzando la sua figura.

Non sappiamo quando sia iniziato il rapporto fra Antonio e Cesare; si sa che combatté in
Gallia a partire dal 54. Il giovane ufficiale, già buon conoscitore delle tecniche di
combattimento, apprese l’arte del comando e del carisma militare da un maestro
d’eccezione come Cesare, che lo rese «un uomo a lui legatissimo» 142. Da Cesare, Antonio
imparò a trattare i soldati con generosità e senza arroganza, e al suo ritorno a Roma,

141
Cass. Dio 44,11,3.
142
Caes. Gall., 8, 50, 1.
59
nell’autunno del 53, si affidò alla protezione di Cicerone. Nonostante i trascorsi di
amicizia, avrebbe addirittura tentato di uccidere il suo antico protettore Publio Clodio,
rincorrendolo nel Foro con una spada in pugno, e costringendolo a rifugiarsi nella bottega
di un libraio. Il comportamento di Antonio è in realtà sospetto, tanto più che, qualche
settimana dopo questo episodio, Clodio rimase ucciso in uno scontro tra la scorta dei suoi
schiavi e quella di Annio Milone, uno dei suoi avversari143. In ogni caso, il calcolo politico
di Antonio era ben mirato. Avendo raggiunto l’età necessaria, con l’appoggio di Cicerone
si candidò alla questura per l’anno 52. Si trattava della prima magistratura importante, che
apriva la strada al conseguimento delle più alte cariche della repubblica, la pretura e il
consolato. I questori svolgevano compiti amministrativi a Roma o nell’esercito, ed erano
investiti da importanti responsabilità finanziarie. Egli ricoprì le principali cariche del
cursus honorum senatorio, e la sua carriera si svolse quindi nel rispetto delle norme
elaborate dalla nobilitas romana. Terminata la guerra gallica, per Cesare era giunto il
momento di regolare i conti con Pompeo e con la parte del senato a lui avversa. Così,
grazie all’appoggio dei cittadini dei municipi e delle colonie, e a Roma col sostegno di
Curione (allora tribuno delle plebe), Cesare fece eleggere Antonio àugure, provocando la
sdegnata reazione di Cicerone. Gli àuguri, all’epoca organizzati in un collegio di quindici
membri (che esercitavano il sacerdozio per tutta la vita), eseguivano i riti ufficiali della
divinazione144. Alla fine del 50, sempre con l’appoggio di Curione, Antonio fu eletto
tribuno della plebe145. Nella carriera senatoria, poteva diventare tribuno della plebe chi era
di famiglia plebea e aveva rivestito la questura. Il tribunato di Antonio coincise con lo
scoppio delle ostilità fra Cesare e Pompeo; esercitando il suo diritto di veto 146, il tribuno
cercò di opporsi al vecchio politico, e alla fine lo accusò con una violenta requisitoria. In
questo periodo, Antonio percorse la penisola per ottenere consensi. I suoi viaggi si
contraddistinguevano per la pompa e l’esibizione arrogante del potere, e Cicerone ne aveva
questo ricordo147: ma non si trattava dell’aspetto più scandaloso di questo corteo 148 che, per
l’ostentazione di potere e ricchezza, emulava le solenni processioni delle corti ellenistiche:
più notevole era la presenza della madre di Antonio, e soprattutto della «ballerina»,
Volumnia Citeride (famosa interprete di «mimo») 149. Secondo Cicerone150, Antonio
utilizzò il suo potere per richiamare molti cittadini rimasti fino ad allora in disgrazia, ma

