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Questione Di Chimica (Che Barba L'amore! #3) - Penny Reid
Questione Di Chimica (Che Barba L'amore! #3) - Penny Reid
Copertina
Frontespizio
Colophon
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Epilogo
Questo libro è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi, marchi,
media ed episodi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono
utilizzati in modo fittizio. L’ autore riconosce lo status del marchio di fabbrica
e i proprietari del marchio dei vari prodotti, band e/o ristoranti menzionati in
questo romanzo, che sono stati usati senza permesso.
La pubblicazione/uso di questi marchi non è autorizzata, associata o
sponsorizzata dai proprietari del marchio. Qualsiasi somiglianza con
persone reali viventi o defunte, eventi o luoghi è puramente causale.
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«Grandi notizie!»
L’annuncio di mia madre mi fece sobbalzare. Aveva l’abitudine di
apparire dal nulla e proclamare annunci ad alta voce. Io ero una
persona quieta e le sue grida di solito mi prendevano alla sprovvista.
«Di che si tratta, nocciolina?» Mio padre alzò lo sguardo dal suo
giornale, con un sorriso tollerante in volto. Era molto indulgente con
mia madre da quando lo chalet aveva iniziato a guadagnare bene.
Mia nonna diceva che lui era una persona che incoraggiava
eccessivamente, e che era un bene che mamma non fosse
un’alcolista perché in quel caso lui sarebbe stato quello che le
versava i drink.
«Ho appena finito di parlare al telefono con Jacqueline Freeman.»
Mamma spostò lo sguardo tra me e mio padre.
Eravamo seduti al tavolo della cucina. Era domenica mattina
presto e io mi ero appena seduta, dopo aver passato le ultime
quattro ore a preparare leccornie per la pasticceria. La domenica era
sempre una giornata piena grazie alla folla che andava in chiesa.
Quando continuammo a guardarla con perplessità, lei sbuffò,
scuotendo la testa verso di noi. «Jacqueline Freeman? La talent
agent? A New York?»
«Oh.» Mio padre saltò sulla sedia. «Giusto. Mi ricordo che ne hai
parlato il mese scorso. Che emozione. Di sicuro porterà un sacco di
ricavi agli affari. Era proprio ora di cambiare la barca.»
Io feci una smorfia, contrariata, non coglievo il succo della
conversazione. «Perché avresti parlato con una talent agent?»
«Jennifer, non fare quella faccia. Ti farà venire le rughe.»
Alzai gli occhi al cielo, guadagnandomi uno sguardo severo da
entrambi i miei genitori. «Jennifer Anne Sylvester» iniziò mia madre,
accigliandosi severa, «sai che non mi piace quando ci manchi di
rispetto.»
«Ascolta tua madre, Jennifer» aggiunse mio padre, senza che ce
ne fosse bisogno.
«Chiedo scusa» offrii fiaccamente, mentre una punta di istintivo
senso di colpa mi germogliava in petto. Scossi la testa. «Scusatemi,
sono solo stanca.»
Lo ero davvero. Non dormivo bene da quando avevo ripreso il
fattaccio alla stazione di polizia, a inizio settimana. Non sapevo cosa
fare e non avevo nessuno con cui parlarne.
Mamma non si era resa conto che ero già andata alla stazione e
avevo registrato il video promozionale, per cui non me l’aveva
ancora chiesto. Tutte le accuse contro Razor erano cadute. A quanto
si diceva, era stato arrestato per un reato minore, possesso di droga;
niente di troppo serio, ma quanto bastava a chiuderlo in prigione per
qualche mese.
Senza le prove scomparse, invece non avevano potuto trattenerlo
in custodia.
Non avrei dovuto pensarci due volte a consegnare Cletus alle
autorità. Aveva preso le prove, io l’avevo registrato, per cui avrei
dovuto chiamare lo sceriffo e mostrargli il video immediatamente. Ma
non l’avevo fatto. Ogni volta che pensavo di alzare la cornetta,
pensavo a una scusa: ero troppo stanca, troppo occupata, troppo
comoda sotto le coperte.
Non volevo pensare alla vera ragione per cui non l’avevo ancora
consegnato alle autorità, perché la vera ragione faceva di me una
persona orribile.
Per cui mi tormentavo e cuocevo dolci.
«Non preoccuparti. Ora, dov’ero rimasta? Credo di essermi
scordata di dirtelo.» Mamma iniziò ad agitare le mani per aria, tutta
eccitata. «Beh, dunque: Jacqueline Freeman è una talent agent di
New York, come ho già detto, e di punto in bianco ha ricevuto una
chiamata da quelli della Banana Chiquita, che chiedevano di te. Lei
è in contatto con quelli della Kraft e… lascia perdere. Non è
importante.»
Cercavo di seguire ma facevo fatica a trovare un senso in quella
sua spiegazione sconclusionata. «Quindi, questa signora a New
York...»
«Jacqueline Freeman, una dei migliori talent agent.»
«La signora Freeman ha ricevuto una chiamata da quelli della
Banana Chiquita e chiedevano di me?»
«Esatto.»
«Perché dovrebbero chiamare lei?»
«Perché è così che funziona.»
«Così che funziona cosa? E poi perché hanno chiamato?»
«Non è ovvio? Vogliono che tu sia la loro testimonial. Ti vogliono
nelle loro pubblicità, te e le tue torte.» Batté le mani e poi si rivolse a
mio padre. «Oh, questo ci faciliterà tantissimo le cose con gli
investitori dello chalet. Non appena lo sapranno, l’affare sarà
praticamente concluso. Dio, non sai che peso mi toglie dalla mente.»
Nel frattempo, il mio stomaco iniziò a contorcersi. Mi sentivo come
se dovessi vomitare.
«Pubblicità?» chiesi con un filo di voce.
«Esatto. Televisive, per iniziare, e Jacqueline ha accennato a uno
show culinario più avanti. Ma prima inizieresti come ospite nei
programmi del Food Network. Jennifer, non credo serva dirti quanto
tutto questo sia importante, bambina. Ci siamo, questo è
esattamente ciò in cui speravamo.»
Il cuore iniziò a battermi fiaccamente nelle orecchie, prima di
partire al galoppo. La stanza iniziò a inclinarsi. Cominciai a sudare
freddo. Gola e bocca erano aride come il deserto.
TV? Show culinari?
«Jenn?» fece mia mamma, con voce lontana. «Tesoro, stai
bene?»
Non voglio niente di tutto questo. Non voglio niente di tutto questo.
«Non voglio… Posso...» Cercai di deglutire ma non ci riuscii. La
stanza stava girando. «Posso avere un bicchiere d’acqua?»
«Bambina mia, non hai un bell’aspetto.»
L’oscurità iniziò a strisciare ai margini nella mia visione laterale e
io puntai i palmi contro il piano del tavolo per mantenere l’equilibrio.
Troppo tardi.
L’ultima cosa che vidi prima di arrendermi all’oscurità fu il volto di
mia madre sopra di me, fuori di sé dalla preoccupazione.
Mi svegliai in un’ambulanza.
Al Pronto Soccorso a Knoxville mi fecero un sacco di esami. Alla
fine i dottori decisero che era stata colpa della disidratazione e della
stanchezza. I fluidi mi furono somministrati e io venni rispedita a
casa con un severo ordine di riposare. Quando uscii dall’ospedale mi
sentivo più un puntaspilli che una persona, e avevo deciso cosa fare
riguardo Cletus Winston.
Quando mio fratello se n’era andato di casa per arruolarsi
nell’esercito, anni fa, io mi ero trasferita nella sua vecchia camera,
nonostante fosse più piccola della mia. Mamma non aveva capito
perché volessi la stanza più piccola al primo piano, quella con la
finestra che dava sul porticato quando avrei potuto avere invece
quella più grande al secondo, con la finestra che dava sulle
montagne.
Non aveva capito che mi serviva una via di fuga. Non ero solita
sgattaiolare fuori. L’avevo fatto solo due volte e mi ero assicurata di
non essere scoperta. Ma il solo sapere che me ne sarei potuta
andare, se l’avessi voluto, rendeva la realtà quotidiana meno
opprimente.
Mi piaceva l’idea di poter preparare una borsa, in qualsiasi
momento, e scomparire. Mi piaceva sapere che sarei potuta svanire,
lasciarmi alle spalle gravose aspettative. Non l’avrei mai fatto, non
avrei mai potuto guardarmi allo specchio se avessi ferito i miei
genitori in quel modo, specie la mia mamma, ma mi piaceva sapere
di avere la possibilità di farlo.
La prima volta che ero sgattaiolata fuori di casa avevo diciassette
anni. Un mio amico di penna era a Knoxville e mio padre mi aveva
proibito di incontrarlo. Determinata, ero uscita dalla finestra, avevo
calcato un cappellino da baseball e avevo incontrato Oliver Muller e i
suoi genitori al Daisy’s Nut House per un caffè decaffeinato e una
fetta di torta vecchia di un giorno. Oliver e la sua famiglia erano
davvero simpatici. Era più grande di me di solo un anno e da allora
era andato all’Università di Berlino, dove si era laureato in ingegneria
elettronica.
La seconda volta, avevo vent’anni. Un artista che mi piaceva si
esibiva a Knoxville e mamma non voleva che andassi. Aveva detto
che la gara di pasticceria della fiera statale era alle porte.
Determinata, avevo usato nuovamente la finestra, preso in prestito la
macchina della mamma ed ero andata al concerto tutta da sola e mi
ero divertita come mai in tutta la MIA VITA. Non avevo avuto paura.
Volevo vedere quel concerto, quindi ci ero andata.
Quella sera avrei usato la mia via di fuga per guidare fino a casa
dei Winston e affrontare Cletus Winston.
Ero spaventata a morte.
Ma ero determinata.
Non appena scese la notte, mi infilai i miei jeans di contrabbando,
scarpe da tennis e cappello da baseball, riempii il mio letto di cuscini
e uscii dalla finestra del primo piano. La mia macchina era in fondo
al vialetto e, grazie a Dio, era il nuovo modello elettrico della BMW.
Era silenziosa quanto un bisbiglio.
Feci attenzione a non accendere i fari finché non fui sulla strada
principale. La casa dei Winston non era lontana, bastava risalire per
qualche chilometro la Moth Run Road, e si trovava alla fine di una
enorme proprietà di parecchi acri. Nessuno avrebbe visto la mia auto
dalla strada principale ma, tanto per essere sicura, mi fermai sul lato
della casa, dove un enorme pero era carico di frutti.
Non stetti a indugiare, perché se mi fossi fermata a pensare alla
sensatezza delle mie azioni avrei cambiato idea. Le mie azioni erano
sensate quanto quelle di qualcuno che punzecchiava un orso con un
bastone.
Ma ero disperata.
Se c’era qualcuno che avrebbe potuto aiutarmi, quello era Cletus
Winston: anche se avrei dovuto ricattarlo per indurlo a farlo.
Chiusi la portiera della macchina il più piano possibile e mi mossi
velocemente lungo il portico anteriore, prima salendo i gradini due
alla volta e poi correndo verso la porta. Bussai. Forte. Più e più volte.
E poi aspettai.
Avevo il cuore bloccato in gola per cercare di deglutire per
mandarlo giù. Non potevo mostrare alcuna debolezza. Dovevo fare
la dura.
Io so fare la dura. Annuii, spostando il peso da un piede all’altro.
Posso essere davvero una dura. Non puoi essere una femminuccia
quando sei capace di fare cinquanta pagnotte di pane in un giorno.
Bisogna impastare davvero tanto, per riuscirci. Io sono dura come
una roccia. In pratica sono la Rocky Balboa dei pasticcieri. Sono
inarrestabile! E nessuno mi…
La porta si spalancò. Io saltai all’indietro di mezzo passo. La voce
mi venne a mancare.
Era Cletus.
Rimase sulla soglia, con un mezzo grembiule legato intorno ai
fianchi e un cucchiaio di legno in mano. Sembrava allarmato.
I suoi occhi passarono rapidamente sulla mia figura e disse: «Non
ti conosco.»
Io sbattei le palpebre, sorpresa dalla sua affermazione
palesemente falsa. Non ci eravamo mai parlati, ma di sicuro
sapevamo dell’esistenza l’uno dell’altra. Il fatto che mi stesse
guardando e non mi riconoscesse mi aiutò prodigiosamente nel
vincere la mia paura.
Mi misi le mani sui fianchi, spinsi il mento all’infuori. «Invece mi
conosci di sicuro. Tua mamma mi leggeva le storie il martedì alla
biblioteca e sono andata al catechismo con tuo fratello più piccolo.»
Le sopracciglia di Cletus si alzarono per un attimo davanti alla mia
affermazione, ma nessun altro segno di sorpresa era visibile sul suo
volto. «La Regina della torta alla banana» annunciò senza
emozione. «Cosa vuoi?»
Ancora una volta la sua fu un’accoglienza che non avrebbe potuto
farmi arrabbiare più di così. Per un istante, mi dimenticai di chi fosse.
Mi dimenticai di avere paura. Mi dimenticai di non essere brava a
parlare alle persone, e agli uomini specialmente.
Per un istante, la mia disperazione e la mia irritazione ebbero la
meglio su ogni altra cosa che sapevo di me stessa.
Quindi pretesi: «Devo parlare con te.»
Lui mi guardò torvo. «Non posso. Ho da fare. Ciao.»
Cletus fece per chiudere. Io infilai un piede nell’arco della porta? e
puntai la mano contro il legno solido. «Allora liberati. Devo dirti una
cosa importante.»
Le sue sopracciglia si alzarono nuovamente, più in alto, stavolta.
«Ne dubito seriamente.»
«Vuoi andare in galera?» lo sfidai.
«Per cosa? Per non averti parlato? Ora, so che devi avere
un’opinione piuttosto alta di te stessa, ma tu lo sai che non sei una
vera regina, giusto?»
Mi sporsi verso di lui, sussurrando a denti stretti: «Se non parli con
me, allora chiamerò lo sceriffo e gli mostrerò un video molto
interessante che ho girato la settimana scorsa, in cui ci sei tu.»
Cletus sbatté le palpebre e i suoi occhi si mossero tra i miei, in
cerca di qualcosa. Io serrai la mandibola e sostenni il suo sguardo,
anche se la mia risolutezza si indebolì un pochino perché lui odorava
di cibo italiano. Odorava di lasagna e la lasagna era il mio piatto
preferito, e non mi era permesso mangiare la lasagna. Mamma non
me la lasciava mangiare mai. Diceva che faceva ingrassare troppo.
Il mio stomaco brontolò. Lui non parve sentirlo.
«Va bene» disse all’improvviso, girandosi e posando il suo
cucchiaio in qualche posto che non riuscivo a vedere. Chiaramente
irritato, fece un passo in avanti finendomi quasi addosso e
costringendomi ad arretrare, mentre chiudeva la porta dietro di sé.
«Andiamo.»
Cletus mi superò con passo tranquillo e sicuro, senza aspettare
per vedere se lo seguissi, e scese i gradini del portico. Io lo guardai
andare alla sua auto e aprire la portiera del guidatore.
Senza alzare lo sguardo, mi chiamò. «Datti una mossa, sua
maestà. Non ho tutta la notte.»
Esitai per appena una frazione di secondo, poi seguii le sue orme
fino alla sua macchina, aprii la portiera del passeggero e mi infilai
dentro.
Cletus di solito guidava una Geo Prizm dell’inizio degli anni ’90,
color grigio. A volte guidava una Buick vintage, ma molto raramente.
Mi aspettava nella Geo, a braccia incrociate, con lo sguardo
incollato fuori dal parabrezza. La macchina era piccola e lo faceva
sembrare enorme e imponente. Accese la luce dell’abitacolo e le luci
da lettura. Io chiusi la mia portiera, seguendo il suo esempio. Seguì
un breve silenzio, durante il quale realizzai la realtà della situazione
in cui mi ero cacciata. Fu come essere investita.
Ero sola.
Sola con Cletus Winston. Ero sola con Cletus Winston e nessuno
sapeva dove fossi.
Oh. Cazzo.
«Allora?» abbaiò lui, spezzando il silenzio e facendomi
sobbalzare. «Perché sono qui seduto con te invece di essere dentro
a badare al mio sugo?»
«Ho visto cosa hai fatto» annunciai.
«Hai visto cosa ho fatto» ripeté in tono piatto, sembrava annoiato
dalla conversazione e da me. I suoi occhi erano puntati sullo
specchietto retrovisore.
Ma io non mi sarei fatta ignorare o prevaricare. Non stavolta.
«Esatto.»
«Dovresti essere più specifica. Faccio un sacco di cose.»
Raccogliendo ogni briciola di coraggio dentro di me, dissi: «Ho
visto cos’hai fatto, la scorsa settimana, con le prove contro gli Iron
Wraiths. Le hai prese. E ora non le trovano e lasciano cadere le
accuse contro Razor.»
Finalmente, finalmente Cletus mi guardò. Con mia grande
sorpresa, gli occhi che avevo supposto fossero verdi erano invece di
un azzurro ardente e poi lui sbottò: «Non hai visto proprio niente.»
«Invece sì.» Annuii alla mia dichiarazione. «In effetti, ho un video
che ti riprende mentre lo fai.»
Lui sbatté le palpebre. La sua espressione e la sua voce, di solito
tanto controllate, si incrinarono entrambe dalla sorpresa. «Tu hai
fatto cosa?»
«Ti ho ripreso con il cellulare.» Deglutii per tre volte di fila senza
motivo.
Il suo sguardo si fece affilato tanto da spaventarmi, come se delle
nuvole o una nebbia immaginaria si fossero diradate rivelando un
piccolo barlume del vero Cletus Winston dietro di esse. Quei suoi
nuovi occhi guizzarono sulla mia figura.
«Dimostramelo.» Il suo ordine fu brusco e rapido, come un colpo
di frusta, e mi fece balzare e partire al galoppo il cuore nel petto.
