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Stefano Colonna, Giancarlo Folco

La chimica nel piatto:


fatti e misfatti
delle diete
Con contributi di:
Paolo Buonaiuto


La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete
Stefano Colonna, Giancarlo Folco

ISBN 978-88-6756-701-0

Indirizzo e-mail: shcmilan@springer.com

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20137 Milano Pubblicato nel mese di settembre 2022
www.springerhealthcare.it Hanno collaborato alla revisione di questo testo Alessandro
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Stefano Colonna, Giancarlo Folco

La chimica nel piatto:


fatti e misfatti
delle diete
Con contributi di:
Paolo Buonaiuto
La natura della terra, la qualità dei suoi frutti e la differenza dei climi
hanno contribuito alla varietà dei colori, e alla diversità delle figure e dei
temperamenti di ciascuno degli uomini.

(Edme-Gilles Guyot, Nouveau système du microcosme, ou traité de la


nature de l’homme, La Haye, M.G. de Merville, 1727)

Our understanding of how diet affects health is limited to 150 key


nutritional components that are tracked and catalogued by national
databases. These nutritional components are only a small fraction of the
more than 26.000 distinct, defined bio-chemicals present in our diets.

(Barabási, AL., Menichetti, G. & Loscalzo, J. The unmapped chemical


complexity of our diet. Nat Food 1, 33–37 (2020))
Gli autori

Stefano Colonna è stato professore ordinario di Chimica Organica della


Facoltà di Farmacia dell’Università degli Studi di Milano e per molti anni
direttore scientifico della Fondazione Carlo Erba di Milano, per la quale ha
organizzato numerose conferenze internazionali.Ha fatto parte del Pole
Scientifique des Universités di Grenoble. È autore di più di duecento pub-
blicazioni scientifiche su riviste internazionali e coeditore del libro Self
Production of Supramolecular Structures (Klewer Academic Publishers
1994). Ha scritto quattro libri sugli alimenti:
- Cucina e scienza. Ingredienti-processi e menu (Hoepli 2008),
- I cibi della salute. Le basi chimiche di una corretta alimentazione
(Springer 2013),
- Alimenti vegetali e salute. Alla scoperta delle sostanze biologicamente
attive negli alimenti di origine vegetale (Aracne 2014),
- La chimica nel piatto- Alimenti vegetali e l’arte di vivere sani (Aracne
2019). Collabora abitualmente con la rivista Prometeo edita da Mondadori.

Giancarlo Folco è stato professore ordinario di Farmacologia della Facoltà


di Farmacia dell’Università degli Studi di Milano e per molti anni responsa-
bile del Joint Research Program, NHLBI-CNR, per la ricerca e la medicina
respiratoria. È stato (AA 2003-2004) Visiting Scientisti presso il Dip. di
Farmacologia (prof. R.C. Murphy), Università del Colorado, Denver CO,
USA. È stato (1975-2005) Segretario Scientifico della serie di conferenze
“Advances in Prostaglandin, Thromboxanes and Leukotriene Research”.
È autore di 150 pubblicazioni scientifiche su riiviste internazionali e co-e-
ditore dei seguenti libri:
- Molecular Biology and Pharmacology of Cyclic Nucleotides, Elsevier/
North Holland
- Leukotrienes and Prostacyclin, Plenum Press
- Drugs affecting Leukotrienes and other eicosanoid pathways, Plenum
Press
- Advances in Prostaglandin and Leukotriene Research: Basic Science
and New Clinical Applications, Springer-Kluwer
- Advances in Prostaglandins, Thromboxanes and Leukotriene Resear-
ch, vol. 23, Raven Press
- Asthma Treatment, a multidisciplinary approach, Plenum Press
Ha scritto (con S. Colonna e F Marangoni) “I cibi della salute. Le basi
chimiche di una corretta alimentazione” (Springer 2013).

VII
Indice

Prefazione XV
Introduzione XVII
Capitolo 1 - I principi delle diete 1
1.1 Rapporti degli isotopi stabili: biomarkers nutrizionali 1
1.2 Frequenza dei pasti 3
1.3 Alimentazione in un tempo ristretto 4
1.4 Digiuno intermittente e periodico 5
1.5 Diete che imitano il digiuno 6
1.6 Una dieta vegetale di 17000 anni fa 7
1.7 Una dieta per astronauti 8
1.8 Fiori commestibili come fonte di nutraceutici 10
1.9 Nutrizione, cibo biologico (BIO, Organic) e miglior
sostenibilità della dieta 11
1.10 Trasmissione ed apprendimento sociale della sicurezza
del cibo negli animali (social transmission of food safety) 12
1.11 Interazioni farmaci-alimenti 12
1.12 Nuove coltivazioni di piante per la sicurezza alimentare 13
1.13 Nutrire il cervello 16
1.14 Proprietà nutraceutiche dei carotenoidi 17
1.15 Alimenti allergizzanti (o allergenici) 19
1.16 I nitrati della dieta e la performance fisica 23
1.17 Produzione e metabolismo di ossido nitrico 24
1.18 Nitrati e nitriti negli alimenti 25
1.19 Ingredienti alimentari che migliorano lo stato di salute 27
1.20 Sulforafano 29
1.21 Vitamina D 30
1.22 Il ruolo della carne rossa nella nostra alimentazione:
nutrizione e benefici per la salute 31
1.23 Analoghi della carne come cibo del futuro 33

IX
1.24 Alternative nutrizionali alla carne 36
1.25 Alimenti ricchi in proteine animali e vegetali e stato di
salute cardiovascolare: un enigma complesso 37
1.26 Alimenti di origine vegetale e microbioma nella tutela
della salute e nella prevenzione della malattia 38
1.27 Ruolo delle fibre dei cereali nei processi digestivi 41
1.28 Il vegetarianismo (o vegetarismo) è salutare per gli adulti
ed i bambini? 44
1.29 Il microbiota e la malnutrizione: impatto dello stato
nutrizionale nelle prime fasi della vita 46
1.30 I microbi aiutano a controllare (“monitorare”) il tempo 47
1.31 Sindrome metabolica 50
1.32 I microbi intestinali metabolizzano i farmaci utilizzati
nel trattamento farmacologico del morbo di Parkinson 51
1.33 Integratori alimentari 52
1.34 Capacità antiossidante totale e aspettativa di vita 53
1.35 Insetti nella dieta, una fonte di proteine 54
1.36 Le alghe negli alimenti 56
1.37 Spirulina 58
1.38 Le alghe marine ed il rischio di patologie cardiovascolari 59
1.39 Consumo di uova e rischio di patologie croniche 60
1.40 Nutrizione e vaccini 61
Bibliografia 62

Capitolo 2 - Il gusto 71
2.1 Umami 71
2.2 Umami e funghi edibili 73
2.3 Funghi Shiitake 73
2.4 Sciroppi con alto contenuto di fruttosio 74
2.5 Consumo di zuccheri, alimenti e bevande zuccherate e
rischio di cancro 75
2.6 Dolcificanti con poche calorie: più complicati dei
dolcificanti senza calorie 75
2.7 Riduzione dello zucchero senza compromettere la percezione
sensoriale: un sogno impossibile? 76

X
2.8 Le api usano tracce visive e odorose per trovare i fiori
del melo 79
2.9 Miele maturo 81
2.10 Propoli 83
2.11 Una strategia per aumentare il gusto del salato negli alimenti
mantenendo un basso contenuto di sale 84
2.12 L’importanza delle aldeidi alifatiche come sostanze volatili
olfattive negli alimenti umani 87
2.13 Il senso del gusto negli animali 88
2.14 Recettori del gusto amaro 89
2.15 Kokumi 90
Bibliografia 91

Capitolo 3 – Fermentazione 94
3.1 Cenni storici 94
3.2 Fermentazione e microbiota intestinali umani 95
3.3 Aceto 96
3.4 Fermentazione e cioccolato 97
3.5 Principi della fermentazione halal 99
3.6 Salsa di soia 100
3.7 Jet supersonici di CO2 quando si stappa una bottiglia
di champagne 102
3.8 Vini rossi Italiani 102
3.9 Un Riesling vecchio di 10 anni 104
3.10 I tappi 104
3.11 Astringenza del vino 105
3.12 Resveratrolo e salute umana 107
3.13 L’affinamento del vino in legno: impatto sulla stabilità
antiossidante 109
3.14 Birra e salute 110
3.15 Birra non alcolica 112
3.16 Uso di isotopi del carbonio per combattere le frodi
del whisky 113
3.17 Cognac 114
3.18 Il Liquore Qingke dal Tibet 115

XI
3.19 Baijiu 115
Bibliografia 116

Capitolo 4 – Latte e latticini 120


4.1 Latte dei mammiferi (ruminanti) per neonati in bottiglie 120
preistoriche
4.2 Composizione chimica del latte vaccino 120
4.3 Autenticazione del latte organico 124
4.4 Latte di asina 124
4.5 Latte di capra 124
4.6 Acidi grassi nei latticini e nella carne 125
4.7 Kefir 125
4.8 Yogurt 126
4.9 Formaggi 126
4.10 Effetto del latte aggiunto al tè 127
4.11 Latte di mandorle 127
4.12 Latte di soia 128
Bibliografia 128

Capitolo 5 – Bevande 131


5.1 Tè, la civiltà cinese in tavola 131
5.2 Tè Pu-Erh 131
5.3 Modificazioni della normale vita vegetativa della pianta:
lo stress per migliorare l’aroma del té 133
5.4 Torrefazione del caffè 134
5.5 Caffè e salute 135
5.6 Caffè di cicoria 136
5.7 Anidride carbonica in bottiglie di acque minerali frizzanti 137
5.8 Succhi di frutta: il colore scuro 138
Bibliografia 138

Capitolo 6 – Frutta 140


6.1 Classificazione e caratteristiche dei frutti 140
6.2 Frutti tropicali 141
6.3 Banana 142
6.4 Avocado 143
6.5 Mango 143
6.6 Papaia 143
6.7 Kiwi 143
6.8 Melagrana 144
6.9 Le nocciole tostate, proprietà ed effetti 145
6.10 Mandorle 145
6.11 Ribes nero 146
6.12 Uva 147
6.13 Agrumi 147
6.14 Fragole 149
6.15 Fruttosio della dieta e obesità 150
6.16 Biomarker per valutare la quantità totale di frutta e verdura 150
Bibliografia 151

Capitolo 7 – Verdure e spezie 153


7.1 Diete vegetariane 153
7.2 Spinaci 155
7.3 Patate 156
7.4 Asparagi 159
7.5 Tartufi 160
7.6 Basilico (Ocimum basilicum) 161
7.7 Timo (Thymus) 161
7.8 Aglio 162
7.9 Aglio nero 164
7.10 Cipolla 165
7.11 Ginseng 166
7.12 Liquirizia 166
7.13 Popoli, migrazioni ed il commercio delle spezie 167
7.14 Le spezie nella nostra alimentazione 167
7.15 Sesamo 168
7.16 Olio di sesamo 169
7.17 Peperoncino 169
7.18 Paprika e autenticazione 171
7.19 Pepe nero e frodi alimentari 173

XIII
7.20 Zafferano 174
7.21 Fieno greco 174
7.22 Spezie ed erbe a dosi relativamente alte migliorano
la pressione sanguigna in adulti 175
Bibliografia 175

Capitolo 8 – Cereali 179


8.1 Golden Rice 179
8.2 Olio della crusca di riso 180
8.3 Crusca 180
8.4 Avena e suoi aromi 180
8.5 Grano 181
8.6 Grano saraceno 182
8.7 Quinoa 184
8.8 Chia 186
Bibliografia 187

Capitolo 9 – L’intossicazione botulinica 189


Bibliografia 192

Glossario 193

Appendice – Il parere del nutrizionista 199


A1 La piramide alimentare moderna e sua interpretazione 199
A2 Principali modelli dietetici 202
A3 Nutraceutici e integratori: ruolo e interazioni con la dieta 217
A4 Nutrigenomica e nutrigenetica, verso la nutrizione
di precisione - fact o myth ? 223
A5 Ormesi e capacità ormetiche 228
A6 Mindful eating 230
A7 The China study: la grande opera o la bufala del secolo? 231

Indice analitico 233

XIV
Prefazione

Questo libro nasce dall’idea di fornire a tutti i lettori uno strumento utile a
comprendere meglio il mondo della nutrizione, le sue mille sfumature,
dalle proprietà chimiche dei nutrienti alla lista degli alimenti funzionali,
chimica e biologia si fondono in un tutt’uno per dare forza e potere preven-
tivo e curativo a ciò che la natura ci ha donato gratuitamente, il cibo!
Il libro vuole, inoltre, diffondere la cultura di una sana e corretta alimenta-
zione, perché è importante mangiare in modo sano e consapevole, cono-
scere –come affermano gli autori nella loro introduzione- la scienza e la
chimica dei cibi, la composizione e qualità dei nutrienti e le varie tipologie
dietetiche. È altresì fondamentale demistificare concetti su presunti effetti
negativi di alcuni cibi e spazzare il campo da notizie fuorvianti, quali fake
news e bufale su cibi e diete miracolose. Spesso si commette l’errore di
associare il concetto di “dieta” all’idea di un’alimentazione restrittiva,
come se l’obiettivo principale di nutrirsi fosse il dimagrimento; invece la
parola dieta deriva dal greco dijaita (dìaita) e significa modo di vivere,
quindi ciò che sotto-intende è un concetto molto più profondo del semplice
nutrirsi, ma abbraccia una visione olistica di stile di vita. Il nostro modo di
mangiare si ripercuote sul modus vivendi e sull’equilibrio mente-corpo
(influenza sullo stato d’animo, sulle sensazioni, sull’umore), e sulla pre-
venzione/insorgenza di malattie croniche che sono in continuo aumento
nella società occidentale, quali quelle metaboliche (ipertensione, ipercole-
sterolemia, diabete, steatosi epatica), malattie infiammatorie, tumorali.
Altro errore frequente è il ricorso alla “pillola magica” (integratori) e la
convinzione che questa possa, da sola, apportare benefici: in realtà è sem-
pre preferibile ricorrere ad un percorso terapeutico basato su criteri scien-
tifici e non a qualcosa di magico e fantasioso, pubblicizzato come tale.
Non si diventa esperti di nutrizione per aver letto un libro o appreso qual-
che notizie dal web o via social.