143
Cic. Phil. 2,9,21 – 2,20,49. Su questo episodio cfr. anche Meyer 1963, pp. 213 ss.; Babcock 1965, p.17 (il
quale, come poi farà tra gli altri anche Huzar e Traina, chiama in causa la possibilità di ragioni più personali
per la lite fra i due: Antonio era stato l’amante di Fulvia quando quella era ancora la moglie di Clodio);
Traina 2003, pp. 17 ss. (secondo il quale potrebbe sorgere il sospetto che Milone avesse ucciso Clodio su
ordine di Antonio, che a sua volta avrebbe ricevuto direttive precise da Cesare a riguardo, e sulla base di ciò
si spiegherebbe anche il tentativo attuato in precedenza dallo stesso Antonio contro Clodio.
144
Per l’augurato di Antonio fu molto importante l’apporto che in quell’occasione diede alla sua campagna
elettorale Curione: vd. Plut. Ant. 5,2;Cristofoli 2004, p. 109.
145
Cic. Phil. 2,20,50.
146
Cic. Phil. 2,21,51.
147
Cic. Phil. 2,57 ss.
148
Avanzando su un essedum, il carro a due ruote utilizzato dai celti per gli sfondamenti veloci, il tribuno
voleva ricordare il suo contributo all’ultima fase della guerra gallica. Cic. Phil. 2, 57 ss.
149
Cic. Phil. 2,25,60.
150
Cic. Phil. 2,56.
60
non avrebbe fatto nulla per richiamare lo zio Gaio Antonio dall’esilio; e gli attribuiva per
questo un’imperdonabile mancanza di pietas. Intanto, alla fine dell’anno, Cesare aveva
concluso le sue campagne in Occidente e, prima di andare a combattere Pompeo in
Oriente, si era assicurato un potere pressoché assoluto assumendo la carica di dictator.
Accanto a quest’ultimo veniva nominato anche un magister equitum, «comandante della
cavalleria», che fungeva da braccio destro del magistrato nelle campagne militari e
l’incarico venne affidato ad Antonio 151. Dopo la battaglia di Farsalo 152 ( 9 agosto 48), fece
rotta per l’Italia, con il compito di occuparsi degli affari interni; fu costretto, da subito, a
fronteggiare un grave problema, originato proprio da un altro fedele cesariano, il tribuno
delle plebe Dolabella. Questi reclamava la remissione dei debiti per un nutrito gruppo di
cittadini, e aveva occupato il Foro153. Fu allora emanato il cosiddetto senatus consultum
ultimum: un provvedimento speciale del senato contro i nemici della patria. Dolabella fu
risparmiato ma le vittime furono circa un migliaio, e la situazione diede ad Antonio
l’occasione di governare Roma con una notevole ostentazione di potere. La strategia del
magister equitum, che poteva contare sul patrimonio di Cesare, consisteva nel procurarsi
consenso e timore al tempo stesso 154. Così, nelle fastose celebrazioni pubbliche da lui
organizzate, ebbe l’accortezza di non deporre mai la spada. Il potere di cui disponeva
permise ad Antonio di ottenere un credito pressoché illimitato, e di assicurarsi i beni di
Pompeo messi all’asta155; parte di questi beni fu utilizzata per atti di liberalitas, e Antonio
volle per sé il bene più prestigioso di Pompeo: la sua casa nel quartiere delle Carinae, al
termine della Via Sacra156. I beni vennero consumati in banchetti e regalìe, in un furore che
i nemici di Antonio considerarono come spreco e disprezzo per la memoria del defunto.
Plinio il Vecchio racconta come egli si presentava con l’aspetto di un novello Dioniso,
ispirandosi al precedente illustre di Alessandro il Macedone, che diceva di discendere da
Dioniso e da Eracle157. A Roma, il culto di Dioniso/Bacco era considerato con sospetto, ed
era stato bandito per molto tempo, finché Cesare non lo aveva reintrodotto. Con la sua
messinscena, Antonio si limitava apparentemente a sostenere la politica religiosa del
dittatore, ma di fatto acquisiva a titolo personale delle prerogative di regalità ellenistica,
che oltrettutto rimandavano ad atteggiamenti già praticati da Pompeo. Cicerone ammetteva

