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ALESSANDRO CALDERONI

Capitolo 1 estratto da:

PER FORTUNA VIVERE È DIFFICILE

Affrontare il Dolore con Consapevolezza e Distacco


per Trasformarlo in Occasione di Crescita

Tutti i Diritti Riservati – Vietata qualsiasi duplicazione del presente ebook


Titolo
“PER FORTUNA VIVERE È DIFFICILE”

Autore
Alessandro Calderoni

Editore
Bruno Editore

ATTENZIONE: questo ebook contiene i dati criptati al fine


di un riconoscimento in caso di pirateria. Tutti i diritti sono
riservati a norma di legge. Nessuna parte di questo libro può
essere riprodotta con alcun mezzo senza l’autorizzazione scritta
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trasmettere ad altri il presente libro, né in formato cartaceo né elettronico, né
per denaro né a titolo gratuito. Le strategie riportate in questo libro sono frutto di
anni di studi e specializzazioni, quindi non è garantito il raggiungimento dei
medesimi risultati di crescita personale o professionale. Il lettore si assume piena
responsabilità delle proprie scelte, consapevole dei rischi connessi a qualsiasi
forma di esercizio. L’Autore e l’Editore declinano qualsiasi responsabilità in
merito ad eventuali danni economico patrimoniali poiché tali consigli sono da
considerarsi esclusivamente di tipo informativo e divulgativo e non promozioni
di prodotti o speculativi. Tutte le leggi e le normative civilistiche e fiscali
dovranno essere osservate anche se non espressamente indicate.

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Sommario

Introduzione

Capitolo 1: Come andare incontro alle difficoltà


Capitolo 2: Come dire no alla rigidità e vivere in modo fluido
Capitolo 3: Come affrontare un dolore privato
Capitolo 4: Come affrontare un dolore pubblico
Capitolo 5: Come gestire il dolore con il tempo e le immagini
Capitolo 6: Come gestire il dolore con il corpo
Capitolo 7: Come capitalizzare la sofferenza
Conclusione
Bibliografia

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Introduzione

Il dolore è un fenomeno democratico: tutti ne abbiamo esperienza,


in modo squisitamente soggettivo. Soffre chi ha una malattia, chi
si procura una ferita, chi patisce pene d’amore e chi subisce un
lutto. Soffre anche chi non riesce a esprimere ciò che pensa, chi
non vive come vorrebbe, chi ha pensieri cupi e chi assiste a una
scena che lo impressiona. Gli eventi e i modi di sentire che
riconduciamo al termine dolore sono pressoché infiniti.

Il dolore fa parte della nostra vita. Quotidianamente e senza


possibilità di paragoni: ciò che a me può sembrare irrilevante ad
altri può causare sofferenza e viceversa, e in ogni caso
quantificare su una scala oggettiva l’intensità dell’esperienza
dolorosa è probabilmente impossibile.

Un pugile, avvezzo a prendere pugni, soffre in modo differente al


contatto con la mano chiusa di un avversario, rispetto al normale
essere umano che non si è mai confrontato con un combattimento
sul ring. Poi magari lo stesso pugile è ricco e viziato e sta

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veramente male se non trova l’auto di lusso che desidera,
esattamente del colore che ha in mente, mentre per la persona
comune comprare un’auto di un colore o di un altro è
semplicemente un vezzo senza grandi conseguenze.

Soffre di più una madre che perde un bimbo o un ambientalista


estremo di fronte a un disboscamento? Un dongiovanni che si
confronta con l’unico rifiuto della sua vita o un marito fedele
lasciato dalla moglie? I parenti di una vittima di omicidio o un
assassino in carcere?

Il dolore è di tutti, e ognuno lo prova in maniera diversa. Tutti


tendiamo a considerare la nostra esperienza come unica,
importante, incomprensibile da parte degli altri. Vogliamo evitare
di soffrire e, vivendo nel continuo tentativo di allontanare da noi
il dolore, sprofondiamo nella paura di provarne. Che è molto
peggio.

L’essere umano riflette da sempre su questi argomenti. Per


Aristotele «il piacere è un determinato movimento dell’animo e
un ritorno totale e sensibile allo stato naturale […] il dolore è il
contrario. Necessariamente, dunque, è piacevole per lo più il

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tendere allo stato di natura […] Gli affanni, i travagli, gli sforzi
sono dolorosi, poiché sono imposti da necessità e forzati».

Per Epicuro e ancor più chiaramente per Lucrezio il piacere è


statico e deriva dall’eliminazione del dolore. E se i mali
dell’anima sono frutto d’errore, il dolore fisico o si sopporta, o
passa presto, o conduce alla morte e la morte è per definizione
assenza di sensibilità.

Seneca è dell’opinione che il dolore sia solamente un disagio che


non turba il virtuoso e ne accresce la forza. Sant’Agostino vede
l’uomo instabile per sua natura e in questa condizione di
privazione originaria del bene pone la sua sofferenza.

Molto dopo, Schopenhauer sostiene che la vita è intrinsecamente


dolorosa perché noi umani siamo sempre a caccia di soddisfazioni
immediatamente superate da nuovi desideri. «Così nel possesso
cresce la misura del necessario e quindi la capacità di provare
dolori». Similmente Kierkegaard afferma che l’angoscia deriva
dalla “possibilità”, cioè dall’eventualità che un evento si verifichi
o non si verifichi, che un’aspettativa si realizzi o non si realizzi: il
dolore in questo caso nasce dall’incertezza del futuro. Nietzsche

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non scappa dal dolore, anzi ne riconosce il peso e lo considera
vitale, facendo capire che la vera felicità non può non passare
attraverso la sofferenza.

Dopo il pessimismo cosmico di Leopardi e le domande senza


risposta di Manzoni, in letteratura il dolore diventa tema moderno
(e postmoderno) con il Novecento e il duro confronto con le
guerre mondiali. Ecco le mille facce di Pirandello, la sanità-
malattia di Svevo, l’incompiuta normalità di Kafka, il mal di
vivere di Montale, il dolore civile (e sociale) di Pasolini, il dolore
attraversato e interiorizzato da Alda Merini.

