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Indice

Copertina
Frontespizio
Colophon
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Epilogo
Questo libro è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi, marchi,
media ed episodi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono
utilizzati in modo fittizio. L’ autore riconosce lo status del marchio di fabbrica
e i proprietari del marchio dei vari prodotti, band e/o ristoranti menzionati in
questo romanzo, che sono stati usati senza permesso.
La pubblicazione/uso di questi marchi non è autorizzata, associata o
sponsorizzata dai proprietari del marchio. Qualsiasi somiglianza con
persone reali viventi o defunte, eventi o luoghi è puramente causale.

Titolo originale: Beard Science

Copyright © 2016 by Penny Reid.

Published by arrangement with

Bookcase Literary Agency.

Traduzione dall’inglese di Francesco Rossini

Prima edizione: novembre 2019

© 2019 Always Publishing s.r.l. - Salerno

All rights reserved.


This book is a work of fiction. Names, characters, places, rants, facts,
contrivances, and incidents are either the product of the author’s
questionable imagination or are used factitiously. Any resemblance to actual
persons, living or dead or undead, events, locales is entirely coincidental if
not somewhat disturbing/concerning.
No part of this book may be reproduced, scanned, photographed,
instagrammed, tweeted, twittered, twatted, tumbled, or distributed in any
printed or electronic form without explicit written permission from the author..
ISBN 978-88-85603-486

www.alwayspublishingeditore.com

Photo © George Rudy / Shutterstock


the moral rights of the author have been asserted
A Cletus
“Chi non ha mai desideri ne contempla l’arcano, chi sempre desidera ne
contempla il termine.”
- Lao Tzu

Ogni giorno, mi svegliavo e preparavo torte.


Se dovevo preparare delle torte, preferivo prepararle con infornate
non troppo grandi. Sarebbe stato come crescere i figli per infornate,
aspettandosi che tutti pensassero e si comportassero nello stesso
identico modo, o cercare di attraversare a nuoto tutti i laghi del
Tennessee orientale nello stesso identico momento.
Io preferivo concentrarmi su una sola torta alla volta. Ogni singola
torta ha la sua propria personalità. Se si ignora la personalità di una
torta, allora la torta vi ignorerà a sua volta e sarà una torta
maleducata e noiosa.
Io cercavo di evitare di fare delle torte noiose. Ultimamente
cercavo di evitare di cuocere torte, punto. Ma se dovevo farne una,
allora veniva fuori una torta fantastica. Una torta con grandi sogni,
una torta che si sarebbe fatta sentire. Una torta speciale.
«Hai finito con l’ordine per Knoxville?» strillò mia madre dall’altra
stanza. Non l’avevo sentita entrare. Il tono della sua voce era
tagliente, e con una punta di panico, il che fece andare anche me nel
panico. «E, giuro sui fegatini di pollo fritti di nonna Lilly, se stai di
nuovo preparando una torta alla volta, ti torco il collo.»
Io raddrizzai le spalle, mandando giù l’improvviso afflusso nervoso
di saliva nella mia bocca. Non si scherzava coi fegatini di pollo fritti di
nonna Lilly. Non solo erano deliziosi e una ricetta di famiglia
gelosamente custodita, come la maggior parte delle nostre
famigerate ricette di famiglia, ma potevano anche mutilare qualcuno
se lanciati con sufficiente forza e intento omicida.
Con grande attenzione, posizionai l’ultima torta - dell’ordine di
torte che avevo preparato e decorato una alla volta – nella sua
scatola.
Esatto, avevo preparato le torte una alla volta. Mi ero quindi
dovuta svegliare nel cuore della notte per iniziare a cuocerle? Sì,
esatto. Era necessario per me rivelare la cosa alla mamma? No, per
niente. Meglio svegliarsi a un’ora indecente che vendere ai bravi
abitanti di Barbern delle torte noiose. «Sto finendo ora!» gridai di
rimando e mi misi in azione. Se avesse visto il mio mixer con la
ciotola da sei litri avrebbe fatto una scenata. Nascosi le scodelle per
le preparazioni più piccole e gli utensili per misurare in un’alta
credenza sul retro della grande cucina industriale. Poi tornai indietro
a recuperare il mixer da cinque litri, issandolo tra le braccia e
barcollando sotto il suo peso.
Il ticchettio dei suoi tacchi si avvicinava e capii di non avere tempo
per nascondere la macchina come avrei voluto, per cui la posai sul
pavimento e la coprii con il mio grembiule, girandomi appena in
tempo quando mia mamma apparve sulla soglia.
«Grazie al cielo». Aveva le mani sui fianchi e il suo aspetto era
perfettamente ordinato, come da abitudine.
I suoi biondi ricci ondulati sembravano un elmo, e sotto molti
aspetti lo erano. Il suo trucco era impeccabile, pesante come uno
strato di glassa e impenetrabile come una maschera da hockey. Una
nuvola di Chanel N°5, smalto per unghie e lacca per capelli arrivò tre
secondi dopo di lei.
Il modo in cui si preparava era sia un’arma sia un’armatura.
Valutò lo stato della cucina, soffermandosi per un lungo momento
sul mixer più grande. Era immacolato.
«Dove sono tutti? Chi ha ripulito qui?»
«Io.» Scavalcai il mixer piccolo, sperando non lo notasse. «Ho
mandato gli altri a casa prima, visto che avevamo solo quest’ordine
speciale.»
I suoi occhi scattarono ai miei, con l’irritazione nel volto. «Cos’hai
indosso?»
Abbassai lo sguardo su di me: avevo dimenticato cosa indossavo.
«Uhm, una salopette.»
«Oh, Jennifer!» Pronunciò il mio nome con voce bassa e brusca,
come se fosse una parolaccia. «Una signora non indossa
salopette.»
«Nancy Danvish indossa salopette.» Nancy Danvish ci forniva
uova e latte: le sue erano galline e mucche molto felici, pertanto
producevano le migliori uova e il miglior latte. Uova e latte felici
fanno torte felici.
«Nancy Danvish è una contadina.»
«Ma è comunque una signora.»
«Su questo ho i miei dubbi...» mugugnò mia madre, quasi alzando
gli occhi al cielo prima di ricomporsi. «E, santo cielo, i tuoi capelli. E
la tua faccia, bleah.» Sottovoce, aggiunse: «Sai, mi chiedo da quale
pianeta tu provenga, Dio sa che non è questo».
Strinsi le labbra insieme per non rispondere con un: «Grazie».
Facevo del mio meglio per fingere che le parole scortesi fossero in
realtà complimenti mal formulati, perché in questo modo era più
carino per tutti. Per esempio, l’ultimo commento di mia mamma
poteva essere riformulato in: Sei cosmicamente stellare.
Quest’abitudine di fraintendere apposta gli insulti mi era tornata
utile durante tutto il corso della vita, in città e a casa. Di sicuro mi
sarebbe tornata utile anche se fossi andata alla scuola pubblica, ma
la mamma aveva deciso di far studiare a casa mio fratello e me.
Per esempio, quando Rhea Mathis mi aveva definita «più stramba
di una vegetariana a un barbecue» durante le prove del coro
giovanile in chiesa, io avevo deciso che era il suo modo speciale di
dirmi che ero unica. E quando a quindici anni Timothy King mi aveva
chiamata puritana frigida fuori dalla jam session, io l’avevo
ringraziato per i suoi complimenti sulla mia freddezza e modestia. E
quando ero in finale alla gara di torte della fiera di stato e due
concorrenti mi avevano chiamata una dilettante senza talento, io
avevo sorriso e accettato i loro gentili commenti sulla mia etica del
lavoro.
«Pronto? Terra chiama Jennifer. Smettila di cincischiare e datti
una mossa.»
«Come?»
Mamma aveva afferrato il cellulare con una mano e schioccava le
dita verso di me con l’altra. «Hai un appuntamento alla stazione di
polizia con lo sceriffo James».
«Davvero?» Era la prima volta che ne sentivo parlare.
«Sì, davvero. L’ho incontrato nel parcheggio del Piggly Wiggly
stamattina e gli ho chiesto se a lui e ai suoi vice fossero piaciuti quei
cupcake che gli avevamo mandato. E, naturalmente, lui non la finiva
di dire quanto fossero fantastici. Una cosa tira l’altra e ha accettato
di farci pubblicità in un video».
«Oh...». Annuii debolmente, con la gola improvvisamente secca.
Cercai di sorridere.
«Perché fai quella faccia? Hai un imbarazzo di pancia?»
«No.» Mi impegnai di più per incollarmi in volto un sorriso
convincente. «Ma mamma, sai che non mi piace fare questi video.»
«Alza la voce, Jennifer. Stai sussurrando di nuovo. Lo sai che non
mi piace quando sussurri».
Alzai la voce. «Non mi piace fare i video. Divento nervosa e i
commenti...»
«Non leggere i commenti, tesoro. Le persone cattive sono sempre
esistite e sempre esisteranno, Dio li benedica.» Mi raggiunse e mi
mise le mani sulle spalle, scuotendomi gentilmente. «Pensa solo a
quanto sta andando bene lo chalet da quando abbiamo lanciato la
campagna sui social media l’anno scorso. Concentrati su quanto
stiano crescendo gli affari. Concentrati su tutti i soldi che stiamo
facendo. Concentrati su quanto famosa e ammirata tu sia in tutto il
mondo. Sei una stella.»
«Ma è tutto così pubblico. E la gente in città...»
«La gente in città non conta. Io e te siamo destinate a cose più
grandi. Andiamo, tu sai quanto sei carina in quei video e i nostri
follower lo adorano. Le telecamere amano il tuo volto, quando sei
truccata come si deve e non sembri una contadina, naturalmente.
Ora va’ a cambiarti, da brava. Ho detto allo sceriffo che saresti
passata oggi pomeriggio.»
«Ma non puoi...»
«Jennifer!» Le dita di mia madre mi strinsero forte le braccia e lei
chiuse gli occhi per un lungo istante prima di parlare. «Stai mettendo
alla prova la mia pazienza, bambina mia. Sai quante cose devo fare
oggi? Devo forse ricordarti che gli investitori vengono allo chalet a
fine mese? Ho bisogno di te, Jennifer. Sei tu la chiave. Se tu mi
deludi, crolla tutto. Ora che tuo fratello non c’è più...» Il mento di
mamma tremò e lei alzò lo sguardo al soffitto, negli occhi le
scintillavano delle lacrime.
Immediatamente, fui sopraffatta dal rimpianto per averle causato
questa sofferenza. Sapevo quanto fosse difficile per lei sopportare la
disobbedienza di mio fratello. Sapevo quanto avesse sofferto – e
quanto continuasse a soffrire – quando Isaac aveva deciso di non
avere più nulla a che fare con noi. Mio padre sembrava aver
superato il dolore velocemente, ma mamma era ancora in lutto. Il
mio cuore si stringeva al solo pensiero di quanto mi mancasse mio
fratello, non riuscivo nemmeno a immaginare come potessero
sentirsi i miei genitori.
Lei esalò un sospiro tremante e tirò su col naso, riportando lo
sguardo nel mio. «Per favore, Jenny, sii d’aiuto. Non mi deludere, ti
prego.» Ingoiai l’ultima delle mie proteste rimasta in gola e mi
ricomposi in viso, in modo che la mia mascella serrata sembrasse un
sorriso a labbra strette. Il suo sospiro fu colmo di sollievo. Lei mi
prese il volto tra le mani, rivolgendomi un sorriso adorante. «Bene,
bene. Ora va’ a vestirti e gira il video con lo sceriffo. Dopo potrai
passare il resto della giornata come preferisci». Dietro la sua
maschera di trucco colsi i suoi occhi addolcirsi per la
preoccupazione. «A che ora ti sei alzata? Sembri stanca».
«Sto bene.»
Mi esaminò ancora per un momento con sguardo materno, finché
il suo orologio non vibrò. Lei gli rivolse uno sguardo, sbuffò e lasciò
le mie spalle. «Devo rispondere. Vai a trovare lo sceriffo. Poi magari
scrivi una lettera a qualche tuo amico di penna o schiaccia un
pisolino.»
Forse per la decimilionesima volta in vita mia risposi: «Va bene,
mamma».
Ma lei non mi ascoltava, aveva già portato il cellulare all’orecchio.
«Pronto? Pronto, sì, sono Diane Donner-Sylvester. Sì, grazie per
aver chiamato...» Uscì dalla cucina, con la sua voce che si
allontanava assieme al ticchettio dei suoi tacchi.
Da brava bambina qual ero, feci come mi era stato detto.

Mi piace osservare le persone.


In parte perché le persone, le cose che fanno e che dicono
quando pensano che nessuno le guardi, sono davvero strane. Ma
soprattutto, mi piace osservare le persone perché praticamente tutti,
in paese, non mi parlano d’altro che di torte.
«La Regina della torta alla banana» annunciò Flo McClure con
voce piatta. Presidiava la reception della stazione di polizia e il suo
sguardo si spostò a malapena dallo schermo del computer mentre
mi avvicinavo. Senza guardarmi o aspettare che parlassi, Flo
McClure ordinò: «Accomodati pure, bellezza. Lo sceriffo ti aspetta,
ma sarà impegnato ancora per qualche minuto».
«Grazie, signorina McClure.»
Gli occhi color corteccia di pino della signora si strinsero appena e
il suo sorriso cortese si allargò giusto un poco, comunicandomi che
mi aveva sentito ma era troppo impegnata o poco propensa a fare
conversazione.
Vivevo in una piccola città e tutti conoscevano tutti.
Per esempio, Flo – o Florence – McClure era conosciuta come la
sorella ostinata e zitella di Carter McClure, il capo dei pompieri. La
gente diceva che non si era mai sposata nonostante la sfilza di
pretendenti disponibili perché non voleva rinunciare alla sua
indipendenza. Io sospettavo che non fosse l’indipendenza che
temeva di perdere. Dopo averla vista coinvolta in un segreto ma
appassionato litigio con Nancy Danvish durante la parata del quattro
di luglio cinque anni fa, avrei scommesso che Flo McClure si
nascondesse sull’altra sponda.
Comunque, tutti conoscevano tutti, e tutti conoscevano me. Io ero
la Regina della torta alla banana. Facevo anche altri tipi di torta, ma
ero famosa per la mia torta alla banana. Lo sapevo per certo perché,
quando mi presentavano, di solito lo facevano così: «Lei è Jennifer
Sylvester. Sapete, la Regina della torta alla banana? È famosa per la
sua torta alla banana».
Ma stavo divagando. Diedi le spalle a Flo McClure e mi accomodai
nell’angolo del piccolo ingresso della stazione di polizia, posandomi
in grembo il pane alle zucchine e noci incartato che avevo portato.
Incrociai le caviglie e aspettai.
Mi piaceva lo sceriffo. Era gentile. Nonostante fosse un uomo di
poche parole, mi chiedeva sempre come stavo. I suoi sorrisi erano
gentili e sinceri. Mi piaceva che fosse un buon padre e marito. E gli
importava delle persone sotto la sua giurisdizione. Era una brava
persona, per cui gli preparavo qualcosa ogni volta che sapevo avrei
incrociato il suo cammino.
Passai i successivi quindici minuti a osservare le persone,
ignorando le notifiche dei social media sul mio cellulare. Non gestivo
io gli account, ma ricevevo comunque tutte le notifiche.
Entrò Hannah Townsend, avanzò decisa fino alla reception e iniziò
a discutere con Flo riguardo a una multa per eccesso di velocità.
Qualche istante dopo, i fratelli King uscirono dalla grande porta che
conduceva agli uffici, sussurrando qualcosa sottovoce. Io mi irrigidii,
preparandomi a un insulto o a una proposta lasciva.
Non arrivarono.
Sembravano distrutti e persino un poco spaventati. Per fortuna, la
coppia non mi notò neanche mentre sfrecciava verso l’uscita,
ignorando anche Flo e Hannah.
Non ero sorpresa di vedere i fratelli King alla stazione di polizia. In
quanto membri di basso rango degli Iron Wraiths – la gang più
grande e problematica tra le gang motociclistiche della zona –
entravano e uscivano di prigione continuamente. Sin da quando ero
adolescente, ogni volta che li incrociavo da sola si poteva contare
sul fatto che avrei ricevuto commenti aggressivi e allusivi.
Non quel giorno, a quanto pareva. Sospirai di sollievo.
Riportai la mia attenzione su Hannah e Flo, la loro conversazione
era diventata più amichevole ora che si era spostata sulla mamma di
Hannah.
La mamma di Hannah era rimasta coinvolta in un incidente d’auto
parecchi anni fa e Hannah, anche se all’epoca aveva appena
diciassette anni, si era presa cura di lei. Hannah faceva due lavori da
allora: la direttrice di sala alla bisteccheria locale e la receptionist alla
segheria Payton. Circa due anni fa, aveva lasciato il lavoro alla
segheria per diventare una spogliarellista al Pink Pony.
Il telefono squillò e Flo alzò un dito mentre si portava la cornetta
all’orecchio. «Solo un secondo, Hannah, devo rispondere. Sì?» Gli
occhi della signora scattarono su di me e poi via mentre annuiva,
dicendo: «Sì, è qui».
Io mi raddrizzai sulla sedia perché Hannah mi gettò uno sguardo. I
suoi occhi passarono velocemente su di me e, prima di distogliere lo
sguardo, si trattenne a malapena dall’alzarli al cielo.
Non gliene facevo una colpa. Davvero. Avevamo la stessa età e
crescendo cantavamo insieme nel coro, da piccole. Capivo il suo
disprezzo.
In apparenza, ero ridicola: capelli a boccoli voluminosi di un
biondo ossigenato, unghie finte su cui non mancava mai lo smalto
rosa, tacchi alti. Mamma mi faceva truccare completamente (ciglia
finte incluse) da quando avevo sedici anni, prima se contiamo i
concorsi di bellezza che facevo da bambina. In pubblico mi vestivo
sempre di giallo o verde, i miei colori distintivi da quando avevo
quattro anni, e indossavo sempre abiti al ginocchio e perle.
Possedevo un paio di jeans e una salopette, ma tempo addietro
mi era stato proibito di mettere piede fuori di casa se non con
indosso un vestito della domenica. Mamma diceva sempre che ero il
volto dell’attività e vestiti scialbi erano dannosi per gli affari.
Ero la caricatura superficiale dello stereotipo della donna del sud,
ma i nostri clienti lo adoravano. Mi ingaggiavano persino per le feste.
Me ne stavo dietro il tavolo dei dessert e servivo la torta con un
sorriso luminoso e mani tremanti. Nessuno notava mai le mie mani.
«Ok, la faccio entrare». Flo annuì di nuovo, il suo sguardo scattò
nel mio mentre riagganciava il telefono e con un gesto del polso
indicava gli uffici principali. «Lo sceriffo ti sta aspettando.»
«Grazie, signora».
Lei non rispose, riportò invece l’attenzione su Hannah. «Hai visto i
giornalisti su a casa dei Winston?»
«Sissignora, sì» rispose Hannah, con un sussurro facilmente
udibile. «È perché Jethro Winston si sposa quella stella del cinema.»
Jethro Winston e Sienna Diaz, l’attrice hollywoodiana, si erano
incontrati all’inizio dell’estate e si erano poi fidanzati ufficialmente
due mesi fa. Lui era il maggiore dei sette figli di Darrell Winston e
Bethany Oliver. Dopo di lui era nato Billy, poi Cletus, Ashley (l’unica
ragazza), i gemelli – Beau e Duane – e infine il piccolo Roscoe.
Roscoe aveva la mia età e, se fossi andata a scuola, saremmo stati
in classe insieme.
«Jethro ha già sposato quella signorina?»
«No, non ancora.» Hannah si sporse ancora di più sopra il banco
della reception e abbassò la voce. «Ma si vocifera che sia già
incinta».
Il cuore mi si contorse dall’invidia.
Non che fossi gelosa della signorina Diaz. Nient’affatto. Non avevo
alcun interesse per Jethro Winston. Nonostante mi fosse sembrato
gentile, mio padre mi aveva sempre detto che Jethro era di una
brutta razza e che dovevo evitarlo.
E con brutta razza mio padre intendeva che Jethro non sarebbe
mai diventato ricco. Per mio padre un uomo non valeva niente se
non era ricco o non aveva il potenziale per diventare famoso.
In verità, ero gelosa di Sienna e Jethro. Se le voci erano vere,
nonostante si fossero incontrati appena cinque mesi fa, stavano
mettendo su famiglia. Avrebbero avuto un bambino, una piccola
perfetta persona da amare, accudire, coccolare e tenere stretta.
Era ciò che desideravo, più di ogni altra cosa al mondo.
Desideravo una famiglia tutta mia.
Superai la grande porta, i miei tacchi battevano sul linoleum,
lasciando le due donne alla loro conversazione mentre mi sforzavo
di mettere a tacere la mia invidia. Girai la maniglia ed entrai
nell’ufficio principale, cercando con gli occhi lo sceriffo James. Oggi
la stazione era trafficata, più del solito, e in generale era più grande
di quanto la gente si sarebbe aspettata dalla stazione di una piccola
città.
Lo stato del Tennessee aveva stabilito che ogni contea eleggesse
uno sceriffo con un mandato di quattro anni. Gli sceriffi erano
pubblici ufficiali con pieni poteri di gestione della pubblica sicurezza
della loro contea. Ma se le città avevano una propria forza di polizia,
gli sceriffi del Tennessee (e i loro vice) di solito si limitavano a
pattugliare le aree non incorporate delle loro contee.
Non era così per lo sceriffo James. Lui e i suoi vice si occupavano
dell’intera contea, erano responsabili delle tre città incorporate
all’interno dei confini della contea e inoltre dividevano la giurisdizione
del parco nazionale, per la parte nel Tennessee, con il guardia
caccia federale. Aveva un lavoro sostanzioso e una grande squadra.
Gli impiegati amministrativi erano accalcati attorno a una scrivania
e sussurravano ansiosamente. Solitamente, la maggior parte degli
agenti era in strada, di pattuglia. Non quel giorno. Scorsi almeno
cinque agenti che si aggiravano impazienti per la stazione di polizia.
All’interno dell’ufficio si respirava una inequivocabile aria di attesa.
«Jennifer Sylvester, è sempre un piacere».
Mi voltai dal pullulare di uniformi e vidi lo sceriffo venirmi incontro
con un sorriso amichevole e paterno in volto.
«Sceriffo James. Le ho portato del pane alle zucchine.» Lo
sollevai mettendolo tra noi, contenta di vedere il suo sorriso
allargarsi e risplendere.
«Non dovevi» disse, anche se prese il dono incartato nella
stagnola senza perdere tempo. «Tua mamma ha accennato
qualcosa sul registrare una dichiarazione sulle tue torte?»
«Sì, signore. Esatto. Vorrebbe che la registrassi mentre parla dei
cupcake che le abbiamo inviato, se non le dispiace».
«Capisco. Anche tu sarai nel video?»
Scossi la testa, nonostante sapessi che mamma mi voleva nel
video. Ma avevo escogitato un piano alternativo. «No, signore.
Registrerò un’introduzione in un altro momento, ora raccoglierò solo
la sua testimonianza. Non sarò nel video assieme a lei.»
Lui annuì, piegandosi in avanti mentre parlavo come se cercasse
di sentirmi meglio. «Ah, ok. Va bene. Ma andiamo nel mio ufficio.
Non ci disturberanno.»
«Ok...»
In quel momento, la porta dietro di me si spalancò e risuonò un
sonoro verso di esultanza. Mi girai proprio mentre Jackson James
faceva la sua comparsa, dietro di me. Mi mise poi le mani sui fianchi
e mi superò strizzandosi contro di me.
«Scusami, Jenn» disse il vice facendomi l’occhiolino, mentre si
intrometteva tra me e suo padre.
Jackson James era il solo figlio dello sceriffo James e di sua
moglie Janet. Avevano anche una figlia di nome Jessica che, fino a
poco tempo fa, insegnava matematica al liceo in cui mio padre
lavorava come preside.
Visto? Piccola città. Tutti conoscono tutti.
Jackson agitò eccitato in aria una grande busta marrone. «Ce
l’abbiamo, signore. Proprio qui dentro.»
«Non c’è voluto molto.» Gli occhi dello sceriffo brillarono e
scambiò con suo figlio il pane alle zucchine per prendere la busta,
aprendola poi velocemente mentre gli altri impiegati dell’ufficio dello
sceriffo si stringevano attorno a noi. Io feci un passo indietro e mi
misi di lato, non volendo essere d’intralcio.
«Il giudice Payton ha fatto il prima possibile.»
«Abbiamo avuto le prove solo stamattina.»
«Ha detto che le fotografie dipingono un quadro molto chiaro e
che era onorato di essere lui a firmare il mandato.» Jackson
picchiettò la busta con le dita e si scambiò sorrisi con gli altri vice.
«Ora rimane solo da decidere chi arresterà il bastardo.»
Lo sceriffo sospirò, scuotendo la testa come se non riuscisse a
credere a quanto stava leggendo. «Chiama Merryville e fatti
mandare dei rinforzi, prima di partire».
«Penso che noi sei riusciremo a gestire un biker mingherlino»
ribatté con sufficienza Jackson, ma senza essere irrispettoso. «E poi
Dale ed Evans sono già in strada.»
Dale ed Evans erano altri due vice, non presenti alla stazione in
quel momento. O almeno, io non li vedevo. Mi presi un momento per
osservare i presenti intorno a me.
Il mio cuore si fermò. Saltò un battito. Sobbalzò. Feci un passo
indietro, per riflesso. Un calore serpeggiante e sgradevole strisciò
nel mio petto e mi fece sprofondare lo stomaco. Avevo scorto un
uomo barbuto, lontano dalla folla, che armeggiava con una
macchina. Avrei riconosciuto ovunque quella barba. Cletus Winston,
il terzo dei fratelli Winston.
Come al solito, non mi vide.
Quando la gente in città mi ignorava, non ne ero troppo infastidita.
Pochi erano davvero meschini, e la maggior parte delle persone
meschine erano ragazze della mia età con cui ero cresciuta, o le loro
madri. Si dipingevano in volto sorrisi falsi davanti a me e alzavano gli
occhi al cielo appena davo loro le spalle. A quello ero abituata.
Cletus era diverso. Lui non mi vedeva affatto. Era come se non
comparissi nemmeno sul suo radar, neanche per un istante, e così
era da tutta la mia vita. Ero invisibile per lui.
Ma a me stava bene.
Cletus Winston era l’uomo più subdolo, più manipolatore, più
potente e, per quanto mi riguardava, più pericoloso del Tennessee
orientale. Il problema era che praticamente nessun altro sembrava
rendersene conto. In città, tutti pensavano che fosse strano, ma per
lo più innocuo.
Lui, invece, li ricattava per far fare loro quello che voleva, il tutto
facendo loro credere di aver deciso in piena autonomia.
Lo sapevo perché mi piaceva osservare le persone.
Non fraintendetemi, osservare Cletus non era poi un’attività così
male. Era attraente? Sì, lo era davvero. Come tutti i fratelli Winston,
era un bell’uomo.
Forse, la maggior parte delle persone, non lo favoriva quanto gli
altri fratelli, con le loro barbe curate, i fisici slanciati e la bellezza
classica. A prima vista si poteva non notarlo perché, con Cletus, era
necessario sondare oltre le apparenze per scovare il potenziale che
nascondeva.
Era più basso e piazzato dei suoi fratelli, il suo corpo era più solido
e muscoloso. La sua barba era cespugliosa e lunga, lunga
abbastanza da essere legata in una treccia come facevano i
vichinghi. Era evidente che non curava la sua barba oltre a
spazzolarla, oliarla e lasciarla crescere.
I suoi lunghi capelli castani avevano ciocche più chiare, in alcuni
punti erano ricci, in altri ondulati. Erano sparati in tutte le direzioni e
molte ciocche erano state schiarite dal sole fino a diventare bionde. I
capelli gli coprivano le orecchie ma non gli arrivavano alla nuca,
visto il loro costante stato di scompiglio. Pensavo che su qualunque
altra persona sarebbero stati adorabili.
Prima di realizzare quanto lui fosse spietato, avevo desiderato di
domare la sua criniera selvaggia e spuntargli la barba, appena
appena. Abbastanza da rivelare l’uomo attraente nascosto sotto tutto
quel caos. Mi ero spesso chiesta quanto la sua apparenza
disordinata fosse intenzionale, pensata allo scopo di dargli un’aria
trasandata e innocente. Chiaramente il suo travestimento
funzionava, perché tutte le persone ne erano ingannate.
Tuttavia, i suoi occhi avrebbero dovuto tradirlo. I suoi occhi
avrebbero dovuto rendere chiaro a chiunque lo guardasse davvero
che non era strano. Lui era follemente geniale. Erano verdi o color
nocciola, non ne ero sicura perché non mi aveva mai guardata negli
occhi e, quando ero nei paraggi, non restava quasi mai fermo per un
attimo, ed erano contornati da ciglia tanto folte da essere quasi
ridicole. Le sue ciglia erano talmente belle. Credo che le sue belle
ciglia confondessero le persone e le distraessero dal modo in cui i
suoi occhi brillavano di un’intelligenza non comune. Non gli sfuggiva
quasi mai nulla. Ed era capace di nascondere la sua espressione e i
suoi pensieri, di ingannare gli altri, grazie al modo in cui usava i suoi
occhi.
In ogni caso, nonostante la sua intelligenza malefica e il suo
travestimento da sciattone, Cletus Winston era notevolmente
attraente.
Già. Decisamente un bel vedere.
Ma a me non importava molto. Non ero interessata agli uomini di
bell’aspetto. Anche i fratelli King erano un bel vedere. Ma solo
perché qualcuno era di bell’aspetto, non significava che non fosse
uno psicopatico.
In questo momento, il volto di Cletus esprimeva affabile
indifferenza, ma i suoi occhi raccontavano tutta un’altra storia. Erano
affilati e attenti. Era chiaro che divideva la sua attenzione tra il
gruppetto di agenti tutti raccolti e la macchina davanti a lui,
ascoltando tutto pur mantenendo un’aria distratta.
Mentre lui osservava loro, io osservavo lui. Come diceva sempre
mia nonna: «Meglio tenere d’occhio la vipera in un fienile pieno di
topi».
Specialmente se sei un topo.
«Bene, allora farete meglio ad andare» disse lo sceriffo con
riluttanza, con una punta di preoccupazione nella voce.
Gli agenti iniziarono a prepararsi, l’aria era carica di anticipazione
mentre si scambiavano occhiate eccitate. Il vice Chris Williams si
girò e avanzò di un passo dritto contro di me, per poi farsi indietro un
poco. Allora mi rivolse un largo sorriso.
«Oh. Ciao, Jenn. Non ti avevo vista qui dietro.»
Io annuii in risposta al suo saluto, la mia attenzione si spostò su
Cletus. Il terzo Winston non guardava Chris e me, per fortuna.
Incuriosita, mi sporsi in avanti e sussurrai: «Dove andate tutti?»
Lui spinse il petto in fuori, orgoglioso. «Oh, da nessuna parte.
Andiamo solo ad arrestare Razor, sai, il presidente degli Iron
Wraiths.»
Le labbra mi si schiusero dalla sorpresa e mi raddrizzai di colpo.
«Santo cielo.»
Se Cletus Winston era l’uomo più pericoloso del Tennessee
orientale, Razor Blade St. Claire era il secondo. La differenza
principale tra i due era che Cletus controllava il suo potere tra le
ombre, mentre a Razor piaceva essere sfacciato in quasi ogni cosa
facesse.
In quanto presidente degli Iron Wraiths, club di biker, Razor si era
mosso al limite della legalità per anni, rimanendo sempre fuori dalla
portata del braccio della giustizia per un pelo. Era risaputo e
accettato da tutti che fosse un assassino. E un trafficante di droga. E
che si era macchiato di moltissimi altri sordidi crimini, uno più
tremendo dell’altro.
Il sorriso di Chris Williams si allargò mentre mi passava di fianco.
«Esatto. Il capo branco.»
Capo branco… Era una descrizione calzante.
Altri vicesceriffi mi superarono salutandomi con un cenno della
testa, ma la maggior parte sembrava rapita dall’eccitazione di
sbattere in prigione il capo degli Iron Wraiths. Quando furono tutti
usciti, lo sceriffo James fece un passo in avanti e mi rivolse un
sorriso piatto e distratto. Stringeva ancora in mano la busta. La sua
preoccupazione era del tutto comprensibile.
«Se vuole, posso ripassare un’altra volta» suggerii, non volendo
disturbarlo in un momento in cui la sua mente era occupata da
faccende più importanti.
«No, no. Non preoccuparti. In realtà, non vedo l’ora.» Si girò verso
Marion Davis, un’impiegata dell’amministrazione che bighellonava lì
intorno e la chiamò con la mano. «Marion, potresti portare questa a
George, al magazzino prove, per me?»
«Sì, signore.» Sorrise allegra, guardando la busta non più sigillata
con riverenza.
Lo sceriffo esitò per un istante e poi la piazzò nelle sue mani, in
attesa.
«Da questa parte.» Prese il pane alle zucchine incartato
nell’alluminio dove suo figlio l’aveva lasciato e mi fece cenno di
andare. Io lo seguii, lanciando occhiate furtive a Cletus Winston. La
sua attenzione era focalizzata sullo sceriffo. E poi sulla macchina
smista posta. E poi su Marion Davis. E infine di nuovo sullo sceriffo.
Stava tramando qualcosa e io non volevo sapere cosa.
Una volta entrati nell’ufficio dello sceriffo, scacciai dalla mente i
pensieri su Cletus il Macchinatore e preparai lo sceriffo per il video.
Studiai l’inquadratura: volevo avere il suo volto in un lato del video,
in modo che lo spettatore vedesse la stazione dietro di lui. Una delle
poche cose che mi piacevano dei video e della pubblicità su
Instagram erano i fondamenti della fotografia e del girare video che
stavo imparando di conseguenza. Dal punto di vista estetico,
mettere il soggetto da un lato era più accattivante visivamente
rispetto che piazzare una faccia in mezzo a uno schermo.
«Ok, pronto?» Gli rivolsi un sorriso incoraggiante.
Lui lo ricambiò, incrociando le braccia. Le sciolse e si accigliò.
«Cosa devo fare con le braccia?»
Il mio sorriso si allargò. «Cinga il polso destro con la mano
sinistra, di fronte a lei. Sì, proprio così. Sembra molto naturale.»
Lui annuì come se si trattasse di una questione molto seria e mi
fece segno di iniziare a registrare. Per cui lo feci.
Lo sceriffo aveva un talento naturale, il che era sorprendente,
considerando che di solito era un uomo di poche parole. Eppure non
ebbe problemi a parlare dei miei cupcake, e la cosa mi scaldò il
cuore. Avevo ottenuto quanto mi serviva, per cui non gli feci
registrare una seconda testimonianza.
Avevamo finito. Me ne andai poco dopo, notando con sollievo che
non c’era più nemmeno Cletus Winston. Non costituiva una minaccia
per me, ma mi rendeva comunque nervosa. Nessuno aveva il diritto
di essere tanto patologicamente intelligente e bello in modo
opprimente.
Uscita dalla stazione di polizia, passai al Piggly Wiggly. Comprai la
mia cassa settimanale di banane e la portai in pasticceria. Si stava
facendo tardi e iniziavo a sentirmi stanca, per cui portai la cassa
nella dispensa sul retro della cucina industriale.
E allora mi ricordai che avevo nascosto il mio mixer piccolo e gli
accessori nella credenza. Non avevo altra scelta: dovevo pulirli
prima di poter andare a casa e infilarmi sotto le coperte.
Ma ero a disagio. I piedi mi facevano male e il vestito che
indossavo mi stringeva dolorosamente sulle costole. Era uno di quei
vestiti con il bustino con le stecche incorporate: mi faceva apparire
davvero un figurino ma era anche una tortura da portare. Prima di
cambiarmi, mia madre mi aveva confiscato la salopette e la
pasticceria era da tempo deserta.
Per cui sgusciai fuori dal vestito, scalciai via le scarpe, mi staccai
le ciglia finte, mi misi un grembiule e lavai tutto in mutande e
giarrettiera. Molti potrebbero considerare il pulire seminudi un
comportamento bizzarro, ma io lo facevo di frequente. Ero spesso
da sola dopo il tramonto (o prima dell’alba) nella pasticceria.
Avevo quasi finito di lavare, stavo risciacquando l’ultima scodella,
quando il mio cellulare squillò. Era mia madre, che probabilmente si
chiedeva dove fossi.
Risposi con il mignolo, perché avevo le mani bagnate. «Ciao,
mamma. Sto finendo una cosa in pasticceria.»
«Stai preparando i tortini per domani? Di già?»
Repressi un gemito. Avevo dimenticato dell’ordine sostanzioso per
la colazione. «Uh, no. Non ancora. Sto… provando una nuova
ricetta.» Mentii, con una smorfia. Non mi piaceva mentire. Mi faceva
sentire accaldata e sudaticcia, come se stessi camminando sui sassi
mangiando un peperoncino.
«Oh, bene. Dopo mi racconterai. Ti chiamo per il video, quello con
lo sceriffo.»
«Sì, io...»
«Beh, dovrai farlo la settimana prossima. Non hai sentito cos’è
successo alla stazione?»
Chiusi il rubinetto. Ogni volta che mamma diceva “non hai
sentito...” significava che stava per spettegolare.
«No, cosa vuoi dire?»
«Sembra che siano sparite delle prove importanti e lo sceriffo
James, poveretto, è furioso. Dolly Payton mi ha detto che il giudice
ha detto che aveva firmato un mandato e tutto il resto per quel biker
disgraziato, Laser o qualcosa del genere.»
«Razor. Razor St. Claire.» Il cuore mi balzò in gola.
«Esatto, lui. Una persona orribile. Comunque, Dolly ha chiamato la
stazione per congratularsi con lo sceriffo e chiedere se volessero un
po’ di zuppa inglese per festeggiare e indovina cos’è successo?»
«Io… non saprei.»
«Flo McClure le ha risposto da impertinente al telefono. Alla fine,
Dolly è riuscita a parlare con una delle segretarie dell’ufficio e lei le
ha detto che le prove erano sparite e che l’ufficio era un putiferio. E
poi, sai...»
Mamma stava ancora parlando, ma io l’ascoltavo e non
l’ascoltavo, perché i peli sulla nuca mi si stavano rizzando. Mi
asciugai le mani e toccai lo schermo del mio cellulare, chiudendo la
schermata della chiamata mentre mamma continuava a raccontare
la sua storia dal vivavoce. Selezionai il video che avevo girato quel
giorno e iniziai a cercare tra i fotogrammi, senza farlo partire.
La bocca mi si spalancò, il cuore si fermò e i palmi mi iniziarono a
sudare.
Sapevo cos’era successo alle prove o, per meglio dire, sapevo chi
aveva fatto in modo che qualcosa succedesse alle prove. Avevo
ripreso l’intera scena.
“Considerate l’astuzia del mare: come le sue creature più temute vanno
scivolando sott’acqua, quasi del tutto invisibili, e nascoste perfidamente sotto
le più amabili tinte d’azzurro.”
- Herman Melville, Moby Dick

«Com’è possibile che una trasmissione costi tanto? Non ho tutti


questi soldi da spendere in una nuova trasmissione!»
Nonostante i miei migliori propositi, avrei dovuto dire a Deveron
Stokes una menzogna.
«Il conto non è solo per la trasmissione. Le faremo uno sconto su
quello, signor Stokes. Ecco, qui, vede? La sua marmitta ha bisogno
di nuovi cuscinetti. E il fluido dei battistrada era quasi finito, è
pericoloso. Per non parlare delle candele del telaio e della manovella
tutta ridacchiata.»
Manovella ridacchiata era una novità. Me l’ero inventata su due
piedi. Beau era più bravo di me in queste cose, ma in questo
momento non c’era. Il cretino.
Deveron sospirò, guardando il conto sul bancone tra noi e
sbattendo le palpebre velocemente. La sua espressione aggrottata
si fece più accentuata. Scosse la testa. «Allora, d’accordo. Voglio
dire, immagino che alla macchina serva un bel po’ di lavoro.
Apprezzo lo sconto sulla trasmissione».
Io annuii, con un cenno austero. Ero bravo ad annuire con cenni
austeri. Era probabilmente il mio cenno migliore e meglio ricevuto.
Le persone si tranquillizzavano sempre quando glielo rivolgevo, per
cui ne facevo un ampio uso.
Il signor Stokes alzò lo sguardo. «Sei davvero un amico, Cletus».
Annuii con un cenno austero una seconda volta, ma non dissi
niente.
Il signor Stokes non era mio amico.
Il signor Stokes non era una brava persona.
Non pagava l’assegno di mantenimento ai figli da sei anni, ma
riusciva sempre a non farsi mancare whiskey, donne e sigarette.
Tuttavia, quest’uomo non mi piaceva da ben prima di scoprire questo
fatto ripugnante.
Non mi piace giudicare le persone.
Lo adoro.
Decidere di non considerare affatto qualcuno era liberatorio.
Le prime impressioni sono solitamente corrette. Le mie prime
impressioni erano sempre corrette. Questo perché utilizzavo un
approccio molto scientifico per farmi un’impressione e io ero nato
con una logica infallibile. Concedevo dieci minuti. Se non avevo dieci
minuti, rimandavo l’idea di farmi un’impressione finché tale lasso di
tempo non fosse stato disponibile. Non avevo mai infranto la mia
regola dei dieci minuti. Una volta avevo aspettato sei mesi prima di
farmi un’opinione sul nuovo pastore perché non ero riuscito a trovare
i dieci minuti richiesti.
A mamma non era piaciuto che mi fossi rifiutato di guardare il
nuovo pastore durante quei mesi, ma non si poteva piegare o
distorcere il metodo scientifico. Era sacro. E dieci minuti erano
quanto mi era sempre servito per valutare il carattere di qualsiasi
persona.
Per i primi cinque minuti, non guardavo lui o lei. Chiudevo gli occhi
o mi studiavo i piedi, o spostavo lo sguardo da un’altra parte. In
questo modo non mi facevo subito un’impressione basata
sull’aspetto esteriore.
Poi allungavo la mano, ogni singola volta, e giudicavo il tipo di
stretta che ricevevo da lui o lei. Troppo molle? Troppo decisa?
Esitante?
Ascoltavo la voce della persona e il suo vocabolario, il lessico dei
suoi pensieri. Era sicura di sé? Erudita? Pomposa? Quali argomenti
tirava fuori? Era interessata a parlare solo di se stessa? O preferiva
non essere al centro dell’attenzione?
Dopo cinque minuti in ascolto passivo, interrompevo la
conversazione per chiedere che tipo di macchina lui o lei guidasse.
Allora, e solo allora, rivolgevo lo sguardo alla persona. La macchina
non era importante. Quello che contava era come lui o lei parlava
della macchina. Si capiva molto di una persona da come parlava
della propria macchina. Era orgogliosa? Imbarazzata? Incerta?
La risposta a tale domanda richiedeva solitamente un tempo
compreso tra i dieci secondi e i cinque minuti. Per il termine del
monologo sui motori, avevo raggiunto la mia conclusione.
Naturalmente io amavo il prossimo mio. Mamma mi aveva
cresciuto come si deve. Senza dubbio comprendevo la saggezza
dell’amare il prossimo, del fare agli altri ciò che vorremmo venisse
fatto a noi, ed essere gentile per il solo piacere di esserlo. Solo,
preferivo amare il prossimo a una certa distanza. Mi piacevano le
relazioni a distanza, quelle in cui parlare e ascoltare non accadeva di
frequente.
Nella mia vita c’era posto solo per ventiquattro persone (al
massimo) e avevo già sei fratelli. Ventiquattro persone significava
una media di due compleanni al mese. E nessuno aveva tempo per
più di due feste di compleanno al mese. Sarebbe stata una quantità
eccessiva di torta di compleanno e io ero molto esigente riguardo le
torte.
Ma torniamo a Deveron Stokes e alla sua trasmissione.
Si sfregava il collo, accigliandosi mentre guardava il conto. «Il fatto
è, Cletus, che… ecco, io in questo momento non ho i soldi per
pagare tutti questi lavori.»
Annuii, più pensieroso che austero. «Allora, Deveron, hai due
opzioni. Puoi chiamare un carro attrezzi e far portare via la macchina
dal parcheggio a tue spese finché non hai i soldi. O forse possiamo
cercare di trovare un accordo.»
La cosa non mi sorprendeva. In realtà, contavo sul fatto che si
sarebbe tirato indietro al momento di pagare.
La campanella sopra la porta suonò mentre si apriva,
annunciando l’ingresso di un nuovo cliente. Io mi piegai di lato,
guardando oltre Deveron per vedere chi fosse entrato.
Era Jethro, il mio fratello più grande. Accanto a lui c’era una donna
alta che non riconobbi. Mi costrinsi a distogliere lo sguardo prima di
dedurre troppo in base al suo aspetto esteriore.
«Che genere di accordo?» chiese Deveron, con aria
estremamente sfuggente.
«Oh, niente di sconveniente, signor Stokes.» Era un’altra
menzogna.
Il signor Stokes lavorava come stiratore alla lavanderia a secco e
come cameriere al Front Porch, anche se era pagato in nero e non
faceva ufficialmente parte dello staff, un altro trucchetto per non
pagare il mantenimento dei figli. In un altro momento, molto più tardi,
gli avrei spiegato che il primo dei favori che mi doveva sarebbe stato
di cospargere l’uniforme inamidata di Jackson James di polvere
pruriginosa. L’agente James aveva commesso l’errore di fermarmi
con la macchina, la settimana scorsa, senza alcun valido motivo e in
un momento in cui non ero dell’umore per essere fermato.
Una piccola serie di piaghe si sarebbe abbattuta sul vicesceriffo
nel corso delle prossime settimane. Avevo considerato di attaccargli
la lebbra tramite un’infestazione di armadilli, ma poi avevo scartato
l’idea. Magari un’altra volta.
Il signor Stokes deglutì nervosamente. «Allora… immagino si
possa fare. Qualunque cosa ti serva, Cletus.»
Presi un mazzo di chiavi da dietro il bancone assieme alle
scartoffie per la macchina a noleggio e le piazzai fra noi. «Bene. Ho
in mente qualche favore da chiederti. Parleremo dopo dei dettagli,
ma ho bisogno che tu me li faccia prima di iniziare a lavorare al tuo
furgone. Nel frattempo, ti offrirò con piacere una delle macchine
dell’officina al prezzo di dieci dollari al giorno, da pagare in anticipo e
in contanti».
Deveron Stokes annuì nervosamente. Non era una brava persona,
ma non era nemmeno privo di neuroni. Estrasse il portafoglio, mi
tese una banconota da cento dollari (come avevo detto, non si
faceva mancare whiskey, donne e sigarette) prese la chiave e le
scartoffie. Si girò verso una delle sedie sparse nella piccola sala
d’attesa e iniziò a scribacchiare sul foglio.
Tutte le nostre macchine di cortesia erano berline Dogde Neon del
1990. Ne avevo un intero parco, pronte a partire e in buone
condizioni per clienti come Deveron Stokes. Avevamo molti clienti
come Deveron Stokes. Senza alzare lo sguardo, feci cenno a mio
fratello e alla donna alta di avvicinarsi, mentre mi tenevo occupato
scrivendo appunti sul preventivo per la riparazione del veicolo del
signor Stokes. «Saluti, Jethro. Qual buon vento ti porta nel nostro
umile negozio di riparazione di veicoli?»
«Ciao, Cletus. Volevo presentarti Shelly Sullivan. È appena
arrivata in città e cerca lavoro come meccanico.»
Mi accigliai in automatico: non perché fossi contrariato, ma perché
ero sorpreso. Riuscii a malapena a trattenermi dall’effettuare una
valutazione visiva della donna meccanico. Erano una specie rara,
che non si vedeva spesso.
«Piacere di conoscerla, signorina Sullivan» dissi al bancone.
«Signor Winston.»
Mi accigliai ancora di più perché la sua voce era… a essere
completamente onesti, era strana. Diretta, roca, come se non fosse
abituata a parlare e non gradisse farlo. Veniva dal nord. Decisi da
Boston. Ma il suo accento era leggero, quasi impercettibile. Mi finsi
molto impegnato a controllare il preventivo davanti a me. «Mi dica
qualcosa di lei, signorina Sullivan.»
Sapevo che Jethro stava ghignando senza bisogno di alzare lo
sguardo. Conosceva bene il mio modus operandi e spesso lo
trovava divertente. Non mi avrebbe sorpreso se avesse preparato la
signorina Sullivan all’intero processo, perché lei non sembrò per
nulla offesa dalla mancanza di contatto visivo diretto.
«Faccio lavori di saldatura da quando avevo quattordici anni e
riparo macchine più o meno da allora. Ho imparato da sola tutto
quello che so, ho appreso sperimentando sul campo o facendo
ricerche. E sono molto brava.»
Alzai le sopracciglia, aspettando che continuasse. Non lo fece.
«Altro?» la invitai.
«Niente di rilevante» rispose.
Nonostante la mia tendenza a controllare strettamente tutte le mie
espressioni esteriori, sorrisi. Mi piacque come aveva usato la parola
rilevante. Implicava che considerava cosa fosse rilevante prima di
fornire volontariamente informazioni. Era una cosa che non si poteva
insegnare alla gente.
Jethro intervenne. «Ti ricordi Quinn Sullivan? Il marito di Janie,
l’amica di Ashley? Quella rossa molto carina?»
«Quinn non è una rossa carina. A quanto ricordo, lui ha una bella
chioma di capelli castani.»
«No, scemo» brontolò Jethro. «Janie era la rossa carina, non
Quinn. Shelly è la sorella di lui.»
«Ah.» Annuii, senza alzare lo sguardo. Non mi dispiaceva il
nepotismo, l’importante era che le sue radici fossero ben consolidate
nella meritocrazia. Quinn era un tipo pratico, che preferiva agire
piuttosto che sprecare parole. Mi piaceva abbastanza. Se fosse
vissuto nei paraggi, forse sarei andato alla sua festa di compleanno.
Era giunto il momento di stringerle la mano, per cui le tesi la mia e
lei vi fece scivolare il palmo. Aveva una mano grande, per una
donna, lunghe dita irruvidite da calli. La sua stretta era decisa,
coincisa e sicura di sé. Ma io notai distrattamente questi dettagli,
perché una misteriosa scossa di qualcosa mi risalì il braccio non
appena la nostra pelle si toccò.
Violai le mie sacre regole scientifiche perché ero sorpreso.
Alzai lo sguardo. Alzai lo sguardo e guardai la signorina Shelly
Sullivan.
E per l’oscillatore a vapore di Tesla! Era una donna bellissima.
«Perché fai quella faccia?» Jethro agitò l’indice di fronte ai miei
occhi.
Non mi piacque. Gli afferrai il dito e, torcendolo, lo scacciai.
«Quale faccia?»
«Come se fossi arrabbiato e costipato. So che non sei costipato.
Bevi quel tuo disgustoso caffè ogni mattina con l’aceto di mele e lo
sciroppo d’acero.»
«Non è sciroppo d’acero.»
«Miele, scusa.» Alzò le spalle.
«È melassa nera grezza. L’unica somiglianza tra il miele e la
melassa è la loro viscosità.»
«Sì, va bene». Alzò di nuovo le spalle. «Perché fai quella faccia?»
«Ovviamente perché sono irritato» brontolai. Non brontolavo in
pubblico se potevo evitarlo, lo facevo solo di fronte alla mia famiglia
perché mi fidavo di loro… il più delle volte.
«Perché sei irritato?» Jethro continuò a punzecchiarmi e io avvertii
un sorriso tra le sue parole. «Non ti piace la signorina Sullivan?»
Contro la mia volontà, i miei occhi si spostarono verso il punto in
cui la donna alta e il mio fratello più piccolo Duane erano piegati
sotto il cofano di una Ford Focus. La studiai. La sua espressione era
assorta mentre lo ascoltava, il suo atteggiamento mostrava
sicurezza e naturalezza. Non pensava che al lavoro. Sì. Ancora
perfetta.
«Naturalmente mi piace la signorina Sullivan.»
«Quanto ti piace?»
«Molto.» Feci una smorfia. Non facevo nemmeno le smorfie, in
pubblico. Ma non avevo smesso di farne una dietro l’altra da quando
lei era arrivata. Non era un buon momento per incontrare la donna
della propria vita. Avevo troppo da fare, troppa carne al fuoco. Alcuni
esempi:
1. Giocarmi la rivincita a shuffleboard con il giudice Payton sabato.
2. A ottobre avevo un talent show a Nashville e non avevo ancora
iniziato con le prove.
3. A novembre c’era il matrimonio di Jethro e Sienna.
4. Verso il Ringraziamento, sarei dovuto andare in Texas: le mie
riserve di salsiccia di cinghiale selvatico erano pericolosamente
scarse.
5. Entro Natale, dovevo smantellare e annientare una pericolosa
organizzazione criminale con l’aiuto dei fratelli King… solo che mi
stavano aiutando a loro insaputa.
6. Domenica dovevo preparare il sugo per gli spaghetti.
Jethro ridacchiò e mi mise una fastidiosissima mano sulla spalla.
«Beh, che io sia...»
«Un babbuino con la dissenteria.»
Rise più forte. «Non avrei mai pensato di vedere questo giorno.
Sei cotto».
«Già» ammisi senza problemi, perché era la verità. Per i miei
standard, ero bello cotto. Inutile negarlo. Se si prendevano in esame
i fatti, io e Shelly Sullivan eravamo una accoppiata perfetta. Era una
questione di scienza.
Lei era un meccanico. Era diretta. Era intelligente. Era
competente. Non sembrava avesse sentimenti che potevano essere
feriti. Era chiaramente oculata nella scelta delle sue frequentazioni.
Inoltre, come bonus, quando avevo alzato lo sguardo troppo
prematuramente durante la presentazione e avevo incontrato i suoi
occhi, dalla sua bocca erano uscite, molto prosaicamente, le
seguenti parole: «Che strano. Come fate voi Winston a essere tutti
così belli?»
Capite? Era diretta.
A me piaceva il suo aspetto e a lei piaceva il mio. Era solo una
questione di tempo. Saremmo stati perfettamente pratici, insieme.
«Se ti sei preso una cotta, perché sei irritato?»
«Perché non mi sbaglio mai. E questo significa che Shelly Sullivan
è la donna giusta. E quello attuale non è un buon momento per me
per incontrare la donna giusta.»
Il sorriso di Jethro sparì e alzò quasi gli occhi al cielo. Quasi. Ma si
fermò appena in tempo, probabilmente perché sapeva che non
tolleravo le alzate di occhi al cielo.
«Oh, fratello mio. Una donna non può piacerti e basta, senza
essere per forza la donna della tua vita?»
«No.»
«Sono cavolate, Cletus. Sei stato con altre donne e nessuna di
quelle era la donna giusta».
Lo fissai in cagnesco, senza alcuna intenzione di spiegargli l’ovvio.
Chiaramente mio fratello non capiva il concetto di ricerca:
l’importanza di raccogliere dati, la necessità di sperimentare teorie e
l’importanza dell’analisi post-coitale. Alcune cose non si possono
scoprire in laboratorio. Conoscere qualcosa nella teoria non serve a
niente se non si ha esperienza con l’applicazione nella vita reale.
«Forse lei non è la donna giusta» suggerì, forse sfinito dalla mia
occhiataccia silenziosa. «Probabilmente sei solo attratto da una
signorina eccezionalmente bella. Non ci hai pensato?»
«No. Lei è la donna giusta per me.»
«Mamma diceva sempre che il tuo problema è che ti fissi sulle
cose. Quando ti metti in testa qualcosa, non riesci a smettere di
pensarci. Uno di questi giorni, questo tuo prendere decisioni troppo
in fretta ti farà finire in un mucchio di guai».
Gli risposi con un grugnito evasivo. La nostra mamma diceva
spesso che ero un “fissato”. Aveva ragione. Ero un fissato. Mi
fissavo. Mi concentravo. Era un buon tratto caratteriale in quanto
riuscivo sempre a raggiungere senza troppe difficoltà un obiettivo,
una volta fissatolo. Ma era un pessimo tratto caratteriale perché a
volte non riuscivo a smettere di concentrarmi su qualcosa, nemmeno
quando avrei voluto farlo.
«Perché deve essere tutto o bianco o nero?» insistette Jethro.
«Perché ogni persona deve essere uno zero o un dieci nella tua
scala di valori? Forse lei è un sette, o un quattro.»
Alzai le spalle. «Non ho tempo per quattro o sette, ho troppe cose
da fare. Se qualcuno non è un dieci, allora è uno zero».
Sospirò sonoramente, sembrava una camera d’aria che si
sgonfiava. Non un suono molto genuino. «Va bene, come vuoi. Fai
come ti pare. Tanto fai sempre come ti pare».
«Lo farò. Ora, cos’è che vuoi?»
Alzò un sopracciglio. «Cosa vuoi dire?»
«Se sei ancora qui a bighellonare, non lo fai per l’aria buona. Vuoi
chiedermi un favore.»
Il sopracciglio si abbassò e ora Jethro stava stringendo le
palpebre, sospettoso, il che significava che avevo ragione.
«Come fai a sapere queste cose?»
«Io so tutto. Chiedi, allora. Ho da fare.»
«Stai già pianificando le nozze?» Mi punzecchiò Jethro.
Socchiusi le palpebre a mia volta, non apprezzavo i suoi
punzecchiamenti. «Qualcosa del genere.»
Colse la mia irritazione e cambiò argomento. «E va bene. Senti,
Sienna...»
«Vuoi dire la tua futura sposa».
«Sì, Sienna...»
«Dovresti chiamarla la tua futura sposa.»
«Cosa? Perché?»
«Perché lei è questo per te. Io sono tuo fratello e allora tu dici ‘Mio
fratello’. Sienna è la tua fidanzata e futura sposa e ha meritato
questo titolo nella tua vita. Sopporta il tuo brutto muso e le tue
pessime maniere, il minimo che tu possa fare è chiamarla con il titolo
appropriato».
Jethro fece un fischio basso prima di dire: «Caspita, allora sei
davvero irritato.»
«Mi sto solo meritando il mio titolo di fratello. Ora, torniamo alla
tua promessa sposa».
«Va bene, vecchio mutandone. Allora, la mia futura sposa e io ci
trasferiamo nella rimessa dei carri quando torna a casa, la prossima
settimana.»
«Non le piace vivere con noi?» Ero dispiaciuto. Mi piaceva Sienna.
Mi faceva ridere e spesso mi sorprendeva con pagliacciate e
scherzetti. Poche persone erano capaci di sorprendermi. «È per i
turni al bagno? Non le piace l’idea?»
«No. Non le dispiace, anzi, voleva inserire anche lei il suo turno
nella programmazione.»
Sorrisi. «Divertente».
Jethro si accigliò. «No, non è divertente. E non dirlo nemmeno.
Non mi piace vivere con Sien...» Si interruppe, sbuffando, appena mi
vide alzare le sopracciglia nella sua direzione, e ricominciò da capo.
«Non mi piace vivere con la mia futura sposa e i miei cinque fratelli,
ognuno dei quali si è più che meritato il titolo, nella mia vita. Per cui
ci trasferiamo nella rimessa dei carri.»
«Non vivi con cinque fratelli. Roscoe è tornato alla scuola dei
cavalli.»
«Vuoi dire la facoltà di veterinaria».
Annuii con un cenno. «È quello che ho detto, no? E Duane e
Jessica partiranno prima del Ringraziamento per l’Italia. E chi lo sa
quando torneranno? Quindi vivresti con solo tre dei tuoi fratelli».
Lui ignorò questo dettaglio. «Tornando alla rimessa dei carri.
Posso fare io il lavoro grosso, finire la struttura di sostegno e il resto.
Ma ho bisogno del tuo aiuto con i lavoretti: mettere su il cartongesso,
far passare i cavi nei muri. Se avessi più tempo a disposizione, non
te lo chiederei».

Scacciai la sua spiegazione con una mano. «Perché non ti


trasferisci a casa di Claire? Non te l’ha offerta prima di lasciare la
città?»
Claire McClure era, sotto tutti gli aspetti, una persona di alta
qualità. Un dieci senza dubbio. Avevo dovuto sudare sette camicie,
ma ero riuscito a indurla con l’inganno a partecipare con me a un
talent show a Nashville il mese prossimo. Lei avrebbe cantato e io
avrei suonato il banjo. Non volevo vincere il talent show, ma volevo
comprare una macchina da uno dei giudici.
Era la gemella perfetta di una macchina già in mio possesso, e la
volevo. La macchina era troppo vistosa, non si mimetizzava, tutti
sapevano che apparteneva a me e pertanto possederne una
seconda mi avrebbe permesso di essere in due posti diversi
contemporaneamente.
Sfortunatamente, il giudice non sapeva ancora di volermela
vendere.
Claire era anche una buona amica di Jethro, ma si era trasferita
da poco a Nashville dopo aver accettato una cattedra, anche se era
solo una delle ragioni. Il vero motivo per cui aveva lasciato la città
era per evitare mio fratello Billy. Ma questa è una storia troppo lunga
e troppo deprimente.
«Sì, Claire mi ha offerto casa sua. Ma non mi piace l’idea di
lasciare completamente la nostra proprietà. Dopotutto, è casa mia.
Mamma l’ha lasciata a me. E io voglio che i nostri figli ci vivano fin
dalla nascita.»
«Hai intenzione di avere dei bambini la settimana prossima?»
Gli occhi di Jethro si allontanarono dai miei e iniziò a muovere
nervoso i piedi, mentre un sorriso compiaciuto e colpevole gli si
dipingeva in volto.
E io capii.
«Aspetta un attimo...»
Jethro si premette un dito sulle labbra. «Shhhhh...»
«Sienna è incinta!»
«Piano!» Jethro mi tappò con la sua fastidiosissima mano la
bocca, accompagnando al gesto uno sguardo severo. «Tappati la
bocca».
«Erfrenmafma» dissi. Era una parola senza senso, naturalmente.
La sua mano mi copriva la bocca, dunque non potevo parlare.
Lui socchiuse le palpebre, ammonendomi silenziosamente e poi
abbassò la mano. «Cos’hai detto?»
«Era ora che mettessi incinta quella donna».
«Cletus. Siamo fidanzati ufficialmente da solo due mesi.»
«Lo so, ho tenuto il conto. Beh...» Mi sfregai le mani: era un’ottima
notizia. La migliore delle notizie. «Quando iniziamo con la rimessa?
Stasera? Aggiungeremo una stanza per il bambino. Giallo è un bel
colore. Forse questo spingerà Ashley e Drew a darsi una mossa. Io
sarò il padrino, naturalmente. Cletus è un bel nome.»
A quel punto lui alzò gli occhi al cielo, ma sorrise anche. Gli
concessi l’alzata di occhi perché aveva appena creato un
discendente Winston. «Se ti piacciono così tanto i bambini, perché
non ne fai qualcuno di tuo?»
Il mio buon umore si smorzò. Non fu un annichilimento completo
della mia felicità, ma una leggera attenuazione.
«Oh, io non avrò mai bambini» risposi, ma prima che lui potesse
pensare bene o troppo a lungo a quanto avevo detto, aggiunsi, con
un sorriso eloquente: «Ma questo non significa che non possa
viziare i tuoi.»
“Se lui è il signor Hyde” pensava,
“Allora io sarò il signor Seek.”
- Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dr. Jekyll e il signor Hyde

«Grandi notizie!»
L’annuncio di mia madre mi fece sobbalzare. Aveva l’abitudine di
apparire dal nulla e proclamare annunci ad alta voce. Io ero una
persona quieta e le sue grida di solito mi prendevano alla sprovvista.
«Di che si tratta, nocciolina?» Mio padre alzò lo sguardo dal suo
giornale, con un sorriso tollerante in volto. Era molto indulgente con
mia madre da quando lo chalet aveva iniziato a guadagnare bene.
Mia nonna diceva che lui era una persona che incoraggiava
eccessivamente, e che era un bene che mamma non fosse
un’alcolista perché in quel caso lui sarebbe stato quello che le
versava i drink.
«Ho appena finito di parlare al telefono con Jacqueline Freeman.»
Mamma spostò lo sguardo tra me e mio padre.
Eravamo seduti al tavolo della cucina. Era domenica mattina
presto e io mi ero appena seduta, dopo aver passato le ultime
quattro ore a preparare leccornie per la pasticceria. La domenica era
sempre una giornata piena grazie alla folla che andava in chiesa.
Quando continuammo a guardarla con perplessità, lei sbuffò,
scuotendo la testa verso di noi. «Jacqueline Freeman? La talent
agent? A New York?»
«Oh.» Mio padre saltò sulla sedia. «Giusto. Mi ricordo che ne hai
parlato il mese scorso. Che emozione. Di sicuro porterà un sacco di
ricavi agli affari. Era proprio ora di cambiare la barca.»
Io feci una smorfia, contrariata, non coglievo il succo della
conversazione. «Perché avresti parlato con una talent agent?»
«Jennifer, non fare quella faccia. Ti farà venire le rughe.»
Alzai gli occhi al cielo, guadagnandomi uno sguardo severo da
entrambi i miei genitori. «Jennifer Anne Sylvester» iniziò mia madre,
accigliandosi severa, «sai che non mi piace quando ci manchi di
rispetto.»
«Ascolta tua madre, Jennifer» aggiunse mio padre, senza che ce
ne fosse bisogno.
«Chiedo scusa» offrii fiaccamente, mentre una punta di istintivo
senso di colpa mi germogliava in petto. Scossi la testa. «Scusatemi,
sono solo stanca.»
Lo ero davvero. Non dormivo bene da quando avevo ripreso il
fattaccio alla stazione di polizia, a inizio settimana. Non sapevo cosa
fare e non avevo nessuno con cui parlarne.
Mamma non si era resa conto che ero già andata alla stazione e
avevo registrato il video promozionale, per cui non me l’aveva
ancora chiesto. Tutte le accuse contro Razor erano cadute. A quanto
si diceva, era stato arrestato per un reato minore, possesso di droga;
niente di troppo serio, ma quanto bastava a chiuderlo in prigione per
qualche mese.
Senza le prove scomparse, invece non avevano potuto trattenerlo
in custodia.
Non avrei dovuto pensarci due volte a consegnare Cletus alle
autorità. Aveva preso le prove, io l’avevo registrato, per cui avrei
dovuto chiamare lo sceriffo e mostrargli il video immediatamente. Ma
non l’avevo fatto. Ogni volta che pensavo di alzare la cornetta,
pensavo a una scusa: ero troppo stanca, troppo occupata, troppo
comoda sotto le coperte.
Non volevo pensare alla vera ragione per cui non l’avevo ancora
consegnato alle autorità, perché la vera ragione faceva di me una
persona orribile.
Per cui mi tormentavo e cuocevo dolci.
«Non preoccuparti. Ora, dov’ero rimasta? Credo di essermi
scordata di dirtelo.» Mamma iniziò ad agitare le mani per aria, tutta
eccitata. «Beh, dunque: Jacqueline Freeman è una talent agent di
New York, come ho già detto, e di punto in bianco ha ricevuto una
chiamata da quelli della Banana Chiquita, che chiedevano di te. Lei
è in contatto con quelli della Kraft e… lascia perdere. Non è
importante.»
Cercavo di seguire ma facevo fatica a trovare un senso in quella
sua spiegazione sconclusionata. «Quindi, questa signora a New
York...»
«Jacqueline Freeman, una dei migliori talent agent.»
«La signora Freeman ha ricevuto una chiamata da quelli della
Banana Chiquita e chiedevano di me?»
«Esatto.»
«Perché dovrebbero chiamare lei?»
«Perché è così che funziona.»
«Così che funziona cosa? E poi perché hanno chiamato?»
«Non è ovvio? Vogliono che tu sia la loro testimonial. Ti vogliono
nelle loro pubblicità, te e le tue torte.» Batté le mani e poi si rivolse a
mio padre. «Oh, questo ci faciliterà tantissimo le cose con gli
investitori dello chalet. Non appena lo sapranno, l’affare sarà
praticamente concluso. Dio, non sai che peso mi toglie dalla mente.»
Nel frattempo, il mio stomaco iniziò a contorcersi. Mi sentivo come
se dovessi vomitare.
«Pubblicità?» chiesi con un filo di voce.
«Esatto. Televisive, per iniziare, e Jacqueline ha accennato a uno
show culinario più avanti. Ma prima inizieresti come ospite nei
programmi del Food Network. Jennifer, non credo serva dirti quanto
tutto questo sia importante, bambina. Ci siamo, questo è
esattamente ciò in cui speravamo.»
Il cuore iniziò a battermi fiaccamente nelle orecchie, prima di
partire al galoppo. La stanza iniziò a inclinarsi. Cominciai a sudare
freddo. Gola e bocca erano aride come il deserto.
TV? Show culinari?
«Jenn?» fece mia mamma, con voce lontana. «Tesoro, stai
bene?»
Non voglio niente di tutto questo. Non voglio niente di tutto questo.
«Non voglio… Posso...» Cercai di deglutire ma non ci riuscii. La
stanza stava girando. «Posso avere un bicchiere d’acqua?»
«Bambina mia, non hai un bell’aspetto.»
L’oscurità iniziò a strisciare ai margini nella mia visione laterale e
io puntai i palmi contro il piano del tavolo per mantenere l’equilibrio.
Troppo tardi.
L’ultima cosa che vidi prima di arrendermi all’oscurità fu il volto di
mia madre sopra di me, fuori di sé dalla preoccupazione.
Mi svegliai in un’ambulanza.
Al Pronto Soccorso a Knoxville mi fecero un sacco di esami. Alla
fine i dottori decisero che era stata colpa della disidratazione e della
stanchezza. I fluidi mi furono somministrati e io venni rispedita a
casa con un severo ordine di riposare. Quando uscii dall’ospedale mi
sentivo più un puntaspilli che una persona, e avevo deciso cosa fare
riguardo Cletus Winston.
Quando mio fratello se n’era andato di casa per arruolarsi
nell’esercito, anni fa, io mi ero trasferita nella sua vecchia camera,
nonostante fosse più piccola della mia. Mamma non aveva capito
perché volessi la stanza più piccola al primo piano, quella con la
finestra che dava sul porticato quando avrei potuto avere invece
quella più grande al secondo, con la finestra che dava sulle
montagne.
Non aveva capito che mi serviva una via di fuga. Non ero solita
sgattaiolare fuori. L’avevo fatto solo due volte e mi ero assicurata di
non essere scoperta. Ma il solo sapere che me ne sarei potuta
andare, se l’avessi voluto, rendeva la realtà quotidiana meno
opprimente.
Mi piaceva l’idea di poter preparare una borsa, in qualsiasi
momento, e scomparire. Mi piaceva sapere che sarei potuta svanire,
lasciarmi alle spalle gravose aspettative. Non l’avrei mai fatto, non
avrei mai potuto guardarmi allo specchio se avessi ferito i miei
genitori in quel modo, specie la mia mamma, ma mi piaceva sapere
di avere la possibilità di farlo.
La prima volta che ero sgattaiolata fuori di casa avevo diciassette
anni. Un mio amico di penna era a Knoxville e mio padre mi aveva
proibito di incontrarlo. Determinata, ero uscita dalla finestra, avevo
calcato un cappellino da baseball e avevo incontrato Oliver Muller e i
suoi genitori al Daisy’s Nut House per un caffè decaffeinato e una
fetta di torta vecchia di un giorno. Oliver e la sua famiglia erano
davvero simpatici. Era più grande di me di solo un anno e da allora
era andato all’Università di Berlino, dove si era laureato in ingegneria
elettronica.
La seconda volta, avevo vent’anni. Un artista che mi piaceva si
esibiva a Knoxville e mamma non voleva che andassi. Aveva detto
che la gara di pasticceria della fiera statale era alle porte.
Determinata, avevo usato nuovamente la finestra, preso in prestito la
macchina della mamma ed ero andata al concerto tutta da sola e mi
ero divertita come mai in tutta la MIA VITA. Non avevo avuto paura.
Volevo vedere quel concerto, quindi ci ero andata.
Quella sera avrei usato la mia via di fuga per guidare fino a casa
dei Winston e affrontare Cletus Winston.
Ero spaventata a morte.
Ma ero determinata.
Non appena scese la notte, mi infilai i miei jeans di contrabbando,
scarpe da tennis e cappello da baseball, riempii il mio letto di cuscini
e uscii dalla finestra del primo piano. La mia macchina era in fondo
al vialetto e, grazie a Dio, era il nuovo modello elettrico della BMW.
Era silenziosa quanto un bisbiglio.
Feci attenzione a non accendere i fari finché non fui sulla strada
principale. La casa dei Winston non era lontana, bastava risalire per
qualche chilometro la Moth Run Road, e si trovava alla fine di una
enorme proprietà di parecchi acri. Nessuno avrebbe visto la mia auto
dalla strada principale ma, tanto per essere sicura, mi fermai sul lato
della casa, dove un enorme pero era carico di frutti.
Non stetti a indugiare, perché se mi fossi fermata a pensare alla
sensatezza delle mie azioni avrei cambiato idea. Le mie azioni erano
sensate quanto quelle di qualcuno che punzecchiava un orso con un
bastone.
Ma ero disperata.
Se c’era qualcuno che avrebbe potuto aiutarmi, quello era Cletus
Winston: anche se avrei dovuto ricattarlo per indurlo a farlo.
Chiusi la portiera della macchina il più piano possibile e mi mossi
velocemente lungo il portico anteriore, prima salendo i gradini due
alla volta e poi correndo verso la porta. Bussai. Forte. Più e più volte.
E poi aspettai.
Avevo il cuore bloccato in gola per cercare di deglutire per
mandarlo giù. Non potevo mostrare alcuna debolezza. Dovevo fare
la dura.
Io so fare la dura. Annuii, spostando il peso da un piede all’altro.
Posso essere davvero una dura. Non puoi essere una femminuccia
quando sei capace di fare cinquanta pagnotte di pane in un giorno.
Bisogna impastare davvero tanto, per riuscirci. Io sono dura come
una roccia. In pratica sono la Rocky Balboa dei pasticcieri. Sono
inarrestabile! E nessuno mi…
La porta si spalancò. Io saltai all’indietro di mezzo passo. La voce
mi venne a mancare.
Era Cletus.
Rimase sulla soglia, con un mezzo grembiule legato intorno ai
fianchi e un cucchiaio di legno in mano. Sembrava allarmato.
I suoi occhi passarono rapidamente sulla mia figura e disse: «Non
ti conosco.»
Io sbattei le palpebre, sorpresa dalla sua affermazione
palesemente falsa. Non ci eravamo mai parlati, ma di sicuro
sapevamo dell’esistenza l’uno dell’altra. Il fatto che mi stesse
guardando e non mi riconoscesse mi aiutò prodigiosamente nel
vincere la mia paura.
Mi misi le mani sui fianchi, spinsi il mento all’infuori. «Invece mi
conosci di sicuro. Tua mamma mi leggeva le storie il martedì alla
biblioteca e sono andata al catechismo con tuo fratello più piccolo.»
Le sopracciglia di Cletus si alzarono per un attimo davanti alla mia
affermazione, ma nessun altro segno di sorpresa era visibile sul suo
volto. «La Regina della torta alla banana» annunciò senza
emozione. «Cosa vuoi?»
Ancora una volta la sua fu un’accoglienza che non avrebbe potuto
farmi arrabbiare più di così. Per un istante, mi dimenticai di chi fosse.
Mi dimenticai di avere paura. Mi dimenticai di non essere brava a
parlare alle persone, e agli uomini specialmente.
Per un istante, la mia disperazione e la mia irritazione ebbero la
meglio su ogni altra cosa che sapevo di me stessa.
Quindi pretesi: «Devo parlare con te.»
Lui mi guardò torvo. «Non posso. Ho da fare. Ciao.»
Cletus fece per chiudere. Io infilai un piede nell’arco della porta? e
puntai la mano contro il legno solido. «Allora liberati. Devo dirti una
cosa importante.»
Le sue sopracciglia si alzarono nuovamente, più in alto, stavolta.
«Ne dubito seriamente.»
«Vuoi andare in galera?» lo sfidai.
«Per cosa? Per non averti parlato? Ora, so che devi avere
un’opinione piuttosto alta di te stessa, ma tu lo sai che non sei una
vera regina, giusto?»
Mi sporsi verso di lui, sussurrando a denti stretti: «Se non parli con
me, allora chiamerò lo sceriffo e gli mostrerò un video molto
interessante che ho girato la settimana scorsa, in cui ci sei tu.»
Cletus sbatté le palpebre e i suoi occhi si mossero tra i miei, in
cerca di qualcosa. Io serrai la mandibola e sostenni il suo sguardo,
anche se la mia risolutezza si indebolì un pochino perché lui odorava
di cibo italiano. Odorava di lasagna e la lasagna era il mio piatto
preferito, e non mi era permesso mangiare la lasagna. Mamma non
me la lasciava mangiare mai. Diceva che faceva ingrassare troppo.
Il mio stomaco brontolò. Lui non parve sentirlo.
«Va bene» disse all’improvviso, girandosi e posando il suo
cucchiaio in qualche posto che non riuscivo a vedere. Chiaramente
irritato, fece un passo in avanti finendomi quasi addosso e
costringendomi ad arretrare, mentre chiudeva la porta dietro di sé.
«Andiamo.»
Cletus mi superò con passo tranquillo e sicuro, senza aspettare
per vedere se lo seguissi, e scese i gradini del portico. Io lo guardai
andare alla sua auto e aprire la portiera del guidatore.
Senza alzare lo sguardo, mi chiamò. «Datti una mossa, sua
maestà. Non ho tutta la notte.»
Esitai per appena una frazione di secondo, poi seguii le sue orme
fino alla sua macchina, aprii la portiera del passeggero e mi infilai
dentro.
Cletus di solito guidava una Geo Prizm dell’inizio degli anni ’90,
color grigio. A volte guidava una Buick vintage, ma molto raramente.
Mi aspettava nella Geo, a braccia incrociate, con lo sguardo
incollato fuori dal parabrezza. La macchina era piccola e lo faceva
sembrare enorme e imponente. Accese la luce dell’abitacolo e le luci
da lettura. Io chiusi la mia portiera, seguendo il suo esempio. Seguì
un breve silenzio, durante il quale realizzai la realtà della situazione
in cui mi ero cacciata. Fu come essere investita.
Ero sola.
Sola con Cletus Winston. Ero sola con Cletus Winston e nessuno
sapeva dove fossi.
Oh. Cazzo.
«Allora?» abbaiò lui, spezzando il silenzio e facendomi
sobbalzare. «Perché sono qui seduto con te invece di essere dentro
a badare al mio sugo?»
«Ho visto cosa hai fatto» annunciai.
«Hai visto cosa ho fatto» ripeté in tono piatto, sembrava annoiato
dalla conversazione e da me. I suoi occhi erano puntati sullo
specchietto retrovisore.
Ma io non mi sarei fatta ignorare o prevaricare. Non stavolta.
«Esatto.»
«Dovresti essere più specifica. Faccio un sacco di cose.»
Raccogliendo ogni briciola di coraggio dentro di me, dissi: «Ho
visto cos’hai fatto, la scorsa settimana, con le prove contro gli Iron
Wraiths. Le hai prese. E ora non le trovano e lasciano cadere le
accuse contro Razor.»
Finalmente, finalmente Cletus mi guardò. Con mia grande
sorpresa, gli occhi che avevo supposto fossero verdi erano invece di
un azzurro ardente e poi lui sbottò: «Non hai visto proprio niente.»
«Invece sì.» Annuii alla mia dichiarazione. «In effetti, ho un video
che ti riprende mentre lo fai.»
Lui sbatté le palpebre. La sua espressione e la sua voce, di solito
tanto controllate, si incrinarono entrambe dalla sorpresa. «Tu hai
fatto cosa?»
«Ti ho ripreso con il cellulare.» Deglutii per tre volte di fila senza
motivo.
Il suo sguardo si fece affilato tanto da spaventarmi, come se delle
nuvole o una nebbia immaginaria si fossero diradate rivelando un
piccolo barlume del vero Cletus Winston dietro di esse. Quei suoi
nuovi occhi guizzarono sulla mia figura.
«Dimostramelo.» Il suo ordine fu brusco e rapido, come un colpo
di frusta, e mi fece balzare e partire al galoppo il cuore nel petto.
Estrassi il telefono dalla tasca con dita tremanti. Sapevo perché
stavo tremando. Non ero abituata ai conflitti. Avevo sempre pensato
di avere un’indole naturalmente pacifica, preferivo la pace
all’irriverenza. Ma situazioni disperate richiedevano misure
disperate.
Mi strappò di mano il cellulare non appena lo sbloccai e iniziò a
passare da una schermata all’altra finché non arrivò ai miei video.
Trovò quello datato la settimana scorsa, quello in cui avevo ripreso
lo sceriffo James mentre parlava dei miei cupcake e premette play.
Mentre Cletus guardava, vidi una sfumatura di colore sparirgli dalle
guance. Stava guardando quanto avevo colto io la settimana scorsa
mentre rivedevo le riprese. In una metà dello schermo c’era lo
sceriffo. Nell’altra, Cletus era sullo sfondo, si intascava le prove, si
guardava intorno e poi si allontanava.
Cletus emise un suono strozzato che sembrava sia di frustrazione
che di ira. Spostai lo sguardo sulla portiera di fianco a me,
prendendo in considerazione l’idea di fuggire, ma rinunciandovi
immediatamente. Nel frattempo, lui riguardò il video. Quando quello
arrivò alla fine per la seconda volta, il silenzio prese il suo posto,
pesante e duro tra noi. Io lo studiai, tentando in ogni modo di
discernerne i pensieri.
Cletus non aveva alcuna espressione il che, realizzai di colpo, era
tremendamente inusuale. Lui aveva sempre un’espressione dipinta
in volto. Pensierosa, preoccupata, paziente, annoiata, interessata,
austera, turbata. Era strano, per una persona, avere sempre
un’espressione in viso.
A meno che quella persona non si dipingesse le emozioni in volto
come una maschera, allo scopo di celare la vera natura dei suoi
pensieri.
«Hai delle copie?» Il suo tono, freddo e granitico, mi fece
rabbrividire.
Non sembrava per nulla il Cletus Winston imbranato ma affabile
che aveva ingannato tutti quanti sotto i loro occhi. Sembrava
pericoloso.
Mi schiarii la gola prima di poter riuscire a parlare. «Sì. Ne ho fatte
più di una. L’ho salvato in più posti.»
Un lato della sua bocca si alzò per un secondo, ma nei suoi occhi
non c’era traccia di allegria quando li riportò su di me. «Saggia idea.
Altrimenti avrei spaccato il tuo cellulare in un’infinità di pezzettini. E
allora, sarebbe stata la tua parola contro la mia.»
«Esatto» esalai la parola d’un fiato, mentre il buon senso dettato
dalla paura lottava con la mia determinazione.
Ma, dannazione, mi serviva il suo aiuto. E doveva essere lui ad
aiutarmi. Doveva essere lui e basta. Lui poteva far accadere
qualunque cosa. Tutti in città e nei dintorni gli dovevano un favore.
Avevo sentito le voci. Avevo prestato attenzione. Avevo messo
insieme i pezzi del puzzle.
E ora avevo in pugno l’uomo più potente del Tennessee orientale.
“I più grandi segreti sono sempre nascosti nei posti più improbabili.
Coloro che non credono nella magia non potranno mai trovarla.”
- Roald Dahl

Mi serviva un minuto.
Durante quel minuto, feci elenchi vari ed eventuali. Elenchi su
elenchi.
Jennifer Sylvester sembrava aver compreso che non ero ancora
incline a parlare, per cui mi diede il minuto che mi serviva. Apprezzai
il suo silenzio. Alla fine, il battito del mio cuore rallentò fino a un
tranquillo e normale intervallo di pulsazioni e i puntini rossi della
rabbia che punteggiavano la mia vista sparirono. Non avrei perso le
staffe.
«Dunque...» Mi schiarii la gola, assumendo l’aria più calma
possibile considerando che questa debole marionettina minacciava
di mandare a monte in un sol colpo mesi di meticolosi, per non dire
rischiosi, sforzi.
«Dunque» squittì lei, schiarendosi la gola a sua volta, ma non
aggiunse altro. I suoi occhi erano incollati sulle sue unghie lunghe e
rosa, che stava affondando nei jeans all’altezza del ginocchio.
La esaminai minuziosamente. Era chiaramente nervosa,
spaventata, persino. Il suo carattere di poco fa sembrava si stesse
disintegrando. Quella messinscena da donna sicura di sé era stata
del tutto fuori dal personaggio della docile e umile Jennifer Sylvester.
Bisognava ammettere che non la conoscevo molto bene. Non ne
avevo bisogno. Lei era una persona debole. Come la maggior parte
delle persone che conoscevano i suoi genitori, sentivo una certa
pietà per lei, anche se mi godevo enormemente la sua torta alla
banana. Preparava anche un ottimo pane al lievito naturale, muffin
alle zucchine e quiche.
A dire il vero, ogni cosa che cucinava, e che io avevo provato fino
ad allora, era deliziosa fino all’ultimo morso. Aveva un dono. I suoi
numerosi fiocchi blu e i grandi trofei con cui era stata premiata alla
Fiera dello stato erano meritati. Ma era anche un avversario
semplice. Era completamente schiacciata sotto il tallone della sua
ambiziosa madre e del suo zelantemente irragionevole padre. Il
modo in cui l’avevano cresciuta unito al suo debole temperamento
faceva di lei uno strumento, un mezzo per raggiungere un fine.
E questo era triste.
Ma non erano nemmeno affari miei.
Come viveva la sua vita, o come permetteva agli altri di viverla per
lei, non erano affari miei. Avevo appeso il mantello al chiodo, avevo
rinunciato a salvare cause perse. Le persone non volevano essere
salvate. Tutti i miei sforzi per intromettermi erano ora concentrati
sulla mia famiglia e sul renderla felice, che a loro piacesse o no.
Il che mi riportò al presente e alla volubile Jennifer Sylvester. Il suo
disagio era una buona svolta per me.
Mi preparai a sfoderare il mio cenno di assenso austero. «Ascolta,
Jennifer, non credo tu voglia davvero andare fino in fondo.»
Le sue dita si contrassero sulle sue gambe, lei alzò il mento, poi
parlò a denti stretti. «Non dirmi cosa voglio.»
Ok. Approccio errato.
Provai qualcos’altro, abbassando la voce fino a suonare sinistro.
«Dammi la tua parola che cancellerai il video e potremo dimenticarci
di tutto questo.»
Tra le sue sopracciglia apparvero due rughette scontente. «È
troppo tardi, ormai.» Ebbi l’impressione che non stesse parlando con
me. «E poi, non mi fido della tua parola. Perdonare e dimenticare?
Prima o poi ti vendicherai, tu sei fatto così. No… Voglio andare fino
in fondo.»
La fissai, probabilmente a bocca spalancata. Ero sconcertato.
Prima o poi ti vendicherai, tu sei fatto così.
Come poteva saperlo? Mi appoggiai allo schienale e fissai fuori
dal parabrezza, e nel frattempo molto di quello che sapevo
dell’ordine dell’universo trovava un nuovo assetto. Forse Jennifer
Sylvester non era poi così debole. Forse Jennifer Sylvester era
agguerrita.
Non ha alcun senso. Nessuno è tanto bravo a fingersi un
opossum. Beh… nessuno tranne me.
In passato avevo spesso pensato che assomigliasse a un cucciolo
trascurato, desideroso di compiacere gli altri. Questo aveva reso
difficile restare ad assistere al modo in cui era trattata dai suoi
parenti. Così, avevo smesso di guardare.
I miei occhi scivolarono di lato e la esaminarono di nuovo. La
mascella di Jennifer era stretta dalla determinazione, la fermezza le
aveva reso affilata la piccola collina del mento. Il suo volto era
solitamente triste o timido.
Un pizzico di senso di colpa divampò, come una vecchia ferita. Lo
spensi velocemente, improvvisamente ansioso di porre fine a questa
peculiare conversazione e tornare a un mondo che aveva senso.
«Va bene, cos’è che vuoi?» chiesi senza girarci intorno,
rinunciando a ogni finzione. «Perché sono qui fuori? Perché hai
girato quel video e cosa intendi farci?»
Lei esalò un sospiro tremante e poi mi guardò. I suoi occhi erano
in ombra, per via della visiera del berretto. Mi sembrava di ricordare
che Beau una volta aveva detto che i suoi occhi erano viola. Avevo
liquidato quell’affermazione perché, a meno che Jennifer non fosse
albina, cosa che non era, le sue iridi non potevano essere viola.
In ogni caso, non l’avevo mai notato prima, ma la forma dei suoi
occhi era sorprendentemente attraente. In quel momento, costretto a
rivalutare quanto conoscessi di quella donna, mi sorpresi a cercare
di scoprire il colore delle sue iridi mentre lei parlava.
«Non l’ho registrato apposta. Ero lì per riprendere lo sceriffo per
una… Beh, questo non ha importanza. Ma non ti ho registrato di
proposito. Quando ho riguardato il video, più tardi, dopo aver sentito
quanto era successo alla stazione, è stato allora che ho realizzato
che c’eri anche tu.»
«Ok, va bene. Ti credo. Non mi hai registrato intenzionalmente. E
ora?»
«Ho bisogno del tuo aiuto» disse, con tono più dolce, timido; i suoi
occhi erano spalancati e speranzosi.
Questa era la Jennifer Sylvester che conoscevo, non quella di
granito e col fegato.
«Uhm…» Socchiusi le palpebre, scontento della possibilità che
quella donna potesse avere due facce. Di regola, non credevo ai lati
nascosti, ove lati nascosti indicava qualità ammirevoli ma
precedentemente passate inosservate. Io notavo ogni cosa nella mia
osservazione.
Lati costruiti? Sì.
Lati camuffati? Forse.
Ma non nascosti.
Jennifer deglutì nervosamente sotto il mio esame. Colsi il tremore
appena accennato delle sue mani prima che le stringesse a pugno.
«Cosa vuoi?» chiesi. Sarebbe stato inutile menare il can per l’aia.
Lei raccolse una gran quantità d’aria nei polmoni, chiuse gli occhi
e poi ruggì: «Voglio un marito.»
Mi accigliai.
Lei aprì un occhio.
Io sbattei le palpebre.
Lei aprì l’altro occhio.
Aprii le labbra per chiedere un chiarimento, ma poi ci riflettei e
cambiai idea, e mi tappai la bocca.
«Uhm...» Feci un cenno d’assenso estremamente austero.
Ancora una volta mi aveva colto di sorpresa. Jennifer Sylvester
non era agguerrita. Era più pazza di un impasto impazzito.
«Già» continuai ad annuire, spostando la mia attenzione
sull’oscurità oltre il parabrezza, poi ripetei: «Già.»
«Tu pensi che io sia pazza» disse d’un fiato, afferrandomi il
braccio e stringendolo come se io fossi un salvagente.
«Sì. Sì, lo penso.»
Un verso di disperazione le sfuggì dalla gola, poi disse: «Voglio un
bambino.»
Oh Dio santo!
Chiusi gli occhi, aggrottando il volto e scuotendo la testa. «Stai
scherzando, vero? Ha organizzato tutto Jethro? Vuole vendicarsi
perché l’ho costretto a raccontare la storia delle gemelle Tanner a
Natale.»
«No. Non è uno scherzo. So che sembro una pazza, lo sembro
anche a me stessa. Voglio dire, ho ventidue anni e vivo a casa con
mamma e papà. Guardami. Sono una barzelletta. Sono la signora
della torta alla banana. Nessuno vuole sposare la signora della torta
alla banana. Però, Cletus, io lavoro almeno settanta ore alla
settimana. Quando potrei mai incontrare qualcuno che non conosco
già? Qualcuno che non mi ritiene una barzelletta? E poi mio padre
non mi permetterebbe mai di uscire di casa se sapesse che sto
andando a un appuntamento.» La voce di Jennifer si incrinò
dall’emozione.
Cavolo. Sta per mettersi a piangere.
Era un’eventualità che andava scongiurata. Misi la mano sulle sue
a le strinsi una volta.
«Su, su.» È alla frutta quando una torta alla frutta. «Calmati...»
«Non dirmi di calmarmi!» strillò, strappando via le mani. «Sono
sempre calma. Faccio sempre quello che mi dicono di fare. Voglio
solo questa cosa, quest’unica cosa per me stessa. Non è quello che
vogliono tutti, trovare qualcuno? Non mi serve l’amore, mi basta il
semplice rispetto. E la maggior parte delle persone non vuole forse
una famiglia? Allora perché è sbagliato quando sono io a volerla?
Perché fa di me una pazza?»
«Non è il fatto che la vuoi a far di te una pazza. È la parte in cui mi
ricatti perché ti sposi e faccia un figlio con te che mi fa dubitare della
tua sanità mentale.»
Jennifer raddrizzò la schiena, le sue labbra piene si aprirono in
quella che mi sembrò dapprima confusione e poi orrore. «Oh no,
Cletus. No, no. Non voglio sposare te. No, non te. Mi hai fraintesa,
voglio che tu mi trovi un marito. Non ti sposerei mai.»
Non sapendo se a questa rivelazione dovesse seguire sollievo o
risentimento da parte mia, fissai la signorina Jennifer Sylvester in
completo sconcerto.
Lei sbuffò con una risata stanca e si nascose il volto tra le mani.
«Scusami, mi è uscita davvero male.»
«No, ti è uscita giusta. Nemmeno io vorrei sposarmi.»
Lei rise ancora, questa volta sembrò un tantino isterica. «Sai, sei
sempre stato molto spiritoso.»
«Come fai a dirlo?» La guardai contrariato. Era una domanda
seria. «A quanto ricordo, non ci siamo mai parlati direttamente prima
di ora.»
«Sì, ma io ascolto.» La sua risposta mi giunse attutita da dietro le
sue dita. «Nessuno parla con me, allora ascolto.»
«Jennifer, non stai migliorando la tua situazione, a meno che tu
non intenda sembrare una pazza maniaca.»
Lei rise di nuovo, meno isterica, ma forse un po’ più disperata,
mentre lasciava ricadere indietro la testa sul poggiatesta. «Forse
sono una pazza maniaca. Forse non è destino che abbia una
famiglia. Forse sono una causa persa. E, se così fosse, a me sta
bene. Ma devo provarci.»
Jennifer riportò gli occhi nei miei. Anche nell’ombra del suo
cappello la profondità della sua tristezza e della sua risolutezza mi
lasciarono sbigottito. «E tu mi aiuterai a farlo.»
“Indietreggio molte volte, cado, mi fermo, corro verso il ciglio degli ostacoli
nascosti, perdo la pazienza e la ritrovo e cerco di mantenerla…”
- Helen Keller, La storia della mia vita

«Lei non mi piace.» L’annuncio di Beau venne sottolineato dalla


porta che andò a sbattere contro il muro. Aveva appena fatto
irruzione quasi sfondandola.
Supponevo che mio fratello si aspettasse una mia reazione alla
sua dichiarazione. Io non reagii. Ero troppo impegnato a confermare
un’operazione di borsa su eTrade Pro e avevo appena dieci secondi
per concluderla.
«Cletus? Mi hai sentito? Non mi piace. Non può lavorare qui.»
Confermai l’ordine limite, attesi che la schermata di conferma si
caricasse, e poi controvoglia prestai la mia attenzione a Beau. «Non
importa se ti piace o no, Beau. Quello che importa è se Shelly
Sullivan sia o no un bravo meccanico. È un bravo meccanico.
Dunque, per di più, appunto per questo, in merito a ciò… eccetera.
Riempi tu gli spazi vuoti.»
Mi aveva preso in una brutta giornata. O meglio, in una brutta
settimana. Non ero incline ad accogliere lamentele. Anche se era
giovedì, quattro giorni dopo il mio spiacevole incontro con Jennifer
Sylvester, io continuavo a esserne ossessionato. Ero con la testa tra
le nuvole da domenica.
La mattina dopo che Jennifer aveva avanzato le sue pretese, io
avevo dimenticato di presentare Beau – che era tornato da un
viaggio di lavoro a Nashville quella mattina – alla nostra nuova
meccanica. Lui era entrato nell’officina, avevano parlato e
immediatamente l’aveva trovata antipatica. Analogamente a oggi, in
un’atipica dimostrazione di rabbia, Beau aveva fatto irruzione
nell’ufficio dell’officina pretendendo il licenziamento di Shelly. Non
sapevo cosa fosse successo tra loro. Non mi importava. Non l’avrei
licenziata.
«Forse sarà anche decente come meccanico. Questo te lo
concedo. Ma è spinosa come un porcospino.»
«No, Beau. Non è un meccanico decente. È un ottimo meccanico.
Beau aprì la bocca per protestare, ma io parlai prima di lui. «Duane
se ne va prima del Ringraziamento. Per noi il lavoro è già troppo. Ci
serve un aiuto. Ora lasciami in pace. Devo finire qui prima di
incontrarmi con Drew.»
Risolta la questione, riportai la mia attenzione al portatile e feci
scorrere la pagina di statistiche dell’account di trading principale.
Nel frattempo, il mio fratello minore cercava di scavarmi un buco
nella tempia con lo sguardo.
«Ti chiedo gentilmente di smettere di cercare di forarmi il cervello
con quei raggi laser che chiami occhi.»
«Non abbiamo finito di parlare.»
Queste persone testarde e le loro pretese erano come briciole di
cracker nella mia barba: irritanti e sgradevoli.
Sospirai, frustrato, e voltai la sedia girevole da ufficio per guardare
in volto mio fratello. «Perché non parli d’altro, come per esempio
l’organizzazione dell’addio al celibato di Jethro? Hai finito la caccia al
tesoro?»
«Sì, l’ho finita. Due settimane fa. Smettila di cambiare
argomento.»
«D’accordo, allora.» Digrignai i denti. «Continua, parla pure di
Shelly.»
«È maleducata. Non solo con me. Ma anche con i clienti.»
«Perché parla lei con i clienti? È il tuo lavoro.»
«Cosa vuoi che faccia? Che la nasconda sotto una macchina? È
impossibile non notarla, Cletus. Sembra una di quelle… di quelle…
di quelle modelle sulle riviste.»
«Di quale genere di riviste?»
Beau leggeva solo due generi di riviste. In entrambe c’erano foto
di belle carrozzerie. Uno solo di quei generi di riviste riguardava le
macchine.
Alzò le mani per aria prima di portarsele ai fianchi. «Sai cosa
voglio dire. Appena la vedono le persone vogliono parlare con lei.»
«Vuoi dire che appena la vedono, gli uomini vogliono parlare con
lei.»
«E va bene. Sì. Gli uomini. Gli uomini vogliono parlare con lei. E
lei li insulta. Pensi davvero che sia una buona strategia per gli affari?
Assumere una donna bellissima per insultare i nostri clienti?»
«No. No, non lo penso» dissi con solennità, ma la mia bocca
scattò in alto prima che potessi fermarmi. Non era bene per gli affari,
ma era così divertente.
«Oh, lo trovi buffo?»
Mi tremavano le spalle perché stavo ridendo.
«Stai ridendo?»
«No» dissi tra una risata e l’altra.
Beau emise un verso di disgusto e frustrazione. Poi con una
manata rabbiosa spazzò via una tazza piena di matite e penne, una
pila di ricevute e la posta in arrivo da sopra lo schedario che serviva
da archivio. Smisi di ridere.
«Ora raccoglierai questo casino, Beau Fitzgerald Winston.»
I suoi occhi spara raggi laser si ridussero a due fessure e lui indicò
con l’indice il casino. «Lo raccoglierò quando avrò voglia di
raccoglierlo.»
Beau si girò, sbatté la porta e scese le scale pestando i piedi.
Io fissai il punto in cui lui era appena stato, poi la confusione che si
era lasciato dietro. Se fosse stata un’altra qualsiasi settimana, avrei
già iniziato a tramare qualche buona idea per una bella vendetta.
Qualcosa che lo facesse infuriare e divertire al tempo stesso. Mi
piaceva tenere sul chi vive la mia famiglia, visto che si aspettavano
questo da me.
Ma non quel giorno.
Quel giorno ero stanco. Mi stavo ossessionando. Ed ero stanco di
stare ad ossessionarmi.
Non era il ricatto che mi teneva sulle spine, al contrario. Avevo già
neutralizzato il video o, per meglio dire, avevo già mosso i primi
passi per neutralizzarlo.
Avevo pochissimi amici. Ma uno dei miei amici, che non nominerò,
era un hacker dal talento eccezionale. Viveva a Chicago e
comunicavamo ogni domenica tramite la pagina degli annunci del
Chicago Tribune. Da tre mesi stavamo giocando una partita a
scacchi usando messaggi in codice sul giornale.
Quella settimana avevo modificato il mio messaggio abituale da
una mossa a scacchi a una richiesta di aiuto: gli avevo chiesto di
hackerare il computer di Jennifer, il suo cellulare e il suo account
cloud (o qualsiasi altro supporto in cui avesse potuto nascondere il
video), rimuoverlo e non lasciare tracce.
Fortunatamente, quell’amico condivideva la mia stessa visione
della legge. Non era il tipo di persona che credeva in una stretta
obbedienza a quest’ultima. Avrei solo dovuto attendere fino a
domenica. Poi avrei organizzato un incontro con la malaccorta
giovane pasticciera per spiegarle che non era più in possesso del
video.
E poi avrei…
Uhm.
Beh, dannazione.
Non sapevo cosa fare. Che era appunto il motivo per cui mi ero
sentito scombussolato per tutta la settimana.
«Cos’è successo qui?»
La mia attenzione tornò sul mondo esterno. Drew aleggiava sulla
soglia, aveva aperto la porta senza che lo sentissi. Indossava abiti
da civile, invece della sua solita uniforme da guardia forestale. Il che
era strano, visto che eravamo in mezzo alla settimana.
«Beau ha fatto i capricci.»
«Beau?»
Annuii una sola volta.
Le sopracciglia di Drew si alzarono in alto sulla sua fronte; entrò
nella stanza e chiuse la porta. «Non è da lui. Cosa l’ha fatto
arrabbiare tanto?»
«La nostra nuova assunta.»
La bocca dell’omone si curvò brevemente, in un sorriso sfuggente.
«Shelly? La sorella di Quinn?»
«Sì. A Beau non piace.»
«Ne sono certo. Comunque, perché volevi vedermi?»
Questo mi piaceva di Drew: andava sempre dritto al punto quando
si parlava di affari, ma era sempre filosofico quando si parlava della
vita. Partecipare alla sua festa di compleanno era stata una mia
priorità fin da quando l’avevo conosciuto, quattro anni fa.
Io girai lo schermo del computer e aprii la pagina QuickBooks. «I
conti di mamma. Sto facendo delle modifiche di cui devi essere al
corrente.»
Quando mia madre era passata a miglior vita, l’anno scorso,
aveva lasciato il compito di gestire le finanze della famiglia a Drew,
visto che era un buon amico di famiglia. Non voleva che quel
malfattore di nostro padre ci mettesse le mani sopra.
Drew mi aveva chiesto di aiutarlo a gestire l’investimento
principale: era rimasto colpito dai miei profitti nelle speculazioni
giornaliere sui titoli. Io l’avevo accontentato. Ognuno dei miei fratelli
e mia sorella avrebbero ricevuto la loro parte dell’eredità al
compimento del trentunesimo anno. Per il momento, solo Jethro
aveva raggiunto l’età necessaria ma aveva scelto di lasciare i soldi
dove stavano, dato che non ne aveva bisogno al momento.
Drew prese una sedia e la girò, poi si sedette a cavalcioni con le
braccia appoggiate sullo schienale. Era troppo alto per la maggior
parte delle sedie. Le sue gambe erano troppo lunghe. Pertanto, si
sedeva sempre a cavalcioni girando le sedie.
«Cletus, non serve che tu mi aggiorni.»
«Sciocchezze. Mamma ti ha nominato esecutore testamentario e
amministratore fiduciario dei nostri conti. Questi sono affari tuoi.»
Lui si agitò sulla sedia, sembrando a disagio e non perché la sedia
era troppo piccola. «Sai perché l’ha fatto, e io sono stato lieto di
darle una mano. Ma tu sei più bravo di me a gestire i capitali.»
Drew Runous forse non condivideva con noi lo stesso sangue, ma
io lo consideravo un fratello. Tutti noi lo facevamo. Tranne mia
sorella Ashley, naturalmente. Stavano insieme dallo scorso Natale e
noi ci aspettavamo che le chiedesse di sposarlo da un giorno
all’altro, ormai.
Da un giorno all’altro. Da. Un. Giorno. All’altro.
Gli lanciai un’occhiata, lo vidi socchiudere le palpebre per
concentrarsi mentre leggeva i totali. Li lesse ancora, poi scattò
all’indietro con la bocca spalancata. Io sorrisi perché non avevo mai
visto prima Drew rimanere a bocca aperta.
«Vuoi catturare le mosche, Drew?»
Lui serrò la bocca, deglutì e poi indicò lo schermo. «Che è
successo?»
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire, cosa hai fatto? Come hai fatto? Quello è un ritorno
di… quanto, dieci volte l’investimento iniziale?»
«All’incirca, sì.» Unii i polpastrelli a triangolo davanti al mio volto e
mi appoggiai allo schienale della sedia da ufficio. «Sai che mi diletto
con futures e previsioni da anni. Non capita spesso di avere questo
genere di ritorno e la cifra iniziale era quanto bastava ad agganciarsi
a un fondo comune di investimento che seguo.»
Alcuni avrebbero definito la mia strategia speculativa rischiosa.
Non lo era. Io non correvo rischi. Il mercato aveva fruttato guadagni
anomali negli ultimi dieci mesi, proprio come avevo previsto. Il
momento di un rallentamento era prossimo.
Indicai i nuovi conti e le previsioni calcolate per i successivi quattro
trimestri. «Ma, vedi qui, oggi ho trasferito tutto su un fondo del
mercato monetario e intendo lasciarlo lì per il prossimo futuro.
Meglio accontentarsi di un 3% stabile che rischiare.»
Drew fissò lo schermo, chiaramente faticava ad accettare le cifre,
poi spostò gli occhi su di me. «Chi altri sa di questo?»
«Solo Jethro. Ma sai com’è fatto quando si tratta di soldi.»
«Sì, lo so. Non gli interessa molto.» Drew si grattò la barba. «Hai
sistemato tutto in modo che nessuno dei tuoi fratelli dovrà mai
lavorare. Sarete una famiglia che vive negli agi e si dà alla bella
vita.»
«Oh, ne dubito. Penso che noi Winston diventeremmo tutti cattivi
se non ci tenessimo impegnati con progetti redditizi a esorcizzare i
nostri demoni.»
Gli occhi di Drew, che erano di una sfumatura argentea,
scattarono su di me. La sua valutazione era in corso.
Di punto in bianco, disse: «Parlami dell’officina».
«Dell’officina?»
«Ecco, viste quelle cifre, immagino che dovrò chiederti quando
comprerete la mia quota.»
Drew aveva anticipato il capitale iniziale per l’Officina Fratelli
Winston, cosicché io, Duane e Beau potessimo avviare la nostra
attività. Allora mi aveva stupito: la sua era stata una dimostrazione di
fiducia, ed era stata la prima volta che qualcuno oltre alla nostra
mamma aveva creduto in noi ragazzi. A partire da allora, Drew si era
guadagnato il mio sommo rispetto e la mia ammirazione, ed era
l’unico uomo vivente degno di mia sorella.
Quindi la sua domanda mi sorprese. «Vuoi che compri la tua
quota?»
«Niente affatto, è stato un buon investimento sotto molti punti di
vista, supportare voi ragazzi. Ma non vi serve più il capitale. Potresti
chiudere bottega a trent’anni vista l’eredità che hai da ricevere e
aprire quel negozio di dulcimer e torte di cui parli sempre.»
Riflettei sul suo commento, perché avevo sempre desiderato
aprire un negozio di dulcimer e torte, ma poi scartai l’idea. «No. Non
ho nessuno che mi preparerebbe le torte. Sai che non so fare le
torte. La mia forza è la salsiccia, e le ricette italiane, visto che mi
piace mangiare saporito. Inoltre, cosa farebbe Beau senza di me a
supervisionare tutto? No, l’officina rimane aperta.»
«Davvero?» Insistette, mentre continuava a soppesarmi con lo
sguardo. «Anche ora che Duane se ne va?»
«Sì. Questo è quello che facciamo. Aggiustiamo cose. Siamo
trafficoni. Se non trafficassimo con le auto, allora lo faremmo con le
persone.»
Drew mi rivolse un breve e raro sogghigno. «Tu già traffichi con le
persone, Cletus.»
«Hai ragione.» Mi raddrizzai sulla sedia, pronto a difendermi. «Ma
solo con le persone della mia famiglia. E voi tutti vi meritate i miei
traffici.»
«Non fraintendermi. Sei bravo a trafficare. Se escludiamo i tuoi
piani di vendetta, le persone sono fortunate ad avere te che
interferisci negli affari loro.»
Socchiusi le palpebre guardando Drew. «A questo proposito,
quando hai intenzione di chiedere ad Ash di sposarti? Cosa state
aspettando voi due?»
Il suo sorriso si allargò e lui ridacchiò. «Me lo chiedi da quando
siamo diventati ufficialmente una coppia.»
«Esatto.» Annuii una volta sola, appoggiandomi indietro e
osservandolo ancora una volta da sopra il triangolo delle mie dita
giunte. «Voglio solo sapere che intenzioni hai con mia sorella.»
Il suo sorriso si addolcì e il suo sguardo si smarrì dietro le mie
spalle. Rimase in silenzio per parecchi secondi, poi disse: «Un
giorno lo saprai, Cletus. Scoprirai cosa significa trovare l’altra metà
di te stesso. Capirai che si tratta di lei, solo lei, sempre lei. Forse non
subito, ma alla fine lo capirai. Lei sarà il tuo inizio, la metà, la tua
fine. E allora le tue intenzioni non avranno importanza. L’amore porta
con sé le sue intenzioni e tutti gli altri piani, speranze e sogni
diventano insignificanti di fronte all’amore».
Il venerdì sera era la mia sera preferita della settimana.
Ogni venerdì sera a Green Valley si riunivano musicisti da ogni
dove. Suonavamo insieme in una jam session al centro comunitario,
un vecchio edificio scolastico ristrutturato e convertito in uno spazio
di incontro polifunzionale. Io partecipavo sempre, suonando di volta
in volta il banjo, la chitarra, il violino o il dulcimer. Non avevo mai
provato a suonare il basso o il violoncello, ma ero certo di saperlo
fare, se mi fossi esercitato.
Tra tutti gli strumenti, preferivo il banjo. Era il più odioso degli
strumenti a corda e poteva essere suonato in modo tollerabile solo
da una persona che fosse fermamente decisa a domarlo. Io traevo
una certa soddisfazione dal domare cose selvatiche e nel piegarle
alla mia volontà. Strumenti musicali, foreste, persone…
Il che mi porta al perché quella della jam session fosse la mia
serata preferita della settimana. Io tenevo banco al centro
comunitario ogni venerdì sera. Tutti gli abitanti dei dintorni venivano
a sentire i musicisti suonare, un diverso stile di bluegrass in ognuna
delle aule riconvertite, e nel frattempo si discuteva di affari e si
scambiavano pettegolezzi.
Riuscivo a portare a termine più faccende durante la jam session
del venerdì che durante tutto il resto della settimana.
«Agente Evans, agente Dale, cercavo proprio voi.» Chinai la testa
in segno di rispetto ai due vicesceriffi e mi sedetti davanti a loro,
stringendo le loro mani tese, l’una e poi l’altra. Li avevo trovati nella
mensa, entrambi con un piatto traboccante di insalata di cavolo. Mio
fratello Duane si sarebbe irritato: l’insalata di cavolo era il suo piatto
preferito. «Allora, ragazzi, spero vi stia piacendo la mia salsiccia.»
L’agente Evans annuì, mandando giù un boccone della bramata
insalata di cavoli. «Sissignore. È proprio una carne di qualità, Cletus.
Vai davvero a cacciare i cinghiali con gli indiani in Texas? Con le
lance?»
«No, non vado con degli indiani. Ci vado con dei Nativi americani»
lo corressi. Non mi dispiaceva usare delle etichette, l’importante era
che fossero usate correttamente.
Avevo confuso l’agente Evans con la mia precisazione. Lui sbatté
le palpebre, sembrava perso in profonde riflessioni.
Prima che potesse riprendersi, arrivai al nocciolo della questione
che mi aveva portato ad avvicinarli quella sera. Abbassando la voce,
chiesi: «Come se la passa ultimamente il nostro comune amico?».
Dale guardò sopra la spalla per essere sicuro di non essere
ascoltato. Accertatosene, mangiò un piccolo boccone di insalata di
cavolo e alzò le spalle. «È in salute, ma se ti serve, le cose possono
cambiare.»
Mi tirai la punta della barba, accarezzandone i peli con il pollice e
l’indice. Era da un po’ che non mi informavo su Darrell Winston,
l’uomo che tecnicamente era mio padre. I pezzi del puzzle che stavo
costruendo da anni stavano finalmente andando al loro posto. Si
avvicinava il momento di colpire… ma non era ancora arrivato.
«Oh, non mi dispiace che sia in salute… per ora.»
Dale mi rivolse un sorriso cupo. «Basta una tua parola, Cletus.»
Io cercai di imitare la sua espressione. «Non sai quanto lo
apprezzi, Dale.»
Scosse la testa. «Siamo entrambi in debito con te, ti dobbiamo
davvero molto.»
Mi schermii con un gesto della mano dalle sue parole,
dimostrandomi affabile, ma lui aveva ragione. Entrambi erano in
debito con me e io ero grato del favore che mi dovevano. Mi aveva
portato dei frutti in più di un modo. Dale mi aveva spifferato qualche
mese fa che i fratelli King passavano prove sugli Iron Wraiths
all’ufficio dello sceriffo da quasi un anno, e questo era stato il seme
da cui era scaturito il mio più recente grande piano.
Evans si intromise. «Siamo felici di aiutarti e quel bastardo se lo
meriterà… uhm, quando deciderai che è il momento giusto.»
Avevo appena fatto ricorso al mio cenno austero e ottenuto in
risposta da loro due assensi con la testa quando sentii un timido
tocco sulla mia spalla. Dale ed Evans alzarono lo sguardo sul nuovo
venuto e le loro espressioni si addolcirono. O si fecero rapite, si
sarebbe potuto persino dire.
«Chiedo scusa» Una voce gentile, femminile senza ombra di
dubbio, ci interruppe.
Io mi irrigidii, sapevo benissimo a chi apparteneva quella voce, e
di conseguenza perché a Dale ed Evans era comparsa
quell’espressione rapita.
«Nessuna interruzione» disse Dale scuotendo la testa e alzandosi.
«Niente affatto.» Anche Evans si alzò, il suo sorriso era appena
accennato e speranzoso, la sua voce accogliente, come se stesse
parlando a un animaletto nervoso.
Io sapevo la verità. I due bifolchi vedevano un fiorellino debole e
sensibile, un angelo arrendevole pronto a piegarsi al loro volere,
mentre io vedevo l’opportunista nel vestito da torta alla banana.
Perché sia messo agli atti: non alzai gli occhi al cielo.
Controllando attentamente la mia espressione, guardai da sopra la
spalla, pronto a rivolgere all’intrusa un secco cenno del capo. Ma
quel piano andò storto quasi immediatamente e involontariamente
mi rigirai a guardarla per la seconda volta, dalla sorpresa.
Gli occhi di Jennifer Sylvester erano violetti.
Non blu.
Non verdi.
Non grigi.
Violetti.
Ed era impossibile.
Per cui mi accigliai.
Il sorriso appena accennato che mi rivolgeva sparì e lei trasalì,
appena appena. La mano le cadde dalla mia spalla e Jennifer
indietreggiò di un passo, alzando il mento.
«Cletus, ho bisogno di parlarti.» Parlava ad alta voce - almeno alta
per lei, per tutti gli altri sarebbe stato un volume normale - e lo
faceva deliberatamente.
Io strinsi le palpebre, scoccandole un’occhiata in cagnesco.
Valutai un rifiuto. Lo presi in considerazione. Il guinzaglio che
Jennifer credeva di aver stretto attorno al mio collo mi irritava e
ispirava pensieri selvaggi.
Invece, mi alzai.
«Signori» Chinai la testa verso Dale ed Evans, anche se non
distolsi per un momento lo sguardo da Jennifer Sylvester. Poi, in un
gesto di cortesia plateale, le feci strada con un ampio gesto della
mano. «Dopo di lei, signorina Sylvester.»
Lei deglutì, incerta, i suoi occhi violetti erano spalancati e
circospetti sotto ciglia nere e innaturalmente lunghe e spesse. Le
ciglia erano finte. Ma il colore dei suoi occhi…
Lei annuì bruscamente, si girò sui tacchi e si incamminò rapida
verso l’uscita della mensa. Io la seguii, attento a cancellare ogni
espressione dal mio volto e a mantenere la distanza tra noi. Non
c’era motivo di far sapere alla gente della città che avevamo un
legame di qualunque sorta.
Il passo di Jennifer era sorprendentemente veloce per una donna
piccolina sui tacchi alti, e lei era piccolina davvero. Anche per essere
una donna, era piccola. Tenendo uno sguardo attentamente
disinteressato, studiai questa piccola donna.
Indossava un vestito giallo, una “vestaglietta”, credo lo
chiamassero così negli anni ‘50 o ‘60. Le avviluppava il torso fino
alla vita e poi si allargava a partire dai fianchi. Lei aveva i fianchi
larghi. O una vita minuta. O entrambi. Era difficile da stabilire
considerando che il vestito che indossava aveva lo scopo di
accentuare sia la sottigliezza del busto che l’ampiezza della parte
inferiore del suo corpo.
Il vestito giallo le frusciava sui polpacci mentre camminava. Aveva
delle belle gambe, almeno per quel poco che riuscivo a vedere, ma il
tessuto frusciante mi fece distogliere l’attenzione. Era un frusciare
rabbioso e violento e iniziava a darmi sui nervi.
Lei svoltò rapidamente a sinistra costringendomi a raddoppiare il
passo per non restare indietro e fu allora che capii. Sapevo dove
stavamo andando, dove mi stava conducendo. Avevamo fatto il giro
lungo e mi sorprese che conoscesse quella porta anonima e senza
targhetta nella parte anteriore della mensa, che conduceva dietro le
quinte del palco.
Nessuno ci avrebbe visti. Un sipario spesso e pesante separava il
palco dai tavoli affollati di concittadini che mangiavano insalata di
cavolo, tortini fritti e bevevano limonata. Nessuno ci avrebbe sentiti.
Il costante brusio delle chiacchiere oltre il sipario lo rendeva il posto
perfetto per un incontro clandestino al riparo da orecchie indiscrete,
almeno fintanto che nessuno dei due avesse sentito il bisogno di
urlare.
Io mi infilai nella porta, esaminai il vasto spazio e trovai Jennifer a
qualche passo da me, appoggiata di schiena con i palmi premuti
contro il muro di cemento. Era irrigidita e dritta e, a giudicare dal
ritmico alzarsi e abbassarsi del suo petto, senza fiato.
Io mi infilai le mani nelle tasche della tuta da meccanico e aspettai.
Probabilmente ci vedevo meglio di lei. Noi ragazzi Winston
riuscivamo a vedere al buio, più o meno. Mamma ci aveva detto che
avevamo sangue Yuchi nelle vene, un fatto di cui avevo trovato
conferma all’insaputa dei miei fratelli. Secondo la leggenda, la tribù
degli Yuchi vedeva perfettamente anche nella più nera delle notti.
In ogni caso, la carenza di luce tingeva tutto di grigio e ombre,
inclusi i suoi inquietanti occhi violetti.
Devono essere delle lenti a contatto.
«Grazie» disse lei, rompendo il silenzio e cogliendomi di sorpresa.
Mi aspettavo pretese, non gratitudine.
«Non ho fatto nulla.»
La sua postura si rilassò appena appena. «Invece sì», mi
contraddisse. I suoi occhi erano spalancati ed era evidente che
stesse tentando di vedermi meglio.
«Cos’ho fatto?» La sfidai a mia volta, con tutta l’intenzione di
sentirmi irritato ma invece mi scoprii incuriosito.
«Hai reso più sopportabile questa settimana.» Rise appena e fu
un piacevole suono melodioso. Ma poi represse la sua risata e la
sua espressione si fece estremamente seria. «Mi hai dato
speranza.»
Beh… dannazione.
La fissai, fissai quella donna piccola, il suo mento appuntito e i
suoi occhi belli in modo fuori dal comune contornati da brutte ciglia
finte, e rividi i fatti:
Uno, Jennifer Sylvester era disperata.
Due, non era una persona cattiva.
Tre, pensava di volere un marito.
Jennifer si staccò dalla parete, iniziò a torcere le dita davanti a sé
inclinando la testa da un lato e poi dall’altro. Rise ancora, ma questa
volta la sua risata sembrò nervosa.
«Sai, non riesco proprio a vederti. Ma ho come la sensazione che
tu mi veda benissimo.»
Quattro, Jennifer Sylvester era dotata di un sorprendente spirito di
osservazione.
Feci un passo in avanti mettendomi in una striscia di luce che
penetrava da un’alta finestra. Ancora non era sceso il crepuscolo,
ma la notte avanzava rapidamente.
«Così è meglio?» chiesi, in tono più gentile di quanto volessi.
«Sì.» Lei rabbrividì e i suoi occhi viaggiarono sul mio volto,
soffermandosi per un istante sulla mia barba, per poi abbassarsi al
pavimento. «Sì, così è meglio. Grazie.»
Cinque, a Jennifer Sylvester non serviva un marito. Forse voleva
un marito, probabilmente perché nella sua mente collegava il
matrimonio alla libertà e a una via di fuga, ma non le serviva un
marito. Quello che le serviva era una spina dorsale.
Dopo un intero minuto passato in piedi in silenzio, chiesi: «Che ci
facciamo qui?».
«Volevo parlarti.»
«Perché volevi parlarmi?»
Lei irrigidì le labbra, poi alzò lo sguardo nel mio. «Volevo sapere
se hai già fatto qualche progresso.»
«Progresso?»
«Sì. Ideato un piano, per me, per la situazione in cui mi trovo.»
«Capisco...» Esaminai la sua postura. Come si fa a farsi spuntare
una spina dorsale?
«Allora?» Mi imbeccò.
«Allora cosa?»
Le sue palpebre si ridussero a due fessure e lei si spinse via dal
muro, incrociando le braccia.
«Cletus Winston, non provare a fare giochetti con me.»
Eccola. Ce l’aveva una spina dorsale, solo non la usava molto.
Cercai di non sorridere. Provai davvero, e fallii. Ma lei non avrebbe
comunque visto il mio sorriso. Per prima cosa, era troppo buio per i
suoi occhi non da Yuchi. E, secondo, la mia barba l’avrebbe celato.
Ora, come si fa a rendere duratura una spina dorsale?
«Forse sono pazza» continuò lei, con una nota d’acciaio nella
voce, «ma questo è quello che voglio. Quello che ho sempre
voluto.»
«Un marito?» Cercai di chiarire.
«Sì… e no.» L’acciaio sparì dalla sua voce mentre le braccia le
ricaddero ai fianchi. Riprese a tormentarsi le dita. «Voglio dirti la
verità, Cletus: non sono una romantica. Non cerco qualcuno che mi
faccia innamorare alla follia. I cavalieri su un bianco destriero non
esistono. Non mi interessa nemmeno che lui sia particolarmente
attraente o intelligente. Voglio solo una brava persona, una…
persona gentile. Voglio qualcuno di buon cuore, un punto saldo,
qualcuno di affidabile e garbato. Qualcuno che sia un buon padre.»
Alzai un sopracciglio a sentire il suo pragmatico e deprimente
elenco di desideri, mentre dibattevo tra me e me. Volevo aiutarla,
perché avrei potuto, e non volevo aiutarla, perché avevo giurato
solennemente a me stesso di non mettermi mai più a combattere
contro i mulini a vento.
Lei non è un problema tuo.
Non ero abituato a dibattere con me stesso, per cui rimasi a
fissarla in silenzio. La fissai in silenzio per più di quanto fosse
appropriato.
«Cletus?»
Sbattei le palpebre e la mia attenzione ritornò sul mondo esterno.
Si era spostata. Ora si trovava proprio di fronte a me, con il mento
alzato così da potermi intrappolare con i suoi occhi.
«Allora...» Jennifer prese un respiro profondo, la sua lingua guizzò
a bagnarle le labbra, poi sussurrò: «allora, mi aiuterai, vero?».
“Così parla un albero: in me è celato un seme, una scintilla, un pensiero, io
sono vita della vita eterna”
- Herman Hesse, Il canto degli alberi