151
Plut. Ant. 8,4-5: afferma che Cesare mandò Antonio a Roma già come suo magister equitum, e quindi si
discosta dalla testimonianza di Cicerone (Phil. 2,25,62); Cass. Dio 42,21,1.
152
La battaglia di Farsalo ci è descritta con numerosi dettagli da una pluralità di fonti: Caes. civ. 3,84 ss.;
Vell. 2,52,3; Luc. Phars. 7,214 ss.; Plut. Caes. 44 ss., Pomp. 69 ss., Ant. 8,3; Svet. Iul. 35,1; Flor. 2,13,43-50;
App. civ. 2,76,316-82,347; Cass. Dio 41,58 ss.
153
Plutarco attesta che Dolabella, tribuno dal 10 dicembre del 48 grazie alla sua transitio ab plebem (Cass.
Dio 42,29,1), visto che il senato aveva rinviato l’esame della sua rogatio fino al ritorno di Cesare decise di
ricorrere all’azione di forza, e cercò nel suo agire l’appoggio di Antonio stesso; ma egli si sarebbe tirato
indietro, consigliato dai tribuni Asinio Pollione e Trebellio, ed anche perché avrebbe avuto nei confronti di
Dolabella un particolare astio (lo accusava di averli sedotto la moglie Antonia).
154
Cass. Dio 42,27,2. (Traina 2003, p. 31).
155
Cic. Phil. 2,26,64-65. Cfr. Cristofoli 2004, pp. 198 ss.
156
Huzar 1978, p.68: Antonio avrebbe acquistato all’asta la casa di Pompeo “ with the cool assumption that
he need never pay for it”.
157
Plin. nat. 8,55. Forse questo particolare potrebbe sottendere un intento ideologico di avallo della politica
religiosa di Cesare, che aveva reintrodotto il culto di Dioniso/Bacco, ed essere anche prova – nel contempo –
del conformarsi di Antonio alle prerogative della regalità ellenistica (così Traina 2003, p. 33).
61
di aver spesso definito Marco Antonio un gladiatore in senso metaforico, ossia un uomo
rozzo e stupido, che poteva contare solo sul fisico prestante. Nell’autunno del 47, Cesare fa
ritorno a Roma, e una volta arrivato liquidò il suo braccio destro, il quale aveva
spadroneggiato in Italia, accumulando debiti e offendendo la morale dei benpensanti. Così
il dittatore, non volle più Antonio come magister equitum, bensì il più anziano Emilio
Lepido158: un altro uomo chiave di Cesare, che fra l’altro, nel 49, era stato promotore delle
legge che gli aveva conferito la dittatura. Cominciava così per Antonio un periodo di
emarginazione: egli dovette correre ai ripari e prese come moglie la bella ed energica
Fulvia159, vedova di Clodio e poi del suo grande amico Curione 160. Fulvia aveva
«insegnato ad Antonio il predominio femminile», e grazie a questo dressage Cleopatra lo
avrebbe trovato «fin dall’inizio del tutto mansueto e ammaestrato a obbedire alle
donne»161. Con il matrimonio Antonio aveva recuperato una certa rispettabilità sociale; si
trattava ora di riguadagnare la stima di Cesare; partì, quindi, alla volta della Spagna 162,
dove si trovava il nuovo favorito di Cesare, l’adolescente Gaio Ottavio. Ma, giunto a metà
strada, invece di proseguire si fermò a Narbona, dove incontrò l’antico compagno d’armi
Gaio Trebonio, che gli propose di partecipare a una congiura per uccidere il dittatore;
Antonio declinò la proposta, ma al tempo stesso si astenne dal denunciare il complotto. In
ogni caso, Cesare decise di riabilitarlo e gli concesse il consolato destando nuovamente le
apprensioni di Cicerone. Al tempo stesso, però, Cesare mostrava di avere altri progetti per
la propria successione e manifestava apertamente il suo favore per il giovane Ottavio e
cominciava così di fatto una lunga rivalità con Antonio. Ma non era il solo a far
potenzialmente ombra alle sue ambizioni: Dolabella si era fatto perdonare combattendo in
Africa e in Spagna, Trebonio era stato nominato console suffectus (supplente). Infine,
nonostante le diverse tendenze politiche, godeva di particolare favore l’aristocratico Marco
Giunio Bruto, che Cesare considerava come un figlio 163. Secondo Cicerone, lo smisurato
potere di Cesare faceva paura anche da Antonio e ormai il suo futuro ruolo era ormai
ristabilito nel nuovo regime; Cesare, nel frattempo, aveva designato Gaio Ottavio come
prossimo magister equitum. L’ultimo mese di vita di Cesare cominciò con un episodio
spettacolare, orchestrato (o non) da Antonio durante la cerimonia dei Lupercalia. Il gesto
di Antonio ai Lupercali è prima facie ambiguo, sconcertante, impolitico 164. Non si deve
trascurare nessun indizio, anche perché la condotta di questi personaggi non è mai lineare;
così si spiegano anche le frecciate reciproche tra Cicerone e Antonio. La replica di
Cicerone ad Antonio165 – essere stato lui, con la commedia dei Lupercali, il vero motore
dell’uccisione di Cesare – non è da considerare una mera brutale ritorsione polemica,

158
Cass. Dio 43,14,4- 28,2-33,1.
159
Plut. Ant. 10,4. Anche secondo Huzar 1978, p.68 la rottura di Antonio con Citeride sarebbe da collegare
con lo sdegno di Cesare nei confronti di Antonio ( anche se sembra un nesso casuale).
160
Quanti volevano fare del sarcasmo su Fulvia avevano a portata di mano, ovviamente, l’osservazione che la
donna non era molto propizia ai suoi mariti: vd. Cic. Phil. 2,5,11 – 44,113.
161
Plut. Ant. 10,6.
162
Cic. Phil. 2, 74-30,75-30,76.
163
Canfora 1999, ha ben descritto la situazione che si era venuta a creare tra i cesariani.
164
Canfora 1999, pp. 313 ss.
165
Cic. Phil. 2,84-87: 3,12; 13,17-31-42.
62
dovuta alla pesante accusa rivolta da Antonio e Cicerone di vero ispiratore della congiura.
In tutto ciò non si può trascurare la notizia, riferita da Plutarco 166, secondo cui Cesare fu
informato, proprio in quel torno di tempo, di trame contro la sua persona ordite da Antonio,
oltre che da Dolabella. Cicerone sosteneva dunque che, col gesto compiuto ai Lupercalia
del 15 febbraio 44, Antonio «aveva segnato il destino» di Cesare. Questo significa
certamente che quel gesto aveva accelerato l’azione dei congiurati, ma ovviamente non
esclude una eventuale intenzionalità di Antonio in tal senso. Comunque, in questa
dichiarazione c’è una informazione: che la congiura è entrata nella fase operativa dal 15
febbraio. C’è in quelle parole l’ostentazione di una familiarità con gli arcana della congiura
(punto sempre incerto, fino a che livello Cicerone ne fu conscius?). Antonio, da poco
tornato in auge grazie al ritrovato rapporto con Cesare, ritenne che con i Lupercali del
febbraio 44 gli si presentasse un’occasione importante per guadagnarsi la gratitudine di
Cesare offrendogli l’occasione per diventare monarca assoluto: il futuro triumviro doveva
aver interpretato la situazione contingente di Cesare come dominata dal desiderio
inappagato di toccare il vertice del potere anche nominalmente, e pensò che se fosse
riuscito a creare la circostanza adatta perché questo avvenisse, quel giorno di febbraio
sarebbe divenuto memorabile anche per la propria esistenza, per molteplici motivi 167:

1) avrebbe dimostrato la propria riconoscenza al vincitore delle guerre civili, che


lo aveva scelto come collega di consolato nonostante l’assenza dai campi di
battaglia di Tapso e di Munda, e i problemi incontrati nel governo di Roma
durante l’anno in cui era stato magister equitum;
2) avrebbe rafforzato la propria posizione all’interno della fazione cesariana,
scavalcando definitivamente Lepido e Dolabella, e configurandosi come
indiscusso numero due: e la prospettiva poteva essere vista da Antonio come
ancor più vantaggiosa alla luce del fatto che Cesare aveva comunque
manifestato la sua intenzione – indipendentemente dall’accaduto dei Lupercali
– di muovere guerra ai temuti Parti;
3) avrebbe posto le premesse per essere, come afferma Nicola da Damasco, di
nuovo nominato come erede testamentario di Cesare e figlio adottivo;
4) infine, avrebbe stornato i sospetti di fronda 168 che i passati dissensi con Cesare,
la sua assenza da Tapso e da Munda, i debiti verso l’erario, e alcune
frequentazioni sospette, avevano fatto gravare su di lui in un contesto politico
saturo di insoddisfazione generalizzante.

Il piano di Antonio aveva una trama molto ben definita: nella giornata in cui, console e
Luperco, avrebbe rivestito il ruolo di protagonista sulla scena, terminata la corsa, doveva
tenere un discorso adatto alla circostanza e poi offrire il diadema a Cesare, contando sul
sostegno della folla. Questo piano incontrò tuttavia un ostacolo poco ponderato o poco
atteso: esso può individuarsi o nel mancato entusiasmo della folla dinanzi all’offerta di

166
Plut. Caes. 62,10.
167
Cristofoli 2008, pp.147 e ss.
168
Per i quali vd. Plut. Ant. 11,6; Brut. 8,2; Caes. 62,10.
63
Antonio, ovvero nella mancata determinazione di Cesare a cogliere ugualmente
l’occasione nonostante fosse evidente che la folla non aveva apprezzato il gesto di
Antonio169. Egli ebbe comunque la prontezza (ma poteva anche averla messa in conto
come estrema via d’uscita nel momento in cui concepì il piano) di porre Cesare in buona
luce registrando l’accaduto nei Fasti e presentando il dittatore come colui che, all’apice
della gloria e del potere, aveva rinunciato a diventare re. La soluzione adottata da Antonio
si rivelò efficace, ma non dissipò le ombre che il malcontento generale per la nuova
situazione politica aveva disseminato ben prima dell’episodio: molte delle fonti attestano
che dai fatti di quel giorno e dal rafforzato sospetto di adfectatio regni ricevettero ulteriore
determinazione le trame contro la persona di Cesare constatato il reale pericolo che quello,
un giorno o l’altro, potesse davvero imporre un regime monarchico ai Romani 170. Antonio
ha teso a trasformare il suo collega in dominus171; in tal modo, egli ha abdicato non solo
alla propria magistratura, ma più in genere e complessivamente anche alla libertas172.
Siamo evidentemente di fronte ad una interpretazione che vorrebbe presentarsi, nei limiti
del possibile, come in qualche modo “costituzionale”: in essa, mentre offre il regnum, in
questo giorno Antonio agì populi iussu; analogamente, forse in maniera più esplicita, la
basileia sarebbe stata offerta a Cesare “dal popolo attraverso il console” (para tou demou
dià tou hypatou), quando lo stesso Cesare, rifiutandola ordina di inviare il diadema al
tempio di Giove Capitolino nel racconto di Cassio Dione 173. Se dunque la versione
cesariana metteva in primo piano la magistratura di Antonio – pur se Cesare non si
presentava in questa versione come suo collega in quanto console, ma piuttosto come
dictator perpetuus. Ben diversa è la posizione di Cicerone174: “certo questo incarico non ti
proveniva da noi e dal popolo romano”; anzi: il fatto che Antonio alla vista del popolo
romano ( populo Romano inspectante ) osi apparire nudus, unctus, ebrius, e il fatto che in
simili condizioni egli osi parlare dall’alto dei rostra mentre impone il diadema a Cesare,
significa per Cicerone un ribaltamento completo ed inevitabile del suo statuto. Per Antonio
ormai non esiste più posto nelle leggi e nei tribunali ( in legibus et in iudiciis ), leggi e
tribunali che Antonio ha tentato di annientare dominatu regio175. La volontà di offrire il
regnum viene fatta corrispondere, per quanto riguarderebbe Antonio, alla sua capacità di
subirlo; ad avviso di Cicerone, questa capacità di sottomissione ad un dominus non solo lo
rende indegno della magistratura, che gli allora ricopriva, ma lo esclude anche dalla
comunità dei liberi, dalla comunità dei cittadini. Antonio ha inoltre commesso un atto
gravissimo: rompendo il perimetro rituale della corsa dei luperci, ha osato salire nudus sui
rostra e di lì parlare. Nell’accostarsi alla sella aurea di Cesare, nell’offrirgli il diadema, il
fatto di essere lupercus non avrebbe dovuto dunque far dimenticare ad Antonio la sua

