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04/10/2022

Che cosa significa filologia romanza?


La disciplina della filologia romanza viene conosciuta con diversi nomi: filologia romanza
oppure filologia neolatina oppure romanistica (più conosciuta in area slava e germanica,
usata in Italia nei primi anni ‘800).
Questa disciplina non è uguale in tutta Europa: in alcune aree non ci si occupa solo di
Medioevo ma anche di più lingue romanze in tutto il loro svolgimento temporale (in Italia ci
occupiamo solo linguistica e letteratura romanza scritta nelle lingue derivanti dal latino nel
periodo medievale).
In Italia si studiano solo le lingue e letterature medievali ma solo derivanti dal latino: da qui il
nome di filologia neolatina.
La parola FILOLOGIA unisce due termini greci: FILOS (amore, amicizia) e LOGOS (parola);
il FILOLOGO è l’amante della parola e per amore della parola giusta, cerca di ricostruire al
meglio i testi del Medioevo che sono usciti dalla penna del suo autore (lavora con
manoscritti copiati per tante volte, per questo si parla di scienza degli errori perché bisogna
emendare ovvero ripulire dagli errori i testi).
La filologia nasce nel periodo umanistico (epoca romana –> tardo antico –> medioevo –>
umanesimo –> rinascimento), ed è il periodo della riscoperta dei testi classici, latini che
venivano copiati innumerevoli volte.
Gli umanisti hanno inventato la filologia e furono loro a dare il nome di “Medioevo” ad un
millennio, “età di mezzo/età buia”, periodo in cui si sviluppò anche la persecuzione degli
eretici.
Nel Medioevo non servivano i filologi (breve parentesi di interesse intorno alla metà del XII
sec) perché si aveva una concezione aperta del testo (venivano corrette le cose che
venivano ritenute sbagliate, vennero infatti ritrovati numerosi testi privi di autorialità).
L'Impero Romano aveva un’estensione molto ampia: la lingua è potere, se un re vuole che il
suo potere sia effettivo, deve possedere la lingua (se si vuole eliminare un popolo, si elimina
direttamente la sua lingua, come nel caso del provenzale che dal ‘300 venne vietato
all’interno dei tribunali).

Quali sono i confini dell’Impero Romano?


Nel periodo di massima espansione (I secolo d.C.):
 Occidentali (area europea e non insulare) -> presenza delle tribù germaniche
(ostrogoti e visigoti) tra Elba (fiume che bagna Dresda) e Reno
 Nord -> Inghilterra (fino al Vallo Adriano, Midland, da cui deriva l’inglese “Wall”, al di
là si trovavano due tribù, Scoti, popolazione celtica e Picti, popolazione indefinita che
scendeva in battaglia con pigmenti blu sulla faccia, probabilmente tatuati, per
incutere paura al nemico; si parla di abitudini e costumi di derivazione arcaica); le
guarnigioni romane, si erano insediate in Inghilterra e un discendente di un soldato
romano e di una donna celta, sarà uno dei personaggi più rilevanti, si tratta di Artù (il
cui nome significa “Orso”, considerato l’animale più forte).
Nel Medioevo, il confine tra uomo e animale era poco definito: Tacito, dalle “Memorie di
Agricola”, scrisse un trattato antropologico per raccontare la storia dei germani che per
diventare uomini dovevano uccidere un orso).
 Irlanda -> venne scoperto un insediamento romano una ventina di anni fa, sulle
coste orientali (una delle terre dove rimane più forte l’eredità celtica)
 Francia (Gallia) -> i galli, popolazione che si trovava a nord dalla linea “La Spezia-
Rimini" al di sopra della quale si trova la Gallia Cisalpina (Asterix).
Gli accampamenti celtici erano molto simili ai romani, amavano vivere nelle città ed ognuna
di queste porta il nome di una delle tribù, con poche eccezioni del sud; i germani invece
detestavano vivere in città, che oggi portano il nome di piccoli paesi.
I celti erano pagani come i romani MA anarchici, vivevano in tribù che non riuscirono mai a
confederarsi, a differenza dei romani.
I celti erano astuti perché traevano beneficio dai romani: con l’invasione della Gallia da parte
di Giulio Cesare vennero avviati matrimoni condivisi tra le due popolazioni che venivano
rispettati per via del paganesimo e questa sarà la via perfetta che porterà all’integrazione.
Il latino si impose ma rimasero numerosi celtismi, tuttavia l’unione tra le due popolazioni fece
argine all’invasione germanica perché erano diventati un unico popolo.
 Nord Africa -> fino all’attuale Egitto e al Maghreb dove si parlava latino; negli altri
paesi conquistati non si smise di parlare greco (Asia Minore, Turchia, Grecia,
Giordania...) perché visto come il portatore di un livello superiore di civiltà (non vi fu
mai imposizione da parte del latino); anche Cicerone fu proconsole e conoscitore
della lingua greca
Nel Magreb si parlava inizialmente il latino, con l’arrivo degli arabi iniziò a svilupparsi l’arabo
e poi anche il francese e lo spagnolo.
 Mar Nero (epoca traiana) -> venne conquistata la Romania (Dacia), si parlava
ancora una lingua autoctona, un grande poeta latino sposò una donna della dacia
per imparare la sua lingua; i romani rimasero un secolo in territorio romeno e questo
bastò per lasciare un’impronta latina.
Il romeno è una lingua neolatina ed è la seconda più conservativa dopo il sardo: presenta
l’articolo e le parole colte sono tutte di derivazione latina mentre nel lessico contadino
prevalgono i termini slavi anche se anch’essi vennero sottoposti alla struttura sintattica
latina.
L'ex Iugoslavia, fino a poco tempo fa, possedevano delle sacche alloglotte, ovvero un
gruppo di persone, parlanti latino, anche se quell’area era di denominazione veneziana (è
quindi difficile comprendere quanto sia rimasto dell’impronta latina del I secolo d.C.) e si
assistì anche alla morte indiretta di una lingua, il vegliota, che possedeva caratteristiche
proprie del balcano-romanzo.
Il greco parlato in Calabria (grecanico) deriva direttamente dal greco parlato dai greci della
Magna Grecia grazie agli studi di Rolls ma alla morte dei genitori, si tratta di una lingua che
sarà destinata a sparire a causa della non conoscenza della lingua parlata da parte dei figli.
In area maghrebina si trovavano le due scuole più grandi di retorica (Santa Monica e
Sant'Agostino erano tunisini) dove il latino e la romanizzazione furono essenziali prima
dell’arrivo di arabi, francesi e spagnoli.
3 definizioni di Romània
La Romània è quell’area dove si parlano lingue derivanti dal latino.
La Romània perduta è l’insieme delle aree dove si parlava una lingua derivante dal latino e
dove oggi non la si parla più (ex Iugoslavia, Maghreb)
Con Romània nuova si intendono tutti quei luoghi dove si parlano lingue derivanti dal latino
perché imposte dai colonizzatori (Québec, centro e sud America, Capoverde, Macawua)

06/10/2022

Il termine “romanzo”
In tutto l’Impero Romano si parlava il latino in maniera omogenea: nel I sec. D.C. due nobili
assistevano ai giochi da circo e chiacchierando, uno di loro si rese conto di avere vicino una
persona di grande cultura ma non riuscì a capire se si trattasse di Plinio o Tacito.
Questo è dovuto principalmente al fatto che, per un romano, era impossibile distinguere il
latino parlato in Gallia da un altro per via della grande uniformità linguistica.
Nel 212 d.C. venne emanato l’Editto di Caracalla per l’estensione della cittadinanza romana
a tutti gli abitanti dell’Impero (inizialmente attribuita solo agli abitanti di Roma, ma poi venne
estesa a tutti gli abitanti della penisola italica che comprendeva anche la Gallia Cisalpina).
Si iniziò quindi ad usare un termine, “romanicus”, per indicare la lingua di tutti coloro che
erano cittadini romani: inizialmente si parlava di “romae loqui” ovvero parlare nella lingua di
Roma, successivamente si iniziò a parlare di “romanicae loqui”, ovvero la lingua di tutto
l’Impero Romano.
Nel latino la lettera “C” è sempre VELARE (/k/) mentre per l’italiano lo è solo nel caso di “ka,
ko, ku”, se sono presenti la “E” o la “I” si pronuncia la “C” dolce.
La nostra lingua viene definita “qualitativa” perché conta la qualità delle vocali, mentre il
latino era una lingua “quantitativa” perché contava la lunghezza e non aveva gli accenti.
All'interno di una parola sono importanti solo le vocali toniche, quelle su cui cade l’accento:
troviamo parole ossitone (tronche -> città), parossitone (piane -> “borsa”), proparossitone
(terz’ultima sillaba -> “fegato”).
Uno degli elementi che caratterizzano il passaggio dal latino al latino volgare è la SINCOPE,
ovvero la caduta della vocale atona post tonica (nella nostra fonazione, quando viene
caricata una vocale, quella dopo perde consistenza).
romàn(i)ce -> romànce
Si verifica poi anche la SONORIZZAZIONE delle esplosive intervocaliche sorde (/p/,/t/,/k/)
davanti a vocali anteriori (e,i)
romaniche -> romanice
Nella Romània occidentale ovvero Francia -> romantz, romanz
Il significato del termine romanz indica inizialmente quelle lingue parlate nei territori
dell’Impero Romano dove si parlava latino; anche se poi venne anche utilizzato per indicare
le cose che venivano scritte in questa lingua derivante dal latino (es. opere) e solo in seguito
questo termine verrà utilizzato per indicare il genere letterario per eccellenza ovvero il
romanzo.

Quali sono le lingue romanze?


Tutti i territori in cui si parlano lingue derivate dal latino si chiamano “Romània”.

 Area ibero-romanza (penisola iberica) -> portoghese, catalano (simile al


provenzale), castigliano (spagnolo); sono considerate lingue a sé stanti perché
ciascuna è stata anche resa illustre da un’attività letteraria continuativa, nel
Medioevo si parlava di gallego-portoghese.
In gallego-portoghese sono state prodotte delle liriche, le “cantigas”: nel Medioevo l’amore
vero era solo quello extraconiugale, non era concepito l’amore nel matrimonio.

 Area gallo-romanza -> antico francese (langue d’oil, oitanico), provenzale (langue
d’oc, occitano, termine usato per la lingua parlata oggi in quell’area o per la lingua di
Mistral, dedito assieme ad altri intellettuali all’impresa della rinascita del provenzale
in termini letterari).
 Area italo-romanza -> 2 lingue, l’italiano ed il sardo (variante logudorese, lingua più
arcaica tra quelle derivanti dal latino e la più conservativa).
La linguistica ha un fondamento essenziale nel concetto di “laterale e conservativo”: più la
realtà è lontana dal centro (da cui partono le innovazioni), più sono conservative, si parla
della teoria delle onde.
I territori laterali sono sempre più conservativi perché non arrivano le innovazioni: laterale
significa “lontano” ed indica i posti meno accessibili come valli montane e isole.
La Sardegna è l’unica delle regioni dell’ex Impero Romano che non ha avuto invasioni;
pertanto, la lingua non si è mischiata con altre.

 Area retoromanza -> lingua che si è sviluppata nelle regioni alle spalle della catena
alpina e nella Retia (così chiamata dai romani) che subì pesanti insediamenti
germanici (ladino, romancio, parlato in Svizzera e friulano, una lingua retoromanza e
non italo-romanza da cui derivano anche raccolte di poesie di Pier Paolo Pasolini).
 Area balcano-romanza -> 1 lingua, il romeno (i romani rimasero in Dacia per un solo
secolo, ma questo fu necessario per il mantenimento costante della lingua latina, o
forse, come successe con i galli, a rendere più solida questa conservazione furono i
matrimoni combinati tra le due popolazioni).
L'area della Romània perduta è stata in realtà persa da poco: si parlava una lingua derivante
dal latino ancora nel V secolo, grazie ad una testimonianza scritta in greco bizantino
medievali, in cui si scrive di due fratelli si dovettero salutare perché uno dei due sarebbe
partito per la guerra e uno dei due pronunciò la frase “torna fratre”.
Nell'isola di Krk fino a un secolo fa si trovava ancora un parlante di una variante linguistica
riconducibile al balcano-romanzo: questa lingua venne registrata per iscritto nonostante ci
siano diversi dubbi sulla sua autenticità; con la morte della moglie, l’uomo non aveva più
parlato quella lingua ed era per di più senza denti e questo causò problemi con il
riconoscimento della fonetica (variante “vegliota” -> isola di Veglia = Krk).
11/10/2022

I registri linguistici del latino


Il latino era una lingua caratterizzata da diversi registri: ciascuno padroneggiava più registri
nell’Impero (più si era colti, più registri si possedevano).
Il registro più alto del latino (parlato da Tacito e Plinio ad esempio) è il “sermo urbanus”
(dove sermo significa discorso) mentre nella quotidianità si utilizzava il “sermo familiaris”;
esiste tuttavia anche il “sermo rusticus” (parlato dai contadini) utilizzato solo dagli abitanti
delle campagne ed il “sermo plebeius” utilizzato in città dalla plebe [una figura come
Cicerone sapeva ad esempio utilizzare tutti i registri citati].
Il “sermo urbanus” lo troviamo all’interno di dizionari e grammatiche perché possedeva una
forma scritta oltre a quella parlata (è CRISTALLIZZATO nella scrittura e subisce minori
variazioni perché controllato da norme e regole e rimane pertanto conforme a sé stesso);
invece, per la lingua parlata dai rustici, dalla plebe e nell’intimità domestica esisteva solo il
parlato (si parla di DOMINIO DELL’ORALITA’) che lascia poche tracce di sé (aveva un suo
sviluppo autonomo perché non soggetta a regole obbligatorie).
Il registro più basso viene anche chiamato LATINO VOLGARE e veniva parlato dal VOLGO
(ovvero dal popolo, sia rustico sia plebeo) ed è da questa forma di latino che nascono tutte
le opere.

Le fonti del latino volgare


 Testi letterari -> molti riproducono la norma grammaticale, importanti sono i testi
“mimetici”, ovvero quei testi che cercano di riprodurre a scopo artistico la parlata
viva dei loro personaggi (ci sarà anche un tentativo nell’ ‘800 da parte di Giovanni
Verga nei “Malavoglia”).
Nel Medioevo saranno Plauto e Petronio gli autori più importanti:
 Plauto si dedicava alle commedie, ovvero alle opere teatrali comiche, dove metteva
in scena il mondo più basso di Roma come ladri, prostitute, mendicanti.
È molto utile per comprendere come già prima della conquista della Gallia Cisalpina ci
fossero termini celtici usati dai romani: non si parla, ad esempio, di equus ma di caballus,
termine che era già stato importato e che indicava il cavallo della povera gente.
 Petronio (“Petronius arbiter” = arbitro dell’eleganza), invece, utilizzava quel
linguaggio per far divertire perché prendeva vita nell’oralità ovvero nell’attore che
recitava, come testimonia il “Satyricon” ritrovato in una biblioteca in Dalmazia (a
Durazzo), definito come un romanzo anche se si trattava di una satira sui liberti greci.
Il mondo romano prevedeva l’impiego degli schiavi come oggetti, ma quando Roma
conquistò la Grecia ed ebbe a disposizione un grande patrimonio di schiavi che erano però
più colti, molti di loro vennero utilizzati nelle cose che sapevano fare meglio, come nel
campo della medicina, nella traduzione o scrittura e nel campo della cucina (molto più
raffinata rispetto a quella romana).
Per i romani la cosa più terribile che potesse esistere era il lavoro fisico e anche scrivere era
considerato un lavoro molto faticoso, pertanto, si servivano di uno schiavo per la traduzione
delle loro parole e della dettatura di quest’ultimo, che permetteva ad un altro schiavo di
scrivere in latino. Gli schiavi potevano essere liberati dal proprio padrone (venivano chiamati
i “liberti”), e la loro libertà poteva essere acquisita solo dopo lauti favori, talvolta anche
illegali.
Questa satira racconta la storia di Trimalcione (Trimalchionis), uno schiavo greco liberato
divenuto ricco grazie ai doni ricevuti dal suo ex padrone; egli tendeva ad ostentare la sua
ricchezza che, essendo però priva di cultura, era del tutto inesistente: si racconta di una
cena molto dispendiosa dove gli invitati (tutti di basso livello) parlano il latino grezzo dagli
arricchiti senza cultura.
Nel Satyricon è presente anche una piccola storia sui lupi mannari che nel Medioevo furono
molto popolari.

 Testi che utilizzano il “sermo familiaris” -> sono soprattutto epistole, giunte a noi
perché i latini scrivevano le lettere e poi conservavano la minuta, ovvero la brutta
copia, spesso per vanità, che poi venivano destinate alla pubblica azione (Cicerone
avrà dettato al suo schiavo Tirone le sue lettere familiari -> sono le “Epistulae ad
familiares” e restituiscono alcuni termini affettivi nei confronti dei suoi familiari, egli
era molto affezionato soprattutto alla figlia Tulliola, morta giovane; questi termini
sono la testimonianza dell’uso colloquiale della lingua).
 Trattati tecnici -> ci dicono come si chiamavano le cose (molti sono di agricoltura,
grazie ai quali adesso sappiamo il nome di tutti gli attrezzi, delle piante e delle
operazioni sugli animali; un esempio è il “De re rustica” di Columella o le “Georgiche”
i Virgilio).
Importante è anche il “De architectura” di Vitruvio, un trattato di costruzione che non
rispecchia a pieno la nostra architettura perché i latini non avevano ancora i numeri arabi,
usavano un sistema numerico con le lettere e non avevano il numero più importante, lo zero.
Infine, troviamo anche il trattato “De re militari” di Vegezio dove sono presenti tutti i nomi di
macchine belliche e armi.

 Pronuncia del latino di altri popoli -> dalla parola CELLARIUM i Goti hanno
acquisito la parola come “keller” (dalla loro pronuncia “kellarium”); dalla parola
CAESAR hanno acquisito la parola “Kaiser” (dalla loro pronuncia “Kaesar”) ovvero
colui che guida gli eserciti vittoriosi in battaglia (nelle lingue slave diventa “Zar”); dalla
parola VALLUM gli anglosassoni hanno acquisito la parola come “Wall” (dalla loro
pronuncia “Wallum”); stessa cosa per la parola VINUM, penetrata nell’inglese come
“Wine” (dalla loro pronuncia “Winum”).
 Scritture esposte -> sono quelle scritte in luoghi dove possono essere viste da tutti
contro ogni discriminazione di cui contiamo 2 tipi: ufficiali e spontanee; quelle
giunte dall’I.R. sono le epigrafi che provenivano da scritture sulla pietra.
Per fare queste incisioni venivano pagati degli scalpellini ufficiali, pagati dallo Stato; essi
erano esperti che scrivevano ciò che gli veniva detto nella forma corretta.
Di maggior interesse sono quelle esposte spontanee oppure quelle attuate da scalpellini non
ufficiali su richiesta di persone normali come quelle esposte sulle pietre tombali.
Tutte le scritture esposte dell’Impero Romano sono raccolte nel CIL (Corpus Inscriptionum
Latinarum) diviso per volumi dedicato ognuno dedicato a un’area geografica (Penisola
Iberica, Gallia, Inghilterra...) con la presenza di date e luoghi.
C'è un’iscrizione su una tomba nel volume tratto dalla Gallia dove troviamo scritto “Fera
Com Era” (assieme alla feroce Era); datata II secolo testimonia l’uso di “com” al posto di
“cum” (la u breve latina era già diventata “o” aperta).
Uno di questi volumi è interamente dedicato a Pompei (79 d.C., giorno dell’eruzione del
Vesuvio) che riporta numerose iscrizioni ritrovate del latino volgare di quell’epoca anche se
Pompei venne riscoperta solo nel 1700 (primo a vedere gli scavi di Pompei fu Winckelmann,
storico dell’arte).
Anche in quell’epoca era già in uso la parola caballus: i Romani non andavano a cavallo, e
lo dimostra anche il loro abbigliamento, perché avevano il gonnellino; i celti invece usavano i
cavalli per lavori agricoli, può darsi che “cavallo” fosse il termine per “ronzino” dei Celti.
Il termine equus è un termine scomodo: ha due “u” ed è omofono con aequus (equo): quindi
sia perché i Romani avevano più confidenza con i cavalli dei Celti, sia perché equus era un
termine scomodo, la scelta è stata caballus, già all’epoca di Pompei.

 Opere grammaticali -> dicono molto poco sulla lingua parlata, ad esempio il termine
VAGITO è onomatopeico e la “V” era in realtà una “U” (Uagitum) che ricorda il pianto
del neonato; -LL- veniva pronunciata per asperum sonum, ovvero con un suono
aspro (viene visto dai linguisti un fenomeno di sostrato siciliano), L seguita da
consonante ha un suono pinguis ovvero più grasso, potrebbe essere l’evoluzione
dal francese che riguarda la velarizzazione della L davanti a consonante.

Appendix Probi
Significa “Appendice di Probo”, cioè qualcosa che è posto in appendice a un libro di Probo.
Probo era uno dei grammatici più noti, e una sua grammatica, l’“Instituta artium”, era la
grammatica più utilizzata nelle scholae: Probo scrive nel I sec. d.C. e la sua grammatica è
utilizzata nelle scuole perché considerata di alta perfezione.
I libri erano manoscritti, quindi non c’era un’industria libraria; quindi, i libri venivano copiati di
copia in copia: c’erano degli istituti monastici che lo facevano, tra cui i Benedettini; era facile,
pertanto che se qualcuno avesse visto un errore lo avrebbe corretto.
In genere il copista faceva delle copie identiche, era un modus operandi per cui leggeva una
riga alla volta, scriveva una riga alla volta, e alla fine la copia era identica; egli leggeva il
manoscritto da cui copiava ad alta voce (la “lettura interiore” è un’invenzione recente perché
una volta nessuno leggeva “con gli occhi”), quindi era come se si auto-dettasse.
Il libro era una delle cose più costose possibili, quindi di questi libri non andava sprecato
nulla: erano così cari perché ci voleva molto a farli ed erano fatti di pergamena o
cartapecora, quindi ogni spazio libero veniva utilizzato.
Probo scrive la sua grammatica nel I sec. d.C., questa viene copiata molte volte, e gira
finché un maestro anonimo del III sec. scrive sui fogli bianchi della sua copia l’elenco degli
errori dei suoi allievi (si tratta di una lista di 227 parole).
Purtroppo, essendo una lista di parole, non ci dice nulla né sulla sintassi né sul sistema dei
casi. Probo era un maestro che poteva essere romano o tunisino.
Questo manoscritto sarà stato usato da altri per essere copiato e, per l’abitudine dei copisti
che copiano tutto, è stata copiata anche questa appendice.
Quello che a noi è rimasto è un esemplare che, non si sa come, è stato copiato a Bobbio,
nel 700, dove si trovava anche un monastero, fondato da San Colombano, che veniva
dall’Irlanda.
Con l’arrivo degli umanisti, il manoscritto arriva nelle mani di Parrasio, calabrese di
formazione napoletana, che portò questo libro a Napoli dove per due secoli, finché non
arrivano gli austriaci che, quando vennero cacciati, (a metà del ‘700) portarono via più libri
che potevano.
Quando scapparono da Napoli si portarono dietro anche il codice, che starà nella Biblioteca
di Vienna fino alla fine della Prima guerra mondiale: con la perdita della guerra gli austriaci
furono obbligati anche alla restituzione del manoscritto che però non avvenne fino a che,
negli anni ‘20, gli anni del fascismo, vennero mandati i Carabinieri a prenderli.
L’Appendix Probi tornò quindi in Italia e venne esposto in una mostra a Venezia, poi a Roma
e infine nella Biblioteca Nazionale di Napoli (Palazzo Reale), con il nome di Neapolitano
latino 1.
Qual è la differenza con Pompei?
Molte cose attestate nell’Appendix Probi le troviamo incise sui muri di Pompei, ma c’è una
differenza: mentre nel graffito spontaneo di Pompei non c’è altro che la riproduzione
meccanica dell’oralità, l’Appendix Probi è importante perché c’è anche la norma vicino.
Per sapere qualcosa sulla sintassi dobbiamo aspettare Eteria (o Egeria) che decise di
andare da sola dalla Spagna a Gerusalemme, e ci lasciò il suo diario di viaggio
(Peregrinatio Aetheriae): forse era una monaca o forse una nobildonna, in ogni caso
sicuramente ricca.
L’Appendix Probi ci aiuta a ricostruire e comprendere quali fenomeni linguistici erano già in
atto nel III sec.

18/10/2022

Quando abbiamo a che fare con un manoscritto in genere siamo in grado, se facciamo quel
mestiere, di capire in quali termini il manoscritto sia stato redatto: lo capiamo dai
cambiamenti di grafia e dai cambiamenti di inchiostro.
Con l’Appendix Probi, avendo a che fare con copie di copie, abbiamo una scrittura
omogenea: chi l’ha copiato lo ha fatto tutto in una volta, mentre seguiva l’antigrafo (lo scritto
che ha davanti).
I nostri predecessori hanno suddiviso i fenomeni nell’Appendix Probi come si fa nella
linguistica moderna: suddividendo vocalismo e consonantismo, ovvero i fenomeni che
riguardano vocali e consonanti.
Vocalismo
1) Sincope (la caduta della vocale atona post tonica) -> nel momento in cui il latino
evolve nella sua forma volgare, perde una delle sue caratteristiche più forti, ovvero il
suo carattere quantitativo: le vocali si distinguevano tra vocali lunghe e vocali brevi,
dove la vocale lunga era il doppio di quella breve); il latino possedeva 10 vocali
(l’italiano è una lingua invece qualitativa, vale l’accento tonico, vocale su cui cade il
modo in cui pronunciamo quella parola, con un sistema di 7 vocali dove la E e la O
possono esprimersi nelle loro forme aperta e chiusa; invece il sardo ne ha 5 e il
romeno ne ha 6).
VIRIDIS non VIRDIS (caduta della I breve)
CALIDA non CALDA
VETULUS non VETLUS (vecchio)
OCULUS non OCLUS (occhio)
La linguistica non riesce a spiegare come il gruppo “TL” ed il gruppo “CL”, palesemente
diversi, abbiano lo stesso esito in italiano, ovvero la presenza di una VELARE (la sincope è
il fenomeno che spiega la maggior parte degli esiti nel passaggio dal latino al latino volgare
ai volgari romanzi).

2) Sviluppo di yod (semivocale) nel gruppo consonante + e / + i (vocale anteriore)


+ vocale ->
VINEA non VINIA (la I è una semivocale, deve stare attaccata ad entrambe le
sillabe)
LANCEA non LANCIA

3) Passaggio di U breve tonico a O -> una vocale breve, per essere percepita,
necessariamente doveva pronunciata un po’ più aperta
COLUMNA non COLOMNA
TURMA non TORMA

4) Riduzione di AU protonico a O ->


AURIS non ORICLA (la sincope mangia la parola dall’interno ma quando non c’è la
mangia dalla fine; la lingua, dunque, allunga la parola con un diminutivo o un vezzeggiativo -
> AURICOLA -> ORICLA -> ORECCHIA)
Consonantismo
La lingua latina è una lingua DECLINATA come il tedesco, le lingue slave (tranne il bulgaro);
nel latino i casi sono 6 al singolare e 6 al plurale:

1) Caduta della M finale -> molto frequente come terminazione nel latino anche se,
in fine di parola, è difficile da pronunciare e questo fece in modo che la M finale nel
parlato non venne più pronunciata
NUMQUAM non NUNQUA
PRIDEM non PRIDE

2) Caduta di H (perdita di consistenza fonica = perdita di aspirazione) -> nel latino era
pronunciata aspirata (come oggi nel tedesco) ma lentamente cessò di esistere
(quando il francese antico ha acquisito la H dal latino, non si sentiva più ma quando
vennero acquisite nel V/VI secolo dal germanico, la H si sentiva e veniva chiamata “h
etimologica”); la H può essere espirata nel caso delle lingue arabe
ADHUC non ADUC
HOSTIAE non OSTIAE

3) Riduzione del gruppo “NS” a S ->


MENSA non MESA

4) Caduta di V intervocalica se seguita da vocali posteriori O e U ->


RIVUS non RIUS
PAVOR non PAOR

5) Confusione fra B e V -> presente soprattutto nell’area ibero-romanza ma anche


nell’area arabo-classica
BACULUS non VACLUS
CABALLUS non CAVALLUS (parola rimasta nella lingua castigliana)

6) Esitazione fra scempie e geminate -> le geminate sono le doppie (ci sono delle
aree dove non si percepiscono come in Veneto mentre nel Lazio vengono aggiunte
anche dove non dovrebbero stare; con l’avvento della televisione il linguaggio si è
equilibrato, anche se adesso, negli scritti di didattica, si dice che sta ritornando il
problema a causa dell’aumento dell’immigrazione); il primo tentativo di uniformare la
scrittura risale al 1500 con Pietro Bembo
AQUA non ACQUA
GARRULUS non GARULUS

 Strategie linguistiche per aggirare gli esiti della sincope ->


AURIS -> AURICULA -> oricla -> orecchia
AVIS -> AVICELLUM -> uccello
APIS -> APICULA -> abeille (l’italiano mantiene “apicula” perché è la lingua standard che si
è mantenuta più vicina al latino)

Storia delle parole


Questo ramo della linguistica si definisce SEMANTICA STORICA ed unisce la linguistica
alle cose pratiche e concrete.
La teoria delle onde è un’innovazione linguistica che parte dal centro culturale, in questo
caso Roma, e si diffonde, come fanno le onde, come quando noi gettiamo un sasso in un
lago; all’inizio le onde sono più potenti ma poi vanno ad affievolirsi lentamente fino a
scomparire del tutto; questi sassi potranno essere continuamente tirati e le onde
continueranno ad espandersi ma se ci sarà una roccia, queste onde non passeranno oltre.
FORMAGGIO -> CASEUM (in latino)
Questo termine continua a sopravvivere come “cacio”, ma in genere il termine più utilizzato è
“formaggio”.
Nell’antichità e per tutto il medioevo il formaggio non era considerato un grande alimento,
senza un frigorifero il formaggio ha un pessimo odore, difatti i nobili mangiavano solo un tipo
di formaggio, la giuncata, l’equivalente della ricotta (si chiamava “giuncata” perché era
contenuto in un contenitore fatto di giunti).
La cosa più importante legata alla produzione e il consumo del formaggio era la
conservazione; ad un certo punto però è intervenuta l’innovazione tecnologica: si è trovato il
modo di “far invecchiare bene” il formaggio, mettendolo dentro una forma.
Il “caseum” più moderno si chiamerà “CASEUM FORMATICUM”, “cacio dentro la forma”:
questo è un altro dei fenomeni caratteristici di evoluzione dal latino al latino volgare alle
lingue romanze dove determinante sostituisce il determinato (l’aggettivo sostituisce il
sostantivo a cui si sostituisce).
Quando a Roma arrivarono le pesche, vennero chiamate “MALUM PERSICUM” (“frutto
persiano”), e ci si accontentò di dire “persicum”, da cui “persica” e poi “pesca”.
Per sintesi si utilizza non il termine più comune, ma quello più specifico: in latino tutti i nomi
degli alberi sono femminili e tutti i nomi dei frutti sono neutri, nell’italiano invece molti nomi
degli alberi sono maschili, e i frutti femminili.
Queste “onde” trovarono la “roccia”: i Pirenei, questa innovazione linguistica non supererà
mai i Pirenei, per cui in tutta l’area ibero-romanza il formaggio continuerà a chiamarsi
“QUESO”.

FEGATO -> IECUR (imparisillabo)


Questa innovazione per cui lo chiamiamo “fegato” deriva dall’incontro con la cucina greca:
per i greci il fegato è “EPATOS”.
Quando i Romani hanno invaso la Grecia hanno preso soprattutto le persone colte, che
sapevano fare le cose: scribi, traduttori, medici e cuochi (all’epoca la cucina greca era molto
raffinata).
Tra le raffinatezze della cucina greca che i Romani amavano di più c’era il foie gras che i
romani chiamavano “IECUR FICATUM”.

MENSA -> I nobili latini mangiavano sdraiati ma avevano però una tavola su cui erano
posate le vivande.
“Mensa” significava non solo la tavola, ma anche l’atto del cibarsi insieme, inoltre indicava
quel pane tondo molto sottile su cui si posano le cibarie.
A un certo momento, soprattutto nelle campagne, dove questo non c’era, si inizia a utilizzare
un altro modo di mangiare: le case erano generalmente composte da una sola stanza, dove
avveniva tutto e fino al medioevo si dormiva tutti insieme.
In questo contesto si inizia a usare una tavola, un’asse, che nel momento in cui si mangiava
veniva posta su due cavalletti, in questo modo non occupava troppo spazio.
Questa innovazione tecnologica si diffonde, e con essa si diffonde anche la parola che la
designa, “tabula” ma anche questa innovazione non ha superato i Pirenei dove infatti questo
termine non arriva e si continua a usare la parola “mensa”, quindi “MESA”.

PARLARE -> LOQUOR (verbo deponente)


In tutta l’area al di qua dei Pirenei inizia a venire utilizzata una parola che deriva dal lessico
dei cristiani: nel Vangelo Gesù diffonde i suoi insegnamenti attraverso parabole (un
aneddoto, una storia esemplare).
Da “parabola” viene “PAROLA” e “PARABOLARE”.
Anche al di là dei Pirenei “loquor” non piaceva, e il processo di creazione di un verbo
alternativo è uguale nella sostanza ma diverso nella forma: in quell’area c’era la “FABULA”,
anch’essa un racconto esemplare (“fabula” -> “fabulare”-> “HABLAR”).

ARRIVARE -> VENIO / ANDARE -> EO


Il termine “venio” aveva molte forme composte: “advenio”, “convenio”; viene sostituito con un
verbo che deriva dal linguaggio marittimo: “AD RIPARE”, arrivare a riva (da qui viene
“arrivare”).
Lo stesso meccanismo è utilizzato anche in area iberica, dove viene utilizzato un altro
termine, “PLICARE”: in latino vuol dire “arrotolare”, “piegare” e da qui deriva “LLEGAR”.