Estrassi il telefono dalla tasca con dita tremanti. Sapevo perché
stavo tremando. Non ero abituata ai conflitti. Avevo sempre pensato
di avere un’indole naturalmente pacifica, preferivo la pace
all’irriverenza. Ma situazioni disperate richiedevano misure
disperate.
Mi strappò di mano il cellulare non appena lo sbloccai e iniziò a
passare da una schermata all’altra finché non arrivò ai miei video.
Trovò quello datato la settimana scorsa, quello in cui avevo ripreso
lo sceriffo James mentre parlava dei miei cupcake e premette play.
Mentre Cletus guardava, vidi una sfumatura di colore sparirgli dalle
guance. Stava guardando quanto avevo colto io la settimana scorsa
mentre rivedevo le riprese. In una metà dello schermo c’era lo
sceriffo. Nell’altra, Cletus era sullo sfondo, si intascava le prove, si
guardava intorno e poi si allontanava.
Cletus emise un suono strozzato che sembrava sia di frustrazione
che di ira. Spostai lo sguardo sulla portiera di fianco a me,
prendendo in considerazione l’idea di fuggire, ma rinunciandovi
immediatamente. Nel frattempo, lui riguardò il video. Quando quello
arrivò alla fine per la seconda volta, il silenzio prese il suo posto,
pesante e duro tra noi. Io lo studiai, tentando in ogni modo di
discernerne i pensieri.
Cletus non aveva alcuna espressione il che, realizzai di colpo, era
tremendamente inusuale. Lui aveva sempre un’espressione dipinta
in volto. Pensierosa, preoccupata, paziente, annoiata, interessata,
austera, turbata. Era strano, per una persona, avere sempre
un’espressione in viso.
A meno che quella persona non si dipingesse le emozioni in volto
come una maschera, allo scopo di celare la vera natura dei suoi
pensieri.
«Hai delle copie?» Il suo tono, freddo e granitico, mi fece
rabbrividire.
Non sembrava per nulla il Cletus Winston imbranato ma affabile
che aveva ingannato tutti quanti sotto i loro occhi. Sembrava
pericoloso.
Mi schiarii la gola prima di poter riuscire a parlare. «Sì. Ne ho fatte
più di una. L’ho salvato in più posti.»
Un lato della sua bocca si alzò per un secondo, ma nei suoi occhi
non c’era traccia di allegria quando li riportò su di me. «Saggia idea.
Altrimenti avrei spaccato il tuo cellulare in un’infinità di pezzettini. E
allora, sarebbe stata la tua parola contro la mia.»
«Esatto» esalai la parola d’un fiato, mentre il buon senso dettato
dalla paura lottava con la mia determinazione.
Ma, dannazione, mi serviva il suo aiuto. E doveva essere lui ad
aiutarmi. Doveva essere lui e basta. Lui poteva far accadere
qualunque cosa. Tutti in città e nei dintorni gli dovevano un favore.
Avevo sentito le voci. Avevo prestato attenzione. Avevo messo
insieme i pezzi del puzzle.
E ora avevo in pugno l’uomo più potente del Tennessee orientale.
“I più grandi segreti sono sempre nascosti nei posti più improbabili.
Coloro che non credono nella magia non potranno mai trovarla.”
- Roald Dahl
Mi serviva un minuto.
Durante quel minuto, feci elenchi vari ed eventuali. Elenchi su
elenchi.
Jennifer Sylvester sembrava aver compreso che non ero ancora
incline a parlare, per cui mi diede il minuto che mi serviva. Apprezzai
il suo silenzio. Alla fine, il battito del mio cuore rallentò fino a un
tranquillo e normale intervallo di pulsazioni e i puntini rossi della
rabbia che punteggiavano la mia vista sparirono. Non avrei perso le
staffe.
«Dunque...» Mi schiarii la gola, assumendo l’aria più calma
possibile considerando che questa debole marionettina minacciava
di mandare a monte in un sol colpo mesi di meticolosi, per non dire
rischiosi, sforzi.
«Dunque» squittì lei, schiarendosi la gola a sua volta, ma non
aggiunse altro. I suoi occhi erano incollati sulle sue unghie lunghe e
rosa, che stava affondando nei jeans all’altezza del ginocchio.
La esaminai minuziosamente. Era chiaramente nervosa,
spaventata, persino. Il suo carattere di poco fa sembrava si stesse
disintegrando. Quella messinscena da donna sicura di sé era stata
del tutto fuori dal personaggio della docile e umile Jennifer Sylvester.
Bisognava ammettere che non la conoscevo molto bene. Non ne
avevo bisogno. Lei era una persona debole. Come la maggior parte
delle persone che conoscevano i suoi genitori, sentivo una certa
pietà per lei, anche se mi godevo enormemente la sua torta alla
banana. Preparava anche un ottimo pane al lievito naturale, muffin
alle zucchine e quiche.
A dire il vero, ogni cosa che cucinava, e che io avevo provato fino
ad allora, era deliziosa fino all’ultimo morso. Aveva un dono. I suoi
numerosi fiocchi blu e i grandi trofei con cui era stata premiata alla
Fiera dello stato erano meritati. Ma era anche un avversario
semplice. Era completamente schiacciata sotto il tallone della sua
ambiziosa madre e del suo zelantemente irragionevole padre. Il
modo in cui l’avevano cresciuta unito al suo debole temperamento
faceva di lei uno strumento, un mezzo per raggiungere un fine.
E questo era triste.
Ma non erano nemmeno affari miei.
Come viveva la sua vita, o come permetteva agli altri di viverla per
lei, non erano affari miei. Avevo appeso il mantello al chiodo, avevo
rinunciato a salvare cause perse. Le persone non volevano essere
salvate. Tutti i miei sforzi per intromettermi erano ora concentrati
sulla mia famiglia e sul renderla felice, che a loro piacesse o no.
Il che mi riportò al presente e alla volubile Jennifer Sylvester. Il suo
disagio era una buona svolta per me.
Mi preparai a sfoderare il mio cenno di assenso austero. «Ascolta,
Jennifer, non credo tu voglia davvero andare fino in fondo.»
Le sue dita si contrassero sulle sue gambe, lei alzò il mento, poi
parlò a denti stretti. «Non dirmi cosa voglio.»
Ok. Approccio errato.
Provai qualcos’altro, abbassando la voce fino a suonare sinistro.
«Dammi la tua parola che cancellerai il video e potremo dimenticarci
di tutto questo.»
Tra le sue sopracciglia apparvero due rughette scontente. «È
troppo tardi, ormai.» Ebbi l’impressione che non stesse parlando con
me. «E poi, non mi fido della tua parola. Perdonare e dimenticare?
Prima o poi ti vendicherai, tu sei fatto così. No… Voglio andare fino
in fondo.»
La fissai, probabilmente a bocca spalancata. Ero sconcertato.
Prima o poi ti vendicherai, tu sei fatto così.
Come poteva saperlo? Mi appoggiai allo schienale e fissai fuori
dal parabrezza, e nel frattempo molto di quello che sapevo
dell’ordine dell’universo trovava un nuovo assetto. Forse Jennifer
Sylvester non era poi così debole. Forse Jennifer Sylvester era
agguerrita.
Non ha alcun senso. Nessuno è tanto bravo a fingersi un
opossum. Beh… nessuno tranne me.
In passato avevo spesso pensato che assomigliasse a un cucciolo
trascurato, desideroso di compiacere gli altri. Questo aveva reso
difficile restare ad assistere al modo in cui era trattata dai suoi
parenti. Così, avevo smesso di guardare.
I miei occhi scivolarono di lato e la esaminarono di nuovo. La
mascella di Jennifer era stretta dalla determinazione, la fermezza le
aveva reso affilata la piccola collina del mento. Il suo volto era
solitamente triste o timido.
Un pizzico di senso di colpa divampò, come una vecchia ferita. Lo
spensi velocemente, improvvisamente ansioso di porre fine a questa
peculiare conversazione e tornare a un mondo che aveva senso.
«Va bene, cos’è che vuoi?» chiesi senza girarci intorno,
rinunciando a ogni finzione. «Perché sono qui fuori? Perché hai
girato quel video e cosa intendi farci?»
Lei esalò un sospiro tremante e poi mi guardò. I suoi occhi erano
in ombra, per via della visiera del berretto. Mi sembrava di ricordare
che Beau una volta aveva detto che i suoi occhi erano viola. Avevo
liquidato quell’affermazione perché, a meno che Jennifer non fosse
albina, cosa che non era, le sue iridi non potevano essere viola.
In ogni caso, non l’avevo mai notato prima, ma la forma dei suoi
occhi era sorprendentemente attraente. In quel momento, costretto a
rivalutare quanto conoscessi di quella donna, mi sorpresi a cercare
di scoprire il colore delle sue iridi mentre lei parlava.
«Non l’ho registrato apposta. Ero lì per riprendere lo sceriffo per
una… Beh, questo non ha importanza. Ma non ti ho registrato di
proposito. Quando ho riguardato il video, più tardi, dopo aver sentito
quanto era successo alla stazione, è stato allora che ho realizzato
che c’eri anche tu.»
«Ok, va bene. Ti credo. Non mi hai registrato intenzionalmente. E
ora?»
«Ho bisogno del tuo aiuto» disse, con tono più dolce, timido; i suoi
occhi erano spalancati e speranzosi.
Questa era la Jennifer Sylvester che conoscevo, non quella di
granito e col fegato.
«Uhm…» Socchiusi le palpebre, scontento della possibilità che
quella donna potesse avere due facce. Di regola, non credevo ai lati
nascosti, ove lati nascosti indicava qualità ammirevoli ma
precedentemente passate inosservate. Io notavo ogni cosa nella mia
osservazione.
Lati costruiti? Sì.
Lati camuffati? Forse.
Ma non nascosti.
Jennifer deglutì nervosamente sotto il mio esame. Colsi il tremore
appena accennato delle sue mani prima che le stringesse a pugno.
«Cosa vuoi?» chiesi. Sarebbe stato inutile menare il can per l’aia.
Lei raccolse una gran quantità d’aria nei polmoni, chiuse gli occhi
e poi ruggì: «Voglio un marito.»
Mi accigliai.
Lei aprì un occhio.
Io sbattei le palpebre.
Lei aprì l’altro occhio.
Aprii le labbra per chiedere un chiarimento, ma poi ci riflettei e
cambiai idea, e mi tappai la bocca.
«Uhm...» Feci un cenno d’assenso estremamente austero.
Ancora una volta mi aveva colto di sorpresa. Jennifer Sylvester
non era agguerrita. Era più pazza di un impasto impazzito.
«Già» continuai ad annuire, spostando la mia attenzione
sull’oscurità oltre il parabrezza, poi ripetei: «Già.»
«Tu pensi che io sia pazza» disse d’un fiato, afferrandomi il
braccio e stringendolo come se io fossi un salvagente.
«Sì. Sì, lo penso.»
Un verso di disperazione le sfuggì dalla gola, poi disse: «Voglio un
bambino.»
Oh Dio santo!
Chiusi gli occhi, aggrottando il volto e scuotendo la testa. «Stai
scherzando, vero? Ha organizzato tutto Jethro? Vuole vendicarsi
perché l’ho costretto a raccontare la storia delle gemelle Tanner a
Natale.»
«No. Non è uno scherzo. So che sembro una pazza, lo sembro
anche a me stessa. Voglio dire, ho ventidue anni e vivo a casa con
mamma e papà. Guardami. Sono una barzelletta. Sono la signora
della torta alla banana. Nessuno vuole sposare la signora della torta
alla banana. Però, Cletus, io lavoro almeno settanta ore alla
settimana. Quando potrei mai incontrare qualcuno che non conosco
già? Qualcuno che non mi ritiene una barzelletta? E poi mio padre
non mi permetterebbe mai di uscire di casa se sapesse che sto
andando a un appuntamento.» La voce di Jennifer si incrinò
dall’emozione.
Cavolo. Sta per mettersi a piangere.
Era un’eventualità che andava scongiurata. Misi la mano sulle sue
a le strinsi una volta.
«Su, su.» È alla frutta quando una torta alla frutta. «Calmati...»
«Non dirmi di calmarmi!» strillò, strappando via le mani. «Sono
sempre calma. Faccio sempre quello che mi dicono di fare. Voglio
solo questa cosa, quest’unica cosa per me stessa. Non è quello che
vogliono tutti, trovare qualcuno? Non mi serve l’amore, mi basta il
semplice rispetto. E la maggior parte delle persone non vuole forse
una famiglia? Allora perché è sbagliato quando sono io a volerla?
Perché fa di me una pazza?»
«Non è il fatto che la vuoi a far di te una pazza. È la parte in cui mi
ricatti perché ti sposi e faccia un figlio con te che mi fa dubitare della
tua sanità mentale.»
Jennifer raddrizzò la schiena, le sue labbra piene si aprirono in
quella che mi sembrò dapprima confusione e poi orrore. «Oh no,
Cletus. No, no. Non voglio sposare te. No, non te. Mi hai fraintesa,
voglio che tu mi trovi un marito. Non ti sposerei mai.»
Non sapendo se a questa rivelazione dovesse seguire sollievo o
risentimento da parte mia, fissai la signorina Jennifer Sylvester in
completo sconcerto.
Lei sbuffò con una risata stanca e si nascose il volto tra le mani.
«Scusami, mi è uscita davvero male.»
«No, ti è uscita giusta. Nemmeno io vorrei sposarmi.»
Lei rise ancora, questa volta sembrò un tantino isterica. «Sai, sei
sempre stato molto spiritoso.»
«Come fai a dirlo?» La guardai contrariato. Era una domanda
seria. «A quanto ricordo, non ci siamo mai parlati direttamente prima
di ora.»
«Sì, ma io ascolto.» La sua risposta mi giunse attutita da dietro le
sue dita. «Nessuno parla con me, allora ascolto.»
«Jennifer, non stai migliorando la tua situazione, a meno che tu
non intenda sembrare una pazza maniaca.»
Lei rise di nuovo, meno isterica, ma forse un po’ più disperata,
mentre lasciava ricadere indietro la testa sul poggiatesta. «Forse
sono una pazza maniaca. Forse non è destino che abbia una
famiglia. Forse sono una causa persa. E, se così fosse, a me sta
bene. Ma devo provarci.»
Jennifer riportò gli occhi nei miei. Anche nell’ombra del suo
cappello la profondità della sua tristezza e della sua risolutezza mi
lasciarono sbigottito. «E tu mi aiuterai a farlo.»
“Indietreggio molte volte, cado, mi fermo, corro verso il ciglio degli ostacoli
nascosti, perdo la pazienza e la ritrovo e cerco di mantenerla…”
- Helen Keller, La storia della mia vita
Hank Weller era bravo a fare due cose: pescare e fare soldi.
In quanto proprietario dello strip club della zona, Hank offriva
spesso ai suoi clienti delle escursioni sulla sua grande barca. Io non
ero un cliente. Ciononostante, mi portava comunque a pescare di
tanto in tanto, se lo chiedevo. Questo perché Beau e Hank erano
ottimi amici, fin dall’infanzia. Beau era il mio lasciapassare.
Era una bella mattina per pescare. Non troppo fredda. Il vapore
acqueo si alzava sopra il lago, annebbiandone la superficie, come se
fosse coperta di garza. Dal momento che era settembre inoltrato, il
lago era circondato sui tre lati da alberi che cercavano di imitare al
meglio i fuochi d’artificio autunnali. Gli uccelli si lamentavano della
loro colazione, ma a parte questo il solo altro suono era quello
dell’acqua, che sciabordava pigra contro la riva.
A me piaceva la natura, eccome, però non mi piaceva pescare.
Ma non avrei mai rinunciato a un’opportunità conveniente di
cancellare una voce dalla mia lista di cose da fare.
«Da quanto tempo, Cletus.» Catfish alzò il mento a mo’ di saluto
mentre saliva a bordo della grossa barca di Hank. «Che hai
combinato negli ultimi tempi?»
Catfish, che non era il suo nome di battesimo, era un comandante
degli Iron Wraiths. Quindi, era uno che contava, ma non tanto da
prendere decisioni. Era un bravo soldato.
«Questo e quello» risposi, con disinvoltura.
«Come sta tua sorella?» La domanda mi fu rivolta da Drill, che fu il
successivo a salire in barca.
«Attento.» Hank si mise di fianco a me, incrociando le braccia.
«Non si parla della famiglia. Non creiamoci problemi inutili.»
«Chiedevo e basta.» Drill scrollò le spalle, due macigni, e ghignò.
Il sole dell’alba si rifletté sulla sua testa pelata. Se Mastro Lindo
avesse preso steroidi, si fosse vestito di cuoio nero dalla testa ai
piedi e avesse avuto l’odore di lubrificante, il risultato sarebbe stato
Drill.
Così lo vedevo io.
Adocchiai la terza persona del loro gruppetto e posai la mano sulla
spalla di Hank. «No, no. Va bene. Ash sta benissimo, grazie
dell’interessamento, Drill. Ha appena conseguito la seconda cintura
nera in Kenjutsu, hai presente, quell’arte marziale in cui usano i
coltelli affilati? Visto che è un’infermiera, lei sa giusto dove pugnalare
una persona. Dovresti vederla scuoiare un coniglio. Siamo molto fieri
di lei.»
Si trattava, naturalmente, di una colossale stronzata, eccetto le
parti sull’essere un’infermiera e sullo scuoiare conigli, perché lei era
davvero brava a scuoiare conigli. Ma Drill spalancò gli occhi,
leggermente piccato, e lasciò perdere la questione.
«Ehi, Twilight.» Accolsi il terzo membro del loro gruppo tendendo
la mano. Lui la guardò, poi guardò me e poi nuovamente la mia
mano. Solo allora la strinse.
Isaac Sylvester, in arte Twilight, che era anche il fratello di Jennifer
Sylvester, non era ancora un membro dei Wraiths. Era quello che si
definiva un “prospect”, un candidato Wraith. Jethro lo era stato circa
cinque anni fa, ma se n’era andato prima di diventarne ufficialmente
membro. Grazie a Dio.
