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Riccardo Pagano - Lezione di sintesi.

Pedagogia della marginalità e della devianza

Indice

1 LEZIONE DI SINTESI. PEDAGOGIA DELLA MARGINALITÀ E DELLA DEVIANZA ...................................................... 2


BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................................. 8

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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1 Lezione di sintesi. Pedagogia della marginalità e


della devianza

“Per analizzare le implicazioni culturali, ideologiche e sociali associate al fenomeno della

devianza occorre fare a ritroso un cammino che renda espliciti alcuni fondamentali passaggi che

si sono prodotti in corrispondenza dell’età moderna con il progressivo affermarsi dapprima di un

modello di economia mercantile, e successivamente di un modello industriale, cui ha corrisposto

l’ascesa della borghesia. Si tratta, cioè, di inquadrare in che modo si è prodotta una

trasformazione sostanziale delle pratiche finalizzate al trattamento delle diversità e dei soggetti

marginali, che a partire dalla fine del Medioevo hanno via via spostato l’attenzione di tali interventi

sulla personalità individuale, fino all’emergere di una nuova consapevolezza scientifica costruita

intorno alla categorizzazione patologica del soggetto ‘anormale’.

Per sviluppare pienamente gli aspetti di tale problematica è forse opportuno partire dalla

domanda apparentemente più semplice: chi sono i diversi? O, per circoscrivere dal punto di vista

epocale l’argomento, in che modo si pone la questione della diversità sociale con il passaggio

all’età moderna? Un problema che, facendo riferimento alle ricerche e agli studi di Michel

Foucault, può essere certamente ricondotto alle molteplici risposte che si sono avute storicamente,

ma che trovano un significativo punto di condensazione nella categorizzazione della follia come

condizione di esclusione e marginalizzazione in rapporto al dispiegamento di una Ragione assoluta;

a partire dal XVII secolo la follia si trova ad abitare quella regione dell’esclusione che in qualche

modo l’avvicina a un’altra grande plaga dell’umanità, la lebbra, sulla quale già da tempo si era

consolidato un modello di marginalizzazione ed esclusione. Se la lebbra costituisce il punto di

applicazione delle pratiche sociali che sanciscono l’esclusione del lebbroso rigettandolo oltre i

confini della città, il riconoscimento della follia prescrive la segregazione dell’insensato nello spazio

confusivo dell’internamento delle grandi istituzioni ospedaliere che, a partire dalla metà del 1600, si

trasformano nei luoghi elettivi per il trattamento degli alienati.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
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La diversità, attraverso la pratica dell’internamento, assume dunque il volto della follia,

coagulando intorno a tale definizione una molteplicità di soggetti caratterizzati da una sostanziale

eterogeneità: la popolazione che affollava gli spazi degli istituti deputati all’internamento era

ascrivibile alle più svariate configurazioni sociali di ribelli, fannulloni, bugiardi, ubriaconi, mendicanti,

impudichi, bestemmiatori, profanatori, libertini, deliranti. La possibilità di costringere assieme tante e

differenti figure nello spazio coercitivo della reclusione e dell’internamento è data dal

cambiamento della percezione sociale intorno al rapporto tra povertà e lavoro e della

conseguente codificazione morale dei comportamenti riconducibili al rifiuto di un ordine

economico e sociale che va affermandosi: la dimensione della diversità si colloca nell’orizzonte

economico e morale della necessità del lavoro e della regolamentazione di quella popolazione

inoperosa che costituisce un costante pericolo per l’ordinamento pubblico. L’internato diviene in

tal senso oggetto dell’investimento delle pratiche sociali in quanto soggetto morale e produttivo

che rinvia alla problematizzazione dell’incapacità di lavorare e all’impossibilità di integrarsi nella

comunità.

Il XVII e parte del XVIII secolo sono dunque caratterizzati, in rapporto alla possibilità di definire

le condizioni di diversità e di marginalizzazione sociale, da un principio di esclusione a cui si

collegano meccanismi ed effetti di allontanamento, di proscrizione, di rigetto, di disconoscimento,

che possiamo riferire all’azione di un dispositivo di esclusione che è strettamente connesso al

modello di pratiche sociali emerso in rapporto al fenomeno della lebbra. Tale dispositivo opera

principalmente sul piano della separazione e della distinzione di una massa, indifferenziata al

proprio interno, di potenziali untori che vanno per questa ragione allontanati per salvaguardare la

purezza della comunità; è in gioco dunque un principio di squalificazione e di esilio incentrato sul

marchio che contraddistingue la diversità di tali soggetti, alla base del quale agisce una logica

semplificata di tipo binario tipica dei meccanismi di esclusione: folle-ragionevole, malato-sano,

anormale-normale. L’aspetto rilevante, sul piano storico, è dato dall’investimento sul soggetto in

quanto portatore di rischio, sennonché l’azione di un modello basato sul principio di esclusione

produce il dissolvimento della singolarità in favore di una massificazione confusa; nella logica