20/10/2022

Le lingue di sostrato
Bisogna immaginare le lingue come una torta a strati che presenta come strato centrale il
LATINO; le lingue che preesistevano al latino erano le lingue dei popoli conquistati da coloro
che parlavano latino e venivano definite LINGUE DI SOSTRATO, (strato che sta sotto),
ovvero le lingue dei popoli sottomessi dall’Impero Romano (considerate le lingue dei
“perdenti”); in seguito le LINGUE DI SUPERSTRATO saranno quelle degli invasori che a
loro volta verranno però conquistate dal latino.
I romani si sono espansi su territori dove si parlavano le lingue italiche, l’etrusco, il celtico,
mentre per la Penisola Iberica rimarrà “l’enigma iberico”.

Il sostrato italico
La prima espansione dei Romani fu a sud, nell’area che va circa dall’Italia centrale in giù,
dove si parlavano le lingue italiche (di cui fa parte anche il latino).
Queste lingue non erano molto differenti tra loro (erano dello stesso ceppo) ed erano le
lingue dei vari popoli che vivevano in quell’area e sono: il sabino, il sabello, l’osco, il
piceno, il calabro, il siculo, il sicano e molte altre.
Queste lingue differivano poco dal latino, e il latino fu assimilato rapidamente e facilmente,
pertanto i fenomeni di sostrato del latino, per quanto concerne le lingue italiche, sono poco
percepibili (un caso è la pronuncia della “l” geminata, -LL-, pronunciata “per asperum
sonum” nel dialetto siciliano).

Gli Etruschi
A nord i latini confinavano con un altro popolo, gli Etruschi (il problema dell’etrusco è
complicato, perché non è una lingua europea); inoltre gli Etruschi scrivevano molto poco,
solo qualche decennio fa è stata trovata in Egitto e trasportata altrove una mummia avvolta
da un telo di lino, che in realtà erano le “pagine” di un libro etrusco (in genere però gli
Etruschi scrivevano poco, questo perché scrivere non era essenziale).
Gli Etruschi sapevano scrivere, ma non ritenevano opportuno scrivere altro se non liste di
nomi (tra l’altro, gli ultimi tre dei sette re di Roma, i Tarquini, erano etruschi).
L’etrusco è una lingua non indoeuropea, totalmente differente dal latino: una parola di
origine etrusca è “ISTRIO” (“attore”); calcolando che in genere si acquisiscono da un’altra
lingua parole che nella propria lingua non ci sono, possiamo immaginare che gli Etruschi
avessero un tipo di attori differente; il teatro romano, nonostante fosse piuttosto ricco,
evidentemente non contemplava un tipo di teatralità propria degli Etruschi.
Ancora oggi il termine “istrio” rimane nella nostra lingua: l’“ISTRIONE” è un attore sopra le
righe, che prende la scena.
Un altro termine di sicura derivazione etrusca è “SATELLITE” e faceva riferimento alle
guardie del corpo: le persone illustri etrusche andavano in giro con attorno delle guardie del
corpo che le proteggevano.
Esiste tuttavia, la questione dibattuta della “GORGIA TOSCANA” (il fenomeno di
aspirazione per cui k -> h, p -> ph e t -> th, attribuita ad un uso linguistico etrusco): per molto
tempo si è ritenuto quasi banale che fosse un fenomeno di sostrato, ma recentemente alcuni
linguisti hanno sollevato il dubbio che in realtà sia un’evoluzione spontanea.

L’Enigma Iberico
La penisola iberica è problematica a causa dei Pirenei: le testimonianze più rilevanti
derivano dai greci perché possedevano colonie portuali su tutte le coste del Mediterraneo; ai
greci interessava solo il porto, per il commercio.
I greci ci dicono che la penisola iberica era popolata da due popolazioni: gli Jacitani e gli
Llergetes: i primi avevano probabilmente un dominio sulla catena pirenaica mentre i
secondi sono sicuramente gli abitanti della zona che ancora oggi si chiama Lleida.
Con tutta probabilità questi popoli sono celti, nella variante di celtiberi; tuttavia, gli stessi
greci dicevano che esisteva un terzo popolo, gli Iberi e si pensava che fossero i Baschi; è
un’ipotesi però che non torna, perché i greci si fermavano alle coste mediterranee, dove
impiantavano dei porti per commerciare con l’interno; pertanto, è difficile che si siano
imbattuti nei Baschi (o il territorio dei Baschi scendeva così tanto, o scendevano dei loro
emissari per commerciare, o qualche greco si era spinto all’interno per incontrarli).
Recentemente si è scoperta sul Caucaso una lingua stranamente affine al Basco (il
Caucaso è considerato il paradiso dei linguisti, è una catena montuosa, quindi molto
conservativa, dove sono rimaste popolazioni che continuano a parlare le loro lingue
originarie); la cosa più bizzarra è che i greci chiamavano “iberi” anche una popolazione del
Caucaso, per questo lo definiamo “enigma iberico”.
Qualcuno ha supposto che il Caucaso sia la zona di origine dei Baschi, ci sono gli Iberi ma i
greci chiamavano così due popoli diversi.
Un altro enigma non risolto è quello di un popolo di cui nessuno parla.
Nello spagnolo ci sono parole che ostano le nostre ricerche etimologiche, perché non
riusciamo a sapere da dove derivino: per esempio “zorro” (volpe), “perro” (cane),
“izquierda” (sinistra), “cama” (letto), “manteca” (burro).
Nella penisola iberica c’erano sicuramente tre popolazioni: una era quella dei Celtiberi,
un’altra che era quella dei Baschi e una terza misteriosa popolazione a cui non possiamo
dare nome, se non “il popolo che chiama la volpe zorro ecc.”.
I fenomeni di sostrato sono i celtismi, il basco non ha lasciato traccia, è stato però già
censito in un libro dell’XI sec. che è il Codex Calixtinus (una guida per Santiago de
Compostela).
C’è poi questa terza popolazione, perché sono rimaste quelle parole?
Di due sappiamo la ragione:
“Izquierda”: nella cultura europea si considerava che ci fosse una mano buona (la “dritta”,
“derecha”), che era la mano “protetta da Dio” e poi c’era la sinistra, sulla quale incombevano
varie superstizioni.
Tutte le lingue hanno cercato di non utilizzare la parola latina per “sinistra”: in francese ci
sono “droit” e “gauche”, in inglese “right” e “left”; mentre altre popolazioni hanno elaborato
strategie metaforiche, nella penisola iberica c’era già una parola per evitare di dire “sinistra”,
che si è quindi conservata.
“Manteca”: un termine si importa quando si importa qualcosa che non si ha.
Quando i Romani invasero la Grecia scoprirono che non usavano l’olio, ma il burro ed è
stato importato come “BUTYRUM”.
Nella penisola iberica non si usava l’olio, ma il burro, che aveva un suo nome: “manteca”;
quindi, quando sono arrivati i Romani c’era già una parola per indicarlo (in italiano il termine
“manteca” rimane nella forma “mantecare” (cuocere con il burro).
Nel 711 arrivarono gli arabi portando l’olio e si impose la parola “ACEITE”, perché in arabo
quello era il termine per indicarlo.
Cambiare nome a una cosa è complicato: ci interessano i toponimi (nomi dei luoghi) perché
sono la cosa più arcaica che c’è in linguistica (nel caso di Leningrado, gli abitanti hanno
continuato a chiamarla “Peter” (San Pietroburgo).

25/10/2022

La popolazione celtica è quella a cui più dobbiamo i termini di leggende, miti e folklore
(qualcosa proviene anche da norreni e vichinghi).
I celti erano una popolazione che dalle sponde settentrionali del Mar Nero iniziarono a
spostarsi (emigrazione che però non fu la prima)

Gli indoeuropei
Inizialmente furono presentati come un popolo prevalentemente maschilista a cavallo con
armi, che avrebbe a breve distrutto una civiltà mediterranea matriarcale, anche se in realtà il
successo degli Indoeuropei non fu dato dalle armi o dai cavalli, perché la loro carta vincente
era quella di essere agricoltori.
Nella visione stadiale dell’evoluzione, al primo stadio ci sono i cacciatori raccoglitori. In
genere cacciatori i maschi, raccoglitrici le femmine (questo fa sì che da tempo immemorabile
le donne conoscano le erbe e i medicamenti).
I maschi, nel Pleistocene, con le loro forniture di armi non sempre riuscivano a uccidere un
bisonte o un cervo; dunque, il patrimonio proteico era procurato dalle femmine: insetti, vermi
ecc.; questa società di cacciatori e raccoglitori era tendente al nomadismo, per cercare
sempre nuove terre.
Gli Indoeuropei lentamente, da quello stadio, si erano evoluti verso quello dell’agricoltura:
questo implicava stanzialità, la possibilità di avere delle scorte: essi vinsero perché gli bastò
il loro tenore di vita per convincere quelli che incontravano a diventare come loro (tuttavia la
loro migrazione non si mosse mai come un’onda prepotente, ma con grande lentezza, infatti
ogni generazione faceva 30 km).

I celti
I Celti risiedevano pacificamente nell’area a nord del Mar Nero, lentamente iniziarono a
migrare verso occidente: questo tipo di migrazione è stato definito “pendolo celtico”.
I Celti iniziarono a muoversi verso occidente e si insediarono in quella che oggi possiamo
definire Europa; essi erano noti anche come Galli (da lì, Gallia, Galizia, regione all'estremo
occidente della penisola iberica, Galles e Cornovaglia (Cornwall = Gallia dei Celti Cornici).
Per un eccessivo sovrappopolamento i Celti tornarono indietro e si stanziarono nuovamente
nell’Asia Minore, in un luogo che porterà il loro nome: la Galazia: il Galata Morente era una
statua, che rappresentava un guerriero coraggioso e molto bello.
Tutte le grandi città francesi portano il nome della capitale della tribù: sono la popolazione
più “anarchica” che ci sia; possedevano una struttura clanica che aveva delle persone
eminenti, dei capi, dei sacerdoti (i druidi), affiancati dagli aspiranti sacerdoti.
I Celti sapevano scrivere, ma non lo facevano perché era considerato un accessorio anche
superfluo, che a volte danneggiava le capacità mnemoniche.
Erano un popolo per molti versi affine ai Romani: amavano la bella vita, stare in città e
combattevano solo se necessario.
Siamo quasi certi, vista l’altezza cronologica in cui penetrano nella letteratura, che alcuni
termini siano di adstrato, come “caballus”, quel cavallo che i Celti utilizzavano nei lavori
agricoli.
Questo popolo che parte dal nord del Mar Nero, attraversa l’Europa e torna indietro, copre
quindi tutta l’Europa; al nord del Vallo Adriano, nell’attuale Scozia, c’erano gli Scoti e i Picti,
dove gli Scoti erano Celti.
Di questo popolo ci siano rimasti solo 180 termini, la maggior parte dei quali in francese.
Le parole di sostrato celtico sono:

 bracae -> i Celti avevano le braghe e i Romani il gonnellino, che era più comodo, ma
le braghe erano fondamentali per andare a cavallo.
 All’epoca non esistevano le staffe, che sono un’invenzione medievale: senza sella e
staffe il cavallo si può usare solo come animale da trasporto, oppure sendendocisi di
lato come si fa coi muli (i romani utilizzavano invece la biga).
 camisia -> era la casacca, i bottoni non esistevano, è un’invenzione medievale,
quindi erano chiuse da lacci.
 carrum -> è differente dalla biga romana, dal carro a due ruote, la differenza era nel
terreno, che a sud della linea La Spezia - Rimini è arido e argilloso, duro: il “currum”
era il carro utilizzato per le attività agricole in terreni pesanti, già nella Pianura
Padana, perché i terreni erano grassi e molli di pioggia, fangosi.
 camminus -> era il termine con cui i Celti definivano la strada, per noi è diventato
“cammino”.

I toponimi importanti da ricordare sono quelli che terminano per “-briga”, “-dunum”, “-asco”
e forse “-ate” che sono ritenuti di origine celtica mentre da altri sono ritenuti di origine
longobarda.

I termini dal francese:

 charpentier -> i Celti erano bravissimi nella costruzione in legno.


 basser, brasserie -> “brasser” vuol dire fare la birra; nel corso del medioevo la birra
era un alimento fondamentale, perché a differenza dell’acqua non si rischiava di
prendere batteri o malattie, spesso l’acqua era infetta.
 Molte volte il rischio era anche con il latte: per tutto questo periodo le persone adulte
non bevono latte e abbiamo testimonianze nel medioevo di monache che al mattino
mangiavano pane appena cotto intinto nella birra calda.
 salmon -> il salmone.
 combe -> la valle: alcuni toponimi con “combe” esistono ancora in Italia, e sono
dell’area franco-provenzale o occitana (in Val d’Aosta ci sono le valli della Comba
Freida (“valle fredda) mentre nell’area della Alpi Marittime c’è il centro
dell’occitanismo italiano, che è Combo Scuro (“valle scura”).
 lande -> landa.
 breuil -> Rimanendo in Val d’Aosta, una delle città sciistiche più conosciute è
Cervinia, che è un nome imposto dal regime fascista, prima si chiamava Breuil.
“Breuil” indicava in celtico quello che gli inglesi chiamano “bush”: cespugli di altezza
media. Evidentemente in quella zona c’erano quelli. “Breuil” vede un’evoluzione
(deriva semantica), da “breuil” (“cespuglio aggrovigliato”; lat.: “brogium”). Nei
dizionari è citato prima il significato concreto, poi il significato traslato e infine il
significato metaforico. Il significato traslato è “qualcosa di intricato”. Il passaggio
successivo è metaforico: il “broglio”. Dal significato concreto di “cosa ingarbugliata” è
venuto fuori il significato metaforico di “broglio”, “imbroglio”. Per tenere presente il
significato mediano teniamo presente che c’è anche il significato traslato.
 bruyere -> brughiera.
 truan -> vagabondo.
 colori -> ci sono popolazioni che danno il nome solo a tre colori: secco, succulento e
neutro. In latino e greco non esiste una parola per “blu” o “azzurro”: si usa un termine
germanico, “blau”, e uno arabo, “azul”.
Molti di questi colori derivano dal manto delle bestie, soprattutto da quello del cavallo;

 bler -> è un manto di cavallo, vuol dire “pezzato, a macchie”.


Il tasso era un animale che dava fastidio, in latino si chiamava “tassus”, in francese “tasson”
ma lo chiamano invece “blaireau”, “il macchiato”.
 dru -> è un aggettivo che indicava l’erba fitta; il significato traslato è “fertile”, perché
se l’erba è fitta il terreno è fertile.
Il passaggio successivo è “l’amante carnale”: in antico francese “dru” e “drue” sono gli
amanti passionali, che vanno a letto assieme, mentre il termine per gli amanti che si amano
prima di consumare sono “ami” e “amie”.
Le lingue di adstrato sono le lingue di popolazioni confinanti con cui lo scambio linguistico è
finalizzato allo scambio culturale o al commercio.
In realtà i Celti, popolazione anarchica per eccellenza, erano incapaci anche solo di pensare
una struttura statale gerarchica come quella dei Romani ed erano molto litigiosi, però erano
estremamente intelligenti.
Quando i Romani cercavano di assediare le loro città, i Romani rimanevano colpiti dal fatto
che fossero grossi e dal fatto che li prendessero in giro.
Riuscirono a salvare l’Europa dai Germani grazie a matrimoni tra le rispettive nobiltà.

L’arrivo dei Germani


Quando arrivarono i Germani, abbastanza rozzi, alla fine entrarono in Francia, ma persero la
loro lingua perché l’omogeneità di quella popolazione gallo-romana fece sì che l’invasione
non fosse deleteria, li fermarono.
Non ci riuscirono i Goti, ma ci riusciranno quelli dopo di loro, perché erano cristiani e si
potevano sposare, mentre i Goti erano ariani. La Gallia era diventata la popolazione gallo-
romana, e in genere ciò che è ibridato è più forte.
A est di quella linea oscillante tra l’Elba e il Reno c’erano i Goti, che erano suddivisi in due
tribù, Visigoti e Ostrogoti: visigoto vuol dire “goto saggio”, e Ostrogoto “goto brillante”.
I Goti ebbero la fortuna di essere evangelizzati, erano Germani cristiani e chi li evangelizzò
fu Wulfila, che tradusse in goto la Bibbia: era però ariano, ovvero non credeva che in Cristo
le due nature fossero compresenti ed equivalenti.
I Goti ariani sono considerati dai cristiani eretici. Il pagano è diverso, poteva essere
evangelizzato: quando sono arrivati i Franchi, sono stati convertiti a partire dalle donne.
I Goti, in quanto eretici, non potevano essere sposati, a meno che non si convertissero:
erano molto familiari ai Romani e ai Bizantini per ragioni di commercio perché erano coloro
che a Bisanzio importavano l’ambra.
Inizialmente per i Romani la leva era una cosa obbligatoria che durava 40 anni, e poi
ricevevano un pezzo di terra; nel momento in cui la vita è più ricca non si voleva più andare
a fare il servizio di leva, e si pagava quindi l’equivalente, una truppa mercenaria: i Goti molte
volte vivono nel territorio romano come truppe di frontiera.
Tacito scrisse la “Germania” basandosi sulle esperienze di suo suocero Agricola: in tutto
questo libro l’unico termine germanico che compare è “framea”, ed era la lancia corta.
Plinio il Vecchio ne aggiunse un’altra, “sapo, saponis”, una sostanza grassa e rossa che i
Germani utilizzavano per tirarsi su i capelli per andare in battaglia e spaventare il nemico.
Per il termine “guerra” era però sorto un problema linguistico: in latino guerra si diceva
“bellum”. “Bellum” è un sostantivo, “bellum, bellus, bella” è un aggettivo: da una parte c’era
questa fastidiosa omofonia tra la parola “guerra” e la parola “bello”; dall’altra c’era il fatto che
chi parlava di guerra la chiamava “war”. La parola “bellum” rimane in termini come
“debellare”, “bellicoso”.
“Harpa” era uno strumento suonato dai germani.
“Binda” era la benda con cui ci si avvolgeva le gambe.
“Brun”, “falwa”(“fulvo”), manto del cavallo.
“Blund”(“biondo”), manto di un cavallo e capigliatura maschile e femminile.
“Blank”, bianco: è il colore del filo della spada sotto il sole (i latini usavano “albus”, il colore
che ha il cielo all’alba, il colore del bianco dell’uovo).
“Sparanian”, “waidanjan”, risparmiare e guadagnare.
“Rauba” è la roba (in francese è “vestito”, ma è la stessa radice di “rubare”).

27/10/2022

Halloween
L’etimologia di “Halloween” è “all hallows’ eve”, “la sera di tutti i santi”, la vigilia del giorno
dei santi. La festa di Ognissanti è piuttosto recente, del XII sec, ed è stata accoppiata al
Giorno dei Morti, è nata in questi termini.
Nasce in ambiente monastico: i monasteri avevano gli obituari, gli elenchi di tutti i fratelli
morti, in occasione di quel giorno si preparavano tanti pani quanti erano i fratelli morti, si
aprivano le porte del convento e agli uomini che si presentavano veniva dato un pane;
facendo questo veniva pronunciato il nome di un confratello morto.
I poveri diventavano la personificazione dei morti, che ritornano: nel medioevo si aveva
molto la percezione che i morti potessero tornare, perché nelle culture pre cristiane non si
credeva nell’anima; i santi non sono solo quelli del paradiso, perché per i cristiani i santi
sono tutti coloro che sono in grazia di Dio.
Il 25 dicembre per Natale si scelse perché quello è il giorno del solstizio d’inverno, il giorno
del sole che non può essere combattuto; nel solstizio d’estate è stato messo San Giovanni
Battista (24 giugno).
I cosiddetti “12 giorni”, quelli tra Natale e l’Epifania, sono i giorni più pericolosi perché
ritornano i morti: i celti avevano due date fondamentali: “Samhain” e “Beltaine” (1 maggio) e
anche loro dividevano il periodo della luce dal periodo delle tenebre.
Il primo novembre cominciava il periodo delle tenebre per i Celti, in cui la notte è più lunga
del giorno: quella sera i Celti prendevano delle zucche, le svuotavano, le riempivano di
grasso animale, mettevano uno stoppino e lasciavano che tutta la notte segnassero la
strada verso casa, in modo che con la luce gli spiriti delle tenebre non passassero sulla
strada.
Una delle regioni che ha mantenuto più a lungo le tradizioni celtiche è l’Irlanda che, nel
1845-48 soffrì di una enorme carestia: era piovuto incessantemente per tre anni e per tre
anni le patate sono marcite nella terra.
Gli irlandesi morivano di fame e si sono quindi spostati in America, a New York presso la
cattedrale dedicata a San Patrizio: assieme alla devozione per San Patrizio portarono le loro
credenze, tra cui Halloween.

Adstrato germanico
I termini dell’adstrato germanico sono termini goti, ovvero quei termini che penetrarono
nell’Impero Romano quando ai Romani servivano molto i Goti.

Adstrato greco
Per l’Italia meridionale si parla di termini greci di sostrato: in Puglia e Calabria si parlava il
grecanico. Una volta in Puglia c’erano diverse comunità parlanti il greco, prendendo a
riferimento Petrarca, circa a metà del ‘300: egli avrebbe voluto imparare il greco ma non ci
riuscì, in compenso aveva trovato un personaggio, Leonzio Pilato, che sapeva il greco.
All’epoca di Petrarca c’erano 33 comunità parlanti grecanico in Calabria, oggi ne sono
rimaste 4, che sono però passive.
Altri termini d’uso comune sono “schola”, “camera”, “cathedra”, che è la sedia e da questo è
passato a indicare a ciò che sta davanti all’insegnante, ma una volta l’insegnante si sedeva
e tutti gli stavano intorno.
Altri termini sono legati alla diffusione del cristianesimo che nasce in Palestina, ma dopo la
sua nascita si diffonde soprattutto in Grecia e Asia Minore.
San Pietro si incontrò con San Paolo sul confine tra Siria e Turchia e da lì iniziarono
l’evangelizzazione.
I pagani non hanno angeli e diavoli perché le divinità potevano essere buone o cattive.
Il termine “angelo” e “diavolo” sono termini greci presi dall’aramaico: la Bibbia fu scritta in
una lingua semitica, e venne tradotta in una lingua indoeuropea, il greco.
I latini non avevano la “ecclesia”, avevano i templi e solo in seguito “ecclesia” indicherà la
chiesa come edificio, perché inizialmente la “chiesa” è la comunione dei santi.
“Episcopus”, il vescovo.
“Presbiter”, “prestre”, da cui viene prete.
“Parabola” è quel breve racconto che era lo strumento principale di racconto di Cristo e da
breve racconto diventa “parabolare”, “parola”.

Le lingue di superstrato
Le invasioni barbariche
I cinesi erano stanchi che le loro terre fossero continuamente oggetto di incursioni da parte
di popoli nomadi: costruirono quindi una muraglia, con grande capacità tecnica.
Questo respingimento creò un movimento dalle steppe verso occidente; i Mongoli e i Turchi
iniziarono a spingere per cercare terreno fertile, un luogo che potesse nutrirli; erano
popolazioni nomadi, che avevano bisogno di terre sempre nuove.
I popoli nomadi andavano a cavallo senza staffe, con una gamba con il ginocchio ad angolo
retto e l’altra con l’angolo opposto, questo faceva sì che riuscissero a stringere in una morsa
il cavallo (che era più piccolo di quelli odierni).
A cavallo senza le staffe non si combatte, tranne con le cose da lancio: piccoli giavellotti e
frecce perché la lancia sbilancia il corpo; invece, tirando con arco e frecce il corpo è solido.
Questa enorme steppa che si muove ha come avanguardie i Goti ma oltre a loro passarono
altre tribù più piccole: i Marcomanni e gli Alamanni.
I primi ad aver avuto successo linguistico furono i Vandali, che premevano al confine di
Bisanzio in una maniera molto forte: l’imperatore dell’Impero Romano d’oriente aveva molti
più soldi dell’Impero Romano d’Occidente, per questo, convinse i Vandali ad andarsene
dietro compenso.
I Vandali attraversano come una furia tutta l’Europa gallo-romana, la penisola iberica, e si
stanziano nell’unico posto che porta ancora il loro nome, la “Vandalusia”, la terra dei
Vandali; attraversarono lo stretto di Gibilterra, percorrendo ferocemente la parte del
Maghreb marocchino e si stanziano a Cartagine, vicino a Tunisi; da Cartagine imparano
l’arte della navigazione e fanno un sacco a Roma. Hanno attraversato tutta l’Europa e una
parte d’Africa per fare un sacco a Roma, partendo da Cartagine.

Superstrato vandalo, alano e svevo (V secolo)


Sono ondate di migrazioni che venivano chiamate “invasioni barbariche”; più o meno
insieme ai Vandali si muovono, da est a ovest, gli Alani, si fermano nella penisola iberica,
non lasciano tracce linguistiche di sé se non il nome di una città, Villalan (dove “villa” è il
nome per indicare la città).
Lo stesso fecero gli Svevi che, oltre a stabilirsi al nord in Svezia, lasciarono un toponimo,
Suevos (provincia di La Coruña).

Superstrato visigoto (V secolo)


I Goti erano divisi in due tribù, Visigoti e Ostrogoti: i primi erano più a nord e si definivano
“Goti saggi” mentre i secondi si trovavano più a sud e si definivano “Goti brillanti”.
Sono due popolazioni molto affini, soprattutto dal punto di vista linguistico: i Visigoti, dopo il
rapido passaggio di queste popolazioni, si collocarono nella penisola iberica e questo sarà
un disastro per l’Europa perché i Visigoti erano cristiani, ma ariani e il fatto di essere ariani
ha determinato una situazione che si definisce “segregazione matrimoniale”.
L’evangelizzazione dell'Europa è stata molto rapida ma molto superficiale: quando
arrivarono i Visigoti nella penisola iberica non si verificò quello che era avvenuto con i Celti e
i Romani, ovvero che il popolo invasore e quello invaso si erano amalgamati grazie ai vincoli
matrimoniali.
I Visigoti non potevano farlo, hanno continuato a sposarsi tra Visigoti, mentre gli abitanti
della penisola iberica hanno continuato a sposarsi tra loro: così facendo i Visigoti non si
integrarono mai con gli autoctoni, e soprattutto ciò ha determinato che i Celtiberi cristiani
sentirono sempre i Visigoti come degli invasori.
I Visigoti attorno al 600, dopo il VII sec., si convertirono e si convertì anche il sovrano: ormai
però gli arabi erano alle porte e questa mancata integrazione permise che gli arabi venissero
considerati quasi dei liberatori.
Ciononostante, i Visigoti rimasero nell’area della penisola iberica anche dopo l’invasione del
popolo arabo nella parte settentrionale: Castiglia, León, Galicia, Asturias: tutta questa fascia
settentrionale rimase cristiana e sarà questa via cristiana quella che porterà al santuario di
Santiago de Compostela (questo sarà il pellegrinaggio più sentito nel medioevo e lungo le
vie di quel pellegrinaggio si diffonderanno le prime manifestazioni letterarie dell’Europa
romanza, le canzoni di gesta).
La Castiglia si chiama così perché è la terra dei castelli, usata per difendersi dagli arabi
(“Arabi” è un termine improprio, erano popolazioni magrebine anche se parlavano arabo); i
castelli servivano a difendersi dall’intrusione di popolazioni che non avevano intenzione di
andare lì, agli arabi interessava l’Andalusia.
Dei Visigoti rimasero nomi di origine come Fernando, Ramiro, Alfonso, Elvira, i termini propri
dell’arte del filare, “haspa” (rocchetto) e “rukka”, la rocca (del filo), il termine “spiedo”, che è
militare, la “spada”.

Superstrato burgundo (V secolo)


Un ulteriore popolo che attraversò l’Europa ma che riuscì ad insediarsi furono i Burgundi (V
sec.) che lasciarono anche il loro nome: Borgogna.

Superstrato anglo e sassone (V secolo)


A nord arrivarono gli Angli, i Sassoni e gli Juti.
Gli Juti stavano nello Jutland, la penisola tra il Mar Baltico e il Mare del Nord dell’attuale
Danimarca mentre i Sassoni venivano dalla Sassonia, non si sa bene da dove arrivassero gli
Angli ma probabilmente erano vicini dei Sassoni (il nome sembrava in verità un termine
utilizzato per designare coloro che stavano in un “angolum”, un angolo di territorio; i latini,
soprattutto i sacerdoti latini, che dovettero prodigarsi per evangelizzarli, affermarono che il
termine “Angli” derivava da “angelum”, perché erano belli come gli angeli, anche se non è
detto).
La loro migrazione si rivolse verso l’Inghilterra (anglosassone): in Inghilterra c’erano i Celti,
un popolo piuttosto anarchico, diviso in tribù, spesso in lite tra loro; ad un certo punto uno di
questi capi clan ebbe la pessima idea di chiedere aiuto agli Angli, agli Juti e ai Sassoni per le
guerre che combatteva con altri clan, questi dovevano solo mandare qualche nave di
guerrieri e invece si mossero in massa.
Il sovrano Vortigern, chiamò questi popoli come mercenari, ma questi se ne approfittarono
e sbarcarono nel sud est dell’Inghilterra; il loro primo sbarco (V sec.) trovò però un ostacolo:
questi guerrieri erano stati chiamati da un capo ma, quando i Celti si resero conto che
queste popolazioni non volevano solo partecipare a una guerra ma prendersi la loro terra, si
unirono e scelsero un capo che li guidasse (questo capo si chiamava Artù (Arturus
Britannus).
Non era un re, ma venne definito un dux bellorum, un capo di guerra; sicuramente non si
chiamava Artù, ma era il suo nome di battaglia (significa “orso” e richiamava l’animale più
forte e coraggioso, simile all’uomo); si pensa che si chiamasse Ambrogius Aurelianus,
probabilmente era un mezzosangue, di padre romano e madre celta.
Artù sconfisse Angli, Sassoni e Juti in una battaglia celeberrima, quella di Badon Hill, ma
dopo un periodo di pace la coalizione tra i clan celtici si spezzò, presumibilmente con la
morte di quest’uomo, i clan non trovarono più l’accordo per combattere assieme; quelle
popolazioni nemiche tornarono quindi in maniera definitiva.
In Inghilterra si parlerà quindi l’anglosassone fino al 1066, quando vengono conquistati dai
Normanni.
Le prime fonti sono di fine V, inizio VI sec.: si parla di cinque libri della storia dei re dei
Britanni, tutti dedicati ad Artù (Goffredo di Monmouth scrive utilizzando fonti precedenti poco
dopo il 1100).
Se i Celti avevano come animale totemico l’orso gli Angli e i Sassoni avevano il cavallo; la
storia degli Angli ricorda molto quella di Roma: si narra di due gemelli, Hengist e Horsa
(Horsa è “horse”, Hengist è lo “stallone”).
C’è un cofanetto di osso di balena in cui si celebra la storia anglica, in cui c’è un uomo con la
testa di cavallo che piange su un tumulo dove c’è un altro uomo: l’uomo con la testa da
cavallo era Hengist. Erano arrivati in Inghilterra con le navi, e i Germani del nord erano abili
navigatori: a loro dobbiamo i termini con cui si indicano i punti cardinali (nord, est, sud,
ovest); i latini usavano il vento per indicare la direzione perché a loro non serviva tanto
orientarsi in mare.
L’origine del termine “bateau” in francese è sassone, il termine “rada” in italiano è il luogo
dove buttano l’ancora le navi in un golfo (da qui deriva l’inglese “road”) perché gli
anglosassoni vedevano la strada come una strada marittima.

Superstrato ostrogoto (VI secolo)


Gli Ostrogoti vennero in Italia e provarono a creare un rapporto con il popolo sottomesso che
non poteva però essere matrimoniale, in quanto gli Ostrogoti erano ariani.
Ebbero la fortuna di avere un sovrano particolarmente lungimirante, Teodorico di Verona
che nella leggenda nera diventò Dietrich von Bern (“Bern” era un’altra maniera per chiamare
l’orso). Teodorico era molto intelligente e lungimirante, e aveva capito che se gli Ostrogoti
avevano la forza, la maestria militare e il numero, i Romani erano però eredi di una
concezione di stato differente. Anche noi usiamo il diritto romano perché il diritto barbarico
prevede una composizione diretta tra due parti in causa: “se uccidi mio fratello, ucciderò il
tuo”; a uno stadio successivo “se uccidi mio fratello, paghi l’equivalente della sua vita”.
Invece nel diritto romano ci si rivolge a una terza persona superiore che cerca di dirimere la
nostra contesa: se qualcuno uccide il fratello di qualcun altro sarà un terzo a decidere la
pena.
Tutte queste cose le aveva capite Teodorico, e aveva capito che finché si era un clan le
cose potevano andare così, ma nel momento in cui si voleva fondare uno stato, c’erano una
quantità di cose giuridiche, amministrative ed economiche che bisognava saper fare.
Teodorico iniziò ad accogliere alla sua corte nobili senatori romani attribuendo loro degli
incarichi (come nel caso di Boezio e Cassiodoro); gli uomini di Teodorico però iniziarono ad
essere invidiosi e a pensare che se avessero conquistato l’Italia non ci sarebbe stato motivo
che questi comandassero.
Tra una faida di palazzo e l’altra costrinsero Teodorico a tornare sui propri passi e
imprigionare e uccidere Cassiodoro e Boezio (Boezio, mentre era in carcere, iniziò a
scrivere un libro fondamentale, il “De consolatione philosophiae” perché, da senatore, era
quasi certo che l’avrebbero ucciso: ci descrive la filosofia come una bella donna, che tutte le
notti entra nella sua cella e lo consola: nasce il genere allegorico).
Il concetto astratto è difficile da concepire per l’uomo, è molto più facile per la mente umana
percepire una cosa concreta: questa è l’allegoria che nasce con Boezio e nel medioevo sarà
uno dei generi letterari più ricchi.
Il superstrato ostrogoto contiene poco, anche perché il grosso dei termini germanici in Italia
sono dei Longobardi; di Ostrogoto è rimasto “zolla” e “tasca” (era una borsa); i Longobardi
usavano lo zaino, che si mette su due spalle.