Cletus mi fissò per parecchi minuti, ma non mi dispiaceva. L’aria


distante che aveva assunto il suo sguardo significava che non
guardava veramente me. Cletus stava pensando. E se stava
pensando con tanta concentrazione, allora non aveva ancora deciso
se aiutarmi o no.
Mi chiesi se dovessi ricordargli delle prove video ancora in mio
possesso, ma rinunciai rapidamente all’idea. L’avevo minacciato
domenica: se non era ancora convinto dopo aver passato quasi una
settimana consapevole di cosa stava rischiando, ora sarebbe servito
solo a farlo arrabbiare.
Non avevo mentito quando gli avevo detto che avevo salvato il
video in più posti, anche se tutti quei posti erano chiavette USB.
Forse mi comportavo da paranoica, forse stavo sopravvalutando
Cletus, ma ero convinta di no.
Inoltre, non potevo rischiare che i miei genitori scoprissero il video.
Dunque non era più sul mio cellulare e non l’avevo mai scaricato sul
mio portatile. Mio padre controllava a intervalli casuali le mie foto,
video, note, documenti e cronologia. Gli anni passati come preside
del liceo l’avevano reso maniacale riguardo alle mie abitudini e alla
mia condotta. Ma in fondo, non importava. Non avevo mai avuto
niente da nascondere. Fino a quel momento.
Avevo cancellato il file dal telefono dopo averlo mostrato a Cletus,
per quanto fosse possibile cancellarlo veramente ai giorni nostri.
Avevo utilizzato un computer della biblioteca per trasferire il video in
cinque diverse chiavette USB e le avevo nascoste in diversi punti
della mia cucina industriale alla pasticceria. I miei genitori non
passavano mai davvero del tempo nel mio spazio dedicato ai dolci,
per cui era il posto più sicuro per il mio segreto.
Ma tornando a Cletus e al suo sguardo fisso: quest’ultimo
significava che stava riflettendo e il suo riflettere significava che non
aveva ancora deciso cosa fare con me. Visto come mi aveva
fulminata con occhi pieni di fastidio quando l’avevo interrotto prima in
mensa, e sapendo quanto gli piacesse tramare nell’ombra,
immaginai che non apprezzasse molto trovarsi in svantaggio. Era un
uomo che preferiva avere il controllo totale.
Da sempre quando lo osservavo, avevo notato che Cletus aveva il
controllo di come il mondo lo percepiva, indossando ora la maschera
di imbranato sempliciotto, ora di affabile meccanico e ora di innocuo
eremita suonatore di banjo. Ed era sempre padrone di sé, non
perdeva mai la calma, non mostrava mai alcuna emozione che non
fosse premeditata.
Il controllo era la condizione che lo faceva sentire a suo agio.
Dovevo piegarmi a questa condizione, altrimenti non mi avrebbe
aiutato. Certo, avrebbe forse fatto finta di aiutarmi per un po’, ma
non l’avrebbe fatto per davvero.
Feci un passo in avanti, annullando la distanza tra noi finché non
mi bloccai a meno di un metro da lui. A questa distanza, dovetti
alzare il mento. Indossavo i tacchi, ma lui era comunque più alto.
«Cletus.»
Deglutii quando il suo sguardo caoticamente bello, in tutto il suo
peso e la sua intensità, si posò sul mio. Raccogliendo tutto il mio
coraggio, perché, onestamente, ero ancora terrorizzata da lui, mi
preparai a rischiare quanto rimaneva del mio orgoglio e a cedergli il
controllo.
«Allora» iniziai, leccandomi le labbra perché si erano seccate,
«allora, mi aiuterai, vero?»
Cletus si accigliò, il suo sguardo si fece più acuto, prese ad
analizzarmi. Aveva fatto la stessa cosa in macchina, quando aveva
realizzato che vedevo oltre la sua messinscena di uomo dolce e
inoffensivo. Mi esaminava apertamente da allora. Forse Cletus
aveva capito che non doveva celarsi dietro una maschera, che non
serviva a nulla perché io lo vedevo per com’era davvero, per cui non
si tratteneva più.
Tutta la sua astuzia implacabile era in bella mostra e rendeva
estremamente difficile per me sostenere il suo sguardo, allora come
adesso. Mi sembrava di venire dissezionata.
Lui inspirò lentamente ed ebbi la sensazione che volesse tirarsi
indietro. In effetti, il cuore aveva già iniziato a sprofondarmi alle
ginocchia quando lui disse: «Parlami di te.»
Sbattei le palpebre. «Come, scusa?»
«Parlami di te. Cosa fai, oltre a preparare dolci e indossare
costumi?»
Mi premetti istintivamente le mani contro lo stomaco, imbarazzata,
e abbassai lo sguardo sul mio vestito. «Ti sembra che indossi un
costume?»
«Non è forse così?»
Aveva ragione… naturalmente. Era un costume. Ma ammettere la
verità ad alta voce era difficile.
«Il trucco, i capelli, quei bruchi pelosi sulle tue palpebre. Ti vesti
sempre come se dovessi recitare su un palco. Ti piace fare questo?»
«No» risposi immediatamente. «No, non mi piace. Ma non vedo
come questo abbia a che fare con...»
«Con il trovarti un marito che ti dia dei figli?»
«Ecco, sì. Cosa c’entra come mi vesto...»
«C’entra eccome. Perché la rappresentazione che dai di te stessa
all’esterno, quello che le persone vedono, formerà la loro prima
impressione su di te. Per un uomo in età da matrimonio a cui
piacciono le donne, questo si traduce nel fatto che verrai
immediatamente classificata in una di tre categorie: potenziale
moglie, incontro amoroso di una notte o trascurabile.»
Feci una smorfia. «Quindi stai dicendo che sono trascurabile.» Era
ovvio che dicesse una cosa del genere.
Lui non mi aveva mai notata.
Ridacchiò e io non potei non apprezzare come illuminasse e
addolcisse i suoi occhi. «No, Jenn. Non sei trascurabile. Ma essere
una caricatura non ti rende nemmeno accessibile. Una donna
solitamente deve essere accessibile per poter rientrare nella
categoria di potenziale moglie.»
Cercai di nascondere la mia sorpresa deliziata da come mi avesse
chiamata Jenn invece di Jennifer, e provai invece a concentrarmi
sulla sua sconcertante valutazione della categoria in cui rientravo.
«Per cui rimane solo...»
«Esatto.» Annuì con solennità, ricordandomi mio nonno Sylvester,
o il giudice Payton. «La maggior parte degli uomini, quelli giovani in
particolare, sono creature semplici. Ma la buona notizia è che gli
uomini possono cambiare idea e in effetti lo fanno.»
«Questa conversazione è sconvolgente.» Mi strofinai la fronte,
sentendo salire la nausea.
«Sto forse urtando la tua delicata sensibilità?»
«No. Non è per questo. Solo che ora mi dispiace per gli uomini.
Dev’essere frustrante sentirsi così deboli e limitati.»
Gli occhi di Cletus si allargarono drasticamente, poi lui esplose in
una risata. «Deboli e limitati? È così che descriveresti gli uomini?»
«No. Ma apparentemente è come li descriveresti tu.»
Un lato della sua bocca si sollevò in un sorriso chiaramente
assente e riluttante, il suo sguardo perse ancora un po’ della sua
durezza. «Come stavo dicendo, le donne passano continuamente da
una categoria all’altra. Agghindandoti in questo modo,» abbassò la
mano indicando il mio vestiario, «potresti spingere le persone a
considerarti una pazza, e se una donna è pazza, allora potrebbe
passare dalla categoria “da pisellare” a quella “da ignorare”.»
«Pisellare? Non stiamo parlando di legumi.»
«Vero. Ma come verbo, diventa un eufemismo per indicare un
incontro sessuale con una donna.»
«Mi piace fare questa cosa, aggiungere are a qualcosa e decidere
che è un verbo.» Sorrisi, chiaramente dimenticandomi con chi
parlassi. Ma era una delle mie cose preferite da fare nelle lettere ai
miei amici di penna e non ne avevo mai parlato con nessuno prima.
«Si chiama conversione.» Cletus voltò appena la testa di lato e
strinse le palpebre. «Quali sono i tuoi preferiti?»
«Uhm… vediamo…» Spostai l’attenzione sull’oscurità oltre la sua
spalla, pensando all’ultima lettera che avevo scritto. «Veritare non è
male. Lo definirei come cercare di rendere vero qualcosa, anche
quando non lo è o lo è solo per te. O prodarsi, come alternativa ad
avventurarsi. È una differenza sottile ma mi piace come suona.»
Riportai il mio sorriso su Cletus e lo trovai intento a guardarmi con
un’espressione peculiare. Il mio sorriso vacillò mentre ci studiavamo
a vicenda e mi preparai a qualunque cosa significasse quello
sguardo peculiare. Senza riuscire più a sostenere quella sua
espressione imperscrutabile, lo interrogai: «Cosa? Cosa c’è che non
va?»
«Non intendo farti del male» disse con tono sereno, come se farmi
del male fosse stata un’opzione disponibile, ma lui avesse deciso
giusto in questo momento di non farmi del male.
Sentii le sopracciglia risalirmi la fronte.
«Ah?» gracchiai, mentre un brivido di paura mi correva lungo la
schiena. «Molto carino da parte tua.»
Il sorriso appena accennato di Cletus era caloroso, davvero
disarmante e non sembrava studiato o calcolato. Fece accendere
nel mio petto un calore dilagante, nonostante la sua ultima
affermazione, e questo mi confuse da morire, diamine.
«Stai fraintendendo il significato delle mie parole. Ammetto che
fare del male non è stata la scelta di parole migliore. Non ti farei mai
del male fisico e mi rattrista vivere in una società in cui debba
specificarlo esplicitamente. Come certo saprai, mio padre...» Si
interruppe a metà della frase e sbatté le palpebre, le sopracciglia gli
si aggrottarono e avvicinarono.
Nel frattempo, io trattenni il fiato. Ero scioccata che Cletus avesse
tirato fuori suo padre. Tutti in città sapevano che Darrell Winston,
buono a nulla e padre della progenie Winston, era solito picchiare
moglie e figli. Mamma ne spettegolava a bassa voce con le sue
amiche. Crescendo, avevo origliato più di una conversazione
sull’argomento.
«Comunque, in ogni caso.» Scosse la testa come per spezzare
l’attuale filone dei pensieri, e con una smorfia continuò. «Volevo solo
dire che non ti farò del male, fisico o di altro genere. Ma come hai
fatto notare domenica, sono un tipo vendicativo. Solitamente,
chiunque si azzardasse a ricattarmi non uscirebbe indenne dal suo
tentativo.»
Si fermò, il suo sguardo non era più affilato mentre si muoveva sul
mio volto, eppure il suo sguardo non era meno sconvolgente.
«Ma tu sì, invece. Ne uscirai indenne.» La voce di Cletus era
contemplativa e placida, come se fosse finalmente giunto alla fine
del suo ragionamento. «Tu mi sorprendi e non sono abituato a
essere sorpreso.»
Rimasi completamente immobile sotto il suo esame persistente,
nonostante il mio cuore battesse forte tra le mie orecchie, un chiaro
segnale di cosa provassi. Capivo che le sue parole volevano essere
rassicuranti, ma avevano avuto l’effetto contrario.
Cletus Winston non bluffava. Non esagerava. Era metodico e
discreto, con una determinazione di ferro e spirito d’iniziativa. Era
pericoloso. E, a quanto pareva, per un qualche miracolo sconosciuto
ero appena riuscita a scappare a una futura resa dei conti.
Grazie. A. Dio.
«Ma tornando all’argomento di discussione» disse all’improvviso,
facendomi sobbalzare, adesso tutto affari. Se notò la mia reazione,
non lo mostrò, scegliendo di proseguire dritto con il suo pensiero.
«Tu vuoi che ti aiuti a trovare un marito. Io sostengo che aiutarti in
tale impresa è impossibile a meno che tu non divenga la vera te
stessa, ovvero qualcuno di diverso dalla Regina della torta alla
banana e da tutto il giallo che ne consegue. Pertanto, ecco il tuo
primo compito a casa: fare una lista di cose che ti piace fare.»
«Compito a casa?» Ripetei scioccamente.
Cletus annuì con un cenno e poi si girò.
Senza pensare, gli afferrai il braccio e lo trattenni. «Aspetta, cosa?
Fare una lista di cose che mi piace fare?»
«Esatto. E dovremo fissare un orario per incontrarci una volta a
settimana per le lezioni.»
«Lezioni?» Mi raddrizzai di scatto.
«Sì. Lezioni. Ti servono delle lezioni.»
«Che genere di lezioni?»
«Lezioni su come essere Jennifer Sylvester.»
Cosa? Alzai il mento. «So come essere me stessa.»
«No, invece.» Coprì la mia mano con la sua e la staccò dal suo
braccio, lasciandola cadere.
«È ridic...»
«I venerdì sono chiaramente fuori questione e preferirei fosse
durante le sere della settimana che nel week-end. Nella peggiore
delle ipotesi possiamo incontrarci durante la giornata di domenica. In
quale giorno non lavori in pasticceria?»
Rimasi a bocca aperta, presa alla sprovvista dalla piega della
conversazione e pertanto riuscii a rispondere alla sua domanda solo
con la verità. «Non ho il giorno libero.»
«Cosa? Che vuol dire che non hai il giorno libero?»
«Esattamente questo. Inizio a cucinare alle tre di mattina quasi
ogni giorno, e poi se non ci sono ordini speciali, vado a casa a
dormire un poco. Ma di solito ho sempre degli ordini speciali. E poi ci
sono le feste, quasi tutti i venerdì e i sabati, in città.»
«Vuoi dire a Knoxville?»
«Sì, o a Nashville.»
«Perché devi essere presente? Tua mamma non ha del personale
per aiutarti?»
«Beh, sì. Ma lei preferisce che io...»
«Non importa. Non rispondere.» Allontanò con un gesto della
mano la mia risposta, accigliandosi di nuovo, il suo aspetto e il suo
tono di voce apparivano tremendamente scontrosi. «Se non hai il
giorno libero, qual è quello più tranquillo? Quando hai un po’ di
tempo libero, di solito?»
«Il lunedì.»
«Ok. Lunedì. Ci incontreremo ogni due lunedì, di pomeriggio, al
campo di Cooper.» Fece di nuovo per girarsi e andarsene.
Gli afferrai ancora il braccio. «No. Non va bene. Non posso andare
al campo di Cooper. Qualcuno riconoscerebbe la mia macchina e i
miei genitori lo verrebbero a sapere. Non posso cambiare la mia
solita routine o desterò dei sospetti.»
Ancora una volta mi rimosse la mano dal suo braccio, continuava
ad apparire irritato nell’aspetto e nella voce. «Allora dove e quando
suggerisci di incontrarci?»
«In pasticceria, lunedì o martedì sera. A volte resto fino a tardi per
provare nuove ricette. Saremo soli.»
«E va bene.» Mi rivolse un secco cenno del capo e si girò verso la
porta, e l’oscurità lo inghiottì. «Ci vediamo lunedì.»
«Allora mi aiuterai?» chiesi speranzosa, rivolgendo la mia
domanda al buio pesto.
Lui non rispose. A parecchi metri di distanza, la porta del palco si
aprì e la sua alta figura si stagliò nella luce mentre lui varcava la
soglia. Poi la porta si chiuse.
Se n’era andato.
“Il suo cuore era un giardino segreto circondato da alte mura.”
- William Goldman, La storia fantastica

«Sono davvero belle, Jethro.» Beau esaminò le modanature a


soffitto che Jethro aveva fissato il giorno prima. «Non riesco a
credere che tu abbia fatto tutto con le tue mani.»
«Già. E Cletus ha avuto l’idea di far passare i cavi nella
modanatura, per avere l’audio in tutto l’ambiente. Vedi gli altoparlanti
lì e lì?» Jethro indicò gli altoparlanti incassati nel muro del salotto. I
miei fratelli strinsero le palpebre per guardare i punti che Jethro
indicava.
«Non vedo niente.» Drew si avvicinò al muro e lo esaminò.
«Cletus, sei davvero bravo a nascondere le cose in piena vista, poco
ma sicuro.»
Jethro batté una mano sulla mia spalla e sorrise, scuotendomi
affettuosamente. «È il suo dono.»
«Uno tra i tanti» concessi, controllando il mio orologio.
A dire il vero, avevo passato più tempo di quanto fosse adeguato
a nascondere quegli altoparlanti. Ma ero determinato a renderli
invisibili: io la definivo un’etica del lavoro eccellente. Jethro invece
aveva detto che mi stavo ossessionando di nuovo.
Jethro, Beau, Duane, Drew e io avevamo appena finito gli ultimi
tocchi alla rimessa. Eravamo in piedi nella nuova cucina, la colla per
il legno non era ancora asciutta e l’intera casa odorava di vernice e
segatura, ma ce l’avevamo fatta. Il posto era pronto e finito per
Jethro, Sienna e la prole Winston di sesso ancora indeterminato
numero uno. Sienna sarebbe tornata a casa tra due giorni ed io ero
ancora il solo a sapere che fosse incinta. Nel frattempo Duane e la
sua donna, Jessica, sarebbero partiti presto per l’Italia. I loro biglietti
erano del tipo “sola andata”.
Era un momento di cambiamenti. Io evitavo i cambiamenti o
facevo del mio meglio per scoraggiarli, solitamente. Ma questo era
un cambiamento del genere buono. Lo sapevo. Ciononostante,
anche i cambiamenti buoni mi rendevano agitato.
«Billy ha dato una mano» disse Jethro, nella sua voce c’era una
certa esitazione.
«Billy?» Duane non provò neanche a nascondere la sua sorpresa:
lui e Beau si fissarono, comunicando per svariati secondi senza
parlare. Avevo sempre trovato frustrante l’abilità dei gemelli di
trasmettersi i pensieri con una sola occhiata. Non mi piaceva essere
tagliato fuori dalle conversazioni.
«Sì. Billy. Billy ha dato una mano» confermai irritato. «E voi due
potreste smetterla di parlare tra voi con le palle degli occhi. Ci sono
parecchie altre persone nella stanza che non sono capaci di
connettersi con i cervelli.»
Duane alzò un sopracciglio, i suoi occhi sfrecciarono tra me e
Beau e poi si abbassarono velocemente a terra. «D’accordo, Cletus.
Non ti scaldare.»
Brontolai, ma non dissi nulla. Non volevo battibeccare con Duane.
Sarebbe rimasto in zona solo per poche settimane e il pensiero mi
deprimeva. Era un irritabile e scontroso piccolo bastardo con
l’abitudine di parlare solo quando interpellato, e a volte nemmeno
allora. Mi sarebbe mancato.
«Dov’è Billy, ora?» chiese Drew, continuando a fissare
concentrato il muro per trovare gli altoparlanti incassati.
«Al lavoro» rispose Beau, poi si rivolse a me e chiese: «Allora
domani vieni con noi a pescare, Cletus?»
«Drill e Catfish vengono?» domandai.
Beau alzò le spalle. «A quanto ne so.»
«Allora vengo.»
«Perché vuoi andare a pescare con quei due Iron Wraiths?» Il
tono di Duane rivelava la sua disapprovazione, ma non mi diede
modo di rispondere prima di girarsi verso Beau. «Non posso
crederci, sei ancora amico loro nonostante tutto quello che è
successo a Jess.»
Jess era Jessica James, la donna di Duane. L’autunno scorso era
rimasta coinvolta in un brutto affare con il club di motociclisti degli
Iron Wraiths. Per farla breve, i pezzi grossi del club avevano cercato
di ricattare Duane e Beau per farli lavorare come smontatori di auto
rubate. Dopo quello spiacevole accadimento, Duane si era unito a
Billy nel suo odio incondizionato verso ogni singolo membro del club.
Drill e Catfish erano membri, non avevano alcuna colpa di quanto
era successo a Jess o del tentato ricatto, ma d’altronde non avevano
nemmeno alzato un dito per impedirlo.
«Drill non è una brutta persona» disse Beau, cercando di
difendere l’uomo.
L’occhiata torva di Duane si incattivì. «Sono tutti degli stronzi
malvagi e dovrebbero bruciare all’inferno.»
Le sopracciglia di Drew saltarono in alto, ma lui non disse nulla.
Intanto Jethro, che era arrivato a tanto così dal diventare un membro
degli Iron Wraiths a pieno titolo, studiava attentamente l’etichetta
della sua birra. Nella stanza scese un complicato silenzio:
complicato perché la storia del rapporto della nostra famiglia con il
club motociclistico era piena di sfaccettature e complicata. Nostro
padre ne era membro. Era stato un loro comandante. Eravamo
cresciuti assieme a parecchi ragazzi che ora facevano parte del
club. Personalmente, non consideravo ogni singolo elemento tra i
loro ranghi uno stronzo malvagio, ma era vero che per me i Wraiths
erano un cancro. Li avrei distrutti, ma non per una qualche
motivazione altruistica come liberare Green Valley dai suoi
malfattori. Le mie motivazioni erano più egoistiche.
«Uhm, Cletus, vuoi una birra?» Drew mi porse una bottiglia, e
ruppe il silenzio teso.
Scossi la testa. «Non posso, finito qui, ho un appuntamento in un
altro posto.»
«Comunque,» Beau, chiaramente ansioso di cambiare argomento,
indicò lungo il corridoio, «parliamo del colore che Jethro ha scelto
per dipingere la seconda stanza da letto.»
«È verde, che c’è di male?» Jethro ghignò furbescamente. Non
era mai stato bravo a mantenere una faccia da poker.
«Niente, non c’è niente di male con il verde, ma è una tonalità
molto strana. Com’è che si chiamava?»
«Pisello odoroso» ricordò Duane al suo gemello, con voce piatta.
«Si chiamava pisello odoroso e credo fosse indicato sull’etichetta
che è un colore per stanze di bambini.»
«Stanze di bambini, eh? Devi dirci qualcosa, Jethro?» lo
punzecchiò Beau, imitando il sorrisetto di Jethro. «Nessuna notizia
da condividere? Nessun grosso scoop?»
Jethro mi lanciò un’occhiata. «Non ci credo, non gliel’hai ancora
detto.»
«Perché mai avrei dovuto? Sono bravo a mantenere i segreti.» Mi
infilai le mani in tasca, assicurandomi di assumere un’aria innocente.
«E non sono io quello incinto.»
«Lo sapevo!» Beau saltò su Jethro, stringendolo in un veloce
abbraccio virile.
Il sorriso di Jethro si fece ampio come non l’avevo mai visto prima.
«Come diavolo facevi a saperlo?»
Duane diede una pacca sulla schiena a Jethro, non appena Beau
lo lasciò. «Perché hai sempre voluto dei bambini e non sei mai stato
uno da girarsi i pollici una volta presa una decisione.»
«Avresti dovuto dipingerla verde vomito, così non si sarebbero
viste tutte le macchie del vomito che ti toccherà pulire» suggerì
Beau.
«O color cacca» aggiunse Duane. «Non scordiamoci della cacca.»
«Voi sì che siete i migliori.» Jethro si portò la mano al petto. «Mi
scaldate il cuore.»
«Assicurati che il pavimento sia impermeabile.» Beau prese una
birra e la stappò.
«Non dirmelo, perché non ci rimangano attaccati tutta la cacca e il
vomito?»
«No» Beau alzò e abbassò le sopracciglia, divertito. «Per tutte le
lacrime che verserai quando non riuscirai più a dormire la notte o
fare l’amore con la tua donna.»
«Ah, sì. Il coito interrotto dall’infante è una malattia vera e propria.
Non esiste cura, per di più.» Duane annuì, fu una discreta imitazione
del mio cenno d’assenso austero. In effetti, era sembrato in tutta la
sua osservazione una buona imitazione di me.
«Sembri Cletus.» Drew rise, chiaramente aveva afferrato lo
scherzo.
Duane fece scivolare gli occhi verso i miei e mi rivolse un
sorrisetto.
Alzai un sopracciglio in direzione di mio fratello per non fargli
intuire che trovavo la sua imitazione divertente. «Dovreste piantarla,
tutti voi. I bambini sono il meglio. Pensate a tutte le coccole che
potremo fargli. È davvero un’ottima notizia.»
«È una grande notizia.» Beau allungò la sua birra per toccare
quella di Jethro e aggiunse, in tutta sincerità: «È la migliore notizia di
tutte.»
«Non vedo l’ora.» Anche Duane toccò con la sua birra quella di
Jethro. «Jess e io torneremo a casa non appena arriverà il fagottino
di gioia. E insegnerò a Duanita a guidare una macchina da corsa.»
«Duanita?»
«Naturalmente, si chiamerà così.» Duane bevve un lungo sorso
della sua birra, annuendo come se la questione fosse già decisa.
«Non saprei.» Drew scosse la testa assorto, grattandosi la nuca.
«Andy mi suona bene. E potrebbe andare bene sia per un
maschietto che per una femminuccia.»
«Come diminutivo di Andrew, naturalmente.» Beau alzò gli occhi
al cielo.
«O Andrea.» Drew scrollò le spalle e nascose il suo sorrisetto
bevendo un altro sorso di birra.
«Voi tutti vi state dimenticando una cosa, non sono solo io a
decidere il nome del bambino. Sienna ha parecchia voce in capitolo
in questa faccenda e diritto di veto.»
«In pratica ci stai dicendo che dobbiamo lavorarci Sienna?»
tradusse Beau.
Jethro rise, e così tutti gli altri. Io invece no.
Riuscii a mettere su un sorriso nonostante la mia inspiegabile
malinconia, mentre il bisogno di prendere commiato mi attanagliava
con ferocia improvvisa.
Sentii gli occhi di Duane puntati su di me, per cui gli rivolsi un
sorriso piatto, poi controllai l’ora. «Bene, è stato divertente, ma io
devo congedarmi.»
«Sì, devo andare anche io.» Drew posò la sua birra vuota nel
nuovo bidone del riciclaggio, si girò verso Jethro e gli strinse la
mano. «Congratulazioni, Jethro. Sono felice per te.»
«Grazie, Drew.»
I due uomini si guardarono e qualcosa passò tra di loro, un’intesa
di qualche genere.
«Oh, fantastico, ora anche Drew e Jethro possono fondere le
menti. Io me ne vado da qui.» Diedi le spalle al gruppo e alle loro
risatine.
«Dai Cletus, resta ancora un po’. Ti guarderò io intensamente
negli occhi. Noi uomini single dobbiamo restare uniti» mi richiamò
Beau alle mie spalle.
«Cletus non resterà single tanto a lungo» intervenne Jethro,
probabilmente nel tentativo di farmi perdere la pazienza. Non
funzionò. Non volevo far tardi alla mia prima lezione con Jennifer
Sylvester. Avevamo un bel po’ di lavoro da fare.
«Cosa vuoi dire? Cletus si è trovato una ragazza e non ha detto
niente?» Beau sembrava proprio euforico.
Io ero quasi arrivato alla porta quando sentii Jethro dire: «Non sta
a me parlarne».
«Non si fa così, Jethro. Sai che Beau non si calmerà finché non
avrà capito di chi si tratta» consigliò Drew, con tono a metà tra il
serio e lo scherzoso.
«Chi è?» chiese Duane. Sembrava interessato e ne rimasi
sorpreso: di solito si teneva alla larga dal gossip.
«Vi auguro una buona serata, ciarlatani.» Salutai da sopra la
spalla e lasciai che la porta si richiudesse alle mie spalle, soffocando
le loro voci e mi avviai deciso alla mia macchina.
Ultimamente non avevo riflettuto sull’idoneità di Shelly Sullivan
come partner di vita, non più dopo il nostro primo incontro di qualche
settimana prima. Non avevo motivo di affrettare le cose, nessuna
ragione per apportare ulteriori cambiamenti al momento presente.
Noi, la nostra famiglia, stavamo già affrontando abbastanza
sconvolgimenti, non c’era motivo di aggiungerne altri. Quando
sarebbe arrivato il momento giusto, quando i cambiamenti si
sarebbero trasformati in routine, l’avrei invitata fuori a mangiare una
bistecca. Avremmo parlato del futuro, stilato una lista di pro e contro,
e poi avremmo raggiunto un accordo vantaggioso per entrambi. Una
volta smantellati gli Iron Wraiths, una volta data una lezione a
Jackson James e aiutato Jennifer Sylvester a trovare la sua spina
dorsale, allora mi sarei dedicato a Shelly.
Ero lieto di avere Jennifer Sylvester. Aiutare lei sarebbe stato un
bel progetto: una distrazione simpatica, facile e gestibile.
«Jennifer, ora basta avere paura di me.»
«Ok.» Annuì, senza guardarmi.
Ero in piedi di fronte a lei, dall’altra parte dell’immenso bancone
della cucina della Pasticceria Donner. Donner era il nome da nubile
della mamma di Jennifer. La pasticceria e lo chalet annesso
appartenevano alla sua famiglia da tre generazioni.
Il mio amico di Chicago mi aveva confermato che sia il computer
che il cellulare di Jenn non contenevano più il video. Lei non ne
aveva fatto parola, che si fosse accorta oppure no che il video era
stato cancellato. O, più probabilmente, non aveva idea che avessi
chiesto a un hacker professionista di intrufolarsi sul suo portatile e
cellulare.
Che lei lo sapesse o no non aveva molta importanza nel lungo
periodo, ma – per il momento – avevo deciso che sarebbe stato
meglio tenere quell’informazione per me.
Era già abbastanza tesa.
In quell’istante Jenn era occupata a porzionare con un cucchiaio
dell’impasto per biscotti su una teglia e a non incontrare i miei occhi.
Non mi aveva guardato direttamente da quando mi aveva fatto
entrare dalla porta sul retro della cucina qualche minuto prima e il
modo in cui ora rimaneva in silenzio comunicava ansia e
impazienza. Se avesse scoperto che il suo asso nella manica era
sparito, prevedevo che sarebbe svenuta dall’angoscia.
«Dicevo sul serio, non intendo escogitare un piano per
vendicarmi.» Usai il mio tono di voce più innocente e innocuo.
«Ok.»
L’esaminai e aspettai. Indossava ancora uno dei suoi costumi, una
vestaglietta gialla, ma aveva ripulito il volto da tutto il trucco, era a
piedi nudi e aveva raccolto i capelli in una coda di cavallo. In testa
aveva un cappello da baseball e intorno alla vita teneva legato un
grembiule di Smash-Girl, la supereroina. Non l’avevo mai vista con
un aspetto tanto normale prima di quel momento, da persona reale.
Era qualcosa con cui avrei potuto lavorare.
E avrei potuto aspettarla, e batterla in una gara di pazienza. Se
volevo, e la situazione lo richiedeva, sapevo essere paziente.
Oppure avrei potuto provare a rabbonirla e a distrarla fino a piegarla
ai miei voleri.
«Non manderò nessun corriere-spogliarellista Navy Seal sul tuo
posto di lavoro né farò esposti all’ufficio d’igiene contro la
pasticceria.»
I suoi movimenti si bloccarono e lei fissò i biscotti sul tappetino di
silicone. «È questo che avevi intenzione di farmi? Sarebbe stata
questa la tua vendetta? Per averti ricattato?»
«Sì» mentii. «O l’una o l’altra. Ero più propenso per lo
spogliarellista, però. Una mia conoscenza a Nashville avrebbe
potuto mettere su un bello spettacolo per i tuoi clienti della domenica
mattina. La folla appena uscita dalla messa avrebbe proprio perso la
testa, dopo la loro dose di zucchero e caffè. Inoltre, come bonus, lui
è davvero un ex Navy Seal, congedato nel 1975.»
Un angolo della sua bocca si sollevò, ma i suoi occhi rimasero
volutamente incollati sulla ciotola di impasto crudo dei biscotti.
Io la osservai attentamente, aggiungendo: «Potrei comunque farlo,
magari per il tuo compleanno, e solo se sarai molto gentile con me
fino ad allora».
Nel punto in cui stringeva il cucchiaio, la sua mano tremò
leggermente. Era ancora a disagio.
«Morale della favola, Jenn: stavolta la passi liscia, quindi cerca di
rilassarti un po’.»
«Ok.» Annuì, continuando a non guardare nella mia direzione e
affondò il cucchiaio nell’impasto dei biscotti, mescolandolo senza
alcuno scopo.
Si era distesa, ma non abbastanza.
Incuriosito, chiesi: «Perché ti faccio tanta paura?»
«Non mi fai paura» rispose immediatamente, con tono in
apparenza difensivo.
«Allora perché ti tremano le mani?»
Jennifer lasciò cadere il cucchiaio nella ciotola e si appoggiò al
bancone. I suoi occhi si alzarono per un brevissimo secondo. «Tu
non mi spaventi, sono solo… sono solo nervosa.»
«Perché sei nervosa?»
«Perché… perché… perché tu sei pericoloso. E fatico a credere
che i tuoi piani di vendetta si limitino a qualcosa di innocuo come
uno spogliarellista.»
«Non lasciarti ingannare, George non è innocuo. È un
professionista di ottantacinque anni devoto al suo lavoro e si porta la
pistola. Beh, porta entrambe le pistole.»
Lei sbuffò e cercò in modo ammirevole di scacciare un sorriso,
mentre le sue guance si tingevano di una sfumatura di rosa.
Finalmente, gli occhi di Jenn si sollevarono e incontrarono i miei.
«So cosa stai facendo, stai cercando di farmi abbassare la guardia.»
«Sì. Esatto, sì. Come posso aiutarti se non ti fidi di me?»
«Come posso fidarmi di te quando hai alle spalle una lunga e
comprovata carriera di subdole trattative e manipolazione?»
Donna astuta… molto astuta. Ma la mia pazienza era quasi giunta
al limite. «Ascolta, donna. Vuoi il mio aiuto o no? Perché, per quanto
concerne il tuo benessere, sono dolce come un coniglietto cieco e
sdentato.»
«Non lo sei per nulla» mi contraddisse, ridacchiando suo malgrado
– come se fosse sia divertita che frustrata – e io notai che finalmente
le sue mani avevano smesso di tremare. «Tu sai qualcosa su tutti.
Su tutti. Sono anni che raccogli informazioni e le usi contro le
persone, costringendole a fare quello che vuoi. In effetti, sono pronta
a scommettere che sai qualcosa sulla mia famiglia che potrebbe
sconvolgere le nostre intere esistenze.»
Feci attenzione a mantenere un’espressione neutrale, perché
Jennifer aveva completamente ragione.
Suo padre aveva avuto una storia con Elena Wilkinson, la
segretaria del liceo, per anni. Avevo avuto dei sospetti per molto
tempo, per cui avevo frequentato le classi di calcolo avanzato come
copertura finché non ero riuscito a confermare la sordida verità. Kip
Sylvester era un patetico omuncolo senza cuore e vanesio a cui
importava solo di se stesso.
Non sapevo dire se anche sua moglie se ne fosse resa conto. Ma
certo sapevo che se Diane Donner-Sylvester avesse mai scoperto i
tradimenti del marito, avrebbe chiesto il divorzio in un batter
d’occhio. E lui avrebbe perso tutto, perché quella donna guadagnava
in un mese più di quanto lui guadagnasse in un anno. Al momento
non pianificavo di sfruttare quell’informazione, ma probabilmente
l’avrei fatto. Prima o poi.
Jennifer non aveva finito. «Lo terrai segreto, finché tornerà utile ai
tuoi scopi. E questo ti rende pericoloso, come una vipera pronta a
mordere. Ritengo che la mia cautela sia giustificata.»
«Va bene. Sono pericoloso. Conosco cose.» Alzai le spalle. «Ma
tu devi credere al fatto che io non sono pericoloso per te. Non posso
aiutarti se continuerai a fare Jennifer nervi a fior di pelle per tutto il
tempo.»
Esitò, riprendendo in mano il cucchiaio, poi disse: «Hai ragione.
Non posso avere i nervi a fior di pelle e devo trovare un modo per
rilassarmi in tua presenza.»
Il modo in cui disse “rilassarmi” lo faceva sembrare una fatica di
Ercole.
«Jenn...»
«Ci lavorerò.» Si accigliò e alzò il mento, assumendo un’aria
tormentata e stranamente carina.
Sì, carina. Jennifer era carina. I tratti di quella donna erano
esteticamente piacevoli, specie ora che non aveva quei bruchi pelosi
sulle palpebre. L’avrei valuta “molto carina” in quel momento. Avrei
potuto rifilarla a qualcuno come gli agenti Dale ed Evans. Era ovvio
che entrambi gli uomini erano rimasti incantati da lei alla jam
session. Ma il molto carina non sarebbe stato molto d’aiuto né
l’avrebbe fatta arrivare lontano senza una spina dorsale.
«Va bene. Tu lavora su quello e io lavoro su di te.»
Le sue guance si colorarono di una sfumatura più scura di rosa e
Jennifer si mordicchiò il labbro inferiore. Alla fine, si schiarì la gola e
abbassò il mento sul petto.
Io mi sporsi in avanti sul bancone, puntando il peso sui gomiti e gli
avambracci per poter vedere il suo volto. Quando lei aveva
abbassato il mento, la visiera del cappello le aveva nascosto i
lineamenti. Dovevo farglielo togliere.
«Hai fatto i tuoi compiti?» chiesi, notando che il suo cappello
aveva dei personaggi dei cartoni giapponesi sopra.
«Sì.» Abbandonato il cucchiaio, si pulì le mani sul grembiule e poi
attraversò la stanza fino a un sacco di tela che stava appoggiato a
uno scaffale, vicino alla porta sul retro. Jenn estrasse un pezzo di
carta piegato e si girò verso di me. Lo tese di fronte a sé, mettendolo
tra noi due.
Io passai lo sguardo da lei alla lista e ritorno, nel tentativo di
ignorare l’impulso di esaminare le sue strane iridi. Volevo che si
rilassasse, non che si sentisse sotto esame.
Ma quelle mi provocavano. Scientificamente parlando, il colore dei
suoi occhi era impossibile.
Sono lenti a contatto.
Nonostante le mie intenzioni di fare il contrario, trattenni lo
sguardo nei suoi occhi appena un pelo troppo a lungo, in cerca dei
contorni rivelatori delle sue lenti a contatto. Non li vidi. Vidi solo occhi
violetti la cui esistenza non era possibile.
Lei mi studiò, con aria preoccupata: la mano che teneva il pezzo di
carta si abbassò. «Qualcosa non va?»
«Niente.» Mi accigliai, ero contrariato per come il colore degli
occhi di quella donna stravolgesse il naturale ordine dell’universo.
«Leggi tu la lista.»
«Ok.» I suoi occhi si spostarono tra i miei prima di abbassarsi sul
foglio. Jennifer lo aprì, si schiarì la gola e poi cominciò a leggere.
«Uhm, numero uno: fare giardinaggio in salopette.»
«Fare giardinaggio in salopette.»
«Esatto.» Annuì scattosa, alzando il mento e incrociando le
braccia sul petto come se si aspettasse una mia obiezione.
«Perché in salopette?»
«Mi piace avere tante tasche.»
«Anche a me piacciono le tasche» pensai e dissi all’unisono. «E
per il giardinaggio, fiori o ortaggi?»
«Entrambi. Ortaggi per cucinare, ma anche fiori. Attirano gli insetti
impollinatori e tengono alla larga i parassiti. La calendula e la
lavanda sono ottimi per questo. Inoltre, schiaccio i fiori per ricavare
gli oli essenziali.»
«Fai oli essenziali?»
«Sì. Lavanda, geranio e rosa, per lo più.»
«Uhm. Interessante.» Gettai un’occhiata alle sue mani. Non
potevo esaminarle mentre le teneva infilate tra le braccia incrociate,
per cui allungai il braccio per afferrargliene una.
Lei si allontanò di scatto. «Cosa stai facendo?»
«Vorrei vedere la tua mano.»
«Perché?»
«Sono curioso. Hai mani da contadino?»
La sua espressione si rilassò, come se sperasse di avere mani da
contadino, e mise tra noi una mano a palmo in su. «Cosa vuoi dire?
Come Nancy Danvish?»
Io osservai le sue dita e scoprii una cosa sorprendente. Aveva i
calli e le sue dita non erano sottili e da signora, ma lunghe e forti. Sì,
lo smalto rosa sulle sue unghie era impeccabile, ma aveva le mani di
chi spesso le impegna in lavori manuali.
«Suoni qualche strumento?» chiesi, dal nulla. O forse lo chiesi
perché le sue dita erano così lunghe, specie per una persona bassa,
che sarebbe stato un peccato se non avesse suonato alcuno
strumento.
«Sì, una volta. Crescendo, suonavo il piano. Tutte le ragazze
dovevano avere un talento ai concorsi di bellezza, per cui io cantavo
e suonavo il piano.»
Annuii meditabondo, ricordandomi di una conversazione che
avevo origliato anni prima, tra mia mamma e Naomi Winters. Le due
si lamentavano di come Diane Donner-Sylvester costringesse la sua
unica figlia – che entrambe consideravano incredibilmente dolce e
timida – a partecipare ai concorsi di bellezza. Erano inoltre
dispiaciute che Diane avesse iniziato a tingere di biondo i bei capelli
scuri della figlia a una così tenera età. Io lanciai un’occhiata ai suoi
capelli biondi, o a quel poco che ne riuscivo a scorgere, poi riportai
l’attenzione sulla lista. Le presi la mano e girai il foglio verso di me
per poterlo leggere.
«Vediamo...»
Fare giardinaggio in salopette
Scrivere lettere su una scrivania ben illuminata
Leggere un libro mentre piove
Insegnare alle compagnie a preparare dolci
«E questa cos’è? ‘Insegnare alle compagnie a preparare dolci’.
Che vuol dire?»
«I Lupetti e le Coccinelle...»
«Le Coccinelle sono le girl scout più piccoline?»
«Esatto. Io insegno loro come ottenere il distintivo di merito per i
dolci.»
«Una volta l’anno?»
«Oh, no. Quando ne hanno bisogno. A volte ho gruppi molto
numerosi di bambini, a volte do lezioni a un solo allievo.»
«Il tuo capo te lo permette?» Non ero pronto a invocare il nome di
sua madre, ma era una domanda che andava fatta.
Lei iniziò ad agitarsi, torcendosi le dita e poi piazzando la lista sul
bancone. «Alla fine, mi ha lasciato farlo. Dopo che le ho fatto notare
che le foto sui social media sarebbero state una pubblicità positiva e
ho fatto firmare delle liberatorie ai genitori.»
«Ti piace insegnare ai bambini? A preparare dolci?»
Lei fece un ampio sorriso e annuì con entusiasmo. «Oh, sì. È una
delle cose che preferisco in assoluto. Preparare dolci è
fondamentalmente chimica e io cerco di tornare a questo. Faccio
prima una dimostrazione con gli emulsionanti, perché la chiave della
pasticceria sta nel trasformare qualcosa di idrosolubile in qualcosa di
solubile negli oli.»
«Che genere di dimostrazione?»
«Uso latte, colorante alimentare e detersivo per piatti.»
«E il detersivo per piatti scompone i grassi.»
«Sì e il colorante satura quanto ne rimane.»
Annuii con un cenno austero. In verità annuii austero per
dissimulare il fatto che Jennifer Sylvester mi avesse sorpreso di
nuovo.
«Fai altri esperimenti di chimica? Con i bambini?»
«Ne faccio moltissimi, ma dipende dalla loro età.» I suoi occhi
violetti si illuminarono, diventando quasi color lavanda. «Quello che
piace più di tutti è quando gli dico di scrivere la loro ricetta con uno
stuzzicadenti e la vaselina.»
Fissai il suo volto, ora sollevato, cercando di capire perché
diamine facesse fare ai bambini una cosa simile. «Ok, mi arrendo.
Perché mai fai scrivere loro la ricetta con stuzzicadenti e vaselina?»
Il suo sorriso divenne enorme e mise in mostra una fila di denti
bianco perla. «Perché così è una ricetta segreta, che si può vedere
solo sotto la luce a raggi ultravioletti. Così imparano...»
«La fluorescenza» conclusi io, guardando di traverso Jennifer
Sylvester, la chimica occulta. Ora capivo perché fosse così brava a
preparare dolci, non c’era da meravigliarsi. Era una scienza precisa
ed era, come aveva detto lei, essenzialmente un’applicazione della
chimica. Sarebbe dovuta andare all’università a studiare chimica
invece di finire incatenata a un mixer elettrico nelle segrete di una
cucina industriale ultimo modello.
Lei era, come sempre, sorprendente. La studiai: il sorriso
caloroso, gli occhi violetti e luminosi, il mento appuntito e il cappello
da baseball. Presi la decisione una frazione di secondo prima di
farlo, le afferrai il cappello e me lo nascosi dietro la schiena.
Le mani di Jennifer salirono alla sua testa e la bocca le si
spalancò. L’avevo chiaramente colta alla sprovvista.
«Perché mi hai preso il cappello?»
«Le tue sopracciglia sono molto scure.» Studiai le sue
sopracciglia, ma la mia attenzione si spostò istintivamente più in
basso. Gli occhi di quella donna erano irragionevolmente belli,
davvero memorabili e io dovevo smetterla di fissarli.
Lei incrociò di nuovo le braccia, alzando il mento con aria infelice.
«Quanto ancora hai intenzione di tenerti il mio cappello?»
«Perché tua mamma ha iniziato a tingerti i capelli? Quanti anni
avevi?»
I suoi occhi assurdamente belli, sia nella forma che nel colore, si
fecero assenti per una frazione di secondo. «E questo cosa c’entra
ora?»
«Ti piace il colore dei tuoi capelli?»
Lei non rispose, e questa era una risposta sufficiente alla mia
domanda.
«Prenderesti in considerazione l’idea di tornare al loro colore
naturale? O a un altro colore che ti piace? Rosso, magari?»
Lei mi fissò a bocca aperta, con una rughetta perplessa tra le
sopracciglia. «Pensi potrebbe aiutarmi?»
Io compresi perfettamente la sua domanda e perché l’avesse
fatta. Se i suoi capelli fossero stati di un altro colore, le sarebbe stato
d’aiuto nella sua ricerca di un marito? Sì. Ma non per il motivo che
pensava lei.
Riprendere il controllo del suo aspetto era il primo passo per
prendere il controllo della propria vita.
Per cui risposi a una declinazione della sua domanda. «Sì. Credo
che farebbe una bella differenza se decidessi quale colore ti piace e
poi tingessi i capelli di quel colore.»
La sua espressione si fece ancora più accigliata e i suoi occhi si
abbassarono sul mio petto, che fissò senza vederlo realmente.
Sembrava combattuta.
«Non penso che alla mamma piacerebbe.»
Io aprii la bocca per rispondere, ma poi mi fermai, perché quella
che stavo per porre era una domanda critica. Dovevo usare
esattamente il tono perfetto. Dovevo utilizzare esattamente
l’espressione perfetta.
Mi avvicinai silenzioso di un passo, mettendo una mano sul
bancone alla mia sinistra e addolcii il tono della voce. «Hai
intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?»
Il suo sguardo si alzò nel mio ed era tagliente, non avevo mai
pensato che Jennifer Sylvester fosse capace di lanciare uno sguardo
tanto tagliente. Occhi stupendi, infiammati dalla rabbia; mento
severo, appuntito; accuse silenziose mi trafiggevano di parole non
dette. Il risultato di tutto questo era una miscela potente. La
combinazione mi fece rizzare i capelli sulla nuca.
Era uno sguardo feroce. Ed ero impressionato.
Ma prima che mi potessi complimentare per quanto fosse
impressionante il suo sguardo feroce, lei si girò e disse piano:
«Credo che la lezione sia finita. Meglio se esci dal retro.» E uscì
dalla cucina attraverso la porta che conduceva nel negozio.
Io fissai il punto in cui era sparita per un minuto intero, non perché
mi aspettassi il suo ritorno, ma perché ero in ascolto. Cercavo di
cogliere rumore di passi, o qualche segno che lei si stesse
muovendo per la pasticceria. Ma non sentii alcun suono. Il che
significava che era scappata sul davanti del negozio e si era
nascosta, non stava facendo niente se non aspettare di sentire i
rumori della mia partenza.
Non c’era problema. Avevo scosso la sua gabbia. Capivo il suo
desidero di fuggire.
Controllai il mio orologio. Avevo ancora sei ore prima del mio
prossimo appuntamento, abbastanza per fare un pisolino. Raccolsi i
miei averi, una giacca a scacchi rossi e neri e il mio cappello, e
gettai un’altra occhiata alla cucina. Aveva lasciato il foglio di carta
piegato, quello con la lista di cose che le piaceva fare. Me lo infilai in
tasca e uscii dalla porta sul retro.
La prossima lezione non sarebbe stata prima di due settimane.
Due settimane avrebbero concesso a Jennifer il tempo per elaborare
la mia domanda e decidere. Per chi viveva la sua vita? Per se stessa
o per sua madre?

Hank Weller era bravo a fare due cose: pescare e fare soldi.
In quanto proprietario dello strip club della zona, Hank offriva
spesso ai suoi clienti delle escursioni sulla sua grande barca. Io non
ero un cliente. Ciononostante, mi portava comunque a pescare di
tanto in tanto, se lo chiedevo. Questo perché Beau e Hank erano
ottimi amici, fin dall’infanzia. Beau era il mio lasciapassare.
Era una bella mattina per pescare. Non troppo fredda. Il vapore
acqueo si alzava sopra il lago, annebbiandone la superficie, come se
fosse coperta di garza. Dal momento che era settembre inoltrato, il
lago era circondato sui tre lati da alberi che cercavano di imitare al
meglio i fuochi d’artificio autunnali. Gli uccelli si lamentavano della
loro colazione, ma a parte questo il solo altro suono era quello
dell’acqua, che sciabordava pigra contro la riva.
A me piaceva la natura, eccome, però non mi piaceva pescare.
Ma non avrei mai rinunciato a un’opportunità conveniente di
cancellare una voce dalla mia lista di cose da fare.
«Da quanto tempo, Cletus.» Catfish alzò il mento a mo’ di saluto
mentre saliva a bordo della grossa barca di Hank. «Che hai
combinato negli ultimi tempi?»
Catfish, che non era il suo nome di battesimo, era un comandante
degli Iron Wraiths. Quindi, era uno che contava, ma non tanto da
prendere decisioni. Era un bravo soldato.
«Questo e quello» risposi, con disinvoltura.
«Come sta tua sorella?» La domanda mi fu rivolta da Drill, che fu il
successivo a salire in barca.
«Attento.» Hank si mise di fianco a me, incrociando le braccia.
«Non si parla della famiglia. Non creiamoci problemi inutili.»
«Chiedevo e basta.» Drill scrollò le spalle, due macigni, e ghignò.
Il sole dell’alba si rifletté sulla sua testa pelata. Se Mastro Lindo
avesse preso steroidi, si fosse vestito di cuoio nero dalla testa ai
piedi e avesse avuto l’odore di lubrificante, il risultato sarebbe stato
Drill.
Così lo vedevo io.
Adocchiai la terza persona del loro gruppetto e posai la mano sulla
spalla di Hank. «No, no. Va bene. Ash sta benissimo, grazie
dell’interessamento, Drill. Ha appena conseguito la seconda cintura
nera in Kenjutsu, hai presente, quell’arte marziale in cui usano i
coltelli affilati? Visto che è un’infermiera, lei sa giusto dove pugnalare
una persona. Dovresti vederla scuoiare un coniglio. Siamo molto fieri
di lei.»
Si trattava, naturalmente, di una colossale stronzata, eccetto le
parti sull’essere un’infermiera e sullo scuoiare conigli, perché lei era
davvero brava a scuoiare conigli. Ma Drill spalancò gli occhi,
leggermente piccato, e lasciò perdere la questione.
«Ehi, Twilight.» Accolsi il terzo membro del loro gruppo tendendo
la mano. Lui la guardò, poi guardò me e poi nuovamente la mia
mano. Solo allora la strinse.
Isaac Sylvester, in arte Twilight, che era anche il fratello di Jennifer
Sylvester, non era ancora un membro dei Wraiths. Era quello che si
definiva un “prospect”, un candidato Wraith. Jethro lo era stato circa
cinque anni fa, ma se n’era andato prima di diventarne ufficialmente
membro. Grazie a Dio.
«Cletus» mi salutò, incontrando i miei occhi. Io scrutai i suoi e
scoprii che erano di un semplice azzurro. Mi accigliai.
Da dove diavolo aveva preso, lei, quegli occhi violetti?
«A proposito di sorelle,» adottai la mia aria più bonaria e rivolsi a
Isaac un sorrisino allegro, «come sta la tua?»
La sua mascella si contrasse e i suoi occhi semplicemente azzurri
si adombrarono e guizzarono da un lato all’altro, come se volesse
fare una smorfia senza darlo a vedere.
«Non ho sorelle» borbottò, con le labbra arricciate.
«Sì che ce l’hai.» Allargai il mio sorriso, in un’interpretazione del
buffone benintenzionato. «Prepara torte, no?»
«Sai com’è Cletus…» Catfish intervenne, aspettando di avere la
mia completa attenzione prima di continuare. «Quando un uomo si
unisce ai Wraiths, i Wraiths diventano la sua sola famiglia. Ora
Twilight ha solo fratelli.»
Annuii pensieroso. «Ah, sì. Avevo dimenticato questo particolare.»
Riportai gli occhi su Twilight, per vedere la sua reazione quando
aggiunsi: «Non dev’essere facile per le sorelle, però.»
Isaac guardò in lontananza verso il lago, ma dubito che lo
vedesse. Sembrava assente, impantanato in pensieri gravosi.
Nel frattempo, mi risentii ancora una volta dispiaciuto per Jennifer
Sylvester. Aveva perso il fratello, o almeno per lei era perso. Pensai
a come sarebbe stato per noi se Jethro ci avesse ripudiati per i
Wraiths. Non era un pensiero piacevole. Lo scacciai rapidamente.
«Stiamo aspettando qualcun altro?» Catfish prese una birra dal
frigo portatile e si sedette su una delle panche coperte dal cuscino
del ponte.
«Solo Beau» dissi, lanciando un’occhiata al mio cellulare. Non gli
piaceva essere in ritardo, ma gli avevo ordinato di essere in ritardo.
Mi serviva quel ritardo. In cambio gli avevo promesso che avrei
cucinato la mia salsiccia per cena, quando sarebbe stato il mio turno
ai fornelli la prossima settimana. Andava matto per la mia salsiccia,
ovviamente. «Lo chiamo per vedere dov’è.»
Scesi dalla barca e mi incamminai lungo il molo, fino alla baita di
Hank e ancora oltre, dove Catfish aveva parcheggiato il suo furgone.
Conoscevo quel furgone. Cinque anni fa vi avevo installato delle
botole nascoste.
Quelle botole erano scompartimenti segreti che usavano per
trasportare droga e altre cose del genere ed evitare i controlli della
polizia. All’epoca le avevo installate per aiutare Jethro a tirarsi fuori
dai Wraiths.
Usare le botole ora, come mezzo per smantellare l’intera
organizzazione degli Iron Wraiths era un bonus davvero felice.
Contrariamente a quanto si credeva, installare botole era
perfettamente legale. È legale fintanto che l’ingegnere responsabile
informa le forze dell’ordine locali dell’installazione. Io avevo
informato le forze dell’ordine locali. E poi mi ero assicurato che la
raccomandata non venisse mai alla luce. Era nascosta nel loro
magazzino prove, con un numero di inventario sbagliato. Ma io
sapevo dove si trovava e avrei fatto in modo di farla rinvenire e
giungere sulla scrivania dello sceriffo James quando il momento
sarebbe stato giusto.
Dopo essermi infilato i guanti che avevo estratto dalla tasca, aprii
la portiera del furgone, che non era chiusa perché chiaramente quei
tipi si consideravano intoccabili, e aprii la botola sotto il sedile del
guidatore. Estrassi le prove che avevo sottratto due settimane fa
dalla mia tuta da meccanico, le prove consegnate dai fratelli King
allo sceriffo, e le misi in fondo alla botola assieme a una lista fittizia
di date e posti.
E per “fittizia”, intendevo vera. La sola cosa fittizia della lista era
che l’avevo redatta io a fatti avvenuti, dopo aver osservato le attività
dei Wraiths per gli ultimi otto mesi. La lista di date, nomi e luoghi
serviva a far apparire più organizzato il loro caos di inefficienza.
E l’organizzazione era il punto fondamentale. Creare una
apparente premeditazione e pianificazione era il mio obiettivo, e la
lista il modo di raggiungerlo.
Controllato che tutto fosse in ordine, chiusi la portiera proprio
mentre Beau si fermava con la sua Pontiac GTO del 1967.
Ammirai le linee della carrozzeria. Era una bella macchina, ma
troppo appariscente per me. Come Drew aveva osservato ieri, io
preferivo nascondere le cose in piena vista.
Era il mio talento.
“La vita ha le sue forze nascoste che puoi scoprire solo vivendo.”
- Søren Kierkegaard

Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
Stavo facendo una torta salata imbottita.
Solitamente non facevo torte salate, ma stavo aspettando che il
pane lievitasse per poterlo impastare ancora una volta. Mi ero
svegliata assetata di violenza. Tagliare il burro nella farina per la
sfoglia della torta era quasi tanto soddisfacente quanto impastare il
pane.
Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
Strinsi i denti, pugnalando il burro congelato mentre la domanda di
Cletus continuava a riecheggiarmi in testa. La domanda si ripeteva
ancora e ancora perché non sapevo come rispondere.
Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
Gli ultimi sette giorni erano stati faticosi, e la domanda di Cletus
che continuava a rimbalzare nel mio cervello non aveva fatto che
peggiorarli.
Mamma aveva prenotato un volo per New York a novembre per
incontrarci con Jacqueline Freeman e i tipi del Food Network.
Pertanto, mi aveva messa a dieta.
«Non voglio che tu appaia tutta tonda davanti alle telecamere»
aveva detto.
Il gruppo di investimento alberghiero per cui mia mamma era
andata tanto in agitazione negli ultimi mesi avrebbe visitato il nostro
chalet quella settimana. Sarebbero rimasti per due giorni. Di solito, io
mi incaricavo del menu dei dolci. Era compito mio definire l’elenco
delle proposte della settimana.
La mattina dopo la mia “lezione” con Cletus, lei mi aveva
consegnato due fogli di carta. «Questi sono i dolci che voglio che tu
prepari questa settimana e la prossima» aveva detto. «E ho lasciato
fuori i vestiti che voglio che indossi e scritto le istruzioni su come
sistemarti capelli e trucco.»
Io fissai le sue liste, incapace di proferire parola.
Non avevo mai realizzato quanto mi piacesse pianificare i menu,
quella piccola briciola di autonomia, finché non mi era stata tolta.
Pensavo che le cose non potessero andare peggio.
Mi sbagliavo.
Non appena gli investitori arrivarono, venni sfoggiata come un
pony da competizione. Ormai avrei dovuto esserci abituata, si
poteva pensare, ma non era così. E con la domanda di Cletus che
continuava a riecheggiarmi in testa, i loro sguardi su di me mi
facevano accapponare la pelle. Il più giovane del gruppo in
particolare, un investitore abbronzato - quasi tostato - di Las Vegas,
di nome Allen Northumberland.
«Sei pronta?» La domanda ansiosa di mia madre strappò la mia
attenzione dal mio violento attacco contro il burro. «Saranno qui a
momenti.»
«Sì, mamma.»
«Oh, bene. Hai messo le perle. Sai che mi piace quando indossi le
perle.»
Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
Sospirai piano e mi girai verso il grande frigorifero, posandovi la
sfoglia mezza tagliata della torta imbottita e tirando invece fuori la
torta al cioccolato fondente, meringa e cocco grattugiato di fresco
che avevo preparato in precedenza durante la giornata.
«Assicurati di indossare il grembiule giallo a quadretti che mi
piace.» Controllava il suo riflesso nella scodella di acciaio
inossidabile che avevo preparato per la dimostrazione.
Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua
madre?
«Sì, mamma.» Sistemai gli utensili sul bancone, superai il
grembiule di Smash-Girl che piaceva a me e scelsi quello giallo a
quadretti, invece.
«Un’altra cosa, Jennifer.» Corse al mio fianco, guardandosi da
sopra una spalla come per assicurarsi che nessuno potesse
avvicinarsi di soppiatto a origliare. «Credo che quell’Alan, lì, abbia un
debole per te» sussurrò.
Io cercai di non rabbrividire dal ribrezzo, ma qualcosa nella mia
espressione doveva avermi tradita.
Lei sbuffò. «Non fare così. È davvero un bell’uomo e non fare finta
di non averlo notato.»
Era bello, era affascinante. Mi faceva anche accapponare la pelle.
«Il signor Northumberland non mi interessa minimamente.»
Lei continuò come se non avessi parlato. «Suo zio possiede due
di quei grossi hotel a Las Vegas, sulla Strip.»
«Quindi?» chiesi impaziente, prima di potermelo impedire. Lo
giuravo, mi era scappato dalle labbra.
«Quindi…» Spalancò gli occhi, guardandomi, e strinse insieme le
labbra, come se il motivo per cui aveva tirato fuori Allen
Northumberland fosse ovvio.
Quando continuai a guardarla senza capire, lei emise un suono
basso e ringhiante dal fondo della gola. «Non fare la finta tonta,
Jennifer. So che hai un cervello, usalo. Quindi io penso che sarebbe
fantastico se tu fossi carina con Allen. È il genere di ragazzo che tuo
padre approverebbe. Durante la dimostrazione, riservagli attenzioni
speciali.»
La guardai accigliata. Poi scossi la testa. Poi aprii la bocca per
dirle: Non intendo farlo.
Ma prima che potessi, mia madre, infondendo nelle sue parole un
significato mirato, disse: «Mi piacerebbe davvero molto se riservassi
attenzioni speciali ad Alan Northumberland».
La mia bocca si serrò di scatto e io fissai mia madre, le sue
sopracciglia alzate, il modo in cui le sue labbra erano strette dalla
frustrazione e mi chiesi cosa sarebbe successo, quale sarebbe stata
la cosa peggiore che sarebbe potuta succedere, se avessi detto di
no.
Rimarrà delusa.
A quel pensiero, il mio cuore accelerò.
Tu la deluderai.
Il mio cuore stava ora galoppando.
Puoi convivere con questo? Puoi convivere con il fatto di averla
delusa?
Non volevo deluderla. Non volevo ferire i miei genitori come li
aveva feriti mio fratello. Non avevo mai voluto essere una persona
simile. La lealtà era importante per me. Io li amavo e il desiderio di
onorare i miei genitori influiva su tutte le mie decisioni.
Ma poi nella mia mente apparve l’immagine di Cletus la settimana
scorsa, che mi chiedeva: «Hai intenzione di fare per tutta la vita solo
quello che piace a tua madre?»
No. Non posso.
La risposta risuonò cristallina nella mia testa, vera e giusta.
Con un respiro profondo, mi aggrappai al bancone della cucina e
guardai mia madre, la fissai dritta negli occhi e mi costrinsi a dire:
«No».
Lei trasalì, le sue lunghe ciglia nere sbatterono rapidamente
mentre apriva e chiudeva gli occhi. «Come, prego?»
«No» dissi, alzando la voce. Le mani mi sudavano e il mio cuore
galoppante mi era risalito fino in gola. «No. Non riserverò attenzioni
speciali al signor Northumberland. Mi mette a disagio e non mi
piace, per cui la risposta è no.»
La mamma rimase a bocca aperta. Io sostenni il suo sguardo.
Nuvole di afflizione e disappunto filtrarono attraverso il suo shock e
si addensarono dietro il suo sguardo. Ma, prima che lei potesse
dargli voce, i nostri ospiti arrivarono per la mia dimostrazione di
pasticceria.
I suoi occhi scattarono al gruppo in arrivo. Vacillò per un momento
prima di riuscire con successo a dipingersi in volto la sua maschera.
Allontanandosi da me, porse la mano al signor Kirkland, un
banchiere d’investimento di Boston.
Intanto io continuavo a tenere stretto il bordo del bancone e a
fissare il cocco grattugiato, mentre il cuore mi pompava
vigorosamente il sangue tra le orecchie, e realizzavo con non poca
meraviglia che avevo appena detto no a mia madre per la prima
volta da quando ero un’adolescente.
Le avevo detto no. Ed ero sopravvissuta. Non sapevo come
sentirmi, sollevata o triste, perché una di noi due sarebbe rimasta
delusa. E questo significava che una di noi sarebbe rimasta ferita.

Non volevo tornare a casa.


Guidavo intorno alla montagna da due ore con una torta salata
ripiena di zucca violina, due filoni di pane al lievito madre e una torta
al cioccolato fondente glassata con meringa, cioccolato e cocco sul
sedile del passeggero. Erano quasi le otto e mezza di sera e
mamma doveva essere quasi al termine della sua cena con gli
investitori. Non volevo trovarmi a casa quando sarebbe tornata. Non
volevo scontrarmi con lei.
Quando avevo preparato la torta, durante la giornata, il mio piano
era di lasciarla a casa dei Winston. Oggi era il primo anniversario
della morte della loro madre. Io avevo conosciuto la loro mamma,
ma d’altronde ogni bambino che era andato alla biblioteca locale
conosceva Bethany Winston. Leggeva i libri durante l’ora della favola
per i bambini e faceva tutte le voci. Era fantastica e gentile e tutto ciò
che avrei voluto essere quando – o se – sarei diventata una madre.
Non riuscivo a immaginare quanto i Winston dovevano averne
pianto la perdita. La torta non avrebbe migliorato le cose, ma a volte
aggiungere un po’ di dolcezza e morbidezza al dolore aiutava.
Il problema era che, una volta consegnata la torta, non avrei avuto
alcun luogo in cui andare. Per cui guidai e ascoltai le chiacchiere alla
radio. Infine, verso le otto e quarantacinque, capii che non potevo
attendere oltre. Andare a trovare qualcuno a casa sua dopo le nove
di sera era semplicemente da maleducati.
Decisa, presi la svolta sulla Moth Run Road e mi diressi a casa dei
Winston. Mentre mi avvicinavo alla casa principale, le sopracciglia
mi si inarcarono di fronte al numero di automobili parcheggiate nel
vialetto.
Dieci. C’erano dieci automobili.
Parcheggiai di fianco alla Geo di Cletus ma non spensi il motore,
incerta su come procedere.
Dieci macchine significavano che avevano ospiti. E io non volevo
imporre la mia presenza o interrompere. E in fondo, io chi ero?
Nessuno. Loro non mi conoscevano.
Esaminai il grande e vecchio portico che correva lungo tutta la
casa, la fila di sedie a dondolo e il largo dondolo in legno appeso alle
travi. Era una bella casa antica, e chiaramente era stata restaurata
da poco e con grande cura. Un piccolo tavolo a piedistallo accanto
alla porta d’ingresso catturò la mia attenzione. Ispirata da un’idea
improvvisa, saltai fuori dall’auto, andai di corsa fino al lato del
passeggero e aprii la portiera. Mi infilai un filone di pane sotto
ciascun braccio, presi la torta salata con una mano e tenni in
equilibrio quella al cioccolato con l’altra.
Cercando di fare il meno rumore possibile, salii in punta di piedi i
gradini del portico e mi avvicinai al tavolino, notando con sollievo che
era grande abbastanza per tutti miei doni, se li avessi impilati. Avrei
potuto lasciare il tutto sul tavolo, bussare e scappare di corsa.
L’equivalente degli scherzi dei bambini di un pasticciere. O almeno,
quello era il piano.
Stavo per posare il primo filone in cima alla scatola della torta
salata quando tutto a un tratto la porta d’ingresso si spalancò
completamente e con forza, facendomi saltare come una lepre dallo
spavento. Un sussulto di sorpresa poco elegante mi sfuggì dai
polmoni e saltai di un passo all’indietro, stringendomi entrambi i filoni
di pane al petto.
«Jennifer nervi a fior di pelle.» Lo sguardo di Cletus viaggiò in giù
e poi in su. «Porti i jeans.»
Chiusi gli occhi, lasciando andare un respiro tremante. «Santo
cielo, mi hai spaventata.»
«Moi? Il coniglio cieco e sdentato?»
Aprii gli occhi ma non riuscii a fermare il sorriso prima che
sbocciasse sul mio viso. «Tieni, Peter. Questi sono per te.» Gli porsi
i due filoni di pane.
«Peter? Peter Coniglio non era né cieco né sdentato.» Cletus
tolse i filoni di pane dalle mie mani. «Ma correva rischi inutili spinto
dai capricci del suo stomaco. Pertanto, accetto il paragone.»
Lo guardai annusare prima uno e poi l’altro filone di pane, con aria
pensierosa. Alzò un singolo sopracciglio. «Pane al lievito madre.»
«Sì. Spero che sia...»
«Il pane al lievito madre naturale è il mio preferito. E questo
cos’è?» Cletus rivolse la sua attenzione al tavolo e ispezionò le
scatole per le torte.
«Quella è una torta salata ripiena di zucca violina.»
Si irrigidì e i suoi occhi iniziarono a sfrecciare dalla scatola a me.
«Mai sentita prima, ma sembra deliziosa.»
«Non lo so, in realtà. È una nuova ricetta che ho provato, proprio
oggi, con gli ingredienti che avevo sottomano.»
«Cosa c’è dentro? Oltre alla zucca violina.»
«Uhm, patate dolci, uova, noce moscata...»
«Ferma. Mi hai convinto a noce moscata. Accetto la tua torta
salata. E quella cos’è?» Cletus prese la torta ripiena e indicò con il
mento la scatola più grande.
«Oh, quella. Ecco, è una torta della compassione. O almeno, io la
chiamo così.»
Cletus rimase in silenzio per un istante, la sua espressione
impenetrabile, i suoi occhi che si spegnevano appena.
«Compassione, eh?» chiese piano, mentre il suo sguardo si velava
di dolore.
«Uhm, ho solo pensato, ecco, lo sai. Che forse non te la passassi
tanto bene.»
«Mi hai preparato una torta per l’anniversario della morte di mia
mamma» indovinò, con voce tanto gentile e struggente da farmi
salire le lacrime agli occhi.
«Sì. Esatto.» Alzai il mento, ammettendo le mie azioni e
ripromettendomi di non iniziare a piangere come una pazza. «È una
torta di cioccolato fondente, con glassa al cioccolato fondente e
meringa al cocco.»
«Cioccolato fondente con glassa al cioccolato fondente e meringa
al cocco? Sembra una torta molto cupa.» Un lato della sua bocca si
sollevò, appena appena, ma i suoi occhi erano ancora velati di
dolore.
«Lo è. Oggi è un giorno triste. Tua mamma era una donna
dolcissima e io volevo solo...» Esitando, feci un passo in avanti,
sopraffatta dall’istinto di abbracciarlo, abbracciare qualcuno legato a
Bethany Winston. Invece, mi affondai le mani nelle tasche dei jeans
e alzai le spalle. «Volevo solo dire che...»
«Oh, ehi, Jennifer. Che ci fai qui?» Beau Winston apparve alle
spalle di Cletus, aprendo ancora di più la porta e rivolgendomi un
sorriso accogliente e caloroso.
Ora, Beau Winston era davvero un bel vedere. E lui lo sapeva. I
suoi capelli e la sua barba erano rossi, curati alla perfezione e
pettinati in modo esperto. I suoi occhi erano azzurro cielo e
assolutamente devastanti e il suo sorriso era leggendario. Era
estremamente amichevole e alla mano. Metà delle donne fino a
cinque anni più di me o meno di me erano innamorate di lui. L’altra
metà voleva solo fare cose sconce con lui. Io non avevo mai
commesso l’errore di scambiare la sua cordialità per interesse. Ma
molte donne invece sì, ed erano poi costrette a curare speranze
disattese e cuori infranti.
Cletus rispose per me. «A quanto pare, ci ha portato una torta
triste.»
«La torta non vi renderà tristi» spiegai, «ma nostalgici. Ecco come
l’ho preparata. È una torta di nostalgia.»
«La nostalgia non mi sembra male.» Gli occhi di Beau brillarono: il
risultato, unito al suo sorriso tenero mi fece venire un po’ di vertigini.
Ma poi una punta di diabolicità gli apparve nello sguardo, mentre lo
spostava da me a Cletus. «Comunque, vuoi entrare? Stasera ha
cucinato Cletus la cena. Sono sicuro che gli piacerebbe farti provare
la sua salsiccia.»
«Ho preparato le salsicce.» Cletus avanzò di un passo e si piazzò
davanti a Beau. «Questo vuole dire Beau. La mia salsiccia era la
cena e le persone l’hanno mangiata.»
«Sì.» Beau emerse ancora da dietro Cletus, urtandolo con la
spalla, e aggiunse con un sorrisetto: «La famosa salsiccia di Cletus
è famosa».
Gli occhi di Cletus scattarono di lato e lui gelò con lo sguardo il
fratello minore. «Sei estremamente seccante.»
Io scossi la testa, facendo un passo indietro e indicando con il
pollice alle mie spalle. «No, grazie. Non voglio disturbare. Ho la
macchina ancora accesa.»
«L’ho spenta io.» La frase giunse dalle mie spalle.
Mi voltai col busto e vidi Billy Winston salire i gradini del portico.
Il cuore mi saltò in gola e feci un passo all’indietro, quasi
inciampando nei miei piedi. Oh no! Strinsi le labbra e lo fissai,
perché era l’unica cosa che mi riuscisse senza fare la figura
dell’idiota.
Non dire nulla. Non parlare. Non respirare nemmeno.
Lui mi porse le mie chiavi e la sua bella bocca si curvò in un
sorriso appena accennato e interrogativo. «Hai lasciato aperta la
portiera del guidatore.»
«Volevi tentare una fuga?» chiese Beau, ridendo.
Io passai lo sguardo tra Billy e le mie chiavi senza dire una parola.
Fissai tanto a lungo il sorriso di Billy che quello si tramutò in
un’espressione confusa.
«Prendi le tue chiavi» disse Cletus, secco.
E così feci. Strappai di mano a Billy le mie chiavi e abbassai lo
sguardo sul portico. Buon Dio, poteva andare peggio di così?
Passò un tormentoso momento di silenzio imbarazzato, durante il
quale mi fissai le scarpe da tennis. Sentivo su di me lo sguardo di
Cletus, bruciare su un lato del mio viso.
«Bene» gracchiai. «Godetevi la vostra torta triste.» Feci una
smorfia, scuotendo la testa e coprendomi gli occhi con una mano.
«Cioè, non… godetevela. Mangiatela e basta. O non mangiatela. È
molto buona con il latte.»
Passò ancora un altro secondo soffocante e io desiderai di morire.
Mi girai invece goffamente verso gli scalini e bofonchiai: «Ora è
meglio che vada.»
«No, aspetta» disse Cletus.
Mi girai e lo vidi depositare i prodotti da forno tra le braccia di
Beau. «Prendi questi ed entra. Billy, prendi la torta triste. Entriamo
tra un secondo.»
Billy mi rivolse uno strano sorriso, come se lo spaventassi un poco
e non potei fargliene una colpa. Nel frattempo, Beau mi scoccò un
occhiolino e sparì dentro casa con un sorrisetto.
Non appena la porta si chiuse, Cletus si girò, con le mani sui
fianchi, gli occhi sgranati e attenti. «Spiegami cos’è appena
successo.»
«Cosa vuoi dire?»
«Con Billy. Cos’è appena successo con Billy? Cos’era quella
cosa?»
Mi nascosi il volto tra le mani. «È stato davvero terribile, non è
vero?»
«Non direi terribile, ma...» iniziò la frase ma non la terminò.
«Sì, non è stato terribile, se paragonato a un disastro aereo.»
Lui rimase in silenzio per un istante. Poi sentii una risata.
Sbirciai tra le dita. E in effetti, Cletus stava ridendo.
Le mani mi ricaddero e non potei fare a meno di sorridere né di
ridacchiare. La sua risata era contagiosa. Occhi luminosi mi
catturarono, resi ancora più luminosi dalle sue belle ciglia e da una
bocca estremamente piacevole da guardare, piena di denti dritti e
bianchi. La risata di Cletus mi faceva pompare nelle vene un
qualcosa di caldo e denso, mi faceva pensare al cioccolato svizzero,
semidolce e montato con la panna in una ganache densa, scura e
seducente.
«Già» si asciugò gli occhi e scosse la testa. «Hai ragione. È stato
davvero terribile.»
Sospirai, continuando a sorridere perché anche lui sorrideva
ancora. «Mi dispiace.»
«No, no. Va bene. Ti piace Billy.» Alzò le spalle. «Non saresti di
certo la prima.»
Mi accigliai e scossi la testa. «No. No, no. Ti stai sbagliando di
grosso. Non mi piace Billy.»
Cletus si raddrizzò, le sue sopracciglia balzarono in su sulla sua
fronte. «Ne sei sicura? Perché quello era...»
«No. Non mi piace. Cioè, sono sicura che sia molto simpatico. Ma
non è per questo che mi scordo come si parla in sua presenza.»
Mi esaminò per un momento, poi si grattò la mascella. «Ok.
Illuminami. Perché perdi le capacità motorie in presenza di Billy?»
«Non è solo in presenza di Billy. Mi succede con tutti quelli che
mio padre approva. Io… non posso farci niente. Divento nervosa,
spero di fare una buona impressione e alla fine dico cose senza
senso.»
«Tuo padre approva mio fratello Billy?»
Annuii con un cenno.
Cletus mi rivolse un cipiglio pensoso, sembrava confuso. «Credo
che dovrai spiegarmelo in termini semplici. Non capisco. Cosa
intendi dicendo che tuo papà approva Billy?»
«Intendo che mio padre ha individuato una serie di uomini della
zona e, ecco» presi un respiro gigantesco, mi sentivo
improvvisamente senza fiato, «e mi ha suggerito che sono persone
appropriate, nel caso in cui dovessero mostrare interesse per me.
Uomini su cui dovrei cercare di… fare… una buona impressione.»
Mio padre mi aveva ripetuto più di una volta quanto fosse
importante per me trovare un buon marito. Crescendo, mi aveva
ripetuto cose come: Non sei molto sveglia, ma per fortuna sei
abbastanza carina da trovarti un marito ricco. Basta che tu tenga la
bocca chiusa e sorrida.
Essere carina e avere un bel sorriso non erano cose negative, ma
avevo sempre faticato a riformulare gli insulti di mio padre come
complimenti.
Cletus era tornato a esaminarmi: i suoi occhi erano limpidi, acuti,
mi soppesavano. «Davvero?»
Annuii e mi risucchiai le labbra tra i denti, sentendomi una sciocca
per una qualche ragione. Il viso mi si infiammò sotto il suo sguardo
fisso.
«È affascinante…» Cletus sembrava davvero affascinato. «Chi
altri si trova su quella lista?»
Lanciai un’occhiata oltre Cletus mentre cercavo di ricordare i nomi
che mio padre aveva menzionato nel corso degli anni. «Beh, Billy è
quello di cui parla di più. Forse è per questo che con lui do il mio
peggio. Ha anche parlato di Hank Weller...»
«Hank Weller?» Cletus sembrò sorpreso, ma non critico. «Beh,
ora, in fondo è bravo a pescare e ha buon fiuto per gli affari. Chi
altro?»
«Uhm, il dottor Runous...»
«Drew?»
«Sì. Ma era prima che lui e tua sorella si mettessero insieme. Non
lo menziona da un bel po’.»
«Qualcun altro?»
«Uhm, vediamo… Jackson James.»
«Jackson?» Cletus fece una smorfia, arricciando il naso dal
disgusto. «Quell’ignorantone?»
Io cercai di non sorridere, inutilmente. Cletus sembrava
genuinamente inorridito al solo pensiero, offeso in mia vece.
«Non è poi così male» dissi, incapace di trattenermi perché volevo
vedere la sua reazione.
«Sì. Esatto. Non è poi così male. È proprio male e basta. E non è
nemmeno nella stessa stratosfera di Billy e Drew o perfino Hank.
Tuo padre è incapace a giudicare e non può essergli dato alcun
credito.» Il suo sguardo si focalizzò su un punto sopra la mia testa,
mentre i suoi occhi si socchiudevano appena e si afferrava il labbro
inferiore tra i denti per mordicchiarlo. Ricordavo che tutto questo
significava che era assorto nei suoi pensieri.
Ne approfittai per studiare il suo volto, e godermi la vista di Cletus
da vicino. Nonostante i tentativi di nascondere la sua bellezza con
una chioma arruffata e una barba incolta, rimaneva notevolmente
attraente. Certo, rimaneva comunque anche pericoloso. Ma mi
piaceva pensare che tra noi fosse nata una sorta di strana amicizia.
E con quella amicizia era nato anche un affetto ugualmente strano.
Era vero, cominciavo a provare affetto per lui. E sapevo che era
una cosa da pazzi completi - dal momento che lo stavo ricattando ed
ero ancora un po’ terrorizzata da lui e lui non stava agendo per
gentilezza - eppure c’era. Affetto, puro e semplice.
«Ho un’idea» annunciò, schioccando le dita di una mano. «Ed è
geniale.»
«Ma naturalmente.» Gli rivolsi un sorrisetto, godendomi la vista
ancora di più ora che i suoi occhi astuti erano illuminati
dall’eccitazione e puntati su di me.
«Billy ti porterà fuori per un appuntamento.»
Sobbalzai per la sorpresa, il mio sorriso crollò in una smorfia a
bocca spalancata di orrore assoluto. «Aspetta… cosa?»
«Tu e Billy. Un appuntamento» chiarì lentamente e ad alta voce,
scandendo ogni sillaba, come se avessi problemi di udito.
Senza riflettere, gli schiaffeggiai il braccio e, sporgendomi più
vicina, risposi in un bisbiglio precipitoso: «Ti avevo sentito. Non sono
sorda.»
«Bene. Volevo solo accertarmi.»
«No. Non va bene. Non uscirò insieme a Billy!»
Ora fu lui ad accigliarsi. «Perché no?»
«Perché...» Agitai le braccia per aria senza scopo. «Non hai
appena assistito al disastro di poco fa?»
Lui fece un cenno d’assenso solenne. «Era impossibile da non
vedere.»
Un verso strozzato mi uscì dalla gola. «Come cavolo puoi pensare
che uscire con Billy sia una buona idea?»
«Esattamente perché hai reagito in quel modo.» Il suo tono da
scienziato era tanto ragionevole da risultare esasperante. «Vuoi un
marito, giusto?»
«Sì» sussurrai, lanciando inutili occhiate alle spalle di Cletus per
assicurarmi che nessuno origliasse.
«E immagino che tu voglia sposare qualcuno che i tuoi genitori
approvino, no?»
Esitai, poi annuii secca: avevo capito dove voleva andare a
parare.
Aveva ragione. Naturalmente aveva ragione. Se fossi riuscita a
sopravvivere a un appuntamento con Billy, allora sarei potuta
sopravvivere a qualunque altro appuntamento.
«Capisco cosa vuoi dire» ammisi tristemente.
«Oh, su. Non fare così. Billy non è poi così male.» Cletus mi diede
una gomitata, mentre ripeteva le mie parole di poco prima.
Io sbuffai con una risata esasperata. «Già. Non è così male. Ma ti
stai dimenticando di un solo fatto molto importante.»
«Io non dimentico mai alcun fatto.» Scosse velocemente la testa,
contraddicendomi e punzecchiandomi al tempo stesso. «I fatti vanno
a mio favore, sono amici miei.»
«Oh davvero? Lo pensi sul serio?»
«Non lo penso, lo so. Ogni Natale mando ai fatti un biglietto di
auguri e loro ricambiano con i dolcetti alla menta piperita.»
«E allora vediamo che ne pensi di questo fatto: Billy non chiederà
mai a me di uscire con lui.»
E questo era un fatto.
Billy Winston era completamente e immutabilmente innamorato di
Claire McClure. Questa non era un’informazione molto risaputa, ma
io lo sapevo. Io osservavo le persone.
Era innamorato di lei da anni. Da anni e anni. Si guardavano l’un
l’altra, si lanciavano sempre occhiate caute ma piene di desiderio
quando pensavano che l’altro non stesse guardando. Era frustrante
e spezzava il cuore vedere due persone così disperatamente
innamorate difendere i loro cuori.
Pertanto, era un dato di fatto che Billy Winston non mi avrebbe
mai, mai, neanche tra un milione di anni, chiesto di uscire con lui.
«Non bisogna ridere delle zitelle perché sovente una storia romantica o triste è
nascosta in un cuore che batte con un ritmo tranquillo sotto un abito
modesto.»
- Louisa May Alcott, Piccole donne crescono

Quando Billy Winston mi chiese di uscire fu terribile… e poi non lo


fu più.
Lasciatemi spiegare.
«Gente, conoscete tutti Jennifer, giusto?» Cletus mi sospinse
dentro la casa della sua famiglia, interrompendo le conversazioni di
tutti per presentarmi.
Io rivolsi alla stanza un sorriso teso e un piccolo cenno, incapace
di alzare lo sguardo sotto la pressione di venti o più occhi che
viaggiavano sulla mia figura.
«Io no.»
Alzai lo sguardo e trovai una donna alta e bellissima con capelli
castano scuro e sorridenti occhi marroni che si stava alzando dal
divano. La riconobbi immediatamente: era Sienna Diaz. L’avevo
riconosciuta perché era una famosa stella del cinema e avevo visto
tutti i suoi film. Era fantastica.
Sienna mi tese la mano e io feci un passo in avanti, un poco
stordita, non perché fosse una stella del cinema, ma perché c’era
un’aura intorno a lei, come un campo gravitazionale scintillante di
fuochi d’artificio del quattro luglio.
«Sì che conosci Jenn, Sienna. È la Regina della torta alla
banana» sentii spiegare Beau.
Il mio cuore perse un battito, ma riuscii a salvare il mio sorriso. «È
un vero piacere conoscerti.»
«Oh. Sì. Ho sentito parlare di te.» Sembrava molto deliziata e
strizzò appena la mia mano prima di lasciarla andare. «E ho
assaggiato la tua fantastica torta.»
«Non è la Regina della torta alla banana, Beau. Lei è Jennifer
Sylvester e le piace fare giardinaggio con indosso una salopette»
intervenne Cletus, sgridando il fratello. Poi, prima che potessi
riprendermi dalla sua affermazione, mi spinse verso sua sorella. «Vai
a parlare con Ashley. Anche a lei piace il giardinaggio. Discutetene.»
Ashley si alzò e rivolse a Cletus un sorriso gigante, poi spostò la
sua attenzione su di me, e mi prese tutte e due le mani. «Vieni qui e
raccontami tutto sul tuo orto, Jenn.» Ashley mi tirò in avanti e mi
piazzò a sedere senza tante cerimonie sul divano di fianco a lei. «E
poi dimmi se hai fatto qualche conserva di pomodoro quest’anno. Ho
congelato i miei in dei sacchetti, ma mi piacerebbe fare più
conserva.»
«Billy, vieni con me. Abbiamo una torta triste da tagliare e una
torta imbottita alla zucca violina da provare.» Cletus fece cenno a
Billy di seguirlo, cosa che lui fece con una certa riluttanza, notai.
Spariti Cletus e Billy, la stanza cadde nel silenzio e io sentii lo
sguardo di tutti i presenti su di me. Infilai le dita sotto le cosce per
impedirmi di tormentarmele in grembo e alzai gli occhi per incontrare
l’espressione amichevole di Ashley.
«Dunque, vediamo.» Deglutii, cercando di ignorare tutti e
concentrandomi sulla domanda di Ashley. «Ho preparato delle
conserve di pomodoro. Ma quest’anno ho usato una pentola a
pressione per i pomodori e per gli altri ortaggi. L’anno scorso avevo
avuto qualche problema con i fagioli, quando avevo usato una
pentola normale.»
Lei mi diede una pacca sul ginocchio e si girò dall’altra parte.
«Visto, Drew? Ci serve una pentola a pressione.»
Cosa? Drew? Oh no!
Alzai lo sguardo e, con mio grande orrore, trovai Drew Runous
seduto dall’altro lato di Ashley Winston. Mi guardava con
espressione circospetta.
E io sapevo perché.
E non gliene facevo una colpa. Anche io avrei diffidato di me.
Mortificazione e panico mi fecero saltare in piedi. Mi guardai
intorno nella stanza, in cerca di una via di fuga, ma trovai solo un
mare di occhi che mi guardavano come se fossi appena scappata da
un manicomio.
«Jenn?» chiese Ashley, con voce preoccupata mentre si alzava
anche lei accanto a me. «Va tutto bene?»
«Sì. Tutto bene. Bagno?» domandai a denti stretti, tenendo lo
sguardo abbassato.
«Uhm, in fondo al corridoio, da quella parte. Seconda porta sulla
sinistra.»
Annuii con un cenno e schizzai in corridoio, con il cuore che mi
tuonava tra le orecchie. Arrivai fino in fondo al corridoio e poi mi
accorsi di aver superato la porta del bagno. Ma dopo non mi riuscii
più a ricordare quale porta Ashley mi avesse indicato – era la
seconda o la terza? Ed era a destra o a sinistra? La casa era
enorme e il corridoio aveva fin troppe porte.
Cercai di ritornare sui miei passi senza fare rumore, provai la terza
porta alla mia destra e scoprii che era uno sgabuzzino.
«Cavolo» borbottai sottovoce.
Avevo le mani sudate, per cui me le pulii sui jeans e provai la
porta successiva. Era una specie di studio, o una biblioteca.
«Dannazione.» Chiusi gli occhi e mi appoggiai al muro. Era
davvero una situazione terribile. Io ero terribile. Non sarei mai dovuta
venire qui. Avrei dovuto semplicemente…
«Jennifer? Che stai facendo?» La domanda di Cletus mi fece
aprire gli occhi e raddrizzare dal muro.
Era in piedi sulla soglia di un’altra porta, con le mani sui fianchi,
Billy indugiava dietro di lui e mi guardava con una certa
preoccupazione a increspargli la fronte.
Io passai lo sguardo tra i due uomini. «Sto cercando il bagno.»
Cletus mi rivolse un’alzata di sopracciglio, mi esaminò e mi
dissezionò. «Non devi usare il bagno. Stai cercando una via di
fuga.»
Io tirai un profondo sospiro e poi la diga si ruppe: «Hai ragione.
Sto cercando una via di fuga. C’è Drew di là. E, oh Dio, Cletus, sono
davvero terribile. Sono così imbarazzante che il mio imbarazzo è
imbarazzato dal mio imbarazzo».
Con la coda dell’occhio, vidi Billy emergere del tutto in corridoio,
ma non riuscii a smettere di parlare, dovevo dire a qualcuno della
mia vergogna segreta e quel qualcuno era Cletus. Ora lo conoscevo
meglio. Sapevo che era strambo e non mi avrebbe giudicata. E
sapevo anche che non avrebbe potuto liberarsi di me. Io lo stavo
ricattando. Doveva ascoltarmi per forza.
«Sono sicuro che non sia niente di così terribile...»
«Lo è. Lo è stato. Non sai cos’ho fatto» sussurrai rapidamente.
«L’anno scorso, ho tentato in modo malaccorto di dare un inizio
rapido alla mia ricerca e sono andata fino alla stazione dei ranger a
portare una torta alla banana a Drew. E poi l’ho baciato.»
Sia Billy che Cletus si raddrizzarono, si scambiarono un’occhiata e
poi riportarono lo sguardo su di me.
«A dire il vero, baciare non è proprio la parola giusta» gemetti.
«Non avevo idea di cosa stessi facendo, all’epoca, e chiaramente
ora ancora meno. È stata più un… uno… uno… scontrarsi tra
labbra.» Sbattei insieme le dita in un gesto abbozzato per dimostrare
quanto fosse stato davvero sgradevole e sfortunato quel bacio.
Cletus si passò le labbra tra i denti e mi fissò. Non me ne accorsi
subito, persa com’ero nella mia umiliazione, ma Cletus stava
ridendo. Non mi accorsi nemmeno che anche Billy stava ridendo.
Non me ne accorsi finché a Billy non scappò un verso involontario
dal fondo della gola e si coprì la bocca con la mano. Poi li guardai. Li
guardai entrambi. Avevano le lacrime agli occhi e le spalle gli
tremavano.
Io sbuffai con una piccola risata e scossi la testa. Un nuovo tipo di
imbarazzo mi invase fino alla punta delle dita, del genere che si
prova quando si è al centro di uno scherzo. Anche questo era un
genere di imbarazzo che conoscevo molto bene.
«Immagino sia abbastanza divertente» dissi, sperando di apparire
bonaria e auto-ironica invece di urtata.
Smisero entrambi di ridere e la cosa mi fece sentire ancora
peggio.
Le lacrime mi bruciavano negli angoli, e mi stringevano la gola.
Lanciai un’occhiata in fondo al corridoio, verso la porta d’ingresso e
mi morsi il labbro inferiore. «Credo...» Mi fermai, deglutii e poi
riprovai. «Credo sia meglio se vada.»
Feci per muovermi, ma mi ritrovai immediatamente la via sbarrata
da Billy e Cletus.
«Ora, aspetta. Aspetta un secondo.» Cletus mi trattenne dov’ero
afferrandomi per le braccia. «Non partire a briglia sciolta.»
«Jennifer, ti prego, accetta le mie scuse. Siamo stati davvero
scortesi, non avremmo dovuto ridere.» Stavolta fu Billy a parlare,
che incombeva al mio fianco. Alzò la mano come se volesse
posarmela sulla spalla, ma poi si passò le dita tra i capelli scuri. «Mi
dispiace davvero.»
Alzai lo sguardo su di lui e scrollai le spalle, con un sorriso
ingessato in volto. «Non fa niente, ci sono abituata.»
Ero veramente abituata a essere derisa, a essere vittima di
battutine, quindi non capivo perché mi stessi comportando in modo
così sciocco. Non era niente di che. Niente. Di che.
Le mie parole sembrarono contrariare Billy, perché si accigliò, i
suoi occhi azzurro glaciale si fecero più calorosi mentre viaggiavano
su di me. «Sei una brava ragazza. E non dovresti essere abituata a
sentire le persone ridere di te. Non è giusto.»
Cletus se ne stava completamente immobile e stranamente in
silenzio, ma i suoi occhi erano spalancati e attenti mentre passavano
tra noi due.
Io parlai senza pensare, nel tentativo di placare il suo senso di
colpa. «Oh, nessun problema. Preferisco far ridere le persone che
farle piangere.» Billy fece una smorfia e mi accorsi troppo tardi di
quanto avessi detto: io facevo ridere le persone, e loro mi facevano
piangere.
«Ugh!» Nascosi il volto tra le mani e stavolta iniziai io a ridere.
«Dico sempre la cosa sbagliata.»
«Forse ti serve solo un po’ di pratica» rifletté Cletus molto
attentamente, il suo tono indicava che quelle parole nascondevano
più di un solo significato.
Io sbirciai tra le dita e vidi Cletus e Billy scambiarsi uno sguardo,
qualcosa di significativo venne trasmesso tra i due.
Billy sospirò. Poi annuì. Poi rivolse l’attenzione verso di me.
Cletus lasciò le mie braccia e fece un passo indietro, ficcandosi le
dita nelle tasche. Nel frattempo, Billy si infilò al posto appena liberato
da Cletus.
«Forse ti serve solo un po’ di pratica.» Billy ripeté dolcemente le
parole di Cletus, con un sorrisino accennato e invitante.
Io lo osservai con sconcerto, le mani mi ricaddero dal volto. Non
mi veniva in mente nulla da dire, principalmente perché non capivo
cosa stesse succedendo. Il mio sguardo vagò fino a trovare Cletus.
Era appoggiato con una spalla al muro e il suo sguardo era
studiatamente rivolto verso il basso, come se il tappeto del corridoio
fosse incredibilmente affascinante.
«Jenn» mi chiamò Billy, attirando la mia attenzione nuovamente
su di sé e sulla sua espressione convinta.
«Sì?»
«E se ti aiutassi? Posso aiutarti a far pratica.»
La mia bocca si spalancò e di sicuro il mio volto espresse la mia
preoccupazione. «Perché mai dovresti farlo?» chiesi, prima di
potermi fermare.
Il suo sorriso si allargò e mi guardò come se fossi adorabile.
Adorabile.
Non un disastro totale.
E questo fece sentire il mio cuore sia più che meno tenero.
«Perché sei una brava persona» disse semplicemente, alzando le
spalle e facendomi sorridere, ma poi aggiunse, con un luccichio
malizioso negli occhi. «E, forse, se ti senti generosa, magari in
cambio otterrò una torta alla banana.»