Il dolore è di tutti. La vita di chiunque ne contiene. Per noi


occidentali è per questa ragione che diventa difficile vivere. Più si
vive più si soffre, più si soffre più vivere è arduo. E si va avanti.
Ci manca, molto spesso, un concetto antico e meraviglioso, quello
di dolore come insegnamento. Splendidamente laico, se
consideriamo che Eschilo già scriveva che «la saggezza si
conquista con la sofferenza». Ma anche profondamente religioso,
se teniamo conto che Cristo porta in teoria la croce da più di
duemila anni. Per il buddhismo invece il dolore è parte della
condizione esistenziale variabile, superficiale, da far scorrere e

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lasciare andare per liberarsi del perenne stato di incompletezza e
insoddisfazione.

Molte filosofie orientali si concentrano sulla riscoperta di ciò che


è intimamente ed elementarmente umano e invariabile: il respiro,
la presenza. Il distacco, in questo senso, è anche libertà dal dolore.
Dice Krishnamurti: «Il dolore non è diverso da colui che soffre.
La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta
di cosa. Ma se contemplate il dolore come si contempla un
bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite
mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a
fondo, che il dolore cessa».

Con grande umiltà, nel mio percorso di vita e ricerca, fin qui, ho
individuato un personale rapporto tra consapevolezza, dolore e
piacere. Penso che la consapevolezza funzioni come una bilancia
interna. Sa che il dolore è molto più leggero del piacere, e
suggerisce di non tentare di annegare il primo nel secondo: il
dolore, infatti, si limita a inquinare il piacere, poi inevitabilmente
torna a galla.

Il mio punto di vista sul rapporto tra sofferenza e riscatto è

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all’incrocio tra il pragmatismo delle psicoterapie brevi o del
pensiero interventista statunitense e il distacco contemplativo
orientale. Accogliere il dolore come esperienza semplicemente
reale significa garantirgli considerazione nel presente, non
ingigantirlo appesantendolo con il passato né amplificarlo
anticipandone il futuro. Si avverte, si lascia che ci attraversi, se ne
osserva l’effetto, si mette da parte. Così il dolore ti libera e ti
lascia libero, ma anche arricchito, perché elimina la paura,
accresce la consapevolezza, aumenta lo spessore umano e rende
reattivi.

In tanti anni di (per)corsi effettuati su staff aziendali, quadri


dirigenti e gruppi di privati o di studenti sui temi della fiducia e
della paura, posso dire con un buon margine di sicurezza che se si
elimina la paura del dolore, il dolore di per sé diventa una forma
di crescita perché allena allo stesso tempo la fluidità e la capacità
di decidere.

Per questo motivo è una fortuna che vivere sia difficile: quando la
vita genera o consente esperienze di dolore, nello stesso momento
fornisce opportunità di crescita personale. Questo ebook è pensato
come un contenitore di spunti e strategie per trasformare le

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difficoltà quotidiane in strumenti di miglioramento.

Scopriremo insieme come adottare con naturalezza e curiosità gli


eventi negativi della vita convertendoli in senso di autoefficacia,
capacità decisionale ed equilibrio personale. Paradossalmente
noteremo il piacere racchiuso nel dolore. Senza alcuna forma di
masochismo. Anzi.

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CAPITOLO 1:
Come andare incontro alle difficoltà

Adesso, proprio mentre leggi queste parole, la tua vita contiene


una miscela di ingredienti non facilmente distinguibili nel sapore
complessivo che assumono tutti insieme. Di cosa sa ora la tua
vita? Riesci a dire che gusto ha? «Certamente – risponderai –
Sono perfettamente in grado di capire come sto, per chi mi hai
preso?» È probabile, in effetti, che tu sia in grado di esprimere
una valutazione sintetica e immediata sulla tua situazione attuale.
In altri termini, sei capace di raccontare come ti senti o come
credi di sentirti. Se provi però a rileggere queste stesse righe tra
qualche ora o tra un paio di giorni, quasi certamente definirai il
tuo stato psicologico ed emotivo in maniera differente.

Succede a tutti. Tornando alla metafora del sapore, a tratti


avvertiamo il nostro “piatto personale” molto dolce, a tratti
amarognolo, qua e là piccante, talora salato. Gelido, bollente,
scarso, eccessivo, entusiasmante, deludente, dal sapore flebile o al
contrario superspeziato e così via. La nostra vita è definita dalla

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lettura che ne diamo, in ogni momento. E in ogni momento questa
lettura può cambiare in base a ciò che accade. Di più: il nostro
modo di sentire muta non solo e non tanto in relazione ai
contenuti in senso oggettivo (gli eventi reali), ma soprattutto in
base a come noi percepiamo e ci rappresentiamo quei contenuti. A
come li cuciniamo nella nostra mente, insomma. Alle emozioni
che producono in noi. Come dire che se il piatto cambia sapore, la
causa è da cercarsi un po’ negli ingredienti, un po’ nella bocca e
nella mente di chi assaggia.

Ci sono sempre cose che ti rendono felice, nella quotidianità.


Cose che al contrario ti intristiscono. E poi eventi che ti fanno
perdere la pazienza, situazioni eccitanti, condizioni rilassanti. Non
esistono momenti in cui tutto è solare né fasi in cui tutto è nero, se
non per brevissime coincidenze. Eppure in ogni istante abbiamo
la sensazione e la presunzione di poter definire univocamente e
graniticamente la nostra condizione.

«Come va?» è la domanda più banale e diffusa del mondo. È


quasi un intercalare, un modo per riempire il vuoto, rompere il
ghiaccio o neutralizzare l’imbarazzo degli incontri. E noi
rispondiamo: «Bene, grazie». Sicuri, precisi. Uno standard

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espressivo. Ma non lo pensiamo davvero. O almeno non lo
pensiamo sempre. Se fossimo semplicemente sinceri, ci verrebbe
da dire con la stessa sintesi estrema qualcosa come: «Oggi è uno
schifo», oppure: «Sono innamorato», o ancora: «Ottimo gelato, a
pranzo». A seconda dei casi.