Superstrato franco (VI secolo)


L’invasione successiva è opera di due tribù anch’esse linguisticamente molto affini: i Franchi
e i Longobardi.
Franchi e Longobardi (“dalla lunga barba”) parlavano una lingua fra loro abbastanza simile
ed ebbero la fortuna che, quando arrivarono in Europa, erano completamente pagani e
“buzzurri”, erano due popoli rozzi, primitivi, violenti.
Tuttavia i frati e gli abati riuscirono, insinuandosi nelle corti, a convincere le regine di mariti
rozzi a farsi cristiane: l’evangelizzazione partì dalle nobili femmine, che fecero convertire
subito i mariti.
I Franchi si insediarono nella “Franchia”, che smise di chiamarsi “Gallia”, ma a differenza
dei Longobardi, trovarono una popolazione unita e compatta, frutto dell’unione celto-romana:
i Franchi verrano conquistati e smetteranno di parlare una lingua germanica e inizieranno a
parlare la lingua dei loro sottoposti.
Anche i Longobardi si insediarono in un territorio che porta il loro nome (“Longobardia”) che
comprendeva l’Italia settentrionale.
In Italia c’era il Papa, che voleva tutto il potere: si era quasi trovato un accordo facendo
sposare le due figlie del re Desiderio con i figli del re franco, Carlo e Carlomanno ma i due
figli del re di “Franchia” sposano le due figlie del re longobardo.
Carlomanno morì e Carlo, rimasto solo col potere, prende la Longobardia con le armi senza
sposare la figlia del re longobardo (tutto risiede nel diritto germanico, perché lo stato
germanico è considerato di proprietà privata del re, se il re ha due figli maschi lo stato si
divide in due, per questo spesso uno dei due viene ucciso).
Carlo Magno ebbe un solo figlio maschio e tre o quattro figlie femmine che non fece mai
sposare per evitare che qualcuno rivendicasse il trono anche da parte femminile.
La figlia Berta si innamorò del suo professore e il figlio sarà colui che scrisse la prima opera
in lingua volgare francese, i “Giuramenti di Strasburgo” dell’842.

08/11/2022

Anche i Franchi erano un popolo germanico ma avevano smesso di parlare la loro lingua
germanica per dare vita, insieme ai gallo-romani, a una lingua romanza; la prima grande
opera di letteratura francese, la Chanson de Roland, contiene un tasso di germanismi
molto elevato.
I Franchi erano germani, erano una popolazione linguisticamente affine ai Longobardi: sono
state proposte molte etimologie nel tempo per la parola “frank”, secondo alcuni voleva dire
“giavellotto”, o “ardito”; oggi invece l’etimologia della parola fa riferimento a “uomo libero”.
I Franchi erano divisi in due tribù, i Franchi Salii e i Franchi Ripuari; all’epoca la Francia
era suddivisa in quattro stati: la Neustria (“nuova terra”), l’Austrasia (più a est), la Borgogna
(dove stavano i Burgundi) e l’Aquitania.
Il loro primo sovrano unificatore, Meroveo (da cui merovingi), aiutò Ezio, generale romano, a
sconfiggere gli Unni anche se sarà Clodoveo a dare la svolta alla situazione perché,
fortemente incentivato dalla moglie, si convertì al cristianesimo: sarebbe stato incoronato re
nella chiesa di Saint-Denis (nord di Parigi), e c’era così tanta gente che il vescovo non
riusciva ad arrivare ad ungerlo.
La sua conversione al cristianesimo portò alla conversione di tutti i nobili, i quali non
volevano essere da meno: ciò aprì un’altra volta la strada a una felice commistione
matrimoniale tra i gallo-romani e i Franchi, e a un’assimilazione linguistica lenta (da parte dei
gallo-romani).
Al superstrato franco dobbiamo alcune parole, più importanti per il francese ma anche per
l’italiano: “Busk” -> il bosco.
“Sparwari” -> lo sparviero: i Germani adoravano gli uccelli da preda, unico modo per
mangiare della cacciagione “di piuma”; erano animali da caccia che venivano usati per
cacciare altri uccelli.
“Hagiron” -> l’airone.
“Happja” -> l’ascia: gli uomini del nord amavano combattere con l’ascia.
“Krippja” -> la greppia, dove gli animali mangiavano il fieno.
“Borde” -> era una capanna di basso livello, povera, umile da cui deriva “bordello”: era facile
che in quei posti ci fossero donne di facili costumi, che facevano sì che si potessero
comprare favori sessuali (catapecchia -> luogo di incontri amorosi a pagamento dove la
confusione era tipica di questi posti).
“Halle” e “Salle” -> la prima è presente ancora nell’inglese “hall”, ma anche nel francese “la
halle” (il mercato coperto); sono entrambi grandi spazi vuoti, una stanza grande (nel
medioevo talvolta quella era l’unica stanza di una casa o di un palazzo dove si faceva un po’
di tutto).
“Gardo” -> giardino, “jardin”.
“Loge” -> la loggia, lo spazio coperto nel loggiato.
“Thwahlja” -> la tovaglia che era un grande pezzo di stoffa.
“Fateuil” -> oggi sarebbe la poltrona, ma all’epoca era la seggiola da campo, che era fatta
come le attuali seggiole da regista (ma senza poggiaschiena); era una struttura di legno con
dei perni e un piano di cuoio.
“Bacon” -> il prosciutto, ma anche semplicemente la coscia di maiale.
“Gateaux” -> dolce
“Flan” -> il budino.
“Robe” -> il vestito.
“Écharpe” -> la sciarpa.
“Fard” -> trucco che mettevano le donne franche.
“Danser” -> danzare.
“Estampir” -> era una danza occitana, che si faceva battendo i piedi per terra.
“Trescher” -> la tresca.
“Gigue” -> la giga.
Questi ultimi termini sono riferiti alla danza: fino al 1700 non era pensabile una danza di un
uomo e una donna perché in genere erano le donne che ballavano tra loro e gli uomini che
ballavano tra loro, tranne in alcuni casi in cui il ballo prevedeva che uomini e donne si
scambiassero il posto.
“Gars” -> era il giovane uomo libero, che inizialmente ricopriva il ruolo di “scudiero”, prima di
diventare cavaliere.
“Camerlengo” -> era un personaggio di alta importanza a corte, perché più vicino al sovrano
o al feudatario.
“Masnada” -> gli uomini del signore che si occupavano della camera.
“Siniscalco” -> un altro personaggio di alto livello.
“Ber” -> il barone
“Marquis” -> il marchese, colui che governava la marca ovvero il territorio di frontiera, il più
pericoloso.
“Mareskalk” -> “skalk” vuol dire “responsabile”, persona che ricopre un ruolo di comando:
“marescalco” vuol dire “colui che si occupa dei cavalli”, il termine “mare” significa “cavallo”.
La “mara della notte” era per le persone dell’epoca un incubo: era una divinità cavalla che,
se non aveva in simpatia il proprietario del cavallo, andava di notte nelle stalle ad intrecciare
le criniere e le code dei cavalli, metteva loro paura, li faceva scappare.
Per essere protetto da quell’essere notturno che era la cavalla della notte, i signori che
tenevano i cavalli nelle stalle mettevano su di esse un ferro di cavallo, che era come un
messaggio di sfida alla divinità cavalla.
Non tutti i popoli sono uguali e non tutti i popoli individuano la ricchezza nella stessa cosa:
Tristano in origine era il guardiano dei maiali, era colui che gestiva il patrimonio economico
più grande, per cui allo stesso modo il titolo di Tristano era quello.
“Mareskalk” dà come esito in italiano due parole: “maresciallo” e “maniscalco”: se nella
parola “maniscalco” troviamo il riferimento a colui che si occupa dei cavalli, nella parola
“maresciallo” troviamo solo il riferimento a una persona molto potente; una figura molto
potente era Guglielmo il Maresciallo ma questa figura fu abolita in Francia perché era
potente quasi quanto il re (nella Francia moderna è considerata una carica di livello
altissimo, era colui che gestiva le cose quando il re moriva o non poteva governare).
“Feudo” -> il regno veniva gestito in forma “piramidale”: c’era un signore ma non funzionava
come a Roma, dove c’era un’autorità centralizzata, con le province e le città.
Il re sceglieva una persona di cui si fidava, leale, ne sceglieva una decina, e a ciascuno
dava un territorio da gestire; il “feudo” era quindi un territorio, dato a un signore che durante
cerimonia riceveva un filo d’erba o una zolla.
La persona che riceve la terra deve dare in cambio “auxilium et consilium” (aiuto e
consiglio: il feudo in origine non era ereditato ma spesso veniva dato al figlio maschio; non
era quindi un dono.
Il “consilium” era il consiglio dei baroni: il re per fare una guerra doveva convocare i baroni e
chiedere consiglio e se i feudatari non avessero voluto il re avrebbe receduto perché nel
mondo feudale il signore non aveva potere assoluto, era “primus inter pares” (primo fa pari).
L’”auxilium” rappresentava gli uomini in armi anche se nel medioevo erano in pochi e nobili a
combattere perché un uomo in armi costava molto e all’epoca non c’era l’acciaio inossidabile
(le spade avevano un nome, un nome di donna).
Anche i cavalli costavano molto: il cavallo da combattimento si chiamava “destriero”, perché
era tenuto sciolto, senza sella e con la mano destra (mano di Dio); il cavaliere cavalcava un
animale meno nobile, il palafreno, che cavalcavano anche le donne (la sella all’amazzone
sarà un’invenzione del 700 a.C.).
Un uomo armato aveva quindi al seguito un palafreno, una corazza, alcuni scudieri (che
portavano lo scudo), gli animali da soma, i “somieri” che portavano tutte le armi e una
discreta tenda e tutto ciò è stato reso possibile da due invenzioni fondamentali: la staffa e il
morso che i popoli delle steppe non avevano.
“Bando” -> era la legge emessa dall’autorità, dopo aver preso consiglio dalle persone che lo
circondavano; all’epoca non tutti sapevano leggere e scrivere; pertanto, il bando veniva fatto
circolare con una pergamena ma anche da un banditore, una persona che si metteva su un
piedistallo e proclamava.
Sempre dalla legge, deriva “bandiera”, il vessillo che si identifica con la legge di un signore
ma deriva anche il termine per indicare coloro che venivano colpiti da un bando, e venivano
quindi detti “banditi”.
Esiste anche un altro termine, di luoghi chiamati “bandita” che derivava da un’altra
innovazione medievale, la coltivazione a rotazione: invece di seminare tutto un campo a
grano, per cui l’anno dopo la terra non riusciva più a fornire nutrimento sufficiente per un
successivo raccolto, dividevano il territorio in tre parti.
Il primo lo seminavano a grano, il secondo a legumi e il terzo lo lasciavano libero a prato;
seminavano legumi perché quando venivano raccolti (piselli, fagioli), quello che rimaneva
rilasciavano sostanze azotate e quindi il terreno rimaneva più ricco.
La stessa quantità di frumento veniva poi seminata nel campo dove prima c’erano i fagioli,
ricca di azoto, i fagioli venivano seminati nella parte dedicata all’erba e la parte che prima
aveva avuto il grano, e che era ormai esaurita, veniva lasciata a erba, “a bandon”.
“Banale” -> si parlava di mulini e forni “banali”, perché erano troppo costosi perché
venissero costruiti per ognuno, si potevano dunque utilizzare dietro un piccolo pagamento.
“Banlieue” -> era il bando che indicava il limite di una lega (unità di misura), era quel
qualcosa che era alla periferia, fuori dal dominio diretto del bando.
“Haste” -> era la lancia, metodo che inizierà a imporsi sul finire del 1100, ovvero il
combattimento a lancia piatta.
“Dardo” -> quello che viene scagliato dall’arco.
L’arco era considerato dai Franchi un’arma disonorevole, da vigliacchi, perché uccideva da
lontano e non si verificava il contatto fisico uno contro uno; il vero cavaliere non userà mai
l’arco.
Ciononostante, un popolo era famoso per la sua abilità con l’arco: i Gallesi, il più importante,
Richard de Clare, era denominato “Strongbow”, era riuscito a sposare la figlia del re
dell’Ulster, prendendosi tutta l'Irlanda.
In epoca successiva, quasi nel 1200, si decise di ricorrere all’arco lungo: archi altissimi che
avevano una forte gittata.
“Flèche” -> la freccia.
“Gant e Elmo” -> il guanto e l’elmo.
“Bleu” -> il colore blu.
C’erano popolazioni che davano il nome a tre colori: secco, succulento e neutro ovvero
bianco, rosso e nero.
I latini non avevano intenzione di dare un nome al blu o all’azzurro; per i Greci il colore del
mare era di “color del vino”; invece i Germani avevano un nome per quel colore: blu.
“Laido” -> voleva dire “brutto moralmente”.
“Snello” -> non voleva dire “magro”, ma “veloce”; i “corsieri snelli” erano i cavalli veloci.

Superstrato longobardo (VI secolo)


Franchi e Longobardi hanno avuto grandi personaggi: per i Franchi Gregorio di Tours
mentre per i Longobardi Paolo Diacono, che ha raccontato con precisione l’origine del
nome (“dalla lunga barba”) ed era l’amico più intimo di Desiderata, la prima moglie di Carlo
(Magno) e viveva a corte.
Sono sicuramente longobardi i toponimi in “-engo”, i toponimi che contengono il termine
“fara” (“terreno paludoso”) e i toponimi che contengono la parola “braida”.
“Faida” -> era il sistema di vendetta che prevedeva l’uccisione reciproca.
I Longobardi hanno avuto l’editto di Rotari che nel VI-VII sec., si oppose al rogo delle
streghe perché nel medioevo non si bruciavano ma si affogavano.
“Guidrigildo” -> quando i Longobardi impostavano il prezzo della faida, dando un valore a
persone uccise e ferite.
“Strale” -> la freccia.
“Melma” -> il fango.
“Scricciolo” -> il nome di un uccellino.
“Zecca” -> dove si stampavano i soldi.
“Stamberga” -> “casa di pietra”.
“Balco”, “balla”, “banca” -> stesse parole con l’alternanza p/b.
“Palco” -> era un qualcosa attaccato a una casa, sopraelevato: una terrazza, un balcone.
“Palla” -> in francese era “balla” e lo è tutt’ora.
“Panca” -> la panca, quella cosa su cui ci si sedeva, nei dialetti settentrionali si chiamava
“banca”.
Nel medioevo la “banca” era una panca con sopra dei soldi, che venivano cambiati in
cambiali (primi assegni), o veniva portato dell’oro e cambiato in denari.
Parti del corpo -> “stinco”, “strozza” (“gola”), “schiena”, “guancia”, “zanna” (che
inizialmente indicava ogni dente).
“Zazzera” -> il modo in cui erano soliti pettinarsi.
“Skos” “era la pancia che in italiano si chiamava anche “grembo”.
Da “skos” nei dialetti settentrionali derivava “scosa”, il grembiule.
Altre parole sono “bisticciare”, “scherzare”, “bussare” e “spiare”.
“Guercio” -> per i Germani del nord non era una cosa negativa, Odino era senza un occhio
per poter vedere oltre.

10/11/2022

Superstrato scandinavo (IX-X secolo)


È un popolo germanico che, dall’area svedese-norvegese, iniziò a muoversi verso ovest e
non solo. Gli Scandinavi sono una popolazione germanica, che aveva una grandissima
dimestichezza col mare; vivevano in un territorio abbastanza ostile.
I Vichinghi erano molto abituati alla navigazione, usavano il cavallo per muoversi e mai per
combattere; venivano chiamati anche “Norreni” perché combattevano piedi: la loro strategia
era quella di fare incursioni navali, rapinare tutto il possibile e tornare con il bottino nelle loro
terre d’origine.
A un certo punto della storia (V-VI sec.) i loro spostamenti iniziarono a prevedere basi
stanziali e da qui partì una vera e propria colonizzazione.
Le loro direzioni a occidente furono tre: la prima verso l’alto, portò alla conquista dell’Islanda
che venne cristianizzata intorno all’anno 1000, in maniera molto superficiale; si stanziarono
anche nella Groenlandia (“la terra verde”).
Intorno al 1100 ci fu la cosiddetta “piccola glaciazione”, prima di essa pare che il clima
fosse abbastanza caldo, tanto che in Islanda si coltivava la vite e si riusciva a fare il vino per
la messa (ci fu un autore, Snorri Sturluson, che ha scritto molto raccontando usi, costumi e
religione).
Sono stati trovati due insediamenti già in America (i primi ad averla scoperta sono stati
probabilmente i Vichinghi): dalla Groenlandia commerciavano con gli indiani d’America,
ebbero anche contatti non del tutto piacevoli.
Che ci sia stato questo mutamento climatico repentino lo verifichiamo dalle sepolture: ci
sono stati ritrovamenti archeologici dei Vichinghi insediati in Groenlandia e in base a questi
ritrovamenti si scoprì che, decennio dopo decennio, i corpi erano più piccoli e le ossa più
fragili, e che c’erano più bambini (si creavano quindi rachitismo e mortalità infantile, ma i
Vichinghi non se ne vollero andare).
Questa migrazione si è estinta poco prima del 1200.
La seconda migrazione è quella che portò i Vichinghi a devastare il nord della Francia:
salivano con le loro barche (i “drakkar”, “le lunghe navi”) nel nord della Francia, navigavano
anche sui fiumi, navigavano sulla Senna e devastavano i luoghi dei Franchi.
Di questo recarono tracce nascoste due Chansons de Geste in cui il nemico cattivo non era
il saraceno moro, ma l’alto e biondo Vichingo e sono la “Chanson de Guillaume” e la
“Chanson de Gormont et Isembart”.
A un certo punto il re dei Franchi, piuttosto che averli come nemici, gli diede in feudo una
terra: questa terra verrà chiamata “Normandia”, “la terra dei Normanni (uomini del nord)”;
l’unico patto era che si facessero cristiani; decise di fare ciò Rollo (o Rollone), che si installò
in Normandia, prese il battesimo, e con lui tutti gli altri.
Sarà un discendente illegittimo di Rollo a conquistare l’Inghilterra nel 1066.
La terza linea di espansione li portò a navigare lungo l’Atlantico fino allo Stretto di Gibilterra
e a conquistare l’Italia meridionale e la Sicilia con Roberto il Guiscardo dove sia loro che
gli Svevi avranno un ottimo rapporto di convivenza con gli Arabi.
La quarta linea si diresse a sud-est: le lunghe navi potevano navigare nei fiumi bassi e
potevano essere portate a spalla da loro: risalirono i fiumi e si installarono a Kiev perché era
un’altra via commerciale, la via dell’ambra e da lì potevano tranquillamente commerciare con
Costantinopoli, che era diventata Bisanzio.
Dal punto di vista linguistico a loro non si deve molto, se non “bitta” (dove si legano le navi
attraccate).
“Équipe” -> l’equipaggio.; “Skipper” -> colui che guidava la navi e i toponimi che terminano
in “-bec” o “-torp”.
Superstrato slavo (X secolo)
Nel frattempo, le grandi migrazioni da oriente a occidente portavano avanti popoli sempre
più arretrati, che non erano mai entrati in contatto con le civiltà più avanzate dell’occidente.
Gli ultimi ad arrivare furono gli Slavi, alla fine del IX secolo quando ormai l’Europa era un
castello sufficientemente fortificato, con una popolazione sufficientemente unita, dei sistemi
sufficientemente forti da non farsi più invadere.
Gli Slavi ci provarono quando sul trono imperiale c’era Ottone I di Sassonia che fu un
grandissimo imperatore, che li affrontò nella battaglia di Lechfeld che si rivelò essere una
vittoria schiacciante.
Tutti quelli catturati sul campo furono portati via come schiavi.
“Schiavo” è l’unica parola di origine slava che è rimasta, è un’antonomasia, “sclavus”.

Superstrato arabo (VIII secolo)


Nel Deccan (Arabia Saudita), attorno al V secolo si trovavano gli “Arabi” anche se la loro era
una realtà ancora pagana, se non fosse per un giovane carovaniere abituato a commerciare
con il nord (attuale Palestina) al servizio di una ricca vedova, che iniziò a studiare le religioni
monoteistiche, entrando in contatto con ebrei e cristiani.
La ricca vedova si chiamava Khadija e il giovane carovaniere Maometto, grazie al quale
nacque l’Islam, che è sostanzialmente l’abbandono totale nella misericordia di Dio;
Maometto non ebbe figli maschi da Khadija, ma solo una figlia femmina, Fatima.
L’unico legittimo discendente di Maometto per via diretta era il re del Marocco ed iniziò così
la parabola dell’Islam, che è stata denominata “la tenaglia islamica” ovvero un’espansione
da un lato verso ovest, dall’altro verso est.
Costantinopoli si salvò per un soffio, essendo esposta per tre lati su quattro al mare, quando
cadrà ad opera dei Turchi sarà vittima di una guerra batteriologica, degli appestati vennero
lanciati sulla città, venivano avvelenati i pozzi o venivano lanciati degli infetti con le catapulte
ma anche Costantinopoli aveva un’arma segreta, il “fuoco greco”: del bitume, che
galleggiava sull’acqua e a cui si dava fuoco.
L’islamizzazione era molto rapida perché a differenza del cristianesimo bisognava
conoscere l’arabo per pregare; ancora adesso in Turchia, dove si parla turco, loro stessi
dicono che le parole del “muezzin” le sanno ma non le capiscono, come quando i cristiani
pregavano in latino.
La cosa più complicata avvenne nel Maghreb, dove c’era una cultura molto antica, che non
era stata del tutto assimilata dai Romani, che aveva conservato la sua lingua, la cultura
berbera.
“Berber” era un aggettivo che indicava una lingua che non era il greco(“balbuziente”).
Non tutte le lingue avevano le stesse categorie grammaticali: il latino non aveva l’articolo,
non ne aveva bisogno, perché è una lingua determinata, anche la lingua berber non
conosceva l’articolo e neanche l’arabo aveva propriamente un articolo, ma ha “al” o “el” che
però non può essere declinato.
Nel 711 un esercito arabo, capitanato da un generale di nome Tariq, attraversò lo Stretto di
Gibilterra e in un attimo si presero tutta la penisola iberica che gli interessava, tutto il sud
dell’attuale Spagna e Portogallo e nel frattempo fecero aanche incursioni in Provenza e a
Genova.
I Visigoti erano rimasti ariani e la popolazione visigota non si era mai integrata con la
popolazione cristiana celtibera: in sostanza nella penisola iberica i Visigoti, anche se si
erano alla fine convertiti, erano detestati dalla popolazione come invasori per quasi tre secoli
e quando arrivarono gli Arabi, la sconfitta dei Visigoti fu immediata.
Tariq chiamò un emiro (un suo superiore), l’ultimo re Visigoto venne ucciso sulla pubblica
piazza e, in un momento di grande saggezza politica, la moglie del re Visigoto venne data in
moglie a quello che diventerà il primo sovrano arabo della penisola iberica.
La religione islamica ammetteva che un musulmano maschio potesse sposare una non
musulmana femmina; quindi, tutto questo esercito trovò mogli celtibere e da qui nacque la
civiltà più avanzata d’Europa dell’VIII-IX secolo.
Gli Arabi erano passati da Alessandria d’Egitto, il luogo della più grande biblioteca del
mondo e avevano portato con sé Aristotele: c’erano scuole in cui convivevano grandi
studiosi arabi, ebrei e cristiani: la Scuola di Toledo, grazie a questo l’Europa riuscì ad
ottenere un portato culturale enorme.
La cultura araba comprendeva i toponimi che iniziavano con “guad-”; da cui “guado”.
Gli Arabi erano agricoltori eccezionali, come chiunque vivesse in un ambiente ostile come il
deserto: il loro tipo di cultura era quella delle oasi, dove il sole era molto potente; l’agricoltura
si sviluppò in senso verticale su tre piani; le alte palme da dattero facevano ombra a uno
strato inferiore, agrumi e melograni, che a loro volta facevano ombra allo strato ancora
inferiore, gli orti.
La “noria” era alla base del sistema di irrigazione: per tirare su l’acqua dal pozzo c’era un
meccanismo che veniva attivato da uno o due asini o dromedari, che giravano intorno, in
questa maniera veniva tirata su l’acqua che arrivava nei campi.
Nella penisola iberica arrivò l’”alcachofas”, il carciofo; anche in Italia lo chiamiamo “carciofo”
perché questa parola venne portata dagli Arabi, che nel frattempo avevano invaso la Sicilia:
venivano dall’Egitto e parlavano un arabo perfetto, quando dicevano il nome di qualcosa non
mettevano l’articolo, per cui per noi è “carciofo”.
Per capire da dove sono entrati gli arabismi nelle nostre lingue bisogna capire se c’è “a” o
“al” davanti: se ci sono questi articoli, il termine è penetrato nelle lingue romanze dalla
penisola iberica e dove non lo si trova, deriva dall’arabo classico, dalla Sicilia.
“Arroz” -> il riso.
“Alfalfa” -> la pianta che si utilizzava come mangime per animali.
“Azucar” -> lo zucchero.
“Algodon”-> il cotone.
“Naranja” -> l’arancia.
In penisola iberica utilizzavano la “manteca”, quando arrivarono gli Arabi portarono l’”aceite”
(da “aceituna”, oliva).
“Jazmin” -> il gelsomino.
“Azahar” -> il fiore d’arancio.
“Barrio” -> la parte centrale fortificata della città.
"Azulejo" -> le decorazioni maiolica, che sono azzurre.
“Lapis azul” -> pietra azzurra.
“Jarra” -> la giara.
“Tambor” -> il tamburo.
“Aljuba”, “juba” -> era l’abito lungo portato da musulmani maschi e femmine, da questo
deriva “giubba/giubbotto”, qualcosa che copriva solo la parte superiore; “Juba” in francese
diventa “jupe”, la gonna.
Per le nostre lingue (italiano, spagnolo) diventa la parte superiore, per i Franchi di
Gerusalemme la parte inferiore, solo femminile.
“Babuchas” -> le babbucce.
“Recamar” -> ricamare.
“Tarifa” -> c’era un luogo che si chiamava così, perché lì veniva pagata la tariffa doganale
per entrare nel territorio.

15/11/2022

L’apporto della lingua araba si può distinguere dall’area in cui gli arabismi sono entrati in
contatto con le popolazioni parlanti latino volgare, protoromanzo (gli stessi termini potevano
essere penetrati nelle lingue protoromanze dalla porta iberica o dalla porta siciliana).
Laddove sono penetrate attraverso la porta iberica veniva usato il determinativo “al”
agglutinato alla parola (ad esempio in “azucar” e “zucchero”); se i termini arabi penetravano
attraverso la penisola iberica, essendo portatori della lingua arabizzata in maniera
superficiale dal punto di vista linguistico, “al” non veniva riconosciuto come una categoria
grammaticale presente nella loro lingua.
Le lingue berber non conoscevano l’articolo determinativo: l’articolo non era essenziale, lo
sarà solo quando verrà destrutturato il latino, perché nelle lingue meno determinate c’era
bisogno di aggiungere cose per definire meglio la funzione grammaticale.
Si può notare bene nel francese in cui, senza l’articolo, è difficile capire se si tratta di
singolare o plurale; a molte lingue non servono nemmeno altri elementi come nel caso del
cinese che non ha tempi e modi verbali.
Le parole che non hanno “al” agglutinato sono le parole penetrate attraverso la Sicilia,
perché coloro che l’avevano conquistata erano arabi che conoscevano l’arabo alla
perfezione; gli ambiti culturali in cui gli arabi eccellevano erano ad esempio il commercio
(“tarifa” -> tariffa; “aduana” -> dogana; “almacen” -> magazzino; “arsenal” -> dove si
costituiscono le navi; “quintal” -> quintale).
“Alcazar” -> la rocca di una città; l’origine di questa parola non è araba ma latina,
“castrum”, che era l’accampamento che però, con l’evolversi della civilizzazione, prese il
significato di “castello”, il luogo che conteneva i soldati.
In Anatolia c’erano diversi luoghi che finivano con “-zar”: dal latino “castrum” la lingua araba
prese la parola che diventò “czar” e venne restituita, soprattutto in area iberica, come parola
araba.
“Azul” -> azzurro, da cui “lapis azul”, lapislazzulo.
“Carmesi” -> in italiano veniva utilizzato nella forma francese “cramoisi” oppure con una
metatesi, “cremisi”, era il colore della porpora (corrispondeva a “vermiglio”).
La porpora non era altro che la lavorazione a partire da un mollusco: quello che usciva dalla
conchiglia sembrava un piccolo verme (in arabo verme si dice “kerm”).
“Escarlata” -> scarlatto; anche in questo caso la parola originaria è un termine latino:
“sigillatum”, che vuol dire “stampato con un sigillo”; spesso la colorazione delle stoffe non
era integrale ma, secondo un’usanza che esiste ancora adesso in India, c'erano pezzi di
legno intagliati che si intingevano nel colore e si stampavano sul tessuto.
In arabo questa parola si traduceva come “siquillat”, che poi darà nell’area iberica
“escarlata”: la famosa porpora greca e quella romana non sappiamo rifarle perché dalla
caduta dell’Impero Romano al medioevo si è persa la ricetta.
Il colore più difficile da ottenere era il blu perché era difficile fissarlo, per questo nel
Medioevo le cose blu costavano molto; non a caso nei dipinti quasi tutte le nobildonne erano
rappresentate vestite di rosso, mentre la Madonna era vestita di blu.
Successivamente il figlio di Cosimo il Vecchio De’ Medici (nonno di Lorenzo il Magnifico),
Piero il Gottoso, scoprì delle miniere di allume nell’area sud della Toscana: i Medici erano
soprattutto mercanti di panni e grazie all’allume si riusciva a fissare il blu, e da quel
momento diventò un colore più accessibile.
“Zifr” -> i numeri arabi avevano una cosa che i numeri romani non avevano: lo zero, che è
anche sinonimo di “cifra”: era la cifra per eccellenza, perché consentiva di fare calcoli in
negativo; dagli arabi si era acquisito anche “algebra”.
“Zenit” -> il punto a perpendicolo in alto.
“Nadir” -> il punto a perpendicolo in basso.
“Azimut” -> alambicco, lo strumento per fare i distillati (si distillavano anche gli umori delle
piante); si utilizzavano quindi anche in medicina, e veniva utilizzato per distillare
medicamenti.
In Italia penetrò col termine “lambicco”, esisteva anche il termine "lambiccare", essendo il
processo di distillazione complesso.
“Alcol” -> soprattutto in senso medico, farmaceutico.
“Alchimia” -> la maniera di fare tutte queste cose; inizialmente “alchimia” e “chimica erano
la stessa cosa, poi a partire dal 1500 si iniziò a distinguere la “chimica” scienza buona e
l’”alchimia” come scienza dei maghi (gli alchimisti erano quindi individui ritenuti pericolosi
dalla Chiesa).
“Mezquin” -> giovane; c’era un famoso romanzo cavalleresco, scritto nel 1420 in Italia, che
si chiamava “Il Guerrin Meschino” dove “meschino” in quel periodo in Italia voleva dire
“giovane”.
Il romanzo raccontava la storia di questo giovane che credeva di essere un orfano nativo di
Durazzo, e che scoprì alla fine che i suoi genitori sono vivi e di essere il signore di Durazzo.
Questo romanzo nelle sue forme abbreviate, ancora nel 1950-60, era la lettura più comune
degli italiani emigrati in sud America; nel significato traslato “meschino” voleva dire anche
debole, “poverino” (el significato metaforico “meschino” voleva dire “piccolo di spirito”).
“Raha” -> mano; da lì derivava “racchetta” in senso di prolungamento della mano.

I vocalismi
La lingua latina comprendeva dieci vocali e il cui vocalismo era quantitativo: importava la
quantità di una vocale, se era lunga o breve; nelle nostre lingue il vocalismo è qualitativo,
dipende da dove cade l’accento tonico.
La “a” breve e la “a” lunga per i latini avevano una grande differenza: già in epoca molto
antica, durante la prima epoca imperiale (I sec.), la “a” lunga e la “a” breve non si
distinguevano più, perché la “a” era molto aperta (dal punto di vista del parlato, già in epoca
molto antica abbiamo solo nove vocali).
Le vocali brevi, proprio per la loro brevità, tendevano ad essere pronunciate più aperte.

.
Primo passaggio verso la fonologia del vocalismo volgare

Dalla “e” breve derivava la “e” aperta, dalla “e” lunga la “e” chiusa.
Due di questi simboli nella nostra lingua sono a noi sconosciuti: la “i” che deriva dalla “i”
breve e la “u” che deriva dalla “u” breve.
Questo primo passaggio è comune a tutta la Romània.
Secondo stadio: quattro passaggi

Il primo passaggio accomunava la Romània settentrionale e occidentale: la Romània


occidentale era la penisola iberica, quella settentrionale era la Gallia e parte dell’Italia.
Questo è il vocalismo dell’italiano standard: dalla “a” deriva la nostra “a”, dalla “e” aperta
deriva la nostra “e” aperta, dalla “e” chiusa e dalla “i” aperta deriva la nostra “e” chiusa, dalla
“i” chiusa deriva la nostra “i”, dalla “o” aperta deriva una “o” aperta e dalla “o” chiusa e “u”
aperta deriva la nostra “o” chiusa e infine dalla “u” chiusa deriva la nostra “u”.
Il nostro è un sistema a sette vocali, dove due vocali si possono esprimere in forma aperta
o chiusa.

Secondo stadio: il secondo sistema vocalico

Il secondo sistema vocalico è quello del sardo (allo stadio medievale).


Una lingua ha una struttura grammaticale e sintattica propria; al suo interno ci sono dei
dialetti.
Il sardo ha solo cinque vocali: la “e” e la “o” sono presenti nel sardo solo in forma aperta.
Il terzo schema vocalico è quello dell’Italia meridionale e della Sicilia, dove si trovano
nuovamente solo cinque vocali.
La “e” e la “o” si manifestano solo in forma aperta, ma si producono in maniera differente.
“tela”, che in latino aveva la “e” lunga e diventa una “e” chiusa, nel siciliano diventa “tila”
perché la caratteristica del vocalismo siciliano è che la “i” è l’esito della “e” lunga, “i” breve,
“i” lunga latina.
Stessa cosa per la “u”, esito della “o” lunga, “u” breve, “u” lunga latina.