Dopo aver dato spettacolo nel corridoio e aver accettato con


riluttanza l’offerta di aiuto di Billy Winston, diedi una mano a Billy e
Cletus in cucina per tagliare le torte. Sotto l’occhio attento di Cletus,
Billy e io ci scambiammo i numeri di cellulare per poter organizzare
qualcosa insieme. Poi tutti e tre portammo le fette di torta dolce e
torta imbottita alla famiglia.
Chiamatelo coraggio o una temporanea follia, ma qualunque cosa
fosse, insistetti per portare io ad Ashley e Drew le fette di torta dolce
e salata.
Drew accettò le sue diffidente, come aveva ogni diritto di fare, e
Ashley prese le sue con un sorriso piccolo ma rivolto solo a me. Poi
mi sedetti di fianco a lei, guardai Drew dritto negli occhi e dissi:
«Ora, tornando alla nostra discussione, non serve che compriate
una pentola a pressione. Posso prestarvi la mia».
Il sorriso di Ashley si fece più ampio. «È proprio un’ottima idea.
Non credi anche tu, Drew?»
Gli occhi argentei di Drew si strinsero su di me. Io incrociai il suo
sguardo, usando il mio per (sperai) comunicare pentimento e
desiderio di metterci una pietra sopra.
Con gli occhi ancora ridotti a due fessure, Drew disse, infine: «Non
è che ci serva una pentola a pressione tutto l’anno. Se usiamo quella
di Jennifer allora potremmo fare le conserve insieme, così ci vorrà
meno tempo».
Ashley rivolse nuovamente il suo sorriso amichevole a me.
«Fantastico. Facciamo così. Quando fai il raccolto del tuo orto
autunnale?»
Il sollievo che provai fu notevole, perché era oltre un anno che
evitavo Drew Runous. Sarebbe stato bello non dover scappare nella
direzione opposta ogni volta che lo scorgevo.
Tutto considerato, il resto della serata fu sorprendentemente
piacevole. I Winston, come la loro mamma, erano gentili in modo
genuino. E le persone che si erano scelte come compagni di vita
erano anch’esse adorabili. Duane e Jessica erano una coppia
davvero carina, Ashley e Drew erano perfetti insieme e il modo in cui
Jethro riempiva di premure Sienna mi scaldava il cuore.
La serata fu sorprendentemente simpatica nonostante di solito
non mi piacesse trovarmi in gruppi numerosi di persone. In effetti,
solitamente io evitavo i gruppi come regola. Probabilmente l’aver
studiato in casa aveva qualcosa a che fare con questo. Non tutti
quelli che venivano istruiti a casa erano così, ma la mamma non
aveva ritenuto che vi fosse bisogno di farmi socializzare con bambini
della mia età. Ora, arrivata ai vent’anni, le dinamiche di gruppo mi
sembravano estranee e intimidatorie.
Ma, una volta che mi fui rilassata e lasciata un po’ andare, essere
parte di quel gruppo, il gruppo dei Winston, fu facile. Non mi
fissavano né aspettavano che mi esibissi nel mio spettacolino. Non
fui costretta a dire un’altra parola dopo che Ashley e io terminammo
la nostra conversazione sulle conserve. Passò un’ora in cui io non
dissi proprio nulla. Ascoltai e basta, mi ambientai tra loro e mi godetti
la serata.
«Sia messo agli atti, mai dire mai a Cletus Winston.» Cletus annuì
una volta sola alla sua stessa affermazione, con un sorriso
compiaciuto e soddisfatto in volto.

Al momento, Cletus mi stava accompagnando alla macchina.


Avevo perso la nozione del tempo e quando avevo realizzato che
erano le dieci passate, avevo preso commiato. Lui era saltato in
piedi dal suo posto e si era offerto di accompagnarmi fuori, così
eccoci qui.
Io gli lanciai un’occhiata e alzai lo sguardo al cielo. «E va bene.
Avevi ragione. Non bisogna mai dire mai a Cletus Winston.»
Il suo sorriso si allargò per un attimo, ma poi lui si schiarì la gola e
ogni traccia di divertimento venne cancellata dal suo volto. «Lunedì
abbiamo lezione e hai dei nuovi compiti.»
«Davvero?»
Cletus aprì la portiera del guidatore della mia macchina. «Sì.
Questa settimana, e una volta al giorno per il prossimo mese, tu
cambierai una cosa.»
Aspettai che continuasse. Quando non lo fece, chiesi: «Cosa vuoi
dire?»
«Semplicemente questo. Cambierai qualcosa ogni giorno per il
prossimo mese.»
«Cambierò cosa?»
Alzò le spalle. «Questo sta a te deciderlo.»
Lo guardai accigliata, una punta di disagio cominciò a farmi
agitare. «Temo che dovrai essere più specifico.»
Il suo sorriso riapparve, ma ora era subdolo. «No.»
«Cletus.»
«No.» Scosse la testa, testardo. «Nossignora. Devi decidere tu.
Può essere qualsiasi cosa, davvero qualsiasi cosa. Cambia la strada
che fai per andare al lavoro, il rossetto che porti o fai una pazzia e
cambia colore dei capelli. L’unica regola è che devi cambiare
qualcosa che tu vuoi cambiare. Devi volerlo tu, non la tua mamma,
non il tuo papà, non il tuo cane. Tu.»
Io lo fissai. La libertà che mi aveva concesso mi sembrava troppo
ingombrante, troppo estranea. Ma mi sembrava anche eccitante.
«Non ho un cane» replicai impassibile.
«Ecco un esempio. Cambia il tuo non avere un cane.»
«Va bene» dissi infine, rivolgendogli un sorrisetto e
contemporaneamente un’occhiata torva mentre mi infilavo in
macchina. «Va bene. Cambierò biancheria intima.»
Lui scoppiò in una risata roca e fece un passo indietro, mentre io
richiudevo lo sportello. Avviai il motore e abbassai il finestrino.
«Adesso non fare follie» mi punzecchiò.
Strinsi le labbra perché non mi vedesse sorridere mentre facevo
marcia indietro per uscire dal posto dove avevo parcheggiato. Ma
non appena mi immisi nella strada principale, lasciai andare quel
sorriso. E sorrisi per quasi tutto il tragitto verso casa. O quasi…
perché non appena entrai nel vialetto dei miei genitori, il peso della
giornata, la mia giornata prima di portare la torta della compassione
dai Winston, mi piombò di nuovo addosso. Mamma sarebbe stata a
casa. E anche mio padre. Dovevo ancora affrontare le conseguenze
dell’aver detto di no a mia madre.
Con il cuore pesante, parcheggiai la macchina e mi costrinsi a
uscirne.
Forse dormono. Ma sapevo che non era così. La luce sopra la
porta d’ingresso era accesa. Mio padre spegneva sempre la luce
sopra la porta d’ingresso prima di andare a letto.
Il mio piede aveva appena toccato il gradino del portico quando
mio padre spalancò la porta d’ingresso, con un’espressione
tempestosa.
«Jennifer Anne Sylvester, entra in casa immediatamente.»
Io sospirai piano e annuii, oltrepassandolo ed entrando in casa.
Mamma mi stava aspettando, con addosso il suo accappatoio blu, il
trucco ancora al suo posto.
«Finalmente hai deciso di tornare a casa, mi fa piacere.» Aveva le
braccia conserte e lo sguardo un poco feroce, la sua voce era colma
di disappunto e paura. «Hai idea di quanto fossimo preoccupati?»
«Mi dispiace.» Senso di colpa e delusione - per me stessa - mi
rendevano difficile respirare. Odiavo deludere mia madre. «Avrei
dovuto scriverti un messaggio per farti sapere...»
«No. Saresti dovuta tornare dritta a casa» mi corresse mio padre,
in tono al tempo stesso piatto e infuriato. «Non hai il permesso di
restare fuori fino a quest’ora.»
Mi fissarono, sui loro volti erano scolpiti disapprovazione e
irritazione. Lo stomaco mi si ribaltò, mi sentivo nauseata.
Mamma spezzò il pesante silenzio, le sue parole erano intrise di
frustrazione. «Indossi dei jeans, Jennifer. Stai cercando di rovinare
tutto? Tutto quello per cui abbiamo lavorato?»
Scossi la testa, ma non ero in grado di parlare. Non volevo dirle
che avevo macchiato di glassa alla cioccolata il mio vestito perché il
grembiule a scacchi che aveva voluto indossassi non mi copriva in
misura adeguata. Per cui mi ero cambiata, per non continuare a
indossare un vestito sporco. Non volevo dirglielo perché non
avrebbe avuto alcun effetto sulla sua rabbia.
Mio padre sbuffò, abbandonandosi a una risata per nulla divertita.
«Stai al passo Jennifer. Usa quel poco di cervello che hai. Dobbiamo
metterci a indovinare? O hai forse intenzione di dirci dove sei stata?
Cosa c’era di tanto importante da far quasi morire tua mamma dalla
preoccupazione?»
«Ho portato la torta della compassione a casa dei Winston. Oggi è
il primo anniversario della morte di Bethany Winston e io… Ho solo
pensato che forse un po’ di torta sarebbe stata d’aiuto.»
I miei genitori rimasero in silenzio per un istante, mentre si
scambiavano un’occhiata, poi i loro occhi tornarono su di me.
«Ci stai mentendo, Jennifer? Perché sono quasi le dieci e mezza
e sei sparita da oggi pomeriggio.» La voce di mio padre era gelida e
sospettosa.
Scossi la testa, pronta a sostenere la mia onestà.
Ma il mio cellulare decise di squillare proprio in quel momento.
Presa alla sprovvista, lo estrassi dalla mia borsetta. Prima che
potessi controllare lo schermo, mio padre mi strappò il cellulare di
mano e rispose, portandoselo all’orecchio.
«Chi è?» domandò.
Lanciai un’occhiata a mia madre: mi guardava con occhi tristi,
taglienti dal disappunto.
«Cosa?» Mio padre si irrigidì, raddrizzando la schiena, il suo
sguardo scattò nel mio. «Oh, oh. Ciao, Billy. Nessun problema. Non
è troppo tardi. No, no. Per niente. Sì, ti passo Jennifer.»
Confuso e stupito, mio padre mi ripassò il telefono e mimò con la
bocca a me e mia madre: «È Billy Winston».
Io ripresi il telefono, mi accigliai guardandolo e poi me lo portai
all’orecchio. «Pronto?»
«Ehi, sei andata via prima che potessimo organizzarci.» La voce
baritonale di Billy risuonò all’altro capo della cornetta.
«Oh, scusa.» Scossi la testa per schiarirmela, la nostra
discussione di poco prima mi sembrava successa settimane fa, e
non ore fa.
Poi sentii Cletus ordinargli in sottofondo: «Portala al The Front
Porch a mangiare una bistecca e non permetterle di pagare metà del
conto».
«Fatti gli affari tuoi, Cletus» lo rimproverò Billy.
«Lei è affar mio» rispose Cletus.
Io sorrisi, nonostante tutta la situazione.
«Jenn? Sei ancora lì?»
«Sì, sono qui.» Azzardai un’occhiata verso i miei genitori e li vidi
osservarmi con pura e semplice meraviglia.
«Che ne dici di venerdì? Passiamo alla jam session, poi andiamo
al The Front Porch» suggerì Billy.
«A mangiare una bistecca!» urlò Cletus.
«Uhm, jam session venerdì e poi al The Front Porch?» chiarii.
Mio padre fece di sì col capo con veemenza e mia madre si coprì
la bocca, con occhi spalancati ed emozionati. Sembravano entrambi
felici e orgogliosi e completamente diversi da appena pochi momenti
prima.
E poi successe una cosa strana. Il mio cuore si spezzò un poco.
Guardare i miei genitori e assistere al loro voltafaccia umorale mi
fece sentire… Beh, mi fece sentire tradita.
«Già» confermò Billy. «E Cletus dice che non puoi indossare un
vestito giallo. E, tanto per la cronaca, sono d’accordo.»
«Allora siamo d’accordo» dissi, facendo del mio meglio per
infondere nella mia voce un po’ di allegria nonostante la sua
richiesta mi avesse mandato un poco nel panico. Billy non si accorse
del mio finto entusiasmo. Una volta deciso tutto, ci salutammo.
Nemmeno i miei genitori sembrarono accorgersene, perché non
appena chiusi la chiamata con Billy, corsero ad abbracciarmi.
«Sono fiero di te, Jennifer.» Mio padre mi baciò sulla guancia,
guardandomi come se fossi speciale.
«Oh, Jenny, dovevi dircelo. Per questo non volevi prestare alcuna
attenzione particolare ad Alan Northumberland! C’è Billy Winston
che ti chiama e ti invita fuori!» Mia madre ridacchiò.
Sì. Ridacchiò.
Mi costrinsi a dipingermi in volto qualcosa che somigliasse a un
sorriso e indietreggiai, allontanandomi dalle loro moine. «Sono molto
stanca. Penso proprio che andrò a letto.»
«Sì, sì. Vai a dormire, devi essere bella.» Mamma mi allontanò
con un gesto della mano, la sua tristezza e il disappunto di poco fa
erano stati rimpiazzati da ammirazione e orgoglio.
Io mi girai e m’incamminai verso la mia stanza, con un peso
ancora sullo stomaco e il cuore ridotto in tanti pezzi. Un momento
prima mi avevano trattata come una dodicenne disubbidiente e
irrispettosa, quello dopo come un successo magnifico.
Tutto per merito di Billy.
Mai per merito mio.
«Ho un desiderio profondamente nascosto e
inarticolato per qualcosa oltre alla vita quotidiana.»
- Virginia Woolf, Momenti di essere

Il giorno dopo aver ricevuto il mio nuovo compito, cambiai il colore


dello smalto.
Invece di quello rosa, ne misi uno bordeaux. Bordeaux scuro. Ero
al Piggly Wiggly, a prendere una cassa di banane, raramente
succedeva che ne avessimo bisogno nel mezzo della settimana,
quando scorsi il nuovo colore in fondo a una corsia. Le foglie
dell’acero rosso diventano di un granata scuro in autunno, lungo
tutte le Smoky Mountains; quel colore mi ricordò le loro ultime
vibranti esplosioni di colore prima dell’inverno.
Lo fissai. Mi piacque. Lo comprai.
Quel pomeriggio, una volta terminati gli ordini speciali per
l’indomani, mi tolsi lo smalto rosa e lo sostituii con quello bordeaux.
Quel piccolo atto di ribellione mi fece battere forte il cuore, quando
capii che avrei indossato dello smalto porpora durante la cena. I miei
genitori l’avrebbero visto e a mamma forse non sarebbe piaciuto…
Ma poi mi ricordai di come mi avevano accusato di essere una
bugiarda la sera prima, di come erano stati orgogliosi di me per via
della chiamata di Billy Winston, di come erano passati dall’essere
arrabbiati un attimo a essere euforici quello successivo. E il mio
cuore si indurì.
Solitamente papà cucinava la cena. Era molto esigente sul cibo,
su come veniva preparato e quali ingredienti andavano usati. Era
talmente esigente che non aveva mai assaggiato nemmeno un dolce
preparato da me, nemmeno la mia torta alla banana. Qualcuno
l’avrebbe definito un fissato della salute.
«Jennifer, vieni ad apparecchiare» mi chiamò.
Io sobbalzai appena sulla mia sedia della scrivania. Ero assorta
nella lettura di una lettera di una dei miei amici di penna. Anne-Claire
Noel viveva nel sud della Francia e, per gli ultimi sei anni, mi aveva
regalato le storie più appassionanti sulla vita notturna locale.
Iniziava sempre le sue lettere con Jennifer, tu ne croiras jamais ce
qui est arrivé! (Traduzione: Jennifer, non crederai mai a quello che è
successo!)
E terminava sempre le sue lettere con Quand vas-tu faire payer
ces gens pour te faire bosser quatre-vingt (80) heures par semaine ?
L’esclavage sous contrat est illégal aux États-Unis. (Traduzione:
Quando costringerai quelle persone a pagarti per le ottanta ore a
settimana in cui lavori? La schiavitù è illegale negli Stati Uniti).
Dopo tanti anni passati a scrivere lettere ai miei amici di penna,
avevo imparato a scrivere e leggere in francese, tedesco e
giapponese. Per fortuna mio padre non conosceva il francese. Né
riusciva a decifrare le lettere della mia amica di penna giapponese
(scritte in giapponese) che contenevano frequentemente storie
ancora più piccanti di quelle di Anne-Claire Noel. Papà aveva
provato a intercettare alcune delle lettere e a tradurle, ma aveva
perso interesse dopo qualche giorno.
Per fortuna ignorava l’esistenza di Google translate: o, per lo
meno, non l’aveva ancora scoperto. Temevo il giorno in cui sarebbe
successo. Giusto per precauzione, avevo nascosto le lettere più
scandalose in vari libri negli scaffali della mia libreria.
Avevo incontrato Anne-Claire Noel solo una volta, a un concorso
di bellezza quando avevo sette anni e lei otto, ma avevamo
continuato a scriverci sin da allora. Lei ora studiava legge e mi
esortava a regolarizzare il mio ruolo all’interno della Pasticceria
Donner sin da quando avevo quindici anni. Il suo suggerimento più
frequente era che mi mettessi in proprio e mi facessi pagare come
professionista esterna da mia mamma.
Io vivevo per interposta persona le sue imprese avventurose e
speravo di andarla a trovare… un giorno. Naturalmente lei mi aveva
fatto sempre notare che, non appena avessi regolato le condizioni
contrattuali con la pasticceria, avrei avuto molti più soldi miei da
spendere come meglio credessi, incluso per esempio andare in
vacanza nel sud della Francia, se lo desideravo.
Avevo proposto l’idea di pagarmi ai miei genitori, quando avevo
diciannove anni. Quella non fu una conversazione piacevole. Mio
padre si era infuriato, per cui non ne avevo mai più parlato. Non mi
piaceva nemmeno pensarci, perché sapevo che si sarebbero offesi.
E poi, avevo dei soldi: non erano tanti e non erano in un conto in
banca. Ma i miei genitori non erano taccagni con me. Guidavo una
BMW nuova di zecca, un regalo per il mio compleanno.
Ma la macchina è intestata a tua mamma, non a te…
Posai la lettera e lanciai un’ultima occhiata alle mie unghie dipinte
di fresco, poi lasciai la mia stanza. Senza proferire parola,
apparecchiai la tavola nel frattempo ricordandomi la conversazione
che avevo avuto con mio padre quando avevo diciannove anni, di
quanto si fosse indispettito quando avevo suggerito di essere pagata
per il mio lavoro in pasticceria.
A ben pensarci, i miei genitori sembravano offendersi qualunque
cosa io facessi. Si arrabbieranno per lo smalto, ci scommetto.
Questa sera mio padre stava preparando per cena del pollo e
broccoli senza condimento. Io avevo il sospetto che provasse un
piacere perverso nel preparare piatti senza sapore, ovvero senza
gioia. Per cui mi sentivo indifferente verso il suo pollo arrosto e
broccoli, ma nell’attesa che la cena fosse pronta e ci sedessimo a
tavola, mi ero infervorata da sola e ora ero in fibrillazione riguardo al
mio smalto.
Avevo deciso che se ai miei genitori lo smalto non fosse piaciuto,
allora potevano semplicemente… semplicemente… non farselo
piacere, ecco cosa. Non doveva per forza piacergli tutto di me.
Loro non sono me. Io sono me.
Io devo vivere con me stessa, tutto il giorno, tutti i giorni.
E lo smalto rosso mi piace!
«Jennifer?»
Mi riscossi e incrociai lo sguardo interrogativo di mio padre.
«Sì, signore?» chiesi.
«Mi stai ascoltando?»
Scossi la testa, chiudendo le mani a pugno sotto il tavolo,
preparandomi a una litigata. «No. Stavo pensando.»
I miei genitori si scambiarono una breve occhiata divertita, poi mio
padre disse: «Tua mamma mi ha detto che hai fatto una torta salata
alla zucca violina, ieri?»
Annuii e mi grattai la fronte. «Sì.»
«Non l’hai portata a casa?»
E perché mai? Tu non l’avresti mangiata e mamma mi avrebbe
iniziato ad assillare con la storia della dieta.
Domai questi pensieri ribelli, e mi sforzai di rispondere senza
emozione. «Uhm, no. L’ho portata a, uhm….» Mi bloccai prima di
dire L’ho portata a Cletus, continuando invece con un: «L’ho portata
ai Winston, assieme alla torta della compassione.»
Mio padre masticò il suo pollo, deglutì il boccone con un sorso
d’acqua e poi replicò: «Beh, è stato molto gentile da parte tua».
Mamma poi parlò degli investitori e di come la loro visita fosse
andata bene. Mio padre allora parlò di un suo prossimo viaggio di
lavoro. Poi la cena terminò.
Io finii quanto avevo nel piatto, aiutai a lavare i piatti e poi tornai in
camera mia, stordita.
Non avevano notato il mio smalto bordeaux? O a loro non
importava?
Non avrei saputo scegliere tra le due, ma quello di cui ero certa
era che avevo apportato un cambiamento ed ero stata pronta a
difendere la mia scelta. Anche se lo scontro non aveva avuto luogo,
io mi ero preparata.
E quello mi aveva fatto sentire forte.
Non dormii molto quella notte. La mia testa era troppo piena di
idee, di cose che avrei potuto cambiare. Le possibilità erano infinite.
Perché loro non sono me. Io sono me.
Io devo vivere con me stessa tutto il giorno, tutti i giorni.
E avevo il diritto di scegliere chi, o cosa, volessi essere.

Due ordini speciali e grandi vennero cancellati mercoledì mattina e


spostati alla settimana successiva, lasciandomi con una abbondante
quantità di banane e di tempo.
Avevo pensato di andare a casa, riposarmi un poco, magari
scrivere una lettera ad Anne-Claire Noel o ad Akiko, la mia amica di
penna giapponese. Invece, e senza averlo pianificato, mi ritrovai al
Centro commerciale East City appena fuori Knoxville.
«Ormai sono qui, tanto vale entrare» mormorai dentro la mia
macchina, cercando di ricordarmi quanti soldi avessi portato con me.
Se la memoria non mi ingannava, avevo cinquecento dollari. Li
portavo in giro nella mia borsetta sin da un evento speciale a
Nashville, durante l’estate. Un musicista emergente aveva voluto la
mia torta alla banana per la sua festa di compleanno. Avevo
preparato sette torte a forma di banane lunghe un metro e mezzo e
avevo servito ogni singolo pezzo con le mie mani.
La torta doveva essergli piaciuta, perché il suo manager mi aveva
dato cinquecento dollari di mancia.
Il Centro commerciale East City non era niente di grandioso. A
un’estremità c’era Sears, con una sezione per il giardinaggio e
all’altra JC Penney. In mezzo, si trovavano per lo più punti vendita di
marchi nazionali con qualche negozio i cui proprietari erano gente
del luogo.
Per esempio, L’emporio Garrison di carni e formaggi - una
gastronomia indipendente - e Le arti e il Miele di Lisa - che come
suggeriva il nome vendeva articoli di hobbistica e vasetti di miele -
erano due dei negozi locali più fiorenti nel centro commerciale.
Sarei potuta andare al centro commerciale di Bell Town. Aveva i
negozi firmati, ma ci sarebbero voluti altri quarantacinque minuti per
arrivarci. Il tempo era stato il fattore decisivo: non avevo un’altra ora
e mezza a disposizione, non se volevo tornare a casa in tempo per
cena ed evitare così domande sul mio pomeriggio.
Al momento, mi stavo slacciando la cintura di sicurezza e colsi
nello specchietto retrovisore il mio riflesso. Non indossavo il trucco.
Mentre chiudevo la macchina, abbassai lo sguardo sulle mie mani.
Le mie unghie erano ancora bordeaux.
I miei genitori non avevano detto niente, ma la mancanza del
trucco mi aveva fatto guadagnare parecchie occhiate di soppiatto da
parte dello staff della pasticceria, durante la giornata di oggi. Io
avevo ignorato gli sguardi, mi sentivo bene in assenza della mia
maschera, mi sentivo me stessa più di quanto non mi succedeva da
tanto tempo.
Questi cambiamenti, per quanto forse discreti, erano stati una mia
scelta. E il brivido che accompagnava il compiere scelte da sola mi
spronava a continuare, mi spinse a un passo allegro attraverso il
parcheggio e dentro il centro commerciale.
Una volta entrata, tuttavia, esitai. Iniziai a dubitare delle mie
scelte, chiedendomi improvvisamente in primo luogo perché fossi
andata lì. Non ero mai andata a fare shopping senza mia madre.
Non mi era mai nemmeno piaciuto troppo fare shopping.
Solitamente, la cosa consisteva in me che provavo i vestiti che mia
mamma aveva scelto, e mi giravo da questa e quella parte mentre
lei esaminava come mi stavano. I soli vestiti che possedevo e che
non erano stati scelti da mia mamma erano svariate paia di reggiseni
rossi di pizzo e mutandine abbinate, la salopette che usavo per il
giardinaggio, un paio di jeans e qualche maglietta.
La salopette l’avevo comprata a un mercatino dell’usato nel
giardino di qualcuno. I jeans erano un regalo di mia nonna Lily. Le
magliette erano per lo più souvenir inviatimi dai miei amici di penna
nel corso degli anni, dai posti in cui erano stati.
Ma la biancheria era stato il regalo di Anne-Claire Noel per il mio
ventunesimo compleanno. Mi aveva avvisato per tempo che
l’avrebbe spedita perché potessi intercettare il pacco prima che mio
padre tornasse a casa dal lavoro. Toutes les femmes ont besoin de
lingerie sexy, ça leur donne un secret, aveva scritto. Une femme
avec un secret est mystérieuse et séduisante. (Traduzione: A tutte le
donne serve della biancheria sexy, per avere un segreto. Una donna
con un segreto è naturalmente misteriosa e affascinante).
Con quel pensiero in testa, puntai dritta al dipartimento della
lingerie e scelsi senza esitazione una combinazione di reggiseno e
mutandine in pizzo nero. Poi mi diressi decisa verso il reparto donna,
a testa alta, sfoggiando un finto coraggio mentre cercavo tra gli
appendiabiti con mani tremanti.
Ma poi successe una cosa miracolosa.
Dopo aver frugato fra tre appendiabiti di vestiti, le mie mani
smisero di tremare. Smisi di fare quella determinata e trovai un
ritmo, mi lasciai andare sempre più nell’atto stranamente meditativo
di valutare i vestiti. Mi misi semplicemente a cercare qualcosa… sì,
qualcosa che piacesse a me, qualcosa che avrei scelto io.
Poco dopo, avevo ammassato un mucchio di vestiti su un braccio
e stavo puntando ai camerini. Grazie alle esperienze pregresse di
shopping con mia mamma sapevo dove si trovavano e che erano
aperti. Scelsi il camerino in fondo al corridoio e mi chiusi la porta alle
spalle.
E poi, per la prima volta in vita mia, provai dei vestiti che avevo
scelto io. All’inizio fu un’esperienza assolutamente bizzarra e non
sapevo cosa pensare dell’immagine di fronte a me. Ero io, ma non
c’era la Regina della torta alla banana. La Regina della torta alla
banana non indossava uno scamiciato di flanella granata e bianca
con i leggings.
Né indossava vestitini di lana blu zaffiro che le aderivano al corpo.
Né indossava magliette bianche e jeans scuri aderenti.
Né indossava vestiti eleganti e aderenti neri, con una scollatura
profonda, maniche ad aletta e una fascia di pizzo all’orlo.
Ma, a quanto pareva, Jennifer Sylvester li indossava, perché,
dopo un’ora passata a provare vestiti, mi comprai quattro nuovi
outfit.
E poi, ubriaca dell’ebbrezza di decidere del mio destino, decisi che
ero affamata. Non solo, decisi che avrei mangiato qualcosa di
delizioso invece di conservarmi l’appetito per una delle cene prive di
gioia di mio padre.
Portando due buste piene di vestiti nuovi, mi incamminai verso
l’Emporio Garrison di carni e formaggi. Avevo un debole per i panini
con bistecca e formaggio, e le abitudini culinarie rigorose di mio
padre rendevano tali prelibatezze intasa arterie assolutamente
vietate in casa.
Superai la sezione uomo, il bancone dei cosmetici, il dipartimento
calzature e giunsi nell’atrio principale. Il Centro commerciale East
City era il più vicino a Green Valley, per cui non mi stupii quando
riconobbi svariate persone durante il mio tragitto verso l’Emporio.
Allo stesso modo non mi stupii quando nessuno mi salutò. Ma
qualche persona mi rivolse sguardi confusi e si girò per guardarmi
meglio, come se il mio aspetto o la mia presenza lì li sorprendesse.
L’Emporio era appena oltre una modesta area ristoro in mezzo al
centro commerciale. Garrison Bradly, il proprietario, aveva messo tre
tavolini di fronte al negozio dove i clienti potevano mangiare i suoi
panini o gustarsi i loro popolari taglieri di formaggi.
Scorsi Garrison jr. dietro il bancone della carne, mentre aiutava
una donna che non riconobbi. Presi il numero dal distributore sul
bancone e aspettai il mio turno; contai altre quattro persone che si
attardavano, in attesa di essere servite.
Una di queste era Scotia Simmons, pettegola locale, persona del
tutto sgradevole e buona amica di mia madre. Mi tenni alla larga da
Scotia, cercando di comportarmi nel modo più naturale possibile,
non perché temessi mi volesse parlare, ma perché non desideravo
particolarmente che chiamasse mia mamma per rivelarle dove mi
trovavo.
Per cui indugiai di fianco ai raffinati condimenti per i panini e mi
finsi interessata agli ingredienti mentre osservavo le persone.
Garrison Jr., che doveva avere ormai quindici anni, era cresciuto
dall’ultima volta che l’avevo visto. Sapevo che si era unito alla
squadra di football perché papà l’aveva detto durante una cena. Ma
io sapevo anche che preferiva i libri allo sport e che si nascondeva
spesso in un angolo della biblioteca locale a divorare romanzi
fantasy.
Scotia era al telefono con sua figlia, Darlene, ex capitana delle
cheerleader al liceo di mio padre e ora iscritta a un master della
Vanderbilt, e si lamentava del fatto che la signora Beverton, la
direttrice del coro locale, non si depilava il labbro dallo scorso
maggio.
«Le sono cresciuti dei veri e propri baffi, Darlene.» Scotia schioccò
la lingua, disgustata, parlando a voce più alta di quanto fosse
strettamente indispensabile. «La poveretta sembra una donnola. Già
senza i baffi, figurati ora, poverina.»
Io strinsi le labbra in una linea scontenta. La signora Beverton era
una donna gentile e non meritava che qualcuno discutesse così
impietosamente in un luogo pubblico dei suoi attributi fisici.
Eppure, rimasi lo stesso a fissare l’etichetta della senape senza
realmente vederla e cercai di mimetizzarmi con l’ambiente
circostante fino a svanire. Ero vestita di giallo, in piedi vicino
all’espositore della senape ed ero la Regina della torta alla banana.
Ero praticamente invisibile.
Alla fine, tutti i clienti avanti a me furono serviti. Fui sollevata nel
vedere Scotia dirigersi verso la cassa, apparentemente ignara della
mia presenza, e poi arrivò il mio turno.
«Trentasei.» Garrison Jr. aggiornò il numero sul display dietro di
sé mentre chiamava il mio numero.
Mi feci avanti e indicai il pane sopra il bancone. «Potrei avere un
panino piccolo con bistecca e formaggio, e formaggio extra?»
«Subito.» Garrison Jr. prese una pagnotta francese di medie
dimensioni mentre io mi arrotolavo tra le dita il mio numero e
aspettavo.
Ma, prima che potesse tagliare a metà il panino, Scotia apparve al
mio fianco e chiamò il ragazzo. «Sai che ti dico? Ho cambiato idea.
Non voglio il petto di tacchino. Penso che prenderò invece il
prosciutto cotto al miele. E magari un po’ di quell’emmental
svizzero.»
Garrison Jr. si girò verso Scotia e subito mi sembrò che
assomigliasse a un cervo appena prima di essere investito, mentre
cercava di guardare tutte e due contemporaneamente. «Uhm...»
«C’è qualche problema?» Scotia mise il pacchetto con il petto di
tacchino sul bancone. «So che hai il prosciutto cotto al miele. Lo
vedo, è proprio lì.» Indicò con un dito l’interno della vetrinetta.
«No, ma stavo già servendo la Regina della torta alla banana»
squittì, indicandomi con il mento.
Scotia mi lanciò un’occhiata e poi di nuovo una seconda, girandosi
completamente al secondo passaggio. «Jennifer Sylvester.» I suoi
occhi si ridussero a due fessure mentre passavano su di me. «Sei
ingrassata.»
Decisi che in realtà voleva dire che sembravo in forma. «Grazie,
signora Simmons.»
Lei si accigliò, scuotendo appena la testa come se pensasse che
fossi una stupidotta, qualcuno di cui avere pietà. Io deglutii, mandai
giù, giù, giù le familiari fitte di imbarazzo e disagio. Strinsi meglio le
mie buste e alzai il mento, invece. Fui improvvisamente presa dalla
voglia di contraddire quanto lei credeva su di me.
«C’è tua mamma, in giro?» chiese, come se non mi fosse
permesso uscire in pubblico senza un adulto ad accompagnarmi.
Alzai il mento più in alto. «No, signora.»
«Oh.» Sembrò delusa dalla notizia, ma si riprese in fretta,
ignorandomi e girandosi verso Garrison Jr. «Tagliami il prosciutto,
ragazzo, mentre decido se prendere il formaggio.»
Garrison Jr., con il mio pane francese ancora in mano, non si
mosse, né lo feci io. Non sapevo cosa fare. Da un lato, non era poi
un gran problema. Quello che Scotia Simmons pensava o no di me
non importava granché, in fondo. Avrei dovuto semplicemente
lasciare che la donna ordinasse il suo prosciutto e formaggio.
Dall’altra parte, lei aveva già avuto il suo turno. Ora era il mio. Era
una scavalca-fila e una bulla. Non ero dell’umore per essere
scavalcata o bullizzata.
Presi un profondo respiro e strinsi più forte le mie borse, con il
cuore che batteva a un milione di battiti al minuto, e mi preparai a
risponderle.
Non avevo ancora raccolto tutto il coraggio necessario quando
Scotia si rivolse con tono velenoso a Garrison Jr. «Ma qual è il tuo
problema?» sbuffò. «Non posso restare qua tutto il giorno ad
aspettare prosciutto al miele ed emmental.»
Mi leccai le labbra, recitando e riprovando mentalmente le parole
che avrei detto e aprii la bocca per parlare. Ma non funzionò, la mia
obiezione mi rimase incastrata in gola e iniziavo a sentirmi sempre
più frustrata a ogni tentativo fallito.
Parla! Di’ qualcosa! Ce la puoi fare.
E poi, inaspettatamente, una voce familiare si intromise nella
nostra conversazione. «Signora Simmons, che numero ha?»
Io sobbalzai, perché quella voce mi aveva mandato giù per la
schiena una scossa elettrica di sorpresa e un formicolio di
eccitazione sottopelle.
Sia io che Scotia ci guardammo alle spalle e vedemmo Cletus
Winston in piedi a pochi centimetri di distanza. Aveva un aspetto
particolarmente disordinato, con la sua maglietta bianca e la tuta da
meccanico sporca di grasso, con le maniche legate attorno ai
fianchi. Ma, a me, sembrò anche bellissimo da mozzare il fiato.
Letteralmente, o quasi, la sua vista mi mozzò il fiato.
La sua maglietta bianca pulita era leggermente tirata sul suo petto
notevole, suggeriva l’idea della mole di potenza che c’era sotto. Le
maniche corte si stringevano un po’ in più sul rigonfiamento dei suoi
bicipiti, rivelando - non suggerendo - la sua forza notevole. Le
maniche lunghe della sua tuta da meccanico, legate in basso attorno
ai suoi fianchi stretti, facevano risaltare la distesa piatta del suo
stomaco. Le punte delle sue lunghe dita erano macchiate di grigio
dopo la giornata di lavoro all’officina. I suoi capelli lunghi erano
sparati in strane angolazioni ed erano tutti sbilenchi in modo
adorabile, come se si fosse passato da poco le grandi mani tra i
riccioli o fosse stato colto da una tempesta di vento.
Mi piacerebbe passare le mani tra quei ricci. Il pensiero mi colse
alla sprovvista e allontanò dalla mia mente sia la determinazione che
la frustrazione di poco prima, lasciandomi sconcertata e accaldata
sotto lo strato dei vestiti. Per fortuna, lui non stava guardando me. La
sua attenzione era puntata su Scotia Simmons, e sul suo volto
caoticamente attraente era dipinta un’espressione affabile e innocua.
Ma io notai anche un luccichio di esasperazione nei suoi occhi
che, tra l’altro, erano color nocciola quest’oggi.
Lui non le permise di rispondere, continuando invece a parlare.
«Perché io ho il trentasette e ho appena sentito chiamare il
trentasei.»
Lei si accigliò guardando Cletus, poi lanciò a me un’occhiataccia
cupa. «Avevo il trentacinque, ma...»
«Oh. Allora è già stata servita? Infatti, vede, mi stavo chiedendo
se avessero iniziato a usare numeri frazionari.» Cletus fece un
passo in avanti e porse a Scotia il suo numero. «Ecco, può avere il
mio trentasette. Così non dovrà prendere un nuovo numero.»
Scotia sbatté le palpebre, confusa, fissando prima lui e poi il
numero che le aveva messo in mano.
Lo fissai anche io sbattendo le palpebre confusa. Perché era
riuscito a prendere un numero e a evitare di farsi vedere da me fino
a questo preciso momento.
Nel frattempo, Cletus mi rivolse un cenno del capo con grande
rispetto. «Ti dispiacerebbe fare a metà il tuo panino? Pensavo di
ordinarne anche io uno bistecca e formaggio.»
Impiegai esattamente due secondi a riprendermi. «Oh, no. Non c’è
nessun problema.»
Lui si rivolse quindi a Garrison Jr. e gli indicò, gentilmente: «Per
favore, fai un panino extra large per la signorina Sylvester e incarta i
quattro pezzi separatamente».
Garrison Jr., con espressione sollevata, si mise all’opera
velocemente, preparando il nostro panino con la prontezza di un
uomo che ha una missione importante. Dopo un momento, avvertii
Scotia sbirciare oltre Cletus, i suoi occhi erano incollati al mio profilo.
La ignorai. Ora il cuore mi galoppava per una ragione
completamente diversa.
Cletus mi stava incredibilmente vicino, il suo grosso braccio mi
sfiorava la spalla. Mi rendeva ancora nervosa, ma era un
nervosismo diverso da quello di prima, nato dall’emozione e non
dalla paura.
Non ho più paura di lui.
Quella realizzazione giunse all’improvviso e diffuse un piacevole
calore nei miei arti. Non avevo per nulla paura di lui. Anche se
riconoscevo la sua arguzia, la sua scaltrezza e intelligenza, lui non
mi faceva più paura, era ufficiale.
L’altra sera qualcosa era cambiato tra noi, quando avevo portato
la torta della compassione e lui era riuscito in qualche modo a
organizzare l’uscita con Billy. O forse qualcosa era cambiato in me
quando, ieri, mi ero messa lo smalto e stamattina ero uscita di casa
senza trucco.
«Come sta tua sorella, Cletus? Non l’ho ancora vista da quando è
tornata in città» se ne uscì Scotia dal nulla, spezzando il silenzio non
tanto teso che era calato.
Cletus le rivolse un sorriso bonario. «Ashley sta abbastanza bene,
grazie dell’interessamento.» Poi, rivolgendosi a me, chiese:
«Jennifer, preferisci patatine fritte o insalata di patate con il panino?»
«Uhm...»
«Dovrebbe prendersi un’insalata di verdura» si intromise Scotia,
mentre il suo sguardo mi esaminava dalla testa ai piedi, scontento.
«So che sua mamma è preoccupata per la sua linea.»
Le guance mi avvamparono e strinsi i denti, abbassando veloce lo
sguardo sul pavimento. Odiavo che il mio aspetto fosse un
argomento di pubblica discussione, non solo sui social media - che
era uno dei principali motivi per cui odiavo il mio milione o giù di lì di
follower - ma anche per gli amici di mia madre.
Imperterrito, Cletus si intromise allegramente: «A proposito di
peso e preoccupazioni al riguardo, farebbe meglio a non scambiare
il petto di tacchino con il prosciutto e formaggio, signora Simmons.»
Aggiunse poi sussurrando, come se le stesse rivelando un segreto:
«Il tacchino ha meno calorie per porzione e a lei serve tutto l’aiuto
possibile».
Scotia lo fissò in cagnesco, stringendo le labbra e domandò, con
aria profondamente irritata: «Ashley vive ancora con quel Drew
Runous fuori dal matrimonio? Mi chiedo cosa penserebbe tua
mamma se sapesse che la sua unica figlia vive con un uomo nel
peccato, povera donna».
Negli occhi di Cletus passò un lampo, mentre lanciava
un’occhiataccia torva a Scotia Simmons, un lampo di qualcosa di
sinistro. Nel frattempo Garrison Jr. posò il panino sul bancone, e i
suoi occhi spalancati rimbalzavano continuamente fra noi. Si
allontanò dal nostro trio come ci si allontanava da un serpente a
sonagli.
Cletus prese il nostro panino: quel lampo sinistro ora era stato
completamente nascosto. Diede le spalle al bancone, mi mise la
mano in fondo alla schiena e rispose a quella domanda scortese con
un’aria premurosa: «Ora che ci penso, non mi stupisce che lei non
abbia ancora visto Ashley da quanto è tornata. Facciamo del nostro
meglio per proteggerla dalla gente ignorante e bigotta. Dopotutto,
vogliamo tutti che resti qui in città, non è così?»
Senza aspettare la risposta della donna, mi guidò via. Io mi diressi
dove lui mi conduceva, troppo sorpresa dall’audacia del suo insulto
per poter dire qualcosa, qualsiasi cosa. Lui si fermò quando fummo
dall’altra parte del negozio.
Prese una banconota da venti dalla tasca, la porse alla signora
Bradly alla cassa e si rivolse nuovamente alla signora Simmons,
alzando la voce perché tutti lo sentissero. «Ah, già. Prima che mi
dimentichi, signora Simmons, Beau voleva far sapere a sua figlia
Darlene che ha trovato le mutandine che lei aveva perso nella sua
GTO, la settimana scorsa. So che era preoccupata di non trovarle
più. Le faccia sapere che Beau gliele invierà per posta stavolta, non
c’è bisogno di passare da casa.»
La signora Simmons impallidì orripilata e nella gastronomia scese
il silenzio.
Cletus mi rivolse un sorrisetto complice e poi, rivolgendosi alla
scioccata signora Bradly, disse, con un occhiolino: «Tenga il resto».
«Il cuore umano cela tesori, nel segreto tenuti, tra il silenzio sigillati; i pensieri,
le speranze, i sogni, i piaceri, il cui incanto si infrangerebbe se venissero
rivelati.»
- Charlotte Brontë

«Perché hai ringraziato quella donna orribile?» chiese Cletus,


scartando il suo panino. Eravamo seduti a uno dei tavoli da picnic
pubblici, vicino al vecchio sentiero di Cooper Road. Era caldo per
essere ottobre. Io approfittai del tempo mite, scegliendo di lasciare il
mio cardigan giallo in macchina.
«Chi? Parli di Scotia Simmons?» chiesi, pulendomi le dita su un
tovagliolo.
«Già.» Cletus annuì, poi prese un gran morso del suo panino.
«L’ho ringraziata?» cercai di ricordare.
Dopo essere usciti nel parcheggio del centro commerciale, lui
aveva indicato la sua auto, una Buick che non riconobbi, e mi aveva
detto di seguirlo. Si era tenuto in ostaggio il mio panino, quando si
era allontanato con passo tranquillo. Pensando che non avevo altra
scelta, se avessi voluto consumare una cena con un minimo di
personalità, mi arresi e seguii Cletus e la sua Buick nuova-per-me su
per la strada di montagna fino alla svolta per il sentiero.
Parcheggiammo. Lui aveva atteso che uscissi dalla macchina, ci
aveva condotti a un tavolo da picnic proprio di fianco al ruscello di
montagna e ora eravamo lì.
«L’hai ringraziata davvero» rispose, dopo aver ingoiato il suo
boccone. «Lei ha detto che eri ingrassata o qualcosa del genere e tu
hai detto: ‘Grazie’.»
«Oh, quello.» Scrollai le spalle. «Ha detto che avevo preso peso,
per cui ho pensato che volesse dire che ero in salute.»
Cletus alzò un sopracciglio sentendomi, e mi fissò come se fossi
impazzita. «Perché mai? Chiaramente voleva sbandierare le sue
ingiurie.»
«Sbandierare le sue ingiurie, che vorresti dire?»
«Che è una stronza odiosa.»
Sobbalzai e gli occhi mi si spalancarono, perché non ricordavo di
averlo mai sentito usare un linguaggio tanto forte prima d’ora.
Ciononostante, una parte di me si sentì sollevata e grata per la sua
scelta di parole. Mi sentii stranamente vendicata e… appoggiata.
Come se fosse dalla mia parte.
In ogni caso, non commentai le parole che aveva usato, spiegai
invece il mio modo di agire. «Per me tutto è reso più gradevole, se
trasformo gli insulti in complimenti.»
Lui posò il panino sul tavolo. «Lo fai spesso?»
«Sì. Sempre.»
«Quanto spesso? Una volta al mese?»
«No. Ogni giorno, di solito.» Risposi senza esitazione, con
sincerità.
Ma poi, mentre lui continuava a fissarmi con le sopracciglia
aggrottate in un cipiglio severo, io iniziai ad agitarmi un tantino sotto
il peso di quello sguardo. Mi resi conto di colpo di come potesse
interpretare le mie parole.
Ma non può essere vero. Non mi insultano ogni giorno... vero?
«Chi è che ti insulta ogni giorno?»
Lasciai cadere lo sguardo sul mio panino, cercando di fare un
conto mentale dell’ultimo mese.
Ieri mattina, la mamma ha detto che “avevo litigato con lo
specchio”. Il giorno prima, mio padre mi avevo detto che in testa
avevo più capelli che cervello. Il giorno prima ancora, mio padre mi
aveva chiesto se nel vocabolario ci fosse la mia foto accanto alla
parola “stupido”.
Arrivai a ricordare fino a due settimane prima e, in effetti, non era
passato giorno senza almeno uno o due episodi in cui mamma
criticava il mio aspetto o papà commentava la mia mancanza di
cervello. Mi accigliai di fronte a tale scoperta, perché era realmente
una scoperta, e cercai di analizzare il quadro improvvisamente men
che perfetto della mia vita familiare.
Era davvero quello il mio mondo?
Più ci pensavo più mi rendevo conto che sì, lo era. I miei genitori
passavano un sacco di tempo a dirmi quanto fossi sgradevole.
Perché mai facevano una cosa del genere?
Non potevo ammettere la verità a Cletus, perché la verità mi
rendeva patetica, per cui scacciai il suo scrutinio con un gesto della
mano e mi costrinsi a sorridere allegra. «Nessuno. Scusa, mi è
uscita male. Non volevo dire questo. Nessuno mi insulta ogni
giorno.»
Avevo il collo in fiamme e mi prudeva. Pensai di mangiare un altro
boccone del panino, ma poi decisi di non farlo, preferii lasciare
vagare lo sguardo sull’acqua fino al precipizio, sull’altra sponda.
«È tuo padre?»
Scossi la testa anche se, a ripensarci adesso, mio padre era la
causa principale per cui avevo sviluppato quell’abitudine. «Non
preoccuparti, mi sono espressa male.»
«Credo tu intendessi esattamente quello che hai detto. È tua
mamma?» La sua voce si addolcì, ma questo mi fece solo sentire
peggio, come un essere pietoso.
Strinsi i denti e mi schiarii la gola, poi mi alzai dal tavolo e
passeggiai fino alla riva del ruscello.
«Jenn?» mi chiamò lui, insistendo per ottenere una risposta.
«Parliamo di qualcos’altro» dissi, senza girarmi.
Lui rimase in silenzio per un istante e poi sentii i suoi occhi sulla
mia schiena. Per qualche motivo ero pericolosamente vicina a
scoppiare in lacrime. Ma era una cosa stupida. Io ero stupida. Non
mi sentivo ferita. Stavo bene. E fui immensamente sollevata quando
Cletus esalò un sospiro teatrale e chiese stizzosamente: «E di cosa
vuoi parlare?»
Senza pensarci troppo, risposi: «Se potessi essere in qualsiasi
posto volessi, adesso, dove saresti?»
«Alaska» rispose lui immediatamente, riportando la mia attenzione
sul suo bellissimo viso. Anche lui aveva abbandonato il suo cibo e si
stava dirigendo verso di me.
«Alaska? Che c’è in Alaska?»
Lui incrociò le braccia sul petto e si fermò a solo un metro da dove
mi trovavo, rivolto verso di me. «Il cielo.»
«Anche qui c’è il cielo.» Indicai con un cenno la distesa azzurra
sopra le nostre teste. «Un bel pezzo, proprio di fronte a te.»
«Già, ma il cielo in Alaska è più grande, più vicino» rispose con
una punta di impazienza. Avevo l’impressione che non avesse
apprezzato la mia insistenza nel cambiare argomento. «Come se il
paradiso fosse appena fuori dalla tua porta, e andare a farsi una
passeggiata fra le nuvole fosse una possibilità assolutamente
fattibile, se lo si desidera.»
Nonostante la nota di disappunto nel suo tono, la sua descrizione
dell’Alaska mi fece sorridere. «Non avevo idea che il cielo ti piacesse
tanto.»
«Sì, mi piace. Mi piace davvero il cielo. Mi piace alzare lo sguardo
e farmi sorprendere da quello che vedo. Non succede molto spesso,
ma quando succede…» fece una pausa, liberando il fiato, mentre il
suo sguardo si muoveva sul mio volto, «quando mi succede, di solito
sono in Alaska.»
«Il cielo qui non ti sorprende?» Pensai a cosa si potesse intendere
per cielo sorprendente. Io di solito passavo tutta la giornata al
chiuso, lavorando in pasticceria, e probabilmente mi perdevo tutti gli
eventi celesti che avrebbero potuto definirsi sorprendenti.
«Di solito no. È bello, d’accordo.» Alzò le spalle. «Ma bello è
noioso. Preferisco le sfumature sorprendenti di un crepuscolo in
Alaska alla banale graziosità di un tramonto del Tennessee. Ecco
cosa mi piace.»
La sua descrizione mi fece sorridere di più e anche avvicinarmi a
lui. Mi piaceva come il suo volto si illuminava quando parlava del
cielo dell’Alaska. «In che senso, sorprendente?» In realtà, volevo
solo farlo continuare a parlare.
Cletus inclinò la testa in avanti e indietro con fare assorto. «In
primavera, i tramonti sono rossi e arancio. Ma in autunno, sono viola
scuro con striature di lavanda e indaco, il colore più bello che io
abbia mai...» Cletus si accigliò lievemente, lasciò incompiuta la frase
e il suo sguardo si fece lontano, come se stesse ponderando in
silenzio una questione molto seria.
Poi, all’improvviso, annunciò: «I tuoi occhi non sono viola. Sono
blu. Blu scuro».
Io li socchiusi e sbattei rapidamente le palpebre, tutt’a un tratto mi
sentivo imbarazzata dai miei stessi occhi e feci un passo esitante
all’indietro. «Lo so,» farfugliai. «Solo che a volte sembrano violetti.»
Cletus scattò in avanti e mi afferrò saldamente il mento con le dita,
poi si fece più vicino ancora di un passo, tenendomi ferma. Mi
esaminò le iridi. «Sono riflettenti.»
«Come, scusa?» Ora dovevo proprio assomigliare a un animaletto
impaurito.
«Riflettono il colore opposto a quello che li circonda. Tu vesti di
verde o giallo e quelli diventano violetti. Ma se ti vestissi di
arancione, allora sarebbero probabilmente celesti come il cielo.»
Io annuii appena, facendo attenzione a non distogliere lo sguardo,
non volevo che smettesse di toccarmi, non volevo perdere
l’occasione di osservarlo da vicino. O forse, volevo solo stargli
vicino. In ogni caso, mi piaceva come la sua vicinanza mi facesse
sentire le farfalle nello stomaco e il petto che si stringeva.
«Qualcosa del genere.» La voce mi si spezzò e mi schiarii
silenziosamente la gola. «Ma se indosso il bianco o il nero...»
«Allora sono del loro colore vero. Smettono di raccontare
menzogne.» Il suo sguardo si concentrò nuovamente, iniziò a
sondare più a fondo, a muoversi oltre la superficie del colore delle
mie iridi fino alla persona dentro.
La piena potenza dello sguardo acuto di Cletus, specialmente a
quella distanza ravvicinata era… sconvolgente. Trasalii, appena
appena, ma non cedetti. Ciononostante, un rossore traditore mi salì
alle guance. I suoi occhi viaggiarono sul mio volto, lo vidi prendere
nota del mio colorito, un lato della sua bocca si sollevò in un
movimento minuscolo, quasi impercettibile.
«Perché sei così rossa in viso?» sussurrò, i suoi occhi ora erano
socchiusi mentre si spostavano sulla mia bocca.
«Fa caldo, qui» gracchiai, ordinando alle mie gambe di sostenere
il mio peso.
O almeno, io ero tutta accaldata.
«Ti sto innervosendo?» La sua voce si abbassò di un’ottava.
«Sì» risposi con assoluta onestà.
Il suo sorrisetto si levò più in alto, mi liberò il mento dalle sue dita.
Il pollice di Cletus sfiorò lievemente il mio collo in una carezza
intenzionale, facendomi deglutire di riflesso, e lasciandosi dietro una
scia di pelle d’oca. Ma quando lui si allontanò del tutto e tornò al
tavolo da picnic, io avvertii la sua perdita. Quella perdita mi lasciò
stordita. E quello stordimento mi disorientava.
«Te l’ho detto, prima o poi dovrai smettere di avere paura di me.»
Cletus prese di nuovo il suo panino, lo addentò e poi parlò con la
bocca piena. «Io ‘on fazzo pa’va, ‘ono ‘idicolo.»
Socchiusi gli occhi, la sensazione di stordimento acuto e la pelle
d’oca che ancora rimaneva iniziarono a scemare, mentre cercavo di
decifrare quel farfugliamento. «Cos’hai detto?»
Lui scosse la testa, masticò, mandò giù e poi ripeté: «Io non faccio
paura, sono ridicolo».
Lo contraddissi sbuffando, tornando al tavolo per sedermi davanti
a lui. «Cletus Winston, tu sei molte cose, ma non hai nulla di
ridicolo.»
«Davvero?» Mi rivolse uno sguardo inquisitorio, un angolo della
sua bocca si sollevò. «Che mi dici dei miei capelli?»
Spontaneamente, la mia attenzione si spostò sui suoi capelli. I
suoi folli, lunghi, puliti, ma indomiti capelli.
Amo i tuoi capelli. «Che c’entrano i tuoi capelli?»
«I miei capelli sono ridicoli. Si comportano male sin dalla mia
nascita.»
Quello mi fece ridere e gli rivolsi un gran sorriso, al pensiero di lui
da neonato con i suoi capelli disubbidienti. Immaginai che i capelli
non fossero i soli a essere birbanti.
«È la verità» disse, come se la mia risata fosse una
contraddizione alla sua affermazione. «Sono il solo dei miei fratelli
ad aver ereditato i riccioli di nonna Oliver, oltre alla distichiasi.»
«Distichiasi? Che cos’è?»
«Una mutazione genetica che causa una doppia fila di ciglia.» Si
indicò gli occhi e si sporse in avanti. Io seguii il suo esempio e mi
sporsi sopra il tavolo, per studiare le sue ciglia. Aveva veramente
una seconda fila di ciglia.
«Incredibile. Non ne avevo mai sentito parlare prima.» Di sicuro
spiegava quanto fossero folte.
Lui prese un piccolo boccone del cibo, annuendo, masticando,
infine deglutendo prima di aggiungere: «Anche Ashley e Billy hanno
la distichiasi, ma non i capelli ricci. E io sono l’unico che aveva i
capelli biondi da bambino.»
Lo studiai, riflettendo su questa nuova informazione. Conoscevo
Cletus da quando era più giovane, ma naturalmente non l’avevo
conosciuto da bambino, visto che era più grande di me di qualche
anno.
«Avrai avuto un mare di guai crescendo, con i tuoi capelli biondi,
ricci e fluenti e le tue doppie ciglia.»
Cletus sospirò, e annuì con austerità. «Sì. Quando ero proprio
piccolo, a due, tre anni, la maggior parte delle persone pensava fossi
una femmina. Mamma non fece granché per chiarire l’equivoco.
Voleva una bambina da morire e io ebbi la sfortuna di nascere prima
dell’arrivo di Ashley.»
«Cosa successe dopo la nascita di Ashley?»
«Non ci furono grossi cambiamenti, anche se mamma iniziò a
chiarire l’errore con più convinzione. I capelli ricci attirano un sacco
di cose, come gomme e nodi. Ma un ragazzino con i capelli lunghi,
biondi e ricci e folte ciglia attira un sacco di stronzi.» L’atteggiamento
di Cletus mutò, la sua voce si fece più profonda, dura, come se si
stesse soffermando su un ricordo in particolare.
La mia attenzione venne catturata dalla sua barba e chiesi, senza
riflettere: «Per questo ti sei fatto crescere la barba? Perché le
persone non ti scambiassero per una femmina?»
Cletus rimase in silenzio, ma quando rialzai gli occhi nei suoi, li
trovai velati e introspettivi, come se stesse riflettendo seriamente
sulla mia domanda.
Infine, scosse la testa. «No. Mi sono fatto crescere la barba
perché non c’era nessuno che insegnasse a noi ragazzi a raderci.»
…dai.
Resistetti a malapena all’impulso di alzarmi, andare dal suo lato
del tavolo e stringerlo in un abbraccio. A malapena. Non perché
fosse sembrato triste, non mi era sembrato triste, ma distaccato. E
quello aveva reso la sua spiegazione ancora peggiore.
Il suo sguardo tornò a focalizzarsi sul mio, e Cletus mi rivolse un
sorriso d’intesa, come se potesse leggermi nel pensiero. «Non
essere triste per me. Ci sono state tante altre persone al mio fianco,
mentre crescevo. Nonna visse con noi fino alla sua morte, e
compensò ampiamente ogni mancanza causata da Darrell Winston.
Era della vecchia generazione, quella che usava il grasso della
pancetta per qualsiasi cosa, dal preparare i biscotti al fare il
sapone.»
«Non credo di ricordare tua nonna.»
«Non potresti. Quando morì, dovevi avere appena sei anni o giù di
lì.» Il suo sguardo si perse ancora, si posò oltre la mia spalla. «Era
cresciuta poverissima, per cui era la regina dell’ingegno, quando si
trattava di risparmiare e riutilizzare materiali. Descriveva così la sua
infanzia: “ero talmente povera che non potevo nemmeno prestare.»
Sorrisi, a sentirlo. «Pensavo che i tuoi nonni fossero ricchi.»
«Oh, mio nonno sì. Ma nonostante mio nonno Oliver, suo marito,
fosse ricco di famiglia e guadagnasse bene, lei non è mai riuscita a
tollerare gli sprechi. Era una donna che guardava la spazzatura e ne
vedeva la potenziale utilità. Costruì un impianto per distillare il
liquore in casa con tubi di gomma trovati in giro, due enormi
marmitte e una fornace in pietra. È ancora nel nostro garage
indipendente, e funziona.»
«Fece un alambicco per distillare liquori?» Adesso mi sentivo
rilassata. E mi era tornata la fame. Recuperai il mio panino.
«Sì. Lo uso una volta l’anno, verso Natale.» I suoi occhi si
spostarono su di me, come se volesse sondare il mio interesse.
Dovette accorgersi che trovavo l’argomento di quella conversazione
affascinante, perché continuò. «Ma non è tutto. I suoi vestiti
dismessi, che erano più buchi che vestiti, trovavano una seconda
vita come trapunte. Trasformava vecchie tende in tovaglioli, le
bottiglie di plastica in palette giocattolo e una volta trasformò una
ruota da trattore da 420 in una cassetta della sabbia per noi
bambini.»
«Ah! Bell’idea.»
«Riparava anche le automobili e, devo essere sincero, è lei che
più di tutti ci ha insegnato come cambiare olio e gomme, e ha fatto
nascere il nostro interesse per le auto.»
«Forse hai ereditato il tuo talento meccanico e i geni
dell’ingegnere da lei» suggerii, tra un morso e l’altro.
«Probabilmente.» Annuì, come se ritenesse che la mia
affermazione avesse fondamento. «“Ma a volte”, diceva lei, “la
spazzatura è solo spazzatura e andrebbe lasciata a lato della
strada”. Di solito lo diceva quando mio padre era nei paraggi.»
Abbassò gli occhi e si accigliò, guardando il suo cibo. La sua voce si
fece distante. «Odiava mio padre, ma non alzò mai la voce. Mi
ripeteva sempre “a volte una parola sussurrata è più impetuosa di un
urlo”.»
Iniziai a riflettere su quello, a riflettere sulla sua affermazione
rispetto al mio eterno silenzio. Il mio silenzio è impetuoso?
Non lo pensavo. Semmai, il mio silenzio rendeva eterni i miei
problemi. Alimentava la mia infelicità.
Prima che potessi riflettere troppo a lungo su quelle parole, lui
aggiunse: «Darrell la chiamava la signora della monnezza e metteva
in ridicolo il suo riciclaggio. Non capiva perché una donna con così
tanti soldi non comprasse cose nuove quando le servivano».
«E lei come rispondeva?»
Lo sguardo di Cletus tornò nel mio, il suo sorriso era dolce e triste,
grazie a un qualche ricordo. «Rispondeva sempre allo stesso modo:
“Le cose vecchie sono ricche di anima”. Poi si rivolgeva a me e
aggiungeva, in un sussurro: “E le cose nuove sono ricche di
spirito”.»
Quel modo di dire, così semplice e coinciso, mi toccò nell’anima.
Lo sguardo mi cadde sul tavolo da picnic e mi chiesi se le sagge
parole di sua nonna potessero valere anche per me. Avevo spirito?
Nel silenzio che seguì, mentre Cletus sembrava soddisfatto di
finire il suo cibo perso nei suoi pensieri, io fui colta dalla malinconia.
Non mi sentivo particolarmente ricca di spirito. E non mi sentivo
neanche particolarmente ricca nell’anima.
Mi sentivo messa a tacere. Mi sentivo soffocata. Mi sentivo
repressa e… ignorata. Non solo dai miei genitori e dalle loro
aspettative, ma anche da me stessa. Mi ero ignorata a lungo. Avevo
ignorato i miei stessi desideri e speranze.
Per cui decisi di sentirmi invece motivata, determinata, pronta e…
emozionata.
Ero emozionata, pronta a trovare il mio spirito.

Il primo giorno, misi lo smalto bordeaux e non batterono ciglio.


Il secondo giorno, non mi truccai e mio padre mi guardò sconvolto,
ma non disse nulla.
Il terzo giorno mi raccolsi i capelli in una crocchia e in cambio
ottenni parecchie occhiate di disapprovazione da parte di mia madre,
ma nessuna ramanzina.
Tuttavia, il vestitino nero che indossai il quarto giorno per il mio
finto appuntamento con Billy…
«Cosa diavolo ti sei messa?» mi chiese mamma dalla soglia della
mia stanza, con le mani sui fianchi e le sopracciglia unite in un
cipiglio torvo.
Io mi guardai nello specchio. Mi piaceva ancora il vestito con la
scollatura tonda, le maniche ad aletta e la fascia di pizzo all’orlo. Mi
piaceva ancora di più con i capelli tirati all’indietro, come li avevo
sistemati adesso, e le scarpe nere a punta col tacco che avevo
comprato il giorno prima per l’occasione, dopo il lavoro.
«È un vestito» dissi con un’alzata di spalle, poi mi sedetti sul
bordo del letto per mettermi le scarpe nuove.
Non sapevo come fosse possibile, ma il suo cipiglio si fece ancora
più profondo. «Prima quell’orribile smalto e ora questo? È
indecente.»
Io storsi il naso verso di lei, la punta di irritazione che avvertii nel
sentire le sue parole mi costrinse a dover calmare il tono. «Perché è
nero?»
Sbuffò. «Non c’è bisogno che mi spieghi. Non lo indosserai, punto.
Indosserai il vestito che ti ho preparato. Scotia mi ha chiamata ieri,
ha detto che ti ha vista al centro commerciale. Ora immagino di
sapere perché ci eri andata.»
Io lanciai un’occhiata al vestito giallo che aveva steso sul mio letto.
Maniche a tre quarti, colletto alto, un’ampia gonna che mi ricadeva
fino al polpaccio.
Non l’avrei indossato. E se non le fosse andato bene, beh, allora
tanto peggio per lei.
Alzai lo sguardo su mia madre e ricambiai la sua espressione
aggrottata. Non ero immune al suo disappunto. Lo sguardo che mi
stava rivolgendo mi feriva, mi faceva stringere il cuore dai sensi di
colpa, mi faceva sudare un poco le mani. Ma, come avevo realizzato
ieri, quegli sguardi erano un evento giornaliero, qualunque cosa
facessi. Non l’avrei mai fatta felice e io non ero più felice di fare
sempre quello che voleva lei. Era solo un vestito. Ma era il mio
vestito e non era indecente. Era carino e mi piaceva e non c’era
alcun motivo, proprio nessun motivo, per cui dovessi cambiarmi.
Scossi la testa e strinsi a pugno le mani in grembo. «No, mamma.
Non mi metterò un vestito giallo.»
Lei sbuffò di nuovo. «Jennifer Anne Sylvester, stai mettendo alla
prova la mia pazienza. Non mi piace che mi si rivolga...»
«Su, Diane, lasciala in pace.» La voce di mio padre risuonò dal
fondo del corridoio e io sentii i suoi passi avvicinarsi. Poco dopo fu
sulla soglia. Mi squadrò velocemente e annuì. «Sta davvero bene.
Con un po’ di fortuna, lui sarà concentrato sul suo aspetto, così lei
non dovrà parlare molto.»
Deglutii l’amarezza crescente nata dall’insulto implicito di mio
padre, ero determinata a ignorarlo invece di fingere che fosse un
complimento.
La bocca di mamma si spalancò, gli occhi le schizzarono dalle
orbite. Ma non ebbe il tempo di parlare, perché il campanello suonò
annunciando l’arrivo di Billy.
Io sentii un fremito di eccitazione, ma non era per via di Billy o
dell’appuntamento. Billy non mi piaceva in quel modo, ma speravo
davvero potessimo essere amici. Il fremito era dovuto interamente al
vestito. Sarei uscita di casa indossando questo vestito nero, queste
scarpe nere e sarei andata alla jam session. Forse ero un filo troppo
elegante per la jam session e il centro comunitario, ma non per un
appuntamento a cena con lo scapolo più appetibile della città. Mi
sentivo come se stessi per uscire per la prima volta in pubblico come
la vera me stessa.
Quindi sì, ero dannatamente eccitata.
Prima che mia madre si riprendesse, presi il mio scialle, sgusciai
oltre i miei genitori e m’incamminai lungo il corridoio fino alla porta
d’ingresso. Sentii le loro voci che sussurravano dietro di me: mia
madre era infuriata, mio padre era esasperato.
Li ignorai e aprii la porta.
Billy Winston, in tutta la sua alta, bruna e bellissima gloria, si girò;
aveva un sorriso cortese dipinto sulle labbra, e subito dopo rimase a
bocca aperta.
«Jenn?» chiese, come se non mi avesse riconosciuta.
Io sorrisi, sentendomi appena in imbarazzo, ma comunque
eccitata. «Ciao.»
I suoi occhi viaggiarono in basso, risalirono e si abbassarono di
nuovo. «Sei davvero...»
«Billy Winston, che piacere.» Mia mamma apparve al mio fianco,
con un sorriso precario in volto. «Vuoi accomodarti un attimo?»
Mio padre apparve un momento dopo, allungando la mano per
stringere quella di Billy. Il momento successivo, mi spinse fuori dalla
porta.
«No, no. Non vogliamo trattenervi. Meglio se voi ragazzi andate,
ora.»
«Ma...» Mia madre si tese per afferrarmi la mano, mio padre
bloccò il suo tentativo passandole un braccio attorno alle spalle e
tenendola così dove si trovava.
«Andate. Divertitevi. Ci vediamo dopo.» Salutò con un cenno della
mano, poi chiuse la porta.
Billy fissò la porta per un momento, poi concentrò lo sguardo su di
me. Io scrollai le spalle. Lui sembrava sbigottito o divertito, o
entrambi. Ma si riprese in fretta.
Voltandosi verso la sua auto, mi offrì il braccio e un piccolo sorriso
genuino. «Andiamo?»
Io intrecciai il braccio al suo e ricambiai il suo sorrisetto.
«Andiamo.»

«Allora, Cletus mi ha detto che devo cambiare una cosa ogni


giorno. Non ha specificato cosa dovrei cambiare, solo che dovrei
decidere io stessa cosa.»
Billy annuì.
Continuai. «All’inizio non ne vedevo l’utilità. Ma sai una cosa?
Cletus aveva ragione. Una cosa irrilevante come mettermi sulle
unghie uno smalto di colore diverso mi ha fatto sentire come se
potessi fare qualunque cosa, se mi metto in mente di farla.»
Billy sorrise.
Io continuai. «Cletus ha anche detto...»
Billy si schiarì la gola. «Vai spesso alla jam session? Credo di
averti visto là solo qualche volta.»
«No, a dire il vero. Mi piacerebbe, ma i miei sabati sono molto
impegnati. Di venerdì sera di solito preparo gli ordini speciali. Ti ho
sentito cantare qualche volta, però. Dovresti farlo più spesso, hai
proprio una bella voce.»
Billy sorrise di nuovo, i suoi occhi scivolarono su di me prima di
allontanarsi. «Grazie.»
«E Cletus è fantastico al banjo. L’anno scorso, ad Halloween, ha
suonato una versione folk di Thriller. È stata spettacolare.»
Billy sospirò.
Conversare con Billy Winston era sorprendentemente facile, una
volta smesso di avere paura di dire la cosa sbagliata. Invece di
preoccuparmi, semplicemente dicevo tutto quello che volevo. Lui
non parlava molto, oltre a farmi qualche domanda, per cui riempii io i
silenzi. A volte quello che dicevo lo faceva ridere. Altre volte,
annuire. Altre, tossire.
Ma di solito, qualunque cosa dicessi, lo faceva sorridere. Ed era
bello. Lui era bello.
Parcheggiò il suo pick-up nel parcheggio del centro comunitario, si
capiva che eravamo arrivati proprio nel vivo della jam session. La
sera era fresca, tutte le persone indossavano cappotti.
Mi avvolsi le spalle nello scialle e Billy mi aprì lo sportello, per
aiutarmi a uscire dalla macchina. Io infilai di nuovo le dita nell’incavo
del suo gomito, prendendolo a braccetto mentre cercavo di
sopprimere un nuovo, e più potente, fremito di eccitazione mentre ci
avvicinavamo al centro comunitario.
Mi chiedevo se Cletus fosse lì. Mi chiesi cosa avrebbe pensato del
mio vestito, dei miei capelli raccolti nello chignon e del mio trucco
volutamente leggero, del mio smalto. Nonostante il nervosismo,
sorrisi al pensiero.
«Cosa ti fa sorridere?» chiese Billy, sbirciandomi con la coda
dell’occhio.
«Sono nervosa» risposi con sincerità, senza fiato. Poi, prima di
potermi fermare, chiesi ancora: «Pensi ci sia anche Cletus?»
La bocca di Billy si alzò da un lato e osservò il mio volto. «Sono
sicuro di sì. Perché?»
«Mi chiedo cosa penserà del mio vestito» ammisi eccitata.
Lui ridacchiò e scosse la testa.
«Cosa? Che c’è?» Insistetti, scrutando il suo volto di profilo per
trovare un indizio sul perché stesse ridendo.
Lui ci fece fermare e si mise di fronte a me. «Dal momento che
questo è un appuntamento di prova, vuoi che ti dia un consiglio?»
Io annuii con entusiasmo. «Sì, grazie. Ogni consiglio è ben
accetto.»
«Ok. Allora te lo dico.» Prese un profondo respiro, come se si
stesse preparando bene per qualcosa e continuò: «Quando esci con
un uomo, probabilmente è meglio non parlare di altri uomini».
Le labbra mi si schiusero, la mia espressione crollò. «Mi dispiace.
Continuo a parlare di tuo fratello.»
«No, no. Non c’è problema.» Mi prese la mano e me la strinse.
«Questo è un allenamento, non c’è bisogno di scusarsi. Non sono
seccato. Ma se questo fosse un vero appuntamento, allora parlare di
Cletus e chiedersi cosa penserà del tuo vestito mi seccherebbe
alquanto. Durante un appuntamento, voglio che la donna pensi solo
a me. Ha senso?»
Annuii, perché aveva senso. «Come, tipo, a me non piacerebbe,
se questo fosse un vero appuntamento, che tu continuassi a parlare
di altre donne.»
«Esatto.» Riportò la mia mano sul suo braccio. «Meglio mantenere
la conversazione solo su voi due.»
Riflettei sulla questione mentre camminavamo. «Grazie, Billy.»
«E per cosa?» Aprì le doppie porte per me, posandomi una mano
in fondo alla schiena per invitarmi a entrare. Il corridoio era gremito
di persone, ma io le notai appena.
«Grazie perché fai questo e per il consiglio. Grazie di aver
sacrificato il tuo venerdì sera.»
Billy mi coprì le dita sul suo braccio con la sua mano. «Nessun
sacrificio, Jennifer.»
«Immagino non sia un piacere.»
Lui fece un altro sorrisetto e mi rivolse un’occhiata incredula.
«Cosa? Cos’ho fatto stavolta? Hai qualche altro consiglio?»
Dovevo sapere. Speravo che la serata fosse piena dei suoi consigli,
in modo da essere una vera esperta quando fosse venuto il
momento di un vero appuntamento.
Il sorrisetto di Billy svanì mentre i suoi occhi azzurri e penetranti si
muovevano sul mio viso. Se l’avesse fatto appena la settimana
scorsa, credo che sarei svenuta di colpo, mortificata, terrorizzata e
sicura del mio fallimento.
Ma in una settimana erano cambiate così tante cose. Non lo
temevo più. Stavo cambiando, stavo diventando più coraggiosa. Per
cui sostenni direttamente il suo sguardo azzurro ghiaccio e alzai le
sopracciglia per incoraggiarlo.
«Puoi dirmelo, qualunque cosa sia» sussurrai con entusiasmo,
avvicinandomi a lui. «Come ho detto, ogni consiglio è ben accetto.»
Finalmente, lui disse: «Non hai proprio idea di quanto tu sia
bellissima, vero?»
Io lo fissai a bocca spalancata, perché non era quello che mi
aspettavo dicesse.
Ma prima che potessi riprendermi, una voce severa alla mia
sinistra si intromise nella conversazione. «No, non ne ha la più
pallida idea.»
Mi girai e trovai Cletus in piedi accanto alla mia spalla. Sorpresa,
feci un passo incerto di lato, per poterlo guardare meglio. E quello
che vidi mi stupì.
La sua mascella era serrata.
La sua bocca era piegata in una smorfia torva.
E gli occhi di Cletus, di un azzurro pericoloso e fiammeggiante,
guardavano in cagnesco suo fratello.
«Quando qualcosa è divertente,
cercate attentamente al suo interno una verità nascosta.»
- George Bernard Shaw – Torniamo a Matusalemme

«Cletus.» Billy mi elargì un singolo cenno del capo. I suoi occhi


solitamente poco comunicativi erano accesi di una certa malizia.
Non mancai di notare come avesse fatto scivolare il braccio attorno
ai fianchi di Jennifer e se l’era stretta al fianco. Non mancai di notarlo
e non mi piacque per niente. Cosa sta tramando?
«Billy.» Avevo notato anche come lui le avesse allargato la mano
sul fianco. Nemmeno quello mi piacque. Lentamente, riportai lo
sguardo nel suo, e colsi gli ultimi istanti di un ghigno. Strinsi di più il
mio sguardo in cagnesco.
«Perché non stai suonando?» chiese Billy, affabile e calmo. Con
nonchalance, persino.
Conoscevo mio fratello quanto bastava per sapere che stava
trattenendo un sorriso. Ma non sorrise. Billy non faceva nulla che
non volesse fare, un fatto che avrei dovuto ricordare prima di indurlo
con l’astuzia a uscire con Jenn. Un errore da principiante. Avresti
dovuto mandare Beau. Ero deluso da me stesso.
Jennifer si schiarì la gola, attirando la mia attenzione. Era confusa,
anche se sbalordita sarebbe stata forse una parola migliore per
descriverla. Al di sotto del suo sbalordimento, mi guardava con una
speranza piena di attese.
«Ciao, Cletus» disse, con voce dolce, amichevole e speranzosa.
«Come stai?»
La esaminai, i miei occhi volarono sulla sua figura in una rapida
valutazione. Era cambiata. Erano passati appena due giorni dal
nostro ultimo incontro, dal nostro inaspettato picnic sul sentiero di
Cooper Road. Ma lei aveva fatto i suoi compiti con diligenza.
Riuscire a uscire di casa con quel vestito non doveva essere stato
facile. Ero fiero di lei e avrei voluto farglielo sapere.
Ma ero anche nervoso con mio fratello e per questo ci vedevo
rosso.
Già prima dell’arrivo di Billy, con Jennifer Sylvester a braccetto in
un vestito sorprendente e nuova acconciatura, la mia giornata non
era stata piacevole.
Beau aveva perso le staffe, di nuovo. Shelly aveva provato a
dargli qualche dritta riguardo una ricostruzione spinosa di un motore.
Lei non era sembrata per nulla scossa dal suo accesso d’ira, il che
servì solo a far scaldare lui ancora di più. E se n’era andato col suo
attacco di nervi.
Poi, avevo provato a fare il toffee. Non era la prima volta che
provavo a fare il toffee e non sarebbe stata l’ultima. Non avevo mai
avuto successo, ma ero determinato a riuscirci.
Dopo, arrivato alla jam session, una delle corde del mio banjo si
era spezzata. Non era la fine del mondo, certo. Ma poi, mentre la
stavo sostituendo, se n’era spezzata un’altra.
E ora avevo appena sentito mio fratello maggiore – che avrebbe
dovuto essere coinvolto in via permanente in una storia d’amore
travolgente, tragica ed epica con Claire McClure – confondere la mia
Jenn e darle false speranze.
La mia Jenn.
Non la Jenn di Billy. La mia.
«Jennifer Sylvester» dissi, scavando a fondo dentro di me per
trovare le risorse per comportarmi da gentiluomo. Le rivolsi un cenno
deferente col capo e un sorriso tirato. «Come stai in questa
magnifica serata?»
I suoi begli occhi si spensero piano piano nonostante il suo sorriso
si stesse allargando. Sembrava finto e fece spegnere anche il mio.
«Bene. Grazie» disse, mentre la sua attenzione precipitava sul
pavimento. Si stava torturando le dita. Era nervosa.
Dannazione, Billy. Dovevi fare una cosa, una cosa sola.
Spostai lo sguardo su mio fratello. «Permetti una parola?»
«Ora?» chiese, con un aspetto e un tono quasi deliziato. Da
notare che l’essere deliziato di Billy equivaleva a una stoica
imperturbabilità, per il resto del mondo.
«Sì. Ora.» Scoprii i denti in un sorriso.
Gli occhi di Billy si muovevano fra i miei e io maledissi la sua
fastidiosa cura di sé. Si era spuntato la barba con cura particolare,
nel pomeriggio. In più, odorava come un dissoluto, di colonia e
infatuazione non corrisposta.
Mio fratello maggiore si girò e sussurrò qualcosa all’orecchio di
Jennifer. Mi irrigidii, contenendo appena l’impulso di afferrarlo per il
colletto della camicia e trascinarlo via per il corridoio.
Ma non lo feci. Feci invece una lista di tutti i suoi averi più cari
per… alcuni motivi.
Lei annuì e gli indirizzò un sorriso genuino, anche se piccolo.
Jennifer rivolse poi il suo sorriso a me, ma non alzò lo sguardo più in
alto del mio collo.
«Vado a salutare lo sceriffo. Credo di vederlo al tavolo delle
donazioni con il giudice Payton.» Jennifer si strinse di più lo scialle
attorno alle spalle e si avviò. Io girai la testa e la guardai allontanarsi.
Volevo assicurarmi che attraversasse la folla senza incidenti.
Poi i miei occhi caddero sulle forme del suo corpo, perché, con
quel vestito, le sue forme erano ben in mostra. L’incavo della sua
vita era sottile, la curva del fondoschiena generosa e si assottigliava
in cosce snelle e polpacci ben definiti. Non riuscivo a vederle le
spalle perché aveva indosso lo scialle. L’interessante vestito nero
che portava aveva un bordo di pizzo che le iniziava sul ginocchio e
finiva qualche centimetro sotto.
«Cletus?»
«Uhm?» Quel vestito non era per niente provocante… ed eppure,
quel vestito era assolutamente provocante.
«Cletus.»
«Sì?» Mi ricordava della lingerie, ma non riuscivo bene a capire
perché.
«Cletus, smettila di fissare la donna con cui sto uscendo.»
Lentamente feci scivolare gli occhi su Billy, che aveva fatto un
passo in avanti ed ora era al mio fianco. Sembrava divertito. Io lo
guardai torvo, perché quello che aveva appena detto meritava
un’occhiataccia torva.
«Vieni con me.» Io accennai con il capo alla sala blues. I musicisti
stavano facendo una pausa. Gran parte del pubblico si era dispersa
in altri posti, lasciandosi dietro una manciata di ritardatari qua e là e
degli strumenti solitari sul davanti.
Condussi Billy nell’angolo più lontano, mi girai verso di lui,
incrociai le braccia e chiesi perentorio: «Cosa credi di fare?»
Billy alzò il sopracciglio sinistro, i suoi occhi brillavano con una
luce diabolica, ma a parte questo, la sua espressione rimase
enigmatica in maniera esasperante. Era l’unico dei miei fratelli che
faticavo a decifrare.
«Sono a un appuntamento.»
«No. Risposta sbagliata. Non è un appuntamento.»
Il suo ghigno tornò. Lo ignorai. «Una cosa dovevi fare, Billy. Una.»
«Ah davvero? Già e qual era?»
Abbassai la voce e mi assicurai che nessuno origliasse prima di
continuare: «Aiutare Jennifer. Darle un po’ di fiducia in se stessa.
Farle passare una buona serata».
Lui si grattò la nuca, senza togliersi il ghigno dalle labbra.
«L’ultima volta che ho controllato, prima che mi trascinassi qui, era
proprio quello che stavamo facendo.»
«Allora perché lei è così nervosa? Perché fa quella cosa di
torturarsi le dita e mi rivolge dei sorrisi finti?»
Il ghigno di Billy divenne un sorriso vero e proprio, lui aprì la bocca
come per rispondere, ma poi si fermò. I suoi occhi sfrecciarono tra i
miei e poi abbassò il mento. Scosse la testa.
«Cletus» cominciò, liberò una risata rauca, e rialzò lo sguardo nel
mio. La sua espressione era nuovamente indecifrabile. «Jennifer è
una cara ragazza. Ma io non sono interessato a Jennifer. E tu lo sai.
Ed è per questo che hai chiesto il mio aiuto.»
Io studiai mio fratello, sapevo che stava dicendo il vero, ma ero
incapace di conciliare la verità con ciò a cui avevo appena assistito.
«Allora non illuderla, Billy. Non dirle che è bellissima.»
«Secondo te non è bellissima?»
«Ma certo che secondo me è bellissima. Non sono cieco, no?»
«Non lo so, lo sei?» chiese lui, con l’ombra di un sorriso nello
sguardo.
Io grugnii e controllai il mio orologio. Mi stavo perdendo la
sessione di bluegrass. Se non mi fossi sbrigato sarebbe finita e avrei
perso la mia occasione di suonare. A breve avrei avuto il talent show
a Nashville con Claire, e oggi era importante improvvisare con il
gruppo.
«Promettimi solo che sarai carino con lei.» Alzai un dito
ammonitore davanti al suo volto. «Sii carino. Questo è un finto
appuntamento e fai in modo che non lo dimentichi. Non la posso
aiutare se inizia a sbavare dietro alla tua barba ossessivamente
curata e ai tuoi capelli da hipster.»
«Non sbava dietro a me, Cletus» disse lui con voce piatta.
«E fai in modo che continui a non farlo.» Io gli inflissi una
minacciosa alzata di sopracciglia, pronto ad andarmene, ma poi mi
ricordai che dovevo parlargli di un altro argomento. «A proposito, ho
tutto pronto per l’intrattenimento dell’addio al celibato di Jethro.»
L’espressione di Billy non mutò. Sbatté le palpebre una volta ed
emise un verso scontento dal fondo della gola. «Non riesco a
credere di aver aderito al tuo piano per la festa. Non possiamo fare
come avevamo già deciso? La caccia al tesoro di Beau, bere whisky
e bruciare cose?»
«Dopo mi ringrazierai. E le foto saranno un ricordo prezioso per il
resto delle nostre vite.» Mi girai, e aggiunsi da sopra una spalla: «E,
dopo questo, basta appuntamenti con Jenn. Hai compiuto il tuo
dovere. Adesso posso pensarci io».
Non aspettai di vedere se mi seguisse, ma mantenni un passo
lento e tranquillo. Anche se girovagavo di nuovo verso Jennifer,
girovagavo con uno scopo preciso. Sentivo il bisogno di rassicurarla.
Sentivo anche il bisogno di posare lo sguardo su di lei e assicurarmi
che Billy non avesse combinato troppi danni con i suoi complimenti
facili.
Vidi lo sceriffo in piedi dietro il tavolo delle donazioni. La folla mi
bloccava la vista del tavolo in sé, ma lo sceriffo era un uomo alto e
facile da individuare. Mentre sgusciavo tra la folla decisi che sarebbe
stato meglio riportarla a casa subito. O forse avrei potuto portarla al
The Front Porch per una bistecca e lì avremmo potuto pensare una
strategia. A Billy non sarebbe dispiaciuto.
Ma poi mi immobilizzai di colpo.
Jennifer era lì, in piedi accanto allo sceriffo, esattamente dove
aveva detto. Dall’altro lato c’era un ronzante Jackson James. Le
stava parlando. E le sorrideva, abbassando lo sguardo su di lei. E le
stava troppo vicino.
Allarme rosso!
La mia pressione sanguigna schizzò alle stelle e il mio girovagare
si trasformò in un’avanzata a passo svelto.
«...dovresti venire più spesso.» Jackson finì la sua stupida frase, i
suoi occhi si abbassarono sul petto di Jennifer come una carogna,
poi si rialzarono nei suoi.
«Jenn» chiamai ad alta voce, aggirando Jackson e infilandomi tra
loro due. «Eccoti qua, ti stavo cercando.»
«Davvero?» chiese lei, il suo viso dolce si inclinò all’indietro e i
suoi occhi belli in modo impossibile catturarono i miei.
«Sì. Davvero» dissi, per poi dimenticarmi immediatamente di
quello che avrei voluto dire dopo. Sentivo una presenza che ronzava
dietro di me, per cui gettai un’occhiata oltre le mie spalle a Jackson,
il ronzante, e mi accigliai impaziente. «Ti dispiace? Lascia un po’ di
spazio a un uomo.»
«Ma che spiritoso, Cletus» disse, ma non sembrava divertito.
«Perché io stavo appunto per...»
«Hai per caso del, uhm, toffee?» chiesi a Jennifer, per non dover
sentire le lamentele di Jackson. Se proprio voleva lamentarsi, era
meglio fingere che fosse un fantasma, decisi. Il toffee era la prima
cosa che mi era saltata in mente.
«Toffee?» Le sue sopracciglia scure si avvicinarono. Mi chiesi se il
suo colore naturale di capelli fosse della stessa tonalità delle sue
sopracciglia. Speravo di sì.
«Sì, toffee» confermai gentilmente, sorrisi quando lei sorrise, e
scrollai le spalle. «Mi piace vivere senza freni.»
Lei aprì la bocca, sul punto di chiedermi qualcosa e io non vedevo
l’ora di scoprire cosa volesse chiedermi, quando Jackson ci
interruppe insofferente: «Mangiando del toffee?»
«Già.» Voltai solo il capo, gli rivolsi il mio profilo. «Mette in grave
pericolo le mie otturazioni dentarie.»
Jennifer rise. Sorrisi a quel suono, concedendomi il lusso di
guardarla negli occhi. Aveva una risata molto invitante. E un sorriso
fantastico.
«Sei pronta?» Billy, in tutta la sua gloria di fascino disinvolto e
raffinatezza, arrivò di fianco a Jennifer e le cinse la vita con un
braccio. «È meglio andare se vogliamo cenare.»
Lei rivolse uno sguardo sorpreso a mio fratello, poi a me e infine a
Jackson. Io mi spostai di lato, bloccando quest’ultimo alla vista di
Jennifer, e perdonai un poco Billy per averle messo le mani addosso.
«Hai ragione. Voi ragazzi avete una bistecca che vi aspetta.
Divertitevi.»
Cercai di spingerli nella direzione dell’uscita. Sfortunatamente,
Billy era un gentiluomo e si fermò a stringere le mani dello sceriffo
James e del giudice Payton prima di andare via. Nel frattempo io
mantenni la mia posizione difensiva, impedendo a Jackson di vederli
o seguirli, finché la testa di Billy non sparì dalla vista.
«Dannazione, Cletus.» Jackson, sempre più esasperato, mi
spinse da parte e allungò il collo, presumibilmente per cercare tra la
folla Billy e Jennifer. «Cos’hai nella testa?»
«Ti stavo bloccando la strada?» Lo fissai concentrato e sorrisi,
presi la decisione che senza ombra di dubbio nel suo futuro ci
sarebbe stata della lebbra trasmessa per infezione da armadillo.
Quando mi svegliai sabato mattina, avevo una gran voglia di
dolce. Tranne quando Duane preparava i suoi pancake al mirtillo, la
mia colazione consisteva in tre uova bollite, un avocado, un
pompelmo e mezzo litro d’acqua. Il mio caffè speciale era
programmato per dopo la colazione. Quel giorno non mi andavano le
uova. Avevo voglia di… un muffin. O qualcosa del genere.
Nonostante la notte scorsa fossi rimasto sveglio fino al ritorno di
Billy, lui era stato circospetto in modo esasperante sui dettagli. Lo
giuravo, a volte cavargli un’informazione era più difficile che cavare il
sangue dalle rape.
Mi feci una doccia veloce, deciso a fare un salto alla Pasticceria
Donner per prendere qualunque cosa Jenn stesse preparando e
chiedere direttamente a lei come fosse andato l’appuntamento
ovvero: dovevo menomare Billy? Si era comportato come un vero
gentiluomo? O, anche se si era comportato da vero gentiluomo,
dovevo comunque menomarlo?
Dopo essermi asciugato con un asciugamano, ripulii lo specchio
appannato e presi il mio pettine. Ma mi fermai nel bel mezzo della
prima spazzolata non appena scorsi il mio riflesso.
I capelli mi erano cresciuti, mi ricadevano oltre la fronte e le
orecchie, arrivavano fino alla nuca. Avevano un aspetto disordinato
– beh, più disordinato del solito – ed era giunto il momento di una
spuntatina. Su due piedi, decisi che mi sarei fermato dal barbiere
mentre andavo in pasticceria, per occuparmi anche dei capelli.
Mentre mi infilavo un paio di pantaloni eleganti e la camicia grigio
scuro che Sienna mi aveva comprato per il mio compleanno, la testa
di Beau spuntò nella mia camera.
«Ehi, Cletus. Stavo pensando di...» Smise di parlare tanto
bruscamente che lo guardai. Mi fissava come se mi fossero spuntate
delle piume da gallo.
«Cosa c’è?» Lanciai un’occhiata alla mia mise e poi di nuovo al
suo volto.
«Oggi non è domenica» disse, lo sguardo incollato alla mia
camicia.
«Lo so.»
«Allora perché ti vesti tanto elegante?»
«Non lo sto facendo.»
«Oh sì, invece.» Beau entrò nella stanza e si piazzò dietro di me.
Eravamo entrambi riflessi nello specchio dell’armadio. «Con chi ti
devi incontrare?»
Alzai le spalle. «Nessuno.»
«È Shelly?» chiese improvvisamente, accigliandosi. «C’è qualcosa
tra voi due?»
Il mio cipiglio, in risposta, affiorò immediatamente, perché non
avevo passato molto tempo a pensare a Shelly: avrei dovuto
aggiungerla alla mia lista di cose da fare. «Non c’è niente tra me e
Shelly. Perlomeno, non ancora.»
Beau si irrigidì e incrociò le braccia. «E questo cosa significa?»
«Significa che, prima o poi, mi occuperò di lei. Io e lei siamo
perfetti l’uno per l’altra.»
I suoi occhi caddero sul punto in cui mi stavo chiudendo i bottoni
grigio scuro della camicia sulla canottiera nera, lui rimase lì in
silenzio mentre terminavo.
Gli camminai attorno per raggiungere le scarpe e mi sedetti sul
letto per infilarmele.
«Pensi che siate fatti l’uno per l’altra?»
«Già.»
«E da quanto, uhm, lo pensi?»
«Dal momento in cui l’ho incontrata e ho stabilito che la nostra
sarebbe stata un’unione ideale e placida. Perché?» Alzai un
sopracciglio verso il suo riflesso: né lui né il suo sguardo si erano
mossi. Fissava lo specchio senza vederlo.
«Perché io...» Esitò, passandosi lentamente una mano tra i capelli
e voltandosi dallo specchio per guardami in faccia. «Mi sarei
comportato meglio con lei se avessi saputo che ti interessava.»
«Beau, tu dovresti comportarti meglio indipendentemente dai miei
sentimenti al riguardo. Sei gentile con ogni altra persona. Sai cosa
diceva sempre mamma: se non vuoi che qualcuno ti prenda la
capra, non fargli sapere dove l’hai legata.»
Le sue labbra si appiattirono in una linea e Beau annuì con un
cenno. Sottoposi mio fratello a un’ispezione. Era infelice, e l’infelicità
non era una condizione normale per Beau.
«C’è qualcosa che ti preoccupa?» domandai, concedendogli una
ghiotta occasione di condividere i suoi guai.
Sollevò gli occhi nei miei e storse le labbra da un lato. Mi fissò,
celando con attenzione i suoi pensieri e non disse nulla per qualche
tempo. Poi scosse la testa.
«No. Non c’è niente che mi preoccupa.» Il tono di Beau era
deliberatamente privo di qualsiasi emozione rivelatrice.
Lo ispezionai ancor più attentamente.
«Smettila, Cletus.»
«Smettila di fare cosa?»
«Smettila di cercare di sbirciarmi nella mente.» Mi scoccò un
mezzo sorriso, infilandosi le mani in tasca.
«Non lo farei mai, Beau. La tua mente è un luogo di depravazione
e dissolutezza. Se dessi anche solo un’occhiata lì dentro, temerei
per la mia anima immortale.»
Il mio sfottò lo fece ghignare e io fui felice di vederlo. «Hai
ragione.» Si voltò verso la porta e disse, uscendo, da sopra la spalla:
«E non dimenticartelo mai».

