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Pedi 2021 Fara 1 Din 4.11 Si 18.11
Pedi 2021 Fara 1 Din 4.11 Si 18.11
07/10/21
Prima ora
Sbobinatrice: Giorgia Sari
Introduzione
Quando andiamo a prendere in considerazione la pediatria parliamo di un ambito abbastanza
ampio, che comprende molte branche della medicina interna del bambino, come la cardiologia,
l’ematologia, l’infettivologia e così via. Nella nostra trattazione troveremo delle patologie che voi
già conoscete dalla medicina interna, dalla clinica medica e dalla patologia medica ma certamente
con aspetti particolari e situazioni completamente diverse rispetto a quello che siete abituati a
vedere, perché il bambino non è un “adulto in miniatura” ma è un paziente completamente
diverso, con caratteristiche diverse, non soltanto dal punto di vista metabolico e fisio-patologico
ma anche farmacologico (diverse sono la farmacodinamica e la farmacocinetica).
E’ importante anche capire di che cosa di occupa la pediatria. Fino ad un decennio fa la pediatria si
occupava delle malattie più tipiche del bambino, quindi di polmoniti, delle epilessie, del ritardo
mentale, ecc. come qualsiasi altro corso di clinica. In realtà nel corso dei decenni c’è stata una
serie di altre problematiche che fanno parte della pediatria, come le problematiche neuro-
psichiatriche (tra cui alcune dal forte impatto come l’anoressia, la bulimia, le tossicodipendenze, la
dipendenza da alcol, la dipendenza da videogiochi, l’abbandono sociale, i femminicidi). Questo per
spiegarvi come cambia velocemente la pediatria e di conseguenza la terapia. Molte malattie della
pediatria legate a delle mutazioni di un gene (es. malattie del metabolismo, mucopolisaccaridosi,
distrofie muscolari) fino a 10-15 anni fa erano definite “incurabili”, oggi abbiamo la terapia genica,
la terapia enzimatica ricombinante che ci permette di sostituire un gene mutato oppure di
sostituire l’enzima mancante in un determinato organo/apparato. Questi sono concetti importanti
da ricordare perché fanno parte della pratica medica di oggi. Questo implica la conoscenza della
genetica e delle tecniche di modificazione del DNA, tra cui la Crisp, che permette di “agire
chirurgicamente” a livello del DNA malato per poter ripristinare la trascrizione.
Libro di testo consigliato: “Manuale di Pediatria”, Tom Lissauer & Will Carroll
Nell’ambito del corso ci sono degli argomenti particolari, tra cui lo studio e la valutazione delle
problematiche/patologie del neonato. Perché è un argomento particolare? Perché il neonato,
all’interno della pediatria ha a sua volta esigenze particolari. Oggi parleremo quindi di
neonatologia.
I neonati prematuri sono un po’ diversi rispetto ai normopeso quando li visitiamo. Sono ipotonici,
la cute è sottile e molto arrossata, spesso c’è ittero, un cranio che appare più voluminoso del
normale, la parte ossea è sottile e facilmente deformabile, pochi capelli, addome globoso,
frequenza cardiaca e respiratoria più elevata (tanto più elevata quanto prematuro è il bambino) e
così via. Questo è un bambino prematuro ma che non ha patologie ma ha comunque bisogno di
attenzioni perché ha una termoregolazione scadente, è a rischio di deficit respiratorio e di
alterazioni della circolazione, è inoltre più a rischio di shock cardiaco, ci possono essere
malformazioni cardiache, ha una tendenza ad andare verso un catabolismo (ipoglicemia, disturbi
elettrolitici), è più suscettibile alle infezioni (il sistema immunitario è deficitario tanto più il
bambino è prematuro).
3. Indice di Apgar: è un indice che ci permette di capire rapidamente e senza l’uso di
particolari strumenti se il bambino è vitale o no. Solo con l’ispezione del neonato. Prende il
nome dalla pediatra americana Virginia Apgar che ha ideato questo punteggio dove vedete
che si prendono in considerazione 5 parametri. Ad ognuno di questi parametri viene dato
un punteggio da 0 a 2. Sono parametri clinici che noi possiamo definire solo osservando il
bambino. Il risultato finale potrà quindi andare da 0 a 10. Quando si applica questo indice
di Apgar? Al primo ed al quinto minuto di vita. Se i parametri sono troppo bassi va poi
ripetuto a dieci minuti di vita. Quando un bambino viene dimesso dalla neonatologia il suo
indice di Apgar ad uno e cinque minuti è sempre scritto nella sua cartella clinica.
Quali sono i parametri di normalità? L’indice di Apgar deve essere tra 8 e 10. Se la vitalità è scarsa
è tra 4 e 7, se non è vitale (punteggio sotto a 3 compreso) il bambino va rianimato con intubazione
eseguita da un anestesista. Per questo
viene fatto al primo minuto di vita, se
il bambino ha bisogno possiamo agire
subito. Inoltre l’indice di Apgar correla
molto bene con l’incidenza di danni
neurologici che il bambino può avere a
distanza. Un indice basso spesso è un
fattore prognostico sfavorevole per lo
sviluppo psicomotorio del bambino.
Un neonato sano inoltre riesce a sollevare il capo, è importante studiarne i riflessi che devono
essere già presenti come gli osteotendinei ma anche gli “arcaici”, riflessi tipici del neonato che poi
devono scomparire nelle epoche successive. Un esempio è il riflesso di Babinsky, che nei primi 18-
24 mesi di vita è normale che ci sia perché deve completarsi il corretto sviluppo del sistema
piramidale. Ovviamente nel neonato dobbiamo controllare che il riflesso di Babinsky ci sia.
Il concetto è che devono esserci certi riflessi che il medico deve valutare ma soprattutto che con il
passare del tempo certi riflessi devono andare via. Questo perché i riflessi neonatali sono un
parametro importante per seguire e valutare
il fisiologico sviluppo del bambino, che
cambia di mese in mese.
Pediatria, 07/10/2021 seconda ora, prof. Verrotti
Sbobinatore: Belardi Adriana
Ovviamente il momento più importante della nostra vita è il parto, in questo caso ne parliamo
perché il parto può nascondere il rischio di una asfissia perinatale, un elemento di cui parleremo
tra qualche minuto che quando si verifica ovviamente ha delle conseguenze importantissime per il
neonato. Quindi partiamo da questo, vediamo, al di là della durata della gravidanza, che cosa
succede al momento del parto. In sala parto bisogna:
Posizionare il bambino
Aspirare le vie aeree per fare passare l’aria (il bambino è stato immerso in un liquido fino a
questo momento), bisogna essere sicuri che il bambino sia libero dalle secrezioni e possa
respirare. Il primo respiro che il bambino fa è fondamentale, perché si è interrotto il
passaggio di ossigeno che arrivava attraverso la placenta.
Sicuramente è importante verificare che l’esofago sia pervio (ci sono delle malformazioni
dell’esofago come l’atresia esofagea), lo stesso le coane.
Bisogna stimolare la pianta del piede o il dorso del bambino per cercare di stimolare la
respirazione.
Dopo queste piccole manovre iniziali siamo quindi arrivati al primo minuto di vita e quindi
facciamo l’Apgar. Già quando siamo arrivati a 1 minuto, facendo l’Apgar abbiamo un’idea se
preoccuparci o meno della salute di questo bambino.
Poi lo mettiamo sotto una fonte di calore perché ovviamente la temperatura del bambino non deve
scendere. E vedete già qui un aspetto importante: grosso modo la perdita di calore è tanto maggiore
quanto il peso alla nascita è basso, quindi è chiaro che chi nasce con un basso peso è a rischio
maggiore di sviluppare una ipotermia.
Valutiamo l’attività respiratoria e la frequenza cardiaca (già compresi nell’indice di Apgar).
Ovviamente quello che conta nel primo respiro è che il liquido amniotico all’interno del quale si
trova il neonato viene riassorbito, le arterie ombelicali vengono chiuse, e tutto il microcircolo
polmonare si dilata per poter assorbire l’ossigeno che arriva dai polmoni. Quando questo non
succede ci possono essere dei segnali di compromissione della adeguata attività respiratoria:
Il bambino è cianotico
Ha una bradicardia
Ha una pressione bassa (quindi dobbiamo misurare la
pressione del bambino)
Non riesce a espandere bene la gabbia toracica
È ipotonico perché riceve poco ossigeno.
Questi 5 punti sono i segnali di allarme per un non adeguato
adattamento cardio-respiratorio al momento della nascita.
Siccome questo adattamento deve avvenire al primo respiro,
quindi al primo secondo di vita, dobbiamo guardare il bambino
e renderci conto se ha uno di questi 5 parametri per assisterlo
immediatamente, perché il bambino non deve rimanere in
carenza di ossigeno.
MALATTIE RESPIRATORIE
Ne citeremo solo due: la Sindrome da distress respiratorio e la displasia broncopolmonare.
SINDROME DA DISTRESS RESPIRATORIO
Una delle malattie respiratorie più frequenti in assoluto nel neonato è la sindrome da distress
respiratorio, detta anche malattia delle membrane ialine polmonari perché all’autopsia si trovano
negli alveoli queste membrane ialine.
È una malattia respiratoria acuta ad insorgenza nelle prime
ore di vita, legata ad una immaturità biochimica del polmone
e caratterizzata da gravi e diffuse atelettasie.
Vediamo che già la definizione ci dice molto: è una malattia
respiratoria acuta, quindi non è una cosa che si sviluppa piano
piano, ha insorgenza molto rapida, nelle prime ore di vita.
Poi, cosa vuol dire immaturità biochimica del polmone? Vuol
dire che c’è qualcosa che manca dal punto di vista biochimico
in questo polmone, ovvero il surfattante, una sostanza che
serve a mantenere espansi gli alveoli polmonari subito dopo il primo respiro. È prodotto localmente
dal polmone del bambino stesso in modo che quando fa il primo respiro gli alveoli si possano
espandere bene. Ovviamente questa sostanza serve nel momento in cui il bambino fa il primo
respiro, per cui la natura ha fatto in modo che questa sostanza, prodotta da cellule specifiche che
sono gli pneumociti di tipo II, venga prodotta quando serve e cioè poco prima del parto: quindi la
produzione durante la vita intrauterina di questo surfattante da parte degli penumociti di II tipo
avviene quando il neonato sta per essere partorito, cioè nelle ultime settimane di età gestazionale
(34-36a settimana), prima non ha alcuna utilità. Quindi dovete sapere che la produzione locale di
surfattante avviene nelle ultime settimane di gestazione, ed è per questo motivo che questa malattia
è frequente nei neonati prematuri, perché tanto più il neonato nasce prima del termine tanto meno
surfattante sarà stato prodotto durante la gravidanza.
Infatti tra i FR al primo posto c’è la prematurità: la frequenza è tanto più alta tanto più bassa è l’età
gestazionale di quel neonato. Quindi questa è una malattia tipicamente del neonato prematuro.
Clinica
Il bambino respira male, ha tachipnea, come negli
adulti (dalla semeiotica sappiamo che uno dei segni più
precoci di insufficienza respiratoria è la tachipnea,
perché il nostro corpo tenta di sopperire alla ridotta
ossigenazione con l’aumento della frequenza
respiratoria).
Rientro inspiratorio del giugulo, interessamento dei muscoli addominali per tentare di
vicariare alla scarsa ossigenazione.
Poi respirazione a bocca aperta, un gemito espiratorio molto tipico.
Ovviamente la cianosi perché il sangue non è ben ossigenato.
Crisi di apnea.
Quindi quadro clinico di forte impegno respiratorio, che può evolvere se non siamo rapidi
nell’assistenza neonatale verso l’insufficienza respiratoria.
Terapia e prevenzione
Della terapia abbiamo già detto: assistenza ventilatoria, intubazione, ossigenoterapia, surfattante
artificiale.
Esiste anche una modalità di prevenzione di questa patologia perché si è visto che la
somministrazione di steroidi alla madre prima della gravidanza stimola la produzione di surfattante:
per cui in un parto a rischio di prematurità, perché la mamma ha delle patologie che vedremo in
Ginecologia, si può fare prevenzione con terapia steroidea.
DISPLASIA BRONCOPOLMONARE
Situazione in cui il bambino è dipendente dall’ossigeno per parecchi giorni, vedete oltre l’età
neonatale, per cui supera i 28gg di vita.
Ci sono delle alterazioni anatomiche molto importanti a
carico del polmone, perché quando il bambino (soprattutto il
prematuro) deve essere assistito con ventilazione meccanica,
intubazione etc, spesso si possono creare dei danni anatomici-
strutturali a carico del polmone.
Di nuovo tra le cause al primo posto c’è la prematurità.
Quindi ovviamente clinicamente è un bambino che nel corso
delle settimane purtroppo continua a mostrare segni di
insufficienza respiratoria.
Ci sono tantissime altre patologie respiratorie, ma queste due ve le volevo riportare perché la
patologia respiratoria ha delle forti connessioni con le problematiche neurologiche, quindi
sapere che il bambino può andare incontro a determinate patologie respiratorie è importante perché
vi fa capire come mai molti bambini che hanno patologie respiratorie sviluppano poi dei danni di
tipo neurologico.
MALATTIE NEUROLOGICHE
Perché nonostante voglia sviluppare con voi l’elemento più importante delle malattie neonatali, cioè
la componente neurologica, ho parlato prima delle problematiche respiratorie? Perché come sapete
l’organo più complesso del nostro corpo è il cervello, che opera migliaia di funzioni
contemporaneamente ogni secondo, è sicuramente l’organo più attivo del nostro corpo, ed è un
organo che nonostante le migliaia di funzioni che controlla ogni secondo ha delle richieste molto
banali: al cervello per funzionare bastano solo ossigeno e glucosio. Però quest’organo che si
accontenta di poco è anche un organo delicato, nel senso che se una di queste due cose manca, per
poche secondi o in percentuale, soffre. Quindi quando i polmoni o il sistema respiratorio o cardiaco
non funzionano bene, come sapete dalla fisiologia, abbiamo una ridotta ossigenazione del cervello,
che soffre. Per questo sapere che esistono tante malattie respiratorie del neonato vi fa capire come ci
sono sempre ha delle ripercussioni sul cervello. Quindi quando un bambino ha una malattia delle
membrane ialine o una displasia broncopolmonare, se non siamo stati abbastanza rapidi a
ossigenarlo e a mantenere una buona ventilazione spesso ci saranno delle ricadute negative sulla
salute del SNC.
E questo è importante perché il danno cerebrale rappresenta una
delle principali cause di mortalità neonatali, e se il bambino
sopravvive di handicap neuro-evolutivo a distanza (cioè ritardo
psico-motorio, convulsioni, paralisi cerebrale infantile). Quindi il
danno cerebrale è molto importante, la patologia neurologica del
neonato è qualcosa di molto pesante, che condiziona non solo la
sopravvivenza ma anche la qualità di vita degli anni successivi,
perché ovviamente il cervello quando subisce un danno tende ad avere delle ripercussioni che
persisteranno negli anni a venire.
Come potete immaginare le problematiche che comportano un danno neurologico nel neonato sono
tantissime, non ne parleremo nel dettaglio ma solo delle situazioni più frequenti. Una di queste è
l’encefalopatia ipossico-ischemica (una delle problematiche più frequenti che si verificano nel
neonato prematuro), poi abbiamo le emorragie cerebrali e gli infarti focali cerebrali. Sicuramente le
prime due sono sicuramente le problematiche più importanti in ordine di frequenza che vanno
conosciute anche dai non pediatri.
ENCEFALOPATIA IPOSSICO-ISCHEMICA
Va conosciuta in quanto causa importante di handicap neurologico. Come dice la definizione stessa,
abbiamo l’ipossia e l’ischemia. Abbiamo quindi
l’ipossiemia, cioè la riduzione della pressione parziale di
ossigeno, con il flusso di sangue che rimane buono.
Mentre quando abbiamo l’ischemia il flusso ematico si
riduce. La differenza tra ipossiemia e ischemia è quindi la
riduzione del flusso ematico. Ovviamente l’ischemia dal
punto di vista fisiopatologico è più grave, perché non si
riduce solo l’ossigeno, ma vi è anche una carenza di tutti i
substrati energetici che arrivano attraverso il flusso
ematico e vi è anche una difficoltà nella rimozione di
cataboliti (acido lattico, ammonio etc). Per cui è una situazione potenzialmente più pericolosa per il
nostro cervello.
Parliamo invece di asfissia quando sono presenti entrambe le condizioni, quindi ipossi-ischemia
con aumento anche della Co2. Spesso quando un bambino ha un’asfissia perinatale ha anche una
diminuzione del pH, che anzi è uno dei parametri più importanti di gravità della sindrome ipossico-
ischemica.
Il concetto di base è che quando abbiamo una ischemia vengono danneggiati i vasi terminali, non
c’è la possibilità di anastomosi che compensino il ridotto flusso. Voglio lasciarvi però un concetto
generale importante, e cioè che lo stesso tipo di insulto ha una localizzazione anatomica diversa
a seconda dell’età gestazionale del neonato. Ossia il danno
della struttura del cervello, quindi sostanza grigia e bianca, che
si verifica a seguito dell’ischemia, si localizza più:
Nella sostanza bianca se il neonato è prematuro,
Nella sostanza grigia se il neonato è a termine.
Questo è importante perché lo stesso tipo di problematica ha
conseguenze anatomiche e cliniche diverse a seconda dell’età
di gestazione. Il cervelletto per esempio viene colpito di più nel
neonato a termine. Quindi la stessa patologia avrà risvolti
clinici diversi a seconda del tipo di neonato.
Questo perché durante la vita embrionale il SNC viene organizzato seguendo delle migrazioni, nel
senso che le cellule neuronali e la sostanza bianca si distribuiscono migrando da una parte all’altra
della aree corticali. Questa migrazione è sotto controllo genetico, ci sono dei geni precisi che
modulano la migrazione delle cellule neuronali, le organizzano in strati etc. Ora, la migrazione, che
è sotto controllo genetico, è organizzata in modo che in determinati momenti della gravidanza si
accenda un certo gene, poi questo si spegne e se ne attiva un altro e così via. Quindi l’attivazione
sequenziale dei geni in tempi diversi della gravidanza, fa in modo che alla fine di una gravidanza
condotta bene, con tutti i geni che si sono attivati e spenti nei tempi giusti, si sviluppi una buona
struttura del SNC come rapporto tra sostanza bianca e grigia. Questo vuol dire che alla fine della
gravidanza avremo una localizzazione precisa della sostanza grigia in certe aree con una
vascolarizzazione particolare, che è diversa da quella che si trova 8-10sett prima, quando il processo
di migrazione non si è ancora completato. Questo è il motivo per cui la localizzazione è diversa nei
due tipi di bambini.
Quindi gli esiti correlati saranno diversi, perché a seconda dell’area colpita avremo certi tipi di
segni clinici. Ad esempio bambini che hanno un danno della corteccia hanno
anche un deficit sensoriale, che però non è legato a un danno del recettore, ma
al danno della corteccia che deve elaborare il segnale che arriva: la cosiddetta
cecità corticale per danno delle aree occipitali 18-19, oppure una sordità centrale
per danno della aree temporali e così via. E quindi a seconda di dove è
localizzato il danno abbiamo un certo tipo di risvolto clinico.
Ma al di là di questi aspetti semeiologici, quello che conta è cosa succede dal
punto di vista strutturale.
Leucomalacia periventricolare
Quando abbiamo un danno a carico del SNC per una sindrome ipossico-ischemica
in un bambino prematuro, essendo prematuro abbiamo il coinvolgimento della
sostanza bianca, ma non tutta, solo la zona che si trova attorno ai ventricoli, che
quando danneggiata dà origine a un reperto anatomopatologico che è la
leucomalacia periventricolare, ovvero quella situazione in cui si ha un danno
della sostanza bianca in un neonato prematuro in seguito a una sindrome ipossimo-
ischemica. Vi è una necrosi, quindi perdita di sostanza bianca, nelle zone che si
trovano agli angoli esterni dei ventricoli laterali. Quindi ovviamente è un danno
importante, ed è bene conoscerlo perché avrà delle conseguenze.
Le leucomalacie periventricolari non sono tutte uguali, abbiamo delle forme focali e delle forme
diffuse:
Le forme focali le abbiamo appena viste, sono quelle in
cui il danno è solo agli angoli esterni dei ventricoli
laterali. Avremo lo sviluppo di cisti dopo alcune
settimane in corrispondenza della sostanza bianca
danneggiata.
Invece nelle forme diffuse il danno della sostanza
bianca è diffuso ma meno grave. Il fatto che la sostanza
bianca sia meno presente del normale, perché necrotica,
fa sì che ci sia un allargamento dei ventricoli e quindi si può avere lo sviluppo di un
idrocefalo, ma non c’è lo sviluppo delle cisti a distanza di tempo.