L’ultima è la Romània orientale: il romeno è interessante perché i primi quattro esiti sono
identici all’evoluzione vocalica in area della Romània occidentale e settentrionale.
Nella prima parte l’evoluzione è come quella dell’italiano, mentre per “o” e “u” si comporta
come il sardo.

Il consonantismo
Ci sono tre fenomeni di consonantismo e il primo riguardava il trattamento delle esplosive
intervocaliche sorde: “p”, “t”, “k”.
La Romània orientale e la Romània occidentale si distinguevano per questo: le esplosive
intervocaliche sorde diventano sonore (sonorizzano) in tutta la Romània occidentale.
Nel caso di “ripa”, partendo dalla colonna in fondo, rimangono uguali (non sonorizzano)
nell’area orientale e in questo caso l’italiano si comporta come l’area orientale; rimane
uguale nel romeno e anche nell’italiano.
L’italiano però, nelle sue forme settentrionali, tende non solo a sonorizzare, ma anche a fare
un passaggio successivo, probabilmente per influenza del francese: in italiano medievale
era “ripa”, “p” sonorizza in “b” e diventa quindi “riba” sia in spagnolo che in provenzale.
Il francese fa un salto ulteriore, essendo la più innovativa delle lingue romanze medievali; di
conseguenza dà “rive”.
“Capra” in romeno e italiano rimane “capra”, diventa “cabra” in provenzale e spagnolo e il
francese fa il passo successivo con “chèvre”.
“Mutare” rimane uguale in italiano e romeno, c’è la sonorizzazione in provenzale e spagnolo
e in francese c’è il dileguo, “muer”.
“Fata” rimane uguale in italiano e spagnolo, sonorizza in spagnolo “hada” e in provenzale
“fada”; in francese c’è il dileguo con “fée”.
“Amica” rimane uguale in italiano e romeno, in spagnolo diventa “amiga” sonorizzando e in
francese c’è il dileguo con “amie”.
È difficile, nella pronuncia, mantenere la consonante finale, tanto che la “m” finale del latino
è sparita, per quanto riguarda la “s” finale, questa è più importante della “m”.
La “m” si trova nell’accusativo singolare, ma anche nel genitivo plurale mentre invece la “s”
nel latino è l’elemento che caratterizza il plurale, soprattutto l’accusativo plurale (la “s” già
tendevano a non pronunciarla (elisione) laddove la parola successiva iniziava per vocale).
La culla della cultura era la Grecia, poi è stata Roma e, nel passaggio verso il medioevo,
iniziò ad esserlo anche la Francia e questo perché nel VI secolo, mentre in Francia si
stabilizzava il regno merovingio, in Italia scoppiava la peste, c’erano scorrerie dei barbari e
l’invasione degli arabi, oltre a non esserci uno stato centralizzato.
La Francia aveva assunto la sua forma “esagonale”, era omogenea geograficamente; quindi,
stava diventando la leader culturale dell’area romanza: la Francia dei dotti si sentiva di poter
ricevere l’eredità latina e tendeva a nobilitare la lingua facendo sì che rimanesse più vicina
possibile al latino.
Si conserva la “s” soprattutto in area francese per una reazione colta perché si cercava di
rimanere il più possibile ancorati alla struttura della lingua latina.
È possibile che nella parlata volgare la “s” fosse sparita, ma i testi la conservarono e ci
dimostrano che era pronunciata.
“Flores”, plurale di “fiori”, dà “flori” in romeno e “fiori” in italiano; entra in gioco anche il sardo
con le sue quattro varietà: la versione logudorese è quella più arcaica ed essendo la lingua
più conservativa di tutte è rimasta a “flores”, in spagnolo si mantiene la “s”, in provenzale dà
“flors” in francese “fleurs” (il francese è la lingua più avanzata perché non la pronuncia più,
ma continua a scriverla).
Il terzo fenomeno è la palatalizzazione delle esplosive velari “k”, “g” davanti a vocali
anteriori.
Dal latino classico: “cervum” (pronunciato /’kervum/), viene palatalizzato in romeno “cerb”, in
italiano “cervo” (la /k/ di “Kervum” diventa quindi /tʃ/), rimane uguale in sardo, “kerbu”, in
spagnolo diventa “ciervo”, in francese “cerf”.
La palatalizzazione avviene in romeno, italiano e spagnolo; il francese fa il passo
successivo: /tʃ/ diventa /s/.
“caelum” diventa in romeno “cer”, “cielo” in italiano, in sardo “kelu”, “cielo” in spagnolo e
“ciel” in francese.
Il passaggio /k/ -> /tʃ/, la sonorizzazione dell’esplosiva velare avviene solamente davanti a
vocale anteriore, “e” e “i”.

Qui c’è la stessa evoluzione di prima, ma con /g/ → /dʒ/: questo avviene nel francese,
mentre nei dialetti norditaliani si usa la “z”; in castigliano e in siciliano, che in questo caso
sono più avanzati, dilegua.
In spagnolo “generum” diventa “yerno”, in siciliano “yennaru”.
“Germanum” diventa “germano” in italiano, “germain” in francese, nei dialetti nord italiani non
è registrato, mentre in castigliano diventa “hermano”; quindi dilegua e al suo posto c’è una
“h” del tutto superflua.
In latino “germanus” significa “il cugino da parte di padre”, è il figlio del fratello del padre,
che è un elemento estremamente importante per tutta la cultura medievale perché i figli
contavano poco, quello che contava era il nipote.
Dal significato di “cugino” (più legato dal punto di vista del sangue) il passaggio è stato
quello di dare un significato prossimo a questo legame trasformandolo in “fratello”.
Nella cultura medievale era molto vivo il significato di “cugino da parte paterna” o comunque
di “figlio del fratello”: la società era matrilineare (mater semper certa est) e quando le donne
nordiche avevano un figlio maschio non lo educava il marito, andava dallo zio, fratello della
madre, essendo “patrimonio” della famiglia materna.

Latino
Il latino ha dieci vocali, non ha l’articolo e presenta 3 tipi di flessione:

 flessione nominale -> ha cinque declinazioni (dalla prima alla quinta), ognuna di
esse ha sei casi al singolare e sei al plurale; da cinque declinazioni si passerà a tre
in antico francese e provenzale.
Sono declinazioni che resistettero fino alla metà del ‘300; le più antiche declinazioni
formate erano la prima, la seconda e la terza mentre la quarta e la quinta furono le
ultime declinazioni a essere sviluppate, e contenevano poche parole, che saranno le
prime a essere rimosse.
La prima declinazione ha le terminazioni in “a” e la maggioranza dei termini che
essa contiene sono termini femminili, c’è anche qualche maschile, “nauta”
(marinaio), “agricola” (contadino).
La seconda declinazione termina in “us” e contiene soprattutto termini maschili e
neutri, che però finiscono in “um”, sono pochi i termini femminili, “socrus” (suocera),
“nurus” (nuora).
La terza declinazione è molto complicata, perché comprende termini parisillabi
(nominativo e genitivo hanno lo stesso numero di sillabe), “collis, collis”, mentre gli
imparisillabi sono i termini in cui nominativo e genitivo hanno diverso numero di
termini, “mons, montis”; presentano anche imparisillabi ad accento mobile,
“imperàtor, imperatòris”.
In più la terza declinazione ha un particolare tipo di neutri, i neutri in “-al”, “-ar”, “-e”.
I casi sono nominativo (soggetto), genitivo (complemento di specificazione), dativo
(complemento di termine), accusativo (complemento oggetto), ablativo (esprime il
maggior numero di complementi).
Il latino è una lingua iper-determinata.
Quasi tutte le preposizioni sono fisse per un caso (“ad” vuole sempre l’accusativo).
Dato che la prima declinazione ha nella maggioranza termini femminili, diventa la
declinazione femminile (rosa).
Per i maschili “nauta” e “agricola” si sono adottate due soluzioni distinte: nel primo
caso si è trovato un sostituto (“marinaio”), mentre per quanto riguarda “agricola”,
c’era ormai una struttura che iniziava a cambiare, si distinguevano le città dal
contado (una contea, un feudo, aveva una città a capo, tutto il resto era “contado”,
campagna, da lì “contadino”).
Quindi “marinarius” e “contadinus” diventano come “lupus”; anche con i femminili
della seconda venne cercato un sostituto o il nome venne fatto diventare della prima
come nel caso di “socrus” che diventa “socra” e “nurus” che diventa “nura” e infine i
neutri che finivano in “um” sparirono e diventarono tutti come “lupus”.
 flessione aggettivale
 flessione verbale

17/11/2022

I tre generi del latino vennero ridotti a due: solo maschile e femminile; ci sono lingue però
come il tedesco, lo slavo e l’inglese che hanno mantenuto il genere neutro.
Il neutro della seconda declinazione non è problematico, perché finisce in “-um”, quella “-m”
non si sentiva più; il maschile finiva in “-us” e questa “-s” è stata mantenuta per una volontà
dotta.
Le due forme maschile e neutro della seconda declinazione diventano uguali, e tutti i neutri
della seconda declinazione diventano maschili.

Neutro della terza in “-al”, “-ar”, “e

“Mare” è neutro in latino, ma non finisce in “-u”, non finisce nemmeno in “-a”, finisce in “-e”:
in italiano è “il mare”, è diventato maschile, in francese è “la mer”, quindi femminile.
Si crede che questa scelta sia dovuta ad un principio psicologico: in una lingua come
l’italiano si pensa al mare come maschile, perché si pensa in contrapposizione con “il cielo”;
si crede che lo stesso sia avvenuto in francese, dove “la mer” è femminile perché sentito in
contrapposizione con “la terra”.
In castigliano, nelle testimonianze più antiche non si parla di “el mar”, ma de “la mar”:
inizialmente il castigliano aveva optato per una soluzione al femminile per le stesse ragioni
del francese, ma nel giro di un secolo i parlanti avevano optato per un maschile.
Neutri che si usano soprattutto al plurale
Il plurale dei neutri termina sempre in “-a” e questo li porterebbe ad essere usati al
femminile, soprattutto se si parla di una coppia (in latino “braccio” era “brachium” ma sono
sempre due, quindi “brachia”; “genus”, “il ginocchio”, ha una terminazione che
ricondurrebbe al maschile; ma le ginocchia sono due quindi “genua”).
Sul singolare maschile, a volte, si costruisce anche un doppio plurale: è possibile dire
“bracci”, ma non per la parte del corpo.
Inizialmente si crea questo “ibrido”, per cui abbiamo un singolare maschile e un plurale
femminile; a questo plurale femminile viene spesso affiancato un altro plurale maschile;
quindi, ci sono termini in italiano che hanno due plurali: uno maschile e uno femminile.
“Opus, operis”; è della terza declinazione, termine neutro, e il plurale fa “opera”; in questo
caso il termine che ne deriva sarà un ridurre il plurale al singolare (non si dice “*un opo”, ma
“opera”).

La quarta e la quinta declinazione vengono eliminate “deportando” i nomi superstiti nelle


altre declinazioni.
La terza declinazione sarebbe dovuta sparire, in quanto ci sono i termini parisillabi e gli
imparisillabi, che possono essere ad accento fisso o mobile; in più ci sono in neutri in “-al”, “-
ar”, “-e”, che creano dei problemi.
Dal momento che esiste “collis - collis” è facile trasformare “mons – montis” in “montis-
montis”.
Sempre per quanto riguarda gli imparisillabi ad accento fisso della terza, c’è il problema di
quelli che hanno la terminazione “-or”: “color” diventa “colore” (maschile) in italiano, è
maschile in spagnolo, ma è femminile in francese: “la couleur”; stessa cosa per “fiore”: “il
fiore”, “el flor”, “la flor”, le fleur.
Gli imparisillabi ad accento mobile della terza sarebbero i primi da eliminare, sono pochi ma
complicati; l’antico francese e l’antico provenzale non solo la conservano, ma la usano per
acquisire determinati termini germanici.

L’antico francese è la “langue d’oil” (“oitanico”), il provenzale è la “langue d’oc” (“occitano”).


L’antico francese è scomparso a favore del francese mentre per quanto riguarda la
definizione della “langue d’oc” ci sono dei problemi terminologici: in Italia si usa il termine
“provenzale” per la “langue d’oc” medievale o il termine “occitano” che ancora si parla
(pochissimo) in posti come le Alpi.

Prima declinazione
Ci sono sei casi in latino ma vennero ridotti a due, perché venne intensificato il sistema delle
proposizioni che il latino usava molto, ma per aumentare il livello di determinazione
espressiva; per le lingue romanze sono fondamentali: senza la preposizione, non avendo i
casi, non riusciremmo ad esprimerci.
Nel momento in cui si incrementa il numero delle proposizioni si può ridurre i casi a due:
soggetto e oggetto.
In francese ci sono le “cas sujet” e le “cas régime”, è complemento oggetto laddove non vi
è posta la preposizione e acquisisce varie valenze a seconda della preposizione utilizzata
(ad esempio, “la capra (soggetto) è simpatica”; “io vedo una capra”, non c’è preposizione ma
nel caso di “lo porto alla capra (complemento termine)"; “lo faccio per la capra (causa)”,
quindi in sostanza gli unici due casi che sono conservati sono il nominativo e l’accusativo).
“Capra” diventa in nominativo, in antico francese “chèvre” (la “ch” si legge ancora /tʃ/ e non /ʃ/
e la “e” finale si pronuncia), per l’accusativo vi è qualche problema, perché quella “m” non si
sentiva più.
Nominativo e accusativo, nella prima declinazione antico francese e in provenzale,
coincidono; nel frattempo venne inventato l’articolo, il quale a sua volta è declinato, e
l’articolo consentiva di distinguere il caso: singolare e plurale (“capre (caprae)”, diventa
“chèvres”, viene aggiunta la “-s” come segno del plurale).
Però in questo caso quella “-s” è già presente nell’accusativo plurale; quindi, anche in
questo caso abbiamo “chèvres” e “chèvres”: la prima declinazione in langue d’oil e in langue
d’oc vede una identità di uscita (parte finale) dei due casi singolari e plurali; sarà l’articolo a
risolvere le cose.

Seconda declinazione
La seconda declinazione, nella langue d’oc e d’oil, acquisisce tutti i sostantivi maschili della
seconda e terza declinazione parisillaba, questo perché ormai gli imparisillabi ad accento
fisso sono diventati parisillabi; è possibile pensare a un “mons - montis” come un “montis -
montis”.
Nominativo “murus”, accusativo “murum”, grazie alla sincope, si ha
murus -> murs
murum -> mur
Al singolare si ha “murs”, perché nell’antico francese si è voluta mantenere la “-s” mentre al
plurale si ha
muri -> mur
muros -> murs (questa “-s” può essere rappresentata graficamente anche con una “z”).
Nel caso di “mons - montis” che era diventato un “montis - montis” si ha
montis -> monz (sincope)
montem -> mont (sincope, la “m” non si sente)
Con la declinazione a partire dai maschili della seconda, non si fa altro che adattare il plurale
degli imparisillabi (che erano diventati parisillabi) al caso precedente; si ricalca la forma della
naturale evoluzione propria ai termini derivanti dalla seconda declinazione e quindi si ottiene
“mont” e “monz” (è una struttura a chiasmo).

Terza declinazione
Latro -> latronis è un imparisillabo ad accento mobile (l’accento si sposta sulla seconda),
da cui deriva “laire” (ladro) perché c’è un’assimilazione del gruppo di “-r” (da “larre”); l’italiano
lo acquisisce dalla forma nominativa “ladro”, usando però la forma derivata dall’accusativo
con un significato specifico, cioè “ladrone”.
C’è anche una dittongazione della “a”, quindi laire -> latronem -> lairon mentre il plurale si è
conservato nell’evoluzione linguistica.
La terza declinazione in realtà era una declinazione molto povera, hanno avuto
continuazione soprattutto i termini di uso comune, in certi ambiti i termini di uso religioso ecc.
ed è stata rimpinguata anche da termini di origine germanica, perché nel frattempo erano
arrivati i Franchi, che parlavano una lingua germanica.
In questa declinazione è stato acquisito “ber”, che significava “uomo valoroso”, che farà “ber
- beron”, in italiano è stato acquisito come “barone”, cioè dall’accusativo.
ber -> beron; gar -> garçon; fel -> felon, che era la cosa peggiore che si potesse dire ad un
uomo del medioevo: “traditore” (nelle tre bocche di Lucifero nell’inferno dantesco ci sono i
traditori).
Siamo di fronte a delle lingue instabili, quindi non è infrequente che ad esempio troviamo “-
laires” perché non c’era una grammatica che veniva fatta a partire dai testi, a nessuno è
venuto in mente di fare una grammatica, perché la lingua la parlavano.

Tradimento
Il tradimento era il peccato più grave per la religione e la colpa peggiore per la
giurisprudenza civile perché rovinava la società ma nel medioevo, ad esempio, i preti
avevano moglie, oppure in Dante, nella parte più alta dell’Inferno ci stanno Paolo e
Francesca e questo perché tutte le forme di colpa / peccato di questo tipo riguardavano
l’individuo e non rovinavano niente.
Se si fosse fatto un colpo di stato ci sarebbero andati di mezzo tutti; se qualcuno si fosse
ribellato al suo signore sarebbe stato un fel perché faceva qualcosa di grave nei confronti
della società ed infatti proprio nel medioevo si era inventata la storia di una battaglia nei cieli
dove c’era un angelo ribelle, che nella Bibbia però non c’è.
Sempre nel medioevo era frequente la comparsa del diavolo.

Il romeno è una lingua romanza rimasta isolata nel cuore del mondo slavo, che mantiene la
declinazione bicasuale (ancora oggi), è una lingua declinata ma fa di più, perché agglutina
l’articolo.
L’articolo della maggior parte delle lingue romanze è derivato da illus, illa, illud (anche se
“illud” non interessa più, perché il neutro è sparito); “illus” in realtà è un pronome /
aggettivo, che in italiano dà come esito l’articolo determinativo “il” e il pronome di terza
persona, ovvero “lui”, “lei”, “loro” (accusativo); al nominativo è “ella”, “egli”, “esso”.
Da “ille” deriva sia l’articolo che il pronome, sia “il”, “lo”, “la” (i plurali sono costruiti); sia le
forme accusative dei pronomi di terza persona: “lui”, “lei”, “loro" (il nostro articolo
determinativo e il nostro pronome nella forma dell’accusativo è ille).
Il romeno ha due declinazioni: una maschile e una femminile; in più agglutina l’articolo in
fondo, quindi capram -> caprei, perché l’articolo al nominativo singolare è una “a”,
sarebbero due “a”, mentre al plurale è caprae -> caprele, dove è ben visibile l’articolo.
Capras -> caprelor, l’accusativo di ille è quello che per noi è diventato un pronome
personale di terza persona, caso accusativo (il singolare è uguale al nostro articolo, il plurale
è uguale al nostro pronome).
dominus -> domnul
dominum -> domnului
domini -> dominii
dominos -> domnilor

Trasformazioni negli aggettivi


Il latino ha due classi aggettivali:
1. la prima classe si rifà alla prima e seconda declinazione: bonus (come lupus) – bona
(come rosa) - bonum;
2. la seconda classe si rifà alla terza declinazione: tristis – tristis (cioè parisillabo, gli
imparisillabi ad accento fisso che sono trasformati come parisillabi, che finiranno di nuovo
nella seconda; infine i pochi imparisillabi ad accento mobile - quasi mai visti - andrebbero
nella terza).
Gli aggettivi non creano problemi, perché tutti quelli della prima classe transitano nelle prime
due declinazioni, come nell’antico francese e provenzale: la prima classe si rifà alla prima e
alla seconda declinazione mentre quelli della seconda classe si possono rifare o alla
seconda, se sono parisillabi o ortopedizzati imparisillabi, oppure alla terza.
Gli aggettivi hanno tre gradi:
1. positivo: Giovanni è buono (base)
2. comparativo di maggioranza o di minoranza: Giovanni è più buono / meno buono di
Carlo
3. superlativo, che può essere di due tipi: - Giovanni è buonissimo (assoluto) - Giovanni è il
più buono di tutti (relativo).
Nel latino il comparativo e il superlativo hanno una declinazione a sé, per esempio “altus” ->
“altus – alta – altum”; per dire “più alto” c’è una declinazione apposta: “altior - altiōris - altiōri
- altiōrem” e c’è anche una declinazione per il superlativo: “altissimus - altissima -
altissimum”.
Quindi bisogna semplificare: se per dire “più alto” devo per forza dire “altior”, se io dico
“meno alto” lo risolvo con “minus altus quam” -> “meno altro che / meno alto di; si usa la
stessa cosa anche per il comparativo di uguaglianza: “tam quam”.
Il latino ha una declinazione particolare per il comparativo di maggioranza, “più alto di”; ma
non ce l’ha per il comparativo di minoranza e uguaglianza perché usa “minus quam” o “tam
quam”.
Il problema del comparativo di maggioranza è stato risolto con “plus altus”, “più alto” anche
se a volte si usa “magis”; gli italiani e i francesi hanno preferito “plus”, la penisola iberica ha
preferito “magis”, che è diventato “más”.

22/11/2022

Ci sono degli aggettivi, pochi, che non sopportano questo -ior, -ius, uno di questi aggettivi è
“equus” cioè equo; il latino ha anche la forma “equs” (con una solo “u” lunga) e quando in
una lingua si creano delle omofonie, cioè lo stesso suono con significati diversi si cerca di
trovare una soluzione.
“Equs” ha ceduto di fronte a cavallo mentre “equus” ha queste due “u” che impediscono di
fare il comparativo di maggioranza, non si può fare “equuior” perché ci sono quattro vocali di
fila; quindi, di fronte ad aggettivi come “equus” il latino aveva previsto una forma analogica:
“magis equum quam”; quindi il volgare nella sua evoluzione ha utilizzato uno schema già
presente, “magis quam”, si ha quindi “plus quam” che dà in italiano = più, in sardo = prus,
mentre invece la parte iberica dell’evoluzione delle lingue romanze (castigliano e
portoghese) opta per plus quam anziché magis quam.
Il francese, essendo la lingua più avanzata di tutte le lingue romanze, fu quella che ebbe un
processo di innovazione più avanzato, anche se cercò di rimanere vicino al latino per ragioni
di prestigio.
Nella più antica composizione in antico francese di natura letteraria, attorno all’880,
comparve già nella prima manifestazione letteraria del francese un comparativo di
maggioranza sintetico e continuerà a manifestarsi nelle opere letterarie fino al 1350
(“Bellazon” è la più antica attestazione di conservazione del comparativo di maggioranza
sintetico).

Superlativo assoluto
-altus, -alta, -altam ha la declinazione tripartita di grado positivo, ha la declinazione -altior, -
altius di grado comparativo e una terza declinazione -altissimus, -altissima- altissimum, di
grado superlativo.
Nel periodo medievale la forma sintetica venne sostituita da forme analitiche che si trovano
anche in italiano (molto alto, estremamente alto, assai alto che equivale ad altissimo); in
francese si dice très che deriva da “extra” latino, in italiano molto; in spagnolo mucho che
deriva da “multus”; in portoghese muito; in rumeno mult.
Nel medioevo è stata fatta un’estrema semplificazione della lingua, che portò alla nascita
delle innovazioni: la lingua evolveva traendo gli elementi da sé stessa, utilizzando le proprie
risorse.
Qualcosa iniziò a cambiare nell’italiano a partire dal XII secolo, probabilmente per l’influsso
della letteratura ecclesiastica o della predicazione: una delle ipotesi è che ci fu un abuso del
superlativo assoluto soprattutto nella filosofia tomistica (da Tommaso d’Aquino, la
scolastica), l’uso del superlativo assoluto era un abuso per gli attributi di Dio es. altissimo,
grandissimo, misericordiosissimo.
L’italiano recuperò la forma - issimo che però si mantenne affiancato a “molto alto”, “assai
alto”, “altissimo”; nel 1900 pian piano si diffuse anche in area iberica con “muchissimo” e da
qualche decina d’anni si sta imponendo in Francia con “cherisseme” (che però è di uso
colloquiale).
Per l’italiano ci sono alcune eccezioni, i comparativi di maggioranza e superlativi assoluti che
ripresero direttamente la forma latina come buono, migliore, ottimo; cattivo, peggiore,
pessimo; grande, maggiore, massimo; piccolo, minore, minimo (che equivale a
piccolissimo).

Il latino aveva quattro coniugazioni che si coniugavano in maniera diversa nella forma
passiva e attiva e nei vari modi e tempi.
Il latino ha i verbi deponenti (es. loquor, che verrà sostituito con parabulo, fabulo, perché
loquor ha l’aspetto passivo ma ha significato attivo) e i verbi semideponenti cioè quelli che
mezzi hanno l’aspetto passivo e mezzi hanno l’aspetto attivo.
I deponenti e i semideponenti verranno spazzati via o con delle forme alternative come
“loquor” che rimase solo in termini dotto, come locuzione, locutore oppure vennero
forzatamente ortopedizzati in una delle coniugazioni attive.
La forma passiva latina è una forma sintetica con una coniugazione a sé ma nella forma
passata ci offre un’ancora di salvezza perché “amavi” = io amai, ma “io sono stato amato” =
amatus sum; quindi, a questo punto il passivo ci offre una via di fuga: basta che amatus sum
non voglia dire sono stato amato ma solo sono amato.
Quindi piano piano le forme analitiche si sostituiscono a quelle sintetiche (il latino volgare fa
una semplificazione usando le forme analitiche).

Innovazioni del latino volgare


Il latino aveva tante cose ma non ne aveva altre; non aveva l’articolo che era la prima
innovazione nelle lingue romanze.

Particella affermativa
La particella affermativa è assente in latino (il latino per affermare diceva “certum est”).

La nostra particella affermativa deriva da sic (che vuol dire così).


il provenzale usa “hoc” ed è il neutro del pronome / aggettivo che significa “questo”
in italiano sic (così) -> diventa “sì”
in castigliano sic -> diventa “sì”
in antico francese > “hoc illum” (questo lui) -> diventa “oil” che in francese moderno diventa
“oui”
L’antico francese complica le cose e usa una forma asseverativa “questo lui”, quindi
abbiamo le forme oil/oc.
La particella affermativa divenne quindi il tratto che distingueva le lingue.
L’articolo determinativo è assente in latino, la lingua riprese forme latine preesistenti.

In italiano si partiva da “ille” (quello) che diventò il nostro articolo determinativo il, lo (la, i/gli,
le); ille diventò “il” per la caduta della vocale atona post tonica.
Mentre l’italiano è una lingua parossitona (tranne poche eccezioni di parole
proparossitone); in zona francese si è posta la forma ossitonica e cade la vocale tonica pre-
atona.
In francese ille (quello) diventò “le” (la, les), la stessa cosa accadde per il provenzale
Romeno anche se il suo articolo è agglutinato, mette l’articolo attaccato alla fine della parola
Il sardo è l’unica delle lingue romanze che sviluppò l’articolo non a partire dal pronome ille
ma dal pronome/aggettivo “ipse” che vuol dire (stesso) e diventa su (sa, sos , sas).
Anche l’articolo indeterminativo è assente in latino: in lingua latina unus, una, unum era un
numerale cardinale, voleva dire uno e questo numerale è all’origine dell’articolo
indeterminativo di tutte le lingue romanze.
Neoformazione del futuro e creazione del condizionale

1. Il futuro
Il latino ha il futuro però era un tempo che creava dei problemi, negli altri tempi abbiamo
omogeneità: il futuro ha come terminazione nella I -II declinazione -abo e -ebo -> amabo
(amerò), nella III e IV -iam, -am -> audiam (ascolterò).
Vediamo già che non c’ uniformità: se io dico “audiam” non so se sia “ascolterò” o “che io
ascolti”, le altre persone poi cambiano quindi una è audiam, audies, audiet e l’altra invece è
audiam, audias, audiat.
Già in epoca latina probabilmente veniva utilizzato invece che il futuro una forma
perifrastica.
Se dobbiamo dire “andrà al cinema” diciamo “domani vado al cinema” oppure “ho da andare
al cinema: canterò = cantare habeo / habeo cantare (metterlo prima o dopo non cambia);
nonostante entrambe le forme latine siano corrette pare che prevalesse la forma “cantare
habeo” perché da questa forma avremo “cantarabeo” (sincope), “cantarao” -> “canterò”,
sono le stesse forme per italiano francese, spagnolo, portoghese e provenzale chiaramente
il portoghese dice “chiantarai” e il francese moderne “chanterai”.
Si svilupparono così i nuovi futuri romanzi: habeo cantare, volo cantare, debeo cantare.
Bisogna però considerare che il latino non aveva una cosa importante: non aveva il
condizionale: si formava con il periodo ipotetico che era fatto di tre tipi, realtà, irrealtà e
impossibilità che a sua volta cambiava se dipendeva da un tempo indicativo, congiuntivo o
se dipendeva da un tempo non coniugabile (gerundio, infinito ecc.
L’ipotesi in fondo è un futuro nel passato: “se ti avessi visto prima” [..] “ti avrei detto (dopo)”:
c’è qualcosa del passato che si riflette nel futuro quindi il condizionale delle lingue romanze
si forma sempre con l’infinito ma con un passato del verbo avere quindi come ho “cantare
habeo”, posso fare il passato e quindi sarà “cantare habui” o “cantare habebam” e tutte e
due le strade sono state percorse in quanto “cantare habebat” porta il francese “chanterait” e
lo spagnolo e il portoghese “cantaria” mentre “cantare habui” è la via percorsa dall’italiano
che dice “canterei”.
Il 1500 è una specie di muro incredibile, dove il Concilio di Trento trasformò la religione
cristiana, e in Italia le prose della Volgar lingua di Bembo normalizzarono l’italiano; Bembo
fece anche la prima grammatica dell’italiano.
Finché non si stabilì “canterei” come forma corretta in quanto maggioritaria convivevano le
due forme anche in italiano: canterei e cantaria con una netta prevalenza della seconda
(cantaria) specialmente nel nord Italia ed è ancora la forma usata nei dialetti di tutta l’area
veneta e in parte lombarda.

Glosse e glossari
Glossa significava “parola”, in linguistica le isoglosse erano quelle linee che univano i punti
di un atlante geografico dove una parola si diceva nello stesso modo.
Se leggiamo un testo in un’altra lingua e non capiamo una parola, la cerchiamo sul
dizionario, talvolta sul dizionario in linea (“lexilogos” è la più grande risorsa in linea di tutti i
dizionari di tutte le lingue del mondo compreso l’hawaiano, per quanto riguarda il francese si
entra direttamente nel “tresor de la langue française”).
Le glosse possono essere:

 interlineari se vengono scritte sopra


 marginali se vengono scritte accanto quindi sul bordo
A volte non veniva scritta solo la parola ma anche una spiegazione e anche quelle erano
glosse: a volte capita magari di ricopiare vicino o sopra la parola che prima non si
conosceva e, per paura di dimenticare il significato, questo veniva trascritto nuovamente.
I libri glossati erano i libri in latino perché con tutto il cambiamento visto, ormai il latino non
era conosciuto più sempre e perfettamente quindi in genere, vicino, sopra, affianco della
parola veniva messa la traduzione: qui accade una scissione tra il mondo romanzo e il
mondo germanico.
Il mondo germanico è pieno di glossari, parole latine con la traduzione in alto o medio
tedesco mentre, la gran parte dei nostri glossari sono glossari che glossano dal latino al
latino volgare cioè è difficile trovare una parola latina glossata in antico francese, antico
provenzale ecc… perché Carlo Magno, imponendo di nuovo l’uso del latino di Cicerone
aveva fatto sì che ormai tutti il latino lo sapessero benissimo e non avessero più bisogno di
tradurlo in un latino più facile.