A Kevin Arthur piaceva tagliare capelli. Riconoscevo che la sua


inclinazione fosse una cosa buona, considerando che era un
barbiere. Tuttavia, Kevin voleva sempre tagliare più centimetri dei
miei capelli di quanti gliene richiedessi. Discutevamo ogni volta che
mettevo piede nella sua bottega. Gli avevo detto che ai miei capelli
era necessario del peso, altrimenti sarebbero rimasti dritti e sparati
in su e all’infuori e che la mia testa – che era già più grande del
normale, probabilmente per meglio alloggiare il mio cervello
immenso – assomigliava a un melone giallo su uno stuzzicadenti, e
questo considerato che i meloni gialli erano i frutti meno apprezzati
di tutti.
Lui insisteva che mi serviva un taglio corto, con i lati rasati corti e i
capelli in cima alla testa più lunghi e sfoltiti. Diceva che era il volume
dei miei capelli il responsabile della loro propensione a imbizzarrirsi.
Diceva che il suo taglio mi avrebbe garantito una fila di ragazze che
arrivava fino in fondo al mio cortile.
Su questo avevo i miei dubbi. Per prima cosa, non volevo ragazze
nel mio cortile. Non volevo nessuno nel mio cortile. Il mio cortile
stava bene esattamente com’era: autogestito.
Per seconda cosa, non ero mai stato molto popolare con il genere
femminile. Le donne, o perlomeno le donne che conoscevo, non
trovavano gradevole la mia mancanza di disponibilità a sopportare le
stronzate. Per quel che poteva valere, anche la maggior parte degli
uomini che conoscevo non trovava gradevole questo lato di me.
Le stronzate erano la versione per adulti di Babbo Natale. Per
ragioni che non avrei mai compreso, la popolazione globale
sembrava apprezzare sguazzarci dentro, sputarle e credere nelle
stronzate.
Ma torniamo al mio barbiere.
Lasciai Kevin e cinque centimetri dei miei capelli nella sua bottega
a Knoxville. Ci mettemmo a discutere sulla lunghezza. Alla fine
cedette e la smise di assillarmi. Poi mise il broncio. Per cui, mio
malgrado, gli lasciai spuntare e rifinire la mia barba. Mi pentii di
quella decisione. L’aveva tagliata troppo corta e ora aveva un
aspetto distinto e ben curato.
Ero ridicolo. Mi concessi cinque minuti per sentirmi ridicolo e poi
mi lasciai tutto alle spalle. Avevo dei muffin in mente ed erano già le
dieci e mezza passate.
La pasticceria Donner era dall’altra parte di Green Valley e non
era decisamente sulla strada di casa. L’attività era attaccata allo
Chalet Sky Lake, l’unica proprietà ancora in possesso della famiglia
di Don Donner, il bisnonno di Jennifer. Diane Donner-Sylvester
aveva ereditato lo chalet in condizioni disastrose, dal momento che
suo padre aveva sperperato la fortuna di famiglia e ridotto l’impero
alberghiero dei Donner a quasi niente.
Dovetti parcheggiare lontano dall’ingresso della pasticceria. Con
mia grande sorpresa, il parcheggio era quasi al completo. Cercai di
ricordarmi l’ultima volta che fossi passato alla pasticceria, oltre alla
sera di due settimane fa, e scoprii che erano passati parecchi anni.
L’immobile sembrava notevolmente cambiato dalla mia ultima
visita diurna. Ciò che prima era stato trasandato e in rovina era ora
ben curato quanto la mia barba accorciata di fresco.
Tutti gli edifici erano stati ridipinti di fresco e la progettazione del
giardino era di alta qualità. Sia l’insegna della pasticceria che dello
chalet sembravano nuove di zecca e il parcheggio era stato
ripavimentato. La pasticceria aveva una nuova tenda da sole, tavoli
in ferro battuto in stile francese con le sedie lungo la vetrina e a
quanto pareva, come mi accorsi non appena entrai, gli interni erano
stati completamente ristrutturati.
Non appena misi piede nella pasticceria fui assalito dall’odore di
paradiso. Questo lo riconoscevo, perché era lo stesso aroma in cui
mi ero imbattuto due lunedì fa, quando Jennifer mi aveva fatto
entrare dalla porta posteriore della cucina. Approvavo quell’odore.
Approvavo anche le creazioni nella vetrinetta al bancone, una più
elaborata dell’altra. E naturalmente, posizionate in un angolo, su un
piedistallo d’onore in vetro, c’erano tre torte alla banana intere e una
a metà. A quanto pareva, alcune persone mangiavano una fetta di
torta alla banana per colazione. E a me sembrò un’idea eccellente.
Come l’abbondanza di macchine nel parcheggio aveva fatto
predire, la pasticceria era affollata. Mi appoggiai da un lato del
bancone, e osservai. Jennifer non era alla cassa e non prendeva gli
ordini, il che aveva senso. Probabilmente era altrove, a preparare
dolci.
Mi accigliai, ero irrequieto e i miei occhi vennero attirati dal
corridoio che portava alla cucina. Sapevo che Jennifer preparava
dolci freschi ogni sabato e domenica. Billy era tornato all’ovile alle
undici, la scorsa notte. Supponendo che l’avesse lasciata a casa
quindici minuti prima di giungere a casa, questo significava che
Jennifer aveva dormito meno di quattro ore.
La preoccupazione mi spinse a uscire dalla pasticceria, fare il giro
attorno all’edificio e cercare la porta della cucina: era aperta, per cui
entrai.
Quanto trovai all’interno non avrebbe dovuto meravigliarmi, se mi
fossi fermato a considerare tutti gli elementi già ampiamente a mia
disposizione. Invece, rimasi sorpreso.
Là, nell’occhio di un ciclone di frenetica attività, c’era Jennifer
Sylvester. Indossava il suo costume composto da un vestito giallo e
tacchi alti; i suoi capelli biondi a boccoli erano raccolti in una retina e
il suo volto era coperto da uno strato di trucco pesante e applicato
con mano esperta. Indossava il suo grembiule di Smash-Girl e
preparava un dolce, ma non era l’unica.
Il personale ammontava ad almeno dieci persone. Jennifer
dirigeva il traffico e la sua voce non era bassa, flebile o in alcun
modo quella di una donna senza spina dorsale.
Io rimasi impalato in piedi per almeno tre minuti e la guardai
lavorare, correggere qualcuno alla sua sinistra, rispondere a una
domanda al volo alla sua destra, il tutto mentre riempiva delle
delicate paste con la crema. Stava preparando dei bignè alla crema.
«Ehi Cletus.»
Mi girai sentendo il saluto e trovai una delle gemelle Tanner che mi
rivolgeva un ampio sorriso.
«Che ci fai qui?»
«Io, uhm...» Volevo dire che ero venuto per parlare con Jennifer,
ma lei era chiaramente impegnata. Non volevo disturbarla.
Blithe Tanner, o almeno pensavo fosse Blithe, anche se poteva
trattarsi di Blair, alzò un sopracciglio in attesa. «Ti serve qualcosa?»
«Cletus?»
Mi voltai al suono della voce di Jennifer. Si stava dirigendo verso
di me, pulendosi le mani con uno strofinaccio. All’ultimo minuto si
infilò il pollice in bocca, la sua lingua rosa guizzò fuori per leccare via
la crema dal polpastrello.
La mia gola si seccò curiosamente, improvvisamente.
«Ehi, Jenn. Non volevo interromperti.»
Lei mi rivolse un sorriso dolce e scosse la testa. «Non mi
interrompi. Stavo per finire un ordine per stasera. Bignè alla crema di
banana. Vuoi provarne uno?»
Prima che potessi trovare una scusa, perché era mia assoluta
intenzione trovare una scusa, lei mi prese per mano e mi trascinò
fino alla sua postazione. Si fermò decisa, si girò verso di me, prese
un bignè alla crema dal bancone e me lo mise davanti alle labbra.
«Apri» disse, con gli occhi puntati sulla mia bocca.
Così la aprii.
Lei posò il bignè sulla mia lingua, la sua attenzione era ancora
incollata alle mie labbra. «Com’è?»
Non gemetti di piacere, ma avrei voluto. Finii invece di masticare e
dissi, con compostezza forzata: «Credo sia una delle cose più
deliziose che abbia mai mangiato».
Lei sorrise, sembrava al settimo cielo, e improvvisamente ebbi
voglia di farle tutti i complimenti del mondo, purché lei continuasse a
sorridere.
Ma poi la voce di sua madre bofonchiò: «Jennifer! Hai finito con…
Oh.» Si fermò di scatto, i suoi occhi saltarono su di me. Sembrava
realmente perplessa. «Cletus Winston. Che ci fai tu qui?»
Io raddrizzai la schiena e rivolsi a Diane Donner-Sylvester un
cenno rispettoso del capo, ma non ebbi occasione di rispondere alla
sua domanda.
«È qui per via di Billy» mentì Jennifer, slacciandosi il grembiule.
«Oh.» Diane si accigliò mentre spostava lo sguardo dall’uno
all’altra.
«I bignè sono tutti finiti, e anche le quattro torte alla banana. Blair
le sistemerà nelle scatole. Torno subito.» Jennifer inclinò la testa
verso la gemella Tanner con cui avevo parlato poco prima, poi mi
prese la mano e mi condusse fuori dalla cucina dalla porta sul retro.
Appese il suo grembiule e schizzò fuori.
Io esaminai sua madre mentre ce ne andavamo, la sorpresa
confusa di quella scaltra donna si trasformava lentamente in un
confuso sospetto.
Mi stupii ancora una volta della velocità di Jennifer: era
impressionante per una donna bassa e sui tacchi alti. Stavolta
camminai al suo fianco, invece che a distanza dietro di lei. Eravamo
a una quindicina di metri dalla pasticceria, quando si fermò di colpo
e parlò.
«È bello vederti.»
«Anche per me» risposi automaticamente, e lo intendevo davvero.
«Mi piace il tuo taglio» i suoi occhi si muovevano su di me,
valutandomi, e il suo sorriso tornò appena prima che le si arricciasse
il naso. «E la tua barba. Non sono abituata a vederla tanto corta,
però. Mi ci vorrà un po’ per farci l’abitudine.»
Io accarezzai la lunghezza ridotta della mia barba e mi accigliai.
«Il mio barbiere si prende troppe libertà.»
Lei ridacchiò, alzando la mano come se avesse voluto toccarmi il
volto, ma poi la ritirò bruscamente e abbassò lo sguardo al suolo.
«Volevo ringraziarti.»
«Ringraziarmi?» chiesi stupidamente, metà delle mie facoltà
mentali erano ancora nella cucina, con le sue dita che mi posavano
un bignè alla crema in bocca. Lanciai un’occhiata alle dita in
questione. Il suo smalto era bordeaux.
«Sì.» Sollevò il mento e prese in trappola il mio sguardo. «Grazie
per aver spinto Billy a uscire con me. Gli preparerò una torta alla
banana per ringraziarlo, visto che ha fatto ben più del dovuto.»
«Ma davvero?» Mi accigliai, e non lo feci volontariamente. Era
semplicemente un classico cipiglio, nato interamente da quanto
aveva appena detto. «Definisci più del dovuto.»
«Beh, questa è la cosa buffa. È stato un vero gentiluomo, anche
quando Jackson ha attaccato bottone.»
«Alla jam session, dici?»
«No. Intendo al The Front Porch. C’era Jackson, al ristorante, ed è
venuto al nostro tavolo mentre Billy era nel bagno degli uomini.»
Il mio cipiglio si fece più marcato. Di sua spontanea volontà.
Senza consultarmi.
«Cosa?» La domanda mi uscì molto più severa di quanto volessi.
«Cletus...» Gli occhi di Jennifer erano spalancati per un’emozione
che non riuscivo bene a decifrare, lei si stava tormentando le dita.
Nel frattempo il mio cuore batteva a ritmo erratico. Di sua
spontanea volontà. Anche lui senza consultarmi.
«Che c’è?» Mi avvicinai a lei di un passo e le misi una mano sul
braccio, sentivo il bisogno di toccarla per ragioni che mi erano
incomprensibili.
«Cletus, Jackson mi ha chiesto di uscire con lui.»
Io fissai lei e le sue parole, senza afferrarne il significato. «Cosa
intendi? Uscire dove?»
Lei inspirò a fondo, i suoi bellissimi occhi cercarono i miei, la sua
espressione era stranamente circospetta e disse, liberando il fiato:
«Mi ha chiesto di uscire con lui per un appuntamento.»
La mia anima è un’orchestra occulta; non so quali strumenti suonano e
stridono dentro di me, corde, arpe, timpani e tamburi. Mi conosco solo come
sinfonia.
- Fernando Pessoa – Il libro dell’inquietudine

Ero in anticipo.
L’appuntamento per la nostra lezione del lunedì era alle 21:30.
Erano le 21:17.
Tamburellai sul volante della mia macchina e fissai la porta sul
retro della pasticceria, discutendo le mie opzioni.
Sabato, dopo che Jennifer aveva fatto esplodere la bomba
Jackson James, sua madre si era messa a urlare richiamandola
all’interno della pasticceria. Non avevamo avuto occasione di
terminare la conversazione perché Jennifer mi aveva abbandonato
al margine del parcheggio mentre tornava in cucina con una corsetta
veloce sui suoi tacchi alti.
Ero stato ossessionato e distratto da allora.
Assistere in prima persona al controllo di Jennifer sulla cucina era
stata una visione spettacolare. Continuavo a pensare quanto fossi
fiero di lei, ma poi scacciai il pensiero. Non avevo diritto di essere
fiero di lei. Non potevo prendermi il merito, né indirettamente né in
altro modo, del suo successo e delle sue abilità. Lei ne aveva il
merito. Speravo solo che fosse fiera di sé. E poi c’era la
questioncina di Jackson James e delle sue intenzioni. Il mio intuito
mi diceva che le sue intenzioni non erano candide.
Eppure…
I miei occhi scattarono al cruscotto. Erano le 21:28. Altri due
minuti.
Non spettava a me decidere cosa fare riguardo a Jackson. Io
avevo accettato il compito di aiutare Jennifer a trovare la sua spina
dorsale affinché potesse usarla in ogni aspetto della sua vita e quello
era ancora il mio piano. Nonostante lei chiaramente la usasse già,
nella sua cucina. Con disinvoltura.
Eppure…
La porta sul retro si aprì e Jennifer sporse la testa. Esaminava il
parcheggio alla ricerca della mia auto. Io vidi il momento esatto in cui
la individuò. Uscì completamente dalla cucina e mi fece cenno di
raggiungerla. Io uscii dalla macchina e mi avviai a passo misurato
dove stava lei, sforzandomi di celare il mio conflitto interiore.
«Entra» sussurrò, mentre mi avvicinavo. «Ti ho fatto dei bignè alla
crema. E la torta per Billy è pronta. Ti spiace portargliela?»
«Nessun problema.»
Jennifer si spostò di lato, mantenendo tra noi molta distanza e poi
chiuse la porta. Faceva freddo e io indossavo la mia giacca. Lei mi
girò attorno e andò ai fornelli. Notai che indossava delle pantofole
sotto il suo vestito giallo, i suoi capelli erano raccolti in una crocchia
e si era ripulita il volto dalla maschera di trucco.
Pensai che forse avrebbe avuto quell’aspetto, a casa, dopo il
lavoro, con il marito che desiderava tanto disperatamente. Iniziavo a
rendermi conto che, chiunque fosse stato, sarebbe stato un uomo
molto fortunato.
«Vuoi qualcosa da bere? Oggi fa freddo. Posso fare del tè.»
L’acqua bolliva, o aveva appena finito di bollire, in un bollitore bianco
e blu.
«Un tè non sarebbe male.»
Lei mi rivolse un sorriso amichevole e poi andò a riempire di
acqua calda le due tazze che aveva preparato. La studiai. Sembrava
a suo agio, il che era un grande cambiamento rispetto ad appena
due settimane prima. Il suo smalto era ora di colore blu e al posto
del filo di perle indossava una fine collana d’oro con un crocifisso.
«So che probabilmente sarai stato troppo occupato per pensare al
mio problema, ma mi piacerebbe avere il tuo parere» disse,
mescolando il tè.
«E quale sarebbe questo problema?» Presumevo che intendesse
Jackson James, ma non riuscii proprio a pronunciare il suo nome.
Quel tipo… era una merdina. Più pensavo al suo approccio con
Jennifer durante l’appuntamento con Billy più volevo ingigantire i
miei piani di infestazione con armadilli. O forse volevo solo pestarlo
fino a fargli sputare l’anima. Certo, il suo appuntamento con Billy era
fasullo, ma Jackson era all’oscuro di questo fatto.
Conseguentemente, era una merda.
La giacca mi faceva sentire troppo accaldato, per cui la sbottonai
e la posai sul bancone, poi mi impadronii di uno sgabello e appoggiai
gli avambracci su un tagliere.
«Immagino tu abbia ragione.» Jennifer annuì, chiaramente aveva
letto nella mia domanda più di quanto intendessi. «Non è un vero
problema. È più un mio desiderio.»
Mi dovetti schiarire la gola, mi si era stretta in modo imprevisto.
«Desideravi uscire insieme a Jackson James?»
Jennifer appoggiò il fianco al bancone e scrollò le spalle. «Non
necessariamente Jackson, ma credo che possa fare al caso mio. So
che mio padre lo approva. La sua famiglia è molto carina e mi è
sempre sembrato un gentiluomo.»
Nonostante mi fossi tolto la giacca, mi sentivo ancora bruciare il
collo. Mi ero improvvisamente e profondamente… innervosito. Decisi
di tenere per me quel nervosismo, in parte perché non lo capivo e in
parte perché Jennifer non ne era la causa. Il nervosismo
semplicemente era lì.
Lei non notò la mia difficoltà, teneva gli occhi abbassati sulla sua
tazza quando disse: «Credo...» Iniziò, sospirò, poi iniziò di nuovo.
«Credo di non sapere se sia una buona idea.»
A quelle parole, il mio nervosismo scemò quanto bastava per
riuscire a dire: «Non devi andare. Se non ti senti ancora pronta, o ti
senti impreparata, annullalo e basta».
«No, ho un buon presentimento per l’appuntamento, cioè sono
pronta, Billy mi ha dato un sacco di consigli.»
Il mio nervosismo montò nuovamente, come un’onda. «Che
genere di consigli?»
«Cose di cui parlare e cose di cui non parlare. Mi è stato molto
d’aiuto, per cui grazie per aver organizzato l’appuntamento.»
«Nessun problema.» Più tardi, avrei dovuto tentare di cavare
queste informazioni a Billy, fino a quel momento era rimasto con le
labbra cucite, con mia grande frustrazione. «Allora perché hai dei
dubbi sull’uscire insieme a Jackson?»
Gli occhi di Jennifer scattarono nei miei, poi si allontanarono.
Infine, chiese: «E se volesse baciarmi, Cletus?»
Io risposi con la verità prima di potermi fermare. «È sicuro che
vorrà baciarti, Jenn.»
«Questo è un problema.» I suoi occhi si spalancarono fino al loro
massimo diametro e lei strinse le mani intorno la sua tazza.
«Perché questo sarebbe un problema, oltre per l’ovvia disgrazia
dell’essere costretti a baciare Jackson James?»
Lei ignorò il mio insulto e rispose solo al succo della mia
domanda. «È un problema perché ho ventidue anni e non so come
farlo.»
«Baciare?»
«Già.»
La fissai. Poi il mio sguardo si abbassò e fissai le sue labbra.
«Non sei mai stata baciata?»
«No. Non per davvero, intendo. Timothy King provò a baciarmi,
una volta, ma io non volevo. Mi mise la bocca sul mento prima che
riuscissi a togliermelo di dosso.»
Nota: menomare Timothy King.
«E poi c’è stata la volta in cui ho teso l’imboscata a Drew, ma,
come ho detto, è stato uno scontro di labbra. Non un vero bacio. È
stato terribile al punto che mi sono chiesta spesso se non debba
mandargli una lettera di scuse.»
«Non serve.» Scacciai con la mano il suo suggerimento.
«Voglio dire, sono certa di riuscirci, eventualmente. Quanto mai
sarà difficile?»
Riflettei sul suo problema, perché era un problema. Ancora una
volta, mi aveva colto alla sprovvista. Sapevo che i suoi genitori erano
stati protettivi con lei, ma chiaramente non avevo capito quanto
scrupolosamente l’avessero isolata. Quella donna aveva bisogno di
un bacio.
Ma prima, aveva bisogno di apprendere tutto sul bacio.
«Dunque, da un punto di vista accademico, non è difficile baciare
una persona. Come non è difficile preparare una torta. Ma è difficile
preparare una torta eccellente, giusto? Lo stesso vale per baciarsi.
Le chance di preparare una torta eccellente al primo tentativo
sono...»
«Praticamente zero.»
«Vero. Ma, pur apprezzando il tuo realismo, permettimi di
suggerire di propendere per l’ottimismo. Perché baciare è molto più
che una tecnica. Baciare riguarda anche la chimica che hai con
un’altra persona, come pure la tecnica di lui o di lei. Dunque la
differenza tra baciare e preparare una torta è che ci sono due
persone coinvolte, il che rende il tutto più e meno complicato.»
«Come lo rende più complicato?» Mi passò la mia tazza di tè e poi
bevve un sorso dalla sua.
«Se dovessi cucinare con un partner, dovresti affidarti a quel
partner e sperare che lui o lei sia altrettanto - o più bravo - di te.
Inoltre, dovresti sperare che tra voi due ci sia una buona chimica.
Inoltre, e non lo sottolineerò mai abbastanza, quell’altra persona
deve mantenere la cucina pulita.»
«La cucina pulita?»
«Sì. Se quello che cerchi è un partner che cucini con te per tutta la
vita, devi evitare un pasticciere che cucina con tutti senza distinzioni.
E se decidi di scegliere un pasticciere che cucinava con i partner
senza fare distinzioni, e poi è cambiato, devi assicurarti che faccia
ispezionare a fondo la sua cucina dall’ufficio d’igiene.»
Le sue sopracciglia scure si inarcarono sopra i suoi occhi violetti,
adombrati dalla preoccupazione. «E allora perché sarebbe meno
complicato?»
«Se tu e il tuo partner avete una grande chimica, allora la tecnica
conta meno.»
Lei rifletté sulla cosa per un po’ di tempo, sorseggiando il suo tè e
fissando senza vederlo il bancone tra noi.
Poi sospirò.
«Chiaramente, in questa situazione, io sono il pasticciere più
scarso. A tutti gli effetti, in questa analogia, sono una pasticciera che
non riesce nemmeno a fare un toast. Scendendo su un piano
pratico, immagino che la mia preoccupazione sia di incontrare
qualcuno con cui ho una magnifica chimica e poi rovinare
l’esecuzione, ovvero bruciare il toast.»
«Ma tu insegni alle persone a cucinare, giusto?»
«Sì.»
«Allora hai solo bisogno di imparare una tecnica adeguata del
bacio. Tutto qui.» Alzai le spalle, sperando di trasmetterle l’idea che
non fosse un gran problema. «Non appena avrai fiducia nella tua
tecnica, allora potrai scoprire se c’è chimica.»
«Da come ne parli, sembra che basti cercare negli annunci sul
giornale un insegnante di tecniche di bacio. Le persone normali
come lo fanno? Come fanno le persone normali a imparare a baciare
senza far scappare a gambe levate i bravi baciatori?»
«La maggior parte delle persone lo impara al liceo. Nessuno sa
come baciare al liceo, per cui lì non si trovano che variazioni di baci
sgradevoli o troppo bagnati. Bisogna procedere con parecchi
tentatavi, baciando male, capire cosa funziona e cosa no.»
«Ma vedi, io mi sono persa tutto questo...» Scosse la testa,
evidentemente frustrata. «Sai, fino all’anno scorso non avevo mai
desiderato di essere andata al liceo. Quando a quattordici anni i miei
genitori mi dissero che mi avrebbero continuato a educare a casa,
mi sentii sollevata.»
«Perché?»
«Allora avevo tre amici di penna che frequentavano già il liceo e
dalle loro descrizioni sembrava il sesto girone dell’inferno dantesco.»
La sua descrizione mi fece sorridere. «Può essere così.»
«Ma adesso, ripensandoci, vorrei essere andata al liceo. Vorrei
aver vissuto l’esperienza degli anni di liceo in modo tradizionale, con
tutte le torture che lo accompagnano. Se ci fossi passata, ora non
sarei così stupida. Mi sento come se fossi limitata dalla mia
mancanza di esperienza.»
«Non credo che la tua valutazione sia corretta. In questo caso,
quando si tratta di relazioni interpersonali, non credo che sia
necessariamente un fattore negativo essere inesperti, come non è
negativo essere esperti.»
La sua bocca si strinse in una linea dubbiosa. «Mi riesce difficile
crederlo.»
Io le rivolsi un sorrisone perché, ancora una volta, aveva un’aria
proprio carina. «È vero. Se non ti dispiace ascoltare un’altra
analogia, trovare un compagno è come suonare uno strumento.
Potrei suonare il banjo per anni, e poi rinunciarci per iniziare a
suonare il fagotto. Bene, io non so suonare il fagotto, per cui
sarebbe come ricominciare tutto da capo. Con ogni strumento è
come ricominciare tutto da capo. Nessuno ha tutte le risposte, per
quanta esperienza possa aver avuto in passato.»
Jennifer posò la tazza sul bancone con un tonfo. «Ma,
continuando con la tua analogia, se tu suonavi il banjo, almeno
saprai leggere la musica. Sai cosa significano le note. Io sono come
una persona che, pur non avendo mai sentito una sola canzone,
decide all’improvviso di voler diventare una pianista solista.»
Rimasi in silenzio, perché la sua obiezione era legittima.
«E tu, invece?» chiese, appoggiando le mani sui fianchi.
«E io cosa?» Mi raddrizzai allontanandomi dal bancone,
preparandomi a qualsiasi domanda inaspettata avesse in serbo per
me.
«Cosa cerchi tu? In un partner? Quale livello di esperienza
cerchi?»
«In via ideale, per questioni di efficienza...» Esitai, perché lei mi
guardava come se la mia risposta nascondesse la chiave per il suo
successo futuro, e fosse rivelatoria sugli uomini della mia età.
Considerai se mentire, per farla sentire meglio e migliorare la sua
fiducia in se stessa, ma poi decisi di no. Io preferivo l’esperienza, e
la mia preferenza era indicativa per la maggior parte degli uomini
(quelli che io consideravo normali) della mia età; e per normali,
intendevo uomini senza complessi verso il loro padre, complessi di
superiorità o di onnipotenza. Non conoscevo nessuno che avesse la
mia età o più che cercasse una vergine ingenua e timida da istruire,
a meno che non fossero essi stessi dei vergini ingenui e timidi. Non
che avessi qualcosa contro le persone vergini, ingenue e timide.
Solo che non volevo farci sesso.
Perché il sesso con una donna senza esperienza era
innegabilmente sesso alla vaniglia. Non mi piaceva molto la vaniglia,
o il missionario, o farlo con le luci spente. Non volevo una donna
reticente con il suo corpo, che cercasse di nasconderlo tra lenzuola
e oscurità.
Mi piacevano gusti saporiti e stanze ben illuminate, dove potevo
ammirare tutto quello che rendeva le forme di una donna diverse da
quelle dell’uomo. Mi piaceva variare di posizione, mi piaceva una
donna che avesse energie, che sapesse come usare il mio corpo per
procurare piacere al suo e si approcciasse al sesso con entusiasmo
e non con apprensione.
Volevo una donna che sapesse che le piaceva il sesso, non una
che non aveva ancora deciso per mancanza di esperienza.
Per cui, sì, presi in considerazione l’idea di mentire. Ma poi decisi
di non farlo. Non volevo che ci fossero bugie tra me e Jenn, se
potevo farne a meno. Però addolcii il mio tono di voce. «In via ideale,
io vorrei qualcuno che abbia, se fosse possibile, un discreto livello di
esperienza.»
Il suo volto si rattristò, Jennifer abbassò lo sguardo sul pavimento
di legno.
Una fitta di rimorso che partiva dal mio petto mi strinse la gola.
«Jenn...»
«No. Va bene. Immagino che, in via ideale, vorrei anch’io la stessa
cosa. Non voglio stare con qualcuno che cerca da me istruzioni. Io
non so cosa fare, per cui immagino che mi piacerebbe avere
qualcuno a cui non dispiaccia insegnarmi.»
Senza invito, nella mia mente apparve un lampo di come sarebbe
stato insegnarle. Jennifer Sylvester priva dei suoi vestiti, che mi
guardava fiduciosa. Le mie mani intorno alla sua vita, sui suoi
fianchi, le cosce, mentre scendevo lungo il suo corpo soffice, caldo,
arrendevole, coprendolo di baci… Quel lampo di immaginazione
spinse il mio corpo a una reazione ugualmente improvvisa e
violenta. Una reazione che mi privò di quasi tutta l’aria nei polmoni e
mi lasciò con una scomoda rigidità nei pantaloni, in particolare
perché le immagini non si limitarono a quella.
Come sarebbe stato quando lei avrebbe avuto un po’ di
esperienza? Quando lei avrebbe chiesto di fare quello che le
piaceva? Quando avrebbe sussurrato una richiesta nel mio orecchio
durante una pausa della jam session e saremmo scappati in qualche
posto lontano da occhi indiscreti? Quando mi avrebbe guardato
sicura di sé e consapevole delle sue voglie?
Dovrò comprarmi una macchina più grande. E una scrivania. Mi
piacerebbe farla mia su una scrivania.
«Cletus?»
Mi riscossi, tornando al presente e realizzando, con un certo
disappunto, che avevamo ancora i vestiti addosso e non c’era una
sola scrivania in vista. Ma c’è un bancone da cucina.
«Scusa?» chiesi, lottando freneticamente contro quel fiume di
immagini seduttive.
Lei mi guardò accigliandosi e, involontariamente, i miei occhi
scattarono al suo petto. Come una carogna.
Dannazione. Mi coprii il volto con le mani e mi strofinai gli occhi.
«Stai bene?»
Annuii e stilai una lista mentale. Stilai una lista mentale di tutte le
faccende decisamente non sexy che c’erano da fare a casa, tra cui
pulire il pollaio, affilare i coltelli nel capanno e tagliare la legna, ma
non solo. Dovevo decisamente tagliare della legna dura. Senza
dubbio. Nonostante Jethro avesse tagliato tutta la nostra legna
quando era in rotta con Sienna. E prima ancora, Billy aveva tagliato
una pila di legna quando era in rotta con Claire. ...Claire!
«Claire!» Allontanai le mani dal volto e schioccai le dita.
«Claire? Parli di Claire McClure?»
«Sì. Claire McClure. Dovresti parlare di queste cose con lei. È
molto sveglia. Ed è una donna.»
Gli occhi di Jenn scesero alla sua tazza ormai vuota e si appoggiò
sul bancone coi gomiti, un po’ come avevo fatto io poco prima.
«Pensi che a lei non dispiacerebbe parlare di queste cose? Non mi
conosce nemmeno.»
Afferrai la mia giacca, dovevo andarmene subito.
Subito.
I primi bottoni del suo vestito erano slacciati, il che voleva dire che
l’orlo in cima al suo reggiseno di pizzo era visibile. Era rosso.
Il suo reggiseno era di pizzo rosso. Se avessi dovuto fare
un’ipotesi plausibile, anche le sue mutandine avrebbero dovuto
essere di pizzo rosso. Avevo cominciato ufficialmente a
ossessionarmi. Dovevo andarmene prima che cercassi di
confermare la mia ipotesi.
Per cui annunciai: «Me ne vado». E mi misi la giacca.
Jennifer mi guardò sorpresa. «Te ne vai? Adesso?»
«Esatto.» Cercai goffamente la cerniera. Grazie a Dio domani era
martedì. Martedì mattina il bagno al piano di sopra toccava a me e
ne avrei avuto bisogno.
«Oh.» Si accigliò per la confusione, mentre i suoi occhi
percorrevano il mio corpo. «I bignè alla crema e la torta sono già
pronti nelle scatole. Aspetta, li prendo.»
Annuii, mentre il calore mi saliva dal colletto della camicia.
«Uhm, ci vediamo alla jam session venerdì?» chiese lei, mentre si
piegava nel frigorifero per recuperare i dolci.
Io strappai lo sguardo dal suo fondoschiena e fissai fuori dalla
finestra della cucina, senza mettere niente a fuoco perché ero
tormentato dal pensiero di alzarle la gonna mentre era piegata e di
tutto ciò che ne sarebbe conseguito, incluso, ma non solo: passare
la punta delle dita su per le sue cosce lisce e nude, aprirle le gambe,
infilarle una mano sul davanti del vestito e abbassarle il reggiseno
mentre facevo scivolare l’altra nelle sue mutandine rosse di pizzo…
Già. Ecco a cosa pensavo. E, tra parentesi, ora capivo perché le
vestagliette fossero tanto popolari negli anni ‘50.
Era il caso di farsi una doccia fredda. E yoga. E poi un’altra doccia
fredda.
«Cletus?»
«Sì?» risposi a denti stretti, tentando di stilare un altro elenco di
faccende decisamente non sexy e fallendo miseramente.
«Verrai alla jam session?»
«No. Questa settimana no.» Avevo deciso in quel momento – in
quel preciso momento – di saltare la jam session.
«E venerdì prossimo?»
«No. Non posso. Vado a Nashville. Io e Claire abbiamo il talent
show.» Non potevo aspettare ancora. Schizzai verso la porta sul
retro e mi avviai a passo svelto verso la mia macchina.
Sentii i suoi passi dietro di me e il suono mi blocco di colpo.
L’avevo lasciata con le scatole da portare, ed era scortese. Mamma
mi aveva cresciuto come si deve, e così dovevo comportarmi, anche
se stavo soffrendo di un gonfiore genitale. Mi girai e le andai
incontro, poco oltre la porta della cucina, e presi le scatole.
«Grazie mille. Non era necessario prepararci dei regali.» Mantenni
lo sguardo sulle scatole.
«Nessun disturbo. È il minimo, dopo tutto quello che hai fatto. E
che stai facendo. Tra l’altro, ho qualche compito a casa?»
Compiti a casa. Dannazione.
«Sì. Compiti. Sì.» Annuii, cercando di ricordare cosa avessi
pianificato di darle come compito. Non ci riuscivo, per cui
improvvisai. «Devi parlare con Claire McClure di strumenti e di
cucinare con un partner.»
«Cioè dovrei farle delle domande sul sesso, intendi.»
Oh, per l’amor di… «Già.» Mi girai e scappai verso la mia
macchina.
«Allora mi mandi il suo numero? L’avviserai che la chiamerò?»
Jenn mi stava seguendo, martellandomi di domande. Io avevo
bisogno che mi lasciasse da solo, così avrei potuto smettere di
pensare a come insegnarle a darsi piacere da sola.
«Già.» Aprii il bagagliaio e posai le scatole della pasticceria
all’interno, poi superai Jennifer per arrivare alla portiera del
guidatore.
«Ok. Mi sembra che vada bene. Allora ci vediamo tra due
settimane.»
«Già» dissi, chiudendo la portiera e accendendo immediatamente
il motore.
Jennifer indugiava appena dietro il posto in cui avevo
parcheggiato, con le braccia conserte per proteggersi dal freddo.
Ingranai la retromarcia, ma non premetti sull’acceleratore. Non
potevo andarmene finché lei non fosse rientrata. E lei non si
muoveva.
Grugnendo di frustrazione, abbassai il finestrino. «Cosa fai? Si
gela qui fuori. Torna dentro.»
Lei avanzò strisciando le sue ciabatte, e si piegò all’altezza del
finestrino. Prima che realizzassi cosa stava succedendo, Jennifer
Sylvester posò una mano con la dolcezza di una piuma sulla mia
mascella e un dolce bacio sulla mia guancia. Finì tutto prima che
realizzassi che era successo.
Rivolgendomi un sorriso trionfante, poi si allontanò dalla
macchina. Io la guardai e lei ricambiò il mio sguardo, senza mai
smettere di sorridere. Poi si girò e corse di nuovo verso la porta sul
retro. Entrò. Chiuse la porta.
Non so per quanto rimasi a fissare la porta sul retro della cucina,
ma quando infine guardai l’orologio sul cruscotto erano le 22:46.
Avevo ancora bisogno di una doccia fredda, ma decisi di saltarla.
Tale decisione non aveva assolutamente nulla a che fare con il
fatto che potevo ancora sentire la gentile, calda carezza delle sue
dita sulla mia mascella o la pressione bruciante del suo bacio sulla
mia guancia.
Merda.
«Mettiamo le cose in chiaro: noi, gli introversi, odiamo il bla-bla non perché
non amiamo le persone ma a causa della barriera che erigiamo tra le
persone.»
- Laurie Helgoe, Il potere dell’introverso

Era passata più di una settimana e non avevo avuto notizie da


Cletus.
Cercai di non sentirmi delusa e per lo più ci riuscii. Non eravamo
amici. Io forse avevo iniziato a provare dell’affetto per lui e a godermi
il tempo passato insieme, ma non potevo permettermi di dimenticare
che stavo, a tutti gli effetti, ricattando quell’uomo. La sola ragione per
cui mi parlava era quel video. Una volta soddisfatto il nostro accordo,
lui con ogni probabilità mi avrebbe evitata. Sarei tornata a essere
invisibile. E a me stava bene. Dovevo solo prepararmi a quel futuro
rifiuto.
Ero brava a gestire i rifiuti. Non era un gran problema.
Pertanto la mia decisione di andare a cercarlo, dieci giorni dopo la
nostra ultima lezione, non aveva alcun senso, razionalmente.
«Cosa stai facendo, Jennifer Sylvester?» mi chiesi ad alta voce
mentre entravo nel parcheggio dell’Officina Fratelli Winston. «È
ovvio che sei diventata completamente matta.»
Ero proprio diventata completamente matta. Lo stavo ricattando
perché mi aiutasse a trovare un marito. Però, negli ultimi tempi,
quando pensavo a lui, quando ripensavo ai nostri momenti rubati
insieme e il cuore mi si faceva troppo pieno per il mio petto, una
parte di me, chiaramente la parte di me a cui mancavano parecchie
rotelle, si chiedeva se non avessi dovuto semplicemente ricattarlo e
costringerlo invece a sposarmi.
Capite? Ero proprio diventata matta. Lo ero diventata nell’istante
in cui mi ero fatta avanti, mi ero piegata dentro la sua macchina e gli
avevo dato quel bacio sulla guancia, dieci giorni prima.
Ma lui era così… Sospirai e guardai nello specchietto retrovisore,
con il petto che mi doleva mentre osservavo ombre e sagome in
movimento all’interno del garage dell’officina. Poi i miei occhi si
incollarono sulle mie dita avvolte al volante, e sulle mie unghie.
Erano dipinte di nero. Sì. Di nero. Mi ero messa lo smalto nero.
Avevo anche smesso di indossare il vestito giallo durante il giorno,
perché preferivo preparare dolci in jeans, maglietta e Converse. E
avevo preso appuntamento con il mio parrucchiere per metà
novembre. Non sapevo ancora cosa avrei fatto con i miei capelli, ma
sapevo che avrei cambiato qualcosa.
Mia madre non era contenta. Nelle ultime settimane molte mani
erano state tormentate e molte lamentele erano state levate. Ma
ogni volta che lei aveva fatto una scenata, io avevo risposto al suo
isterismo con calme rassicurazioni che avrei ancora indossato il
vestito giallo e i tacchi agli eventi speciali e quando sarebbe stato
necessario scattare foto per i social media. Quello che indossavo nel
tempo libero non importava.
Ciononostante, lei mi guardava con la stessa espressione di
qualcuno che aveva un’indigestione ogni volta che mi vedeva senza
il mio trucco al completo, o con dei jeans, o con i capelli raccolti in
una coda. A volte la sentivo mormorare la parola contadina.
Anche mio padre sembrava rimasto senza parole. Da una parte,
non avevo smentito la sua supposizione che io e Billy Winston
stessimo continuando a uscire insieme. “Billy Winston” sembrava
essere la formula magica; niente di quanto facevo poteva essere la
cosa sbagliata fintanto che io e Billy eravamo una potenziale coppia,
perché: «A Billy piace quando mi pettino così,» oppure, «A Billy
piacciono queste scarpe».
Dall’altra parte, ultimamente incoraggiava mia madre in maniera
automatica. Non era mai stato bravo a dirle di no, per cui le ultime
settimane non erano state molto gradevoli. Inoltre, di recente, ogni
volta che faceva un commento sulla mia intelligenza, io uscivo dalla
stanza. Non provavo più a tradurre i suoi commenti in complimenti o
a giustificarlo in qualche modo. Semplicemente mi alzavo e me ne
andavo.
In quel momento mi chiedevo se non dovessi allontanarmi
dall’officina, e ripartire in auto senza entrare, perché non avevo un
vero e proprio piano. Avevo inventato una nuova ricetta, muffin
pancake al mirtillo, cioè, in pratica, dei muffin che sapevano di
pancake al mirtillo. D’impulso, avevo pensato che, dal momento che
a Cletus era piaciuto il mio esperimento con la torta salata alla zucca
violina, avrebbe apprezzato essere il primo assaggiatore dei muffin.
Insomma, per riassumere, non avevo alcun piano. Solo un
impulso.
Un movimento nello specchietto retrovisore attirò la mia attenzione
e tornai a guardare il suo riflesso. Beau Winston era diretto verso la
mia macchina, con un sorriso canzonatorio sul suo volto attraente, la
tuta da meccanico sporca aperta fino ai fianchi a mettere in mostra
la maglietta bianca immacolata al di sotto.
Sorpresa, presi fiato per prepararmi e afferrai il piatto dei muffin.
Era come uno scudo.
Uscii dalla macchina.
«Ehi, Jenn» mi salutò con un sorriso amichevole, mentre il suo
sguardo si dirigeva verso il piatto nella mia mano, scendeva fino alle
mie scarpe, risaliva fino ai miei capelli, legati in una coda, e poi
tornava nei miei occhi. «Hai problemi con la macchina?»
«Ciao, Beau.» Mi schiarii la gola, avevo la voce stridula per il
nervosismo. «No. Nessun problema con la macchina. Stavo
passando di qui e ho pensato di portare a voi ragazzi qualche
muffin.»
I suoi occhi azzurri, che erano già chiari e brillanti come un cielo
estivo, si illuminarono ancora di più. «Cosa hai portato?»
Parte del mio nervosismo si dissolse, era bello costatare che i
dolci erano sempre i benvenuti. «Uhm, una nuova ricetta che sto
testando. Sono muffin pancake al mirtillo.»
Lui rise piano. «Sono per Cletus, vero?»
«No, no. Sono per tutti voi.»
Lui socchiuse le palpebre, con aria sospetta. «I pancake al mirtillo
sono i suoi preferiti.»
«Davvero?»
Il dubbio nel suo sguardo si attenuò. «Non lo sapevi?»
«No. Non ne avevo idea.» Ma lo annotai in mente.
«Uh. Ok.» Lo sguardo di Beau mi percorse un’altra volta, come se
trovasse che io ero una curiosità – e non in senso negativo – e poi si
girò facendomi segno di seguirlo. «Entra. Sto quasi per finire.
Preparo del caffè e parliamo per un po’.»
«Oh, mi piacerebbe.» Ero sorpresa del suo invito. Non avevo mai
veramente parlato con Beau Winston, ma mi ero fatta un’idea di lui
nell’osservare le persone, era sempre immancabilmente cordiale e
aveva un certo successo con le donne.
Lui lanciò un’occhiata da sopra la spalla e rallentò, in modo da
camminare di fianco a me. «Aspetta di provare il mio caffè.
Difficilmente farà giustizia ai tuoi muffin.»
«Non farti troppe aspettative. Potrebbero sapere di piedi» lo
avvertii.
Lui scoppiò in una risata roca, mentre mi guardava i suoi occhi
scintillarono di autentico calore. «Dubito davvero che qualunque
cosa fatta con le tue mani possa...»
«A che punto siamo con la Ford Expedition? Hai finito con il
radiatore?» Una voce femminile, velata da un accento yankee, lo
interruppe non appena mettemmo piede nel garage.
Non mancai di notare come Beau si fosse irrigidito accanto a me,
nonostante stessi cercando la proprietaria della voce.
La individuai quasi all’istante. Difficilmente avrei potuto non
notarla, a meno di un metro di distanza da me. I suoi occhi furono la
prima cosa che attirò la mia attenzione. Sembravano rilucere ed
erano di un vibrante celeste scuro come non l’avevo mai visto, come
zaffiri. Tutto il resto in lei era ugualmente impressionante. Era alta.
Alta davvero, voglio dire, un metro e ottanta o più, aveva un fisico da
top model in salute. Non portava trucco, ma aveva una pelle
perfetta, labbra carnose e zigomi alti in modo impossibile. Aveva uno
di quei visi dalle proporzioni perfette, il genere di viso di cui si legge
sulle riviste, quando definiscono la vera bellezza.
I suoi capelli, tra il biondo e il castano, erano raccolti in una
spessa treccia lungo la sua schiena. Quella acconciatura austera
faceva soltanto risaltare l’impressionante splendore del suo volto. In
tuta da meccanico, era splendida. In effetti sembrava fosse appena
uscita da un set fotografico di moda nonostante fosse coperta di
grasso. Non riuscivo a figurarmi che aspetto potesse avere con dei
vestiti normali.
Lo sguardo della donna mi squadrò con disinteresse. Non avevo
alcuna idea di che età potesse avere. Nonostante non avesse rughe
visibili in volto, i suoi tratti fossero maturi e i suoi occhi trasudassero
una consapevolezza che avevo scorto solo nelle persone di una
certa età.
«Shelly.» Il tono tagliente di Beau mi strappò dal mio esame
inebetito. «Lei è Jennifer Sylvester. Avrai sentito parlare della sua
torta alla banana. Jennifer...» La sua allegria di poco fa era
completamente svanita, sostituita da un cipiglio severo e chiuso.
«Lei è Shelly Sullivan. È arrivata da poco in città e lavora qui.»
Io tesi la mano verso Shelly. «Piacere di conoscerti.»
Lei guardò la mia mano tesa, poi me. Strinse la mascella e
incrociò le braccia. «È un piacere anche per me.»
Il tono della sua voce era piatto e frustrato, fu subito chiaro che
non mi avrebbe stretto la mano. La lasciai cadere, confusa e
imbarazzata. Mi chiesi cosa avesse sentito di me, se qualcuno le
avesse riferito voci denigratorie. O forse non le piacevo per via di
tutto il personaggio della Regina della torta alla banana.
«Non prendertela a male.» Beau mi rivolse un sorrisetto
rassicurante. Il calore abbandonò nuovamente il suo voltò non
appena posò gli occhi su Shelly. «Lei non stringe la mano a
nessuno.»
Shelly abbassò gli occhi sul pavimento di cemento per un breve
istante ed ebbi la sensazione che lei fosse imbarazzata quanto lo
ero io, se non di più. Ma poi, lo sguardo che alzò su Beau era
traboccante di sfida fino all’orlo. Lui sostenne la sua occhiataccia e
la ricambiò anche.
Nel frattempo io rimasi lì in piedi, bloccata tra di loro che si
fissavano in cagnesco. Quando la tensione arrivò al punto di essere
insopportabile per me, mi affannai a riempirla con le parole. «Si sta
ambientando bene, signorina Sullivan?»
I suoi occhi cobalto si spostarono nei miei e parte della sua rigidità
sparì. «Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire, cioè, come vanno le cose? Com’è casa sua? Serve
qualcosa? I suoi vicini sono simpatici?»
Lei mi studiò per un lungo istante, come se fossi un essere
interessante. Mi ricordava moltissimo un regale uccello predatore,
non potei non paragonarla a un’aquila o un falco: fiera, bellissima,
chiaramente intelligente ed eppure distante e distaccata, per un
certo verso. Intoccabile.
Finalmente, appena prima che il silenzio si facesse insopportabile,
lei rispose. «La mia casa è soddisfacente. Mi servono delle presine,
continuo a usare strofinacci e mi sono scottata la mano tre volte.
Non ho conosciuto i miei vicini, per cui non so se sono simpatici.»
Io le rivolsi un gran sorriso, perché mi piaceva come aveva
risposto alle mie domande: diretta e senza artifici né moine.
«Forse dovresti fare uno sforzo» sputò Beau.
Io rimasi a bocca aperta, di fronte a lui e alla sua scortesia. Non
avevo mai visto né sentito Beau Winston essere scortese con
nessuno. Non sembrò notare il mio sguardo perché, nonostante le
sue parole successive furono rivolte a me, Beau mantenne gli occhi
incollati su Shelly. «Vado a preparare quel caffè.» E si allontanò.
Shelly lo seguì con lo sguardo finché lui non uscì dal garage e
scomparve nella luce del sole. Riportò poi gli occhi nei miei, ancora
una volta mi osservava come se fossi un essere interessante.
«Non gli piaccio» disse semplicemente, sembrava pensierosa
piuttosto che indispettita da questa osservazione.
L’ istinto radicato in me era di rassicurarla, di rispondere con
qualcosa del tipo: Oh, sono sicura che non sia così. Sono sicura che
tu gli piaci. Ma ebbi l’impressione che a Shelly Sullivan non
piacessero i finti convenevoli. E poi ero curiosa… «Perché pensi di
non piacergli?»
«Perché mi ha detto: “Tu non mi piaci”.» Un minuscolo sorriso
aleggiava nei suoi occhi da aquila e rimasi sorpresa quando le
brillarono, considerato l’argomento della discussione.
«E questo ti secca?» chiesi, prima di riuscire a fermarmi, poi
cercai di spiegare la mia curiosità. «Ci sono tantissime persone che
mi chiamano in mille modi brutti sui social media e la gente in città
dice che sono altezzosa. Oppure, dicono che sono una sempliciotta
quando pensano che io non li senta.»
«Non sei una sempliciotta.» Il suo cipiglio meditabondo tornò.
«Sono le persone che ti danno della sempliciotta a essere dei
sempliciotti. Dovresti mettere dell’olio di ricino nella glassa delle loro
torte alla banana e sigillare con una saldatrice i loro water.»
Io ridacchiai, perché con una glassa all’olio di ricino sarebbero
stati certamente necessari parecchi passaggi alla toilette. «Forse
potresti aiutarmi tu a saldare i loro water. Io non saprei nemmeno da
dove iniziare.»
Sul suo viso tutto a un tratto sbocciò un sorriso, e mi colse di
sorpresa: l’espressione sembrava talmente estranea su di lei che
ebbi l’impressione di star assistendo a un evento epocale, come
un’eclissi solare o il passaggio della cometa di Halley.
«Ho già saldato dei water.»
Il divertimento nelle sue parole e nel suo tono mi colse anch’esso
di sorpresa e mi spinse a sorridere. «Cos’altro hai saldato?»
«Qualunque cosa su cui riuscivo a mettere le mani. Una volta, a
mio fratello, ho saldato la portiera della...» Il suo sorriso iniziò a
spegnersi piano piano finché lei non apparve smarrita e sopraffatta.
Una scintilla di dolore intenso le lampeggiò dietro gli occhi prima che
riuscisse a nasconderla con successo con lesto stoicismo. Deglutì e
si infilò le mani in tasca. «Non voglio parlarne.»
«Ok. Non sei obbligata a farlo.»
Il suo sguardo percorse il mio volto. «Hai sette lentiggini scure sul
tuo volto.» Alzai un sopracciglio alla sua osservazione e
all’improvviso cambio di discorso. Aveva ragione. Ma non aveva
ancora finito. «Anche la tua camicia ha sette bottoni. La maggior
parte delle camicie da donna ha otto bottoni.»
Abbassai lo sguardo sulla mia camicia e poi lo rialzai su di lei.
«Perché la mia camicia ha solo sette bottoni?»
«La camicia che indossi ha solo sette bottoni perché è stata
specificamente cucita per una persona di bassa statura.»
«Hai ragione. L’ho presa tra le taglie ridotte.» Le sorrisi, perché la
sua osservazione e la deduzione che ne aveva tratto erano senza
scopo, ma anche stranamente fiche. «Sei un po’ come Sherlock
Holmes.»
«Semplicemente noto le cose, cose insignificanti, di solito quelle
che hanno a che fare con numeri o schemi che si ripetono.» Il suo
sguardo azzurro intenso scivolò su di me e lei strinse le labbra,
come se si stesse costringendo con la forza a non continuare.
Per cui io l’incoraggiai. «Che c’è? Qualcosa non va?»
«Mi dispiace di non averti stretto la mano» disse di getto, poi
sospirò, come se quelle parole le fossero costate.
«Non c’è problema.» Scacciai con un gesto della mano le sue
scuse, non erano necessarie, non volevo farne un affare di stato.
«All’inizio mi hai confuso, ma preferisco più parlarti che tenerti la
mano.»
Il suo sorriso fu più piccolo stavolta, ma mi colpì in maniera non
meno singolare.
Mi piaceva Shelly Sullivan. Era strana. Immaginai che il suo
genere di stranezza le rendesse difficile farsi degli amici; eppure, a
me sembrava una persona che valeva la pena di conoscere.
Pertanto, prima di poter riflettere bene e cambiare idea, suggerii:
«Dovremmo uscire insieme. Io e te. Andare da qualche parte e fare
qualcosa».
«Qualcosa come?» Sembrava diffidente.
«Non lo so.» Non lo sapevo. Non sapevo cosa facessero due
donne quando si incontravano oltre a sparlare, che era quello che
faceva mia mamma con le sue amiche, e non avevo nessun
interesse in quel genere di attività. Non avevo mai avuto una amica
in carne e ossa. Le mie uniche amiche erano di penna. Tranne
Cletus, ma lui non era davvero mio amico, visto che lo stavo
ricattando, e non era una donna.
Decisamente non era una donna.
«Potremmo fare del sapone» suggerii, senza un particolare
motivo.
Il suo sguardo si illuminò. «Sai come fare il sapone?»
«Sì. Lo faccio sempre, quando non devo preparare dolci.»
«Mi piacerebbe imparare a farlo. Mi piace il sapone.»
«Bene.» Feci un ampio sorriso, emozionata.
«Sì. Bene.» Anche lei mi rivolse un ampio sorriso in risposta, ma
era tinto di confusione, come se non riuscisse a credere a quanto
era appena successo.
«Lo faremo nella cucina della pasticceria. È un ambiente sterile,
deve essere così, è importante quando si fa il sapone.»
I suoi occhi si spalancarono ancora di più alla notizia. «È sterile?»
«Sì. Cioè, non sterile del tipo che è sigillata ermeticamente. Ma è
pulita in maniera professionale, da cima a fondo, ogni giorno.»
«Sembra fantastico.»
Ridacchiai. Il suo entusiasmo per lo stato di pulizia della mia
cucina era adorabile. Vedendo che aveva un debole per l’igiene,
aggiunsi: «E indosseremo guanti di lattice quando lo faremo».
«Quando farete cosa?» La voce di Cletus si intromise, e sia io che
Shelly voltammo la testa in direzione di quel suono.
Il mio cuore fece un piccolo patetico volteggio, slanciandosi verso
di lui e i miei occhi divorarono ogni dettaglio in vista di Cletus
Winston. Lo vedevo per la prima volta da oltre una settimana e lui…
lui mi era mancato, ecco. Mi erano mancate la sua compagnia e la
sua schiettezza. Mi erano mancate le sue buffe smorfie facciali e le
battute pronunciate con espressione assolutamente seria. Mi era
mancato il suo cenno d’assenso austero, perché era davvero bravo
a farlo e lo usava ogni volta che non sapeva cos’altro fare.
Piantai meglio i piedi per terra, mentre lui si avvicinava e il mio
cuore continuava a comportarsi in modo imprevedibile. Feci uno
sforzo per domare quel muscolo ribelle ricordandogli che io stavo
ricattando quell’uomo. Non eravamo amici. Io non gli piacevo. Mi
tollerava, e niente più.
Ma lui è così… «Ciao, Cletus» dissi, inspiegabilmente senza fiato.
Lui si fermò accanto a Shelly e mi concesse un affabile,
deludente: «Ciao». Gli occhi di Cletus mi percorsero brevemente con
quello che mi parve un intenzionale distacco e poi rivolse la sua
attenzione a Shelly. «Vuoi che ordini dei guanti per l’officina?»
Lei scosse la testa. «No. Te l’ho detto, il grasso non mi disturba. I
motori delle auto sono più puliti delle persone.»
«Triste ma vero.» Le rivolse un mezzo sorriso.
Il piccolo triste volteggio del mio cuore si sgonfiò e si trasformò in
una caduta a precipizio. Ma mi dipinsi un sorriso in volto, in questo
ero brava. Ero brava con le persone che ignoravano la mia
presenza.
Spinsi i muffin contro il petto di Cletus, incapace di alzare lo
sguardo oltre il suo mento. «Tieni. Questi sono per… la tua
famiglia.»
Con movimento automatico, le sue mani si alzarono al piatto e io
lo lasciai nella sua presa.
Senza aspettare una risposta, perché il cuore mi faceva male e mi
urlava di andarmene, rivolsi a Shelly un sorriso veloce e promisi: «Ci
vediamo presto». Poi mi girai e uscii in fretta dal garage.
Sei completamente impazzita. Hai perso la ragione. Cosa diavolo
ti aspettavi? No, davvero, cosa pensavi sarebbe successo? A lui non
importa un fico secco di te.
Ero appena fuori dall’officina, persa nella mia sequela di rimpianti,
quando sentii delle dita chiudersi attorno al mio braccio e farmi
voltare.
Spaventata, mi portai di scatto le mani al petto ed emisi un verso
di sorpresa. Era Beau. Mi lasciò immediatamente.
«Scusami, scusami. Non volevo spaventarti.»
«No.» Esalai una risata incerta e scossi la testa. «No, va tutto
bene. Non ti avevo visto, tutto qui.»
Lui mi rivolse un sorrisetto di scuse. «Shelly ti ha detto qualcosa?
Stai andando via per colpa sua?»
«Cosa? No! No, davvero. Lei è fantastica.»
Il suo sorriso vacillò, mentre il dubbio gli adombrava gli occhi.
«Davvero?»
Non ebbi occasione di rispondere perché Cletus emerse
dall’officina, tenendo ben stretto contro il petto il piatto che gli avevo
portato. Io feci istintivamente un passo all’indietro, pronta a
terminare la mia marcia verso la macchina e la mia fuga frettolosa.
«Fermati lì immediatamente!» chiamò, con la fronte aggrottata
dall’irritazione. Si mise spalla a spalla con Beau, e mi esaminò. Poi
esaminò Beau. Poi esaminò di nuovo me. «Beau,» passò il piatto al
fratello ma tenne gli occhi puntati su di me, «portali sul davanti e poi
chiudi. Saremo da voi tra un secondo.»
Lo sguardo di Beau si mosse sul profilo severo di Cletus, le
sopracciglia sollevate per la sorpresa, la sua attenzione balzava tra
me e lui. Alla fine, disse: «Certamente», mentre si voltava e si
avviava verso l’ufficio dell’officina.
Una volta che Beau fu sparito, Cletus si mise le mani sui fianchi.
«Tu hai qualcosa che non va.»
Io raddrizzai la schiena, sobbalzando alle sue parole. «Chiedo
scusa, ma questo è stato incredibilmente scortese.»
Lui sbatté le palpebre come se fosse confuso, gran parte
dell’irritazione si dissipò dai tratti del suo viso. Come se solo alla fine
avesse realizzato cosa avesse appena detto o, almeno, come le sue
parole erano parse, un verso di rimorso gli sfuggì dalla gola e gli si
corrugò il viso, sembrava frustrato da se stesso. «No. Hai frainteso
ciò che intendevo. Io… sono preoccupato. Sembri sconvolta. Cosa
c’è che non va?» La sua voce si addolcì e i suoi occhi cercarono i
miei. «Cos’è successo? E cosa posso fare per aiutarti?»
Incrociai le braccia perché il mio stupido cuore aveva ripreso a
volteggiare. Mi aveva colta alla sprovvista. Non ero per niente
preparata alla preoccupazione di Cletus Winston. «Niente. Non c’è
niente che non vada. Volevo solo portare dei muffin a tutti voi. Non
posso portare dei muffin a tutti voi?»
Lui mi stava esaminando di nuovo. «No. C’è qualcosa che non va.
È colpa di Jackson James? Devo menomarlo? Perché lo farò. Potrei
fargli venire la lebbra, sai. Gli armadilli sono dei portatori.»
La bocca mi si spalancò e un fiotto di risate ne uscì incontrollato.
«Cletus Winston, non farai niente del genere.»
«Vicesceriffo o no, basta solo che tu lo dica. Potrebbe migliorare il
suo aspetto, a dire il vero.»
«Sei terribile.» Risi, anche se lui era terribile e io mi sentivo
terribile per aver riso di uno scherzo tanto terribile. O almeno spero
sia uno scherzo.
Prima che potessi riflettere troppo sulla questione, Cletus annuì,
mi prese la mano e mi tirò verso l’ufficio sul davanti. «Così va
meglio. Preferisco molto di più i tuoi sorrisi veri. Quelli finti non si
addicono al tuo volto. Tra l’altro, mi piacciono le tue scarpe.»
Io incespicai, avevo problemi a stare al suo passo, sia delle sue
lunghe gambe che dei cambi di argomento. Lui aprì la porta e mi
guidò dentro, tenendo unite le nostre mani mentre chiudeva la porta
dietro di noi e la chiudeva a chiave.
«Shelly ha detto che chiude lei il garage» gridò a Beau, che stava
giusto posando tre tazze di caffè sul bancone. «Non vuole questi
muffin misteriosi e io non ho provato a farle cambiare la sua pessima
decisione.»
«Ce ne saranno di più per noi» concordò Beau con un sorrisetto.
«Esatto.»
Scossi la testa guardando i due fratelli. «Voi due dovete imparare
a condividere.»
Cletus portò lo sguardo su di me, i suoi occhi sfrecciarono dal mio
mento alla mia fronte, prima di spostarsi nei miei di occhi.
«Condividere è sopravvalutato.»
«Concordo» approvò Beau allegramente. «Chi vuole un po’ di
caffè?»
Cletus mi trascinò con sé fin davanti al bancone, dove c’era Beau,
in piedi dall’altra parte. Tirò il piatto di muffin e lo mise al centro. «È
decaffeinato? Non voglio rimanere sveglio tutta la notte.»
«È decaffeinato» confermò Beau, che già si riempiva la tazza.
«Jenn?» mi esortò Cletus, «ne vuoi un po’?»
«Sì, grazie.»
«Come prendi il caffè?» Beau mise sul bancone la zuccheriera.
«Va bene amaro.»
Beau e Cletus si scambiarono uno sguardo, poi entrambi mi
rivolsero un’identica espressione interrogativa.
«Non vuoi niente nel tuo caffè?» chiese Cletus.
«No. Sono circondata da cose dolci tutto il giorno. Il caffè mi piace
amaro.»
«Uh...» Beau mi studiò, come se avessi rivelato un particolare
importante su me stessa. Poi, dal nulla, dichiarò: «Jennifer Sylvester,
hai gli occhi più belli che abbia mai visto».
Io fissai Beau perplessa, ero combattuta tra il sentirmi lusingata e
dei sentimenti di frustrazione e delusione. Durante il mio
appuntamento con Billy, quando mi aveva chiamata “bellissima”
avevo provato emozioni simili. Come ogni persona normale,
apprezzavo i complimenti sulla mia apparenza esteriore, ma mi
apparivano anche come una conferma che mio padre avesse
ragione. Alle persone interessava solo il mio aspetto esteriore e il
mio volto e corpo determinavano il mio valore.
Cletus si irrigidì al mio fianco, ma non disse nulla. Quando gli
lanciai un’occhiata, la sua espressione era studiatamente neutra.
«Oh, grazie, Beau» dissi, cercando di concentrarmi sull’aspetto
positivo. Era stato un complimento molto carino, anche se era riferito
a qualcosa che in realtà non mi riguardava per davvero. Non avevo
alcun controllo sul colore e sulla forma dei miei occhi.
«No, grazie a te.» Il suo sorriso si andava allargando ed era sia
tenero che seducente. «Dovresti venire con noi sabato. Ti porto io.»
«Dove andate?»
«Cletus e Claire, durante l’estate si sono iscritti a un talent show e
sono arrivati in semifinale. È un concorso importante. Sabato c’è
l’ultimo round. Ci saranno etichette discografiche e tutto
l’armamentario.»
Io guardai attentamente Cletus. Mantenne la sua aria di risoluta
imperscrutabilità e bevve un bel sorso del suo caffè. Non riuscivo a
interpretare cosa pensasse Cletus sull’argomento e non volevo
oltrepassare il limite. «Ti ringrazio per l’invito, ma non voglio
disturbare.»
«Nessun disturbo.» Questa rassicurazione arrivò da Cletus, che la
accompagnò con un dolce sorriso. «Se desideri venire, allora
dovresti.»
«Bene» annuì Beau, sorridendomi contento. «Il nostro
appuntamento è fissato.»
«Non è un appuntamento» lo contraddisse Cletus, lanciando
un’occhiata accigliata a Beau.
Non sapevo se se ne fosse accorto, ma Cletus continuava a
stringermi la mano e la sua stretta si fece più decisa mentre
contraddiceva il fratello. Aveva intrecciato le nostre dita e teneva il
mio palmo premuto contro la sua coscia.
Le sue mani erano magnifiche, forti e belle. Una eccitante corrente
di energia mi percorse il braccio a quel contatto.
«Non tu, scemo. Io.» Beau storse il naso al fratello e prese un
muffin. «Jenn e io.»
«Tu e Jenn?» Cletus suonava e appariva perplesso.
«Esatto.» Beau parlò con un boccone di muffin in bocca, poi
gemette di piacere, guardandomi. «Cosa diavolo ci hai messo
dentro?» Masticò, finì il primo muffin in un altro morso e ne prese un
secondo. «Dopo che ci sposeremo, dovrai farli ogni giorno.»
Io gli scoccai un sorrisetto beffardo, perché i miei anni passati a
osservare le persone facevano si che sapessi come operava Beau.
Gli piaceva flirtare, senza vergogna alcuna.
«Frena il tuo zuccone, Beauford.» Cletus allontanò il piatto da
Beau, mentre la voce gli si alzava dall’irritazione. «Non mangiare
l’intero piatto, avido mutandone.»
«Ci sono almeno venti muffin, Cletus. Frena il tuo, di zuccone.»
«Non voglio che finiscano subito» ribatté.
«O semplicemente lei potrebbe farne altri. Perché, lascia che te lo
dica, Jenn, non ho mai assaggiato un muffin così buono.» Beau mi
riservò un sorriso rimarchevolmente attraente e ammiccante, un
sorriso che conoscevo molto bene: l’usava ogni volta che ci provava
con Darlene Simmons. La sua voce si era fatta roca di fosca
allusività.
Tuttavia, tristemente, la sua allusività – il vero significato dietro le
sue parole – da me non venne colta quasi per niente. Mi azzardai a
indovinare, ma decisi di controllare a casa in che senso un muffin
fosse un eufemismo per l’intimità.
«Ehi, ehi. Spegni quegli abbaglianti, Beauford Winston.» Cletus
schioccò le dita davanti al volto di Beau. «Jennifer non è una delle
tue prede femminili.»
Beau alzò un sopracciglio sprezzante verso Cletus, poi fece
scivolare di nuovo gli occhi verso di me, mentre il suo intero volto si
dipingeva di malizia. Fece un occhiolino. «Facevo solo un
complimento al suo muffin.»
«Ora basta.» Cletus prese il piatto di muffin, impartendo al fratello
minore una severa occhiataccia di disapprovazione, e si girò verso la
porta dell’ufficio, tirandomi dietro con sé dalle nostre mani giunte.
«Ehi! Dove andate?»
«Hai perso ogni diritto a questi muffin.»
«Cletus!» il grido di Beau trasudava frustrazione strozzata. «Non
puoi mangiarti tutti i muffin!»
«Posso e lo farò» rispose lui da sopra la spalla, poi indicò la
serratura con il mento. «Jenn, aprila per me, per favore.»
Confusa, ubbidii e lui spalancò la porta con il gomito.
«Quando torni a casa, io e te dobbiamo parlare.» La rabbia si era
insinuata nel tono di Beau e questa comparsa inaspettata mi spinse
a girarmi verso il fratello di Cletus. Il suo sguardo solitamente
amichevole era indurito dalla furia. Cletus esitò, un profondo solco gli
affiorò tra le sopracciglia e poi si voltò per guardare male il fratello.
«Beauford Fitzgerald Winston, non so cosa ti sia preso, ultimamente.
Ma devi trovare un modo per risolvere la cosa. Ti concedo un
mese.»
Detto quello, Cletus ci condusse fuori dall’ufficio e lasciò lì suo
fratello, a cuocere nel suo brodo.
“Ci ostiniamo a mostrare soltanto la rosa sontuosa, evitando accuratamente di
far vedere lo stelo spinoso che ci ferisce e ci fa sanguinare.
- Paulo Coelho, Adulterio

Cletus e io passammo venti lunghi minuti in totale silenzio.


Lasciammo l’officina con la mia macchina, ma guidava lui.
Viaggiammo sulla Parkway per circa quindici minuti. I colori
autunnali sfrecciavano in un turbinio di gialli, arancioni e verdi
ostinati contro un cielo azzurro e limpido. Più raramente scorgevo un
acero rosso, con le foglie che sembravano viola. Non erano viola,
erano bordeaux. Ma pochi si prendevano la briga di osservare
veramente, per cui si diceva che le foglie erano violette e fine della
questione.
Alla fine, imboccò una strada senza segnaletica e passarono altri
cinque minuti. Inizialmente ero rimasta in silenzio perché lui stava in
silenzio, e gli eventi del tardo pomeriggio meritavano una riflessione.
Ma dopo aver riflettuto e aver scoperto che tutte le mie conclusioni
mi portavano a punti morti senza senso, ruppi il silenzio.
«Dove andiamo?» chiesi.
I suoi occhi passarono veloci nei miei, poi tornarono sulla strada.
Aggiustò la presa sul volante. «C’è un posto, quassù, che voglio
esaminare.»
«Oh. Che genere di posto?»
«Un ruscello. Me ne ha parlato Jethro. Bisogna camminare un
poco, ma visto che hai le scarpe da tennis, ho pensato di andare a
vederlo.»
«Mi sembra una buona idea.» Nonostante mi sentissi eccitata alla
prospettiva, sul volto mi dipinsi una maschera di educato interesse.
Io e mio fratello andavamo sempre a fare escursioni da ragazzi, ma
erano anni che non lo facevo più.
«Dopo ti porto a casa» specificò, anche se le sue parole
sembravano più rivolte a se stesso.
«E tu come torni a casa?» La stretta stradina asfaltata terminò e
iniziò la ghiaia.
«Non ti preoccupare per me» rispose.
Se il secondo nome di Cletus non era “Evasivo”, avrebbe dovuto
esserlo.
Dopo un altro centinaio di metri, Cletus si fermò al lato della
strada, e parcheggiò.
«Hai spazio per uscire da quel lato? Riesci a scavalcare da
questo?» Scrutò la vegetazione premuta contro il mio finestrino.
«Sì, posso scavalcare dal lato del guidatore.» Mi attivai in fretta,
ringraziando di indossare jeans e scarpe da tennis e quindi di non
correre il rischio di mostrargli inavvertitamente la biancheria intima.
Quando entrambi fummo usciti dalla macchina, Cletus la chiuse e
indicò l’inizio di un sentiero a una decina di metri da noi. «È proprio
lì. Vado avanti io. Jethro ha detto che il suolo in alcuni punti è
irregolare.»
«Capisco. Va bene.»
Mi incamminai al suo fianco, poi mi girai una volta per guardare la
mia macchina e le nostre mani si toccarono. Istintivamente io tirai via
la mia, guadagnandomi un’occhiata di traverso da parte di un
accigliato Cletus.
«Sei sicura di voler venire? Posso tornare più tardi da solo.»
«No, no, voglio venire. Mi piace fare escursioni.»
«Davvero? Lo fai spesso? Non era nella tua lista.»
«Non ci vado da un po’ di tempo, ma Isaac e io lo facevamo
sempre, una volta.» Mi raccolsi varie ciocche di capelli dietro
l’orecchio: era tutto il giorno che la coda mi si era allentata, ma ero
stata troppo occupata per togliere l’elastico e raccogliere di nuovo i
capelli.
«Sembra un bel ricordo.»
«Lo è. Per qualche anno, siamo andati a fare un’escursione ogni
fine settimana. Facevamo geocaching, sai, dove usi il GPS e scrivi il
tuo nome su una lista o scambi un giocattolo con qualcun altro.»
Annuii distrattamente, una malinconia improvvisa mi stringeva il
petto. Isaac era tornato, ma non era tornato da me.
«Quando avete smesso? Quando si è arruolato?»
«No. Molto prima. I miei scarponi da trekking si fecero troppo
piccoli per i miei piedi e mia mamma non me ne comprò mai un paio
nuovo.»
Cletus annuì ma non disse nulla, corrugò la fronte con aria
assente.
Dovrei comprare degli scarponi.
Avrei voluto, ma le mie riserve liquide scarseggiavano dopo le mie
ultime compere pazze. Esitavo a chiedere a mamma dei soldi. La
situazione era tesa tra noi di recente e aveva preso a non rivolgermi
la parola per la maggior parte del tempo.
Oppure potresti, sai, pretendere i soldi che ti deve per le tue
ottanta ore di lavoro settimanali.
Il consiglio della mia amica di penna riguardo al regolarizzare la
mia posizione nella pasticceria iniziava a sembrarmi sempre più
sensato. Cominciavo davvero a mal sopportare di dover chiedere i
soldi che tecnicamente mi ero guadagnata.
Quale altra ventiduenne chiede i soldi alla mamma? Nonostante
lavori a tempo pieno…
All’imbocco del sentiero, Cletus andò per primo. Era troppo stretto
per camminare uno a fianco all’altra. Jethro aveva ragione: il terreno
era irregolare e il sentiero non era ben tracciato. Ma Cletus
sembrava sapere come leggere la strada. Lo seguii, affidandomi ai
tronchi degli alberi per mantenere l’equilibrio sul terreno mutevole.
Dopo una quindicina di metri, mi presi un momento per
contemplare la bellezza attorno a me. La luce era diversa nella
foresta, sotto il baldacchino delle chiome degli alberi. E il fogliame
autunnale creava una luce diversa da quella della foresta d’estate.
Era allo stesso tempo più fioca e più brillante, il che non aveva
senso. Era più fioca per via dell’assenza di luce indiretta del sole, ma
era più brillante perché i raggi del sole si riflettevano nei colori dorati
dell’autunno. Forse soffusa era la parola giusta.
La luce della foresta attorno a noi era soffusa. Mi sembrava che
l’aria stessa fosse viva e io ne disturbassi la vitalità muovendomi.
Una varietà di suoni indistinti, sia vicini che lontani, non faceva che
rafforzare quell’impressione: il crepitio delle foglie secche sotto le
nostre scarpe, una conversazione tra due passeri, le percussioni di
un picchio, il frusciare appena udibile del vento tra gli alberi e, infine,
il dolce scorrere di una sorgente d’acqua che non era in vista.
«Sei uscita con Jackson?» Cletus chiese improvvisamente e la
sua voce mi sembrò studiatamente allegra.
Io esaminai la sua schiena, le sue spalle larghe. I miei occhi
seguirono la linea della sua figura da dietro. Era bello, visto da
dietro.
«No. Io… sto temporeggiando. Non sono convinta.»
«Cosa ti trattiene? Cucinare con un partner ti continua a
preoccupare?»
Un lato della mia bocca si alzò. «A essere sinceri, sì. È
sicuramente una parte della motivazione ed è la parte che mi
preoccupa. Tra l’altro, non mi hai mandato il contatto di Claire.»
«Ah, già. Tanto la vedrai sabato. Potrai parlarle allora.»
«Sabato?»
«Sì. Quando verrai al talent show e mi vedrai suonare il banjo.»
Mi sembrò di rilevare una punta di vulnerabilità nella sua voce, ma
quando rimase poi in silenzio decisi che dovevo essermelo
immaginata.
«Uhm, mi piacerebbe molto venire, ma non credo che mio padre
me lo permetterebbe.» Cercai di dissimulare la mia tristezza con il
pragmatismo. Non volevo ammettere che avevo considerato di
sgattaiolare via dalla finestra per l’occasione.
...ma non dovrei essere costretta a sgattaiolare dalla finestra.
Dovrei essere libera di andare ovunque voglia, quando voglio. Una
fortezza di risentimento stava crescendo attorno al mio cuore, ogni
giorno mi sentivo sempre meno preoccupata di quanto facesse felici
i miei genitori.
Cletus rimase in silenzio per un po’, prima di chiedere: «E se
venisse Billy? Se voi due aveste un altro finto appuntamento?»
«Allora mio padre non starebbe nella pelle» risposi senza
emozione.
«Perché Billy piace tanto a tuo padre? Attenta a dove metti i piedi.
Sembra che il sentiero si allarghi più avanti.» Cletus si girò e mi
prese la mano, per aiutarmi a scendere un ripido dislivello, poi
intrecciò le nostre dita. «Non fraintendermi. Penso che Billy sia il
migliore degli uomini. Ma sono di parte, perché è mio fratello e
perché è sempre stato una fonte affidabile di supporto. Mi piace
comprendere l’ossessione di tuo padre per lui, però. Sai,» i suoi
occhi scattarono nei miei e poi si allontanarono, «per poterti aiutare
a trovare qualcuno come lui. Per la tua ricerca di un marito. Ecco
perché.»
«Mio padre parla di Billy sin da quando ero piccola.» Cercai con
tutte le forze di assumere un tono di voce normale, perché Cletus
continuava a tenere in possesso la mia mano, presumibilmente
perché il suolo non era fatto più di solida terra adesso, ma di pietre
instabili. «Insomma, era il quarterback migliore del liceo. Quando
rifiutò la borsa di studio per il football all’Università del Texas e sparì
per qualche mese, credo che scioccò tutti. Mio padre era molto
deluso.»
«Aveva le sue buone ragioni.» Il tono di Cletus era sulla difensiva,
ma anche distante, perso nei ricordi.
«Ne sono sicura. Negli ultimi tempi, mio padre è rimasto
impressionato da come Billy, abbia iniziato dal basso alla segheria
Payton Mills e abbia lavorato sodo fino a diventare Vicepresidente
dell’area Sud-est.»
Cletus si accigliò. «È questo il suo ruolo?»
«Mio padre pensa di sì. Ed è convinto che Billy voglia candidarsi al
senato. A entrambi i miei genitori piace l’idea di avere un genero in
politica. Credo che sia per questo che Jackson a loro piace così
tanto. So che ha in mente di candidarsi.»
«Jackson sarebbe un ottimo politico.»
«Pensavo non ti piacesse.»
«È così. Dire che qualcuno sarebbe un ottimo politico è come dire
che qualcuno sarebbe un ottimo serial killer. Non è un
complimento.»
Cercai di non scoppiare a ridere, ma una risatina secca mi sfuggì
comunque. «E tuo nonno, invece? Tuo nonno Oliver era in politica,
vero? Credo che mio nonno Donner e tuo nonno Oliver fossero
amici.»
«Già.» Cletus si morse il labbro inferiore, con gli occhi puntati sul
sentiero roccioso, ma anche distratti per qualche pensiero. «È
questo che vuoi? Un marito in politica?»
Alzai le spalle. «Non mi importa cosa faccia, purché sia affettuoso
con me e desideri una casa piena di bambini.»
«Perché ti piacciono tanto i bambini?» Cambiò la presa sulla mia
mano, premette completamente i nostri palmi insieme mentre mi
aiutava, senza che ne avessi bisogno, a superare una buca nel
sentiero.
«Stai scherzando? I bambini sono la cosa più bella del mondo.
Non hanno pregiudizi e vogliono divertirsi tutto il tempo. Vogliono
giocare tutto il tempo. E sono come delle spugne, quando si tratta di
conoscenza. Sono ansiosi di imparare. Quanti adulti conosci che
sono ansiosi di imparare?»
«Non molti» ammise con un borbottio.
«E i neonati. Adoro i neonati. Adoro cullarli, tenerli in braccio e
tutto il resto.»
«Anche a me piacciono i neonati.» Cletus mi rivolse un sorriso
genuino e restammo in silenzio l’istante successivo, probabilmente
pensando entrambi alla meraviglia che erano i neonati.
Decisi che non c’era niente di meglio di un neonato. Eccetto forse
Cletus che teneva in braccio un neonato. Sorrisi a questo pensiero,
l’immagine di Cletus con un bambino, mentre gli baciava il pancino e
lo faceva ridacchiare, ma poi soppressi rapidamente quel sorriso.
Cletus si era accigliato e ci aveva fatti fermare.
Due rughe di concentrazione gli apparvero tra le sopracciglia, lui
mi lasciò le dita mentre la gola gli si tendeva per lo sforzo di
deglutire. «Sei proprio convinta riguardo ai bambini?» La sua voce
aveva un tono strano, burbero e dolce al tempo stesso. «E se invece
avessi l’opportunità di studiare all’università? Di diventare, non so,
una chimica?»
L’idea mi strappò un sorrisetto: me all’università, a ventidue anni, a
lavorare in un laboratorio. Mi piazzai le mani sui fianchi. «No. Non
credo mi piacerebbe. Lavorare in un laboratorio è come lavorare in
una cucina sterile e questo già lo faccio. Non voglio diventare una
chimica.»
«E cosa vorresti diventare?»
«Una madre» dissi semplicemente, perché era la verità. Era quello
che desideravo più di tutto. «E un’ottima moglie e partner. Una
casalinga. Voglio avere una famiglia di cui prendermi cura, a cui
pensare, da amare e riempire di attenzioni. Ecco quello che voglio.
So che non è un desiderio progressista o un grande sogno, e so che
per le persone questo genere di cose non ha più tanta importanza,
proprio come non hanno più tanta importanza l’umiltà e la gentilezza,
il perdono e la compassione. Ma per me sono valori importanti. So
che le persone mi guarderanno dall’alto in basso perché sarò solo
una mamma, ma io sono abituata a essere emarginata per la mia
attività e per il mio aspetto. E penso che essere una brava madre sia
il lavoro più difficile e importante al mondo. Per cui le persone
possono prendere i loro stupidi giudizi e...» Deglutii e mi fermai. Il
cuore mi batteva all’impazzata nel petto e la voce mi si era alzata
notevolmente. Ero sorpresa sia dalla mia filippica improvvisata, sia
dalla veemenza dei sentimenti che l’avevano alimentata.
Dopo aver smesso di strillare, rimasi sorpresa anche da quanto
sembrasse silenziosa la foresta in confronto alla mia tirata. I passeri
avevano smesso di conversare, probabilmente infastiditi dal baccano
delle mie grida.
«Prendere i loro stupidi giudizi e…?» Mi incoraggiò Cletus, una
curiosità divertita gli illuminava gli occhi, nonostante cercasse di
nascondere il suo divertimento.
«Prendere i loro giudizi e servirsi una bella fetta di torta all’olio di
ricino» borbottai, fissando il sentiero irregolare.
Questo lo fece ridere. Per cui risi anch’io, scuotendo la testa. Mi
piaceva ridere con Cletus. «Ne sei proprio fermamente convinta,
eh?»
«Sì, lo sono.» Alzai il mento.
Cletus scrutò pensieroso il mio viso sollevato in su per un
momento, prima di chiedere: «Ti rendi conto di quanto talento hai?
Ne hai la minima idea?»
«Grazie per averlo detto.» Strinsi le labbra, sfoderando la risposta
che recitavo sempre quando qualcuno mi faceva un complimento.
«Non credo tu lo sappia.» Scosse la testa, con uno sguardo
scrutatore. «Non si tratta solo del tuo talento per i dolci. Il modo in
cui gestivi la cucina quando sono passato, tutte quelle persone che ti
ponevano domande contemporaneamente. Eri la calma al centro
della tempesta. Eri impressionante. Tu sei impressionante.»
Gli rivolsi un mezzo sorriso, deglutendo il groppo che avevo in
gola e sforzandomi di contenere il rossore assurdo del mio viso. Non
sapevo cosa dire. I complimenti in generale mi mettevano a disagio,
ma i complimenti che non riguardavano la mia abilità in pasticceria
mi facevano sentire come un topolino impaurito. Mio padre mi
ricordava di frequente che l’orgoglio era un peccato.
Contemporaneamente, mia madre mi diceva che la gente era
invidiosa di me, del mio aspetto, della mia fama sui social media. Io
non credevo a mia madre. Non pensavo che qualcuno potesse
invidiarmi. Era semplicemente senza senso.
Gli occhi di Cletus si strinsero, il suo scrutinio ora si era fatto
tagliente. «Tu non mi credi.»
«Non è questo. È che...» Faticai a trovare le parole. «Non vorrei
diventare presuntuosa o superba.»
Cletus sbuffò, contrariato. «Tu sei il contrario dell’essere
presuntuosi e la tua umiltà rasenta l’esasperante.»
«Cavolo, grazie mille.»
Alzai gli occhi al cielo.
«Ascolta, dico solo che se una persona è brava a fare una cosa,
non dovrebbe far finta di non esserlo e non dovrebbe sminuire il suo
duro lavoro. Non c’è niente di male nell’essere umili o modesti, Jenn.
Però, per l’amor del cielo, prenditi il merito di essere una tipa tosta.»
Io strinsi insieme le labbra, ma stavolta fu per tentare di
nascondere il mio sorriso. «Ok, grazie.»
«Accetti che sei una tipa tosta?»
«Va bene. Sì.»
«Allora dillo.»
«Cletus...»
«Di’: “Cletus, tu hai invariabilmente ragione su ogni cosa, e in
particolare riguardo al fatto che sono una tipa tosta.»
«Non ci penso nemmeno» risi, scuotendo la testa.
«Uhm...» Lui però non stava sorridendo. In effetti, sembrava che
fosse irritato. Di punto in bianco, chiese: «Se a tuo padre piace tanto
Billy, perché non ci esce lui?»
Di nuovo facevo fatica a stare al passo con i suoi rapidi cambi di
argomento, ma riuscii a riprendermi velocemente: «Credo lo farebbe
se potesse, ma non può. È sposato. E mio padre crede
profondamente nella monogamia». Mantenni un tono leggero,
sperando di vedere un altro dei sorrisi di Cletus.
Lui non sorrise. Al contrario, il suo cipiglio si fece ancora più
marcato e severo di prima. Puntò gli occhi su qualcosa oltre la mia
testa e annunciò, senza tante cerimonie: «Mio padre ha avuto tre
famiglie».
Mi irrigidii e sentii gli occhi spalancarsi, ma riuscii a bloccare la
bocca prima che si spalancasse. «Come, scusa?»
Il suo sguardo volò brevemente nel mio, poi si abbassarono sulle
pietre ai nostri piedi. «Ha avuto tre famiglie, per quanto ne sia al
corrente. Mia mamma era la sua unica moglie legittima. Darrell
sposò la sorella di Drew mentre era ancora sposato con mia madre.
Si chiamava Christine.» I suoi occhi balzarono di nuovo su di me
prima che aggiungesse: «Non ebbero figli prima che lei morisse».
Passò un momento mentre assorbivo quell’informazione. Mi
sentivo persa, in questa conversazione, non capivo perché né come
fossimo arrivati a quest’argomento o perché ne parlasse con me.
Infine, gli offrii un poco originale: «Io… io non ne avevo idea».
«Non lo sanno in molti. In effetti,» mi scrutò per un lungo
momento, la sua espressione si faceva sempre più assorta,
«nessuno della famiglia sa dell’altra, della terza famiglia di Darrell.»
«Come hai fatto a scoprirlo?» Il vento si levò e mi soffiò la ciocca
ribelle di capelli sugli occhi; io la spinsi indietro.
Cletus dondolò avanti e indietro la testa, come se riflettesse sul
modo migliore per rispondere. «È complicato. Ma fondamentalmente
ho scoperto di lui, il mio fratellastro, per caso quando ho fatto gli
esami e sono stato schedato nel registro nazionale di donatori di
midollo. Risultai compatibile con lui, ma c’era un errore.» Scosse la
testa, con aria frustrata e deglutì per schiarirsi la gola. «Il figlio di
Darrell viveva in Texas.»
«Texas?»
«Esatto, in Texas. Mamma ci diceva sempre che, molto alla
lontana, nell’albero genealogico di mio padre c’erano i nativi
americani. Siamo Yuchi, una piccola tribù di nativi originaria di
queste terre.» Indicò con un ampio cenno l’area attorno a noi. «La
maggior parte venne uccisa dai Cherokee in una disputa orchestrata
da un bianco, un mercante di pellicce corrotto, e in pochissimi
sopravvissero. Ma questa è una strana storia a sé, e merita di
essere raccontata un’altra volta. In ogni caso, i sopravvissuti
vennero assorbiti dalla tribù Cherokee confinante o venduti come
schiavi nelle piantagioni. Una mia diretta antenata sposò un
mercante francese ed eccoci qua.»
«Ma senti.» Avrei voluto ascoltare l’intera storia del mercante di
pellicce corrotto, ma decisi che quella conversazione poteva
aspettare, considerato l’enorme missile che lui mi aveva appena
sganciato addosso.
«Comunque. L’altra donna di Darrell, quella che aveva sposato -
non legalmente, ma comunque… - si chiama Susan. È per metà
Cherokee, ed è coinvolta in qualche modo nel mondo dei loro
casinò. È così che si conobbero. In un casinò. Non sapeva di noi.
Non sapeva della nostra esistenza. Non aveva idea che Darrell
fosse già sposato e avesse sette figli. Per cui quando andai da
Susan a chiederle di suo figlio e delle sue origini, fu un bello shock.»
«È incredibile.»
«Pensavo, quando all’inizio avevo scoperto dell’esistenza del mio
fratellastro, e della nostra compatibilità genetica, che fossimo
imparentati tramite qualche lontano antenato Yuchi, visto che molti di
sangue Yuchi fanno parte della tribù Nazione Cherokee.» Sbuffò una
risata. «Ma che ironia, i nostri antenati erano molto più recenti.»
Io fissai Cletus per un momento, assorbendo l’informazione.
«Perché non l’hai detto ai tuoi fratelli e ad Ashley? Non credi che
vorrebbero saperlo?»
Gli occhi di Cletus scivolarono verso un punto sopra la mia spalla
e si spensero, si fecero lontani. «È morto.»
Le mani mi volarono a coprirmi la bocca. «Oh mio Dio.»
«È morto di cancro cinque anni fa. Nostro fratello era morto a
ventiquattro anni. Non sono riuscito mai a conoscerlo. Sua mamma
si era risposata dopo che Darrell l’aveva abbandonata senza una
parola, venticinque anni fa o giù di lì. Ha avuto altri tre figli da un
brav’uomo. Ma nessuno era un donatore compatibile.»
«Oh, Cletus.» Senza pensare mi slanciai verso di lui, mi avvolsi al
suo corpo, lo strinsi in un forte abbraccio. «Mi dispiace tantissimo.»
Lui non rispose, le sue braccia rimasero inerti ai suoi fianchi. Ma
non mi importava. A quell’uomo serviva un abbraccio. Ero
fermamente convinta che quando a qualcuno serviva un abbraccio,
allora bisognava darglielo. Mi era capitato moltissime volte di
trovarmi in una situazione in cui mi sarebbe servito un abbraccio, e
invece avevo dovuto accontentarmi di un bel pianto sul cuscino, a
fine giornata.
E seppi di aver preso la decisione giusta quando lui ripeté, con un
filo di voce: «Io ero un donatore compatibile».
Io seppellii il volto contro il suo petto, lo strinsi più forte che potevo
finché Cletus alla fine non sollevò le braccia e le avvolse attorno alle
mie spalle. Restammo là insieme, abbracciandoci, mentre i passeri
levavano ancora una volta le loro voci. Il suono del torrente lì vicino
riempiva le nostre orecchie. Cletus era caldo. La luce era soffusa. E,
cosa assurda, il fluire dell’acqua mi fece pensare alle lacrime.

Non avevo dubbi, ma anche se ne avessi avuti, quella notizia li


avrebbe dissipati definitivamente. Darrell Winston era un essere
umano spregevole. Non potevo immaginare come si fosse sentito
Cletus, quanto dovesse essere arrabbiato con suo padre. Né potevo
comprendere come si fosse sentita Susan, a scoprire con due anni
di ritardo che suo figlio aveva un donatore compatibile di midollo
osseo e quel donatore era un fratellastro.
«La verità può essere proprio come le persone» disse Cletus,
guardandomi con un sopracciglio alzato.
Io sbattei le palpebre, confusa. «In che senso?»
Eravamo seduti sul bordo del ruscello, l’acqua era tanto limpida da
poterla bere. Ciottoli dai mille colori punteggiavano il letto poco
profondo. Io mi ero tolta le scarpe e avevo immerso le dita dei piedi
nell’acqua, mi piaceva davvero quel freddo. Cletus era appoggiato in
un angolo, in piedi contro un albero.
«La verità può essere proprio come le persone» ripeté.
«Come?»
«A volte,» un lato della sua bocca si sollevò appena in un sorriso
in cui non vi era alcuna gioia, «è davvero orribile.»
Sospirai, sapevo che aveva ragione. La verità sul suo fratellastro
era orribile.
«Prendi tuo padre, per esempio.» Il tono di Cletus era
scrupolosamente noncurante, ma io percepii un sottofondo risoluto e
smanioso.
Raddrizzai la schiena e lo fissai stringendo gli occhi, sospettosa
verso le sue intenzioni. Non ero ancora pronta a parlare di mio
padre. «Che c’entra mio padre?»
«È davvero orribile.»
La bocca mi si spalancò. «Come, scusa?»
«Mi hai sentito. Quell’uomo è orribile» proclamò Cletus con un
singolo cenno scontroso del capo. «E non parlo solo del suo aspetto
esteriore.»
«Cletus Byron Winston, ti stai comportando da maleducato.»
Forse io stessa non avevo un’opinione molto alta di mio padre, ma
era pur sempre mio padre.
Lui aprì la bocca per rispondere, poi la chiuse di scatto e mi
guardò, poi mi guardò di nuovo stavolta socchiudendo gli occhi.
«Tanto per cominciare, come conosci il mio secondo nome?»
«Tua mamma lo usava sempre quando ti comportavi male,
quando voi ragazzi la aiutavate a rimettere i libri sugli scaffali in
biblioteca. “Cletus Byron! Smettila di infilarti Astrofisica Oggi nei
pantaloni!”.»
Cletus fece un gran sorriso. Poi ridacchiò. I suoi occhi smarrirono
un poco della loro concentrazione infervorata mentre si spingeva via
dall’albero e si avvicinava a passo tranquillo verso di me. «Oh, sì. Ci
chiamava così quando era arrabbiata, eh?»
«Mi dispiaceva per Billy, però.» Gli feci posto mentre lui si sedeva.
«Il suo nome confondeva sempre tutti, sembrava che tua mamma
cercasse di evocare il fantasma di Shakespeare. “William
Shakespeare, potresti far smettere Beauford di abbassarsi i
pantaloni davanti alle ragazze?»
Cletus rise più forte, piegandosi all’indietro e tenendosi la pancia.
«Me lo ricordo. Quanti anni aveva Beau?»
«Aveva dieci anni. Voleva mostrarci le sue nuove mutande di
Tarzan. Non credo avesse cattive intenzioni.»
«Quelle mutande gli piacevano proprio.» Cletus annuì e si grattò
la barba. «Dovrò scovargliene un paio di taglia adulto.»
«Per poi poterlo tormentare?»
Lui finse di essere scioccato dalle mie accuse. «Certamente no. Io
non tormento i miei fratelli.»
«Sì, certo.» Gli rivolsi un’occhiataccia di traverso. «Dimentichi che
a me piace osservare le persone. So che vendi le loro foto
imbarazzanti su siti di foto commerciali. Jethro se ne lamentava
dopo la messa durante l’estate. Se questo non è tormentarli, allora
tu come lo definiresti?»
Alzò orgoglioso il mento. «Io offro loro inestimabili opportunità di
rafforzare il carattere. Li aiuto a sviluppare il loro pieno potenziale
attraverso la sofferenza.»
«Ma per favore.» Questo mi fece scoppiare una risatina nasale e
gli diedi una spinta sulla spalla con la punta delle dita.
E rise anche lui, il che era divertente. Era piacevole ridere con
qualcuno di persona invece che una volta al mese attraverso una
lettera. Ed era più che piacevole ridere con Cletus.
Mi piaceva la qualità della sua risata, col suo suono rombante e
genuino. Quando sorrideva o rideva sinceramente, le sue ciglia
scure avevano l’effetto di fargli sembrare gli occhi più brillanti e il
sorriso gli illuminava l’intero viso.
La prima volta che l’avevo sentito ridere stava aiutando sua
mamma alla biblioteca. Io avevo quattordici anni allora e credo lui ne
avesse una ventina all’epoca, forse di più. Sua mamma, che era
sempre gentile con tutti, aveva detto qualcosa di divertente e il
suono della sua risata in risposta mi aveva colta di sorpresa. Non me
lo aspettavo da lui. Non l’avevo mai visto se non severo, arrabbiato o
impassibile prima di quell’occasione.
Occhi vivaci che mi catturarono con la loro intelligenza, belle
ciglia, una fila di denti dritti e bianchi incorniciata da una bocca
incredibilmente attraente. Avevo iniziato a notarlo ovunque, dopo
quella volta, e rimanevo in ascolto in attesa della sua risata; anche
se, dopo averlo osservato per un po’, avevo deciso fosse meglio
mantenermi a distanza.
Tuttavia, i suoi sorrisi, i suoi sorrisi veramente felici, erano rari.
Prima di ricattarlo, potevo contare sulle dita di una mano le volte che
avevo sentito la sua risata.
«A cosa stai pensando?» I capelli mi erano nuovamente scivolati
sul viso. Lui me li sistemò dietro l’orecchio, le sue dita e i suoi occhi
si attardarono sul mio collo.
«Solo che, uhm...» Cercai di pensare a una storia appropriata da
raccontare, una verità alternativa a: Sai, Cletus, visto che lo chiedi,
stavo pensando a quanto epicamente favoloso sia il tuo sorriso e a
quanto sia bella la sensazione di avere le tue dita sulla mia pelle.
Incapace di incontrare il suo sguardo persistente, spostai
l’attenzione sul ruscello e mi maledissi perché ero una pessima
bugiarda. Anzi, lasciatemi chiarire: ero bravissima a mentire a me
stessa. Ero davvero una frana a mentire agli altri.
La sua mano ricadde. Seguì un altro silenzio, questo era più
pesante e non riuscivo a capirne il perché. Sapevo solo che riuscivo
a sentire i suoi occhi su di me e avevo la sensazione che fossero
pesanti.
Ma poi, dal nulla, Cletus esordì: «Immagino dovremo fare pratica».
«Come, scusa?»
«Pratica con i baci. Come hai fatto con Billy.»
Io scattai all’indietro mentre voltavo la testa di colpo di lato, e i
nostri sguardi si scontrarono. Non riuscivo a credere alle mie
orecchie. «Tu pensi... vuoi che faccia pratica di baci con Billy?»
«No. No. Assolutamente no.» Di nuovo, lo sguardo di Cletus
guizzò su di me. «Intendo io e te. Ti aiuterò a fare pratica.»
Il volteggio del mio cuore fece ritorno, ma questa volta era più
deciso di prima. E aveva portato con sé degli amici: acrobazie dello
stomaco, stretta alla gola, fitte nel petto. Ma. Che. Diavolo?
«Non so se sia una buona idea» risposi con voce gracchiante. Fui
costretta a schiarirmi la gola, lo stupore mi faceva bruciare i polmoni.
«Perché?» Lui scrollò le spalle, come se non fosse niente di che.
Nel frattempo, le mie mani sudavano. Io sudavo ovunque. Persino
i miei piedi nel ruscello freddo sudavano.
«Perché… perché… perché...» Lanciai un’occhiata al baldacchino
di foglie sopra di noi, poi all’altra sponda del fiume, alla terra di
fianco a me, al tronco d’albero alla mia sinistra. In pratica, guardai
ovunque tranne che verso Cletus. «Perché ti sto ricattando e non mi
sembra giusto. Cioè, costringerti a baciarmi.»
«Ma faresti pratica con Billy?»
«Sì. Lui lo farebbe per aiutarmi, non perché lo tengo in pugno.»
Sentivo il bisogno urgente di mettere della distanza tra noi, per cui
mi alzai e presi le mie scarpe. Mi appoggiai a una grossa roccia e mi
infilai i calzini.
«E se ti promettessi che non lo sto facendo perché mi stai
ricattando?» Cletus cercò di catturare il mio sguardo, per cui
abbassai il mento contro il petto mentre lui aggiungeva: «Voglio
aiutarti».
Scossi la testa, incapace di parlare. Non volevo baciare Cletus.
A volte Cletus era aperto con me. Ma a volte era distante. Io non
sapevo di quale umore sarebbe stato da un momento all’altro,
proprio come non sapevo di che colore sarebbero stati i suoi occhi.
Non volevo baciarlo e poi continuare a passare il tempo con lui
fingendo che niente fosse successo. Non volevo baciarlo e poi
tornare invisibile per lui, una volta che il nostro accordo sarebbe
giunto al termine. Perché io me ne sarei ricordata. Quello che
provavo era già troppo. Per cui no, non volevo baciare Cletus. Non
volevo baciarlo se per lui non significava niente. Perché per me
avrebbe significato qualcosa. La fitta nel mio petto divenne un dolore
bruciante, premetti le dita contro lo sterno e mi massaggiai.
«Questi sono i fatti.» Cletus fece una pausa, il suo tono era
ragionevole e razionale. «Hai bisogno di fare pratica. Sì, inizialmente
hai ottenuto la mia attenzione grazie al video. Lo ammetto senza
problemi. Ma ora siamo diventati qualcos’altro. Siamo amici, no?»
«Lo spero» ammisi, staccandomi dalla roccia e mettendomi di
fronte al sentiero, perché non avevo ancora abbastanza coraggio da
incontrare il suo sguardo mentre discutevamo se mi avrebbe
insegnato o no come baciare.
«Allora lascia che ti aiuti, come amico. Ti posso insegnare, posso
farti sentire più sicura della tua tecnica. So quello che faccio. Si
potrebbe dire che sono un professionista dei baci.»
«Non dubito che tu sappia quello che fai» dissi senza girarmi, e
una piccola fitta di gelosia mi punse dietro gli occhi, facendomi
surriscaldare il cervello. Quante donne ha baciato?
«Allora qual è il problema?»
«Io… Non lo so.» Chiusi gli occhi e mi massaggiai la fronte.
Continuavo a sentire il suo sguardo su di me e questo non aiutava
per niente a calmare la rivolta di emozioni e desiderio che mi aveva
preso d’assalto il cuore, rendendomi difficile pensare e respirare.
«E se lo facessimo solo una volta? Non è niente di che. Se tu...»
«Cletus!» Mi girai di scatto per affrontarlo. Sembrava così
pragmatico, così accademico riguardo l’intera faccenda. Come se
baciarmi sarebbe stato insignificante quanto mangiare un panino al
tonno. «Non voglio parlarne.»
«Va bene.» Alzò le mani come per arrendersi. «Non parlarne.
Però pensaci, soltanto.»
Io esalai un sospiro agitato e mi voltai. «Va bene, ci penserò.»
Con la coda dell’occhio lo vidi annuire con un cenno, come se la
faccenda fosse chiusa. Mi sentivo appena fuori di me. Perché la
verità era che, vista l’intensità della mia reazione alla sua proposta,
probabilmente non avrei pensato ad altro se non baciare Cletus
Winston per un bel po’.
“Non nascondere i tuoi talenti, perché essi sono fatti per essere usati.
Cos’è una meridiana nell’ombra?”
- Benjamin Franklin

La pioggia batteva contro il tetto quando Billy passò a prendermi


sabato mattina. I giorni di pioggia erano i miei preferiti perché i cibi
caldi avevano un sapore migliore nei giorni di pioggia.
A mia mamma non era piaciuta la mia decisione di andare a
Nashville. Ci volle un po’ per convincerla ma alla fine acconsentì.
Disse che era solo perché non avevo eventi o apparizioni speciali in
programma. Ma la verità era che non le avevo lasciato molta scelta.
La sola cosa che mi faceva sentire un po’ in colpa era che dovetti
cuocere, decorare e congelare le torte ordinate parecchi giorni in
anticipo. Le torte non sarebbero state fresche come al solito, ma
erano finite e pronte per essere consegnate.
Con un po’ di fortuna, la loro personalità non ne avrebbe risentito.
Scappai da casa mia abbastanza facilmente, con Billy che
reggeva un ombrello sopra le nostre teste, ma poi mi arrestai nel
vialetto. Il pick-up di Billy non si vedeva da nessuna parte. Al suo
posto c’era un’impressionante berlina Lincoln nera. La prima cosa
che notai della macchina - oltre a marca, modello e colore - era che
aveva le porte a vento e sembrava essere vintage.
«E questa?» chiesi.
«È la macchina di Cletus. Ci ha chiesto di venire con questa.»
Beau era appoggiato alla macchina e alzò la testa dal cellulare
con cui stava trafficando. Il rosso mi rivolse un gran sorriso di
benvenuto, poi alzò e abbassò le sopracciglia, allusivo. «Hai portato
qualche muffin?»
Io ridacchiai e arrossii, perché avevo scoperto che in effetti muffin
era usato come eufemismo per un’altra cosa. L’avevo controllato sul
mio portatile. Mio padre avrebbe visto la ricerca nella cronologia, ma
non mi importava. Prima o poi una ragazza decisa a sposarsi
doveva capire certe cose. L’ignoranza non mi sembrava poi una
gran benedizione, ultimamente.
Billy rivolse un’occhiataccia al fratello, ma io mi intromisi prima che
potesse redarguirlo. «Niente muffin per te.»
«Cosa? Perché?»
«Perché sono una pasticciera che non cucina con chiunque.»
Billy esplose in una risata. E quando Beau si fu ripreso dallo
shock, anche lui rise.
Solo una volta sistematici in macchina e partiti, mi venne in mente
di chiedere: «E Cletus? Passiamo a prenderlo?»
«No. Solo noi andiamo in macchina. Ieri sera ho dovuto lavorare e
Beau ha dovuto badare all’officina. Tutti gli altri sono andati ieri con,
uhm, l’aereo di Sienna.»
«Sienna ha un aereo?»
Beau rispose dal sedile posteriore. «L’ha affittato, per volare da
Knoxville a Nashville.»
«Oh.» Dovetti assimilare quest’informazione. Non avevo mai
conosciuto qualcuno che affittasse un aereo. Mi ci volle un momento
per accettare la cosa. «Allora chi è partito ieri?»
«Tutti. Jethro e Sienna, Duane e Jess, Ashley, Drew e Cletus,
naturalmente. Roscoe è già a Nashville, studia veterinaria, per cui ci
incontrerà là.»
«Non sapevo che stesse diventando un veterinario.» Lanciai uno
sguardo sopra la spalla a Beau.
«Avete la stessa età, voi due, giusto?» Billy controllò lo
specchietto laterale e si immise in autostrada.
«Esatto. Eravamo insieme nel coro della chiesa.» Tralasciai che io
e lui non ci eravamo mai parlati per tutte le nostre vite, ma era una
cosa normale quando si era la reietta di una piccola città.
Roscoe il birbante, così la moglie del pastore lo chiamava.
Diventare veterinario e lavorare con gli animali si addiceva al suo
spirito vivace.
«Non ti riconoscerà.» Il commento di Billy attirò il mio sguardo su
di lui, mi osservava con un cipiglio pensieroso.
«Sono sicura che anche lui è cambiato.»
«Non molto.» Beau rise. «È praticamente sempre lo stesso. Tu,
invece, sei diventata un cigno negli ultimi due mesi. Cosa ti è preso
all’improvviso?»
«Jennifer è sempre stata adorabile.» Billy lanciò un’occhiataccia a
Beau dallo specchietto retrovisore e il modo in cui aveva preso le
mie difese suonò quasi… beh, quasi fraterno. Mi ricordò Isaac e
questo mi rese felice e triste.
«Non volevo dire questo, Billy» rispose Beau, piccato. Mi batté
sulla spalla e io mi girai per guardare la sua espressione convinta.
«Non mi stavo riferendo al tuo aspetto fisico, Jenn. Tu sei cambiata.
Finalmente parli con le persone. È un bene.»
«Non parlo con molte persone» dissi, e pensai ad alta voce. «Solo
voi, in realtà. Cletus mi ha...» Mi fermai e guardai Billy.
«Questo non è un appuntamento, per cui sentiti libera di parlare di
Cletus quanto vuoi.» Abbassò la testa con un cenno di
incoraggiamento.
Io gli rivolsi un sorriso di gratitudine. «Cletus mi è stato di grande
aiuto e anche tuo fratello qui presente.» Indicai Billy con il pollice.
«Credo fossi rimasta impantanata. Anche voi tutti siete cresciuti qui,
sapete com’è. Tutti pensano di conoscere tutti, ma non è così. Non
per davvero. Prendete la mia famiglia, Isaac, per esempio. Se
qualcuno, cinque anni fa, avesse predetto che sarebbe finito a girare
con gli Iron Wraiths, credo che tutti avrebbero detto che quella
persona era matta.»
«Parlate ancora? Tu e Isaac?» La linea delle sopracciglia di Billy si
era fatta severa, preoccupata.
Scossi la testa, cercando di ignorare il dolore sordo nel mio petto.
«L’ho visto in giro per la città. Ma lui fa finta che io non esista.»
Fissai fuori dal finestrino e diedi voce ai miei pensieri come
venivano. «La sua indifferenza è stata dura, all’inizio, e mi
confondeva. Sapete quanto siamo cresciuti protetti. Mamma ci
teneva occupati e abbiamo avuto una buona educazione, ma
mentirei se dicessi che non ci sentivamo soli a volte. Isaac era mio
amico, il mio unico amico, in realtà, se escludiamo i miei amici di
penna. E io ero la sua. Era sempre così serio e severo e io lo facevo
ridere.»
Beau mi posò la mano sulla spalla e me la strinse. «Vedrai che
cambierà idea.»
«Oppure no.» Il tono di Billy era severo e il suo sguardo
tempestoso schizzò verso il riflesso di Beau. «Oppure diventerà uno
di loro e si perderà per sempre.»
Beau sospirò rumorosamente. «Ehi, grazie Billy. Vinci il premio per
l’uscita più deprimente di questo viaggio. Magari la prossima volta
tieni tutti questi arcobaleni e raggi di sole per te.»
«No. Non c’è problema.» Diedi un paio di pacche alla mano di
Beau, appoggiata sulla mia spalla. «Penso sia stato un bene per me
quando Isaac se n’è andato. Mi mancava e mi manca ancora. Ma ho
iniziato a sentirmi irrequieta solo quando si è arruolato. Se avesse
fatto come volevano i miei genitori, andare all’università a studiare
marketing e poi unirsi all’azienda di famiglia, non so se avrei mai
cercato l’aiuto di Cletus. La disperazione è fonte di tanta
motivazione.» Risi e Beau mi strinse ancora la spalla.
«Quindi hai cercato l’aiuto di Cletus?» La curiosità nel tono di Billy
mi fece pentire delle mie parole.
«Io… Uh… Sì. Gli ho chiesto di aiutarmi a, uhm, capire come
uscire dal mio guscio e a incontrare persone. E lui ha detto sì.»
Piegai le labbra tra i denti, sperando non mi chiedessero i particolari.
«Sono sorpreso» fece Beau.
«Io no.» Gli occhi di Billy si erano rannuvolati, come se stesse
richiamando alla memoria un ricordo specifico.
Prima che potessi chiedere a Billy perché non fosse sorpreso,
Beau parlò. «Non sei sorpreso? Gli piace ficcare il naso negli affari
nostri e aiuta le persone con i loro problemi alle auto e così via. Ma
dopo quello che è successo...»
«Beau.» Il tono di Billy era tagliente ed esigente. «Attento a cosa
dici.»
Io passai lo sguardo tra i due fratelli, conscia di avere gli occhi
spalancati dalla curiosità e dall’aspettativa. «Dopo che è successo
cosa?»
Billy si agitò sul sedile, la mascella gli si contrasse. Non mi
guardò. «Cletus una volta, sai, perdeva spesso le staffe quando
eravamo piccoli.»
Questo lo sapevo, ma solo per sentito dire. «Mio padre parlava di
Cletus, ogni tanto, a cena. Diceva che era un ragazzo pericoloso,
faceva sempre a botte e che noi avremmo dovuto evitarlo.»
«Cletus detesta i bulli» intervenne Beau, ma non offrì nessuna
altra spiegazione, nonostante percepissi il suo desiderio di chiarire la
sua affermazione.
Le labbra di Billy si strinsero in una lieve smorfia. «Detesta i bulli»
ripeté. «Faceva a botte perché gli teneva testa, invece di farsi gli
affari suoi.»
«Continua ancora a tenere testa ai bulli» mormorò Beau. «Solo,
adesso lo fa in modo molto più subdolo.»
Billy si grattò la guancia, le sue sopracciglia si strinsero in una V
mentre studiava la strada. «Dovremmo cambiare argomento.»
«Buona idea.» Beau diede una manata al sedile di fianco a sé.
«Perché non parliamo dei muffin di Jennifer e di come posso fare
per averne un altro assaggio?»
«Oh santo cielo.» Ridacchiai, incurante del fatto che mi avesse
fatto bruciare le guance dall’imbarazzo.
«Beau.» La voce di Billy era colma di ammonimento, ma anche di
divertimento. «Perché non parliamo del Ringraziamento? Che piani
hai per le vacanze, Jenn?»
«Oh, di solito non facciamo granché. La settimana prima è un
periodo impegnativo per me e la mamma. Lo scorso Ringraziamento
devo aver fatto oltre cinquecento torte alla banana e ogni anno ne
devo fare sempre di più. Per cui mio padre va a casa di un amico a
guardare la partita di football, quel giorno. Mamma resta allo chalet e
lavora.»
Billy mi guardò di sbieco, visibilmente orripilato.
Ma fu Beau a parlare. «Diavolo no. Quest’anno vieni a casa nostra
a festeggiare il Ringraziamento. E mangerai delle torte. Una
montagna di torte.»
«E non cucinerai niente» ordinò Billy.
«Non saprei.» La sola idea di passare il Ringraziamento con i
Winston mi sembrava davvero fantastica, ma anche terrificante.
«Non vorrei disturbare.»
«Non lo faresti assolutamente.» Beau ne sembrò certo. «È
deciso.»
«Inoltre» aggiunse Billy con una sicurezza e un bagliore di
qualcosa di simile alla malizia, «sono sicuro che Cletus avesse già
intenzione di invitarti. Gli abbiamo solo fatto un favore.»

Il nostro viaggio terminò troppo in fretta e quando arrivammo a


destinazione sentivo un certo affetto per Billy e Beau Winston.
Cosa diceva di me questo? Ero condannata a vivere tutta la vita
sviluppando sentimenti di affetto per ogni nuova persona con cui mi
trovavo a parlare per più di un’ora? In quel caso, forse i miei genitori
avevano fatto bene a tenermi chiusa in casa.
In più, non riuscivo a impedirmi di paragonare questo nuovo
affetto per Billy e Beau ai sentimenti per Cletus. Era diverso, ma non
riuscivo bene a capire perché. Quel che provavo per Cletus era…
travolgente, mentre il mio affetto per Billy e Beau era una
sensazione quieta.
La questione mi divenne chiara quando Cletus e Claire salirono
sul palco per il talent show.
Tutta la baracca si teneva al vecchio Teatro Marzipan a Nashville.
La location poteva accogliere un pubblico di circa cinquemila
persone, un numero impressionante, ma ben lontano dai numeri di
una grande arena. Beau mi spiegò, mentre prendevamo posto, che il
teatro aveva avuto ospiti famosi come Elvis Presley e Johnny Cash,
al tempo, ma poi era andato in rovina. Era stato restaurato
magnificamente di recente e il talent show era stato pensato per
rilanciarlo come location di primo piano.
Cletus e Claire erano i terzi ad esibirsi su una scaletta di dieci
artisti. Quando apparve Cletus, il mio cuore prese il volo,
bloccandomi la gola e mi ritrovai seduta sulla punta della sedia, ad
aspettare con il fiato sospeso che iniziassero il loro set di tre
canzoni. Cominciarono a suonare, e il pubblico si fece silenzioso:
avevano scelto una tormentata canzone d’amore come apertura,
una che non avevo mai sentito prima.
Cletus non suonò il banjo durante quella prima canzone, bensì la
chitarra acustica e cantava in duetto con Claire. Non l’avevo mai
sentito cantare prima per cui il fiato che avevo sospeso divenne un
respiro trattenuto e poi un sospiro di totale meraviglia e piacere.
Aveva una voce notevole, profonda e ricca, e come la sua risata mi
ricordava il cioccolato temperato.
Quando Cletus e Claire finirono la prima canzone, accolti da un
rombo di applausi, decisi che la differenza tra Cletus e i suoi fratelli
era che Billy e Beau non turbavano le mie emozioni. Mi ispiravano
calore e tenerezza; sentimenti benevoli, innocui.
Cletus, invece, mi faceva vorticare come una trottola. Turbava
ogni singola mia emozione. Mi faceva sentire tutta sottosopra qua e
là. Non avevo mai realizzato che fosse possibile provare così tanto
tutto insieme.
Cletus prese il suo banjo per la canzone successiva, una cover
allegra I will wait dei Mumford and Sons. Claire suonava la chitarra e
cantava.
Io lanciai un’occhiata alla fila di Winston e dei loro partner e mi
riscaldò il cuore vedere ognuno di loro sorridere verso il palco, con
varie gradazioni di adorazione e orgoglio dipinte sui loro volti. Non
ero invidiosa, però provavo desiderio. Proprio questo, davanti ai miei
occhi, era il motivo per cui volevo una grande famiglia.
Finirono il set con Tennessee di Johnny Cash, ma Claire cambiò
ragazza dagli occhi azzurri in ragazzo e donna divenne uomo.
Funzionava alla perfezione. In quest’ultima canzone usò una voce
profonda e roca, rivelando la sua impressionante estensione vocale.
Inoltre, la sua voce aveva una qualità nitida che mi fece venire la
pelle d’oca lungo la schiena. Lei era eccezionale.
Quasi come Sienna e la sua aura gravitazionale, la presenza di
Claire sul palco era allo stesso tempo naturale ed elettrizzante. Lo
stesso valeva per Cletus. Forse ero un poco di parte, ma pensai che
fosse bravo tanto quanto Claire… eccetto che, lui si stava
trattenendo. Era circospetto, come se imporre al pubblico di puntare
l’attenzione sulla sua cantante fosse il suo obiettivo primario. Persino
sul palco, Cletus sembrava determinato a nascondersi dai riflettori, a
nascondere la meraviglia che era. Questa realizzazione mi lasciò
turbata. Lui aveva qualità fuori dal comune, eppure era deciso a
convincere la gente che fosse mediocre.
Terminata la loro esibizione, la sala esplose, tutti i cinquemila e più
spettatori saltarono in piedi. Claire rise e si spostò all’indietro i
capelli, mimando un grazie e lanciando baci. Cletus, nel frattempo,
raccolse i suoi strumenti, fece un breve inchino e se ne andò dal
palco.
Duane, seduto di fianco a me, rise fragorosamente di fronte alla
rapida uscita di Cletus, così come Jessica, accanto a lui.
Beau, vicino a me dall’altro lato, rise anche lui e mi diede una
gomitata sul braccio, urlando per sovrastare la folla esuberante:
«Non gli importa del talent show, non per se stesso. Ha fatto tutto
questo per portare Claire lassù sul palco e comprare una
macchina».
«Per comprare una macchina?» chiesi, confusa. «Intendi con i
soldi del premio?»
Scosse la testa. «No. Uno dei giudici, una produttrice discografica
importante, possiede una Buick Riviera del 1971. Ha il lunotto
posteriore diviso in due, fa sembrare che abbia un po’ la forma di
uno squalo. Lui ne ha già una, ma per un qualche motivo ne vuole
anche un’altra. Intende scambiarla con la Lincoln e spera di far leva
su Claire.»
Storsi il naso di fronte alla ridicola spiegazione e anche per il fatto
che Cletus stesse usando la sua amicizia con Claire per mettere le
mani su una macchina.
Beau, che a quanto pare indovinò la direzione dei miei pensieri,
scosse la testa, si sporse più vicino e mi parlò direttamente
nell’orecchio: «È tipico di Cletus, prendere due piccioni con una fava.
Claire si merita di essere su quel palco, ma aveva bisogno di una
spinta. Se non fosse stato per lui, non l’avrebbe mai fatto. Lui l’ha
fatto perché le vuole bene. Tutti noi le vogliamo bene. Cletus le ha
appena fatto ottenere un contratto discografico, che lei lo voglia o no
starà solo a lei deciderlo, ma riuscirà anche a estorcere qualcosina
da un tizio potente contemporaneamente».
Beau si allontanò, incontrando il mio sguardo e guardandomi
mentre elaboravo le sue parole. Si piegò nuovamente al mio
orecchio, aggiungendo: «La sua mente opera in modo misterioso,»
Beau scrollò le spalle, «ma quell’uomo ottiene sempre quello che
vuole».