Prima di proseguire, vale la pena citare alcune celebri affermazioni:

“Fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo”
(Ippocrate di Kos)

“Noi siamo ciò che mangiamo”


(Feurbach)

XV
Prefazione

Un’alimentazione corretta insieme ad un’adeguata attività fisica, al netto


di altri fattori di rischio, costituisce la chiave per la prevenzione di nume-
rose patologie legate ad una scorretta alimentazione e inadeguato apporto
di nutrienti. Siamo nell’era della comunicazione digitale e, molto spesso,
non vi sono regole e direttive: diventa quindi facile condizionare ed in-
fluenzare le persone mediaticamente sfruttando l’appeal dei canali social.
Ecco perché la decisione di un libro quale mezzo sicuro, efficace ed atten-
dibile, per fare chiarezza e avere certezze sulla scelta consapevole dei cibi,
per migliorare il proprio benessere e restare in forma, che sia fruibile indi-
stintamente da tutti, professionisti del settore ma anche chi non ha espe-
rienza nell’ambito della scienza della nutrizione e vuole essere guidato in
quella via che diventa sempre più impervia e piena di ostacoli, “il mangiar
sano”. Con ciò si vuole reiterare l’importanza di affidarsi a specialisti,
esperti in nutrizione, medici, biologi, che siano in grado di valutare con
attenzione e scrupolo i bisogni/esigenze delle persone, tenendo conto dello
stato di salute, degli stili di vita e che siano capaci di saper consigliare la
dieta più adatta, “ad personam”.
La decisione di seguire una dieta equilibrata, non solo finalizzata al dima-
grimento, deve essere presa in piena consapevolezza ed affidandosi a pro-
fessionisti in grado di guidare il paziente attraverso un percorso corretto di
empowerment, supportandolo e rendendolo orgoglioso dei risultati rag-
giunti ed educandolo al mantenimento del nuovo stile di vita.

Consentitemi un breve pensiero personale:


la vera strada è quella che si sceglie liberamente nella piena consapevo-
lezza, quella che ti consente di assaporare il sacrificio che dà senso a quel
percorso e ti rende degno e orgoglioso di te stesso, perché senza sacrificio
evapora il senso del dovere verso la lotta e la resilienza per una vita vis-
suta appieno delle proprie forze e capacità!

Paolo Buonaiuto

XVI
Introduzione

La nutrizione è una scienza complessa, indipendente dalle differenze cul-


turali, ma tuttavia abitudini e tradizioni fra le culture sono molto diverse.
La globalizzazione ha accomunato generazioni, mettendo in luce fra di
esse e contemporaneamente, differenze, analogie, complementarietà.
La malnutrizione, come sottolineato dalla FAO nel 2017, poggia su tre
cardini essenziali che sono: la sottonutrizione, la mancanza di micronu-
trienti ed il sovrappeso-obesità.
Si stima che l’11% della popolazione mondiale soffra la fame, 2 miliardi
di persone di carenza di micronutrienti ed il 40% sia affetto da obesità o
sovrappeso.
Non ci sono mai risposte univoche a problematiche di tale complessità; per
questo abbiamo bisogno di saperne di più sul cibo che mangiamo ogni
giorno, sulle modalità di alimentazione e sulla scienza che ne è alla base.
Il nucleo essenziale delle nostre conoscenze attuali del modo in cui il cibo
influenza la salute è basato sui 150 componenti nutrizionali riconosciuti
dal Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) e da altri “databa-
se” nazionali e queste componenti nutrizionali rappresentano solo una par-
te di tutti i composti biochimici presenti negli alimenti.
Questa eccezionale diversità chimica può essere considerata come la “ma-
teria oscura” della nutrizione, poiché la maggior parte di questi prodotti
chimici non compare negli studi epidemiologici e resta in tal modo invisi-
bile al grande pubblico.
Le dieci maggiori multinazionali del cibo controllano l’80% dei prodotti
venduti nei negozi di tutto il pianeta, ognuna di esse può vantare un fattu-
rato annuo di 40 miliardi di dollari (dati del 2017).
Nel 2009 le società più importanti hanno dichiarato di aver versato ai “lob-
bisti” la somma di 58 milioni di dollari, nei soli USA.
Il primo studio clinico sul “cibo spazzatura” (garbage o thrash food) risale
al 20191. Questo pone seri dubbi sull’attendibilità dei dati riportati in let-
teratura e sottolinea la necessità di una seria analisi critica.
Gli alimenti eccessivamente raffinati sono stati descritti come formulazio-

1
Hall KD, Ayuketah A, Brychta R, Cai H, Cassimatis T, Chen KY, Chung ST, Costa E,
Courville A, Darcey V, Fletcher LA, Forde CG, Gharib AM, Guo J, Howard R, Joseph PV,
McGehee S, Ouwerkerk R, Raisinger K, Rozga I, Stagliano M, Walter M, Walter PJ, Yang
S, Zhou M. Ultra-Processed Diets Cause Excess Calorie Intake and Weight Gain: An In-
patient Randomized Controlled Trial of Ad Libitum Food Intake. Cell Metab. 2019 Jul
2;30(1):67-77.e3.

XVII
Introduzione

ni di prodotti energetici e nutrienti (assieme agli additivi), derivati in gran


parte da fonti poco costose, grazie all’impiego di processi industriali com-
plessi e diversificati2.
Gli alimenti che consumiamo sono un insieme di numerose sostanze nutri-
tive che influiscono in vari modi sull’organismo ed il microbiota-micro-
bioma, perciò comprendere con chiarezza quali relazioni possano intercor-
rere fra dieta, metabolismo e salute non è un problema di semplice
soluzione.
Come ha messo in evidenza Tim Spector, nel suo recente libro “Presi per
la gola - Perché tutto quello che ci hanno detto sul cibo è sbagliato”3,
nell‘agosto del 2019 FooDB registrava la presenza di 26625 sostanze bio-
chimiche. La ricerca alimentare è uno dei campi più dinamici della scien-
za, purtroppo ancora arretrata rispetto ad altre discipline, ma potenzial-
mente in grado di diventare, oggi, la più importante di tutte.
Con il procedere delle conoscenze si accumulano sempre nuovi dati, che
vengono interpretati in modo diverso e lentamente si formano conoscenza
e consenso attorno ad una (o più) delle interpretazioni proposte. Come ha
acutamente osservato Max Planck, Premio Nobel per la Fisica nel 1918,
“…le nuove idee si affermano non perché gli oppositori si convincono, ma
perché gli oppositori muoiono e lasciano spazio ai sostenitori di nuove
idee.”
A nostro parere, come abbiamo detto sopra, “… abbiamo bisogno di sa-
perne di più sul cibo che mangiamo ogni giorno, sulle modalità di alimen-
tazione e sulla scienza che ne è alla base.”
Questa è la filosofia che ha ispirato questo nostro libro. Esso è suddiviso in
otto capitoli:
1. Principi delle diete
2. Il gusto
3. Fermentazione
4. Latte e latticini
5. Bevande
6. Frutta
7. Verdure e spezie
8. Cereali
9. L’intossicazione botulinica

2
Monteiro CA, Cannon G, Moubarac JC, Levy RB, Louzada MLC, Jaime PC. The UN
Decade of Nutrition, the NOVA food classification and the trouble with ultra-processing.
Public Health Nutr. 2018 Jan;21(1):5-17. doi: 10.1017/S1368980017000234.
3
Tim Spector. Presi per la gola - Perché tutto quello che ci hanno detto sul cibo è
sbagliato ISBN 9788833934297. Bollati Boringhieri.2020
CAPITOLO

I principi delle diete 1

1.1 Rapporti degli isotopi stabili: biomarkers nutrizionali

L’utilizzo di metodi ben collaudati ed affidabili nello studio di una dieta è


un elemento cruciale per la ricerca nutrizionale. Senza informazioni attendibi-
li sull’assunzione di cibo è impossibile analizzarne in dettaglio gli effetti sulla
salute, studiare l’impatto di una alimentazione a livello di intere popolazioni e
quindi sviluppare raccomandazioni per la dieta stessa. Malgrado tale impor-
tanza, questi metodi sono scarsi e la maggior parte degli studi si basa sull’uti-
lizzo di diete “auto dichiarate”, a dispetto delle loro ben note limitazioni, so-
prattutto quando si tratta di diete a lungo termine. Le analisi dei markers
biochimici della dieta, spesso indicati come biomarkers nutrizionali, sono
spesso considerate come il metodo più accurato per lo studio delle diete. Essi
di solito riflettono la presenza sistematica di singoli composti e non sono per-
ciò soggetti agli inconvenienti che possono derivare da dichiarazioni non veri-
tiere o da variabilità nella composizione del cibo (1).
La maggior parte dei biomarkers nutrizionali si basa sia direttamente sui
composti di maggior interesse (e.g. acidi grassi o micronutrienti), o indiretta-
mente sui loro metaboliti (e.g. metaboliti microbici) ovvero su composti bio-
attivi. Votruba e collaboratori hanno invece utilizzato un approccio diverso (2);
invece di basarsi sull’analisi di singoli composti per valutare una dieta, essi
hanno preso in considerazione proprietà fisico-chimiche ed in particolare i
rapporti degli isotopi stabili 12C e 13C e 14N e 15N, in globuli rossi o nei
capelli.
I rapporti degli isotopi stabili come biomarkers nutrizionali sono stati usa-
ti da più di 40 anni; inizialmente sono stati usati in discipline quali l’archeolo-
gia e l’ecologia per studiare l’alimentazione degli animali. Gli isotopi stabili di
carbonio ed azoto sono quelli più comunemente usati nella ricerca nutriziona-
le, benché si possa ricorrere anche a zolfo, ossigeno ed idrogeno. Il rapporto
degli isotopi dell’azoto rappresenta un marker eccellente di fonti di proteine,
poiché l’azoto nei tessuti deriva quasi esclusivamente dall’azoto della dieta. È
un indice ideale per identificare l’assunzione di cibo marino, poiché la catena
degli alimenti marini è molto più lunga di quella degli alimenti terrestri. Inol-
tre la maggior parte del cibo di cui si nutrono i pesci è di tipo predatorio, in
contrasto con quello degli animali terrestri. Le differenze nel rapporto degli
isotopi stabili del carbonio sono dovute a due fattori principali: le fonti del
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

carbonio e la sua fissazione biochimica. Le piante marine derivano il loro car-


bonio principalmente dal bicarbonato, che è arricchito in 13C, se confrontato
con l’anidride carbonica atmosferica.
Nelle piante terrestri, le differenze principali sono dovute a due diversi
percorsi fotosintetici. Nelle piante C4 la fissazione del carbonio segue un per-
corso complesso, che porta ad un delta C13 12-13% più alto rispetto alle pian-
te C3. Il delta C13 è una misura del rapporto degli isotopi stabili del carbonio,
13C:12C, che consente di dedurre la composizione della dieta del consumato-
re. Questa differenza è importante poiché, a parte il frumento, la canna da
zucchero, il miglio ed il sorgo, la maggior parte degli alimenti vegetali consu-
mati ad es. negli Stati Uniti derivano da piante C3.
I rapporti di isotopi stabili sono dei biomarkers molto promettenti per va-
lutare l’assunzione di carne e di pesce, due alimenti il cui consumo disequili-
brato può essere associato al rischio di neoplasie del colon-retto o a patologie
cardiovascolari.
Il rapporto degli isotopi stabili del carbonio è anche di grande interesse per
valutare l’assunzione di bevande arricchite con gli zuccheri. Stabilire i rappor-
ti degli isotopi stabili come biomarkers di routine nella ricerca nutrizionale è
importante perché, rispetto alla maggior parte degli altri biomarkers tradizio-
nali, fornisce informazioni sull’assunzione della dieta a lungo termine.
Fra le applicazioni dell’analisi del carbonio-14 (14 C) vi è anche la possi-
bilità di identificare la presenza di sofisticazioni tramite l’utilizzo di prodotti
naturali (3). L’esame dei prodotti naturali attraverso l’analisi del 14 C consen-
te di differenziare costituenti derivanti da animali o piante da analoghi costi-
tuenti derivati da idrocarburi prodotti dall’industria petrolchimica (fonti pe-
trolchimiche).
È relativamente comune imbattersi in prodotti alimentari con un’etichetta
che rivendica “tutto naturale” o “100% naturale”. Ciononostante è possibile
che degli ingredienti siano stati adulterati e non derivino completamente da
fonti animali o vegetali. Gli aromi artificiali sono solitamente ottenuti da fonti
petrolchimiche, abbondanti ed economiche, mentre quelli naturali sono meno
facilmente disponibili e più costosi.
La Food and Drug Administration (FDA) utilizza il termine aroma natura-
le per definire oli essenziali, essenze o distillati, contenenti costituenti aroma-
tizzanti che traggono origine da e.g. spezie, frutti, vegetali o materiali da essi
derivati, la cui funzione principale è legata all’aroma piuttosto che al valore
nutrizionale.
La strumentazione analitica utilizzata si basa sull’uso della spettrometria
di massa con acceleratore (Accelerator Mass Spectrometry, AMS) ed è in
grado di identificare concentrazioni molto basse di atomi di elementi speci-
fici, in base al loro peso atomico. Questa tecnica è, al giorno d’oggi, il meto-
do più comune usato per l’analisi del 14 C. Tutti gli organismi viventi con-
tengono un livello noto di 14 C, un isotopo del carbonio debolmente