«Cletus» mi salutò, incontrando i miei occhi. Io scrutai i suoi e
scoprii che erano di un semplice azzurro. Mi accigliai.
Da dove diavolo aveva preso, lei, quegli occhi violetti?
«A proposito di sorelle,» adottai la mia aria più bonaria e rivolsi a
Isaac un sorrisino allegro, «come sta la tua?»
La sua mascella si contrasse e i suoi occhi semplicemente azzurri
si adombrarono e guizzarono da un lato all’altro, come se volesse
fare una smorfia senza darlo a vedere.
«Non ho sorelle» borbottò, con le labbra arricciate.
«Sì che ce l’hai.» Allargai il mio sorriso, in un’interpretazione del
buffone benintenzionato. «Prepara torte, no?»
«Sai com’è Cletus…» Catfish intervenne, aspettando di avere la
mia completa attenzione prima di continuare. «Quando un uomo si
unisce ai Wraiths, i Wraiths diventano la sua sola famiglia. Ora
Twilight ha solo fratelli.»
Annuii pensieroso. «Ah, sì. Avevo dimenticato questo particolare.»
Riportai gli occhi su Twilight, per vedere la sua reazione quando
aggiunsi: «Non dev’essere facile per le sorelle, però.»
Isaac guardò in lontananza verso il lago, ma dubito che lo
vedesse. Sembrava assente, impantanato in pensieri gravosi.
Nel frattempo, mi risentii ancora una volta dispiaciuto per Jennifer
Sylvester. Aveva perso il fratello, o almeno per lei era perso. Pensai
a come sarebbe stato per noi se Jethro ci avesse ripudiati per i
Wraiths. Non era un pensiero piacevole. Lo scacciai rapidamente.
«Stiamo aspettando qualcun altro?» Catfish prese una birra dal
frigo portatile e si sedette su una delle panche coperte dal cuscino
del ponte.
«Solo Beau» dissi, lanciando un’occhiata al mio cellulare. Non gli
piaceva essere in ritardo, ma gli avevo ordinato di essere in ritardo.
Mi serviva quel ritardo. In cambio gli avevo promesso che avrei
cucinato la mia salsiccia per cena, quando sarebbe stato il mio turno
ai fornelli la prossima settimana. Andava matto per la mia salsiccia,
ovviamente. «Lo chiamo per vedere dov’è.»
Scesi dalla barca e mi incamminai lungo il molo, fino alla baita di
Hank e ancora oltre, dove Catfish aveva parcheggiato il suo furgone.
Conoscevo quel furgone. Cinque anni fa vi avevo installato delle
botole nascoste.
Quelle botole erano scompartimenti segreti che usavano per
trasportare droga e altre cose del genere ed evitare i controlli della
polizia. All’epoca le avevo installate per aiutare Jethro a tirarsi fuori
dai Wraiths.
Usare le botole ora, come mezzo per smantellare l’intera
organizzazione degli Iron Wraiths era un bonus davvero felice.
Contrariamente a quanto si credeva, installare botole era
perfettamente legale. È legale fintanto che l’ingegnere responsabile
informa le forze dell’ordine locali dell’installazione. Io avevo
informato le forze dell’ordine locali. E poi mi ero assicurato che la
raccomandata non venisse mai alla luce. Era nascosta nel loro
magazzino prove, con un numero di inventario sbagliato. Ma io
sapevo dove si trovava e avrei fatto in modo di farla rinvenire e
giungere sulla scrivania dello sceriffo James quando il momento
sarebbe stato giusto.
Dopo essermi infilato i guanti che avevo estratto dalla tasca, aprii
la portiera del furgone, che non era chiusa perché chiaramente quei
tipi si consideravano intoccabili, e aprii la botola sotto il sedile del
guidatore. Estrassi le prove che avevo sottratto due settimane fa
dalla mia tuta da meccanico, le prove consegnate dai fratelli King
allo sceriffo, e le misi in fondo alla botola assieme a una lista fittizia
di date e posti.
E per “fittizia”, intendevo vera. La sola cosa fittizia della lista era
che l’avevo redatta io a fatti avvenuti, dopo aver osservato le attività
dei Wraiths per gli ultimi otto mesi. La lista di date, nomi e luoghi
serviva a far apparire più organizzato il loro caos di inefficienza.
E l’organizzazione era il punto fondamentale. Creare una
apparente premeditazione e pianificazione era il mio obiettivo, e la
lista il modo di raggiungerlo.
Controllato che tutto fosse in ordine, chiusi la portiera proprio
mentre Beau si fermava con la sua Pontiac GTO del 1967.
Ammirai le linee della carrozzeria. Era una bella macchina, ma
troppo appariscente per me. Come Drew aveva osservato ieri, io
preferivo nascondere le cose in piena vista.
Era il mio talento.
“La vita ha le sue forze nascoste che puoi scoprire solo vivendo.”
- Søren Kierkegaard
Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
Stavo facendo una torta salata imbottita.
Solitamente non facevo torte salate, ma stavo aspettando che il
pane lievitasse per poterlo impastare ancora una volta. Mi ero
svegliata assetata di violenza. Tagliare il burro nella farina per la
sfoglia della torta era quasi tanto soddisfacente quanto impastare il
pane.
Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
Strinsi i denti, pugnalando il burro congelato mentre la domanda di
Cletus continuava a riecheggiarmi in testa. La domanda si ripeteva
ancora e ancora perché non sapevo come rispondere.
Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
Gli ultimi sette giorni erano stati faticosi, e la domanda di Cletus
che continuava a rimbalzare nel mio cervello non aveva fatto che
peggiorarli.
Mamma aveva prenotato un volo per New York a novembre per
incontrarci con Jacqueline Freeman e i tipi del Food Network.
Pertanto, mi aveva messa a dieta.
«Non voglio che tu appaia tutta tonda davanti alle telecamere»
aveva detto.
Il gruppo di investimento alberghiero per cui mia mamma era
andata tanto in agitazione negli ultimi mesi avrebbe visitato il nostro
chalet quella settimana. Sarebbero rimasti per due giorni. Di solito, io
mi incaricavo del menu dei dolci. Era compito mio definire l’elenco
delle proposte della settimana.
La mattina dopo la mia “lezione” con Cletus, lei mi aveva
consegnato due fogli di carta. «Questi sono i dolci che voglio che tu
prepari questa settimana e la prossima» aveva detto. «E ho lasciato
fuori i vestiti che voglio che indossi e scritto le istruzioni su come
sistemarti capelli e trucco.»
Io fissai le sue liste, incapace di proferire parola.
Non avevo mai realizzato quanto mi piacesse pianificare i menu,
quella piccola briciola di autonomia, finché non mi era stata tolta.
Pensavo che le cose non potessero andare peggio.
Mi sbagliavo.
Non appena gli investitori arrivarono, venni sfoggiata come un
pony da competizione. Ormai avrei dovuto esserci abituata, si
poteva pensare, ma non era così. E con la domanda di Cletus che
continuava a riecheggiarmi in testa, i loro sguardi su di me mi
facevano accapponare la pelle. Il più giovane del gruppo in
particolare, un investitore abbronzato - quasi tostato - di Las Vegas,
di nome Allen Northumberland.
«Sei pronta?» La domanda ansiosa di mia madre strappò la mia
attenzione dal mio violento attacco contro il burro. «Saranno qui a
momenti.»
«Sì, mamma.»
«Oh, bene. Hai messo le perle. Sai che mi piace quando indossi le
perle.»
Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
Sospirai piano e mi girai verso il grande frigorifero, posandovi la
sfoglia mezza tagliata della torta imbottita e tirando invece fuori la
torta al cioccolato fondente, meringa e cocco grattugiato di fresco
che avevo preparato in precedenza durante la giornata.
«Assicurati di indossare il grembiule giallo a quadretti che mi
piace.» Controllava il suo riflesso nella scodella di acciaio
inossidabile che avevo preparato per la dimostrazione.
Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
«Sì, mamma.» Sistemai gli utensili sul bancone, superai il
grembiule di Smash-Girl che piaceva a me e scelsi quello giallo a
quadretti, invece.
«Un’altra cosa, Jennifer.» Corse al mio fianco, guardandosi da
sopra una spalla come per assicurarsi che nessuno potesse
avvicinarsi di soppiatto a origliare. «Credo che quell’Alan, lì, abbia un
debole per te» sussurrò.
Io cercai di non rabbrividire dal ribrezzo, ma qualcosa nella mia
espressione doveva avermi tradita.
Lei sbuffò. «Non fare così. È davvero un bell’uomo e non fare finta
di non averlo notato.»
Era bello, era affascinante. Mi faceva anche accapponare la pelle.
«Il signor Northumberland non mi interessa minimamente.»
Lei continuò come se non avessi parlato. «Suo zio possiede due
di quei grossi hotel a Las Vegas, sulla Strip.»
«Quindi?» chiesi impaziente, prima di potermelo impedire. Lo
giuravo, mi era scappato dalle labbra.
«Quindi…» Spalancò gli occhi, guardandomi, e strinse insieme le
labbra, come se il motivo per cui aveva tirato fuori Allen
Northumberland fosse ovvio.
Quando continuai a guardarla senza capire, lei emise un suono
basso e ringhiante dal fondo della gola. «Non fare la finta tonta,
Jennifer. So che hai un cervello, usalo. Quindi io penso che sarebbe
fantastico se tu fossi carina con Allen. È il genere di ragazzo che tuo
padre approverebbe. Durante la dimostrazione, riservagli attenzioni
speciali.»
La guardai accigliata. Poi scossi la testa. Poi aprii la bocca per
dirle: Non intendo farlo.
Ma prima che potessi, mia madre, infondendo nelle sue parole un
significato mirato, disse: «Mi piacerebbe davvero molto se riservassi
attenzioni speciali ad Alan Northumberland».
La mia bocca si serrò di scatto e io fissai mia madre, le sue
sopracciglia alzate, il modo in cui le sue labbra erano strette dalla
frustrazione e mi chiesi cosa sarebbe successo, quale sarebbe stata
la cosa peggiore che sarebbe potuta succedere, se avessi detto di
no.
Rimarrà delusa.
A quel pensiero, il mio cuore accelerò.
Tu la deluderai.
Il mio cuore stava ora galoppando.
Puoi convivere con questo? Puoi convivere con il fatto di averla
delusa?
Non volevo deluderla. Non volevo ferire i miei genitori come li
aveva feriti mio fratello. Non avevo mai voluto essere una persona
simile. La lealtà era importante per me. Io li amavo e il desiderio di
onorare i miei genitori influiva su tutte le mie decisioni.
Ma poi nella mia mente apparve l’immagine di Cletus la settimana
scorsa, che mi chiedeva: «Hai intenzione di fare per tutta la vita solo
quello che piace a tua madre?»
No. Non posso.
La risposta risuonò cristallina nella mia testa, vera e giusta.
Con un respiro profondo, mi aggrappai al bancone della cucina e
guardai mia madre, la fissai dritta negli occhi e mi costrinsi a dire:
«No».
Lei trasalì, le sue lunghe ciglia nere sbatterono rapidamente
mentre apriva e chiudeva gli occhi. «Come, prego?»
«No» dissi, alzando la voce. Le mani mi sudavano e il mio cuore
galoppante mi era risalito fino in gola. «No. Non riserverò attenzioni
speciali al signor Northumberland. Mi mette a disagio e non mi
piace, per cui la risposta è no.»
La mamma rimase a bocca aperta. Io sostenni il suo sguardo.
Nuvole di afflizione e disappunto filtrarono attraverso il suo shock e
si addensarono dietro il suo sguardo. Ma, prima che lei potesse
dargli voce, i nostri ospiti arrivarono per la mia dimostrazione di
pasticceria.
I suoi occhi scattarono al gruppo in arrivo. Vacillò per un momento
prima di riuscire con successo a dipingersi in volto la sua maschera.
Allontanandosi da me, porse la mano al signor Kirkland, un
banchiere d’investimento di Boston.
Intanto io continuavo a tenere stretto il bordo del bancone e a
fissare il cocco grattugiato, mentre il cuore mi pompava
vigorosamente il sangue tra le orecchie, e realizzavo con non poca
meraviglia che avevo appena detto no a mia madre per la prima
volta da quando ero un’adolescente.
Le avevo detto no. Ed ero sopravvissuta. Non sapevo come
sentirmi, sollevata o triste, perché una di noi due sarebbe rimasta
delusa. E questo significava che una di noi sarebbe rimasta ferita.
Ero in anticipo.
L’appuntamento per la nostra lezione del lunedì era alle 21:30.
Erano le 21:17.
Tamburellai sul volante della mia macchina e fissai la porta sul
retro della pasticceria, discutendo le mie opzioni.
Sabato, dopo che Jennifer aveva fatto esplodere la bomba
Jackson James, sua madre si era messa a urlare richiamandola
all’interno della pasticceria. Non avevamo avuto occasione di
terminare la conversazione perché Jennifer mi aveva abbandonato
al margine del parcheggio mentre tornava in cucina con una corsetta
veloce sui suoi tacchi alti.
Ero stato ossessionato e distratto da allora.
Assistere in prima persona al controllo di Jennifer sulla cucina era
stata una visione spettacolare. Continuavo a pensare quanto fossi
fiero di lei, ma poi scacciai il pensiero. Non avevo diritto di essere
fiero di lei. Non potevo prendermi il merito, né indirettamente né in
altro modo, del suo successo e delle sue abilità. Lei ne aveva il
merito. Speravo solo che fosse fiera di sé. E poi c’era la
questioncina di Jackson James e delle sue intenzioni. Il mio intuito
mi diceva che le sue intenzioni non erano candide.
Eppure…
I miei occhi scattarono al cruscotto. Erano le 21:28. Altri due
minuti.
Non spettava a me decidere cosa fare riguardo a Jackson. Io
avevo accettato il compito di aiutare Jennifer a trovare la sua spina
dorsale affinché potesse usarla in ogni aspetto della sua vita e quello
era ancora il mio piano. Nonostante lei chiaramente la usasse già,
nella sua cucina. Con disinvoltura.
Eppure…
La porta sul retro si aprì e Jennifer sporse la testa. Esaminava il
parcheggio alla ricerca della mia auto. Io vidi il momento esatto in cui
la individuò. Uscì completamente dalla cucina e mi fece cenno di
raggiungerla. Io uscii dalla macchina e mi avviai a passo misurato
dove stava lei, sforzandomi di celare il mio conflitto interiore.
«Entra» sussurrò, mentre mi avvicinavo. «Ti ho fatto dei bignè alla
crema. E la torta per Billy è pronta. Ti spiace portargliela?»
«Nessun problema.»
Jennifer si spostò di lato, mantenendo tra noi molta distanza e poi
chiuse la porta. Faceva freddo e io indossavo la mia giacca. Lei mi
girò attorno e andò ai fornelli. Notai che indossava delle pantofole
sotto il suo vestito giallo, i suoi capelli erano raccolti in una crocchia
e si era ripulita il volto dalla maschera di trucco.
Pensai che forse avrebbe avuto quell’aspetto, a casa, dopo il
lavoro, con il marito che desiderava tanto disperatamente. Iniziavo a
rendermi conto che, chiunque fosse stato, sarebbe stato un uomo
molto fortunato.
«Vuoi qualcosa da bere? Oggi fa freddo. Posso fare del tè.»
L’acqua bolliva, o aveva appena finito di bollire, in un bollitore bianco
e blu.
«Un tè non sarebbe male.»
Lei mi rivolse un sorriso amichevole e poi andò a riempire di
acqua calda le due tazze che aveva preparato. La studiai. Sembrava
a suo agio, il che era un grande cambiamento rispetto ad appena
due settimane prima. Il suo smalto era ora di colore blu e al posto
del filo di perle indossava una fine collana d’oro con un crocifisso.
«So che probabilmente sarai stato troppo occupato per pensare al
mio problema, ma mi piacerebbe avere il tuo parere» disse,
mescolando il tè.
«E quale sarebbe questo problema?» Presumevo che intendesse
Jackson James, ma non riuscii proprio a pronunciare il suo nome.
Quel tipo… era una merdina. Più pensavo al suo approccio con
Jennifer durante l’appuntamento con Billy più volevo ingigantire i
miei piani di infestazione con armadilli. O forse volevo solo pestarlo
fino a fargli sputare l’anima. Certo, il suo appuntamento con Billy era
fasullo, ma Jackson era all’oscuro di questo fatto.
Conseguentemente, era una merda.
La giacca mi faceva sentire troppo accaldato, per cui la sbottonai
e la posai sul bancone, poi mi impadronii di uno sgabello e appoggiai
gli avambracci su un tagliere.
«Immagino tu abbia ragione.» Jennifer annuì, chiaramente aveva
letto nella mia domanda più di quanto intendessi. «Non è un vero
problema. È più un mio desiderio.»
Mi dovetti schiarire la gola, mi si era stretta in modo imprevisto.
«Desideravi uscire insieme a Jackson James?»
Jennifer appoggiò il fianco al bancone e scrollò le spalle. «Non
necessariamente Jackson, ma credo che possa fare al caso mio. So
che mio padre lo approva. La sua famiglia è molto carina e mi è
sempre sembrato un gentiluomo.»
Nonostante mi fossi tolto la giacca, mi sentivo ancora bruciare il
collo. Mi ero improvvisamente e profondamente… innervosito. Decisi
di tenere per me quel nervosismo, in parte perché non lo capivo e in
parte perché Jennifer non ne era la causa. Il nervosismo
semplicemente era lì.
Lei non notò la mia difficoltà, teneva gli occhi abbassati sulla sua
tazza quando disse: «Credo...» Iniziò, sospirò, poi iniziò di nuovo.
«Credo di non sapere se sia una buona idea.»
A quelle parole, il mio nervosismo scemò quanto bastava per
riuscire a dire: «Non devi andare. Se non ti senti ancora pronta, o ti
senti impreparata, annullalo e basta».