169
Cristofoli 2008, pp. 148 e ss.
170
Vell. 2,56,4; Plut. Ant. 12,1; 13,1; Caes. 60,1;62,1; Svet. Iul. 80,1; Flor. 2,14,92; meno esplicite nella
concatenazione causale, pur andando nello stesso senso, le testimonianze di App. civ. 2,111,463; Cass. Dio
44,11,23.
171
Fraschetti 1985, pp. 178 ss.
172
Cic. Phil. 3,12.
173
Cass. Dio 44 11,3.
174
Cic. Phil. 2, 86.
175
Cic. Phil. 2, 87.
64
qualità di console. Appartenenza al sodalizio dei luperci e suprema magistratura cittadina
secondo Cicerone corrispondono infatti a statuti antitetici 176, quasi a voler dire che, se
all’evenienza un lupercus può mostrare ed imporre il diadema, ad un console
evidentemente una simile attitudine non può essere lecita. E tuttavia: se il lupercus mostra
ed impone il diadema, rendendosi in tal modo auctor regni, può farlo non in quanto la festa
di cui egli è protagonista, i Lupercalia, coincida con la fine dell’anno di età regia, né per
vaghe suggestioni romulee, né perché la festa sia in qualche modo connessa con il regnum.
Quasi paradossalmente, un lupercus può essere tanto più facilmente auctor regni in quanto
ritualmente escluso, quel determinato giorno, dalla comunità dei cittadini.

Secondo Fufio Caleno l’episodio era avvenuto nel Foro poiché appunto nel Foro erano stati
emanati «tanti provvedimenti in difesa della libertà»; più in particolare dalla tribuna degli
oratori, i rostra, poiché appunto da quella tribuna erano stati proclamati «mille decreti in
favore della democrazia»; nel corso della festa dei Lupercalia perché il dittatore si
ricordasse di Romolo, e dunque implicitamente della sua morte miserevole; dalla bocca di
un console (nel caso specifico lo stesso Antonio) perché lì venissero in mente le imprese
dei consoli dei tempi più antichi; da uno che parlasse in nome del popolo perché Cesare
riflettesse su questo: che cercava di stabilire la propria tirannide (tyrannein) non su
«Africani, Galli o Egizi, ma sugli stessi Romani». Antonio dunque, quel giorno, avrebbe
evitato «la tirannide di Cesare con astuzia e con intelligenza», inducendo il dittatore a
recedere dai suoi piani originari177.

Ugo Bianchi178 si chiede a tale proposito «se si dia una connessione tra l’offerta a Cesare
del diadema e il fatto che ad offrirla fosse proprio un magister dei Luperci, durante i
Lupercali», e se «questa connessione si possa ritrovare in rebus ipsis, o almeno nella
psicologia di color che furono i protagonisti dell’episodio, Cesare e Antonio». La risposta,
positiva, egli la individua specialmente «nella tendenza ad attribuire alla persona di Cesare
un aspetto romuleo» o meglio nella «tendenza di Cesare a interpretarsi in funzione
romulea». Antonio, che a sua volta vantava una discendenza erculea, «nota a Cesare e
rispettata da lui», avrebbe concepito spontaneamente l’offerta della corona anche se il suo
piano in realtà «corrispondeva, più o meno, alle intenzioni del dittatore».

La ricchezza della tradizione storiografica antica e le tendenze che ne affiorano non


devono impedirci di considerare che le divergenze sono più nell’interpretazione
dell’episodio e delle intenzioni dei suoi protagonisti che nel suo svolgimento. Esso, ridotto
all’essenziale, si ritrova in tutte le fonti (tranne i Commentarii augustei) raccontato allo
stesso modo; alcuni particolari, presenti in un’unica fonte (p.e. il rammarico di Lepido in
Cicerone, il sollevamento di Antonio verso la tribuna da parte degli altri Luperci in