2
Capitolo 1 I principi delle diete

radioattivo. Quando una pianta o un organismo muoiono, il livello del carbo-


nio-14 diminuisce ad una velocità nota, in accordo con un tempo di semivita
di 5730 anni. Misurando l’ammontare di 14 C in un dato campione, l’analisi
può essere usata non solo per datare un reperto archeologico o geologico, ma
anche per distinguere tra fonti naturali biologiche o fonti di combustibili
fossili; i prodotti derivanti da piante e animali (e.g. fonti naturali biologiche)
hanno un livello noto di 14 C, mentre questi ultimi (e.g. combustibili fossili)
sono abbastanza vecchi da essere privi dell’isotopo radioattivo. Ad esempio
il succo d’arancia è uno dei molti alimenti che contengono butirrato di etile,
un aroma ben noto derivante dall’etanolo. Benché il butirrato di etile possa
avere origine da fonti naturali, esso può essere anche preparato da intermedi
dell’industria petrolchimica. L’analisi AMS consente facilmente di distin-
guere l’eventuale frode.
Il limite di questa metodologa è esemplificato dalla vanillina artificiale; se
questa è sintetizzata a partire da guaiacolo, sostanza contenuta in molti catra-
mi, l’analisi del 14 C può svelare la frode. Se però essa è sintetizzata da fonti
naturali come la lignina, la vanillina naturale non può essere distinta da quella
sintetica.

1.2 Frequenza dei pasti

Il consumo del cibo fornisce l’energia ed i nutrienti necessari per soste-


nere la vita, consentendone la crescita, la riparazione (e.g. meccanismi di
riparazione del DNA) e la riproduzione. Una nutrizione appropriata può in-
fluenzare la salute e la sopravvivenza e costituisce un importante fattore di
prevenzione contro l’insorgere ed il progredire di malattie croniche. La ma-
nipolazione di una dieta bilanciata, grazie ad una gestione ottimale dell’ap-
porto calorico (e.g. controllo dell’assunzione di energia) o del tempo che
intercorre fra i pasti (e.g. rispettare il “tempo del mangiare e del digiunare”),
può portare ad una vita più sana e più lunga nella maggior parte degli orga-
nismi. In generale, una riduzione prolungata nell’apporto calorico e cicli
periodici di digiuno possono incidere sull’insorgenza di malattie legate
all’età (e.g. malattie cardiovascolari, diabete, tumori, demenza) ed allungare
la vita. A questo proposito, de Cabo e collaboratori (4), hanno proposto quat-
tro strategie.
Esse sono:
1) la classica restrizione calorica (Caloric Restriction, CR) in cui l’apporto
calorico tipicamente decresce dal 15% fino al 40%;
2) l’alimentazione in un tempo ristretto (Time-Restricted Feeding, TRF) che
limita l’assunzione quotidiana di cibo a “finestre” da 4 a 12 ore;
3) il digiuno intermittente (Intermittent Fasting, IF), parziale o totale;
4) le diete che imitano il digiuno (Fast-Mimicking Diet, FMD).

3
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

In alcuni modelli animali (e.g. roditori), è stato infatti dimostrato che


un’attenta gestione di CR può prolungare la durata della vita fino al 50%;
inoltre un controllo a lungo termine di CR assicura una funzionalità più reatti-
va, migliorando numerosi markers di salute, quali la diminuzione di peso cor-
poreo, la velocità metabolica, il danno ossidativo, una minore incidenza di
patologie.

1.3 Alimentazione in un tempo ristretto

L’alimentazione in un tempo ristretto (TFR) costituisce una specie di di-


giuno intermittente, nel quale il cibo è consumato all’interno di un intervallo
di almeno 8-12 ore, favorendo l’utilizzazione ottimale dei nutrienti e miglio-
rando il nostro stato di salute (4). L’importanza del TRF è emersa da studi che
hanno esaminato come la frequenza di assunzione degli alimenti possa in-
fluenzare il sistema circadiano (5,6).
L’idea era quella di limitare l’alimentazione a momenti ben definiti del
giorno o della notte e di controllare come questa “restrizione” potesse influen-
zare il ciclo di attività-riposo e le componenti del nostro “orologio circadiano”
(e.g. ritmo circadiano) negli organi metabolici (in primo luogo nel fegato). La
salute metabolica e la diagnosi di malattia sono spesso legate al metabolismo
del glucosio, dei grassi e del colesterolo. Il fegato gioca un ruolo importante
nel metabolismo di questi tre fattori.
Studi recenti hanno effettivamente dimostrato che TRF può migliorare la
salute cardiometabolica. Il rispetto rigoroso di TRF nell’intervallo quotidiano
di 6 ore (dalle 8 di mattina alle 2 del pomeriggio) per 5 settimane è in grado di
aumentare la sensibilità all’insulina e di diminuire l’insulina postprandiale, lo
stress ossidativo, la pressione sistemica e l’appetito.
Il fegato di un topo TFR ha una steatosi epatica significativamente ridotta
rispetto al fegato di un topo che mangia “ad libitum”. Si ha anche una conco-
mitante riduzione di colesterolo ed aumento degli acidi biliari.
Il TRF può garantire una efficace protezione contro le gravi controindica-
zioni metaboliche tipiche di una dieta occidentale (molti grassi e carboidrati,
soprattutto zuccheri raffinati); tutto ciò si verifica grazie al concorso di molte-
plici fattori quali una riduzione del peso corporeo, un aumentato consumo di
energia, un migliorato controllo glicemico, più bassi livelli di insulina, dimi-
nuzione del grasso epatico e iperlipidemia ed attenuati fenomeni infiammatori.
A sua volta il TRF sembra avere effetti benefici sullo stato di salute del cervel-
lo, come è mostrato da alcuni risultati preliminari, ottenuti utilizzando model-
li sperimentali animali ed in modo specifico proteggendo o ritardando l’insor-
gere o lo sviluppo di patologie neurodegenerative.
Il sostanziale successo del TRF nel combattere l’obesità e le malattie me-
taboliche in modelli “in vivo”, rappresenta una importante acquisizione della

4
Capitolo 1 I principi delle diete

ricerca sperimentale e ci permette di ipotizzare, con ragionevole ottimismo


che, a lungo termine, si possa migliorare la salute pubblica e ridurre i costi
delle spese ad essa relativi. Esiste una solida relazione fra orologio circadiano
e metabolismo, dato che essi condividono alcuni regolatori comuni. La limita-
zione dell’assunzione del cibo a metà del giorno, diminuisce il peso ed il gras-
so corporeo, la glicemia a digiuno ed i livelli di insulina, l’iperlipidemia e
l’infiammazione, producendo una blanda restrizione calorica.
Il TRF riduce i lipidi plasmatici ed aiuta a normalizzare il quadro lipidico
nel fegato, mentre induce una riduzione (“down-regulation”) dei geni infiam-
matori. Inoltre esso aumenta la ricchezza e la biodiversità microbica, che è
probabilmente associata con il ritmo circadiano ed i livelli dei lipidi.
Perciò il TRF potrebbe essere un rimedio affidabile per la prevenzione
delle malattie metaboliche legate sia alle dislipidemie che ad una alterazione
degli indici di funzionalità epatica, dato che regola il ritmo circadiano associa-
to con la modulazione del microbiota intestinale (6). Analogamente, il quadro
dei markers metabolici risulta migliorato in gruppi di persone che seguono una
dieta isocalorica con un pranzo più sostanzioso ed una cena frugale. È preferi-
bile assumere la maggior parte del cibo nella prima parte del giorno piuttosto
che dividerlo in sei porzioni durante il giorno.

1.4 Digiuno intermittente e periodico

Gli studi sperimentali, condotti prevalentemente nei roditori, dimostrano chia-


ramente che il digiuno intermittente e periodico aumenta l’aspettativa di vita e
protegge contro l’obesità, le malattie cardiovascolari, l’ipertensione, il diabete e le
malattie neurodegenerative. Esso può rallentare la progressione dei tumori, au-
mentare l’efficacia di farmaci chemioterapici nei confronti di una molteplicità di
cellule cancerose e la sensibilità all’azione dell’insulina. Apportare modifiche
mirate alla dieta per integrare la terapia convenzionale delle neoplasie è un ap-
proccio eminentemente pratico su cui si focalizza una crescente attenzione.
La composizione dietetica ci indica quale possa essere la disponibilità di
nutrienti nel plasma e quindi nel microambiente (Milieu intérieur, definizione
coniata da Claude Bernard, liquido interstiziale) delle cellule del corpo, inclu-
se le cellule cancerose.
La manipolazione del microambiente metabolico delle cellule cancerose
cambia in modo marcato la loro attività metabolica, modificandone la sensibi-
lità ai farmaci, la velocità di proliferazione ed i requisiti metabolici.
I tumori dipendono dalla fornitura di nutrienti per la loro crescita e soprav-
vivenza. Le modificazioni della dieta dell’organismo ospitante possono, come
detto, cambiare la disponibilità dei nutrienti nel microambiente tumorale e
questo potrebbe rappresentare una strategia promettente per inibire la crescita
del tumore stesso.

5
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Studi recenti hanno suggerito che la modificazione di molti nutrienti nella


dieta può alterare l’efficacia delle terapie antineoplastiche. Ad esempio il glu-
cosio ha molti ruoli pro-tumorali, esso è una fonte di produzione di energia e
per la sintesi di biomolecole che sostengono la rapida proliferazione delle cel-
lule cancerose.
Studi preclinici hanno suggerito che, per aumentare l’efficacia delle tera-
pie antitumorali, alcuni macronutrienti (e.g. proteine) sono buoni bersagli per
la restrizione dietetica calorica. Inoltre, alcuni regimi dietetici che limitano
interi gruppi di nutrienti, zuccheri (glucosio, fruttosio), amino acidi (asparagi-
na, arginina, cisteina), sembrano avere effetti benefici sull’inibizione della
progressione tumorale. Si è dimostrato infatti che molte pratiche di digiuno
prevengono l’insorgere di neoplasie sperimentali nei roditori. Il digiuno inter-
mittente previene il linfoma nei topi anziani e ritarda lo sviluppo di sarcoma e
linfoma in uno specifico ceppo di topi (Trp53) anche in uno stadio avanzato
della loro vita. La combinazione di prolungati stadi di digiuno, unitamente
all’uso di farmaci chemioterapici, ha migliorato in modo sostanziale la terapia
in modelli animali (topi) sottoposti a xenotrapianto (eterotrapianto) di cellule
neoplastiche del tumore del seno, melanoma e neuroblastoma. Una dieta alter-
nativa, consistente in periodi di un regime periodico di basse calorie e scarse
proteine, ha mostrato effetti protettivi simili a quelli di un digiuno prolungato.
Dato che i pazienti affetti da neoplasie sono più fragili degli individui sani,
questa dieta potrebbe essere preferibile rispetto a un protocollo di digiuno pro-
lungato, poiché garantisce una “compliance” migliore, è di più facile realizza-
zione e probabilmente non comprometterebbe lo stato del paziente a differen-
za di un digiuno prolungato (7).