«No, ho un buon presentimento per l’appuntamento, cioè sono
pronta, Billy mi ha dato un sacco di consigli.»
Il mio nervosismo montò nuovamente, come un’onda. «Che
genere di consigli?»
«Cose di cui parlare e cose di cui non parlare. Mi è stato molto
d’aiuto, per cui grazie per aver organizzato l’appuntamento.»
«Nessun problema.» Più tardi, avrei dovuto tentare di cavare
queste informazioni a Billy, fino a quel momento era rimasto con le
labbra cucite, con mia grande frustrazione. «Allora perché hai dei
dubbi sull’uscire insieme a Jackson?»
Gli occhi di Jennifer scattarono nei miei, poi si allontanarono.
Infine, chiese: «E se volesse baciarmi, Cletus?»
Io risposi con la verità prima di potermi fermare. «È sicuro che
vorrà baciarti, Jenn.»
«Questo è un problema.» I suoi occhi si spalancarono fino al loro
massimo diametro e lei strinse le mani intorno la sua tazza.
«Perché questo sarebbe un problema, oltre per l’ovvia disgrazia
dell’essere costretti a baciare Jackson James?»
Lei ignorò il mio insulto e rispose solo al succo della mia
domanda. «È un problema perché ho ventidue anni e non so come
farlo.»
«Baciare?»
«Già.»
La fissai. Poi il mio sguardo si abbassò e fissai le sue labbra.
«Non sei mai stata baciata?»
«No. Non per davvero, intendo. Timothy King provò a baciarmi,
una volta, ma io non volevo. Mi mise la bocca sul mento prima che
riuscissi a togliermelo di dosso.»
Nota: menomare Timothy King.
«E poi c’è stata la volta in cui ho teso l’imboscata a Drew, ma,
come ho detto, è stato uno scontro di labbra. Non un vero bacio. È
stato terribile al punto che mi sono chiesta spesso se non debba
mandargli una lettera di scuse.»
«Non serve.» Scacciai con la mano il suo suggerimento.
«Voglio dire, sono certa di riuscirci, eventualmente. Quanto mai
sarà difficile?»
Riflettei sul suo problema, perché era un problema. Ancora una
volta, mi aveva colto alla sprovvista. Sapevo che i suoi genitori erano
stati protettivi con lei, ma chiaramente non avevo capito quanto
scrupolosamente l’avessero isolata. Quella donna aveva bisogno di
un bacio.
Ma prima, aveva bisogno di apprendere tutto sul bacio.
«Dunque, da un punto di vista accademico, non è difficile baciare
una persona. Come non è difficile preparare una torta. Ma è difficile
preparare una torta eccellente, giusto? Lo stesso vale per baciarsi.
Le chance di preparare una torta eccellente al primo tentativo
sono...»
«Praticamente zero.»
«Vero. Ma, pur apprezzando il tuo realismo, permettimi di
suggerire di propendere per l’ottimismo. Perché baciare è molto più
che una tecnica. Baciare riguarda anche la chimica che hai con
un’altra persona, come pure la tecnica di lui o di lei. Dunque la
differenza tra baciare e preparare una torta è che ci sono due
persone coinvolte, il che rende il tutto più e meno complicato.»
«Come lo rende più complicato?» Mi passò la mia tazza di tè e poi
bevve un sorso dalla sua.
«Se dovessi cucinare con un partner, dovresti affidarti a quel
partner e sperare che lui o lei sia altrettanto - o più bravo - di te.
Inoltre, dovresti sperare che tra voi due ci sia una buona chimica.
Inoltre, e non lo sottolineerò mai abbastanza, quell’altra persona
deve mantenere la cucina pulita.»
«La cucina pulita?»
«Sì. Se quello che cerchi è un partner che cucini con te per tutta la
vita, devi evitare un pasticciere che cucina con tutti senza distinzioni.
E se decidi di scegliere un pasticciere che cucinava con i partner
senza fare distinzioni, e poi è cambiato, devi assicurarti che faccia
ispezionare a fondo la sua cucina dall’ufficio d’igiene.»
Le sue sopracciglia scure si inarcarono sopra i suoi occhi violetti,
adombrati dalla preoccupazione. «E allora perché sarebbe meno
complicato?»
«Se tu e il tuo partner avete una grande chimica, allora la tecnica
conta meno.»
Lei rifletté sulla cosa per un po’ di tempo, sorseggiando il suo tè e
fissando senza vederlo il bancone tra noi.
Poi sospirò.
«Chiaramente, in questa situazione, io sono il pasticciere più
scarso. A tutti gli effetti, in questa analogia, sono una pasticciera che
non riesce nemmeno a fare un toast. Scendendo su un piano
pratico, immagino che la mia preoccupazione sia di incontrare
qualcuno con cui ho una magnifica chimica e poi rovinare
l’esecuzione, ovvero bruciare il toast.»
«Ma tu insegni alle persone a cucinare, giusto?»
«Sì.»
«Allora hai solo bisogno di imparare una tecnica adeguata del
bacio. Tutto qui.» Alzai le spalle, sperando di trasmetterle l’idea che
non fosse un gran problema. «Non appena avrai fiducia nella tua
tecnica, allora potrai scoprire se c’è chimica.»
«Da come ne parli, sembra che basti cercare negli annunci sul
giornale un insegnante di tecniche di bacio. Le persone normali
come lo fanno? Come fanno le persone normali a imparare a baciare
senza far scappare a gambe levate i bravi baciatori?»
«La maggior parte delle persone lo impara al liceo. Nessuno sa
come baciare al liceo, per cui lì non si trovano che variazioni di baci
sgradevoli o troppo bagnati. Bisogna procedere con parecchi
tentatavi, baciando male, capire cosa funziona e cosa no.»
«Ma vedi, io mi sono persa tutto questo...» Scosse la testa,
evidentemente frustrata. «Sai, fino all’anno scorso non avevo mai
desiderato di essere andata al liceo. Quando a quattordici anni i miei
genitori mi dissero che mi avrebbero continuato a educare a casa,
mi sentii sollevata.»
«Perché?»
«Allora avevo tre amici di penna che frequentavano già il liceo e
dalle loro descrizioni sembrava il sesto girone dell’inferno dantesco.»
La sua descrizione mi fece sorridere. «Può essere così.»
«Ma adesso, ripensandoci, vorrei essere andata al liceo. Vorrei
aver vissuto l’esperienza degli anni di liceo in modo tradizionale, con
tutte le torture che lo accompagnano. Se ci fossi passata, ora non
sarei così stupida. Mi sento come se fossi limitata dalla mia
mancanza di esperienza.»
«Non credo che la tua valutazione sia corretta. In questo caso,
quando si tratta di relazioni interpersonali, non credo che sia
necessariamente un fattore negativo essere inesperti, come non è
negativo essere esperti.»
La sua bocca si strinse in una linea dubbiosa. «Mi riesce difficile
crederlo.»
Io le rivolsi un sorrisone perché, ancora una volta, aveva un’aria
proprio carina. «È vero. Se non ti dispiace ascoltare un’altra
analogia, trovare un compagno è come suonare uno strumento.
Potrei suonare il banjo per anni, e poi rinunciarci per iniziare a
suonare il fagotto. Bene, io non so suonare il fagotto, per cui
sarebbe come ricominciare tutto da capo. Con ogni strumento è
come ricominciare tutto da capo. Nessuno ha tutte le risposte, per
quanta esperienza possa aver avuto in passato.»
Jennifer posò la tazza sul bancone con un tonfo. «Ma,
continuando con la tua analogia, se tu suonavi il banjo, almeno
saprai leggere la musica. Sai cosa significano le note. Io sono come
una persona che, pur non avendo mai sentito una sola canzone,
decide all’improvviso di voler diventare una pianista solista.»
Rimasi in silenzio, perché la sua obiezione era legittima.
«E tu, invece?» chiese, appoggiando le mani sui fianchi.
«E io cosa?» Mi raddrizzai allontanandomi dal bancone,
preparandomi a qualsiasi domanda inaspettata avesse in serbo per
me.
«Cosa cerchi tu? In un partner? Quale livello di esperienza
cerchi?»
«In via ideale, per questioni di efficienza...» Esitai, perché lei mi
guardava come se la mia risposta nascondesse la chiave per il suo
successo futuro, e fosse rivelatoria sugli uomini della mia età.
Considerai se mentire, per farla sentire meglio e migliorare la sua
fiducia in se stessa, ma poi decisi di no. Io preferivo l’esperienza, e
la mia preferenza era indicativa per la maggior parte degli uomini
(quelli che io consideravo normali) della mia età; e per normali,
intendevo uomini senza complessi verso il loro padre, complessi di
superiorità o di onnipotenza. Non conoscevo nessuno che avesse la
mia età o più che cercasse una vergine ingenua e timida da istruire,
a meno che non fossero essi stessi dei vergini ingenui e timidi. Non
che avessi qualcosa contro le persone vergini, ingenue e timide.
Solo che non volevo farci sesso.
Perché il sesso con una donna senza esperienza era
innegabilmente sesso alla vaniglia. Non mi piaceva molto la vaniglia,
o il missionario, o farlo con le luci spente. Non volevo una donna
reticente con il suo corpo, che cercasse di nasconderlo tra lenzuola
e oscurità.
Mi piacevano gusti saporiti e stanze ben illuminate, dove potevo
ammirare tutto quello che rendeva le forme di una donna diverse da
quelle dell’uomo. Mi piaceva variare di posizione, mi piaceva una
donna che avesse energie, che sapesse come usare il mio corpo per
procurare piacere al suo e si approcciasse al sesso con entusiasmo
e non con apprensione.
Volevo una donna che sapesse che le piaceva il sesso, non una
che non aveva ancora deciso per mancanza di esperienza.
Per cui, sì, presi in considerazione l’idea di mentire. Ma poi decisi
di non farlo. Non volevo che ci fossero bugie tra me e Jenn, se
potevo farne a meno. Però addolcii il mio tono di voce. «In via ideale,
io vorrei qualcuno che abbia, se fosse possibile, un discreto livello di
esperienza.»
Il suo volto si rattristò, Jennifer abbassò lo sguardo sul pavimento
di legno.
Una fitta di rimorso che partiva dal mio petto mi strinse la gola.
«Jenn...»
«No. Va bene. Immagino che, in via ideale, vorrei anch’io la stessa
cosa. Non voglio stare con qualcuno che cerca da me istruzioni. Io
non so cosa fare, per cui immagino che mi piacerebbe avere
qualcuno a cui non dispiaccia insegnarmi.»
Senza invito, nella mia mente apparve un lampo di come sarebbe
stato insegnarle. Jennifer Sylvester priva dei suoi vestiti, che mi
guardava fiduciosa. Le mie mani intorno alla sua vita, sui suoi
fianchi, le cosce, mentre scendevo lungo il suo corpo soffice, caldo,
arrendevole, coprendolo di baci… Quel lampo di immaginazione
spinse il mio corpo a una reazione ugualmente improvvisa e
violenta. Una reazione che mi privò di quasi tutta l’aria nei polmoni e
mi lasciò con una scomoda rigidità nei pantaloni, in particolare
perché le immagini non si limitarono a quella.
Come sarebbe stato quando lei avrebbe avuto un po’ di
esperienza? Quando lei avrebbe chiesto di fare quello che le
piaceva? Quando avrebbe sussurrato una richiesta nel mio orecchio
durante una pausa della jam session e saremmo scappati in qualche
posto lontano da occhi indiscreti? Quando mi avrebbe guardato
sicura di sé e consapevole delle sue voglie?
Dovrò comprarmi una macchina più grande. E una scrivania. Mi
piacerebbe farla mia su una scrivania.
«Cletus?»
Mi riscossi, tornando al presente e realizzando, con un certo
disappunto, che avevamo ancora i vestiti addosso e non c’era una
sola scrivania in vista. Ma c’è un bancone da cucina.
«Scusa?» chiesi, lottando freneticamente contro quel fiume di
immagini seduttive.
Lei mi guardò accigliandosi e, involontariamente, i miei occhi
scattarono al suo petto. Come una carogna.
Dannazione. Mi coprii il volto con le mani e mi strofinai gli occhi.
«Stai bene?»
Annuii e stilai una lista mentale. Stilai una lista mentale di tutte le
faccende decisamente non sexy che c’erano da fare a casa, tra cui
pulire il pollaio, affilare i coltelli nel capanno e tagliare la legna, ma
non solo. Dovevo decisamente tagliare della legna dura. Senza
dubbio. Nonostante Jethro avesse tagliato tutta la nostra legna
quando era in rotta con Sienna. E prima ancora, Billy aveva tagliato
una pila di legna quando era in rotta con Claire. ...Claire!
«Claire!» Allontanai le mani dal volto e schioccai le dita.
«Claire? Parli di Claire McClure?»
«Sì. Claire McClure. Dovresti parlare di queste cose con lei. È
molto sveglia. Ed è una donna.»
Gli occhi di Jenn scesero alla sua tazza ormai vuota e si appoggiò
sul bancone coi gomiti, un po’ come avevo fatto io poco prima.
«Pensi che a lei non dispiacerebbe parlare di queste cose? Non mi
conosce nemmeno.»
Afferrai la mia giacca, dovevo andarmene subito.
Subito.
I primi bottoni del suo vestito erano slacciati, il che voleva dire che
l’orlo in cima al suo reggiseno di pizzo era visibile. Era rosso.
Il suo reggiseno era di pizzo rosso. Se avessi dovuto fare
un’ipotesi plausibile, anche le sue mutandine avrebbero dovuto
essere di pizzo rosso. Avevo cominciato ufficialmente a
ossessionarmi. Dovevo andarmene prima che cercassi di
confermare la mia ipotesi.
Per cui annunciai: «Me ne vado». E mi misi la giacca.
Jennifer mi guardò sorpresa. «Te ne vai? Adesso?»
«Esatto.» Cercai goffamente la cerniera. Grazie a Dio domani era
martedì. Martedì mattina il bagno al piano di sopra toccava a me e
ne avrei avuto bisogno.
«Oh.» Si accigliò per la confusione, mentre i suoi occhi
percorrevano il mio corpo. «I bignè alla crema e la torta sono già
pronti nelle scatole. Aspetta, li prendo.»
Annuii, mentre il calore mi saliva dal colletto della camicia.
«Uhm, ci vediamo alla jam session venerdì?» chiese lei, mentre si
piegava nel frigorifero per recuperare i dolci.
Io strappai lo sguardo dal suo fondoschiena e fissai fuori dalla
finestra della cucina, senza mettere niente a fuoco perché ero
tormentato dal pensiero di alzarle la gonna mentre era piegata e di
tutto ciò che ne sarebbe conseguito, incluso, ma non solo: passare
la punta delle dita su per le sue cosce lisce e nude, aprirle le gambe,
infilarle una mano sul davanti del vestito e abbassarle il reggiseno
mentre facevo scivolare l’altra nelle sue mutandine rosse di pizzo…
Già. Ecco a cosa pensavo. E, tra parentesi, ora capivo perché le
vestagliette fossero tanto popolari negli anni ‘50.
Era il caso di farsi una doccia fredda. E yoga. E poi un’altra doccia
fredda.
«Cletus?»
«Sì?» risposi a denti stretti, tentando di stilare un altro elenco di
faccende decisamente non sexy e fallendo miseramente.
«Verrai alla jam session?»
«No. Questa settimana no.» Avevo deciso in quel momento – in
quel preciso momento – di saltare la jam session.
«E venerdì prossimo?»
«No. Non posso. Vado a Nashville. Io e Claire abbiamo il talent
show.» Non potevo aspettare ancora. Schizzai verso la porta sul
retro e mi avviai a passo svelto verso la mia macchina.
Sentii i suoi passi dietro di me e il suono mi blocco di colpo.
L’avevo lasciata con le scatole da portare, ed era scortese. Mamma
mi aveva cresciuto come si deve, e così dovevo comportarmi, anche
se stavo soffrendo di un gonfiore genitale. Mi girai e le andai
incontro, poco oltre la porta della cucina, e presi le scatole.
«Grazie mille. Non era necessario prepararci dei regali.» Mantenni
lo sguardo sulle scatole.
«Nessun disturbo. È il minimo, dopo tutto quello che hai fatto. E
che stai facendo. Tra l’altro, ho qualche compito a casa?»
Compiti a casa. Dannazione.
«Sì. Compiti. Sì.» Annuii, cercando di ricordare cosa avessi
pianificato di darle come compito. Non ci riuscivo, per cui
improvvisai. «Devi parlare con Claire McClure di strumenti e di
cucinare con un partner.»
«Cioè dovrei farle delle domande sul sesso, intendi.»
Oh, per l’amor di… «Già.» Mi girai e scappai verso la mia
macchina.
«Allora mi mandi il suo numero? L’avviserai che la chiamerò?»
Jenn mi stava seguendo, martellandomi di domande. Io avevo
bisogno che mi lasciasse da solo, così avrei potuto smettere di
pensare a come insegnarle a darsi piacere da sola.
«Già.» Aprii il bagagliaio e posai le scatole della pasticceria
all’interno, poi superai Jennifer per arrivare alla portiera del
guidatore.
«Ok. Mi sembra che vada bene. Allora ci vediamo tra due
settimane.»
«Già» dissi, chiudendo la portiera e accendendo immediatamente
il motore.
Jennifer indugiava appena dietro il posto in cui avevo
parcheggiato, con le braccia conserte per proteggersi dal freddo.
Ingranai la retromarcia, ma non premetti sull’acceleratore. Non
potevo andarmene finché lei non fosse rientrata. E lei non si
muoveva.
Grugnendo di frustrazione, abbassai il finestrino. «Cosa fai? Si
gela qui fuori. Torna dentro.»