Il manoscritto era scritto a mano con dei calami cioè con la parte non piumosa della piuma,
la cartilagine della piuma che fino almeno a 15 anni fa in Francia veniva usata come
cannuccia e stuzzica denti, questa veniva temperata con un coltellino.
Venivano usati degli inchiostri a base vegetale come l’inchiostro di china che costava un
po' di più ma durava di più; purtroppo, a partire dalla metà del ‘200 vennero imposti gli
inchiostri a base metallica, nello stesso periodo venne imposto l’uso della carta che costava
meno ma durava anche di meno.
L’inchiostro a base metallica sulla carta che è idroscopica (attira l’acqua a differenza della
carta pecora e la pelle) ossida e a volte si trovavano lettere sparse a causa dell’umidità
mentre i manoscritti medievali fatti su carta pecora e con inchiostro vegetale rimanevano
esattamente come erano stati fatti.
Nel 1904 è bruciata la biblioteca reale di Torino, ma sono rimasti ancora dei codici medievali
perché il fuoco si è mangiato solo la parte esterna, l’interno no perché la carta pecora era
fatta di pelle di pecora, ed era molto costosa perché quella più pregiata.
La pecora veniva uccisa e veniva mangiata, venivano tolti i peli, raschiati via, poi veniva
semi conciata e ben raschiata ciononostante in tutti i manoscritti medievali si distingueva la
parte pelo, cioè la parte che era all’esterno, più scura; la grande maestria dei creatori dei libri
medievali era quella di affiancare le due parti carne con le due parti pelo.
Le opere erano tutte su commissione quelle scritte dagli amanuensi ovvero si chiedeva ad
uno scriptorium di una biblioteca monastica, a volte vescovile ma soprattutto monastica di
avere una copia di un manoscritto.
Piu tardi, intorno alla metà del 1200, si trovavano anche degli atelier laici, uno degli atelier
più famosi di Parigi era di proprietà anche di una donna che aveva avuto il permesso
ufficiale di “scriptorium illuminates” quindi aveva ottenuto il permesso dal re e in due delle
sue miniature venivano raffigurati lei e il marito all’opera.
Se si fosse voluta una copia specifica, si sarebbe andato dai coniugi Montbaston e gli si
chiedeva una copia, del libro; a quel punto, specie per opere di questo tenore, ci si
accordava anche sul numero delle miniature e in molte volte anche sul contenuto / oggetto
delle miniature questo perché la miniatura (colori) era una delle cose più care che si potesse
immaginare all’epoca.
Una volta ottenuto il libro desiderato da copiare, bisognava iniziare a copiarlo, ma la copia
avveniva prima della rilegatura del libro in quanto, grazie anche a Jeanne de Montbaston,
si lavorava sui bi-fogli, ovvero il rettangolo che veniva fuori dalla pecora che veniva piegato
in due.
Era raro che ci fossero solo due fogli, più spesso se ne mettevano 4 l’uno dentro l’altro e il
fascicolo si chiamava quaterno quindi la forma più normale del fascicolo era il quaterno o
quaternione, erano 4 bi-fogli, quindi 8 fogli, quindi 16 pagine.
Si scriveva prima che il quaderno fosse cucito, quindi prima si scriveva la pagina 1, affianco
la pagina 16, poi la pagina 2 e accanto la pagina 15 (questo era il piano A) mentre il piano B
era quello un po' più economico nel senso di guadagno cioè se un manoscritto veniva
chiesto più volte da più persone, si prendeva il manoscritto, lo si squadernava, cioè lo si
divideva in base ai copisti a disposizione, venivano distribuiti i quaderni ai copisti, e in
batteria questi copiavano con il tempo di un solo copista tante copie quanti erano i copisti, se
lo scambiavano e ottimizzavano il lavoro.
Noi non abbiamo una vera e propria edizione critica della divina commedia perché ci sono
troppi manoscritti: questo atelier fiorentino aveva tirato fuori in pochissimo tempo 100 divine
commedie tutte uguali, cioè fatte dallo stesso manoscritto in batteria.
Quindi, ritornando alle copie richieste dalla badessa per l’opera di Sant’Agostino, l’abate
possessore delle confessioni faceva squadernare il codice ad un copista e si sono messi
tutti a ricopiare (la copia produce errori).
Le nuove copie erano tutte cucite, prima cucito il quaderno a mezzo poi cuciti tra loro i
quaderni, poi messa una nuova copertina che all’epoca si chiamava coperta (succedeva
molto spesso che le opere venivano montate male).
In genere erano in legno sia la copertina che il dorso, tenuti da fogli che in genere erano belli
potenti e poi a seconda della ricchezza del committente erano rifasciati o di cuoio magari
colorato (magari bordeaux), erano rinforzati con metallo e se la madre badessa era di un
ricchissimo convento o figlia di un duca, inseriva la pietra preziosa.
Nel medioevo la pietra preziosa era fondamentale, era in uso la pietra tutta liscia; nel
medioevo per conservare la copertina si riponevano orizzontalmente con il taglio (le pagine)
a vista (la verticalizzazione del libro avviene nel 1700).

24/11/2022

Glossario di Reichenau
È un manoscritto che risale alla fine dell’VIII secolo (inizi del nono), un periodo storico
estremamente importante perché alla fine dell’800 Carlo Magno venne incoronato
imperatore del Sacro Romano Impero.
Questo glossario è conservato a Kaarlsruhe (Germania) e si chiama così perché proviene,
originariamente, dal monastero di Retchenau (i manoscritti viaggiano di posto in posto per
diverse motivazioni come guerre o ratti anche se con l’arrivo di Napoleone i manoscritti
erano stati tolti dai conventi).
Questo glossario non è stato però compilato a Retchenau ma nel monastero di Corbie in
Francia, da uno dei copisti del luogo.
Il copista o l’amanuense operava in questo modo: leggeva una parte del testo da copiare, la
imparava a memoria e la ripeteva ad alta voce mentre la trascriveva; questo è importante
per capire che quando il copista leggeva e ripeteva ad alta voce, a quello che leggeva,
imponeva la sua impronta linguistica (se il copista legge la “o” come “u” allora verrà trascritta
diversa).
I manoscritti esemplati in Piccardia sono i più riconoscibili perché il Piccardo era una lingua
poco elegante ed aspra e di conseguenza molto distinguibile.
Questo è un glossario che può essere definito come un dizionario monolingua: il testo
glossato era in latino classico e le glosse in latino volgare (dizionario latino-latino, dal
classico al volgare); il testo glossato è la Bibbia.
Per la stesura di questo glossario, il glossatore ha fatto rifermento alla struttura della Bibbia
(partendo proprio da un punto di vista organizzativo): ha iniziato a trascrivere tutti i termini
più difficili partendo dalla genesi e poi ogni volta che il glossatore trovava una parola che
riteneva difficile la glossava.
Nella seconda parte riprende tutte le glosse mettendole in ordine alfabetico, creando così il
primo dizionario; questo è stato fatto per due motivazioni: la prima ha a che vedere con il
fatto che trattandosi della Bibbia, il pubblico sarebbe stato composto da sacerdoti e novizi
che trovandosi davanti al testo avevano bisogno di interpretarlo e capirlo; la seconda
motivazione deriva dal fatto che chi leggeva la Bibbia spesso prendeva spunto da questa al
fine di fare un sermone.
La Bibbia è stata scomposta e ricomposta male e di conseguenza non segue un ordine
corretto (secondo libro dei Macabei) .
Si sa che questo manoscritto è stato esemplato a Corbei per via del fatto che spesso si
trovavano delle tracce dei testi posseduti all’interno dei monasteri; l’autore invece si sa
essere francese per via di alcune glosse.
Queste glosse sono: “dare” (verbo latino) che è stato glossato “donare”; se l’autore era di
origine ibero-romanze non avrebbe glossato il termine “dare” e solo i francesi usavano
“donè” (scrivi bene), stessa cosa vale per “arena” che glossa come “sabula” e che riconduce
a “sable”, parola francese.
La terza parola è “uva” che viene glossata come “racemos” da “raisins” in francese.
L’ultima parola è “vespertiliones” ovvero “pipistrello” che glossa come “calva sorices” dal
francese “chauve-souris” che a sua volta viene da “kawas” volante notturno e quindi dal
francese “chouette” (civetta).
Per quanto riguarda la civetta, fino al 1700 non si aveva una precisa definizione delle specie
che erano simili tra di loro per via del fatto che forse non gli interessava; infatti, nei testi
l’animale notturno è forse la civetta, ma poteva anche essere un pipistrello.

Glosse di Kassei
È un manoscritto risalente alla fine dell’ottavo secolo, conservato a Kassel e che proviene da
un monastero, quello di “Fulda”, a sua volta esemplato in un monastero bavarese.
Si è supposto che delle truppe germaniche si fossero insediate in un monastero e il loro
condottiero fosse stato ospitato nel convento: durante le notti spese in convento, si pensa
che si sia dedicato ad un questionario linguistico antropologico (domande fra un bavarese,
ovvero il condottiero, e un signore del convento che parlava latino antico).
Questo glossario è bilingue (latino volgare-bavarese) ed è stato realizzato come un vero e
proprio questionario, all’interno del quale i due, si pongono delle domande su come fossero
chiamate le diverse parti del corpo, gli animali, la casa e gli oggetti da cui è formata, i vestiti
e gli utensili.
In fondo a questo mini-glossario c’è un frasario, sia in tedesco che in latino, con scritto
“stulti sunt romani sapienti sunt paloari modica est sapientia in romana plus habent
stultitia quam sapientia”. Traduzione: erano stolti chi parlava una lingua romanza, sapienti
coloro che parlano la lingua bavarese, c’è meno intelligenza nei romani, sono più stupidi che
intelligenti”.
Etonimo: nome dato ad una popolazione (Italia -> italiani); i germani chiamarono gli abitanti
della Romània “valacchi”.

Glosse Silensi ed Emilianensi (XI secolo)


“Solo” è il primo caso di glosse latino volgare in Castigliano: i due glossari furono chiamati
Silensi ed Emilianensi perché i primi provenivano dal monastero di Santo Dominio de
Silos, mentre i secondi provenivano dal monastero di San Millan de la Cogolla (nell’area del
cammino di Santiago).
Proprio in questo periodo vi era stata la riforma Carolingia, ovvero, Carlo Magno era
diventato imperatore, si era sposato con una moglie franca e aveva preso accordi con il
papa per difenderlo dai longobardi, in cambio avrebbe ottenuto l’incoronazione.
Carlo magno fece diverse crociate: una verso la Spagna, due volte in Italia per eliminare i
longobardi ed infine una contro i sassoni ad est; egli non parlava l’antico francese, gli
piaceva ascoltare i canti germanici del suo popolo, ovvero, i canti epici trasmessi oralmente;
non leggeva perché essendo un capo militare non aveva imparato a leggere ma aveva
invece appreso l’arte della lotta.
Aveva capito molto bene come funzionava l’Impero Romano: questo era funzionale perché
era centralizzato e aveva un sistema viario (fatto da vie) con strade che portavano
dovunque; esse erano vie di comunicazioni rapide.
Tutto questo era anche accompagnato dal fatto che Roma poteva sostenere il peso
economico delle strade perché era ricca; Carlo Magno però decise di rendere ancora più
funzionale il sistema viario pensando di fare delle stazioni di posta (posta=sosta,
significato): se mandava un messaggio ai confini dell’impero il problema non era di chi lo
portava, ma il mezzo, ovvero il cavallo, che aveva bisogno di riposare, per tale motivo furono
instituite queste stazioni di posta dove si cambiavano i cavalli.
Gli inviati del signore erano chiamati “missi dominici” (al singolare misso dominicus).
Nel regno, dunque, rimaneva solo il problema della lingua, ma Carlo sapeva già che la
lingua parlata doveva essere il latino classico, questo perché il latino si stava differenziando
sempre di più; decise di iniziare a far studiare il latino classico a tutto l’impero così per come
era sempre stato (questo prese il nome di “riforma del latino”).
Mancava solo la scrittura che doveva essere rivista, questo perché prima di Carlo Magno
c’era la scrittura “merovingica”: decise così di instaurare una scrittura leggibile presa dalla
semi unciale greca detta “minuscola carolina o palatina”; per fare questo dovette istituire
una scuola detta anch’essa palatina.
Carlo chiamò dotti da tutte le parti del mondo e pose la scuola sotto la guida di “alquino di
York”; mandò a chiamare “Paolo diacono” amico intimo e confessore della sua prima
moglie per chiedergli di insegnare nulla scuola che era anche aperta alle donne, ma solo ed
esclusivamente nobili.
Tutto ciò spiega perché non esistono le glosse latino volgare-italiano e inoltre con la riforma
carolingia tutti gli uomini colti erano tornati a conoscere il latino nella forma classica e
potevano leggere tranquillamente la Bibbia senza aver bisogno di un glossario.
Carlo però non aveva potere oltre i Pirenei e quindi la sua riforma si fermò prima del sud
della Spagna; di conseguenza dopo i Pirenei nessuno sapeva il latino classico e quindi
avevano bisogno dei glossatori così da poter leggere la Bibbia.
Gli uomini non dovevano saper scrivere o leggere a meno che non fossero persone
appartenenti alla religione, le donne invece un po’ di più soprattutto quelle di alto rango (es.
le monache).
29/11/2022

La riforma carolingia
Il latino veniva studiato prevalentemente dai chierici di cui esistevano 2 forme:

 clero regolare -> rappresentato dai frati e dalle suore


 clero secolare -> a cui appartenevano solo maschi, il “secolum” che in latino voleva
dire “mondo”, quindi il “clero mondano” ovvero i sacerdoti ed i preti (il famoso
Thomas Becket, assassinato non a caso, abitualmente vestiva elmo e corazza e
andava ad assaltare le roccaforti con Enrico II Plantageneto); spesso avevano
moglie, la “petresse” e molti di essi non esercitavano la funzione sacerdotale ma si
trovavano al seguito di signori per i quali svolgevano mansioni culturali e quindi
svolgevano una funzione più culturale (redigevano e leggevano cronache, scrivevano
testi utili al signore, ecc...).
Il potere diminuì quindi la sua pressione sulla lingua parlata perché questa lingua, che prima
era usata da chierici, dal clero regolare e secolare, venne messa a lato dall’interesse del
potere; ora si sviluppava con maggior rapidità (il latino volgare ancora controllato dai centri
di potere, politici e religiosi, venne abbandonato a sé stesso, e si trasformò nelle lingue
romanze).
La scola palatina aveva un pregio diretto, quello di restaurare il latino classico, e uno
indiretto, lasciare la lingua della gente non colta a sé stessa, senza più controllarla, che
iniziò ad allontanarsi lentamente dal latino (già attiva nel decennio precedente).
Nell'813 in area imperiale carolingia venne attuato un concilio, il “Concilio di Tours”,
durante il quale venne citato il XVII canone: “easdem omilias quisque aperte transferre
studeat in rusticam romanam linguam aut thiodiscam, quo facilius cuncti possint
intelligere quae dicuntur”
Traduzione: ciascuno abbia cura di tradurre tali omelie in lingua romanza o tedesca in modo
che tutti possano più facilmente comprendere quanto si dice.
La messa veniva predicata in latino fino al 1963 fino a quando non venne attuato il Concilio
Vaticano II (era vietato tradurre qualsiasi cosa in volgare): durante la messa, attutata con
struttura regolare, cambiavano solo le letture a seconda dei giorni, una dall’Antico
Testamento e una dal Nuovo Testamento; c’era poi una parte riguardava il Sermone o
Omelia dove il sacerdote prendeva la parola per “insegnare” (si rivolgeva ai fedeli in maniera
non liturgica, senza usare parole fisse); ad esempio diceva in uno di questi che non era
lecito avere rapporti sessuali con la parentela spirituale come nel caso del cognato e della
cognata, o del padrino e della madrina (e nemmeno con la parentela sanguina).
Se questo fosse successo ai tempi di Carlo Magno, nessuno avrebbe potuto capirlo, perché
veniva predicato in latino, per questo si era giunti a utilizzare il volgare per far comprendere
al meglio questi concetti nel Sermone (era l’unica maniera per fare in modo che i fedeli lo
capissero -> la Chiesa si era conto del problema che si era creato).
* rusticam romanam linguam -> lingua derivata dal latino parlata dai rustici, ovvero
dalle persone semplici
Da questa disposizione, il 14 febbraio 842, vennero messi in atto i Giuramenti di
Strasburgo, che segnarono la data di nascita dell’Europa.
Carlo Magno, nel frattempo, era morto e aveva avuto un unico figlio maschio che aveva
raggiunto la maggior età, Ludovico il Pio (“Luigi” dalla forma germanica, così chiamato
perché molto bigotto e durante tutta la sua vita parlò solo il dialetto germanico) mentre per le
sue tre figlie femmine aveva fatto in modo che non si sposassero anche se una di loro,
Berta, (nome che derivava dalla divinità della notte, la più femminile che c’era, “Berchta”) si
innamorò di uno dei suoi insegnanti, Angilberto, con il quale ebbe un bambino illegittimo,
Nitardo.
Lo stato germanico era di proprietà privata del sovrano, ovvero Carlo Magno (Nitardo, in
quanto illegittimo, non avrebbe mai potuto competere, anche se era considerato parte della
famiglia ed era dotato di grande istruzione), il quale, lasciò in vita 3 figli (dalla prima moglie
ebbe il primogenito Lotario ed il secondogenito, che venne soprannominato Ludovico “Il
Germanico”; dalla seconda moglie ebbe un terzo figlio, Carlo, che venne soprannominato
“Il Calvo”).
Al primogenito spettava il titolo imperiale ma il territorio doveva essere diviso equamente tra
i tre fratelli (dato che la prima moglie era morta, la seconda moglie, con le arti della
seduzione femminile, fece in modo che in questa divisione, suo figlio avesse la parte di
territorio migliore e che Lotario avesse la parte peggiore perché era quello più pericoloso).
Al più piccolo venne data in eredità futura la Francia (Carlo il Calvo) perché culturalmente
ed economicamente più avanzata, climaticamente molto omogenea e soprattutto più ricca;
al secondogenito venne assegnata la parte germanica del regno (Ludovico) che dal punto
di vista economico e climatico non era al massimo splendore ma era omogenea anch’essa
per lingua; a Lotario venne dato il titolo e quindi anche Roma (in quel periodo era stata
devastata da una pestilenza e anche dalle invasioni barbariche) e gli venne anche
assegnato un piccolo stato che attraversava l’Europa e che fungeva da “cuscinetto” tra i due
regni degli altri due fratelli (dall’Italia centrale attraversava l’Europa per arrivare fino al Mare
del Nord) e che venne chiamato LOTARINGIA (lascia in eredità un toponimo, la LORENA,
che rimarrà sempre conteso da lingue e culture diverse).
Alla morte di Ludovico Il Pio, Lotario si ribellò contro i suoi fratelli che, per avere più forza, si
unirono con un patto, i “Giuramenti di Strasburgo”, firmati contro il fratello Lotario; vennero
stipulati proprio a Strasburgo: Carlo il Calvo, giurò in lingua germanica perché potessero
comprenderlo i soldati del fratello mentre Ludovico il Germanico giurò in lingua francese
perché potessero capirlo i soldati del fratello (è la più antica testimonianza del francese, il
primo documento scritto e conservato dai francesi, scritto da Nitardo, che era cresciuto
insieme a Carlo ed infatti la sua parte sembra essere un po’ più permissiva rispetto a quella
del fratello Ludovico).
I Giuramenti non lasciavano individuare una lingua particolare: a differenza di altri testi, è
una lingua che può essere definita una lingua di “koinè” (=lingua falsa perché dovevano
capirla tutti), non conduceva a nessuna lingua di nessuna regione francese; la struttura
sintattica era molto prossima al latino (a lungo è stato supposto che Nitardo l’abbia scritta in
latino e tradotta in volgare; più recentemente si è pervenuti ad un’altra teoria, ovvero
Nitardo, potrebbe averla scritta direttamente in francese ma essendo lui un uomo colto,
possedeva come substrato la struttura del latino).
Questi Giuramenti sono quelli pronunciati a Strasburgo e gli studiosi ne sono certi perché
l’anno successivo Nitardo morirà in battaglia, nell’844, ucciso in uno scontro con i seguaci di
Lotario (il testo non potrà più essere rimaneggiato da lui in seguito).
Finalmente nacque il francese anche si trattava di un testo documentale (in Francia viene
considerato come 1°monumento della lingua francese).
Attorno però all’880-882, venne composta la “Cantilena di Sant’Eulalia”: sono 29 versi
anisosillabici (non hanno tutti lo stesso metro ovvero lo stesso numero di sillabe, e non sono
legati né da rime né da assonanze; potrebbe essere stato composto a solo scopo liturgico
da poter essere cantato e danzato dalle donne nel giorno di memoria della Santa); l’opera
risale alla regione della Piccardia e venne trasmessa da un manoscritto contenente il
Ludwigslied (ovvero il canto di Ludovico, vincitore della battaglia di Saucourt); nel
manoscritto si parlava di lui ancora da vivo; morirà nell’882.

Prime attestazioni letterarie


A questo punto iniziò la letteratura francese:
X secolo
 Passion du Christ (versione rimata della passione di Cristo secondo il Vangelo)
 Vie de Saint Leger (volgarizzamento della vita di San Leodegario)
XI secolo
 Boecis (testimonianza di Severino Boezio, considerato di alto interesse)
 Canzone di Santa Fede
Metà del XI secolo
 Saint Alexis (125 strofe di 5 versi assonanzati), l’epica francese prese come modello
questo capolavoro (Sant’Alessio era figlio di un nobile patrizio romano che si sposò
con una nobile patrizia romana, ma lui aveva votato la sua castità a Dio; durante la
prima notte di nozze fece una confessione alla moglie, in seguito alla quale se ne
andò per 7 anni vivendo di stenti in Oriente, dopo di ché ritornò e visse per altri 7
anni nel sottoscala della casa paterna nella sporcizia buttata dalla sua stessa
famiglia dove era anche rimasta la giovane sposa finché una volta non si avvicinò il
cane di famiglia e lo riconobbe; i genitori e la sposa lo riconobbero e proprio in quel
momento morì e venne fatto santo).

L'epica
Le letterature romanze vengono studiate per generi, il più antico è l’EPICA: partendo dal
romanticismo europeo, fra i suoi miti, presentava il mito della storia, del popolo e del
MEDIOEVO dove si cercava di “storicizzare”, cioè di vedere in determinati elementi letterari
quali rapporti avessero con la realtà (si iniziò a cercare l’origine dei generi letterari e la loro
contestualizzazione storica).
Tutto partì da un ricco amante della letteratura greca, Schliemann, il quale, pensava che
l’Iliade, fosse basato su fatti storici reali e visto che era molto ricco, si recò nell’attuale
Turchia a cercare Troia, convinto di trovarla attraverso gli elementi presenti nel testo di
Omero (dove morirà di febbri per le terribili condizioni del luogo); riuscì a trovarla (oggi si
chiama “Truva”) vicino ai Dardanelli (la porta dell’Oriente).
A questo punto si iniziò a pensare che l’epica possedesse basi storiche e che Omero non
fosse altro che un nome fittizio, perché in realtà si credeva che le opere le avessero scritte il
popolo; è anche vero che non le inventò Omero (che probabilmente era un aedo, un
cantore) perché decise di mettere per iscritto quei canti che recitava oralmente quindi non
erano altro che la trasposizione scritta di un qualcosa che viveva nell’oralità; la conferma di
ciò giunse negli anni ‘50 del ‘900 quando due studiosi americani, Parry e Lord, iniziarono
uno studio sui canti epici serbi e visitarono i luoghi per sentire l’epica serba (l’unica ad
essere giunta intatta fino ai giorni nostri).
I cantori si muovevano di villaggio in villaggio e avevano un repertorio di 50/100 canti che
cantavano per guadagno (“artisti di strada”), possedevano un repertorio così ampio per non
ripetere in ogni villaggio gli stessi canti e rinnovarli.
Memorizzavano le trame di questi poemi e poi avevano una grandissima abilità tecnica nella
struttura metrica e per trovare rime/assonanze usavano delle formule fisse (non a caso, nei
poemi epici i condottieri possedevano sempre una “barba fiorita” o una “fiorita barba”); il
bravo cantore se vedeva che l’uditorio apprezzava allungava la storia mentre se vedeva che
era un po’ stufo, applicava dei tagli; se era estate, facevano più brevi i racconti per passare
al villaggio successivo; se era inverno il poema si allungava di più per muoversi di meno al
freddo.
Grazie a Schliemann, queste sono le caratteristiche dell’epica:

 presenta sempre un fondamento nella storia -> autentica o “apocrifa”


 si rivolge ad un pubblico socialmente e culturalmente indifferenziato -> l’epica si
rivolge ai contadini, al ricco, al cavaliere, al sovrano, al sacerdote perché è orale e
cantata, nessuno deve leggerla e tutti possono stare a sentirla; anche se deve
essere in genere omogeneo per etnia e religione perché l’epica ha funzione politica
 prevede sempre una fruizione collettiva -> il giullare canta un poema epico nei
mercati, nelle piazze, lungo il cammino di Santiago, nelle corti e raduna TUTTI (dove
ci sia tanta gente che possa ricompensarlo)
 propone un’ottica manichea -> ci sono sia i buoni (noi) sia i cattivi (gli altri);
Turpino, arcivescovo combattente, quando l’esercito sta per affrontare uno scontro
letale contro il nemico, dà la soluzione a tutti, ovvero presenta il Paradiso, e dice loro
che stanno combattendo perché sono dalla parte della ragione (perché erano
cristiani) mentre gli altri sono dalla parte del torto (perché, ad esempio, i musulmani
erano visti come pagani)
 la sua finalità è rafforzare il senso di coesione della comunità -> nel Medioevo gli
altri non sono mai brutti e cattivi (a parte gli ebrei); il cattivo deve essere bello, forte e
valoroso perché altrimenti non si trovava piacere nello sconfiggerlo)
 venne individuato un nemico comune -> concreto, effettivo oppure astratto
 si viene stimolati a identificarsi con un “eroe”
 lo sguardo è sempre rivolto alla contemporaneità -> la Chanson de Roland racconta
una vicenda del 778, Carlo era un giovane condottiero che in realtà non presentava
una barba fiorita; verrà riutilizzata tra il 1080 ed il 1099 con lo scoppio della prima
crociata (si voleva stimolare le persone ad identificarsi in Roland e partire
felicemente per la prima crociata; venne anche promesso tanto oro).

L'epica medievale si identifica come “Chanson de geste” (ne sono giunte circa 70), la
Provenza ne ha lasciate pochissime tranne una, quella della crociata contro gli Albigesi e
questo stupì un po’ tutti perché era proprio lì dove si parlava la langue d’oc.
Si chiama Chanson perché veniva cantata anche se non si aveva alcuna traccia musicale,
ma probabilmente il giullare “modulava” (ci fu il tentativo di uno studioso catalano, Antoni
Rossell Mayo, che provò a ricostruire la melodia del Cantar de mio Cid attraverso una
ritmica interna) e geste perché veniva dal latino “res gestas” ovvero le cose compiute, fatte
ed indicava anche la famiglia che l’aveva compiuta perché un lignaggio nobile si identificava
sempre con le vicende compiute.
È composta da lasse di décasyllabes assonanzati:
 Lassa -> struttura minima della chanson, si componeva di un numero variabile di
versi (15/20 o 25, in quelle tardive si arrivava anche a 70) che sviluppavano
compiutamente un momento narrativo
 Décasyllabe -> presentava 10 (maschili) o 11 sillabe (femminili), essendo il francese
una lingua ossitonica, poteva anche esserci una finale muta (la e)
 Assonanza -> la rima era “pane-cane” cioè c’era identità dell’ultime due vocali e del
gruppo sillabico interposto (“cagne-lagne”) ed era più difficile da farsi mentre
l’assonanza prevedeva solo l’identità delle ultime due vocali (“cane-fave”) ma non
della consonante o gruppo consonantico interposto.
Caratteristica era la cesura epica dopo la quarta sillaba (con la quinta sillaba
soprannumeraria o femminile).
Lo stile delle lasse similari: proponevano lo stesso contenuto con variazioni minime (per
descrivere ad esempio le caratteristiche della spada di Roland, Durlindana, che si
estendevano troppo a lungo).

01/12/2022

I cicli epici
Il paradosso di Fauriel
Era un amico di Manzoni, provenzalista: sosteneva che era impossibile che non esistesse
una trasmissione epica consistente e di valore in area provenzale contando che gran parte
delle gesta avevano come ambito territoriale quella zona lì.
Non esisteva un’autentica fioritura epica in Provenza e lui si lanciò in una eroica quanto
sfortunata crociata per sostenere che tutte le ‘chansons de geste’ che conosciamo fossero
state scritte in provenzale anche se bastava leggerle per capire che non è così (sosteneva
fortemente che la Provenza sia stata area geografica e teatro di gran parte delle vicende
epiche).
Lui si era posto il problema perché voleva convincere i giovani cavalieri ad imbarcarsi per la
fantastica prima crociata; quindi, le ragioni era quasi completamente di tipo economico; si
pensa però che ci fosse anche un interesse di espansione a sud (al nord interessava molto il
sud).
Nell’opera di Jean Frappier “I figli hanno generato i padri” viene illustrata l’organizzazione
ciclica delle chansons de geste: si parla della famiglia dell’eroe (vi sono due tipi di eroe,
quelli che muoiono e quelli che campano -> l’unico che non muore è Guglielmo D’Orange
che è perfetto per morire; il ciclo di 5 canzoni non termina con la sua morte, aveva moglie e
quando morì decise di chiudersi in un monastero).
Se fosse morto un eroe non si sarebbe potuto continuare a scrivere e quindi si faceva un
“prequel”, quindi si tornava indietro nel tempo e si raccontavano le infanzie dell’eroe.
Ad esempio si spiegava come l’autore fosse entrato in possesso del suo cavallo o della sua
spada e, quindi, come aveva fatto ad avere i suoi attributi epici (spada, cavallo, soprannome,
aiutante,…), si tornava sempre più indietro e alla fine si parlava dell’infanzia dell’autore e
quando terminava, si va a parlare dei genitori e dell’infanzia dei genitori e così via.
Quindi i figli nascevano prima dei padri nell’epica e poi i padri perché si andava a ritroso nel
tempo; quindi, i figli avevano generato i padri; questo avveniva quando il protagonista moriva
perché se fosse morto, la storia non sarebbe potuta andare avanti per parlare delle sue
gesta.

Bertran de Bar-sur-Aube (Bertran era il nome e il resto il luogo di nascita -> Bar è un fiume
in Francia e Aube è il luogo di nascita) scrisse una chansons de geste molto tarda, “Girat de
Vienne”.

La prima raccontava la gesta del re di Francia, la seconda la gesta di Garin de Monglenne e


la terza la gesta dei Maganzesi (i traditori).
Può essere letta anche in termini sociopolitici:
 la prima prevedeva un sovrano buono e giusto e un vassallo fedele (questo è il
momento più alto del feudalesimo);
 le gesta de Garin prevedeva già il sistema feudale con delle incrinature -> il re non
era più buono o giusto perché non teneva conto dei propri vassalli ma, nonostante
ciò, il vassallo continuava ad essergli fedele ma per non ribellarsi cercava la sua
funzione altrove, allontanandosi dal centro politivi della corte;
 il terzo rappresentava la debolezza di questo rapporto fra sovrano e vassallo -> il
re era ingiusto e quindi il vassallo si ribellava: si parla delle gesta dei vassalli
rinnegati (si ribellano a Dio rinunciando al cristianesimo) e ribelli (perché si ribellano
al loro signore).

Nel 1202 circa, venne trovata un’altra definizione della materia epica: Jean Bodel era un
grande scrittore e in particolare scrisse la “Chansons De Saisnes” (non la scrisse per
intero, solo la prima parte era sua, ovvero la canzone dei sassoni); l’argomento è molto tosto
in quanto i sassoni erano stati sterminati da Carlo Magno.

Egli sosteneva che le gesta degne di essere cantate erano quelle che riguardavano la
Francia e i re di Francia, questo perché i racconti di Bretagna erano vani e divertenti
(materia Floriana), quelli di Roma saggi e istruttivi (materia classica) ma solo quelli di
Francia degni.

Il pensiero di Bodel si contrapponeva dunque a quello di Bertran de Bar-sur-Aube (si diceva


“bassorob”) e le loro due definizioni erano le uniche che si avevano in epoca medievale.
Bertran de Bar-sur-Aube era molto convinto del suo pensiero sui maganzesi e di
conseguenza voleva far arrivare a tutti che fossero dei traditori: nella sua chanson “Girat de
Vienne” nacque l’amicizia fra Roland e Olivier perché il primo si era innamorato della sorella
del secondo.
Si vedeva nettamente qui la differenza fra la chanson de Geste dove Roland moriva e alla
povera Aida non mandò neanche un pensiero.
In girat de Vienne, invece, compariva un Roland innamorato, questo perché con il passare
del tempo ormai le cose erano cambiate e a nessuno interessava parlare di Gerusalemme
perché la vita era piena e ricca (1202 periodo) e quindi si preferiva parlare di amore che di
guerra.
Analisi dei vari cicli epici
 Gesta del re di Francia: Chanson de Roland, Chanson
d’Aspremont (aspramente), Ronsasvals provenzale), Rolant a Saragossa
(provenzale) -> sovrano giusto e vassallo fedele

 Gesta di Garin de Monglaine (monglen): Ciclo di Guillaume d’Orange -> queste


gesta derivano da 5 canzoni che avevano come protagonista Guglielmo: la prima è
la Chanson de Guillaume (è la più antica ma nel ciclo non è la prima perché in ordine
cronologico si colloca più avanti), Couronnement Luis (“l’incoronazione di Luigi” dove
Guglielmo combatté contro un gigante saraceno ed era rimasto con il naso mozzato.
La caratteristica di Guglielmo è quella di ridere e qui Guglielmo ridendo dice di
essere felice perché in questo modo avrà anche il naso più corto, ma il nome più
lungo per via dell’epiteto che prenderà a seguito dell’evento.
Con la mutilazione divenne un eroe perché segnò un momento di passaggio.
Tornò in Francia e nonostante avesse salvato Roma, Ludovico non venne incornato
da lui ma da un vassallo.
Guglielmo sapeva che questa cosa non andava bene e quindi mentre Ludovico
venne incoronato dal vassallo, decise di irrompere a corte per staccare il collo del
vassallo con le mani.
Salvò quindi il re da questo vassallo mal intenzionato ma nonostante tutto il re
distribuì delle terre dimenticandosi di lui e quindi Guglielmo conquisterà la sua terra
da solo travestendosi da mercante), Charroi de Nismes, Prise d'Orange (“la presa
d’Orange” -> si apre con Guglielmo che guarda l’orizzonte dalla finestra della sua
camera; arrivò un suo scudiero che gli chiese cosa stesse facendo, egli rispose che
stava ammirando Orange.
Lo scudiero disse che non solo la città era bellissima ma anche la sua regina, anche
se era saracena.
Guglielmo, dunque, andò con il suo esercito ad Orange e con un combattimento
molto impetuoso da entrambe le parti, riuscì a vincere, uccise il re e sposò la moglie
che però essendo saracena doveva essere battezzata e prenderà il nome di Guibork
“ghi”), Moniage Guillaume.
La prima ad essere scritta fu la chanson di Guglielmo, ma il desiderio era quello di
raccontare il motivo per il quale il protagonista viveva ad Orange e come mai la
moglie fosse così strana. Questa canzone è frutto dell’assemblaggio di due canzoni
e la cucitura in mezzo è molto evidente: la prima è una canzone di Viviano, nella
seconda entrava in scena Guglielmo. Viviano era il nipote di Guglielmo e
probabilmente la prima parte si ambientava in Provenza: vi sono degli elementi nella
canzone di Viviano, che raccontavano della sua morte, che portavano a pensare
come in realtà fosse ambientata altrove (dai Pirenei a Bordeaux) e che i cattivi
fossero i normanni (questo perché ci sono elementi su come combattevano e sulle
loro navi che portava ad associare tutto questo ai normanni e non ai saraceni).
Questa canzone è stata adattata ed unita alle vicende di Guglielmo d’Orange che era
un personaggio storico, realmente esistito e che aveva formato un monastero
(ovviamente non si sa chi fece questa cucitura).
La prima parte della storia è molto triste: Viviano, molto giovane, vide arrivare
l’attacco dei nemici e si trovò solo a combattere perché lo zio era un codardo e aveva
un bambino piccolo (nipote di Guglielmo).
Nell’epica tutto è allitterante (due persone che hanno un legame devono avere nomi
allitteranti) e quindi il nipote di Guglielmo, parente vicino di Vivienne si chiamava
“Gui” (si legge gu-i); lo zio di Viviano da codardo scappò, Viviano resistette e dato il
numero di nemici, lo scenario era terrificante. Gli ultimi momenti di vita di Viviano
furono strazianti, vi erano cadaveri dovunque e proprio come Cristo, Viviano aveva
sete, si trascinò verso un ruscello e bevve l’acqua sporca di sangue dei morti, per
questo motivo morì.
La cucitura è avvenuta male perché nella parte successiva il nipotino Gui arrivò al
palazzo di Guglielmo e avvisò lo zio che partì all‘’istante e trovò Viviano ancora vivo
(tutto questo era impossibile perché Viviano era già morto nella prima parte).
Guglielmo allora per farlo morire in pace gli diede una foglia non avendo un’ostia,
fece il segno della croce e da qui iniziò la rimonta di Guglielmo.