1.5 Diete che imitano il digiuno

La dieta FMD (Fast-Mimicking Diet) ha poche calorie e si basa su zuppe


vegetali, tè erbacei, barrette energetiche, spuntini a base di frutti secchi-acheni
ed integratori, in un ciclo mensile di cinque giorni, per tre mesi. Nel primo
giorno, l’ammontare calorico è di circa 1090 calorie (10% di proteine, 56% di
grassi e 34% di carboidrati) e per i giorni 2 - 5 vengono fornite solo 725 calo-
rie (9% di proteine, 44% di grassi e 74% di carboidrati). A dispetto dei risulta-
ti positivi sullo stato di salute, la dieta FDM non sembra in grado di aumentare
la longevità in modelli sperimentali ed ha fornito risultati controproducenti
quando è stata somministrata a soggetti molto anziani.
Si è insistito per decenni sui benefici per la salute derivanti dal digiuno.
Studi epidemiologici mostrano una maggiore durata della vita in persone che
praticano un digiuno intermittente per ragioni personali o religiose. Anche
molti studi preclinici hanno mostrato che il digiuno può migliorare il quadro
complessivo di qualità della vita in soggetti affetti da neoplasie; in maggioran-

6
Capitolo 1 I principi delle diete

za essi hanno trovato che può avere effetti sinergici con la terapia antitumorale
(radioterapia e chemioterapia), anche se vi sono numerose eccezioni.
La nostra dieta ha chiaramente un grande impatto sul rischio di sviluppare
tumori. Interventi sulla dieta hanno la potenzialità di migliorare le conseguen-
ze della patologia senza introdurre tossicità addizionali e complicazioni a lun-
go termine (8).
In conclusione, interventi dietetici che sono accompagnati da periodi di
digiuno costituiscono una strategia promettente che ha come bersaglio una
miriade di parametri clinici che costituiscono il fondamento di patologie quali
la sindrome metabolica, disturbi cardiovascolari, neoplasie e perfino patologie
neurodegenerative.

1.6 Una dieta vegetale di 17000 anni fa

Le antiche strategie di caccia hanno focalizzato, in particolar modo, l’at-


tenzione degli archeologi, relegando in secondo piano lo studio delle modalità
con cui si raccoglievano le piante, poiché le modalità di conservazione delle
piante sono spesso di difficile interpretazione nei siti archeologici. Una dieta
vegetale, benché talvolta abbia lasciato pochissime o nessuna traccia, cioè una
dieta che possiamo ben definire “invisibile”, deve aver contribuito in modo
sostanziale alla sicurezza alimentare in passato, come documentato per caccia-
tori-raccoglitori in Africa durante l’ultimo secolo.
I geofiti (bulbi, tuberi, rizomi) immagazzinano amido nei loro organi sot-
terranei che diventano fonti di carboidrati per uomini ed animali in grado di
scavarli. La raccolta di geofiti commestibili, che si effettua ai giorni nostri
presso alcune tribù autoctone in Sud Africa, dimostra che essi avrebbero potu-
to, a buon diritto, entrare a fare parte della dieta dei loro progenitori. La cottu-
ra aumenta la digeribilità della carne e dei vegetali, riduce la tossicità e nel
caso dei geofiti ha considerevoli effetti di ammorbidimento, facilita l’elimina-
zione della buccia e aumenta la disponibilità di glucosio.
I carboidrati vegetali erano indubbiamente consumati nell’antichità, anche
se geofiti amidacei sono stati raramente ritrovati, preservati, in siti archeologi-
ci. Wadley e collaboratori hanno recentemente fornito prove che testimoniano
dell’utilizzo di geofiti da parte di popolazioni primitive vissute almeno 170000
anni fa (9).
Reperti di rizomi carbonizzati provenienti dalla Border Cave, Sud Africa,
sono stati identificati come appartenenti al genus Hypoxis L., confrontando la
morfologia e l’anatomia dei rizomi antichi e recenti. L’Hypoxis angustifolia
Lam prolifera in aree con regimi di precipitazioni molto variabili. In queste
aree e possibilmente più a nord, durante i periodi umidi, i rizomi di Hypoxis
potrebbero aver fornito delle fonti di carboidrati, sicure e facilmente accessibi-
li, alle popolazioni nomadi.

7
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Al vitto Pitagorico, Vincenzo Corrado aveva dedicato un capitolo del suo volu-
me Il cuoco galante pubblicato nel 1773 e più volte ristampato. Scriveva: Il vitto
Pitagorico consiste in erbe fresche, radiche, fiori, frutta, semi, e tutto ciò che
dalla terra si produce per nostro nutrimento. Vien detto pitagorico, poiché Pita-
gora, com’è tradizione, di questi prodotti della terra soltanto fece uso. Nel 1781
Corrado pubblica tutta un’opera Del cibo Pitagorico ovvero erbaceo. Nella pre-
fazione precisa: Non senza ragione…la italiana gente, assai avvedutamente
oggi più che in altro tempo, le Pitagoriche leggi ha ripigliato a osservare con
tutto impegno nelle cucine e nelle mense: e le nazioni anche più culte, che
dall’Italia sono lontane, han preso il gusto di dare corpo al nutrimento più sano
e gustoso.

1.7 Una dieta per astronauti

La NASA ha elaborato un sistema alimentare sicuro per gli astronauti im-


pegnati in missioni in orbita vicino alla terra, della durata da 4 a 12 mesi.
Tuttavia la quantità limitata di acqua, l’immagazzinamento e la possibilità di
preparare il cibo (aggiunta di acqua, utilizzo di fonti di calore), costringono
l’equipaggio ad una scelta limitata di prodotti stabili, in singole porzioni di
alimenti nella loro forma naturale o conservata per disidratazione, termostabi-
lizzazione o irradiazione.
Gli astronauti sono liberi di scegliere circa il 20% dei loro alimenti e be-
vande, mentre l’80% della loro dieta deriva da un protocollo standard condivi-
so. Le riserve alimentari sono fatte pervenire in orbita più volte all’anno, por-
tando frutta fresca, verdure ed alcune specialità. Gli astronauti riferiscono che
queste forniture hanno effetti molto positivi dal punto di vista psicologico.
Le modalità con cui queste consegne intermittenti sono in grado di colma-
re le restrizioni nutrizionali, non sono facili da determinare, poiché la varietà e
la quantità di frutta fresca e verdura variano e la capacità di conservazione è
limitata a pochi giorni o settimane (10).
Durante le missioni lunari della durata di 10 giorni, gli astronauti hanno
sottolineato l’importanza della disponibilità di acqua calda come elemento es-
senziale e privo di alternative; questa potrebbe essere non disponile almeno
per parte delle future missioni spaziali.
La necessità di risparmiare spazio nelle missioni lunari ha imposto l’uso di
barrette, per integrare calorie e nutrienti, nella misura del 10%. La messa a
punto di un protocollo alimentare per le missioni su Marte, porrà problemi
molto più complessi e di difficile soluzione rispetto a quelli che hanno presen-
tato le missioni lunari. È verosimile che esse impegnino l’equipaggio per un
viaggio di circa 6 mesi, una durata simile a missioni spaziali precedenti, ma

8
Capitolo 1 I principi delle diete

senza la possibilità di mandare in orbita forniture di cibo fresco. L’equipaggio


potrebbe dover restare su Marte per 18 mesi, prima di affrontare il viaggio di
ritorno di altri 6 mesi. Benché sia stato spesso considerato un problema secon-
dario, in realtà trovare un protocollo alimentare per la missione su Marte rap-
presenta una sfida molto difficile. In passato, le storiche spedizioni polari sono
state travagliate da problemi alimentari, e.g. quantità insufficienti (tiamina e
vitamina C) o eccessive (minerali, vitamina A e piombo) o dalla loro mancata
conservazione.
Per riassumere, l’alimentazione nello spazio deve soddisfare i seguenti cri-
teri base:
1) sicurezza dal punto di vista microbiologico e fisico;
2) stabilità per almeno 5 anni in uno spazio ostile (esposizione a radiazioni,
temperature estreme);
3) palatabilità (cibo appetibile);
4) evitare le perdite di cibo;
5) riduzione al minimo delle risorse (volume acqua, energia e rifiuti devono
essere minimizzati);
6) facilità di preparazione degli alimenti (condizioni ben diverse da quelle in
presenza di gravità terrestre).

Questi problemi sono ben noti alle gerarchie militari, consapevoli dell’im-
portanza del cibo. A differenza della missione su Marte che, presumibilmente,
durerà circa 1000 giorni, l’arco temporale max, previsto dalle gerarchie mili-
tari per cibi pronti all’uso è di 21 giorni consecutivi (11).
Con lo sviluppo della scienza e delle tecnologie, la quantità e la qualità dei
cibi utilizzabili nelle missioni nello spazio sono aumentate rapidamente. At-
tualmente gli astronauti possono contare su un menu variato settimanalmente;
in talo modo gli astronauti americani non si sono fatti mancare gli alimenti
tradizionali della “cultura del fast food” con burger, insalate, salsiccie e perfi-
no il tacchino per il Thanksgiving. Analogamente, l’equipaggio impegnato
nelle missioni russe ha avuto a disposizione più di 300 piatti, quattro pasti al
giorno e molte opzioni per ciascun pasto, incluse purè di patate con noci, carne
di maiale in gelatina, broccoli e formaggio, carne di manzo secca-stagionata e
così via. Analogamente la cucina cinese è molto ricca e può fornire agli astro-
nauti più di cento varietà di cibo, dal maiale, al pollo, al porridge di semi di
loto, manzo stufato, polpette di riso.
Il cibo utilizzato dagli astronauti ha subìto una evoluzione, nel tempo. Du-
rante il progetto Mercury, nei primi anni sessanta, il cibo delle missioni spazia-
li era molto semplificato e sostanzialmente erano disponibili solo tre forme. La
prima costituita da cibo in tubo, che veniva utilizzato come fosse un dentifri-
cio. La seconda opzione era costituita da cubetti di circa 1 cm, che potevano
essere ingeriti tal quali. Infine, erano disponibili polveri essiccate che poteva-
no essere ingerite dopo reidratazione.

9
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Durante la missione Apollo (1968-1972) si è avuto un miglioramento nella


confezione del cibo e nella sua varietà. La missione Apollo è stata anche la
prima a poter godere di acqua calda, che ha reso più facile reidratare il cibo
liofilizzato. Nel 1973 lo Skylab aveva anche un frigorifero ed un forno, che ha
consentito all’equipaggio di disporre di gelati, filetti di carne, aragoste, bevan-
de refrigerate e desserts.

1.8 Fiori commestibili come fonte di nutraceutici

I fiori commestibili sono stati usati nell’arte culinaria per centinaia di anni,
per il loro aroma e per guarnire i piatti. I romani usavano fiori in cucina, come
anche i cinesi, le culture del Medio Oriente e dell’India. Durante il regno della
regina Vittoria, i fiori commestibili erano popolari, così come nel Nord America
ed in Europa (12). Finora non vi sono elenchi ufficiali di fiori commestibili, co-
dificate da istituzioni internazionali, quali FAO, FDA ed EFSA. Tuttavia, la Eu-
ropean Regulation (EC) no 258/97 concernente i nuovi alimenti e i nuovi ingre-
dienti alimentari, fornisce alcune informazioni sulla sicurezza di questi fiori.
In generale i fiori commestibili includono 97 famiglie, 100 generi e 180
specie. Nella medicina popolare, si ritiene che essi abbiano proprietà antiansia,
antitumorali, antidiabetiche, antinfiammatorie, antiossidanti, diuretiche, im-
munomodulatrici ed antimicrobiche (13).
Generalmente la composizione del 70%-95% dei fiori commestibili è rap-
presentata dall’acqua; la materia secca è fonte dei maggiori costituenti come
carboidrati, proteine, lipidi, così come di vitamine, minerali e fitochimici a
basso peso molecolare.
Le possibili fonti di fiori commestibili includono infiorescenze di piante da
frutto, piante medicinali e ornamentali. Specie come la borragine (Borago of-
ficinalis), violetta (Viola tricolor) e nasturzio (Tropaelum majus), sono utiliz-
zate negli Stati Uniti non solo per il loro valore estetico, ma anche come ali-
menti e/o piante medicinali. In Europa questo gruppo comprende l’altea,
(Althea officinalis), la margherita (Bellis perennis), la malva (Malva sylve-
stris), il tarassaco (Taraxacum officinalis) e molte altre specie.
Dal punto di vista nutrizionale i fiori possono essere distinti in tre specie: il
polline, il nettare ed i petali e altre parti. Il polline, presente in quantità molto scar-
sa, è una ricca fonte di proteine, amino acidi, carboidrati, lipidi saturi ed insaturi.
Il nettare è a sua volta un liquido dolciastro, contenente una miscela di
zuccheri (fruttosio, glucosio e saccarosio), amino acidi (soprattutto prolina),
proteine, ioni inorganici, lipidi, acidi organici, terpeni, alcaloidi. Il terzo grup-
po (petali ed altre parti) è un’importante fonte di vitamine (soprattutto vitami-
na A), minerali e antiossidanti. I fiori commestibili contengono quantità signi-
ficative di antiossidanti; ne sono un esempio i fiori delle begonie, rose,
nasturzi. Nella Rosa rugosa è presente una quantità cospicua di acido gallico,