Lei avanzò strisciando le sue ciabatte, e si piegò all’altezza del
finestrino. Prima che realizzassi cosa stava succedendo, Jennifer
Sylvester posò una mano con la dolcezza di una piuma sulla mia
mascella e un dolce bacio sulla mia guancia. Finì tutto prima che
realizzassi che era successo.
Rivolgendomi un sorriso trionfante, poi si allontanò dalla
macchina. Io la guardai e lei ricambiò il mio sguardo, senza mai
smettere di sorridere. Poi si girò e corse di nuovo verso la porta sul
retro. Entrò. Chiuse la porta.
Non so per quanto rimasi a fissare la porta sul retro della cucina,
ma quando infine guardai l’orologio sul cruscotto erano le 22:46.
Avevo ancora bisogno di una doccia fredda, ma decisi di saltarla.
Tale decisione non aveva assolutamente nulla a che fare con il
fatto che potevo ancora sentire la gentile, calda carezza delle sue
dita sulla mia mascella o la pressione bruciante del suo bacio sulla
mia guancia.
Merda.
«Mettiamo le cose in chiaro: noi, gli introversi, odiamo il bla-bla non perché
non amiamo le persone ma a causa della barriera che erigiamo tra le
persone.»
- Laurie Helgoe, Il potere dell’introverso
«Oh buon Dio. Ti prego, dimmi che non hai usato le parole da un
punto di vista accademico mentre davi consigli alla dolce Jennifer.»
«Potrei aver pronunciato queste parole.» Gli occhi di Cletus
scattarono nei miei e poi si allontanarono. «Non ricordo.»
«Sei un cane a mentire, Cletus Winston. E te lo ricordi benissimo.
Te lo ricordi, hai usato proprio queste parole e non vuoi ammetterlo.»
Io arrossii, mi feci color peperone, mentre i miei occhi saltavano
tra Cletus e Claire. Noi tre eravamo in un camerino, a dividerci una
bottiglia di champagne e un vassoio di stuzzichini lussuosi. Era la
prima volta che bevevo champagne e mi sentivo la testa leggera.
Poco dopo la fine del loro set, una maschera era venuta a
cercarmi tra il pubblico e mi aveva detto che mi attendevano dietro le
quinte. Io mi ero congedata dalla fila dei Winston e avevo seguito la
maschera in un labirinto di corridoi. Si era fermata davanti a una
porta con un pezzo di carta fissato con lo scotch, con su scritto
McClure & Winston.
La maschera aveva bussato, Claire mi aveva accolta con un
abbraccio e poi mi aveva tirata dentro la stanza. «Cletus mi ha
spiegato tutto» aveva detto, passandomi il braccio attorno alle
spalle. «Sono qui per aiutarti. Ora siamo buone amiche e puoi
chiedermi qualunque cosa tu voglia.»
Ecco tutto. E così, Claire McClure, Cletus Winston e io stavamo
parlando di sesso dietro le quinte di un importante talent show.
«Va bene. Ho usato le parole “dal punto di vista accademico”»
Cletus ammise con riluttanza. «Passiamo ad altro...»
«Questo è un problema, Cletus. Non c’è niente di accademico nel
fare l’amore.»
«Mi permetto di dissentire...»
«Ti prego, smettila di parlare per favore, e lasciami chiarire le idee
a questa ignara donna. Smettila di contaminarla con i tuoi punti di
vista accademici.»
Lui fece per alzare gli occhi al cielo ma si fermò. Invece, prese una
carota dal vassoio degli spuntini e la spezzò coi denti. «Va bene.
Spiegale tu allora.»
«Lo farò. Preparati a restare a bocca aperta.»
Lui si accigliò, come se avesse odorato qualcosa di puzzolente.
«Non so se voglio che tu mi lasci a bocca aperta, quando
l’argomento è il sesso.»
«Allora puoi andartene.»
Cletus portò il suo sguardo assottigliato su di me e poi lo distolse,
si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia.
«Rimango. Per ora.»
Claire rise di lui, come se lo trovasse fantastico e spiritoso, cosa
che era, poi spostò il suo sguardo caloroso sul mio, il sorriso le si
addolcì mentre mi osservava.
Quando parlò, lo fece come se fossimo davvero delle buone
amiche, la sua voce era gentile e confidenziale. «Mi ricordo di
quando hai vinto la fiera dello stato per la prima volta, con la tua
torta alla banana. Tua mamma era così orgogliosa e felice, ma tu
sembravi paralizzata dal terrore.»
«Lo ero» ammisi senza problemi.
«Quanti anni avevi?»
«Sedici.»
«E da allora hai vinto ogni anno?»
Annuii.
La fronte le si increspò mentre spostava gli occhi su di me,
valutandomi con aria pensierosa. «Non sei mai stata baciata, o così
ha detto Cletus.»
Annuii nuovamente, lieta che glielo avesse detto, così non avrei
dovuto farlo io. «So che l’ignoranza dovrebbe essere una
benedizione, ma mi sembra sempre più una gabbia, in questi
giorni.»
Un angolo della sua bocca si alzò, ma i suoi occhi sembravano un
pochino tristi. «L’amore è… beh, interessante. Può essere magnifico,
ma anche rovinoso. Capisco la tua lealtà verso i tuoi genitori,
credimi. Ma hai ragione. Sei in gabbia e stai cercando un modo per
uscire. Non affrettare le cose. C’è tempo. Io ero l’opposto di te, a dire
il vero. Quando avevo diciannove anni ero un uccello in cerca di una
gabbia. Che tu mi creda o no, la tua situazione è migliore della mia.»
Annuii solennemente, perché conoscevo la sua storia. Tutti in città
sapevano di Claire, sapevano che era nata col nome di Scarlet St.
Claire, l’unica figlia di Razor Blade St. Claire, presidente degli Iron
Wraiths. Era cresciuta in un club di biker e non doveva proprio aver
avuto una vita facile.
A quindici anni era sparita, per poi rispuntare a Green Valley tre
anni dopo fidanzata con Ben McClure, il figlio del capo dei pompieri
della zona. Si erano sposati quando lei aveva diciannove anni. Lui
era partito per la guerra, lei per l’università. E quattro anni dopo, lei
aveva la sua laurea, ma Ben era morto oltreoceano. Aveva
insegnato al liceo di mio padre, musica e teatro, e si era presa cura
dei genitori di Ben. Proprio l’estate scorsa, si era trasferita a
Nashville per insegnare all’università pubblica. Ma se Beau aveva
ragione, questa sera avrebbe potuto accettare un contratto
discografico, invece.
Appariva indecisa su cosa dire dopo, e quando parlò, iniziò
lentamente. «Lascia che ti racconti una storia. Mio marito...» Claire
si interruppe, i suoi occhi scattarono su Cletus per una frazione di
secondo, poi via. Le guance le si arrossarono, ma lei si schiarì la
gola e superò qualunque vampata di emozioni l’avesse
momentaneamente presa in ostaggio. «Mio marito, Ben, quando era
vivo, adorava giocare a baseball con suo padre. Si allenavano nei
lanci. Lui lo adorava. Quando si arruolò e venne mandato in
missione, insieme a lui c’era un giocatore professionista di baseball.
Per cui ebbe l’occasione di giocare a baseball con un vero
professionista. Voglio dire, questo tipo era fantastico, uno dei migliori
al mondo. Ma quando chiesi a Ben di parlarmene, sapete cosa
disse?»
«No» rispose Cletus di botto, senza che ce ne fosse bisogno.
Gli occhi di Claire volarono su di lui e gli scoccò uno sguardo
piatto e contrariato, prima di continuare. «Disse: “Sai, Claire, è stato
divertente. Ma se potessi scegliere di giocare a baseball con
chiunque al mondo, sceglierei comunque mio padre”.» Fece una
pausa, lasciandoci riflettere a fondo sulla risposta di Ben, e poi
aggiunse: «Questa è la differenza che fa l’amore. Per cui Cletus, da
una parte, ha ragione. Avere esperienza, una buona tecnica, delle
buone mosse, sono tutte cose importanti. Se fai sesso per divertirti o
lo pratichi come uno sport a livello professionale, allora queste
diventano cose fondamentali. Ma se fai l’amore, allora l’esperienza e
le buone mosse sono un bonus, ma non sono poi così importanti. È
la persona, non la tecnica, che fa sì che ne valga la pena».
Sentii il mio sorriso crescere sempre più mentre lei parlava, era
diventato un sorriso a trentadue denti per quando ebbe finito.
Lo sguardo sveglio di Claire sostenne il mio. «Per cui, non
preoccuparti della tua mancanza di esperienza. Aspetta, se vuoi,
perché quando il ragazzo giusto arriverà, non gli importerà della tua
tecnica o della mancanza di essa, e a te non importerà della sua. A
lui importerà di te. Vi prenderete cura l’uno dell’altra.»
Della musica, i suoni smorzati di un’esibizione, invasero il nostro
spazio, ma io non ci badai. Le parole di Claire erano state un
balsamo per i miei nervi. Senza pensare, mi voltai verso Cletus,
forse per ringraziarlo di avermi portato dietro le quinte, per aver reso
possibile questa chiacchierata rubata con Claire, ma
immediatamente le parole mi rimasero bloccate in gola.
I suoi occhi erano già su di me e l’espressione che aveva mi colpì
dritta in petto, una lama rovente di consapevolezza. Era un altro di
quei rari scorci del vero Cletus Winston, senza maschera, al
naturale, ma stavolta non sembrava arrabbiato. Sembrava famelico.
La sensazione rovente si diffuse più in basso, fino al mio addome
e ancora più in basso, alla mia… altra… zona.
Arrossii, mi sentii soffocare dal caldo. Il suo sguardo bruciava ed
eppure io mi sentivo anche stranamente liquefatta sotto di esso,
slegata e alla deriva.
I suoni soffocati si dissolsero, come se fossi stata trascinata
dentro un tunnel in cui solo lui e io esistevamo, Cletus e il suo
famelico appetito e i suoi occhi azzurri fiammeggianti.
Ma poi sobbalzai, feci una smorfia e strappai via lo sguardo da lui,
perché un inaspettato colpo fragoroso si sentì alla porta. Passò un
momento in cui nessuno parlò e io non riuscivo a vedere, ma il
clamore invadente della musica dal vivo giunse alle mie orecchie
seguito dal suono di ovazioni e applausi.
«Apro io» disse Cletus. Aveva la voce rauca, come se non la
usasse da giorni.
Io lo guardai alzarsi, lo guardai andare alla porta, le sue larghe
spalle si alzarono e abbassarono quando prese un ampio respiro.
Notai che le sue mani erano strette a pugno e i suoi avambracci
erano scoperti. Si era arrotolato le maniche fino al gomito. Cercai di
ricordarmi se avessi mai visto le sue braccia prima di d’ora. E se sì,
perché ora mi distraevano così tanto?
Un colpetto gentile contro il mio polpaccio mi fece riportare lo
sguardo su Claire. I suoi occhi erano spalancati, era rimasta a bocca
aperta. Mimò, senza parlare: Tu e Cletus?
Scossi rapidamente la testa.
Lei socchiuse le palpebre e mi percorse rapidamente con lo
sguardo. Annuì col capo, affermando nuovamente senza parlare: Tu
e Cletus. Quella volta non era una domanda.
Sentii lo stomaco fluttuare per una vertigine indotta dal panico.
Scossi nuovamente la testa, sussurrando: «Non c’è niente tra noi,»
proprio mentre Cletus apriva la porta.
«Signor Winston. Una bella performance» esclamò una voce
femminile sconosciuta, attirando la mia attenzione di nuovo verso la
porta.
«Signor Platt, signorina Flom. Immagino vogliate parlare con la
mia partner?» Cletus incrociò le braccia, alzando il mento e
adottando un tono di voce che non gli avevo mai sentito usare prima.
Il suo accento era quasi sparito del tutto. Sembrava uno yankee.
«Dov’è l’incantevole signorina McClure? Vorremmo fare anche a
lei le nostre congratulazioni, magari parlare di qualche cosetta. Ha
ricevuto lo champagne che vi abbiamo mandato?» chiese una voce,
che immaginai appartenesse al signor Platt.
Cletus annuì con un cenno. «L’ha ricevuto.»
«Bene. Bene. Allora magari potremmo...»
«Non perdiamo tempo in chiacchiere.» Cletus si appoggiò allo
stipite della porta e un sorriso amichevole gli incurvò le labbra, ma
da dove ero seduta vedevo che i suoi occhi erano distaccati e
notevolmente scaltri. «Voglio la sua Buick, signorina Flom. Lei vuole
far firmare un contratto a Claire McClure. Sono sicuro che riusciremo
a raggiungere un accordo equo, che lasci soddisfatti tutti i
partecipanti.»
«Che subdolo bastardo» sentii sussurrare a Claire e tornai a
guardarla. Non sembrava arrabbiata. In effetti, sorrideva.
«Lo sapevi?» Mi sporsi verso Claire, per non interrompere i
negoziati sulla porta del camerino.
«Beau mi aveva avvisata» disse con un sussurro.
«Cosa intendi fare?»
Il suo sguardo si soffermò nel mio e vi vidi indecisione, ma anche
eccitazione. «Beh, Cletus vuole quella macchina.» Claire sorrise e
scrollò le spalle. Io ricambiai il mio sorriso, ridacchiando piano.
Lei sospirò felice, e la sua attenzione tornò sull’uomo in questione.
Seguii il suo sguardo, ripetendo le parole che Beau mi aveva detto
meno di un’ora fa. «E Cletus ottiene sempre quello che vuole.»
«Ok, ora che siamo solo noi tre, voglio sapere.» Jessica si girò sul
suo sedile e sollevò le sopracciglia nella mia direzione. Era un’alzata
di sopracciglia entusiasta, per cui sapevo che le prossime parole che
le sarebbero uscite dalla bocca sarebbero state una domanda.
«Cosa c’è tra Jennifer Sylvester e Billy? O sta con Beau, invece? O,
cosa sta succedendo?»
Incrociai lo sguardo di Duane nello specchietto retrovisore. Stava
guidando la mia nuova macchina da Nashville. Jess era seduta di
fianco a lui nel sedile anteriore a panca e io viaggiavo su quello
posteriore, come se avessi l’autista. Gli altri, inclusa la signorina in
questione, erano già partiti per Green Valley sull’aereo di Sienna.
Duane era - di gran lunga - il migliore pilota della famiglia. Io
sospettavo persino del Tennessee. Ogni volta che mi serviva una
fuga veloce su quattro ruote, lui era il mio uomo. Il che significava
che quando sarebbe partito per l’Italia e altre grandi avventure, sarei
rimasto senza pilota per le mie fughe. Era un pensiero deprimente.
Duane si schiarì la gola, si agitò un poco sul suo sedile, ma non
disse nulla. Riportò velocemente la sua attenzione sulla strada.
Non mi era d’aiuto. O, forse, anche lui era curioso.
«Dai, Cletus.» Jessica allungò il braccio oltre il sedile e mi spinse il
ginocchio con la punta delle dita. «Devo tirare a indovinare? Non
farmi tirare a indovinare.»
«Non ha alcun legame affettivo né con Billy né con Beau.»
«Ne sei sicuro?» Insistette Jessica. «Perché Beau sembrava
parecchio amichevole.»
Spostai l’attenzione sul finestrino al mio fianco per non permettere
a Jessica di scorgere il mio malcontento alla notizia. La verità era
che da settimane ero assillato da pensieri su Jennifer.
Io ero… attratto da lei. Fisicamente. Moltissimo.
La sua immagine infestava i miei sogni notturni e a occhi aperti. La
maggior parte era del genere indecente, perché il corpo di quella
donna mi portava a distrarmi. Ma alcune fantasie erano solo
immagini di noi insieme, a parlare e toccarci. Ci toccavamo sempre.
Mi stavo ossessionando per lei sin dalla nostra ultima lezione. Non
aiutava la situazione il fatto che ci avesse recapitato i migliori muffin
mai concepiti nella storia dei muffin.
«Beau è amichevole con tutti.» Imposi alla mia voce di mantenersi
calma e controllai l’espressione sul mio viso prima di voltarmi di
nuovo verso Jess.
«Allora che ci faceva con noi stasera? E l’altro giorno a casa?»
«È un’amica di famiglia.»
Quella donna mi aveva decisamente fatto qualcosa. Il suo
incantesimo mi spingeva a fare e dire cose senza aver prima
riflettuto e premeditato. Avevamo fatto conversazione. Avevamo
parlato di eventi, e delle nostre vite. Io condividevo cose su me
stesso senza che stessi conducendo una partita mentale a scacchi o
avessi ponderato come sfruttare al meglio le informazioni che mi
comunicava a mio vantaggio.
Volevo stare con lei, passare del tempo in sua compagnia per il
solo piacere della sua compagnia, un sentimento che era sia nuovo
e inusuale che assolutamente sgradito.
Jessica affilò lo sguardo. «Da quando?»
«I nostri nonni erano amici. Quindi immagino sia un’amica di
famiglia da quando Don Donner e nonno Oliver si incontrarono per la
prima volta.»
Jess sbuffò d’impazienza e mi schiaffeggiò il ginocchio. «Fai
l’evasivo, Cletus. E quando fai l’evasivo, significa che non vuoi
parlare di qualcosa. E quando non vuoi parlare di qualcosa, di solito
significa che quel qualcosa è davvero interessante.»
Annuii con un cenno austero. «Una teoria molto affascinante.»
Jessica mi scrutò per qualche istante e io ricambiai il suo sguardo
ficcanaso con uno amichevole dei miei.
Ma poi Duane, il traditore, disse: «Credo che Cletus stia aiutando
Jennifer.»
«Duane.» Il mio tono trasudava avvertimento; scossi la testa.
Lui si rifiutò di guardarmi negli occhi dallo specchietto retrovisore.
Invece, sorrise e aggiunse: «Billy l’ha portata fuori qualche settimana
fa, per un appuntamento di prova o qualcosa del genere. Lei non ha
mai avuto un ragazzo, non credo. Hai visto come i suoi genitori la
tengono rinchiusa come Raperonzolo. Secondo me Cletus la sta
aiutando a capire un po’ di cose, così che lei possa fuggire dalla
follia dei suoi genitori».