Epidemiologia
Purtroppo è molto frequente, per darvi un’idea vedete che c’è una incidenza di 1-3 casi su 1000
nati vivi. La domanda è: quanti bambini nascono ogni anno in Italia? Fino a qualche anno fa
nascevano circa 450mila neonati ogni anno, quindi capite quanti casi di PCI ci sono in Italia ogni
anno. Ecco perché ne parliamo, perché è una cosa molto frequente, da cui tra l’altro c’è lo sviluppo
di un handicap neurologico importante, che durerà nel tempo, e che quindi si somma agli altri casi
degli anni precedenti.
Inoltre tanto il peso è basso tanto più il bambino è a rischio di
sviluppare Paralisi cerebrale infantile. E lo stesso vale per la
prematurità. Quindi ritroviamo quegli elementi di rischio che
avevamo già detto prima: cioè il danno neurologico è tanto più
frequente tanto più il bambino è di basso peso e tanto più è prematuro.
Eziologia
Le cause sono tantissime, qui ne riportiamo alcune: danni alla salute della mamma, infezioni virali,
radiazioni, danni da problemi placentari. Però al di là dei problemi
pre-natali troviamo anche quelli al momento del parto (es
travaglio prolungato o un danno da difficoltosa espulsione del feto).
Però possiamo avere anche un bambino che nasce perfettamente
sano e il primo anno di vita cade, batte la testa con emorragia
cerebrale post-natale, e quindi a distanza di tempo dalla nascita
abbiamo una Paralisi cerebrale infantile. Questo è un esempio per
dire che il danno si può manifestare in qualsiasi momento.
Sicuramente le cause più frequenti sono quelle perinatali.
Clinica
I bambini presentano sintomi neurologici importanti:
Spasticità: risultato di una degenerazione/displasia corticale. Tetraplegia se entrambi gli
emisferi sono interessati, Emiplegia se è interessato 1 solo emisfero
Rigidità: risultato di una degenerazione corticale associata a lesioni a carico dei gangli
della base
Atetosi: risultato di un danno al globus pallidus
Atassia: risultato di anomalie crebrali
La clinica è legata all’estensione del danno anatomico.
Tabella: Nella prima colonna vediamo l’importanza della età di gestazione e del peso alla nascita.
Abbiamo già detto che le alterazioni neuro-patologiche sono localizzate in sedi diverse a seconda
dell’età gestazionale, e di conseguenza la clinica e gli esiti a distanza saranno diversi in base al peso
alla nascita e all’età gestazionale.
Parliamo dei quadri clinici, cosa può presentare un bambino con Paralisi cerebrale infantile.
Abbiamo detto che uno degli elementi più importanti è il disturbo motorio (i seguenti termini
indicano sindromi neurologiche, quindi valgono anche per l’adulto, ad esempio un anziano che ha
avuto uno stroke può avere una emiplegia per stroke dell’emisfero controlaterale):
EMIPLEGIA: intendiamo un deficit a carico dell’arto superiore,
con ipotonia o iporefelssia. Quello che è importante è che
l’ipotonia o l’iporeflessia, che è sempre presente al momento
della nascita, dopo 3-4 mesi di vita si inverte, per cui da un
ipotono si ha un ipertono e da una difficoltà ad evocare i riflessi
tendinei abbiamo una iperreflessia, perché il bambino inizia a
sviluppare i sintomi di interessamento piramidale. Come
dicevamo prima, il danno anatomico non cambia, ma
l’espressività clinica si modifica nel tempo.
Es bambina con emiplegia spastica sx. Di solito viene colpito l’arto superiore ma può essere
anche l’inferiore, emiplegia vuol dire che è una metà del corpo. Vediamo che ha
un problema alla spalla, il gomito flesso tipico della spasticità, inoltre ha il
piede e il ginocchio flessi, proprio per l’ipertono che causa questa postura
obbligata. Questa posizione forzata causerà negli anni delle contrazioni e
soprattutto delle deformità perché le ossa sono morbide, stanno crescendo, e si
deformano per questo squilibrio tra muscoli estensori e flessori.
Leggere le slides.
In alcuni bambini che
erano stati definiti
normali alla nascita e
nei primi mesi di vita,
poi viene
diagnosticata la PCI a
3-4 anni; questo
avviene quando le
anomalie motorie
sono molto modeste
ed erano sfuggite fino
a quel momento.
Ecco perché è
fondamentale
osservare il bambino:
come si muove, come
corre e il suo
equilibrio (che è
spesso ridotto nella
PCI).
Aggiungo per completezza anche queste 6 slides saltate dal professore nella spiegazione :
Concludiamo l’argomento osservando
questi due bambini di 6 settimane a
destra:
la differenza tra i due è che il bambino
in basso ha una ipotonia che è
generalizzata perché non c’è tono nei
muscoli antigravitari del collo ,
nemmeno nei muscoli paravertebrali
(il collo e la colonna sono curvi), c’è
ipotonia degli arti superiori ed
inferiori (appaiono rilasciati).
Il bambino in basso ha una chiara
paralisi cerebrale infantile con una
ipotonia generalizzata ai quattro arti
perché è ancora piccolo : NON ha
ancora sviluppato la sindrome
piramidale, lui nel futuro svilupperà una tetra-paresi spastica in quanto questa ipotonia diffusa si
trasformerà in ipertonia generalizzata.
Aggiungo queste 4 slides finali tralasciate dal Prof.
Quando parliamo di distrofia muscolare intendiamo una malattia ESCLUSIVAMENTE a carico del
MUSCOLO che è GENETICAMENTE determinata, dove non sono interessati altri distretti oltre ai
muscoli.
La definiamo pertanto MIOPATIA PRIMITIVA.
Capiamo che non possiamo parlare di distrofia muscolare quando c’è una causa esterna al muscolo
tipo infezioni, ecc…
Questa è una patologia PROGRESSIVA: ciò significa che peggiora con il passare del tempo perché
vi è una necrosi strutturale delle fibre muscolari.
Abbiamo molte forme di distrofia muscolare ma le più comuni sono la Duchenne e la Becker ed
hanno entrambe una insorgenza tipicamente nel bambino.
La maggior parte delle distrofie si manifesta in età pediatrica ma questo non è valido nella totalità
dei casi.
Nei vari tipi il distretto motorio interessato non è sempre lo stesso.
Capiamo quindi che le varie forme di distrofia muscolare si differenziano per :
- il tipo di trasmissione genetica, - per i distretti motori interessati, - per l’età di insorgenza.
Nelle forme dove l’interessamento è ubiquitario la sopravvivenza è sicuramente inferiore.
1) DM di DUCHENNE
Definizione
È una malattia frequente con trasmissione X-linked: ciò fa sì che vengano colpiti soltanto i maschi,
mentre le femmine se hanno il gene mutato sono portatrici sane perché la presenza dell’altro
cromosoma X (dove il gene è sano) permette la produzione del 50% della distrofina (la proteina
mutata) che permette una buona contrazione muscolare. Ne risulta che le donne sono asintomatiche.
Nel maschio non c’è il compenso e quindi si ha il 100% di mancanza di questa proteina.
Sono stati descritti rarissimi casi di donne affette nella Sindrome di Turner oppure quando per la
normale disattivazione di uno dei due cromosomi X viene disattivato quello con il gene sano.
La distrofina è fondamentale perché è l’elemento che garantisce la normale contrazione dei muscoli
striati scheletrici e cardiaco (il cuore è compreso, anche se ha caratteristiche intermedie tra muscolo
liscio e striato).
Frequenza
1-3500 nati maschi, in cui il gene mutato è ovviamente trasmesso dalla madre.
N.B. : 1/3 dei nuovi casi è dovuta a mutazioni de novo; questo è dovuto al fatto che il gene della
distrofina è il gene più grosso di tutto il genoma quindi nel momento in cui iniziano le prime
duplicazioni spesso, per motivi di regolare crossing-over, ci sono frammentazioni del gene in più
punti e si perde materiale (delezioni). Le mutazioni sono favorite dalla grossa diminuzione del gene
stesso.
Genetica
Il fatto che ci siano molte delezioni in questo gene, dovute alla sua grandezza elevata, è rilevante
per la terapia.
Patogenesi
La distrofina ha varie funzioni tra cui creare un ponte tra il
citoscheletro e la matrice extracellulare nelle cellule muscolari,
regolare l’entrata degli ioni calcio durante la contrazioni, ecc…
In generale essa FACILITA la contrazione muscolare
RIDUCENDO l’attrito nella miocellula quando c’è il
fenomeno contrattivo. Ciò fa sì che lo scorrimento sia fluido. Ne deduciamo che quando invece c’è
l’attrito, perché la distrofina manca, allora nel momento in cui il bambino contrare i muscoli il
muscolo si consumerà giorno per giorno.
Sintomatologia e Diagnosi
Nonostante la malattia sia genetica, e quindi nonostante il bambino nasca con il gene mutato, non ci
sono i sintomi nei primi 2-3 anni di vita perché il grosso dell’impegno muscolare ancora non è
iniziato (inizia dopo i 12 mesi quando inizia a stare eretto e deambulare, sarà qui che nasceranno i
primi fenomeni di attrito).
L’esordio è progressivo e continuo con interessamento simmetrico dei muscoli scheletrici.
Inizia dal cingolo pelvico (anche se il danno è su tutte le fibre striate e sul cuore), poi cingolo
scapolare, muscoli intercostali e diaframma. Tutte queste sono le premesse per sviluppare una
insufficienza respiratoria che condurrà il paziente all’exitus.
Capiamo che quindi nei primi 2/3 anni di vita non facciamo quasi mai diagnosi, a meno che i
genitori non riferiscano qualche cambiamento nella motilità del figlio (“cade spesso”, “deve fare
delle pause”, “si stanca prima”).
Nel bambino osserviamo DEBOLEZZA MUSCOLARE che non subito porta all’incapacità nella
deambulazione (quest’ultima arriva anni dopo).
Davanti a situazioni del genere si deve fare un’attenta visita valutando :
- il tono muscolare,
- i riflessi osteo-tendinei,
- il segno di Gowers : è un manovra che consiste nel chiedere al bambino di mettersi disteso
prono e di rialzarsi. Il bambino malato usa gli arti superiori per aiutarsi. Ricordiamo che il
QI di questo bambino è normale quindi capisce bene il comando che gli è stato dato.
Si può anche osservare una certa ipertrofia di muscoli quali il polpaccio ma poi è stato scoperto che
è solo una pseudoipertrofia dovuta alla presenza di tessuto connettivo e degenerativo necrotico che
sembra gonfiare questi muscoli.
Con il progredire della malattia, a seconda di come il bambino utilizza i muscoli, avremo un danno
e quindi una carenza di forza muscolare nei muscoli che vengono utilizzati di più à ne consegue
uno squilibrio tra estensori e flessori à ciò porta a deformazioni scheletriche e contratture
scheletriche che provocano anche alterazioni strutturali delle articolazioni à esse complicano
ulteriormente la deambulazione.
Con il passare del tempo la funzione deambulatoria viene persa: il paziente sarà in sedia a rotelle e
dovrà essere imboccato, fino ad arrivare all’interessamento cardiaco che comporta una insufficienza
cardiaca. Questa verrà trattata con farmaci inotropi.
Infine vengono colpiti i muscoli respiratori (intercostali e diaframma) che comporta un calo della
dinamica respiratoria. Questa riduzione porta ad una stasi di secrezioni con conseguenti polmoniti e
broncopolmoniti ricorrenti, trattate inizialmente con gli antibiotici ma che nel tempo svilupperanno
antibiotico-resistenza. Con il passare egli anni si arriva all’insufficienza respiratoria cronica
ossigeno-terapia dipendente per approdare all’exitus con una insufficienza respiratoria acuta che si
inscrive su un quadro di insufficienza respiratoria cronica.
C’è una piccolissima percentuale di bambini che ha un lieve ritardo mentale; fino ad alcuni anni fa
non se ne capiva il motivo ma poi si è scoperto che la distrofina è presente in minima quantità anche
nei muscoli che modulano il tono del microcircolo cerebrale per cui l’ipotesi è che ci sia una
disregolazione del flusso cerebrale in cui alcune aree cerebrali, le quali poi possono danneggiarsi.
Gli esami da fare sono :
1) manovra di Gowers
2) laboratorio : enzimi muscolari à CPK, aldolasi, LDH risultano molto aumentati
3) elettromiografia di conferma (non si fa più)
4) ECG
5) Biopsia muscolare che dimostra con l’immunofluorescenza la carenza/assenza di distrofina
(non si fa più così spesso)
6) ANALISI DEL GENE !
Terapia
È ad oggi puramente sintomatica : lo scopo
è allungare la vita e migliorarne la
qualità.
Per quanto riguarda l’ingegneria genetica
oggi sono già in commercio farmaci
che permettono di modificare il
DNA di questi bambini. Questi
farmaci però hanno un target ben
preciso : possono modificare solo
alcuni tipi di mutazione, non tutte.
Essi non possono fare nulla sulle
delezioni ma, avendo la capacità di
entrare dentro le cellule e riattivare
la trascrizione del DNA , possono
essere usati quando vi è una
mutazione puntiforme specifica che dà origine ad un codone di stop. Quello che succede è
che in questi casi, per via di questo codone di stop, allora si interrompe la trascrizione: è
come se ci fosse una delezione funzionale con il resto del gene presente. Oggi questo tipo di
mutazione genetica è corretta grazie a questa terapia farmacologica che permette la
riattivazione della trascrizione dopo il codone di stop.
2) DM DI BECKER
Essa è simile in tutto e per tutto alla distrofia muscolare di Duchenne: ha lo stesso gene mutato ma
fortunatamente la quantità di gene mutato/deleto è molto minore e quindi la percentuale di
distrofina che è presente non è zero ma è in una quantità variabile. Questo lo abbiamo evinto da
studi su biopsie muscolari. Per questo motivo i maschi affetti da questa patologia hanno una
sopravvivenza più lunga, poso arrivare a 40/50 anni con sintomi che esordiscono più tardivamente
(6°-7° anno) e con una debolezza moderata. La prognosi è più favorevole.
Le analisi di laboratorio sono identiche, anche la elettromiografia è anomala.
La diagnosi si fa con lo studio del gene.
Ci sono centinaia di altri tipi di distrofie : quella dei muscoli oculari, quella dei muscoli oculari +
cingolo scapolare, tutte quelle patologie che coinvolgono proteine che permettono la contrazione
muscolare. Molte di queste DM sono legate a cromosomi autosomici e quindi possono colpire
indistintamente il sesso maschile che femminile,
SBOB.: EDOARDO EMILIANO
14/10/2021- 1°ora
Bambino di 11 anni che giunge all’attenzione dell’ambulatorio di neurologia pediatrica per episodi
di sonnambulismo e sonniloquio.
Anamnesi
• Anamnesi perinatale: nato a termine da parto eutocico, screening neonatali nella norma,
allattamento misto
• Anamnesi personale fisiologica: sviluppo psicofisico adeguato per età, frequenta scuola media
inferiore con profitto, pratica calcio
• Anamnesi familiare: negativa per disturbi del sonno, positiva per difficoltà della
deambulazione associata a incremento di CPK in due zii e un prozio materni
• Anamnesi patologica prossima: oltre ai suddetti disturbi del sonno riferisce astenia, mialgie,
affaticamento e crampi muscolari da alcuni mesi dopo sforzi fisici, si riporta inoltre un
episodio di epistassi e malessere generalizzato 2 settimane prima
Esame obiettivo
L’obiettività non mostra anomalie a nessun livello (anche i muscoli sono normotrofici e normotonici).
Esami di laboratorio
Esami ematici: viene rilevato un lieve aumento delle transaminasi. Le principali cause di aumento di
transaminasi sono:
• Epatite autoimmune (vanno ricercati autoanticorpi specifici per epatiti autoimmuni, ma anche
per malattie autoimmuni sistemiche quali lupus eritematoso sistemico, morbo di Still, artrite
reumatoide giovanile)
• Epatopatie da farmaci
• Traumi epatici
• Miopatie
Vengono pertanto condotti ulteriori esami di laboratorio, che rilevano aumento di CPK e LDH.
Esami strumentali
Viene eseguito un ECG (necessario nel sospetto di una miopatia, risulta tuttavia nella norma),
un’ecocardiografia (nella norma) e un EEG (anch’esso nella norma).
Ipotesi diagnostica
Gli esami di laboratorio pongono il sospetto di una miopatia, e nello specifico l’anamnesi familiare
indirizza verso una distrofinopatia, pertanto viene richiesta una consulenza genetica e l’analisi
molecolare del gene della distrofina.
Diagnosi definitiva
La positività dell’analisi genetica molecolare, unita al quadro clinico a esordio tardivo, consentono
di porre la diagnosi di distrofia muscolare di Becker.
Il paziente (di cui non è specificata l’età né il sesso) giunge all’attenzione medica per comparsa di
lieve deficit della marcia con difficoltà nella deambulazione e facile faticabilità in seguito a esercizio
fisico di lieve entità.
Anamnesi
• Anamnesi familiare: non significativa (si riporta solo nonna paterna con BPCO)
Esami di laboratorio
All’esame ematobiochimico si rileva un aumento degli indici di flogosi (leucociti, VES e PCR), delle
transaminasi e un incremento drammatico di CPK (36.000 UI/l) e LDH (1.838 UI/l).
Ipotesi diagnostica
Il quadro laboratoristico depone per una rabdomiolisi, che in base ai dati anamnestici e clinici viene
imputata in primo luogo a una miosite infettiva. Questa situazione è un’urgenza in quanto può
evolvere in insufficienza renale acuta.
• Esami di laboratorio: vengono effettuati esami sierologici per i principali virus a tropismo
muscolare (EBV, CMV, parvovirus, adenovirus, Coxsackie, HAV, HBV, HCV) che risultano
però negativi, la funzione tiroidea risulta normale, viene inoltre studiata più
approfonditamente la funzione renale (in particolare si effettua una raccolta delle 24 ore per
dosare la proteinuria e la creatinuria per poter stimare la clearance della creatinina)
Diagnosi definitiva
Malgrado l’assenza di positività dei marcatori virali, la miosite virale resta l’ipotesi diagnostica più
probabile.
Trattamento ed evoluzione
In regime di ricovero viene somministrato acetaminofene, inoltre viene effettuata una fleboclisi con
soluzione salina isotonica 1.500 ml/24h per prevenire il danno renale da mioglobinuria (necrosi
tubulare acuta su base tossica), si tratta di un dosaggio che supera il fabbisogno giornaliero di liquidi
al fine di preservare il rene. Poiché si tratta di una miopatia particolarmente grave viene impostato
anche un trattamento con deltacortene (25 mg/die, il dosaggio è 1-2 mg/Kg/die) per contrastare
l’infiammazione muscolare.
Al netto del miglioramento clinico e della tendenza alla normalizzazione degli indici di danno
muscolare, il paziente viene dimesso in 7° giornata, mantenendo però la terapia steroidea a scalare (1
cp/die per 8 gg, mezza compressa/die per 14 gg, mezza compressa a giorni alterni per 7 gg) e un
trattamento con integratori (vitamina D3 e acidi grassi).
Diagnostica differenziale nella debolezza muscolare
Si manifesta con un’ipotonia muscolare e una debolezza ad esordio acuto, generalmente con
interessamento ascendente dei muscoli (a partire dai muscoli distali degli arti inferiori fino ai muscoli
degli arti superiori e talvolta respiratori).
La diagnosi è basata in primo luogo sull’elettromiografia, oltre che sugli esami sierologici (ricerca di
specifici autoanticorpi) e sugli esami del liquor (evidenza di dissociazione albumino-citologica) [ndr].
Le miopatie
Per quanto riguarda le miopatie da alterazioni elettrolitiche, bisogna considerare che la funzione
muscolare dipende principalmente da sodio, potassio, calcio e magnesio.
1 Non viene trattata in modo organico, non mi è chiaro se sia da considerare argomento di esame.
Possibili cause di debolezza muscolare:
Caso clinico: nefropatia con sindrome nefrosica
Caratteristiche generali del paziente
Bambina di 4 anni, giunge all’attenzione del pronto soccorso pediatrico per edema periorbitale
monolaterale e proteinuria 50 mg/dl.
Anamnesi
Esame obiettivo
Parametri vitali nella norma, all’ispezione generale si rileva edema palpebrale dell’occhio destro,
all’ispezione del cavo orale labbra asciutte, lingua impaniata, iperemia faringea con ipertrofia
tonsillare.
L’esame obiettivo del torace presenta murmure vescicolare aspro con rumori delle alte vie
respiratorie.
Il peso corporeo iniziale rilevato è di 12,9 Kg.
Esami di laboratorio
Esami strumentali
L’ipotesi diagnostica principale è quella di una sindrome nefrosica2. Nei bambini la nefropatia più
comune è la glomerulonefrite post-streptococcica, ma è più spesso associata a sindrome nefritica, di
cui non sussistono gli elementi nel quadro clinico (per quanto esistono delle forme di sindrome
nefritica con screzio nefrosico). Per escludere una glomerulonefrite post-streptococcica è comunque
utile dosare nel plasma i fattori del complemento (in particolare C3 e C4), che risultano consumati in
alcune glomerulonefriti tra cui la post-streptococcica, mentre nelle sindromi nefrosiche il
complemento è generalmente normale. Sulla base di questa ipotesi si imposta una terapia steroidea
(metilprednisolone 15 mg bid).