10
Capitolo 1 I principi delle diete

oltre ad altri antiossidanti quali i flavanoli (quercitina e kaempferolo). L’an-


tiossidante più importante del crisantemo è la luteolina.
Nei gigli, i polifenoli più importanti sono la (+) catechina, che da sola
rappresenta il 75%, l’acido clorogenico, la rutina e la quercetina; il contenuto
di questi componenti è massimo all’apice della fioritura. L’attività antiossidan-
te dei petali di rosa è simile a quella del tè verde o del tè nero, ma l’assenza di
caffeina rende gli infusi di petali di rosa più interessanti dal punto di vista nu-
trizionale, poiché non portano ad un aumento della pressione sanguigna. Nel
crisantemo il carotene più importante (ottimo antiossodante) è la luteina così
come nel nasturzio (Tropaeolum major), a sua volta la fonte più comune di
fiori commestibili. Si ritiene che l’assunzione di fiori di calendula abbia effetti
apprezzabili nel ridurre i rischi di degenerazione maculare ed altri disturbi
oculari come la cataratta. I fiori commestibili non solo hanno attività antiossi-
danti, ma anche effetti antinfiammatori, antifungini e antibatterici. Queste pro-
prietà si ritrovano ad esempio nei fiori della calendula per la presenza del fla-
vonoide patuletina. Nei fiori di violetta un componente aromatico è costituito
dal terpenoide ciclico beta–ionone, che ha un marcato effetto inibitore sulla
crescita di cellule tumorali.
Le proprietà nutritive e chemioprotettive di alcuni fiori commestibili fanno
sì che essi possano essere considerati come nutraceutici (14). Sono frequente-
mente consumati come fiori freschi, ma possono anche essere utilizzati secchi,
nei cocktail (in cubi di ghiaccio) e conservati in distillati.

1.9 Nutrizione, cibo biologico (BIO, Organic) e miglior


sostenibilità della dieta

Nel 2010 la FAO ha definito sostenibili le diete che proteggono e rispettano la


biodiversità e gli ecosistemi, che sono culturalmente accettabili, economicamente
giuste ed accessibili, adeguate dal punto di vista nutrizionale, sicure e salutari. Il
considerevole sviluppo del mercato degli alimenti biologici (organic, in inglese,
ha la valenza del nostro biologico) guidato da motivi di salute e ambientali, riflet-
te la domanda dei consumatori per metodi di produzione più sostenibili.
I sistemi di produzione biologici sono spesso considerati migliori delle
loro controparti perché utilizzano meno pesticidi e per la loro composizione
nutrizionale. In Europa essi sono inquadrati in una regolazione specifica e ri-
gorosa (CEE regolamento No. 834/20). Uno studio che prendeva in considera-
zione la sostenibilità della dieta, tra 29100 partecipanti dello studio Nutri-
Net-Santé, ha utilizzato i databases sviluppati all’interno del progetto
BioNutriNet (15). Nello studio di coorte BioNutriNet sono stati considerati
quattro parametri: 1) indicatori nutrizionali; 2) indicatori ambientali (effetto
serra, richiesta di energia cumulativa e occupazione della terra; 3) indicatori
economici sul costo della dieta; 4) esposizioni quotidiane a 15 pesticidi.

11
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Il consumo di cibo più ricco in componenti “biologiche”, associato a un


maggiore consumo di vegetali e ad un uso minore di sostanze animali, ha ga-
rantito una qualità nutrizionale completa ed un più basso indice di massa cor-
porea (BMI).
Le emissioni di gas serra e la domanda di energia cumulativa diminuiscono
gradualmente all’aumentare del consumo di cibo biologico, mentre cresce il
costo monetario.
In conclusione, le diete con alti livelli di cibo BIO sono caratterizzate da
benefìci nutrizionali ed ambientali, mentre le modalità di produzione compor-
tano un maggiore costo monetario ed una riduzione complessiva di pesticidi.
Non va taciuto, peraltro, che il sistema di coltivazione BIO, comporta un signi-
ficativo aumento del consumo di suolo ed alla luce del crescente aumento del-
la popolazione mondiale, rappresenta una scelta non facile (16).

1.10 Trasmissione ed apprendimento sociale della


sicurezza del cibo negli animali (social transmission
of food safety)

Il fattore che determina il consumo del cibo negli animali è rappresentato


dalle necessità metaboliche, ma anche altri elementi ne orientano l’assunzione,
di momento in momento. Per esempio un predatore può smettere di mangiare,
anche se è affamato. Al contrario quando trova un cibo appetitoso può abbando-
narsi ad un consumo prolungato, che porta all’accumulo di grasso di scorta.
Inoltre molte specie utilizzano informazioni acquisite dai loro pari (trasmissione
sociale) per decidere se un cibo è sicuro. Mentre i primati si basano principal-
mente su indizi visivi, i roditori usano, a questo scopo, il loro odorato, incluso il
solfuro di carbonio (CS2), un componente semiochimico presente nell’esalato.
La trasmissione sociale della preferenza del cibo ha luogo quando un ratto
“osservatore” (soggetto che apprende) si trova a contatto con un ratto “dimo-
stratore” (soggetto affidabile che funge da esempio, alimentato con cibo che
emana odori) e sceglie quel cibo rispetto ad altre alternative odorose. Quando
un animale è di fronte ad un cibo che non gli è familiare, il suo odore, assieme
ai composti semiochimici emanati da un animale della stessa specie, costitui-
sce un messaggio di sicurezza e ne autorizza l’assunzione. Roditori esposti
contemporaneamente a cibo aromatizzato con cumino e timo, mostrano un’in-
nata preferenza per l’opzione timo (17).

1.11 Interazioni farmaci-alimenti

Succo di pompelmo, latte e alcol sono esempi comuni di alimenti che pos-
sono alterare l’efficacia dei farmaci, ma sempre più numerose sono le sostanze

12
Capitolo 1 I principi delle diete

chimiche presenti in natura che influenzano i meccanismi di Assorbimento,


Distribuzione, Metabolismo, Escrezione (ADME) o l’attività di farmaci speci-
fici. Le interazioni che possono intercorrere fra farmaco ed alimento-nutriente
(Drug-Nutrient Interactions, DNIs) sono talmente critiche per la sicurezza dei
farmaci che la US-FDA e l’Agenzia Europea per i Medicinali (European Me-
dicines Agency, EMA) richiedono che la biodisponibilità e la bioequivalenza
dei farmaci vengano verificate usando, come parte dei loro processi di appro-
vazione, dei pasti-test altamente calorici e ricchi in grassi. La natura del com-
portamento dei farmaci che ha luogo nel tratto gastrointestinale, susseguente-
mente all’assunzione di cibo, provoca interazioni dinamiche che possono
alterare l’assorbimento ed il metabolismo locale dei farmaci (18). In contrasto,
possiamo considerare le DNIs sotto una diversa prospettiva, cui si è prestata
minor attenzione e precisamente, come i farmaci possono alterare lo stato del
nutriente. Una deplezione dell’alimento indotta dal farmaco (Drug-Induced
Nutrient Depletions, DINDs) può aver luogo quando un farmaco altera un pro-
cesso ADME, il più comune dei quali è l’inibizione del trasporto del nutriente.
I 420 trasportatori di soluti (SoLute Carriers, SLCs) sono generalmente
proteine di membrana deputate al trasporto, attraverso cellule e membrane in-
tracellulari, di ioni, metaboliti e sostanze chimiche esogene, inclusi nutrienti,
tossine e farmaci.
I singoli SLCs possono avere selettività monospecifica, oligospecifica o po-
lispecifica per metaboliti o xenobiotici e proteine codificate da un singolo com-
ponente di una famiglia di geni e possono trasportare gli stessi prodotti chimici.
Dal momento che un funzionamento anomalo di SLCs è stato associato
con neoplasie, disordini metabolici e del sistema nervoso, essi sono un poten-
ziale bersaglio per sostanze di interesse terapeutico. Tuttavia, le analogie strut-
turali fra le sostanze chimiche della dieta ed i farmaci, aumentano la probabi-
lità di effetti indesiderati a carico di processi fisiologici che coinvolgono
l’assorbimento ed il metabolismo del nutriente.
Con più di 19000 farmaci prescritti sul mercato, nei soli Stati Uniti, la valu-
tazione di DNIs e DINDs costituisce una sfida per i metodi tradizionali di ricerca
(focalizzati su di un singolo obiettivo) e complicano le valutazioni regolatorie.
Una strategia proposta recentemente, che potrebbe essere in grado di far
luce su queste complesse problematiche, è costituita da un “corpus” di ricerca
combinata, farmacocinetica e farmacodinamica, su un farmaco antidiabetico
orale, la metformina (biguanidina) (19).

1.12 Nuove coltivazioni di piante per la sicurezza


alimentare

Dati pubblicati recentemente su autorevoli riviste scientifiche internazio-


nali mostrano l’esistenza di una chiara associazione tra carente produttività

13
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

agricola ed uno stato di grave malnutrizione (20,21). È stato anche dimostrato


che un rapido contenimento di un contesto di povertà estrema è possibile solo
quando si verificano condizioni tali da garantire un aumentato profitto dei pic-
coli proprietari. Nuovi sistemi di coltivazione di piante (New Plant Breeding
Techniques, NPBTs), come l’editing genomico ovvero tecniche di modifiche
del genoma (“genoma editing”), potranno contribuire in modo sostanziale alla
sicurezza sociale globale. In anni relativamente recenti, la pratica di coltiva-
zioni geneticamente modificate (Genetically Modified - GM) ha portato a rese
più alte, minor uso di pesticidi, riduzione della povertà e nutrizione migliorata.
I prodotti GM sono arrivati sul mercato degli Stati Uniti nel 1996. Il primo pro-
dotto è stato il pomodoro Flavr Savr, creato per garantirne una più lunga con-
servazione. Tuttavia dopo un iniziale successo, i canali di distribuzione hanno
cessato di venderlo a causa delle crescenti preoccupazioni dei consumatori.
Le piante GM sono state accettate solo dopo una ventina d’anni e sono ora
largamente diffuse. Nei soli Stati Uniti la loro coltivazione coinvolge metà dei
terreni disponibili; in tutto il mondo sono piantate su una superficie pari a circa
180 milioni di ettari, il 12% del totale, principalmente in Nord America, Sud
America e Asia. La superficie piantata nell’Europa occidentale ed in Africa
rimane estremamente contenuta. Delle 12 coltivazioni più comuni, 9 riguarda-
no direttamente l’alimentazione umana (mais, soia, canola, barbabietola da
zucchero, papaia, melo, popone, melanzane, patate e mele) e 3 riguardano
colture non alimentari (cotone, pioppi e erba medica).
Oltre a quelle utilizzate nella nostra alimentazione, molte sono usate per
nutrire bestiame (erba medica) o come comuni ingredienti in molti alimenti
(ad esempio zucchero da barbabietola da zucchero). Poiché soia e mais (le
coltivazioni principali di GM) sono ingredienti comuni in molti alimenti (sci-
roppo di mais, olio di mais, olio di soia) è normale che facciano parte delle
diete, come certificato dalla FDA.
Le regole, pur molto rigorose dell’Unione Europea, permettono che la di-
zione GM non compaia nell’etichetta solo a condizione che la presenza di tali
prodotti sia inferiore a 0,99%.
La maggior parte delle coltivazioni commercializzate come GM sono
mais, soia e cotone. Le tecniche di ingegneria genetica sono oggi applicate non
solo alle piante. Nel 2015 è stata approvata la commercializzazione per uso
alimentare, negli Stati Uniti, di salmoni GM, a seguito di studi condotti negli
anni 90 per avere pesci che crescessero più rapidamente. Malgrado le gravi
preoccupazioni nell’opinione pubblica che essi potessero costituire un rischio
per l’ecosistema, se fossero sfuggiti dagli allevamenti o rilasciati in natura, nel
2017 i salmoni GM sono stati messi in commercio da una società americana
sul mercato canadese, costituendo il primo caso di animali GM ammessi al
consumo umano. Nell’ambito dell’Unione Europea, le nazioni aderiscono di
comune accordo al principio di precauzione e tutti gli alimenti GM vengono
considerati caso per caso e valutati dall’EFSA (European Food Safety Autori-