«Oh buon Dio. Ti prego, dimmi che non hai usato le parole da un
punto di vista accademico mentre davi consigli alla dolce Jennifer.»
«Potrei aver pronunciato queste parole.» Gli occhi di Cletus
scattarono nei miei e poi si allontanarono. «Non ricordo.»
«Sei un cane a mentire, Cletus Winston. E te lo ricordi benissimo.
Te lo ricordi, hai usato proprio queste parole e non vuoi ammetterlo.»
Io arrossii, mi feci color peperone, mentre i miei occhi saltavano
tra Cletus e Claire. Noi tre eravamo in un camerino, a dividerci una
bottiglia di champagne e un vassoio di stuzzichini lussuosi. Era la
prima volta che bevevo champagne e mi sentivo la testa leggera.
Poco dopo la fine del loro set, una maschera era venuta a
cercarmi tra il pubblico e mi aveva detto che mi attendevano dietro le
quinte. Io mi ero congedata dalla fila dei Winston e avevo seguito la
maschera in un labirinto di corridoi. Si era fermata davanti a una
porta con un pezzo di carta fissato con lo scotch, con su scritto
McClure & Winston.
La maschera aveva bussato, Claire mi aveva accolta con un
abbraccio e poi mi aveva tirata dentro la stanza. «Cletus mi ha
spiegato tutto» aveva detto, passandomi il braccio attorno alle
spalle. «Sono qui per aiutarti. Ora siamo buone amiche e puoi
chiedermi qualunque cosa tu voglia.»
Ecco tutto. E così, Claire McClure, Cletus Winston e io stavamo
parlando di sesso dietro le quinte di un importante talent show.
«Va bene. Ho usato le parole “dal punto di vista accademico”»
Cletus ammise con riluttanza. «Passiamo ad altro...»
«Questo è un problema, Cletus. Non c’è niente di accademico nel
fare l’amore.»
«Mi permetto di dissentire...»
«Ti prego, smettila di parlare per favore, e lasciami chiarire le idee
a questa ignara donna. Smettila di contaminarla con i tuoi punti di
vista accademici.»
Lui fece per alzare gli occhi al cielo ma si fermò. Invece, prese una
carota dal vassoio degli spuntini e la spezzò coi denti. «Va bene.
Spiegale tu allora.»
«Lo farò. Preparati a restare a bocca aperta.»
Lui si accigliò, come se avesse odorato qualcosa di puzzolente.
«Non so se voglio che tu mi lasci a bocca aperta, quando
l’argomento è il sesso.»
«Allora puoi andartene.»
Cletus portò il suo sguardo assottigliato su di me e poi lo distolse,
si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia.
«Rimango. Per ora.»
Claire rise di lui, come se lo trovasse fantastico e spiritoso, cosa
che era, poi spostò il suo sguardo caloroso sul mio, il sorriso le si
addolcì mentre mi osservava.
Quando parlò, lo fece come se fossimo davvero delle buone
amiche, la sua voce era gentile e confidenziale. «Mi ricordo di
quando hai vinto la fiera dello stato per la prima volta, con la tua
torta alla banana. Tua mamma era così orgogliosa e felice, ma tu
sembravi paralizzata dal terrore.»
«Lo ero» ammisi senza problemi.
«Quanti anni avevi?»
«Sedici.»
«E da allora hai vinto ogni anno?»
Annuii.
La fronte le si increspò mentre spostava gli occhi su di me,
valutandomi con aria pensierosa. «Non sei mai stata baciata, o così
ha detto Cletus.»
Annuii nuovamente, lieta che glielo avesse detto, così non avrei
dovuto farlo io. «So che l’ignoranza dovrebbe essere una
benedizione, ma mi sembra sempre più una gabbia, in questi
giorni.»
Un angolo della sua bocca si alzò, ma i suoi occhi sembravano un
pochino tristi. «L’amore è… beh, interessante. Può essere magnifico,
ma anche rovinoso. Capisco la tua lealtà verso i tuoi genitori,
credimi. Ma hai ragione. Sei in gabbia e stai cercando un modo per
uscire. Non affrettare le cose. C’è tempo. Io ero l’opposto di te, a dire
il vero. Quando avevo diciannove anni ero un uccello in cerca di una
gabbia. Che tu mi creda o no, la tua situazione è migliore della mia.»
Annuii solennemente, perché conoscevo la sua storia. Tutti in città
sapevano di Claire, sapevano che era nata col nome di Scarlet St.
Claire, l’unica figlia di Razor Blade St. Claire, presidente degli Iron
Wraiths. Era cresciuta in un club di biker e non doveva proprio aver
avuto una vita facile.
A quindici anni era sparita, per poi rispuntare a Green Valley tre
anni dopo fidanzata con Ben McClure, il figlio del capo dei pompieri
della zona. Si erano sposati quando lei aveva diciannove anni. Lui
era partito per la guerra, lei per l’università. E quattro anni dopo, lei
aveva la sua laurea, ma Ben era morto oltreoceano. Aveva
insegnato al liceo di mio padre, musica e teatro, e si era presa cura
dei genitori di Ben. Proprio l’estate scorsa, si era trasferita a
Nashville per insegnare all’università pubblica. Ma se Beau aveva
ragione, questa sera avrebbe potuto accettare un contratto
discografico, invece.
Appariva indecisa su cosa dire dopo, e quando parlò, iniziò
lentamente. «Lascia che ti racconti una storia. Mio marito...» Claire
si interruppe, i suoi occhi scattarono su Cletus per una frazione di
secondo, poi via. Le guance le si arrossarono, ma lei si schiarì la
gola e superò qualunque vampata di emozioni l’avesse
momentaneamente presa in ostaggio. «Mio marito, Ben, quando era
vivo, adorava giocare a baseball con suo padre. Si allenavano nei
lanci. Lui lo adorava. Quando si arruolò e venne mandato in
missione, insieme a lui c’era un giocatore professionista di baseball.
Per cui ebbe l’occasione di giocare a baseball con un vero
professionista. Voglio dire, questo tipo era fantastico, uno dei migliori
al mondo. Ma quando chiesi a Ben di parlarmene, sapete cosa
disse?»
«No» rispose Cletus di botto, senza che ce ne fosse bisogno.
Gli occhi di Claire volarono su di lui e gli scoccò uno sguardo
piatto e contrariato, prima di continuare. «Disse: “Sai, Claire, è stato
divertente. Ma se potessi scegliere di giocare a baseball con
chiunque al mondo, sceglierei comunque mio padre”.» Fece una
pausa, lasciandoci riflettere a fondo sulla risposta di Ben, e poi
aggiunse: «Questa è la differenza che fa l’amore. Per cui Cletus, da
una parte, ha ragione. Avere esperienza, una buona tecnica, delle
buone mosse, sono tutte cose importanti. Se fai sesso per divertirti o
lo pratichi come uno sport a livello professionale, allora queste
diventano cose fondamentali. Ma se fai l’amore, allora l’esperienza e
le buone mosse sono un bonus, ma non sono poi così importanti. È
la persona, non la tecnica, che fa sì che ne valga la pena».
Sentii il mio sorriso crescere sempre più mentre lei parlava, era
diventato un sorriso a trentadue denti per quando ebbe finito.
Lo sguardo sveglio di Claire sostenne il mio. «Per cui, non
preoccuparti della tua mancanza di esperienza. Aspetta, se vuoi,
perché quando il ragazzo giusto arriverà, non gli importerà della tua
tecnica o della mancanza di essa, e a te non importerà della sua. A
lui importerà di te. Vi prenderete cura l’uno dell’altra.»
Della musica, i suoni smorzati di un’esibizione, invasero il nostro
spazio, ma io non ci badai. Le parole di Claire erano state un
balsamo per i miei nervi. Senza pensare, mi voltai verso Cletus,
forse per ringraziarlo di avermi portato dietro le quinte, per aver reso
possibile questa chiacchierata rubata con Claire, ma
immediatamente le parole mi rimasero bloccate in gola.
I suoi occhi erano già su di me e l’espressione che aveva mi colpì
dritta in petto, una lama rovente di consapevolezza. Era un altro di
quei rari scorci del vero Cletus Winston, senza maschera, al
naturale, ma stavolta non sembrava arrabbiato. Sembrava famelico.
La sensazione rovente si diffuse più in basso, fino al mio addome
e ancora più in basso, alla mia… altra… zona.
Arrossii, mi sentii soffocare dal caldo. Il suo sguardo bruciava ed
eppure io mi sentivo anche stranamente liquefatta sotto di esso,
slegata e alla deriva.
I suoni soffocati si dissolsero, come se fossi stata trascinata
dentro un tunnel in cui solo lui e io esistevamo, Cletus e il suo
famelico appetito e i suoi occhi azzurri fiammeggianti.
Ma poi sobbalzai, feci una smorfia e strappai via lo sguardo da lui,
perché un inaspettato colpo fragoroso si sentì alla porta. Passò un
momento in cui nessuno parlò e io non riuscivo a vedere, ma il
clamore invadente della musica dal vivo giunse alle mie orecchie
seguito dal suono di ovazioni e applausi.
«Apro io» disse Cletus. Aveva la voce rauca, come se non la
usasse da giorni.
Io lo guardai alzarsi, lo guardai andare alla porta, le sue larghe
spalle si alzarono e abbassarono quando prese un ampio respiro.
Notai che le sue mani erano strette a pugno e i suoi avambracci
erano scoperti. Si era arrotolato le maniche fino al gomito. Cercai di
ricordarmi se avessi mai visto le sue braccia prima di d’ora. E se sì,
perché ora mi distraevano così tanto?
Un colpetto gentile contro il mio polpaccio mi fece riportare lo
sguardo su Claire. I suoi occhi erano spalancati, era rimasta a bocca
aperta. Mimò, senza parlare: Tu e Cletus?
Scossi rapidamente la testa.
Lei socchiuse le palpebre e mi percorse rapidamente con lo
sguardo. Annuì col capo, affermando nuovamente senza parlare: Tu
e Cletus. Quella volta non era una domanda.
Sentii lo stomaco fluttuare per una vertigine indotta dal panico.
Scossi nuovamente la testa, sussurrando: «Non c’è niente tra noi,»
proprio mentre Cletus apriva la porta.
«Signor Winston. Una bella performance» esclamò una voce
femminile sconosciuta, attirando la mia attenzione di nuovo verso la
porta.
«Signor Platt, signorina Flom. Immagino vogliate parlare con la
mia partner?» Cletus incrociò le braccia, alzando il mento e
adottando un tono di voce che non gli avevo mai sentito usare prima.
Il suo accento era quasi sparito del tutto. Sembrava uno yankee.
«Dov’è l’incantevole signorina McClure? Vorremmo fare anche a
lei le nostre congratulazioni, magari parlare di qualche cosetta. Ha
ricevuto lo champagne che vi abbiamo mandato?» chiese una voce,
che immaginai appartenesse al signor Platt.
Cletus annuì con un cenno. «L’ha ricevuto.»
«Bene. Bene. Allora magari potremmo...»
«Non perdiamo tempo in chiacchiere.» Cletus si appoggiò allo
stipite della porta e un sorriso amichevole gli incurvò le labbra, ma
da dove ero seduta vedevo che i suoi occhi erano distaccati e
notevolmente scaltri. «Voglio la sua Buick, signorina Flom. Lei vuole
far firmare un contratto a Claire McClure. Sono sicuro che riusciremo
a raggiungere un accordo equo, che lasci soddisfatti tutti i
partecipanti.»
«Che subdolo bastardo» sentii sussurrare a Claire e tornai a
guardarla. Non sembrava arrabbiata. In effetti, sorrideva.
«Lo sapevi?» Mi sporsi verso Claire, per non interrompere i
negoziati sulla porta del camerino.
«Beau mi aveva avvisata» disse con un sussurro.
«Cosa intendi fare?»
Il suo sguardo si soffermò nel mio e vi vidi indecisione, ma anche
eccitazione. «Beh, Cletus vuole quella macchina.» Claire sorrise e
scrollò le spalle. Io ricambiai il mio sorriso, ridacchiando piano.
Lei sospirò felice, e la sua attenzione tornò sull’uomo in questione.
Seguii il suo sguardo, ripetendo le parole che Beau mi aveva detto
meno di un’ora fa. «E Cletus ottiene sempre quello che vuole.»

Cletus concluse le negoziazioni preliminari con la signorina Flom e


il signor Platt, e poco dopo io tornai al mio posto. Loro sarebbero
dovuti uscire di nuovo sul palco per la premiazione.
Claire e Cletus si piazzarono al primo posto. Conoscere la verità –
ovvero che non importava che vincessero o no, perché Claire era già
sulla buona strada per firmare un contratto con una casa
discografica e Cletus era riuscito a negoziare con successo
l’acquisto dell’auto che voleva – era un po’ come gettare un’occhiata
al Mago di Oz dietro la sua tenda.
La realtà non annullava il trionfo della loro vittoria, ma i
festeggiamenti che seguirono mi sembrarono meno incentrati sul
successo e più sul desiderio di voler semplicemente festeggiare con
la propria famiglia. Anche se il matrimonio di Jethro e Sienna era a
sole tre settimane di distanza, e si sarebbero rivisti tutti per
l’occasione, i fratelli e le loro metà sembravano lanciarsi su ogni
occasione di festeggiare insieme. Amavo questa cosa dei Winston.
Grazie all’influenza di Sienna, l’intero secondo piano del miglior
ristorante barbecue della città era stato riservato. Billy si trovava alla
mia destra e Beau alla mia sinistra. Claire era in fondo dall’altra
parte e parlava con Sienna e Jethro. Roscoe era seduto proprio di
fronte a me, Cletus era di fronte a Beau, e Jessica davanti a Billy.
Duane sedeva a capotavola.
Di fianco a Cletus c’era la signorina Flom e sembrava intenzionata
a monopolizzarne l’attenzione. Un fatto che mi rendeva irritata e
sollevata al tempo stesso. Non volevo trovarmi a incontrare un altro
dei suoi sguardi famelici e dover poi affrontare i desideri confusi che
li accompagnavano. Non sapevo cosa significassero e non avevo
esperienze simili su cui basarmi. Pertanto restai seduta in silenzio,
evitando il contatto visivo con Cletus e mi immersi nel mio ruolo di
osservatrice di persone. Era interessante studiare le varie dinamiche
in atto.
I dirigenti dell’etichetta erano stati invitati a unirsi alla nostra cena
e il signor Platt era intento ad adulare Sienna. Anche i camerieri le
ronzavano attorno. Persino quando prima eravamo davanti al
ristorante, lei era stata riconosciuta e circondata da una ressa di
estranei nel bel mezzo della strada.
«Cosa stai fissando?» chiese Billy, cercando di seguire la linea del
mio sguardo.
Io indicai con la testa Sienna, che sorrideva cortesemente.
«Sienna Diaz.»
Lo sguardo di Billy viaggiò su di me. «Cosa?»
«Come riesce a farlo? Ovunque vada le persone, gli estranei, le
vogliono parlare. Io odierei una cosa del genere.»
«Lo odieresti?» Billy sembrò sorpreso.
Beau mi diede un colpetto con il gomito, chiaramente stava
origliando. «E allora tutta la pubblicità che tua mamma organizza per
la Regina della torta alla banana? Non ti metti un costume e fai delle
comparsate? E non hai tipo un milione di follower o una follia
simile?»
«È la Regina della torta alla banana che ha oltre un milione di
follower su Instagram. Jennifer Sylvester ne ha zero.» Iniziai a
giocherellare con i miei straccetti di maiale nel piatto.
Beau mi diede un altro colpetto, stavolta con la spalla. «Odio
doverti dare la notizia, ma la Regina della torta alla banana sei tu.»
«Non ha l’aspetto della Regina della torta alla banana.»
Sollevai lo sguardo verso la voce che aveva pronunciato quel
commento e trovai Roscoe, che mi osservava in modo buffo.
«Ehi, Jenn» mi saluto, sempre guardandomi in modo buffo.
«Come va?»
Oltre a qualche saluto cortese all’inizio della serata, non avevo
ancora mai rivolto parola a Roscoe. Ma avevo notato i curiosi
sguardi che lanciava nella mia direzione.
«Va tutto bene, Roscoe. E a te come vanno le cose?»
«Oh, alla grande. A dire il vero, non avevo capito chi fossi finché
non ci hanno fatto sedere per cena. Non ti avevo proprio
riconosciuta.» Socchiuse le palpebre per guardarmi più
attentamente, poi fece lo stesso con Billy e infine con Beau. «Allora,
quale di questi burloni ti ha accompagnata stasera?»
«Sono io» Billy rivolse un sorrisone a bocca chiusa al suo fratello
più piccolo.
«Tecnicamente, l’abbiamo accompagnata entrambi.» Beau mi
diede un colpetto per la terza volta, rivolgendomi un’occhiata
cospiratoria.
«Ma davvero...» Roscoe tornò ad appoggiarsi allo schienale della
sedia.
Non ebbi modo di rispondere perché un movimento all’altro capo
del tavolo ci distolse tutti dalla nostra conversazione. Claire si era
alzata e stava distribuendo abbracci, prima a Jethro, poi a Sienna.
Dopo di che, si girò verso il resto del tavolo. Pensai per un momento
che volesse fare il giro degli invitati per salutarci tutti, uno alla volta,
ma si bloccò di colpo nei suoi movimenti quando i suoi occhi si
scontrarono con quelli di Billy. Sentii lui irrigidirsi al mio fianco, lo
sentii trattenere bruscamente il fiato. Quasi immediatamente dopo,
lei strappò via lo sguardo da Billy.
Io soppressi l’impulso di posare una mano sul braccio di Billy per
confortarlo. Le emozioni si emanavano da quell’uomo imponente,
selvagge, senza freni e così profondamente tristi. Avrei voluto solo
abbracciarlo.
«Devo andare, gente. Domani devo svegliarmi presto.» Il suo
sorriso era ampio, anche se a me pareva un poco scosso.
La notizia venne accolta con varie espressioni di disappunto,
proteste e auguri. Lei salutò con la mano e soffiò un bacio verso
Jessica, che fece finta di afferrarlo con la mano e infilarselo nel
reggiseno. Questo fece ridere tutta la tavolata.
Anche Claire rise, poi si girò, e si avviò a passi decisi via dal
tavolo. Io la guardai allontanarsi, mi sentivo al tempo stesso triste e
felice…
Avrei voluto…
Avrei voluto essermi sforzata di conoscere Claire prima della sua
partenza da Green Valley. Lei era decisamente una persona che
sarebbe valsa la pena conoscere.
«Che succede, Cletus?» chiese Billy secco, strappandomi ai miei
pensieri.
Io spostai lo sguardo tra i due fratelli e mi portai in grembo le dita,
che stavo torcendo; era la prima volta che Cletus puntava lo sguardo
nelle mie vicinanze sin dalla nostra piccola riunione dietro le quinte e
il conseguente sguardo famelico.
«So cosa stai pensando.» Cletus scosse lentamente la testa.
«Te lo assicuro, non lo sai.» La risposta di Billy fu burbera e mi
fece rizzare i peli sulla nuca.
«No. Lo so. E ti stai sbagliando.»
La gola si tese quando lui deglutì, il suo sguardo truce era
penetrante e infiammato. «Non sono affari tuoi, Cletus.»
«Beh, su questo hai ragione. Non sono affari miei. Sono affari tuoi.
Ma ti stai comunque sbagliando. Non puoi conquistare una donna
con la forza bruta, o desiderando o implorando, anche se sono
sicuro che implorare non fosse nei tuoi piani.»
Gli occhi di Billy lampeggiarono e strinse i denti, i muscoli della
sua tempia e della mascella si contrassero in uno spasmo.
«Non puoi prenderla per sfinimento.» Le parole di Cletus si
ingentilirono, come se volesse addolcire il colpo.
Realizzai con una certa sorpresa che le persone al nostro fianco a
tavola avevano distolto l’attenzione. Roscoe, Jessica e Duane
avevano formato un capannello e sentii Duane menzionare l’Italia.
Beau era concentrato sulle sue costolette. Gli altri erano troppo
lontani per sentire la conversazione di Billy e Cletus. Il rumore del
primo piano del ristorante copriva il loro scambio.
Io presi esempio da Beau e indirizzai lo sguardo verso il mio
piatto.
«Allora cosa dovrei fare, secondo te?» La domanda di Billy
sembrava provocatoria, la sua voce bassa era colma di frustrazione.
«Cosa faresti tu?»
«Scoprirei le carte in tavola. Le direi ogni cosa.»
Lo sguardo di Billy si concentrò nel punto in cui Claire era sparita.
Poi, inaspettatamente, i suoi occhi si spostarono su di me. Lo
vedevo con la coda dell’occhio, e avvertivo il suo sguardo intenso.
Rimasi immobile.
«Tu lo faresti, Cletus?» chiese Billy, e riportò la sua attenzione su
suo fratello. «Scopriresti le carte in tavola? Le diresti ogni cosa?»
Cletus rimase in silenzio per un istante, prima di rispondere:
«Quando sei certo, quando ciò che vuoi sono sia il cuore che la
mente, allora scopri tutte le carte in tavola. Ma se non ha alcun
significato, se è solo una cosa fisica, allora non c’è niente da dire».
“Gli uomini cambiano, sì, e il cambiamento arriva come una brezza che
increspa le tende all’alba, e arriva come il profumo furtivo dei fiori di campo
nascosti tra l’erba.”
- John Steinbeck

«Ok, ora che siamo solo noi tre, voglio sapere.» Jessica si girò sul
suo sedile e sollevò le sopracciglia nella mia direzione. Era un’alzata
di sopracciglia entusiasta, per cui sapevo che le prossime parole che
le sarebbero uscite dalla bocca sarebbero state una domanda.
«Cosa c’è tra Jennifer Sylvester e Billy? O sta con Beau, invece? O,
cosa sta succedendo?»
Incrociai lo sguardo di Duane nello specchietto retrovisore. Stava
guidando la mia nuova macchina da Nashville. Jess era seduta di
fianco a lui nel sedile anteriore a panca e io viaggiavo su quello
posteriore, come se avessi l’autista. Gli altri, inclusa la signorina in
questione, erano già partiti per Green Valley sull’aereo di Sienna.
Duane era - di gran lunga - il migliore pilota della famiglia. Io
sospettavo persino del Tennessee. Ogni volta che mi serviva una
fuga veloce su quattro ruote, lui era il mio uomo. Il che significava
che quando sarebbe partito per l’Italia e altre grandi avventure, sarei
rimasto senza pilota per le mie fughe. Era un pensiero deprimente.
Duane si schiarì la gola, si agitò un poco sul suo sedile, ma non
disse nulla. Riportò velocemente la sua attenzione sulla strada.
Non mi era d’aiuto. O, forse, anche lui era curioso.
«Dai, Cletus.» Jessica allungò il braccio oltre il sedile e mi spinse il
ginocchio con la punta delle dita. «Devo tirare a indovinare? Non
farmi tirare a indovinare.»
«Non ha alcun legame affettivo né con Billy né con Beau.»
«Ne sei sicuro?» Insistette Jessica. «Perché Beau sembrava
parecchio amichevole.»
Spostai l’attenzione sul finestrino al mio fianco per non permettere
a Jessica di scorgere il mio malcontento alla notizia. La verità era
che da settimane ero assillato da pensieri su Jennifer.
Io ero… attratto da lei. Fisicamente. Moltissimo.
La sua immagine infestava i miei sogni notturni e a occhi aperti. La
maggior parte era del genere indecente, perché il corpo di quella
donna mi portava a distrarmi. Ma alcune fantasie erano solo
immagini di noi insieme, a parlare e toccarci. Ci toccavamo sempre.
Mi stavo ossessionando per lei sin dalla nostra ultima lezione. Non
aiutava la situazione il fatto che ci avesse recapitato i migliori muffin
mai concepiti nella storia dei muffin.
«Beau è amichevole con tutti.» Imposi alla mia voce di mantenersi
calma e controllai l’espressione sul mio viso prima di voltarmi di
nuovo verso Jess.
«Allora che ci faceva con noi stasera? E l’altro giorno a casa?»
«È un’amica di famiglia.»
Quella donna mi aveva decisamente fatto qualcosa. Il suo
incantesimo mi spingeva a fare e dire cose senza aver prima
riflettuto e premeditato. Avevamo fatto conversazione. Avevamo
parlato di eventi, e delle nostre vite. Io condividevo cose su me
stesso senza che stessi conducendo una partita mentale a scacchi o
avessi ponderato come sfruttare al meglio le informazioni che mi
comunicava a mio vantaggio.
Volevo stare con lei, passare del tempo in sua compagnia per il
solo piacere della sua compagnia, un sentimento che era sia nuovo
e inusuale che assolutamente sgradito.
Jessica affilò lo sguardo. «Da quando?»
«I nostri nonni erano amici. Quindi immagino sia un’amica di
famiglia da quando Don Donner e nonno Oliver si incontrarono per la
prima volta.»
Jess sbuffò d’impazienza e mi schiaffeggiò il ginocchio. «Fai
l’evasivo, Cletus. E quando fai l’evasivo, significa che non vuoi
parlare di qualcosa. E quando non vuoi parlare di qualcosa, di solito
significa che quel qualcosa è davvero interessante.»
Annuii con un cenno austero. «Una teoria molto affascinante.»
Jessica mi scrutò per qualche istante e io ricambiai il suo sguardo
ficcanaso con uno amichevole dei miei.
Ma poi Duane, il traditore, disse: «Credo che Cletus stia aiutando
Jennifer.»
«Duane.» Il mio tono trasudava avvertimento; scossi la testa.
Lui si rifiutò di guardarmi negli occhi dallo specchietto retrovisore.
Invece, sorrise e aggiunse: «Billy l’ha portata fuori qualche settimana
fa, per un appuntamento di prova o qualcosa del genere. Lei non ha
mai avuto un ragazzo, non credo. Hai visto come i suoi genitori la
tengono rinchiusa come Raperonzolo. Secondo me Cletus la sta
aiutando a capire un po’ di cose, così che lei possa fuggire dalla
follia dei suoi genitori».
Fissai a bocca aperta il retro della testa di mio fratello. «Beh! Non
sapevo fossi diventato la pettegola del villaggio.»
Alzò le spalle. «Il prossimo mese partiamo per l’Italia, Cletus. A chi
mai potremmo dirlo? E poi, magari Jess può dare una mano.»
«Voglio dare una mano!» Jessica saltellò sul sedile, rivolgendomi
un sorriso enorme e supplichevole. «Ti prego, lascia che ti aiuti. Ho
sempre pensato che lei fosse così carina e dolce. È un vero peccato
che sua mamma la vesta come una banana. Ma adesso quanti anni
ha? Ventitré?»
«Ventidue» la corressi.
«Ventidue anni sono troppi da vivere sotto il controllo dei propri
genitori. Era ora che si liberasse. Potrei insegnarle un mucchio di
cose. Ti prego, Cletus? Ti prego?» Jessica ripiegò le dita sotto il
mento e mi guardò sbattendo le ciglia.
Io mi corrucciai, per Jessica e per la sua proposta inaspettata.
Non mi piacevano le proposte inaspettate, come regola, ma Jessica
era una brava persona. E aveva, senza dubbio, spina dorsale.
«Non sto dicendo di sì,» alzai un dito ammonitore tra noi, «ma, se
lo facessi, cosa le insegneresti per prima cosa?»
Gli occhi di Jessica si sollevarono in su, verso destra, come se
stesse recuperando delle informazioni conservate in qualche
scompartimento femminile segreto del suo cervello.
Nel frattempo, io pensavo alla mia passeggiata con Jennifer lungo
il ruscello Yuchi. Non avevo programmato di parlarle del mio
fratellastro. Era semplicemente… successo. La relazione
clandestina di suo padre, il suo disprezzo verso i voti nuziali, mi
ricordavano il mio di padre fedifrago.
Quei due erano una bella coppia di stronzi.
«Non dare di matto» ordinò Jessica, riportando infine il suo
sguardo nel mio.
«Perché dovrei dare di matto?»
«Perché, in tutta sincerità, la prima cosa che io farei sarebbe
procurare a quella donna un vibratore.»
Nella macchina scese un silenzio scioccato. O per lo meno, io ero
scioccato ed ero quasi sicuro che lo fosse anche Duane. Ma poi
Duane esplose in una risata. Jessica non rise. Lei sorrideva
speranzosa. Io non risi. Ero afflitto da improvvise e vivide immagini
di Jennifer mentre si dava piacere.
Quel suggerimento era pessimo quasi quanto il sentito appello di
Claire di qualche ora prima che Jennifer cercasse l’amore piuttosto
che l’esperienza, come anche il materiale visivo che quella
conversazione aveva evocato. Dannazione.
«Ascoltami un momento.» Jessica agitò le mani tra noi, come per
comunicarmi di raffreddare i bollori. «Se ripenso a quando ero
un’adolescente e non avevo la più pallida idea di cosa diavolo
volessi, vorrei che qualcuno mi avesse dato un vibratore.»
«Io ti avrei dato ben più di quello» borbottò Duane.
«Oh buon Dio» mormorai e alzai lo sguardo al cielo.
Jess spostò l’attenzione su Duane, con il suo sorrisetto che
cresceva allusivamente, poi ritornò su di me. «Dico davvero. Le
ragazze non sanno niente di queste cose. Mia mamma non me ne
ha mai parlato, per cui ti garantisco che nemmeno Diane Sylvester
ha mai detto una parola al riguardo a Jennifer. Lei è stata educata in
casa, per cui probabilmente ne sa ancora meno. E suo padre
controlla le sue ricerche online sia sul portatile che sul cellulare. Se
ne vantava sempre con noi insegnanti. Sono convinta che
quell’uomo sia un sociopatico. Al confronto dei Sylvester, i miei
genitori sembrano dei progressisti.»
Questa notizia non mi sorprendeva. La differenza principale tra
mio padre e Kip Sylvester era che Darrell non aveva mai finto di
essere un pio santarellino. Il padre di Jenn, invece, spargeva
ovunque il suo letame santimonioso. La mamma una volta mi aveva
confessato, con foga e furore, che Kip spesso citava in modo errato
la Bibbia per tenere sotto controllo i figli. Jennifer e Isaac avrebbero
meritato di meglio che crescere nell’ipocrisia bigotta del loro padre. E
la loro madre meritava di meglio che essere tradita da quell’uomo.
«I tuoi genitori sembrano persone molto gentili.» Mi sporsi in
avanti sul mio sedile. «Lo sceriffo mi è sempre sembrato un uomo
molto ragionevole.»
«Tu gli piaci, Cletus.» Duane mi lanciò un’occhiata e poi tornò a
concentrarsi sulla strada. «Il papà di Jess ti stima moltissimo.»
Fui sorpreso da quella notizia, non perché lo sceriffo mi avesse
mai trattato male, al contrario. Mi aveva sempre trattato in modo
imparziale, come trattava tutti gli altri.
Una strana fitta di senso di colpa mi si risvegliò tra le costole.
Stavo trafugando prove dall’ufficio dello sceriffo James da mesi, per
poi riposizionarle in ubicazioni strategiche assieme a elenchi
contraffatti di attività di riciclaggio di denaro sporco e strozzinaggio.
A mia difesa, gli elenchi erano un resoconto accurato delle reali
attività di riciclaggio di denaro sporco e usura del club di biker, ma i
Wraiths erano disorganizzati in maniera irritante. La loro contabilità
non aveva alcun metodo. Per cui io avevo riportato nero su bianco i
dettagli per far sembrare il club più organizzato. Le prove rubate
erano un bel fiocco con su scritto “intralcio alla giustizia” che serviva
per tenere insieme il tutto.
Senza la mia interferenza, le prove rubate da sole avrebbero
potuto condurre all’arresto di diversi membri degli Iron Wraiths.
Quegli arresti sarebbero stati delle piccole vittorie per lo sceriffo. Ma
si sarebbe trattato di vittorie momentanee, perché nessuna delle
prove avrebbe condotto il club alla rovina. Io guardavo il quadro
nell’insieme. Aiutare il club a sembrare più organizzato nelle sue
attività criminali avrebbe portato alla loro rovina, perché un’accusa di
associazione a delinquere non avrebbe solo rimosso il capo
dell’organizzazione, ma chiunque fosse coinvolto.
Sarebbero andati tutti in prigione per tanto, tanto tempo quando io
avrei terminato l’opera. Ogni. Singolo. Membro.
Anche Isaac… Questa realizzazione mi fece fermare a riflettere.
«Cletus?»
Tornai a prestarle attenzione, dato che il sorriso supplichevole di
Jessica non si era spento.
«Forse penserai che sia pazza, ma non lo sono. Ho ragione. E tu
sei intelligente. Quindi sai che ho ragione. Dai un pesce a un uomo e
lo sfamerai per un giorno, ma...»
«Dai un vibratore a una donna e godrà per tutta la vita. Ho
capito.» Zittii Jessica con un cenno della mano, guardando fuori dal
finestrino alla mia sinistra, mentre ponderavo il suo consiglio.
Mi sembrava un passo importante. Non volevo terrorizzare quella
donna con giocattoli sessuali. «Non saprei, Jess. Non ho la più
pallida idea di come potrebbe reagire. Mettiti nei suoi panni.»
«Vuoi aiutarla? La chiave per farlo è emanciparla.»
«Lo so.» E lo sapevo davvero. Per questo il secondo compito a
casa per lei era stato di apportare dei cambiamenti, ma solo i
cambiamenti che lei desiderava.
Jess continuò a insistere. «È già cambiata. Il modo in cui si veste,
in cui si pettina, in cui dice la sua. Ed è magnifico, è bellissimo da
vedere. Sta prendendo il controllo della sua vita un passetto alla
volta.»
«Io che mi presento con un dispositivo di stimolazione genitale,
non mi sembra un passetto.»
«Allora lascia che lo faccia io.»
La guardai di traverso. «Cosa?»
«Lascia che lo faccia io. Tu la porti da Big Todd e io l’accompagno
dentro. Così si potrà anche scegliere il colore!»
Gemetti, mentre un nuovo e vasto assortimento di immagini luride
mi assaliva la psiche: Jennifer in bagno, in piedi, che usava il suo
giocattolino; Jennifer in bagno, in piedi, mentre usava il suo
giocattolino davanti allo specchio; Jennifer in bagno, in piedi, mentre
usava il suo giocattolino davanti allo specchio mentre io le stavo
dietro e… Gemetti di nuovo.
La domanda non era se Jennifer avrebbe saputo gestire o no la
novità di un vibratore. La vera domanda era: ne sarei stato capace
io?

«Cosa pensi di fare con quella?»


«Come scusa?»
Lanciai un’occhiata a Shelly. La ragazza stava in piedi di fronte a
me, con le braccia conserte, e il suo sguardo acuto si spostava tra il
mio volto e le mie mani.
«La chiave dinamometrica. Cosa ci vuoi fare con quella?»
Lanciai uno sguardo alla chiave a bussola nella mia mano e
scoprii che Shelly aveva ragione. Non era una chiave a bussola.
Avevo preso per sbaglio la chiave dinamometrica.
Maledizione. Dovevo concentrarmi.
Gli ultimi due giorni erano stati uno strazio continuo. Non solo
Jessica era stata un tormento, ma anche il seme dell’idea che lei
aveva piantato nel mio cervello aveva preso vita propria.
Sabato sera avevo passato l’intero viaggio di ritorno a Green
Valley a pensare a Jennifer. A chiedermi se sarebbe andata in
pasticceria per preparare per il giorno successivo o sarebbe tornata
a casa. Mi ero torturato immaginandola mentre si infilava nel letto.
Cosa avrebbe indossato? Cosa avrebbe sognato? Dormiva
abbastanza? Stava facendo giardinaggio con addosso una
salopette? Cosa aveva piantato nel suo giardino? Era tornata a
passeggiare nei boschi?
Domenica piovve, e io sapevo che le piaceva leggere quando
pioveva. Aveva letto un libro? Quale libro? Le era piaciuto? Cose ne
aveva pensato?
Domenica, dopo la messa, Jessica si era presentata a casa e non
aveva smesso di assillarmi finché non avevo acconsentito a seguire
il suo piano. Ma non avevo accettato per la sua insistenza, avevo
accettato perché era un buon piano. Era tempo che Jennifer
allargasse i propri orizzonti. Era tempo che uscisse dal conforto di
quanto già conosceva. Questo era un grosso passo.
Prima Jennifer Sylvester avesse imparato a stare in piedi sulle sue
gambe, prima avrei potuto districarmi dalla sua vita e ristabilire la
normalità e la calma nella mia. Stavo continuando a ossessionarmi.
Nel frattempo cose importanti – come mettere l’ultimo chiodo alla
bara degli Iron Wraiths, la sistemazione del matrimonio di Jethro a
cui mancavano due settimane, il Ringraziamento e la preparazione
per la mia caccia al cinghiale in Texas – richiedevano la mia
attenzione. Senza contare poi il mio lavoro ordinario, progetti vari ed
eventuali, la gestione del fondo patrimoniale di mia mamma,
assicurarmi che Shelly fosse adeguatamente addestrata e pronta
prima della partenza di Duane e stare a gestire
contemporaneamente il caratteraccio di Beau, e tutta l’altra carne
che avevo al fuoco.
Gettai la chiave dinamometrica nel carrello degli attrezzi, dove
atterrò sferragliando violentemente. «Le stavo solo facendo una
visita.»
«Sei passato a fare visita alla tua chiave dinamometrica?» Shelly
chiese, scettica.
«Sì. Ne abbiamo passate tante insieme.»
Continuò a scrutarmi. Lei era fatta così. Non si accigliava spesso e
sorrideva ancora meno. Era calma e composta e brutalmente
schietta.
«C’è qualcosa che non va in te.» Il suo tono era piatto, ma non
meccanico. Era un’osservazione, non un giudizio.
Annuii, ma non risposi. La franchezza di Shelly Sullivan non mi
metteva in agitazione, non come succedeva a Beau, che sembrava
prenderla sul personale.
C’era ancora del lavoro da fare e il grande orologio sopra le scale
indicava che l’orario di chiusura era passato da un pezzo. La mia
produttività recentemente era stata deludente, eppure avevo passato
tutta la giornata a fissare l’orologio, ansioso che arrivassero le otto in
punto. Jennifer non sapeva quali macchinazioni avessi in serbo per
la serata, dato che non l’avevo avvertita. Era una di quelle situazioni
in cui si richiedeva un attacco a sorpresa.
«Devo andare.» Mi raddrizzai da dove ero piegato, sul mio banco
di lavoro. «Puoi chiudere tu?»
Shelly annuì, pulendosi le mani con un panno. Fece un passo in
avanti e usò il panno per recuperare la chiave dinamometrica che
avevo gettato con noncuranza e la sistemò al suo posto nel carrello
degli attrezzi. Poi ordinò velocemente gli inserti della chiave dal più
piccolo al più grande e posizionò l’attacco in un angolo
perfettamente perpendicolare.
Io guardai sorpreso Shelly intenta a riordinare, poi mi guardai
intorno nel negozio con occhi nuovi, nati dal sospetto. Il garage non
era immacolato, ma poco ci mancava. Ogni cosa era stata messa
via al suo posto, in maniera perfettamente ordinata. I miei occhi
tornarono veloci su di lei, con un’idea che mi balzava in mente.
«Shelly?»
«Sì?»
«Perché sei ancora qui?»
La mascella le si contrasse e deglutì, i suoi occhi erano ancora
incollati al carrello degli attrezzi che stava sistemando. «Aspettavo
che finissi.»
«Perché?»
Shelly alzò il suo sguardo distaccato su di me. «Così, senza
motivo.»
Shelly era davvero una donna bellissima, bellissima e fredda. Non
bellissima e dolce, come Jennifer. Shelly era brutalmente schietta e
la sua schiettezza era un’armatura, per tenere gli altri a debita
distanza.
Invece la schiettezza di Jennifer era a fin di bene, e scaturiva da
sentimenti di fiducia e speranza.
Forse perché io stesso stavo combattendo con le mie personali
ossessioni, avvertii una corrente invisibile di tumulto provenire da
Shelly quella sera, nonostante all’esterno desse a vedere solo
distacco.
«Shelly.» Addolcii il tono. Questo la spinse a guardarmi a occhi
stretti. «Stai aspettando che io finisca per mettere tutto in ordine,
vero? Hai bisogno che tutte le cose siano al loro posto?»
Lei strinse i denti. I suoi occhi caddero al suolo e poi si rialzarono.
L’intensità dell’ostilità nel suo sguardo mi fece sobbalzare.
«Non ne ho bisogno.» Il suo tono trasudava insolenza, era sulla
difensiva.
Alzai le mani, volendo rassicurarla che non ero tipo da giudicare.
E in più, non mi importava. Poteva riordinare quanto voleva, se ne
aveva bisogno. Ma ero anche altamente frustrato con me stesso.
Non riuscivo a credere di aver lavorato con Shelly per quasi due
mesi senza essermi assolutamente reso conto che soffriva di un
disturbo ossessivo compulsivo. Come avevo potuto non notare una
cosa tanto ovvia?
Cos’altro non stavo notando? Cos’altro non stavo vedendo?
Queste erano cose che avrei dovuto sapere riguardo la mia futura…
Il mio mondo ben ordinato era preda del caos, disfatto da una
pasticciera di bassa statura.
«Ora vado.» Mi allontanai. «Tu fai quello che devi, dopodiché
sentiti libera di mettere tutto in ordine come preferisci, oppure no.»
Parte dell’ostilità nel suo sguardo torvo si dileguò e lei annuì con
un cenno.
Lasciai Shelly alle sue pulizie, uscii direttamente dal garage senza
passare a controllare l’ufficio. Ero inquieto e irritabile e indossavo
ancora la mia tuta da meccanico coperta di grasso. Non potevo farci
niente, per cui avrei dovuto aprirla e legare le maniche attorno ai
miei fianchi. Altrimenti avrei lasciato macchie di grasso in tutta la
macchina.
Nel tragitto verso la pasticceria mi costrinsi a rispettare i limiti di
velocità. Non avevo alcuna ragione di affrettarmi. Proprio nessuna.
Con Duane e Jess ci saremmo incontrati da Big Todd, il negozio di
articoli per adulti meno squallido di tutta Knoxville, alle nove e
mezza. Non ero nervoso. Ero… ansioso al posto di Jennifer.
Nonostante avessi rispettato il limite di velocità, arrivai con cinque
minuti di anticipo. Odiavo arrivare in anticipo. Era come dover
aspettare due volte per lo stesso evento. La macchina di Jenn era
parcheggiata nel posteggio più vicino alla porta della cucina e
riuscivo a vedere la sua ombra muoversi all’interno. Piuttosto che
aspettare l’orario concordato, andai alla porta sul retro e bussai.
Sentii dei rumori da dietro la porta e ignorai l’impennata euforica
del mio battito cardiaco. Mi piaceva il suo aspetto fisico, tutto qui.
Non ero emozionato all’idea di vederla. Non avevo contato le ore
che mancavano al nostro incontro. Non vedevo l’ora che il nostro
accordo giungesse a conclusione. Non avevo bisogno di lei nella mia
vita a distrarmi.
L’avrei portata da Big Todd. Lei si sarebbe comprata un sex toy.
Lei si sarebbe sentita emancipata. L’avrebbe usato, e io non avrei
pensato a lei mentre lo usava. E poi, con un pizzico di fortuna,
questo passo importante sarebbe stato l’ultimo aiuto di cui avrebbe
avuto bisogno da parte mia. Avrebbe tenuto testa a sua madre, detto
quello che pensava e avrebbe goduto nei giorni di lavoro.
… goduto del frutto del suo lavoro. Non goduto goduto. Del suo
lavoro. Godere del frutto del suo lavoro. Già.
Jennifer aprì la porta e io feci un passo indietro, prendendo una
profonda boccata d’aria e incrociando le braccia sul petto. Ero pronto
a farla finita con quella storia.
«Ciao, Cletus.» Lei sorrise, dolce e vulnerabile. I suoi occhi grandi
e luminosi si spostarono nei miei e il suo intero volto si accese, come
illuminato internamente da raggi di sole e polvere d’angelo.
Smarrii il filo dei miei pensieri perché fu rimpiazzato da uno solo: È
troppo presto. Non sono pronto.
«Vieni dentro. Ho dei biscotti.» Jennifer mi prese per un braccio e
mi tirò nella cucina, poi andò a chiudere la porta alle mie spalle. «Fa
freddo fuori, perché non hai la giacca?»
«Io non...»
«Oh, non importa.» Jennifer mi girò intorno per mettersi davanti a
me e mi strofinò le mani su e giù lungo le braccia. Poi intrecciò le
nostre dita insieme e si portò i miei palmi alle sue guance,
premendoveli contro. «Santo cielo, stai gelando.»
Alzò il viso e mi sorrise, tremando, condividendo il suo calore
come se io ne avessi diritto. La fissai. In verità fissai le mie mani sul
suo volto. Stavo provando un forte senso di déjà-vu. Avevo fatto un
sogno così, in cui le tenevo il volto tra le mani e poi ci eravamo
divorati a vicenda.
L’istinto mi fece leccare le labbra e il movimento attirò i suoi occhi
sulla mia bocca.
Il suo sorriso vacillò.
Io le sollevai il mento.
Lei me lo permise.
Il suo respiro cambiò.
Feci un passo in avanti.
Odorava di vaniglia e noce moscata.
I suoi occhi si chiusero lentamente.
Io mi meravigliai di quanto fosse bella la sua fiducia in me, mentre
la mia bocca rivendicava il possesso della sua.
“Amore alle labbra era un tocco
Dolce quanto reggevo;
E parve una volta troppo;
Io dell’aria vivevo”
- Robert Frost

Le sue labbra erano morbide e deliziose. Cazzo, quanto erano


deliziose.
Se fossi stato in condizione di pensare, sarei rimasto sorpreso
dalla sua reattività, da come aveva avvolto le braccia attorno al mio
collo, era entrata completamente nel mio spazio personale e aveva
incollato completamente sia la sua bocca che il suo corpo contro i
miei. Da come voleva essere il più vicina possibile anche se io ero
freddo e sporco, e lei era calda e pulita. Ma non ero in condizione di
pensare. Ero solo in condizione di bramare. Ero in condizione di
soddisfare desideri.
Alzai la testa per mordicchiarle piano il labbro inferiore, per
passarci poi sopra la lingua. E volevo assaggiare di più di lei, ogni
parte di me lo pretendeva. Lei gemette, sollevando il mento,
schiudendo la bocca e spostandosi senza sosta. Leccai tra le sue
labbra e la sua dolce lingua saettò fuori, sfiorando la mia.
E sostanzialmente, bastò quello. Fu tutto ciò che ci volle a farmi
perdere la ragione.
Ricatturai la sua bocca, incurante della sua inesperienza, e la
divorai come desideravo fare da settimane. La assaporai da ogni
angolazione. Feci scivolare le mani lungo il suo corpo, traendo
piacere dalla sensazione delle sue curve e della sua cedevole
flessuosità.
La feci indietreggiare in cucina, fermandomi quando le sue gambe
incontrarono il bancone. Le afferrai il fondoschiena, la sollevai sul
piano da lavoro e mi misi in mezzo alle sue ginocchia aperte. Lei
annaspava, ansimava pesantemente, mi affondava le unghie nella
pelle della nuca e nelle spalle. Era eccitata e la sua eccitazione
alimentava la mia follia.
Nelle mie fantasie, a quel punto le avrei infilato le mani sotto la
gonna, l’avrei sollevata facendo strisciare la punta delle dita su per le
sue cosce mentre lei si sbottonava il davanti del vestito. Poi mi sarei
piegato in avanti e…
Sì, insomma. Poi le cose sarebbero progredite.
I lampi peccaminosi di quella fantasia erano un eccellente
promemoria del vecchio adagio: troppo, troppo presto. Forse lei mi
avrebbe permesso di toccarla. Se l’avesse fatto, allora sarebbe
venuta, a gambe spalancate, col vestito aperto. Avrebbe palpitato
attorno alle mie dita sul bancone della cucina dove preparava le sue
torte.
Se ne sarebbe pentita, dopo? Probabilmente sì.
Io me ne sarei pentito… per lo più.
Ma una parte di me non l’avrebbe fatto. Una parte di me avrebbe
fatto tesoro di quel ricordo prezioso. Una parte di me avrebbe
insistito per avere di più, per stenderla sulla schiena mentre era
ancora confusa e sopraffatta. Le avrebbe sollevato le gambe per
metterle sulle mie spalle, con una carezza lievissima avrebbe
passato le dita all’interno delle cosce, facendola rabbrividire; avrei
assaporato la sua eccitazione sulla mia lingua, le sue palpitazioni
sulle mie labbra, e l’avrei portata di nuovo all’orgasmo. Avrei fatto
tesoro anche di quel ricordo. E forse, avrei voluto ancora di più.
Forse mi sarei abbassato i pantaloni e l’avrei riempita, l’avrei
presa, l’avrei fatta mia.
Perché lei si fida di me, e me lo permetterebbe, e si sentirebbe
così divinamente bene, così eccitata e così mia…
«Cazzo.»
Le diedi le spalle, strappando la bocca dalla sua, a malapena
riuscii a sottrarmi all’impeto delle mie cattive intenzioni. Tremavo,
bruciavo ed ero davvero duro. La cucina era troppo stretta, lo spazio
soffocante, il ritmo del suo respiro mi riempiva le orecchie, come un
faro gentile e allettante. Non avevo il totale controllo di me, non
ancora, e odiavo non avere il controllo.
M’incamminai con decisione verso la porta, la aprii e uscii. Una
folata glaciale del vento tardo autunnale fu una distrazione
benvenuta e mi aiutò a tornare lucido. Ironicamente, proprio la
stessa ossessione che mi aveva condotto a questo momento era
all’origine della mia attuale lucidità, alla fine.
Era tempo di un discorsetto severo. Chiaramente mi serviva una
bella ramanzina e un incisivo promemoria che mi ricordasse cosa
diavolo stessi facendo.
Il solo scopo della mia presenza lì, di quelle lezioni, era di aiutare
quella donna a imparare come camminare con le proprie gambe,
come compiere le sue scelte, e non compierle io per lei. Non sarei
diventato l’ennesima persona di cui si fidava e che prendeva senza
chiedere, che prendeva per lei le decisioni e alimentava il vuoto della
sua ignoranza.
Tu non farai lo stronzo, Cletus Byron Winston. Non te ne
approfitterai. Non lo farai.
«Perché ti sei fermato?»
Una breve esplosione di risate mi sfuggì dal petto. Lei era proprio
dietro di me. Non l’avevo sentita avvicinarsi. Avevo le difese
abbassate, per cui risposi senza artifici.
«Credimi, se fossi stata una qualsiasi altra donna non l’avrei
fatto.» Una volta che le parole mi furono uscite, un dolore sordo si
espanse nel mio petto. Ebbi la strana e fugace impressione che il
cuore mi si stesse scagliando contro le costole, in cerca del suo.
«La pratica… giusto.» Sembrava che Jennifer parlasse a se
stessa. La sentii fare un passo strascicato all’indietro.
Scossi la testa, ma non la corressi. Seguì un momento di
tensione, durante il quale io mi tirai il labbro inferiore tra i denti, e
sentii anche lì il suo sapore. Pensai per un momento di raccontarle
una menzogna, ovvero che le serviva un altro po’ di pratica con i
baci.
Lei ruppe il silenzio schiarendosi la gola. «Torna dentro. Ho, uhm,
qualcosa da darti. Vuoi un tè o del caffè?»
Mi salì l’acidità allo stomaco sentendo l’allegria forzata nella sua
voce. Quando fui certo che non correvo il rischio di saltarle addosso
nuovamente, questo finché fossi riuscito a mantenere le distanze, mi
girai e la seguii in cucina, chiudendo a chiave la porta dietro di me.
Jenn spinse verso di me una biscottiera a forma di gatto, poi si
voltò per mettere l’acqua a bollire sul fornello. «Ho bisogno che tu
mangi questi biscotti.»
Io adocchiai la biscottiera. «Sembra uno di quei gatti giapponesi
portafortuna.»
«Un maneki neko. Sì. La zampa si muove, vedi?» Jennifer toccò
lievemente la zampa e, subito il gatto portabiscotti la agitò.
«Dove l’hai preso?» chiesi, sorprendendomi da solo perché volevo
realmente saperlo.
«Mangia i biscotti. Me l’ha mandato una mia amica di penna.»
Ancora non aveva incontrato il mio sguardo, si teneva occupata in
attività a caso, come pulire il bancone con uno strofinaccio o
ordinarmi di mangiare i biscotti. Non mi piaceva la sfumatura cinerea
della sua pelle o la linea rigida delle sue labbra.
«Ci è stata? In Giappone?» Presi un biscotto dalla cima della pila
nella biscottiera e ne assaggiai un morso, però riuscii a fermarmi
prima di gemere di piacere. Il biscotto aveva esattamente lo stesso
sapore di Jennifer. Sapeva di vaniglia e noce moscata e meraviglia.
«No. Lei è giapponese. Vive lì. Devi mangiare tutti i biscotti, ora.»
Il tono di Jenn era inusualmente piatto, i suoi occhi erano fissi sulla
teiera davanti a lei.
Una fitta strana, come nostalgica ma anche carica di frustrazione,
mi spinse a riflettere sulla scelta delle mie parole successive. Volevo
vedere i suoi occhi ma lei non me li concedeva.
«Perché?» chiesi.
«Perché cosa?»
Ne presi altri due. «Perché devo mangiare tutti i biscotti?»
«Perché sì.»
Perché sì. Non offrì altra spiegazione. E ora guardava accigliata la
teiera. Il suo mento tremò e quella vista spinse il mio cuore a
scagliarsi nuovamente contro le costole. Digrignai i denti, lei strinse
le labbra in una linea testarda.
Era infelice. Io l’avevo resa infelice. Rendere Jennifer infelice era
ufficialmente la sensazione peggiore al mondo, al primo posto
insieme al deludere mio fratello Billy e vedere mia sorella piangere.
Per cui buttai fuori, senza pensare: «Hai mai fatto una verticale di
biscotti?»
Lei scosse la testa, tirando su col naso, e si voltò per prendere
due tazze.
«Cos’è?» La sua voce era spezzata.
«È come una verticale di birra, ma con i biscotti.»
I suoi movimenti si bloccarono. Sbatté le palpebre. Un nuovo
cipiglio le affiorò sulla fronte, ma questo era assorto, non triste.
«Intendi quando le persone fanno la verticale e bevono così la
birra?»
«Esatto. Ma con i biscotti.»
«Sembra una pessima idea.»
«Almeno non ti cadono le briciole sulla maglietta.» Addentai il
terzo biscotto.
«Sì… ma,» Jenn scosse la testa, mentre un sorriso esitante si
impadroniva delle sue labbra sensuali, «poi ti andrebbero su per il
naso.»
«Quella è la parte migliore. Le puoi tenere per dopo.»
Lei fece una buffa espressione di disgusto e scosse la testa. I suoi
occhi balzarono nei miei per una frazione di secondo e poi si
allontanarono, posandosi sui fornelli per recuperare l’acqua.
Passò un altro minuto prima che dicesse: «Se vuoi fare una
verticale di biscotti, ti tengo io per le gambe. Perché ne hai ancora
un sacco da mangiare».
Io alzai un sopracciglio guardando la biscottiera. Aveva ragione.
Secondo la sua richiesta, avevo ancora una dozzina di biscotti da
mandare giù. Non erano una tonnellata, ma erano più che
abbastanza.
«Spiegami di nuovo perché devo mangiare tutti i biscotti.»
«In fondo al barattolo c’è una cosa che voglio darti.»
«Perché non li rovesci tutti fuori e basta?»
Jenn torse le labbra da un lato; i suoi occhi, rivolti verso il basso, si
accesero per una qualche emozione e poi lei sbuffò. «Va bene. Se
non vuoi i miei biscotti, li butto via e basta.»
Ebbi l’impressione che non si stesse riferendo solo ai biscotti. Ma
prima che potessi farle domande, lei prese la biscottiera. Con
movimenti scattosi e agitati, rovesciò i deliziosi biscotti alla vaniglia
sul bancone e frugò tra essi per recuperare quattro chiavette USB
grigie lunghe un paio di centimetri, poi spazzò via con un braccio tutti
i biscotti in un bidone della spazzatura in attesa lì accanto.
Io emisi un verso di sorpresa, a bocca spalancata.
«Buon Dio, donna. Hai appena buttato via quei biscotti squisiti?»
Lei ignorò la domanda, digrignando i denti, e spinse le chiavette
USB verso di me. «Tieni, sono tue.»
«Ma di che cosa parli?» La mia mente stava ancora elaborando la
perdita di quegli eccezionali biscotti. Potrei non riprendermi mai più.
Finalmente, finalmente, lei sollevò gli occhi nei miei e quello che vi
vidi mi colpì come un pugno nello stomaco. Erano di ghiaccio e di
fuoco insieme, rossi e azzurri, furibondi e addolorati.
«Il video in cui tu prendi le prove è in queste chiavette. Le avevo
nascoste qui dentro, nella cucina. Ora sono tue. Non le voglio più.»
La mia bocca mi si spalancò così come gli occhi. La fissai
sbalordito, un’espressione non comune per me, continuando a
spostare lo sguardo tra lei e gli oggettini di tecnologia lunghi due
centimetri che avrebbero potuto segnare la mia rovina.
«Avevi salvato il video su delle chiavette.» Non era una domanda,
era la rivelazione di quanto eclatantemente mi fossi sbagliato.
Pensavo che il mio amico di Chicago avesse cancellato ogni
traccia di quella prova. Non era così. Era stata lei ad avere il
controllo per tutto il tempo. E lo aveva ancora. Era lei che stava
decidendo che il nostro accordo era concluso. Non io.
Non io.
Il cuore mi tuonava tra le orecchie, spronato dal panico. Era una
sensazione simile a quella che si prova nei secondi prima di uno
schianto frontale, in cui si vede l’altra macchina arrivare ma non si
può fare niente per impedire quanto sta per succedere.
Jenn inclinò il mento, in una posa di sfida, e si mise le mani sui
fianchi. «Non voglio più il tuo aiuto.»
Io sobbalzai con una smorfia, incapace di bloccare quella reazione
in tempo perché il mio cuore si stava lanciando di nuovo contro la
mia gabbia toracica. Ma riuscii a infondere nel mio tono una calma
gentilezza, quando chiesi: «E se io volessi aiutarti?»
«No, grazie» rispose lei con fermezza, scuotendo la testa e
abbassando gli occhi verso le tazze. «Apprezzo che tu mi abbia
indirizzata sulla buona strada e abbia sottratto del tempo alla tua vita
piena di impegni per… per… dimostrarmi che ciò che voglio io è
importante. So che devo ancora fare molta strada. Per usare la
metafora di Claire, mi piacerebbe imparare a volare da sola prima di
cercare una nuova gabbia.»
La fissai, incapace di muovermi, mi sentivo duplicemente fiero e
abbattuto.
Non sono pronto. Non sono pronto a lasciarla volare via.
«Dato che i biscotti non ci sono più, il tè non serve.» Sembrava
distratta e si stava accigliando di nuovo. Sbrigativa, si voltò e rimise
le tazze sulla mensola, poi si pulì le mani sul grembiule senza che ce
ne fosse bisogno. «Ho delle cose da finire in negozio, quindi ti lascio,
sai dov’è l’uscita.»
Jenn mi rivolse un sorriso cortese, ma non fece risalire lo sguardo
oltre il mio collo. A passi leggeri, uscì dalla cucina per entrare nel
negozio.
Io rimasi completamente immobile, fissando il punto in cui lei era
sparita, in ascolto. Diversamente dall’ultima volta in cui mi aveva
abbandonato senza tante cerimonie perché me ne andassi da solo,
sentii le sedie grattare sul pavimento, delle chiavi tintinnare, i suoni
rivelatori di vetrinette che si aprivano e poi chiudevano.
Cercai delle parole, ma non riuscii a trovarle. Così me ne andai,
intontito e confuso dal perché mi sentissi il cuore affranto. Ma non
ero realmente confuso. Piuttosto, ero affranto e troppo testardo per
ammettere il vero motivo.
Mentre tornavo a casa in macchina, non riuscii a smettere di
pensare a lei. Pensai al suo sorriso quando ero arrivato, e alla sua
espressione accigliata quando me n’ero andato. Pensai al vestito
che indossava. Non era giallo. Pensai al nostro bacio e al perché mi
ero fermato. Per la prima volta da tanto tempo, stavo dubitando di
me stesso.
Ma soprattutto non riuscivo a scrollarmi di dosso la
consapevolezza che Jennifer avesse gettato qualcosa che per me
aveva vitale importanza, quando aveva buttato quei biscotti alla
vaniglia.
E anche se non ero perfettamente certo di cosa fosse quella cosa,
forse non mi sarei mai ripreso.
“T’amo come la pianta che non fiorisce e reca dentro di sé, nascosta, la luce di
quei fiori;”
- Pablo Neruda

«Sei teso. Non puoi fare yoga se sei teso.»


Abbandonai la posizione e guardai accigliato la mia compagna di
yoga. «Potresti smettere di beccarmi?»
Sienna alzò un sopracciglio. «Solo se tu smetti di arruffare le
penne.»
La bocca mi si sollevò da un lato, ma riuscii a sopprimere il mio
sorriso prima che potesse espandersi. «Ci manca poco che mi
chiami galletto.»
«No, invece. Stavo per chiamarti calamita per pollastrelle, in
realtà!»
Cedetti a una risata e scossi la testa, guardando la futura sposa di
Jethro. Era brava coi giochi di parole e questo mi piaceva di lei.
Riusciva sempre a risollevarmi l’umore.
Sienna mi rivolse un rapido sorriso e le sue caratteristiche fossette
fecero la loro comparsa. «Ti è piaciuta questa?»
«Meglio di essere chiamato una testa di gallina.»
Stavolta rise lei, gettando la testa all’indietro. «Oh, questa è
buona. La userò in uno dei miei film.»
«Fai pure. Per come la uso io, non ci farò mai soldi.»
Risistemandomi sul mio tappetino chiusi gli occhi, inspirai ed espirai,
liberando la mia mente e provai nuovamente la posizione.
Era lunedì mattina e si dava il caso che fosse Halloween, una
settimana dopo la mia ultima e conclusiva lezione con Jennifer
Sylvester.
Ero… infelice. Ed era tutto ciò che avevo da dire in merito.
Sienna e io eravamo all’aperto, sulla veranda sul retro della casa,
di fronte a noi c’era il parco nazionale, oltre la nostra terra. Era metà
mattina, faceva freschetto ma non era troppo freddo e il sole iniziava
a spuntare dietro le Smoky Mountains. La foschia si aggrappava
ancora al campo di fiori selvatici, visto che la nostra casa sorgeva
nel profondo della vallata: in questo periodo dell’anno i raggi del sole
non arrivavano alla casa prima delle nove e mezzo del mattino.
Sienna e io avevamo fatto yoga insieme qualche volta prima che
lei e Jethro partissero per Washington per girare il suo ultimo film.
Dopo il suo ritorno, avevamo ripreso a fare yoga tre mattine a
settimana. Io non volevo che facesse posizioni che potessero far
male al bambino, per cui aveva preparato una sequenza adeguata
alle donne incinte. Lei mi aveva detto che ero ridicolo e uno zio
troppo invadente, ma aveva comunque accettato di attenersi alla
sequenza.
«Allora» iniziò Sienna, spezzando la quiete, «riguardo all’addio al
celibato di Jethro...» Finì la frase con un tono acuto e interlocutorio,
come se toccasse a me completare la parte mancante.
Io scossi la testa, rifiutandomi di guardarla. Sapevo cosa aveva in
mente.
«Non so di cosa tu stia parlando. E puoi dire a Jethro di smetterla
di chiedere alla sua donna di fare il lavoro sporco per lui.»
«E se fossi semplicemente curiosa?»
«Ti farò vedere le foto una volta terminato il tutto.»
Sentii i suoi occhi su di me, mentre mi esaminava. «È vero che hai
ingaggiato una spogliarellista?» Avvertii un sorriso nella sua voce.
«Perché sono quasi certa che Jessica abbia provveduto, per il mio
addio al nubilato. Mia sorella Marta rimarrà inorridita.»
«Tua sorella è sempre inorridita.»
Sienna si lasciò scappare una risata sorpresa. «Sei teso.» La
sentii cambiare posizione. «E ultimamente sei scontroso.»
«Sono sempre scontroso.»
Ero scontroso.
Duane e Jess non si erano infastiditi quando non ci eravamo
presentati da Big Todd. Ma io ero rimasto infastidito, e lo ero ancora.
Non vedevo Jennifer da una settimana. La lontananza non
riscalda i cuori. Chiunque l’avesse detto era un maledetto cretino. La
lontananza faceva venire ai cuori tendenze suicide. Prendete il mio
cuore, per esempio. Non aveva smesso di scagliarsi contro la mia
gabbia toracica all’improvviso, a orari strani, sia del giorno che della
notte, per tutta la settimana.
Chiaramente il mio cuore era un pericolo per se stesso e per me,
perché Jennifer Sylvester e io non eravamo fatti l’uno per l’altra, per
niente.
Se avessi deciso di corteggiarla, presupponendo poi che lei
desiderasse le mie attenzioni, le cose sarebbero state complicate tra
noi. Io non sopportavo le cose complicate. I suoi genitori non
avrebbero approvato e io non avrei cercato la loro approvazione. In
più, io volevo cose prevedibili e lei non smetteva mai di
sorprendermi. Insieme, non saremmo stati perfettamente pratici.
Saremmo stati poco funzionali a livello spettacolare.
Per di più, l’intensità della mia attrazione mi distraeva e io non
volevo una partner che mi distraesse. L’ultimo mese aveva provato
chiaramente che non riuscivo a vederci chiaro quando i pensieri su
Jennifer Sylvester mi annebbiavano la mente.
«No, non sei sempre scontroso.» Sienna mi tirò la barba. «Ti piace
pensare di esserlo, ma non lo sei. Fai così perché non ti ho scelto
come damigella d’onore?»
«Sì. Lo volevo, quel vestito arancione.»
«Non è arancione, è color terra bruciata.»
«È arancione e le tue damigelle sembrano delle zucche.»
Lei rise di nuovo. «Smettila di farmi ridere, non posso fare yoga se
mi fai ridere.»
«Non sembriamo delle zucche!» Una voce familiare e benvenuta
mi contraddisse alle mie spalle.
Aprii gli occhi e mi girai. Mia sorella Ashley stava salendo i gradini
della veranda, con in mano una scatola di dolci. Aguzzai gli occhi per
leggere la scritta sul lato, trovando conferma ai miei sospetti.
Pasticceria Donner. Feci una smorfia.
«Non sembriamo zucche. Siamo bellissime cucurbitacee
d’autunno. Buongiorno, Sienna. Come ti senti?» Ashley attraversò la
veranda per raggiungere Sienna e si chinò per darle un bacio sulla
guancia. «Ti ho portato delle tortine alla crema di limone.»
«Sei un angelo.» Sienna balzò in piedi e accettò la scatola da Ash.
Io seguii le due donne con lo sguardo mentre si spostavano a uno
dei tavoli da picnic, aprivano la scatola e si fiondavano sul suo
contenuto.
«Ehi!» Mi alzai. «E lo yoga?»
«Lo yoga può aspettare.» Sienna mi zittì con un cenno. «Morivo
dalla voglia di mangiare queste da quando Jethro le ha portate a
casa, la settimana scorsa. In questo momento sono l’unica cosa che
ha un buon sapore, per me. Voglio ingaggiare Jennifer Sylvester per
farmele preparare ogni giorno.»
«Puoi chiederglielo, verrà al matrimonio, sono sicura che lo
farebbe.» Ashley diede un morso al dolce e rovesciò all’indietro gli
occhi. «O fio dio.»
«Buonissime, vero?» Sienna si leccò un po’ di crema dal pollice e
gemette.
«Hai invitato Jennifer al matrimonio?» Mi grattai la guancia,
mantenendo un tono di voce indifferente per nascondere l’intensità
del mio interesse. Non mi aspettavo che Sienna invitasse Jenn,
specie dopo il comportamento da imbecille di Kip Sylvester la prima
volta che aveva incontrato Sienna. Le aveva fatto autografare venti
tovaglioli al The Front Porch, durante il primo appuntamento di
Jethro e Sienna.
Sienna non poteva rispondere perché stava masticando. Guardò
Ashley, con le sopracciglia alzate in un’espressione interrogativa.
«No, non credo che sia stata invitata. Ma Jackson sì, sia perché è
il fratello di Jessica sia perché Jethro voleva invitare lo sceriffo.
Jennifer viene con Jackson» spiegò Ashley, con tono calmo e
normale, come se quella non fosse una notizia devastante.
Come se non fosse la notizia più abominevole, traumatica,
ripugnante e dolorosa di sempre.
«Cosa?» La mia domanda brusca uscì all’aria aperta prima che
riuscissi a fermarla, schizzata fuori dalla mia bocca dal battito
rabbioso nel mio petto. «Cosa vuoi dire con “Jennifer viene con
Jackson”?»
Ashley si tese, i suoi occhi si spalancarono. Li spostò su Sienna e
poi di nuovo su di me. «Uh, esattamente questo. Jackson porterà
Jennifer al matrimonio.»
La vista mi si tinse di rosso, poi di nero.
«Come fai a saperlo?» Pretesi di sapere, alzandomi e dirigendomi
a gran passi verso di lei.
Ashley fece un passo indietro, sollevò le mani tra noi. «Calmati,
Cletus.»
«Come lo sai?»
«Perché Jackson me l’ha detto in pasticceria. Era lì con Jennifer.»
Ashley mi posò una mano sulla spalla poi la fece scivolare lungo il
braccio accarezzandomi, con occhi spalancati e preoccupati.
Il suo tocco mi riportò in me, anche se la mia pressione sanguigna
era alle stelle. Ne sentivo il rumore nelle orecchie, che smorzava i
suoni del mondo esterno. Mi girai, passandomi le dita tra i capelli;
rimasero incastrate tra ricci e nodi, e il dolore mi restituì un po’ di
lucidità.
Dovevo calmarmi.
Ma non ci riuscivo.
Jennifer e Jackson… erano una coppia adeguata. In effetti,
persino il suo nome iniziava per “J”.
Ma il solo pensiero, il solo pensiero di vederli insieme...
Le sue mani su di lei…
Non riuscivo a respirare.
«Cletus?» La voce dolce di Ashley giunse alle mie orecchie,
l’incertezza nel suo tono mi fece vergognare.
Ero arrivato troppo vicino a perdere le staffe. Non perdevo le staffe
da anni. Facevo yoga. Meditavo. Stilavo elenchi. Complottavo e
pianificavo. Ma mai perdevo le staffe. «Devo andare.» Marciai fino al
mio tappetino e lo arrotolai, continuando a vedere rosso.
«Ehi, senti, dove vai? Vuoi un po’ di compagnia?» Sienna cercò di
sembrare naturale e quasi ci riuscì. Era una brava attrice.
Scossi la testa, incapace di rispondere. Ero ancora troppo
arrabbiato e mi stavo ossessionando. Immagini di Jackson e Jenn,
insieme, lui che toccava la sua pelle nuda, la teneva per i fianchi, la
guardava in quei suoi occhi impossibili, la baciava…
Un collage ripugnante di immagini orrende mi passò davanti agli
occhi.
Io odiavo tutto questo.
Deglutii, mi sentivo nauseato e stordito.
Io odiavo tutto questo.
Non riuscivo a smettere di ossessionarmi. Le immagini non
volevano fermarsi.
Io odiavo tutto questo.
Non avevo il controllo di me. E lo odiavo.

«Mi sono sbagliato.»


Billy alzò lo sguardo dalla scrivania, i suoi occhi erano spalancati
dalla sorpresa. Non attesi il suo invito a entrare. Quella era solo la
seconda volta che gli facevo visita nel suo ufficio impressionante. La
prima era stata una settimana dopo la morte di mamma, l’anno
scorso. Gli avevo portato della zuppa e del pane per pranzo per
assicurarmi che non fosse a rischio di un crollo emotivo. Non lo era
stato, allora.
Questa volta ero qui per via del mio personale discutibile
benessere emotivo.
Billy aspettò che chiudessi la porta prima di chiedermi: «Su cosa,
ti sei sbagliato?»
«Billy.» Sbattei le palpebre una sola volta guardandolo,
mantenendo il mio cipiglio di intensa irritazione. «Fai sul serio?»
Alzò le sopracciglia, come se non sapesse di cosa stessi
parlando.
«Per prima cosa, io non sbaglio mai. Ragion per cui, è chiaro
quale sia la cosa su cui mi sono sbagliato.»
«Mi vengono in mente almeno un centinaio di cose su cui ti sei
sbagliato. Dovrai essere un po’ più specifico.»
Scossi la testa verso mio fratello, posando il cibo che avevo
portato per pranzo sul tavolo delle riunioni. «Mi deludi, fratello.
Stuzzicarmi in un momento del genere.»
Un lato della sua bocca si alzò, in un sorriso compassionevole.
«Jennifer Sylvester.»
«Esatto.» Feci una smorfia. Solo sentire il suo nome mi aveva
reso complicato respirare. «Come ho potuto permettere che
accadesse?»
Il sorriso di Billy si allargò, anche se i suoi occhi mostravano pietà
per la mia situazione. «Non è una cosa che tu hai permesso che
accadesse, Cletus. Nessuno permetterebbe che accada, come
nessuno rinuncerebbe volontariamente alla propria sanità mentale
solo per portarsi una persona a letto.»
«Non si tratta di questo. Non si tratta di portarsela a letto.»
«Lo so» disse, e lo sapeva davvero. I suoi occhi e il suo tono
erano molto seri, per quanto intimamente lui lo sapeva.
«Anche se...» Piegai la testa di lato mentre riflettevo su quanta
della mia sanità mentale ero disposto a cedere per una vita da
passare a fare l’amore con Jennifer Sylvester. «Portarsela a letto è
decisamente una parte rilevante.»
«Assolutamente.» Gli occhi di Billy si spostarono su un qualche
punto alle mie spalle e persero concentrazione. Ebbi l’impressione
che si stesse ossessionando, nella misura in cui si ossessionava
Billy, e non volevo interromperlo. Per cui approfittai della sua pausa
silenziosa e riflessiva per scartare il cibo sul suo ordinato tavolo delle
riunioni.
Dopo un minuto intero, interruppi il suo silenzio contemplativo.
«Quale zuppa vuoi? Ce n’è una alla cipolla e una alle verdure e
orzo.»
«Zuppe vegetariane?» Fece una strana espressione, alzandosi
dalla sua grossa poltrona per raggiungere il tavolo.
«Ho portato anche degli hamburger.» Con la mano indicai i due
contenitori chiusi e accompagnati dalle patatine fritte.
«Così va meglio.» Prese possesso del posto accanto a me e
afferrò l’hamburger. «Dimmi cos’è successo.»
«Eh...» Mi grattai il mento. «Non so se sia una buona idea.»
«Perché?»
«C’è un ricatto di mezzo.»
Le sopracciglia gli schizzarono sulla fronte. «L’hai ricattata?»
«No. Lei ha ricattato me.»
Le sopracciglia gli schizzarono ancora più in alto. «Come, scusa?»
«Lei mi ha ricattato. Jennifer mi stava ricattando. Solo per una
settimana, però, o almeno ho pensato che lei avesse il video solo
per una settimana, ma perlopiù l’ho aiutata perché volevo farlo.»
«Non ti seguo. Sarà meglio che cominci dall’inizio.»
«E va bene.» Scartai il mio hamburger e mi liberai della metà del
panino superiore. La metà superiore del panino era sempre
superflua. «Mi ha ripreso senza volerlo mentre rubavo delle prove
dall’ufficio dello sceriffo.»
Billy si strozzò con il suo boccone e si allungò per prendere la sua
bibita. Continuò a strabuzzare gli occhi mentre mandava giù un
grosso sorso, poi chiese, con voce rauca: «Di chi si trattava
stavolta?»
«Scusa?»
«Chi era? Duane? Beau?» Esitò, una scintilla di preoccupazione
intensa gli lampeggiò dietro gli occhi, e poi chiese: «Non si trattava
di Jethro, vero?»
«No! No, niente del genere. Erano delle prove su… su...» Sbuffai,
rimettendo l’hamburger nel suo contenitore. «Non te lo dico.»
«Perché?»
«Perché non vuoi saperlo.»
Billy strinse le palpebre, sospettoso, e fece scivolare lo sguardo su
di me, soppesandomi; alla fine, annuì. «Come vuoi. Ti ha ripreso
mentre rubavi delle prove e ti ha ricattato. A dire il vero, mi ero
chiesto perché avessi deciso di aiutarla. Sapevo che non lo stavi
facendo per pura gentilezza, almeno non dal primo momento.»
«Hai ragione. Non volevo aiutarla. Non combatto più le battaglie
altrui.»
Lui si irrigidì e un’ombra di apprensione gli passò nello sguardo.
«Tu non hai colpa di quanto è successo, Cletus. Non sei
responsabile delle azioni di nostro padre.»
Io guardai oltre mio fratello, verso la finestra dietro la sua
scrivania. «Lui e i suoi fratelli biker ti hanno fatto finire all’ospedale,
quando hanno scoperto che mi avevi aiutato.»
«Ero più grande di te e non era la prima volta che mi mandava in
ospedale, se ricordi.»
«Ti ruppe la gamba. Perdesti la borsa di studio per il football. Tutti
in città potranno anche pensare che tu l’abbia rifiutata
volontariamente, ma è solo perché nessuno conosce la vera storia.»
«Quel che è successo sono affari soltanto nostri. Ti ruppe il naso.
E uccise il tuo cane. Avevi solo sedici anni.»
Un vivido lampo della memoria, un ricordo per cui avevo smesso
di ossessionarmi anni fa, prese in ostaggio la mia mente. «Non avrei
dovuto provare ad aiutarla. Carla non era parte della mia famiglia.»
«Era un’amica.» Scacciò con una mano il mio rimorso, impaziente.
«A volte gli amici fanno parte della famiglia.»
«Carla no, però. Non era una buona amica e non mi serviva certo
il senno di poi per capirlo.» Avevo riportato gli occhi su mio fratello,
rivedevo il ricordo del suo volto insanguinato che si sovrapponeva ai
tratti puliti del suo viso. «Era l’ingiustizia che io non sopportavo. Lei
non mi stava particolarmente a cuore. Ma suo padre, lui era un
mostro.»
Il padre di Carla e il nostro erano entrambi capitani negli Iron
Wraiths. Non aggiunsi che anche nostro padre era un mostro. Non
era necessario, Billy, forse più di tutti noi, lo sapeva già.
«L’hai aiutata a scappare. È stata una bella cosa. Hai fatto una
bella cosa.»
«E tu ne hai pagato le conseguenze.»
«Il tuo unico errore fu farti beccare. Fare a botte con i bulli a
scuola era un conto, sfidare un capitano degli Iron Wraiths un altro.
Avresti dovuto tenere la bocca chiusa.» Billy cercò di mantenere un
tono leggero, come se stessimo parlando di altre persone e dei loro
problemi. Il suo sguardo era di comprensione, proprio come lo era
stato tredici anni fa.
Mio fratello era un grand’uomo. Avrebbe fatto grandi cose nella
sua vita, di quello ne ero certo. Il riguardo che aveva per noi, per tutti
noi, ci faceva sentire umili. A volte sospettavo che non ce lo
meritassimo.
«Mi dispiace così tanto, Billy.»
Billy mi fissò per un lungo momento, socchiudendo gli occhi
pensieroso, poi alzò le spalle. «Ormai è passato. Come diceva
sempre mamma, “Meglio lasciarsi le scoregge e il passato alle
spalle”.»
Ridacchiai, sentendolo. Era uno dei suoi modi di dire più
scandalosi.
«Raccontami cos’è successo con Jennifer.» Billy cercò di
riprendere il filo del nostro discorso. «Hai detto che ti aveva filmato,
poi cos’è successo?»
«Ho contattato Alex a Chicago e gli ho chiesto di cancellare il
video dal suo computer e dal cellulare.» Mi accigliai, riportando la
mia attenzione alla conversazione. A volte mi serviva un po’ di
tempo per cambiare marcia e tornare da un passato distante al
presente. «Pensavo l’avesse fatto, ma rileggendo il suo messaggio,
credo che il video non fosse mai stato là.»
«Cosa diceva il suo messaggio?» chiese Billy con la bocca piena.
«Ha detto: “Posso confermarti che il video non è salvato nel
cellulare, nel computer o nel cloud del soggetto”.»
«Quindi hai pensato che l’avesse cancellato, mentre invece...»
«Lei non l’aveva salvato sul computer, nel cellulare o nel cloud.
L’aveva salvato su delle chiavette USB.»
Il sorriso d’apprezzamento di Billy fu lento e contenuto, i suoi occhi
si spostarono in basso, poi di lato e infine rise. «È sveglia.»
«Lo è. Ma ho scoperto che suo padre fa dei controlli senza
preavviso sul suo cellulare e sul suo computer, a quanto dice
Jessica. Non ho messo insieme i pezzi fino a lunedì scorso.»
«Cos’è successo lunedì?» Riprese in mano il suo hamburger.
«L’ho baciata.»
Billy si immobilizzò a metà del morso e si tolse l’hamburger dalla
bocca. «Bene.»
«No. Male. Lei pensa che l’abbia fatto solo per aiutarla a far
pratica con i baci, proprio come tu l’hai aiutata a far pratica con gli
appuntamenti.»
«Oh. Male.»
«Già. E poi mi ha dato le chiavette e mi ha detto che per lei ero
morto.»
«Ha detto così?» Billy stava nuovamente cercando di addentare il
suo panino, e si era bloccato ancora per farmi la sua domanda.
«In poche parole.»
Allontanai il mio pranzo. Non avevo fame.
«Cletus.»
«Billy.»
«Non ricamarci. Cos’ha detto?»
«Ha detto: “Grazie del tuo aiuto. Non ho più bisogno di te. Ecco il
tuo video. Sparisci”. Più o meno, ecco quello che ha detto.»
Nonostante non avessi fame, mangiucchiai una patatina fritta. Il
sapore salato mi distraeva dal dolore nel mio petto.
«Uhm.» Billy finalmente prese un morso del suo panino, i suoi
occhi si spostarono a sinistra mentre masticava e rimuginava.
«Potrebbe andare peggio.»
Presi un’altra patatina, la osservai e poi la rimisi sul tavolo. «È
andata peggio. Verrà al matrimonio di Jethro con Jackson James.»
Le sopracciglia di Billy schizzarono di nuovo all’insù. «Con quello
stronzo?»
«Lo so» risposi con tono piatto, facendo scattare la mascella di
lato. «Avrei dovuto infettarlo con la lebbra a settembre. L’avrebbe
tenuto occupato fino a Natale.»
«Uhm.» Billy posò il suo panino, studiandomi mentre si puliva le
dita con un tovagliolo. «Cosa farai adesso?»
«È per questo che sono qui. Ho bisogno che tu mi dica cosa fare.»
I suoi occhi lasciavano trasparire la sua diffidente incredulità.
«Vuoi che io ti dica cosa fare?»
«Già. Perché il mio istinto è di andare alla pasticceria, gettarmela
in spalla e farla mia.»
Billy incrociò le braccia. «Pessima idea. Ci ho provato, e non è
finita bene.»
«Esatto. Inoltre...» Respirai a fondo, trattenni l’aria nei polmoni e
poi la esalai lentamente. I miei occhi scattarono su quelli Billy, poi sul
mio hamburger senza il pane sopra. «Inoltre c’è l’insignificante
questione che lei vuole un sacco di bambini.»
Riuscivo a sentire lo sguardo di Billy su di me. Il suo sguardo
aveva sempre avuto un peso ben determinato. Mentre crescevamo,
Jethro era il buffone, nostro padre era il mostro e Billy era quello che
ammiravamo. Era lui la persona che non volevo mai deludere.
«Cletus...»
«So cosa stai per dire.»
«Allora saltiamo questa parte e tu puoi ammettere direttamente
che ti sbagli.»
«Non posso ammettere di essermi sbagliato su due cose nello
stesso giorno.» Riportai la mia attenzione su di lui e lo trovai che mi
guardava sogghignando. «Questo potrebbe scatenare l’Apocalisse.»
«Allora ammettilo domani.»
Deglutii sforzandomi di superare l’ansia che si gonfiava nella mia
gola. Non ero mai ansioso, per cui mi ci volle un momento per
abituarmi alla sensazione.
«Conosci la mia rabbia. Sai come sono quando perdo le staffe. Mi
assento completamente. Non mi ricordo niente. Pensi davvero che
dovrei avere dei bambini, onestamente?»
Il ghigno di Billy si ammorbidì in un sorriso dall’aria triste.
«Abbiamo tutti un po’ di Darrell dentro di noi, Cletus. Io sono identico
a lui d’aspetto, e anche Ashley. Pensi che mi piaccia il riflesso che
vedo quando mi guardo nello specchio? Lo odio. Ma non intendo
mutilarmi la faccia perché ce l’ho in comune con nostro padre. Tu hai
scelto di non avere una famiglia perché temi di perdere le staffe
come faceva lui quando eravamo bambini... il che è ammirevole, ma
anche stupido.»
«E se io...»
«No.» Billy sbatté il palmo sul tavolo, colpendolo con un tonfo
deciso. «Smettila di trovare scuse perché sei un codardo. Vuoi
Jennifer nella tua vita?»
«Sì» risposi con più che solo la mia voce: la risposta mi scosse
dalle fondamenta dell’anima, venne dal profondo dentro di me, dallo
stesso posto in cui avevo sepolto la rabbia, insieme alla passione.
«Allora devi rivalutare le tue priorità, comprese le tue paure. Sii
migliore e più coraggioso. Non commettere i miei stessi errori.»
«E allora cosa devo fare?»
Mio fratello mi studiò a lungo, con le sopracciglia aggrottate
mentre ponderava la mia situazione.
Infine, sospirò e suggerì: «Perché non scopri tutte le carte in
tavola? Dille ogni cosa».
Sbattei le palpebre una volta, poi guardai torvo mio fratello. «Non
mi piace questo consiglio. È un consiglio davvero di merda.»
Lui mi rivolse un’alzata di sopracciglio. «È un tuo consiglio. È
quello che tu continui a dirmi di fare con…» il suo sguardo si
abbassò e prese un respiro profondo prima di continuare, «con
Scarlet.»
Billy fissò senza vederlo il suo hamburger mezzo mangiato. Non
pronunciava quasi mai il suo nome, Scarlet. Era il nome che le era
stato dato alla nascita, e quando stavano insieme, lei era Scarlet. Ma
quando era tornata in città a diciannove anni, fidanzata con Ben
McClure, aveva già cambiato il suo nome in Claire.
«Rimane sempre un consiglio di merda. Non ho modo di
conoscere cosa le passa per la testa. E se mi rifiutasse?» Le mie
parole gli strapparono un pallido sorriso. Ciononostante, aggiunsi:
«Spero che tu non l’abbia ascoltato, il mio consiglio».
Lui scosse la testa. «Prima dovrebbe accettare di parlarmi.»
Studiai mio fratello. «Tu e io potremmo essere sulla stessa barca.»
«Sì, ma la tua barca è più nuova.»
«Questo è vero.» Accigliandomi, presi una patatina fritta fredda e
la insanguinai nel ketchup. «La domanda è, come scendo da questa
barca?»
“… [N]essuna vernice può nascondere le venature del buon legno, e che tanta
più vernice metti, tanto più la venatura si rivelerà.”
- Charles Dickens, Grandi speranze

So che stai attraversando questa sciocca fase di ribellione e


capisco il voler provare le tendenze della moda, ma potresti vestirti
come si deve al lavoro, domani? Viene in pasticceria quel fotografo e
abbiamo una chiamata su Skype con Jacqueline per discutere della
riunione a New York.»
Mamma, con aria sfinita, si lasciò cadere sulla sedia davanti a me,
sbattendo il suo taccuino sul bancone e aprendolo a una pagina
segnata con un orecchio in un angolo.
Era venerdì, undici giorni dopo il mio primo bacio. La mia vita
sarebbe stata misurata d’ora in poi in giorni dal mio primo bacio, per
quanto era stato duplicemente magnifico e devastante.
Non avevo ancora ritirato le banane dal negozio e mi aspettava
una lunga serata da passare a preparare ordini speciali. Ero stanca
perché non stavo dormendo molto.
Mi mancava Cletus e non sapevo come fare a smettere di soffrire
la sua mancanza. Baciarlo era stato un errore, un terribile errore.
Anche prima di quel bacio i miei sentimenti per lui si erano già fatti
ingarbugliati. Desideravo passare con lui ogni momento, parlargli di
sciocchezze, stare ad ascoltare le sue idee, le sue preferenze, i suoi
problemi e condividere i miei. E non aiutavano alla faccenda: il suo
corpo, il suo viso, la sua voce e i suoi occhi. Cacchio.
Dedicarmi completamente al lavoro mi aveva aiutato solo
marginalmente, ma non avevo veramente altra scelta. L’autunno era
un periodo dell’anno molto pieno, per via dei matrimoni nella valle.
Tutti volevano le foto del loro matrimonio con la tela dei colori
autunnali come sfondo.
«Jennifer? Mi ascolti?»
Mi riscossi dalle mie riflessioni e annuii. «Grazie di avermelo fatto
sapere. Mi assicurerò di mettere il costume domani.» Presi nota di
segnarmi mentalmente di impostare la sveglia trenta minuti prima del
solito.
Dopo il mio appuntamento con Billy, avevo preso a indossare
vestiti comodi con più frequenza, sia in giro in città che al lavoro. In
quel momento indossavo un nuovo paio di jeans e una maglietta che
un’amica di penna tedesca mi aveva spedito anni fa. L’avevo usata
come maglietta per dormire fino alla settimana scorsa. Era la
seconda volta che la mettevo durante il giorno o in pubblico. Un fatto
che seccava mia madre come non mai.
«Costume?» chiese, la durezza della sua domanda catturò la mia
attenzione.
Alzai lo sguardo dalla torta nuziale che stavo decorando, fondente
bianco con tocchi di foglie gialle, violette e rosse, e sostenni lo
sguardo torvo di mia madre. «Sì. Costume.»
Lei fece un verso simile a uno sbuffo, ma aveva anche qualcosa di
grugnito. «Di cosa stai parlando?»
«Volevo solo dire che indosserò un vestito giallo, mi acconcerò i
capelli e tutto il resto.»
La sua bocca si spalancò. «Mi stai dicendo che consideri il tuo
abbigliamento di tutti i giorni un costume?»
Io posai il piccolo matterello che stavo usando per il fondente sul
bancone e fissai mia madre. Eravamo da sole e io ero stanca. Ed
ero turbata. Pertanto non pensai due volte alla mia risposta.
«Naturalmente è un costume, mamma.»
«Pensavo ti piacesse apparire carina, no?»
Mi immobilizzai, studiando lei, i suoi occhi scioccati per il dolore.
Avevo due possibilità e nessuna delle due mi sembrava troppo
piacevole. Avrei potuto continuare a fingere che mi piacesse giocare
a travestirmi ogni giorno. Oppure potevo dirle la verità.
Nelle ultime settimane, la lotta contro le sue obiezioni costanti alle
mie scelte in fatto di capelli e di vestiario aveva logorato il nostro
rapporto. D’altro canto, avevamo mai avuto un vero rapporto? I miei
amici di penna mi conoscevano – conoscevano i miei sogni e le mie
aspirazioni – meglio della mia stessa madre. Decisi di dirle la verità.
Se fossi stata nei suoi panni, avrei voluto sentire la verità da mia
figlia. Ma non volevo nemmeno mancarle di rispetto, perché era mia
madre e mi voleva bene, anche se non riusciva a vedermi
veramente. «Sinceramente, mamma? Non mi piacciono quei vestiti e
non mi fanno sentire carina. Mi fanno sentire una stupida. Mi fanno
sentire come se stessi recitando una parte. Non mi piace il colore
giallo e non voglio avere i capelli biondi. Ed è questa la verità.»
Mantenni attentamente il mio tono calmo perché non volevo
pensasse che stessi insultando le sue scelte o priorità, perché non
era quella la mia intenzione. Era solo che volevo qualcosa di diverso
per me stessa. Volevo essere sincera e volevo che lei mi ascoltasse
e capisse.
Il suo volto si incupì, il disappunto le brillava negli occhi. Alla fine, il
disappunto divenne dolore, dopodiché frustrazione. «Immagino di
dovermi scusare, allora. Scusa se ho voluto darti una vita migliore
della mia. Scusa se non gradisci tutto il tempo, l’energia e le ore
infinite che ho impiegato nel costruire il tuo brand, per farti diventare
quella che sei adesso.»
«Non sono io» mormorai, le parole mi scapparono prima che
potessi fermarle.
«Cosa? Cos’hai detto?»
«Quella non sono io. Non sono la Regina della torta alla banana.
Non mi piace essere un brand, non mi piace essere al centro
dell’attenzione, non mi piace essere fotografata, non mi piace servire
torte alle persone mentre mi guardano inebetite. Non ho mai voluto
questo. Non ho mai voluto niente di tutto questo!» La mia voce si era
alzata, ero arrivata a urlare la mia progressiva confessione una
verità dopo l’altra, un motivo di frustrazione che si confondeva
nell’altro. Ero come la bottiglia di una bibita gasata che era stata
agitata per anni, e alla fine il tappo era saltato.
Lei rantolò, sobbalzando con una smorfia come se l’avessi
schiaffeggiata e mi fissò come se non mi riconoscesse. «Jennifer
Anne Sylvester. Cosa ti è preso? Non osare alzare la voce con me.»
Io deglutii l’amarezza che mi stava montando dal fondo della gola.
Volevo fare onore ai miei genitori. Gli volevo bene. Non volevo
deluderli. Ma come avrei fatto a respirare quando non mi era
nemmeno permesso pensare?
«Cos’hai da dire a tua discolpa?» Si tirò su lentamente, la sua
sedia grattò contro le mattonelle della cucina.
«Mi dispiace di aver alzato la voce.» Mi dispiaceva davvero.
Lei annuì, sembrava essersi placata, ma era circospetta.
«Nient’altro?»
«Non mi dispiace perché non mi piace essere la Regina della torta
alla banana. Mi sento come un personaggio di un parco a tema che
è la mia vita, ed è un posto molto solitario in cui vivere. È la verità e
volevo che lo sapessi.»
Mia madre si irrigidì, alzando il mento, e mi trafisse con affilate
occhiate di disincanto. Prese il suo block notes e se lo strinse al
petto.
«Non ho niente da dirti, se intendi comportarti in questo modo.»
Ciò detto, uscì altezzosamente dalla stanza.
Io fissai la sedia su cui era stata seduta. La fissai per lungo tempo,
mentre il petto mi doleva dalla paura. Non temevo che mi ripudiasse
o buttasse fuori di casa. Non l’avrebbe fatto. Ma non mi avrebbe mai
più guardato nello stesso modo. Per così tanto tempo, ero stata un
successo di cui lei andava fiera e ora non sapevo più quale sarebbe
stato il mio posto nella sua vita se non ero più il suo orgoglio e la sua
gioia.
Forse non ci sarebbe stato un posto per me. E quel pensiero mi
fece piangere.
O forse piangevo perché ero stanca di essere patetica. Forse
piangevo perché non ero quella che mia madre voleva, e non ero
quella che Cletus voleva. Forse piangevo perché non sapevo chi
fossi o cosa volessi davvero.
Il mio piano per lunedì scorso era di dare a Cletus le chiavette
USB. Sfortunatamente, fino a quel giorno, ero riuscita a trovare solo
quattro delle cinque chiavette che avevo nascosto in giro per la
cucina. Dopo aver messo sottosopra l’intera cucina, avevo scovato
la quinta nascosta in una confezione di farina senza glutine. A parte
me, nessuno toccava le cose senza glutine, per cui avevo deciso di
lasciarla lì finché…
Beh, finché i cammini miei e di Cletus non si fossero incrociati di
nuovo.
Se mai si fossero incrociati di nuovo.
Quel pensiero mi rese triste.
Nonostante tutto, lunedì scorso il piano era di dargli le copie del
video e liberarlo dal nostro accordo, per poi mettere ancora una volta
in gioco il mio orgoglio e chiedergli di uscire per un appuntamento. I
biscotti erano stati preparati apposta per l’occasione. Era un’antica
ricetta di famiglia. Secondo la leggenda, il nonno Donner aveva
conquistato mia nonna con i suoi biscotti alla vaniglia.
Ma Cletus non aveva voluto i miei biscotti. Lui voleva una dea del
sesso con esperienza. Voleva i biscotti di una dea del sesso.
Ero una stupida. Dopo la nostra lezione finale, dopo quel bacio
che mi aveva cambiato la vita, il solo pensiero di lui mi faceva venire
le palpitazioni al cuore. Non riuscivo ad addormentarmi fino a tarda
notte, rivivevo ancora e ancora quel momento. Durante il giorno di
frequente sognavo Cletus a occhi aperti, la sua bocca, il modo in cui
mi aveva tenuta stretta, la sensazione fantastica che mi aveva fatto
provare. Mi ero ritrovata più volte di quante potessi contarne a
toccarmi le labbra, ricordando e desiderando. Se avessi avuto un
nichelino per ogni volta in cui avevo pensato quanto fantastico fosse
stato quel bacio, sarei stata la proprietaria di tutti i nichelini del
mondo. Di ogni singolo nichelino.
Per Cletus, non era stata che una lezione. Mi aveva aiutata a far
pratica. La povera, ignorante e inesperta Jennifer Sylvester.
Non volevo il suo aiuto. Io volevo… beh, volevo lui. E volevo che
lui volesse me. Me. Per come ero. Volevo che fossimo alla pari.
Ma questo non succederà mai.
Scivolai fino a trovarmi sul pavimento e premetti il volto contro uno
strofinaccio, piangendo per la persona che non ero. Tuttavia, dopo
qualche tempo, quando finalmente le lacrime si furono fermate,
quando la testa mi doleva e gli occhi bruciavano, e il mio party di
autocommiserazione era diventato ufficialmente una noia, sentii una
flebile voce in fondo alla mia testa. Tutto questo è inutile, Jenn. Cosa
hai effettivamente intenzione di fare al riguardo?
Fissai la credenza di fronte a me e capii di essere stanca di
sentirmi inerme. Non sarei stata inerme. Non più. Avrei preso il
controllo. Avrei scoperto io stessa le cose, per me stessa, per conto
mio. Se c’era una cosa che avevo imparato negli ultimi mesi, era che
non potevo vivere la mia vita per accontentare gli altri. Quindi avrei
iniziato da lì.
Dovevo essere fedele a me stessa. Per Dio, sarei stata fedele a
me stessa!
Ma prima, dovevo andare a comprare le banane.