La paziente viene monitorata valutando quotidianamente pressione arteriosa (3 volte al giorno), peso
corporeo (consente di rilevare rapidamente importanti variazioni del carico di liquidi), bilancio idrico
nelle 24 ore, esame delle urine delle 24 ore (soprattutto proteinuria).
Durante le successive due giornate di degenza si osserva aumento significativo dell’edema del volto
e comparsa di edemi a livello dei piedi e perimalleolare. Si rileva inoltre un aumento del peso del 4%
rispetto all’inizio e la comparsa di oliguria, iperazotemia e iperkaliemia. La pressione arteriosa risulta
al 90° percentile per età ed altezza, persiste la marcata proteinuria con iporpotidemia.
Il quadro viene trattato con restrizione dei liquidi, somministrazione di albumina (indicata in quanto
l’edema in questo caso è dovuto non solo al sovraccarico di liquidi ma anche alla riduzione della
pressione osmotica legata all’ipoalbuminemia) e furosemide in bolo endovena.
In quinta giornata si esegue ecografia addominale che mette in evidenza versamento peritoneale,
l’ecocardiografia è nella norma ma persistono elevati valori pressori. Si decide dunque di aggiungere
spironolattone alla terapia in atto.
In settima giornata la pressione arteriosa e la diuresi si normalizzano, vengono dunque sospesi i due
diuretici.
In nona giornata si esegue ecografia addominale che documenta la scomparsa del versamento, inoltre
si ha regressione completa degli edemi, scomparsa della proteinuria e ripristino di un peso corporeo
inferiore a quello misurato all’inizio della patologia. La paziente viene pertanto dimessa con un
preciso follow-up e con una terapia steroidea per almeno 1 mese.
2 Da come espone il caso clinico, il professore sembra usare il termine glomerulonefrite come sinonimo di
sindrome nefritica, mentre non sembra considerare le glomerulonefriti come possibili cause di sindromi
nefrosiche
SBOB.: EMMA PISCIOTTA
14/10/2021- 2°ora
E’ una malattia molto importante in pediatria, una patologia neuromuscolare estremamente grave.
E’ un’altra causa di debolezza muscolare, ad esordio molto precoce.
E’ autosomica recessiva, per mutazione del gene SMN1 e sono bambini che hanno una IPOTONIA.
Il problema è che la malattia riduce la capacità respiratoria, determina una ridotta capacità nel
dglutire e in più vi è scoliosi. E’ una patologia molto interessante in quanto ha aperto notevoli
prospettive dal punto di vista genetico.
Il gene mutato, SMN1, serve a mantenere la sopravvivenza del secondo motoneurone che si trova
nelle corna anteriori e fa sinapsi con il fascio piramidale discendente dopo la decussazione. c
Questo secondo motoneurone va incontro a degenerazione e necrosi, quando questo gene è mutato o
deleto.
I muscoli prossimali quindi sono danneggiati, le gambe sono più colpite delle braccia, le tappe
motorie sono ritardate, vi è una severa debolezza, difficoltà nell’alimentazione e nella deglutizione.
Un segno molto precoce, nelle forme ad esordio precoce, è la difficoltà a controllare il capo, esso
ciondola, in più vi è debolezza simmetrica dei muscoli.
Essendo una patologia autosomica recessiva, vi è un rischio di trasmissione del 25% nei
discendenti.
EPIDEMIOLOGIA
E’ una malattia rara ma non rarissima, che oscilla tra 1 in 6000 e 1 in 11000 nati vivi.
EZIOLOGIA
E’ dovuta alla mutazione di questo gene che sta sul cromosoma 5 che è o deleto o mutato.
Fortunatamente esistono due geni che hanno lo stesso scopo, l’SMN1 e l’SMN2; quest’ultimo è
identico all’1 se non per qualche piccola differenza in alcune fasi, la proteina sarà simile a quella
dell’SMN1 ma parzialmente diversa.
Quest’ultima proteina però è molto instabile e da sola non è in grado di mantenere la sopravvivenza
dei motoneuroni spinali.
CLASSIFICAZIONE CLINICA
DIAGNOSI
PATOGENESI
Ripete i concetti precedentemente detti.
La SMN2 produce solo il 10-20% della proteina.
TERAPIA
Oggi abbiamo a disposizione una terapia genica che può andare o a sostituire il gene SMN1. E’ una
terapia classica, utilizza un vettore che va all’interno delle cellule del bambino e inserisce il gene
sano.
Abbiamo però anche la possibilità di utilizzare un farmaco che va all’interno del gene SMN2 e lo
riattiva, permettendogli di produrre più proteina e questo migliora la prognosi di questi bambini, in
quanto ad oggi non c’è cura.
CONVULSIONI
CONVULSIONI FEBBRILI
La nuova definizione parla invece di rialzo febbrile, non di temperatura oltre i 38°C.
CLASSIFICAZIONE
Possono essere:
- Semplici (basso rischio): crisi brevi, di solito una o due e generalizzate.
- Complesse (alto rischio): sono crisi che si uniscono una accanto all’altra, subentranti e che durano
più di 15 minuti.
PATOGENESI
Non sappiamo l’eziologia, molto probabilmente la febbre ha un ruolo importante determinato anche
da un’immaturità del sistema nervoso centrale a ricevere questo sbalzo febbrile.
La genetica ha un ruolo fondamentale, perchè vi sono dei cluster familiari, dei polimorfismi che
rispondono a questa malattia.
FATTORI DI RISCHIO
Se quando arriviamo, il bambino sta ancora facendo convulsioni la terapia consiste nelle
Benzodiazepine, Valium o Diazepam, che vanno somministrate attarverso dei clisteri.
Laura Curci
14/10/2021
Pediatria: TERZA ORA
Non tutti i bambini che hanno avuto convulsioni febbrili le avranno sempre, ci sono dei fattori di
rischio per la ricorrenza.
EPILESSIE
La crisi convulsiva ha diverse eziologie che tramite un meccanismo comune portano ad
ipereccitabilità dei neuroni della sostanza grigia (corteccia). Tali crisi sono SPONTANEE e per
questo differiscono dalle febbrili in cui il trigger è appunto la febbre e da quelle causate ad esempio
da ipoglicemia o ipocalcemia.
Prognosi e terapia
Nella maggior parte dei casi si risolve spontaneamente tra i 14 e i 16 anni, per tale motivo spesso
non è trattata farmacologicamente. Se però si dovesse utilizzare un farmaco si sceglierebbe tra
carbamazepina e acido valproico.
Prognosi e terapia
La prognosi è buona nell’80-90% dei casi, nel 20% l’epilessia può cronicizzarsi.
I fattori prognostici negativi per l’evoluzione sono:
Terapia
Risponde all’acido valproico ed anche anche al levetiracetam, farmaco più recente. La terapia viene
portata avanti per molto tempo e la gestione farmacologica non è semplicissima.
Sindrome di Lennox-Gastaut
Prende il nome dai due neurologi che la descrissero e pubblicarono nello stesso anno, è detta anche
encefalopatia perché è data da alterazioni a carico della corteccia, vi si associa infatti ritardo
cognitivo.
L’esordio si colloca tra gli 1 e gli 8 anni di età.
Nel 66% dei casi l’eziologia è data da una lesione cerebrale, in epoca pre/perinatale oppure
postnatale. Si segnalano casi ad eziologia sconosciuta ed altri in cui si ha una familiarità.
Può seguire la sindrome di West, altra forma di epilessia.
Ciò dimostra che l’epilessia non è immutabile, col passare del tempo è dinamica.
Diagnosi
Si diagnostica tramite crisi epilettiche caratteristiche e gravi abbinate al ritardo mentale e alle
anomalie EEG peculiari, in veglia e sonno.
Semeiologia delle crisi
Crisi toniche assiali o emitoniche
Crisi atoniche (pericolose perché può portare a cadute improvvise e quindi a fratture)
Crisi miocloniche, generalizzate tonico-cloniche, parziali (meno frequenti)
EEG
TUMORI INFANTILI
L’oncoematologia pediatrica è una disciplina afferente alla pediatria; si tratta, tuttavia, di una
branca molto specialistica e quindi dist
distaccata dalla clinica pediatrica: basti pensare
ensare che esistono dei
reparti che si occupano
no specificamente delle patologie neoplastiche infantili
infantili.
Epidemiologia
L’elenco riportato qui sotto espone in maniera più chiara il medesimo concetto.
concetto
Un altro aspetto interessante da verificare è la distribuzione di queste patologie nelle varie fasce
d’età: l’incidenza dei tumori varia a seconda della fascia d’età (0-5 anni, 5-10
10 anni e 10-15 anni).
La fascia d’età 5-10 anni è maggiormente interessata da leucemie, linfomi e tumori del SNC SNC,
mentre nelle due fasce estreme la situazione cambia. Nella fascia 0-5 anni prevalgono i sarcomi dei
tessuti molli, il retinoblastoma,
blastoma, il nneuroblastoma, il nefroblastoma e i tumori delle gonadi; nella
fascia 10-15 anni troviamo i sarcomi delle parti molli, il linfoma di Hodgk Hodgkin (tipico degli
adolescenti),, i tumori dell’osso, i tumori rari e i tumori dell
delle gonadi.
Nel 2004 è stato pubblicato sullala rivista Lancet uno studio contenente un’indagine
dagine epidemiologica
sulla distribuzione dei tumori pediatrici in Europa: esso si basava sui dati dei vari registri tumori
t dei
Paesi europei. Si trattava di uno studio multicentrico finanziato dall’Unione Europea
E che ha messo
in evidenza un aumento rilevante ddi tutti i tumori pari all’1% annuo. Lee categorie responsabili di
tale incremento erano rappresentate dai tumori del sistema emolinfopoietico, dai tumori solidi (con
l’eccezione dei tumori dell’osso),
), da
dal retinoblastoma e dai tumori epatici.
I bambini
ambini e i ragazzi tra 0 e 19 anni che muoiono di tumore sono sempre di meno. Nel 2008 i
decessi sono stati circa 1/3
/3 di quelli registrati nei primi anni Settanta e si sono ulteriormente ridotti
in questi ultimi anni.
Il calo dei decessi è collegato a un generale miglioramento de dei tempi di diagnosi e delle terapie. Gli
anni Settanta sono stati un periodo pionieristico nel trattamento delle neoplasie: l’obiettivo precipuo
era quello di far sopravvivere i pazienti a tutti i costi
costi,, utilizzando qualsiasi mezzo possibile.
possibile Oggi,
dopo aver ottenuto risultati importanti in termini di sopravvivenza libera da malattia,
malat un ulteriore
obiettivo da perseguire riguarda la qualità di vita del paziente. Non è importante solo che il
paziente sopravviva, ma anche come sopravvive
sopravvive. In oncoematologia pediatrica abbiamo
a a che fare
con bambini che, nella migliore delle ipotesi, avranno un’aspettativa di vita molto lunga. È evidente
che la qualità di vita è una variabile estrema
estremamente importante dii cui tener conto, visto il forte
impatto che essa ha sulla scelta del tipo di terapia da somministrare.
I protocolli terapeutici sonoo sempre più modulati: modulare la terapia significa adattarla in base alla
gravità della neoplasia, ai fattori prognostici e all’età del bambino
bambino,, in modo da evitare
evi trattamenti
sovradimensionati o sottodimensionati.
Come accade per gli adulti, anche la presa in carico dei tumori infantili implica un lavoro di
squadra, in piena collaborazione con varie figure professionali. Radiologi,
adiologi, chirurghi, radioterapisti,
esperti di terapia del dolore e psicologi devono lavorare insieme all’ematologo o all’oncologo,
all’oncolo
partecipando fattivamente alla
la presa in carico del ppaziente pediatrico oncologico.
La realtà di Perugia,, ad esempio, è molto particolare: purr essendo un centro non grande, esso si
rivela molto attento alla presa in carico globale dei bambini e delle loro ro famiglie; il volontariato,
inoltre, ha contribuito a fornire delle figure professionali estremamente importanti che l’azienda
ospedaliera non aveva la possibilità di offrire.
Nell’ambito dei tumori solidi il ruolo ddella chirurgia è fondamentale perché
erché ci poniamo l’obiettivo
prioritario di eradicare un tumore: l’atto chirurgico, talvolta, può essere un atto terapeutico
definitivo, cioè un atto che non necessita ddii essere accompagnato da trattamenti chemioterapici
chemio e
radioterapici. Purtroppo questo
uesto non è sempre possibile:
bile: in alcuni casi, infatti, il tumore
t risulta
particolarmente diffuso nell’organismo del paziente e un trattamento chiru
chirurgico
gico potrebbe non essere
la migliore terapia praticabile perché risulterebbe mutilante.
La pratica chirurgica del second cond-look, invece, viene effettuata in seguito a un trattamento
radioterapico o chemioterapico per verificare se quello che rimane del tumore come massa visibile
agli esami radiologici sia tessuto attivo dal punto di vista neoplastico o semplicemente un residuo
fibroso.
Il grafico riportato di seguito invece è interessante perché mostra una prospettiva molto meno
ottimistica rispetto alla precedente: la mortalità nella ffascia 15-19 anni è decisamente superiore.
Questo è un dato che ha molto colpito coloro che si occupano di tumori sia a livello epidemiologico
sia a livello clinico e terapeutico
terapeutico: infatti questi pazienti, definiti adolescenti o giovani adulti
venivano trattati secondo i protocolli terapeutici degli adulti, pur essendo biologicamente m molto più
vicini all’età pediatrica.
Come è facile intuire, un paziente ve ventenne ha un metabolismo completamente
mpletamente diverso rispetto a un
paziente sessantenne;; questo spiega perché i risultati ti delle terapie effettuate per anni
an in questa fascia
d’età non siano stati particolarmente
armente brillanti: di fatto
fatto, essi si avvicinano molto di più ai risultati
ottenuti nella
lla popolazione degli adulti. Queste osservazioni hanno dato origine a varie iniziative iniziative,
prima negli Stati Uniti e poi anche in Europa: in IItalia il primo a distinguersi ersi in
i questo senso è stato
l’Istituto Nazionale dei Tumori
umori di MMilano, seguito poi da altri centri, come quello di Perugia.
L’obiettivo era quello di trattare questa fascia d’età con protocolli prettamente pediatrici.
I protocolli terapeutici pediatrici sono del resto molto più aggressivi rispetto a quelli per gli adulti
perché, a differenza di quanto si pensa comunemente
comunemente, i bambini sono o molto più forti degli adulti
e possono tollerare meglio le te terapie: un paziente cinquantenne
quantenne non riuscirebbe a tollerare una
terapia prescritta secondo gli schemi dell’oncoematologia pediatrica.
Viceversa, il ventenne può riuscirci, anche se è comunque necessario apportare tare alcune modifiche al
protocollo:: è vero che l’adolescente si avvicina molto di più alla fascia dei pazienti pediatrici
rispetto a quella dei pazienti chiaramente adulti, però sono comunque presenti alcune differenze.
La questione del trattamento degli adolescenti è stata molto dibattuta e ha dato la possibilità di
seguire nell’ambito dei reparti di oncoematologia pediatrica anche questa categoria.
Occorre ribadire che l’età pediatrica in Italia viene definita come un’età compresa tra 0 e 16
anni,, anche se alcuni collocano il limite supe
superiore
riore a 14 o a 18 anni: questa variabilità ha creato non
pochi problemi, perché in ogni regione ci si è comportati in modo diverso e spesso gli adolescenti e
i ventenni sono stati ricoverati nei reparti degli adulti.
Un giovane di vent’anni potrebbe trova trovare sgradevole il fatto di essere collocato in un reparto
preposto al trattamento di adulti o anziani
anziani:: il fatto di essere ricoverato in un reparto che si occupa di
bambini, invece, evoca una reazione nettamente più positiva perché c’è una modalità di presa in
carico diversa, più ovattata e attenta, ma soprattutto estesa a tutta la famiglia. In questo modo gli
adolescenti e i giovani adulti hanno la possibilità di usufruire di uno psicologo dedicato e di
occuparsi di attività molto affini alla loro fascia d’e
d’età.
Seguono i grafici deii tassi di mortalità per leucemia e per tumori del SNC nella fascia d’età 0-14
anni: anche qui notiamo un certo miglioramento.
La diapositiva seguente illustra la distribuzione dei tumori solidi in età pediatrica e del relativo
trattamento: troviamo, in particolare, il linfoma di Hodgkin, il tumo
tumore
re di Wilms (renale), il linfoma
non Hodgkin, il rabdomiosarcoma,
coma, il tumore di Ewing, l’ost
l’osteosarcoma,
eosarcoma, il neuroblastoma e i tumori
del SNC.
Il problema che è stato riscontrato nel corso degli anni era legato alla recidiva delle patologie
tumorali: ciò è accaduto perché queste non venivano trattate in modo adeguato, in quanto la terapia
era limitata in termini di tempo e di aggressività. Patologie come la leucemia, dunque, andavano
inizialmente in remissione: remissione però non è sinonimo di guarigione; il termine indica che
una patologia scompare per un periodo di tempo più o meno lungo, ma poi può ritornare. Furono
quindi osservate frequenti recidive, o in corso di trattamento o all’interruzione dello stesso o in
tempi più lunghi, ma comunque entro cinque anni dalla sospensione della terapia.
Questo limite temporale è fondamentale, in quanto un paziente si definisce guarito da un tumore
quando nei cinque anni successivi alla sospensione di ogni trattamento egli rimane in remissione
di malattia e il tumore non è più visibile.
Sulla base di queste scoperte sono maturati alcuni principi fondamentali dell’oncoematologia
pediatrica:
la gravità; esistono neoplasie più o meno gravi: quelle più gravi esprimono in misura
maggiore determinati marker. Il trattamento deve essere calibrato in base al livello di rischio
caratteristico di una certa neoplasia, riservando i protocolli più aggressivi alle patologie più
gravi: questo ha consentito di ridurre la terapia nelle forme a minor rischio e di aumentarla
in quelle a maggior rischio;
la dose intensity; si tratta di un concetto che nell’ultimo ventennio ha rivoluzionato il
trattamento di tali patologie e che può essere così esplicitato: quanto più si aumentano le
dosi dei farmaci chemioterapici, tanto maggiori sono i risultati che si riescono a ottenere
nell’eradicazione della patologia;
la polichemioterapia, ovvero la scelta di trattare un tumore con molti farmaci differenti.
Sappiamo infatti che i farmaci agiscono interrompendo il ciclo cellulare in fasi diverse: la
cellula tumorale, però, è una cellula anarchica che non segue più le leggi della proliferazione
cellulare, essendo totalmente avulsa da ogni tipo di regolazione; la sua crescita esponenziale
non è influenzata in alcun modo dai tessuti circostanti, pertanto può diventare anche
invasiva. L’utilizzo di più farmaci permette di aggredire la cellula tumorale in fasi diverse
della sua vita e a questo corrisponde un miglioramento straordinario dei risultarti ottenuti nel
trattamento delle neoplasie e in particolar modo della leucemia.
Questi ultimi due principi, ovvero la polichemioterapia e la dose intensity, hanno determinato un
cambiamento radicale nel trattamento delle neoplasie anche dal punto di vista professionale: l’uso
di tanti farmaci deve essere supportato da conoscenze molto specifiche. Fino a trent’anni fa la
leucemia veniva trattata solo con due farmaci, ovvero cortisone e vincristina: questi inducevano
momentaneamente la remissione, ma poi tutti i pazienti recidivavano. La gestione della terapia però
non era difficile e si faceva in settori dedicati dei reparti di pediatria generale. Quando i protocolli
sono diventati più complessi, si è resa necessaria la presenza di figure specialistiche altamente
competenti con la creazione di reparti appositi. Queste esigenze sono supportate anche da un’altra
motivazione: usare la dose intensity significa aumentare non solo gli effetti, ma anche la tossicità
dei farmaci. Quando si parla di tossicità da chemioterapici dobbiamo considerare che tutto
l’organismo è interessato (SNC, reni, polmoni, cuore, fegato, intestino): quindi il medico non
deve solo saper modulare il farmaco in base ai suoi effetti, ma anche in base alla sua tossicità, e
anche questo richiede un enorme bagaglio di conoscenze. La prima tossicità in assoluto che si
riscontra quando si fa una chemioterapia è quella sul midollo osseo: utilizzando chemioterapici a
dosaggio molto elevato si induce l’aplasia midollare, cioè la distruzione temporanea del midollo
osseo; ne consegue, tra l’altro, una riduzione dei granulociti neutrofili, ovvero delle cellule che
provvedono a difendere l’organismo dalle infezioni. Trattare pazienti con un rischio infettivo così
elevato richiede ambienti con caratteristiche specifiche, come ad esempio la possibilità di purificare
l’aria, potenziale veicolo di germi, tramite filtri detti HEPA; inoltre si devono allestire camere
singole, al massimo doppie, si deve limitare il numero di accessi all’interno del reparto e si devono
garantire periodicamente adeguate procedure di sanificazione.