14
Capitolo 1 I principi delle diete

ty). Solo due coltivazioni (patate e mais) sono state autorizzate sul mercato
negli ultimi vent’anni nessuna di queste per alimentazione umana. In Europa
poche coltivazioni GM sono approvate e molti prodotti sono importati o usati
per alimentazione animale (22). Al contrario, in altri paesi come gli Stati Uni-
ti, vale il principio della sostanziale equivalenza, che si basa sul confronto dei
prodotti GM con i consimili naturali. Essi sono riconosciuti generalmente
come sicuri a meno che non differiscano in modo significativo in struttura,
funzione o composizione dalle sostanze che si trovano correntemente negli
alimenti. I vari paesi tendono ad affrontare il problema degli alimenti GM in
base a quattro approcci distinti: promozionale, permissivo, precauzionale e
preventivo. Da una parte vi sono paesi come Perù, Turchia, Ucraina che hanno
regolamenti non restrittivi ed un approccio promozionale, mentre paesi come
Danimarca, Francia e Italia sono più restrittivi ed hanno politiche più preven-
tive. Paesi come il Messico, l’India e gli Stati Uniti sono fra quelli meno re-
strittivi.
Anche se circa 30 anni di ricerca hanno mostrato che le coltivazioni GM
non sono più rischiose di quelle convenzionali, molti paesi dell’Asia e dell’A-
frica sono restii a promuoverne l’uso a causa dei rischi (erroneamente percepi-
ti) e del timore di perdere i mercati di esportazione in Europa.
Nel frattempo, si è consolidato l’uso di Nuove Tecniche di Miglioramento
Genetico (NPBTs, New Plant Breeding Technique(s)). Queste tecnologie si
basano su presupposti più rassicuranti rispetto ai timori legati all’uso dei GM.
Per esempio, recenti progressi nelle tecniche di modifica del genoma (“geno-
ma editing”) consentono l’alterazione di geni endogeni senza trasferire
trans-geni fra specie vicine. In particolare il CRISPR-Cas9 (Clustered Regu-
larly Interspaced Short Palindromic Repeats), un taglia e incolla genetico che
consente la correzione mirata di una sequenza di DNA, si è imposto come uno
dei principali approcci metodologici con cui regolare il genoma dei cereali più
importanti quali riso, frumento, mais e di altri alimenti come banane e manio-
ca (cassava o yuca). La biochimica statunitense Jennifer Douda dell’Universi-
tà di Berkeley, California e la microbiologa francese Emanuelle Charpentier,
oggi al Max Plank Insitute di Berlino si sono aggiudicate il premio Nobel per
la chimica del 2020 per aver scoperto e sviluppato questo metodo.
L’uso di DNA ricombinante (estraneo) negli GM è la ragione principale
delle loro regolazioni molto stringenti. Facendo tesoro di esperienze pregresse,
la strategia dovrebbe essere basata su una comunicazione trasparente dei siste-
mi di innovazione (in particolare, approfondimento ed educazione permanente
dei ricercatori e di altri addetti), oltre che fornire un “corpus” di regole sempli-
ficate, efficienti ed in grado di garantire una informazione consapevole.
La tecnologia CRISPR-Cas9 è già usato, per esempio, per migliorare col-
tivazioni quali riso (con alte rese), frumento (resistente alla siccità) e pomodo-
ri (con maggior aroma). È importante sottolineare una recente sentenza della
Corte di Giustizia Europea, che applica alle coltivazioni che utilizzano tecni-

15
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

che di modifica del genoma (“genoma editing”) le stesse regole dei GM. Que-
sta presa di posizione potrebbe rallentare il suo utilizzo per migliorare le col-
tivazioni, nonostante il suo potenziale per combattere la fame e la povertà.

1.13 Nutrire il cervello

Benché il peso del nostro cervello costituisca in media il 2% del peso cor-
poreo di un adulto, esso consuma il 20-25% dell’energia totale richiesta
dall’organismo. Gli uomini sono unici tra i mammiferi a richiedere un impiego
di energia così importante per il suo funzionamento. Il consumo di glucosio, la
principale fonte di energia per il cervello umano, nei due anni postnatali, è
equivalente a quella di un adulto. Questo zucchero è essenziale per la forma-
zione ed eliminazione (“synaptic pruning”) delle sinapsi. In un adulto il gluco-
sio usato per queste funzioni neurologiche costituisce circa il 10-12% del glu-
cosio totale metabolizzato dal cervello. Nell’infanzia, però, si arriva anche a
picchi del 30%.
La formazione ed il continuo rimodellamento del nostro cervello sono un
processo che dura tutta la vita. Le strutture delle sue proteine si rinnovano in
tempi che possono variare da minuti, a ore o giorni. È perciò necessaria una
sua nutrizione adeguata, dal concepimento alla tarda età.
Oltre al glucosio, sono essenziali il ferro, lo zinco, lo iodio, il rame ed il
selenio. I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dicono che la de-
ficienza di ferro interessa circa due miliardi di persone. Nel corpo umano la
maggior parte è incorporata nell’eme (65%) per il trasporto di ossigeno ed il
resto nella mioglobina o altre proteine, per consentirne l’attività enzimatica. Il
suo accumulo nella tarda età è stato associato all’insorgenza di malattie neuro-
degenerative quali Parkinson e Alzheimer (23). La deficienza di zinco è parti-
colarmente elevata in diete scarse di proteine animali o ricche di mais, che
contiene fitati che interferiscono con il suo assorbimento (24). Una deficienza
di zinco porta a uno sviluppo non appropriato della proliferazione delle cellule
staminali e della differenziazione neuronale. Anche la deficienza di iodio può
essere alla base di danni cerebrali, di sviluppo anomalo dei bambini e del cre-
tinismo. Questo elemento alogeno è essenziale per la produzione della tirossi-
na e della triiodotironina nella ghiandola tiroide.
Tra gli altri minerali presenti in tracce ed essenziali per un sano sviluppo del
nostro organismo e per un suo corretto funzionamento, possiamo ricordare il se-
lenio, un non metallo cofattore critico per enzimi antiossidanti, che protegge dai
radicali liberi e riduce la morte cellulare (apoptosi). Il rame, un altro catione biva-
lente, contribuisce anch’esso all’ attività antiossidante ed al metabolismo della
dopamina. Anche le vitamine della dieta sono necessarie per un salutare funzio-
namento del cervello. Tutte le otto vitamine essenziali del gruppo B giocano un
ruolo critico, in primo luogo come coenzimi nella produzione di energia.

16
Capitolo 1 I principi delle diete

La letteratura scientifica che si occupa di nutrizione è focalizzata in primo


luogo sul folato (vitamina B9) e sulla cobalamina (vitamina B12). Questa ul-
tima è sintetizzata da batteri ed è garantita da una dieta ricca in alimenti di
origine animale. I vegetariani o i soggetti e/o popolazioni con carenze dieteti-
che, sono a rischio per una sua deficienza, che comporta disturbi sensoriali e
legati al movimento, oltre a perdite di memoria. I vegetariani ed i vegani hanno
perciò bisogno di integratori contenenti questa vitamina, così come di ferro,
zinco e acidi grassi a lunga catena.
Le rimanenti vitamine (B1), (B2), (B3), (B5 e (B7) giocano un ruolo chia-
ve nel metabolismo cerebrale e la loro carenza ha ripercussioni sullo sviluppo
neuronale e sul funzionamento cerebrale.
È necessaria anche la vitamina A, la cui carenza comporta cecità, infezioni
ed è correlata ad una aumentata incidenza di mortalità infantile. Anche la coli-
na, un nutriente essenziale identificato più recentemente (nel 1998), è impor-
tante nel primo sviluppo del cervello, nell’apprendimento e nella memoria
nell’età adulta.
Tra i macronutrienti, due acidi grassi, l’acido alfa-linolenico e l’acido lino-
leico, sono essenziali nella nutrizione umana per la sintesi degli acidi grassi
poliinsaturi omega-3 e omega-6. Il nostro cervello è ricco di lipidi; l’acido
docosaesanoico (DHA) è l’acido grasso principale omega-3, mentre l’acido
arachidonico AA lo è per gli omega-6.

1.14 Proprietà nutraceutiche dei carotenoidi

I fitochimici sono una classe di composti bioattivi di derivazione vegetale


e possono essere poi aggiunti agli alimenti. Il loro utilizzo combina i benefici
nutrizionali a vantaggi per la salute. Tra i fitochimici più conosciuti possiamo
ricordare e.g. i carotenoidi, i polifenoli, composti organo solforati e composti
del selenio. I carotenoidi sono pigmenti naturali prodotti da piante, alghe e
batteri, che conferiscono un colore brillante ad alcuni frutti e vegetali. La di-
sposizione degli elettroni pi all’interno dei legami chimici, crea colori gialli,
arancio e rossi grazie al fenomeno della risonanza. Hanno proprietà protettive
nei confronti di patologie neurodegenerative, disturbi cardiovascolari e certe
forme di tumori. Sono sostanze uniche nel loro genere, con una spiccata attivi-
tà antiossidante e perciò proteggono una molteplicità di tessuti del nostro or-
ganismo, specialmente gli occhi, dai danni della luce.
In particolare i carotenoidi hanno un tropismo per la retina, sono nutrienti
derivanti dalla dieta e proteggono gli occhi da molte patologie retiniche, come
la degenerazione maculare. Dato che molte di queste patologie si accompa-
gnano a bassi livelli di carotenoidi, metodi accurati, non invasivi, possono aiu-
tare gli oculisti a identificare i pazienti in grado di beneficiare da una integra-
zione di carotenoidi (25). Nell’uomo la biodisponibilità del beta-carotene

17
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

nelle carote e negli spinaci varia fra il 3%-15%; è quindi importante aumenta-
re la biodisponibilità dei carotenoidi della dieta. Il loro assorbimento dopo un
pasto può essere influenzato da molti fattori, tra cui la ritenzione od il rilascio
dalla matrice dell’alimento, la loro incorporazione nei lipidi della bile, il loro
assorbimento a livello degli epiteli intestinali.
La presenza di lipidi, assieme ai vegetali, ne aumenta in modo sostanziale
la biodisponibilità, data la loro liposolubilità. Si è visto per la prima volta che
l’ingestione di latte fermentato con una bevanda a base di carota, contenente
carotenoidi, ha effetti positivi in questo senso. Il latte fermentato aumenta la
concentrazione di carotenoidi in circolo, quali alfa-carotene, beta-carotene,
licopene e luteina.
Questi risultati indicano che le proteine ed i metaboliti presenti nel latte
fermentato, prodotto dai batteri acidi lattici, aumentando la biodisponibilità
dei carotenoidi, possono migliorare il nostro stato di salute (26). In natura i
carotenoidi sono coinvolti nella fotosintesi, interagendo con la clorofilla; essi
proteggono anche le cellule delle piante agendo come chelanti (“scavengers”)
di radicali liberi.
Il licopene è un idrocarburo poliene lineare di formula C49H56, che contie-
ne 11 doppi legami coniugati e due non coniugati, che danno isomerizzazione a
5-cis, 9-cis, 13-cis o 15-cis, dopo esposizione alla luce e reazioni chimiche.
La molecola di licopene ha una struttura ricca in elettroni, responsabile
delle sue straordinarie capacità antiossidanti. Allo stesso tempo, la presenza di
molti legami coniugati, lo rendono molto sensibile a degradazione e ossidazio-
ne. Le ossidazioni indotte da ossigeno, calore e metalli (Cu2+, Fe3+) causano
la sua degradazione. Analogamente, l’attività di eme-ossigenasi endogene
possono influenzare direttamente o indirettamente lo stesso processo, così
come quelle dei radicali liberi.
In vari frutti e vegetali freschi il licopene è presente in particolare nella
forma strutturalmente stabile (trans), mentre nei prodotti trattati o conservati
in presenza di ossigeno vi sono quantità significative della forma cis.
Questa ultima è la forma caratterizzata da una maggiore attività biologica.
L’incorporazione di una fase oleosa e la formazione di una emulsione licope-
ne-olio sono condizioni favorevoli per aumentare l’isomerizzazione e la sua
biodisponibilità. Molti studi hanno dimostrato che vegetali della specie Al-
lium, Brassica e Raphanus, ricchi in composti contenenti zolfo (alliina nell’a-
glio fresco), possono facilitare la conversione del trans-licopene alla forma cis.
Il licopene è il carotenoide responsabile del colore rosso nelle piante perché
assorbe la luce a una lunghezza d’onda massima a 444, 470 e 502 nanometri.
Lo si trova nei frutti e nei vegetali rossi, come cocomeri, carote, guava, pom-
pelmo rosa, patate dolci, zucche e pomodori. Questi ultimi sono una fonte
particolarmente ricca di questo composto, rappresentando dall’80 al 90% del
contenuto di tutti i carotenoidi presenti nel cibo. I livelli di licopene dipendono
dalla varietà e dal grado di maturazione dei vegetali. Anche la temperatura

18
Capitolo 1 I principi delle diete

ambiente nella fase di maturazione può influenzarne la quantità nei pomodori.