Fissai a bocca aperta il retro della testa di mio fratello. «Beh! Non
sapevo fossi diventato la pettegola del villaggio.»
Alzò le spalle. «Il prossimo mese partiamo per l’Italia, Cletus. A chi
mai potremmo dirlo? E poi, magari Jess può dare una mano.»
«Voglio dare una mano!» Jessica saltellò sul sedile, rivolgendomi
un sorriso enorme e supplichevole. «Ti prego, lascia che ti aiuti. Ho
sempre pensato che lei fosse così carina e dolce. È un vero peccato
che sua mamma la vesta come una banana. Ma adesso quanti anni
ha? Ventitré?»
«Ventidue» la corressi.
«Ventidue anni sono troppi da vivere sotto il controllo dei propri
genitori. Era ora che si liberasse. Potrei insegnarle un mucchio di
cose. Ti prego, Cletus? Ti prego?» Jessica ripiegò le dita sotto il
mento e mi guardò sbattendo le ciglia.
Io mi corrucciai, per Jessica e per la sua proposta inaspettata.
Non mi piacevano le proposte inaspettate, come regola, ma Jessica
era una brava persona. E aveva, senza dubbio, spina dorsale.
«Non sto dicendo di sì,» alzai un dito ammonitore tra noi, «ma, se
lo facessi, cosa le insegneresti per prima cosa?»
Gli occhi di Jessica si sollevarono in su, verso destra, come se
stesse recuperando delle informazioni conservate in qualche
scompartimento femminile segreto del suo cervello.
Nel frattempo, io pensavo alla mia passeggiata con Jennifer lungo
il ruscello Yuchi. Non avevo programmato di parlarle del mio
fratellastro. Era semplicemente… successo. La relazione
clandestina di suo padre, il suo disprezzo verso i voti nuziali, mi
ricordavano il mio di padre fedifrago.
Quei due erano una bella coppia di stronzi.
«Non dare di matto» ordinò Jessica, riportando infine il suo
sguardo nel mio.
«Perché dovrei dare di matto?»
«Perché, in tutta sincerità, la prima cosa che io farei sarebbe
procurare a quella donna un vibratore.»
Nella macchina scese un silenzio scioccato. O per lo meno, io ero
scioccato ed ero quasi sicuro che lo fosse anche Duane. Ma poi
Duane esplose in una risata. Jessica non rise. Lei sorrideva
speranzosa. Io non risi. Ero afflitto da improvvise e vivide immagini
di Jennifer mentre si dava piacere.
Quel suggerimento era pessimo quasi quanto il sentito appello di
Claire di qualche ora prima che Jennifer cercasse l’amore piuttosto
che l’esperienza, come anche il materiale visivo che quella
conversazione aveva evocato. Dannazione.
«Ascoltami un momento.» Jessica agitò le mani tra noi, come per
comunicarmi di raffreddare i bollori. «Se ripenso a quando ero
un’adolescente e non avevo la più pallida idea di cosa diavolo
volessi, vorrei che qualcuno mi avesse dato un vibratore.»
«Io ti avrei dato ben più di quello» borbottò Duane.
«Oh buon Dio» mormorai e alzai lo sguardo al cielo.
Jess spostò l’attenzione su Duane, con il suo sorrisetto che
cresceva allusivamente, poi ritornò su di me. «Dico davvero. Le
ragazze non sanno niente di queste cose. Mia mamma non me ne
ha mai parlato, per cui ti garantisco che nemmeno Diane Sylvester
ha mai detto una parola al riguardo a Jennifer. Lei è stata educata in
casa, per cui probabilmente ne sa ancora meno. E suo padre
controlla le sue ricerche online sia sul portatile che sul cellulare. Se
ne vantava sempre con noi insegnanti. Sono convinta che
quell’uomo sia un sociopatico. Al confronto dei Sylvester, i miei
genitori sembrano dei progressisti.»
Questa notizia non mi sorprendeva. La differenza principale tra
mio padre e Kip Sylvester era che Darrell non aveva mai finto di
essere un pio santarellino. Il padre di Jenn, invece, spargeva
ovunque il suo letame santimonioso. La mamma una volta mi aveva
confessato, con foga e furore, che Kip spesso citava in modo errato
la Bibbia per tenere sotto controllo i figli. Jennifer e Isaac avrebbero
meritato di meglio che crescere nell’ipocrisia bigotta del loro padre. E
la loro madre meritava di meglio che essere tradita da quell’uomo.
«I tuoi genitori sembrano persone molto gentili.» Mi sporsi in
avanti sul mio sedile. «Lo sceriffo mi è sempre sembrato un uomo
molto ragionevole.»
«Tu gli piaci, Cletus.» Duane mi lanciò un’occhiata e poi tornò a
concentrarsi sulla strada. «Il papà di Jess ti stima moltissimo.»
Fui sorpreso da quella notizia, non perché lo sceriffo mi avesse
mai trattato male, al contrario. Mi aveva sempre trattato in modo
imparziale, come trattava tutti gli altri.
Una strana fitta di senso di colpa mi si risvegliò tra le costole.
Stavo trafugando prove dall’ufficio dello sceriffo James da mesi, per
poi riposizionarle in ubicazioni strategiche assieme a elenchi
contraffatti di attività di riciclaggio di denaro sporco e strozzinaggio.
A mia difesa, gli elenchi erano un resoconto accurato delle reali
attività di riciclaggio di denaro sporco e usura del club di biker, ma i
Wraiths erano disorganizzati in maniera irritante. La loro contabilità
non aveva alcun metodo. Per cui io avevo riportato nero su bianco i
dettagli per far sembrare il club più organizzato. Le prove rubate
erano un bel fiocco con su scritto “intralcio alla giustizia” che serviva
per tenere insieme il tutto.
Senza la mia interferenza, le prove rubate da sole avrebbero
potuto condurre all’arresto di diversi membri degli Iron Wraiths.
Quegli arresti sarebbero stati delle piccole vittorie per lo sceriffo. Ma
si sarebbe trattato di vittorie momentanee, perché nessuna delle
prove avrebbe condotto il club alla rovina. Io guardavo il quadro
nell’insieme. Aiutare il club a sembrare più organizzato nelle sue
attività criminali avrebbe portato alla loro rovina, perché un’accusa di
associazione a delinquere non avrebbe solo rimosso il capo
dell’organizzazione, ma chiunque fosse coinvolto.
Sarebbero andati tutti in prigione per tanto, tanto tempo quando io
avrei terminato l’opera. Ogni. Singolo. Membro.
Anche Isaac… Questa realizzazione mi fece fermare a riflettere.
«Cletus?»
Tornai a prestarle attenzione, dato che il sorriso supplichevole di
Jessica non si era spento.
«Forse penserai che sia pazza, ma non lo sono. Ho ragione. E tu
sei intelligente. Quindi sai che ho ragione. Dai un pesce a un uomo e
lo sfamerai per un giorno, ma...»
«Dai un vibratore a una donna e godrà per tutta la vita. Ho
capito.» Zittii Jessica con un cenno della mano, guardando fuori dal
finestrino alla mia sinistra, mentre ponderavo il suo consiglio.
Mi sembrava un passo importante. Non volevo terrorizzare quella
donna con giocattoli sessuali. «Non saprei, Jess. Non ho la più
pallida idea di come potrebbe reagire. Mettiti nei suoi panni.»
«Vuoi aiutarla? La chiave per farlo è emanciparla.»
«Lo so.» E lo sapevo davvero. Per questo il secondo compito a
casa per lei era stato di apportare dei cambiamenti, ma solo i
cambiamenti che lei desiderava.
Jess continuò a insistere. «È già cambiata. Il modo in cui si veste,
in cui si pettina, in cui dice la sua. Ed è magnifico, è bellissimo da
vedere. Sta prendendo il controllo della sua vita un passetto alla
volta.»
«Io che mi presento con un dispositivo di stimolazione genitale,
non mi sembra un passetto.»
«Allora lascia che lo faccia io.»
La guardai di traverso. «Cosa?»
«Lascia che lo faccia io. Tu la porti da Big Todd e io l’accompagno
dentro. Così si potrà anche scegliere il colore!»
Gemetti, mentre un nuovo e vasto assortimento di immagini luride
mi assaliva la psiche: Jennifer in bagno, in piedi, che usava il suo
giocattolino; Jennifer in bagno, in piedi, mentre usava il suo
giocattolino davanti allo specchio; Jennifer in bagno, in piedi, mentre
usava il suo giocattolino davanti allo specchio mentre io le stavo
dietro e… Gemetti di nuovo.
La domanda non era se Jennifer avrebbe saputo gestire o no la
novità di un vibratore. La vera domanda era: ne sarei stato capace
io?
Cletus uscì dal Piggly Wiggly come se avessimo alle calcagna dei
segugi infernali. Venire gettata all’improvviso sulla sua spalla mi
aveva sottratto tutto il fiato dai polmoni e boccheggiavo in cerca di
ossigeno, incapace di trovare un appiglio mentre mi sforzavo di
tossire. Ma non corsi mai il rischio di cadere. Nonostante procedesse
a passo spedito, non mi smossi né scivolai dalla sua spalla.
Lui ci portò dritti al parcheggio, mi posò davanti a una macchina
per me sconosciuta e poi aprì la portiera del passeggero.
«Sali» ordinò, guardandosi da sopra la spalla.
Io ero frastornata, dei puntini neri apparivano e scomparivano dal
mio campo visivo, ma gli avvenimenti nel negozio – essere
sbatacchiata qua e là da Drill, da mio fratello e infine da Cletus –
stavano infine venendo registrati dal mio cervello.
«Non ci penso proprio» ansimai tossendo, mentre un’ondata di
qualcosa di oscuro e feroce montava dentro di me, ed emergeva in
superficie facendomi sentire le ossa gelate e rigide.
Ero solo così… Ero solo così incredibilmente arrabbiata. E mi ero
stancata delle persone che mi dicevano cosa fare.
«Dannazione, donna, sali in macchina, ti prego.» Cletus si infilò le
dita tra i lunghi capelli.
«Non ci penso proprio a salire nella tua cavolo di macchina»
strillai, spingendogli il petto. Sentivo il bisogno di urlare.
Cletus sobbalzò, chiaramente sbigottito dal mio scoppio d’ira, ma
nell’istante successivo era nel mio spazio personale, piegò la bocca
al mio orecchio e disse: «Sette membri degli Iron Wraiths ci stanno
tenendo d’occhio – non guardare! Sono a due file di distanza, dietro
di me. Io ho appena aggredito uno dei loro fratelli. Devi salire dentro
la macchina prima che Twilight esca con i suoi nuovi connotati o Tina
inizi a gridare come un’ossessa. Non ti costringerò a salire in
macchina, ma non esiste che ti abbandoni qui».
Il terrore che provai mi fece riflettere e squarciò la nuvola della mia
rabbia. Le mie mani si alzarono automaticamente sulle braccia di
Cletus, la sensazione della sua solida forza sotto la punta delle mie
dita era rassicurante. Inclinò il capo all’indietro di qualche centimetro
e fissò intensamente in basso, verso di me, le sue sopracciglia si
sollevarono appena. Potevo quasi sentire la sua voce nella mia
testa, che mi intimava: «Entra in questa cazzo di macchina adesso,
dannazione. Per favore».
E senza dire un’altra parola, mi infilai sul sedile del passeggero e
chiusi la portiera dietro di me, per poi allacciarmi di corsa la cintura.
Provavo l’istinto pressante di guardare i biker, ma non lo feci. Invece,
tenni gli occhi deliberatamente fissi sul cruscotto mentre Cletus
faceva il giro davanti al cofano e poi entrava dal lato del guidatore.
Accese il motore, ingranò la retromarcia e uscì dal parcheggio
come se non fosse successo nulla. Ma poi udii un grido. La paura mi
fece risucchiare un grosso respiro mentre la sagoma di Tina
Patterson usciva dal negozio di alimentari e ci indicava.
«Prendetelo! Ha steso Twilight! Sta rapendo sua sorella!» strillò,
agitando le braccia per aria.
Incapace di trattenermi, mi girai sul sedile e, con mio grande
orrore, vidi il convoglio di biker guardare ora Tina ora noi. Alla fine,
registrarono le sue parole e scattarono in azione.
«Tieniti forte.» Cletus schizzò via dal parcheggio, a quel punto era
inutile muoversi furtivamente, e si lanciò a velocità folle lungo la
strada principale. Io feci come mi aveva ordinato e mi aggrappai alla
portiera e allo schienale del sedile, contenta di essermi già allacciata
la cintura.
La sua auto era veloce, ma anche grande. E i biker erano più agili
sulle loro motociclette. Un gruppetto tagliò per il parcheggio,
inseguendoci in diagonale mentre Cletus era costretto a prendere
una curva. Due erano praticamente alle nostre costole, gli altri a
poca distanza.
«Il mio cellulare è nel portaoggetti. Devi chiamare Duane e
metterlo in vivavoce.» Considerata la situazione, la voce di Cletus
era notevolmente calma. Divideva la sua attenzione tra lo
specchietto retrovisore e la strada davanti a noi.
Le mie dita tremavano in modo irritante mentre cercavo
goffamente il suo cellulare.
«La password è uno, zero, uno, zero.»
Annuii digitandola rapidamente, poi cercai Duane tra i suoi contatti
e premetti il bottone del vivavoce.
Il cellulare iniziò a squillare e io scrutai dietro di noi. I due biker
non erano riusciti ad avvicinarsi di più perché Cletus guidava come
un pazzo, continuando ad accelerare mentre si muoveva a zig zag
per superare le poche macchine in strada.
«Cosa succede?» Duane rispose al terzo squillo.
«Sei a casa?»
Duane esitò per un momento, poi disse: «Lì vicino».
«Quanto vicino?»
«Molto vicino.»
«Ascoltami. Ho sette Wraiths alle costole, non posso spiegare ora.
Ho bisogno del tuo aiuto.»
«Dimmi cosa ti serve.» Duane non esitò, ma nel suo tono c’era
una durezza singolare che mi fece rizzare i capelli sulla nuca.
«Le chiavi della Buick sono nel primo cassetto del mio comodino.
Porta la Buick in fondo al vialetto, tieni i fari spenti e aspetta che
passi davanti la casa. Sto guidando la macchina gemella, noi
saremo lì tra circa cinque minuti. Non appena ti supero, infilati sulla
Moth Run e accendi i fari. Io spegnerò i miei e prenderò la strada
secondaria dietro la casa. Tu li attirerai via.»
«E dove vuoi che li porti?»
«Porta questi gentiluomini alla stazione di polizia e poi esci dalla
macchina, così capiranno che li ho seminati. Se ne andranno
quando vedranno che si tratta di te, e dove ti trovi.»
«Oppure potrei portarli a fare un bel giretto.»
«No. Se ti prendessero, non finirebbe bene.»
«Non mi prenderanno mai.» Duane fece un verso di scherno.
«Duane, fai come ti dico e basta.» Cletus si allungò e chiuse la
chiamata.
Io strinsi il suo cellulare e guardai nervosamente lo specchietto
retrovisore dal mio lato. Non dissi nulla, perché probabilmente Cletus
riusciva a vederlo da sé, ma uno dei biker si era quasi affiancato dal
mio lato. Era talmente buio che non riuscivo a scorgere cosa stesse
facendo. Poteva anche avere una pistola.
I minuti che seguirono furono terrificanti, ma rimasi in silenzio, non
volevo distrarlo da quello che doveva fare. Il cuore mi batteva a
velocità tripla quando la casa Winston apparve in vista, arretrata
rispetto alla strada e illuminata come una vecchia e imponente
magione. La fine del vialetto era immersa nel buio, ma io sapevo che
Duane ci sarebbe stato.
Cletus premette l’acceleratore e io venni schiacciata contro il
sedile, tenevo gli occhi incollati allo specchietto laterale. Le luci delle
motociclette si stavano riducendo a dei piccoli puntini lontani mentre
Cletus metteva più distanza tra noi. Chiaramente si erano aspettati
che la sua destinazione fosse casa Winston.
Non appena superammo la fine del vialetto, Cletus spense i fari.
Quasi immediatamente dopo, inchiodò e sterzò bruscamente da un
lato, infilandosi in una strada che non avevo mai notato. O forse non
era neanche una strada. In ogni caso, era troppo buio per
distinguerla. Eravamo circondati dall’oscurità e dalla foresta e la
macchina sobbalzava violentemente. Potevamo benissimo essere
sul punto di schiantarci contro un albero, per quanto ne sapevo.
Invece di dar voce alla mia incertezza e alla paura, mi risucchiai le
labbra tra i denti e mi tenni forte.
La macchina si fermò di colpo. Lui spense il motore e il silenzio si
avvolse attorno a noi come una coperta. Poi sentii il rombo di una
macchina superarci, seguito immediatamente dagli echi di varie
motociclette. Meno di un minuto dopo, ne sentii molte altre. I rumori
aumentarono in un crescendo, poi iniziarono a svanire. E poi più
nulla.
Lui sganciò la cintura di sicurezza, il suono improvviso mi fece
sobbalzare e rimasi ad ascoltare mentre faceva lo stesso con la mia.
Allungò le braccia e mi afferrò, mi tirò a sé lungo il sedile unito e mi
strinse in un abbraccio fortissimo. Le sue mani si muovevano per il
mio corpo, come se fossero in cerca di qualcosa.
Sentivo il cuore martellargli nella sua gabbia toracica, il primo
reale segno che non era poi così calmo e controllato. Stranamente,
realizzare che non fosse immune alla paura mi aiutò a sentirmi meno
impacciata dalla mia.
«Ehi, ehi.» Mi tirai indietro, ma di poco perché le sue braccia non
mi permisero di andare lontana. «Stai bene?»