Se oltre a essere sinceri fossimo anche calmi e consapevoli,


andremmo più nel dettaglio e osserveremmo con cura le nostre
reali condizioni, scoprendo magari che siamo fisicamente in
forma, però tristi per una notizia ricevuta il giorno prima, scaldati
sottilmente da un amore, soddisfatti nell’immediato da un buon
pranzo, infastiditi da un ronzio di sottofondo.

«Bene, grazie» è solamente una formula di cortesia, un patto


sociale. Non vuol dire alcunché. Testimonia soltanto che agli altri
non interessa davvero sapere come stiamo. E che a noi non fa
piacere rivelare quali sono le nostre reali condizioni. Se non
rispondi «bene, grazie», con un sorriso sgargiante e l’aria cool, la
gente ti guarda di sbieco, come se fossi un alieno. Un diverso. E
per non sentirci diversi, chiniamo metaforicamente il capo e giù
con la formuletta insulsa. Tutto bene. Sempre bene.

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È un’associazione a delinquere globale in cui tutti siamo allo
stesso tempo criminali e vittime, perché neghiamo a noi stessi e
agli altri la possibilità di avere uno specchio reale del presente in
cui guardarsi e riconoscersi. Non descrivere come si sta davvero,
anzi negarlo o rimuoverlo, allontanarne la consapevolezza,
mascherandoci sotto una patina di presentabilità che sa di plastica,
è come spazzare in gran fretta la polvere da una casa non in
ordine, ficcando tutto sotto il tappeto perché arriva un ospite
improvviso e bisogna fare bella figura. La spazzatura resta e in
più si fa una fatica tremenda a nascondere tutto in tempo e a
detergersi il sudore che improvvisamente imperla la fronte.

Ecco allora una prima, morbida ma efficace rivoluzione


personale, chiedersi: «Come sto?» Sia chiaro: è impossibile
pensare di smettere all’istante di domandare agli altri come
stanno; e non è nemmeno ipotizzabile l’idea di non rispondere
quando ce lo chiedono o di rovinare la giornata del nostro
interlocutore vomitandogli addosso un elenco di stati emotivi
lungo cinque minuti, mentre lui si aspettava il classico «bene,
grazie». Con voi stessi però lo potete fare. Anche più volte al
giorno.

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Chiedersi «come sto?» è in realtà la punta dell’iceberg della micro
consapevolezza personale, cioè di un fenomeno che si lascia
tranquillamente descrivere come lo spostamento dell’attenzione
sul proprio presente. Quello che molti terapeuti e altrettanti
meditanti chiamano il “qui e ora”. Come si fa? Niente di più
semplice e naturale. Potete cominciare da due veloci constatazioni
oggettive, precedute da altrettante domande: «dove sono?» e
«cosa sto facendo?»

Sembra stupido, ma siamo abituati a fare decine di cose in una


singola unità di tempo e questo comporta che prima o poi la
nostra mente, per risparmiare spazio ed energia, distolga
l’attenzione dalle nostre azioni, rendendole “automatiche”, per
concentrarsi su altro. Un esempio eclatante è quello della guida.
Quando siamo in macchina, infatti, riusciamo a svolgere
contemporaneamente una quantità impressionante di azioni
differenti. Il piede destro controlla acceleratore e freno, quello
sinistro si rilassa o pigia la frizione. Le mani stanno al volante, ma
allo stesso tempo quella sinistra controlla le frecce mentre quella
destra si occupa del cambio ed eventualmente del tergicristalli,
del navigatore, della radio. Contemporaneamente i nostri occhi
guardano avanti e nei tre specchietti retrovisori. E molti

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aggiungono a tutto questo una conversazione con i passeggeri,
una telefonata, un ripasso degli impegni della giornata e altro
ancora.

Parrebbe molto impegnativo, eppure lo facciamo

automaticamente, senza pensarci. È la nostra salvezza, perché


risparmiamo energia, ci affatichiamo di meno e riusciamo a
costruire operazioni complesse. Però è anche la nostra condanna
perché il cervello, abituato a gestire mille stimoli non discerne più
tra loro spontaneamente: il programma mentale “guidare l’auto”
diventa così un unico grande chunk, un blocco di informazioni
unitario, senza dettagli al suo interno. A meno che non
richiamiamo l’attenzione su ogni singola cosa che facciamo
mentre la stiamo facendo.

Ricordi quando hai imparato a guidare? Allora sì che il tuo


cervello era costretto a concentrarsi su tutte quelle piccole eppure
importanti azioni, operate attraverso parti del corpo differenti e
distanti tra loro.

La procedura è diventata automatica quando l’apprendimento si è


consolidato, cioè quando il tuo cervello ha detto: «Ok, ce l’ho», e

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la tua attenzione si è ritratta. Ma se provi a sederti al posto di
guida e, mentre sfrecci in autostrada o ti blocchi in coda in città,
dedichi qualche istante a chiederti dove sei e cosa stai facendo, ti
si dischiuderà in un attimo, e nella sua interezza, il catalogo delle
micro azioni che stai compiendo senza accorgertene. «Mi trovo
nella mia vettura, sono seduto su un sedile anatomico abbastanza
confortevole, la mia schiena è appoggiata, la mano destra stringe
il cambio, la sinistra impugna il volante…». E così via.

Puoi farlo con tutto, in ogni momento. Sono in ascensore, sono in


aula, sono in ufficio, sono in palestra, cammino, sto in piedi, mi
siedo… Un luogo e una serie di azioni. Un’istantanea del tuo
presente. Quando hai fotografato la situazione, puoi arrivare a una
constatazione che sposta la tua attenzione verso l’interno. In
questo caso, mi raccomando, assicurati prima di non avere
bisogno nell’immediato di rivolgere la tua attenzione verso
l’esterno. In altre parole, non farlo mentre stai guidando, mentre
operi un paziente o durante la rincorsa di un calcio di rigore.