Una diminuzione di circa il 30% caratterizza i vegetali raccolti in estate rispet-
to alle altre stagioni. Questo è giustificato dal fatto che la temperatura ottimale
per la crescita del frutto varia da 16°C a 26°C; al di sopra di questa temperatu-
ra il licopene è convertito in beta-carotene.
L’alta temperatura causa anche la degradazione della matrice cellulare, che
rilascia licopene ai lipidi del cibo. I processi di preparazione degli alimenti, a
caldo, ne aumentano la solubilità e l’assorbimento, senza abbassarne il poten-
ziale antiossidante. I pomodori lavorati, come il ketchup, zuppe, salse e succhi
contengono la più alta quantità di questa sostanza.
Considerando le sue proprietà salutari, quelle di altri vegetali e di salse a
base di pomodori, è chiaro quanto sia significativo il ruolo del “soffritto” (pre-
parato da pomodori, cipolla, sedano, carote e capperi cotti in olio d’oliva)
come componente chiave della dieta Mediterranea (27). Gli alimenti ricchi in
licopene non dovrebbero essere assunti assieme a prodotti contenenti calcio,
poiché quest’ultimo ne diminuisce in modo significativo la biodisponibilità
(circa 80%); è probabile che la causa risieda nelle micelle che lo rivestono
durante la digestione.
Data la sua struttura, esso agisce come antiossidante e questo è alla base
delle sue proprietà salutistiche. Lo stress ossidativo è riconosciuto come un
importante fattore nella eziopatogenesi delle malattie croniche, come disordini
neurodegenerativi, obesità, diabete di tipo 2, cancro e malattie cardiovascolari,
perciò il licopene sembra essere un composto con un ampio spettro salutistico.
Il licopene può quindi essere considerato un potenziale agente terapeutico.
Il maggior consumo di pomodori (e dei loro prodotti) nei paesi europei è ri-
scontrabile in Grecia (163,6 g/die) ed in Spagna (97,6 g/die), mentre in Fran-
cia è minore (22 g/die), in Svezia 32 g/die, in Olanda 16 g/die (28). I dati di-
sponibili per l’Italia (vedi ItalFruit), indicano un consumo domestico, pro
capite, di pomodoro fresco, pari a 40 g/die.

1.15 Alimenti allergizzanti (o allergenici)

L’elenco di alimenti allergenici, stilato dalla Comunità Europea, con obbligo


di etichettatura, include 14 gruppi: cereali contenenti glutine, acheni, arachidi,
soia, uova, latte, alimenti marini, senape, sedano, molluschi, lupini, sesamo e
solfiti, indipendentemente dalla loro quantità (29). Le linee-guida americane
(e.g. FDA) identificano 8 alimenti come allergizzanti e responsabili di almeno il
90% delle reazioni avverse: latte, uova, pesce, crostacei, noccioline e nocciole
(e.g. mandorle, noci comuni, noci di acagiù, noci pecan), grano, soya.
Le allergie alimentari sono molto diffuse e si calcola che possano interes-
sare circa 20 milioni di persone in Europa, circa 2.5 milioni in Italia e 32 mi-
lioni negli USA (2019). La reazione allergica, mediata dalle immunoglobuline

19
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

E (IgE) ha luogo quando il nostro sistema immunitario reagisce in modo pato-


logico alla presenza di alcune proteine presenti nei cibi. Le risposte allergiche
possono essere di varia gravità, da blande reazioni cutanee (e.g. orticaria) a
reazioni gravi che possono mettere a repentaglio la vita (reazione anafilatti-
che), se non trattate opportunamente. Le allergie alimentari non possono esse-
re curate ma la combinazione di una attenta prevenzione e di strategie terapeu-
tiche opportune, garantisce risultati molto promettenti.
È di fondamentale importanza che i soggetti che soffrono di allergie legga-
no con molta attenzione le etichette che indicano quali allergeni sono presenti
e permettono di evitarli. È importante che oltre al nome generico venga ripor-
tata l’origine dell’alimento [e.g. lecitina (soia), farina (grano-frumento)] e che
l’etichettatura indichi che un determinato alimento contiene e.g. latte, soia,
anche se in tracce. Ci sono poi molti ingredienti alimentari che causano reazio-
ni di ipersensibilità-intolleranza, non IgE-mediate, e.g. nausea, vomito diar-
rea; tra questi possiamo ricordare il glutine, coloranti alimentari come il giallo
tartrazina-yellow 5/E102, il sesamo.
La sintomatologia delle reazioni allergiche è molto varia ed include: orti-
caria, prurito, gonfiore delle labbra o lingua, vomito, diarrea, crampi addomi-
nali, difficoltà respiratorie, perdita di coscienza. È importante che i soggetti
che manifestano tali reazioni avverse abbiano pronta disponibilità di strumen-
ti terapeutici efficaci (e.g. iniezione intramuscolare di adrenalina) e che venga-
no seguiti da personale medico esperto.
Siti (web-sites) governativi e privati, facilmente accessibili, forniscono in-
formazioni dettagliate ed esaurienti; www.nhs.uk, www.fda.gov/food-aller-
gies, www.mayoclinic.org/food-allergies, Ministero della Salute - Allergie
alimentari e sicurezza del consumatore.
Recentemente una particolare attenzione è stata focalizzata sul glutine, un
complesso proteico i cui componenti principali sono proteine come la gliadina
e la glutenina; sono presenti in grano, avena, segale e nell’orzo e si prestano,
in particolar modo, per la panificazione, dando gusto e consistenza ottimale al
prodotto finito. In soggetti geneticamente predisposti, la presenza del glutine
causa celiachia (30). In Italia, la AIC (Associazione Italiana Celiachia) rappre-
senta il punto di riferimento per tale patologia. Negli USA, la Celiac Disease
Foundation, in collaborazione con la FDA, fornisce supporto, educazione e
coordina la stesura delle linee guida. Analogo compito ed impegno è portato
avanti in Inghilterra dal National Health Service (vedi www.NHS.UK/condi-
tions/coeliac-disease).
L’allergia alimentare (AA), reazione immunologica avversa al cibo, è una
malattia con elevato impatto sulla qualità di vita dei soggetti che ne sono affet-
ti e dei loro familiari, con costi sanitari rilevanti per l’individuo e per il Sistema
Sanitario Nazionale (31).
Diversamente dalle sostanze tossiche o dagli agenti infettivi, che costitui-
scono un pericolo per la popolazione, nel caso dell’AA sono taluni costituenti

20
Capitolo 1 I principi delle diete

alimentari, innocui per i più, in grado di determinare reazioni immediate o ri-


tardate, da lievi a molto gravi, fino ad essere fatali.
La sintomatologia clinica può essere diversificata in base al coinvolgimen-
to di anticorpi o mediatori cellulari. Quadri clinici, mediati dalle IgE, includo-
no principalmente: shock anafilattico, orticaria-angioedema, manifestazioni
allergiche (orticaria e anafilassi) associate all’esercizio fisico dopo consumo di
un alimento (Food-associated exercise-induced anaphylaxis), disturbi respira-
tori (asma e rinite), sindrome orale allergica (SOA), disturbi a carico del tratto
gastrointestinale. La caratteristica fondamentale è l’immediatezza della loro
insorgenza: i sintomi insorgono a breve distanza dall’assunzione del cibo (1 - 2
ore) e sono tanto più gravi quanto più precocemente insorgono.
Lo shock anafilattico è una reazione sistemica a rapida insorgenza che
coinvolge diversi organi ed apparati e può portare a perdita di conoscenza. È
dovuto alla liberazione immediata di mediatori vasoattivi, come l’istamina ed
i leucotrieni cisteinilici (cys-LT) e può insorgere indipendentemente dall’età.
Come accennato precedentemente, gli alimenti più frequentemente chiamati
in causa sono: frutta secca (arachidi, nocciole), crostacei (gamberi), pesce,
latte, uova.
La diagnostica molecolare (Component Resolved Diagnosis, CRD) ha
consentito di chiarire che la causa di tale reazione sono molecole allergeniche
di natura proteica, particolarmente potenti, che non vengono alterate dalla di-
gestione gastrica.
La SOA, dipendente da pollini o alimenti (Pollen–Food related, OAS), si
caratterizza per l’insorgenza di prurito con edema limitato esclusivamente al
cavo orale.
Nei disturbi gastrointestinali, l’AA IgE-mediata può determinare quadri
clinici gravi (coliche addominali violente e molto dolorose, diarrea, vomito)
che rappresentano uno shock anafilattico localizzato al tratto addominale.
La dermatite atopica è una sindrome caratterizzata da sintomi che possono
manifestarsi in soggetti appartenenti a diverse fasce d’età e diversi apparati;
nello stesso soggetto si possono avere, negli anni, sintomi a carico della cute
(manifestazioni eczematose) con distribuzione diversa e/o dell’apparato respi-
ratorio (l’asma bronchiale è frequente nell’adulto).
Studi recenti condotti soprattutto negli Stati Uniti indicano che i disturbi
indotti da AA interessano fino al 5% dei bambini di età inferiore a 3 anni e
circa il 4% della popolazione adulta. In Europa si calcola che 1-2% degli adul-
ti e 5-8% dei bambini siano interessati da allergie alimentari IgE-mediate.
Come accennato precedentemente, gli alimenti responsabili della stragrande
maggioranza delle allergie alimentari sono: latte, uova, arachidi, pesci, frutta
secca, soia (nei bambini), arachidi, noci, pesci, crostacei, verdura e frutta (ne-
gli adulti).

21
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Cereali

L’allergia al frumento può manifestarsi per la produzione di IgE specifiche


nei confronti di diverse classi di proteine, dalle gliadine all’alfa-amilasi; alcu-
ne di queste proteine risultano stabili alla denaturazione termica, quindi anco-
ra “tossiche” dopo la cottura o altri trattamenti.

Arachide (Arachis hypogaea)

Le arachidi come tali o sotto forma di derivati, quali olio, la farina, il burro
di arachidi e così via sono spesso all’origine di allergie molto serie, che causa-
no difficoltà respiratorie, edemi della laringe, problemi intestinali e shock ana-
filattico

Soia (Glycine max)

Spesso utilizzata nelle formule destinate all’allattamento dei soggetti aller-


gici al latte vaccino, la soia si è dimostrata a sua volta in grado di indurre
sensibilizzazione.

Frutta a guscio

I principali frutti a guscio coinvolti nelle reazioni allergiche sono la man-


dorla (Amigdalus communis), la nocciola (Corylus avellana), la noce (Juglans
regia), l’anacardo o noce di Acajù (Anacardium occidentale), la noce diPecan
(Corya illinoiensis), la noce del Brasile (Bertholletia excelsa), il pistacchio
(Pistachia vera) e la noce del Queensland (Macadamia ternifolia).

Sedano, sesamo e senape

L’allergia al sedano (Apium graveolens) ha una certa diffusione in Italia,


mentre la sensibilizzazione a sesamo (Sesamum indicum) e senape (Sinapis
alba) presentava fino a qualche anno fa una rilevanza clinica trascurabile. Con
l’avvento della cucina etnica e la diffusione del sesamo, quale ingrediente dei
prodotti da forno ha acquistato maggiore rilevanza.

Allergeni di origine animale

Latte e uova sono i principali responsabili di reazioni allergiche in età pe-


diatrica, mentre i prodotti ittici (pesci, crostacei e molluschi) sono importanti
allergeni dell’età adulta.

22
Capitolo 1 I principi delle diete

Latte

L’allergia al latte è sicuramente la più frequente e conosciuta allergia ali-


mentare; la sua elevata prevalenza deriva dal fatto che i neonati, che non pos-
sono essere allattati al seno, vengono alimentati con formule a base di latte
vaccino.

Uova

Anche le uova sono frequentemente coinvolte nelle forme allergiche infan-


tili e come per il latte, si osserva una tendenza a sviluppare tolleranza nei primi
anni di vita. I principali allergeni dell’uovo sono tutte le proteine dell’albume
e di queste il lisozima sembrerebbe responsabile della sensibilizzazione solo
in un limitato numero di soggetti. Anche nel tuorlo sono state presenti proteine
allergeniche.

Pesci

I pesci rappresentano una complessa classe di alimenti, con analogie strut-


turali (relazioni filogenetiche) molto diversificate. L’allergia al pesce è ben
conosciuta e si manifesta principalmente in età adulta. Nonostante il numero
molto elevato di pesci inclusi nella dieta mondiale, solo alcuni allergeni di
origine ittica sono stati identificati dal punto di vista molecolare; tra questi,
quello meglio caratterizzato è la parvalbumina del merluzzo,
L’Europa e gli Stati Uniti hanno recepito negli ultimi anni le istanze delle
associazioni di consumatori e delle società scientifiche, promulgando leggi e
regolamenti concernenti la etichettatura degli alimenti. In Europa, la normati-
va riguardante gli allergeni alimentari è stata pubblicata nel 2003 (32).

1.16 I nitrati della dieta e la performance fisica

L’ossido nitrico (anche monossido di azoto, NO) rappresenta un caso par-


ticolare di gas farmacologicamente attivo caratterizzato da una molteplicità di
ruoli importanti nel nostro organismo. Per la sua scoperta, è stato attribuito a
R. Furchgott, L. Ignarro e F. Murad, il Premio Nobel per la Medicina e la Fi-
siologia, nel 1998 (33). Una carente produzione di NO (per esempio nell’an-
ziano o in varie condizioni patologiche) può avere un impatto negativo sulla
salute e sulla performance fisica (34). Oltre alla produzione per via endogena,
attraverso l’ossidazione della L-arginina, NO può essere formato per via non
enzimatica attraverso la riduzione di nitrato a nitrito; una biodisponibilità otti-
male di questi anioni può essere garantita attraverso il consumo di alimenti
ricchi in nitrati, come i vegetali a foglia verde.