Anche per questi motivi, i processi di diagnosi, cura e assistenza per questi pazienti hanno portato
alla creazione su tutto il territorio nazionale di reparti dedicati esclusivamente all’oncoematologia
pediatrica.
SBOB: Elisa Rutili
21/10/2021, 2°ora
Oncoematologia pediatrica
Il midollo osseo è contenuto nella porzione spugnosa di tutte le ossa; alcune ne contengono di più,
come le ossa del bacino, altre molto meno.
Ha il compito di produrre le cellule del sangue, e lo fa ad un ritmo molto rapido; tale rifornimento
continuo avviene a partire da cellule staminali progenitrici, molto indifferenziate. Queste hanno la
capacità di automanternersi e autorigenerarsi - concetto di staminalità- mentre una volta
differenziate perdono queste potenzialità.
Le totipotenti embrionali hanno la
capacità di differenziarsi in ogni tipo di
cellula dell’organismo. Segue la
maturazione, per cui queste cellule
diventano progressivamente più
differenziate fino a divenire
pluripotenti, cioè capaci di dar luogo
ad alcuni tessuti ma non a tutti, finché
non si differenziano ulteriormente in
cellule staminali emopoietiche, da cui
originano le diverse linee delle cellule
del sangue.
Nel sangue periferico non circolano cellule staminali ma solo cellule mature -globuli bianchi,
globuli rossi e piastrine- esito di quel processo maturativo che ha avuto sede nel midollo osseo a
partire dalle staminali immature.
Lo studio del midollo osseo si effettua tramite l’aspirato
midollare: si punge l’osso a livello della cresta iliaca posteriore
per prelevare il campione e, a seguire, si effettua l’esame
citomorfologico al microscopio ottico, al fine di visualizzare le
cellule e accertare se siano normali o patologiche.
Esistono però delle condizioni particolari, ma fisiologiche, in cui nel sangue periferico si ritrovano
cellule immature; ciò succede quando il midollo osseo è particolarmente stimolato a produrre
cellule del sangue, come nel caso di una grave infezione. Questa comporta una sovrapproduzione di
globuli bianchi e quindi l’eventualità di immettere in circolo anche cellule immature che
normalmente si trovano solo nel midollo osseo ma che, in questa condizione particolare di eccessiva
stimolazione, sono riversate in circolo in maniera anomala, troppo precocemente.
Lo stesso ragionamento può essere applicato anche alle emorragie gravi e alle anemie emolitiche,
che comportano anemizzazione acuta e uno stress importante per il midollo osseo, che comincia
quindi a soddisfare la richiesta producendo un maggior numero di globuli rossi. In corso di crisi
emolitiche aumentano quindi i reticolociti, ovvero globuli rossi giovani, immessi in circolo in uno
step maturativo precedente rispetto alla maturazione definitiva della filiera eritroide, tanto da
possedere ancora un residuo nucleare. Talvolta sono persino rintracciabili in circolo gli eritroblasti,
normalmente confinati esclusivamente nel midollo osseo.
Capiamo quindi che riscontrare nel sangue periferico cellule immature può costituire una semplice
risposta fisiologica transitoria.
Viceversa, il midollo osseo può essere sede di trasformazione neoplastica a partire da un clone
cellulare leucemico.
Se normalmente il patrimonio genetico impartisce rigide regole maturative alla cellula staminale
ematopoietica, la cellula tumorale diviene svincolata dalle stesse e va incontro ad un blocco
maturativo, ovvero si espande ma resta bloccata sempre allo stesso livello di maturazione. Ne
consegue pertanto la sostituzione del midollo osseo da parte di un clone cellulare neoplastico.
All’esame citomorfologico su sangue midollare il polimorfismo cellulare viene sostituito dal
monomorfismo cellulare: un unico tipo di cellula, bloccata da un punto di vista maturativo, che
impedisce la coesistenza delle cellule normali poiché invade l’organo ematopoietico.
Capiamo quindi che se ci limitassimo allo studio del sangue periferico la diagnosi di leucemia
potrebbe sfuggire, o perché l’emocromo risulta -eccezionalmente- pressoché normale, o perché allo
striscio di sangue periferico gli elementi blastici non sono rintracciabili perché ancora non immessi
in circolo.
L’indagine di secondo livello prevede necessariamente un aspirato midollare, che permette uno
studio a più livelli, da cui ha tratto origine la moderna classificazione delle leucemie.
1. Morfologia
La classificazione morfologica di riferimento è la FAB (Franco-Britannico-Americana), che
distingue le varie sottoclassi sulla base della rappresentazione cellulare al microscopio
ottico.
Tra tutte è certamente la più datata, insieme alla caratterizzazione citochimica.
2. Immunofenotipo
La determinazione del fenotipo immunologico si esegue tramite citofluorimetria con
anticorpi monoclonali specifici per le proteine espresse sulla superficie delle cellule
ematologiche. L’espressione di queste proteine, note come cluster di differenziazione (CD),
muta nel corso della vita maturativa della cellula, per cui specifici CD sono espressi in una
determinata fase maturativa e non in altre. L’utilizzo di anticorpi monoclonali CD-specifici
permette di rilevare l’entità di espressione di queste proteine, informandoci sullo step di
maturazione in cui si trova quella cellula in quel dato momento. Se è vero che la cellula
leucemica subisce un blocco maturativo, capiamo come, attraverso lo studio dei cluster di
differenziazione, sia possibile risalire precisamente a che punto del processo ematopoietico
si è bloccata.
La determinazione dell’immunofenotipo ha permesso di sottoclassificare le leucemie in
maniera molto più precisa, con gli inevitabili risvolti terapeutici e prognostici.
Si è infatti visto che determinati fenotipi immunologici sono associati a forme più
aggressive di leucemia, come la pre-preB, molto indifferenziata. Al contrario, la leucemia B
common, la più frequente nel bambino, lo è di meno.
3. Indagini genetiche, a loro volta articolate su due livelli:
• Citogenetica, ossia l’analisi del cariotipo.
Alcune alterazioni citogenetiche, presenti non sulle cellule somatiche ma
esclusivamente sulle cellule leucemiche, sono infatti correlate ad una maggiore
aggressività della leucemia, rappresentando quindi un indice prognostico
sfavorevole, come la t(4;11), associata ad una leucemia linfoblastica acuta del
bambino particolarmente aggressiva.
Per alcuni anni l’indagine citogenetica, associata a quella immunofenotipica, ha
rappresentato un modo per classificare la leucemia in maniera sempre più precisa, il
che ha comportato l’adozione di modifiche terapeutiche importanti. Nonostante ciò
molti pazienti, che magari avevano ottenuto buoni risultati in termini di remissione
di malattia, continuavano comunque a recidivare. In particolare, si è visto che
recidivavano soprattutto quelle leucemie definite a cariotipo normale, considerate
per questo a basso rischio poiché in passato l’assenza di alterazioni citogenetiche
faceva pensare che fossero meno gravi.
• Studio molecolare
Si è quindi compreso che le alterazioni genetiche potevano nascondersi a due livelli,
e cioè non solo a livello di cariotipo ma anche a livello molecolare. Alcuni fenotipi
di leucemia possiedono infatti un cariotipo normale ma sono comunque
particolarmente aggressivi; questo fenomeno è stato spiegato con analisi di biologia
molecolare che hanno permesso di detectare anche puntiformi alterazioni del
patrimonio genetico.
Se ne deduce che la classificazione delle leucemie è divenuta negli anni sempre più complessa e
sofisticata: dalla morfologica all’immunofenotipica, fino alla citogenetica e persino molecolare.
SBOB.: FRANCESCA PARADISI
21/10/2021- 3°ora
Vediamo un grafico che mostra i progressi ottenuti nella gestione pediatrica della leucemia
linfoblastica acuta nel corso degli anni: rispetto al primissimo periodo (curva rosa riferita al biennio
1968-1970), dove si osserva una sopravvivenza assai limitata a distanza di 10 anni dalla diagnosi
(con meno del 10% di piccoli pazienti che sopravvivevano), ad oggi (curva nera riferita agli anni
2006-2009) si sono ottenuti risultati incredibili con più del 90% dei pz che sopravvivono a distanza
di 8 anni dalla diagnosi.
Il conseguimento di tali risultati è stato possibile grazie, sia ad un miglioramento del sistema di
classificazione e definizione prognostica delle leucemie linfoblastiche acute (con conseguente
ottimizzazione del trattamento), sia attraverso una migliore capacità di diagnosticare e di seguire nel
tempo quelli che erano i successi ottenuti dai trattamenti chemioterapici in corso di cura.
La cellula tumorale leucemica esprime sulla propria superficie degli antigeni, i cosiddetti cluster di
differenziazione, CD (Cluster Differentiation), che possono essere messi in evidenza con la
citofluorimetria, metodica che attraverso il ricorso di anticorpi monoclonali opportunamente
marcati con fluorocromi è utilizzata per definire l’immunofenotipo dei cloni leucemici. Queste
cellule alterate, inoltre, presentano alterazioni sia di tipo citogenetico (ossia che si ripercuotono
sul corredo e sulle caratteristiche cromosomiche) che molecolari (vale a dire mutazioni che non
possono essere messe in evidenza dall’analisi del cariotipo, ma solo attraverso metodiche di
biologia molecolare); tutte queste alterazioni, come si è detto, correlano con la gravità della
neoplasia e quindi con la prognosi del pz. Nel corso degli anni siamo stati in grado di tipizzare la
cellula tumorale specifica per ogni singolo paziente, definendo quello che è il profilo di mutazioni
specifico che la porta a distinguersi da tutte le altre forme di leucemie, ossia siamo stati in gradi di
definire la cosiddette “firma genetica” che contraddistingue un determinato paziente rispetto agli
altri. Un notevole passo avanti nella gestione dei pazienti affetti da leucemia è stato fatto con lo
studio degli stessi in corso di trattamento chemioterapico, al fine di definire quelli che erano i
risultati della terapia, portando a distinguere così i pazienti che rispondevano al trattamento da
quelli in cui la risposta era molto più modesta. La peculiarità di una leucemia rispetto a qualsiasi
altra forma di tumore solido è che dopo circa 30 gg di trattamento, la malattia non si vede più, in
quanto tutte le cellule leucemiche sono state distrutte dalla chemioterapia. Il midollo osseo, di fatti,
è un organo estremamente produttivo, per cui al venire a meno delle cellule malate comincerà a
produrre nuovamente cellule normali. Ne deriverà che eseguendo un analisi microscopica
dell’aspirato midollare al termine di un primo ciclo di terapia (definito in termini tecnici terapia di
induzione), non si apprezzeranno più cellule neoplastiche. Questo riscontro, tuttavia, non mi perfette
di parlare di guarigione, in quanto la remissione (ossia l’assenza di malattia al termine del
trattamento) si configura solamente come il primo step dell’iter di cura del pz. Va considerato, di
fatti, che in un soggetto malato le cellule leucemiche sono miliardi ed essendo la leucemia un
tumore del sangue, per cui estremamente diffuso in tutto l’organismo, eseguire un’analisi su di una
piccola quantità di midollo osseo non significa avere un quadro completo di quella che è la malattia
del pz, per cui, anche se non apprezzo più cellule leucemiche all’aspirato midollare, questo non
significa che leucemia è scomparsa (tanto che il più delle volte queste malattie recidivano
nonostante la remissione dopo il trattamento). La cura della leucemia linfoblastica acuta del
bambino ha una durata complessiva di 2 anni; comprendiamo, dunque, la difficoltà di stabilire in
questo arco di tempo (a partire dai 30 gg dall’inizio del trattamento, fino al suo termine, quindi fino
a 2 anni) quello che è il successo della terapia (ossia se il paziente sta rispondendo o meno) se si
utilizza come metro di giudizio una metodica poco sensibile, come l’indagine microscopica
dell’aspirato midollare. A fronte di tale problematica vennero introdotte tecniche di biologia
molecolare, sempre applicate all’aspirato midollare, in grado di definire la presenza di malattia con
una sensibilità eccezionale (queste sono in grado di identificare una cellule neoplastica su miliardi
di cellule, amplificando il segnale proveniente della cellula tumorale in maniera esponenziale, così
da metterla in evidenza anche nel caso in cui le cellule tumorali superstiti siano estremamente poco
numerose). Tale metodo ha consentito, pertanto, di stabilire se la malattia fosse più o meno presente
(quindi definire il grado di remissione), anche quando non la si vedeva più alla microscopia.
Vennero definiti, quindi, degli specifici cut-off, così da poter stabilire in corso di cura quando il
trattamento sta funzionando (quantità di segnale al di sotto del cut-off stabilito) e quando, invece, la
risposta è modesta o insufficiente (segnale al di sopra del cut-off). In questo modo è stato possibili
stratificare i pazienti in diversi gruppi sulla base di quello che era il grado di remissione, nonché il
rischio di recidivare dopo trattamento. Tale indagine viene definita DEFINIZIONE DELLA
MALATTIA MINIMA RESIDUA e, come avremmo orami appreso, consiste nell’indagare
attraverso metodiche di biologia molecolare la presenza di piccole quantità di cellule leucemiche
che non si apprezzano all’aspirato midollare, ma che sono presenti e che, pertanto, potrebbero dare
luogo ad una recidiva di malattia. La definizione della malattia minima residua in corso di
trattamento rappresenta un momento fondamentale nella gestione del pz ematologico, in quanto
premette al medico di comprendere se la terapia stia conseguendo o meno risultati desiderati;
sulla base di tale esito, di fatti, egli può decidere se proseguire con il trattamento in questione,
adottare un’altra strategia terapeutica oppure candidare il paziente a trapianto di midollo. In altre
parole tale definizione consente di personalizzare il trattamento al caso specifico del pz e decidere,
in corso d’opera, se:
- Proseguire con la chemioterapia standard;
- Virare il trattamento verso un regime più aggressivo (chemioterapia ad alto rischio);
- Candidare il pz ad una chemioterapia seguita da trapianto di cellule staminali.
TARGETED THERAPY
Quello che abbiamo detto sinora, nonostante abbia cambiato notevolmente la prognosi di questa
malattia, non ha consentito ancora di guarire la totalità dei pz pediatrici malati di LLA. Ne deriverà
che per conseguire questo risultato sia necessario cambiare ulteriormente la gestione di questi
piccoli pazienti:
- Prendendo in atto dei limiti di alcune terapie (è inutile continuare a tratte i pz con la sola
chemioterapia se sappiamo che questa non riesce ad andare oltre ad un determinato risultato);
- Ricercando nuove strategie terapeutiche (ossia terapie alternative).
Queste ultime sono rappresentata dalle cosiddette “targeted therapy”, ossia la terapia a bersaglio
molecolare. Si tratta del caposaldo della medicina personalizzata, che si basa sulla messa in
evidenza di quelle che sono le alterazioni genetiche principali che sostengono l’attività neoplastica e
contro le quali si indirizzano in maniera altamente selettiva delle molecole farmacologiche (al fine
di arrestare la crescita esponenziale del tumore). L’enorme vantaggio di tale approccio terapeutico è
l’eliminazione dell’ampio spettro di tossicità tipico della chemioterapia (che di fatto agisce sulla
totalità delle cellule, sia normali che patologiche), in quanto l’azione del farmaco è selettivamente
diretta alle sole cellule anomale. Chiaramente una
terapia di questo tipo ha la necessitò di studi molto più
approfonditi, che permettano da una parte di
identificare quelli che sono i target molecolari e,
dall’altra, di sperimentare nuovi farmaci in grado di
dirigersi contro di questi. Rispetto alla chemioterapia,
pertanto, risulta più performante, più specifica, più
efficace, ma anche meno tossica. Ad oggi questa
rappresenta la nuova frontiera del trattamento
oncoematologico.
Vediamo una slide che schematizza alcune delle innovazioni terapeutiche che al giorno d’oggi
vengono applicate al fine di ottimizzare i risultati terapeutici ottenuti con la chemioterapia; questi
includono:
• Anticorpi monoclonali;
• Immunoterapia (che agisce proprio potenziando quelli che sono i limiti del sistema immunitario
nel riconoscimento e killing delle cellule neoplastiche).
Al centro dell’immagine è rappresentata una cellula leucemica linfoide appartenete alla linea B
(ricordando che il fenotipo più comune di leucemia linfoblastica acuta pediatrica è di tipo B) che
presenta in superficie delle proteine specificatamente espressa dalla cellula tumorale. Tra queste
osserviamo il recettore CD20 (Cluster di Differenziazione tipico dei linfociti B). Ad oggi abbiamo
a disposizione degli anticorpi specifici diretti contro il CD20, legato il quale trasferiscono alla
cellula dei segnali di killing, apoptotici, determinandone la morte. L’anticorpo monolocale in
questione è il Rituximab; si tratta di un farmaco grandioso che ha consentito di produrre dei risultati
eccezionali nel controllo dei linfomi di tipo B; si è osservato, di fatti, come l’impiego di tale
anticorpo anti-CD20 in associazione alla chemioterapia abbia decretato il raggiungimento di
risultati molto performanti.
Nella immagine successiva vengono schematizzate tutta una serie di terapie a bersaglio molecolare,
definite adiuvanti, in quanto condotte in associazione alla chemioterapia. Si tratta di immunoterapie
che utilizzano le cellule del sistema immunitario per distruggere il tumore. Si ha, di fatti, che il
sistema immune, oltre a difendere l’organismo dalla aggressione esterne di carattere infettivo,
assolve un ruolo di sorveglianza dell’organismo dallo sviluppo di neoplasie, per cui riconosce e
annienta le cellule neoplastiche a fonte dell’espressione di antigeni anomali, tumorali, non presenti
nelle cellule normali.
Spesso accade, tuttavia, che le cellule tumorali sviluppino delle mutazioni che non vengono
riconosciute dalle cellule del sistema immunitario, per cui la neoplasia continua ad accrescersi
indisturbata senza alcun freno. Sono stati, pertanto, sviluppato tutta una serie di farmaci in grado di
potenziare l’azione del sistema immunitario nel riconoscimento e nel killing del tumore, attraverso
meccanismi differenti.
Vi sono, ad esempio, degli anticorpi monoclonali definiti “Bi-specifici” (il cui meccanismo
d’azione è schematizzato nella figura in alto), che non sono altro che delle proteine sintetizzate
dall’industria farmaceutica in grado di legare due recettori (ossia si caratterizzano da una doppia
specificità, per cui legano selettivamente a due tipologie di antigeni espressi a livello delle cellule
del sistema immune). Hanno la caratteristica forma ad “Y” e (da una parte) sono in grado di legare
il CD19, una proteina espressa da una cellula leucemica B del bambino; avere un anticorpo
monoclonale che si diriga contro il CD19 è già un risultato, in quanto significa che questo anticorpo
riconosce selettivamente la cellula leucemica, tuttavia non è sufficiente per eradicare la malattia, in
quanto in questo caso il semplice legame non ne induce il killing. Pertanto l’industria farmaceutica
ha introdotto questo anticorpo monoclonale in grado di legare anche un secondo recettore, il CD3,
che è espresso dalla cellula T effettrice (ossia la cellula del sistema immunitario impiegata nel
killing del tumore). In altre parole questo farmaco recluta le cellule effettrici del sistema
immunitario (linfociti T, che esprimono tipicamente il CD3) e che non riconoscono il tumore; in
questo modo vengono avvicinate e legate alla cellula tumorale favorendo l’attività di killing. Si
tratta di una terapia rivoluzionaria, che non viene usata come alternativa al trattamento standard, ma
come uno dei farmaci disponibili nell’armamentario terapeutico nella lotta contro tali tumori.
Questa molecola si chiama il Blinatumomab, un anticorpo monoclonale bi-specifico (BiTE) che è in
grado di legarsi a due recettori (da qui la bi-specificità):
- Da una parte si lega al linfocita T che opera il killing (CD3);
- Dall’altra si lega alla cellula tumorale (CD19).
Ad oggi le leucemie ad alto rischio di recidiva così come le leucemie recidivate vengono trattate
con un schema terapeutico che prevede l’utilizzo associato della chemioterapia più l’anticorpo
monoclonale BiTE (Blinatumomab). I risultati che si stanno ottenendo sono straordinariamente
migliori rispetto all’utilizzo della sola chemioterapia. Si tratta di un farmaco eccezionale: questa
immunoterapia viene eseguita in infusione continua per 28 gg con pompe specifiche, che possono
essere trasportate, per cui il pz può stare tranquillamente a casa ed avere una qualità della vita
normale (con la sola necessità di sostituire la terapia nella pompa ogni 4 giorni). Nella immagine in
basso è schematizzato ancora meglio quella che è la struttura dell’anticorpo monoclonale
Blinatumomab, allestito impiegando proteine caratterizzate da una doppia specificità, ossia dirette
sia contro la cellula B leucemica che contro il linfocita T effettore.