Usavo più banane io in una settimana di quante la maggior parte


delle persone ne mangiasse in sei mesi. Solitamente compravo le
banane il venerdì mattina e la domenica pomeriggio. Ma quel
venerdì non riuscii a passare al Piggly Wiggly se non appena prima
dell’orario di chiusura.
Tra le tre torte nuziali, gli altri ordini speciali per sabato e la visita
di mia madre – e la conseguente fiesta di singhiozzi – non uscii dalla
pasticceria prima delle nove e mezza e il supermarket chiudeva alle
dieci..
Mi infilai un maglioncino nero sopra la maglietta perché faceva
freddo. Il maglione era aderente, pensato per essere indossato
sopra il tessuto sottile di un vestito da sera, non sopra lo spesso
cotone di una maglietta. Pertanto, mi stava un po’ tirato attorno al
petto.
In jeans, maglione nero e tacchi alti – perché non avevo altro con
me – parcheggiai velocemente e mi precipitai nel negozio. Ero
talmente concentrata sull’arrivare in tempo al reparto frutta e verdura
che non guardavo dove mettevo i piedi. Uscendo dalla lunga corsia
del reparto alimentare, andai a sbattere contro il muro massiccio di
una persona e sarei caduta sul sedere se quel muro non mi avesse
afferrato le braccia per reggermi.
«Oh, scusi, ero distratta.» Alzai lo sguardo, pronta a schizzare via,
ma poi tutti i pensieri riguardo alle banane abbandonarono la mia
mente non appena i miei occhi incontrarono il viso severo del mio
fratello maggiore.
Lo fissai a bocca aperta.
E lui mi gelò con lo sguardo, mentre una qualche emozione che
non riuscii a decifrare completamente si accese nei suoi occhi
azzurri.
«Isaac» dissi il suo nome in un sospiro, mentre il mio cuore faceva
un balzo doloroso appena prima di sprofondare ai miei piedi.
«Jenn.» Esitò, come se avesse voluto aggiungere qualcos’altro.
Ma poi i suoi occhi si spensero e mi lasciò il braccio. «Guarda dove
metti i piedi.» Isaac gettò un’occhiata dietro di lui.
Non sembrava arrabbiato. Sembrava studiosamente
disinteressato. E la sua apatia mi spezzò il cuore, mentre un nuovo
tipo di dolore si espandeva dentro di me come un’onda d’urto.
«Ehi, non è tua sorella quella?»
Strappai gli occhi dal profilo passivo di mio fratello e li portai sulla
donna dietro di lui. Era Tina Patterson, una spogliarellista del Pink
Pony che lavorava con Hannah Townsend. Ma, diversamente da
Hannah, a Tina piaceva anche causare drammi. Era risaputo in città
che si accompagnasse spesso agli Iron Wraiths.
Alla sua destra e alla sua sinistra c’erano due facce che non
riconobbi, ma dalle toppe sui loro giubbotti di cuoio dedussi che
erano anche loro membri del club.
«Quella è tua sorella?» Uno degli uomini, un tipo grosso e pelato,
con la parola Drill cucita sul giubbotto si fece avanti e invase il mio
spazio personale. Io indietreggiai, ma l’uomo continuò ad avanzare.
Sentii Tina ridere e l’altro uomo lagnarsi sonoramente, dicendo:
«Non abbiamo tempo per questa storia, Drill».
«Dammi solo un minuto, Catfish.» Drill puntò la mano sullo
scaffale della corsia alla mia destra, intrappolandomi. «Ehi, ma tu
non sei la Regina della torta alla banana?» I suoi occhi scorsero su e
giù per il mio corpo.
«Io… Sono Jennifer. Piacere di conoscerla.» Allungai la mano tra
noi due, incapace di disconoscere le buone maniere che mi erano
state inculcate.
L’uomo chiamato Drill guardò la mia mano e mi scoccò un sorriso
sbilenco e stranamente carismatico, mentre faceva scivolare il suo
palmo contro il mio. «Jennifer, cazzo, sei troppo adorabile. Mi
piacerebbe mangiarti tutta.»
«Oh merda. Non ci credo.»
Una nuova voce, che riconobbi essere quella di Timothy King,
schiamazzò dal fondo della corsia, attirando l’attenzione sia mia che
di Drill.
Io trattenni bruscamente il respiro e mi preparai, perché vedere
Timothy avrebbe costretto il mio cervello a passare oltre il dolore per
l’indifferenza di mio fratello.
Incredibilmente aggressivo, dalle mani lunghe, con la strana
incapacità di sentire la parola “no”, Timothy King era un bel ragazzo.
Io non ero mai stata da sola con lui, visto che non avevo mai avuto
motivo di farlo. Ma lui mi aveva presa all’angolo fuori dal centro
comunitario, una sera, mi aveva messo le mani addosso e aveva
provato a baciarmi. Avevo avuto paura allora, perché era quasi sera
e non c’erano molte persone nel parcheggio, e avevo paura anche in
questo momento.
«Ehi.» Drill mi tirò la mano, facendomi riportare gli occhi su di lui. Il
suo sguardo affilato si mosse sul mio volto e il suo sorriso si affievolì.
«Non ti piace quel tizio?» Inclinò la testa verso Timothy, che ci aveva
quasi raggiunti.
Io non risposi, alternavo il mio sguardo a occhi sgranati tra il biker
grosso e pelato, con affilati occhi azzurri, e Timothy King in
avvicinamento.
«Guarda guarda chi c’è qui.» Lo sguardo di Timothy scese e poi
risalì lungo il mio corpo, proprio come aveva fatto quello di Drill, e io
mi irrigidii per il disgusto.
Stranamente, l’ispezione di Drill mi era sembrata meno
minacciosa. Non aveva molto senso, visto che Drill era quasi il
doppio di Timothy. Mentre Tim era alto e allampanato, Drill era
ancora più alto, con l’aggiunta di un ammasso di muscoli tesi e
scattanti. Per dare un’idea, ero quasi certa che il suo collo fosse
doppio quanto la mia vita.
«Sta’ alla larga, King.» Drill si raddrizzò, piazzandosi appena
davanti a me. «Non piaci alla signorina.»
«Ma la signorina piace a me e siamo amici da tanto tempo»
rispose Timothy con un sorriso beffardo, spostando la testa di lato
come per incontrare il mio sguardo.
«Levatevi dal cazzo entrambi» ringhiò Isaac, mentre la sua mano
mi si avvolgeva sull’avambraccio e mi tirava via di lato. Io alzai lo
sguardo e vidi mio fratello guardare in cagnesco entrambi gli uomini.
«Lei non si tocca. E vale per tutti e due.»
Drill alzò le mani. «Ehi, lo capisco. Se mia sorella avesse un
davanzale e degli occhi del genere, non vorrei neanch’io che
qualcuno come me le ronzasse intorno.»
Timothy King incrociò le braccia, mentre i suoi occhi continuavano
a percorrere il mio corpo, ma rimase in silenzio.
Isaac guardò accigliato i biker, con aria frustata, poi mi trascinò via
dalla corsia lontano dal loro gruppetto. «Ci vediamo fuori.»
«Twilight, dobbiamo andare.» Fu l’uomo chiamato Catfish a
ricordarglielo.
Mio fratello annuì. «Sì, signore. Mi lasci finire con questa.»
Questa?
Mio fratello mi aveva appena chiamato “questa”?
«E va bene. Partiamo tra cinque minuti, con o senza di te.»
Isaac non rispose, continuò solo a tirarmi per il braccio lontano
dagli altri biker. Dopo cinque corsie, svoltò di colpo e mi lasciò. Io mi
voltai, indietreggiai e mi feci da parte lungo la corsia. Un movimento
dietro di lui attirò la mia attenzione: Tina ci aveva seguito. Era
appena fuori la corsia e ci guardava con un ghigno in volto.
«Cosa stai facendo?» Isaac si accigliò. Sollevò le mani per aria e
scrollò le spalle. «Cos’hai che non va?»
«Compro le banane» dissi a voce bassa, spiegandomi.
Lui sbuffò una risata frustrata, scuotendo la testa. «Alle dieci di
sera? Tutta sola?»
Annuii.
Il suo sguardo mi percorse rapidamente. «E poi che altro? Perché
sei vestita così?»
«Così come?»
«Senza offesa. Come una poco di buono.»
Restai a bocca aperta, non riuscendo a trovare un senso alle sue
parole. «Non è vero. Non c’è niente di male. Non sono vestita...»
«E allora come cazzo chiami quello che hai addosso?» Isaac parlò
a denti serrati, facendomi sobbalzare con una smorfia.
Da un punto imprecisato alle mie spalle una nuova voce si
intromise. «Vestiti.»
Guardai da sopra una spalla e trovai Cletus fare capolino dal
fondo della corsia, con una maschera di ingenua affabilità
fermamente calata sul viso. Io lo guardai sbattendo le palpebre,
sbalordita dalla sua improvvisa apparizione.
Poi Cletus aggiunse, inutilmente: «Anche io indosso dei vestiti.»
La mascella di Isaac si contrasse e lui incrociò le braccia,
spostando la sua occhiataccia furiosa su Cletus.
«Ehi Cletus.» Tina si fece avanti, arrivando accanto a Isaac e
premendo il suo corpo contro il suo. «Come sta Duane?»
«Senza alcuna malattia» rispose Cletus immediatamente. Lo sentii
fermarsi proprio dietro di me, la sua presenza era palpabile e
rassicurante. Ma comunque… che caspita ci faceva lì?
«Non si è ancora stancato di Jess? Digli che lo saluto» disse Tina
facendo le fusa, ignorando l’insulto implicito di Cletus. O forse non
l’aveva capito. Tina Patterson e Duane Winston avevano avuto una
lunga storia di lascia e prendi. Oltre un anno fa, Duane aveva chiuso
con lei una volta per tutte.
Sentii l’irritazione nascosta nella voce di Cletus mentre
commentava: «Sai quale dovrebbe essere il tuo nome da biker,
Tina? Bel pasticcio.»
«Volevi dire “bel pasticcino”?» Fece scivolare la mano dentro il
giubbotto di mio fratello.
«No. Volevo dire proprio “Bel pasticcio”.»
«Questi non sono affari tuoi, Winston.» Isaac si divincolò da Tina e
fece un passo in avanti, prendendomi nuovamente per il braccio. Io
ero talmente sorpresa dal suo gesto che incespicai in avanti. «Sono
affari miei e di mia sorella.»
«Pensavo non avessi una sorella.» Cletus si spostò velocemente
dall’altro lato rispetto a me, ma non mi sfiorò nemmeno. Il suo
sguardo si focalizzò nel punto in cui Isaac stringeva il mio braccio.
La maschera di affabilità di Cletus scivolò via, i suoi occhi azzurri
bruciavano roventi.
«Vaffanculo» ringhiò Isaac contro Cletus, poi abbassò il suo volto
furioso sul mio. «Che diavolo credi di fare? Nostro padre lo sa che te
ne vai in giro per la città nel bel mezzo della notte vestita così?»
Io sobbalzai, confusa e ferita e sopraffatta dalla sua rabbia. Mio
fratello non mi aveva parlato per diciotto mesi. Avevo sognato a
occhi aperti di cosa avremmo potuto parlare quando sarebbe giunto
il momento, come avrei potuto comunicare con lui, arrivare a lui,
raggiungere la persona che era stato una volta.
Guardandolo in quel momento, non vidi alcuna traccia del ragazzo
dolce che conoscevo un tempo, nessuna traccia del ragazzo che mi
portava a fare escursioni nei boschi, del ragazzo che era stato il mio
migliore amico.
«Cosa stai...»
«Sei una vergogna, Jennifer Anne. Non riesco a credere che ai
nostri genitori stia bene. Dio dice alle donne che sono responsabili
della lussuria che causano negli altri.»
Avevo sentito mio padre pronunciare quelle parole in più di
un’occasione. Quando le diceva mio padre mi ferivano, ma riuscivo a
sopportarle. Ero abituata a farlo. Ma dette da mio fratello, quelle
parole mi sembrarono lame piene di spuntoni che mi trafiggevano il
cuore.
«Sono abbastanza certo che Dio non l’abbia mai detto» annunciò
Cletus con tono piatto, afferrò la mano di Isaac, la rimosse
rapidamente dal mio braccio, e si piazzò tra noi due.
«Sì, invece» ribatté mio fratello, a denti stretti.
«No, invece.» Cletus continuò. «Dio non direbbe mai qualcosa di
così stupido. Al Creatore del cielo non importa di che aspetto
abbiano i capelli di Jennifer e a Lui non importa di cosa lei indossa.
Sono abbastanza sicuro che abbia per le mani affari ben più
importanti, come la materia oscura e i buchi neri, l’ISIS e i biker
ignoranti di indole criminale.»
«Winston, è l’ultima volta che te lo chiedo gentilmente: fatti i
dannati affari tuoi» sibilò Isaac, stringendo a pugno le mani.
«Inoltre» Cletus continuò con filosofia, «credi che quei vestiti che
le fanno portare i tuoi genitori non ispirino lussuria? Secondo te tutti
gli uomini di queste parti non sognano a occhi aperti di piegarla a
novanta gradi, alzarle la gonna e...»
Sobbalzai e, chiaramente fuori di me, coprii rapidamente la bocca
di Cletus con la mano. Ma era troppo tardi. Isaac mi spinse di lato e
sollevò il pugno, deciso a cancellare le parole dal cervello di Cletus a
forza di pugni. Un verso di paura e disperazione mi sfuggì dalla gola
prima che potessi soffocarlo, e il mondo partì a rallentatore. Mi
preparai al momento in cui il primo pugno avrebbe colpito, con una
smorfia di terrore.
Ma non successe.
Cletus lo bloccò, poi si piegò di lato con un movimento
sorprendentemente agile per un uomo tanto grosso. Isaac finì per
infilare l’intero braccio nello scaffale dei cibi in scatola, sbattendo la
fronte nel gesto. Furibondo e imperterrito si girò di scatto e andò
dritto contro il gancio sinistro di Cletus e il rumore nauseante di ossa
che si rompevano mi riempì le orecchie. Mi coprii la bocca per
ricacciare indietro un altro verso di sorpresa mentre Cletus faceva
seguito al primo pugno con un secondo, e l’impatto di questo fece
volare Isaac all’indietro contro gli scaffali.
Mio fratello crollò a terra, la testa gli sbatté contro l’ultimo scaffale
nella caduta. Il sangue zampillava dal suo naso, dalla bocca e da un
taglio sul suo sopracciglio sinistro, colando sulla sua maglietta
bianca e il giubbotto di pelle.
Tina rimase da parte, fissando sconvolta Cletus.
Ma un’istintiva preoccupazione per mio fratello mi spinse a
lanciarmi in avanti. «Oh no!»
Prima che riuscissi a raggiungere Isaac, Cletus mi cinse con le
braccia la vita e mi sollevò i piedi da terra.
«Ho un’ultima cosa da aggiungere» ringhiò Cletus, con la mia
schiena premuta forte contro il suo corpo, la sua barba contro la mia
tempia. Il tono della sua voce – basso e colmo di rabbia contenuta a
malapena – mi fece irrigidire e immobilizzare tra le sue braccia.
L’intensità pericolosa nelle sue parole mi fece scendere un brivido di
apprensione lungo la schiena.
«Credi davvero che Dio farebbe una creatura tanto adorabile,
talentuosa e buona come tua sorella per poi decidere che il suo
aspetto è peccaminoso? Qualcosa di cui vergognarsi? No. Non lo
farebbe mai. Semmai tua sorella, il suo volto, il suo corpo, la sua
mente e il suo cuore Gli rendono gloria. E lei non dovrebbe stare
nascosta. Non si cela un qualcosa di così straordinario dal mondo,
come hanno fatto i tuoi genitori, come vuoi fare tu. Questo è il vero
peccato.»
Poi, immediatamente, Cletus mi girò fra le sue braccia, mi gettò in
spalla come un sacco di patate e annunciò: «Dobbiamo levare le
tende».
“L’amore fa arrampicare fuori la tua anima dal luogo in cui si è nascosta.”
- Zora Neale Hurston

Cletus uscì dal Piggly Wiggly come se avessimo alle calcagna dei
segugi infernali. Venire gettata all’improvviso sulla sua spalla mi
aveva sottratto tutto il fiato dai polmoni e boccheggiavo in cerca di
ossigeno, incapace di trovare un appiglio mentre mi sforzavo di
tossire. Ma non corsi mai il rischio di cadere. Nonostante procedesse
a passo spedito, non mi smossi né scivolai dalla sua spalla.
Lui ci portò dritti al parcheggio, mi posò davanti a una macchina
per me sconosciuta e poi aprì la portiera del passeggero.
«Sali» ordinò, guardandosi da sopra la spalla.
Io ero frastornata, dei puntini neri apparivano e scomparivano dal
mio campo visivo, ma gli avvenimenti nel negozio – essere
sbatacchiata qua e là da Drill, da mio fratello e infine da Cletus –
stavano infine venendo registrati dal mio cervello.
«Non ci penso proprio» ansimai tossendo, mentre un’ondata di
qualcosa di oscuro e feroce montava dentro di me, ed emergeva in
superficie facendomi sentire le ossa gelate e rigide.
Ero solo così… Ero solo così incredibilmente arrabbiata. E mi ero
stancata delle persone che mi dicevano cosa fare.
«Dannazione, donna, sali in macchina, ti prego.» Cletus si infilò le
dita tra i lunghi capelli.
«Non ci penso proprio a salire nella tua cavolo di macchina»
strillai, spingendogli il petto. Sentivo il bisogno di urlare.
Cletus sobbalzò, chiaramente sbigottito dal mio scoppio d’ira, ma
nell’istante successivo era nel mio spazio personale, piegò la bocca
al mio orecchio e disse: «Sette membri degli Iron Wraiths ci stanno
tenendo d’occhio – non guardare! Sono a due file di distanza, dietro
di me. Io ho appena aggredito uno dei loro fratelli. Devi salire dentro
la macchina prima che Twilight esca con i suoi nuovi connotati o Tina
inizi a gridare come un’ossessa. Non ti costringerò a salire in
macchina, ma non esiste che ti abbandoni qui».
Il terrore che provai mi fece riflettere e squarciò la nuvola della mia
rabbia. Le mie mani si alzarono automaticamente sulle braccia di
Cletus, la sensazione della sua solida forza sotto la punta delle mie
dita era rassicurante. Inclinò il capo all’indietro di qualche centimetro
e fissò intensamente in basso, verso di me, le sue sopracciglia si
sollevarono appena. Potevo quasi sentire la sua voce nella mia
testa, che mi intimava: «Entra in questa cazzo di macchina adesso,
dannazione. Per favore».
E senza dire un’altra parola, mi infilai sul sedile del passeggero e
chiusi la portiera dietro di me, per poi allacciarmi di corsa la cintura.
Provavo l’istinto pressante di guardare i biker, ma non lo feci. Invece,
tenni gli occhi deliberatamente fissi sul cruscotto mentre Cletus
faceva il giro davanti al cofano e poi entrava dal lato del guidatore.
Accese il motore, ingranò la retromarcia e uscì dal parcheggio
come se non fosse successo nulla. Ma poi udii un grido. La paura mi
fece risucchiare un grosso respiro mentre la sagoma di Tina
Patterson usciva dal negozio di alimentari e ci indicava.
«Prendetelo! Ha steso Twilight! Sta rapendo sua sorella!» strillò,
agitando le braccia per aria.
Incapace di trattenermi, mi girai sul sedile e, con mio grande
orrore, vidi il convoglio di biker guardare ora Tina ora noi. Alla fine,
registrarono le sue parole e scattarono in azione.
«Tieniti forte.» Cletus schizzò via dal parcheggio, a quel punto era
inutile muoversi furtivamente, e si lanciò a velocità folle lungo la
strada principale. Io feci come mi aveva ordinato e mi aggrappai alla
portiera e allo schienale del sedile, contenta di essermi già allacciata
la cintura.
La sua auto era veloce, ma anche grande. E i biker erano più agili
sulle loro motociclette. Un gruppetto tagliò per il parcheggio,
inseguendoci in diagonale mentre Cletus era costretto a prendere
una curva. Due erano praticamente alle nostre costole, gli altri a
poca distanza.
«Il mio cellulare è nel portaoggetti. Devi chiamare Duane e
metterlo in vivavoce.» Considerata la situazione, la voce di Cletus
era notevolmente calma. Divideva la sua attenzione tra lo
specchietto retrovisore e la strada davanti a noi.
Le mie dita tremavano in modo irritante mentre cercavo
goffamente il suo cellulare.
«La password è uno, zero, uno, zero.»
Annuii digitandola rapidamente, poi cercai Duane tra i suoi contatti
e premetti il bottone del vivavoce.
Il cellulare iniziò a squillare e io scrutai dietro di noi. I due biker
non erano riusciti ad avvicinarsi di più perché Cletus guidava come
un pazzo, continuando ad accelerare mentre si muoveva a zig zag
per superare le poche macchine in strada.
«Cosa succede?» Duane rispose al terzo squillo.
«Sei a casa?»
Duane esitò per un momento, poi disse: «Lì vicino».
«Quanto vicino?»
«Molto vicino.»
«Ascoltami. Ho sette Wraiths alle costole, non posso spiegare ora.
Ho bisogno del tuo aiuto.»
«Dimmi cosa ti serve.» Duane non esitò, ma nel suo tono c’era
una durezza singolare che mi fece rizzare i capelli sulla nuca.
«Le chiavi della Buick sono nel primo cassetto del mio comodino.
Porta la Buick in fondo al vialetto, tieni i fari spenti e aspetta che
passi davanti la casa. Sto guidando la macchina gemella, noi
saremo lì tra circa cinque minuti. Non appena ti supero, infilati sulla
Moth Run e accendi i fari. Io spegnerò i miei e prenderò la strada
secondaria dietro la casa. Tu li attirerai via.»
«E dove vuoi che li porti?»
«Porta questi gentiluomini alla stazione di polizia e poi esci dalla
macchina, così capiranno che li ho seminati. Se ne andranno
quando vedranno che si tratta di te, e dove ti trovi.»
«Oppure potrei portarli a fare un bel giretto.»
«No. Se ti prendessero, non finirebbe bene.»
«Non mi prenderanno mai.» Duane fece un verso di scherno.
«Duane, fai come ti dico e basta.» Cletus si allungò e chiuse la
chiamata.
Io strinsi il suo cellulare e guardai nervosamente lo specchietto
retrovisore dal mio lato. Non dissi nulla, perché probabilmente Cletus
riusciva a vederlo da sé, ma uno dei biker si era quasi affiancato dal
mio lato. Era talmente buio che non riuscivo a scorgere cosa stesse
facendo. Poteva anche avere una pistola.
I minuti che seguirono furono terrificanti, ma rimasi in silenzio, non
volevo distrarlo da quello che doveva fare. Il cuore mi batteva a
velocità tripla quando la casa Winston apparve in vista, arretrata
rispetto alla strada e illuminata come una vecchia e imponente
magione. La fine del vialetto era immersa nel buio, ma io sapevo che
Duane ci sarebbe stato.
Cletus premette l’acceleratore e io venni schiacciata contro il
sedile, tenevo gli occhi incollati allo specchietto laterale. Le luci delle
motociclette si stavano riducendo a dei piccoli puntini lontani mentre
Cletus metteva più distanza tra noi. Chiaramente si erano aspettati
che la sua destinazione fosse casa Winston.
Non appena superammo la fine del vialetto, Cletus spense i fari.
Quasi immediatamente dopo, inchiodò e sterzò bruscamente da un
lato, infilandosi in una strada che non avevo mai notato. O forse non
era neanche una strada. In ogni caso, era troppo buio per
distinguerla. Eravamo circondati dall’oscurità e dalla foresta e la
macchina sobbalzava violentemente. Potevamo benissimo essere
sul punto di schiantarci contro un albero, per quanto ne sapevo.
Invece di dar voce alla mia incertezza e alla paura, mi risucchiai le
labbra tra i denti e mi tenni forte.
La macchina si fermò di colpo. Lui spense il motore e il silenzio si
avvolse attorno a noi come una coperta. Poi sentii il rombo di una
macchina superarci, seguito immediatamente dagli echi di varie
motociclette. Meno di un minuto dopo, ne sentii molte altre. I rumori
aumentarono in un crescendo, poi iniziarono a svanire. E poi più
nulla.
Lui sganciò la cintura di sicurezza, il suono improvviso mi fece
sobbalzare e rimasi ad ascoltare mentre faceva lo stesso con la mia.
Allungò le braccia e mi afferrò, mi tirò a sé lungo il sedile unito e mi
strinse in un abbraccio fortissimo. Le sue mani si muovevano per il
mio corpo, come se fossero in cerca di qualcosa.
Sentivo il cuore martellargli nella sua gabbia toracica, il primo
reale segno che non era poi così calmo e controllato. Stranamente,
realizzare che non fosse immune alla paura mi aiutò a sentirmi meno
impacciata dalla mia.
«Ehi, ehi.» Mi tirai indietro, ma di poco perché le sue braccia non
mi permisero di andare lontana. «Stai bene?»
«Tu?» Mi rigirò la domanda, le sue mani salirono al mio volto,
alzandomi il mento all’indietro. Non riuscivo a distinguere nulla, ma
avevo l’impressione che lui potesse vedermi. Il suo pollice seguì la
linea della mia mascella, poi mi accarezzò leggero lungo il lato del
collo, facendomi rabbrividire. «L’ultimo pezzo non è stato il massimo
per gli ammortizzatori. Ti sei fatta male?»
Scossi la testa, non riuscivo bene a parlare perché il posto in cui
mi trovavo – in mezzo al nulla – e in più la persona con cui mi
trovavo – l’uomo a cui pensavo senza sosta – facevano sì che il mio
corpo rispondesse e reagisse in modi su cui non esercitavo molto
controllo.
Nonostante l’adrenalina che ancora circolava nel mio corpo, o
forse a causa di essa, non potei non notare l’intimità della nostra
posizione. Come ero seduta a cavalcioni su di lui, come i nostri petti
erano premuti assieme, come lui odorava di menta e sapone e
dopobarba, e Cletus.
Lui liberò un sospiro; mi ricadde sul volto, mi sembrava di sollievo.
«Bene. Non capivo. Eri così silenziosa. Non riesco a credere a
quanto tu sia stata silenziosa, per tutto il tempo non hai detto una
parola.» Sentii il suo sguardo su di me, ma lui rimaneva nell’ombra.
«Sei in stato di shock?»
Scossi di nuovo la testa, feci scivolare le mani dalle sue spalle ai
suoi bicipiti, apprezzando la sensazione dei suoi muscoli sotto le mie
dita. Toccarlo, sentirlo sotto di me, essere circondata da Cletus
faceva annodare e poi sciogliere il mio stomaco, mentre un calore
struggente si raccoglieva in basso nel mio grembo, tra le gambe.
«Cletus» sussurrai, risalendo di più lungo le sue gambe, col
desiderio di premermi di più contro di lui, chiedendomi, così
all’improvviso, che sensazione mi avrebbe dato la sua pelle.
Desiderai – con eguale fulmineità – che la barriera dei nostri vestiti
non esistesse.
Lui si fece completamente immobile e avvertii il cambiamento del
suo respiro. Riusciva a vedermi. Forse non perfettamente, ma era
ovvio che distinguesse i tratti del mio volto.
«Jenn...» Il mio nome fu un ringhio basso, non proprio un sussurro
e non proprio un sospiro.
«Mi manchi» gli dissi, e l’istinto mi spinse a ondeggiare contro di
lui, per cercare di dare sollievo allo struggimento nel mio centro.
«Oh cazzo, non fare così.» Mi afferrò le braccia come per tenermi
ferma.
Ma io non volevo restare ferma. Volevo baciarlo. Per cui, lo feci.
Gli coprii la bocca con la mia, liberandomi dalla sua presa sulle
mie braccia per avvolgerle attorno al suo collo. All’inizio lui non fece
nulla, ma non m’importava. Aveva comunque un buon sapore, e la
sua bocca era calda e morbida e meravigliosa. Io lo volevo, per cui
me lo presi. Feci guizzare fuori la lingua e lo leccai, come lui aveva
fatto con me undici giorni prima, adorando il modo in cui rispose
schiudendo le labbra e gemendo.
All’improvviso e in modo decisamente energico, lui iniziò a
partecipare. Mi afferrò i capelli raccolti nella coda e io ansimai, a
bocca aperta. Lui catturò il mio verso di sorpresa, la sua lingua
adorava con esperienza la mia; usò la presa sulla mia coda per
spingermi a piegare la testa di lato, spalancandomi e consumandomi
con i suoi baci.
Lo sentii allungarsi e indurirsi contro il mio interno coscia, e il mio
corpo fu percorso da un fremito in risposta. Senza pensare, mi
premetti in giù, e mossi i fianchi. Le sue gambe si tesero, i suoi
muscoli si fecero come granito e lui strappò via la bocca.
«Jenn...»
«Non fermarti.»
So che non sono quella che vuoi, ma non osare fermarti.
Mossi le dita nel suo giubbotto, spingendoglielo via, sempre in
cerca delle sue labbra. Trovai invece il lato del suo viso, ma non mi
importò. Gli baciai lo zigomo, la mascella sotto la barba, il collo.
«Non mi fermerò» ringhiò, tirando fuori le braccia dal giubbotto,
suonava stizzito e impaziente. Le sue dita ritornarono
immediatamente, mi affondarono nel didietro.
Gli morsi nuovamente il collo, mi piaceva il sapore che aveva, la
consistenza della sua pelle sotto la mia lingua.
Le mani di Cletus scivolarono sotto l’orlo della mia maglietta,
risalirono i lati della mia vita fino alle mie costole, massaggiando e
strizzando, ogni tocco scatenava un brivido di nervosismo e
consapevolezza che correva nel mio corpo. Poi lui salì più su,
appallottolando il maglione sotto le mie braccia, e spostando le mani
per avvolgermi i seni da sopra il reggiseno. Io rabbrividii, un breve e
bollente sussulto di meraviglia mi sfuggì dalle labbra; lui mi abbassò
il reggiseno e strofinò dei piccoli cerchi decisi intorno al centro del
mio seno.
«Non fermarti, non fermarti» cantilenavo, inarcando la schiena,
portando le mani al gancio del reggiseno. «Toccami.»
Non potevo offrire altre istruzioni, ma quella misera richiesta
sembrò bastare. Con dita abili, lui sganciò il reggiseno più in fretta di
quanto avrei mai potuto fare io e mi sfilò via il maglione da sopra la
testa. Afferrò il mio busto nudo e portò la bocca sui miei seni.
Alla sensazione pungente dei suoi denti che si chiudevano sul mio
capezzolo i miei fianchi ebbero uno scatto d’istinto. Il calore
struggente ora si era fatto doloroso e irrequieto.
«Shhhh» mi placò Cletus, soffiando un respiro freddo sulla
chiazza bagnata lasciata dalla sua bocca sul mio seno, poi strusciò i
denti avanti e indietro sulla punta sensibile, provocandomi un’ondata
febbrile di pelle d’oca sulla pelle.
Io tirai la sua maglietta, desideravo il calore del suo corpo. Lui
sollevò cortesemente le braccia, poi iniziò immediatamente a
prodigare i miei seni di baci affamati e piccoli morsi, strizzando e
accarezzando con le sue grosse mani.
Era tutto una sensazione magnifica. La sua bocca e le sue mani
mi sembravano indispensabili. Non potevo far altro che infilare le mie
dita nei suoi lunghi capelli e tenerlo contro di me, inarcandomi e
tendendomi alla ricerca di… qualcosa di più.
Per quanto fantastica fosse la sensazione di tutto quello, non
faceva altro che aumentare la mia irrequietezza. «Cletus, toccami.»
«Lo sto facendo» disse, tra i suoi baci fantastici e frustranti.
«Ti prego, Cletus. Ti prego.» Non sopportavo quella tortura, quello
struggimento agonizzante. Gemetti, prendendo un respiro
bisognoso, che fu seguito da parole imploranti, che mi scivolavano
dalle labbra senza controllo. Lui si stava frenando, sentivo la sua
esitazione. Io stavo morendo e lui mi concedeva solo gocce di
pioggia per dare sollievo alla mia sete.
Si irrigidì, le sue mani si spostarono lungo i miei fianchi e la mia
schiena. Mi sollevò frettolosamente dal suo grembo.
Dovetti mandare giù un rantolo di protesta, quando lui mi tappò la
bocca con la mano e sussurrò: «C’è qualcuno qui fuori».
Le dita fredde della paura sciolsero quel groviglio di desiderio, e
mi trascinarono bruscamente alla realtà. Con destrezza, lui ritrovò la
mia maglietta e me la mise tra le mani mentre io mi sforzavo di
ascoltare. Un ramoscello, o un ramo, si spezzò. Foglie frusciarono e
scrocchiarono sotto la suola di uno stivale. Io trattenni il fiato e mi
infilai la maglietta dalla testa. Era troppo grande. Ero senza
reggiseno e nuotavo nel cotone morbido e nel profumo intossicante
di lui. Era la maglietta di Cletus.
Una torcia si muoveva tra gli alberi, il suo fascio passò sopra la
macchina. Ma poi continuò a muoversi. Chiunque fosse, non ci
aveva ancora visti.
Poi il cellulare di Cletus squillò.
Era impostato su silenzioso, per cui vibrò e lampeggiò. Lui si
scagliò sul cellulare come se volesse rifiutare la chiamata, ma poi si
fermò di colpo, il cipiglio sul suo viso venne illuminato dal piccolo
schermo. Sollevò gli occhi verso il parabrezza, verso la torcia che
era ancora alla ricerca, poi li riportò al cellulare.
Fece scorrere il pollice sullo schermo e si portò il telefono
all’orecchio, sussurrando: «Pronto?»
«Cletus, sono Jess. Dove sei?»
Sentii la sua voce in stereofonia, sia indistinta dal cellulare sia in
lontananza fuori dalla macchina.
Lui sospirò di sollievo, passandosi il cellulare all’altro orecchio.
«Vediamo la tua torcia. Non siamo ancora al rifugio, siamo ancora
sulla strada secondaria.»
«Siamo?» La sua voce era ancora udibile e lei non cercò
minimamente di abbassarla. La torcia si fermò, poi disegnò un lento
arco orizzontale. «Chi c’è con te?»
«Veniamo noi da te. Non muoverti.» Allontanò il cellulare
dall’orecchio e terminò la chiamata, lo schermo tornò nero.
«Cletus» cercai a tentoni la sua mano. «Devo dirti una cosa.»
La mano che cercavo si posò sulla mia mascella un attimo prima
che lui mi coprisse la bocca, e mi diede un bacio dolce e devastante.
Le sue labbra erano amorevoli e adoranti, lo scivolare lento della sua
lingua mi faceva sentire stordita e senza fiato. Mi ricordò di quando,
due settimane prima, avevo bevuto lo champagne al talent show.
Cletus mi lasciava accaldata, con il capogiro, e con il desiderio di
averne ancora.
Premendo insieme le nostre fronti, disse: «Se potessi tenere per
te i tuoi pensieri per cinque minuti, lo apprezzerei davvero».
«Cosa? Perché?» chiesi automaticamente, coprendo la sua mano
con la mia.
«Dammi altri cinque minuti per vivere questa fantasia.»
Cercai di scorgerlo, ma era troppo buio. Le sue parole
sembravano un enigma e mi inondarono la mente di domande.
Ero io la fantasia? O eravamo noi? Significava che mi voleva? O
che noi potevamo stare insieme solo in una situazione di fantasia?
Maledissi l’oscurità, avevo bisogno di vederlo per capire meglio
cosa pensasse. Il mio stomaco si agitava dal nervosismo perché, se
noi non avevamo altro che cinque minuti di questa fantasia, allora
volevo baciarlo di nuovo. Prima che potessi farlo, fui accecata
all’improvviso dal fascio di luce di una torcia, che illuminava
direttamente la macchina. Scattai all’indietro e mi schermai gli occhi,
strizzandoli per guardare meglio la figura che aleggiava fuori dal
finestrino di Cletus.
«Dannazione, Jess. Avevo detto che arrivavamo subito.» Cletus
mi lasciò e recuperò il suo giaccone da dietro la schiena.
«Che è successo alla tua maglietta, Cletus? E chi c’è lì con te? Voi
due vi stavate baciando? Vi ho interrotti?» La risata nella voce di
Jessica mi aiutò a placare la mortificazione.
La sua luce venne puntata dritta su Cletus, illuminando fiocamente
il suo corpo come in altorilievo, e il mio sguardo cadde sul suo
addome nudo. Sentii gli occhi spalancarsi, per sottolineare la mia
sorpresa ma anche il mio apprezzamento.
Non potei farne a meno. Lo fissai. Non sapevo che aspetto
avrebbe avuto senza maglietta addosso, ma la realtà del suo petto
nudo, delle braccia e del suo addome mi fecero lo stesso effetto di
un altro bicchiere di champagne. Era… beh, era stupendo. Avrei
voluto toccarlo di nuovo e questa volta avrei voluto farlo in una
stanza ben illuminata.
E voglio che lui se ne stia steso perfettamente immobile mentre
bacio e lecco e tocco e mordo e faccio qualsiasi cosa voglia col suo
magnifico corpo.
«Che c’è che non va?»
La nota di irritazione nelle sue parole mi riportò bruscamente al
presente e io lo guardai, sbattendo le palpebre sorpresa.
«Non c’è niente che non va» risposi troppo in fretta.
Jess tamburellò impaziente sul vetro del finestrino di Cletus.
«Forza, Cletus. Metti via il preservativo e presentami la tua
amichetta.»
Il suo sguardo scattò nel mio, poi si allontanò: la sua espressione
era scontrosa ma, a parte quello, indecifrabile. «Questa me la paghi,
Jess.»
Lei rise, la torcia dondolò e lasciò il finestrino. In effetti, si
sganasciò dalle risate.
Cletus si chiuse il giaccone fino al collo e fece per uscire.
Ricordandomi che indossavo la maglietta sbagliata, gli presi la
mano.
«Aspetta, indosso la tua maglietta.»
«Lo so» disse Cletus, senza guardarmi mentre apriva il suo
sportello. «Volevo vedere come stavi con la mia maglietta addosso.»
«Allora...» Jessica era raggiante. I suoi grandi occhi marroni
balzavano tra me e Cletus. «Che piacere vederti, Jennifer» esordì.
Per l’ennesima volta.
Ci aveva portati al suo rifugio – o al rifugio di Duane, non ne avevo
idea – e Cletus era seduto su una delle sedie di fianco a un piccolo
tavolo. Ci aveva chiesto di toglierci le scarpe, per cui lo avevamo
fatto, lasciando vicino alla porta d’ingresso i miei tacchi e gli stivali di
Cletus.
Io mi sedetti sulla seconda sedia, mettendo il tavolo tra noi e
cercai di non tormentarmi le dita mentre osservavo la dicotomia tra
le nostre scarpe: i miei tacchi alti e i suoi stivali da lavoro infangati.
Per qualche motivo l’immagine di quelle due scarpe insieme mi
mandò un brivido eccitato.
Jessica, intanto, si stava sedendo sul letto. Il rifugio aveva
un’unica stanza ed era piuttosto piccolo. Conteneva solo il succitato
tavolo, due sedie, un letto e un caminetto. Era accogliente e pensato
per due persone. Mi piaceva.
«Grazie. E grazie per il tuo aiuto.» Ricambiai il suo ampio sorriso.
«Duane ha chiamato?» Cletus – che teneva il suo giubbotto a
scacchi rossi e neri chiuso sul suo petto nudo – lanciò un’occhiata al
cellulare. «Dovrebbe già aver chiamato.»
«Mi ha scritto un messaggio prima che uscissi a cercarvi. È
arrivato alla stazione di polizia.»
Cletus annuì con un solo cenno, e si infilò il cellulare nella tasca
del giubbotto. «Bene. Molto bene.»
«Vuoi dirmi cos’è successo? Perché quei biker vi inseguivano?»
Lo sguardo di Jessica saltava da me a Cletus.
«Erano arrabbiati perché ho scambiato i loro assorbenti con dei
pannoloni.» Cletus sembrò talmente serio e ragionevole che quasi
gli credetti. E io avevo assistito a tutta la scena.
«Cletus.» Scossi la testa e storsi il naso guardandolo, poi mi voltai
verso Jessica. «C’era mio fratello e lui...» deglutii, le parole mi
restarono bloccate in gola, per cui dovetti schiarirmela. «Si stava
comportando in modo sgradevole. Cletus è arrivato e le cose sono
sfuggite di mano.»
«Gli ho dato un pugno in faccia» spiegò, con tono pratico come se
avesse appena ammesso di essersi tagliato le unghie. «Inoltre, ti
saluta Tina.»
La bocca di Jessica si spalancò e le sopracciglia le scattarono in
alto sulla sua fronte. «Hai dato un pugno a Isaac?»
«Sì.» Cletus annuì. «In faccia. E Tina ti saluta.»
«Cletus, non mi importa di Tina» borbottò Jess un istante dopo,
sbattendo le palpebre e accigliandosi. Il suo sguardo si spostò su di
me e si addolcì per la preoccupazione. «Immagino che Isaac stesse
dicendo delle cose davvero cattive.»
«Sì.» La mascella di Cletus si contrasse e i suoi occhi si
socchiusero molto brevemente. «Ma non dirà un bel niente per un
po’. Credo di avergli rotto la mandibola.»
«Oh mio Dio.» Jessica si coprì la bocca e rivolse la domanda
successiva a me. «Stai bene? Non dev’essere stato facile
assistere.»
«Sto bene. Sono solo un poco…» emotivamente esausta,
«stanca.»
Mi rivolse un cenno di comprensione e sospirò. «Beh, se voi due
volete restare qui, fate come se foste a casa vostra.» Jessica si alzò
e prese la sua giacca ai piedi del letto. «Le lenzuola sono pulite e c’è
legna in abbondanza.»
Il calore mi risalì il collo. Le guance mi si infiammarono sentendo
le sue parole. Non riuscivo a decidere se la sua supposizione – che
io e Cletus andassimo a letto insieme – mi suscitasse imbarazzo o
piacere. In ogni caso mi sentivo ribollire, stranamente deliziata e
agitata.
Cletus e io ci alzammo contemporaneamente. Jess si girò verso di
noi con un sorrisetto.
«Sono felice che stiate bene e sono felice che tu abbia chiamato
Duane.» Lo abbracciò stretto. «Scusa se ho reso più dura la
situazione.»
«Non ti dispiace affatto.» Alzò un sopracciglio nella sua direzione
mentre lei lo liberava dall’abbraccio.
«Hai ragione. Non mi dispiace affatto.» Jessica alzò le spalle,
sorridendo.
«Uhm. Comunque, in ogni caso, grazie per avermi ceduto l’abilità
al volante di Duane.»
«Sai che gli piace dare una mano.» Jessica si girò verso di me.
«Mi dispiace che tuo fratello ti abbia detto quelle cose brutte, ma
sono felice che Cletus fosse lì per spaccargli la mandibola.»
Un breve scoppio di risa mi sfuggì dalle labbra. Non sapevo cosa
provare riguardo Isaac o la sua mandibola spezzata. Le cose che mi
aveva detto…
Gli occhi di Jess passarono sopra di me, poi fece schioccare la
lingua e mi strinse in un caldo abbraccio. «Fammi sapere quando voi
due siete pronti per Big Todd. A me e Duane non dispiace tornare a
fare un salto là, quando vorrete.»
Nella mia espressione c’era un sorriso di gratitudine e
contemporaneamente un cipiglio di confusione, quando mi lasciò.
«Cos’è Big Todd?»
Il suo sguardo sfrecciò tra me e Cletus, i suoi occhi erano ancora
più spalancati di prima e la sua voce si era alzata di un’ottava. «Uh,
è un negozio. E quando sei pronta per andarci, chiamami. Cletus ha
il mio numero.» Si gettò un pollice sopra la spalla e indietreggiò fino
alla porta. «Ora devo proprio andare, prima di fare tardi per una
cosa.»
Detto quello, Jessica si voltò e scappò a gambe levate, sbattendo
la porta dietro di sé con decisione e così lasciandoci soli.
Completamente e totalmente soli.
...già.
Dopo un intero minuto, io feci scivolare lentamente gli occhi di lato
e in su, lungo il suo profilo. Fissava la porta con un cipiglio
pensieroso e il suo sguardo sembrava distante. La mia attenzione
scese sul suo collo, nel punto in cui il giubbotto incontrava la sua
pelle nuda. Mi leccai le labbra. Ora conoscevo il sapore della sua
pelle.
Quella serata era stata una giostra turbolenta di emozioni e follia.
Ero stanca, ma ero anche carica. E triste, per via di Isaac. Ed
euforica, per via di quello che era successo nella macchina con
Cletus. Ma poi di nuovo triste, perché… cosa aveva significato?
Pensai alle parole che aveva detto a Billy nel ristorante a
Nashville, mentre tutti fingevano di non ascoltare. Se è solo
un’attrazione fisica, se non ha alcun significato, allora non c’è motivo
di impegnarsi in una relazione con quella persona. Assieme al suo
commento di poco prima nella macchina, sul fatto di vivere una
fantasia, il cuore mi doleva di fronte alla possibilità che a Cletus non
piacessi poi così tanto.
A lui piaceva il mio aspetto, l’esaltante festival del palpeggiamento
di poco prima aveva reso questo fatto estremamente chiaro, ma
cosa provasse lui - o non provasse - per me come persona restava
un mistero.
Beh, questa non era l’esatta verità. Avevo ancora in mente le sue
parole al Piggly Wiggly, ma non avevo ancora avuto il tempo per
assimilarle. Credi davvero che Dio farebbe una creatura tanto
adorabile e talentuosa e buona come tua sorella per poi decidere
che il suo aspetto è peccaminoso? Qualcosa di cui vergognarsi? No.
Non lo farebbe mai. Semmai tua sorella, il suo volto, il suo corpo, la
sua mente e il suo cuore Gli rendono gloria. E lei non dovrebbe stare
nascosta. Non si cela un qualcosa di così straordinario dal mondo,
come hanno fatto i tuoi genitori, come vuoi fare tu. Questo è il vero
peccato.
Ma nonostante avesse pronunciato quelle bellissime parole in mia
difesa, io non ero ciò che lui voleva. Anche questo, lui lo aveva reso
estremamente chiaro.
L’istinto e l’esperienza mi spinsero a preparare il mio cuore a un
rifiuto. Ma poi una vampata di rabbia si incendiò dentro di me e mi
mandò un’impennata di determinazione lungo la schiena. Mi
raddrizzai, cercando di tenere la testa il più alta possibile e incrociai
le braccia. Alzai il mento, mentre la risolutezza scacciava via la
paura. Non mi sarei data il tormento, cercando di essere qualcosa
che non ero. Non avrei versato lacrime per lui o per nessun altro.
Io ero chi ero. Io ero chi stavo diventando.
«Vorrei tornare a casa, ora» annunciai, rivolta alla stanza.
Cletus sobbalzò appena appena, come se l’avessi colto di
sorpresa. Chiuse gli occhi per un breve istante e poi si girò verso di
me. Non mi toccò, passò solo gli occhi sul mio viso come se potesse
essere cambiato nell’ultima ora.
«Jennifer» cominciò, poi si fermò. Strinse le labbra, si accigliò,
deglutì e infine ricominciò. «Dobbiamo parlare.»
«Va bene. Parla.»
Prese un profondo respiro e adottò il suo cipiglio pensieroso: era
l’espressione che usava quando doveva dare delle cattive notizie.
«Ecco i fatti: io e te non siamo fatti l’uno per l’altra, ma io...»
«Bene. Vorrei andare a casa, ora» risposi sollevando il mento
ancora più in alto, un calmo distacco permeava ogni mia sillaba. Il
mio cuore si indurì ulteriormente, si raffreddava sempre più nel mio
petto. Se non gli piacevo per quella che ero, allora… farà meglio a
tenersi per sé le sue vaccate, perché la stalla era chiusa. «Aspetta.
Non ho finito.»
«Non mi importa.»
«Ascoltami fino alla fine.» Il suo cipiglio si fece più profondo,
aveva un aspetto più vero, e la sua mano salì al mio braccio come
per non farmi scappare.
Io scrollai via le sue dita e feci un passo indietro. «No, non resterò
ad ascoltarti fino alla fine. Non starò qui ad ascoltarti mentre mi dici
che stavamo solo facendo pratica o che non siamo fatti l’uno per
l’altra o che tu non provi per me quello che io molto chiaramente
provo per te. Per cui conservati il letame per il tuo giardino e
riportami a casa.»
Una luce si fece più affilata dietro ai suoi occhi, mentre si
stringevano su di me, e Cletus riguadagnò la distanza che io avevo
messo tra noi. «Cos’è che provi per me?»
«Non… non sono affari tuoi» balbettai, lo sguardo nei suoi occhi
era snervante. «Ora, o mi riporti a casa, o alla mia macchina o...»
«La mia ipotesi è che sei innamorata di me.»
La bocca mi si spalancò. «Come, scusa?»
«Tu sei innamorata di me.» Poi lui annuì, come se le parole
fossero uscite dalla mia bocca.
Io fissai il suo bel volto, inebetita. La mia mente era
completamente priva di ogni pensiero, perché lui li aveva scacciati
tutti con la sua ipotesi.
«Considererò il tuo silenzio come un assenso implicito.» La voce
di Cletus si abbassò di un’ottava e lui fece un altro passo in avanti,
con lo sguardo sulle mie labbra.
«Tu… tu… tu… non pensarci neanche.» Indietreggiai. «Io non
sono innamorata di te.»
...oppure sì?
Scossi la testa, facendo una smorfia di frustrazione. Forse questo
non era il momento migliore per affrontare una simile conversazione.
«Davvero?» Il suo sguardo si addolcì, la sua voce risuonò della
stessa vulnerabilità e gentilezza dei suoi occhi. «Perché io sono
innamorato di te.»
La mia bocca si spalancò. Poi si richiuse. Poi si spalancò ancora.
Un’esplosione di sensazioni mi lasciò strabiliata. Queste non erano
le parole che mi aspettavo dicesse. Per niente.
Mai.
Tutta l’aria mi lasciò i polmoni in un soffio e un calore delirante
iniziò a diffondersi su per il mio collo e il petto. «Io non… Non ti
capisco» sussurrai, scuotendo la testa, rifiutando le sue parole e
cercando contemporaneamente di trovare un senso alla situazione.
Non siamo fatti l’uno per l’altra.
La confusione mi annebbiò gli occhi, non riuscivo a vederci.
«Non mi sorprende. Non sono facilmente comprensibile» disse
piano. «Ma capirai questo.» Cletus mi catturò il mento con dita leste
e l’alzò. Io mi preparai mentalmente a qualsiasi affascinante assalto
stesse pianificando, e poi incontrai i suoi occhi. Le ginocchia mi
tremarono. Il modo in cui guardava me, la mia bocca… Buon Dio!
Vacillai, mi sentivo la testa leggera. Stava per baciarmi di nuovo. E
questa volta, guardando nei suoi occhi, supponevo che l’unico
ostacolo a impedirci di consumare la nostra frastornante relazione
ero io. E io non volevo essere un ostacolo.
«Cosa stai facendo?» Appiattii le mani sul suo petto.
«Sai cosa sto facendo» sussurrò in un borbottio, suscitando nel
mio corpo un’ondata di piacevolezza incandescente e di tensione,
facendomi arricciare le dita dei piedi.
Scossi la testa, mentre il panico e la speranza si mettevano a
litigare tra loro, causando un putiferio. «Non lo so. Onestamente,
non lo so.»
«Allora lascia che te lo mostri.»
«Cletus.» Piegai la testa di lato, ma non distolsi lo sguardo dal
suo, spostai le mani per afferrargli i bicipiti. «Io non sono fatta per
questo.»
«Per cosa?»
«Per l’amore.» Le parole mi scapparono prima che potessi
fermarle, prima ancora di rendermi conto che le avrei pronunciate.
Mi pentii immediatamente della mia sincerità perché i suoi occhi si
fecero allo stesso tempo più gentili e più duri. «Mi permetto di
dissentire. Avanzerei l’ipotesi che l’amore sia esattamente ciò per cui
sei fatta.» Una punta di rabbia gli affiorò nella voce.
Cedendo al panico, continuai senza pensare: «Perché so già cosa
succederebbe: io mi innamorerò di te e tu mi spezzerai il cuore».
«Non posso spezzarti il cuore senza spezzare il mio, e io tengo
moltissimo al mio cuore.»
«Non penso di riuscire a separare l’atto dal sentimento. Non posso
praticarlo come uno sport. Finirò per bruciare il toast.»
Lui annuì pensieroso, come se stesse riflettendo sulle mie parole,
mentre le sue mani scivolavano lungo la mia schiena per avvolgermi
il sedere. Mi accarezzò il didietro dai fianchi fino al retro delle cosce
e poi strinse.
«A me sta bene.» Il suo tono era pragmatico a livello esasperante.
Gemetti quando lui premette il mio corpo contro il suo e io avvertii
la prova del suo desiderio. «Sii serio, Cletus.»
«Sono serio, Jenn. Ho bisogno di finire quello che ho iniziato
prima, quando ci hanno prematuramente interrotti. Stanotte non
succederà altro, oltre a dei palpeggiamenti molto seri.» Si fermò, poi
piegò la testa da un lato come se stesse ponderando qualcosa. «A
seconda della tua definizione di “serio”.»
«Questo è un gioco!»
Lui allentò la presa, i suoi occhi si fecero sinceri ma non meno
desiderosi. «Tu non sei un gioco, per me.»
«E allora cosa sono per te, Cletus? Perché non puoi aspettarti che
io creda davvero che sei innamorato di me» lo schernii, scuotendo la
testa.
Ma poi lui mi guardò.
Semplicemente, mi guardò.
E io sbattei le palpebre per la sorpresa.
I tanti diversi “Cletus” sparirono. Nessun artificio, nessun giochetto
mentale, nessuna battuta, nessuna barriera: era rimasto solo l’uomo.
La pura verità di lui, della sua anima, era bellissima. Era preziosa
per me.
Lui era prezioso per me.
«Vuoi sapere cosa sei per me? Va bene. Sei il mio inizio, la mia
metà e la mia fine.»
Quelle parole mi colpirono dritte al petto, mi attraversarono il cuore
e penetrarono dritte fin nella mia anima.
I nostri sguardi si scontrarono e rimasero incatenati. Boccheggiai
in ricerca d’aria, mentre le lacrime mi bruciavano gli occhi per un
momento per poi lasciare striature brucianti lungo le mie guance.
Incapace di fermarmi, gli gettai le braccia al collo e lo baciai.
“O forse c’è un’anima nascosta in ogni cosa, che può sempre comunicare con
un’altra, senza emettere suoni.”
-Frances Hodgson Burnett, La piccola principessa

La mia donna era straordinaria.


Era anche intenta ad aprire la zip del mio giubbotto, le sue mani
avide scivolavano sul mio petto e stomaco. Io mi tesi sotto la punta
delle sue dita e ripresi a stilare la lista di cose non sexy che avevo
iniziato in macchina, prima che Jessica ci piombasse addosso con la
sua torcia. Stavo compilando un elenco dettagliato di tutti i vecchietti
con cui avevo giocato a shuffleboard, con quali avevo vinto e quali
avevo lasciato vincere. Gli uomini anziani e orgogliosi facevano le
scenate peggiori e pensare ai loro musi insoddisfatti mi avrebbe
auspicabilmente aiutato a preservare la mia sanità mentale.
La maggior parte del mio venerdì non era andata come avevo
pianificato, ma la situazione stava decisamente migliorando.
Avevo iniziato la mia giornata con un ottimo piano per conquistare
il cuore di Jennifer. Non avremmo bruciato le tappe, tutto l’opposto.
La prima fase del mio piano prevedeva incrociarla per caso al Piggly
Wiggly. Avrei finto che si trattasse di una felice coincidenza. Poi avrei
attaccato bottone, come fanno tutte le persone, e durante la
conversazione l’avrei invitata a cena.
Sapevo che Jennifer passava al negozio ogni venerdì e ogni
domenica per prendere una cassa di banane. Lo sapevano tutti. Per
cui arrivai in anticipo, prima che aprissero, e aspettai. Alle quattro del
pomeriggio ero preoccupato. Alle otto di sera ero sull’orlo dell’infarto.
Avevo chiesto a Billy di passare davanti alla pasticceria con la
macchina mentre tornava a casa e lui mi aveva confermato che
l’auto di Jennifer era ancora là.
Aspettai. Guardai i Wraiths entrare nel negozio alle nove e
quaranta, senza farci troppo caso. Jenn finalmente parcheggiò fuori
dal negozio dieci minuti dopo ed entrò di corsa, chiaramente di
fretta. Io la seguii. E fu allora che il piano andò dritto all’inferno.
Il piano originale prevedeva diverse fasi, ognuna delle quali si
atteneva ai rituali di corteggiamento umano comunemente accettati.
Intendevo tenere per me la profondità dei miei sentimenti per tutto il
tempo che le serviva per arrivare a provare lo stesso, e a quel punto
avrebbe detto lei per prima le due paroline, io avrei convenuto, ci
saremmo fidanzati, avremmo comprato un pezzo di terra, Jethro ci
avrebbe costruito una casa come regalo di nozze e io avrei insistito
che Jennifer avesse degli orti rialzati per le sue attività in salopette.
Al momento, la prima fase del piano era sostanzialmente
irrilevante, visto come le sue mani si stavano muovendo sul mio
corpo neanche fossi qualcosa di mai visto prima.
Il che mi riportava alla mia donna straordinaria.
Non mi aspettavo un ritmo così accelerato nell’evoluzione degli
aspetti emotivi o fisici della nostra relazione. Potevo adattarmi e mi
sarei adattato, ma questa fulmineità richiedeva una quantità di liste
non sexy.
Il mio giubbotto cadde sul pavimento e la sua bocca si spostò alla
mia spalla e alla clavicola, per poi farsi strada a morsi fino al mio
petto. I suoi movimenti erano quasi febbrili e io intuii che Jennifer si
era completamente persa nel momento. Dovevo mantenere la testa
a posto per entrambi, per cui mi concentrai sulla mia lista.
Mi chinai e la baciai appena sotto l’orecchio, soffiando un respiro
bollente lungo il suo collo e la sua spalla, concedendomi di godermi
la reazione del suo corpo, il modo in cui lei si irrigidì e inarcò. Si
premette contro di me e io sentii tutta la sua smania.
Quel che aveva vissuto nella corsia delle verdure in scatola del
Piggly Wiggly era stato un trauma, non solo per le parole che suo
fratello le aveva detto, ma anche per le mie azioni, poiché avevo
preso a pugni quella merdina.
Che fosse chiaro: non me ne pentivo, e l’avrei rifatto. Volentieri.
Ma non ci saremmo abbandonati alla passione stanotte. Io non
l’avrei permesso. Non volevo aggravare questa prova per lei,
superando un limite di cui poi si sarebbe pentita. Ero preoccupato
per lei persino mentre sollevavo la maglietta di cotone che indossava
e facevo scivolare le mani lungo i lati del suo corpo, la sua pelle
calda e liscia come la seta sotto i miei polpastrelli erodeva i confini
della padronanza di me stesso.
Mi aggrappai a lei e al mio autocontrollo, me li tenni stretti
entrambi. Lei possedeva il mio cuore. Io desideravo il suo, lo volevo
da impazzire. E volevo il suo cuore a lungo termine. Avrei fatto
qualunque cosa fosse stata necessaria per dimostrarle la profondità
del mio rispetto per lei. Volevo che a lei piacesse. Ma non avrei
perso il controllo. Perdere il controllo avrebbe significato perdere lei.
«Cletus, toccami.» Il suo respiro era spezzato, i suoi occhi
stupendi si spostavano tra i miei. «Ti prego.»
«Ti sto toccando.» La mia voce era arrochita e sforzata. Mi schiarii
la gola.
Un cipiglio improvviso segnò i tratti del suo volto, la frustrazione
squarciò la nebbia di desiderio nel suo sguardo. «Dove sei? Dov’è la
tua testa in questo istante?»
Io sbattei le palpebre, di fronte a lei e alla sua accusa. «La mia
testa è con te.» Feci per baciarla di nuovo e piegai le dita sulla sua
pelle.
Lei sfuggì alla mia bocca. «Sei distratto, me ne accorgo. Eri
distratto nella macchina e lo sei anche adesso.»
Questa donna astuta è… sempre molto astuta.
«Cosa te lo fa pensare?» azzardai cauto.
«Perché so com’è quando non lo sei. Quando mi hai baciata per
fare pratica...»
«Non era pratica.» Improvvisamente, mi sembrava di vitale
importanza che lei sapesse la verità su quella sera. «Ti ho baciata
perché non sono riuscito a farne a meno.»
«Oh.» Gli occhi le si spalancarono, come se si trattasse di una
novità per lei. «Aspetta. Cosa? Non sei riuscito a farne a meno?
Pensavo fosse solo per fare pratica.»
«No, Jenn. Non era pratica. Ero io che ti desideravo.»
I suoi occhi si velarono appena e un piccolo sorriso le si
cristallizzò sul volto, ma poi quasi immediatamente lei sbatté le
palpebre, come per schiarirsi le idee e disse: «Beh, la prima volta è
stato diverso. Perché è stato diverso?»
Gli occhi con cui mi studiò avevano ora una tonalità violetta
profonda e intensa. Quasi indaco. Ma io notai a malapena il colore
perché ero troppo occupato a farmi incantare da quella donna. Una
sensazione di rimescolamento nel mio petto, un’improvvisa brama
mi spinse ad accorciare il guinzaglio al mio autocontrollo.
Era così bella, la mia Jennifer. E non per i suoi occhi, per il suo
viso o qualunque altro dei suoi attributi esteriori. La persona che lei
era mi ammaliava. Come avevo potuto non considerarla? Come
avevo potuto guardarla con qualcosa che non fosse meraviglia e
rispetto e desiderio?
«Non sarebbe prudente per la nostra futura longevità fare
qualsiasi cosa tu non sia pronta a fare.» Dovetti deglutire, la mia
voce era di nuovo rauca e tremante.
Il suo cipiglio si fece più marcato, la posa del suo corpo si irrigidì.
«Ti stai trattenendo perché la mia mancanza di esperienza ti
preoccupa.»
Jennifer si allontanò di qualche centimetro e io la fermai,
riportando il suo corpo contro il mio. «No. Non esattamente. Stasera
hai affrontato una dura prova e io ti ho appena confessato qualcosa
che non sono sicuro tu fossi pronta a sentire.»
«E… allora?» Il suo tono racchiudeva una nota di irritazione e
disperazione. «Mi dici che mi ami e poi vuoi fare cosa? Stringermi la
mano?»
«No. Non voglio stringerti la mano.» Non riuscii a bloccare il mio
sorrisetto in tempo, il suo suggerimento prosaico mi aveva colpito,
era sia buffo che triste. Le racchiusi le guance tra le mani e premetti
un bacio lento sulla sua bocca, la assaporai, poi staccandomi per
sussurrare: «Come ho detto, dei palpeggiamenti seri».
«Non mi sembra una cosa seria. Mi sembra prudente.»
Alzai un sopracciglio a queste parole. «Non vuoi una cosa
prudente?»
Lei scosse la testa, la sua voce le si riempì di ancora più
disperazione. «No. Non la voglio.»
La scrutai, serrando la mascella, seppellendo la passione che mi
montava dentro. Schiacciandola. «Jenn, non voglio perderti per un
rimpianto.»
Il suo sospiro leggero aleggiò sopra le mie labbra e il mio mento.
Lei mi osservò in silenzio, ancora accigliata, i suoi occhi
sfrecciavano tra i miei. Sembrava agitata.
Per cui aggiunsi: «Tu dimmi cosa vuoi e io te lo darò. Ma rifletti
bene prima di chiedermelo».
Lei si leccò le labbra. «Qualunque cosa? Farai qualunque cosa
voglia?» Nei suoi occhi qualcosa si accese, un’idea o un pensiero, e
la sua mascella e il suo collo si rilassarono sotto le mie dita.
Io rimasi perfettamente immobile, perché la domanda sembrava il
presagio di una trappola, cercai di carpire le sue intenzioni dalla sua
mente, ma andai a sbattere contro un muro di mattoni. Allora lasciai
ricadere le mani dal suo volto e le feci scivolare sulle sue spalle.
«Farò qualunque cosa, nei limiti del ragionevole.»
«Va bene.» Annuì con un cenno, incrociando le braccia e facendo
un deciso passo indietro. «Togliti i vestiti.»
La guardai sbattendo le palpebre. Sbattei le palpebre davanti alla
sua richiesta. Non era quello che mi aspettavo.
«Come, prego?»
«Togliti i vestiti.»
Mi portai le mani alla vita, mentre una punta di apprensione mi
attraversava. «Non indosso la maglietta.»
Lei alzò il mento e mi ordinò: «Togliti i pantaloni».
Io la fissai, lottando contro una marea crescente di trepidazione
fomentata da quanto ero arrapato. «Jenn...»
«Puoi tenerti le mutande. O i boxer. Qualunque cosa porti. Voglio
solo...» prese un profondo respiro, come se raccogliesse coraggio
nell’aria, «voglio solo vederti. So che hai ragione, che sono a pezzi e
confusa per gli eventi della giornata, ma io so anche che, qualunque
cosa succeda domani, non mi pentirò mai di aver passato il resto di
questa notte a esplorare e toccare il tuo corpo.»
Terminò la sua affermazione mordendosi il labbro inferiore, con gli
occhi spalancati per la confessione del suo desiderio segreto.
Io la fissai, incerto sul da farsi.
È una pessima idea.
Avevo iniziato ad ansimare, il cuore mi batteva come un tamburo,
il riverbero di ogni sua pulsazione mi faceva tremare il petto e
pulsare l’uccello.
È una pessima idea.
«Ti prego» chiese piano, avanzò strusciando i piedi e posò le mani
sul mio stomaco. Io sobbalzai a quel contatto. «Ti prego, lasciami
solo...»
Non finì la frase.
Le sue mani scivolarono invece giù lungo il mio corpo mentre lei
teneva in trappola il mio sguardo, le sue dita afferrarono il bottone
dei miei jeans. Lo slacciò, aprì la cerniera, infilò le dita nei pantaloni
e li spinse giù dai miei fianchi.
Poi risollevò le dita e le chiuse attorno alle mie. Fece un passo
indietro, continuando a tenermi in ostaggio del suo sguardo e
stringendo la mia mano, come per guidarmi, e accennò al letto.
«Stenditi.»
Io liberai un respiro spezzato, resistendo alla sua stretta che mi
tirava. «È una pessima idea.»
«Lascia i pantaloni per terra e stenditi sul letto.» Il comando
travestito da supplica mi sembrò assolutamente ragionevole; lei lo
accompagnò a un piccolo sorriso, speranzoso e ipnotizzante.
Ero stato con parecchie donne prima, tutte cuoche selettive, di
livello professionale, che erano interessate a un accordo senza
alcun tipo di legame. Ma non ero mai stato ipnotizzato prima. Non
avevo mai dovuto ricordare a me stesso di mantenere il controllo.
Non ero mai andato nemmeno vicino a perdere il controllo.
Se Jenn avesse abbassato lo sguardo avrebbe visto la mia
erezione evidente, che si protendeva dal mio inguine e sollevava
una tenda nei boxer, dura e quasi dolorosa. Ma non lo fece. La sua
concentrazione mi ammaliava. Il mio buon senso era stranamente
silenzioso.
Liberai i piedi dai jeans e la lasciai guidarmi per i tre brevi passi
fino al letto. Non aveva abbassato gli occhi sin da quando mi aveva
fatto la sua iniziale richiesta. Non li spostava dai miei mentre posava
piano le mani sulle mie spalle e mi conduceva verso il materasso,
spingendomi finché non mi ritrovai steso sulla schiena.
Non riuscii a liberarmi da quello stato di trance finché lei non
allungò la mano sul bottone dei suoi jeans.
«Cosa stai facendo?» chiesi brusco, preparandomi a sollevarmi.
Lei stese il palmo contro il mio petto e mi spinse giù. «I risvolti dei
miei pantaloni sono infangati. Non voglio sporcare il letto.»
Jenn si sbottonò la cerniera in un attimo. I miei occhi caddero sulle
sue gambe, che venivano rivelate un centimetro alla volta mentre lei
si sfilava i pantaloni. Indossava ancora la mia maglietta e le ricadeva
sulle cosce, appena sopra le ginocchia. Vederla così, ai piedi del
letto, con addosso solo la mia maglietta mi costrinse a mandare giù il
desiderio insieme a una preghiera di vedere più pelle. Invece, strinsi
a pugno le mani lungo i fianchi.
È davvero una pessima idea.
Come se avesse percepito che stavo per muovermi, Jenn si
sedette rapidamente e si sistemò a cavalcioni su di me, le sue mani
scesero ai miei polsi. «Non osare alzarti.»
Ogni mio singolo muscolo si tese, la mia lucidità persisteva e mi
ricordò che ero innamorato di quella donna. La amavo sia sul piano
razionale che sul piano irrazionale. E la volevo con una ferocia che
mi aveva tenuto sveglio la notte e torturato durante il giorno.
Mi ero già rialzato per metà quando la sua bocca scese sulla mia
e lei mi baciò.
«Ti prego, Cletus» mi supplicò tra un bacio bollente e l’altro, la
punta delle sue dita scivolò su per le mie costole. Poi, tutto a un
tratto, lei si sfilò la maglietta.
Jennifer premette i suoi seni contro di me e mi avvolse le braccia
attorno al collo, scivolando più su con il bacino lungo il mio corpo e
fornendo così una frizione tormentosa. Senza rendersene conto fece
a pezzi la mia moderazione. «Ti prego, voglio toccarti. Lascia che ti
tocchi.»
Il suono della sua implorazione, il contatto bollente, bruciante della
sua pelle, la sua bocca avida spezzarono le sottili briglie del mio
controllo. Ribaltai Jenn sulla schiena senza sforzo, la spinsi via per
poter far correre la mia mano giù lungo il suo corpo sensuale, per
poter catturare il suo capezzolo nella mia bocca. Lei si incurvò poi si
inarcò, tendendosi tutta sotto il mio tocco; le sue unghie affondarono
nella mia schiena, ancorandoci insieme.
«Vuoi toccarmi?» ringhiai, afferrandole la mano, portandola sul
davanti dei miei boxer e sotto l’elastico. Le premetti il palmo contro la
mia erezione, le feci avvolgere le dita attorno a me, le mostrai come
stringerla e accarezzarla. Il fiato mi sfuggì dai polmoni tutto in una
volta, desideri frammentati e selvaggi chiusero il sipario su ogni
riflessione razionale.
Ero perso in lei, in quel momento, nella passione. I miei pensieri
frammentati iniziavano e finivano tutti con ho bisogno e ho voglia.
Tutte le mie ossessioni si focalizzarono su come portarla più
encomiabilmente al piacere, su come garantire al meglio che lei
gridasse di estasi. Non riuscivo a strappare la mente dal pensiero
della sua pelle nuda e dalla gratificazione indispensabile del suo
pugno attorno al mio uccello.
Sollevai la bocca dal suo seno, abbandonai la sua mano nei miei
boxer e infilai le dita al centro delle sue mutandine, pettinando tra i
ricci, accarezzando i peli soffici finché non trovai quello che cercavo.
«Oh, oh, oh Dio!» Lei sussultò, le sue labbra si schiusero, i suoi
occhi erano spalancati e velati dalla lussuria. Inclinò in avanti il
bacino e indietro la testa.
Non avevo mai visto niente di così sensuale e dannatamente sexy.
Lei era seduzione e peccato, eccesso e decadenza.
«È questo che vuoi?» domandai, strofinando il suo centro bagnato
e facendo scivolare le dita nel suo calore lussurioso.
Lei non rispose, come mi aspettavo.
La compulsione di divorarla si impadronì di me, quella brama
infuriava in me mentre accarezzavo il suo corpo flessuoso e lei
imitava le mie mosse con movimenti goffi, stringendomi e
accarezzandomi senza alcuna finezza. Anche quello mi sembrava
indispensabile. Mi sembrava perfetto.
Sentii la prima pulsazione del suo orgasmo e rallentai il ritmo,
strappando così un mugolio confuso dalle sue labbra.
«Cletus, oh, ti prego, non fermarti. Ti prego. È… È...»
«Non intendo fermarmi.»
Volevo prolungare il momento, abbandonarmi ad esso. Volevo
immergermi nei miei pensieri più primitivi e possessivi. D’ora in
avanti lei sarebbe stata mia: solo i miei occhi avrebbero visto la sua
pelle, solo la mia bocca l’avrebbe adorata, solo le mie mani
l’avrebbero toccata. Il suo corpo era stato fatto per il mio corpo e
l’avrei reclamata come mia, come lei aveva fatto con me senza
rendersene conto.
«Cletus!» gridò, tremando, contorcendosi sul letto, incapace di
prendere fiato per il suo orgasmo.
Mi strizzò di riflesso e io mi pompai nella sua mano, venni assieme
a lei con un ruggito basso di soddisfazione e transitorio
appagamento. Catturai la sua bocca e le sue grida. Il suo cuore
batteva insieme al mio cuore, le nostre pelli scivolavano insieme e lei
si sforzò di premersi ancora più vicina, come se volesse entrarmi
dentro e vivere nella mia pelle.
Lo sapevo perché io provavo la stessa cosa.
Claire aveva ragione. L’amore annullava l’esperienza.
Completamente e totalmente. L’amore annullava così tante cose.
Ero soddisfatto dalla mia donna, dal suo tocco inesperto, come non
lo ero mai stato prima. Perché avevo fatto l’amore e la persona che
mi aveva toccato era Jennifer.
La mia Jennifer.
Lei era ancora senza fiato, ma io la baciai comunque. Volevo la
sua bocca calda, il suo sapore sulla mia lingua. La volevo nuda e
sotto di me. La volevo in ginocchio. La volevo piegata e ansimante.
La volevo sopra di me, mentre mi usava per il suo piacere.
La volevo…
Le mie facoltà mentali non tornarono tutte in un colpo,
galleggiavano sotto la superficie, affioravano a mano a mano.
Il primo momento di lucidità arrivò quando Jennifer strappò la
bocca dalla mia e disse: «Aspetta».
Io sbattei le palpebre guardandola, guardando il suo profilo. Aveva
girato il viso, alla ricerca d’aria. Io mi piegai all’indietro di qualche
centimetro, i miei occhi si mossero sulle sue guance, sulla sua
mascella, sul collo e poi scesero. La mia mano era ancora nelle sue
mutandine, ad accarezzarla. Lei gemeva e tremava, il fiato che
cercava di riprendere le si mozzava in continuazione.
Deglutii, avvertendo in bocca non esattamente il sapore del
rimorso, non esattamente il sapore dello sgomento ma una miscela
dei due che mi indusse a riflettere.
Forse lei avvertì il mutamento del mio umore. O forse fu solo una
coincidenza. In ogni caso, i suoi occhi cercarono i miei. Erano
ancora velati e confusi.
Erano anche luminosi.
E felici.
E lei sorrideva.
«Mmm...» mormorò, accoccolandosi di più contro di me, infilando
la fronte tra il mio collo e la mia spalla. Posò un bacio sul mio petto.
«Quando possiamo rifarlo?»
La mia donna era straordinaria.
“Si potrebbe dire che la morale si limita a dire come il mondo dovrebbe
andare, ma è l’economia a dirci come va veramente.”
- Steven D. Levitt, Freakonomics

«Dov’eri venerdì?»
La domanda mi fece sobbalzare. I miei occhi scattarono all’insù.
Jethro era dall’altra parte del bancone, con addosso una bella
camicia elegante che gli faceva sembrare verdi gli occhi. Mi
guardava come se non ci fosse niente che non andava. Non stava
tramando niente di buono.
La sua improvvisa comparsa mi fece accigliare. «Sei vestito bene.
Quando sei entrato?»
«Proprio ora.»
Lo guardai socchiudendo gli occhi. «Proprio ora?»
«Già. Mi sono accomodato da solo.» Si lanciò un pollice da sopra
la spalla, indicando la porta.
Sbattei le palpebre, sorpreso dalla notizia. «Non ti ho sentito
entrare.»
«Davvero?» Appoggiò il gomito sul bancone. «Non sono
esattamente sgattaiolato dentro.»
«Uhm...» Spostai la mia attenzione sul preventivo che stavo
rivedendo. Shelly l’aveva iniziato. Aveva fatto un buon lavoro.
«Cletus?»
«Sì?» Ricontrollai i suoi totali per il lavoro, comparandoli al sito del
grossista. La cifra riservata alla manodopera mi sembrava un po’
alta, ma andava comunque bene.
«Dov’eri venerdì?»
Mi immobilizzai, preparandomi ai flash di ricordi: gli occhi di Jenn
mentre mi faceva stendere sul letto, la sua bocca sulla mia, le sue
mani su di me. Le immagini e le sensazioni si ripetevano in loop da
venerdì notte. Così come quanto ne era conseguito.
Lei si era arrampicata sopra il mio corpo e si era stretta a me, per
coccolarmi, baciandomi il petto e il collo e il mento, dicendo: «Vorrei
restare così per sempre.»
«Cletus?» Jethro schioccò le dita davanti al mio volto. «Pronto?
Dove sei finito?»
«In un posto migliore di questo» borbottai. Volevo intenderla come
una battuta, ma non sembrò tale. Forse non sembrò una battuta
perché era la verità.
Stare con Jennifer, io e lei soli, era preferibile a ricontrollare dei
preventivi. Stare da solo con lei era preferibile a stare con chiunque
altro, in qualsiasi altro posto e a fare qualunque altra cosa.
Questo è il problema.
Non avevamo un posto in cui stare soli. Per la prima volta nella
mia vita non desideravo più vivere in casa e sorvegliare i miei fratelli.
Potevano sorvegliarsi da soli.
«Parlando di posti migliori», mi schiarii la gola e mi sforzai di
sembrare noncurante, «per caso sai se Claire cerca ancora un
inquilino per casa sua?»
«Credo di sì, perché? Conosci qualcuno?»
«Forse sì.» Questa scintilla di idea mi si era accesa sabato e si
stava velocemente trasformando in un fuoco d’artificio. «Allora la
chiamerò.»
Casa di Claire sarebbe stata una buona soluzione temporanea.
Era a metà strada tra casa di Jennifer e la magione dei Winston. Il
vecchio casale era circondato da due ettari di terra, abbastanza per
gli orticelli rialzati di Jenn. Avrei dovuto investire in uno scrittoio per
lei, da mettere da qualche parte vicino a una finestra che dava a
nord o sud, così avrebbe avuto la luce migliore.
«Non hai ancora risposto alla mia domanda» insistette mio fratello.
Jennifer Sylvester mi amava. E io amavo Jennifer Sylvester.
E questo era un fatto.
Surreale.
Non me l’aveva ancora detto, ma io sapevo la verità. Me ne ero
accorto. Già.
Lei mi ama.
«Mi hai fatto una domanda?» Stavo ancora pensando a casa di
Claire, alla privacy ideale che ci avrebbe garantito e al fatto che
Jennifer mi amasse.
Dopo esserci coccolati per troppo poco tempo, avevo
riaccompagnato a casa Jennifer. Le avevo tenuto la mano mentre
andavamo alla macchina. Le avevo tenuto la mano mentre guidavo.
Le avevo tenuto la mano mentre l’accompagnavo al portico. E poi
ero stato costretto a lasciarle andare la mano. Da allora avevo
sofferto di indigestione. Non una vera indigestione: soffrivo del tipo di
bruciore di stomaco causato dalla mancanza di una persona.
A turbare ancor più le cose, avevo visto un articolo sul The New
Yorker sabato mattina sull’usare i nomi come verbi e volevo
condividerlo con lei.
Sabato pomeriggio ero stato costretto a chiamare Repo, il membro
di grado più alto degli Iron Wraiths dopo Razor St. Claire, e
chiedergli un incontro per la settimana dopo il matrimonio di Jethro.
Repo aveva conosciuto noi Winston da bambini e insisteva che lo
chiamassimo Zio Repo. Lui e mio padre erano stati buoni amici una
volta, ma non avevo la più pallida idea se si considerassero o no
ancora fratelli.
Da notare inoltre, che sospettavo che Repo fosse in realtà il padre
biologico di Jessica James. Non avevo condiviso con Duane questa
teoria sulla sua donna, ma ne ero quasi certo. Tuttavia, quella era
un’altra storia, per un altro giorno.
La buona notizia era che Repo sembrava divertito dall’intera
faccenda con Isaac Sylvester. La cattiva notizia era che avevo
sentito Catfish minacciarmi in sottofondo.
Poi, domenica, la moglie del pastore mi aveva chiuso in un angolo
dopo la messa e mi aveva chiesto se sapessi qualcosa di rose. Non
ne sapevo niente. Ma conoscevo chi ne sapeva.
«Sì, ti ho fatto una domanda. Dov’eri venerdì?» chiese ancora una
volta Jethro.
Io mi grattai la barba. Il cellulare mi vibrò in tasca, per cui lo
estrassi e lessi sullo schermo.

Jenn: Ho mangiato un bagel al salmone affumicato per pranzo e ti ho


pensato.

Studiai il suo messaggio per un intero minuto, rileggendolo


parecchie volte. Io e Jenn ci eravamo scambiati messaggi in quantità
da sabato mattina. Non avevo mai mandato messaggi in quantità a
nessuno. Fino a quel momento della mia vita, avevo usato i
messaggi di testo solo per comunicare liste della spesa e
aggiornamenti di servizio.
Ma ora facevamo delle mini-conversazioni, ognuna con il suo peso
e la sua importanza, eppure nessuna riusciva a placare la mia
perpetua indigestione provocata dalla mancanza di una persona.
Volevo vederla. Avevamo ancora troppe cose da chiarire. Era tempo
di mettere ordine nel caos e iniziare a pianificare il nostro percorso.
Era il momento di iniziare a procedere insieme.
E, a beneficio della piena trasparenza, non riuscivo a smettere di
pensare al suo corpo. Non riuscivo a smettere di pensare a tutte le
cose che avrei voluto farle, a tutti i modi in cui avrei voluto
monopolizzare il suo tempo e il suo spazio.
«Cletus?» chiese Jethro con titubanza.
«Dammi solo un minuto.» Alzai un dito e scrissi una risposta
veloce.

Cletus: Perché mi hai pensato? Perché sono burroso? Un pesce


grosso?
Jenn: Perché aveva i capperi, e capperi se sei bravo a ideare buoni
piani.

Mi si aprì un grosso sorriso leggendolo. Lei mi faceva


quest’effetto. Il mio era un caso terminale?
«Allora, venerdì?» Continuò a pressarmi Jethro.
«Ero, uuh...» Mi grattai la mascella. «Non sono affari tuoi.»
Lui rimase in silenzio per qualche tempo e io riuscivo a sentire i
suoi occhi su di me. Infine, disse: «Va bene. Fai come vuoi. Sono
venuto qui per un motivo ben preciso.»
«Quale sarebbe?»
«Porti qualcuno al matrimonio?»
«Sì» dissi, ma poi mi accigliai. Mi ero scordato di chiedere a
Jennifer di accompagnarmi al matrimonio. Il mio cipiglio si fece più
profondo perché, stando a quanto avevo sentito, aveva accettato di
andare con Jackson James.
«Allora?»
«Allora cosa?» I miei occhi balzarono nei suoi, poi via.
«Chi è?»
Rimisi il cellulare nella tasca e guardai in cagnesco mio fratello.
«Perché lo vuoi sapere?»
Mi rivolse un sorriso paziente. «È Shelly, vero?»
«Shelly cosa?»
«La persona che porti al matrimonio. Porti Shelly, giusto?»
«Perché mai dovrei farlo?»
Tra le sopracciglia di Jethro si formarono due rughe di sorpresa e
costernazione: «Perché hai detto… Cioè, l’ultima volta avevi deciso
che lei era la tua futura sposa.»
Ripercorsi gli ultimi mesi fino alla mia conversazione con Jethro a
inizio settembre. E poi conclusi che ero stato un maledetto idiota.
«No. Non è Shelly. Shelly Sullivan è una mia dipendente e
apprezzerei se non parlassi di lei in questo modo.» Lanciai
un’occhiata al mio orologio, ricordandomi che l’ultima volta che
avevo visto Shelly stava cercando di sostituire un radiatore che
perdeva. Dovevo controllare i suoi progressi. Era quasi ora di
chiusura e non volevo che restasse fino a tardi. Restava sempre fino
a tardi. A quella donna serviva trovare un po’ di equilibrio tra vita
professionale e privata.
Dal tono, Jethro sembrava non sapesse se ridere o offendersi.
«Dici sul serio?»
«Sono serio come un armadillo in una lavanderia a gettoni.» Diedi
le spalle al bancone e mi avviai a gran passi verso la porta sul retro
dell’ufficio.
«Ehi, dove stai andando?»
«Devo chiudere l’officina» risposi da sopra la spalla.
Sentii i suoi passi seguirmi attorno al bancone e poi affrettarsi per
starmi dietro. «Ma non avevi detto che avevi trovato la partner della
tua vita?»
«Ho cambiato idea.»
«Tu hai cambiato...»
«Idea.» Mi fermai di colpo e mi voltai per averlo di fronte, portando
le mani ai fianchi. «Le idee sono come le mutande, Jethro.»
«Sozze e scure?» Mi rivolse un ghigno.
«No.» Guardai torvo l’espressione sul suo viso. «Le idee sono
come le mutande, le persone le cambiano continuamente.»
«Tu no.»
«Io mi cambio le mutande ogni giorno, Jethro. E, giusto per la
cronaca, credo sia estremamente maleducato che tu pensi il
contrario.»
Quasi alzò gli occhi al cielo, ma resistette all’impulso. «Parlavo
delle tue idee, Cletus. Tu non cambi mai idea.»
Scorsi Shelly vicino al lavandino a bacinella. Si stava insaponando
le mani con cura. «Fai come dice quella canzone di Frozen, Let it go,
e lascia stare. Hai già la risposta.»
«Allora porterai qualcuno, ma non Shelly?»
«Esatto.» Annuii, superando mio fratello.
«Chi è?» chiese da dietro di me, facendomi fermare.
Esitai, rivolgendogli il mio profilo. Alzai le spalle. «Lei ancora non
sa che verrà con me.»
«Ma davvero?»
«Sì.»
I suoi occhi verdi sfrecciarono velocemente sulla mia figura con
evidente curiosità. «Come puoi essere certo che accetterà?»
«Accetterà» risposi troppo in fretta, e mi accorsi del mio errore
troppo tardi. Il ghigno di Jethro era tornato.
«Va bene. Dirò a Sienna che hai un più uno.»
«Bene. Ora vattene. Avresti potuto mandarmi un messaggio per
chiedermelo.»
«Vero, ma così non avrei avuto occasione di parlarti dell’addio al
celibato.»
Gli occhi mi uscirono dalle orbite prima che potessi fermare la
reazione involontaria. Fissai mio fratello.
Mi aveva beccato.
Dannazione.
«Sì, Cletus. So tutto del mio addio al celibato.»
Controllando attentamente la mia espressione, tirai via un
immaginario peluzzo dalla mia manica. «Non so proprio di cosa tu
stia parlando.»
«Lo sai benissimo, bugiardo.» Jethro mi rivolse un sorriso
rilassato, ridacchiando, e si infilò le mani nelle tasche. «Duane se l’è
lasciato sfuggire.»
«Duane?» Non riuscivo a credere alle mie orecchie. «Duane è
muto come un pesce. Come ha fatto a farselo scappare? Ti ha fatto
una danza interpretativa?»
«No. Ma a proposito di danza interpretativa, so che hai intenzione
di chiamare delle spogliarelliste.» Il tono di Jethro era piatto e celava
una nota di scontento.
Non risi, ma avrei voluto. Jethro non aveva idea di cosa
l’aspettava. Non. Ne. Aveva. Idea.
«Ho ingaggiato solo una persona per intrattenerci, Jethro. Credo
tu possa sopportare una persona che ci intrattenga. Oltretutto,
potresti imparare qualcosa. Potremmo imparare tutti qualche buona
mossa.» Detto quello, diedi a Jethro una pacca sulla spalla, una
stretta per rassicurarlo, che non placò in alcun modo la scontentezza
nella sua espressione, e lasciai il mio fratello più grande nella sua
ignoranza.
Attraversai l’officina fino a dove Shelly si stava insaponando con
cura le mani, sorridendo tra me e me. Solitamente non ero persona
da sorridere tra me e me, ma quella situazione richiedeva proprio un
sorrisetto segreto.
Lei mi guardò, i suoi occhi scivolarono su di me e poi li distolse.
«Cosa vuoi?»
Aprii la bocca per rispondere, ma Jethro gridò, dall’altra parte del
negozio: «Mi stai davvero terrorizzando, Cletus.»
Per cui gridai in risposta: «Pensa a Sienna. Ti ringrazierà.»
Poi riportai la mia attenzione su Shelly. Lei alzò un sopracciglio
guardandomi. Allora, cancellai ogni espressione dal mio viso.
«Quando pensi di finire oggi?»
«Adesso. Perché?» Shelly riportò la sua attenzione alle mani che
si stava insaponando.
«Oh.» Annuii. «Bene. Davvero bene.»
A quanto pareva non avrei dovuto parlarle dell’equilibrio tra vita
lavorativa e personale. Per il momento.
«Inoltre, prenderò due giorni di vacanza la prossima settimana.»
Aprì l’acqua per lavare via lo strato di sapone dalle sue dita.
«Non dovrebbero esserci problemi. Giovedì mancherà una
settimana alla partenza di Duane, per cui se hai qualche domanda
per lui, assicurati di fargliela prima di allora.»
«Perché hai bisogno di giorni di vacanza?»
Sia io che Shelly guardammo alla sua destra, scoprendo Beau con
le braccia incrociate e un cipiglio pensieroso in volto.
Io notai che la schiena di lei si era irrigidita sentendo la sua
domanda e aveva alzato appena un centimetro il mento, come se si
preparasse a uno scontro fisico. Non rispose immediatamente, ma
quando lo fece, il suo tono era ancora più distaccato del suo solito.
E il solito era già molto distaccato.
«A mio fratello è nato un bambino. Vuole che io lo veda.» Shelly
riprese in mano il sapone e ricominciò a strofinarselo sulle mani.
Io mi accigliai, osservando le sue mani. Erano già rosse per
quanto le aveva lavate e, a quanto vedevo, completamente pulite.
Beau batté le ciglia dalla sorpresa di fronte alla risposta fredda di
Shelly. «Tu non vuoi vedere il suo bambino?» Il suo tono era
paziente e gentile, il che mi lasciò dannatamente stupito. L’avevo
sentito sempre rivolgersi a lei con nient’altro che disprezzo.
Lei non rispose. Il tempo continuava a scorrere, io le rivolsi
un’alzata di sopracciglio e poi spostai la mia attenzione su Beau. Mio
fratello continuava a fissare il profilo di Shelly. In attesa.
C’era qualcosa di strano. Qualcosa nel modo in cui lui la
guardava…
Lei gli piace.
Lo vidi, chiaro come il sole, nel modo in cui stringeva la mascella e
nella completa assenza di finzione sul suo volto. Non stava cercando
di fare il galante o di flirtare. D’altronde, a ben riflettere sulla
questione, galanteria e flirt sarebbero stati completamente inutili con
Shelly Sullivan. Più studiavo la tensione tra loro più ne avevo la
certezza. Se avessi dovuto scommettere, avrei detto che lei gli
piaceva anche se lui avrebbe preferito di no.
Nel frattempo, lei lo ignorava.
Il silenzio iniziò a farsi assordante, pesante, ma lui continuava ad
aspettare.
Per quanto gli ultimi cinque minuti fossero stati illuminanti, non
potevo perdere altro tempo a fare l’astante. E non avevo neanche
dei popcorn da mangiare mentre fissavo la scena. Avevo cose che
dovevano essere fatte, e non abbastanza tempo per farle.
«Bene» esordii improvvisamente, facendo sobbalzare appena
appena Shelly. «Sono sicuro che ci rivedremo prima della tua
partenza. Nel caso mi scordassi di augurartelo: buon viaggio,
Shelly.»
Mi girai e uscii, segnandomi mentalmente di chiarire la situazione
con Beau non appena possibile, e informare il ragazzo della mia
assenza di mire sulla signorina Sullivan.
Pertanto, il suo interesse per Shelly, che lo volesse o no, era
un’ottima notizia. Non solo sarebbe stato un bene per gli affari, ma
lei sarebbe stata un bene per Beau. Era unica sotto molti aspetti,
non da ultimo perché era impermeabile al suo charme. Non vedevo
l’ora di ficcare il naso.

Shelly uscì dall’officina. Cinque minuti dopo Beau uscì dall’officina.


Io ignorai quella distanza temporale chiaramente sospetta.
Dovevo mettere in ordine i miei affari, valeva a dire chiamare Claire
McClure in merito alla sua casa. Lei non rispose, per cui lasciai un
messaggio, le dissi che sarei passato da casa sua e sarei entrato.
Sapevo dove teneva la chiave di riserva, visto che io e Jethro ci
prendevamo cura del posto sin da quando aveva lasciato la città.
Ero appena uscito dall’ufficio per chiudere il garage quando sentii
dei passi, e la ghiaia scricchiolare sotto delle scarpe. Mi girai e scorsi
Kip Sylvester nel suo completo, mentre si avvicinava dal parcheggio.
Istintivamente, raddrizzai la schiena. Non avevo alcun affare con
Kip Sylvester. Lui portava la sua BMW di famiglia dal concessionario
per qualsiasi problema. Il che significava che pagava il prezzo al
dettaglio su tutte le sue riparazioni e solo un idiota pagava il prezzo
al dettaglio.
«‘Sera, Cletus.» Si fermò appena fuori dal garage, rivolgendomi il
suo sorriso ben allenato. «Da quanto tempo.»
«Signor Sylvester.» Annuii con un cenno austero. «Cosa la porta
qui in officina stasera?»
«Oh, ero solo in zona e ho pensato di passare a fare un saluto.»
«Capisco.»
Rimase silenzioso mentre osservava l’interno dell’ambiente, gli
attrezzi appesi alle pareti, le varie cassette e i macchinari. Poi i suoi
occhi si illuminarono quando videro la macchina alla mia sinistra.
«Perbacco, è una...»
«Sì, signore. Una Jaguar del ‘56.»
«Accidenti. È una vera bellezza. La stai riparando per qualcuno?»
«Sì. La sto riparando per me.» Era una menzogna. Era un regalo
di nozze per Sienna, ma non c’era motivo di farglielo sapere. Kip
Sylvester si era già coperto di ridicolo una volta davanti alla mia
futura cognata. Ogni volta che la vedeva, rimaneva abbagliato dalla
sua fama.
«Per te?» chiese dubbioso, come se trovasse quell’informazione
notevolmente sorprendente.
«Sì.»
L’uomo passò lo sguardo tra me e la mia automobile. Era confuso,
quello era chiaro. Quel che non era chiaro, era perché fosse lì. Non
avrei tirato a indovinare. «Perché è qui?» chiesi con tono duro e gli
rivolsi un’occhiata altrettanto dura. Parlare di banalità con Kip
Sylvester era come essere accerchiati da un branco di cani
incontinenti.
«Oh, sai, volevo solo...» cominciò, poi si interruppe, sospirò,
sorrise e alzò le spalle come se si fosse arreso. «Sono qui per
parlare di Jennifer.»
Le mie sopracciglia si alzarono di volontà propria, senza il mio
permesso. «Jennifer. Sua figlia, Jennifer?»
«Esatto. Ho saputo cos’è successo… l’altra sera.»
Domai la mia espressione, dipingendomi una maschera affabile di
confusione, e mi grattai la nuca. «Dovrà essere più chiaro di così.»
Lui sospirò nuovamente. «Lo temevo. Ascolta, Cletus, tu sei un
bravo ragazzo.»
Non lo sono.
Non sono per niente un bravo ragazzo.
«Grazie, signor Sylvester.»
Lui continuò come se non avessi parlato, chiaramente si era
preparato un discorsetto prima di arrivare. «Ma io e Diane abbiamo
grandi progetti per nostra figlia. Sai che ha oltre un milione di
follower su Instagram? E molti di più sugli altri social media.»
Lo sapevo. Ciononostante dissi: «Non sapevo fossero così tanti.»
«Beh, lo sono. Quella ragazza ha grandi possibilità di diventare
famosa, e sua mamma ha lavorato molto duramente per renderla
quella che è e mantenere la sua reputazione senza macchia.
Capisci, non possiamo permetterci che si comporti in modo
sconsiderato e che rimanga coinvolta in situazioni da cui non ne
uscirebbe niente di buono.»
Raddrizzai ancora di più la schiena sentendo il suo insulto
implicito. Ora, solitamente non mi prendevo la briga di sentirmi
offeso da persone insulse come Kip Sylvester. Ma, nonostante fosse
insulso come i fiocchi d’avena al naturale, Kip non era più così
insulso. Era il papà di Jenn. Lei pensava di dovergli amore e rispetto,
e sfortunatamente questo lo rendeva qualcuno.
Riflettei con calma mentre lui mi guardava con un sorriso tiepido.
Poi disse: «Vedo che capisci», e annuì come se la faccenda fosse
risolta. Si girò e fece per andarsene.
Prima di potermelo impedire, chiesi: «Non le piace che Jennifer
frequenti me?»
Lui mi guardò da sopra la spalla con occhi spalancati, come se le
mie parole dirette lo mettessero in agitazione. Kip alzò le mani tra
noi, come avrebbe fatto davanti a un cane rabbioso.
«Ora, non offenderti, non sei tu il problema per noi, non nello
specifico. Solo, non vogliamo che lei socializzi con gli uomini in
generale.»
«Ma davvero.»
«Sì, davvero. È stata cresciuta troppo protetta, non capisce il
mondo come farebbe di solito qualcuno della sua età, e ammetto
che questa è colpa mia, ma…»
«E allora Drew Runous?»
Kip serrò la bocca tanto in fretta che i suoi denti si urtarono. Sbatté
le palpebre parecchie volte prima di chiedere. «Il dottor Runous?»
«Già. Se non ricordo male, qualche tempo fa girava una storia su
Jenn, che era andata fino alla stazione dei ranger per portargli dei
dolci e poi...»
«Sì. Conosco la storia ed è vera. Povera ragazza.»
Aveva appena dato della “povera ragazza” a sua figlia? La mia
pressione sanguigna s’impennò.
Lui proseguì. «Ma il dottor Runous viene da una buona famiglia.
Suo padre è un senatore del Texas. Non avremmo rifiutato
un’associazione del genere, se se ne fosse presentata l’occasione.»
«E la mia famiglia invece non lo è? Una buona famiglia?» Mi
sforzai di mantenere un tono uniforme e un’espressione benevola.
Razionalmente, sapevo che quello che Kip Sylvester pensava non
aveva importanza. Non ne aveva davvero. In quanto qualcuno per
Jennifer, se mi avesse creato dei grattacapi, io ne avrei creati a lui.
Ancora lo ignorava, ma avrebbe dato la sua benedizione alla mia
unione con sua figlia e poi avrebbe sostenuto il mio volere in ogni
cosa, incluso ma non limitato a costringere sua moglie a lasciare in
pace la mia donna.
Dunque, il motivo per cui le sue opinioni mi facevano venire il mal
di testa non era interamente chiaro. Sapevo solo che, a ogni sua
frase nauseante, la mia rabbia cresceva.
Kip scosse la testa rapidamente, negando la mia ultima domanda.
«Niente affatto. Non intendevo affatto dire questo. Tua mamma era
una Oliver. La tua famiglia è di origini antiche quanto i Payton e i
Donner da queste parti, dal ramo di tua madre. Infatti, non ho
dissuaso Jennifer dal frequentare tuo fratello Billy. Ha la testa sulle
spalle e ha sempre mostrato il genere di ambizione che vorrei in un
genero.»
Wow… WOW. È ancora più narcisista e parassita di quanto
pensassi.
Annuii e digrignai i denti, incollandomi in faccia un sorriso appena
accennato. Iniziai a fare una classifica mentale di tutte le torte che
avevo mangiato nell’ultimo anno, di chi le aveva preparate e se
fossero state o no di stagione. Era una classifica complicata, perché
mi piacevano le torte ed era la sola cosa che stava salvando Kip
Sylvester dalla mia collera.
Ero arrabbiato. Molto più arrabbiato di quanto avrei dovuto essere.
«Ascolta, Cletus. Arriviamo al dunque. Non ci piace che Jenn
abbia...» sembrò faticare a trovare le parole giuste, poi si decise per:
«amicizie maschili occasionali. Se ci fosse un’amicizia tra voi, questo
potrebbe farle venire delle strane idee.» Il preside sospirò di nuovo.
Sospirava molto. Era irritante.
«Oh. Capisco. Non volete che abbia delle idee» dissi, ancora una
volta prima di potermelo impedire.
«Sì. Esatto. È esattamente così.» Annuì rapidamente, sorridendo.
E poi, come se avesse appena realizzato cosa aveva appena detto,
scosse la testa con decisione. «Aspetta, no. Non volevo dire
questo.»
«Mhmm.» Lo guardai socchiudendo le palpebre, traendo un
piacere perverso dal rosso innaturale che gli stava tingendo il volto.
«Non so, Preside. Credo volesse dire proprio quello. Da come la
vedo io, sarebbe nell’interesse suo e della signora Sylvester che
vostra figlia non avesse delle idee.»
«Ora, Cletus, figliolo, non mettermi in bocca parole non mie. Non è
così.» Alzò la voce, iniziando ad agitarsi.
La sua ansia ebbe un effetto calmante sulla mia collera. Ero
ancora arrabbiato, ma invece di ribollirmi nel sangue, sentii la mia
furia farsi di ghiaccio. «Oh, Kip, io credo che entrambi stiamo
dicendo la stessa cosa.» Sorrisi e alzai le spalle. «Vostra figlia a voi
serve con la reputazione intatta, con la mente libera dalle
preoccupazioni che sorgono quando si pensa in modo indipendente.
Lo capisco.»
Il suo cipiglio si fece più severo. Sembrava sconvolto.
Presi uno straccio per pulirmi le mani. «Se lei dovesse “fare la
bricconcella” e iniziare una relazione con qualcuno che non fosse
d’aiuto per la sua immagine – e quindi per il brand che tu e tua
moglie avete creato con tanti sacrifici – questo potrebbe interferire
con i vostri piani e con il vostro benessere finanziario. Giusto?»
«Uh, ecco… giusto. Ma...»
Annuii con un cenno austero. Il suo volto si rilassò. Il mio cenno
d’assenso austero solitamente faceva rilassare le persone.
«Signor Sylvester, per quanto mi riguarda non deve preoccuparsi,
signore.»
Lui sospirò nuovamente: un bel sospiro di sollievo. «Grazie,
Cletus. È un vero piacere sentirlo...»
«Io non infangherò la sua immagine. Nemmeno un po’. Lei,
invece…» Smisi di annuire, sostenni il suo sguardo nel mio,
permettendo solo a una punta della mia rabbia di penetrare nel muro
del mio autocontrollo.
I suoi occhi si spalancarono e mi appagò sentire la punta di paura
nella sua voce, quando chiese: «Non capisco, di cosa stai
parlando?»
«Dico solo che non farebbe una bella impressione se si scoprisse
che il padre della dolce Regina della torta alla banana ha una
relazione clandestina con la sua segretaria da… vediamo… quattro
anni?»

Non le dissi che stavo arrivando. Anche io ignoravo questo fatto


finché non spensi il motore e mi ritrovai nel parcheggio della
Pasticceria Donner, proprio accanto alla porta della cucina.
Era ancora lunedì sera. Avevo appena lasciato suo padre a
cuocere nella mia minaccia. All’inizio, come era tipico, aveva negato
la mia accusa. L’ordine abituale era: negazione, rabbia e infine
mercanteggiamento. Il mercanteggiamento solitamente era la mia
parte preferita. Ma non stavolta. Qualcosa nel trattare la sua
collaborazione mi aveva lasciato uno strano sapore in bocca, come
di segatura e limone.
Volevo che accettasse che le decisioni di Jennifer spettavano a lei
e solo a lei. Le persone che voleva frequentare, i vestiti che voleva
portare, quello che faceva non erano decisioni che spettavano a lui,
o a sua moglie, o al loro figlio. Lui si era rifiutato di riconoscere che
sua figlia fosse capace di fare le proprie scelte. In ogni caso, alla fine
aveva ceduto alla mia richiesta di non interferire. Avevamo raggiunto
un accordo: lui si sarebbe fatto indietro e avrebbe supportato la mia
corte a sua figlia e io non avrei fatto a pezzi la sua vita.
Fissai il retro dell’edificio, sapendo che Jennifer era lì dentro. La
macchina di Jennifer era parcheggiata nel posto più vicino alla porta.
Il mio cuore fece uno dei suoi slanci kamikaze contro la mia gabbia
toracica.
Mi era mancata. La sua mancanza era tanto forte da asfissiarmi.
Ha da fare. Dovresti lasciarla lavorare…
Mi avviai, invece.
Dopo lo scambio di spiacevolezze con il suo papà, dovevo
assicurarmi che stesse bene. Decisi che non c’era alcun male nel
salutarla per qualche minuto. Le avrei forse mostrato l’articolo del
The New Yorker sull’uso dei sostantivi come verbi. Forse mi sarei
semplicemente limitato a fissarla e ascoltarla parlare. Mi sembrava
un’ottima idea.
Mi avviai deciso alla porta sul retro. Bussai. Aspettai. Nessuna
risposta. Bussai di nuovo. Ancora nessuna risposta.
Scoprii che la porta era aperta e mi accigliai. La porta avrebbe
dovuto essere chiusa. Dovevo ricordarle di chiuderla a chiave prima
di andarmene e assicurarmi che fosse chiusa a chiave, da quel
momento in poi.
«Jennifer?» la chiamai, tirandomi la porta alle mie spalle e girando
la chiave, poi scrutando la cucina. Le luci erano accese, un mixer
era posato sul bancone, gli ingredienti e il resto erano sparpagliati
attorno, ma di lei nessuna traccia.
Stavo per andare a cercarla nel negozio quando lei apparve dalla
dispensa sul retro portando un sacco di farina. Io mi bloccai di colpo
mentre i miei occhi viaggiavano sul suo corpo. Mi dava la schiena ed
era completamente nuda dal collo fino al fiocco attorno alla sua vita.
Jennifer indossava un grembiule, mutandine di pizzo rosse,
autoreggenti e nient’altro.
Dovevo aver emesso un verso, anche se non mi ricordavo di
averlo fatto, perché lei si girò, con gli occhi spalancati, e ansimò di
sorpresa.
«Oh mio Dio!» Lei sobbalzò e fece cadere il sacco di farina, che si
aprì spargendo il suo contenuto sul pavimento. Le mani le volarono
al petto, che era quasi nascosto dal grembiule. Quasi.
Esalò un sospiro, chiudendo gli occhi, poi dalla sua bocca scivolò
una risata di sollievo. «Oh mio Dio, mi hai spaventata. Non ti ho
sentito entrare.»
Non parlai. Non riuscivo a farlo. Ero troppo occupato a
memorizzare di nuovo ogni curva del suo corpo succulento, a
malapena coperto dal sottile strato di cotone. La mia bocca iniziò a
salivare. Non mi stavo ossessionando su una fantasia o sui ricordi di
venerdì, perché la realtà era tanto generosa che scacciò ogni altro
pensiero dalla mia mente.
Il silenzio si fece lungo e pesante… e come lui altre cose.
Ma poi lei alzò le ciglia, mi guardò con i suoi occhi
impossibilmente violetti e disse, con quella dolcezza tutta sua: «Mi
sei mancato.»
“Una persona civilizzata deve, credo, soddisfare i seguenti requisiti… Il suo
cuore deve soffrire il dolore di quello che è nascosto all’occhio nudo.”
- Anton Chekhov, Vita attraverso le lettere

«Mi sei mancato.» Le parole sgorgarono fuori, sfuggendomi dalle


labbra prima che potessi bloccarle. Continuavano a girarmi in testa
da tre giorni. Mi manca. Mi manca Cletus.
A dire la verità, questa consapevolezza mi girava in testa da prima
di venerdì, ma allora zittivo quel pensiero, allontanandolo. Prima di
venerdì pensavo che fosse futile sentire la mancanza di Cletus,
perché pensavo che quel sentimento mi avrebbe accompagnato per
tutta la vita.
Ma dopo venerdì… Sospiro felice.
Ero tornata al Piggly Wiggly sabato mattina per primissima cosa
per prendere le banane. Non volevo fare la fifona o chiedere a
Cletus di venire con me. Avevo comprato le banane tutta da sola per
anni, perché avrei dovuto smettere di farlo ora? Ma prima di uscire
dalla macchina esaminai rapidamente il parcheggio, quello sì. E
chiesi al signor Johnson, il responsabile del reparto frutta e verdura,
di accompagnarmi alla macchina.
Tornando al presente, sorridevo a Cletus come una scema, persa
nel suo volto caoticamente attraente.
Gli occhi di Cletus si mossero sul mio corpo lentamente, come se
non mi vedesse da tanto tempo. «Mi sei mancata anche tu.» La sua
voce era roca e il mio stomaco pullulava di farfalle. Bellissime,
vellutate e adorabili farfalle. Deglutì, si schiarì la gola, e torse le
labbra da un lato. «Indossi un abbigliamento interessante.»
Abbassai lo sguardo sul mio corpo e fu allora che vidi, con mio
grande orrore, che ero praticamente mezza nuda.
«Oh mio Dio! Ma guardami!» Feci tutto il possibile per coprirmi con
le braccia, e fallii. «Aspetta. Non guardarmi! Cavolo! Girati!»
Cletus alzò un sopracciglio sentendo la mia richiesta. «Dici
davvero?»
«Sì. Dico davvero, Cletus» risposi rapidamente, poi abbassai la
voce in un sussurro: «Sotto il grembiule non porto il reggiseno.»
«Lo so.» Scrollò le spalle, mentre i suoi occhi scivolavano verso il
basso e poi verso l’alto. Imperterrito, fece un passo in avanti.
La bocca mi si spalancò e io lo fissai, imbarazzo e frustrazione si
davano battaglia per sopraffarmi. Capii che Cletus non aveva
intenzione di girarsi o distogliere lo sguardo, per cui lo superai di
corsa diretta alla porta sul retro. Sentii il suo sguardo sul mio
posteriore mentre mi infilavo il mio giaccone e me lo stringevo
addosso, chiudendolo con le mani.
Quando mi voltai, lo trovai accigliato. «Non c’era bisogno di farlo.»
Un verso di incredulità mi scappò dalle labbra.
«Sì. Invece dovevo.»
Alzò le spalle, infilandosi le mani nelle tasche. «Non c’è bisogno di
essere così abbottonata. Scusa il gioco di parole.»
I miei occhi lo percorsero rapidamente e sentii le guance
avvamparmi, insieme al bisogno di spiegare perché preparassi torte
mezza nuda. «A volte mi tolgo il vestito quando cucino di sera tardi,
specie quando ha il corsetto cucito dentro. Mi fa male alle costole.»
«Mi sembra sensato.» Annuì con un cenno, torcendo le labbra da
un lato di nuovo. Cercava malamente di nascondere un sorrisetto, e
il modo in cui i suoi occhi pesanti e socchiusi si muovevano sulla mia
figura mi faceva sentire accaldata e confusa.
La gola mi si irrigidì e il collo mi bruciava mentre cercavo nei suoi
occhi. «Immagino tu abbia molta esperienza in materia di donne
mezze nude. Probabilmente per te non è niente di che.»
«Una donna mezza nuda non è mai “niente di che”.» Un sorrisetto
aleggiava dietro i suoi occhi, mi sembrava oscuro e malizioso in
modo delizioso.
«Anche al Pink Pony?» chiesi dal nulla, sorprendendomi della mia
domanda non pertinente. Non sapevo cosa mi avesse spinto a
chiederlo, oltre al fatto che Beau e il proprietario del Pink Pony erano
buoni amici: tutti sapevano che Cletus andava a pescare con loro di
tanto in tanto. Dall’ultima volta che l’avevo visto, avevo fatto mille
pensieri folli, che di solito si imperniavano sulla migliore e la
peggiore delle ipotesi. O anche, sui casi migliori della peggiore delle
ipotesi, tipo: se Cletus andasse allo strip club, il caso migliore delle
peggiori ipotesi era che lo facesse contro la sua volontà e bendato.
Capite? Una follia.
Cletus fece una smorfia. «Non mi piacciono molto quei posti.»
«Perché? Agli uomini non piace guardare le donne nude?»
I suoi occhi caddero sul mio giaccone e si scaldarono. «A me
piace scartare da solo i miei regali.»
Le farfalle smisero di sbattere le loro ali e invece si spogliarono
completamente. Mi piaceva quel pensiero. Mi piaceva l’idea di
essere scartata come un regalo. Ma solo se lui si fosse fatto scartare
a sua volta.
«Sei venuto per scartarmi come un regalo?» chiesi piena di
speranza, allentando la presa sul giaccone.
Lui sorrise, i suoi occhi astuti si strinsero appena. «Sei tu il mio
regalo?»
Sì. Il mio rossore imbarazzato divenne qualcos’altro. Il calore
continuava a stringersi attorno al mio collo, il mio cuore continuava a
martellare, ma l’atmosfera era cambiata. La mia carne non era più
bollente dalla mortificazione per essere stata beccata a cucinare
mezza nuda. I nostri sorrisi si spensero gradualmente mentre ci
fissavamo.
Lui avanzò di un passo verso di me, i suoi occhi scesero al mio
giubbotto. Cletus ispezionò i lembi, con espressione pensierosa, poi
fece scivolare le dita dentro il giubbotto. Io mollai la presa sul
tessuto, mentre le sue mani aprivano l’indumento e lo spingevano
via. Cadde per terra.
«Non sono venuto qui per questo» disse distrattamente. I suoi
occhi studiarono il davanti del mio grembiule mentre scioglieva il
nodo sulla mia schiena.
Intanto, io ero un caos. Ero un caos perché volevo strappargli i
vestiti di dosso e volevo consumargli il volto di baci e volevo di
nuovo quello che avevamo fatto tre notti fa. Provavo nello stesso
tempo la voglia di spingerlo sul pavimento e saltargli addosso e
rimanere immobile per vedere cosa avrebbe fatto. Alla fine, decisi di
rimanere immobile. C’era sempre tempo per saltargli addosso. Il
nodo che reggeva il grembiule attorno al collo si sciolse e il
grembiule raggiunse il mio giaccone sul pavimento, lasciandomi solo
in mutandine e autoreggenti. Lui mi guardò. Guardò il mio corpo
come se io fossi il suo regalo. Come se avesse un mare di idee su
come mi avrebbe usata per giocare. Non avevo freddo, eppure
rabbrividii.
I suoi occhi si alzarono, brucianti di desiderio e lui avanzò di un
altro passo. Istintivamente, io feci un passo indietro. Lui mi rivolse
appena l’accenno di un sorriso e continuò ad avanzare finché non mi
trovai con la schiena contro il bancone. Allora si fermò.
«Mia carissima Jennifer», sussurrò con voce roca, mentre le sue
dita agganciavano l’elastico delle mie mutandine, «nel caso tu
volessi stilare una lista di regali, questa è l’unica cosa che desidero
per il mio compleanno.» Si abbassò mentre tirava giù il pizzo lungo
le mie gambe. Io tremai di nuovo quando le sue mani tracciarono
con tocco lieve il retro delle mie ginocchia e dei polpacci.
Sollevai i piedi lasciando le mutandine sul pavimento e lo osservai
infilarsele in tasca. Cletus si chinò in avanti, con gli occhi su di me, e
soffiò il suo respiro bollente contro la sommità delle mie cosce.
Io vacillai, le mani si aggrapparono alle sue spalle per sostenermi,
il mio cuore rombava. Mi sentivo bruciare e gelare tutto il corpo, lo
struggimento del desiderio era acuto e deliziosamente doloroso in
fondo al mio ventre. Usò le mie mani per fare leva e afferrarmi dal
sedere, e mi sollevò sul bancone. Mi sedetti in bilico sul bordo e lui
mi spalancò le gambe, le sue dita risalirono lungo l’interno delle mie
cosce finché lui non mi separò con i pollici. Il mio cervello era in
piena rivolta, nel caos, e io ero imbarazzata, ma anche affascinata.
Le mie amiche di penna mi avevano raccontato, in francese,
giapponese e tedesco, com’era fare sesso. Mi avevano descritto
com’era avere un orgasmo, per cui sapevo che quanto avevamo
fatto venerdì aveva portato entrambi all’orgasmo. Ma niente nelle
loro parole mi aveva rivelato l’intimità profonda dell’atto. Quanto
fosse bellissimo e terrificante essere nudi e vulnerabili, essere
toccati. Iniziai ad ansimare. Mi piegai all’indietro e resistetti alla
tentazione di chiudere le ginocchia. Lui mi stava guardando. I suoi
respiri si abbattevano su di me, sul mio centro esposto, e mi faceva
serrare e tendere per l’attesa e l’ansia.
«Cletus?» lo chiamai, con un misto di incertezza e voglia.
Lui si leccò le labbra e abbassò la bocca su di me. L’aria
abbandonò i miei polmoni non appena la sua lingua, calda e
bagnata, entrò in contatto con il mio centro, caldo e bagnato. La sua
lingua si mosse e il mio corpo istintivamente scattò in avanti, goffo.
Ansimai di sorpresa. Senza che me ne rendessi conto, le mie dita si
infilarono tra i suoi capelli e lo premetti contro di me, temendo che
potesse smettere.
Era bellissimo. Bellissimo.
Bellissimo. BELLISSIMO.
Il mio corpo tremò ancora e allargai le gambe, i miei fianchi
iniziarono a ondeggiare d’istinto. Lui gemette, come se fossi
deliziosa, come se stesse morendo dalla fame di me. Le sue mani si
avvolsero attorno ai miei fianchi, le sue dita scavavano nella mia
carne, la sua barba solleticava la pelle sensibile delle mie cosce. Poi
i suoi occhi si sollevarono nei miei.
«Oh Dio» sospirai. La forza del suo sguardo mi tranquillizzava e
mi esaltava allo stesso tempo, ed era potente di consapevolezza.
Consapevolezza di me, del mio corpo, del mio sapore. Lui mi studiò,
assorbendo fino all’ultima goccia la vista di questa immagine segreta
di me.
Mi studiò mentre la sua bocca era sul mio corpo.
Mi studiò mentre faceva cose peccaminose con la sua lingua e le
sue labbra.
La fame nei suoi occhi mentre il suo sguardo possessivo si
muoveva sui miei seni e collo e bocca inviò un improvviso vortice di
desiderio e avidità nel punto esatto in cui mi divorava. All’improvviso
stavo arrivando a un potente, pulsante, sconquassante e lacerante
orgasmo.
Gettai la testa all’indietro, la violenza dei miei fremiti era ingestibile
e forte. Non esistevo più se non come una sensazione. Lui mi tenne
ferma, leccando e assaporando, come se la scelleratezza
alimentasse un bisogno dentro di lui.
Mi tenne ferma finché non iniziò a farmi male, di un dolore
magnifico, tremendo, spettacolare, e poi fece scivolare le dita dentro
di me e venni un’altra volta, con un grido acuto, disperato e
sconsiderato. Non riuscivo a tenermi dritta. Non riuscivo a sostenere
il mio peso, sotto la forza del mio orgasmo, per cui ricaddi in avanti.
All’improvviso le sue mani furono lì, lui all’improvviso fu lì,
alzandosi e attirandomi tra le sue braccia. Mi sollevò dal bancone e
io rimasi molle nella sua stretta, esausta. Un campo di forza, fatto di
calore e soddisfazione mi avvolse, facendomi afflosciare come se
non avessi le ossa. Strofinai la fronte contro il suo collo e mi
aggrappai debolmente alla sua maglietta.
«Il divano» sospirai. «Stendiamoci sul divano.»
Lui mi strinse e si voltò. Lanciò un’occhiata a sinistra, poi a destra,
esitando. «Dov’è il divano?»
Io ridacchiai appena, mordicchiandogli il collo. «Nel retro.»
Era la mia voce? Buon Dio. Suonavo davvero sexy.
Era più profonda del solito, il che mi piacque. Mi piacque com’era
la mia voce dopo che Cletus mi aveva scartata. Mi piacque quello
che provavo. Mi piacque il mio corpo in un nuovo modo che mi fece
sentire potente ed esperta. E allora capii perché certe persone non
facevano distinzioni fra i partner in cucina. Ogni cosa in quell’atto era
una sensazione bella e giusta e necessaria. O forse era stare con
Cletus che era bello e giusto e necessario.
Mentre andavamo verso il divano, Cletus raccolse il mio giaccone
dal pavimento in uno sfoggio notevole di flessibilità e vigore. Appena
entrammo nella stanza sul retro, mi baciò sulla fronte.
«Devo posarti un attimo per mettere il giaccone sul divano.» Da
come parlava, sembrava che lasciarmi fosse qualcosa che avrebbe
fatto solo per necessità o costrizione. «Riesci a stare in piedi?»
Io annuii e lui mi inclinò in giù finché non toccai terra con i piedi.
Rapidamente, rimosse i cuscini, stese il mio giaccone, poi il suo,
coprendo quasi tutto il divano. Poi mi adagiò sul fianco e fece per
raggiungermi.
«Aspetta.» Lo fermai, mi alzai in ginocchio sul divano e afferrai il
bordo della sua maglietta. «Toglitela.»
Lui si accigliò, esitante. «Jenn...»
«Solo la maglietta. Mi manca la tua pelle.»
La sua espressione si rasserenò, i suoi occhi si scaldarono, e
Cletus si tolse la maglietta di cotone bianco. Tornai a stendermi e lui
si unì a me, attirando il mio corpo per metà sopra il suo. Io baciai la
sua spalla e sospirai.
«Come stavo dicendo, mi sei mancato.» Passai la mano su e giù
per il suo petto, infilando le dita tra i suoi peli radi. Amavo i peli sul
suo petto e amavo i solchi dei suoi muscoli. Amavo come fossero
diversi i nostri corpi, la consistenza e la sensazione di lui. «Quando
possiamo rifarlo?»
Lui ridacchiò, le sue mani accarezzavano il mio corpo come se
desiderasse avidamente il contatto della mia pelle. «Tra dieci
minuti?»
Ridemmo entrambi, io puntai il gomito su di lui e il mento sul mio
palmo. «Allora, adesso io ti posso fare un pompino?»
Lui si irrigidì e i suoi occhi mi guardarono diffidenti. «Non ancora.»
«Perché?»
Il suo sguardo si spostò sulla mia schiena, dove con i polpastrelli
disegnava linee tra le mie scapole. «Sono timido.»
Io risi di nuovo e anche lui. Una risata di pancia, fragorosa. Una
risata maliziosa. L’adorai. «Non sei timido.»
Cletus alzò le spalle, senza incontrare ancora i miei occhi, mentre
il suo sorriso si trasformava in qualcos’altro e disse: «Sarebbe la
prima volta per me.»
Le mie labbra si spalancarono dalla sorpresa. «Non ti hanno mai
fatto un pompino? Nessuna te l’ha mai fatto?»
Lui scosse la testa, le sue labbra gli si sollevarono da un angolo in
un sorrisetto caustico. «Ci sono molti denti in una bocca.»
«Quindi non hai mai trovato nessuna di cui fidarti abbastanza da
fartelo fare» tirai a indovinare.
I suoi occhi scattarono nei miei e le sue dita si immobilizzarono.
Cletus mi fissò a lungo, evitava chiaramente di rispondermi, poi si
schiarì la gola. «Vorrei tornare a trovarti domani, se sarai ancora qui
dopo il lavoro.»
«Per me va bene. Puoi venire ogni giorno, questa settimana, se
ne hai voglia.»
Decisi di concedergli quel cambio di argomento, ma segretamente
stavo pianificando il mio attacco. Un giorno, un giorno prossimo,
l’avrei sedotto. Ora dovevo solo capire come si seduceva un uomo.
Forse le mie amiche di penna potevano darmi qualche
suggerimento.
«Non posso.» Sospirò, ma gli occhi gli brillavano. «Giovedì c’è
l’addio al celibato di Jethro e io sono incaricato dell’intrattenimento.»
«Intrattenimento?»
«Sì. Ricordi, ti ho parlato del mio amico spogliarellista, George? Il
Navy Seal in pensione? È lui l’intrattenimento.» Cletus alzò e
abbassò le sopracciglia, allusivo.
Io lo fissai a bocca aperta, incerta se fosse serio oppure no.
Quando vidi che lo era, scoppiai a ridere.
«Loro non ne hanno idea.» Ridacchiò maligno. Sul serio, era una
vera e propria risata malefica, piena di propositi malvagi e perfida
impazienza.
«Peccato che tu non me l’abbia detto prima. Avrei potuto
preparare una torta da cui sarebbe potuto saltare fuori.»
«No, no. Si calerà con una fune dal soffitto. Le funi sono parte del
suo numero.»
«Beh, allora in bocca al lupo.» Con il dorso della mano mi asciugai
le lacrime per le risate. «Raccontami la tua giornata. Com’è andata
al lavoro?»
Cletus alzò la testa e sbatté le palpebre, come se avessi appena
detto una cosa stupefacente.
«Che c’è?» Mi poggiai il mento sul dorso della mano e lo fissai
dall’alto. «Qualcosa non va?»
Lui scosse la testa impercettibilmente. «Non c’è niente che non
vada. Solo che non ricordo quand’è stata l’ultima volta che qualcuno
mi ha chiesto com’è andata la mia giornata, dopo la morte di mia
madre.»
«Oh.» Mi accigliai, perché mi sembrò triste.
La mia famiglia non era perfetta, ma ci chiedevamo sempre
com’era andata la nostra giornata. Certo, c’erano parti della mia
giornata che i miei genitori non avevano alcun interesse a
conoscere, ma comunque chiedevano. Rimasi sorpresa che i
Winston non facessero lo stesso. «La tua famiglia non te lo chiede?»
Le sue labbra si incurvarono in un sorriso mesto. «Sanno che è
meglio non farlo.»
«È meglio non farlo? Sanno che è meglio non chiederti cosa ti è
successo durante la giornata?»
«Sì. Di solito finisco per dire qualcosa che non vogliono sentire.»
«Questo vale per tutti. I miei genitori non vogliono mai ascoltarmi
parlare dei miei amici di penna o del mio orto. O dei miei oli
essenziali. O di quando insegno alle scout.» Mi accigliai. Per lo più,
a loro piaceva sentirmi parlare delle mie nuove ricette. «O di
qualsiasi hobby o attività non riguardi la preparazione di dolci.»
«I miei fratelli non vogliono sentire parlare dei miei piani e attività.
Per niente.»
«So che hai moltissima, sinistra carne al fuoco, ma ogni giorno
non può essere così terribile.»
«Lo è. I giorni sono così.»
«Ok, allora quale genere di piani e attività giornaliere svolgi? Di
cosa non vogliono sentire parlare?»
«Per esempio...» Rifletté per un momento, i suoi occhi si
spostarono sulla sua mano che disegnava dei cerchi sulla mia
schiena. «Per esempio, di come mi piacerebbe attaccare la lebbra a
Jackson James.»
Storsi il naso a quelle parole, gli rivolsi una smorfia di incredulità.
«Tu non vuoi davvero attaccare la lebbra a Jackson James.»
«Invece sì. E se lo vedi grattarsi attorno al colletto della camicia è
perché ho ricattato qualcuno per fargli mettere della polvere
pruriginosa nelle sue camicie lavate a secco.»
Stavo per ridere e smascherare Cletus e le sue sciocchezze, ma
qualcosa nel modo in cui mi guardava, come se si stesse
preparando a essere rimproverato mi fece fermare a riflettere.
Lui mi fissò. Io lo fissai. Rimasi a bocca aperta.
Dice davvero. «Cletus Winston. Non l’hai fatto sul serio.»
«Sì, invece. E non me ne pento.» Il suo tono era calmo e
insolente.
«Perché mai l’avresti fatto? È una cattiveria pura e semplice.»
«Jackson James se la prende con me e i miei fratelli, Duane e
Beau in particolare, da anni. Ci ferma senza motivo mentre siamo in
macchina, ci fa fare tardi e così via. È uno stronzetto e mi sono
stancato di lui.»
Lo studiai e vidi che era convinto di avere ragione.
E ne sei sorpresa? Non sapevi già quanto è vendicativo? Non te
l’ha detto lui stesso?
«Visto? Per questo le persone non mi chiedono com’è andata la
mia giornata.» Le sue mani vagarono verso la base della mia
schiena, ad accarezzare possessivamente il mio sedere.
«Perché non lo segnali a qualcuno? Perché non vai alla stazione a
sporgere un reclamo?»
Cletus mi rivolse un’occhiataccia scontrosa. «Non sono una spia.»
Sbottai in una risata incredula. «Quindi sei disposto a ricattare
qualcuno per fargli mettere della polvere pruriginosa nelle sue
camicie, ma non vuoi usare i giusti canali per risolvere la questione
perché non vuoi fare la spia. Ho capito bene?»
«È più complicato di così. Ma in soldoni, sì.» L’espressione irritata
persisteva sul suo volto. «Mi piace decidere come occuparmi di chi
insiste a fare lo stronzo.»
«Ti piace avere il controllo.»
Parte della sua irritazione venne sostituita dal sospetto. «Si
potrebbe anche dire così.»
Lo esaminai, esaminai la linea infelice della mascella, e poi parlai
senza riflettere. «Mi piacerebbe capirti.»
«Te l’ho detto, sono una persona difficile da capire.» Non
incontrava il mio sguardo, dal suo atteggiamento sembrava volesse
evitarmi.
D’istinto, dissi: «I tuoi fratelli hanno detto che non ti piacciono i
bulli.»
Le mani di Cletus si bloccarono. Inspirò a fondo, poi rispose: «No,
non mi piacciono».
«Forse i tuoi impulsi vendicativi derivano dalla tua avversione per i
bulli. Parlando per esperienza personale, i bulli possono farti sentire
come se non avessi alcun controllo. E, se si tratta di questo, allora
saresti assolutamente facile da capire.»
Lui alzò gli occhi nei miei e i nostri sguardi si incatenarono.
Sentivo che voleva dire qualcosa. Rimasi in silenzio, sperando che
questo lo spingesse ad aprirsi.
Lui mi fece voltare, in modo che la mia schiena fosse contro il
divano e noi fossimo stesi sul fianco l’uno di fronte all’altra. Le sue
dita strinsero saldamente il mio fianco.
«Jenn...» Si fermò, come se non sapesse come continuare.
Io avvolsi la mano attorno alla sua mascella e posai un dolce
bacio sulle sue labbra, poi allontanai il volto per guardarlo negli
occhi.
Cletus prese un respiro profondo, chiaramente combattuto su
come procedere. Aspettai e gli offrii un piccolo sorriso di
incoraggiamento. Invece di parlare, mi baciò. Mi baciò e aveva il mio
sapore e quel pensiero mi fece scaldare e fremere in tutto il corpo.
Alla fine, lui si staccò scuotendo la testa. «Lascia perdere. Lascia
perdere quella storia.»
Io strinsi le labbra per nascondere il mio disappunto, ma dissi a lui,
pragmatica: «Un giorno, Cletus. Un giorno ti fiderai di me
abbastanza da dirmi cosa ti passa per la testa».
Il suo sguardo si mosse sul mio volto. «Io mi fido già di te.»
«Ma non abbastanza.» Gli grattai la mascella attraverso la sua
barba. «Un giorno.»
«Jenn, alcuni dei miei segreti non ti faranno felice. Anzi, ti
terrorizzeranno.»
«Lo so.» Continuai a passare le dita nella sua barba arruffata,
apprezzandone la consistenza quanto quella dei peli sul suo petto.
«Ricordi quanto mi facevi paura? La prima volta che sono venuta da
te? So che hai dei lati oscuri e credo di sapere perché.»
L’espressione di Cletus si fece studiatamente neutra, dai suoi
occhi traspariva una tristezza di tale profondità che mi colpì come un
pugno allo stomaco.
«Oh, tesoro.» Gli rivolsi un piccolo sorriso comprensivo, poi lo
baciai di nuovo, avvolgendo le braccia attorno al suo collo e
premendo il mio corpo contro il suo. «Prenditi il tuo tempo.
Qualunque cosa tu voglia condividere, io voglio ascoltarla. Ma in
questi ultimi mesi mi hai insegnato una cosa: nessuno ha il controllo
di chi sei tu, nella tua essenza, nel tuo cuore, tranne te. La decisione
spetta sempre a te.»
Le sue braccia mi avvolsero strette, si aggrappò a me come se
potessi sparire. O potessi andarmene.
«Non importa cos’è successo nel tuo passato, quali fantasmi si
nascondano lì, la strada che imbocchi alla fine è una tua scelta.» Lo
abbracciai forte a mia volta. «Ma, egoisticamente, spero sceglierai
sempre la strada su cui ci sono io.»
“Tre cose non possono essere nascoste a lungo: la luna, il sole e la verità”.
- Gautama Buddha