Quindi dal dove/cosa, sposta l’attenzione sul respiro e osserva


semplicemente qual è il suo ritmo, senza interferire. Prendine
coscienza, tutto qui. Pochi secondi e sarai a contatto con te stesso.

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È questo il momento di porsi la domanda da cui siamo partiti.
«Come sto?»

Più che frutto di una ricerca analitica, la risposta diventa


un’emersione spontanea. Come se avessi una torcia in mano e con
serenità illuminassi tutto il tuo sentire, fino a poco prima
custodito al buio, limitandoti a osservare ciò che sotto il tuo fascio
di luce acquista forma e diventa ineludibile. Ascoltati. Le prime
volte noterai un flusso caotico di sensazioni che turbinano sotto la
tua attenzione, quasi a voler confondere la tua trasparente
domanda.

Con l’esercizio potrai capire che la sensazione di caos deriva


dall’atteggiamento della tua mente, che pretende di dirigere il
traffico in ogni momento e non rinuncia mai a capire cosa
succede, cosa sono quei pensieri che si muovono così
vertiginosamente, da dove vengono e in che direzione si
muovono. Impara a osservare, come se fossi al balcone e
guardassi ciò che succede giù, per strada. Si depositeranno a poco
a poco emozioni più rilevanti, la tua mente subito giocherà a
etichettarle e tu potrai coscientemente comporre un quadretto
articolato. «Sono allegro per questo, incasinato per quest’altro,

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sereno, un po’ risentito…».

Quando hai fatto scorrere sensazioni ed emozioni e hai


individuato quelle salienti, componendo il quadretto, prova a
ripeterle anche ad alta voce, pur parlando sempre a te stesso.
Premetti sempre le parole: «In questo momento, mentre mi
trovo… e faccio…, mi sento…», così non rischi di
autoprogrammarti in maniera duratura associando giudizi al tuo
stato generale, anzi contestualizzi la tua condizione rendendola
relativa, momentanea, consapevolmente passeggera, nel bene e
nel male.

Rifacendo l’esercizio in un contesto differente, più tardi, mentre


sei impegnato in altre azioni, vedrai che molte delle tue emozioni
dominanti risulteranno differenti. Eppure sei la stessa persona e la
vita è sempre la tua.

TEMA n. 1: per capire quali sono le tue condizioni in uno


specifico momento, chiediti: «Come sto?», dopo aver
contestualizzato la situazione rispondendo alle domande:
«Dove sono?», e «Cosa sto facendo?»

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Con un po’ di pratica sarai in grado di annotare mentalmente
alcune considerazioni interessanti e piuttosto utili. In particolare
tre. La prima: Eraclito aveva maledettamente ragione, tutto scorre
davvero. La seconda: Eraclito avrà anche avuto ragione ma ci
sono alcuni elementi, tra le mie emozioni, che si ripresentano
piuttosto simili nel tempo. La terza: Eraclito a volte ha torto,
esistono anche punti fissi, invarianti, nel mio modo di essere e di
sentire.

Non è filosofia ma pura constatazione pratica. Quando esisto e


respiro, in effetti esisto e respiro: posso assumerla come certezza.
Ed è il punto tre. Risalendo, ecco il due: se i miei tratti di
personalità, il mio carattere e le mie attitudini tendono a
muovermi spontaneamente in una direzione particolare, il mio
atteggiamento nei confronti della vita sarà più spesso o più
intensamente di quel tipo (allegro, attivo, contemplativo, insicuro
ecc.), a patto che abbia il coraggio, la quiete e l’interesse
necessari per riconoscere e assecondare le mie naturali
inclinazioni.

Punto primo, infine: tutto il resto cambia, come abbiamo già


chiarito. E se tutto cambia, se la mia vita è un movimento

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continuo di stati e modi, è umanamente impossibile che io provi
sempre e soltanto emozioni positive.

La vita ha nella sua stessa struttura una compresenza di segni più


e meno. Di positivi e negativi. Di polarità opposte eppure
complementari. Come ogni forma di energia e di anatomia in
natura. Come ogni forma di pensiero filosofico ed esoterico che si
proponga di cercare una sintesi tra gli estremi. Bastino ad esempio
i casi di dualismo passati in rassegna da Jung nelle sue ricerche
sui simboli: maschio/femmina, umano/divino, conscio/inconscio,
bene/male, Cristo/Anticristo, Shiva/Shakti, Yin/Yang,

physika/mystika, luce/ombra, scienza/fede, esteriorità/interiorità.

Il dualismo, il doppio, non si elide negando un estremo. Al


massimo, così facendo, lo si elude. Si fa finta di niente. Come
quando rispondiamo: «Bene, grazie». Essere coscienti del doppio
non è un punto di partenza ma probabilmente il punto di arrivo di
ogni ricerca personale. Per essere più precisi: si può partire con la
nozione di equilibrio o sintesi tra gli estremi ma gestirne il
dinamismo continuo e l’infinito incontro/scontro è questione di
vita vissuta, non di libri studiati o informazioni imparate a
memoria. Per alcuni è consapevolezza, per altri illuminazione, per

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altri ancora imperturbabilità. È l’età adulta, in un mondo di eterni
adolescenti.

Se la vita è una delle mille applicazioni reali del simbolo del


doppio, cioè un contenitore naturale di opposti, non è possibile
rinunciare a viverne anche la parte negativa, scomoda, dolorosa.
Per questa ragione la mia personale posizione è contraria agli
atteggiamenti di imperterrito ottimismo e tecnicistico pensiero
positivo. Se è vero infatti che autoprogrammarsi attraverso una
rappresentazione solare, piena di successo, sorridente e rosea può
comportare ottimi esiti nell’immediato – ad esempio, un
cambiamento di stato emotivo che favorisca un buon risultato
lavorativo o personale, insomma aiuti in una conquista agognata –
è altrettanto vero che una costante alterazione artificiale del nostro
modo di vedere il mondo ci abitua a una specie di doping emotivo
quotidiano che tende ad allontanarci dalla realtà. Quasi
rendendocela indesiderabile di default, invece di spianarci la
strada.