 Cantar de mio Cid (castigliano) -> sovrano ingiusto e vassallo fedele.

 Gesta di Doon (maganzesi) -> canzoni dei vassalli rinnegati e ribelli: Gormont et
Isembart, Raoul de Cambrai, Girart de Roussillon (francoprovenzale).

 Ciclo della crociata: Chanson d’Antioche, Chanson de Jérusalem, Chétifs;


Canzone della Crociata contro gli Albigesi (provenzale).
Erano canzoni epiche che raccontavano fatti veri.
Nella “Chanson d’Antioche” si parlava della presa di Antiochia; l’autore qui seguì la
testimonianza di uno che partecipò a questa presa, ovvero, Riccardo il pellegrino.
Poi vi era “Chétifs” (i prigionieri) che parlava della storia degli antenati di Goffredo
di Buglione che discendeva da una fata.
Infine la “Canzone della crociata contro gli albigesi” (“eresie del midi”) che la
Chiesa condannò sterminandoli perché credevano nella reincarnazione, erano contro
la violenza, contro il pagamento, contro il matrimonio e tutto ciò che era divino.
Per annientare il diavolo allora vissero in castità per via della carne; la crociata fu
terribile, un massacro e i francesi del nord, visto che i nuovi territori in terra santa non
potevano esserci, decisero di trovarne di nuove scendendo dagli Albigesi.
La prima parte venne scritta da un provenzale filo-francese che morì durante il
massacro, la seconda parte invece fu scritta da un autore che raccontava i fatti in
maniera estremamente oggettiva.

13/12/2022
La Chanson de Roland
Nella Chanson de Roland viene raccontato un fatto vero avvenuto nel 778 (le cronache
riportano sebbene con certo lasso temporale di differenza il fatto che però non corrisponde
esattamente a quanto viene narrato nella Chanson).
Con tutte le vittorie ottenute da Carlo Magno (contro Longobardi, Sassoni…) venne
celebrata solo la sua unica sconfitta di cui si parla nella 1°parte: il 15 di Agosto del 778, la
retroguardia dell’esercito di Carlo Magno fu sgominata e trucidata dai Baschi, popolazione
cristiana che aveva da sempre avuto una pessima nomea (popolo brioso che parlava una
lingua non indoeuropea); in quella retroguardia erano stati nominati alcuni alti dignitari della
corte di Carlo (un siniscalco=secondo più importante dopo l’imperatore) e fra essi un
“ruotulandus”, duca della marca britannica (capo condottiero delle truppe della Bretagna
nell’esercito di Carlo).
Questa notizia venne riportata 40 anni dopo l’avvento dei fatti (Carlo era già morto) e da quel
momento le notizie vennero riprese da altre cronache e vennero aggiunti altri particolari.
Il contesto storico presenta Carlo magno in un lungo assedio presso Saragozza, giunse poi
al termine in seguito ad un accordo ma, sulla strada del ritorno, nelle gole dei Pirenei, a
Roncisvalle, la sua retroguardia venne attaccata dai Baschi e venne sterminata (quando si
muoveva un esercito imperiale vi era un’avanguardia con l’imperatore e gli alti dignitari, il
corpo dell’esercito e in coda la retroguardia che doveva difendere l’esercito alle spalle e che
era incaricato di portare le salmerie, ovvero i carri con tende, armi e il tesoro di cui l’esercito
poteva aver bisogno).
I Baschi erano noti per essere predoni: si dice che abbiano assaltato la retroguardia per
impadronirsi del loro tesoro anche se, uno studioso, Michel Zink, aveva azzardato un’ipotesi
che oggi viene accolta da molti.
Secondo Zink, in quei carri ci poteva essere stato qualcosa di più e i colpevoli sarebbero
stati anche i Saraceni stessi, egli presupponeva la presenza di ostaggi, persone illustri
giovani rampolli o un nobile emiro.
Era possibile quindi che i Saraceni si fossero alleati con i Baschi per una vittoria congiunta
(ipotesi avvalorata dal silenzio di quei 40 anni perché se fosse stata una semplice
imboscata, nessuno se ne sarebbe più ricordato; sembra che l’accordo preso da Carlo
Magno venne nascosto e insabbiato).
Zink si chiese cosa ci facesse l’arcivescovo Turpino e altri dignitari nella retroguardia (vi era
pertanto qualcosa di più prezioso che semplici oggetti di valore).
La Chanson inizia con re Carlo, grande imperatore dalla barba fiorita che è già imperatore e
ha più di 200 anni (la storia viene cambiata): viene detto che Rolando era il nipote di Carlo
(il rapporto più potente a livello feudale era quello tra nipote e zio, si parla di matrilineaggio,
ovvero la famiglia della donna era proprietaria dei figli che lei avrebbe messo al mondo) ma,
anche se egli era un condottiero bretone, non poteva essere lui il nipote.
Re Carlo era in assedio a Saragozza da molto e non tutti erano contenti, vi erano due
fazioni:
 una era quella dei grandi feudatari che non amavano la guerra perché avevano già il
feudo e non volevano lasciarlo incustodito, perché in loro assenza veniva governato
dalla moglie che però non aveva gli elementi necessari per difenderlo (si ricorda, ad
esempio, la presa di Gerusalemme, quando l’Europa venne gestita da sole donne) e
per di più non volevano che i loro feudi cadessero in povertà;
 d’altra parte, vi erano gli juvenes, giovani non sposati che non avevano un feudo:
dovevano trovarsi una donna ereditiera e quindi dovevano farsi notare per ottenere
un feudo; in mancanza di una donna ricca, andava bene anche ricevere un ricco
bottino (armi, cavalli, armature, tende che erano uno dei regali più illustri nel
Medioevo) e quindi erano favorevoli al continuo della guerra.
A capo della fazione per la pace vi era Gano, capo dei Maganzesi (abitanti di Magonza), mai
esistito nella storia, sarebbe stato il marito della sorella di Carlo Magno e patrigno di
Rolando (nessuno dice chi era il padre di Rolando perché probabilmente era frutto degli
amori adulterini di Carlo e sua sorella).
Gano voleva trovare un accordo per terminare la battaglia: era già stato provato un accordo
tempo prima anche se non era andato a buon fine, pertanto Rolando propose a Gano,
durante l’assemblea dei baroni, di andare a trovare un accordo con i Saraceni, Gano accettò
e andò con un compagno ma decise di accordarsi con l’emiro per conto suo, proponendogli
di accettare la tregua e, nel mentre l’esercito si fosse allontanato, l’emiro avrebbe avuto
mano libera sulla retroguardia.
Con l’accordo fatto, Carlo Magno stipulò i capi delle due guardie, e in questo momento Gano
propose Rolando come capo della retroguardia, il quale decise di accettare assieme a
Turpino e Olivieri (“Rolando è forte e Olivieri è saggio”).
Durante il viaggio di ritorno, ad un certo punto, videro una marea di cavalieri saraceni in
lontananza e Turpino decise di assolvere tutti i soldati a patto che avessero ammazzato più
saraceni possibili: Olivieri chiese a Rolando di suonare il corno per richiedere l’aiuto
dell’esercito ma Rolando si rifiutò per ben 3 volte.
Quando tutti furono sterminati, Rolando capì che la morte era vicina e si diresse su un
poggio, abbracciando la sua spada, fece diversi elogi e decise finalmente di suonare il corno
così forte da farsi scoppiare il cervello (in questo momento, si vede la discesa dell’Arcangelo
Gabriele che si porta via la sua anima).
Secondo molti la Chanson finisce qui, anche se poi venne fatta un’aggiunta successiva:
Carlo Magno mobilitò tutto l’esercito e riuscì a raggiungere Roland fermando il sole e
facendolo durare due giorni invece di uno (grazie all’intervento divino, a favore dei cristiani,
che erano nel giusto), quando raggiunse il corpo del nipote, ormai morto, recitò un planh di
dolore e successivamente si riversò su tutti i Saraceni, uccise l’emiro e ritornò ad
Aquisgrana dove la fidanzata di Rolando, non appena vide Carlo Magno, capì l’accaduto e
morì.
Il testo venne composto attorno al 1090 (quando veniva preparata la prima crociata, nel
1099 cadde Gerusalemme) per spingere gli juvenes verso la Santa impresa della presa del
Santo Sepolcro (nel 1070 non si combatteva ancora con la lancia sotto l’ascella quindi
probabilmente la scrittura va trasposta più in avanti); il codice che lo contiene è conservato
ad Oxford, nella Bodleian Library ed è il Digby 23 del II quarto del XII sec. (fino all’VII
secolo erano avvenuti i fatti, nel 1090 venne scritto ed il manoscritto è datato 1130 circa,
sono passati 50 anni prima di ricevere la copia che ci è rimasta).
È composto da 4002 décasyllabes, è scritto in anglonormanno e importante è la frase
finale («ci falt la geste que Turoldus declinet» -> qui finisce la canzone che Turoldo
compose, copiò, rimaneggiò o recitò). [?]

La Nota Emilianense
A margine, senza relazione col contenuto della pagina stessa, venne scritto:
“ Nell’anno 778 re Carlo venne a Saragozza. A quell’epoca aveva dodici nipoti, ciascuno dei
quali comandava tremila cavalieri muniti di corazza, e i loro nomi erano Rolando, Bertrando,
Oggieri dalla spada corta, Guglielmo dal naso curvo, Olivieri e il vescovo monsignor Turpino
… Accadde che il re si fermò a Saragozza con il suo esercito. Poco dopo gli fu consigliato
dai suoi di accettare molti doni affinchè l’esercito non morisse di fame e potesse ritornare a
casa, e così fu fatto. In seguito il re decise che, per garantire la salvezza degli uomini
dell’esercito, Rolando, valoroso guerriero, venisse con i suoi nella retroguardia. Ma quando
l’esercito superò il passo di Cisera a Roncisvalle Rolando fu ucciso dai saraceni. “

La Nota Emilianense (1150-1175) venne ritrovata in uno dei manoscritti del Monastero di
San Millan de la Cogolla che si trovava sul cammino di Santiago di Compostela, quel
corridoio libero dai Saraceni, lungo il quale, per rendere piacevoli le soste ai pellegrini, i
giullari li intrattenevano con delle canzoni (il nostro scriba potrebbe aver letto o sentito la
Chanson molto prima che fosse stata scritta quella che conosciamo noi).
Sicuramente chi l’ha scritta parlava castigliano.
Si parlava di “12 pari”, persone di alto lignaggio, pari all’imperatore, probabilmente vennero
interpretati come nipoti perché “neptis” venne letto e tradotto dallo spagnolo “primos”;
Bertrando non apparteneva alla gesta del re di Francia e nemmeno Oggieri e Guglielmo; i
personaggi della Chanson erano Rolando, Olivieri e Turpino (i nomi vennero scritti con la “e”
paragogica, ovvero con l’aggiunta della e finale nelle forme ossitone -> Rodlane,
Berlane…).

06/12/2022
Le origini della lirica
La lirica era un genere che esisteva già nelle epoche passate, soprattutto quella romanza
che aveva carattere amoroso fin dalle più antiche civiltà.
La lirica si sviluppò in Provenza e nacque attorno alla fine dell’X sec.; il primo trovatore di
cui sono giunte delle liriche apparteneva alla più alta nobiltà, si parla di Guglielmo IX Duca
d’Aquitania e VII conte di Poitiers; i territori su cui governava erano più estesi rispetto a quelli
su cui governava il re di Francia.
Egli nacque attorno al 1070 e morì attorno al 1130 ma di lui ci restano 9 liriche, non tutte
amorose, anche se egli stesso affermava di avere imparato alla Scola di Don’ Eblo, scuola
di Eble di Ventadorn, un signore di cui non è però rimasta alcuna lirica; era un autore così
noto che altre persone imparavano presso di lui a comporre liriche.
La lirica provenzale era sempre accompagnata dalla musica, in molti casi questa musica
era giunta fino a noi con le modalità proprie del Medioevo; quindi, non sul pentagramma ma
sul tetragramma (4 righe e 3 spazi); era una musica difficile da riprodurre con correttezza
perché non veniva indicata la durata della nota (non si sa se fossero musiche lente o veloci).
Nell’ ‘800 si guardava al Medioevo come un punto di riferimento importante, soprattutto nel
periodo romantico l’attenzione degli studiosi era rivolta nell’investigazione delle origini; il
primo ad avanzare l’ipotesi che queste origini fossero popolari fu Alfred Jeanroy, il quale
sosteneva che l’origine della lirica andava ricercata nei canti femminili di Maggio (in epoca
romana era il mese dedicato alle donne e consentiva loro di rovesciare il proprio ruolo per
prendersi delle libertà accettabili solo durante quel mese e che venivano considerate “lecite”;
potevano anche avere un amante; con la cristianizzazione era diventato il mese della
Madonna) perché in questa libertà sessuale e di canto affondavano le radici della lirica
amorosa-medievale che aveva come caratteristica principale l’amore adulterino (una donna
sposata che si concedeva un amante fuori dal matrimonio).
Questa tesi venne ripresa anche dal maestro di Jeanroy, il più importante filologo di tutti i
tempi, Gaston Paris, che andò oltre le ipotesi del suo allievo e affermò con certezza che la
lirica aveva radici proprio nel canto femminile (tesi difficilmente difendibile perché cozzava
contro un’evidenza concreta, ovvero tutte le liriche medievali possedevano una voce
maschile; in un’epoca più tarda si iniziarono a trovare anche le trovatrici che però
ricalcavano i modelli della lirica d’amore a voce maschile, senza originalità).
Dopo questa ipotesi ne venne avanzata un’altra che partiva dalla maniera con cui veniva
definita l’arte del comporre (“trobar”), secondo cui questo verbo derivava dal latino volgare
“TROPARE” ovvero comporre un “tropo” (nella musica conventuale medievale, il coro
intonava i canti gregoriani ed era diviso in due parti): quando vi era l’esigenza alla fine di una
frase musicale di reggere con la voce la vocale conclusiva, per tenere quella nota a lungo,
l’altro coro su quella nota cantava uno brevissimo testo (se la vocale da sostenere era una
“a” questi piccoli testi venivano chiamati “sequenza” mentre per tutte le altre vocali questi
versi venivano chiamati “tropi”).
Quindi il tropo era una breve composizione lirica composta ad oc (all’interno della cultura
monastica in latino) per consentire che la parte più importante del coro riuscisse a
mantenere ferma una nota senza che il tono si alzasse o si abbassasse.
La lirica provenzale aveva quindi origini dotte, ecclesiastiche; nell’abbazia più famosa, quella
di Cluny, venivano anche sperimentate altre forme liriche, sempre in latino, a partire da
modelli di natura diversa (tra cui una di origine araba).
Comparve l’uso della poesia in rima, cosa che la lirica latina non conosceva, e questo
poteva derivare dalla frequentazione con la lirica latino-medievale colta, dotta ed
ecclesiastica.
Tropi e sequenze, che erano il modello della lirica provenzale, parlavano di Dio, della
Vergine, di argomenti religiosi e quindi non amorosi; forse la derivazione da “tropare” pareva
essere addirittura forzata perché “trobar” potrebbe provenire dal latino volgare “trovare”
equivalente del latino classico “invenire” da cui proviene “invenzione” (“inventio” -> capacità
di creare opere letterarie).
Un ulteriore elemento di riflessione giunse nel 1948 quando Samuel Stern, esperto in lingue
semite, scoprì nella Biblioteca del Cairo delle strane composizioni ovvero scoprì che i versi
finali di un genere poetico molto diffuso nelle letterature araba ed ebraica erano scritti in
caratteri arabi ma la lingua non era araba.
Decise di trascrivere questi gruppi di versi presenti in una cinquantina di testi e iniziò questo
studio per comprendere che cosa fossero: il componimento a cui faceva riferimento era la
“muwaššaḥa” (“cintura, collana di perle colorate”) tipico delle due letterature sopra citate;
era composto in arabo o ebraico classico a voce maschile con un soggetto convenzionale
(poteva essere l’elogio di una città, della bellezza di una donna, la gioia per l’arrivo della
primavera…) ed era scritta in rima.
La loro caratteristica principale risiedeva nella terminazione, che avveniva per mezzo di una
“ḫarǧā” (“fibbia, cintura”) che era composta in genere ad un registro linguistico inferiore
(arabo o ebraico volgare).
La scoperta di Stern risiedeva proprio nel fatto che la “ḫarǧā” era composta in mozarabo
(IX-X sec.), quella lingua romanza che si parlava in area iberica dopo la conquista araba; era
scritta a voce femminile e cantava sempre di un amore lontano, disperato, perché non c’è
più (morte, abbandono, partenza…).
Sono molto difficili da decifrarsi perché scritte in caratteri arabi senza la comparsa delle
vocali.
Le rime della “muwaššaḥa” venivano imposte dalla “ḫarǧā”; era un genere letterario virtuoso
e raffinato, scegliere che le rime venissero offerte da un registro linguistico minore era
esempio di grande sfida (tra l’altro, da un altro ceppo linguistico).

Da dove derivano le “ḫarǧā”?


 poteva averle inventate l’autore della “muwaššaḥa” con un finto spirito popolaresco
 poteva averle tratte da componimenti che aveva sentito cantare in prima persona in
area iberica, quella parte dominata dagli arabi e che le abbia prese come punto di
ispirazione

Erano solo dei ritornelli o brevissimi canti?


Mentre sorgeva la lirica romanza, nella penisola iberica vi erano donne che cantavano in
rima di un amore lontano e anche in questo caso, comunque le liriche trobadoriche erano
tutte a voce maschile come soggetto, però qualcosa di simile alla “ḫarǧā” era già presente
nella letteratura romanza.
Sia in area iberica sia in area castigliana sia in area gallego-portoghese si trovavano le
“cantigas de amigu” ovvero un genere lirico dove vi era una donna che cantava un amore
lontano; erano presenti anche in area oitanica ed erano le “chansons de femme ou de
toile”, una voce femminile che si confidava idealmente ad un’altra donna di questo dolore
per l’allontanamento parziale o totale dell’amore (gli autori erano però sempre e comunque
maschi).
Tuttavia, non sappiamo con certezza se queste liriche fossero dotte oppure popolari,
probabilmente lo erano entrambi.

La fin’amor
Oggetto di questa lirica era la fin’amor (in Provenza “amor” era femminile), definita anche
“amore cortese” da Gaston Paris, il rapporto amoroso si sviluppava all’interno delle corti e
rispecchiava a pieno l’ideologia feudale (struttura gerarchica dove vi erano un sovrano e un
duca/barone/valvassore che era legato ad un suo superiore attraverso un vincolo di fedeltà;
colui che era “inferiore” aveva obbligo di “auxilium et consilium” e allo stesso modo il
sovrano aveva l’obbligo d’ascolto e di concessione di un feudo, quindi questa dimensione
gerarchica era mediata da un sistema di obblighi reciproci).
La lirica provenzale era prettamente formale, un gioco retorico, fondata su sistema metrici di
grande complessità; si serviva ad esempio di assonanze, omofonie (termini che hanno
significati diversi ma lo stesso suono).
“Midons” significava “mio signore”, ci si rivolgeva all’amata con lo stesso termine con cui ci
si rivolgeva al proprio signore; l’amata cantata dal poeta veniva definita come “amie” ovvero
“amata” ed era sempre di rango superiore dell’amante.
“Fin” significava “fine” nel senso di raffinato, rendeva migliore e superiore dal punto di vista
della nobiltà d’animo in un processo che liberava dalle scorie; l’amante per rendersi degno
della propria amata deve aspirare ad arrivare al suo rango di nobiltà; l’amata era sempre
sposata quindi si parlava di amore adulterino (il matrimonio era un’occorrenza necessaria
solo per interessi, non aveva nulla a che fare con l’amore e non era accessibile a tutti, infatti
solo il primogenito poteva sposarsi mentre i figli “cadetti” dovevano prestare servizio militare
presso altre casate sperando di trovare una ricca ereditiera, proprietaria di un feudo come
nel caso di Guglielmo “Il Maresciallo” che riuscì a sposare una donna che era proprietaria di
metà Irlanda e metà Galles).
“Juvenes”, indicava una massa di giovani non sposati che si trovavano in una corte di
donne e potevano rivolgere il loro amore solo ad una di esse, ovvero la signora del loro
signore.
“Joi” indicava la gioia che derivava dal compimento dell’atto amoroso.
“Joven” indicava la giovinezza.
L’amore era sempre adulterino e quindi doveva rimanere segreto (“celar”), per questo alla
dama veniva attribuito un “senhal” ovvero un nome fittizio che molto spesso era un nome
maschile.
“Lauzengiers” erano i mal parlieri che sparlavano del poeta o di questo amore che doveva
rimanere celato.
“Gilos” ovvero il geloso, era il marito che ostacolava l’amore (la gelosia era uno dei peccati
peggiori all’interno di questa ideologia) e veniva affiancato alla figura dell’avaro (se un uomo
fosse stato davvero generoso, lo avrebbe dovuto essere anche con la sua donna).
“Mercé” (significava “grazia”) era il servizio che compiva l’amante nei confronti della donna
anche se lei in cambio doveva dare qualcosa (si parla di uno sguardo, di un sorriso, di un
bacio fino al rapporto fisico); in questo modo si alzava il prestigio per entrambi, l’amante
ascendeva ad un rango più spirituale mentre la dama veniva cantata ed eternata nella
poesia.

I Trovatori
Prima generazione trobadorica
 Guglielmo IX d’Aquitania
 Jaufré Rudel (amor de lonh) -> “amore da lontano”
 Marcabru -> piano moralistico

Seconda generazione trobadorica


 Bernart de Ventadorn
 Raimbaut d’Aurenga
 Arnaut Daniel

Nella prima generazione trobadorica, Guglielmo IX utilizzò termini ed espressioni forti per
riferirsi all’amore carnale, rappresentando rapporti fisici concreti e corporei; Marcabru arrivò
a contrastare questa visione troppo libertina perché era più moralista, Rudel cantava
dell’amore lontano con grande virtuosismo.

Il dibattito sulla fin’amor


Nella seconda generazione trobadorica, Bernart de Ventadorn, poeta che proveniva da
una classe sociale medio-bassa (povero cavaliere) sintetizzò in una delle sue liriche qual era
il suo concetto di poesia d’amore (“Can vei la lauzeta mover” -> cuore della lirica amorosa
tradizionale, tutta la natura era nel pieno del suo rigoglio perché era tornato il bel tempo,
quando vide l’allodoletta muoversi, cantava la sua donna e non poteva fare a meno di farlo
anche se lei lo respingeva).
Raimbaut d’Aurenga era un gran signore, feudatario molto potente che rispose a Bernart
con una lirica (“Non chant per auzel ni per flor” -> posizione superiore, non aveva bisogno
della primavera, dei fiori e degli uccelli per cantare, lui lo faceva perché era innamorato, in
qualsiasi circostanza, anche d’inverno come nella “Flora Anversa”; però diceva che se la
donna non lo avesse amato, sarebbe andato a ricercare l’amore altrove, in un’altra donna).
Chrétien de Troyes entrò nel dibattito con una lirica, “D’Amors, qui m’a tolu a moi”, primo
esempio di lirica in langue d’oil (non era provenzale), affermando che, non era importante
tanto la donna che respingeva l’uomo o l’amore che doveva sempre essere ricambiato,
bensì era importante l’AMORE IN SÉ (quasi personificato).
Era un poeta che aveva un’impostazione molto più ortodossa e vicina alla morale cristiana,
una delle sue patrone, Maria di Champagne, lo fece soffrire molto per la sua visione di
amore libertino ripresa dall’ambiente provenzale (egli era contro l’amore adulterino).
Dopo di lui ci saranno i “trouvères” che altro non erano che i trovatori che in lingua
provenzale erano i “troubadours”.

Altri generi lirici


La lirica sia provenzale che oitanica sfruttavano anche altri generi che rientravano sempre
nella dimensione prossima a quella del grande canto cortese ed erano:
 l’”alba” (il momento in cui i due amanti dopo una notte d’amore si dovevano staccare
perché si trattava di amore adulterino quindi l’amante si allontanava dalla camera
della donna); a far comprendere che fosse arrivata l’alba potevano essere le grida
delle sentinelle oppure l’inizio del canto dell’allodola, uccellino solare che cantava nel
pieno del mattino e che sostituiva quello dell’usinuolo, uccellino notturno
 la “pastorella” (nacque nella prima generazione trobadorica per opera di Marcabru
ma in area provenzale la produzione rimase circoscritta); era una vacanza dalla
cortesia e metteva a confronto il cavaliere con una donna di classe sociale molto
bassa, il cavaliere veniva ritratto in una mattina di primavera che veniva attratto dal
canto di una donna bellissima, una pastorella accudiva il proprio gregge e
prevedevano come sfondo la concezione della fin’amor anche se ne mostravano poi
altri aspetti.
Si distinguevano poi due sottogeneri di pastorella:
 soggettiva (la più praticata, il cavaliere si avvicinava direttamente a una fanciulla di
basse origini, non come avveniva con la dama, e le proponeva di fare l’amore con lui;
erano quasi tutte in langue d’oil); questo genere poteva concludersi in tre modi
diversi:

inizialmente la pastorella rifiutava ma poi riusciva a farsi corrompere dai regali


concessi dal cavaliere;
la pastorella rifiutava i doni ma il cavaliere passava ai fatti violentandola;
la pastorella non accettava i regali ma, mentre il cavaliere cercava di passare ai fatti,
dal boschetto uscivano i pastori che mettevano in fuga il cavaliere per proteggere la
fanciulla.

 oggettiva (prevedeva lo stesso esordio ma si limitava ad essere spettatore


malinconico di un’idillica civiltà campestre dove assisteva alla bellezza e all’armonia
del canto della fanciulla e al ballo degli altri pastori).

Altri generi lirici si distaccavano dal tema amoroso ed erano:


 la “sirventes” (che derivava dalla parola “sirven”, “chi serve”) e si chiamava così per
due ragioni: si trattava prevalentemente di canzoni politiche di partigianeria e si
serviva di una melodia già utilizzata per liriche che avevano riscosso grande
successo (sfruttava l’orecchiabilità di quella melodia per sovrapporre nuovi contenuti,
come l’elogio di un signore o sostenere le ragioni di una fazione politica…).
Il più famoso tra gli autori fu Bertrand de Born, il cantore delle armi, che cantava la
primavera perché era la stagione delle guerre (era un povero cavaliere che divideva
il suo misero castello di Albachiara con il fratello); altrettanto famoso fu Sordello.
 “planh” (“pianto, compianto”) era composto per onorare una persona ormai morta; il
più famoso fu quello di Sordello in onore del suo signore.
 “chanson de toile” in langue d’oil, canzone a voce femminile in cui una fanciulla non
sposata cantava la distanza del suo amato o la tristezza di essere stata abbandonata
o la gioia di aver trovato un piano per fuggire con lui.
 “canzoni a ballo” fatte per la danza collettiva che avveniva in carola (in tondo) o in
tresca (giovani intrecciati); il sottogenere più importante era l’“estampida” o
“estampie” in antico francese (canzone a ballo che implicava che questo ballo fosse
fatto colpendo con forza il piede a terra come se fosse uno strumento a
percussione); la più famosa era la “Kalenda Maya” di Raimbaut de Vaqueiras.

La crociata contro gli Albigesi portò l’arrivo dei francesi del nord che spazzarono via tutte
quelle condizioni cha avevano reso favorevoli lo sviluppo della poesia basata sulla
fin’amor perché erano più moralisti e volevano cancellare del tutto i resti della religione
albigese.
I trovatori emigrarono cercando altrove una situazione simile a quella che ormai non
esisteva più nel Sud della Francia (“diaspora trobadorica”) e la trovarono ad esempio
in Germania con lo sviluppo del filone “Minnesanger” dei cantori d’amore ma anche
vicino all’Italia intorno alla metà del ‘200 dove stava nascendo la borghesia e si
stanziarono principalmente a nord-est dove vi erano i grandi signori nelle corti.
Nacquero così le prime antologie trobadoriche, come “Uc de Saint Circ” (donato a
Federico II e sarà incentivo per la nascita della Scuola Siciliana), e anche le prime
grammatiche per corredare le liriche di un “metatesto” (la lirica è anticipata da
un’introduzione dove si racconta della vita del poeta e seguita da una spiegazione di
essa).

Le caratteristiche del romanzo


 si rivolgeva ad un pubblico socialmente determinato (pubblico delle corti e dei
nobili)
 prevedeva una fruizione circoscritta ma comunque collettiva (una persona leggeva
il romanzo e tutti gli altri attorno lo ascoltavano); Chrétien de Troyes presentò
l’immagine di un cavaliere in un giardino e vide una fanciulla con un libro che leggeva
ad alta a voce a tutta la famiglia, questo perché non poteva essere ricordato a
memoria perché i versi sono troppi da poter essere ricordati.
Il romanzo era composto da couplets d’octosyllabes, un verso di otto (maschile) o
nove (femminile) sillabe a rima baciata, sempre in numero pari
 esigeva il supporto della lettura, sempre collettiva
 l’unico fine che aveva era quello dello svago e dell’intrattenimento -> il romanzo
nacque nel 1150, molte donne sapevano leggere, era tornata la pace ed erano finite
le carestie, le guerre erano sempre meno e le persone preferivano sentir parlare
d’amore con la ricchezza e la raffinatezza di corte
 il soggetto riguardava l’amore e l’avventura fine a sé stessa -> si compiva
un’impresa per diventare più noti e conosciuti, per sfidare sé stessi o conquistare la
donna amata e ottenere prestigio dal proprio signore (quête=ricerca)
 il contesto era astorico
 la vicenda principale si intrecciava con altre laterali (entrelacement) -> il romanzo
non aveva un unico filo conduttore perché si intrecciava con altre storie, c’erano le
anticipazioni, i flashback…
 era guidato da due elementi fondamentali -> la queste (“la ricerca di avventura” ->
come la ricerca del Sacro Graal) e il don contraignant (“il dono che costringe” ->
tutti i doni erano pericolosi, perché il dono costringe, vuole il suo contraccambio; il
signore doveva acconsentire al dono che gli veniva richiesto perché doveva essere
generoso)
 il “meraviglioso” -> una cosa che doveva essere guardata perché esulava dalla
normalità (nel Medioevo esisteva la fata immortale, se era di buon umore faceva tanti
doni mentre se era di mal umore portava tanti guai).
Le origini
Goffredo di Monmouth (1100-1155) scrisse la “Historia Regum Britanniae” (1136 circa)
in 12 libri, ovvero la storia dei re di Bretagna (Inghilterra) utilizzando fonti storiche attendibili
o meno; i libri dall’8° al 12° libro vennero dedicati a Re Artù.
Wace (1115-1183) nacque in una delle isole nello Stretto della Manica, studiò a Parigi dove
diventò chiricus (al servizio del duca di Normandia); fu autore del “Brut” (1155 circa) dove
attuò un’operazione politica: doveva dare notorietà al passato normanno (Enea, quando
fuggì da Troia con il padre Anchise sulle spalle ed il figlio per mano, fondò Roma e un suo
nipote, Brutus, si stufò di non far nulla e andò a conquistare la Bretagna).
Dal nome Brutus, quindi “Brut”; venne raccontata la sua storia ricollegandola poi a quella di
Re Artù trasponendo in volgare quello che leggeva su Artù: Wace aveva quindi creato un
personaggio mitico che aveva fondato la storia plantageneta di Enrico II, del figlio, il re
giovane e Giovanni.
Inserì la tavola rotonda non presente in Goffredo (nessuno era capotavola, non c’era la
figura del primus inter pares, prese spunto dalla raffigurazione dell’Ultima Cena, tutti i
cavalieri pari siedevano insieme al loro sovrano); compiere un’impresa non era finalizzato a
nulla (“pur amistié e pur amies”) e per amore e per le amate i cavalieri compivano grandi
imprese (“funt chevaliers chevalieres”).

15/12/2022

Re Artù
Prima di diventare un personaggio letterario è stato un personaggio storico.
La fonte storica più vicina ai fatti relativi ad Artù (angli, sassoni e iuti aiutarono i Celti;
vennero però presi in giro e così si unirono a re Artù, il quale, in virtù del fatto che aveva
avuto un’educazione tattica guerresca romana, riuscì a sconfiggere le tre popolazioni) è
l’opera di Gildas “De excidio et conquestu britanniae” (del 536) che parlava della vittoria
dei celti a Badon Hill grazie a “Ambrosius Aurelianus”; alcuni credevano che fosse il vero
nome di Artù e che invece Artù fosse un soprannome (Artù nella cultura celtica l’orso era
laminale più vicino all’uomo).
Parlava di Artù anche Nennio nella “Historiam Brittonum” (la storia dei Bretoni, datata
VIII/IX secolo) e parlava di lui come “dux bellorum”; per la prima volta si parlò di Artù come
un uomo di origini Troiane anche se era bretone.