Vediamo una cellula B leucemica che esprime sulla sua superficie dei Cluster di Differenziazione
(CD19, CD20, CD22, CD52 etc); potenzialmente ciascuna di queste molecole potrebbe
rappresentare un target immunologico da sfruttare per la distruzione della neoplasia.
Vediamo un’altra immagine che mostra come nel processo di maturazione da cellula staminale a
plasmacellula, il precursore del linfocita B esprime tutta una serie di cluster di differenziazione
specifici, che sono tipici di ogni tappa maturativa (CD19, CD20, CD22 etc).
Nonostante gli incredibili risultati conseguiti con l’introduzione dell’immunoterapia, l’uso di questi
anticorpi monolocali purtroppo non è ancora sufficiente per distruggere in maniera definitiva tutte
le leucemie: alcune di esse, di fatti, sono chemioresistenti (per cui divengono non responsive ad una
o più immunoterapie), in quanto subentrano delle mutazioni che producono un cambiamento
nell’assetto fenotipico della cellula neoplastica. Ne deriverà che ancora ad oggi possiamo trovarci di
fronte ad una leucemia o ad una neoplasia, che non risponde a questa tipologia di trattamento.
Di fatto vi è una cellula leucemica e un linfocita T naïve che esprime il T cell receptor, che tuttavia
non è in grado di dirigersi verso la cellula tumorale. Mediante la terapia genica facciamo in modo
che il linfocita T esprima degli antigeni di superficie in grado di riconoscere i cluster di
differenziazione specifici della cellula tumorale, come il CD19, così da convertire la cellula non
specializzata in un killer anti-tumorale. Questo processo ha consentito di ottenere dei risultati
straordinari anche in leucemie resistenti alle terapie tradizionali. Questo tipo di approccio, inoltre,
pensato originariamente per il trattamento delle leucemia, ad oggi lo si sta sperimentando anche in
altre patologie in campo ematologico (come il mieloma), così come nei tumori solidi.
Vediamo una diapositiva che riassume l’iter della CAR-T therapy, dal processo trasformativo
della cellula alla sua infusione nel malato. Il pz destinatario della terapia viene innanzitutto
linfodepletato, mediante una citoaferesi.
Con l’espressione “citoaferesi” si fa riferimento ad una metodica che, mediante un sistema di
circolazione extra-corporea che vede l’uso di un macchinario, preleva il sangue, lo filtra
(trattandone alcune sue parti, a seconda di quello che si vuole ottenere) per poi re-infondere
nuovamente il sangue depurato o comunque filtrato dalla componente che si vuole allontanare.
Nella linfodeplezione (come in questo caso) la componente che viene trattenuta è quella linfocitaria.
È una proceduta che si fa normalmente anche nella donazione di piastrine; queste, di fatti, possono
essere ottenute sia da sangue intero che mediante citoaferesi selettiva delle piastrine. Nel primo
caso il sangue intero viene processato, determinando così la scomposizione dello stesso in globuli
rossi, plasma e piastrine; i tre prodotti così ricavati sono poi impiegati per scopi e pz diversi. Da una
donazione di sangue intero, tuttavia, si ottiene un quantitativo di piastrine molto esiguo (pari a circa
1 unità), che non è assolutamente sufficiente per una donazione, per cui vi sarà la necessità di unire
più pool di pastine provenienti da diversi donatori, condizione che può creare dei problemi per il
ricevente (come lo sviluppo di diversi anticorpi anti-HLA). In pz più fragili si è visto come la
citoaferesi selettiva delle piastrine fosse molto più vantaggioso, in quanto a partire da un unico
donatore si possono prelevare fino ad 8 unità di piastrine (ossia 1 separatore di piastrine corrisponde
ad 8 unità di piastrine random) riducendo di molto il rischio di reazioni avverse. La citoaferesi delle
piastrine viene molto impiegata nei pz sottoposti a trapianto, i quali hanno una maggiore probabilità
di sviluppare anticorpi anti-HLA rispetto ai pz che non fanno trapianto. La citoaferesi, dunque,
consente di effettuare numerose procedure, quali separazione del plasma, prelievo di globuli rossi,
globuli bianchi o delle altre componenti corpuscolate del sangue fino a condurre il cosiddetto
“plasma exchange”, molto eseguito in determinate patologie (soprattutto autoimmunitarie), in cui la
totalità del plasma del paziente viene sostituito. Come si è detto questa metodica consente anche di
condurre una citodeplezione elettiva dei globuli bianchi (come in questo caso).
Una volta eseguito il prelievo ed asportati i linfociti T del malato, questi vengono spediti in
laboratori specializzati, facenti parte di centri di ricerca o di case farmaceutiche, in condizioni
strettamente controlla (mediante adeguate misure di conservazione). È in questi centri che viene
condotta la terapia genica, ossia il genoma del linfocita T viene modificato mediante l’inserimento
del gene specifico in grado di far esprimere alla cellula la proteina, ossia il recettore, che riconosce
il CD espresso dalla cellula leucemica (CD19). Si ottengono in questo modo i cosiddetti CAR-T
(Chimeric Antigen Receptor T cell). Concluso tale processo, i linfociti T trasformati vengono
rispediti al centro che ha eseguito il prelievo del pz (sempre con modalità di conservazione molto
rigide; in genere si utilizza la criopreservazione). A questo punto il centro conduce una
chemioterapia, al fine di indurre nel pz una aplasia midollare, per poi effettuare una infusone di
cellule CAR-T, che inizieranno a svolgere nel circolo del pz un’azione anti-tumorale diretta, così
da eliminare i residui leucemici (terapia di consolidamento). Si tratta di una procedura molto
costosa, ma che ha determinato un cambiamento epocale nella medicina e nella terapia di diverse
condizioni patologiche. Può essere effettuata solo in centri altamente specializzati, tra cui rientra
anche il centro oncoematologico di Perugia.
Una delle prime terapie biologiche, targeted, dirette selettivamente contro un’alterazione genetica è
stata quella indirizzata al cromosoma Philadelphia; si tratta di una terapia che ha consentito di
distruggere tutte le cellule che sono portatrici di tale mutazione, ossia la traslocazione
cromosomica 9-22 - t (9;22) - da cui trae origine una proteina chimerica, BCR-ABL, con completa
disregolazione dell’attività dell’oncogene BCR. Questa alterazione cromosomica ci interessa
particolarmente in quanto si configura come la mutazione distintiva della leucemia mieloide
cornica, ma che viene a ritrovarsi anche in altre leucemie, come le leucemie linfoblastiche
Philadelphia positive.
La glomerulonefrite a lesioni minime presenta lesioni visibili solo a livello anatomo-patologico al m.e. Negli
adulti la percentuale riscontrata è molto inferiore e questo spiega la differente risposta alla terapia steroidea e
spiega anche come la prognosi in età pediatrica sia nettamente migliore rispetto a quella dell’età adulta.
La SN riconosce come meccanismo patogenetico un disturbo immunitario, con la produzioni anticorpi che
danneggiano il glomerulo alterandone la filtrazione selettiva. Gli autoanticorpi (immunocomplessi circolanti)
sono un elemento diagnostico fondamentale ma ancora ad oggi non si conosce il motivo della produzione di
questi. L?assenza delle conoscenze sull’eziologia diventa importante in pediatria perché non rende possibile
l’inquadramento preciso della patologia.
La SN viene spesso collegata alla presenza di una infezione virale (adenovirus, Epstein Barr, coxackie) che
possono innescare la genesi di immunocomplessi che poi depositandosi a livello del glomerulo ne
determinano una ridotta funzione.
La proteinuria nella SN a lesioni minime è selettiva, mentre nelle altre forme (glomerulo sclerosi,
membrano-proliferativa e membranosa) di solito è più abbondante e non selettiva
Possono presentarsi con la SN anche microematuria
(globuli rossi visibili al microscopio) e macroematuria
(sangue visibile ad occhio nudo). Nelle urine possiamo
trovare anche grassi (lipuria)
La terapia sintomatica vien messa in atto per risolvere il sintomo fondamentale della sindrome nefrosica che
è la proteinuria, e di conseguenza l’edema; in primis viene impostata una dieta iposodica, vista la tendenza
all’ipertensione, normo o ipoproteica, è possibile somministrare albumina per correre la causa che determina
l’edema. In risposta alla somministrazione di albumina abbiamo un miglioramento dell’edema perché
abbiamo un ritorno dei liquidi all’interno del torrente circolatorio. Per ridurre l’afflusso di liquidi nel torrente
circolatorio viene effettuata la somministrazione del diuretico (furosemide, spironolactone, idroclorotiazide),
l’utilizzo di questi permette il miglioramento netto e
risolutivo dell’edema.
Possono esserci soggetti che rispondono alla terapia cortisonica e altri che invece non rispondono.
Quando iniziamo la terapia cortisonica possiamo trovarci davanti a tre possibili scenari:
• Soggetto che risponde al cortisone e quindi siam davanti ad una sindrome nefrosica steroide-sensibile
• Sindrome nefrosica steroide-resistente, non vi sono miglioramenti clinici e di laboratorio, siamo obbligati a
fare terapia con immunosoppressori
• Sindrome nefrosica steroide-dipendente, risponde alla terapia steroidea, ma appena questa viene interrotta i
sintomi ricompaiono
Nei casi di resistenza e dipendenza si rende necessario l’utilizzo di altri farmaci, queste saranno tanto
maggiori quanto il danno istologico è severo.
Nella fase in cui il pz si trova in follow up si deve monitorare la situazione con controlli periodici di
proteinuria (tramite stick anche a casa), visto il rischio di recidiva della forma a lesioni minime.
Lettura del caso clinico da parte del prof.
Molte di queste hanno un’eziologia genetica e vanno ricercate e riconosciute per fare una
diagnosi precisa.
Nei politraumatizzati, come ad esempio negli incidenti stradali importanti, il danno al rene
può essere da trauma diretto oppure più frequentemente può essere tubulare, per via del
rilascio di proteine muscolari che andando nel sangue vengono riassorbite a livello tubulare,
danneggiandolo.
Situazione frequente in clinica.
Spesso è senza sintomi, a volte si presenta con questi: ipertensione, edemi, riduzione della
diuresi, dolori articolari nel caso si presenti la porpora di Schoenlein-Henoch, dolore
articolare e rash (in questi casi s’inscrive nel quadro di lupus), oppure altre condizioni più
rare.
Di fronte ad un bambino che presenta delle urine di aspetto scuro seguiamo questo iter.
Bisogna andare ad indagare la presenza di queste condizioni.
Importante andare ad indagare segni d’infezione: è tipico il caso del bambino che ha avuto 3
settimane prima di sviluppare la s. nefritica un’infezione delle alte vie aeree, promossa dallo
streptococco beta emolitico di gruppo A.
L'esercizio fisico si chiede perché esiste l’ematuria da sforzo.
Schistosomiasi e tubercolosi sono forme più rare che possono complicarsi con un
interessamento renale.
Si passa poi a visitare il bambino per cercare segni e sintomi che orientino verso la diagnosi
di malattia.
La calcolosi colpisce anche i bambini.
Si pensa ad una glomerulonefrite grave, insufficienza renale o rene policistico quando
l’ipertensione è persistente.
L’ematuria è anche il segno della presenza di una neoplasia, adulti o bambini che siano, nei
bambini bisogna pensare al t. di Wilms detto anche nefroblastoma.
L'idronefrosi ostruttiva e la trombosi venosa renale sono condizioni più rare.
Difronte ad un’ematuria bisogna innanzitutto cercare di capire se ci troviamo difronte ad una
forma glomerulare o non glomerulare.
Possiamo distinguere i due quadri chiedendo gli esami che valutano la morfologia del globulo
rosso, perché la morfologia ci aiuta nel dire se il problema è a livello del glomerulo oppure
più basso; l’ematuria glomerulare presenta eritrociti dismorfici, proteinuria, cilindri
eritrocitari etc.
L’elemento fondamentale dell'ematuria glomerulare sono le emazie dismorfiche.
Questa è una classificazione delle varie cause di ematuria glomerulare e non glomerulare;
non serve memorizzarla per intero basta avere il concetto che difronte ad un’ematuria bisogna
considerare che dietro vi può essere una patologia glomerulare, tubulare,
multisistemica,vascolare, anatomica, oncologica, infettiva, presenza di calcoli, traumi oppure
alterazioni congenite o acquisite della coagulazione (si diagnosticano facilmente richiedendo
in prima battuta il pT e pTT, che ci consentono di studiare tutti fattori della coagulazione
tranne il fibrinogeno, che deve essere richiesto a parte, dato che un suo deficit può comunque
dare discoagulopatia.
In emolisi bisogna chiedere:
- l’emocromo perché ci dice se il paziente è anemico ed ha un MCV basso (qui bisogna
chiedere sideremia e transferrina, in caso di sideropenia saranno basse, e se sono normali,
l’elettroforesi dell’hb, per il tratto talassemico);
-bilirubina: in corso di emolisi sarà elevata l’indiretta;
-In presenza di anemia ed iperbilirubinemia basta fare il test di Coombs per fare diagnosi di
emolisi;
Altri esami come la conta dei reticolociti (saranno aumentati), l’aptoglobina (ridotta), Ldh
(aumentata), lo striscio del sangue e l’esame delle urine (per l’ematuria) non li richiediamo
immediatamente perché non sono specifici per l’emolisi, non ci consentono di dire se c’è
emolisi e non sempre vengono effettuati dai laboratori (es. conta dei reticolociti).
Abbiamo quasi sempre una riduzione della funzione renale, nei primi giorni di malattia si può
arrivare all’anuria.
La proteinuria per definizione è modesta.
L’ipertensione arteriosa è la conseguenza dell’oliguria.
Ricordarsi che i FANS possono dare un danno renale ed alcuni in particolare insufficienza
renale acuta per l’interferenza con la sintesi delle prostaglandine (es.ibuprofen).
Va ricordata perché è la più frequente causa di insufficienza renale acuta nei bambini al di
sotto dei 4 anni.
Si presenta con IRA: riduzione della diuresi, fino all’anuria, ipertensione arteriosa ed
aumento dell’azotemia e creatininemia.
Il laboratorio è importante per dosare gli elettroliti che sono alterati.
All’emocromo si può inoltre apprezzare anemia emolitica e bassissimi livelli di piastrine.
Tra le cause troviamo una gastrite emorragica associata ad un’infezione da E.choli che
produce la tossina melocitotossina.
Le petecchie si associano anche a questi quadri, non sono quindi la sola espressione di una
problematica piastrinica.
Salta la slide
Questi sono gli esami per diagnosticare un'ematuria glomerulare.
Gli ANA si ricercano per sospetto di connettivite.
Non è possibile parlare di infezione delle vie urinarie se sono presenti soltanto i batteri, senza
leucociti si parla di batteriuria.
Il laboratorio identifica il numero di leucociti per ml di urina, poi il medico definisce la
leucocituria se sono soddisfatti questi criteri.
Si tratta della forma infettiva più frequente in assoluto dopo le infezioni respiratorie.
È molto frequente, nei maschi soprattutto nel primo anno di vita, per le malformazioni a
carico delle vie urinarie, in generale sono le femmine ad essere maggiormente colpite per
motivi anatomici (lunghezza dell’uretra e vicinanza con l’ano).
Nell’infezione delle alte vie urinarie abbiamo un interessamento degli ureteri o più
frequentemente dei reni (pielonefrite).
L’elemento clinico che orienta la localizzazione dell’infezione è la febbre; tuttavia, nei
neonati questa non è sempre presente, qui si può presentare anche semplicemente con
inappetenza.
La batteriuria innocente (o asintomatica), rilievo occasionale di batteriuria, in assenza di
leucocituria e sintomatologia soggettiva, è una condizione benigna che non va trattata;
interessa prevalentemente le bambine in età scolare.
I sintomi che presentano i bambini variano a seconda dell’età.
del rene.
Questi sono esami più precisi ma non si fanno quasi mai.
La terapia antibiotica dura 7,10 gg.
Alla fine del trattamento è necessaria un’urinocoltura di controllo per vedere se abbiamo
eradicato il germe oppure no: la frequenza è tanto maggiore quanto più piccolo è il bambino,
qui il rischio di recidive è alto anche senza anomalie anatomiche (in presenza di queste
ovviamente il rischio è più alto).
Non si sofferma molto su queste ultime slides, le ho aggiunte per completezza; il professore
ricorda soltanto che nelle infezioni delle vie urinarie ci possono essere dei danni a carico
degli ureteri e/o dei reni, come delle cicatrici.
MALATTIE
REUMATOLOGICHE
MALATTIA REUMATICA
La malattia reumatica è una malattia infiammatoria sistemica in cui il trigger è
noto, a differenza di molte patologie dell’età pediatrica per cui abbiamo una
predisposizione genetica e trigger ambientali che sono di volta in volta diversi. Il
trigger in questo caso è unico ed è un’infezione streptococcica da β-emolitico di
gruppo A che, in un soggetto predisposto e a patto che ci siano determinati
sierotipi di Streptococco, può scatenare una risposta visibile a distanza di un paio
di settimane dall’infezione primaria con formazione di autoanticorpi, con
formazione di immunocomplessi che vanno a depositarsi in determinate sedi
dell’organismo e quindi determinano coinvolgimento multi sistemico con sintomi
che sono prevalentemente a carico delle articolazioni, del cuore, della cute, del
SNC.
Epidemiologia
• - M:F=1:1,5
• - Streptolisina O
• - Ialuronidasi
• - Streptokinasi
• - Deossiribonucleasi B
Eziopatogenesi
Solo il 3-4% della popolazione è suscettibile e solo alcuni ceppi di SBEA sono
reumatogeni.
Il contatto con lo Streptococco non è sufficiente; sappiamo che solo alcuni ceppi
innescano questo tipo di risposta, ci sono dei sierotipi che sono più strettamente
correlati, ma anche in questo caso ci deve essere una predisposizione del soggetto
a rispondere al sierotipo, e questa suscettibilità è data soprattutto da questi pattern
HLA DR7 e D8/17. I sierotipi di proteina M più frequentemente causa di febbre
reumatica sono: 1, 4, 5, 6, 18, 19 e 24.
I meccanismi sono complessi sia nella fase acuta che nella fase cronica.
La fase iniziale è la produzione di questi anticorpi cross reattivi (mimetismo
molecolare) che, quando
C’è anche una disregolazione dell’immunità adattativa per un difetto dei linfociti
T e per una iperattività dei linfociti B: questo, in parte è legato ad una
predisposizione genetica e ai sierotipi, in parte può essere legato ad altri fattori
concomitanti che hanno favorito l’innescarsi di questo meccanismo. Gli
immunocomplessi vanno a depositarsi nei vari organi e innescano meccanismi
secondari della flogosi con richiamo delle altre cellule dell’immunità specifica.
• una fase produttiva con proliferazione delle cellule della linea istiocitaria
(linfociti, plasmacellule, polimorfonucleati) e cellule che, quando sono
riunite nelle sedi perivascolari, vanno a formare il cosiddetto nodulo
reumatico;
• finita la fase acuta, abbiamo una fase di riparazione con l’attività dei
fibroblasti ed evoluzione di tipo cicatriziale.
Clinica
I criteri diagnostici sono tutt’ora criteri clinici definiti da Jones, ormai 50
anni fa, parliamo dei criteri maggiori e minori. Per fare diagnosi di certezza
devo avere 2 criteri maggiori o 1 criterio maggiore e 2 criteri minori (è uno
dei pochi fortunati che è riuscito ad ottenere un acronimo dal suo
cognome).
CRITERI MAGGIORI:
• - E: eritema marginato
• - Febbre
• - Artralgie
• - Alterazioni su ECG
Se io soddisfo 2 criteri maggiori o 1 criterio maggiore e 2 minori, a patto
che dimostri l’infezione pregressa da Streptococco β-emolitico, posso fare
diagnosi di malattia reumatica.
Andando a vedere meglio la situazione, in realtà ci sono anche circostanze
in cui possiamo parlare di malattia reumatica senza soddisfare in senso
stretto questi criteri:
- in caso di recidiva, quindi ha già dato manifestazione reumatica: in questo caso
soddisfa solo parzialmente i criteri;
- se si manifesta unicamente come corea (di Sydenham, ndr): l’unico dei criteri
maggiori che anche isolato mi permette di fare diagnosi;
Per quanto riguarda la revisione dei criteri avvenuta negli ultimi anni, la prima
rivalutazione riguarda il criterio di artrite o di artralgia: ci sono delle popolazioni
in cui la prevalenza di malattia reumatica è molto più elevata rispetto alla nostra,
e in queste popolazioni l’artralgia, senza chiari segni di artrite, è considerata un
criterio maggiore. A noi questo aspetto interessa poco perché siamo una
popolazione a bassa prevalenza per cui l’artrite è il criterio maggiore, l’artralgia
resta nei criteri minori.
• - Miocardite:
- Ingrandimentoaiacardiaca - Tachicardiapersistente
- Aritmie
• - Pericardite
- Doloretoracico
- Tonicardiaciovattati
- Sfregamentipericardici - Stasipolmonare.