Facciamo un esempio. Nel caso in cui tu abbia paura di un esame


o di un appuntamento perché sai che l’esito può essere molto
importante per te e per la tua vita futura, è indubbiamente efficace

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l’adozione delle tecniche mentali di pre-visione di un futuro
positivo.

Per aiutarti puoi chiudere gli occhi e immaginare la situazione


reale del tuo colloquio, raffigurandoti il migliore degli esiti
possibili, osservando i volti degli interlocutori, focalizzando
l’attenzione su come ti sentirai in quella condizione di vincitore e
poi ripercorrendo piano a ritroso le piccole tappe che ti hanno
portato a quel successo. È una tecnica autosuggestiva molto utile,
indubbiamente. Però funziona bene su eventi singoli o almeno su
categorie specifiche di eventi.

Se per ogni colloquio, ogni incidente, ogni dolore piccolo o


grande dovessimo riprogrammarci cambiando il sapore naturale
della nostra vita, finiremmo col cercare ansiosamente in ogni
momento uno stato emotivo “altro”. Poi, a poco a poco, questo
“altro” diventerebbe un “oltre”, cioè il desiderio di avere sempre
qualcosa di più, di stare sempre meglio. Non ci accontenteremmo
più del nostro presente, finiremmo col non stare mai bene
nell’immediato e rischieremmo di dover intervenire più che di
frequente per ridisegnare la nostra vita a ogni curva. Poiché,
inoltre, non è detto che l’esito sia sempre positivo, il rischio

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successivo è che prima o poi l’impalcatura crolli e si dischiuda
inaspettato e fulmineo l’aspetto meno gradevole del dualismo: la
mazzata sui denti.

Ti consiglio quindi di imparare dalle semplici domande di prima,


e dall’osservazione tranquilla delle tue condizioni, che il dolore è
inevitabile. Prima o poi lo incontrano tutti. Anche tu. Chi lo nega
semplicemente è un bugiardo o non ha la benché minima capacità
di contattare la propria interiorità. Rilassati e guarda bene dentro
di te. Anche in questo momento ci sono parti del tuo “ripieno”
emotivo che si trovano a contatto con un’esperienza dolorosa o
che in ogni caso ti piacerebbe convertire in qualcosa di più bello.
Osservale e accettale con serenità.

TEMA n. 2: il dolore è inevitabile e tutti, prima o poi,


soffrono. Non opporti a questa naturale caratteristica della
vita, anzi, quando la incontri, rilassati e osservala con
neutralità.

Praticando arti marziali o comunque cimentandosi

nell’apprendimento di strategie e tecniche di combattimento


corpo-a-corpo, una delle prime cose che si imparano –

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esplicitamente o implicitamente a seconda dei maestri che si
incontrano – è la netta distinzione tra dolore e paura del dolore.
Prendere un pugno o un calcio, com’è intuibile, non è mai
un’esperienza piacevole. L’effettivo dolore che si prova al
momento dell’impatto, però, è decisamente inferiore al male che
avremmo immaginato di provare, carichi di paura. È stato studiato
negli ultimi anni un effetto neurologico interessante: più temiamo
il dolore fisico, più la sensazione di dolore, preattivata dalla
nostra aspettativa, risulterà intensa se si verifica davvero.

Tanto per citare una delle ultime ricerche tra le numerose


disponibili sul tema, alla fine del 2009 Mathieu Roy
dell’università di Montreal, Canada, ha pubblicato sulla rivista
scientifica PNAS (Proceedings of the National Academy of
Sciences) gli esiti di uno studio effettuato somministrando
immagini o suoni, positivi o negativi, ad alcuni soggetti
volontariamente sottoposti al dolore di una piccola scarica
elettrica. L’analisi della risonanza magnetica funzionale effettuata
sulle aree cerebrali del dolore dei protagonisti dell’esperimento ha
dimostrato che immagini o suoni cupi o in grado di indurre paura
amplificano la sensazione dolorosa, mentre foto o audio divertenti
e solari la riducono.

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Le emozioni, insomma, intervengono direttamente sulla
percezione del dolore. Cioè, tornando alla metafora marziale, se
temi di prendere un pugno non solo è più probabile che tu lo
prenda ma è anche sicuro che sentirai più male perché la tua
percezione sarà amplificata dall’aspettativa negativa.
Il meccanismo funziona anche sul piacere, basti pensare ai maschi
che soffrono di eiaculazione precoce: con le dovute distinzioni tra
reali problemi organici (la minoranza) e disagi di natura
psicologica (la maggior parte), più queste persone pensano in
modo contratto e ansioso all’intensità e all’imminenza
dell’orgasmo, più vi si avvicinano ineluttabilmente; al contrario,
più si liberano dall’angoscia del tempo e dalla considerazione
delle conseguenze, meglio riescono ad accogliere il piacere come
evoluzione lenta, progressiva e gestibile.

Non dimentichiamo che paura e ansia fanno il loro lavoro:


mettono il corpo sul “chi va là” per renderlo,

evoluzionisticamente parlando, pronto a scappare dal predatore.


Nella quotidianità, però, è utile adottare due atteggiamenti che
consentono di tenere il livello di allerta medio più basso o di
alzarne la soglia, che poi è la stessa cosa ma da un punto di vista

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differente.

Il primo atteggiamento utile è convincersi che in giro non ci sono


solamente “predatori” e capire che agitarsi peggiora in ogni caso
l’effetto di qualsiasi incontro sgradevole. Il secondo
atteggiamento deriva dalla constatazione che abbiamo condiviso
prima: il dolore è inevitabile, perciò non ha senso che tu abbia
paura di una cosa che non può non essere, perché sarebbe come
temere costantemente un compagno di vita.

Quando hai paura, il tuo corpo si irrigidisce. E quando il corpo è


rigido è pronto all’azione fulminea ma è anche meno in grado di
accogliere ed elaborarne le conseguenze in maniera selettiva,
morbida e priva di effetti collaterali indesiderati. Se ti alleni a
rinunciare alle esagerazioni della paura, mantenendo il corpo e la
mente rilassati, attivi, distaccati per quanto ti è possibile dagli
eventi, otterrai un comportamento duttile, correggibile, senza
strappi. E il dolore sarà un’esperienza come un’altra, con un
sapore semplicemente diverso.