176
Naturalmente, questa antitesi si ricava non solo dai passi delle Filippiche 2-3, su cui si è richiamata
l’attenzione, ma in modo estremamente chiaro anche dalla caratteristica del sodalizio dei Luperci come essa
era enunciata da Cic. Cael. 26.
177
Cass. Dio 46, 19, 4-7; sui rapporti di Fufio Caleno e Antonio basti il rinvio a Syme 1962, p. 135. Per il
giudizio di Cicerone su di lui dopo le idi di marzo vd. Cic. Phil. 8,19.
178
Bianchi 1958, pp. 253-259.
65
Plutarco), sono plausibili, ma non trovano conferma altrove. Ci sembrano invece meno
persuasive altre interpretazioni che dei Lupercali del 44 hanno dato studiosi autorevoli, e le
cui ricerche hanno comunque contribuito a mettere in miglior luce molti particolari
dell’episodio:

1) Cesare e Antonio organizzano congiuntamente la messinscena per rendere


evidente il fatto che Cesare non fosse interessato alla monarchia 179:
quest’intepretazione si scontra contro la circostanza oggettiva che nessuna fonte
antica la conforta, e contro la considerazione più oggettiva che il rischio
dell’excusatio non petita sarebbe stato troppo grosso;
2) Cesare e Antonio organizzano congiuntamente, forse anche con la cooperazione
di altri cesariani, la messinscena, per rendersi conto di quale gradimento
avrebbe ottenuto presso il popolo la prospettiva dell’instaurazione di una
monarchia ed approffitarne in caso di reazione favorevole 180: alcuni fonti
potrebbero avvalorare questa tesi, che infatti ha raccolto i consensi della
maggior parte degli studiosi moderni, ma essa presenta il punto debole
costituito dal fatto che solo Cicerone ci presenta una folla apertamente
contraria, mentre alcuni autori parlano anche di applausi pur timidi;
3) Antonio concepisce l’iniziativa da solo o con la complicità di esponenti
dell’opposizione aristocratica alla scopo calcolato di dimostrare a Cesare che
una monarchia non sarebbe stata gradita dai Romani181; quest’interpretazione ci
sembra tuttavia sminuire l’intelligenza politica di Antonio. Ma anche
ammettendo che Antonio fosse stato così ingenuo, o disposto a correre questo
rischio: e se il popolo e Cesare avessero preso bene l’offerta del diadema? A
parte Cicerone, nessun’altra fonte afferma che la folla fin da subito abbia
dissentito rumorosamente di fronte all’offerta del diadema (il che è anche prova
di come gli oppositori di Cesare non si fossero organizzati in questo senso:
circostanza strana). E se Cesare avesse colto al volo l’occasione e si fosse posto
sul capo il diadema? Il risultato sarebbe stato che Antonio, ed eventualmente i
conservatori suoi complici, gli avrebbero servito su un piatto d’argento la
possibilità di diventare re, concretizzando così con le proprie mani i loro incubi;
4) sarebbe al limite preferibile, rispetto a questa, l’interpretazione di quanti hanno
pensato che i nemici di Cesare fossero stati sicuri dell’insuccesso del tantativo
di Antonio, e lo avessero indotto ad attuarlo approffitando della sua
ingenuità182.

Queste interpretazioni che abbiamo riassunto e discusso presentano tutte, a nostro vedere,
il limite di non concedere il dovuto rilievo ed il giusto spazio alla strategia di Antonio, il

179
Così Holmes 1923, pp. 334 ss.; Zecchini 2001, pp. 11 ss.
180
Su questa sostanziale scia Alföndi 1952-53, pp. 6 ss.; Dobesch 1966, pp. 118 ss.; Huzar 1978, p.78;
Chamoux 1988, p. 77.
181
Così, tra gli altri, Kraft 1952-53, pp. 55 ss.
182
Così Sordi 2000, pp. 312 ss.
66
quale era invece uomo in grado di concepire autonomamente delle iniziative politiche che,
in quella fase, non potevano essere che tese ad ampliare il potere di Cesare.

3.3 C. Epidio Marullo e L. Cesezio Flavo


Alla metà di gennaio del 44 un diadema – simbolo della regalità ellenistica – viene posto
sulle statue di Cesare che stavano sui Rostri: due tribuni della plebe, C. Epidio Marullo e
L. Cesezio Flavo, lo fanno rimuovere, ma Cesare mostra di prendere molto male la loro
decisione, dando con ciò adito ad ogni supposizione 183. Il 26 gennaio, mentre tornava dalle
Feriae Latinae, Cesare viene salutato da alcuni simpatizzanti come rex, ed ancora gli stessi
due tribuni della plebe processano il primo che pronunciò quel termine: Cesare, che aveva
mostrato di non gradire di essere chiamato in quel modo, nondimeno destituì i due tribuni
dalla carica184.