Le manifestazioni cutanee (nel 10% dei casi) sono abbastanza
caratteristiche ed evocative di malattia reumatica e la forma più
caratteristica è l’eritema marginato: eritema inizialmente maculare che
tende ad estendersi confluente con elementi figurati, che poi tendono a
scolorire dal centro lasciando solo la periferia iperemica con una parte
centrale che ritorna al colorito delle zone cutanee circostanti che sono
indenni. L’eritema marginato compare prevalentemente su tronco e arti.
Oltre a queste abbiamo anche la N di Jones
ovvero la presenza di noduli sottocutanei (di Meynet) non dolenti di
consistenza teso-elastica che potrebbero ricordare ad esempio dei linfonodi,
solo che sono situati in zone dove non dovrebbero esserci stazioni
linfonodali come il dorso del piede o la superficie estensoria degli arti
quindi sui gomiti e sulle ginocchia.
La Corea minor (Sydenham) è l’unico dei segni maggiori che può avere un
riscontro isolato e permetterci da solo di fare diagnosi. È un segno tardivo,
insorge a distanza di mesi, quindi non è mai in concomitanza con la
sintomatologia articolare. Questa manifestazione clinica è correlata a lesione dei
nuclei della base, sistema extrapiramidale e del cervelletto con blocco degli effetti
inibitori. Le manifestazioni cliniche sono:
- Attacco reumatico in genere con l’esordio articolare che si può presentare o con
decorso monociclico o con decorso policiclico con ripresa dei sintomi alla
sospensione della terapia: può esser una singola manifestazione o ripresentarsi in
modo oscillante nel momento in cui sospendo la terapia.
- Posso avere delle recidive che sono tanto più frequenti tanto più sono vicino al
primo episodio. La probabilità nei primi 5 anni è di 1 caso su 5, con l’arrivo della
pubertà è più facile avere nuove manifestazioni. È fondamentale limitare le
recidive perché tanto maggiori sono, tanto maggiore è la probabilità di sviluppare
un danno cardiaco di una certa importanza.
Terapia
3. Eventuale tonsillectomia
Questa è sicuramente la cosa più difficile ovvero dare l’antibiotico per bocca 3
volte al giorno: il bambino in genere, quando diamo Amoxicillina in corso di
infezione streptococcica, sfebbra in 2 nano secondi dopo la pima dose quindi si
sente bene e facilmente sospende la terapia antibiotica. Sperare che facciano 10
giorni di terapia è probabilmente la cosa più difficile: l’aderenza ad una terapia in
cui il sintomo si spegne molto precocemente tende ad azzerarsi rapidamente, e
questo è il fattore principale per cui ci sono ancora bambini che presentano
malattia reumatica, perché non ci sono grosse situazioni di resistenza a questo
tipo di terapia antibiotica. Studi dimostrano che fino a 5-7 giorni la compliance
alla terapia è abbastanza buona (60-80%), ma poi crolla: a 10 giorni la
compliance è piuttosto bassa del 20-50%.
Una alternativa per cercare di evitare che tutti sviluppino malattia reumatica, è
stata quella di utilizzare possibili cicli di antibiotici che richiedano una durata
inferiore ma ottengano lo stesso effetto nel minimizzare l’evoluzione verso
malattia reumatica in chi è predisposto.
Consideriamo inoltre che, nel soggetto che ha avuto una cardite e sta facendo la
terapia cortisonica, quando la scaliamo dobbiamo modificare il dosaggio
dell’aspirina per evitare il rebound glucidico.
Diagnosi differenziali
Alcune rientrano
oggettivamente difficili da definire (al di là di alcune forme autoimmuni che
danno coinvolgimenti sia articolari che cardiaci che comportamentali
neurologici), soprattutto sono 5 forme che dobbiamo prendere in considerazione
come diagnostica differenziale iniziale in un bambino che ha d’esordio una
sintomatologia articolare.
Artrite settica
Altre sono
Artrite settica
Artrite reattiva
Malattia di Lyme
Porpora di Schonlein-Henoch Artrite idiopatica giovanile Drepanocitosi
infezione streptococcica
Artrite reattiva
• " #ANAeFR–
Malattia di Lyme
• " #mialgie
• " #miocardite
In seguito coinvolgimento articolare con:
Può avere, in fase acuta, edemi sia agli arti inferiori che agli arti superiori anche
senza porpora e può avere artralgia o artrite delle grosse articolazioni (caviglie e
ginocchia). Nel 50% dei casi i bambini presentano dolori addominali con nausea
e vomito.
Nella fase inziale di solito i sintomi sono cutanei e articolari, nel corso dei giorni
il bambino potrebbe anche sviluppare una dolorabilità addominale correlata alla
deposizione di immunocomplessi nel comparto mesenterico. Ma se il dolore
cambia come entità e come durata (quindi anziché avere un dolore di tipo colico
diventa fisso) deve far pensare a una delle possibili complicanze che è quella più
frequente nella fase acuta della Porpora di SchönleinHenoch che è
l’invaginazione intestinale.
MALATTIA DI KAWASAKI
La seconda vasculite più frequente dell’età pediatrica è la malattia di
Kawasaki, vasculite che coinvolge i vasi di medio calibro. Di per sé è una
malattia che sarebbe auto risolutiva nella sua fase acuta e che riveste
importanza semplicemente perché tra i vasi di medio calibro ci sono le
coronarie, sede della complicanza principale che è causa di mortalità in fase
acuta (anche se sempre meno) e causa di mortalità nel giovane adulto
sportivo se non è stata riconosciuta nell’età pediatrica.
Prende il suo nome da un giapponese tutt’ora vivente (che è venuto 4 volte
a Perugia negli ultimi 15 anni: io ho assistito alla lezione sulla malattia
che porta il suo nome).
La sua definizione iniziale è sindrome mucocutanea linfonodale perché i
sintomi maggiormente presenti sono il coinvolgimento dei linfonodi, della
cute e delle mucose. È una vasculite acuta sistemica , generalizzata in tutte
le arterie di medio calibro dell’organismo, auto risolutiva dopo la fase acuta
(che però include le arterie del circolo coronarico), la cui eziologia è
espressione della gran parte della eziologia dell’età pediatrica quindi una
predisposizione genetica e un trigger ambientale che di volta in volta può
essere differente e che colpisce soprattutto i primi anni di vita.
Ha un’incidenza estremamente variabile, da noi è 4-6 casi su 100mila
bambini sotto i 5 anni di vita; nelle popolazioni del sud est asiatico è molto
più elevata tant’è che la diagnosi iniziale della malattia è stata fatta in
Giappone.
Ha una variabilità con una maggiore prevalenza, da un punto di vista
epidemiologico, in inverno e primavera e questo rende conto del fatto che
verosimilmente la maggior parte dei triggers che la innescano sono di tipo
infettivo e la maggior parte delle forme infettive ce le abbiamo in quel periodo
dell’anno.
Epidemiologia
• - 80%deicasisottoi4anni,5%soprai10anni
• - M:F= 1.7:1
• - TNA-α
Clinica
I criteri diagnostici sono criteri clinici, quanto meno nella forma tipica:
• Febbre presente da almeno 5 giorni che non risponde alla terapia antibiotica
(se risponde alla terapia antibiotica escludiamo la malattia di Kawasaki)
• desquamazione)
• Iperemia congiuntivale
• Linfoadenopatia laterocervicale
Quindi se ho la febbre con queste caratteristiche e 4 di questi 5 segni posso
fare diagnosi di malattia di Kawasaki a patto di aver fatto un minimo di
diagnosi differenziale. Ci sono diverse malattie tra cui il morbillo e la
scarlattina che inizialmente possono essere confuse con la malattia di
kawasaki; ulteriore fattore confondente è che questi 5 elementi clinici
potrebbero non essere contemporaneamente.
Quando non soddisfo questi criteri devo aiutarmi cercando degli elementi
di minore importanza:
Kawasaki incompleta
• - Infezioni:
• Parassiti: toxoplasmosi
• Rickettsie
• - Immunologiche/allergiche:
• Reazioni da ipersensibilità
• Sindrome di Steven-Johnson
• Sarcoidosi
• - Tossine : mercurio
Il decorso clinico è:
• gli indici di flogosi, che sono alti in questa fase poi si riducono
complessivamente;
• - La fase subacuta
Manifestazioni cardiovascolari
• " #ECG
• " #aritmie
• " #Cardiomegalia
• medi 5-8mm
• grandi ≥8mm
Queste sono immagini vecchie in cui si vede o il singolo aneurisma
gigante o aneurismi o ectasie su zone diverse del circolo coronarico.
Il segno precoce è un iperecogenicità della tonaca muscolare quindi
un’aumentata riflessione dell’onda ecografica in corrispondenza della
tonaca muscolare della coronaria che è il primum movens del danno
da sfiancamento della parete. Quando abbiamo segni di questo tipo
facciamo diagnosi di malattia da Kawasaki.
L’evoluzione senza trattamento può essere determinata per via
ecocardiografica:
Terapia
• - Il 25% dei casi restano stabili e in questi c’è un rischio del 7-20%
di sviluppare in
qualunque momento della vita stenosi e quindi un fenomeno ischemico o
trombotico
Esiste una piccola percentuale di pazienti (3-5%) che non risponde alle due dosi
di immunoglobuline. In questi casi le linee guida sono un po’ nebulose: o si torna
alle terapie precedenti con corticosteroidi oppure suggeriscono di rivedere la
diagnosi differenziale.
Accanto alla terapia eziologica devo fare una terapia antinfiammatoria perché
ho un quadro infiammatorio importante. Si somministra aspirina:
• " #Dose elevata (80-100 mg/kg) fino alla scomparsa della febbre
per 48 ore
• " #Dose antiaggregante (3-5 mg/kg/) per 6-8 settimane o fino alla
normalizzazione delle
piastrine
• - 10 anni: 95%
• - 20 anni: 88%
• - 30 anni: 88%
L’attuale flow-chart approvato è quello che si basa sull’inquadramento
inziale clinico: se ho già dei segni di certezza clinici, mi inserisco sull’iter
terapeutico delle due dosi di immunoglobuline. Nei soggetti che non
rispondono posso scegliere se fare i corticosteroidi (l’infliximab
eventualmente si può considerare), la plasmaferesi o altre terapie che hanno
dati su pochi pazienti.
Se non soddisfo completamente i criteri cerco di aiutarmi con tutti gli esami
emato-biochimici e strumentali che aumentano la mia capacità di fare
diagnosi di forme incomplete o atipiche e poi mi inserisco sullo stesso iter
terapeutico.
Pediatria, seconda ora, 04/11/2021
Sbobinatrice: Teresa Tibido’
ARTRITI ASSOCIATE A MALATTIA INFIAMMATORIE CRONICHE INTESTINALI
Artriti non infettive che insorgono in pz affetti da morbo di Crohn o retto-colite ulcerosa. Le
manifestazioni articolari possono essere comparire prima dell’interessamento intestinale (anche anni
prima), e quindi è importante che queste non vengano trascurate, non bisogna sottovalutare l’ipotesi
che sia il primo segno di una malattia infiammatoria cronica intestinale.
Più colpite sono le articolazioni periferiche, mentre le articolazioni sacroiliache sono coinvolte in un
numero minore di casi in pz HLA-B27+ (anche qui vi è l’importanza di un certo tipo di aplotipo HLA,
che potrebbe esserci utile).
Si presenta con episodi ricorrenti di artrite che durano circa 2 settimane e talvolta l’artrite persiste per
mesi, ma il danno articolare è insolito. La riacutizzazione dei sintomi intestinali correla con la
riaccensione dell’artrite.
ARTRITE PSORIASICA
E’ una forma che si presenta in percentuali piccole, forte prevalenza per il sesso femminile. Le
articolazioni colpite sono soltanto le piccole articolazioni, di numero non superiore a 5.
Anche qui gli esami di laboratorio sono poco utili: VES e PCR normali o aumentati, FR-, qualche
volata gli ANA sono positivi e in questo caso bisogna sottoporre il pz alla visita oculistica con la
lampada a fessura.
La prognosi della dell’artrite psoriasica è sfavorevole rispetto alle altre forme di oligoartrite, con
possibile danno/deformità articolari residui.
La diagnosi è piuttosto facile, perché il pz si presenta che già soffre di psoriasi o c’è forte familiarità
materna o paterna per psoriasi.
DIAGNOSI DI AIG
La diagnosi è solo clinica, non abbiamo purtroppo test di laboratorio o esami strumentali che possano
confermare la diagnosi, e quindi è una diagnosi di esclusione. Esami di laboratorio ed esami
strumentali possono supportare la diagnosi clinica, aiutare nella diagnosi differenziale, monitorare il
decorso della malattia, la risposta alla terapia, la tossicità della stessa.
Gli esami che comunque bisogna chiedere, per escludere le altre forme, sono:
1. Conta dei globuli bianchi, VES e PCR: riflettono l’estensione del processo infiammatorio.
Aumentano soprattutto nella forma sistemica. VES e PCR sono anche utili come indicatori di
attività di malattia e per monitorare la risposta alla terapia.
2. Anemia nelle malattie infiammatorie croniche.
3. FR che troviamo positivo in pochi casi in età pediatrica. E’ aspecifico, non utile per la diagnosi
e può avere significato prognostico.
4. ANA+ indica aumentato rischio di sviluppare uveite cronica.
5. HLA-B27: dovrebbe essere testato in pz con artrite associata ad entesite, indica suscettibilità
a sviluppare interessamento assiale.
6. Se si sospetta che l’artrite sia parte di una sottostante malattia del connettivo è utile testare
anche Ab anti-nDNA, C3, C4 e livelli di Ig.
Le indagini strumentali ci servono per quantificare il danno al tessuto osteo-articolare. Una volta
fatta diagnosi bisogna procedere in primis con un esame radiografico per:
• Tumefazione dei tessuti molli periarticolari
• Eorsioni marginali dell’osso subcondrale
• Osteoporosi iuxtarticolare
• Saldatura precoce dell’epifisi con ripercussione sulla crescita dell’osso
• Neo apposizione periostale
• Riduzione e dello spazio articolare
• Anchilosi delle articolazioni interessate
Eseguire anche l’esame radiografico dell’articolazione controlaterale, anche se clinicamente non
interessata dal processo flogistico, a scopo comparativo.
Anche l’ ecografia è importante e mi permette di vedere:
• versamento articolare,
• proliferazione, ipertrofia della sinovia
• l’erosione della cartilagine articolare e dell’osso subcondrale
• edema dei tessuti molli periarticolari
Con Eco-Doppler si evidenzia l’aumentata vascolarizzazione della sinovia (indice di attività del
processo infiammatorio articolare).
L’ecografia viene utilizzata per la valutazione ed il monitoraggio dell’artrite, è una guida per
l’asportazione e/o l’iniezione intra-articolare. E’ sicuramente utile, risulta essere un esame innocuo e
facilmente ripetibile con l’unica limitazione che è un indagine operatore dipendente.
La RMN è molto importante poiché mostra
tutte le strutture che possono essere coinvolte
nel processo infiammatorio articolare:
sinovia, cartilagine articolare, menischi,
legamenti, tendini, osso subcondrale. Sono
alterazioni che dobbiamo ricordare e
ricercare:
• ipertrofia della sinovia
• edema osseo
• erosioni della cartilagine articolare
• piccole cisti subcondrali
Guardando il referto di una RMN bisogna
cercare gli elementi di conferma della nostra diagnosi. E’ utile nel differenziare artrite settica da
un’AIG. Enhancement della sinovia, dopo somministrazione di MDC (gadolino), è indice di attività
del processo infiammatorio articolare.
La scintigrafia ossea si usa molto raramente,
evidenzia precocemente alterazioni infiammatorie
ma è poco specifica. E’ l’esame elettivo per cercare
metastasi e per lo studio di un’ osteomielite.
Bisogna tenere a mente tutte le situazioni che devono essere prese in considerazione. I tumori entrano
in DD con tutte le forme di AIG, non solo i linfoproliferativi ma anche i tumori ossei.
L’artrite settica:
E’ molto più frequente delle artriti immunitarie, almeno in pediatria, e di conseguenza bisogna sempre
considerarla in prima battuta. Questa risulta essere quasi sempre (>90%) monoarticolare. Gli agenti
eziologici più frequenti sono: Hemophilus influenzae (<2aa), Staphilococcus aureus (>2aa),
Streptococchi ed Enterococchi.
L’artrite settica va conosciuta e riconosciuta tempestivamente. E’ una forma di infezione molto severa
e molto aggressiva in quanto è in grado di approfondarsi nei tessuti circostanti cute e sottocute (dando
una cellulite), poi dare un coinvolgimento dell’osso (osteomielite) e infine attraverso l’osso può
raggiungere il torrente circolatorio e dare setticemia. Quindi è una situazione estremamente pericolosa
soprattutto nei bambini piccoli.
Sintomi:
• Locali sono: dolore articolare, tumefazione, calore, eritema della cute sovrastante, impotenza
funzionale.
• Sistemici sono: febbre, malessere e irritabilità.
In questo caso, quasi sempre, oltre al forte dolore dell’articolazione abbiamo anche la febbre, che di
solito nelle forme oligoarticolari non vi è. → La febbre aiuta ad orientare il medico verso una diagnosi
di artrite settica invece che verso un’artrite idiopatica oligoarticolare.
Agli esami di laboratorio ritroviamo i globuli bianchi alti (neutrofilia spiccata), VES altissima e PCR
aumentata. L’emocoltura risulta positiva nel 40% dei casi.
Il gold standard per la diagnosi è artrocentesi: si punge l’articolazione e poi si aspirare il liquido in
modo da poterlo coltivare per identificare l’agente eziologico e per fare l’antibiogramma, utile per
impostare una terapia antibiotica mirata. Solitamente si parte sempre con una bi-terapia ad ampio
spettro fino a quando non si identifica il germe, e a questo punto si inizia la terapia specifica.
L’Artrite reattiva
Artrite innescata da un’infezione localizzata in una sede diversa e distante dall’articolazione
interessata. L’agente infettivo non invade direttamente l’articolazione, altrimenti parleremmo di
artrite settica, ma l’artrite deriva dal fatto che in maniera reattiva si innesca un’infiammazione. E’
sempre un fatto di iper attività del sistema immunitario. Infatti, la terapia non è antibiotica ma
antiinfiammatoria tramite uso di FANS o terapia steroidea, nelle forme più aggressive.
Solitamente il punto di partenza sono le infezioni del tratto gastro-intestinale (Shighella, Salmonella,
Yersinia, Campilobacter, tutte le età) e genito-urinarie (Chlomydiatrachomatis, adolescenti) e l’artrite
tende a comparire dopo 1-4 settimane dalla forma infettiva scatenante.
L’esordio è acuto ed è spesso una forma monoarticolare, che riguarda le grandi articolazioni degli arti
inferiori. Si presenta con abbondante versamento, scarsa infezione sinoviale e tende ad avere una
regressione spontanea (settimane o mesi) con prognosi buona senza sequele.
Importante è l’esame obiettivo che deve essere ben preciso, ma soprattutto l’anamnesi perché bisogna
chiedere se nelle settimane precedenti ci sono stati infezioni in altri apparati. ANA e FR sono negativi,
RX ed ecografia sono aspecifiche (versamento, tumefazioni tessuti molli, osteopenia), all’
artrocentesi c’è assenza di DNA mediante PCR e gli esami colturali sono spesso negativi.
Mentre la malattia reumatica ha una buona risposta all’acido acetilsalicilico, l’artrite reattiva ha scarsa
risposta ad ASA e FANS quindi quello che bisogna fare è semplicemente una terapia antibiotica con
amoxicillina e profilassi con benzatinpenicillina per almeno un anno.
Malattia di Lyme
Agente eziologico è la Borrelia burgdorferi, trasmessa mediante morso di zecca. E’ una patologia
multisistemica, multifasica.
All’inizio si manifesta con artralgie, con epatosplenomegalia e con febbricola e quindi rappresenta
una problematica che non dobbiamo dimenticarci. Negli stadi successivi possiamo avere artrite
franca. Solitamente intermittente, mono-oligoarticolare e riguarda le grandi articolazioni (ginocchia).
Se non curata, cronicizzazione con erosione della cartilagine articolare.
Per la diagnosi è importante l’anamnesi, positiva per puntura di zecca, ci sarà presenza di artrite
migrante fugace e anticorpi specifici.
Artrite tubercolare
Ricordiamoci che la tubercolosi può colpire le articolazioni a seguito di interessamento osseo.
La tubercolosi dopo aver invaso le vie respiratoria e il polmone (danno tipico reperto radiologico che
sarebbe il complesso primario), si estende al SNC, al tratto gastro-intestinale, alle ossa e da qui ci può
essere coinvolgimento articolare.
Solitamente è una monoartrite cronica, non dolente, prevalente tumefazione articolare e sono
coinvolti soprattutto ginocchio e polso.
Per la diagnosi ci avvaliamo della intradermoreazione di Mantoux che risulterà positiva e si può
eseguire artrocentesi con coltura del liquido sinoviale, che sarà anch’essa positiva.