È possibile fare alcuni esperimenti fisici per capire meglio e


rapidamente i vantaggi della rinuncia alla rigidità rappresentata

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dalla paura. Stenditi sul pavimento e chiedi a una persona
possibilmente pesante di sdraiarsi a pancia in giù sul tuo torace,
perpendicolarmente rispetto a te. Digli di tenere tutti i muscoli
ben tesi e di stare rigido come se fosse un tronco d’albero. A
questo punto, stando sotto, prova a farlo rotolare via o a sollevarlo
e vedrai che la sua rigidità non gli sarà per niente d’aiuto e
giocherà anzi a tuo vantaggio.

Se ripeterai lo stesso esercizio chiedendo al partner di spalmarsi


sul tuo addome senza peso, senza forza, come una macchia d’olio,
eliminando qualunque forma di tensione muscolare, troverai quasi
impossibile riuscire a liberarti di lui e anche solo spostarlo sarà
impegnativo. Per capire ancora meglio l’esempio, provate a
invertire i ruoli e senti, ora che sei sopra, come in condizioni di
rigidità risulti fintamente sicuro mentre in realtà ti percepisci
subito come indifeso; al contrario, restare morbido e fluido ti aiuta
a gestire in tempo reale gli spostamenti della persona che si trova
sotto di te, riuscendo senza alcuna fatica a rimanere al tuo posto.

Per mettere a fuoco in maniera ancora più efficace quali sono i


vantaggi di un assetto morbido – cioè dell’assenza di paura del
dolore – prova a lavorare di nuovo in coppia e chiedi al tuo

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compagno di esperimento di saltare a piedi uniti sul posto,
ininterrottamente e a muscoli tesi: ora, standogli di fronte,
spingilo o colpiscilo mentre salta e constata con quale facilità una
piccola spinta da parte tua genera un grande spostamento del suo
corpo.

Adesso chiedigli di cambiare atteggiamento e di saltare sul posto,


senza fermarsi, con il corpo morbido e duttile. Quando proverai a
intervenire sulla sua traiettoria, in questa seconda modalità, ti
renderai conto della naturalezza con cui il tuo amico adesso
resiste alle sollecitazioni rimanendo sulla verticale o spostandosi
di poco, perché il suo corpo è in grado di assorbire
dinamicamente l’urto e lo incamera senza alterare l’intenzione né
la direzione del salto. Naturalmente poi scambiatevi di ruolo e
ancora una volta provate il sapore dell’esperienza di cui poco
prima ha goduto l’altra persona.

Non ti basta? Vuoi un terzo esempio fisico che lambisca il tema


del dolore? Ok, questo esercizio fa impressione, perciò preparati a
provare una sensazione fisicamente ingombrante. Sdraiati per
terra e chiedi al solito amico di salire con entrambi i piedi sul tuo
addome, rimanendo in equilibrio su di te per una decina di

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secondi (può aiutarsi eventualmente appoggiandosi con una mano
su un mobile). Qui sarai direttamente tu a sperimentare subito la
differenza tra rigido e morbido. Occhio a fargli presente di evitare
le costole fluttuanti e i genitali, con le scarpe, per non farti male.

La prima volta irrigidisci gli addominali prima che lui salga, come
se fossi un gradino. Passano i dieci secondi e il tuo partner scende
dalla parte opposta. Come ti senti? Nota bene: gli addominali
sono indolenziti, la schiena probabilmente affaticata e tu sei stato
in apnea per tutto il tempo dell’esercizio.

Ora riprova rilassando completamente i muscoli. Non temere, non


ti farai male, anche se lo stai pensando. Respira sincronizzando
l’aria che entra nelle tue narici ed esce dalla tua bocca con i
movimenti del tuo compagno. Rilassa senza timore la pancia e
lasciagli fare i suoi dieci, venti secondi su di te.

Quando scende, osserva di nuovo: la pancia è indolenzita quanto


prima ma in maniera differente, la schiena non è affaticata e tu sei
più disteso perché hai respirato durante la performance. Inoltre,
prima ti aspettavi che con l’intervento dei muscoli il fastidio fosse
minimo, e hai avuto una sgradevole sorpresa; con il ventre

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morbido temevi di provare dolore e invece questa aspettativa
negativa è stata delusa. Ancora una volta, insomma, la paura del
dolore e il dolore si sono rivelati qualitativamente e
quantitativamente differenti. E se tu avessi accolto il peso del tuo
amico sull’addome non soltanto rilassandolo, ma anche sapendo
già che sarebbe stato semplice e indolore, avresti potuto anche
spostare l’attenzione dall’esercizio senza accorgerti neppure dei
piedi che ti schiacciavano.

TEMA n. 3: dolore e paura del dolore sono cose diverse. La


prima è una sensazione, la seconda un’emozione che può
influenzare l’altra amplificandone gli effetti. Se ti rilassi e
rinunci alla paura, provi meno dolore.

Che tu abbia paura oppure no, che tu compia sforzi inauditi per
evitarti qualunque sofferenza o che tu viva nella piena
consapevolezza, la vita è un’oscillazione continua tra il segno più
e il segno meno, come abbiamo visto. Prima o poi il dolore bussa
alla porta. Non preoccuparti: apri. È meglio così, anche perché è
probabile che, se non apri in tempo, quello butti giù la porta e,
non importa se è blindata, avrà facile accesso.

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Sorprendi il tuo dolore: accoglilo come faresti con un ospite
gradito. Osserva come si comporta, senza farlo sentire in
imbarazzo. Custodisci e accarezza con neutralità questa emozione
negativa. Semplicemente lascia che sia, non avvitare la tua
attenzione su di lei. Sai che c’è, che si muove dentro di te, che ha
un inizio e una fine come tutto.