Tutte le nostre fonti sono d’accordo nel collegare l’incoronazione della statua di Cesare
con un diadema e il saluto a lui rivolto come re al suo ritorno dalla celebrazione delle
Feriae Latinae, con lo scontro fra Cesare e i tribuni Cesezio e Marullo e la loro
deposizione dalla carica tribunizia. La versione più interessante è quella di Nicola da
Damasco che riassume il discorso tenuto da Cesare al senato, riunito nel tempio della
Concordia, e riferisce l’accusa da lui mossa ai tribuni di avere essi stessi, di nascosto posto
il diadema sulla statua dei rostri, per screditarlo apertamente e apparire uomini coraggiosi
nel suo disonore, senza rispettare né lui nè il senato. Ciò che avevano fatto, rivelava – egli
disse – un disegno e un’insidia più grande: l’intenzione di calunniarlo davanti al popolo,
come se aspirasse a una signoria illegale, così da ucciderlo dopo essersi fatti iniziatori di
una rivoluzione. L’atto gravissimo della deposizione dei tribuni della plebe, garantiti da un
unico giuramento185 e tale da richiamare il ricordo dell’abuso di Ti. Gracco contro Ottavio,
nasceva dunque da un’accusa altrettanto grave: Cesare imputava la montatura ai suoi stessi
avversari e vedeva nell’offerta del diadema un mezzo per incriminarlo. E se l’assunzione
della dittatura perpetua subito dopo questo episodio non sia nata, nelle intenzioni di
Cesare, dalla volontà di dimostrare l’origine romana e non ellenistica del potere che egli
intendeva gestire e di smentire ogni sua aspirazione al diadema e alle forme orientalizzanti
di tale potere?186

Alla luce dell’accusa mossa da Cesare ai due tribuni della plebe forse si può leggere
l’episodio dei Lupercali.

183
Nic. Dam. 2, 90, fr. 130, 20, 69; Svet. Iul. 79,1; App. civ. 2,108,449; Cass. Dio 44, 2-3; errata la
collocazione cronologica che dell’episodio danno lo stesso Nicola di Damasco in un altro passo della sua
opera (Nic. Dam. 2,90 fr.130,21,75), e Plutarco nella biografia di Cesare (Plut. Caes. 61,8-10).Cfr. Cristofoli
2002, p.16.
184
Nic. Dam. 2,90, fr. 130,21,73; Cic. Phil. 13,15,31; Plut. Caes. 60,3; Svet. Iul. 79,2; App. civ. 2,108,450-
453; Cass. Dio 44,10. Cfr. Carcopino 1968, pp. 560 ss.; Cristofoli 2002, pp. 16 ss.
185
App. civ. 2,108.
186
Sordi 2000, pp. 153 ss.
67
Conclusione
La ricchezza della tradizione storiografica antica e la varietà di tendenze che ne affiorono
non devono impedirci di considerare che le divergenze sono più nell’interpretazione
dell’episodio e delle intenzioni dei suoi protagonisti che nel suo svolgimento.

Stando così le cose e indipendentemente dalle motivazioni proposte già dagli antichi, si
prospettano cinque possibilità teoriche di spiegare i Lupercalia del 44187:

1) l’iniziativa fu dei nemici di Cesare per metterlo in cattiva luce e Antonio si


prestò ingenuamente al loro gioco;
2) l’iniziativa fu di Antonio per distogliere Cesare dall’intenzione di farsi re
davanti alla reazione ostile del popolo;
3) l’iniziativa fu di Antonio per forzare Cesare ad accettare il titolo di re;
4) l’iniziativa fu di Cesare ed Antonio insieme per saggiare le reazioni del popolo
e, in caso favorevole, proclamare la monarchia;
5) l’iniziativa fu di Cesare e Antonio per allontanare una volta per tutte ogni
sospetto di progetti monarchici.

La prima possibilità è adombrata da Augusto nei Commentarii de vita sua, ma presuppone


che se accolga la versione, isolata contro tutte le altre; presuppone inoltre un tale grado di
irresponsabilità da parte di Antonio, che solo Augusto poteva attribuirgli. La seconda
possibilità è quella, filoantoniana e anticesariana, che Cassio Dione pone in bocca a Fufio
Caleno nella sua replica al discorso di Cicerone (una sintesi delle Filippiche188)189: essa
presuppone un grave dissidio tra il dittatore aspirante re e un Antonio repubblicano. La
terza possibilità, sostenuta apertamente dal solo Cicerone nelle Filippiche, è inficiata dalla
necessità polemica del momento, mirante a denigrare Antonio, e si espone alla medesima
obiezione della seconda. La quarta possibilità è quella che ha riscosso più successo tra gli
antichi e i moderni: Cassio Dione la sostiene a chiare lettere, anche Plutarco le aveva
donato il proprio assenso. Appiano la adombra, anche se cerca di scagionare Cesare e di
attribuire ogni responsabilità all’impetuoso Antonio; su questa base tutti gli studiosi che
credono nei progetti monarchici di Cesare – e basti pensare alla monarchia ellenistica
delineata da Meyer 190 e a quella romulea formulata da Alföldi191 – si sono schierati a
favore di tale interpretazione e di conseguenza hanno spesso forzato in modo, come si è
visto, del tutto indebito, il significato dei Lupercalia quale festa di regalità istituita da
Romolo.