Le materie romanzesche
La suddivisione dell’epoca in lignaggi si deve a Jean Bodel che, nella “Chanson de
Saisnes” (canzone dei sassoni) diceva che c’erano tre materie per chi era istruito.
“non ci sono che tre materie per chi è istruito: / di Francia e di Bretagna e di Roma la grande,
/ e fra queste materie non c’è alcuna somiglianza. / I racconti di Bretagna sono vani e
divertenti, / quelli di Roma saggi e istruttivi, / quelli di Francia veridici come ogni giorno
risulta evidente”
Bodel scriveva tra il 1180/1200 e già si distinguevano due materie romanzesche, quella di
Bretagna (detta anche arturiana) e quella di Roma (detta anche antica o classica.); a
queste materie se ne aggiunse una terza, quella francese.

Le tre materie romanzesche erano:


 la materia classica o antica (Roma): già visto in Wace dove dice che Brut era il
nipote di Enea, questo per rassicurare la casata di Normandia su origini remote.
Per far capire chi fosse Enea vennero creati dei Prequel, ovvero, “Roman d’Eneas”
esattamente nel 1160 ca. dove Enea fugge da Troia (trama erotica) e dopo diverse
avventure arriva a Roma; il testo era scritto in latino.
Importante in questo periodo era anche Ovidio tanto che il XII secolo è detto anche
“età ovidiana”; lui parlava di battaglie (è l’Ovidio delle metamorfosi).
Ovidio nelle sue opere era attento a tratteggiare la psicopatologia dell’amore, cioè
cosa succede fisicamente quando qualcuno ama. Quando una persona si innamora
arrossisce, perde il sonno, gli viene il tremolio.
Nel romanzo di Enea si era venuto a creare un connubio tra la storia di Enea
dell’Eneide e tra il sentimentalismo di cui parlava Ovidio: Enea era innamorato di
Lavinia e venne proprio inserito l’elemento amoroso.
Venne anche scritto il “Roman de Troie” (il romanzo di Troia) ma ci fu un problema
perché se tutti sapevano leggere il latino e quindi potevano leggere l’Eneide, non
sapevano leggere il greco e la caduta di Troia è stata scritta da Omero nell’Iliade in
greco.
Per racconta la storia di Troia si era ricorso all’epìtome ovvero un riassunto
dell’opera.
Prima della storia di Troia però c’era l’Asia e quindi venne scritto anche il “Roman de
Thèbes” (il romanzo di Tebe) che raccontava cosa ci fosse in Asia prima di Troia.
Il “Roman d’Alexandre” (il romanzo di Alessandro) fu forse il romanzo più fortunato:
Alexandre era Alessandro Magno, figlio di Filippo il macedone (anche se vi era una
leggenda secondo cui la madre, Olimpia, avesse avuto Alessandro da un Dio con
l’aiuto di un mago) e fu colui che conquistò il continente asiatico fino all’India.
Sposò una donna persiana e poi a 33 anni morì avvelenato (considerato uno dei li
grandi condottieri).
Secondo il Corano Alessandro era risorto dopo la morte e aveva completato la
conquista dell’Occidente.
Questo romanzo è complicato in quanto scritto prima in octosyllabes e si aveva poco
di questo testo, 100 versi che riguardavano solo la sua infanzia; poi vi erano altre tre
continuazioni in decasyllabes (come in epica) perché si parlava di Alessandro da
grande quando faceva battaglie e conquiste e quindi l’argomento rientrava nell’epica.
La prima versione in octosyllabes è stata composta da Alberico di Pisançon.
L’Alessandro che noi leggiamo è l’insieme di questi elementi fatti da un autore,
Alexandre de Paris, che prese il materiale esistente e lo riformulò in un verso
nuovo, ovvero, l’alessandrino (il dodecasyllabes).

 la materia bretone o arturiana: 5 romanzi sono importanti di Chrétien de Troyes,


un autore di cui non si sa molto, egli diceva anche di non essere di Troyes ma di un
altro paesino in aerea francese. Non si sa se fosse un clorico o un araldo d’armi
(colui che nei tornei presentava i campioni) e per esserlo doveva conoscere bene le
armi e le casate.
Di lui rimangono 2 canzoni, la “Filomela” e “Tristano” (non è arrivato a noi ma dice
di averlo scritto).
Fu il primo a trasformare la lirica trovadorica (lirica provenzale) portandola a nord,
rispondendo su cosa fosse l’amore perché c’era una differenza di pensiero fra il nord
della Francia dove vi erano meno libertini rispetto al sud della Francia.
Il primo romanzo che scrisse fu “Erec et Enide” nel 1170, anomalo per il mondo
medievale, così tanto che fu scelto da un autore di barcellona, Montalbán; era un
romanzo ippoganico, ovvero, parlava di matrimoni di basso lignaggio.
I cavalieri generalmente sposavano donne di alto lignaggio (meglio ancora una fata
in quanto essere di un altro mondo).
In una lettera a Riccardo cuor di leone, scrisse che la sua famiglia discendeva da
una foto perché tutte le famiglie norrene avevano discendenze magiche.
Erec era un re e sposò Enide (Enìd), figlia di un valvassore con un matrimonio ippoganico
(tipico della società borghese).
Per più di quindici giorni continuarono i festeggiamenti per il matrimonio ed Erec, preso dalla
passione e dall'amore per l'amata, dimenticò i suoi doveri di cavaliere e così attirò su di sé le
critiche dei suoi compagni.
Enide, correndo il rischio di farlo adirare, lo avvisò delle dicerie che circolavano sul suo
conto e lui, irritato da tutto ciò, partì in cerca di avventure portando con sé Enide alla quale
impose di non rivolgergli mai la parola.
Lei infranse quest'ordine più volte ma solo per salvare la vita del marito.
Dopo il combattimento contro due giganti Erec era talmente stremato da perdere i sensi e
venne quindi creduto morto; Enide, distrutta dal dolore, desiderava la morte ma venne
fermata dal conte Oringle de Limors, il quale la condusse al suo castello insieme al corpo
di Erec.
Giunti al castello il conte le propose di sposarlo, ma la ragazza lo rifiutò; l'uomo allora
cominciò a percuoterla ed Erec, svegliatosi all'improvviso, salvò l'amata trafiggendo a morte
il conte.
Dopo questo episodio Erec decise di perdonare Enide per la sua sfrontatezza e le dichiarò
nuovamente il suo amore.
Dopo la vittoria di Erec, si conclude il romanzo con l'incoronazione ufficiale a Nantes di Erec
e Enide.

20/12/2022
“Cligès” (antitristano) -> trattava la materia tristaniana, ovvero la storia di Tristano e
Isotta.
Tristano perse i genitori da piccolo (il suo nome fu segno del suo destino) e venne allevato
dallo zio materno, re Marco.
La leggenda affonda le sue radici nelle Triadi (componimenti antichissimi), con
elementi di questo passato remoto di questo personaggio e della sua storia (arcaico,
tribale, visione del mondo precristiano).
Re Marco aveva le orecchie da cavallo perché era un re sacro (nella sua genealogia c’era
sicuramente la dea cavallo), amava tanto il nipote e il suo regno, la Cornovaglia (dove si
parlava gaelico e le antiche tradizioni gallesi e celtiche erano molto vive) che era però
infestata da un orribile gigante irlandese, il Morolt (il “Moroldo”).
Tristano, con coraggio, attraversò il mare per sconfiggere il mostro: i due combatterono e
Tristano riuscì ad ucciderlo ma rimase ferito da un suo colpo di spada avvelenato; in punto
di morte venne accolto da due fanciulle (madre e figlie) con poteri taumaturghi; la sua ferita
venne risanata.
Venne rispedito in Cornovaglia senza sapere però che la madre era la madre del Morolt e la
figlia era la sorella del Morolt (Isotta dai biondi capelli).
In Cornovaglia i baroni rimasero stupiti del ritorno di Tristano ma, intenzionati a non farlo
diventare re, re Marco decise quindi di prendere in sposa la figlia della regina e mandò
Tristano a prenderla anche se la mamma, la regina, era preoccupata perché non conosceva
il re.
Decise quindi di preparare un filtro e ordinò alla nutrice, Braganie, di dare questo liquore ai
due sposi la sera prima della notte di nozze perché avrebbe consentito loro di amarsi e
quindi alla figlia di essere felice).
Il mare però era molto tempestoso, i due avevano un po’ di senso di nausea e quindi venne
chiesto al servitore di portare una coppa di vino, ma per sbaglio il servitore gli aveva portato
la pozione e i due si innamorarono (Tristano e Isotta).
Isotta e Tristano continuarono a vivere la loro storia d’amore ma vennero scoperti, in seguito
Tristano chiese di far riaccogliere la moglie a palazzo e lui se ne sarebbe andato in Bretagna
(Tristano decise di sposarsi per dimenticarla e sposò un’altra donna, Isotta dalle bianche
mani).
Tristano, addolorato e sul letto di morte, chiese che fosse chiamata Isotta la bionda insieme
alla madre per poterlo guarire; chiese di comunicargli se la barca, quando sarebbe arrivata,
avesse avuto le vele bianche o le vele nere (se le avesse avute bianche, Isotta sarebbe
stata a bordo mentre se le avesse avute nere, Isotta non ci sarebbe stata).
Quando la nave arrivò con le vele bianche, la moglie di Tristano gli disse, per gelosia, che in
realtà le vele erano nere; Tristano saputa la notizia morì e Isotta la bionda non appena
appresa la notizia, morì anche lei.
È la storia di un amore adultero: Isotta aveva tradito il marito, mentre Tristano aveva
tradito non solo suo zio che lo aveva allevato, ma anche il suo stesso sovrano.
Chrétien scrisse un racconto simile ed opposto a Tristano, ovvero “Cligès”.
Vengono sempre presentati come personaggi il nipote e la promessa sposa (allo zio), si
innamorano però veramente senza filtri e nel momento in cui questo amore sbocciò, a
ritorno verso il regno dello zio, Cligès provò sedurla ma lei lo rifiutò, dicendo che non
avrebbe fatto come la Isotta di Tristano, ovvero avrebbe concesso il suo corpo solo ad un
uomo.
La nutrice Tessala preparò una pozione che venne data solo al marito e questa fece in
modo che il marito immaginasse di avere rapporti con lei anche se non li avrà mai (lei così
era libera di andare con Cliges).
Venne portata però dinnanzi al re e venne torturata ma la nutrice le diede una pozione per
apparire subito morta; nel momento in cui viene seppellita, Cligès la liberò e la portò in un
rifugio sotterraneo; pochi giorni dopo il re morì e loro poterono vivere felici e contenti.
Chrétien voleva scrivere qualcosa contro l’opera di Tristano perché per lui l’amore
adultero era un qualcosa di negativo perché l’amore coniugale doveva sempre
imperare.
In questi anni venne accolto alla corte di Maria di Champagne, una delle due figlie
che Eleonora d’Aquitania aveva avuto con il re di Francia, nipote del primo
trovatore, Guglielmo IX; era una provenzale e non tollerava l’ambiente bigotto del re
di Francia (dopo aver avuto le due figlie, lei accompagnava il marito in crociata solo
per vedere l’amante, ovvero il cugino del marito, e allo stesso tempo aveva un altro
amante, Enrico II, figlio del re d’Inghilterra).
Le figlie di questa donna erano state allevate nell’ideologia dell’Aquitania e anche
Maria aveva passioni simili a quelle della madre, alla sua corte, accolse la sua
giovane promessa, Chrétien, il quale scrisse per lei presso la sua corte.
Produsse 2 romanzi: “Yvain – Le chevalier au lion” e “Lancelot – Le chevalier de
la charette”; li scrisse assieme, infatti uno dei protagonisti passava da un romanzo
all’altro.
“Yvain” -> Ivano, sentì alla corte di re Artù, di una meraviglia, raccontata da un altro
cavaliere: egli aveva visto nella foresta di Barenton, una fontana, da cui, se si prendeva
l’acqua e si versava sul bordo, scoppiava una tempesta e dal castello usciva un cavaliere,
difensore della fontana e interveniva per terminare la tempesta.
Il cavaliere confessò alla corte di re Artù, dove venivano raccontate tutte le avventure, la sua
disavventura e da quel momento Artù decise che sarebbe andato ad ammirare la meraviglia;
Yvain decise di dirigersi da solo ed ebbe la meglio, riuscendo a ferire a morte il cavaliere che
difendeva la fontana (Esclador il rosso); il cavaliere però era riuscito a uccidere il cavallo di
Yvain chiudendolo in mezzo alle due porte e spezzandolo a metà.
Da una finestrella però uscì la voce di una damigella, Lunette, che consegnò un anello a
Yvain che gli permetteva di essere invisibile, con il suo aiuto riuscì ad entrare nel castello: la
signora del re morente aveva bisogno di un nuovo sposo, e Lunette propose a Yvain di
sposarla.
Dopo il funerale, Laudine venne consigliata da Lunette, che si propose per cercarle un
nuovo sposo: prelevò Yvain e lo propose a Laudine, perché lui era l’unico che era riuscito a
sconfiggere ed uccidere il vecchio marito; la vedova si convinse e i due si sposarono in
tempo prima dell’arrivo della corte di Artù (tutti festeggiarono la sua vittoria).
Yvain chiese alla moglie di poter continuare la sua vita da cavaliere e lei gli diede il suo
anello con solo un anno di tempo; allo scoccare dell’anno Lunette si presentò da Yvain che
si era dimenticato della promessa fatta, gli tolse l’anello e lui impazzì.
Si spogliò, abbandonò la spada (ricorda molto la figura di Orlando di Ariosto) ma quando si
trovava nel bosco, sfinito, passarono due fanciulle che lo aiutarono a rimettersi in sesto e il
romanzo continuò con le sue battaglie per la riconquista dell’amore della sua dama, senza
però l’aiuto di Lunette.
Alla fine, Lunette capì che aveva bisogno di un cavaliere a difesa della fontana e per questo
Yvain poté tornare a palazzo e vivrà felice e contento con Laudine (altro mondo separato
dalla fontana, quello di Laudine).
“Lancelot” -> “perché me lo chiede la signora, io scriverò questo romanzo”: Chrétien scrisse
questo romanzo solo per volere di Maria e andò contro i suoi principi.
Lancillotto, cavaliere rimasto orfano, sul bordo di un lago venne preso dalla fata che viveva
in fondo al lago e venne allevato da lei; il romanzo inizia con l’arrivo di un cavaliere dal
reame di Gorre (caratteristiche dell'aldilà) presso la corte di re Artù; lui voleva Ginevra per
portarla nel suo mondo; re Artù fu costretto a condergli la mano della principessa ma in suo
soccorso partirono Galvano (sole della cavalleria) e Lancillotto.
Videro un nano (essere spregevole nel Medioevo) che conduceva una carretta (la “carretta
del disonore”, usata per portare in giro le persone che ricordava la gogna); il nano propose
ai due cavalieri di salire sulla carretta ma Galvano decise di non salire.
I due cavalieri percorsero due strade diverse ma si trovarono insieme dinnanzi ad un fiume
con due ponti, il ponte sommerso ed il ponte di spada; Galvano ci provò ma non ci riuscì a
superare la prova del ponte di spada (per questo passò nel romanzo di Yvain).
Lancillotto invece riuscì a passare dal ponte e una volta giunto venne portato al cospetto
della regina che però decise di rifiutarlo perché aveva ritardato 3 passi dalla carretta e per
questo il suo amore non poteva considerarsi perfetto e degno per lei).
Venne portato in una stanza attraverso la quale riusciva a passare nella stanza della regina
(una notte però perse due gocce di sangue e questa sarà la testimonianza dell’amore
adultero).
Chrétien a questo punto del romanzo se ne andò alla corte di Filippo d’Alsazia e il
romanzo venne affidato ad un altro autore per la sua scrittura finale.
Filippo d’Alsazia era la persona più vigorosa di Francia, persecutore di eretici, era
appena tornato da Gerusalemme, portando con sé un’ampolla del sangue di Cristo e
all’arrivo di Chrétien, gli venne chiesto di scrivere “Perceval – Le conte du Graal”
(non venne concluso perché Chretien morì prima, altri avevano provato a
concluderlo).
Alla corte di Filippo ci fu un altro autore che scrisse del Graal, Robert de Boron
(scrisse 5 libri, il primo in versi e gli altri in prosa) ed è la storia che tutti noi
conosciamo.
“Perceval” -> era un giovane gallese che aveva vissuto nella foresta perché alla mamma
erano morti nei tornei il marito e gli altri figli maschi; un giorno mentre era con il suo arco
vide passare 4 uomini a cavallo vestiti di ferro che brillavano al sole; andò dalla madre e gli
disse che voleva diventare cavaliere, lei acconsentì ma con dolore.
Alla corte di Artù venne fatto cavaliere e partì per le sue avventure, un giorno vide un
laghetto con un uomo che pescava al quale chiese dove si trovasse il castello (era il “Re
pescatore” o “re magagnato”, non possedeva l'uso delle gambe); entrato nel castello rivide
l’uomo seduto sul trono, nel salone entrò una processione con una damigella che aveva in
mano un Graal con dentro un’ostia e dietro un damigello che portava un’asta che
sanguinava.
Il Re pescatore mangiò l’ostia ma Perceval non osò chiedere al re perché la lancia
sanguinasse o a cosa servisse il Graal (aveva seguito il consiglio della madre che gli aveva
detto di non porre troppe domande perché poteva risultare scortese); successivamente tutti
si ritirarono nelle loro stanze ma al mattino dopo Perceval quando si svegliò trovò il castello
vuoto perché Perceval non era a conoscenza del fatto che, se solo avesse posto quella
domanda, avrebbe potuto salvare quel regno dalle loro disgrazie.
Il Graal (“gradale”) era un grande piatto fondo usato per servire cose munite di sugo, poteva
essere di legno, metallo, ferro, argento…, veniva usato per servire il pesce in tavola
(ricordava Cristo con la sua simbologia del pesce).
Esistono due racconti gallesi simili, in uno di essi, quando il protagonista arrivò al castello,
sul Graal vi era la testa dello zio e la lancia era quell’arma che lo aveva trafitto (leggenda
che Chrétien aveva rielaborato in chiave cristiana per esaltare la devozione di Filippo
d’Alsazia e la sua ampolla contenente il sangue di Cristo).
Robert de Boron scrisse anche altre due opere, “Joseph d’Arimathie” e “Merlin”.
 la materia realistica riproduceva il mondo cavalleresco reale: Jean Renart, scrisse
due romanzi (“Guillaume de Dole” e “L’escoufle”) dove riproduceva vicende
verosimili e nel primo era talmente tanto realistico che veniva usato dagli storici per
studiare l’araldica medievale.
Venne magnificata la bellezza di una fanciulla, il protagonista la sposò, venne portata
a palazzo e per via di un’ancella dalla lingua lunga, il siniscalco, venne a sapere che
lei aveva una voglia di rosa in luogo che nessuno avrebbe potuto vedere; il siniscalco
consigliò al re di non sposarla perché era una donna poco seria perché tutti
sapevano dove aveva la rosa.
“Escoufle” -> due giovani innamorati scapparono nel bosco, lei ripose il suo anello in un
sacchetto di velluto rosso ma mentre dormivano, un uccello rapace non addestrabile, prese
il sacchetto e se ne andò; l’amato lo vide e lo inseguì perdendosi nel bosco; al risveglio
l’amata non lo vide e andò a cercarlo fino a quando non si ritrovarono e vissero felici e
contenti (scompare l’elemento magico).

La galassia tristaniana
 Béroul, “Roman de Tristan” -> legato alla cultura celtica
 Thomas, “Roman de Tristan” -> versione cortese da cui derivavano tutte le opere
posteriori (5 frammenti, tradotto in medio-alto tedesco)
 Maria di Francia, “Lai du Chebrefeuille” -> scrisse una narrazione breve in versi e
raccontava un episodio: Tristano e Isotta erano lontani, Isotta andò per la campagna
con le sue damigelle e ad un tratto vide un caprifoglio attorno ad un nocciolo e vicino
un bastone con incisi dei caratteri runici, lei capì che Tristano era al suo seguito e
decise di allontanarsi dalle damigelle per stare insieme a lui)
 “Folie Tristan” di Berna e di Oxford (la prima era più vicina a Béroul mentre la
seconda era più vicina a Thomas) -> Tristano si travestì da matto, si rasò metà testa,
si sporcò la faccia di un’erba colorata, incontrò un pescatore a cui chiese i suoi
vestiti, arrivò a castello e tutti lo presero come folle; iniziò a raccontare una storia e
nel mentre Isotta capì piano piano che stava parlando di lei grazie al cane che
Tristano le aveva lasciato che lo riconobbe (passarono la notte insieme)
Le Roman d’Alexandre
Nacque in ottosillabi in pseudo-callistene
 Alberic de Pisançon, “Roman de Alexandre”
1130 circa
105 octosyllabes
narrava la prima parte della vita dell’eroe
 Anonimo chierico pittavino, “Roman de Alexandre”
1160 ca.
adattò l’opera di Alberic in lasse di décasyllabes
restano 800 versi sull’infanzia dell’eroe
 Eustache, “Fuerre de Gadres”
1170 ca.
tonalità epica
 Lambert le Tort de Châteaudun, “Alexandre en Orient”
1170 ca.
fino alla spedizione in India
 Anonimo, “Mort Alexandre”
1170 ca.
narrava gli ultimi giorni dell’eroe
 Alexandre de Bernay, “Roman de Alexandre”
1180-1190
dodecasyllabes (alessandrini)

Le roman de la rose
Era un capolavoro del genere allegorico (personificazione o animalizzazione di un concetto
astratto)
Venne iniziato da Guillaume de Lorris nel 1237, raccontava di un cavaliere che in un
mattino di primavera se ne andò in campagna finché non vide un verziere dentro il quale vi
era una fontana dove c’era un prisma che rifletteva tutto il giardino (luogo dove Narciso
aveva perso la vita).
Il suo sguardo cadde su un bocciolo di rosa di cui si innamorò perdutamente ma arrivarono
figure losche che lo cacciarono dal giardino (il romanzo non venne concluso)
Venne ripreso da Jean de Meun fra il 1275 e il 1280 e venne concluso in 21 mila
octosyllabes (divenne un romanzo enciclopedico del sapere); il cavaliere nel tentativo di
prendere il bocciolo incontrò dei personaggi che gli spiegarono che cos’era il mondo; lui
parlò con Natura, donna bellissima che nominò la parola “coglioni” e si giustificò dicendo
che senza di loro non nascerebbero i bambini, quindi bisognava usarlo più spesso.
Grazie ai consigli di Natura si fece pellegrino con un bastone molto forte e duro con due
bisacce molto morbide per accogliere il bocciolo di rosa: all’ingresso del giardino vi era una
donna con le gambe aperte e il bocciolo di rosa era l’organo femminile.
22/12/2022

La narratio brevis
La narratio brevis non è scritta in prosa, ma in versi, anche se non è detto che sia breve
(anche di 2000 versi); sono narrazioni caratterizzate da uno svolgimento lineare della trama
e non ci sono tutte le caratteristiche del romanzo: l’intreccio, gli eventuali flashback; prevede
solo i personaggi essenziali a quella vicenda, che si dipana da un inizio, un momento di crisi,
a una conclusione, che può essere positiva o negativa.
Per quanto concerne la struttura metrica, è esattamente la stessa del roman, couplé di
octosyllabes a rima baciata.
La narrazione breve mediolatina si suddivide in tre categorie:

 vita dei santi -> genere molto diffuso nel medioevo.


La vita dei santi aveva un modello illustre: la vita di Cristo e si organizzavano
secondo lo schema vita-morte-miracoli.
Venne istruito un procedimento giuridico in cui si verificavano le caratteristiche della
vita, della morte e dell’avvenimento di miracoli, giudicando se erano meritevoli della
santità: se una persona aveva vissuto in santità ma non aveva compiuto miracoli non
diventava santa.
La raccolta più importante e più bella è la “Legenda aurea” di Jacopo da Varazze
(“le cose che devono essere lette”); Jacopo da Varazze era un domenicano, era
probabilmente nato a Genova da genitori di Varazze.
L’opera era organizzata per circulum anni, si iniziava a raccontare le vite dei santi a
partire dal 1° gennaio per arrivare fino al 31 dicembre, il giorno di San Silvestro.
Questo era molto comodo per i sacerdoti, perché i predicatori che dovevano fare il
sermone andavano a vedere nella Legenda e sapevano di chi parlare.

 exempla -> sono esempi


La religione cristiana aveva capito da subito come vi fossero concetti astratti troppo
complicati per essere compresi dalla povera gente.
La transustanziazione significa che, nel momento in cui l’ostia è elevata dal
sacerdote, in quel momento l’ostia diventa corpo e sangue di Cristo ed era difficile
credere a una cosa del genere.
Nacquero quindi una serie di exempla, quasi tutti avevano per protagonisti i giudei, i
quali non credevano nel sacramento: in alcuni il giudeo sottraeva un’ostia già elevata
e la pugnalava da cui usciva sangue e questo lo portava a convertirsi.
A partire dal Concilio di Tours (813), il sermone veniva fatto in volgare: vi erano
quindi dei racconti in latino al servizio dei sacerdoti, che poi a loro volta venivano
narrati in volgare all’interno della predica.
San Bernardino da Siena faceva delle bellissime prediche, aveva seguaci che
trascrivevano le sue prediche: sono quindi delle “storielle” che delucidano in merito a
contenuti dottrinali.
Le raccolte potevano essere organizzate in due maniere: in ordine alfabetico
(modalità preferita dai francescani); per materia (preferito dai dominicani), ovvero
per argomento.
Su questo, Stefano di Borbone, Étienne de Bourbon, ha scritto il “Tractatus de
diversis materiis predicabilibus” (“Trattato sulle diverse materie da predicare”)
dove il più bello è il “Dialogus miraculorum” di Cesario di Heisterbach perché è un
dialogo che seguiva l’impianto di Gregorio Magno, cioè di un santo monaco; il
dialogo è monaco-novizio dove il monaco rispondeva alle domande del novizio,
spiegandogli le cose con un racconto.

 favolistica -> Esopo e Fedro raccontavano le storie con gli animali.

 vite dei santi -> Wace scrisse « La vie de Sainte Marguerite » e « La Vie de Saint
Nicolas ».
Santa Margherita era una bella fanciulla, votata a Dio grazie alla sua nutrice
cristiana, cade sotto lo sguardo del prefetto Olibrio, che la voleva sposare anche se
lei non voleva, in quanto promessa a Dio.
Lui si arrabbiò e iniziò a torturarla perché si convincesse a sposarlo, abiurando il
cristianesimo: la gettò nel carcere dove si manifestò un diavolo in forma di drago
(Rufo) che la ingoiò.
Quando si trovò nel ventre del drago tirò fuori la sua croce e lo squarci, uscendo
illesa; alla fine chiamarono il boia per tagliarle la testa, ma lui si convertì, le tagliò la
testa, scesero due angeli e si presero le loro anime.
Questa santa è uscita indenne dal ventre del drago, e pertanto era protettrice del
parto (per analogia).
La regina Medici di Francia, quando aveva partorito a Parigi, aveva chiamato l’abate
di Saint Denis per portare nella camera in cui avrebbe partorito le reliquie di Santa
Margherita.
Nei primi del ‘900 c’erano dei sacchetti da parto che le donne tenevano in mano
dentro ai quali c’era la vita di Santa Margherita.
San Nicola è il patrono degli studenti, dei ladri, dei mercanti e dei naviganti e viene
narrato che, quando era vescovo di Mira (in Asia Minore, ora Turchia) mentre stava
passeggiando sentì da una finestra un padre che disse alle figlie che non aveva i
soldi per la dote, e quindi aveva deciso di mandarle come prostitute in un bordello.
San Nicola allora si recò alla cattedrale, fuse tutto l’oro che c’era in due grandi sfere
e la notte le buttò giù dal loro camino ed è per questo che Babbo Natale scende dal
camino.
Infine, i “Milagros de Nuestra Señora” sono un’opera di Gonzalo de Berceo.
Narrazione breve in volgare:

 lais -> deriva da una parola celtica che è “laid” ovvero una narrazione legata alla
musica; potrebbe essere
1. una narrazione accompagnata dalla musica (cantata)
2. una narrazione non cantata ma accompagnata da uno strumento
3. solo musica, con un titolo che risvegliasse nei presenti una storia che gli
ascoltatori conoscevano.
I lais sono giunti tutti in couplé d’octosyllabes a rima baciata.
La più grande scrittrice di lais, Maria di Francia, faceva molta attenzione ai titoli, che
a volte dava in due o tre lingue.
Anche questi si differenziano per materie, come il romanzo: possono essere di
materia classica o antica, di materia bretone o arturiana e di materia realistica.

 materia antica -> il Lai di Aristotele, il precettore di Alessandro Magno, che era
molto innamorato della sua bellissima moglie.
In questo racconto Aristotele gli disse che faceva male a soggiacere alle volontà di
una donna e a questo colloquio assistì anche la moglie, la quale nel lai fece
innamorare di sé Aristotele, lo portò in giardino e gli disse che lui le farà da cavallo, e
lei farà da cavaliere.
Aristotele si mise a quattro zampe e lei si mise a cavallo, salutando il marito che
stava alla finestra; in questo modo Alessandro capì che Aristotele poteva dire di non
soggiacere alla volontà delle donne, ma che persino lui lo aveva fatto (Aristotele
aveva dato un consiglio che lui stesso non sapeva seguire).

 materia bretone o arturiana -> Maria di Francia scrisse 12 lais, una raccolta di
favole, e tradusse in modo eccellente il “Trattato del Purgatorio” di San Patrizio in
latino perché era anche una traduttrice di lais dal bretone.
Dice di lei stessa in un suo scritto “sono Maria, e sono di Francia”: quando ha scritto
questa sua "presentazione" probabilmente era in Inghilterra, forse alla corte di Enrico
II Plantageneto.
C’è chi suppone che lei fosse moglie di un potente barone cambro-normanno
(gallese-normanno), che in pratica era padrone di una parte di Irlanda e una parte di
Inghilterra perché solo una donna di infinita potenza poteva tradurre un trattato entro
cinque anni da quando era stato scritto (o lei aveva voluto o le era stato chiesto dal
suo signore)
Il “Lai du chèvrefeuille” è la storia di Tristano e Isotta e il “Lai de Lanval” è il tipico
racconto di fate.
Lanval alla corte di Artù vedeva che tutti ricevevano doni, donne e terre (per avere
una terra bisognava avere una moglie) e nessuno si curava di lui.
Andò allora per la campagna cavalcando e arrivò vicino a un fiume, vide che il
cavallo era agitato, scese, prese il suo mantello e si addormentò sotto un nocciolo.
A quel punto vide due damigelle, che lo riconobbero e gli dissero che la loro signora
era uscita dalla sua terra solo per sposarlo; lo portarono in un bellissimo padiglione
da questa dama (non aveva un nome perché le fate non avevano nome).
Questa dama gli disse di volerlo sposare e che se lui soggiacerà ai suoi piaceri
amorosi potrà essere ricco e avere tutti i denari che vuole; lui accettò, ma ad una
condizione perché le fate potevano essere buone o cattive a seconda del momento.
Lei gli chiese di obbedire a un patto: non dovrà dire nulla a nessuno della loro
relazione.
Lanval allora ritornò nei suoi appartamenti, e improvvisamente ebbe qualsiasi cosa
desiderasse e difatti riuscì a soddisfare tutti i desideri della sua famiglia e del suo
seguito.
La regina posò gli occhi su di lui e gli chiese di giacere con lei ma lui rifiutò senza
dire il motivo, finché alla fine le disse di avere una donna più bella di lei.
La regina si lamentò col re e lui perse la sua relazione con la fata, avendone parlato;
al processo però, quando gli venne chiesto se avesse una donna più bella della
regina e lui rispose di sì, gli venne chiesto di dimostrarlo.
Gli mostrarono diverse donne ma nessuna era bella come la donna che lui diceva di
aver avuto; alla fine arrivò la fata su un destriero bianco e tutti furono d’accordo nel
dire che effettivamente era la più bella.
Quando se ne stava per andare lui riescì a saltare sul suo cavallo e scomparve per
sempre.
Il “Lai de Bisclavret” parla di un lupo mannaro: narra la storia di un uomo che era
mannaro, e ogni tanto si allontanava dal castello, si spogliava delle sue vesti e si
trasformava nel lupo, stava tre giorni lontano dal castello e poi tornava.
Nel frattempo, la moglie, che aveva un amante, gli chiedeva dove andasse e alla fine
lui cedette e le rivelò di essere mannaro.
Lei aspettò che lui si trasformasse, rubò i suoi vestiti e lui fu costretto a rimanere lupo
per sempre, così che lei poté sposare il suo amante.
Mentre Artù andava a caccia nella foresta con il suo seguito, vide un lupo bellissimo
che, invece di essere pericoloso, faceva un inchino e con la zampa accarezzava lo
stivale del re.
Lo portarono al castello e, nel giorno di una grande festa, venne invitata anche la
moglie col nuovo marito; a questo punto il lupo impazzì, le saltò sulla faccia e le
staccò il naso.
Un vecchio cortigiano propose di portarlo in una camera con vesti nobili, e lui si
ritrasformò in uomo; vivrà per sempre in forma di uomo o di lupo quando lo deciderà,
e l’ex moglie darà il via a una progenie di femmine senza naso, che saranno
riconoscibili come il frutto di una donna crudele e perversa.
 materia realistica -> Jean Renart scrisse il “Lai de l’ombre”.
Un cavaliere si innamorò di una dama sposata e si rifiutò di averla: disse di volerle
dare l’addio nel verziere dal pozzo.
I due erano affacciati sul pozzo e videro le loro immagini riflesse, lui le disse di aver
trovato qualcuno che amava più di lei, e buttò l’anello nel pozzo.
Lui non amava tanto lei, quanto l’immagine che di lei si era fatto e il donare l’anello
all’immagine della dama voleva dire “è più bella di te perché vive dentro di me nel
mio amore”.