Leucemia
Abbiamo una oligoartrite con dolore molto intenso, osseo più che articolare, notturno e accentuato
dal carico, con assenza di rigidità. Ci saranno sintomi sistemici: febbricola, astenia, pallore.
Utili per la diagnosi sono le alterazioni ematologiche: anemia, neutropenia, piastrinopenia. Una cosa
interessante che ci può aiutare per la DD è che LDH e acido urico sono aumentati, cosa che non
abbiamo nelle artriti. Indispensabile è lo striscio periferico, in quanto è un esame non invasino,
semplice e ci mostra se ci sono forme immature nel torrente circolatorio e poi la diagnosi si farà con
aspirato midollare.
TERAPIA DELL’AIG
Gli obiettivi della terapia sono controllare l’infiammazione articolare prevenendo l’insorgenza di
danni o deformità, trattare le eventuali complicanza sistemiche, evitare gli effetti collaterali dovuti
alla terapia e garantire una buona qualità di vita.
La terapia si articola in:
a. Terapia di primo livello con antiinfiammatori non steroidi o infiltrazioni intraarticolari di
glucocorticoidi (soprattutto nelle forme monoarticolari).
b. Terapia di secondo livello, quando i risultati con la prima non sono ritenuti sufficienti, si
utilizzano i farmaci biologici o il Methotrexate, che interferiscono con le interleuchine.
DIABETE MELLITO DI TIPO 1
Il diabete mellito di tipo 1 è uno stato di deficit assoluto o relativo di insulina che conduce ad una
elevazione cronica delle concentrazioni di glucosio nel sangue (iperglicemia). E’ una malattia cronica
autoimmune nella quale si verifica una progressiva distruzione delle cellule beta del pancreas
endocrino.
Per studiare l’epidemiologia del diabete in età pediatrica sono stati istituiti:
• WHO DIAMOND Study (progetto multinazionale coordinato dalla OMS e ci sono oltre 80
Paesi partecipanti nei 5 continenti).
• EURODIAB AVE Study (progetto finanziato dall’ Unione Europea e coinvolge 24 regioni
d’Europa)
• RIDI (Registro Italiano del Diabete Infantile, nel nostro Paese)
Il numero di casi è tanto maggiore quanto più siamo lontani dall’equatore. Questo è un elemento
importante, confermato anche da altre casistiche, che ha suggerito come il clima incide in questa
patologia. In Finlandia, Svezia ci si ammala molto di più rispetto alla Spagna, per esempio, che è
molto più calda. Quindi temperature fredde sembrerebbero facilitare l’attivazione del sistema
immunitario. L’unica incredibile eccezione a questa regola è l’Italia che ha una modesta incidenza,
ma la Sardegna (Nord-Est) ha un’incidenza subito sotto la Finlandia e non si sa bene perché, visto
che il clima è lo stesso del resto del Paese. Questo conferma l’importanza della genetica, che è più
importante dei fattori ambientali.
Il diabete è in aumento in tutto il mondo e non sappiamo bene perché. C’è una stagionalità
nell’esordio, un aumento di incidenza nei mesi invernali con il freddo correlato ad esposizione ad
agenti patogeni. Non vi sono sostanziali differenze tra maschi e femmine.
Fattori genetici:
• Familiarità della malattia
• C’ è una associazione con antigeni di
istocompatibilità (HLA- DR3,DR4 e
DQ2) come per le malattie
autoimmunitarie
• tanti singoli geni imputati
Fattori ambientali:
• Infezioni virali (Echovirus, Coxsackie A e B)
• Alimenti (proteine del latte vaccino, glutine, vit D, ..). Si è visto che i bambini che nei primi
6 mesi sono allattati con latte materno hanno un rischio di sviluppare la malattia molto minore
rispetto a chi ha assunto latte artificiale.
• Tossine
I fattori ambientali favoriscono l’instaurarsi dei meccanismi autoimmunitari che conducono alla
distruzione delle beta-cellule.
E’ un malattia autoimmunitaria e quindi nel sangue del soggetto ritroviamo anticorpi contro le cellule
insulari (ICA) che si ritrovano nella maggior parte dei soggetti con T1DM di recente diagnosi. Gli
ICA ad alto titolo (>20 unità JDF) predicono un rischio del 40-60% nei successivi 5-7 anni. Gli ICA
e gli altri auto-anticorpi sono presenti nel periodo di “prediabete”. Quando sono presenti anticorpi
multipli la capacità predittiva aumenta.
Importante il grafico in alto a sx.
Il patrimonio di beta cellule inizialmente
è del 100% → Attivazione della malattia
con produzione di auto-anticorpi contro
le cellule di Langerhans, anticorpi anti-
insulina e anti-insula → Il patrimonio di
cellule beta incomincia a ridursi via via
che l’auto-aggressione proceda, ma il
soggetto non presenta nessun sintomo in
questa fase → I sintomi compaiono
quando il soggetto perde almeno il 90%
delle beta cellule, questo perché il
pancreas ha una grande riserva
funzionale. L’auto-aggressione a carico
del pancreas da parte degli autoanticorpi
inizia mesi/anni prima rispetto alle manifestazioni cliniche. → A seguito delle manifestazioni cliniche
ci può essere un periodo di remissione, chiamato “luna di miele”, in cui apparentemente il fabbisogno
insulico del soggetto si riduce → Successivamente avremo una totale distruzione delle cellule beta.
Infatti per il diabete mellito abbiamo una terapia sostitutiva, ma purtroppo non possiamo ottenere la
guarigione del soggetto.
Il T1DM esordisce nella maggior parte dei bambini con:
• Poliuria (pollachiuria, nicturia, enuresi)
• Polidipsia
• Iperfagia
• Dimagrimento
In alcuni Paesi e popolazioni ed in alcune circostanze può avere un’insorgenza atipica.
Normale funzionamento di
una beta cellula:
La concentrazione di glucosio
ematico è un’informazione
che la beta cellula deve avere
per permettere una ottimale
produzione di insulina.
Il glucosio nel torrente
circolatorio tramite il recettore
GLUT2 entra nella cellula
→Attivazione della glicolisi
che va a modificare il
metabolismo dei mitocondri
→ Attivazione delle cascate
dei mediatori intracellulari →
Questo porta ad una
modulazione dei canali del
potassio, con una loro chiusura → La membrana della beta cellula si depolarizza → Apertura dei
canali del calcio, che permettono così l’entrata di questo ione all’interno della cellula →Segue
l’esocitosi dei granuli contenenti insulina, che si riversa nel torrente circolatorio.
In molte delle forme di diabete monogenico, la mutazione del gene riguarda i canali del potassio. La
perdita di questo canale fa si che ci sia una perdita degli eventi a valle, quindi ridotto rilascio di
insulina con conseguenti sintomi del diabete.
L’alterazione del canale del potassio è legato spesso o all’alterazione della proteina Kir6.2 o alla
mutazione della proteina SUR1. Quest’ultima proteina può essere riattivata facilmente utilizzando le
sulfaniluree, farmaci utilizzati normalmente nel diabete di tipo 2. A volte succede che queste forme
monogeniche non vengano riconosciute e di conseguenza si instaura una terapia con insulina che
risolve i sintomi, ma è comunque una terapia errata per quel pz.
Molte di queste forme sono associate anche a ritardo mentale.
➔ MODY sono 8 forme (anche se nell’ultima classificazione sono aumentate), legate alla
mutazione di un gene ed hanno degli aspetti importanti come la sensibilità alle sulfaniluree,
presentano basso rischio di complicanze microangiopatiche a carico del rene, nervo
periferico, dell’occhio rispetto al diabete classico e raramente vanno incontro all’acidosi
diabetica, altra temibile complicanza.
MALATTIA CELIACA
La Malattia Celiaca è un’enteropatia immuno-mediata dalla ingestione di glutine in individui
geneticamente predisposti, caratterizzata da un’intolleranza permanente al glutine del frumento e alle
prolamine dell’orzo e della segale. Varietà di presentazioni cliniche:
• Sintomi tipici (sindrome da malassorbimento)
• Sintomi atipici
Questa è una malattia ad oggi trattabile tramite la dieta, ma non è curabile perché l’intolleranza al
glutine è permanente.
Il glutine è la frazione idrosolubile della farina del frumento e costituisce il 90% delle sue proteine:
• Gliadina (solubile in alcool)
• Gluteina (insolubile in alcool)
Prolamine: Proteine tossiche per la somiglianza con il glutine contenute anche in altri cereali come
orzo, farro, segale , avena.
Come per tutte le malattie autoimmunitarie vi è una differenza notevole di prevalenza tra le varie
popolazioni. In Italia abbiamo una prevalenza molto alta 1:80. Vi è una certa preferenza per il sesso
femminile (F/M pari a 2:1). Rara nelle popolazioni afro-americana, cinese e giapponese.
E’ una malattia genetica perché si nasce con questa predisposizione. Se una persona non presenta i
geni di predisposizione quasi sicuramente non dovrebbe sviluppare malattia. Se in vece ha i geni
necessari, potrà manifestare l’intolleranza a qualsiasi età.
Il marcatore della predisposizione è lo studio degli aplotipi HLA e in particolare i geni DQ2 e DQ8.
Gli studi di immunologia hanno permesso di identificare degli aplotipi che sono favorenti lo sviluppo
di questa malattia (in comune con il diabete, le artriti) e gli aplotipi che invece sono protettivi.
Geni DQ2 e DQ8 sono localizzati sul cromosoma 6p21.3 e codificano per alcune glicoproteine che
si legano ai peptidi gliadinici e formano un complesso HLA-antigene che può essere riconosciuto dai
recettori delle cellule T CD4+ nella mucosa intestinale.
Quale informazione fornisce l’analisi dell’HLA?
• Se DQ2 e DQ8 sono assenti: scarsissima o quasi nessuna possibilità di sviluppare la malattia
(0-2% di rischio).
• Se DQ2 e DQ8 sono presenti: la malattia è possibile, ma il 30-35% della popolazione generale
e il 60-70% dei parenti di I grado hanno aplotipi senza avere la malattia.
• Il DQ2 è presente in circa il 90% dei pz affetti da malattia, mentre il DQ8 in circa 8%.
In realtà non c’è soltanto la genetica e l’ambiente, c’è anche un’alterazione di come si muovono gli
elementi immunologici.
Il glutine è l’elemento trigger. Questa malattia
autoimmunitaria è un modello di studio per
cercare di capire meglio anche la patogenesi di
altre malattie immunitarie.
Ingestione di glutine + presenza degli aplotipi
alterati che predispongono il soggetto a malattia
→ A livello intestinale si sviluppa
un’infiammazione cronica visto che il glutine è
in grado di attivare l’infiammazione nella
lamina propria sottostante gli enterociti;
“cronica” perché persiste e si estende con il
trascorrere del tempo di contatto tra glutine e mucosa intestinale. → quest’infiammazione cronica
determina la distruzione prima dei microvilli intestinali, poi dei villi con conseguente totale
appiattimento della mucosa intestinale → Malassorbimento intestinale.
Il complesso dell’HLA è formato dalle due molecole alfa e beta che avendo catturato il peptide della
gliadina, si muovono nella superficie della cellula che presenta l’antigene e lo propongono al recettore
della cellula T per attivare la risposta immunitaria.
Il primus movens, dal punto di vista immunologico, della celiachia è l’immunità di tipo cellulare e
questo non vuol dire che non vi sia anche una forte attivazione dell’immunità umorale, ma non è il
punto di partenza.
Patogenesi:
Nel lume intestinale ritroviamo la gliadina (elemento più tossico del glutine) e questa può arrivare a
livello della lamina propria attraversando gli enterociti. Le giunzioni tra enterocita ed enterocita (tight
junction) che normalmente sono molto strette nel intestino, sono più lasse nel celiaco per cui la
gliadina riesce a penetrare con più facilità tra gli enterociti per raggiungere la lamina sottostante.→
Viene captata dall’HLA DQ2/8 che presenta la gliadina alla cellula T helper → Attiva da un lato
tutte le cascate delle varie cellule T, ma attiva anche le plasmacellule. → Abbiamo poi la produzione
di anticorpi anti-gliadina,
anti-endomisio, anti-
trasglutamminasi (che sono i
marcatori laboratoristici che
noi cerchiamo quando
sospettiamo di celiachia) →
questi andranno a
danneggiare l’enterocita.
Contemporaneamente alla
presenza di anticorpi prodotti
dalle plasmacellule, abbiamo
anche la produzione da parte
delle cellule T delle citochine
che causano danno
all’enterocita anch’esse.
SBOB.: BIANCA ROSINI
4/11/2021- 3°ora
Alterazioni del cavo orale: stomatite aftosa ricorrente, difetti dello smalto strie
orizzontali legate ad una ipoplasia dello sviluppo, interessano la dentizione permanente e
possono essere l’unico segno di celiachia
Disturbi neurologici: se
ricerchiamo anticorpi anti glutine
in pz con questi disturbi non è raro
trovarli positivi.
Possono interessare il SNC o il
SNP: atassia cerebellare,
oftalmopatia, demenza, disturbi
psichiatrici come depressione,
disturbi dell’umore importanti,
epilessia, ma anche problematiche
periferiche polineuropatie
(come quelle da altre sostanze
tossiche come il piombo)
L’aspetto più interessante è il rapporto tra celiachia ed epilessia, perché l’epilessia nel bambino
che ha una celiachia si manifesta con interessamento solo delle aree occipitali, con calcificazioni
che si vedono molto bene alla TC, spesso è farmaco resistente, perchè la terapia non è il farmaco
anti epilettico ma la dieta aglutinata.
Esistono situazioni come diabete mellito, tiroiditi autoimmuni, artrite reumatoide, sindrome di
Sjogren (variante dell’artrite idiopatica giovanile dell’adulto con interessamento delle ghiandole
salivari e lacrimali) che si associano ad un aumentato rischio di celiachia, infatti sono malattie
autoimmuni; abbiamo anche la trisomia 21 e la sindrome di Turner, di Williams che hanno un
rischio aumentato di sviluppare celiachia, il deficit di IgA perché fa sì che vi sia una maggiore
facilità alla penetrazione del glutine all’interno dell’enterocita.
Qualche volte la celiachia è contemporanea all’insorgenza del diabete, altre volte è precedente o
successiva
La malattia celiaca non è una malattia gastrointestinale ma una malattia autoimmunitaria multi
organo, infatti non ci sono distretti risparmiati:
Sistema gastrointestinale: diarrea, vomito, dolori addominali, distensione, calo
ponderale,epatite
Ossa
Cuore: carditi e pericarditi non essudative, cardiomegalie dilatative
Alterazioni del sistema riproduttivo
Pelle
SNC e SNP
È importante conoscerla perché con una frequenza così elevata sicuramente capiterà di incontrare
un pz celiaco, in qualunque tipo di specialità si può avere a che fare con questa patologia, dovete
essere attenti, capire che quel pz potrebbe avere una celiachia che nessuno ha diagnosticato fino a
quel momento perché non ci ha pensato, ricordarsi di chiedere gli Ab anti glutine perché possono
permettere di fare una diagnosi in una persona adulta di 30-40 anni in cui nessuno aveva mai
sospettato una celiachia.
TERAPIA
È una terapia a base di cibi senza glutine, va portata avanti sempre e rigorosamente perché se un pz
celiaco viene a contatto con il glutine ci sarà un’infiltrazione di linfociti che provocherà i danni
immunologici che danno le varie fasi di progressione istologica della malattia, fino al tipo 4 con la
scomparsa di villi e microvilli e l’appiattimento totale della mucosa intestinale.
Una volta arrivati al tipo 4, nonostante la diagnosi è tardiva, se noi mettiamo a dieta aglutinata il
soggetto, questo può tornare a sviluppare una mucosa completamente normale.
Attraverso la proteina F vi è la penetrazione del virus nella cellula ospite a livello della mucosa
delle alte vie respiratorie e quindi la formazione di questi aggregati chiamati sincizi.
Poi il nostro corpo in risposta all’infezione produce degli anticorpi che però sono spesso poco
protettivi, sono utili dal punto di vista diagnostico ma ci aiutano poco per difenderci dalle infezioni.
C’è un picco di infezioni tra gennaio e febbraio, quasi mai si presentano casi nel periodo estivo.
Questo virus può dare infezioni alle alte vie respiratorie, ma anche alle basse, che sono più
pericolose, e sono quelle che colpiscono i bambini piccoli nei primi due anni di vita. È una delle
cause di insufficienza respiratoria acuta.
Il decorso aggressivo e pericoloso, addirittura qualche volta fatale di questa infezione, avviene più
frequentemente in certe situazioni; ci sono dei fattori di rischio associati al fatto che si sviluppi
un’insufficienza respiratoria:
Bambini prematuri
Bambini che hanno fatto ossigenoterapia durante la rianimazione in sala parto e hanno
subito un danno nei primi giorni di vita proprio per colpa di questa (displasia
broncopolmonare, una delle prime cause di disturbi respiratori nel neonato)
Bambini che hanno cardiopatie congenite
Bambini con immunodeficienza
Bambini malnutriti (condizioni socio-economiche disagiate)
Fumo passivo (dannoso a qualsiasi età, a maggior ragione nei primi anni di vita)
SINTOMI
Nei giorni che precedono l’infezione spesso il bambino ha solo un po’ di rinite, rinorrea più o
meno blanda e poi comincia l’interessamento delle basse vie respiratorie:
Tachipnea
Dispnea
Rientramenti inspiratori
Utilizzo dei muscoli respiratori accessori
Interessamento del diaframma
Rientramenti a livello del giugulo o intercostali
Il bambino è affaticato, non ha forza per alimentarsi e quindi smette di mangiare; presenterà tosse e
disidratazione.
La febbre può anche mancare, non è un parametro importante, né per fare diagnosi, né per capire la
severità.
Il principale parametro di riferimento per capire la severità dell’impegno respiratorio è la
tachipnea, quindi basta contare gli atti respiratori. Con il passare dei giorni, quando impostiamo la
terapia farmacologica e il soggetto migliora, il primo ambito in cui migliora è il numero degli atti
respiratori, che si riducono, anche nell’adulto è importante contare gli atti respiratori.
L’auscultazione del torace spesso aiuta a fare diagnosi, c’è infatti la contemporanea presenza di
rumori secchi e umidi, è molto importante perché è una delle poche condizioni in cui c’è questa
caratteristica. Poi dobbiamo sapere che il torace all’auscultazione spesso può anche essere normale.
Ovviamente più è piccolo il bambino maggiore è la possibilità che si sviluppi una malattia
respiratoria tanto severa da doverlo ospedalizzare.
Le immagini radiografiche piuttosto aspecifiche ma ci danno un’idea di quello che possiamo
vedere: delle immagini a fiocchi di neve, delle interstiziopatie, interessamento della trama
polmonare è un’infezione delle basse vie respiratorie.
Quando ricoverare un bambino con infezione da RSV?
Bisogna prestare attenzione a segnali di allarme, capire quali sono i momenti in cui dobbiamo
preoccuparci e ricoverarlo.
Quando poniamo in atto una terapia ospedaliera, facciamo ossigenoterapia, diamo dei supporti di
reidratazione e di aerosolterapia abbiamo un miglioramento clinico, ma dobbiamo sapere che
comunque soprattutto nei bambini molto piccoli ci vuole tempo per avere una restituito ad
integrum del quadro istologico, perché c’è una flogosi importante.
C’è un’infezione delle vie respiratorie e di conseguenza dei sintomi clinici che si manifestano in
questa situazione: tosse, sibili, fischi (abbiamo detto che c’è la contemporanea presenza di rumori
umidi e secchi, quindi sibili e fischi associati a rantoli a medie e piccole bolle)
Quindi è una patologia che richiede una certa quantità di tempo perché si possa risolvere
completamente.
Al di là della risoluzione del quadro clinico è bene sapere che c’è un aspetto importante dal punto di
vista pratico, è stato visto come frequentemente i bambini che hanno sofferto di bronchiolite
soprattutto nel primo anno di vita, possono sviluppare negli anni successivi l’asma bronchiale,
quindi è verosimile che questo legame temporale tra infezione da RSV e asma sia collegato al fatto
che si è verificato un danno strutturale reversibile delle vie respiratorie basse che si sono
parzialmente danneggiate, hanno avuto una difficoltà a reagire in maniera corretta a questa
infezione e che quindi saranno più sensibili nel momento in cui negli anni successivi
incontreranno uno o più allergeni respiratori.
La bronchiolite favorisce lo sviluppo di asma.
POLMONITI
Un bambino con polmonite avrà un aspetto sofferente, è un’infezione aggressiva soprattutto nei
bambini intorno ai 4-5 anni di vita.
È caratterizzata da:
Sintomi di impegno respiratorio: tachipnea
Segni di fatica respiratoria (dispnea): rientramenti intercostali, del giugulo, impegno dei
muscoli addominali, cianosi
Tosse: a volte è presente ma non è necessaria
Quando visitiamo il bambino dal punto di vista dell’obiettività troviamo i rumori crepitanti, il
soffio bronchiale, l’ipofonesi alla percussione, i rantoli a piccole bolle o al massimo a medie, e
poi associati i segni dei sibili e i fischi, cioè i rumori secchi segno di bronco ostruzione.