Resta invece la quinta possibilità, quella di cui nessun antico parla, ma che è la più
plausibile, perché salva sia l’accordo tra Cesare ed Antonio, sia la razionalità del loro
comportamento. Questa soluzione era già stata intravista da Gelzer e poi ripresa da Welwei

187
Zecchini 2001, pp. 25 ss.
188
Cic. Phil. 17, 6-8 e 19, 4-6.
189
Cass. Dio 44, 1-28.
190
Meyer 1963, pp. 213 ss.
191
Alföldi 1951, pp. 190 ss.
68
e Martin, che però giudicano temporaneo il rifiuto di Cesare, in attesa di rilanciare in
Oriente il discorso monarchico: così essi indeboliscono la loro stessa interpretazione. La
soluzione è valida solo in funzione di un rifiuto sine die: dunque che Cesare d’accordo con
Antonio organizzasse l’episodio dei Lupercalia per respingere definitivamente il sospetto
di aspirare al regno, quanto a suo tempo intuito dalla Rawson 192.

A questo punto bisogna porsi la domanda: la messinscena organizzata da Cesare e Antonio


ai Lupercalia riuscì? Ottenne l’effetto sperato di convincere i Romani che il dittatore non
aspirava al titolo regale? Nonostante le apparenze contrarie (Cesare fu ucciso appena un
mese dopo e da Cicerone in poi è diffuso nella tradizione il collegamento tra il nostro
episodio e il cesaricidio) credo che la risposta possa essere affermativa193. Inoltre in tutta
l’abbondante produzione letteraria di Cicerone nel 44 si insiste sul fatto che Cesare era
stato ucciso a buon diritto, perché il suo potere era tirannico e assoluto come quello di un
re, ma non si allude mai ai Lupercalia quale causa scatenante la congiura. Solo nel marzo
43 con la famosa declamazione della XIII Filippica, si inizia a parlare del rapporto di
“causa-effetto” tra i Lupercalia e la congiura194.

Sebbene la conclusione persuasiva che nell’immediato l’opera di convincimento promossa


da Cesare e culminata nei Lupercalia fu efficace, essa apre però subito due altri problemi,
perché mai allora si giunse alla Idi di marzo e perché un anno dopo si ritenne di doverle
giustificare con l’adfectatio regni?

Credo che alle vere origini della congiura ci sia stata la constatazione che il potere di
Cesare era ormai non di nome, ma di fatto una monarchia; Cicerone l’aveva già definita
così, regnum, sin dal 2 agosto del 45 in una lettera ad Attico 195. In concreto la reazione a
tale traumatico distacco dal mos maiorum furono le Idi di marzo. Se un anno dopo si
attribuì la morte di Cesare a l’adfectatio regni, ciò fu dovuto alla necessità da parte
ottimate di fare i conti con il provvisorio alleato Ottaviano, che aveva impostato tutta la sua
ascesa politica sull’esigenza di vendicare il padre adottivo; allora quei conservatori come
Cicerone, che avevano simpatizzato per i cesaricidi e ora si trovano a collaborare con il
loro acerrimo nemico, abbandonarono la tesi del tirannicido per quella del regicidio. In
realtà Cesare era stato veramente ucciso ai Lupercalia, non però dalla tentata
incoronazione da parte di Antonio, bensì dall’assunzione ufficiale della dittatura
perpetua196.

Il 15 febbraio del 44 a.C. Cesare rifiutò il diadema: esempio ulteriore, come avrebbe detto
Carcopino, di “una monarchia mancata”197. Si sa che Cesare fu considerato, nel I secolo
d.C. e anche dopo, il primo imperatore romano: il console del 41, al momento
dell’uccisione di Caligola, poteva addirittura dire che erano passati 100 anni dalla fine
192
Gelzer 1960; Welwei 1967, pp. 48-69; Martin 1988 e 1994; Rawson 1975, pp. 148-159.
193
Cfr. Dobesch 1966, p. 119.
194
Cic. Phil. 2,86.
195
Cic. Att. 13,37,2.
196
Zecchini 2001, p.34.
197
Carcopino 1975, pp. 600 ss.
69
della repubblica, facendo così cominciare l’impero dal primo consolato di Cesare del 59
a.C.198 Giulio Cesare non ebbe mai il titolo di "principe del senato" o di "Augusto" come
Ottaviano. Tuttavia fu dittatore dal 49 al 44 a.C., come non era mai successo in
precedenza, e il titolo di imperatore nel suo significato moderno corrispose al titolo di
Cesare nella storia di Roma almeno fino all'inizio della tetrarchia. Svetonio 199 infatti, nelle
sue Vite dei dodici Cesari, inizia la sua narrazione proprio a partire da Giulio Cesare.

198
Fl. Joseph A.J. 19, pp. 159 ss.
199
Svet. Iul. 1.
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