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specifica del funzionamento del dispositivo di esclusione non è tanto l’individuo in sé a costituire

l’oggetto del trattamento e dell’investimento delle pratiche sociali, quanto quella massa

multiforme di potenziali sovvertitori dell’ordine che per analogia sono accomunabili ai lebbrosi e

che pertanto è necessario separare dal corpo sociale per isolarli, rinchiuderli e segregarli,

allontanando il pericolo del contagio. A questo primo modello se ne è sovrapposto, a partire dal

XVI secolo, un secondo molto più efficace sul piano delle necessità di controllo sociale; un modello

basato sul principio disciplinare dell’inclusione strettamente legato ai meccanismi e alle pratiche

sociali connesse al fenomeno della peste. Se nei confronti del flagello della lebbra viene

dispiegato un insieme di azioni finalizzate alla separazione e all’allontanamento della massa

contagiosa, la città appestata pone in essere la necessità di una meticolosa differenziazione tra gli

individui, che ne determina una rigida ripartizione dentro spazi definiti: divisione del territorio,

organizzazione gerarchica, osservazione e registrazione di ogni spostamento, rilevazione costante

della presenza individuale.

È in gioco un meccanismo di incasellamento e di individualizzazione che rappresenta tutta la

forza del modello disciplinare così configurato; l’individuo nella sua specificità diviene l’oggetto di

investimento di un potere che fruga, controlla, verifica costantemente se questi è conforme alla

regola stabilita, se corrisponde alla norma di salute. Se, dunque, il modello di controllo fondato

sull’esclusione corrispondeva a un’idea di purezza del corpo sociale, entro cui la diversità veniva

compresa in una logica di distinzione binaria che ne prescriveva la marginalizzazione sociale, da

cui per altro era sostanzialmente escluso il principio del recupero sociale (fatta eventualmente

eccezione per quelle strategie di coercizione al lavoro di cui sono espressione le istituzioni nate nel

corso del XVII secolo finalizzate al recupero di forza lavoro e produttività tra i soggetti marginali),

questo secondo modello di controllo sociale articolato sulla base di un principio di inclusione,

definisce la questione della diversità a partire dalla individualità stessa dei soggetti, dalla loro

collocazione nella fitta trama di un potere che ne investe gli spazi, i tempi, il corpo stesso,

misurandone la corrispondenza con i dettami normativi e disciplinari fissati a livello sociale. Si

produce un passaggio decisivo in direzione della possibilità di analizzare nell’individuo stesso

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l’insorgenza di quei caratteri e di quegli elementi che costituiscono il discrimine tra normalità e

anormalità, istituendo in tal modo il dominio degli interventi e dei trattamenti destinati al soggetto

in funzione della correzione sociale. A un modello teso a esercitare il controllo attraverso la

marchiatura del diverso e il suo allontanamento se ne sovrappone un altro che ripartisce, addestra

e corregge la diversità al proprio interno, per moltiplicare l’effetto disciplinare. Come ha ben

delineato Michel Foucault, «direi pressappoco che la sostituzione del modello della lebbra con il

modello della peste corrisponde a un importante processo storico che definirò con poche parole:

l’invenzione delle tecnologie positive di potere. La reazione alla lebbra è una reazione negativa; è

una reazione di rigetto, di esclusione. La reazione alla peste è una reazione positiva; è una

reazione di inclusione, di osservazione, di formazione di potere, di moltiplicazione degli effetti di

potere a partire dal cumulo dell’osservazione e del sapere. Si è passati da una tecnologia del

potere che scaccia, che esclude, che bandisce, che marginalizza, che reprime, a un potere che

fabbrica, che osserva, che sa e si moltiplica a partire dai suoi propri effetti» 1.