Mentre soffri, mentre incontri una delle mille screpolature che ti


fanno pensare che vivere è difficile, abbi la lucidità di ricordare a
te stesso che spostando lo sguardo dal dolore, proprio in questo
momento, ci sono altre parti della tua vita che imprevedibilmente
generano piacere o sono neutre. Vivi pure un’emozione alla volta,
senza inquinarle sovrapponendole. Però sii consapevole che ogni
emozione è legata a un’esperienza o a un nodo di esperienze e che
girandoti e non lasciandoti possedere in maniera pervasiva da una
sola di esse, potrai cambiare condizione e percezione del tuo
stato. Non aggrapparti al dolore più di quanto lui si attacchi a te.
Lascialo scorrere liberamente, quando senti che vuole andare via.

Torna alla domanda iniziale: «Come sto?» Se rispondi in modo


sincero e articolato, e poi prendi coscienza di ogni singolo
anfratto della tua risposta, puoi giocare a osservare il tuo stato

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emotivo dall’alto, sorvolandoti, lasciando che picchi positivi ed
esplosioni di dolore convivano in spazi diversi dell’unico
contenitore che osservi (e ricordati che sei tu!). In pochi minuti ti
accorgerai che le sensazioni estreme, piacevoli o dolorose che
siano, tendono a sciogliersi e a convergere verso il centro.

Il dolore, lasciato libero, sfoga il suo apice e si attutisce, così


come il piacere. Al contrario più lo trattieni, più si divincola
facendo soffrire la tua psiche e il tuo corpo all’unisono. Se
proprio devi trattenere, impara ad applicarti in questo senso al
piacere, facendolo vibrare dentro di te come un’eco di cui godere
a lungo. Evita di bloccare il dolore. Il magone, l’autoafflizione, il
rimuginare a lungo che tanto ci seducono quando siamo tristi, non
modificano la realtà esterna e peggiorano quella interna.

Ripeto: fai scorrere. Che è diverso dal “lasciare correre”. Si tratta


di un’osservazione attenta e distaccata, non di un modo per
chiudere gli occhi e rinunciare alla coscienza. Se riesci, non
ostacolare nulla, dimenticati le barriere. Intervieni il meno
possibile. Osserva, appunto. Dall’alto. O dal basso, se preferisci.

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TEMA n. 4: accogli il dolore come un ospite gradito o quanto
meno non inatteso. Custodiscilo, osservalo e fallo esaurire con
naturalezza mentre hai coscienza che non rappresenta tutto il
tuo sentire ma solamente una parte.

L’utile abitudine di osservarci senza giudicarci, di guardare il


movimento della nostra corrente interna senza farci travolgere dai
flutti, oltre a dare risalto a come stiamo davvero e a quale sapore
abbiamo, ci insegna a poco a poco a cogliere alcuni
funzionamenti stravaganti di noi simpatici essere umani. Non
solamente pensiamo di prim’acchito che una singola emozione sia
totalizzante, salvo poi accorgerci con un po’ di esercizio che non
è vero, ma siamo anche indotti a dimenticare quella stessa
enorme, ingombrante, irriproducibile emozione appena ne arriva
una più nuova, intensa, non necessariamente migliore. È il
principio del “chiodo scaccia chiodo”.

Facciamo un esempio. Oggi sono triste perché una persona cui


tengo mi ha risposto male. È successo da poco. L’umiliazione, o
forse l’indignazione, è ancora troppo recente e forte. Mi sembra di
avere la testa piena di tensione. Lacrime non piante agli angoli
degli occhi. Mani che si stringono per comprimere la stizza. In

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questa condizione di partenza, qualunque cosa mi accada nei
prossimi minuti provocherà in me uno stato d’animo che si andrà
a insediare su quello già esistente, aumentandone l’effetto o
sostituendolo.

Può succedere quindi che io cammini sul marciapiede e arrivi al


semaforo, senza sapere cosa mi attende a seconda della direzione
che prendo. Se giro a destra, un’automobile lanciata a gran
velocità centrerà una pozzanghera a un metro da me, bagnandomi
completamente da capo a piedi: la rabbia partirà dalla base
negativa dell’indignazione maturata per la cattiva risposta
ricevuta in precedenza ed esploderà probabilmente in una
manifestazione esteriore, come grida, aggressività, tremori,
sommandosi all’emozione di prima.

Se invece giro a sinistra e attraverso la strada, sul marciapiede


opposto trovo una banconota da 50 euro e poiché non c’è nessuno
che la reclami nelle immediate vicinanze, la raccolgo,
dedicandole addirittura un sorriso di sorpresa mista a felicità,
anche se lo stimolo è piccolo e momentaneo: in questo caso
l’indignazione lascia spazio a un’emozione differente e
antagonista.

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Così accade con ogni evento e con ogni emozione: partiamo da
una determinata condizione, ci investe un input esterno (o interno,
nel caso di un pensiero), siamo posseduti da una nuova emozione,
mentre la prima, depotenziata, giace sottostante, destinata
eventualmente a tornare in auge più tardi. Poi arriva una terza
emozione, quindi una quarta, ciascuna prendendosi gli onori della
ribalta, i riflettori del proscenio e mettendo in secondo piano le
altre, che pure continuano a rimanere in piedi, a livelli più bassi,
oppure se ne vanno, scalzate da quelle più recenti.

Alla fine la nostra giornata interna diventa un dialogo infinito tra


decine di attori-personaggi-emozioni differenti che spesso
prendono la parola anche se l’evento scatenante è lontano nel
tempo e dalla vita di chi contiene tutta questa bolgia. Grazie a
questo brusio interiore abbiamo sempre una sensazione di
affaticamento mentale, non c’è mai un momento di calma, di
vuoto. Di silenzio. È come se non ce la facessimo a far scorrere
via le emozioni. Le teniamo tutte. Lasciamo che si attacchino con
le loro ventose ai nostri pensieri. Girano i pensieri, ruotano anche
le emozioni. Si ripresenta un pensiero, ecco subito l’emozione
connessa. E il nostro comportamento di conseguenza: frenetici,

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iperattivi, animati da una corrente elettrica che non si stacca mai.