Aspettai più che potevo. Quando non potei più aspettare, mi


scappò: «Dove stiamo andando?»
«Ho un’idea». I suoi occhi sfrecciarono su di me, poi tornarono
sulla strada. «Più precisamente, una sorpresa».
Era il tardo pomeriggio di martedì. Eravamo nella macchina di
Cletus, nella Geo, non nella Buick ed eravamo partiti dalla
pasticceria perché voleva portarmi in un posto di cui non aveva fatto
menzione. Cletus era venuto in pasticceria dopo il lavoro come
promesso e aveva detto che voleva portarmi da qualche parte prima
che facesse buio.
In quel momento, viaggiavamo da dieci minuti in direzione di
Cades Cove.
«Una sorpresa alle quattro e mezza?»
Il sole stava tramontando e aveva incendiato il cielo: i sette gradi
di temperatura facevano splendere ancora più vividi i rossi, i rosa e
gli arancioni delle nuvole gonfie. Il freddo aveva qualcosa che
rendeva il tramonto più intenso in questo periodo dell’anno.
«Questa sorpresa non dipende dall’ora del giorno». Rallentò,
mettendo la freccia. «E siamo arrivati».
Io aguzzai lo sguardo fuori dal finestrino, e riconobbi il lungo
vialetto e il casolare bianco alla fine di esso. «È casa di Claire
McClure».
«Sì». Cletus parcheggiò proprio davanti alla casa e spense il
motore.
«Che ci facciamo qui?»
Immediatamente ribatté: «Le svaligiamo casa».
Ciò detto, usci dall’auto, poi fece il giro fino al mio lato, mentre io
scuotevo la testa alle sue buffonate. Aprii lo sportello ma lo afferrò
lui, e mi offrì la mano mentre mi alzavo.
«Cosa ci prendiamo per prima cosa?» Indicai il portico anteriore.
«I vasi di fiori o i numeri civici?»
Lui sorrise, prendendo la mia mano, e premette il palmo contro il
mio, mandando un brivido di emozione lungo il mio braccio. Cletus
mi trascinò fino ai gradini del portico. «I vasi dei fiori sono sporchi e
questa è la mia tuta da meccanico migliore».
«Cletus. Le tue tute sono coperte di macchie di grasso».
«Sì. Ma non di macchie di terra. Non voglio creare disordine con
troppi tipi di sporco».
«Oh, santa pazienza». Alzai gli occhi al cielo, ridendo delle sue
sciocchezze.
«E i numeri civici sono sia incollati che inchiodati allo stipite.
Perché invece non ci prendiamo l’intera casa?»
Io inciampai sul primo gradino, il sorriso mi scomparve e tirai
Cletus perché si fermasse. «Cosa?»
«Claire cerca di affittare questo posto da quando è partita». Si
schiarì la gola e guardò ogni cosa tranne me. I suoi occhi percorsero
il portico, i vasi appesi alle finestre pieni di viole del pensiero e la
ringhiera bianca. «Ho badato io alla casa mentre Jethro era via con
Sienna per il suo ultimo film. Lui ha ripreso il suo compito da quando
è tornato, ma sta per nascergli un figlio. Conosco la casa ed è ben
tenuta. E attorno ha della terra. Coltivare un orticello non sarà un
problema».
Finalmente rivolse lo sguardo verso di me, e la sua voce si fece
più bassa e gentile. «Così avremmo un posto nostro, solo mio e tuo.
Non devi trasferirti, a meno che tu non lo voglia».
Lo fissai sbalordita, al mio cervello occorsero parecchi secondi per
assorbire le sue parole.
A dire il vero, al mio cervello occorse un intero minuto.
Meno di una settimana fa pensavo non mi volesse, ora era
innamorato di me e voleva convivere con me. Le parole di Isaac mi
avevano ferita, afflitta. L’inseguimento in macchina mi aveva scosso.
Qualche brutto tiro o rappresaglia degli Iron Wraiths, per quel che ne
sapevo, erano ancora possibili. Non riuscivo a stare dietro a tutti i
cambiamenti.
«Vuoi che andiamo a vivere insieme? Qui?» squittii incredula.
Un cipiglio pensieroso apparve tra le sue sopracciglia, sotto il sole
morente i suoi occhi astuti luccicavano con un desiderio accanito. Mi
condusse su per gli ultimi due gradini fino alla porta, all’ombra del
portico.
«Non sarò mai soddisfatto dei momenti rubati nella pasticceria
della tua famiglia. E non parlo solo del tempo da passare con il tuo
corpo». Le sue mani risalirono le mie braccia e poi scesero ai miei
fianchi, tirandomi a lui. «Anche se quello è un fattore. Voglio della
vera privacy, un posto in cui possiamo parlare e stare tra noi».
Parlare e stare tra noi. Beh, se la mette in questo modo…
Se fosse possibile infatuarsi di un’idea, allora io mi sarei infatuata
di quella. Svegliarsi ogni mattina accanto a Cletus? Parlare ogni sera
della mia giornata con Cletus? Passare ogni giorno con lui?
SÌ GRAZIE, NE PRENDO ANCHE UN ALTRO!
Eppure…
Eppure mi andava bene convivere con lui? Senza essere sposati?
Era qualcosa che desideravo? Nelle mie fantasie, prima di fare quel
passo c’era sempre il matrimonio. Ma perché? Perché mi ero
sempre immaginata sposata? Era perché volevo il matrimonio? O lo
volevo perché i miei genitori avrebbero odiato l’idea che convivessi
con qualcuno prima del matrimonio?
Non sapevo come rispondere a quelle domande. Le cose tra noi si
stavano evolvendo a rotta di collo. Per quanto volessi essere pronta
a buttarmi in una relazione seria con quest’uomo intelligente, bello e
complicato, c’erano altre considerazioni da fare. Cercando di
pensare razionalmente, al di là della mia opinione in merito alla
faccenda, il problema maggiore era che i miei genitori non avevano
idea che io frequentassi Cletus. Non ancora. Avevo intenzione di
dirglielo, ma prima volevo parlare con Cletus.
Poi c’è la piccola questione dei soldi…
«Jennifer?»
Alzai lo sguardo nel suo. L’incertezza nel suo sguardo, di chi si
stava preparando al peggio, e il suono del mio nome sulle sue labbra
risvegliò una calda onda di tenerezza dentro di me.
Lo rassicurai in fretta. «L’idea mi piace. Mi piace moltissimo». Misi
una mano sulla mascella di Cletus e mi meravigliai di quanto mi
sembrasse naturale e giusto toccarlo, essere tra le sue braccia. «Ma
prima di prenderla in considerazione, le cose devono sistemarsi. E io
devo consolidare alcune questioni ancora in sospeso».
Sentii il suo sguardo su di me, che mi studiava, prima che
indovinasse: «I tuoi genitori».
«Sì, i miei genitori». Tuttavia, più che i miei genitori, anche se
erano decisamente una parte del problema, mi preoccupava la mia
situazione finanziaria. Naturalmente volevo la loro benedizione, ma
non ero tanto sciocca da pensare che me l’avrebbero data di buon
grado. Avrei dovuto lottare per ottenerla ed ero preparata a farlo,
usando come arma anche il mio posto alla pasticceria e il mio
personaggio, la Regina della torta alla banana.
Seguendo il consiglio di Anne-Claire avevo contattato un
commercialista a Knoxville, gli avevo lasciato un messaggio sabato
mattina riguardo al proposito di creare la mia azienda. La mia amica
di penna francese aveva avuto ragione sin dall’inizio. Dovevo
formalizzare il mio rapporto di lavoro con la pasticceria, perché
senza un regolare rapporto di lavoro non avevo alcuna libertà. Non
avevo alcuna scelta.
Volevo avere fede che mia madre sarebbe stata giusta. Tuttavia,
alla luce del fatto che cambiare il colore dello smalto era stato visto
come un insulto (nel migliore dei casi) o un atto aggressivo di
ribellione (nel peggiore dei casi) a cui era stato naturale rispondere
con recriminazioni e isterismo, dovevo pensare più seriamente al
mio futuro finanziario. Dovevo iniziare a pianificare, invece di
permettere agli altri di dettare il mio cammino.
«Non credo che i tuoi genitori saranno un grosso problema».
Cletus fece passare la mano sulla mia schiena, aggiungendo
casualmente: «Gli Oliver da queste parti sono una famiglia antica
quanto i Payton e i Donner. Sono sicuro che i tuoi genitori saranno
ragionevoli, quando verrà il momento».
Le sopracciglia mi schizzarono in alto sulla fronte, lo fissai con
pura e semplice incredulità. «Cletus, io voglio bene ai miei genitori.
Ma non sono ragionevoli. Mia mamma la settimana scorsa ha fatto
una scenata quando le ho detto che non mi piaceva indossare i
vestiti gialli. E mio padre ha sempre avuto un’idea molto precisa del
genere d’uomo che vuole che sposi».
Il crepuscolo e l’ombra del portico mi rendevano difficile vederlo
bene, ma lo sentii irrigidirsi, le sue mani si tesero sulla mia schiena.
«Che genere d’uomo sarebbe?»
«Una combinazione di varie cose» risposi in tono piatto.
«Innanzitutto e soprattutto, credo vorrebbe qualcuno che abbia, o
possa riuscire a guadagnarsi, moltissimi soldi e fama. Ma anche se
non avesse una impressionante fama, allora una abbondante
ricchezza basterebbe. So che tu potresti ottenere entrambe, se ti
mettessi in mente di farlo, ma io non desidero affatto abbondanti
ricchezze o fama. E mi piace, beh, soprattutto mi piace, che
nemmeno tu lo desideri».
Cletus era un musicista di talento, ma non si era mai impegnato
per farsi conoscere. Non aveva mai permesso che i riflettori si
puntassero troppo su di lui. Non desiderare di stare sotto i riflettori
era una cosa, ma se lui temeva la luce dei riflettori, se temeva il
rifiuto o il non avere controllo… beh, quella era tutta un’altra
faccenda.
Cletus mi studiò. Alla fine, le sue mani scivolarono via dalla mia
schiena e afferrarono nuovamente la mia mano, per condurmi alla
porta.
«Quindi gli andrebbe bene chiunque, purché sia ricco?»
Sospirai triste. «Quando ero più giovane, consideravo
diversamente le sue priorità. Lui mi diceva che mi avrebbe trovato un
principe, qualcuno che si sarebbe preso cura di me». Deglutii, mi
sentivo il retro della mia gola inspiegabilmente bollente e irritato.
«Credo mi abbia sempre considerata una debole».
«Non è questo che vuoi ora? Non era questo che volevi ottenere
con tutta la faccenda della ricerca di un marito? Qualcuno che si
prendesse cura di te?» Cletus iniziò a tastare sopra la porta e
sembrò armeggiare con qualcosa che non riuscivo a vedere.
«No! Non è affatto questo il punto, non lo era prima e non lo è
adesso. Io volevo qualcuno, io voglio qualcuno, di cui io possa
prendermi cura. Non il contrario. Ho dentro tutta quest’energia e
affetto e nessuno con cui condividerli, nessuno a cui donarli. Passo
tutti i giorni nella pasticceria e anche le notti. L’unica cosa che mia
mamma vuole da me è che reciti un ruolo. Mio fratello finge che non
esista. E mio padre pensa che sia un’idiota».
Cletus si girò, come per contraddirmi, ma poi rimase in silenzio.
«Sai che è vero. Pensa sia una sempliciotta. E non è il solo a
pensarla così in città». Studiai la sua schiena, o quanto riuscivo a
vederne in così poca luce. «Scommetto che anche tu pensavi che mi
mancasse qualche rotella».
Recuperato quel che stava cercando, Cletus si girò verso di me.
«Non pensavo fossi una sempliciotta».
«Allora cosa pensavi?» La sua sagoma si mosse e io avvertii che
faticava a trovare le parole. Lo sentii infilare la chiave nella serratura.
Per aiutarlo, gli fornii io delle parole: «La ruota gira ma il criceto è
morto?»
«No».
«Se avesse un altro cervello, si sentirebbe molto solo?»
Si girò per guardarmi in volto. «Jenn...»
«Anche le zucche del suo orto sono tutte vuote?»
«Potresti...»
«Non ci arriva o non parte proprio?»
Cletus avvolse le braccia attorno ai miei fianchi e mi tirò a sé, la
sua bocca catturò facilmente la mia. Mi fece girare, mettendomi con
la schiena contro il muro esterno della casa e mi baciò con dovizia.
Quando mi sentii ufficialmente la testa leggera e mi fui accaldata
sotto gli strati di vestiti, lui si scostò e spiegò burbero: «Non ho mai
pensato che fossi una sempliciotta. Mi sentivo dispiaciuto per te».
Lo stomaco mi precipitò fino ai piedi.
Non mi piacque. Io non mi sentivo dispiaciuta per me stessa, non
più. Il festival del dispiacere era ufficialmente finito. Mi ero presa la
responsabilità della mia inerzia e ora vedevo le cose più
chiaramente. Eppure il fatto che fossi stata una persona che gli
suscitava pietà mi stringeva la gola di un furioso imbarazzo.
Ma prima che la mia mortificazione potesse cristallizzarsi
completamente, aggiunse: «Ma ora capisco che avrei dovuto
sentirmi dispiaciuto per me». Inclinò la testa di nuovo, sfiorando le
mie labbra con un bacio adorante e poi sussurrò: «Ero io quello che
non sapeva cosa si stava perdendo».

La casa di Claire era magnifica. Ed essere lì con Cletus era


magnifico. E l’intera serata che seguì fu magnifica.
Cletus ci riportò alla pasticceria, dopo avermi fatto fare un breve
giro della casa di Claire. Mentre io lavoravo e preparavo dolci,
discutemmo di mille cose, dai nuovi esperimenti chimici che lui mi
aveva trovato da far provare alle mie Girl e ai miei Boy Scout, a una
ricetta che avevo trovato in un vecchio libro di cucina per un tortino
alla salsiccia.
Decidemmo di preparare un tortino alla salsiccia insieme. Io avrei
preparato la sfoglia e lui l’avrebbe riempita con la sua salsiccia.
Non gli permisi di aiutarmi a preparare i miei ordini. La sua barba
violava le norme igienico sanitarie e l’idea gli strappò un enorme
sorriso.
«Sono una violazione delle norme sanitarie» ripeteva, come se
quello status fosse qualcosa di piacevolmente ironico. Io colsi l’ironia
quando mi ricordai di una delle nostre prime conversazioni
sull’essere pasticceri che non cucinavano con tutti
indiscriminatamente ed evitare chi infrangeva le norme di igiene
sanitaria.
Appena dopo le undici di sera, mentre mi aiutava a mettere via gli
ingredienti, saltò fuori dalla dispensa sul retro e schioccò le dita.
«Quasi mi dimenticavo!»
«Cosa?» Stavo pulendo i banconi. La ditta delle pulizie sarebbe
passata prima delle tre di notte per sterilizzare tutto, ma mi piaceva
lasciare le cose pulite. Il mio impasto per il giorno dopo era stato
preparato e i lievitati erano pronti per lo staff del mattino.
«Jennifer Anne Sylvester,» il suo tono era eccessivamente formale
e mi fece sorridere: «Mi faresti l’onore di accompagnarmi al
matrimonio di mio fratello?»
«Ne sarei...»
«Ritirando pertanto la tua promessa al deplorevole e pruriginoso
Jackson James».
Strinsi le labbra per mostrare la mia disapprovazione, portando le
mani ai fianchi. «Devi riconsiderare quello che stai facendo a
Jackson».
«Non posso. È già stato fatto. E non me ne pento. Merita le sue
piaghe. Ho vissuto con un bullo per molti anni, senza dubbio, e
Darrell Winston mi ha reso la persona che sono. Non posso tollerare
le persone che si approfittano della loro posizione di potere per i
propri desideri personali e meschini».
«Credi che Jackson sia malvagio? Irrecuperabile?»
Non rispose subito, preferendo invece guardarmi male. Per cui lo
guardai male a mia volta. Infine, disse: «No. Ma fa il gradasso in
panni troppo grossi per lui. Per questo io glieli ho resi pruriginosi».
«Non puoi sapere cosa potrebbero causare le tue azioni, che
effetto potrebbero avere sulle persone. E considera questo: se
parlassi a Jackson? Se voi due ne parlaste seriamente e faceste
pace? Lo stai privando della scelta e non gli stai concedendo il
beneficio del dubbio. E se invece provassi a parlargli prima? Poi, se
si rifiuta di ascoltarti o si comporta come un bullo, allora potrai
scatenare le tue piaghe. Fai pure. Ti darò persino la mia
benedizione».
Un’altra volta cominciammo a scambiarci occhiatacce, ma lui
sbatté le palpebre per primo.
«E va bene. Metterò in pausa le piaghe. Parlerò a Jackson James.
Gli darò la possibilità di scegliere».
«Bene». Trattenni un sorriso vittorioso, rivolgendogli invece un
calmo cenno del capo.
«Non hai ancora risposto alla mia prima richiesta».
«Quale richiesta?»
«Tu. Io. Il matrimonio di Jethro. Bere appena un po’ troppo. Fare
del dolce amore nella mia stanza mentre gli altri fanno il ballo del
pollo fuori. Questa richiesta».
«Oh, sì. La risposta è sì. Ho chiamato Jackson lo scorso sabato e
gli ho detto che non sarei più andata con lui».
Le sopracciglia gli schizzarono in alto, a sottolineare la sua
sorpresa. «L’hai fatto davvero?»
«Naturalmente». Gli rivolsi una rapida occhiata di incredulità.
«Non riuscivo nemmeno a immaginarmelo. Temo che tutti gli altri
siano una noia in confronto a te. Sarebbe come offrirmi del pollo
fritto congelato quando posso mangiare il tortino alla salsiccia».
Il sorriso di Cletus si impadronì lentamente di tutto il suo volto e i
suoi occhi si mossero su di me, facendosi sempre più affettuosi
finché lui non fu raggiante. Chiuse la distanza tra noi e mi avvolse tra
le sue braccia. Non mi baciò. Mi guardò e basta, come se fossi
qualcosa di meraviglioso e fantastico.
«Sono pazzamente innamorato di te, mia Jennifer» disse.
Aprii la bocca per dirgli che anche io lo amavo. Ma lui mi bloccò,
con un bacio lento e adorante.
Un bacio che mi fece tremare le ginocchia.
Un bacio che mi fece venire le farfalle allo stomaco.
Un bacio che rese il mio mondo migliore e più luminoso di quanto
lo fosse prima.
Cletus Winston è pazzamente innamorato di me.

Cletus mi accompagnò alla macchina e mi guardò andar via. Le


mie labbra pizzicavano ancora per i suoi eccellenti baci. Io amavo e
odiavo che ogni volta che mi baciava non vedevo l’ora che lo
rifacesse. Proprio come ogni volta che ci lasciavamo non vedevo
l’ora di rivederlo.
Nonostante volessi sempre di più di lui, fluttuavo ancora su una
nuvoletta felice e non riuscivo a smettere di sorridere. Mi sentivo
davvero beata, davvero fortunata. Avrei dovuto alzarmi tra meno di
tre ore, ma non mi importava.
Avevo dormito per ventidue anni. Mi sembrava di essere
finalmente sveglia per la prima volta in vita mia. Finalmente la mia
vita aveva avuto inizio. Io vi avevo dato inizio.
Mi tolsi silenziosamente le scarpe nell’ingresso ed entrai in punta
di piedi in casa, proprio come avevo fatto la notte prima, ma rimasi
sorpresa nel trovare mio padre sveglio in cucina. Mi accigliai
vedendolo lì e lui si accigliò guardando me, dal suo posto al tavolo.
Mi guardai attorno per la stanza, alla ricerca di qualche indizio che
spiegasse perché fosse ancora sveglio. Mio padre doveva essere al
lavoro per le sei di mattina e non l’avevo mai visto sveglio così tardi.
«Ho chiamato mamma, prima, e le ho lasciato un messaggio»
spiegai, sentendo il bisogno di difendermi preventivamente. Non era
insolito che rimanessi fino a tardi alla pasticceria. Se prima avvertivo,
poi non avrei svegliato i miei genitori per dir loro che ero a casa. «Le
ho detto che sarei tornata verso mezzanotte».
Lui annuì con un cenno, mentre due rughe di infelicità gli
incorniciavano la bocca. «Lo so».
Io mi accigliai, lasciando trasparire la mia confusione. «Va tutto
bene?»
«Vieni. Siediti». Accennò alla sedia di fianco alla sua, con volto
severo. «Dobbiamo parlare».
Esitai, nella mia mente risuonavano tutte le cose di cui avrebbe
potuto voler discutere. Non ricordavo quand’era stata l’ultima volta
che io e mio padre avessimo parlato di qualcosa. Forse una volta,
quando avevo sedici anni e avevo vinto la gara di torte della fiera
dello stato per la prima volta. Mi aveva ricordato che l’orgoglio era un
peccato.
Mia mamma gli aveva detto di tacere, guardandolo torva quando
lo aveva sentito per caso, poi subito aveva continuato dicendomi
quanto fosse orgogliosa.
Ma in quel momento non mi veniva in mente niente di cui dovesse
parlarmi.
Forse del viaggio a New York? Forse vuole ricordarmi che
l’orgoglio è ancora un peccato.
Scartai quella teoria. Fintanto che il mio successo faceva
arricchire la famiglia a lui sembrava non importare se fosse o meno
un peccato.
«Jennifer, siediti». Il suo tono era duro. Era arrabbiato.
Esitai. Cos’avevo fatto per farlo arrabbiare? Cercai di pensare.
A meno che…
E improvvisamente lo capii. La stanza si inclinò appena e io
appoggiai una mano sul bancone al mio fianco. Mio padre sapeva di
Cletus. Terrore e paura iniziarono a scorrere nelle mie vene.
Ma tu non permetterai alla paura di controllarti. Tu hai il controllo
della tua vita e delle tue decisioni. Nessun altro.
«Jennifer!»
Il mio nome fu pronunciato come un ordine e mi fece sobbalzare;
mi spronò anche ad andare avanti. Lo raggiunsi con passi lenti e
strascicati, raccogliendo coraggio e risolutezza durante il tragitto.
Avanzai con calma fino alla sedia offertami e mi sedetti,
congiungendo le mani sul tavolo.
«Di cosa vorresti parlare?» chiesi, con lo sguardo fermo come la
mia voce. Ciononostante i miei nervi erano tesi e mi preparavo a
un’aspra discussione.
Credo che lo sorpresi, perché il suo cipiglio si fece più severo.
«Voglio parlarti del tuo comportamento degli ultimi mesi».
Digrignai i denti e strinsi le labbra per non dire qualcosa di
spiacevole.
Quando mi fidai di me stessa abbastanza da essere quasi certa
che sarei riuscita a parlare senza mancare di rispetto, dissi: «Mi
trasferisco».
Non lo avevo deciso che ora. Ma questo momento, tornare a casa
e trovare la disapprovazione di mio padre, la sua eterna
disapprovazione, era stato sufficiente a farmi trovare la risposta. Me
ne sarei andata di casa.
Qualcosa lampeggiò dietro i suoi occhi, un lampo simile a
derisione, e disprezzo. «Oh? Ma davvero?»
Annuii. «Sì».
«Vai a vivere con Cletus Winston?»
Annuii di nuovo. «Esatto».
«E come farai a vivere? O ti farai mantenere da un uomo più
anziano?»
Non mossi un muscolo, ma le sue parole furono come uno
schiaffo. «Farò quello che ho sempre fatto. Preparerò dolci».
Lui si sporse in avanti, improvvisamente, arrivando a pochi
centimetri dal mio volto. «Tua mamma non ti pagherà nemmeno un
centesimo, signorina. Se te ne vai, se vai a vivere con quel ragazzo,
allora per noi sarai morta. Hai capito?»
Lo guardai sbattendo le palpebre, il volto all’improvviso mi
bruciava, le mani all’improvviso mi sudavano.
Deglutii a fatica. Quella era la sola casa in cui avessi mai vissuto.
Pensai a cosa avrebbe significato essere ripudiata.
Mio padre aveva ripudiato Isaac. Non parlava mai di lui. Mia
mamma lo faceva ancora. Vedevo che era ancora addolorata per la
perdita del suo bambino. Ma per mio padre era come se non fosse
mai esistito.
Volevo bene ai miei genitori.
Volevo bene a mio padre.
Ma per la prima volta in vita mia mi chiesi perché. Perché volevo
bene a quell’uomo? Non lo sapevo. Non sapevo perché gli volessi
bene. A lui non ero mai piaciuta particolarmente. E non era mai stato
particolarmente amorevole.
Mi alzai, schiarendomi la gola, e mi allontanai dal tavolo. Rimisi al
suo posto la sedia. Il tutto mentre mio padre mi seguiva con i suoi
occhi, e la rabbia gonfiava le vene della sua fronte.
Gli ultimi mesi mi avevano portata a questo, ed era un momento
terribile. Ma sapevo cosa dovevo fare. Alzai il mento, mantenendo la
compostezza per pura forza di volontà.
«Se è questo che vuoi, allora così sia». La mia voce era instabile,
tremante, ma non piansi. Non avrei pianto. «Non intendo permetterti
di controllarmi. Non più».
I suoi occhi si spalancarono, come la sua bocca. L’avevo
sorpreso.
Frettolosamente ritornò in sé, e mi indicò col dito. «Non credo tu
capisca. Te ne vai di qui senza niente. Se prendi la macchina, io ne
denuncio il furto. Te ne andrai di qui con quei vestiti vergognosi e
nient’altro».
«Capisco perfettamente. Non sono stupida».
«Sì. Tu sei una stupida». Il suo tono era piatto e pieno d’odio. «Sei
sempre stata una stupida. Perché pensi che tua mamma sia stata
costretta a educarti in casa? Pensi davvero che Cletus Winston,
Cletus Winston, rimarrà al tuo fianco? Che riuscirà a provvedere a
te? Credi che rimarrà con te? Non lo farà. Ti pianterà in asso, come
suo padre ha fatto con sua mamma, e tu resterai senza niente.
Niente».
Scossi la testa, mentre dentro di me scendevano il gelo e
l’insensibilità. «Non serve che lui mi mantenga. Se mamma non mi
vuole alla pasticceria, allora posso andare in un altro posto».
«Lo credi davvero?» La sua mascella si contrasse dalla
frustrazione e i suoi occhi si socchiusero, minacciosi. «Ti faremo
causa. Ti faremo causa e non troverai mai più un lavoro. Mai».
«Non ti capisco. Non capisco perché sei così pieno d’odio. Perché
fai così?»
«Mi sta ricattando!» urlò, battendo il pugno sul tavolo, ogni sillaba
era impregnata di furia. «Quello stupido bastardo mi sta ricattando e
non vincerà».
Sobbalzai, il volume violento della sua promessa mi fece irrigidire.
Mio padre usava la cinta su di noi, quando eravamo bambini, ma
mamma l’aveva fatto smettere quando avevo dieci anni. Da allora
non aveva più alzato un dito su di me, ma la follia nel suo sguardo
mi diede motivo di sospettare che potesse provare a rifarlo.
«Vuoi stare con un uomo del genere?» Si alzò e mi caricò,
costringendomi a indietreggiare di parecchi passi incerti. «Eh? Un
uomo disposto a ricattare il tuo stesso padre? Dici che io sono
dispotico? Io non sono niente, niente in confronto a quel malvagio
figlio di puttana».
Incrociai le braccia, abbracciandomi, allontanandomi un
centimetro alla volta da lui. «Cosa stai dicendo? Come fa a
ricattarti?»
«Questo non è importante». Si coprì la bocca con mano tremante,
pulendosi le labbra. Qualcosa nel suo gesto mi fece pensare che
fosse in preda al panico. «Non lo capisci? Sto cercando di salvarti».
«Non ho bisogno di essere salvata». Feci un altro passo indietro,
prontissima ad andarmene. Prontissima a farla finita con tutto ciò.
«Non ho mai avuto bisogno di essere salvata».
«Ma davvero? Allora di cosa pensi di aver bisogno, Jennifer?»
«Quello di cui ho bisogno non puoi darmelo tu».
Sobbalzò, raddrizzandosi. Mio padre faticava a trovare le parole e
alla fine disse: «Tua mamma e io, noi ti amiamo. Come può non
significare niente, dopo tutto quello che abbiamo fatto per te?»
Lo fissai e, per la prima volta, fu come se lo vedessi realmente. Lui
non mi amava. Usava la parola amore come un’arma, come un
mezzo per controllarmi, come un modo per assicurarsi la mia cieca
obbedienza.
Lui insozzava quella parola.
Lui non mi amava.
Lui amava i soldi che guadagnavo nella pasticceria.
Lui amava lo stile di vita confortevole che mamma aveva costruito.
Lui amava il suo stato e la sua reputazione.
Mi tornarono in mente le parole di Cletus di così tante settimane
fa: Tuo padre è orribile, e non parlo solo del suo aspetto.
Aveva ragione. Aveva davvero ragione. Ne avevo abbastanza di
lui e di quanto fosse orribile.
«Addio» dissi semplicemente, e lo intendevo davvero.
Mio padre doveva aver colto la verità del mio addio perché mi
guardò sbattendo le palpebre, preso alla sprovvista, esterrefatto. La
sua bocca si apriva e chiudeva, come se fosse troppo scioccato per
rispondere.
Approfittando della sua sorpresa, me ne andai in fretta. Ma riuscii
a trattenere le lacrime a malapena quanto bastava per uscire dalla
cucina, correre alla porta e volare lungo il vialetto.
Iniziai a piangere sulla strada principale, quando realizzai di
essermi lasciata alle spalle le mie scarpe.
E tutte le lettere dei miei amici di penna.
E mia madre.
E la sola casa che avessi mai conosciuto.
“Così il cuore si spezzerà, eppure spezzato vivrà.”
- Byron

Mi sarebbe mancato il silenzio della casa. I ricordi, sia buoni che


cattivi, erano meglio udibili di notte, quando tutti a parte me
dormivano.
In quel momento ero seduto sulla sedia preferita di nonna Oliver di
fianco al fuoco, coperto dalla sua trapunta preferita e leggevo il suo
libro preferito, il secondo volume de Tutto Sherlock Holmes di Sir
Arthur Conan Doyle. La nonna amava i gialli e amava leggere e
rileggere sempre gli stessi. Anche se sapeva cosa sarebbe
successo, le piaceva trovare nuovi indizi, diceva che l’aiutava a
essere più attenta.
Se tutto fosse andato secondo i piani, Jennifer e io ci saremmo
trasferiti nel casolare di Claire subito dopo il ringraziamento e tutto
stava andando secondo i piani. Il mio tempo nella vecchia casa, con
quei vecchi ricordi, era contato. Era la fine di un’era.
Era vero non mi piacevano i cambiamenti, di regola. La mia
Jennifer continuava a sorprendermi e le sue sorprese erano perle di
meraviglia. Mi aveva costretto a rivalutare le mie priorità e mi aveva
spinto oltre i confortevoli limiti entro cui mi sentivo a mio agio. Mi
aveva cambiato.
Per la prima volta nella mia vita, il cambiamento era sinonimo di
speranza e anticipazione. Non vedevo l’ora che arrivasse. E questo
era rivoluzionario.
Ma per ora, mentre bevevo il liquore fatto con la ricetta della
nonna e tornavo a fare la conoscenza della Lega dei Capelli Rossi,
lasciai parlare il passato, quello buono e quello cattivo, e mi godevo
il mio momento di quiete.
«Perché hai su quella roba?»
Alzai solo gli occhi dalla pagina del mio libro e fissai in cagnesco
Beau, il guastafeste.
«Dovrai essere più specifico. Ti riferisci alla mia giacca da camera
o alla mia espressione concentrata?»
«Alla giacca da fumo.» Beau posò una busta della spesa piena di
provviste, o così sembrava, sulla console e chiuse la porta
d’ingresso. Portava ancora i vestiti da lavoro.
Porta ancora i vestiti da lavoro a mezzanotte passata e i suoi
capelli sono bagnati, si è fatto da poco una doccia. Ah, ah! La corte
era iniziata.
«È comoda. E i risvolti sono di velluto. Sai che mi piace la
sensazione del velluto.» Posai il mio libro, e fissai apertamente la
sua tuta da lavoro macchiata. «E tu perché hai ancora addosso i
vestiti da lavoro?»
Beau si guardò. «Io… uhm… sono passato a trovare qualcuno.»
In base al succhiotto sul suo collo e al modo in cui evitava il mio
sguardo, tradussi la sua affermazione in: Sono andato a casa di
Shelly e abbiamo fatto sesso ancora e ancora.
Solitamente non tolleravo che i miei momenti di quiete fossero
interrotti, ma l’apparizione di Beau a tarda notte era una fortuna, in
realtà. Era decisamente ora di mettere le cose in chiaro riguardo
Shelly Sullivan.
«Siediti, Beau. Credo dovremmo parlare.»
Si tolse la giacca, appendendola poi a un gancio dell’appendiabiti
alla porta e scosse la testa. «Non può aspettare domani?»
«No. Credo proprio di no.»
Sbuffò, passandosi una mano stanca sul viso stanco. «Va bene.
Di cosa vuoi parlare?»
Posai il libro sul tavolino accanto al mio gomito e unii la punta
delle dita davanti a me. «Arriva il momento nella vita di un giovane
uomo in cui...»
«Oh Signore!.» Beau alzò gli occhi al cielo e si girò verso le scale.
«Non ho tempo per uno dei tuoi discorsi, Cletus. Sono esausto.»
«Va bene, allora arriverò dritto al punto. Non sono interessato a
Shelly Sullivan. Ma sono felice che lo sia tu. È una buona cosa per
entrambi. Proseguite e prosperate.»
Beau si bloccò di colpo, con il piede sul primo gradino delle scale.
La linea tesa delle sue spalle mi rivelò che l’avevo colto alla
sprovvista, un sospetto confermato dall’evidente shock nei suoi
occhi quando li portò di scatto su di me.
«Cos’hai detto?»
In quel preciso momento qualcuno bussò alla nostra porta, con
parecchi colpi urgenti contro il solido legno. Beau guardò da sopra
una spalla e si girò verso la porta. Ci scambiammo degli sguardi
confusi.
Sabato al telefono, Repo mi aveva assicurato che avrebbe tenuto
Catfish a bada fino al nostro incontro, ma il capitano degli Iron
Wraiths aveva forse deciso di ignorare il suo capo? Non avevo
sentito nessuna motocicletta, però.
«Chi è?» gridò Beau. Vista la sua esitazione, era chiaro che
avesse avuto lo stesso sospetto.
«Jennifer Sylvester.»
Balzai dalla sedia e corsi alla porta, battendo Beau di tre passi. La
spalancai, rivelando il volto rigato dalle lacrime della mia donna.
Indossava gli stessi vestiti di quando l’avevo lasciata a casa, i jeans
e una maglietta, ma non aveva né giacca né un maglione. I suoi
occhi erano sgranati e tristi, rossi e gonfi dal pianto, e si stava
abbracciando stretta.
L’apprensione mi colpì dritto in mezzo agli occhi. La tirai dentro
casa e l’avvolsi in un abbraccio.
«Cos’è successo? Cosa ti è successo? Stai bene?»
Era fredda come il ghiaccio. Batteva i denti. Le strofinai le braccia.
Jennifer annuì contro il mio petto, singhiozzando. «Sto bene.
Fisicamente sto bene. Beh, a parte i miei piedi.»
Abbassai lo sguardo, scoprendo con orrore che era a piedi nudi.
«Dove sono le tue scarpe?»
«A casa dei miei. È...» singhiozzò, il respiro le si spezzò, «una
lunga storia.»
«Beau, prepara un tè.» Mi lanciai un’occhiata da sopra la spalla,
ma scoprii che mio fratello era sparito.
Accigliandomi per la sua sparizione e agitatissimo dallo stato
disperato di Jennifer, la sollevai da terra e la portai alla poltrona
preferita di mia nonna. L’avvolsi nella trapunta preferita di nonna,
ricavata da suoi vecchi vestiti della festa e portai il liquore che stavo
bevendo alle sue labbra.
«Bevilo, solo un sorso. Ti riscalderà.»
Le sue labbra erano blu, quasi viola e annuì bevendone un sorso.
Dovetti tenerle il bicchiere da quanto le tremavano le mani. Passai le
dita trai suoi capelli, che erano sciolti e annodati attorno alle sue
spalle e lei appoggiò la guancia contro il mio palmo.
«Cos’è successo?» Insistetti, incapace di trattenere la domanda.
Dovevo sapere chi avrei dovuto mutilare.
Lei sospirò, chiudendo gli occhi. «Mio padre mi stava
aspettando… quando sono tornata a casa.»
Il gelo si impadronì del mio cuore, pompando nelle mie vene gelo
e collera.
Mi impegnai a tenere un tono di voce regolare. «Ti ha fatto del
male?»
Qualunque fosse stata la risposta, io avrei fatto a brandelli il suo
mondo. L’avrei rovinato, frantumato fino a ridurlo in polvere sotto il
tacco del mio stivale.
Lei scosse la testa. «Non mi ha picchiata, se è questo che
intendi.»
Una mandria di elefanti che scendeva dalle scale, o almeno dal
suono sembrava questo, mi spinse a guardare alle mie spalle. Billy,
con alle costole un Beau dall’aria preoccupata, attraversò la stanza e
si mise al mio fianco.
«Sta bene?» Mi chiese Billy, spostando la sua espressione
accigliata tra me e Jennifer. «Cosa possiamo fare?»
«Puoi preparare un tè. E aggiungerci una bella dose di alcol. Anzi,
scaldale del brodo di pollo.»
Billy annuì con un cenno e poi mi sorprese facendo un passo
avanti e inginocchiandosi di fianco a me, dove era seduta Jennifer.
Le strinse la spalla per un momento poi strofinò il suo braccio da
sopra la coperta.
«Te lo dirà anche Cletus, ma tu devi credergli. Questo è un posto
sicuro, per te, e dovresti restare tutto il tempo che vuoi.»
Lei annuì, ma non aprì gli occhi, tenne le labbra premute insieme
in una linea rigida. Cercava di non piangere.
Billy le strinse il braccio ancora una volta, lanciandomi un’occhiata
di supporto, poi si alzò. «Vieni Beau. Lasciamogli un po’ di privacy.»
«Cosa? Privacy? Perché?»
«Perché, scemo, quella è la sua donna e a loro serve un po’ di
privacy.»
«Aspetta, cosa?» La risposta di Beau fu brusca e scioccata.
«Beauford Fitzgerald, chiudi la bocca prima che ci entri qualche
mosca e muoviti. Ti spiegherò tutto non appena...» La voce di Billy si
allontanò mentre spingeva Beau dentro la cucina.
Il volto di Jennifer era ancora freddo, per cui mi inginocchiai
davanti a lei e premetti i palmi sulle sue guance. Mi obbligai a non
farle domande. Dovevo sapere cos’era successo, ma a lei serviva
che fossi paziente.
Per cui potevo essere paziente. Già.
Odiavo essere paziente.
Proprio quando ero sul punto di perdere la battaglia contro la mia
curiosità alimentata dalla preoccupazione, lei aprì gli occhi e mi
guardò. I brividi si erano fermati, per lo più. Il suo mento aveva
smesso di tremare. Ma i suoi occhi erano ancora spenti e abbattuti.
Odiai quanto mi sentissi impotente in quel momento. Dovevo portare
via il suo dolore, seppellirlo, bandirlo, distruggerlo.
«Dimmi cosa devo fare» la implorai, volevo disperatamente fare
qualcosa.
Lei deglutì, scuotendo tristemente la testa. «Non c’è niente da
fare. Mio padre mi ha ripudiata, quindi me ne sono andata.»
«A piedi nudi?»
Annuì.
Io mi accigliai alla notizia. «Perché sei gelata?»
«Sono venuta a piedi fin qui.»
«Sei venuta a piedi?» Non riuscii a impedire alla rabbia di
insinuarsi nella mia voce e quel suono la fece sobbalzare,
spezzandomi il cuore.
Sì. Lo distruggerò. Lui verrà distrutto da me.
«Cletus...»
«Scusami. Rimarrò calmo. Sangue freddo come quella raffinata
acqua con ghiaccio e cetriolo. Continua, per favore. Dimmi cos’è
successo.»
Lei si leccò le labbra e io vidi che erano screpolate. Ma almeno
non erano più blu. Lei coprì le mie mani sul suo volto e me le
abbassò sul suo grembo, fissando il punto in cui le nostre dita erano
intrecciate.
«Ha detto che dovevamo parlare. Era davvero arrabbiato con me,
per via di noi. Sapeva di noi e ha detto» deglutì, fece un respiro
profondo e poi continuò. «Era impazzito. Ha detto delle cose folli.»
«Tipo?»
«Ha detto che tu mi vuoi controllare. Che mi avresti lasciata. Che
sarei rimasta senza niente. Ha detto che se proverò a lavorare in
un’altra pasticceria mi farà causa.»
«Non può farlo, a meno che tu non abbia sottoscritto una clausola
di non concorrenza e suppongo tu non l’abbia fatto.»
«Non l’ho fatto. Tecnicamente non sono nemmeno una
dipendente. Cletus», mi fissò, mentre la preoccupazione e la paura
le affliggevano il volto, «non ho niente. Non ho nemmeno un conto in
banca. Sono stata una stupida a fidarmi dei miei genitori. Avrei
dovuto mettere tutto nero su bianco molto tempo fa.»
«Non devi preoccuparti di questo.» Scacciai via la sua paura,
avevo bisogno che si sentisse al sicuro.
«Mi preoccupo di questo, invece.» Si accigliò guardandomi, le sue
sopracciglia si avvicinarono finché non comparvero due rughette
fiere tra i suoi occhi. «Devo essere in grado di mantenermi da sola.
Domani vado a Knoxville. C’è una pasticceria nel quartiere antico
che cerca di assumermi da anni. Inizierò da lì.»
«Va bene. Ti accompagno io. Ma ora non agitarti per questo.»
Strinsi le dita sulle sue. «Cos’ha detto tua mamma della faccenda?
Fatico a credere che sia disposta a perderti, visto quanto sei
preziosa per la sua pasticceria.»
Jennifer scosse la testa. «Lei non c’era. C’era solo lui, che mi
sbraitava contro le sue menzogne.»
«Cosa vuoi dire? Quali menzogne?»
«Ha detto che lo stavi ricattando. Che mi voleva bene. Ma che
voleva salvarmi da te. È stato orribile.»
Mi irrigidii e improvvisamente sentii l’acidità salirmi nello stomaco.
Scoprii che avevo difficoltà a mandare giù un misterioso groppo che
mi si era bloccato in gola.
Jennifer tirò su col naso ancora una volta. «Per questo me ne
sono dovuta andare. Sono dovuta andare via, lontana dalle sue
menzogne.»
Mi sedetti sui talloni e studiai il suo volto stanco, incerto su come
continuare. Kip aveva forse mentito sull’amore che provava per la
figlia, ma non mentiva sul ricatto.
«All’inizio, penso che credesse davvero di costringermi con la
prepotenza a rinunciare a te.» Fissava un punto alle mie spalle, nel
fuoco, e parlava più a se stessa che a me. «Penso credesse che
avrei ceduto, che avrei semplicemente continuato a fare qualunque
cosa lui volesse. E quando non l’ho fatto, ha mentito. E quando non
ha funzionato, ha cercato di fare marcia indietro e convincermi col
senso di colpa, dicendo che mi ama. È un uomo malato.»
Dovevo dirle la verità. Altrimenti, lui avrebbe avuto tutto il potere.
«Jennifer. Devo dirti una cosa.»
«Cosa?» I suoi occhi tornarono nei miei. Sembrava sfinita.
«Sto ricattando tuo padre.»
Jennifer si immobilizzò. E poi sbatté le palpebre, confusa.
«Cosa?»
«Sto ricattando tuo padre.»
Lei mi fissò, gli occhi le si spalancarono in un modo che non
credevo fosse possibile finché non giunse la comprensione, che li
rese aspri per il tradimento.
«Hai ricattato mio padre?» sussurrò, tirando via le sue dita dalle
mie.
L’accusa nelle sue parole faceva male, dovevo aiutarla a vedere le
cose in modo ragionevole.
«L’ho fatto. Lo sto facendo. Lo sto ricattando perché ci lasci in
pace.»
Lei si alzò di scatto, zoppicò via dall’altra parte della stanza e poi
si girò di scatto. Incrociò le braccia, stringendosi di più la trapunta
attorno alle spalle, mentre i suoi occhi lanciavano dardi di dolore e
furia verso di me.
«Sei incredibile. Non riesco a credere che tu l’abbia fatto.»
«Volevo che ci lasciasse in pace, che ci desse la sua
benedizione.»
Lei scosse la testa, il suo sguardo si fece distante e offuscato.
«Raccontami cos’è successo.»
Mi rialzai lentamente. «Lunedì è passato in officina. Mi ha detto di
farmi da parte. Allora io gli ho risposto che non l’avrei fatto. E poi gli
ho detto che ci avrebbe dato il suo supporto incondizionato,
altrimenti avrei detto a tua mamma che la sta tradendo da parecchi
anni con la signorina Elena Wilkinson.»
Lei spalancò la bocca, scioccata. Le occorsero parecchi secondi,
ma alla fine chiese con voce strozzata: «La segretaria del liceo?»
«Esatto.»
«Tradisce mia madre?» La sua voce si incrinò, piena di dolore e
incredulità. «Come fai a saperlo?»
«Ho le prove. Ho delle foto e delle email che si sono scambiati.
Passano insieme quasi ogni fine settimana, vanno in Georgia.
Hanno una casa insieme.»
Lei scosse la testa, coprendosi gli occhi con le mani. «Una casa
insieme? Non posso crederci.»
Annuii con un cenno, lasciandole il tempo per digerire la notizia.
La mia attenzione fu attratta da un movimento in cucina. Billy e Beau
apparvero con un vassoio con sopra una quantità enorme di cibo.
Quando colsero la mia espressione, si fermarono e iniziarono a
indietreggiare lentamente uscendo dalla stanza.
Contemporaneamente, Jennifer spostò il peso da un piede all’altro
e sobbalzai. Erano graffiati e pesti, e probabilmente le facevano
molto male.
«Dovresti sederti.» Feci per aiutarla, ma lei si irrigidì,
allontanandosi di un passo da me.
«Non mi toccare.»
Billy arrestò la sua ritirata, i suoi occhi si socchiusero, duri, mentre
passava lo sguardo tra noi due.
Jennifer esalò un sospiro tremante. «Perché non me l’hai detto
prima?»
«Perché non volevo perdere quest’arma. Se l’avessi scoperto,
sapevo che l’avresti detto a tua madre.»
«Certo che lo dirò a mia madre, dannazione!» urlò, chiaramente
infuriata. Ma poi sospirò e incurvò le spalle, e rimasi a guardarla
mentre la voglia di litigare sembrava abbandonare il suo corpo. «Non
riesco a credere che tu l’abbia fatto. Pensavo… avevi detto che mi
amavi.»
Dannazione.
Cazzo.
Dannazione.
«Io ti amo.»
Avrei voluto stringerla tra le mie braccia, ma ogni volta che facevo
un passo in avanti, lei indietreggiava. Aveva bisogno di distanza,
aveva bisogno di spazio e io avevo bisogno di lei.
«No. Non è vero. Tu vuoi solo controllarmi, come mio padre.»
Cosa?
No.
No, no, no.
Strinsi a pugno le mani per la frustrazione.
Donna testarda.
«Scusami.» Riuscii a malapena a controllare la mia voce. «Ma
questa è una totale e assoluta stronzata.»
Una scintilla si riaccese nei suoi occhi e non era per niente
promettente. «Davvero? Perché a me non sembra una stronzata. Mi
sento come se mi avessi spezzato il cuore. Io mi fidavo di te. Ma tu
chiaramente non ti fidi di me.»
«Io mi fido di te» dissi a denti stretti.
«Ma non abbastanza.» Scosse il capo, la voce si spezzò mentre
pronunciava le parole. «Non abbastanza da confidare che avrei
scelto te nonostante i miei genitori disapprovassero.»
Mi accigliai, allarmato dalla sua affermazione. A dire il vero, le sue
parole mi colpirono dritto al cuore e mi fecero riflettere. E a dire una
cosa anche più vera, il terrore mi invase il petto.
Mi fidavo di lei. Davvero.
Mi fidavo di lei. Ma dei suoi genitori, invece...
«Ti controllano da anni, Jenn. Cosa volevi che facessi? Che mi
fidassi che all’improvviso la loro opinione cessasse di essere il solo e
più importante fattore nella tua vita? No. Ho fatto quello che era
necessario per assicurarmi che stessimo insieme.»
«Hai fatto quello che era necessario per avere il controllo della
situazione.» Mi puntò contro un dito arrabbiato, il suo volto era
contorto dalla furia, e mi fece sentire come se avessi il cuore
schiacciato in una morsa.
«Va bene. Sì. È quello che ho fatto. E lo rifarei. Lo rifarei cento
volte se servisse a garantirmi che tu sei mia e io sono tuo.»
Il suo mento tremò e i suoi occhi si inondarono di lacrime. Le
asciugò, sbuffando una risata in cui non c’era alcun divertimento.
«Beh, non c’era bisogno di ricattare mio padre, Cletus, perché avevo
scelto te.»
Mi accigliai e il tempo sembrò rallentare. «Cosa stai dicendo?»
«Mio padre mi ha dato un ultimatum prima che me ne andassi. Ha
detto che dovevo scegliere: o te o la mia famiglia.» Jennifer abbassò
lo sguardo sul pavimento.
Non riuscivo a prendere un solo respiro, le pulsazioni del mio
cuore risuonavano rapide e fragorose nelle mie orecchie. La guardai,
in attesa, temendo le sue prossime parole.
«Ho scelto te» sussurrò, serrando fino in fondo la morsa mentre
due grosse lacrime le rigavano il suo bel volto. «Ho scelto te invece
della mia famiglia, ho scelto la loro disapprovazione, ho rinunciato a
tutto. Ho scelto te. E tu hai scelto il controllo.»
Fanculo la distanza. Fanculo lo spazio. Fanculo le litigate. Fanculo
a tutto questo.
Attraversai la stanza in cinque passi e allargai le braccia per
abbracciarla, sentendo il bisogno di toccarla e fare qualcosa per far
sparire il suo dolore. Ma lei si girò di scatto, allontanandosi.
«No. Non toccarmi. Non voglio che mi tocchi. Non posso… non ce
la faccio.» Alzò le braccia come se si preparasse a respingermi con
la forza.
Alzai le mani tra noi, mostrandole che mi arrendevo. Non l’avrei
toccata se lei non voleva. Ma poi Billy fu tra noi, si mise in mezzo.
Lanciò un’occhiataccia delusa nella mia direzione che mi fece
sussultare. Poi mi diede le spalle, raccogliendo Jennifer tra le
braccia e stringendola forte in un abbraccio.
Razionalmente, sapevo che avrei dovuto ringraziare mio fratello.
Avrei dovuto ringraziarlo per aver consolato Jennifer quando io non
potevo, quando lei non me lo permetteva. Irrazionalmente, avrei
voluto strappargli gambe e braccia e picchiarlo a morte con quelle.
Lei piangeva apertamente di nuovo, il suono mi distrusse in mille
pezzettini. Ero un animale in gabbia che ascoltava le grida di dolore
della sua compagna. Ero impotente. Odiavo essere impotente.
Lo odiavo.
Billy la sollevò, portandola in braccio su per le scale. Io li guardai
allontanarsi, feci un passo per seguirli ma poi mi fermai. La rabbia mi
riempiva la vista di puntini neri. Mi passai la mano tra i capelli e mi
tenni la fronte, fissandoli.
Sentivo il controllo scivolarmi via dalle mani e la spirale di oscurità,
di rabbia feroce, e rimpianto mi avvolse completamente. I miei
polmoni erano in fiamme. Non riuscivo a deglutire. Non riuscivo a
respirare. Non riuscivo a pensare.
E non riuscivo a stare lì.
Per cui me ne andai.
“La sofferenza è un dono. In essa si nasconde la misericordia.”
- Jalaluddin Rumi

Uscito di casa, andai dritto nel capanno e feci a pezzi la legna


come se il mondo dovesse finire. Molta legna a dire il vero. Molta,
molta legna. Poi arrivò lo sfinimento, ma il sapore acido
dell’impotenza rimase.
Mi strofinai il petto, infilzando l’ascia sul ceppo e cercai di
riprendere fiato. Nella mia mente passarono lampi di immagini degli
occhi di Jennifer mentre mi spingeva via, colmi di tradimento e
dolore. Mi stavo ossessionando su quel ricordo. Non riuscivo a
sfuggirgli. Mi faceva sanguinare il cuore. Un fiotto continuo, un
tormento senza fine.
Aguzzai la vista sul campo buio quando sentii dei passi avvicinarsi
dalla casa. Billy, e non si preoccupava certo di non fare rumore,
mentre attraversava l’erba pestando i piedi.
«Cosa diavolo ti è saltato in testa?» mi gridò contro, mentre era
lontano ancora parecchi metri.
«Sai cosa mi è saltato in testa. Ero sceso dalla barca, ma volevo
continuare a restarci.»
«Avresti dovuto avere fiducia in lei, nel fatto che avrebbe preso la
decisione giusta.»
«Grazie del consiglio, Posta del Cuore. Ma è troppo poco e troppo
tardi. Ho fatto quello che andava fatto.»
Non era mai stato facile per me credere nelle persone. Ero
sospettoso e diffidente di natura soprattutto perché, stando alla
curva del test del QI standardizzato, la maggior parte delle persone
era idiota.
Ma Jennifer non era un’idiota. Jennifer era brillante e saggia e
gentile e buona e tutto il resto.
E io avevo appena mandato tutto a puttane.
Billy si portò le mani ai fianchi. «Ricattare suo padre?»
«Esatto.» Mi difesi, ma le mie parole mancavano di convinzione.
«Quell’uomo ha un sacco di segreti, come la maggior parte delle
persone malvagie.» Presi l’ascia e sferrai un colpo al ceppo. Il legno
si spaccò, ma non vi trovai soddisfazione.
«Quanti segreti hai tu, Cletus?»
Guardai in cagnesco mio fratello. Non risposi. Se era sua
intenzione farmi arrabbiare ancora di più, cercare di acuire il mio
dolore, il suo piano stava funzionando.
I suoi occhi passarono veloci tra me e il ceppo per spaccare la
legna. «Non ci serve altra legna tagliata.»
«Peccato.» Posizionai un altro ceppo sul blocco. «Siete tutti dei
taglialegna egoisti. Forse Beau non se la sta passando bene, ci hai
mai pensato? Forse anche a lui serve spaccare un po’ di legna. Solo
perché tu e Jethro avete tagliato metà foresta durante l’estate non
vuol dire che io non possa spaccare della legna adesso.»
«E solo perché qualcuno ha dei segreti non significa che sia
malvagio.»
Il tono sprezzante di Billy mi fece raddrizzare e incontrare il suo
sguardo scuro, mentre i polmoni iniziavano a bruciarmi dalla rabbia.
«Tradisce la moglie, Billy» dissi, reprimendo a malapena il mio
desiderio di urlarglielo in faccia. «Kip Sylvester tradisce la moglie da
parecchi anni con la segretaria del liceo. Dice a Jennifer che vestirsi
come una persona normale è un peccato e la fa vergognare di sé
stessa. Prende i suoi soldi e si compra belle macchine e barche. La
insulta, la sminuisce di fronte alle persone, lei, la sua stessa figlia!»
Billy sobbalzò, alzando le mani a palmi in su. «Calmati. So che lo
fa, l’ho visto denigrarla più di una volta. È una persona orribile. Ma io
non sto parlando di Kip Sylvester, sto parlando di te.»
Continuai, era una sfuriata per lo più tra me e me. «È lui, quello
stupido. Cosa diavolo credeva? Che stessi bluffando? Lo rovinerò.
Te lo giuro, siamo circondati da stronzi e idioti, in questa città.»
«Solo perché una persona è un’idiota, non è necessariamente
cattiva. E una persona non è necessariamente buona solo perché è
intelligente.»
Fissai in cagnesco mio fratello. Non era la prima volta che mi
faceva presente questo fatto. Lasciai cadere l’ascia per terra e mi
girai, cercando uno sfogo soddisfacente per la mia ira.
Jennifer aveva ragione. Non mi fidavo di lei. Non mi fidavo che
avrebbe scelto me contro la sua famiglia.
Mi mancava la fede. Sapevo troppo. Avevo troppa esperienza.
Ero disincantato.
Quando non trovai niente da distruggere, ringhiai frustrato e diedi
un pugno al muro del capanno. «Se l’ignoranza è una benedizione,
allora la conoscenza è una gabbia.»
«La conoscenza è una gabbia solo se indugi nel tuo isolamento.»
La sua voce era prudente e controllata. «Jennifer è intelligente. E
buona. La vita non è stata particolarmente gentile con lei, ma lei lo è
comunque.»
Annuii, parte della mia rabbia cedette il passo alla stanchezza
quando pensai alla sua gentilezza. «Lo so. La sua gentilezza non la
rende debole, la rende forte.»
«Ti perdonerà.»
Sbuffai una risata per niente divertita e scossi la testa. «Non
dovrebbe farlo. Dovrebbe odiarmi, tramare la mia rovina.»
«Ma non lo farà. Per questo voi due siete fatti per stare insieme.
Stai cercando una chiave per la tua gabbia? Sai, quella donna è la
chiave.»
Billy si girò senza aspettare una risposta e si avviò verso la casa.
Lasciandomi al buio con un’ascia e un’enorme pila di legna. Strappai
la mia attenzione dalla sua schiena che si allontanava e diedi
un’occhiata alla pila di legna. Ne avevamo così tanta che non
sarebbe mai entrata tutta nel capanno. La pila della legna in eccesso
era anche quella pienissima, troppo alta.
Sbarazzarsene non sarebbe stato facile. Se il bambino di Jethro
fosse già venuto al mondo e un poco cresciuto, allora forse
avremmo potuto organizzarci per venderla, insegnando al bambino
l’arte del commercio.
Forse il figlio di Jethro e il mio potrebbero venderla insieme… con
della limonata… e le torte di Jennifer.
La mia gola si strinse al punto che non riuscii più a deglutire
perché avevo visto il mio futuro assieme a Jennifer e comprendeva
dei bambini. E cugini. E preparare torte e riparare macchine. Avrei
costruito per loro una cassetta della sabbia usando la gomma della
ruota di un trattore e delle palette dalle bottiglie di plastica. E quando
sarebbero stati grandi abbastanza, avrei insegnato a quelle piccole
canaglie come usare l’alambicco per fare il liquore di nonna Oliver,
con grande costernazione delle loro madri.
Era un futuro per cui valeva la pena ossessionarsi.
E Jennifer era la chiave della mia gabbia. Era la chiave per il mio
futuro. Eravamo perfetti l’uno per l’altra. I suoi punti di forza
bilanciavano le mie debolezze. Se mi avesse dato un’altra chance, io
le avrei dato la mia fiducia. Mi sarei fidato di lei completamente. Le
avrei dato tutto. Le avrei detto tutto.
Tutto. Perché la conoscenza è una gabbia solo se indugi nel tuo
isolamento.
Il dolore nel mio petto non si placò. La ferita si infettava. Il
tormento persisteva. Guardai accigliato la pila di legna, mentre il
malcontento si installava nel mio stomaco come piombo e acido. La
possibilità che non mi perdonasse era ancora molto reale. Ma quella
possibilità mi sembrava scarsa. Jennifer era una persona che
perdonava. Proprio perché perdonava tanto, le persone si
approfittavano del suo cuore generoso.
E, santo Dio, io non volevo essere una di quelle persone. Mi
rifiutavo di approfittarmi di lei, anche se lei probabilmente me
l’avrebbe lasciato fare. Ero in un vicolo cieco. Chiedere a Jennifer di
essere la mia chiave sarebbe stato chiedere troppo.
Ma non potevo lasciarla andare.
Non potevo.
Non posso.
Non riuscivo a dormire.
Pertanto svegliai Duane e lo informai che mi serviva un autista per
la mia ultima fuga. Lui era sorprendentemente allegro nonostante
fossero da poco passate le sei di mattina.
«Ci intrufoliamo? O bussiamo alla porta?» Duane rallentò mentre
ci avvicinavamo al vialetto dei Sylvester.
«Busserò alla porta. Ma se iniziano a fare storie, dovrò prendere le
sue cose alla svelta e darmela a gambe. Tu resta in auto finché non
ti do il segnale.»
«Ottimo.»
Mi avviai tranquillo alla porta d’ingresso, notando che mentre la
BMW di Jennifer e quella di sua mamma erano ancora parcheggiate
nel vialetto, la macchina di Kip non c’era.
Suonai il campanello. Aspettai. Suonai di nuovo il campanello.
Diane Donner-Sylvester spalancò di colpo la porta e mi fissò con
occhi sgranati e indagatori. «Oh.» La delusione apparve sul suo
volto. «Pensavo fossi qualcun altro.»
Esaminai velocemente la donna. Aveva un aspetto sciupato. La
signora Donner-Sylvester non aveva mai un aspetto sciupato. Era
sempre ben curata.
«Sperava fossi Jennifer?»
Lei mi guardò tagliente. «Cosa ne sai tu di Jennifer?»
«So dove si trova.»
Diane balzò di sorpresa, portandosi la mano alla bocca. «Oh mio
Dio. Sta bene? Sto morendo di preoccupazione. Ha dimenticato il
cellulare.» La mamma di Jennifer mi prese il braccio e vi si aggrappò
forte, adesso i suoi occhi erano spalancati e pieni di panico.
La donna sembrava genuinamente sconvolta. Era ovvio che suo
marito non aveva ritenuto importante comunicarle i dettagli del
perché Jennifer se n’era andata. Mi girai verso Duane e gli feci
cenno di avvicinarsi, poi rivolsi a Diane il mio cenno d’assenso
austero.
«Sta bene. Anche se ha bisogno di riposarsi un po’, per i piedi.»
Condussi la donna dentro casa, lasciando aperta la porta perché
Duane potesse entrare. «Siamo venuti a prendere delle cose per lei,
perché possa sentirsi più a suo agio. Può prepararle una borsa con
dei vestiti?»
«Una borsa? Cosa? Perché?» Fermò la nostra avanzata e si parò
davanti a me, i suoi occhi sfrecciarono su Duane mentre entrava, e
poi tornarono su di me. «No. Deve tornare a casa.»
«Mi dispiace, ma questo non succederà, almeno non oggi.»
Diane raddrizzò la schiena e alzò il capo, rimuovendo la mano dal
mio braccio. «Stai parlando per Jennifer? Sai cosa pensa? Cosa
vuole?»
«No, signora. Certamente io non parlo per Jennifer né pretendo di
sapere cosa voglia. Ma sicuramente parlo per i suoi piedi. E
attualmente non può camminarci. Pertanto, oggi non tornerà a casa.
Quello che succederà domani spetterà a lei deciderlo.»
«Cos’hanno i suoi piedi?»
«Ha camminato da casa vostra a casa nostra scalza. I suoi piedi
sono conciati male.» Disse Duane senza che nessuno glielo avesse
chiesto, con tono accusatorio.
Diane deglutì rigida, la sua bocca era una linea tesa mentre
passava lo sguardo tra noi. Notai con una certa frustrazione che
Duane rispose al suo sguardo torvo con un’altro sguardo torvo. Non
era una persona tenera e cordiale.
Avrei dovuto portare Beau.
Duane e il suo caratterino solare sarebbero dovuti rimanere in
macchina mentre Beau avrebbe convinto con la sua parlantina
Diane a preparare una borsa.
I suoi occhi scaltri passarono tra noi due e finalmente si fermarono
su di me. «Se non parli per Jennifer, allora perché ti preoccupi per
lei?»
Duane aprì la bocca per rispondere, con un’altra delle sue uscite
incantevoli e deliziose senza dubbio, per cui lo interruppi.
«Sua figlia mi ha chiesto aiuto» dissi esitando.
«Voglio vederla» pretese improvvisamente, incrociando le braccia.
Sospirai.
Ero stanco. E per quanto volessi litigare con quella donna, non era
una mia battaglia. Era di Jenn. E, come aveva dimostrato più e più
volte negli ultimi mesi, lei era perfettamente in grado di combattere le
proprie battaglie. Non ero abituato a permettere che le persone
combattessero le proprie battaglie, specialmente quelle a me care.
Pertanto, sospirai.
«Signora Donner-Sylvester, vedere o non vedere Jennifer non è
una decisione che spetta a me. Spetta a sua figlia. Per cui, se
permette, le dirò cosa succederà ora.» Mi fermai, lasciandole un
minuto per reagire o interrompermi. Non lo fece. Mi fissò invece, un
misto di speranza e rabbia, per cui proseguii: «Ora metteremo in una
borsa dei vestiti per Jenn, solo poche cose, perché possa stare
comoda. E noi prenderemo il suo cellulare, così potrà chiamarla.
Che ne dice?»
Una gran parte della sua rabbia evaporò, lasciando posto alla
speranza. Si leccò le labbra, i suoi occhi passarono su Duane e poi
su di me.
«Immagino che non abbia molta scelta. Ma le preparo io la
borsa.»
«Niente vestiti gialli» pretese Duane, così dal nulla, accigliandosi.
«E solo scarpe da tennis o sandali, niente scarpe eleganti. I suoi
piedi sono feriti, per cui non può mettersi quelle belle scarpe.»
Diane aguzzò gli occhi su Duane e per un momento pensai che gli
avrebbe detto di andarsene al diavolo. Annuì invece bruscamente e
si girò, dicendo da sopra la spalla, «torno subito.»
Non appena fu fuori dalla portata d’orecchio, diedi un pugno a mio
fratello sulla spalla. «Pensi di poter smorzare un poco la tua allegria,
Duane? Sei talmente dolce che mi stai facendo venire le carie.»
Lui ghignò, alzando le spalle. «Ammettilo, ti mancherò quando
sarò in Italia.»
Nonostante la mia stanchezza, ricambiai il suo sorriso. «Mi
mancheranno i tuoi pancake al mirtillo.»
«Soffici nuvolette di meraviglia. Non le avevi chiamate così?»
Annuii con un cenno, sospirando di nuovo. Stavo sospirando
molto quella mattina. Spaccare legna per quattro ore dopo aver
litigato con l’amore della propria vita metteva a dura prova una
persona.
Jethro si sarebbe sposato tra pochi giorni.
Duane e Jess sarebbero partiti la settimana successiva.
E Jennifer…
«Voglio darti un consiglio, Cletus.» Duane mi colpì la spalla. «Un
consiglio che una volta tu hai dato a me.»
«Oh no.»
«Oh sì.» Sorrise, un sorriso ampio e grande, ed era spettacolare
da vedere. Duane non sorrideva mai a quel modo, a meno che
Jessica non fosse presente nella stanza.
Mi preparai mentalmente a qualsiasi pezzetto di escremento che
mi avrebbe lanciato.
«Tutto è temporaneo, Cletus. Questo» indicò quello che ci
circondava, «questo è temporaneo. Anche le montagne finiscono per
crollare. Niente è per sempre. Hai l’occasione di essere felice, anche
se per una settimana, un mese o un anno? Allora la devi prendere e
non mollarla finché dura. Voglio che tu te la prenda.»
«Vuoi che io prenda, chi? Lei?» chiesi con tono piatto, alzando un
sopracciglio davanti alla sua piccola recita.
«Esatto. Prenditi quella donna, Cletus. Falla tua. E dopo,»
continuando a ghignare, Duane posò la mano sulla mia spalla e mi
scosse un poco, «da’ a quella donna la tua salsiccia.»
“Dietro ogni cosa squisita che esisteva c’era qualcosa di tragico.”
- Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray

Una mano gentile mi toccò la spalla, scuotendomi leggermente. Mi


girai, guardando con occhi assonnati la proprietaria della mano e
sbattendo le palpebre.
Era Ashley. Mi rivolse un sorriso dolce e mi spostò i capelli dalla
fronte con un gesto decisamente materno.
«Sono venuta a dare un’occhiata ai tuoi piedi» sussurrò. «Puoi
tornare a dormire. Non volevo svegliarti facendoti il solletico alle dita
dei piedi e prendermi un calcio in faccia.»
Accese la luce di fianco al letto. Mi strofinai gli occhi e cercai un
orologio nella stanza.
«Che ore sono?»
Con aria intontita, la guardai mentre sistemava disinfettante e
bende sul letto. «Sono passate da poco le nove e mezza.»
Scattai a sedere, mentre una scarica di adrenalina alimentata dal
panico mi svegliava del tutto. «Sono in ritardo!»
«Shhhh.» Ashley mise le mani sulle mie spalle e mi spinse fino a
farmi rimettere in posizione distesa. «Non sei in ritardo. Stamattina
te la prendi comoda.»
Mi accigliai guardandola, guardando la stanza sconosciuta e poi
gli eventi della serata precedente piombarono su di me e sobbalzai,
sollevando le braccia attorno a me per stringermi di istinto.
Dopo la discussione con Cletus, Billy mi aveva portato in una
camera da letto. Supponevo si trattasse della vecchia stanza di
Ashley, perché le superfici erano punteggiate di sue foto assieme ad
altre persone, il letto singolo era coperto da una trapunta floreale, e
le lettere A, S, H, L, E, Y erano appese al muro.
La scorsa notte Billy mi aveva adagiata sul letto e posato una
mano sulla schiena; mi ero raggomitolata in posizione fetale e
coperta il volto con le mani, sforzandomi di fermare le lacrime. Non
riuscivo a pensare, perché se avessi pensato a qualsiasi cosa, avrei
dovuto provare qualcosa. Non ero pronta. Per cui liberai la mente e
mi immaginai un campo coperto di neve bianca.
Alla fine le lacrime si erano fermate. E solo allora, ero scivolata in
un sonno senza sogni, finché Ashley non mi aveva risvegliata.
«Hai ragione,» osservai, ricordandomi «non mi aspettano da
nessuna parte.» E non ho alcun posto in cui andare.
Ashley si spostò ai piedi del letto e iniziò a disinfettarmi le piante
dei piedi.
«Hanno fatto un buon lavoro» mormorò, tirando via piano un
cerotto.
«Come?»
I suoi occhi balzarono nei miei e mi rivolse un sorriso caloroso.
«Billy e Beau. Hanno fatto un buon lavoro pulendoti i piedi e
cercando di bendarteli.»
Visto che continuavo a guardarla confusa, aggiunse: «Billy mi ha
chiamata. Era preoccupato perché sembrava che non li notassi
mentre si davano da fare coi tuoi piedi. Ha detto che non facevi altro
che fissare nel vuoto e non rispondevi.»
Un’ondata di lieve imbarazzo mi risalì per il collo. «Non me lo
ricordo.»
«Immaginavo. Da quanto ho sentito, ne hai passate un bel po’.»
Non risposi. Non sapevo cosa dire. Non volevo ripensare a quanto
successo con mio padre. Cletus era suo fratello, per cui parlare con
lei di lui era fuori questione. Inoltre, pensare a Cletus mi faceva
male. Faceva male pensare a come non avesse avuto fiducia in me
e non avesse creduto che l’avrei scelto. O forse non pensava fossi
forte abbastanza da tener testa ai miei genitori e mettere noi al primo
posto. Forse provava ancora pietà per me. E quel pensiero faceva
più male di tutti gli altri.
Non volevo la sua pietà. Non volevo mi considerasse debole o
fragile. Non lo ero.
«Riesco a sentirti pensare» disse Ashley con gli occhi sui miei
piedi. «Tanto vale parlarne. Sono un’operatrice sanitaria certificata e
ti garantisco che ho sentito più storie da far rizzare i capelli io che il
barista del Pink Pony.»
La esaminai, guardandola concentrarsi con mani ferme. Il suo
modo di parlare mi ricordava quello di Cletus. Non aveva peli sulla
lingua, ma la sua voce era più gentile.
Mi schiarii la gola e alzai lo sguardo al soffitto. «Come si prova a
qualcuno che si è forti?»
«Tramite le proprie azioni» rispose senza esitare.
La stanza rimase silenziosa per un intero minuto mentre riflettevo
sulla sua risposta. Nella mia mente si sviluppò un piano, con il quale
avrei dimostrato a Cletus che ero forte, che poteva fidarsi di me, che
eravamo alla pari. E più riflettevo sul mio piano, più realizzavo che il
vero scopo di esso non era provare qualcosa a Cletus. Lo scopo era
provare qualcosa a me stessa.
Ashley ruppe il silenzio. «Ora, se quel qualcuno è Cletus
Winston...» I suoi occhi si sollevarono dalle bende e incontrarono i
miei. «Allora, se posso, suggerirei di aggiungere un qualche
sotterfugio alla ricetta. Perché, per quanto voglia bene a mio fratello
- dico davvero, non dirlo a nessuno, ma è il mio preferito - ogni tanto
gli farebbe bene un po’ della sua stessa medicina. Per cui se riesci a
trovare un modo per dimostrare la tua forza e contemporaneamente
giocare uno scherzo al burattinaio, fammi sapere come posso
aiutarti.»
Fissai Ashley, incapace di parlare. Un’emozione prepotente mi
aveva presa tra le sue spire e non riuscivo più a divincolarmi.
Fammi sapere come posso aiutarti.
Il suo sguardo si alzò al mio, poi tornò sui miei piedi. «Stai bene?
Mi guardi come se fossi una svitata.»
«No. Scusa. È solo...» Faticai a trovare le parole giuste. «Solo,
non credo qualcuno mi abbia mai detto questo prima.»
«Cosa? Che a Cletus servirebbe un po’ della sua stessa
medicina?»
«No, fammi sapere come posso aiutarti.»
I movimenti di Ashley cessarono, il suo cipiglio di concentrazione
si trasformò in qualcos’altro. Dopo parecchi secondi di riflessione,
alzò gli occhi sul mio volto e mi rivolse un piccolo sorriso. «Sai, sono
appena tornata, in città intendo, la scorsa primavera e mi mancano
le mie amiche. Ogni martedì le chiamo su Skype, ma mi manca
avere delle buone amiche con cui andare di qua e di là. Non mi sono
dedicata come avrei dovuto a costruirmi una nuova tribù qui a Green
Valley.»
Io continuai a fissarla, ma tirai le labbra tra i denti per non urlare:
MI OFFRO VOLONTARIA!
«Ascoltami,» continuò, «qualunque cosa accada tra te e Cletus –
non importa se vi mollerete e andrete ognuno per la propria strada o
vi sposerete e alleverete polli e capre – io e te saremo amiche.
Faremo insieme le conserve con i frutti dei nostri orti e ti insegnerò a
lavorare a maglia.»
«E io so come fare il sapone» aggiunsi in fretta. «Posso insegnarti
a fare il sapone.»
«Mi sembra fantastico.» Il suo sorriso si allargò.
«Siamo d’accordo, allora?» Le porsi la mano, impaziente di
suggellare quell’amicizia.
Lei rise con dolcezza, afferrando le dita che le offrivo in una
piccola stretta. «Buone amiche.»
«Buone amiche» ripetei, con voce spezzata. Cercai di restituirle il
sorriso, ma il mio era un po’ tremolante. Ero sopraffatta, le lacrime
mi pungevano negli occhi, così le ricacciai sbattendo le palpebre e
mi schiarii la gola.
«Siamo d’accordo.» Mi lasciò la mano, rivolgendomi ancora un
altro sorriso, poi riportò la sua attenzione sui miei piedi. «Sono solo
la prima di tante, Jenn. È ora che inizi a costruirti la tua tribù. Ma
posso darti un consiglio?»
Mi schiarii la gola, ancora intasata dall’emozione. «Sono tutta
orecchi, ogni consiglio è ben accetto.»
«Sta’ alla larga dai normali.»
«I normali?»
«Già.» Annuì con un cenno del capo, mentre la sua bocca si
incurvava da un angolo, in un gesto che mi ricordò Cletus. «Stai alla
larga dai normali, dalle persone di vedute ristrette che riempiono la
loro mente di obbiettivi ristretti, che si conformano e che cercano
solo di emulare gli altri. Queste persone ti butteranno giù e ti
renderanno noiosa. Circondati invece degli strani. Con gli
emarginati, i disadattati, gli originali. Perché i normali, poverini, non
hanno idea di come divertirsi.»

Sienna Diaz arrivò proprio mentre Ashley stava mettendo via le


sue cose e mi stava dando delle istruzioni per i miei piedi. Mi aveva
dato dell’ibuprofene e aveva detto di poggiarli a terra il meno
possibile durante la giornata, ma potevo camminarci piano piano.
Disse che l’indomani sarei riuscita a camminare normalmente,
purché non sentissi dolore. Ma non potevo mettermi tacchi o restare
in piedi troppo a lungo.
«I piedi sono resistenti. Da questo punto di vista, sono come le
donne» disse, poi aggiunse con un sorrisone: «Ci vediamo dopo,
amica.»
Sienna mi abbagliò con le sue fossette mentre Ashley ci lasciava,
poi si girò con un’espressione eccezionalmente seria che rifletteva il
suo tono. «Ho una proposta da farti.»
Mi serviva un momento. Non ero abituata a essere il bersaglio di
tanto carismatico fascino. «Uh, ok… cosa...»
«Ecco la mia proposta.» Si sedette sul letto di fianco a me e mi
prese la mano, per racchiuderla tra le sue.
Lasciate che ve lo ripeta. Sienna Diaz, la stella del cinema, comica
divertentissima e in più persona assolutamente straordinaria, si
sedette sul letto di fianco a me e prese la mia mano. E non era
un’allucinazione.
La vita è strana davvero.
«Sono ossessionata dalle tue tortine alla crema di limone»
confessò tutto d’un fiato. «Ossessionata. Ma la tua pasticceria non le
fa da oltre una settimana.»
«Oh, mi dispiace.»
Scosse veloce la testa. «Non scusarti. Ascolta la mia proposta: se
e quando te la sentirai, vorrei pagarti, profumatamente, per rifornirmi
di tortine alla crema di limone per i prossimi sei mesi. E forse per il
resto della mia vita. E della vita dei miei figli.»
Mi scappò un piccolo sorriso perché quella donna era divertente.
«Non c’è bisogno di pagarmi. Te ne preparo qualcuna volentieri.»
Scosse la testa. «No. No, no, no. Ti pagherò. Considerati presa a
servizio. Farò preparare un contratto dal mio avvocato. Lo rendiamo
ufficiale, perché io ho bisogno di quelle torte e voglio poterti portare
in tribunale se non me le prepari.»
Io socchiusi le palpebre, sospettosa, intuendo il perché della sua
richiesta. Chiaramente qualcuno le aveva parlato della mia
situazione.
Come se mi avesse letto il pensiero, la sua espressione si addolcì
e mi diede una stretta alla mano. «Sì, so cos’è successo. I ragazzi
Winston sono dei gran pettegoli. Ma io sono completamente sincera
con te. Ti prego, permettimi di approfittarmi di te e sfruttare il tuo
talento di pasticciera. Ti prego!» Mi tirò le dita, portandosele giusto
sotto il mento come se stesse pregando. «Sto soffrendo. Ho nausee
mattutine continue. Ho perso nove chili e non mi va più bene l’abito
da sposa. Dovranno attaccarmelo addosso con del nastro adesivo.
Mi servono quelle tortine!»
Nonostante tutta la situazione, mi fece ridere. «Va bene,
d’accordo. Ti preparerò le tortine.»
Mi mollò la mano e si alzò. «Jethro ti porterà oggi in banca per farti
aprire un conto e poi io ti farò trasferire l’anticipo.»
«Un conto? Ma… non ho il portafoglio o la patente.» Quando me
n’ero andata ero tanto sconvolta che non mi era venuto in mente di
prendere la mia borsetta.
«Cletus e Duane sono andati a casa dei tuoi genitori stamattina e
hanno preso un po’ delle tue cose. Tua mamma ti ha preparato una
borsa di vestiti, ma vorrebbe che la chiamassi. Non ti preoccupare,
Duane si è assicurato che non ci fossero vestiti gialli nella valigia.»
Sienna estrasse un cellulare dalla tasca e me lo porse.
Era il mio cellulare. Fissai a bocca aperta quell’angelo-stella del
cinema inviatomi dal cielo per portarmi solo buone notizie.
Non sapevo cosa dire, per cui continuai a fissarla a bocca aperta
come una babbea.
Lei mi rivolse un sorriso rapidissimo e si avviò verso la porta, per
poi girarsi con una piroetta all’ultimo momento. «Un’altra cosa, credo
che la pasticceria Donner avrebbe dovuto prepararmi la torta nuziale
e credo che costi qualcosa come duemila dollari, se la memoria non
m’inganna. Il che significa che tu avresti dovuto prepararmi la mia
torta nuziale. Ho chiamato la pasticceria e cancellato il mio ordine.
Ho pensato di tagliare fuori l’intermediario. L’aggiungerò al tuo
anticipo per le tortine alla crema di limone. Se i piedi te lo
permettono, pensi di poterla preparare nella cucina della rimessa?
Ha due forni. E se mi dici esattamente cosa ti serve, mi assicurerò di
farti avere qualsiasi equipaggiamento, il meglio sul mercato...»
Senza aspettare una risposta, se ne andò.
Io fissai la porta a lungo. La sua energia era… intensa. Mi
piaceva, e non solo perché era una di quelle persone impossibili da
trovare antipatiche. Aveva un buon cuore, era evidente.
Decisi che avrei accettato la sua offerta, ma un giorno mi sarei
sdebitata. Con gli interessi.
Il cellulare nella mia mano vibrò, reclamando la mia attenzione e
un messaggio illuminò lo schermo.
Era di Cletus, e quella vista mi fece vacillare e torcere il cuore,
mentre un dolore penetrante mi strappava il respiro. Scorsi le mie
notifiche, e notai parecchi altri messaggi.

Cletus: Mi dispiace così tanto. Avevo torto, e tu ragione.


Cletus: Ho appena realizzato che probabilmente non hai con te il
cellulare.
Cletus: Credo che mi renderò utile e andrò a recuperare il tuo cellulare.
Cletus: Sono appena andato via da casa dei tuoi. Ho il tuo cellulare.
Cletus: Era ovvio che avessi io il tuo cellulare, se stai leggendo questi
messaggi.
Sorridevo, sorridevo a trentadue denti come una vera idiota
innamorata persa quando arrivai all’ultimo messaggio. Ma poi il mio
cuore si contorse e fui travolta da una feroce ondata di afflizione. Lui
forse aveva ammesso il suo errore, ma ancora non aveva fiducia
nella mia forza. Non volevo che avesse pietà di me.
Mi rifiutavo.
Sospirando, misi il cellulare in grembo e fissai il soffitto.
Mi mancava. Odiavo essere arrabbiata con lui. Questa nostalgia
per Cletus mi faceva soffrire, perché non ero pronta a perdonarlo.
Doveva dimostrarmi che si fidava di me, non solo per me, ma
anche per lui. Senza fiducia, tra di noi non c’era nulla.
Dovevo dimostrare di essere indipendente e forte, non solo per lui,
ma anche per me stessa.
E, a tal proposito, chiamai mia madre.
Mi sollevai a sedere sul letto e mi appoggiai contro la testiera,
mettendo alla prova i miei piedi. Bruciarono un tantino, ma non
troppo.
Mamma rispose al secondo squillo. «Pronto? Jennifer?»
Feci un respiro profondo, preparandomi alle recriminazioni e agli
isterismi. «Mamma.»
«Oh grazie a Dio. Cosa diavolo ti è saltato in mente? Andartene
da casa a quel modo. E non hai preso il cellulare. Non sapevo come
rintracciarti. Non eri in pasticceria. Non eri da nessuna parte. Stavo
per chiamare lo sceriffo. E poi quei ragazzi Winston si presentano
qui e dicono che sei a casa loro? Cosa dovrei pensare?»
Non le ha detto che mi ha cacciata di casa? Che codardo. Un
moto di disgusto per mio padre mi fece scuotere la testa.
«Rallenta. Dammi solo… dammi un minuto per rispondere.»
La sentii sbuffare con un sospiro tremante. «Mi dispiace così
tanto. Penso… penso di averti allontanata. Continuo a pensare alla
nostra conversazione di venerdì. Mi hai ferita e le cose stavano
peggiorando invece che migliorare, per cui ho parlato con il
reverendo Seymour e lui dice che ti devo lasciare libera. Che devo
lasciarti volare come un uccellino.» Tirò su con il naso, poi aggiunse
con un sussurro spezzato, «Non so se ne sono capace.»
Le lacrime mi pungevano negli occhi. Sbattei le palpebre per
scacciarle. «Non sono più una bambina.»
«Lo so. Beh, lo so adesso. A ripensarci, credo di non essere stata
brava ad ascoltarti. Io volevo solo… solo che avessi una vita migliore
della mia. Mi capisci? Hai così tanto talento e sei così bella, sei tutto
ciò che avrei voluto essere quando avevo la tua età. Tuo nonno era
una persona egoista, Dio l’abbia in gloria, e trascurava me e tua
nonna. Io voglio solo il meglio per te, tutto quello che non ho mai
avuto.»
«Ma tu non sei me. Io sono me. E tu non sai sempre cos’è meglio
per me, perché non mi conosci davvero.»
Lei rimase in silenzio per un lungo momento, poi la sentii piangere
piano. Scossi la testa e sospirai, abbandonando la fronte in una
mano.
«Mamma, per favore, smettila di piangere.»
«Sono una pessima madre» ululò.
«No,» alzai gli occhi al cielo, «no, non lo sei. Avevi le migliori
intenzioni e hai fatto il meglio che sapevi fare. Ma ora è tempo di
lasciarmi essere la persona che voglio io.»
Lei tirò su col naso di nuovo, mi accorgevo già che faticava a
comprendere questo concetto. «Dovrai insegnarmi come lasciarti
essere chi vuoi, perché io non so proprio come farlo. Dico davvero.
Mi sento come se fosse tutto sottosopra e al contrario.»
«Per prima cosa, devi capire che non tornerò a casa. Non vivrò
più a casa.» Non potevo, per così tanti motivi, e mio padre non era
certo l’ultimo. Non sarei riuscita a guardarlo in faccia, figuriamoci a
vivere sotto lo stesso tetto. Non l’avrei fatto.
Mamma si fece di nuovo silenziosa, poi si schiarì la gola. «Ora,
Jennifer, non credo sia una buona idea.»
«Anche se fosse, non tornerò a casa.»
«Ma come farai a vivere?»
«Tu devi iniziare a pagarmi.»
Rimase di nuovo in silenzio e io riuscivo quasi a immaginarmi lo
shock dipinto sul suo volto. Ma non avrei ceduto. Lavoravo sodo,
tutto il tempo. Non c’era motivo per cui non avrei dovuto essere
pagata per il mio lavoro. Dopo un lungo silenzio, sospirò. Sembrava
esasperata. «Vuoi che ti paghi.»
«La pasticceria mi pagherà.» Alzai la voce, infondendoci quanta
più convinzione possibile. «Lavoro lì, e pertanto dovrei guadagnarmi
uno stipendio per il lavoro che faccio. Se la pensi diversamente,
capirò. Ma in tal caso, lavorerò da un’altra parte.»
«No. Non serve che tu lo faccia. Troveremo… troveremo un
accordo.» Sembrava assente.
«Sì. Troveremo un accordo e lo formalizzeremo con un contratto.
Un contratto di impiego.»
Sospirò nuovamente, più forte stavolta. «Va bene. Possiamo
renderlo formale se ti serve che lo sia.»
«Sì. E un’altra cosa...»
«Cos’altro?»
«Andrò a New York e incontrerò l’agente, ma deciderò io cosa
succederà dopo.»
«Jennifer, questo è un affare molto importante.» Nel suo tono
c’era una punta di avvertimento.
«Forse è importante per te, ma non per me. E il successo o il
fallimento dell’albergo e della pasticceria non dipende da questo.»
«Bambina, se non accetti l’offerta mi metteresti in una posizione
molto imbarazzante.» Sembrava leggermente nel panico.
Lottai contro l’istinto abituale di consolarla e mi decisi a non
cedere, ma mantenni un tono rispettoso. «Allora avresti dovuto
chiedermi cosa volevo io e ascoltarmi quando te l’ho detto. Voglio
supportare la pasticceria e l’attività di famiglia, ma detesto davvero
essere la Regina della torta alla banana. Pertanto continuerò ad
aiutare nei limiti del ragionevole.»
Rimase in silenzio per un attimo e quando parlò il suo tono di voce
era teso, frustrato. «Va bene. Qualcos’altro?»
«Sì. Non tornerò a lavorare finché non avremo definito il contratto
di lavoro.»
«Ma… ma tra poco sarà il Ringraziamento. Già adesso abbiamo
settecento ordini per la tua torta alla banana.»
«Allora immagino sia una priorità definire il mio contratto di lavoro.
Prima è, meglio è.»
Emise un suono strozzato.
E poi aggiunsi, senza perdere tempo: «E sono innamorata di
Cletus Winston.»
«Cosa? Cletus Winston, il meccanico? Quel sempliciotto?»
Strinsi le labbra per non ridere della sua valutazione di Cletus, e
parlai lentamente e scandendo le parole. «Amo Cletus Winston,
stiamo insieme e sono molto felice.»
«Oh buon Dio.»
«Lui è tutto quello che desidero.»
«Non so se posso accettarlo, bambina mia. Non… non so davvero
se posso.» Riuscivo a immaginarla strofinarsi la fronte. «Per questa
cosa qui, dovrai darmi un po’ di tempo.»
«Non c’è problema.» Alzai le spalle, perché non c’era davvero
problema. Se non avesse mai accettato Cletus, mi sarebbe stato
bene. Io l’avevo scelto per me, non per lei.
Eppure mi sentivo certa che una volta che avessero iniziato a
passare del tempo insieme e a conoscersi realmente, sarebbero
andati totalmente d’accordo. Mia mamma era determinata, scaltra e
decisa ed eccezionalmente intelligente. Come Cletus. La principale
differenze tra i due era che mia mamma non cercava di nascondere
la sua intelligenza e le importava di quello che pensavano gli altri.
A Cletus non importava per niente dell’opinione degli altri, a meno
che gli altri non fossero i membri della sua famiglia.
O non fossi io.
Feci un ampio sorriso.
«Forse,» iniziò mia mamma in un sospiro, «a noi tutti serve una
pausa. Tuo padre mi ha detto che mi serve una vacanza. Sta
cercando di convincermi ad andare in questa spa ad Asheville.
Voleva partire questo pomeriggio stesso.»
Mi tesi sentendo questa notizia. Non ero certa del perché volesse
lasciare la città, ma potevo indovinarlo. «Mamma.»
«Pensavo di aver cresciuto te e tuo fratello come si deve. Ma
chiaramente ho sbagliato qualcosa, perché Isaac non mi vuole
nemmeno parlare e tu scappi nel cuore della notte con il più strambo
del villaggio perché non ti piacciono più i vestiti gialli.»
Ignorai la sua grottesca e deliberata semplificazione della
situazione perché dovevo parlarle di mio padre. Di suo marito.
Meritava di saperlo. E dovevo dirglielo prima che lui intervenisse e le
riempisse la testa di bugie. Di ulteriori bugie.
«Ora ti dirò una cosa, e tu non mi crederai. Ma ci sono le prove.
Non ti sto mentendo ed è veramente importante che tu mi creda.»
Non avevo visto le prove, ma se Cletus sosteneva di averle, io non
dubitavo di lui.
«Jennifer, mi stai spaventando.»
«Forse è meglio se ti siedi.»
«Jenn, bambina mia, di qualunque cosa si tratti, io sono tua madre
e ti voglio bene. Certo, mi mandi ai matti quando ti metti addosso
quei jeans e a volte forse reagisco molto male. Ma è solo che sono
molto occupata a cercare di rimettere in piedi l’attività di famiglia.
Proprio non capisco perché non ti piacciono i tuoi bei vestitini, ma
immagino di poter accettare le tue scelte singolari, qualunque cosa
pur di averti nella mia vita. Sai quanto mi manchi tuo fratello. Non
capisco proprio perché non chiami mai.»
«Mamma, ascoltami, non si tratta di me.»
«E allora di chi si tratta?»
Presi un profondo respiro, lo trattenni nei polmoni e rivolsi una
preghiera al cielo. Pregai di avere la forza. Pregai che mia mamma
mi credesse, perché non meritava il tradimento di mio padre. Proprio
come io non meritavo i suoi maltrattamenti. Proprio come lui non si
meritava noi due.
«Si tratta di papà.» Parlai con calma, perché sapevo che da un
momento all’altro lei sarebbe scivolata nell’isterismo. «Si tratta di
papà e di quello che fa durante i week-end.»

Il senso di colpa mi faceva agitare sul sedile.