Maria di Francia
Maria di Francia era forse Marie de Beaumont di Meulan e moglie di Hugues de Talbot,
cugina di Strongbow, colui che prese l’Irlanda sposando la figlia dell’Alto Re dell’Ulster,
senza che lo venisse a sapere Enrico II Plantageneto, il quale si arrabbiò molto.
Lui però, essendo un uomo astuto, andò da Enrico II e gli si offrì come vassallo; a questo
punto Enrico II fu costretto ad accettare, e lui ottenne quello che aveva preso con la
forza.
Maria di Francia scrisse 12 lais e le fables, tradotte da un testo medio inglese perduto,
lei diceva che era un testo scritto da Re Alfredo, ma era impossibile, perché di lui
abbiamo tutto; quindi, Maria di Francia o se lo era inventato o aveva letto male un nome,
ma comunque lo tradussee dal medio inglese e aveva tradotto anche il Trattato del
Purgatorio di San Patrizio.
Faubliaux deriva dal latino “fabulellum”, “piccola fiaba”, e il genere è di origine piccarda,
si trattava di genere comico, l’antenato di Boccaccio e sono stati uno degli oggetti
privilegiati degli spettacoli di Dario Fo.
L’ambiente del genere comico era quello della Piccardia, in Toscana si svilupperà quasi
un secolo dopo, dove il regime feudale era molto debole e stava nascendo una classe di
mercanti, che potremmo chiamare “protoborghesia”.
Erano praticamente racconti incentrati soprattutto su bassa gente, mogli di ricchi
contadini o ricchi artigiani, che trovavano modo di avere scappatelle con chierici.
Importanti furono Jean Bodel, Gautier le Leu e Rutebeuf anche se il più importante era
Jean Bodel che nacque ad Arras, entrò nel lebbrosario nel 1205 e scrisse nove fabliaux,
un testo su San Nicola, cinque pastorelle, la Canzone dei Sassoni e i Congés (prima
opera d’occidente in volgare in cui l’autore parla di sé stesso in maniera realistica) dove
descriveva le sue sensazioni fisiche, la sua malattia e il dolore infinito di lasciare coloro
che ama.
La narrazione breve in provenzale

Era di supporto alla lirica trobadorica.


In Provenza c’era stata la crociata contro gli Albigesi e di fronte a tale massacro molti
trovatori cercarono rifugio in Italia e Germania; arrivati in Italia, quella era una letteratura che
le persone non conoscevano bene.
Nascono quindi: le Vidas, vite non dei santi ma dei trovatori, le Razos, le ragioni, le
spiegazioni delle poesie (oggi diremmo “parafrasi”), per strutturarsi come le antologie.
Si parlava di trovatori morti 200 anni prima, quindi avevano libera inventiva.
C’era un trovatore che amava una donna il cui soprannome era loba, lui disse in una poesia
“se tu sei lupa io sarò lupo”, che era come la forma del matrimonio latino; nella Vidas disse
che per essere simile a lei si era messo la pelle di lupo, ma i contadini lo avevano picchiato.
Infine, le Novas sono pochissime, ed erano le “notizie” che raccontavano del mestiere del
giullare e di quanto fosse importante quella figura perché era l’uomo di cultura nel medioevo.

Il teatro
Rimangono pochi testi perché il teatro non ha nulla a che fare con la letteratura teatrale,
restano solo dei copioni di rappresentazioni che alla fine rimasero privi di valore.
Il teatro era luogo di aggregazione e lo Stato centrale, ovvero Roma, affermava la sua
presenza anche nei territori più remoti dell’Impero: dal punto di vista strutturale si basava su
strade (per la comunicazione), istruzione (le scuole), tribunali (la legge) e l’opportunità di
dare ai propri cittadini uno svago (un teatro).
Il teatro romano era debitore di quello greco che suddivideva la sua attività tra tragico e
comico: non vi erano però mezzi di amplificazione, di illuminazione e doveva contenere
molte persone; la struttura prevedeva una parte a emiciclo dove stavano gli spettatori in
gradoni diradanti (sfruttamento di una collina) di fronte ad un palco che aveva una visione
molto aperta alle spalle che fungeva da sfondo naturale (di solito il mare); al di sotto del
palco vi era una parte inferiore coperta da giare di terracotta vuote per amplificare il suono
della voce e gli attori, per rendersi più visibili, indossavano calzature più alte e indossavano
anche una maschera che era indispensabile per 3 ragioni:

 gli attori, fino all’epoca di Shakespeare, erano tutti uomini; quindi, la maschera
consentiva di indicare quali di loro svolgessero ruoli femminili
 i personaggi erano tipizzati quindi si poteva riconoscere tranquillamente dalla
maschera qual era l’attore che interpretava quel determinato personaggio
 la maschera aveva funzione mega fonica perché assieme alle giare vuote creava un
effetto di rimbombo e amplificazione naturale
Con l’avvento del cristianesimo, il teatro entrò nel mirino dei padri della Chiesa: impersonato
da uomini che si fingevano qualcosa d’altro di quello che non erano e che si servivano della
maschera che entrò in conflitto con la teologia cristiana perché creava la possibilità di essere
“doppio”; l’uomo è fatto a immagine e a somiglianza di Dio, dunque qualunque cosa
potesse travisare questa somiglianza equivaleva ad una bestemmia (deturpamento della
figura di Dio).
A questo periodo appartenevano 2 scritti (II-III sec. d.C.), scritti da un padre della Chiesa di
origine cartaginese, Tertulliano: “De spectaculis” e “De ornamentu feminarum” dove
esprimeva questo concetto di peccato con l’uso della maschera o di trucchi femminili.
Il teatro divenne oggetto della critica del primo Cristianesimo, a cui si aggiunse anche il
problema dell’indebolimento del potere centrale (venivano trasferiti sempre meno fondi
per strade, scuole e teatri al fine di mantenere gli eserciti ed il sistema giudiziario): il teatro
entrò in rovina fino a che tutti non divennero cave di pietra che venivano usati solo dalla
povera gente come luoghi da cui venivano prelevati blocchi di pietra per costruire o
aggiustare le case.
Dopo questa “morte” del teatro classico, rinacque in forma differente proprio in Chiesa: nel X
secolo, nell’Abbazia di Limoges, nel cuore della notte pasquale, davanti ai monaci del
convento, si sviluppò il primo nucleo di dramma liturgico: l’altare era il sepolcro di Cristo e un
monaco impersonava un angelo mentre altri 3 monaci giungevano da lontano e
impersonavano le tre Marie che per prime avevano scoperto la resurrezione di Cristo
(“Visitatio sepulcri”); nel corso del X secolo verranno poi fatte almeno una quarantina di
versioni differenti.

“Domanda: Cosa cercate nel sepolcro o seguaci di Cristo? Risposta: Gesù nazareno
crocifisso o abitanti del cielo. Angeli: Non è qui. È risorto come era stato profetizzato.
Andate, annunciate che è risorto dal sepolcro.”

La “Visitatio Sepulcri” (o “Quem queritis”) si arricchì di personaggi e divenne più ampia:

 “Ortolanus” -> persona che le tre Marie incontrarono sul cammino per raggiungere il
Sepolcro; questo personaggio intrattenne con loro un discorso anche se in realtà era
lo stesso Cristo; era presente anche la figura dell’“Erbarius” che vendette a loro
essenze profumate per lavare il corpo di Cristo.
La rappresentazione diventa sempre più amplia e complessa e comprende anche un minimo
di narratività: si parla di dramma liturgico, una rappresentazione teatrale presente nel genere
della liturgia che veniva messa in atto in Chiesa.
 “Ordo pastorum” -> la rappresentazione dei pastori che si recavano a Betlemme per
rendere omaggio a Gesù, appartenente sempre al genere della liturgia natalizia
 “Ordo stellae” -> nasce nell’XI secolo, presente nel genere della liturgia natalizia,
era la rappresentazione della stella cometa che conduceva i re magi alla culla di
Betlemme; nacque anche una sua evoluzione in volgare, in Spagna, precisamente in
Castiglia intorno alla metà dell’XII secolo, di cui rimase solo un frammento di 147
versi (“Autos de los Reyes Magos”).
La prima opera teatrale interamente in volgare a noi giunta è il “Jeu d’Adam” anche se il
titolo del codice originale era “Ordo rapresentacionis Ade” ovvero la messa in scena della
storia d’Adamo; ci si trova nella metà dell’XII secolo, è composto in anglonormanno ma il
testo a noi giunto venne copiato nel sud della Francia (sono presenti errori di trascrizione
fonetica e questo fa capire che il copista era provenzale).
Si trattava però del primo manoscritto in carta delle letterature romanze volgari; è un
manoscritto piccolo e povero e conteneva un dramma paraliturgico che si rivolgeva ad un
pubblico più vasto; venne composto per il periodo liturgico che precede la quaresima
(settuagesima).
Venne collocato nella Biblioteca municipale di Tours anche se negli anni ’40 corse un grosso
rischio a causa dell’avanzata tedesca (la biblioteca prese fuoco ma per fortuna il direttore
della biblioteca era riuscito a convincere le milizie a trasportare i manoscritti in un bunker
segreto); un filologo del tempo lo aveva già scoperto ed era quindi rientrato nel genere del
manoscritto monumentale.
Si divide in 3 parti:

 Adamo ed Eva -> dalla creazione alla cacciata dal paradiso terrestre
 Caino e Abele -> uccisione del fratello
 Ordo prophetarum -> “sfilata dei profeti”, 12 profeti con gli elementi caratteristici,
avanzano sulla scena pronunciando la loro profezia
Le parti recitate erano in volgare: sono presenti couplets di octosyllabes a rima baciata che
si alternano a volte con quartine di decasyllabes monorimi; l’intero testo è accompagnato da
didascalie in latino che spiegano la tonalità di voce, la posizione fisica e la descrizione della
scenografia (presenza del paradiso terrestre, dell’inferno, dei diavoli…).
La prima opera teatrale in volgare non liturgica è di Jean Bodel, il “Jeu de Saint Nicolas”,
era di Arras, dunque piccardo, rappresentò l’opera il 5 dicembre del 1200 (a ridosso della
festa di San Nicola); apparteneva alla confraternita dei giullari dentro la quale venne
concepita e sovvenzionata; uno dei protagonisti era un santo con caratteristiche molto
concrete (era considerato il patrono dei chierici, degli studenti, dei bambini, dei mercanti e
dei ladri).
Le sue reliquie sono giunte in Italia a seguito di un furto: egli era vescovo di Myra, in Asia
Minore, sulle coste della Turchia, dove venne sepolto anche se un gruppo di marinai
mercanti sottrassero il corpo per arricchire la propria città di origine (il corpo ora è
conservato a Bari); gli abitanti di Myra sostengono però che all’interno del sepolcro ci sia
ancora il corpo del santo e difatti vengono effettuati molto pellegrinaggi nella città.
Vennero usati couplets di octosyllabes a rima baciata: la storia iniziava con un
combattimento tra cristiani e musulmani, combattimento bizzarro perché in questo caso
sembrerebbe che i musulmani stessero conquistando la terra di Francia (inizio epico che
terminò con una vittoria schiacciante dei musulmani sui cristiani); misero in atto un massacro
e rimase vivo solo un uomo inginocchiato dinnanzi ad una statua di legno (quella di San
Nicola); venne portato al palazzo dell’emiro al quale venne spiegata la storia del santo
(l’emiro decise allora di lasciare incustodito il suo tesoro, nelle mani del santo che avrebbe
dovuto proteggerlo).
Durante la notte però, tre ladri uscirono dalla città di Arras, trovarono il tesoro dell’emiro
incustodito, lo rubarono e corsero alla taverna giocando d’azzardo, bevendo vino e
mangiando molto; mezzi ubriachi si addormentarono senza aver capito che i dadi erano
truccati e per questo persero gran parte del tesoro.
All’alba l’emiro scoprì che il tesoro era stato rubato e decise di mettere a morte il vecchio
che, in carcere, ricevette la visita del santo che decise di andare dai ladri in taverna e li
obbligò a restituire il tesoro rubato; la mattina dopo, prima che il vecchio venne decapitato,
San Nicola riconsegnò il tesoro e l’emiro decise di convertirsi perché ne riconobbe la
superiorità rispetto ai suoi dei; molti dei suoi uomini si convertirono tranne l’emiro di “Oltre
l’albero secco” perché nel suo paese non esisteva denaro bensì solo gli scambi che
venivano effettuati con macine da mulino (la conversione non è totale).
Un altro autore importante fu Adam de la Halle (detto anche “il gobbo” anche se non lo era;
questo attributo riguardava probabilmente la dimensione satirica di certe sue opere), anche
lui proveniva dalla scuola di Arras, nacque nel 1237 e fu molto importante soprattutto nella
musica polifonica, venne chiamato alla corte di Angiò dove morirà nel 1288; anche la sua
scrittura era piccarda.
Scrisse due opere teatrali:

 “Jeu de la feuillée” -> è la trasposizione teatrale di un genere più recente, ovvero


del “congés”; è stato messo in scena tra il 3 e il 5 giugno del 1276, era stato
commissionato in occasione di una festa dedicata alla Vergine (che cadeva proprio il
4 giugno) che aveva salvato dal fuoco di Sant’Antonio tre giullari, i quali per
devozione avevano innalzato una piccola cappelletta di fronde e avevano portato tre
candele in suo onore.
Questa cappannuccia in commemorazione dell’evento veniva innalzata ad Arras ogni
anno e venivano distribuite le candele che avrebbero salvato tutti dal fuoco.
La “feuillée” sarebbe la “pergola”; in realtà in quella notte il protagonista, Adam, entrò
come personaggio nel proprio testo e si lamentò con l’amico Richesse Auris della
sua infelicità (aveva iniziato gli studi a Parigi ma quando aveva incontrato una
fanciulla bellissima, voleva mollare gli studi per sposarla anche se ad un certo punto
non era più convinto perché l’amore non gli bastava per colmare la sua passione per
lo studio).
In questa serata di pazzi arrivarono anche le fate e si poteva chiedere loro un dono a
patto che venissero accolte per bene: i due amici prepararono loro una tavola
imbandita per fare in modo che fossero benevole; appena sedute al tavolo iniziarono
ad elogiare la bellezza della tavola e dei suoi oggetti anche se ad una di loro
mancava un coltello (i due amici avevano chiesto uno di poter andare a Parigi a
studiare mentre l’altro voleva diventare sempre più ricco); alla fine dell’opera tutte e
tre le fate decisero di esaudire le richieste dei due amici.

 “Jeu de Robin et Marion” -> scritta per la corte di Napoli, era la trasposizione
teatrale di una pastorella soggettiva, l’autore si fermò incantato a guardare la gioia di
un gruppo di pastori che si intrecciavano in danze e canti (1°musical).
Robin è il nome tipico che si dava ai pastori mentre Marion è il nome che si dava
spesso alle pastorelle.
Elcock – Le lingue romanze
Soltanto a nord, dalla Galizia alla Catalogna, i dialetti ispano-romanzi mostrano lo stesso
grado di differenziazione locale in quanto solo qui il latino volgare si continua e senza
interferenze.
Il peso della Riconquista è stato sostenuto principalmente dalla Castiglia ed in misura
minore dall’Aragona, essa era sorta come stato autonomo quando il suo primo re, Ramiro I,
aveva raggruppato i propri domini attorno a Jaca; sotto la guida di Alfonso I estese poi i
propri confini a sud, in territorio musulmano.
Nel secolo XI ci fu la grande impresa della riconquista di Toledo (1085) ad opera di un
esercito di castigliani e di leonesi, guidati da Alfonso VI di Castiglia; successivamente
un’altra tribù berbera, gli almohadi impose la sua supremazia agli almoravidi rimasti in
Africa e nel 1146 invasero per proprio conto la penisola avanzando rapidamente in
Andalusia ma finì per essere sopraffatta nella battaglia di Las Navas de Tolosa (1212) da
un esercito cristiano confederato condotto da Alfonso IX di Castiglia.
La vittoria permise a Ferdinando III di rioccupare le grandi città di Cordova e di Siviglia; 40
anni dopo, il dominio musulmano in Spagna si ridusse al regno di Granada dove si ebbe
l’ultima grande stagione della cultura araba in Europa: la fine del regno di Granada (1492)
coincise con lo sbarco di Colombo in America.

Mozarabo
Il Cantar de mio Cid, scritto in castigliano intorno alla metà del secolo XII era considerato il
più antico testo letterario spagnolo.
Trascritto in caratteri arabi o ebraici, il volgare romanzo di queste poesiole farcito di parole
arabe.
Dall’XI al XIII secolo nella Spagna musulmana esisteva una poesia lirica in volgare romanzo.
Le poesiole mozarabe, Di solito quattro versi in tutto, ricorrono ciascuna come parte, finale o
coda.
Designato, con termine arabo, harga, il testo romanzo andava unito ad un tipo di
componimento detto muwassaha: la harga poteva essere scritta in agami, cioè in lingua
straniera, termine con cui i musulmani di Spagna indicavano il volgare romanzo.
Un altro genere poetico era il zajal, scritto nel dialetto arabo in uso nella penisola, mentre la
muwassaha era tradizionalmente scritta in arabo classico.
Stern scoprì per la prima volta una harga in poesia araba e tante altre se ne stanno
scoprendo in manoscritti conservati nelle biblioteche di Tunisia e Marocco; è ben evidente
che la muwassaha con una harga romanza è creazione araba, imitata dai poeti ebrei di
Spagna.
La harga, che si fingeva sempre messa in bocca ad una donna, veniva introdotta dall’ultima
strofa della poesia araba o ebraica.
La grafia semitica rivela chiaramente che le consonanti finali dei presenti indicativi latini
(VENIT e EXIT) erano ancora pronunciate; di particolare interesse è la testimonianza della
palatalizzazione, il transito di -ct- a -ch- dello spagnolo attuale noche risulta peculiare del
solo dialetto castigliano e l’aspirazione di f- iniziale in quanto il mozarabico mostra la
conservazione di f- latina.

Il più antico volgare romanzo della Spagna settentrionale


Le tracce più antiche di romanzo nei documenti scritti precedono l’ascesa della potenza che
avrebbe predominato e mostrano caratteristiche in disaccordo con quelle del castigliano.
Due sono i monasteri importanti: San Millan in territorio allora sotto la crescente influenza
del regno di Navarra che raggiunse il suo massimo splendore sotto Sancho el Mayor e più
ad occidente Silos, in Castiglia.
Ciascuno di questi monasteri ha tramandato documenti latini con glosse romanze note come
“Glosas Emilianenses” e “Glosas Silenses”, scritte in basco.
I documenti latini di San Millan sono più antichi: la scrittura visigotica in cui sono tramandati
li fa risalire agli inizi del X secolo; si tratta di testi religiosi, quindi exempla derivati dalla Vita
Patrum, un Liber Sententiarum e i sermoni attribuiti a Sant’Agostino.

“Con l’aiuto di nostro Signore, Signore Cristo, Signore Salvatore, che è Signore nei
cieli ed è il Signore che ha il potere con il Padre e con lo Spirito Santo, nei secoli dei
secoli. Ci faccia Dio Onnipotente tale servizio che noi possiamo sedere dinanzi alla
sua presenza gaudiosa. Amen.”

Il dittongamento delle vocali aperte si verifica in tutte le posizioni, come in TIENET e lo


stesso fenomeno si trova sia in castigliano che in navarro-aragonese dove però i dittonghi si
sono aperti ulteriormente in IA e UA; il dittongamento della vocale di EST ha prodotto ES in
castigliano.
È inoltre caratteristica notevole l’assenza della declinazione, in quanto tutti i sostantivi e
aggettivi continuano l’accusativo latino, sia al singolare che al plurale.
Il manoscritto che ci ha trasmesso le Glosas Silenses, attualmente conservato nella
biblioteca del British Museum, risale alla seconda metà del X secolo e anche questo è un
testo di carattere religioso che comprende in particolare un lungo Penitencial (sorta di
catalogo dei delitti) nel quale, in luogo dell’ammenda in denaro, viene imposta una
penitenza.
Le Glosas Silenses, pur provenendo da un monastero castigliano, contengono le stesse
caratteristiche navarro-aragonesi delle Glosas Emilianenses (in effetti esiste una stretta
connessione tra i due manoscritti).
Si è pertanto tentati di chiedersi se entrambi i glossatori non abbiano fatto ricorso ad un
precedente glossario, andato perduto, che fosse stato compilato nella stessa regione.
Dall’attestazione delle Glosse di Reichenau, sappiamo che la pratica di usare lessici di
questo tipo era già iniziata nella Gallia del VIII secolo e che due secoli dopo si era diffusa a
tutte le scuole monastiche dell’occidente.
Tali glossari glossavano le forme latine con altre forme latine ma chiunque abbia messo per
iscritto le glosse di San Millan e di Silos compiva intenzionalmente il tentativo di scrivere in
romanzo, spiegando il latino con parole e frasi di uso popolare.
Possiamo considerare le glosse come il primo documento di quella che sarebbe diventata la
lingua nazionale di Spagna.
200 anni dopo venne redatto il Cantar de mio Cid e l’uso intenzionale del volgare nella prosa
non sarebbe divenuto pratica corrente prima della fine del XII secolo: il castigliano è in
ritardo di un secolo sul provenzale.
Sembra che questo intervallo cronologico sia stato in parte provocato da una rinascita del
latino nei monasteri, parallela all’estendersi della rinascita carolingia.
Pressoché aragonese è la lingua di un altro testo, del 1090 particolarmente notevole in
quanto documenta l'evoluzione dell’articolo definito ad ERO, ERA ancora esistente nella
forma ridotta RO e RA.
Gli amanuensi spagnoli, al pari dei loro colleghi francesi, si trovarono a dover risolvere il
problema di rendere graficamente fonemi ignori al latino:

[ j ] palatale -> g / ig

[ ɲ ] e [ ʎ ] palatali -> ng / lg

[ ʃ ] fricativa alveolare -> sc

Alla fine del XI secolo doveva essersi generalizzato l’uso di leggere in volgare ad alta voce
documenti di questo tipo a beneficio degli illetterati, i quali costituivano la maggior parte della
popolazione.
Nelle cancellerie ufficiali dove furono elaborati i “Fueros”, il livello culturale era più elevato, e
il latino più corretto; così quando nel secolo successivo si cominciò a volgere i Fueros in
volgare, fu in conseguenza di un deliberato atto di traduzione che comportava la messa a
punto di nuove norme linguistiche: ha inizio la storia della prosa spagnola.
I più antichi sembrano essere “Los Fueros de la Novenera”, in cui sono numerosi i
riferimenti al re Sancho “el bueno” (Novenera designava una comarca a sud di Pamplona).

Il castigliano
Alla fine del XII secolo, il francese era già mezzo di espressione di una fitta letteratura che
comprendeva poesia agiografica, poesia epica e romanzo cortese; in Provenza le liriche
più famose erano già usate quasi tutte scritte; la Spagna invece è rappresentata da un solo
poema epico, il “Cantar de mio Cid” la cui composizione viene fissata intorno il 1140, scritto
in una lingua che potremmo definire come volgare castigliano, benché vi siano presenti
sporadiche tracce di navarro-aragonese, questo poema è un vero e proprio punto di avvio
nella storia dello spagnolo.
Intorno al 1140 l’egemonia castigliana si era estesa su una vasta parte della Spagna centro-
settentrionale e fu a Medinaceli, nell’estremo sud della attuale provincia di Soria, secondo
l’opinione di Menéndez Pidal, che venne composto il poema.
I fatti narrati appaiono collegati all’antica capitale della Castiglia, Burgos, di dove il Cid
venne bandito, e al villaggio di Vivar, il protagonista è Don Rodrigo de Biuar dal cui
monastero francescano proviene l’unico manoscritto che ci ha conservato il poema.
In vita del Cid, Vivar si trovava per l’appunto sulla frontiera tra Castiglia e Navarra.
Il manoscritto, pubblicato per la prima volta nel 1779 e dal 1960 alla Biblioteca Nacional di
Madrid, comprende 3735 versi e al pari della Chanson de Roland di Oxford, si conclude con
una firma.
Poiché la scrittura è chiaramente trecentesca, si pone un problema di datazione:
considerando che il 1245 dell'era corrisponde al 1207 della cronologia volgare, si ammette
che nell’indicazione del manoscritto sia stata accidentalmente omessa una “C” e che
pertanto la data effettiva sia quella del 1307 (il manoscritto è quindi collocato ad oltre un
secolo e mezzo della data di composizione del testo).
Alcuni studiosi ritengono che in origine fosse scritto in alessandrini, altri preferiscono
individuarvi un metro di ballata a versi alterni di sette e otto sillabe; mentre altri ancora
esoneravano gli amanuensi da ogni responsabilità, affermando che l’eterometria era una
caratteristica particolare delle forme più antiche della poesia epica.
Il protagonista è un personaggio storico ben conosciuto, morto nel 1099, un contemporaneo
cioè di Guglielmo il Conquistatore; nella realtà egli ebbe una vita tumultuosa, spesa a
combattere talvolta contro gli infedeli talvolta contro i cristiani ma la sua impresa più rilevante
fu la riconquista di Valenza ai mori.
Nella leggenda, il Cid è divenuto prototipo del nobile fuorilegge, di cui il popolo dice “che
buon vassallo sarebbe, se solo avesse un buon signore!”.
Il poema ricorda anche altri tratti presenti nell’epica francese ma non raggiungerà mai il
nobile idealismo dei cavalieri cristiani della Chanson de Roland impegnati nella lotta contro
l’infedele.
Le cronache più tarde, in prosa, contengono abbondante materia epica relativa ancora alle
imprese del Cid e alcuni di questi ipotetici poemi (ad esempio il “Siete Infantes de Lara”)
affondavano le proprie radici nella storia spagnola molto più in profondità rispetto al Cid.
Delle primitive redazioni in versi resta solo un frammento di cento versi, scoperto circa 60
anni fa nella cattedrale di Pamplona e battezzato Roncesvalles dal suo primo editore,
Menèndez Pidal.
Un frammento castigliano rinvenuto a Toledo e contenente i primi 147 versi di un mistero,
l’”Auto de los Reyes Magos” inaugura il teatro spagnolo.
Gonzalo de Berceo è il primo poeta castigliano di cui sia noto il nome, un monaco istruito nel
monastero di San Millan, la cui produzione comprende sia una “Vida de San Millan” che
una “Vida de Santo Domingo de Silos”.
Con lui la letteratura spagnola si sviluppa al pari di quella francese da testi che dovevano
essere recitati da un jongleur (il mester de juglaria) verso componimenti più adatti alla
lettura entro una cerchia ristretta di ascoltatori colti (il mester de clerecia).
Quando l’istruzione ottenne il patrocinio regio ebbe inizio la compilazione dell’enciclopedica
Cronica general, in tal modo, l’attività letteraria venne incentrata a corte.
Il progredire del castigliano a sud non era ostacolato, come in Francia, dalla presenza di
un’altra lingua romanza che fosse espressione di una civiltà fiorente: il mozarabo, privo del
sostegno del latino letterario, non godeva di grande prestigio, e la popolazione mozarabica
adattò il proprio volgare al modello castigliano.
A nord, il navarro-aragonese sembrava inizialmente rivaleggiare con il castigliano ma già in
epoca antica esso venne assorbito nell’orbita letteraria del castigliano e del catalano;
durante le fasi iniziali della Riconquista, sia il leonese che l’aragonese compirono qualche
progresso verso sud ma oggi sopravvivono solo in aree remote.

Caratteristiche del castigliano


Il sistema vocalico castigliano venne ridotto dalle sette vocali e dal dittongo del latino volgare
alle cinque vocali conosciute pure dal latino classico e le vocali toniche aperte si sono
dittongate in IE e UE e il secondo elemento di tali dittonghi, nel castigliano comune si è
conservato chiuso AU latino e si è inserito nel sistema chiudendosi in O, il dittongo AI
risultante dalla combinazione di A + YOD si era già ridotto ad E e il dittongo OI si era
sviluppato in UE.
Le vocali postoniche A, E e O si sono conservate lungo tutta la storia del castigliano, pur se
durante il periodo medievale sia attestata la tendenza a elidere la E finale.
Una particolarità dell’evoluzione castigliana è data dal fatto che l’elemento palatale ha
impedito il dittongamento delle vocali toniche aperte del latino volgare (e aperta -> E / o
aperta -> O).
Nei casi in cui l’elemento palatale era esso stesso il risultato di un’evoluzione avvenuta in
epoca medievale, come per ʎ da -LL-, il dittongamento si era già verificato così che in antico
castigliano si trova CASTIELLO ma la palatale ha allora esercitato un’azione simile a quella
svolta nel periodo più antico riducendo IE a I per cui CASTILLO.
Una peculiarità che il castigliano condivideva con le altre parlate dell’area castiglianizzata
era l’elisione della semivocale di UE dopo i nessi consonantici FR e FL (fruente ->
FRENTE).
Le consonanti hanno continuato ad evolversi fino ad oggi e i due fonemi più caratteristici del
sistema consonantico spagnolo, “jota” e “zeta” sono di sviluppo tanto recente da essere
assenti nel castigliano portato nel nuovo mondo.
Il fonema dell’antico castigliano da cui proveniva la jota era ʃ mentre la zeta si è sviluppata
da una precedente affricata TS (per cui nessuno di questi fonemi va preso in considerazione
nel sistema fonologico del castigliano medievale).
B e V si sono confuse nella fricativa bilabiale β, pronunciata con gradazioni di intensità
dipendenti dalla sua posizione nella parola mentre le esplosive intervocaliche sorde sono
state ben presto assimilate alle loro corrispondenti sonore, assieme alle quali hanno perso la
loro qualità di esplosive dando origine alla serie fricativa β, ð, ɣ.
Dinnanzi a I e E, la velare k ha subito la consueta evoluzione romanza, dando TS, più tardi
passata a “zeta” mentre l’evoluzione di g dinnanzi a I e E è più complessa: se la vocale era
tonica, l’esito è stato dapprima dj e poi J mentre se la vocale seguente era atona, la
consonante si è completamente dileguata benché continui ad essere rappresentata da ha H.
Nella maggior parte dei dialetti settentrionali, l’esito normale è stato ʤ assorbitosi poi in ʧ
che attraverso ʃ ha dato infine “jota” anche se in aragonese viene utilizzato CH.
CL, PL e FL iniziali erano divenuti kʎ, pʎ e fʎ che con la perdita del primo elemento hanno
come unico esito ʎ.

Il nesso interno L + YOD a partire dal XII secolo questo ʎ si è ulteriormente sviluppato in
un’affricata ʤ che poi nel XVI secolo ha dato “jota”.
-LL- si è palatalizzato in ʎ e non ha mostrato alcun mutamento fino a tempi recenti dove ha
mostrato la tendenza a ridursi a J e in alcune località dell’Aragona e nelle Austrie ha dato sia
la dentale t sia l’affricata ʧ.
Il nesso N + YOD si è sviluppato, come in francese, in una N palatale ɲ.
In spagnolo moderno, S ha una pronuncia che ad un orecchio straniero suona insolita: si
tratta di una consonante “apico-alveolare”, articolata cioè con l’apice della lingua contro la
zona alveolare degli incisivi superiori mentre per i mori suonava identica a ʃ.

Il grafema f era in uso per rappresentare il fonema h ovvero il copista correggeva “h” dei
prestiti sostituendola con f quindi l’amanuense era consapevole dell’esistenza, nel
linguaggio popolare, di una pronuncia, per lui scorretta, di f come aspirata.
Pidal era giunto alla conclusione che il fenomeno costituiva una chiara influenza esercitata
dal sostrato iberico sul sistema fonologico romanzo; Meyer-Lubke aveva fatto però notare
che in alcuni dei più antichi prestiti baschi del latino, f era stata resa non con h ma con p o b.
La discussione ha conosciuto una nuova svolta per merito di Orr il quale in un articolo ha
formulato una terza ipotesi: accogliendo la tesi di Pidal secondo cui il fenomeno poteva
risalire al latino volgare, Orr dissentiva dallo studioso spagnolo per quanto riguarda il
problema delle sue origini perché per lui l’aspirazione di F non dipendeva da influenza
iberica ma era semplicemente un’alternativa rustica alla sua conservazione già in latino
volgare.
Molti studiosi aderiscono ancora alla teoria di Pidal: l’origine latina del fonema è innegabile
ma l’essenza di f nel basco ha favorito l’assunzione di forme latine con h e in questa
prospettiva, l’azione esercitata dal sostrato fu di determinare una scelta piuttosto che di
avviare un mutamento.
W. von Wartburg, favorevole alla teoria “iberica” suppone che, per influsso del sostrato, f
labiodentale latina, articolata come bilabiale, si sia poi aspirata in h in posizione debole e sia
tornata a f labio-dentale in posizione forte.
La morfologia e la sintassi del castigliano sono il risultato di una normale evoluzione del
latino volgare, quasi priva di anomalie: il lessico si è arricchito non solo di parole di origine
orientale filtrate dal mozarabo, ma anche di prestiti del francese e in misura minore dal
provenzale.
Durante la Riconquista, dall’epoca di Carlomagno in poi, i cavalieri accorrevano spesso sia
dalla Francia settentrionale che da quella meridionale a combattere a fianco degli spagnoli
dei regni cristiani e l’abitudine dei monarchi spagnoli di sposare principesse di Francia
facilitò la introduzione a corte di costumi francesi.
Più importante fu l’insediamento della penisola di monaci del monastero benedettino istituito
nel 910 a Cluny dove vennero fondati nuovi conventi, tra cui il monastero di San Juan de la
Peña che hanno introdotto in Spagna la minuscola carolingia in sostituzione della scrittura
visigotica.
I testi monastici del XI secolo sono scritti per lo più in un latino medievale abbastanza
corretto; nello stesso periodo cominciò a verificarsi un afflusso di pellegrini diretti al santuario
di San Giacomo di Compostela e lungo questo cammino (camino francés) si
consentivano insediamenti francesi che si occupavano di sopperire alle necessità dei loro
compatrioti impegnati nel pellegrinaggio.
Tutti questi elementi si riflettono nei numerosi prestiti presenti nel castigliano antico: termini
cavallereschi, termini cortigiani, termini monastici e relativi ai pellegrinaggi.

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