«Tu?» Mi rigirò la domanda, le sue mani salirono al mio volto,
alzandomi il mento all’indietro. Non riuscivo a distinguere nulla, ma
avevo l’impressione che lui potesse vedermi. Il suo pollice seguì la
linea della mia mascella, poi mi accarezzò leggero lungo il lato del
collo, facendomi rabbrividire. «L’ultimo pezzo non è stato il massimo
per gli ammortizzatori. Ti sei fatta male?»
Scossi la testa, non riuscivo bene a parlare perché il posto in cui
mi trovavo – in mezzo al nulla – e in più la persona con cui mi
trovavo – l’uomo a cui pensavo senza sosta – facevano sì che il mio
corpo rispondesse e reagisse in modi su cui non esercitavo molto
controllo.
Nonostante l’adrenalina che ancora circolava nel mio corpo, o
forse a causa di essa, non potei non notare l’intimità della nostra
posizione. Come ero seduta a cavalcioni su di lui, come i nostri petti
erano premuti assieme, come lui odorava di menta e sapone e
dopobarba, e Cletus.
Lui liberò un sospiro; mi ricadde sul volto, mi sembrava di sollievo.
«Bene. Non capivo. Eri così silenziosa. Non riesco a credere a
quanto tu sia stata silenziosa, per tutto il tempo non hai detto una
parola.» Sentii il suo sguardo su di me, ma lui rimaneva nell’ombra.
«Sei in stato di shock?»
Scossi di nuovo la testa, feci scivolare le mani dalle sue spalle ai
suoi bicipiti, apprezzando la sensazione dei suoi muscoli sotto le mie
dita. Toccarlo, sentirlo sotto di me, essere circondata da Cletus
faceva annodare e poi sciogliere il mio stomaco, mentre un calore
struggente si raccoglieva in basso nel mio grembo, tra le gambe.
«Cletus» sussurrai, risalendo di più lungo le sue gambe, col
desiderio di premermi di più contro di lui, chiedendomi, così
all’improvviso, che sensazione mi avrebbe dato la sua pelle.
Desiderai – con eguale fulmineità – che la barriera dei nostri vestiti
non esistesse.
Lui si fece completamente immobile e avvertii il cambiamento del
suo respiro. Riusciva a vedermi. Forse non perfettamente, ma era
ovvio che distinguesse i tratti del mio volto.
«Jenn...» Il mio nome fu un ringhio basso, non proprio un sussurro
e non proprio un sospiro.
«Mi manchi» gli dissi, e l’istinto mi spinse a ondeggiare contro di
lui, per cercare di dare sollievo allo struggimento nel mio centro.
«Oh cazzo, non fare così.» Mi afferrò le braccia come per tenermi
ferma.
Ma io non volevo restare ferma. Volevo baciarlo. Per cui, lo feci.
Gli coprii la bocca con la mia, liberandomi dalla sua presa sulle
mie braccia per avvolgerle attorno al suo collo. All’inizio lui non fece
nulla, ma non m’importava. Aveva comunque un buon sapore, e la
sua bocca era calda e morbida e meravigliosa. Io lo volevo, per cui
me lo presi. Feci guizzare fuori la lingua e lo leccai, come lui aveva
fatto con me undici giorni prima, adorando il modo in cui rispose
schiudendo le labbra e gemendo.
All’improvviso e in modo decisamente energico, lui iniziò a
partecipare. Mi afferrò i capelli raccolti nella coda e io ansimai, a
bocca aperta. Lui catturò il mio verso di sorpresa, la sua lingua
adorava con esperienza la mia; usò la presa sulla mia coda per
spingermi a piegare la testa di lato, spalancandomi e consumandomi
con i suoi baci.
Lo sentii allungarsi e indurirsi contro il mio interno coscia, e il mio
corpo fu percorso da un fremito in risposta. Senza pensare, mi
premetti in giù, e mossi i fianchi. Le sue gambe si tesero, i suoi
muscoli si fecero come granito e lui strappò via la bocca.
«Jenn...»
«Non fermarti.»
So che non sono quella che vuoi, ma non osare fermarti.
Mossi le dita nel suo giubbotto, spingendoglielo via, sempre in
cerca delle sue labbra. Trovai invece il lato del suo viso, ma non mi
importò. Gli baciai lo zigomo, la mascella sotto la barba, il collo.
«Non mi fermerò» ringhiò, tirando fuori le braccia dal giubbotto,
suonava stizzito e impaziente. Le sue dita ritornarono
immediatamente, mi affondarono nel didietro.
Gli morsi nuovamente il collo, mi piaceva il sapore che aveva, la
consistenza della sua pelle sotto la mia lingua.
Le mani di Cletus scivolarono sotto l’orlo della mia maglietta,
risalirono i lati della mia vita fino alle mie costole, massaggiando e
strizzando, ogni tocco scatenava un brivido di nervosismo e
consapevolezza che correva nel mio corpo. Poi lui salì più su,
appallottolando il maglione sotto le mie braccia, e spostando le mani
per avvolgermi i seni da sopra il reggiseno. Io rabbrividii, un breve e
bollente sussulto di meraviglia mi sfuggì dalle labbra; lui mi abbassò
il reggiseno e strofinò dei piccoli cerchi decisi intorno al centro del
mio seno.
«Non fermarti, non fermarti» cantilenavo, inarcando la schiena,
portando le mani al gancio del reggiseno. «Toccami.»
Non potevo offrire altre istruzioni, ma quella misera richiesta
sembrò bastare. Con dita abili, lui sganciò il reggiseno più in fretta di
quanto avrei mai potuto fare io e mi sfilò via il maglione da sopra la
testa. Afferrò il mio busto nudo e portò la bocca sui miei seni.
Alla sensazione pungente dei suoi denti che si chiudevano sul mio
capezzolo i miei fianchi ebbero uno scatto d’istinto. Il calore
struggente ora si era fatto doloroso e irrequieto.
«Shhhh» mi placò Cletus, soffiando un respiro freddo sulla
chiazza bagnata lasciata dalla sua bocca sul mio seno, poi strusciò i
denti avanti e indietro sulla punta sensibile, provocandomi un’ondata
febbrile di pelle d’oca sulla pelle.
Io tirai la sua maglietta, desideravo il calore del suo corpo. Lui
sollevò cortesemente le braccia, poi iniziò immediatamente a
prodigare i miei seni di baci affamati e piccoli morsi, strizzando e
accarezzando con le sue grosse mani.
Era tutto una sensazione magnifica. La sua bocca e le sue mani
mi sembravano indispensabili. Non potevo far altro che infilare le mie
dita nei suoi lunghi capelli e tenerlo contro di me, inarcandomi e
tendendomi alla ricerca di… qualcosa di più.
Per quanto fantastica fosse la sensazione di tutto quello, non
faceva altro che aumentare la mia irrequietezza. «Cletus, toccami.»
«Lo sto facendo» disse, tra i suoi baci fantastici e frustranti.
«Ti prego, Cletus. Ti prego.» Non sopportavo quella tortura, quello
struggimento agonizzante. Gemetti, prendendo un respiro
bisognoso, che fu seguito da parole imploranti, che mi scivolavano
dalle labbra senza controllo. Lui si stava frenando, sentivo la sua
esitazione. Io stavo morendo e lui mi concedeva solo gocce di
pioggia per dare sollievo alla mia sete.
Si irrigidì, le sue mani si spostarono lungo i miei fianchi e la mia
schiena. Mi sollevò frettolosamente dal suo grembo.
Dovetti mandare giù un rantolo di protesta, quando lui mi tappò la
bocca con la mano e sussurrò: «C’è qualcuno qui fuori».
Le dita fredde della paura sciolsero quel groviglio di desiderio, e
mi trascinarono bruscamente alla realtà. Con destrezza, lui ritrovò la
mia maglietta e me la mise tra le mani mentre io mi sforzavo di
ascoltare. Un ramoscello, o un ramo, si spezzò. Foglie frusciarono e
scrocchiarono sotto la suola di uno stivale. Io trattenni il fiato e mi
infilai la maglietta dalla testa. Era troppo grande. Ero senza
reggiseno e nuotavo nel cotone morbido e nel profumo intossicante
di lui. Era la maglietta di Cletus.
Una torcia si muoveva tra gli alberi, il suo fascio passò sopra la
macchina. Ma poi continuò a muoversi. Chiunque fosse, non ci
aveva ancora visti.
Poi il cellulare di Cletus squillò.
Era impostato su silenzioso, per cui vibrò e lampeggiò. Lui si
scagliò sul cellulare come se volesse rifiutare la chiamata, ma poi si
fermò di colpo, il cipiglio sul suo viso venne illuminato dal piccolo
schermo. Sollevò gli occhi verso il parabrezza, verso la torcia che
era ancora alla ricerca, poi li riportò al cellulare.
Fece scorrere il pollice sullo schermo e si portò il telefono
all’orecchio, sussurrando: «Pronto?»
«Cletus, sono Jess. Dove sei?»
Sentii la sua voce in stereofonia, sia indistinta dal cellulare sia in
lontananza fuori dalla macchina.
Lui sospirò di sollievo, passandosi il cellulare all’altro orecchio.
«Vediamo la tua torcia. Non siamo ancora al rifugio, siamo ancora
sulla strada secondaria.»
«Siamo?» La sua voce era ancora udibile e lei non cercò
minimamente di abbassarla. La torcia si fermò, poi disegnò un lento
arco orizzontale. «Chi c’è con te?»
«Veniamo noi da te. Non muoverti.» Allontanò il cellulare
dall’orecchio e terminò la chiamata, lo schermo tornò nero.
«Cletus» cercai a tentoni la sua mano. «Devo dirti una cosa.»
La mano che cercavo si posò sulla mia mascella un attimo prima
che lui mi coprisse la bocca, e mi diede un bacio dolce e devastante.
Le sue labbra erano amorevoli e adoranti, lo scivolare lento della sua
lingua mi faceva sentire stordita e senza fiato. Mi ricordò di quando,
due settimane prima, avevo bevuto lo champagne al talent show.
Cletus mi lasciava accaldata, con il capogiro, e con il desiderio di
averne ancora.
Premendo insieme le nostre fronti, disse: «Se potessi tenere per
te i tuoi pensieri per cinque minuti, lo apprezzerei davvero».
«Cosa? Perché?» chiesi automaticamente, coprendo la sua mano
con la mia.
«Dammi altri cinque minuti per vivere questa fantasia.»
Cercai di scorgerlo, ma era troppo buio. Le sue parole
sembravano un enigma e mi inondarono la mente di domande.
Ero io la fantasia? O eravamo noi? Significava che mi voleva? O
che noi potevamo stare insieme solo in una situazione di fantasia?
Maledissi l’oscurità, avevo bisogno di vederlo per capire meglio
cosa pensasse. Il mio stomaco si agitava dal nervosismo perché, se
noi non avevamo altro che cinque minuti di questa fantasia, allora
volevo baciarlo di nuovo. Prima che potessi farlo, fui accecata
all’improvviso dal fascio di luce di una torcia, che illuminava
direttamente la macchina. Scattai all’indietro e mi schermai gli occhi,
strizzandoli per guardare meglio la figura che aleggiava fuori dal
finestrino di Cletus.
«Dannazione, Jess. Avevo detto che arrivavamo subito.» Cletus
mi lasciò e recuperò il suo giaccone da dietro la schiena.
«Che è successo alla tua maglietta, Cletus? E chi c’è lì con te? Voi
due vi stavate baciando? Vi ho interrotti?» La risata nella voce di
Jessica mi aiutò a placare la mortificazione.
La sua luce venne puntata dritta su Cletus, illuminando fiocamente
il suo corpo come in altorilievo, e il mio sguardo cadde sul suo
addome nudo. Sentii gli occhi spalancarsi, per sottolineare la mia
sorpresa ma anche il mio apprezzamento.
Non potei farne a meno. Lo fissai. Non sapevo che aspetto
avrebbe avuto senza maglietta addosso, ma la realtà del suo petto
nudo, delle braccia e del suo addome mi fecero lo stesso effetto di
un altro bicchiere di champagne. Era… beh, era stupendo. Avrei
voluto toccarlo di nuovo e questa volta avrei voluto farlo in una
stanza ben illuminata.
E voglio che lui se ne stia steso perfettamente immobile mentre
bacio e lecco e tocco e mordo e faccio qualsiasi cosa voglia col suo
magnifico corpo.
«Che c’è che non va?»
La nota di irritazione nelle sue parole mi riportò bruscamente al
presente e io lo guardai, sbattendo le palpebre sorpresa.
«Non c’è niente che non va» risposi troppo in fretta.
Jess tamburellò impaziente sul vetro del finestrino di Cletus.
«Forza, Cletus. Metti via il preservativo e presentami la tua
amichetta.»
Il suo sguardo scattò nel mio, poi si allontanò: la sua espressione
era scontrosa ma, a parte quello, indecifrabile. «Questa me la paghi,
Jess.»
Lei rise, la torcia dondolò e lasciò il finestrino. In effetti, si
sganasciò dalle risate.
Cletus si chiuse il giaccone fino al collo e fece per uscire.
Ricordandomi che indossavo la maglietta sbagliata, gli presi la
mano.
«Aspetta, indosso la tua maglietta.»
«Lo so» disse Cletus, senza guardarmi mentre apriva il suo
sportello. «Volevo vedere come stavi con la mia maglietta addosso.»
«Allora...» Jessica era raggiante. I suoi grandi occhi marroni
balzavano tra me e Cletus. «Che piacere vederti, Jennifer» esordì.
Per l’ennesima volta.
Ci aveva portati al suo rifugio – o al rifugio di Duane, non ne avevo
idea – e Cletus era seduto su una delle sedie di fianco a un piccolo
tavolo. Ci aveva chiesto di toglierci le scarpe, per cui lo avevamo
fatto, lasciando vicino alla porta d’ingresso i miei tacchi e gli stivali di
Cletus.
Io mi sedetti sulla seconda sedia, mettendo il tavolo tra noi e
cercai di non tormentarmi le dita mentre osservavo la dicotomia tra
le nostre scarpe: i miei tacchi alti e i suoi stivali da lavoro infangati.
Per qualche motivo l’immagine di quelle due scarpe insieme mi
mandò un brivido eccitato.
Jessica, intanto, si stava sedendo sul letto. Il rifugio aveva
un’unica stanza ed era piuttosto piccolo. Conteneva solo il succitato
tavolo, due sedie, un letto e un caminetto. Era accogliente e pensato
per due persone. Mi piaceva.
«Grazie. E grazie per il tuo aiuto.» Ricambiai il suo ampio sorriso.
«Duane ha chiamato?» Cletus – che teneva il suo giubbotto a
scacchi rossi e neri chiuso sul suo petto nudo – lanciò un’occhiata al
cellulare. «Dovrebbe già aver chiamato.»
«Mi ha scritto un messaggio prima che uscissi a cercarvi. È
arrivato alla stazione di polizia.»
Cletus annuì con un solo cenno, e si infilò il cellulare nella tasca
del giubbotto. «Bene. Molto bene.»
«Vuoi dirmi cos’è successo? Perché quei biker vi inseguivano?»
Lo sguardo di Jessica saltava da me a Cletus.
«Erano arrabbiati perché ho scambiato i loro assorbenti con dei
pannoloni.» Cletus sembrò talmente serio e ragionevole che quasi
gli credetti. E io avevo assistito a tutta la scena.
«Cletus.» Scossi la testa e storsi il naso guardandolo, poi mi voltai
verso Jessica. «C’era mio fratello e lui...» deglutii, le parole mi
restarono bloccate in gola, per cui dovetti schiarirmela. «Si stava
comportando in modo sgradevole. Cletus è arrivato e le cose sono
sfuggite di mano.»
«Gli ho dato un pugno in faccia» spiegò, con tono pratico come se
avesse appena ammesso di essersi tagliato le unghie. «Inoltre, ti
saluta Tina.»
La bocca di Jessica si spalancò e le sopracciglia le scattarono in
alto sulla sua fronte. «Hai dato un pugno a Isaac?»
«Sì.» Cletus annuì. «In faccia. E Tina ti saluta.»
«Cletus, non mi importa di Tina» borbottò Jess un istante dopo,
sbattendo le palpebre e accigliandosi. Il suo sguardo si spostò su di
me e si addolcì per la preoccupazione. «Immagino che Isaac stesse
dicendo delle cose davvero cattive.»
«Sì.» La mascella di Cletus si contrasse e i suoi occhi si
socchiusero molto brevemente. «Ma non dirà un bel niente per un
po’. Credo di avergli rotto la mandibola.»
«Oh mio Dio.» Jessica si coprì la bocca e rivolse la domanda
successiva a me. «Stai bene? Non dev’essere stato facile
assistere.»
«Sto bene. Sono solo un poco…» emotivamente esausta,
«stanca.»
Mi rivolse un cenno di comprensione e sospirò. «Beh, se voi due
volete restare qui, fate come se foste a casa vostra.» Jessica si alzò
e prese la sua giacca ai piedi del letto. «Le lenzuola sono pulite e c’è
legna in abbondanza.»
Il calore mi risalì il collo. Le guance mi si infiammarono sentendo
le sue parole. Non riuscivo a decidere se la sua supposizione – che
io e Cletus andassimo a letto insieme – mi suscitasse imbarazzo o
piacere. In ogni caso mi sentivo ribollire, stranamente deliziata e
agitata.
Cletus e io ci alzammo contemporaneamente. Jess si girò verso di
noi con un sorrisetto.
«Sono felice che stiate bene e sono felice che tu abbia chiamato
Duane.» Lo abbracciò stretto. «Scusa se ho reso più dura la
situazione.»
«Non ti dispiace affatto.» Alzò un sopracciglio nella sua direzione
mentre lei lo liberava dall’abbraccio.
«Hai ragione. Non mi dispiace affatto.» Jessica alzò le spalle,
sorridendo.
«Uhm. Comunque, in ogni caso, grazie per avermi ceduto l’abilità
al volante di Duane.»