Era per via dei soldi. I soldi erano la causa del mio senso di colpa.
Non riuscivo a smettere di guardare il totale del mio conto. Ma ogni
volta che lo guardavo, sentivo aprirsi un buco nello stomaco.
«Smettila.»
Guardai con la coda dell’occhio Jethro Winston, al mio fianco, che
mi aveva portata in banca e ora mi stava riportando a casa della sua
famiglia.
Proseguì, sorridendo: «Smettila di agitarti per i soldi. Credimi,
riscuoterà ogni singola tortina alla crema di limone che ti ha pagato.
Non parla d’altro.»
Ripiegai in tre il foglio del saldo corrente e lo infilai nella mia borsa.
«È stata troppo generosa.»
«Non credo tu ti renda conto di quanto le nausee mattutine siano
state terribili per lei. Sta male in ogni momento. Ci scherza sopra,
ma io vedo quanto soffre.» Le mani di Jethro strinsero il volante e gli
angoli della sua bocca si incurvarono verso il basso. Le sofferenze
della sua futura sposa lo colpivano. «Le tue tortine al limone sono
l’unica cosa che l’aiutano. Io stesso ti darei un milione di dollari se
pensassi potesse servire.»
Non mi serviva un milione di dollari. Tra la generosità di Sienna e
l’accordo provvisorio che avevo stretto con mia mamma quella
mattina le mie borse straripavano.
La conversazione con mia mamma era andata sia meglio che
peggio di quanto avessi previsto. Meglio, perché aveva accettato di
pagarmi per il mio lavoro. Peggio, perché non mi aveva creduto
riguardo a mio padre. Aveva detto che mi sbagliavo, che ero
confusa, che lui non avrebbe mai fatto niente del genere e
dopodiché aveva chiuso la chiamata.
Ero tremendamente preoccupata per lei, per cui avevo deciso di
lasciarle un po’ di tempo, per tornare poi a riprendere il discorso.
«Sienna mi sembrava stare bene stamattina» dissi, cercando di
tranquillizzarlo.
Lui sbuffò una risata, scuotendo la testa. «È davvero una brava
attrice.»
Annuii, perché era davvero una brava attrice. Avevo visto tutti i
suoi film. Sienna Diaz piaceva persino a mia mamma, a cui non
piacevano i film. Era la fidanzatina anticonformista d’America.
Il fatto che la fidanzatina d’America fosse finita con Jethro Winston
era incredibile.
Certo, Jethro Winston era un bel vedere. Aveva occhi brillanti
verde scuro, un fisico alto e slanciato, una mascella decisa, barba
impeccabile, sorriso affascinante, tutte le carte in regola. Ma aveva
anche un passato pieno di ombre. Era rimasto coinvolto con gli Iron
Wraiths a un certo punto, e in giro si diceva che avesse rubato delle
macchine per il club. Io pensavo ne fosse diventato un membro, ma
poi avevo scoperto che era stato una recluta. Aveva lasciato il club
prima di diventare un membro a tutti gli effetti.
Dopo aver lasciato il club, aveva rigato dritto quanto una freccia.
Era sempre alla mano e calmo, non sembrava mai agitarsi. Non
l’avevo mai visto bere alcol. Mamma diceva che una volta trattava
male le donne, ma poi avevo sentito per caso Naomi Winters
raccontare alla moglie del reverendo che Jethro non era uscito con
una donna da quando aveva lasciato i Wraiths. La moglie del
reverendo aveva detto che abbandonare i Wraiths gli aveva salvato
la vita e che lui era cambiato per la sua mamma.
E se Jethro era riuscito a uscire dagli Iron Wraiths, cambiare la
sua vita e a riunirsi alla sua vera famiglia, questo mi faceva sperare
per mio fratello. Prima di poter riflettere troppo, chiesi: «È stato
difficile? Uscire dai Wraiths? Ti hanno complicato la vita? O potevi
semplicemente andartene?»
Le sopracciglia di Jethro schizzarono all’insù. «Uh….» cominciò,
poi prese tempo, si schiarì la gola, si agitò sul sedile e si accigliò.
«Perché vuoi saperlo?»
«Per via di mio fratello, Isaac. Ancora non è un membro. Volevo
solo sapere cosa si potrebbe fare o quanto sarebbe facile per lui
uscirne, se volesse uscirne.»
Il cipiglio di Jethro si tramutò in un’espressione di compassione.
«Jenn, detesto dovertelo dire, ma anche se volesse andarsene, non
sarebbe facile. A me non lo hanno reso facile e io sono uno dei
pochi che ci sia mai riuscito.»
«Grazie per la tua risposta sincera.» La sua affermazione
confermò le mie paure.
Mi rivolse un sorriso dispiaciuto. «Mi dispiace di non poterti dare
notizie migliori.»
«Va bene. Davvero. Immagino che… le persone debbano fare le
proprie scelte. Anche se non è quello che voglio per mio fratello, non
posso costringerlo a essere qualcosa di diverso. Deve essere fedele
a se stesso.»
Jethro mi strinse l’avambraccio. «Se dovesse cambiare idea, sarò
lieto di parlargli. Se vuoi.»
«Grazie. Molto gentile da parte tua.» Studiai il suo profilo e vidi
che era sincero. «Potresti parlargli dell’essere un ranger, di com’è.»
Mi lasciò il braccio e alzò le spalle. «Certo, potrei farlo. Ma ho
appena detto a Drew che la prossima primavera mi licenzio.»
«Cosa? Perché? Cos’è successo?»
«Il bambino, ecco cos’è successo. Quando nascerà, io rimarrò a
casa.» Il suo sorriso tornò e stavolta era enorme. «Sarà il papà a
rimanere a casa a occuparsi della famiglia», annunciò orgoglioso.
La mia bocca si spalancò dalla sorpresa, ma anche dall’emozione
per lui e Sienna. «Ma è fantastico! Sono davvero felice per te,
Jethro.»
«Grazie, Jennifer.» Divideva la sua attenzione tra me e la strada.
«Anche io sono molto felice per te.»
«Sei felice per me?»
«Già. Guardati. Non sembri proprio una Regina della torta alla
banana.»
Guardai i miei vestiti: delle vecchie pantofole di Roscoe, i jeans
con cui avevo dormito, la felpa di Harvard di Sienna. Dovevo avere
davvero un aspetto disastroso. E questo mi fece ridere.
«No. Immagino di non avere affatto l’aspetto di una Regina della
torta alla banana.»
«E il mondo è ancora in piedi.»
«Sì, è vero.» Alzai il mento con orgoglio e rivolsi la mia attenzione
al paesaggio che sfilava mentre riflettevo su cosa quello significasse.
Non ero la Regina della torta alla banana. Non vivevo con i miei
genitori – anche se tecnicamente non vivevo da nessuna parte – e
avevo abbastanza soldi da affittare un posto tutto per me. La mia
vita era iniziata, e questo per merito mio.
Oddio, tecnicamente era per merito dei Winston e di Sienna Diaz.
Ma li avrei ripagati molto presto.
La mia attenzione venne catturata da un casolare lontano dalla
strada, dipinto di bianco, con le persiane color blu marino e vasi ben
curati alle finestre, e allora strinsi il braccio a Jethro.
«Aspetta, gira qui.» Indicai il vialetto.
Lui frenò. «Qui? A casa di Claire?»
«Esatto, a casa di Claire.» Estrassi il cellulare e cercai il suo
nome.
«Certo, ma… perché ci fermiamo qui?»
«Perché,» premetti sul suo contatto e portai il cellulare
all’orecchio, «prenderò in affitto casa sua.»
Lui corrugò la fronte, alzando un sopracciglio. «Credevo volesse
affittarla Cletus.»
Scossi la testa, mentre la determinazione si dipingeva sul mio
volto. «Non se l’affitto prima io.»
“L’amore porta alla luce le qualità elevate e nascoste dell’amante, ciò che vi è
in lui di raro ed eccezionale. Così trae in inganno su ciò che rappresenta la
norma”
- Friedrich Nietzsche

Un piano rettificato iniziò a prendere forma. E, come da consiglio


di Ashley, prevedeva un ricatto.
Dopo una breve sosta a casa di Claire – e una chiamata ancora
più breve alla donna vera e propria – Jethro fu tanto gentile da
accompagnarmi alla pasticceria Donner per poter recuperare un
oggettino dal contenitore della farina senza glutine. Poi ci ricondusse
alla casa dei Winston.
Non ero nervosa. Ero impaziente.
Che diamine. Ero anche nervosa. Ma ero determinata.
Jethro insistette per portarmi in braccio in casa e io sapevo di
avere un aspetto disastroso, ma non avevo l’energia per pensarci.
Questioni molto più importanti richiedevano la mia attenzione.
Lui aprì la porta d’ingresso e trovammo Cletus che faceva avanti e
indietro davanti al caminetto. Alzò gli occhi. Quel giorno non erano
blu. Erano di un grigio-verde e apparivano stanchi. Soffriva. Quando
il suo sguardo si scontrò con il mio, sentii quella connessione in
fondo alla gola e tra le costole. Lo desideravo tanto da star male.
L’istinto mi spingeva a rassicurarlo, a dirgli che gli perdonavo tutto, a
tenerlo stretto a me e a scacciare il suo dolore a forza di baci. Ma la
ragione mi diceva di tirare le maledette redini. Primo, dovevamo
parlare di varie cose.
Poi ci saremmo baciati.
Poi ci saremmo baciati ancora.
«Ciao Cletus» salutò Jethro, assolutamente come se nulla fosse.
«Come stai?»
Cletus guardò il fratello stringendo le palpebre, poi attraversò la
stanza mettendosi davanti a noi.
Ignorando il sorrisetto del fratello, il che era un’impresa notevole,
visto quanto erano straordinari i sorrisetti di Jethro, Cletus si rivolse
a me. «Jennifer, posso portarti di sopra per parlare di quanto è
successo?»
Esitai. Non sapevo se fosse una buona idea restare da sola con
lui, almeno per il momento. Ma poi i suoi occhi si mossero sul mio
volto, inquieti e tormentati e adoranti. Dissi: «Sì, grazie».
L’ansia che gli segnava il volto sparì un poco, indugiava solo nel
suo sguardo ancora tormentato, ma per lo più adorante. Il mio cuore
palpitava dalla trepidazione. Nonostante stessi ancora tirando le
redini, bramavo comunque il tocco del mio uomo. Bramavo la
sensazione di lui, il suo calore, le sue mani e la sua bocca. Bramavo
tutto di lui. Bramavo lui.
Per cui, quando Jethro mi passò a lui non potei fare a meno di
accoccolarmi contro Cletus, infilando la fronte nell’incavo del suo
collo e inspirandolo. Quest’uomo apparteneva a me. Era mio. E mi
godetti ogni minuto del nostro tragitto fino al piano di sopra,
soprattutto perché quello che sarebbe venuto dopo, quello che
avevo pianificato, avrebbe potuto avere come risultato meno
contatto. Temevo le conseguenze, ma dovevo essere forte. Meglio
approfittare del contatto con lui subito, mentre ne avevo l’occasione.
In cima alle scale, invece di girare verso la stanza di Ashley, si
mosse nella direzione opposta, portandomi agilmente verso un’altra
porta e poi varcandola. La stanza di Cletus. Prima che potessi dare
voce alla mia obiezione, eravamo all’interno e io ero distratta dal
trovarmi nel suo spazio. Ogni cosa era ordinata e al suo posto, ma le
tracce di lui erano ovunque.
La mia attenzione fu attirata da una scacchiera vicino all’armadio,
sembrava essere stata abbandonata a metà partita.
«Non sapevo giocassi a scacchi.» Notai due serie di mosse che il
nero avrebbe potuto iniziare e che avrebbero dato scacco matto al
bianco.
Lui annuì distrattamente, posandomi gentilmente sul suo letto e
sollevando il cuscino contro la testiera, per poi incoraggiarmi ad
appoggiarmici. «Così va bene? Ti serve un altro cuscino? Hai sete?
Vuoi dell’acqua? O qualcos’altro? Ti andrebbe un tè? So che ti piace
il tè.» Voltò le spalle al letto e si diresse verso il suo armadio.
«Cletus, sono a posto. Ma credo che dovremmo...» Non finii la
frase. Non ci riuscii. Perché ero troppo confusa.
Cletus aveva iniziato a tirare fuori dei regali dall’armadio. Un
regalo dietro l’altro. Ognuno aveva una carta da regalo diversa ed
era chiuso con dei fiocchi ricercati. Lo fissai a bocca aperta, lui e la
pila infinita di regali. Quando ne ebbe posati almeno quindici sul letto
e sul pavimento al mio fianco, finalmente tornai in me.
«Cosa significa tutto questo? Cosa stai facendo?»
«Sono i tuoi regali di compleanno.» Ne mise altri due sul mio
grembo.
«Cosa?»
«I tuoi regali di compleanno. Mi sono perso il tuo compleanno, per
cui ecco.»
«Cletus, di cosa stai parlando? L’anno scorso non volevi
nemmeno conoscermi, perché avresti dovuto comprarmi un regalo?»
Lui si fermò a metà del tragitto dal letto all’armadio e si girò verso
di me, le mani sui fianchi. Parlò con tono profondamente irritato.
«Avrei dovuto. Avrei dovuto desiderare di conoscerti, e non solo
l’anno scorso, ma per tutta la tua vita. Mi sono perso tutti i tuoi
compleanni e mi dispiace. Avevo torto, non dovevo perdermi i tuoi
compleanni per ventidue volte, per cui ecco i tuoi regali.»
Lo fissai. In effetti, lo fissai a bocca aperta, sbalordita. Il mio
bellissimo uomo sembrava così tormentato, si capiva che aveva
passato l’ultima mezza giornata ad auto-flagellarsi.
Quando mi aveva scritto per messaggio che aveva torto, diceva
sul serio. Ci credeva veramente. E io credevo a lui.
Cletus si girò, andò all’armadio e recuperò altri tre pacchi regalo
incartati, la sua espressione era tirata dal dolore e traboccante di
auto-recriminazione.
Prima che si voltasse di nuovo, gli afferrai il braccio. «Aspetta.
Aspetta un momento. Davvero, smettila. Smettila di portarmi dei
regali, uomo dolce, terribile, esasperante, esilarante e intelligente.»
Per quando terminai la mia frase stavo ridendo e fui deliziata di
vedere che parte della sua infelicità era stata rimpiazzata da un
debole sorrisetto.
«Mi dispiace» disse, guardandomi con i suoi occhi tristi e grigi,
parlando con rochi sussurri. «Mi dispiace così tanto. Avevi ragione.
Non mi sono fidato di te.»
Spostai la mia presa sulla sua mano e intrecciai le nostre dita.
«Grazie. Grazie di esserti scusato.»
Cletus fece un sonoro sospiro e fece per sedersi di fianco a me,
ma rimase bloccato dalla moltitudine di pacchi incartati. Li guardò
accigliato. Usando la sua mano libera, li spazzò via dal letto.
«Nessuno è fragile» borbottò, rivendicando il suo posto, e mi attirò in
un abbraccio stretto.
Ci abbracciammo. Ed era la perfezione. Il suo corpo, il suo
abbraccio era dove avrei voluto stare per sempre.
Sperai che in futuro, ogni volta che avremmo litigato, avremmo
sempre messo fine alle nostre discussioni con un abbraccio.
Dopo un po’ di tempo, ma solo perché io stavo ancora tirando le
mie dannate redini e i cavalli si stavano facendo impazienti, mi
staccai da lui, solo per sentire immediatamente la mancanza delle
sue forti braccia. «Dobbiamo discutere di alcune cose.»
«Concordo.» Si sistemò sul letto, così che anche lui fosse con la
schiena contro il cuscino e mi accolse sotto il suo braccio. Mi baciò il
collo, attardandosi come se non volesse staccarsi dalla mia pelle.
«Ho molte cose da dirti.»
Mi fermai, accigliandomi, perché il suo tono mi sembrò sinistro.
«Aspetta, ci sono altre cose che non mi hai detto?»
Annuì, raddrizzandosi. «Non riguardo a tuo padre. L’ho ricattato,
questo è vero. Ma non gli ho fatto niente altro. Conosci già il mio
piano per attaccare la lebbra a Jackson James, che è in sospeso,
come avevo promesso, ma ho ancora un po’ di carne al fuoco.
Vediamo...»
«Aspetta. Fermati. Fermati immediatamente.»
«Come?»
Mi girai per poterlo guardare nei suoi occhi astuti. «Cletus, sei un
adulto. Non devi confessarmi niente a meno che non sia qualcosa
fatta per mio conto o a mio ipotetico vantaggio. Mi sono fidata di te e
ancora mi fido. Non sono il tuo confessore. Non posso assolverti.
Devi assumerti la responsabilità delle tue azioni e delle loro
conseguenze proprio come faccio io. Come fanno tutti.»
Lui si accigliò, con aria stupefatta, ma alla fine annuì.
Senza perdere tempo, aggiunsi: «Ora, se vuoi parlare della tua
giornata o dei tuoi piani per la lebbra, o di qualunque altra cosa, io
sono qui per te. Proprio come spero tu ci sarai per me quando vorrò
parlare della mia giornata».
«O dei tuoi piani per la lebbra.»
«Sì. O dei miei piani per la lebbra. Non c’è nemmeno bisogno di
dirlo.»
Cletus mi rivolse il suo primo vero sorriso e mi baciò rapidamente,
come se non potesse trattenersi. «Ti amo.»
Accarezzai col palmo la sua barba selvaggia, e gli avvolsi la
mascella. «E io amo te.»
Il suo sorriso crebbe, si scaldò, si incendiò e le sue mani su di me
strinsero la presa in un modo che mi sembrò sia istintivo che
possessivo.
«È la prima volta che me lo dici.»
«Lo so.» Il mio sorriso rispecchiava il suo. «Perché tu continuavi a
interrompermi.»
Gli occhi di Cletus scesero sulle mie labbra e disse, in un roco
sussurro: «Ricordami di smetterla di interromperti».
Io mi sforzai di ignorare il desiderio struggente nel mio petto,
l’anello di calore attorno al mio collo e mi impegnai a fondo per
assumere un tono serio. «Per favore, smettila di interrompermi,
perché ho una cosa importante da dirti.» Cercai di voltarmi verso di
lui per stargli più vicina, ma era una posizione scomoda. Per cui
sbuffai. «Potresti spostarti? Sì, così. Spostati lì così posso mettermi
a cavalcioni in braccio a te. Non riesco a vederti in viso.»
«Tanto per la cronaca, non rifiuterò mai una tua richiesta di sederti
a cavalcioni su di me.»
Scossi la testa a sentirlo, aspettai finché non si mise al centro del
letto e poi salii sul suo grembo e avvolsi le braccia attorno al suo
collo. «Così va meglio.»
«Davvero molto meglio.» Il suo tono era roco e mi fece correre un
brivido lungo la schiena, che lui inseguì con le sue mani.
Gli afferrai le dita mentre scendevano verso il mio fondoschiena e
le premetti contro i miei fianchi. «Come stavo dicendo, dobbiamo
parlare di alcune cose. Ne sono successe molte.»
«Concordo.» Annuì con un cenno del capo.
«E la notte scorsa mi hai ferita profondamente.»
Un cipiglio desolato scacciò via la sua vivacità. «Lo so. Cosa
posso fare?»
«Le tue scuse sono state d’aiuto. Grazie di esserti scusato.»
Deglutii, cercando di sopprimere le farfalle nel mio stomaco. Stargli
tanto vicino, in quella posizione, non era stata una buona idea. Gli
ormoni volevano farmi abbandonare il mio piano. Volevano correre a
briglia sciolta e scartare i miei regali, cominciando dal mio uomo.
Ma non potevo. Non ancora.
«Ecco come andranno le cose: me ne vado da casa dei miei
genitori, mi trasferisco da Claire...».
«Concordo.» Fece per baciarmi.
Mi abbassai, schivando la sua bocca. «Da sola.»
Si accigliò con severità, le sue sopracciglia si abbassarono in una
linea insoddisfatta. «Non concordo.»
Lo ignorai. «E ho parlato con mia mamma. Mi pagherà per il
lavoro che svolgo alla pasticceria Donner. Preparerò anche dolci per
Sienna mentre è incinta. Ho qualche idea fondata sulle tortine al
limone che le piacciono che potrebbe aiutarla.»
«Torniamo alla parte abitativa del piano.»
Lo ignorai ancora una volta. «Intendo mantenermi da sola,
preparando dolci o facendo qualunque altra cosa decida di fare.
Perché è giusto e normale che una donna di ventidue anni si
mantenga da sola.»
«Sì, ma...»
«Così come tu ti manterrai da solo. Perché è giusto e normale che
un uomo della tua età si mantenga da solo.»
Il suo cipiglio si tramutò in uno sguardo sospettoso. «Cosa vuoi
dire?»
«Dico che dobbiamo imparare a stare in piedi sulle nostre gambe
da soli,» incapace di trattenermi gli baciai il naso, «per poter stare in
piedi insieme, alla fine.»
Le sue labbra si appiattirono in un’altra linea insoddisfatta e il suo
sguardo stretto si fece ancor più marcato mentre rimuginava sulla
faccenda. «E se fossi contrario? Se volessi, tanto per dire, sposarmi
e iniziare ad avere bambini adesso?»
Gli rivolsi un sorriso indulgente e scossi la testa. «La risposta è
non ancora. Perché non siamo pronti. Io non sono pronta.»
«E se insistessi?» Le sue mani scesero più in basso, le sue dita
accarezzarono il mio fondoschiena. «So essere molto persuasivo.»
Io sorrisi, perché era vero.
«Non ti scoraggerò dall’usare ogni singola arma di persuasione
del tuo arsenale.» Lui si sporse in avanti per baciarmi e io schivai
nuovamente la sua bocca, portando un dito alle sue labbra. «Ma
devo avvertirti, al momento sono io in vantaggio.»
Il suo sopracciglio sinistro si alzò e un sorriso deliziosamente
monello si impossessò delle sue labbra. «Davvero? Come mai?»
Presi dalla tasca posteriore l’ultima chiavetta USB e la tenni tra
noi. Lui la guardò, poi guardò me, poi la chiavetta mentre il suo
sorriso svaniva piano piano.
«Quella notte, quando te le ho restituite, non ero riuscita a trovare
questa,» spiegai. «L’ho trovata la settimana dopo e intendevo
riconsegnartela quando, o se, ti avrei rivisto.»
«È...»
«Sì.»
Una cascata di emozioni scorreva nel suo sguardo. Prima che
potesse decidersi su un singolo sentimento, io staccai la sua mano
dal mio corpo e misi la chiavetta sul suo palmo. La confusione si
impadronì dei suoi lineamenti mentre con gli occhi seguiva i miei
movimenti.
«Tieni.» Aspettai che tornasse a guardarmi. «Ora nessuno è in
vantaggio sull’altro.»
Il cipiglio di Cletus persisteva mentre mi studiava, ma si tramutò in
qualcosa di diverso. Meno confuso, più pensoso. Più determinato.
«Ti sbagli. Tu sei in vantaggio, perché la mia donna straordinaria è
astuta e forte e gentile.» Si chinò lentamente in avanti, sostenendo il
mio sguardo finché le nostre labbra non si toccarono. Il bacio che mi
diede fu sia triste che dolce, rassegnato ed esultante e mi fece a
pezzi, per poi ricomporre il mio corpo con migliaia di piccoli
frammenti di desiderio struggente. Volevo premermi ancor più vicina
a lui. Le mie cosce si tesero sul suo grembo. Volevo vivere quel
bacio e toccare la sua pelle e crogiolarmi nel suo calore e nella sua
forza per l’eternità.
Quando le nostre bocche si separarono, io inseguii la sua. Ma lui
abbassò il mento al suo petto, finché le nostre fronti non si
toccarono. «Tu sarai sempre in vantaggio su di me, Jenn. Perché
senza di te, io sono perso.»
“Le ferite morali hanno questo di particolare: che si nascondono, ma non si
rimarginano; sempre dolorose, sempre pronte a sanguinare quando si
toccano, rimangono perennemente vive e aperte in fondo al cuore.”
- Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo

Forse mi stavo comportando da egoista. In effetti, mi stavo


comportando da egoista. Era troppo chiedere a una persona di
essere la mia salvezza, di insegnarmi come avere fede, di
controbilanciare la mia visione stanca del mondo con arcobaleni,
raggi di sole e giardinaggio in salopette, ma…
Beh.
Era troppo tardi per i dubbi. Ero innamorato di quella donna.
Pertanto, le sarebbe toccato restare con me. Ancora non era
pronta per il matrimonio e questo non era un problema. Avrei
aspettato. Forse le avrei chiesto di sposarmi una volta al mese
finché non avesse accettato, ma a parte questo sarei stato un
modello di virtuosa fermezza e pazienza.
Forse non virtuosa in senso stretto.
Anche una virtuosità sporadica sarebbe bastata, con frequenti
episodi di impertinenza e vizio… e con regali da scartare.
In più, anche alla mia famiglia sarebbe toccato restare con me.
Quindi, mentre Jennifer era ancora al piano di sopra a dormire
nella vecchia stanza di Ashley, il giovedì mattina, indissi una riunione
di famiglia.
«Chi ha preparato il caffè?» chiese Roscoe dalla cucina.
«Cletus.» Duane era seduto di fianco a me sul divano e
sorseggiava dalla sua tazza.
Roscoe uscì tranquillo dalla cucina, senza tazza. «Allora no,
grazie.»
«Non ci credo. Ora ti metti a giudicare Cletus e il suo caffè, proprio
ora?» Billy scoccò un sorrisetto beffardo al nostro fratellino.
Roscoe incrociò le braccia sul petto. «Non mi interessa cosa sta
passando. Io non lo bevo il suo caffè. Puzza di olio di pesce e
catrame.»
«Malgrado gli apprezzamenti per il mio caffè eccellente, ho
qualcosa di serio da discutere con tutti voi.» Mi sedetti sul bordo del
divano, volevo arrivare al punto.
Roscoe era arrivato la sera prima, a tarda notte, per tutte le
celebrazioni del matrimonio, che sarebbero dovute iniziare quella
sera, a partire dall’addio al celibato. Tutti i fratelli e sorelle Winston
erano presenti.
Avevo intenzionalmente escluso Drew perché, in quanto
guardacaccia forestale, faceva parte delle forze dell’ordine. Non
volevo che si trovasse in conflitti d’interesse. Era meglio lasciarlo
all’oscuro.
Era giunto il momento di condividere i miei proverbiali fardelli.
«Ti ascoltiamo.» Ashley bevve dalla sua tazza di caffè, leccandosi
le labbra. «Accidenti, questo caffè è davvero buono.»
Roscoe alzò gli occhi al cielo, ma ignorò nostra sorella.
Mi alzai e mi diressi al camino, per poi rivolgermi alla stanza
intera. «Devo parlarvi di due cose, a tutti voi. La prima è… una
situazione teorica e ho bisogno del vostro parere. Vorrei che tutti noi
votassimo.»
«Vuoi farci votare per una situazione teorica?» Duane, bevendo
anche lui il mio caffè, si accigliò guardandomi.
«Esatto.»
I miei fratelli si scambiarono una assortita varietà di sguardi, la
maggior parte a occhi sgranati, o per la confusione o per la
preoccupazione.
Billy, seduto nella poltrona preferita di nonna Oliver, ripiegò il
giornale che stava leggendo e lo mise da parte. «Ok, qual è questa
situazione teorica?»
Mi schiarii la gola, consapevole che questo era il giusto modo di
agire. Eppure, odiavo perdere il controllo. Odiavo passare la mano e
non avere un’idea chiara di cosa avrebbe portato il futuro. Ma le
parole di Jennifer del giorno prima mi avevano colpito nel profondo.
Mi ero preoccupato tanto di salvare i miei fratelli al punto da non
fermarmi a consultarli.
Cosa volevano loro?
«Poniamo che, in teoria, io stia rubando prove dall’ufficio dello
sceriffo che incriminano i membri di un certo club di biker e che
abbia posizionato tali prove in alcune collocazioni strategiche.»
La mia famiglia si scambiò nuovamente delle occhiate.
Beau fu il primo a parlare. «Cosa significa? Perché mai l’avresti
fatto?»
«Perché per accusare qualcuno di associazione a delinquere
bisogna dimostrare almeno due atti criminosi associati.»
Nella stanza scese il silenzio.
Le tazze di caffè di tutti si fermarono a metà strada dalle bocche,
le quali si spalancarono.
«Oh mio Dio!» Ashley mi fissò a bocca aperta: per metà sconvolta
e per metà fiera. «Cos’hai fatto?»
«Associazione a delinquere? Vuoi davvero distruggerli con
un’accusa di associazione a delinquere?» Billy sembrava indeciso
tra il ridere e il gridare.
«In questo scenario ipotetico, le prove rubate verrebbero trovate in
possesso di membri di basso rango del club dei biker, assieme a
liste estremamente dettagliate indicanti nomi, luoghi e fatti relativi
alla loro attività criminosa. Tutte le informazioni contenute in queste
liste sono assolutamente veritiere. Semplicemente sono state,
capite, ordinate accuratamente.»
«Li hai incastrati.» Duane mi rivolse un’occhiata assorta. «Hai
organizzato il loro caos, non è così? Hai fatto fare loro una figura
migliore così che ogni membro venga colpito dall’accusa di
associazione a delinquere.»
«E così verrebbero cancellati.» Roscoe mi guardò meravigliato,
poi sbuffò con una risata scioccata. «Con questo annienteresti
completamente i Wraiths. Chiunque sia collegato ai loro crimini
finirebbe in prigione con la stessa accusa.»
«Non sta parlando dei Wraiths. Si tratta di un ipotetico club di
biker» lo corresse Beau, ghignando. Poi rise. «Sono davvero
contento che non mi odi.»
I miei fratelli e mia sorella finirono per guardare nel vuoto, ognuno
immerso nei propri pensieri.
Io gli concessi un intero minuto per riflettere sulla questione. Ma
un minuto era il massimo che riuscissi a sopportare.
«Quindi,» esordii ad alta voce, strappandoli alle loro
contemplazioni, «votiamo.»
«Votiamo cosa?» Duane guardò Beau, come per assicurarsi di
non essersi perso niente.
«Voglio che voi tutti votiate per stabilire se debba o no portare a
termine questo piano. Tutti gli elementi sono al loro posto. Non mi
resta che fare una telefonata.» Osservai i presenti nella stanza, vidi
che avevano compreso la situazione. «Sta a voi decidere.»
«Sta a noi decidere?» Beau sembrava genuinamente perplesso.
«Da quando? Da quando sta a noi decidere?»
«Da quando si è innamorato e si è reso conto che ficcare il naso
negli affari degli altri ha un prezzo.» Jethro posò la sua tazza da una
parte e prese i suoi ferri da maglia. Notai che stava sferruzzando un
cappello per neonati: era giallo e dall’aspetto sembrava morbido.
«Isaac Sylvester» affermò Billy, attirando la mia attenzione su di
sé. «Non vuoi andare fino in fondo per via di Isaac.»
Scossi la testa e risposi con la verità. «No. Non è per questo. Lui
deve assumersi la responsabilità delle sue azioni e delle loro
conseguenze, proprio come devo fare io. Proprio come devono fare
tutti.» Citare Jennifer fu stranamente soddisfacente.
«Mi sembrano parole molto sagge.» Ashley socchiuse le palpebre
nella mia direzione, guardandomi con profondo sospetto.
«Allora perché sta a noi votare?» Duane il diffidente mi guardò
anche lui a occhi stretti per il sospetto.
«Perché sto facendo questo per tutti voi. A dire il vero, non è
totalmente corretto. Lo sto facendo per me, perché mi piacerebbe
vedere la faccia di Darrell quando realizzerà che tutto ciò a cui ha
mai tenuto è stato ridotto in cenere, ma lo sto facendo anche per
voi.»
Sei paia di occhi mi fissarono, ma fu Billy il primo a votare.
«Io voto sì. Distruggili.» Si alzò, fissandomi, con la mascella che
gli si contraeva. Il suo voto non mi sorprendeva.
«Anche io voto sì.» Fu Duane a esprimersi, scambiandosi
un’occhiata con Billy. «Spero brucino tutti all’inferno.»
«Io voto no.» Beau guardò Duane e me. «Lasciamo che le cose
seguano il loro corso. Se la legge ha delle prove contro di loro, che
le usino. Non voglio che nessuno di noi venga implicato. Lasciamo
che si scavino la fossa. Tutto questo non ha niente a che fare con
noi.»
«Concordo con Beau.» Ashley annuì. «Prima o poi si daranno la
zappa sui piedi. Non ha niente a che fare con noi. Non mi piace che
tu sia coinvolto, Cletus. E se finisse per ritorcersi contro di te?» La
preoccupazione nella sua voce mi scaldò il cuore. Amavo mia
sorella. Era un angelo. Un angelo bellissimo ed esasperante.
«Io sono contro.» Alla fine, parlò Roscoe. «Per tutte le ragioni che
Beau e Ashley hanno esposto. Inoltre, conosco alcune delle nuove
reclute. Sono andato al liceo con parecchi di loro. Non sono persone
cattive, sono solo smarriti. Non dovrebbero essere puniti per le
azioni di persone come Razor e Dirty Dave, quei due sono degli
psicopatici.»
Annuii, facendo un conteggio mentale. Duane e Billy erano a
favore del mio piano, Beau, Ashley e Roscoe erano contrari. Tutti
dovevano aver fatto il conto nelle loro teste, perché Jethro finì al
centro dell’attenzione dell’intera stanza. E lui doveva aver avvertito i
nostri sguardi, perché tirò un respiro profondo, però continuò a
tenere deliberatamente gli occhi sui suoi ferri.
«Jethro?» lo esortai. «Cosa voti?»
Scosse la testa. «Mi astengo.»
«Cosa?» ringhiò Duane, passando lo sguardo tra nostro fratello
maggiore e me. «Cosa significa “mi astengo”?»
«Significa che mi astengo. Non voto.»
«E perché diavolo no?» Di nuovo grazie per il tuo contributo,
Raggio di sole Duane.
«Perché il mio voto è decisivo.» La durezza e il fervore nella voce
di Jethro colsero tutti noi di sorpresa. Posò il suo lavoro a maglia e
guardò in cagnesco Duane, parlando a denti stretti: «E odio quei figli
di puttana molto più di voi. Più di ognuno di voi». Il suo sguardo volò
su Billy e lui lo sostenne. «Ma non permetterò all’odio di decidere per
me. Se votassi, voterei per distruggerli tutti. Per questo non posso
votare. Perché non sono più quell’uomo.»
Il silenziò aleggiava come una spada sulle nostre teste mentre
Jethro e Billy si guardavano in cagnesco a vicenda. Ma Billy fu il
primo a distogliere lo sguardo. «Va bene. Allora la decisione che
volevi è presa, Cletus.» Deglutì, poi si sedette sulla sua poltrona.
«Un pareggio significa che non vince nessuno.» Torsi le labbra da
un lato, valutando come procedere.
«Lascia tutto dov’è e basta.» Il suggerimento arrivò da Beau e tutti
rivolsero l’attenzione su di lui. «Lascia le prove dove sono, se puoi.
Poi, se ne avrai bisogno, se ti servirà qualcosa su cui far leva,
l’avrai.»
Jethro sbuffò una risata e scosse la testa. «Sai, Beau, sei molto
più simile a Cletus di quanto non dimostri.»
«Grazie.» Beau mi guardò sorridendo. «Alla luce degli ultimi
avvenimenti, lo prendo come un complimento.»
Il suggerimento di Beau non era male. Un’assicurazione contro i
Wraiths, contro la loro influenza e i loro abusi era una buona cosa.
Dovevo ancora incontrarmi con Repo per parlare dello spiacevole
incidente con Isaac dello scorso venerdì. Sapere che sarebbe
bastata una telefonata per distruggere l’intera organizzazione non
era un vantaggio da poco durante le trattative.
Quando sarebbe giunto il momento di effettuare quella chiamata –
e io avevo una certa convinzione che prima o poi quel momento
sarebbe giunto – doveva essere quello giusto. Ora, avevo altro da
considerare. Avevo Jennifer, la mia Jennifer. Non potevo continuare
a manipolare le persone senza preoccuparmi delle conseguenze.
Non volevo che le mie macchinazioni potessero avere effetti negativi
per lei.
Era lei la mia priorità.
«Qual era la seconda cosa?» chiese dolcemente Ashley, con le
sopracciglia alzate in attesa.
La seconda cosa?
La seconda cosa.
Chiusi gli occhi per un momento, lasciando che l’improvvisa
ondata di dolore mi travolgesse e poi si ritirasse. Ma non si ritirava.
Mi serviva altro tempo per prepararmi. La prima cosa – i Wraiths e la
loro rovina – era stata quella facile. Questa… era quella complicata.
«Cletus?» insistette Ashley, con tono preoccupato.
Non avevo più tempo. Era giunto il momento.
Aprii gli occhi. Non li sollevai oltre il tappeto, non riuscii.
«Darrell Winston aveva una terza famiglia.»
Come previsto, la notizia fu accolta da un vuoto totale di shock. Il
silenzio era talmente assoluto da risultare assordante e mi spinse a
parlare.
«Darrell aveva un altro figlio.»
Da Ashley provenne un rumore, un rapido respiro, ma niente di
più.
Continuai, sorpreso da quanto le parole fossero difficili da
pronunciare. «Si chiamava Eric ed è morto. È morto di cancro. L’ho
scoperto due anni fa, dopo la sua morte. Ho pensato che voi tutti
dovevate saperlo.»
Stranamente, mi bruciavano gli occhi. Ed era strano perché non
avevo mai pianto una sola lacrima per la perdita del fratello che non
avevo mai conosciuto. Non ero contrario al piangere. Solo non lo
facevo spesso. Avevo pianto quando mamma era morta. Le grida e i
singhiozzi erano stati catartici finché poi non lo erano stati più. Per
cui avevo smesso.
Ma per Eric, non mi era sembrato giusto piangere la sua
scomparsa. Non era mai stato un mio dolore. L’avevo perso, tutti noi
l’avevamo perso prima ancora che sapessi della sua esistenza.
Un movimento che vidi con la coda dell’occhio attirò la mia
attenzione e alzai lo sguardo, per trovare Duane che mi veniva
incontro. Inaspettatamente, mi strinse in un abbraccio. Dopo un
breve momento feci per allontanarmi, ma lui mi strinse più forte, mi
abbracciò più stretto e non aveva intenzione di lasciarmi.
Jethro fu il secondo ad alzarsi e venire verso di noi, assieme a
Roscoe e Ashley. Le loro braccia si avvolsero attorno a noi. Ashley
seppellì il capo contro il mio collo e inspirò, come se volesse sentirmi
e trattenermi nei suoi polmoni per confermare che ero ancora lì, vivo.
Beau e Billy si unirono subito dopo, Billy mi arruffò i capelli e mi
strinse la nuca, attirando la mia attenzione su di lui. I nostri occhi si
incontrarono e per poco non crollai, perché avevo visto delle foto di
Eric e lui assomigliava a Billy. E assomigliava ad Ashley.
Assomigliava alla mia famiglia, a un fratello.
Guardando il fratello che amavo, per quanto cercassi di ignorare e
scacciare il dolore con la ragione, realizzai di aver perso un fratello.
Tutti noi l’avevamo perso.
Roscoe fu il primo a singhiozzare. Quel suono inaspettato fece
nascere una risata soffocata dalle nostre gole.
«Ooh, vieni qui.» Ashley si staccò dal gruppo e chiuse Roscoe tra
le sue braccia. Anche lei singhiozzava.
«Queste sono delle notizie di merda, Cletus» osservò Duane,
facendoci ridere tutti di nuovo. «Quando ti deciderai a darci delle
buone notizie?»
Billy gli rivolse un sorriso piccolo e indulgente, poi spostò gli occhi
su di me. «Altri segreti, Cletus?»
Mi fermai, sostenendo il suo sguardo indagatore, mi dibattei
internamente su come rispondere.
Amavo la mia famiglia e mi mancava mamma. Mi sarebbe
mancato Duane quando sarebbe partito. Mi mancava il fratello che
non avevo mai conosciuto. Alcuni fardelli erano fatti per essere
condivisi, i fardelli della perdita e dell’amore.
Ma altri no, non erano fatti per essere condivisi.
Alla fine, scossi la testa. «Nessuno che voglia condividere.»
Ed era la verità. Ripensai ai miei buoni amici all’ufficio dello
sceriffo, gli agenti Dale ed Evans e alle macchinazioni che avevo
ordito per assicurarmi di tenere sempre in pugno Darrell Winston. Il
suo destino dipendeva dai miei capricci, com’era giusto che fosse.
Avevo permesso ai miei fratelli di votare sul destino dei Wraiths e
avrei rispettato la loro decisione. Volevo distruggere i Wraiths per la
mia famiglia.
Ma distruggere Darrell Winston… quello lo volevo fare per me.

Nessuno si aspettava un Navy Seal spogliarellista di ottantacinque


anni. Nessuno. Ed era questo il bello di George.
Tuttavia, a ogni azione corrisponde una reazione, e pertanto quel
giorno, ovvero il giorno dopo l’addio al celibato di Jethro, i miei fratelli
non mi rivolgevano la parola. Tutti i partecipanti dell’addio al celibato
erano giunti, collettivamente, a un tacito accordo: io ero il nemico.
Pertanto avevo deciso di levarmi dai piedi.
Jenn aveva passato l’intera giornata di ieri a preparare la torta
nuziale di Jethro e Sienna. Poi aveva passato l’intera serata all’addio
al nubilato di Sienna. Quando la incontrai che leggeva un libro nella
biblioteca di mamma, venerdì mattina, sembrava di buonumore.
Jenn era rimasta nella nostra magione nella vecchia stanza di
Ashley, ma ieri, prima delle feste, mi aveva detto che era
intenzionata a trasferirsi al più presto a casa di Claire, idealmente
entro quella stessa sera.
Partiti la mattina presto, facemmo un salto all’officina per prendere
il Ford 360 a cui di solito attaccavamo il carrello per rimorchiare le
auto. Passammo la giornata a Knoxville a comprare quanto serviva
per la sua nuova casa, compreso qualche mobile nuovo. Claire si
era portata via circa un quarto delle sue cose quando si era trasferita
a Nashville, durante l’estate, lasciando indietro arredamenti
ingombranti come il tavolo della cucina e le sedie, un grande divano
e una poltrona reclinabile enorme. Nella casa mancavano solo un
materasso e un letto, una cassettiera e dei comodini.
Jenn, acquirente efficiente, sapeva già esattamente cosa voleva e
quanto spendere. Io lottai contro la tentazione di pagare di nascosto
i suoi acquisti. Volevo essere di supporto per lei e parte dell’essere
di supporto, per me, includeva provvedere al supporto materiale. Ma
quando vidi quanto piacere provava all’acquistare cose con i suoi
soldi non mi misi a discutere.
Non avrei potuto.
La faceva felice.
Per cui imparai a esserle di supporto in un altro modo.
Dopo aver lasciato il mobilio da Claire, ora casa di Jenn, ci restava
ancora del tempo. Jenn suggerì di andare al Daisy’s Nut per uno
spuntino pomeridiano, anche se dovevamo fare attenzione a non
rovinarci l’appetito per la cena di prova con gli sposi che ci aspettava
dopo qualche ora. Una fetta di torta o un paio di ciambelle da Daisy
sembravano assolutamente perfette.
«Posso dirti una cosa buffa?» Jenn salì sullo sgabello vicino il
bancone e io chiamai la cameriera con un gesto.
«Quanto buffa?» chiesi, rimanendo in piedi.
«Perché?»
«Perché ho un po’ bisogno di andare nel bagno e non voglio
farmela sotto.»
Jenn rise, accartocciando il volto verso di me come se mi
mancasse qualche rotella, e mi piacque. «Vai in bagno, allora,
pazzoide. Ti ordino io la torta.»
«Prendi anche qualche ciambella. Non riesco a decidere quale
voglio.»
«Va bene. Torta e ciambelle.» Mi scacciò con un gesto, spostando
il sorriso e l’attenzione sulla cameriera che si era avvicinata per
prendere il nostro ordine.
Io sbrigai in fretta le mie faccende e, dopo essermi lavato le mani,
mi girai per uscire ma fui costretto a fermarmi di botto. A dire il vero,
fui costretto a fare un passo indietro.
«Cletus Winston.» Repo mi rivolse un sorrisetto viscido, o almeno
quello che lui pensava essere un sorrisetto viscido. Ultimamente i
suoi sorrisi sembravano forzati. Ciononostante, forzato o no, il suo
sorriso era sbilenco, incorniciato dalla sua barba sale e pepe e
l’incurvatura della bocca mi ricordò molto Jessica James.
La mia attenzione volò fra i tre che avevano appena invaso il
bagno degli uomini. Repo, Catfish e Dirty Dave – tre dei più
importanti e potenti membri degli Iron Wraiths – mi bloccavano la
strada, impedendomi di raggiungere la porta del bagno.
Jennifer.
Il mio primo pensiero andò a Jenn, seduta da sola al bancone, la
preoccupazione per la sua incolumità si impennò e mi spinse a
valutare rapidamente le mie possibilità di battermi contro i tre uomini
contemporaneamente. Ma poi la ragione prevalse.
Il Daisy’s era un luogo estremamente frequentato. Se non
ricordavo male, e questo non succedeva mai, il diner era pieno per
tre quarti di clienti. La mia donna era al sicuro, a meno che questi tizi
non fossero diventati disperati.
«Zio Repo» risposi allegramente, ricambiando il suo sorriso, ma il
mio non era né sbilenco né viscido, né genuino. «Credevo
dovessimo vederci la prossima settimana.»
«Bisogna saper cogliere l’attimo, Cletus. Me l’ha insegnato tuo
padre.»
«Catfish vuole regolare i conti per quello che hai fatto alla faccia
della sua recluta.» L’annuncio allegro di Dirty Dave mi fece lanciare
un’occhiata a Catfish. L’omone sembrava incazzato.
Io annuii con un singolo cenno del capo, un cenno austero, e mi
accarezzai la barba. «Se dobbiamo parlarne adesso, allora così
sia.»
«Non credo ci sarà bisogno di tante chiacchiere» si intromise
Repo. «Solo occhio per occhio e quella roba là. Peccato. Hai sempre
avuto un bel faccino.»
«Certo, certo.» Annuii amabilmente. «In tal caso, dov’è la vecchia
signora di Catfish? Così posso maltrattarla e darle della troia.»
I tre uomini sobbalzarono, accigliandosi verso di me e
scambiandosi occhiate.
«Come, scusa?» chiese Catfish con la sua voce profonda da
baritono, guardandomi sconvolto come se mi fossero appena
spuntate corna caprine.
«Se vogliamo regolare i conti per davvero – occhio per occhio e
tutto il resto – allora facciamolo come si deve. Isaac Sylvester ha
afferrato la mia donna, l’ha scossa e poi le ha dato della troia. Per
cui l’ho mandato al tappeto. Ora,» mi strofinai le mani, «sono pronto
a incontrare il pugno di Catfish, ma facciamo le cose come si
devono.»
Repo mi guardò accigliandosi, i suoi occhi si mossero su di me
come se cercasse di stabilire la verità della mia affermazione, poi si
volse verso Catfish. «Cos’è questa storia?»
Catfish scosse la testa, sembrando tanto sorpreso quanto Repo.
«Twilight non ha detto cos’è successo…»
«Certo che no, non può muovere la mandibola con quell’aggeggio
che gli hanno messo.» Dirty Dave si grattò la mandibola, come se
soffrisse per solidarietà.
Catfish continuò: «Ma Tina non ha detto niente di questa storia».
«Tina non ne ha fatto parola perché a Tina interessa solo di Tina.»
Alzai le spalle.
Repo mi lanciò un’occhiataccia percorrendo la mia intera figura.
«Stai dicendo che la ragazza della torta alla banana...»
«È la regina, non la ragazza.»
Sbuffò impaziente. «Sua maestà delle banane è la tua donna?»
Gli rivolsi un rimbalzo affermativo della testa.
I tre uomini si scambiarono degli sguardi, comunicando
silenziosamente attraverso le palle degli occhi. Stavolta non mi
dispiacque.
Poi Catfish puntò gli occhi su di me. «Se le cose stanno così, se
questo è vero, non c’è niente da regolare. Nessuno tocca la mia
donna e le dà della troia. Mai.»
Ed eccola lì, la lealtà.
Studiai quell’omone, sorpreso e impressionato dalla sua
ragionevolezza. Forse non saremmo mai stati amici o nemmeno in
buoni rapporti, ma riuscivo a capire il desiderio di appartenere a
qualcosa di più grande, di avere fratelli, persone che ti erano leali e
che ti guardavano le spalle.
All’improvviso, la decisione presa dalla mia famiglia, quando
avevo messo ai voti il destino degli Iron Wraiths, mi sembrò quella
giusta. Questi tizi erano dei criminali. Non erano tutti malvagi, ma
facevano brutte cose. Se avessero minacciato me o la mia gente,
allora avremmo avuto i mezzi per difenderci. In caso contrario, allora
sarebbero state le loro scelte a determinare la strada su cui si
trovavano, assieme a tutte le insidie del loro cammino.
Repo annuì lentamente, passando lo sguardo tra me e Catfish.
«Allora immagino sia ora di andarsene.» Dirty Dave mise il
broncio, girandosi per aprire la porta del bagno e uscendo
sbuffando. Chiaramente gli prudevano le mani, ma a Dirty Dave
prudevano sempre le mani.
Con una mossa assolutamente antitetica rispetto alla tensione di
poco prima, Catfish mi rivolse un altro cenno del capo e seguì Dave
fuori dal bagno degli uomini, lasciandomi lì a contemplare la sua
schiena da omone e il misterioso caso della scomparsa dei suoi
istinti omicidi.
Repo fece per seguirlo, ma una teoria che avevo da qualche anno
mi spinse a richiamarlo. E un’idea.
«Repo, prima di andare...»
Lui girò il busto per guardarmi, con una domanda dipinta nel suo
volto solitamente sfuggente, con la presa sulla maniglia continuava a
tenere la porta socchiusa. Lo studiai più attentamente, notando la
forma dei suoi occhi, le linee del suo naso e mento.
Basandomi su questa intuizione, dissi: «Jessica James parte per
l’Italia la prossima settimana».
Lui sussultò. Fu un movimento appena percettibile, ma io me
l’aspettavo, per cui lo notai.
«Parte per girare il mondo. Lei e Duane, staranno via un bel po’.
Non sanno quando torneranno.»
Repo lasciò chiudersi la porta e si girò completamente verso di
me, i suoi occhi scuri ridotti a due fessure e alzò il mento: «Perché
me lo stai dicendo?».
Scossi la testa. «Non lo so. Forse mi sento magnanimo.»
La sua occhiataccia si intensificò.
«Ok, forse voglio un favore» mi corressi.
«Perché dovrei farti un favore in cambio di notizie su… sulla
signorina James?»
Un lento ghigno si aprì sul mio volto e io guardai il vecchio
deglutire. «Tu sai perché.»
Qualcosa lampeggiò dietro i suoi occhi, ma non disse nulla.
Considerando il suo silenzio come un tacito assenso, annunciai:
«Voglio che Isaac Sylvester vada a trovare sua sorella, si scusi per il
suo comportamento ripugnante e sia gentile con lei».
Repo mi fissò, aspettando il prosieguo. Quando non arrivò, si
accigliò. «E basta?»
«E basta.»
Scosse la testa lentamente. «No. Non è finita qui. Hai qualche
asso nella manica. Tu hai sempre qualche asso nella manica.»
Mi portai la mano al petto come se la sua accusa mi avesse ferito.
«Zio Repo!» E poi aggiunsi con un cenno del capo pieno di
deferenza e finta sincerità. «Così mi fai arrossire.»
Lui fece un sorrisetto, guardandomi a occhi stretti e si girò verso la
porta. «Vedrò cosa posso fare.»
Dopo la cena con gli sposi e la famiglia, durante la quale i miei
fratelli continuarono a ignorare la mia esistenza, portai Jennifer a
casa.
Casa.
Il pensiero mi affliggeva. Quella notte l’avrei lasciata lì. Lei
sarebbe rimasta e sarebbe stata a casa sua.
La scorsa settimana, a un certo punto, io avevo smesso di
considerare la magione Winston come casa. Non lo era più. Non
quando la mia donna risiedeva da un’altra parte.
Per quanto volessi che la sua casa fosse anche la mia, se Jenn
doveva proprio vivere da un’altra parte, ero contento che avesse
scelto la casa di Claire. Era praticamente una fortezza.
Jethro e il signor McClure, il suocero di Claire, si erano impegnati
a rendere la casa sicura. Aveva due stanze di sicurezza, una per
piano, un allarme e un sistema di sorveglianza con tre meccanismi di
backup e solo tre punti di accesso. Ogni finestra della casa poteva
resistere a qualunque cosa, da un uragano a un proiettile. Erano
infrangibili. Tutte le porte che davano all’esterno avevano dei
catenacci ed erano in acciaio, così come gli infissi.
Mentre guidavo pensavo queste cose, finché Jennifer non ruppe il
silenzio con un annuncio pronunciato a voce bassa. «Mia mamma
mi ha chiamata durante la cena. Per questo mi sono allontanata un
attimo.»
Divisi la mia attenzione tra il suo profilo e la strada. «Davvero?»
Sapevo che aveva ricevuto una chiamata, ma non da chi.
«Sì.» Jenn annuì, tirando fuori il cellulare. «Ti ho detto che le ho
parlato mercoledì? Che le ho detto che non sarei tornata al lavoro
finché non avessimo concluso un contratto? E che le ho detto di mio
padre?»
«Sì.» Mi preparai al peggio, perché la sua voce sembrava
addolorata.
«Lunedì mi manderà il contratto per farmelo rileggere. E ha deciso
di lasciare mio padre.»
Arrivammo a un semaforo e approfittai dell’opportunità per
guardarla con più attenzione. Rovinare suo padre era ancora una
mia priorità. Qualunque cosa sarebbe servita a Diane Donner-
Sylvester per fare in modo che Kip non vedesse un solo centesimo
della fortuna della famiglia Donner, l’avrei fatta. Questa notizia, che
sua mamma stava lasciando quell’uomo, era un buon inizio.
«Cosa posso fare?» chiesi, sentendo il bisogno di aiutare, di far sì
che stesse meglio.
I suoi occhi straordinari brillarono nell’oscurità. «Solo amarmi.»
«Contaci.»
Restammo in silenzio per un momento e io svoltai sulla strada di
casa sua. Poi Jennifer osservò, con filosofia: «Voglio che tu sappia
che non sono più arrabbiata con te per aver ricattato mio padre e
aver cercato di controllare la situazione. Ma sono contenta che lui
me l’abbia detto. Sono contenta che lui abbia pensato che tu stessi
bluffando. Perché ora sono libera da lui».
Le sue parole mi colpirono dritto al cuore. Sbattei le palpebre,
spiazzato e aggiustai la mia presa sul volante.
«Sono contento che tu sia libera da lui» concordai, «ma vorrei
avertelo detto sin dall’inizio lasciando a te la scelta, invece di cercare
di compierla io per te.»
La sorpresi a sorridermi con la coda dell’occhio. «Lo so. E io vorrei
smettere di sentirmi in obbligo verso un uomo che mi ha trattata
male per tutta la vita.»
«Passerà, prima o poi» dissi con sicurezza, perché lo sapevo per
esperienza. Non avevo sempre detestato mio padre e di sicuro non
mi sentivo in obbligo verso quel bastardo, ora.
«Lo spero.»
Mi agitai sul sedile e misi la freccia, entrando nel suo vialetto.
«Uhm, tra l’altro, volevo dirtelo prima da Daisy, ho parlato con Repo
e Catfish a proposito di Isaac.»
«Chi sono Repo e Catfish?»
«Due pezzi grossi degli Iron Wraiths.»
«Hai parlato davvero con loro?»
«Sì. I Wraiths non intendono vendicarsi per quanto successo
venerdì scorso. Non più. Per cui quella questione è chiusa.»
«Bene.» Sembrava sollevata e io fui lieto di aver cancellato ogni
preoccupazione ancora presente nella sua mente riguardo a
quell’episodio.
«Hai detto che volevi sapere quando o se avrei fatto qualcosa a
tuo nome, per cui devo dirti un’altra cosa.»
La sua mano scese sul mio ginocchio, calda e confortante. «Oh?
Cos’hai fatto?»
«Ho richiesto che Isaac passi a farti visita, si scusi per il suo
comportamento odioso e faccia un tentativo di riparare alle sue
offese.» I miei occhi balzarono nei suoi mentre parcheggiavo davanti
casa di Claire, ora casa di Jennifer.
Lei fissava verso di me, ma dubitavo che mi vedesse davvero.
«Se Isaac avesse voluto conoscermi, Cletus, allora sarebbe
venuto da me già da tempo.»
Il suo dolore palpabile mi fece venire voglia di pestare a sangue
Isaac Sylvester. Di nuovo.
«Forse» dissi, «o forse no. Forse si è smarrito e ha bisogno
dell’amore di una brava donna che lo aiuti a smettere di prendere
decisioni stupide.»
Le sue labbra si incurvarono in un sorriso e mi punzecchiò:
«Intendi come me e te?».
«Esattamente.» Le coprii la mano sul mio ginocchio e la feci
risalire lungo la mia gamba.
Con le labbra schiuse dalla sorpresa, Jenn inarcò le sopracciglia
di scatto e mi rivolse un ampio sorriso, visibilmente deliziata.
«Entriamo.» La sua voce era lievemente arrochita. Questo mi
piacque.
«Mi sembra un’ottima idea.» Balzai fuori dal sedile del guidatore,
con il suono della sua risata che mi inseguiva, e corsi fino all’altra
portiera.
Aiutai Jenn a scendere dall’auto, feci un passo in avanti e la
sollevai tra le braccia.
«Cletus.» Mi sorrise e si accigliò contemporaneamente, scuotendo
la testa e passando un braccio attorno al mio collo. «I miei piedi
stanno bene.»
I piedi di Jennifer erano quasi guariti, ma intendevo comunque
usarli come scusa per portarla in braccio ovunque, ogni qualvolta
potessi. Tenerla tra le braccia era uno dei miei stati preferiti in cui
essere.
«Meglio non correre rischi. Tira fuori le chiavi.»
Lei prese le chiavi dalla borsa e appoggiò la testa sulla mia spalla
mentre salivo le scale.
«È sicuramente stata una serata interessante.»
Annuii d’accordo, ma dissi: «Non è ancora finita». Mi piegai
appena per farle sbloccare le serrature di sicurezza.
Una volta aperto tutto, oltrepassammo la soglia, io spinsi la porta
con il piede e lei richiuse le serrature. Poi si sfilò anche le scarpe.
«Dove ti porto ora?» chiesi, girandomi a sinistra e a destra. «In
cucina? O in salotto?»
«Avrei voglia di stendermi» Jenn si accoccolò più stretta a me,
avvolgendo entrambe le braccia attorno al mio collo e baciandomelo.
«Che ne dici della camera da letto?»
Non dovetti farmelo ripetere due volte.
La portai su per le scale e nella sua stanza, e accesi la luce. Lei
sospirò, continuando a posare altri baci sul mio collo, una delle sue
mani si spostò ai bottoni della mia camicia e slacciò i primi tre. Lei
indossava un vestito blu che sembrava un lungo maglione, ma era
aderente. Abbracciava le sue curve perfettamente ed era tutta la
sera che mi faceva impazzire.
«Questo vestito» dissi, posandola delicatamente coi piedi in terra
davanti al suo letto, «chiede di essere tolto.»
«Davvero?» Alzò il capo sorridendomi, nel frattempo continuando
a occuparsi dei bottoni della mia camicia.
«Davvero.» Mi accigliai guardando il tessuto, incerto su come
procedere perché non avevo notato alcuna cerniera.
Lei mi baciò la clavicola, spingendo via la mia giacca e lasciandola
cadere per terra. Poi iniziò a tirare la mia canottiera.
«Cletus, mi manca il tuo tocco» sussurrò, premendo il corpo
contro il mio e sfiorandomi le labbra con le sue. «Non vuoi
toccarmi?»
Annuii, ipnotizzato ed estasiato come al solito da quella donna.
Infilai le mani sotto la sua gonna, godendo della pelle di seta delle
sue cosce. Jennifer sollevò le braccia e io colsi il suggerimento, e le
tolsi il vestito come si fa coi maglioni, facendoglielo passare sopra la
testa.
A questo punto, Jenn era in piedi di fronte a me in mutandine e
reggiseno, una tentazione sublimemente appetitosa.
Prima di poter ordinare esplicitamente al mio cervello di farlo, le
avevo slacciato il reggiseno e mi ero chinato ad assaporare i suoi
seni, riempiendomi la bocca con uno e la mano con l’altro. Strinsi e
massaggiai la sua pelle perfetta, tirando e torcendo il suo capezzolo.
Lei gemette, il respiro le si spezzò, e quel suono iniziò a farmi
perdere la testa. Jenn infilò le dita tra i miei capelli, premendo contro
la mia nuca, inarcandosi per arrivare più vicina.
Eravamo soli. Nella sua casa. E io la desideravo. Davvero davvero
tanto.
I polmoni mi bruciavano e le vene pulsavano da quanto la
desideravo, da quanto desideravo quella donna. La mia donna.
In momenti come quello, era difficile non approfittarne. In momenti
come quello, i miei istinti primitivi lottavano per prendere il controllo,
spingendomi a provocarla, a sfruttare il vantaggio della mia
esperienza finché non avesse implorato di darle sollievo e riempire il
suo desiderio.
Io volevo ogni centimetro del suo corpo perfetto. Il mio
autocontrollo iniziava a vacillare, mi stavo convincendo di averne
bisogno. Di avere bisogno di lei, di possederla, di farla mia. Quel
bisogno mi avvolse e mi soffocò…
«Ti amo» sospirò mentre le sue mani scivolavano sotto la mia
maglia. Passò il palmo dal petto fino al mio stomaco, incurvando le
dita nella cintura dei miei pantaloni.
Le sue parole, la sua confessione d’amore, mi fecero tornare
lucido. Fermai i miei movimenti, in attesa che la mia frenesia
avventata passasse.
La sua casa non era la mia casa. Lei non era pronta. Non ancora.
Forse desideravo possederla, ma non ne avevo bisogno. Avevo
bisogno di amarla, non di possederla. E a lei serviva il mio amore,
non i miei inganni. Non il mio controllo.
Per cui feci un profondo sospiro. Non la possedetti. Non le feci
pressioni.
Invece, la feci sdraiare sul letto, tirando l’ultimo brandello di
tessuto rimasto lungo le sue gambe, e lasciandola nuda e
vulnerabile e bellissima e tremante.
Alzai il mio sguardo avido dal suo corpo, questo corpo che
agognavo con cruda disperazione, e incontrai i suoi occhi
straordinari. Mi inginocchiai sul pavimento davanti a lei, le allargai le
gambe, e fui testimone della meraviglia della sua fiducia.
E poi l’amai.
“La verità di un uomo è innanzitutto ciò che nasconde.”
- André Malraux

Fu una bellissima cerimonia.


Jethro, cosa che non sorprese, non era nervoso. Il mio fratello più
grande non era un tipo nervoso. Ma si commosse quando Sienna
arrivò all’altare. Diamine, ci commuovemmo tutti.
Fece la sua apparizione sul limitare del campo di fiori selvatici,
tutta in ghingheri in una nuvola di vestito bianco, con l’aspetto di un
angelo. Sienna era bellissima e il modo in cui guardava mio fratello
la rendeva ancora più bella.
Fece tre passi verso l’altare e i miei occhi volarono su Jenn.
La mia Jenn.
La mia Jenn non mi stava guardando. Guardava Sienna con un
enorme sorriso felice in volto, per cui non mi vide mentre la fissavo e
immaginavo il giorno delle nostre nozze. Immaginai il momento in cui
sarebbe apparsa, tutta in ghingheri in una nuvola di vestito bianco,
con l’aspetto di un angelo. O forse saremmo scappati per sposarci,
solo io e lei. Magari in Alaska, dove avremmo tenuto la cerimonia
ristretta sotto un cielo sorprendente. Sinceramente, non mi
importava.
Forza d’animo virtuosa, mi ricordai. Pazienza. I due promemoria
mi resero scontroso, per cui mi concentrai sulla magnifica cerimonia
e sulla felicità di mio fratello.
Una volta pronunciati i Sì, lo voglio, iniziarono i festeggiamenti.
Andai in cerca di Jennifer non appena il gruppetto delle damigelle e
dei testimoni arrivò dove si sarebbe tenuto il ricevimento.
Una grande tenda era stata eretta sul retro della proprietà, con
un’enorme pista da ballo che copriva un’ampia area sia sotto che
fuori dalla struttura temporanea. Piatti tradizionali messicani e piatti
casalinghi tradizionali del Tennessee erano fianco a fianco sul buffet,
assieme a dei piatti vegani per quei lunatici che non mangiavano
carne.
La buona notizia fu che trovai Jenn quasi immediatamente. La
cattiva fu che stava parlando con Jackson James.
Tornai a sentirmi scontroso e anche peggio. Iniziai a calcolare una
traiettoria per intercettarla, ma fui fermato da una mano sul mio
gomito. Irritato, mi girai, pronto a liberarmi dalle dita dell’usurpatore.
Ma era Claire. Per cui non lo feci. Ricambiai invece il suo sorriso.
«Claire McClure, ci incontriamo di nuovo.»
Il suo sorriso si allargò e lei si mise a ridere, stringendomi in un
abbraccio. «Ciao, Cletus. Come stai?»
«Oh, la mia condizione è perfettamente adeguata.» Mi tirai indietro
e le afferrai la mano, portandomela nell’incavo del gomito. «Non
andartene, balla con me.»
«Solo se canti una canzone con me.»
Scossi la testa. «Allora immagino che non balleremo.»
La sua bocca si strinse in una linea frustrata. «Andiamo, canta con
me. Ti meritavi quel contratto con la casa discografica tanto quanto
me e invece ti sei ostinato a voler rimanere dietro le quinte.»
«Questo perché chi resta dietro le quinte si becca tutte le Regine
della torta alla banana.»
«Bene.» Clarie annuì con ardore. «Avevo in mente di tormentarti
tutta la giornata riguardo a lei, ma sono contenta che finalmente tu
sia rinsavito. Voi due siete perfetti l’uno per l’altra.»
«Lo siamo, non è vero?» I miei occhi cercarono automaticamente
Jennifer e mi accigliai. Jackson James aveva detto qualcosa che
l’aveva fatta ridere.
Mutandone pruriginoso.
Ma poi mi sorpresi a sorridere quando la mia attenzione venne
catturata dalla bocca di Jennifer. Ogni suo sorriso era il benvenuto,
sotto qualsiasi forma, persino se era stato Jackson a portarlo sul suo
bel volto.
«Per cui non c’è modo di convincerti a cantare con me?» insistette
Claire.
«No.» Presi un respiro profondo, girandomi verso di lei e
spostando la sua mano dal mio braccio, ma tenni ancora intrecciate
le nostre dita. «Aspiro ad altri raggiungimenti, non al successo
mondiale e anche tu, lo so. Ma Claire, sono contento che tu sia
finalmente rinsavita e abbia firmato quel contratto. Sei una stella
troppo brillante per restare nascosta sotto gli occhi di tutti.»
«Come sei poetico, Cletus. Mi sa che te la ruberò per una
canzone.»
«Fai pure. Per come la uso io, non ci farò mai soldi.»
Gli occhi di Claire passarono sul mio volto, come se le fossi caro.
E immagino che lo fossi, in un certo senso, e che tutti noi lo fossimo,
persino Billy. Come se mi avesse letto nel pensiero, il suo sorriso si
affievolì e il suo sguardo scese dal mio volto al mio papillon. Liberò
le sue dita dalle mie e mi aggiustò il papillon, mi passò le mani giù
lungo i baveri della giacca e si alzò in punta di piedi per baciarmi la
guancia.
«Grazie di aver creduto in me, Cletus. Uno di questi giorni mi
sdebiterò.»
Annuii, ponderandola, studiandola, poi decisi di correre il rischio e
suggerii gentilmente: «Se vuoi sdebitarti, vai a chiedere a Billy di
cantare con te.»
Un lampo di dolore bruciò vivido dietro i suoi occhi e il suo sorriso
svanì, e si tramutò in un cipiglio ansioso. Scosse la testa, dicendo
piano: «Lui non vuole cantare con me.»
Questa negazione mi fece sbuffare in una risata. «Oh, Claire. Lui
vuole cantare solo con te. E con nessun’altra. Mai con nessun’altra.
Solo con te.»
Le mie parole non riuscirono in alcun modo a placare l’ansia nella
sua espressione. Anzi, sembrarono acutizzarla. I suoi occhi
schizzarono via, in cerca di qualcosa, e si dipinse in volto un sorriso
forzato.
«Credo che Jennifer ti stia cercando.» Claire indicò alla mia destra
e io seguii il suo sguardo.
E infatti Jennifer ci stava guardando, sorridendo. Salutò felice
Claire con un gesto della mano, poi i suoi occhi magnifici si
spostarono su di me. Il suo sorriso crebbe ancora di più.
«Salutala da parte mia.»
Sentii Claire stringermi il braccio, ma quando mi girai verso la mia
amica vidi solo la sua schiena che si allontanava. La guardai
contrariato, lei e la sua ostinazione a commettere sempre lo stesso
errore. Non la capivo.
Testarda di una donna.
Era chiaramente innamorata di mio fratello.
Ma non potevo farci niente. O almeno, non potevo farci ancora
niente. Forse più avanti.
Riportai la mia attenzione su Jenn e Jackson e ripresi la mia
traiettoria originale girovagando, ma dritto verso la mia donna.
«Jackson» salutai non appena arrivai accanto a loro,
assicurandomi di mantenere un tono piatto quanto le gomme della
sua auto.
Ancora non erano a terra, ma lo sarebbero state.
Lui voltò i suoi occhi marroni e sorridenti su di me, e gli si
spensero quando passai il braccio attorno ai fianchi di Jenn e le
premetti un bacio sul collo.
«Ehi» dissi, ignorandolo.
Jenn mi sorrise, e mi passo anche lei il braccio attorno ai fianchi.
«Ehi.»
«Come stai?»
Il suo sorriso si ampliò e i suoi occhi si abbassarono sulle mie
labbra. «Mi sei mancato.»
Le sono mancato. La vita è bella.
Imitai il suo sorriso, e proprio quando stavo per suggerirle di
imbucarci da qualche parte, Jackson si schiarì la gola.
«Ciao, Cletus» disse, attirando di nuovo la nostra attenzione sulla
sua faccia irritante. Lo avevo ignorato talmente bene da
dimenticarmi che fosse ancora lì.
«È stata una bella cerimonia» concesse per gentilezza.
«Lo è stata» ammisi, con tono ancora piatto.
Si grattò il collo. Seguii il movimento con lo sguardo mentre
Jennifer mi dava una stretta decisa.
La mia irritazione andò alle stelle perché sapevo cosa significava
quella stretta. Lei voleva che parlassi a Jackson James, ecco cosa
significava quella stretta.
Oh buon Dio.
«Vado a prendere qualcosa da bere, così voi due potete parlare»
sottolineò eloquentemente Jennifer, liberandosi dalla mia stretta e
lanciandomi un gran sorriso incoraggiante al tempo stesso. «Vuoi
qualcosa?»
Con le labbra le mimai “tu” e lei socchiuse le palpebre, scuotendo
impercettibilmente la testa e lanciando occhiate a Jackson. Di
nuovo, occhiate eloquenti.
«Prendo una birra a entrambi» disse. «Aspettatemi qui.»
Jenn se ne andò, attirando i miei occhi sulla sua figura che si
allontanava. Seguii i suoi movimenti finché non sparì tra la folla.
E poi riportai la mia attenzione su Jackson e lo guardai torvo. Ma
lui non mi stava guardando. Scrutava tra la folla, i suoi occhi
cercavano tra i volti degli invitati.
«Non conosco la maggior parte delle persone, ma credo di
riconoscerne qualcuna» osservò, dal nulla, come se fossimo in
termini di scambiare chiacchiere amichevoli.
Il mio cipiglio si fece più severo ed ero sul punto di respingere la
sua confidenza, ma poi pensai a Jennifer e a come mi avesse
chiesto di dare una possibilità alla pace fra noi. Dannazione.
Raddrizzando la schiena, incrociai le braccia sul petto e iniziai
anch’io a scrutare tra la folla. «Perché molti invitati sono stelle del
cinema, amici di Sienna e simili.»
Lui annuì distrattamente, la sua attenzione era stata catturata da
una bruna alta. «Non vorrei indicare, ma credo che quella sia Raquel
Ezra.»
Aveva ragione. La bruna alta era Raquel Ezra, l’ultima bomba
sexy di Hollywood. Distolsi lo sguardo, d’istinto mi ritrovai a cercare
di nuovo Jenn. La trovai in attesa al bar, che mi fissava decisa, con
le mani sui fianchi. Il suo messaggio era chiaro. Alzai gli occhi al
cielo.
Rassegnato, mi girai verso Jackson. «Le cose stanno così, Jack.»
I suoi occhi tornarono di scatto nei miei e vidi che o il mio tono, o
le mie parole, l’avevano lasciato sorpreso.
Pronto a farla finita con quella farsa, mi lanciai nel mio reclamo:
«Non mi piace quando mi fermi in macchina senza motivo,
facendomi perdere tempo. E non mi piace neanche quando fermi i
miei fratelli. E non mi piace il modo in cui hai trattato mia sorella al
liceo, ma immagino che ormai non si possa più fare niente al
riguardo. Pertanto, d’ora in avanti, vorrei che la smettessi di abusare
del tuo potere e iniziassi a seguire l’esempio di tuo padre.»
Mi scrutò, inclinando leggermente il capo da un lato. «L’esempio di
mio padre?»
«Sì. L’esempio dello sceriffo. Sai. Come un tosto ufficiale di
eccezionale soggezione e rettitudine.» Annuii con un cenno,
riflettendo sulla descrizione, e poi aggiunsi: «E di umiltà. È bravo
anche in questo.»
Inaspettatamente un lato della bocca di Jackson si sollevò e i suoi
occhi, invece di spegnersi e imbronciarsi, come mi ero aspettato, si
scaldarono di rispetto.
«Va bene. Smetterò di fermarti e di farti perdere tempo.»
Lo guardai sospettoso, questo Jackson James che non si
comportava come io avevo previsto. «Davvero?»
«Sì.»
«Vale lo stesso per i miei fratelli?»
«Duane parte con Jess questa settimana, per cui non credo che
avrò più occasione di fermarlo.» Alzò le spalle. «Ma vorrei sostenere
che fosse una mia prerogativa dargli noia a mio piacimento, dal
momento che esce con mia sorella.»
Riflettei sulla sua logica, ma prima di poter decidere se fossi o
meno d’accordo, lui proseguì.
«Dal momento, però, che Duane ora parte, non ho più motivo per
fermare Beau» aggiunse pensieroso, mentre la sua attenzione si
spostava nuovamente verso la star del cinema Raquel Ezra. Alzò il
mento verso di lei. «Pensi abbia qualche possibilità?»
Io lo fissai, questo suo consenso dato senza problemi mi rendeva
sospettoso. Poi fissai la signorina Ezra, valutando automaticamente
la situazione.
«Non lo so» risposi sinceramente. Avevo sentito per caso Sienna
dire a Jessica che la signorina Ezra era estremamente aperta di
mente riguardo la sua sessualità ed era nota per le sue inclinazioni
che prevedevano manette e sexy toy. Decisi di non condividere
quell’informazione con Jackson. «Non sembra che sia
accompagnata, questo è un bel vantaggio.»
Lui fissò la donna e poi, di nuovo dal nulla, disse: «Sei un uomo
molto fortunato, Cletus. Jennifer è una donna bellissima.»
Concordai annuendo, ma gli dissi: «Hai ragione e ti sbagli.»
Gli occhi di Jackson scrutarono i miei. «Perché?»
«Ecco, hai ragione. Jennifer è una bellissima donna. Ma ti sbagli
perché non è per questo che sono fortunato.»
Le sue sopracciglia schizzarono in alto, chiaramente per la
sorpresa alla mia risposta e io gli battei la mano sulla spalla e lo
scrollai un poco.
«Grazie della chiacchierata, Jack.»
«Jackson» mi corresse, allontanandosi dalla mia presa ma
rivolgendomi un sorriso divertito.
«Vedremo» dissi, poi mi girai e puntai dritto su Raquel Ezra,
mentre riconsideravo dentro di me gli eventi sconcertanti degli ultimi
minuti.
Non mi fidavo particolarmente di Jackson, ma mi era parso
sincero. E se era sincero, allora Jenn aveva avuto ragione. E se
Jenn aveva avuto ragione… beh, allora questo provava quanto
straordinaria fosse.
«Mi scusi» dissi, picchiettando con un dito il braccio della
signorina Ezra.
La donna si portò i lunghi capelli bruni sopra la spalla. Il suo
sguardo ispezionò accuratamente il mio corpo e le mie fattezze, e
infine lei lo alzò nel mio.
«Sì?» disse, con un sorriso che le incurvava le labbra tinte di
rossetto; si avvicinò di un passo.
Ricambiai il suo sorriso. «Mi chiamo Cletus Winston, sono il
fratello di Jethro. Sienna ci ha parlato meravigliosamente di lei.»
«Sienna è il massimo» disse Raquel, sentita.
Mi girai, indicando Jackson James. «Il mio amico laggiù è un
agente di polizia, lavora nelle forze dell’ordine locali.»
La sua attenzione si spostò su Jackson e io vidi gli occhi di lui
spalancarsi, e saltare tra la signorina Ezra e me. Lei condusse lo
stesso rapido esame con Jackson, proprio come aveva fatto con me.
«Oh? Davvero?»
«Davvero. E ha con sé le sue manette.» Le rivolsi un sorriso
tranquillo. «Tanto per dire.»
Le sue labbra si sollevarono da un angolo e i suoi occhi marroni
danzarono in una risata. «Grazie dell’informazione.»
«Nessun problema. Le auguro una buona serata.» Le rivolsi un
accenno di inchino e mi girai verso il tavolo a cui avevo visto Jennifer
l’ultima volta.
Ero determinato a baciarla. Non ci baciavamo come si deve dalla
notte precedente. Forse poi avremmo ballato. E forse, poi l’avrei
rapita e le avrei detto che aveva avuto ragione. Pensai che non mi
sarei mai stancato di dirle che aveva ragione.

«Pensa ai tuoi piedi.»


«Non c’è niente che non vada coi miei piedi. Mettimi giù.» Rise e
la sua risata era come il paradiso. La bramavo.
Due ore fa, Sienna e Jethro erano stati dichiarati moglie e marito.
Jennifer aveva preparato la torta, che non era alla banana, visto che
Jethro odiava le banane, e i festeggiamenti stavano continuando
all’esterno.
Ma noi eravamo all’interno, avevamo bevuto entrambi tre bicchieri
di champagne e in questo preciso istante eravamo diretti verso la
mia camera da letto. E lei continuava a ridere. Per quanto mi
piacesse la sua risata, mi piacevano anche gli altri suoni che
emetteva. Pertanto, non appena entrammo nella mia stanza da letto,
mi prodigai per sentire quegli altri suoni.
La baciai non appena superammo la soglia e lei rise contro la mia
bocca. «Stai cercando di distrarmi? Perché sta funzionando.»
«Niente affatto.» Chiusi la porta con un calcio e la feci scivolare
giù dalla mia presa, posandola con i piedi sul pavimento con un
movimento fluido. «Sono solo molto preoccupato per la salute delle
dita dei tuoi piedi.»
«E perché mai?» Jennifer puntò il suo sguardo acceso e brillante
su di me mentre si lisciava il vestito. Era viola scuro e le aderiva al
corpo, facendomi desiderare di scollarglielo di dosso. Volevo
scartarla.
«Perché penso mi piacerebbe succhiarle.»
Lei si raddrizzò appena, alzando un sopracciglio verso di me.
«Cosa?»
«Vorrei succhiarti le dita dei piedi.»
«Sembra sgradevole. Per tutti e due.»
Ghignai ma non troppo, spingendola a indietreggiare finché le sue
gambe non toccarono il bordo del letto. «Proviamo e vediamo, che
ne dici?»
«Sei serio?» Si fermò giusto prima di cadere all’indietro, i suoi
occhi tradivano la sua incredulità. «Stai scherzando. È uno
scherzo.»
«Niente affatto. Sono serio come… come...»
Il suono e la sensazione di Jennifer che mi slacciava la cintura dei
pantaloni mi fece accigliare. «Cosa stai facendo?»
Le sue dita lavorarono rapide sulla mia cerniera e in un niente i
miei pantaloni e i boxer furono attorno alle mie caviglie. Senza dire
nulla, lei ci scambiò di posizione e poi mi spinse a sedere sul letto.
Inginocchiandosi tra le mie gambe, mi diede un bacio frenetico,
afferrò le mie mani e le premette sui suoi seni da sopra il vestito.
Jennifer interruppe il nostro bacio solo quanto bastava per dire cose
essenziali come:
«Ti amo.»
E:
«Voglio che mi tocchi.»
E poi:
«Ma prima ti faccio un pompino.»
Ora, lo ammetto, ero distratto. Un uomo può rimanere concentrato
solo fino a un certo punto. Quando gli venivano messi in mano due
seni perfetti tutti gli altri pensieri necessariamente si troncavano
all’improvviso e tutta l’attenzione veniva ridiretta nei palmi delle
mani.
Mi ci vollero parecchi secondi per decifrare il significato del suo
farneticare, ma quando lo feci era troppo tardi. Ero già dentro la sua
bocca.
«Oh!» Cazzo.
Emisi un respiro sbigottito e il mio cervello si spense.
Semplicemente… l’interruttore si abbassò. Il cervello appese il
cartello “CHIUSO” e se ne andò. Ultimamente mi ero sbagliato su
moltissime cose. Ma questo, aver respinto la richiesta di Jennifer di
fare questo la scorsa settimana, era stata la più sbaglierrata di tutte.
Capite? Il cervello se ne era andato. Sbaglierrata non è una vera
parola. Ma io non lo sapevo. Sapevo solo che non avrei mai voluto
che finisse, ma che sarebbe finito. Sarebbe finito in un lasso di
tempo breve a livello mortificante. E non c’era una sola cazzo di
cosa che potessi fare al riguardo.
I suoi occhi si sollevarono nei miei, pieni di eccitazione e fiducia, e
io grugnii.
Si fermò, prendendomi in mano e negandomi la sua bocca. «Va
bene? Lo sto facendo bene?»
«Sei talmente perfetta che non ho parole per descrivere quanto tu
sia perfetta» dissi tutto d’un fiato, ma poi la tenni per le spalle
quando si mosse per tornare da me con la sua bocca. «Aspetta. Sto
per venire e tu non vuoi...»
«No. No. Va bene. Ho letto qualcosa al riguardo. Va bene. Sono
preparata. So cosa sto facendo.»
E detto quello, mi riprese nuovamente in bocca. Un verso
involontario mi scappò dalla gola e poi un altro. Più tardi, avrei
ringraziato Jethro per aver ingaggiato una band dal vivo, perché non
ero certo silenzioso, ma non mi avrebbe sentito nessuno.
Stavo per morire. Stavo per morire da quanto era bello.
Ma non lo feci. Venni, col desiderio di infilarle le dita nei capelli e
invece mi aggrappai al piumino ai lati delle mie cosce.
Lei concluse e io caddi all’indietro sul letto, allungando la mano
per cercarla. Ma non la trovai. Con un occhio aperto la guardai
piegarsi di lato, prendere un asciugamano che in precedenza era
nascosto e tamponarsi la bocca. Poi prese una bottiglia nascosta di
collutorio e si sciacquò la bocca, usando un altro asciugamano.
Infine, prese una bottiglia d’acqua nascosta e bevve un sorso.
Allora e solo allora venne da me, e si stese stringendosi al mio
fianco, con un sorriso compiaciuto sulle labbra. «Allora, sono stata
perfetta?»
Esalai una risata incredula, godendomi la vista del suo momento
trionfale, godendomi lei. «L’avevi pianificato.»
Il suo sorriso si allargò. «Sì.»
«Sei una furbona.»
Annuì. «Lo sono.»
Scossi la testa, pensando a lei, pensando a me.
«Ti amo» dissi, e respirai, e sentii, e seppi e ci credetti. Avevo fede
in Jennifer. Avevo una fede immensa in lei.
E lei aveva fede in me quando rispose: «Io ti amo di più.»
Questa era la nostra vita. Questa donna era il mio futuro. Sarebbe
diventata la madre dei miei figli.
Questo era il nostro inizio.
Non vedevo l’ora che arrivasse la metà.
E non avrei mai voluto che finisse.
“Ella passa splendida come la notte
di limpidi clini e di cieli stellati;
tutto il meglio del notturno splendore
vedo sul suo viso e nei suoi occhi.”
- Byron

Il giorno del Ringraziamento

Avevo i capelli castani.


«Sei sicura che non dobbiamo portare niente? Nemmeno un
contorno?» La mia mamma si agitava, torcendosi le dita mentre
viaggiavamo in macchina lungo Moth Run Road, verso la magione
dei Winston.
«Ne sono sicura. Sono stati irremovibili: basta che portiamo noi
stesse.»
Sentii gli sguardi di mia madre su di me, lei sospirò triste. «Non
sono ancora abituata a vederti così.»
Non risposi.
Ero stanca di parlarle dei miei capelli.
Il lunedì dopo il matrimonio di Jethro, mamma e io avevamo
trovato un accordo riguardo al mio contratto. Mi aveva anche ceduto
legalmente la BMW in segno di buona fede. O per corrompermi. O
l’uno o l’altra, e forse perché al matrimonio di Sienna e Jethro un
famoso chef pasticcere di Los Angeles mi aveva fatto una proposta
di lavoro.
Mi ero tinta i capelli tornando a quello che pensavo fosse il mio
colore naturale appena prima del viaggio a New York, dopo aver
salutato Cletus che era in partenza per la sua caccia al cinghiale in
Texas. Il colore aveva provocato una crisi isterica a mia mamma.
Avevo fatto del mio meglio per tollerare i fiumi di lacrime. Mi ero
concentrata invece sull’organizzazione del lavoro in pasticceria in
vista della mia assenza di tre giorni.
Lei non aveva smesso di piangere da quando aveva cacciato mio
padre di casa.
All’inizio temevo se lo riprendesse, ma poi mi aveva spiegato che
non piangeva perché le mancava. Piangeva perché aveva capito
quanto fosse costato alla sua famiglia il comportamento odioso e
spregevole e l’egoismo di quell’uomo. Aveva quasi perso entrambi i
figli. Fu allora che realizzai quanto volessi bene a mia madre e
desiderai di darle l’occasione di conoscere la vera me. E, forse, avrei
potuto anche io conoscere la vera lei.
Al momento, ero un poco nervosa riguardo i miei capelli. Cletus
non mi aveva ancora vista e io non ne avevo fatto parola con lui. Per
tutti i miei post e foto sui social media indossavo una parrucca
bionda, e anche durante le riunioni con la talent agent.
«Sono vestita bene?» Si passò le mani lungo i pantaloni e si torse
l’anulare della mano sinistra, dove la sua fede non aveva più un
posto.
«Stai benissimo.»
Stava benissimo. Mentre eravamo a New York avevo insistito per
andare a far compere e avevo insistito perché provasse un paio di
pantaloni. Le stavano benissimo. L’avevo convinta a comprarli. Non
avevo badato a spese nemmeno io e avevo preso qualche cosina.
Una la indossavo in questo momento, un vestito a maglione
arancione scuro. Mi era piaciuto come Cletus mi aveva guardata
quando indossavo il vestito blu di maglia e avevo pensato che
questo si abbinasse bene al colore dei miei capelli.
«Anche tu stai bene» disse mia mamma, accarezzandomi la
gamba.
Mi trovai momentaneamente in difficoltà. Non volevo farne un
affare di Stato, per cui decisi di dire: «Grazie mamma.»
Ma mi sembrò un affare di Stato. Era la prima volta che mi faceva
un complimento riguardo a qualsiasi cosa da mesi, da quando mi ero
messa lo smalto bordeaux, in effetti.
Ero ansiosa di vedere Cletus. Ci eravamo scritti il più possibile, ma
nel posto in cui era andato lui – nel bel mezzo del nulla in Texas – la
ricezione non era buona. Inoltre, dopo il mio ritorno da New York
avevo lavorato senza sosta nella pasticceria per preparare
settecento ordini di torte alla banana per il Ringraziamento. Poi lui
era tornato dal Texas tardi la scorsa notte. Mi mancava. Ma oggi
c’eravamo. Le torte erano cotte. Gli ordini consegnati. Avevo
convinto mamma a prendere un giorno di ferie e a venire dai
Winston assieme a me per il Ringraziamento.
«Ci divertiremo» disse, come se stesse cercando di convincersi,
continuando a tormentare il punto ormai nudo sul suo dito.
Io parcheggiai e poi le presi la mano, strizzandogliela finché lei
non incontrò il mio sguardo. «Ci divertiremo. I Winston sono davvero
gentili. Cerca solo di rilassarti e di divertirti.»
Lei annuì bruscamente, ma mi accorsi che era nel panico. Forse
non sapeva come rilassarsi. O forse non sapeva come divertirsi.
Sospirando, uscii dall’auto, e aspettai che anche lei uscisse prima
di salire i gradini del portico. Andammo insieme alla porta e io suonai
il campanello, mentre un’ondata di eccitazione cresceva nel mio
stomaco e arrivava a un crescendo quando la porta si spalancò.
Sorrisi. «Cletus.»
Lui mi fece un ampio sorriso, mentre i suoi occhi mi divoravano.
«La mia Jenn.»
Era così bello, ma non ebbi occasione di elencare tutti i modi in cui
lo era, perché venni tirata in avanti, circondata dalle sue braccia e
ricevetti il più magico di tutti i baci: avvolse una mano sulla mia
mascella, piegandomi la testa da una parte e poi dall’altra,
assaporandomi da ogni angolo e facendomi arricciare le dita dei
piedi nelle scarpe.
Mi aggrappai a lui, mentre il mio cuore iniziava a galoppare e il
sangue cantava nelle mie vene: ancora, ancora, ancora.
Poi mia madre si schiarì la gola.
E così fece qualcun altro, seguito da una voce che rimproverò.
«Dobbiamo spostare il vischio, Cletus. È la dodicesima persona che
baci, stasera.»
Cletus sollevò la testa e si girò con espressione arrabbiata verso
Beau. «Questa è una menzogna. Non bacio nessuna persona da
dieci giorni.»
Beau lo spinse via a gomitate e prese la mano della mia mamma,
posandovi un dolce bacio sul dorso e dicendo: «La prego di scusare
mio fratello. Solitamente è più educato. Perché non si accomoda?»
Mia madre rivolse a Beau un sorriso nervoso. «Sì, grazie
dell’invito.»
«Il piacere è tutto nostro» rispose il rosso garbatamente,
offrendole il braccio.
Nonostante fossi ancora confusa dal bacio, vidi che le maniere
educate e gentili di Beau avevano avuto effetto su mia madre,
mentre ci superava. Non era certo rilassata, ma forse le dovevo solo
concedere un po’ di tempo.
Fortunatamente, o sfortunatamente, non ebbi occasione di
proferire una sola parola riguardo quella faccenda, perché Cletus mi
tirò fuori sul portico, chiudendo la porta alle nostre spalle e
premendomi contro il lato della casa, per poi baciarmi di nuovo.
«Mi sei mancata,» disse tra un bacio e l’altro, «tantissimo.»
«Mi sei mancato» gli dissi io, quando mi concesse tre secondi per
prendere aria, ma non mi dispiacque. Per nulla. Avrei solo voluto
avere avuto un momento per recuperare il tempo perduto prima di
ora.
Alla fine i baci si fecero meno frenetici e disperati. Le sue labbra si
addolcirono. Le sue dita si rilassarono e scivolarono lungo il mio
busto in una carezza invece di affondarmi nei fianchi con durezza.
Appoggiammo le fronti una contro l’altra e cercammo di riprendere
fiato, ma nessuno di noi due voleva smettere di toccarsi.
«Sono stato molto scortese con tua madre. Dovrò scusarmi e farle
i complimenti per i suoi pantaloni.»
Annuii, ridendo appena. «Hai notato i pantaloni di mia madre?»
«Sì. Naturalmente. In vita mia, non avevo mai visto quella donna
portare dei pantaloni.»
«Non hai notato nient’altro?» Alzai la testa e lo scrutai dal basso,
alzando le sopracciglia in attesa.
Lui mi studiò, con un cipiglio confuso sulla fronte. «Non portava la
fede.»
«No. Non parlavo di lei. Ma di me.»
Il suo cipiglio si fece più accentuato e gli occhi gli si spalancarono,
sembravano quelli di un cervo davanti ai fari di un’auto prima di
essere investito. «Tu… hai cambiato… dentifricio?»
Lo fissai in cagnesco e poi gli schiaffeggiai il braccio.
«No, aspetta. Hai cambiato l’indirizzo della tua tessera
elettorale?»
«Cletus.» Lo schiaffeggiai ancora.
«Scusa, ma certo, ho capito. Hai cambiato idea sul farti succhiare
le dita dei piedi.»
Nonostante tutto risi, ma gli schiaffeggiai comunque il braccio per
la terza volta. «Sei estremamente irritante.»
Sorridendo, mi catturò le guance e mi attirò a sé, posando un
dolce bacio sulle mie labbra e poi scostandosi indietro. I suoi occhi
astuti si mossero per la mia testa e spinse le dita nei miei capelli.
«Sei bellissima, Jenn. Non importa di che colore ti tingerai i capelli, a
me piacerà e ti amo.» Il suo sguardo tornò nel mio e aggiunse, con
un sospiro roco: «Ma sono la tua bontà, la tua gentilezza e il tuo
cuore che ti rendono bellissima.»

Mia madre non rimase a lungo dopo cena. Mi accorgevo che si


stava impegnando, ma capivo anche che trovarsi di fronte a una
famiglia chiassosa e felice come i Winston doveva essere doloroso
sotto un qualche punto di vista. Lei aveva avuto due figli, aveva
sacrificato tantissimo per noi e alla fine niente era andato come
aveva sperato.
L’accompagnai alla mia macchina e l’abbracciai. Lei ricambiò la
mia stretta, baciandomi sulla guancia e poi tornò allo chalet. Da
quando si era separata da mio padre viveva lì. Nemmeno lui stava
nella vecchia casa di famiglia. Mia mamma aveva cambiato tutte le
serrature e bloccato i conti in banca. Gli amanti del gossip in paese
si stavano sbizzarrendo per l’improvvisa scomparsa di Kip Sylvester.
Io mi sforzavo di ignorare gli sguardi insistenti e le domande
sussurrate.
Non sapevo dove fosse. Non aveva provato in alcun modo a
contattarmi. Cercavo di non pensarci, di non pensare a lui. La mia
vita era piena di troppe cose meravigliose. Avevo deciso che non
avevo né tempo né forze da sprecare in futili imprese.
Il dolce venne servito fuori, attorno a un grande falò, e ci
avvolgemmo tutti in delle coperte. Cletus ci passò dei bicchierini di
liquore fatto in casa mentre Drew e Ashley servivano la torta.
«Mi chiedo cosa stiano combinando Duane e Jess.» Roscoe
spiluccava la sua torta, alla fine rinunciò alla forchetta per prendere il
bicchierino di liquore.
«Probabilmente dormono.» Cletus riempì il bicchierino del fratello
più giovane, poi tappò il fiasco e venne da me. «In Italia è notte
fonda.»
«Sarebbero dovuti rimanere per il Ringraziamento» si lamentò
Ashley, accigliandosi mentre guardava il fuoco.
Era seduta in grembo a Drew e lui le accarezzava la schiena. «Ma
poi non sarebbero mai partiti. Dopo il Ringraziamento c’è Natale, poi
Capodanno, poi i compleanni e via dicendo. Era giunto il momento di
partire, stavano rimandando il loro fernweh da troppo tempo.»
Cletus mi fece cenno di alzarmi dal mio posto, e così feci. Lui se
ne impossessò e poi aprì le braccia. «Vieni ad accoccolarti con me»
disse, a voce abbastanza bassa da farsi sentire solo da me. «Sento
ancora la tua mancanza. Ho bisogno di averti vicina.»
Sorrisi alle sue parole e mi accomodai in braccio a lui, avvolgendo
entrambi con la coperta.
«Parlando di avventure, com’è andata la caccia al cinghiale,
Cletus? Hai riportato tanta carne?» Jethro era adagiato con Sienna
su una coperta. Se ne stava seduto con le gambe stese di fronte a
sé e lei teneva la testa posata sul suo grembo, succhiando una delle
caramelle al limone che le avevo preparato. Aveva detto che
l’aiutavano con la nausea, ma voleva comunque le tortine alla
crema. Ero lieta di obbedire.
«Non preoccuparti per la mia salsiccia, Jethro.» Cletus alzò le
sopracciglia verso suo fratello più grande, tenendomi stretta a lui.
«Ne ho portate a casa in abbondanza e altre arriveranno. Jenn e io
faremo dei tortini alla salsiccia.»
«Tortini alla salsiccia?» Fu Billy a porre la domanda, poi si
scambiò uno sguardo d’intesa con Beau.
«Esatto. Tortini alla salsiccia.» Cletus mi passò i capelli sopra la
spalla e mi incoraggiò ad accoccolarmi ancora di più contro di lui.
«Capisco.» Beau annuì lentamente, pensieroso. «Per cui Jennifer
ti permetterà di mettere la tua salsiccia nella sua torta.»
Cletus si irrigidì. «Non metterla in questo modo.»
«In questo modo… quale?» Roscoe premette insieme le labbra,
fissando il fuoco e chiaramente cercando di non sorridere. «Beau si
sta solo interessando della tua salsiccia, e sappiamo tutti quanto ti
piaccia parlarne.»
«Lo sai benissimo.» Riuscivo a sentire la nota di ammonizione nel
tono di Cletus.
«Non so di cosa tu stia parlando, Cletus.» Beau alzò le mani come
per arrendersi, ma perse la battaglia contro il suo sorrisetto. «Sto
solo facendo notare che infilerai la tua famosa salsiccia dentro la
torta di Jennifer, calda e umida...»
«Non usare quella parola.» Ashley alzò la voce sopra quella di
Beau e fece una smorfia. «Tutti odiano quella parola.»
«Va bene. La torta calda e bagnata di….»
«La crosta del tortino non è bagnata. È friabile.» Jethro disse la
sua.
Sienna aggiunse: «Credo che per una torta vada bene usare
l’aggettivo “umida”.»
«Usare “umido” per descrivere una torta è il solo caso accettabile»
confermò Ashley. «Altrimenti, non si può usare quella parola.»
«Aspetta un momento, hai proprio ragione.» Beau indicò Ashley e
poi me. «Parliamo per un momento della torta umida di Jennifer.»
«Beau, smettila.» Cletus non sembrava divertito. «Basta.»
Mi raddrizzai e mi misi a sedere, sostenendo lo sguardo giocoso e
luminoso di Beau. «Credo sia abbastanza ovvio perché la mia torta
sia così umida.»
Tutti, e dico davvero tutti, si accigliarono, sbatterono le palpebre e
rivolsero i loro sguardi sorpresi verso di me. Nonostante tutti i loro
occhi fossero puntati su di me, riuscii a sembrare assolutamente
calma e ragionevole quando proseguii: «È la banana. La banana
nella mia torta la rende bella bagnata.»
Seguì un silenzio sconvolto, durante il quale gli uomini, compreso
Cletus, mi fissarono a bocca aperta e le donne sorrisero a trentadue
denti.
L’esplosione di risa di Sienna spezzò il silenzio. «La adoro! Te lo
giuro, Cletus, se non la sposi tu allora convincerò Jethro a farla
diventare la mia sposa-sorella.»
Rivolsi un sorriso luminoso a Cletus e lui mi guardò di traverso.
«Sei piuttosto subdola.»
Il mio sorriso crebbe perché era inarrestabile. Era inarrestabile
perché ero circondata da calore e amore e da Cletus. Sapevo, senza
ombra di dubbio, che quello era il mio posto. Avevo trovato la mia
tribù. Avevo trovato le mie persone.
Avevo trovato la mia persona. E avevo trovato me stessa.

Mi addormentai in braccio a Cletus davanti al fuoco. Le


conversazioni che fluivano e rifluivano, le risate, le sensazioni di
piacere e cordialità mi cullarono, mi rilassarono, finché non potei più
resistere alla stanchezza.
Mi svegliai tra le braccia di Cletus e mi ci vollero parecchi secondi
per capire che eravamo a casa mia. A quanto pareva, mi aveva
accompagnata a casa e portata dentro.
«Non sei ancora preoccupato per i miei piedi, vero?» chiesi, con la
voce rauca dal sonno, biascicando appena le parole.
Lui ridacchiò, mi baciò la fronte e sussurrò nel buio: «Continuo a
pensare ai tuoi piedi. Vanno protetti.»
Risi, svegliandomi un altro poco, avvolsi le braccia attorno alle sue
e gli baciai il collo. «Che ore sono?»
«È tardi» disse, posandomi sul mio letto e chinandosi di fronte a
me.
Cletus afferrò il mio stivale destro e lo sfilò. Poi si mise al lavoro
sul sinistro. I suoi occhi seguivano i movimenti, il suo volto era
impassibile mentre mi levava i calzini e li metteva via. Poi si sedette
di fianco a me sul letto e mi spinse i capelli sopra una spalla. Le sue
dita andarono alla ricerca della cerniera sul retro del mio vestito.
«L’altro non aveva una cerniera» mormorò, quando trovò
finalmente il tiretto.
La mia stanza era illuminata fiocamente solo dalla luce del
corridoio che si insinuava dalla porta, per cui non ci vedevo molto
bene. Ma lo sentivo, sentivo la sua coscia contro la mia, le sue dita
sul mio collo e la mia schiena, il suo respiro contro la mia guancia.
All’improvviso, ero sveglissima. E irrequieta. E mi era mancato
terribilmente. Mi agitai, deglutii, mi tesi mentre la cerniera si
abbassava fino al mio fondoschiena.
Lui si tirò indietro e sentii il suo sguardo sul mio profilo. «Stai
bene? Hai bisogno di una mano per spogliarti?»
La sua domanda, tanto calma e posta con cortesia, quasi
distaccata, mi fece contorcere e dolere il cuore. Pensava che fossi
stanca, pensava che fossi ancora assonnata. Voleva assicurarsi che
stessi bene.
Il modo in cui Cletus si prendeva cura di me era esaltante ed
esasperante al tempo stesso.
Non sapeva che lo desideravo? Non sapeva quanto bramavo il
suo tocco, sia quando era dolce sia quando era brusco? L’avevo
pensato ogni notte che avevamo passato separati, avevo pensato
alle sue mani e alla sua bocca e lingua e dita e…
«Jenn?»
Il suo tono era paziente, composto, irritante.
Mi alzai, mettendomi di fronte a lui e tirai giù le maniche del mio
vestito. Lui alzò il mento e le sopracciglia gli si inarcarono. I nostri
occhi si incontrarono e si incatenarono. Mi chiesi se riuscisse a
leggermi il pensiero. Se sapesse cosa volevo.
Oppure dovrò farglielo vedere io?
Mentre le sue sopracciglia si abbassavano, in una posa
pensierosa, le sue labbra si schiusero – le sue gloriose, labbra da
baci– come se avesse una domanda sulla punta della lingua.
Il mio vestito cadde sul pavimento, lasciandomi in nient’altro che
mutandine e reggiseno. Mi tolsi quest’ultimo velocemente. E poi le
mutandine. E poi, ero nuda.
Lui mi guardò sbattendo le palpebre, mentre confusione e
desiderio si raccoglievano nel suo sguardo. Le sue mani si strinsero
a pugno, afferrando il piumino, come se stesse cercando di
controllarsi, di aggrapparsi a qualcosa di tangibile.
«Vuoi che ti tocchi?» chiese brusco, la voce improvvisamente
ruvida, la gola che gli si contraeva, la sua espressione era un misto
di tormento, fame e determinazione.
Non aveva capito, non ancora.
Per cui scossi la testa, spingendogli via la giacca dalle spalle. Gli
afferrai la maglietta, la tirai in alto e la sfilai dalla sua testa. Lui mi
assecondò, alzando le braccia, e lanciando giacca e maglietta per
terra ai piedi del letto. Mi fermai, divorando la visione del suo petto
nudo, del suo stomaco e delle sue braccia, delle sue spalle. Aveva
delle spalle davvero belle.
E poi mi inginocchiai di fronte a lui e feci per afferrare la sua
cintura.
Lui mi prese le mani. «Jennifer, cosa stai facendo?» Sembrava
senza fiato.
Ignorai la domanda, invece mi raddrizzai e alzai il mento, e
catturai la sua bocca con un bacio mentre i miei capezzoli duri
sfioravano il suo petto, facendolo rabbrividire e sospirare e gemere.
Mi lasciò e racchiuse i miei seni, gemendo di nuovo, massaggiando
e carezzando, come se fosse indifeso davanti alla realtà delle mie
tette.
Buono a sapersi.
Approfittando della sua distrazione, raddoppiai i miei sforzi con la
sua cintura, poi aprii rapidamente bottoni e cerniera dei pantaloni. Io
mi spostai e lui mi seguì, le sue mani erano alla ricerca della mia
pelle. Mi alzai e lui si alzò, baciandomi il collo, mordendomi la spalla,
poi si piegò a leccare, con la lingua di piatto, il centro del mio seno.
Iniziai ad ansimare, perché quella frizione calda e bagnata mi
sembrava indispensabile e stupefacente. Ma poi tornai in me e mi
ricordai di cosa volessi. Abbassai per prima cosa i suoi pantaloni, poi
i suoi boxer e infine spinsi Cletus.
Lui cadde all’indietro sul letto.
«Togliti le scarpe» mi sentii dire, mentre i miei occhi assaporavano
con cupidigia lo spettacolo di Cletus nudo.
Oddio, quasi nudo. I pantaloni erano ancora attorno alle sue
caviglie, bloccati dagli stivali.
Lui mi fissava truce, mi sembrò furioso. Mi sembrò disperato.
Chiuse nuovamente le mani a pugno. Scosse la testa.
«Cosa stai facendo?» Il suo tono era ora più brusco, più
arrabbiato, più crudo. Respirava pesantemente e sembrava
trattenere a malapena un qualche impulso oscuro.
Cedi all’impulso.
Spostai i miei lunghi capelli da un lato e mi piegai per togliergli gli
stivali, tirando impaziente i lacci, e infine li sfilai via assieme ai
pantaloni e ai calzini.
Ora era nudo. Entrambi lo eravamo. E la sua mascella era serrata.
Il mio bellissimo uomo.
Posai un ginocchio sul letto e lui sobbalzò, scuotendo la testa, con
occhi bui e pericolosi. «Non ho un preservativo.»
«E io non prendo contraccettivi» sussurrai, posando la mano sulla
sua spalla.
Lui sobbalzò ancora al contatto, mi afferrò il polso e se lo tolse di
dosso. I suoi occhi lampeggiarono e io vi vidi quello che speravo di
vedere. Desiderio. Riverenza. Brama. Devozione. Lussuria. Amore.
Il suo controllo stava cedendo.
«Che diavolo stai facendo, Jenn?»
Non lo so.
Misi l’altro ginocchio sul letto, uno da ciascun lato dei suoi fianchi,
e mi abbassai, il centro in mezzo alle gambe scivolò contro la sua
erezione.
Tremammo entrambi. I suoi occhi scattarono di colpo nei miei.
Osservandolo – un essere affamato e selvaggio – iniziai a
dimenare i fianchi avanti e indietro, premendomi sempre più contro
di lui e sussurrai: «Fai l’amore con me.»
Lui ringhiò, un verso selvaggio e strozzato. Finalmente, finalmente
le sue mani salirono sul mio corpo e lui ci fece girare. La mia schiena
colpì il materasso e lui fu sopra di me, a baciarmi, le sue dita in
mezzo alle mie gambe che accarezzavano con maestria il mio
centro.
Io rabbrividii, afferrando la sua mano e cercando di tirarla via.
«Voglio che tu faccia l’amore con me con il tuo corpo. Ti voglio
dentro di me.»
«Lo so.» Grugnì, impossessandosi velocemente della mia bocca,
senza abbandonare il suo posto, continuando ad accarezzare. «Ma
non sei ancora pronta.»
«Sono pronta.»
Lui scosse la testa, poi abbassò la bocca sul mio collo, poi più giù
fino alla valle tra i miei seni. Poi scese ancora, fino allo stomaco.
La mia protesta mi morì in bocca non appena la sua lingua si posò
contro la mia entrata. Mi aprì con i pollici e mi leccò, un tocco caldo e
bagnato e insieme anche travolgente, ma non abbastanza. I miei
fianchi si inarcarono e lui mi premette contro il materasso, tenendomi
ferma al mio posto con le sue dita forti mentre leccava, succhiava e
gustava.
«Cletus, ti voglio… Ti voglio dentro di me. Non voglio… non così.»
Lui gemette, ma non si fermò.
Mi alzai debolmente sui gomiti e vidi che si era afferrato, si teneva
il suo magnifico pene nel pugno. A quella vista, contro la mia
volontà, venni.
La mia schiena si inarcò e si arcuò e il mio intero corpo si tese.
Presi un respiro disperato, il piacere straziante della sua bocca su di
me mi aveva ridotta a brandelli e ricucita insieme.
Venni maledicendolo, lacrime di frustrazione che salivano ai miei
occhi mentre ondate su ondate di estasi tormentosa mi pulsavano
nelle vene.
Ero furiosa.
Lo volevo e lui si era trattenuto. Si era tenuto lontano da me.
Ansimando in cerca d’aria, mi preparai per una litigata, ma il mio
corpo era troppo molle, troppo rilassato e soddisfatto.
E poi lui era lì. Era sopra di me, con la sua erezione ancora in
pugno, i suoi occhi nei miei. Cletus si sistemò tra le mie gambe,
mentre la sua lunghezza dura e spessa scivolava contro la mia
carne ancora sensibile. Tremai.
«Cletus.»
«Adesso sei pronta» ringhiò, le sue dita si infilavano tra i miei
capelli, scostandomeli dal volto.
Usando le sue cosce potenti, mi spalancò ancora di più le gambe
e scivolò nel mio corpo.
Il respiro mi si mozzò e le mie mani lo cercarono, cercavano
un’appiglio, perché per quanto fosse stato squisito il mio orgasmo,
ora sentivo quasi solo pressione.
I suoi occhi trovarono i miei, ma lui non chiese. Sostenendo il mio
sguardo, a occhi spalancati, lui spinse in avanti il bacino e io
annaspai. Un dolore lancinante e pungente mi fece irrigidire e
gemere.
«Io volevo essere paziente.» La sua voce era sommessa, roca.
«Io volevo fare il bravo.»
Si tirò indietro e la pressione diminuì, ma poi si spinse di nuovo
avanti. Mi tesi, sussultando, mi preparai ad altro dolore, ma questo
non arrivò. I suoi fianchi allora iniziarono a muoversi lentamente,
avanti e indietro, spingendo e poi ritirandosi. I suoi occhi tenevano i
miei prigionieri, adoranti e predatori.
«Una tentazione», mordicchiò le mie labbra, strofinò le sue contro
la mia mandibola, «e mi fai sentire così bene, così bene cazzo, così
bene.» La sua confessione cantilenante e ansimante sembrava
insensata, come se non si fosse reso conto di parlare.
Sentii il mio corpo rilassarsi, la tensione di prima si dissipò e io mi
beai della sensazione di lui sopra di me, del suo corpo che scivolava
contro il mio dove eravamo uniti.
«Anche tu mi fai sentire bene» sussurrai.
«Ti piace?» Gli occhi selvaggi e bisognosi di Cletus si muovevano
tra i miei, la sua presa su di me si fece più decisa.
Annuii, ansimando. «Ti amo.»
Lui digrignò i denti e chiuse gli occhi, mentre un ansito tremante gli
sfuggiva dai polmoni. Lottava contro il suo finale e io credevo di
sapere perché. Voleva farmi venire di nuovo. Voleva che la mia
prima volta fosse fantastica.
Lo era. Lui lo era.
Pe la cura che aveva di me. Perché io lo amavo. Perché lui amava
me.
Alzai il mento, catturando la sua bocca, stuzzicando la sua lingua
finché lui non me la concesse. Le sue mani trovarono le mie e le
nostre dita si intrecciarono. Dal modo in cui si muoveva sopra di me,
con ritmo e grazia, era come se io fossi uno strumento e lui un
musicista, e insieme creassimo qualcosa di più di noi due soli,
qualcosa di bello.
Sentii il corpo tendersi, alla ricerca di qualcosa che era appena
fuori dalla sua portata. Era una sensazione eccitante e gemetti,
sospirai e gemetti ancora.
Lui rispose con un grugnito e col suo corpo possente aumentò il
ritmo. La sensazione di lui dentro di me mutò, era più piacere che
pressione e io mi inarcai, inclinando i fianchi per andare incontro a
ogni singola spinta.
I suoi occhi si spalancarono e si scontrarono coi miei. «Jenn...»
«Che sensazione è?»
«Il paradiso. Il cielo.»
Roteai i fianchi e lui inspirò bruscamente. «Non farlo.»
«Lasciami essere il tuo paradiso.» Gli baciai il collo, le mie unghie
gli scavarono lungo il petto, tra i nostri corpi. «Lasciami essere il tuo
paradiso. Perché tu sei il mio.»
Cletus gemette sentendo le mie parole e crollò in pezzi davanti ai
miei occhi, un’inebriante varietà di emozioni si succedette sul suo
viso, un attimo prima che si schiantasse sulla mia bocca per un
bacio feroce, bramoso. E quando fu esausto, si immobilizzò, il suo
respiro affannoso.
Alla fine, rotolò su un fianco, e mi accolse contro di lui. Il cuore gli
martellava mentre posava baci appassionati sul mio volto, il collo, i
seni.
Io passai le dita tra i suoi capelli e mi godetti la frizione della sua
barba contro la mia pelle, la sua calda bocca sul mio corpo.
Continuò a baciarmi, a divorarmi, per lungo tempo. Nel frattempo
io mi sentivo tutta stirata e attorcigliata, ben lavorata e usata,
cedevole per l’amore che aveva fatto con me, per l’adorazione dei
suoi occhi, delle sue mani e della sua bocca.
Avvolgendomi tra le sue braccia e stritolandomi, come se temesse
lo abbandonassi, Cletus scosse la testa. Sentii che stava per parlare
e indovinai anche che quanto aveva da dire non era quello che più
volevo sentire in quel momento.
«Non mi pento di cosa è appena successo,» annunciai, «l’ho
amato e amo te e non vedo l’ora di rifarlo. Non osare dire con una
sola parola il contrario.»
Sbuffando una risata e stringendomi ancora di più, lui cercò la mia
bocca. Quando la trovò, prese le mie labbra con un bacio da
bruciare l’anima, e si staccò di appena un centimetro per dire:
«Anche se lo volessi, e anche se tu lo volessi da me, non mi pentirei
mai di aver fatto l’amore con te.» Mi baciò il naso e aspettò che lo
guardassi negli occhi. «Ma temo che dovrai aspettare per rifarlo.»
Una protesta mi era già salita sulla punta della lingua, ma lui mi
interruppe.
«Solo due giorni, tre al massimo. E poi possiamo farlo ogni volta
che vorrai,» mi baciò di nuovo, «quante volte vorrai,» mi baciò
ancora una volta, «e ovunque tu vorrai.»
Io sorrisi e la sua mano scivolò dal mio fianco al mio seno, il suo
pollice prese a tracciare un cerchio attorno al capezzolo. Dio, quanto
amavo le sue mani. Amavo come mi toccava.
«Lo prometti?»
Annuì. «Lo prometto.»
«Allora preparati, perché lo faremo in ogni momento. Finché non
sarò diventata un’esperta.»
«E dopo cosa accadrà?»
«Dopo lo faremo ancora di più.»
Lui ridacchiò, scuotendo la testa, baciandomi e succhiando il mio
labbro inferiore come se non potesse trattenersi. Ma poi il suo
sorriso si affievolì mentre lui si allontanava. Ora il sorriso era più
dolce, i suoi occhi più acuti.
«Jenn, se abbiamo fatto un bambino, allora non smetterò di darti il
tormento finché non mi prenderai come sposo.» Dolorosamente
vulnerabile, il suo tono era anche solenne nella sua promessa.
Io gli passai una mano sopra i ricci caotici. «Lo so. E io non
smetterei di darti il tormento finché non mi prenderesti come sposa.»
«Vuoi essere mia moglie?» Il suo sorriso tornò, ma stavolta era
contenuto, speranzoso.
«Più di ogni altra cosa al mondo.»
Gli occhi mutevoli di Cletus scrutarono i miei, la sua mano
accarezzava e sfiorava ovunque dalla mia spalla fino al mio fianco.
«Allora sposami» mi sussurrò il suo ordine con tono carico di
passione e sincerità.
Lo fissai, fissai quell’uomo, che era stato così orgoglioso. Che era
furbo e potente e buono. Tanti mesi fa, quando l’avevo costretto ad
aiutarmi, non avrei mai neanche immaginato che le cose sarebbero
finite così.
Mi mancava. Persino se era lì con me, adesso, mi mancava. Mi
chiesi se mi sarei sempre sentita così.
«Sì» dissi semplicemente, annuendo. Sentivo quanto lui ed io,
quanto noi fossimo giusti fino al midollo.
Lui non parlò. Mi guardò e basta, come se avessi appeso la luna
nel cielo e disegnato le stelle per accompagnarla.
Mi fece accoccolare contro il suo corpo, intrecciò le sue gambe
possenti alle mie, e Cletus rimase perfettamente immobile. Io feci lo
stesso, godendomi solo il momento. Dopo un po’, il peso della mia
felicità mi sfinì e iniziai a sentirmi insonnolita. Gli occhi mi si chiusero
lentamente.
Ma credetti di sentire Cletus sussurrare nel mio orecchio, un
attimo prima che cedessi al sonno: «Questo è solo l’inizio.»

- FINE -
Della stessa serie

Obbligo o Verità

Jessica James, laureata da poco ma da sempre con la testa sulle spalle, è


pronta a fare ritorno nella sua piccola città natale del Tennessee per prepararsi
alla vita di viaggi che sogna da sempre. Ad attenderla ci sarà la sua eterna
cotta infantile, Beau Winston, il cui sorriso amichevole non ha mai smesso di
farle cedere le ginocchia e annodare la lingua, ma soprattutto il suo avversario
di sempre, Duane Winston, il gemello di Beau.
Due uomini che potranno anche condividere lo stesso cognome e un viso dal
fascino devastante, ma dove Beau è affabile ed estroverso, Duane è
silenzioso e riflessivo.
Complice un simpatico equivoco e un’interessante partita a Obbligo o Verità,
Jessica si ritroverà a chiedersi se dietro alla rivalità con Duane non si
nasconda molto di più. Scoprire l’eterna e insaziabile cotta del gemello
burbero la lascerà decisamente impreparata, per non parlare della scoperta
delle sue mani bollenti, della sua bocca bollente, e del suo aspetto... ancora
più bollente.
Basta un sorriso

Nessuno riesce a resistere alla comicità e alle curve di Sienna Diaz a


Hollywood.
Ma la famosa attrice latinoamericana ha un grosso problema col suo ultimo
progetto: si è smarrita. Si è letteralmente persa tra le nebbiose montagne del
Tenessee nel tentativo di raggiungere la location del suo ultimo film, Green
Valley.
A salvarla da un labirinto di strade isolate e da un violento alterco con la sua
mappa arriva un vero e proprio cavaliere in divisa da Ranger del Parco
Nazionale dai modi galanti e il sorriso dal fascino devastante nascosto sotto
una folta barba scura.
Peccato che il bel ranger sembri non avere la minima idea di chi lei sia...
Jethro è il maggiore dei fratelli Winston, un uomo che ha compiuto delle scelte
sbagliate in passato, ma che negli ultimi cinque anni ha lavorato unicamente
per riguadagnare la fiducia e il perdono della sua famiglia.
Jethro ha evitato le tentazioni e le relazioni superficiali a lungo, ma la donna
nella sua macchina, con le sue curve, le sue fossette e la sua irresistibile
simpatia sembra davvero fatta apposta per lui. Peccato che Jethro non abbia
idea che a Green Valley sia appena arrivata una vera star del cinema…
COLLANA

1. La partita vincente, Kristen Callihan


2. Sweet. Una dolce conquista, J. Daniels
3. La regola dell’amico, Kristen Callihan
4. Bandit, B.B. Reid
5. Per il mio amore, Whiskey, Kandi Steiner
6. Dammi mille baci, Tillie Cole
7. Obbligo o verità, Penny Reid
8. Knight, B.B. Reid
9. Lo schema di gioco, Kristen Callihan
10. Sweet. Una dolce ricompensa, J. Daniels
11. Idol, Kristen Callihan
12. La fattoria dei nuovi inizi, Devney Perry
13. Vicious. Senza pietà, L.J. Shen
14. Bastaun sorriso, Penny Reid
15. La strada dei nostri cuori, Kandi Steiner
16. Io+Te, Elle Kennedy e Sarina Bowen
17. Infamous. Senza Vergogna, L.J.Shen
18. Stars, Kristen Callihan
19. Closer, Corinne Michaels e Melanie Harlow
20. In due sotto un tetto, Helena Hunting
21. Élite. Ossessione e potere, Laurelin Paige
22. Come far perdere la testa al capo, Max Monroe
23. Four & Ever, B.B. Reid
24. Questione di chimica, Penny Reid

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