L’ipofonesi e la riduzione del murmure vescicolare sono segni di accumulo di pus ed essudato
all’interno degli alveoli polmonari.
DIAGNOSI
Emocromo: aumento dei globuli bianchi, VES, PCR, aumento dell’LDH che ci da un’idea
del danno del parenchima polmonare, si alza anche per danni a carico di altri organi e
apparati ma se siamo di fronte ad un bambino con impegno respiratorio e troviamo LDH alta
riguarderà la porzione polmonare
Può essere utile la ricerca di Ab: le emoagglutinine a frigore ci permettono di fare la
diagnosi di Mycoplasma Pneumoniae che è un agente eziologico di polmonite nel bambino
più grande e nell’adolescente
Si deve fare il materiale biologico: vanno fatti il tampone, la ricerca colturale e la messa in
coltura dei terreni per poter identificare possibilmente il germe
Come abbiamo visto per tante altre patologie l’agente infettivo è diverso a seconda dell’età del
bambino. Se noi conosciamo la distribuzione epidemiologica delle varie forme di infezione
possiamo avere degli aiuti importanti per orientarci.
Nel primo mese di vita sono frequenti i batteri, alcuni virus, è assente il micoplasma che diventa
più importante dopo i 5 anni.
I funghi possono essere acquisiti anche durante il passaggio nel canale del parto, la chlamydia è
presente tra i 2 e i 6 mesi.
Il neonato è un pz particolare, molto delicato, ha poche difese immunitarie e inoltre può raccogliere
infezioni nel momento del parto: gli agenti più frequentemente in causa nelle infezioni post partum
sono i Gram – intestinali per contaminazione E. Coli, Pseudomonas, Stafilococco; come virus
troviamo RSV.
Ricordiamo che ci possono essere protozoi sempre raccolti da infezione materna che possono dare
polmoniti nel neonato: Toxoplasma Gondii può dare polmoniti interstiziali importanti.
Agenti eziologici più frequenti nel lattante (6-10 mesi): H. Influenzae, Stafilococco da una
polmonite piuttosto aggressiva, è una forma molto pericolosa a qualsiasi età ma soprattutto nel
primo anno di vita, perché tende a dare degli ascessi polmonari molto complessi da gestire e a volte
antibiotico resistenti, può esserci lo sviluppo di pneumatocele, o di un pneumotorace con pus
all’interno, a volte devo essere drenate chirurgicamente.
Mycoplasma: da un punto di vista clinico ha un reperto auscultatorio molto modesto, con piccoli
rantoli a piccole bolle sparsi ovunque bilateralmente, non c’è predilezione per un certo lobo come
nella polmonite da streptococco o stafilococco. Questa diffusione di questo quadro respiratorio con
modesti reperti (non c’è riduzione del MV, non c’è ipofonesi alla percussione), sono caratteristiche
della polmonite interstiziale da mycoplasma, che di solito viene a manifestarsi dopo il 7-8 anno di
vita.
Come si misura la gravità di una polmonite:
Obiettività
Febbre
Frequenza respiratoria
Frequenza cardiaca
Abbiamo forme sempre più gravi con un aumento sempre maggiore della frequenza respiratoria e
della compromissione dello stato generale.
TERAPIA
È una terapia antibiotica, dovrebbe tener conto dei dati epidemiologici, perché bisogna saper
scegliere l’antibiotico a seconda dell’età del bambino e di conseguenza dell’ipotetico agente
eziologico che noi riteniamo alla base dell’infezione.
Utilizziamo doxiciclina, macrolide o cefalosporina a seconda dell’età del bambino, nei bambini più
grandi il macrolide è l’antibiotico di prima scelta perché abbiamo detto che diventa sempre più
importante la chlamydia o il micoplasma pneumoniae che sono agenti eziologici che rispondono
molto bene a questo farmaco.
SBOB: Leonora Klahr
11/11/2021 – 1° ora
CASO CLINICO 1
Ipotesi:
Date le manifestazioni cliniche e gli esami alterati: ipotesi di quadro autoimmune
Febbre, VES e PCR alterate: ipotesi infettiva
Nel dubbio viene iniziata la terapia antibiotica, e poi si eseguono ecografia addominale
(considerando che non sempre ogni alterazione è evidenziabile con l’ecografia) e RX torace
(considerando che le polmoniti retrocardiache non sono evidenziabili).
La febbre persistente (5 giorni), alta, su cui l’antibiotico non fa effetto e i segni della malattia di
Kawasaki (edema duro palmo-plantare con anche coinvolgimento delle unghie, cheilite, afte,
congiuntivite, lingua a fragola) comparsi al secondo giorno di ricovero sono abbastanza tipici: nel
sospetto bisogna eseguire un’ecocardiografia.
La malattia di Kawasaki spesso ha un decorso tranquillo, ma l’interessamento del cuore, in
particolare delle coronarie (aneurismi) deve essere preso in considerazione e studiato tramite
ecocardiografia.
La stragrande maggioranza
dei bambini non ha
interessamento cardiaco, per
lo meno nei primi 5 giorni di
malattia, ma va sempre
indagato.
La diagnosi di Kawasaki è
una diagnosi clinica, non ci
sono esami di laboratorio di
conferma.
Nel caso clinico studiato, mancano il V giorno di febbre e le anomalie delle coronarie per
cominciare la terapia: ancora i criteri per la diagnosi non sono rispettati.
La terapia consiste nella somministrazione di Ig ev.
Considerando questa possibilità, anche nel caso clinico presentato si eseguiva un sierologico,
risultato però negativo.
La terapia si fa con un’unica elevata dose di
Ig, che implica anche un’elevata
somministrazione di liquidi: le Ig richiedono
quindi un po’ di tempo per essere
somministrate.
Il giorno dopo si inizia terapia con ASA
visto l’alto grado di coinvolgimento epatico,
nel rischio di Sindrome di Reye.
L’efficacia della terapia, che serve soprattutto come terapia preventiva per le possibili complicanze
trombotiche, si valuta con la scomparsa della febbre: entro 24 h dal termine dell’infusione di Ig il
bambino deve sfebbrare, e così si ottiene anche la prova della correttezza della diagnosi.
Nei giorni successivi si passa al dosaggio antiaggregante di ASA. Quando si ripetono gli esami
clinici si deve vedere una normalizzazione degli indici di flogosi e ci può essere una piastrinosi: è
un indice di laboratorio preciso e attendibile di malattia di Kawasaki, il problema è che compare
generalmente dopo il decimo giorno! Inoltre è un esame abbastanza inutile perché è stato dimostrato
che la somministrazione di Ig ev quasi azzera il rischio di aneurismi delle coronarie se viene
effettuato prima del decimo giorno di malattia.
CASO CLINICO 2
Altre ipotesi diagnostiche sono le artriti reattive e le artriti infettive, per esempio da infezione virale
o concomitante a infezione streptococcica, a decorso benigno.
La leucemia linfoblastica acuta entra in diagnosi differenziale con le artriti idiopatiche giovanili. Lo
striscio di sangue periferico all’inizio può essere negativo o non sufficiente per fare la diagnosi!
Necessario l’aspirato midollare in tal caso. L’LDH è aumentato nelle forme leucemiche, può e deve
essere un campanello d’allarme.
Il prof mostra delle immagini di dermatite erpetiforme di Duhring (a sx e al centro), utile per la
diagnosi di celiachia, e di fenomeno di Raynaud in corso di sclerodermia (a dx).
CASO CLINICO 3
PETECCHIE: eruzioni cutanee che non scompaiono alla digitopressione, di piccole dimensioni (< 3
mm) non rilevate, di colore variabile dal rosso vinoso al violetto, dovute ad alterata permeabilità
vascolare. Le lesioni sono generalmente raggruppate, presenti soprattutto nelle parti declivi e in
quelle più soggette a traumi (NB condizioni non patologiche: sfregamenti e sforzi anche su volto e
collo). Si possono presentare in soggetti con trombocitopenia moderata/grave o con trombocitopatia
(trombocitosi).
La porpora di
Schönlein-Henoch in
particolare è molto
frequente in età
pediatrica.
PEDIATRIA 11-11-21
2a ORA
Sandro Zaffini
PIASTRINOPENIE
Si inizia adesso una valutazione sistematica delle tipologie di piastrinopenie ( visto che nel caso
clinico il bambino presentava petecchie, ecchimosi etc…) determinate da valori di piastrine
<100.000/mm3.
(75%).
Nell’ambito delle leucemie e linfomi, le manifestazioni sono proteiformi e comprendono citopenie
isolate o pancitopenie, presenza di blasti nello striscio periferico, epatosplenomegalia,
linfoadenopatie e dolori articolari ( Ricordare bene che le neoplasie ematologiche rientrano nella
D:D delle artriti giovanili idiopatiche proprio per questo motivo!)
Si segnala soprattutto come causa il deficit di vitamina B12 e di folati, ma anche situazioni più
rare e complesse quali la S. di Wiskott-Aldrich ( ereditaria X-linked) o le Sindromi
mielodisplastiche
3. Piastrinopenia da aumentata distruzione
piastrinopenia.
Da ricordare che la terapia di queste forme è l’infusione endovenosa di Ig specifiche oppure la
terapia cortisonica da effettuare DOPO un eventuale aspirato midollare, che potrebbe essere utile
per escludere le forme neoplastiche.
Il cortisone va fatto dopo perché se lo facessi prima, in virtù dell’innato effetto immunosoppressivo,
potrei avere alterazioni della cellularità midollare e falsi negativi all’aspirato midollare.
Le Ig vanno invece somministrate il prima possibile in virtù delle temibili complicanze emorragiche
( soprattutto cerebrali) che si possono avere generalmente con piastrine< 20.000.
Sempre in questo gruppo poi rientrano tutte le forme di piastrinopenia associate a malattie del
connettivo, quali LES o dermatomiosite.
Possono essere anche causate da farmaci, da infezioni, ma si tratta
di situazioni più rare.
La distruzione piastrinica può, infine avere cause non
immunologiche ( vedi tabella) che però non sono state
praticamente accennate dal prof.
La S.di Moschowitz, invece, è una patologia piuttosto frequente ( in realtà molto più frequente
nell’adulto piuttosto che in età pediatrica) ma viene comunque citata per completezza.
5- Piastrinopenia da emarginazione
Classicamente dovuta a ipersplenismo ( a sua volta provocato da vari disturbi, come quelli a carico
del fegato, disturbi mielolinfoproliferativi, infezioni)
Talvolta si può associare piastrinopenia da sequestro nel caso di emangiomi
giganti ( spesso presenti a livello gastroenterico nel pz pediatrico) esempio
nella sindrome di Kasabach-Merrit ci possono essere questi
emangioendoteliomi anche molto grandi, spesso superficiali, ma talvolta
anche viscerali, che necessitano di studi ecografici molto approfonditi, che
provocano un sequestro di piastrine.
Tra le cause di petecchie, quindi possiamo avere condizioni che vanno dalle piastrinopenie (viste)
alle piastrinopatie ( in cui essenzialmente le piastrine sono in numero normale ma hanno una
funzionalità compromessa) e infine i disturbi della coagulazione sono un altro grosso capitolo.
-Nè PT né PTT, invece valutano quello che avviene dopo la trombina, quindi il fibrinogeno va
sempre chiesto a parte per avere un qaudro completo.
Poi se abbiamo allungamento del PT o del PTT andremo a fare i dosaggi dei fattori della
coagulazione specifici della via estrinseca e intrinseca rispettivamente.
Tra le forme congenite dei disturbi della coagulazione si ricordano le Emofilie (A.B.C)
Nello specifico, Emofilia A e B hanno modalità di trasmissione recessiva X-linked
Emofilia C ha trasmissione Autosomica recessiva!
Tutti i tipi di emofilia comunque determinano un allungamento del PTT perché sono coinvolti
fattori della coagulazione della via intrinseca ( f. VIII nella A, f.IX nella B, f.XI nella C)
Le manifestazioni tipiche del bambino emofilico sono l’emartro, le ecchimosi, i sanguinamenti gint
che esitano in melena o ematemesi...insomma tutte le manifestazioni di tipo emorragico.
Tra le coagulapatie congenite si segnala anche la Malattia di Von Willebrand ( causata però non da
difetti dei fattori della coagulazione bensì del fattore di vW coinvolto nell’adesione piastrinica).
Abbiamo qui una clinica sovrapponibile con aumento del PTT, ma trasmissione AD a penetranza
incompleta.
Tra le cause acquisite, si segnalano invece cause più rare quali la CID, l’iperfibrinolisi patologica e
il difetto di sintesi epatica ( certamente il più frequente).
Si sottolinea però come sia importante un adeguato esame obiettivo ( nel paziente ad esempio le
petecchie erano presenti anche nel cavo orale).
In presenza di petecchie, così come di esantema, bisogna sempre ricordarsi che possono non
limitarsi alla cute, ma estendersi anche alle mucose (per questo motivo si cerca sempre nel cavo
orale, nelle cavità nasali alla ricerca di un enantema)
Come indagini di 2o livello si eseguono invece, aspirati midollari ( nell’ipotesi di neoplasia) quando
serve.
Consideriamo che il puntato midollare non è piacevole, quindi non è che lo possiamo fare a tutti!
Servono degli elementi laboratoristici oltre che clinici che ci facciano venire il sospetto di una
possibile neoplasia ( il prof ritiene sia importante come sintomo la forte astenia del bambino,
generalmente, invece, sempre pieno di vita).
Sempre come indagini di 2o livello si possono poi cercare gli ANA, ENA, le Ig e le infezioni
canoniche (HIV-EBV- gruppo Torch)
Nel nostro bambino le condizioni generali erano buone e, dalle analisi, era venuta fuori solo una
modesta piastrinosi; fortunatamente potevamo escludere le neoplasie con un emocromo del genere.
Terapia della Porpora di Schonlein-Henoch ( non si rispiega tutta la malattia in quanto già
affrontata in lezioni precedenti)
Bisogna ricordare che nella stragrande ,maggioranza dei casi non si deve fare terapia ( la malattia è
autolimitantesi e si risolve da sola)
Unica indicazione al trattamento (steroidi o immunosoppressori) è la presenza di grave
interessamento renale con importante Insufficienza renale ( che si manifesta con la classica triade di
ipertensione, aumento della creatininemia e oliguria fino all’anuria).
FIBROSI CISTICA
Appare evidente, come questa sia una malattia a tutti gli effetti sistemica e non solo confinata
all’albero bronchiale ( anche se è sicuramente la sede più rilevante e pericolosa).
Epidemiologia
La Fibrosi Cistica è la malattia genetica più frequente nella razza bianca, con una incidenza di
1:2500 nati vivi e soprattutto una prevalenza di eterozigosi ( ovvero portatori sani) nella
popolazione generale di circa il 4%.
Come spesso accade, c’è una variabilità geografica della malattia (per fattori ambientali); l’Oriente
è la zona del globo meno colpita (incidenza= 1:90000).
Avendo una trasmissione autosomica recessiva non c’è prevalenza di sesso.
Eziologia
La F.C. è una “canalopatia” in cui alla base c’è un’alterazione degli scambi ionici, che determina
accumulo di un muco denso e viscoso ( da qui anche la denominazione di “mucoviscidosi”).
Genetica
Esistono migliaia di mutazioni che sono alla base della fibrosi cistica; queste determinano una
alterazione della funzionalità della proteina CFTR in vari modi: alcune mutazioni sono puntiformi,
altre sono frameshift o nonsenso, altri sono invece riarrangiamenti etc…
la cosa però da ricordare è la Delta F508 ( frequente, che consta nella delezione di una fenilalanina
in posizione 508).
• Nel G2 abbiamo, invece, un blocco del processamento, con canale assente ( qui rientra la
DeltaF508)
Soprattutto per quanto riguarda G5 ( ma anche G4) la malattia può essere talmente lieve da essere
diagnosticata in modo accidentale per altri motivi ( esempio classico è il pz maschio che va a
controllo per infertilità e scopre che questa sua problematica è connessa ad una fibrosi cistica
misconosciuta con mutazione che rientra in G5).
A complicare ancora di più la faccenda, è emerso che oltre alle mutazioni canoniche ( sono più di
2000!) ci possono essere fattori ambientali, eventi stocastici o addirittura altre mutazione da parte di
“geni modificatori” che allo stesso genotipo fanno corrispondere fenotipi diversi.
Valeria Ottaviani
C’è una vastità dei sintomi, è una malattia ad ESORDIO pediatrico ma persiste per tutta la vita per cui va
conosciuta. È una malattia da sempre conosciuta, Ippocrate già ne parlava dicendo che “la mamma che bacia
la pelle di suo figlio e sentirà il sapore di sale saprà che il suo bambino morirà presto”, questo perché tra le
ghiandole esocrine colpite ci sono quelle sudoripare che producono un sudore più denso e quindi più salato.
Questo spiega l’osservazione di Ippocrate.
Molti sintomi sono intuitivi da parte vostra, le secrezioni sono dense e poco scorrevoli quindi tendono ad
ostruire i dotti, con mancata secrezione. Avremo:
In Italia è una patologia molto frequente, soprattutto nell’area Mediterranea per cui può capitare un pz affetto
da FC.
Ci sono bambini che muoiono per colpo di calore in estate a causa della forte disidratazione.
Sull’infezione cronica si inserisce il danno aggiuntivo della flogosi locale, per IL e cellule infiammatorie che
danneggiano fortemente la struttura delle mucose e cartilagini a livello dell’albero respiratorio. Questo
contribuisce al peggioramento della funzione respiratoria, andando incontro a fibrosi polmonare. Nella storia
naturale della malattia il bambino muore per insufficienza respiratoria acuta che si sovrappone ad una
insufficienza respiratoria cronica. Questo determina la durata di vita dei pz.
Questo elenco è importante da considerare perché una malattia così grave, diffusa ed importante deve essere
diagnosticata presto, necessita di un test molto banale: TEST DEL SUDORE (non diagnostico perché serve
conferma del test genetico). È molto economico, tuttavia va fatto precocemente per cambiare la prognosi dei
bambini. Va fatto anche quando abbiamo UNA SOLA di quelle condizioni, tuttavia non ci si pensa e i
bambini arrivano in fase avanzata.
Una malattia per cui in tutta Italia facciamo screening è l’ipotiroidismo congenito, malattia molto frequente
(incidenza 1:3000), è uno screening facile da eseguire, basta un prelievo di una goccia di sangue da tallone in
terza giornata di vita e grazie allo screening posso fare una terapia tempestiva evitando danni importanti al
cervello e alla crescita generale. Quindi cambio la storia naturale perché posso fare terapia sostitutiva e quel
bambino avrà uno sviluppo normale.
TERAPIA:
Ovviamente oltre al problema respiratorio c’è il problema digestivo: dobbiamo impegnarci con enzimi
pancreatici sostituitivi gastro-resistenti e con dieta ipercalorica e iperproteica per mantenere il migliore stato
nutrizionale perché si è visto che questo contribuisce a mantenere il benessere tra un’infezione e l’altra.
NOVITA’ TERAPEUTICHE:
Oggi ci sono speranzosi studi genetici che ci fanno pensare di poter curare i bambini modificando il
patrimonio genetico. Questi tentativi sono stati fatti anche 15-20 anni fa usando adenovirus con il gene
CFTR sano. Gli adenovirus, molto usati nella terapia genica, erano molto utili in questa malattia perché
avendo un tropismo respiratorio andavano dove servivano. Questi pz facevano aerosol con adenovirus mutati
e si otteneva un grande miglioramento della capacità ventilatoria alla spirometria. Poi questo è stato
abbandonato perché purtroppo col sistema immunitario eliminiamo gli adenovirus.
Sono dei CORRETTORI, in alcune mutazioni riescono a modulare l’efficacia della proteina presente.
Funzionano dove non c’è completa delezione del gene (questa c’è solo in casi rari), ma esiste il gene
parzialmente funzionante. Il farmaco riesce a riattivare il gene e a far produrre una proteina quasi normale.
Oggi quindi iniziano ad esserci farmaci che, come abbiamo visto per l’atrofia muscolare spinale,
permettono un cambiamento significativo dell’espressività clinica della proteina mutata. Questo
concetto è molto importante!
Terapia antibiotica dovrebbe cercare di eradicare lo Pseudomonas Aeruginosa, poi andrebbe fatta terapia
delle riacutizzazioni per via EV e terapia mirata sulla base di antibiogramma, evitiamo la terapia antibiotica
ad ampio spettro che potrebbe indurre una resistenza. Quindi meglio fare terapia antibiotica mirata dopo
avere i risultati dell’antibiogramma ed eventualmente la coltura dell’espettorato quando riusciamo ad averlo.
Domanda:
L’utilizzo di questi farmaci nuovi è approvato anche in adulti? Stiamo parlando di coinvolgimento
polmonare, che purtroppo quando c’è è precoce, per cui si usano per lo più in età pediatrica.