«Sai che gli piace dare una mano.» Jessica si girò verso di me.
«Mi dispiace che tuo fratello ti abbia detto quelle cose brutte, ma
sono felice che Cletus fosse lì per spaccargli la mandibola.»
Un breve scoppio di risa mi sfuggì dalle labbra. Non sapevo cosa
provare riguardo Isaac o la sua mandibola spezzata. Le cose che mi
aveva detto…
Gli occhi di Jess passarono sopra di me, poi fece schioccare la
lingua e mi strinse in un caldo abbraccio. «Fammi sapere quando voi
due siete pronti per Big Todd. A me e Duane non dispiace tornare a
fare un salto là, quando vorrete.»
Nella mia espressione c’era un sorriso di gratitudine e
contemporaneamente un cipiglio di confusione, quando mi lasciò.
«Cos’è Big Todd?»
Il suo sguardo sfrecciò tra me e Cletus, i suoi occhi erano ancora
più spalancati di prima e la sua voce si era alzata di un’ottava. «Uh,
è un negozio. E quando sei pronta per andarci, chiamami. Cletus ha
il mio numero.» Si gettò un pollice sopra la spalla e indietreggiò fino
alla porta. «Ora devo proprio andare, prima di fare tardi per una
cosa.»
Detto quello, Jessica si voltò e scappò a gambe levate, sbattendo
la porta dietro di sé con decisione e così lasciandoci soli.
Completamente e totalmente soli.
...già.
Dopo un intero minuto, io feci scivolare lentamente gli occhi di lato
e in su, lungo il suo profilo. Fissava la porta con un cipiglio
pensieroso e il suo sguardo sembrava distante. La mia attenzione
scese sul suo collo, nel punto in cui il giubbotto incontrava la sua
pelle nuda. Mi leccai le labbra. Ora conoscevo il sapore della sua
pelle.
Quella serata era stata una giostra turbolenta di emozioni e follia.
Ero stanca, ma ero anche carica. E triste, per via di Isaac. Ed
euforica, per via di quello che era successo nella macchina con
Cletus. Ma poi di nuovo triste, perché… cosa aveva significato?
Pensai alle parole che aveva detto a Billy nel ristorante a
Nashville, mentre tutti fingevano di non ascoltare. Se è solo
un’attrazione fisica, se non ha alcun significato, allora non c’è motivo
di impegnarsi in una relazione con quella persona. Assieme al suo
commento di poco prima nella macchina, sul fatto di vivere una
fantasia, il cuore mi doleva di fronte alla possibilità che a Cletus non
piacessi poi così tanto.
A lui piaceva il mio aspetto, l’esaltante festival del palpeggiamento
di poco prima aveva reso questo fatto estremamente chiaro, ma
cosa provasse lui - o non provasse - per me come persona restava
un mistero.
Beh, questa non era l’esatta verità. Avevo ancora in mente le sue
parole al Piggly Wiggly, ma non avevo ancora avuto il tempo per
assimilarle. Credi davvero che Dio farebbe una creatura tanto
adorabile e talentuosa e buona come tua sorella per poi decidere
che il suo aspetto è peccaminoso? Qualcosa di cui vergognarsi? No.
Non lo farebbe mai. Semmai tua sorella, il suo volto, il suo corpo, la
sua mente e il suo cuore Gli rendono gloria. E lei non dovrebbe stare
nascosta. Non si cela un qualcosa di così straordinario dal mondo,
come hanno fatto i tuoi genitori, come vuoi fare tu. Questo è il vero
peccato.
Ma nonostante avesse pronunciato quelle bellissime parole in mia
difesa, io non ero ciò che lui voleva. Anche questo, lui lo aveva reso
estremamente chiaro.
L’istinto e l’esperienza mi spinsero a preparare il mio cuore a un
rifiuto. Ma poi una vampata di rabbia si incendiò dentro di me e mi
mandò un’impennata di determinazione lungo la schiena. Mi
raddrizzai, cercando di tenere la testa il più alta possibile e incrociai
le braccia. Alzai il mento, mentre la risolutezza scacciava via la
paura. Non mi sarei data il tormento, cercando di essere qualcosa
che non ero. Non avrei versato lacrime per lui o per nessun altro.
Io ero chi ero. Io ero chi stavo diventando.
«Vorrei tornare a casa, ora» annunciai, rivolta alla stanza.
Cletus sobbalzò appena appena, come se l’avessi colto di
sorpresa. Chiuse gli occhi per un breve istante e poi si girò verso di
me. Non mi toccò, passò solo gli occhi sul mio viso come se potesse
essere cambiato nell’ultima ora.
«Jennifer» cominciò, poi si fermò. Strinse le labbra, si accigliò,
deglutì e infine ricominciò. «Dobbiamo parlare.»
«Va bene. Parla.»
Prese un profondo respiro e adottò il suo cipiglio pensieroso: era
l’espressione che usava quando doveva dare delle cattive notizie.
«Ecco i fatti: io e te non siamo fatti l’uno per l’altra, ma io...»
«Bene. Vorrei andare a casa, ora» risposi sollevando il mento
ancora più in alto, un calmo distacco permeava ogni mia sillaba. Il
mio cuore si indurì ulteriormente, si raffreddava sempre più nel mio
petto. Se non gli piacevo per quella che ero, allora… farà meglio a
tenersi per sé le sue vaccate, perché la stalla era chiusa. «Aspetta.
Non ho finito.»
«Non mi importa.»
«Ascoltami fino alla fine.» Il suo cipiglio si fece più profondo,
aveva un aspetto più vero, e la sua mano salì al mio braccio come
per non farmi scappare.
Io scrollai via le sue dita e feci un passo indietro. «No, non resterò
ad ascoltarti fino alla fine. Non starò qui ad ascoltarti mentre mi dici
che stavamo solo facendo pratica o che non siamo fatti l’uno per
l’altra o che tu non provi per me quello che io molto chiaramente
provo per te. Per cui conservati il letame per il tuo giardino e
riportami a casa.»
Una luce si fece più affilata dietro ai suoi occhi, mentre si
stringevano su di me, e Cletus riguadagnò la distanza che io avevo
messo tra noi. «Cos’è che provi per me?»
«Non… non sono affari tuoi» balbettai, lo sguardo nei suoi occhi
era snervante. «Ora, o mi riporti a casa, o alla mia macchina o...»
«La mia ipotesi è che sei innamorata di me.»
La bocca mi si spalancò. «Come, scusa?»
«Tu sei innamorata di me.» Poi lui annuì, come se le parole
fossero uscite dalla mia bocca.
Io fissai il suo bel volto, inebetita. La mia mente era
completamente priva di ogni pensiero, perché lui li aveva scacciati
tutti con la sua ipotesi.
«Considererò il tuo silenzio come un assenso implicito.» La voce
di Cletus si abbassò di un’ottava e lui fece un altro passo in avanti,
con lo sguardo sulle mie labbra.
«Tu… tu… tu… non pensarci neanche.» Indietreggiai. «Io non
sono innamorata di te.»
...oppure sì?
Scossi la testa, facendo una smorfia di frustrazione. Forse questo
non era il momento migliore per affrontare una simile conversazione.
«Davvero?» Il suo sguardo si addolcì, la sua voce risuonò della
stessa vulnerabilità e gentilezza dei suoi occhi. «Perché io sono
innamorato di te.»
La mia bocca si spalancò. Poi si richiuse. Poi si spalancò ancora.
Un’esplosione di sensazioni mi lasciò strabiliata. Queste non erano
le parole che mi aspettavo dicesse. Per niente.
Mai.
Tutta l’aria mi lasciò i polmoni in un soffio e un calore delirante
iniziò a diffondersi su per il mio collo e il petto. «Io non… Non ti
capisco» sussurrai, scuotendo la testa, rifiutando le sue parole e
cercando contemporaneamente di trovare un senso alla situazione.
Non siamo fatti l’uno per l’altra.
La confusione mi annebbiò gli occhi, non riuscivo a vederci.
«Non mi sorprende. Non sono facilmente comprensibile» disse
piano. «Ma capirai questo.» Cletus mi catturò il mento con dita leste
e l’alzò. Io mi preparai mentalmente a qualsiasi affascinante assalto
stesse pianificando, e poi incontrai i suoi occhi. Le ginocchia mi
tremarono. Il modo in cui guardava me, la mia bocca… Buon Dio!
Vacillai, mi sentivo la testa leggera. Stava per baciarmi di nuovo. E
questa volta, guardando nei suoi occhi, supponevo che l’unico
ostacolo a impedirci di consumare la nostra frastornante relazione
ero io. E io non volevo essere un ostacolo.
«Cosa stai facendo?» Appiattii le mani sul suo petto.
«Sai cosa sto facendo» sussurrò in un borbottio, suscitando nel
mio corpo un’ondata di piacevolezza incandescente e di tensione,
facendomi arricciare le dita dei piedi.
Scossi la testa, mentre il panico e la speranza si mettevano a
litigare tra loro, causando un putiferio. «Non lo so. Onestamente,
non lo so.»
«Allora lascia che te lo mostri.»
«Cletus.» Piegai la testa di lato, ma non distolsi lo sguardo dal
suo, spostai le mani per afferrargli i bicipiti. «Io non sono fatta per
questo.»
«Per cosa?»
«Per l’amore.» Le parole mi scapparono prima che potessi
fermarle, prima ancora di rendermi conto che le avrei pronunciate.
Mi pentii immediatamente della mia sincerità perché i suoi occhi si
fecero allo stesso tempo più gentili e più duri. «Mi permetto di
dissentire. Avanzerei l’ipotesi che l’amore sia esattamente ciò per cui
sei fatta.» Una punta di rabbia gli affiorò nella voce.
Cedendo al panico, continuai senza pensare: «Perché so già cosa
succederebbe: io mi innamorerò di te e tu mi spezzerai il cuore».
«Non posso spezzarti il cuore senza spezzare il mio, e io tengo
moltissimo al mio cuore.»
«Non penso di riuscire a separare l’atto dal sentimento. Non posso
praticarlo come uno sport. Finirò per bruciare il toast.»
Lui annuì pensieroso, come se stesse riflettendo sulle mie parole,
mentre le sue mani scivolavano lungo la mia schiena per avvolgermi
il sedere. Mi accarezzò il didietro dai fianchi fino al retro delle cosce
e poi strinse.
«A me sta bene.» Il suo tono era pragmatico a livello esasperante.
Gemetti quando lui premette il mio corpo contro il suo e io avvertii
la prova del suo desiderio. «Sii serio, Cletus.»
«Sono serio, Jenn. Ho bisogno di finire quello che ho iniziato
prima, quando ci hanno prematuramente interrotti. Stanotte non
succederà altro, oltre a dei palpeggiamenti molto seri.» Si fermò, poi
piegò la testa da un lato come se stesse ponderando qualcosa. «A
seconda della tua definizione di “serio”.»
«Questo è un gioco!»
Lui allentò la presa, i suoi occhi si fecero sinceri ma non meno
desiderosi. «Tu non sei un gioco, per me.»
«E allora cosa sono per te, Cletus? Perché non puoi aspettarti che
io creda davvero che sei innamorato di me» lo schernii, scuotendo la
testa.
Ma poi lui mi guardò.
Semplicemente, mi guardò.
E io sbattei le palpebre per la sorpresa.
I tanti diversi “Cletus” sparirono. Nessun artificio, nessun giochetto
mentale, nessuna battuta, nessuna barriera: era rimasto solo l’uomo.
La pura verità di lui, della sua anima, era bellissima. Era preziosa
per me.
Lui era prezioso per me.
«Vuoi sapere cosa sei per me? Va bene. Sei il mio inizio, la mia
metà e la mia fine.»
Quelle parole mi colpirono dritte al petto, mi attraversarono il cuore
e penetrarono dritte fin nella mia anima.
I nostri sguardi si scontrarono e rimasero incatenati. Boccheggiai
in ricerca d’aria, mentre le lacrime mi bruciavano gli occhi per un
momento per poi lasciare striature brucianti lungo le mie guance.
Incapace di fermarmi, gli gettai le braccia al collo e lo baciai.
“O forse c’è un’anima nascosta in ogni cosa, che può sempre comunicare con
un’altra, senza emettere suoni.”
-Frances Hodgson Burnett, La piccola principessa
«Dov’eri venerdì?»
La domanda mi fece sobbalzare. I miei occhi scattarono all’insù.
Jethro era dall’altra parte del bancone, con addosso una bella
camicia elegante che gli faceva sembrare verdi gli occhi. Mi
guardava come se non ci fosse niente che non andava. Non stava
tramando niente di buono.
La sua improvvisa comparsa mi fece accigliare. «Sei vestito bene.
Quando sei entrato?»
«Proprio ora.»
Lo guardai socchiudendo gli occhi. «Proprio ora?»
«Già. Mi sono accomodato da solo.» Si lanciò un pollice da sopra
la spalla, indicando la porta.
Sbattei le palpebre, sorpreso dalla notizia. «Non ti ho sentito
entrare.»
«Davvero?» Appoggiò il gomito sul bancone. «Non sono
esattamente sgattaiolato dentro.»
«Uhm...» Spostai la mia attenzione sul preventivo che stavo
rivedendo. Shelly l’aveva iniziato. Aveva fatto un buon lavoro.
«Cletus?»
«Sì?» Ricontrollai i suoi totali per il lavoro, comparandoli al sito del
grossista. La cifra riservata alla manodopera mi sembrava un po’
alta, ma andava comunque bene.
«Dov’eri venerdì?»
Mi immobilizzai, preparandomi ai flash di ricordi: gli occhi di Jenn
mentre mi faceva stendere sul letto, la sua bocca sulla mia, le sue
mani su di me. Le immagini e le sensazioni si ripetevano in loop da
venerdì notte. Così come quanto ne era conseguito.
Lei si era arrampicata sopra il mio corpo e si era stretta a me, per
coccolarmi, baciandomi il petto e il collo e il mento, dicendo: «Vorrei
restare così per sempre.»
«Cletus?» Jethro schioccò le dita davanti al mio volto. «Pronto?
Dove sei finito?»
«In un posto migliore di questo» borbottai. Volevo intenderla come
una battuta, ma non sembrò tale. Forse non sembrò una battuta
perché era la verità.
Stare con Jennifer, io e lei soli, era preferibile a ricontrollare dei
preventivi. Stare da solo con lei era preferibile a stare con chiunque
altro, in qualsiasi altro posto e a fare qualunque altra cosa.
Questo è il problema.
Non avevamo un posto in cui stare soli. Per la prima volta nella
mia vita non desideravo più vivere in casa e sorvegliare i miei fratelli.
Potevano sorvegliarsi da soli.
«Parlando di posti migliori», mi schiarii la gola e mi sforzai di
sembrare noncurante, «per caso sai se Claire cerca ancora un
inquilino per casa sua?»
«Credo di sì, perché? Conosci qualcuno?»
«Forse sì.» Questa scintilla di idea mi si era accesa sabato e si
stava velocemente trasformando in un fuoco d’artificio. «Allora la
chiamerò.»
Casa di Claire sarebbe stata una buona soluzione temporanea.
Era a metà strada tra casa di Jennifer e la magione dei Winston. Il
vecchio casale era circondato da due ettari di terra, abbastanza per
gli orticelli rialzati di Jenn. Avrei dovuto investire in uno scrittoio per
lei, da mettere da qualche parte vicino a una finestra che dava a
nord o sud, così avrebbe avuto la luce migliore.
«Non hai ancora risposto alla mia domanda» insistette mio fratello.
Jennifer Sylvester mi amava. E io amavo Jennifer Sylvester.
E questo era un fatto.
Surreale.
Non me l’aveva ancora detto, ma io sapevo la verità. Me ne ero
accorto. Già.
Lei mi ama.
«Mi hai fatto una domanda?» Stavo ancora pensando a casa di
Claire, alla privacy ideale che ci avrebbe garantito e al fatto che
Jennifer mi amasse.
Dopo esserci coccolati per troppo poco tempo, avevo
riaccompagnato a casa Jennifer. Le avevo tenuto la mano mentre
andavamo alla macchina. Le avevo tenuto la mano mentre guidavo.
Le avevo tenuto la mano mentre l’accompagnavo al portico. E poi
ero stato costretto a lasciarle andare la mano. Da allora avevo
sofferto di indigestione. Non una vera indigestione: soffrivo del tipo di
bruciore di stomaco causato dalla mancanza di una persona.
A turbare ancor più le cose, avevo visto un articolo sul The New
Yorker sabato mattina sull’usare i nomi come verbi e volevo
condividerlo con lei.
Sabato pomeriggio ero stato costretto a chiamare Repo, il membro
di grado più alto degli Iron Wraiths dopo Razor St. Claire, e
chiedergli un incontro per la settimana dopo il matrimonio di Jethro.
Repo aveva conosciuto noi Winston da bambini e insisteva che lo
chiamassimo Zio Repo. Lui e mio padre erano stati buoni amici una
volta, ma non avevo la più pallida idea se si considerassero o no
ancora fratelli.
Da notare inoltre, che sospettavo che Repo fosse in realtà il padre
biologico di Jessica James. Non avevo condiviso con Duane questa
teoria sulla sua donna, ma ne ero quasi certo. Tuttavia, quella era
un’altra storia, per un altro giorno.
La buona notizia era che Repo sembrava divertito dall’intera
faccenda con Isaac Sylvester. La cattiva notizia era che avevo
sentito Catfish minacciarmi in sottofondo.
Poi, domenica, la moglie del pastore mi aveva chiuso in un angolo
dopo la messa e mi aveva chiesto se sapessi qualcosa di rose. Non
ne sapevo niente. Ma conoscevo chi ne sapeva.
«Sì, ti ho fatto una domanda. Dov’eri venerdì?» chiese ancora una
volta Jethro.
Io mi grattai la barba. Il cellulare mi vibrò in tasca, per cui lo
estrassi e lessi sullo schermo.
- FINE -
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