Prova a immaginare di piazzare una microspia nel flusso dei tuoi


pensieri e supponi di registrare per una giornata intera tutte le
voci, le idee, gli umori, i toni che si affastellano e si
sovrappongono mentre vivi. Immagina di poter sbobinare tutto
con ordine, una volta a casa, di sera. Pensa a quante pagine di
discorsi ripetitivi, a volte senza capo né coda, salterebbero fuori.
Migliaia di pagine. Decine di ore di voci sovrapposte. E così
anche le emozioni. Assisti alla loro successione come a una sfilata
di vestiti in passerella: quando arriva una modella-pensiero o un
modello-ricordo osservi il vestito-emozione finché è lì davanti,
poi ne arrivano altri due e li gestisci contemporaneamente, quindi
altri tre e così via.

Il nostro sistema nervoso centrale funziona come una rete. Tante


cose avvengono simultaneamente. Tanti input, tanti output. Parti
lontane del sistema nervoso centrale concorrono magari a
produrre un solo effetto lavorando contemporaneamente su più
fronti. E la nostra abitudine a sovrapporre situazioni e pensieri,
complicandoci la vita, addestra il nostro cervello a produrre
immagini e contenuti sempre più stratificati e interdipendenti.

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Come se tutto, sempre, dovesse avere un senso e un ordine.
Potesse essere previsto. Incasellato. Catalogato.

Quando un meditante orientale respira, quando un tiratore scelto


prende la mira, quando un campione di apnea si immerge, la loro
mente è vuota, la loro attenzione è focalizzata, la percezione
espansa. Il dialogo interno di chi ha un buon contatto tra la mente
e il corpo è un dialogo silenzioso. Perché il corpo ha un
funzionamento più semplice del suo sistema nervoso. Non fa rete
nello stesso modo, non tiene in circolo informazioni inutili
ruminandole di continuo, mantiene un assetto centrato, cerca e
regola il proprio equilibrio con relativa facilità.

Il corpo può insegnare alla mente a svuotarsi per cercare il suo


centro. Rallentando i movimenti in contrasto con la velocità dei
pensieri e delle immagini mentali, ad esempio. Constatando come
le sensazioni e il prodotto fisico delle emozioni siano vissuti
gestendo una classe di stimoli alla volta e poi lasciando che si
riassorbano e scivolino via. Alla mente il corpo può sembrare
stupido, ma se ne applica con consapevolezza i “modi”,
trasferendoli al regno del pensiero, riesce finalmente a trovare un
bandolo nell’inestricabile matassa delle voci che l’affollano. Una

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voce alla volta, prego. Un’emozione alla volta, avanti. E shhhhhh,
silenzio voi altre.

Questa, forse, è la formula del piacere. Che non è solamente


“piacere” tout court, cioè un’intensa emozione positiva. Né, per
opposizione, la semplice assenza di dolore. È qualcosa di più
complesso e sottile: la possibilità per ogni emozione – positiva e
negativa – di dispiegarsi senza ostacoli nel nostro sentire, fluendo
liberamente fino a esaurirsi, lasciandoci arricchiti in ogni caso, e
terribilmente liberi dai condizionamenti che invece ci vengono
imposti quotidianamente dalla compresenza di decine di istanze
emotive di segno opposto. Dolore e piacere, in quest’ottica, non
sono antitetici ma simili. Ugualmente nostri, forti, passeggeri.

La vita è difficile, ok. E lo è perché ci spinge a considerare in


ogni momento che esiste anche il polo opposto. Noi non
vorremmo vederlo, se le cose ci vanno già bene. O non riusciamo
a vederlo, se ci sembra che vada tutto male. Più che sperperare
energie nell’improbabile convivenza occasionale di modi
differenti di sentire, più che fare i vigili all’incrocio di tutte le
voci che ci popolano, investiamo impegno nel trovare il silenzio
che le accomuna tutte. Capisco come sto ora, accetto che è una

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condizione reale e realmente passeggera, non mi ci arpiono, la
guardo passare e vado liberamente a quella successiva. È questo
percorso infinito di crescente consapevolezza, il piacere più
profondo. Insegnarci a relativizzare ogni condizione presente è il
più grande regalo del dolore.

TEMA n. 5: quando il nostro affollato dialogo interno si placa


e la mente ascolta il corpo, il silenzio che emerge permette alle
emozioni di mostrarsi per ciò che sono, una alla volta. Piacere
e dolore arrivano a equivalersi profondamente. E già
accorgersene è un nuovo, vero piacere.

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RIEPILOGO DEL CAPITOLO 1:
 TEMA n. 1: per capire quali sono le tue condizioni in uno
specifico momento, chiediti: «Come sto?», dopo aver
contestualizzato la situazione rispondendo alle domande:
«Dove sono?», e «Cosa sto facendo?»
 TEMA n. 2: il dolore è inevitabile e tutti, prima o poi, soffrono.
Non opporti a questa naturale caratteristica della vita, anzi,
quando la incontri, rilassati e osservala con neutralità.
 TEMA n. 3: dolore e paura del dolore sono cose diverse. La
prima è una sensazione, la seconda un’emozione che può
influenzare l’altra amplificandone gli effetti. Se ti rilassi e
rinunci alla paura, provi meno dolore.
 TEMA n. 4: accogli il dolore come un ospite gradito o quanto
meno non inatteso. Custodiscilo, osservalo e fallo esaurire con
naturalezza mentre hai coscienza che non rappresenta tutto il
tuo sentire ma solamente una parte.
 TEMA n. 5: quando il nostro affollato dialogo interno si placa
e la mente ascolta il corpo, il silenzio che emerge permette alle
emozioni di mostrarsi per ciò che sono, una alla volta. Piacere
e dolore arrivano a equivalersi profondamente. E già
accorgersene è un nuovo, vero piacere.

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ALESSANDRO CALDERONI

Capitolo 1 estratto da:

PER FORTUNA VIVERE È DIFFICILE

Affrontare il Dolore con Consapevolezza e Distacco


per Trasformarlo in Occasione di Crescita

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