Un modello si sovrappone all’altro, nel senso che in realtà essi non si escludono tra loro,

semmai si produce un’applicazione dei due principi sottesi a tali modelli nel vasto ambito della

diversità, per cui se il primo si rende indispensabile per differenziare i soggetti sulla base dello

schema binario normalità e anormalità, il secondo rende praticabile quell’operazione di

distribuzione e ripartizione delle diversità all’interno delle istituzioni preposte al trattamento specifico

dell’anormalità che a partire dal XIX secolo configurano lo sviluppo del potere disciplinare: l’asilo

psichiatrico, la casa di correzione, il carcere, gli istituti di sorveglianza con caratteristiche

educative.

È fondamentale, quindi, ripercorrere l’effetto di spostamento che si è prodotto nella

definizione della devianza, dal suo carattere di eccezionalità verso cui la risposta del potere era di

tipo espulsivo-repressiva, al carattere diffuso di una istanza soggettiva e individuale, da cui

scaturisce la possibilità stessa per le scienze umane di fondare il proprio oggetto e di fermare il

1
M. Foucault, Lezione del 15 gennaio 1975, in Id., Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), tr. it.,
Feltrinelli, Milano 2000, p. 51.

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proprio sguardo scientifico sull’individualità e sulla singolarità umana. Alle soglie del 1800 la

percezione della diversità e dell’anomalia conosce una sostanziale rideterminazione, tanto che la

categorizzazione della follia, intorno alla quale si erano aggregati i principali significati del

comportamento abnorme, non può più essere sufficiente a comprendere la molteplicità di forme

della devianza; è all’interno di una differente percezione scientifica dei comportamenti che si

definiscono criminali, antisociali, immorali, contro natura, che occorre ricercare il principio di una

nuova formazione discorsiva intorno alla quale si sedimentano categorie di analisi connesse a

pratiche di intervento specificamente rivolte al controllo sociale della devianza. Inoltre è attraverso

questa nuova disposizione concettuale che si rende visibile la possibilità stessa di studiare il

Soggetto nei molteplici aspetti che lo caratterizzano dal punto di vista individuale e sociale,

aprendo di fatto la via all’organizzazione dei saperi relativi alla soggettività attraverso la nascita

delle discipline sociali. Tale spostamento, che ha il proprio correlato politico e amministrativo nella

tecnologia positiva di potere del dispositivo disciplinare, con il dispiegamento di una metodologia

di osservazione addestramento, inclusione, che investe ogni individuo nella comunità, ha inoltre un

correlato discorsivo ed epistemologico nell’intreccio dei diversi contributi disciplinari che danno

luogo all’organizzazione del sapere e del potere di normalizzazione come teorizzazione e come

tecnica applicabile alla figura generalizzata del deviante. Ma la piena apparizione di una

tecnologia di potere funzionale alla normalizzazione sociale è in realtà l’esito di un lungo processo

che attraversa il XVIII secolo e che vede aggregarsi attorno ad alcune specifiche figure

concettuali la problematizzazione dell’anomalia.

Di fatto è solamente nel XIX secolo che si definisce in tutta la sua portata il campo

dell’anomalia, ma è all’interno dei profondi mutamenti epistemologici del XVIII secolo che

riguardano la medicina da un lato, e il sistema giudiziario assieme al sapere giuridico dall’altro, e al

loro inevitabile intreccio, che ci si deve rivolgere sul piano dell’analisi di tale campo. Se dunque si

prosegue lungo l’asse di riflessione indicato dalla ricerca foucaultiana, è possibile riferirsi a tre

fondamentali figure dell’anomalia [il mostro, l’incorreggibile, l’onanista] a cui far risalire il substrato

genealogico di quel concetto di anormalità, che perverrà nel corso del 1800 alla definizione

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generale del soggetto deviante, le cui caratteristiche sono ad oggi ancora parzialmente presenti

nelle analisi dei saperi disciplinari intorno ai fenomeni devianti. Tre elementi che afferiscono ai

relativi ambiti di intervento sociale e che, contemporaneamente, rinviano l’uno all’altro

consentendo di operare quel decisivo intreccio, sul piano storico e culturale, che ha permesso di

superarne la distinzione concettuale attraverso la convergenza degli elementi di problematicità

sociale, familiare, medica, giuridica, pedagogica, in un unico punto di applicazione

teorico/pratica, l’individuo anormale”.

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Bibliografia

• Barone Pierangelo, Pedagogia della marginalità e della devianza. Modelli

teorici, questione minorile, criteri di consulenza e intervento, Guerini, Milano

2019;

• Foucault Michel, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), tr. it.,

Feltrinelli, Milano 2000.

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