23
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Studi recenti indicano che l’assunzione di nitrati con la dieta, ad es. sotto
forma di succo di barbabietola, può migliorare l’efficienza muscolare:
a) riducendo il consumo di O2 in condizioni di esercizio sub massimale e
migliorando quindi la “performance” di resistenza;
b) aumentando la contrattilità dei muscoli e la capacità di effettuare scatti
improvvisi e veloci (sprint).
Molti atleti utilizzano una dieta bilanciata, per mantenere uno stato di sa-
lute adeguato e ricorrono ad integratori per migliorare le prestazioni durante le
competizioni. Esempi di questi integratori includono caffeina, creatina, bicar-
bonato di sodio, beta-alanina e più recentemente nitrati inorganici.
Questi ultimi, a differenza di altri integratori, possono dare anche benefici
cardiovascolari grazie ad un controllo ottimale della pressione sistemica.
Il nitrato inorganico è un componente naturale presente negli alimenti, so-
prattutto dei vegetali a foglia verde e viene utilizzato per preservare prodotti
come le carni trasformate-conservate.
Per molti anni, seppur a dispetto di deboli evidenze scientifiche, il nitrato
NO3 meno ed il nitrito NO2 meno, sono stati considerati cancerogeni; eviden-
ze recenti e ben documentate (35) indicano che il nitrato può essere considera-
to un componente chiave, bioattivo, ad es. nelle insalate, il cui consumo è
consigliato per migliorare la propria salute. Questo ha portato ad una rivaluta-
zione dei rischi e benefici dei nitrati della dieta.

1.17 Produzione e metabolismo di ossido nitrico

L-arginina e O2 producono ossido nitrico (NO) a seguito di una reazione


catalizzata dall’enzima NO sintasi (NOs) con co-produzione di citrullina, che
può essere riciclata in modo efficiente a L-arginina. NO ha una emivita molto
breve (circa un secondo) e può essere rapidamente ossidato per formare NO2
meno e NO3 meno. Questo ultimo può essere ridotto a NO meno da batteri
anaerobici presenti nella cavità orale.
NO2 meno può subire una ulteriore riduzione a NO in condizioni acide e
di ipossia, come quelle che hanno luogo nella muscolatura scheletrica durante
lo sforzo. Il consumo di alimenti ricchi in NO3 meno aumenta in modo signi-
ficativo la capacità del nostro organismo di immagazzinare questa sostanza (e
di conseguenza la biodisponibilità di NO), attraverso un processo a cascata.
L’ossido nitrico è un gas, un radicale libero ubiquitario, che gioca un ruolo
critico e multifunzionale in processi quali vasodilatazione, attivazione piastri-
nica, respirazione mitocondriale, omeostasi di glucosio e calcio e non ultimo,
contrattilità dei muscoli scheletrici, in particolare in condizioni di prolungato
affaticamento.
Lo US-National Research Council ha pubblicato nel 1981 (anno in cui è
stato scoperto il NO) un documento intitolato “The Health Effects of Nitrate,

24
Capitolo 1 I principi delle diete

Nitrite and N-nitroso Compounds” in cui si certifica che l’assunzione media,


complessiva, di nitriti e nitrati, da cibo, negli Stati Uniti è quantizzabile rispet-
tivamente in 0,77 e 76 mg al giorno.
Come accennato precedentemente, la sicurezza alimentare di nitriti e nitra-
ti è un tema dibattuto, che richiede attenzione. La tossicità acuta, i.e. indice di
esposizione, è definita dai livelli plasmatici di metaemoglobina (metaemoglo-
binemia). La dose letale di nitrito è considerata pari a 22-23 mg/kg di peso
corporeo. Questa dose è circa 150 volte più alta di quella usata a scopo tera-
peutico. Il nitrato, d’altra parte, è relativamente innocuo.
La preoccupazione principale è la potenziale formazione di n-nitroso ammi-
ne, alcune delle quali sono cancerogene. Il primo studio sugli effetti cancerogeni
della N-nitroso-dimetilammina e l’ipotesi che N-nitrosoammine a basso peso
molecolare potessero formarsi dopo nitrosazione di varie ammine, ha destato
molto scalpore (36). La prova diretta che tale nitrosazione può aver luogo con
nitrito presente negli alimenti, fu fornita da Ender e collaboratori (37), che iden-
tificarono la N-nitroso-dimetilammina in pesce conservato con nitrito.
A loro volta Sander e coll. hanno dimostrato la formazione “in vivo” di ni-
trosammine nell’ambiente acido dello stomaco, nell’uomo (38). A partire dagli
anni ottanta sono stati pubblicati numerosi lavori scientifici sull’associazione di
N-nitrosoammine e certe forme di neoplasie, in particolare di cancro colon-ret-
tale, in soggetti che consumavano carne rossa senza l’apporto di una quantità
sufficiente di vitamina C (39). Come ha affermato Paracelso, è “la dose che fa il
veleno”. Ci sono oggi prove chiare e incontrovertibili che i nitriti e nitrati della
dieta migliorano il nostro stato di salute, ad es. abbassando la pressione sistemi-
ca di almeno 5 mm Hg. Tali dosi sono ben al di sotto di quelle tossiche o letali!.
In definitiva i benefici sono di gran lunga superiori ai rischi.

1.18 Nitrati e nitriti negli alimenti

La percezione (diffidenza…sospetto) che il consumatore manifesta nei


confronti dei prodotti della carne trattata con nitriti (insaccati) è un fenomeno
paradossale, quasi senza precedenti.
I nitriti restano fra i più temuti additivi presenti nei cibi mentre le fonti
vegetali contenenti nitrati concentrati, quali i succhi di barbabietola, sono ac-
cettate in assoluta tranquillità dallo stesso pubblico che ha orrore della loro
presenza nella carne (40).
Benché le fonti di nitriti-nitrati derivate dalle piante siano incorporate nel-
la matrice dell’alimento al posto delle fonti tradizionali (cioè sintetiche, eso-
gene), questi composti vengono aggiunti per avere gli stessi risultati organolet-
tici e sono indistinguibili a livello molecolare.
I nitriti e meno comunemente i nitrati, sono usati per conferire proprietà
uniche ai prodotti finali. Queste proprietà consistono in: a) aumento dell’aro-

25
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

ma e del gusto, b) fissazione dei pigmenti, c) potenziale antimicrobico, d) con-


servazione prolungata.
Per quanto riguarda la gamma di concentrazioni del nitrito, 10-15 ppm
(parti per milione) sono necessari per la fissazione dei pigmenti e garantire la
stabilità dei prodotti commerciali, 20-50 ppm sono richiesti per ritardare l’ir-
rancidimento, 50 ppm per lo sviluppo di un aroma appropriato e 40-80 ppm
per inibire la crescita del Clostridium botulinum.
Una volta aggiunti alla carne, i nitriti vanno incontro ad un complesso destino
chimico-metabolico: reazione con le eme-proteine (5-15%), reazione con le non
eme-proteine (20-30%), reazione con alfa amino acidi liberi per formare azoto
gassoso (1-5%), reazione con gruppi solfidrilici (5-15%) e con lipidi (1-5%).
Il nitrito influenza spiccatamente l’aroma, impedendo l’ossidazione dei
lipidi e la corrispondente formazione di sottoprodotti indesiderabili, come esa-
nale e 2,4-decadienale.
Il nitrito, come agente batteriostatico, impedisce la formazione di organi-
smi che peggiorano la qualità del cibo e promuovono l’insorgenza dei patoge-
ni principali, come il Clostridium botulinum.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization,
WHO) ha stabilito, come assunzione quotidiana ammissibile (Acceptable
Daily Intake, ADI), valori pari a 0,0-0,07 e 0,0-3,7 mg/Kg/die per l’ingestione
cumulativa di nitriti e di nitrati, rispettivamente. Usando, come riferimento, i
valori più alti di ADI, un individuo sano di 60 kg di peso corporeo può consu-
mare senza problemi fino a 4,2 mg di nitrito al giorno.
In termini di ingestione di nitrati, è importante notare che circa l’80-85%
di nitrati della dieta derivano da fonti vegetali e non da carne trattata. La por-
zione media di spinaci nell’insalata può superare da sola questo valore e chi
segue diete specifiche come la DASH (Dietary Approaches to Stop Hyperte-
sion), può andare oltre la ADI per i nitrati.
I nitrati, indipendentemente dalla loro origine, sono ridotti a nitriti dai bat-
teri commensali, i.e. batteri che sono presenti sulla superfice dorsale della lin-
gua e possiedono una biodisponibilità assoluta che può raggiungere il 100%.
Si valuta che circa il 25% di nitrati della dieta sia secreto nella saliva e che
circa il 20% (5-8% dell’assunzione di nitrato totale) sia successivamente ridot-
to a nitrito. Questo nitrito diventa una fonte di NO. I risultati di studi clinici
epidemiologici (trials) a breve temine indicano che i nitrati della dieta possono
abbassare la pressione del sangue e migliorare la funzione vascolare. Inoltre è
stata messo in luce un legame fra diete ricche in vegetali, in particolare vege-
tali a foglia larga (green leaves vegetables) e un minor rischio di malattie car-
diovascolari (41).
Gli studi epidemiologici che hanno preso in considerazione l’esistenza di
una possibile correlazione fra l’assunzione di nitrati da vegetali e la protezione
da mortalità cardiovascolare sono invece ancora poco numerosi ed incompleti;
è quindi impossibile trarre conclusioni ben documentate.

26
Capitolo 1 I principi delle diete

A questo proposito, uno studio recente di coorte (un studio di tipo osserva-
zionale) che merita, comunque, attenzione è stato condotto in Australia, su
soggetti anziani, di sesso femminile. Esso documenta che una più alta assun-
zione di nitrati vegetali. è associata ad un minore rischio di mortalità in pazien-
ti affetti da coronaropatia aterosclerotica e da episodi ischemici cerebrovasco-
lari (42).
E stato anche studiato l’effetto dell’assunzione giornaliera di 300 mg di
nitrati provenienti da vegetali a foglia verde o da integratori alimentari, per la
durata di 5 settimane, sulla pressione sistemica in soggetti normali o ipertesi.
I risultati hanno mostrato che non vi è riduzione della pressione in soggetti
normali o ipertesi rispetto a chi segue diete povere in nitrati. Ricordiamo che
la Società Europea di Cardiologia definisce come normali i seguenti valo-
ri: pressione sistolica, 130-139 mmm Hg; diastolica 85-89 mm Hg. Per quan-
to concerne l’ipertensione, rispettivamente 140-159 mm Hg e 90-99 mm Hg
(43). I nitriti presenti nella saliva reagiscono in soluzione con ammine secon-
darie e terziarie, ammidi N-sostituite, carbammati. Quando questo avviene, si
producono N-nitrosammine nel tratto gastrointestinale. Tuttavia, composti
come polifenoli, vitamine C ed E ed altri antiossidanti, largamente presenti nei
vegetali ne inibiscono la formazione. Si ritiene che la fonte maggiore di espo-
sizione alle nitrosammine, sia la fonte endogena, favorita dall’ambiente acido
dello stomaco.
Questo effetto del pH è stato confermato dall’incapacità di formare nitro-
sammine in un ambiente a pH neutro del colon, anche in presenza di ammine
secondarie.
La catalogazione di N-nitroso composti come cancerogeni, determina la
forte domanda dei consumatori per sostituire i nitriti negli alimenti, in modo
da minimizzarne l’esposizione.
Gli sforzi per ridurre l’esposizione a nitrati e nitriti negli alimenti non si
limitano ai prodotti trattati della carne.
In agronomia si è realizzata con successo la coltivazione di lattuga esente
da nitrati ed i livelli di nitriti nei sottaceti sono stati ridotti del 97% grazie
all’inclusione di funghi (Boletus edulis) che contengono la nitrato reduttasi.

1.19 Ingredienti alimentari che migliorano lo stato di


salute

Il concetto di alimento funzionale ha origine per la prima volta in Giappo-


ne, a seguito di un grande programma di ricerca legato a nuove funzionalità del
cibo (44).
In genere il cibo assolve tre funzioni principali: a) la nutrizione, che è ne-
cessaria per le attività essenziali del nostro organismo; b) il valore edonistico,
legato alle proprietà sensoriali, che produce sensazioni desiderate; c) gli effet-

27
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

ti legati al miglioramento della nostra salute, al di là della nutrizione di base,


come ad esempio gli effetti protettivi contro le malattie croniche (45).
La più grande sfida per il futuro è rappresentata dalla disponibilità del cibo
ed “…il diritto all’accesso fisico ed economico al cibo per tutti, in ogni mo-
mento” (dichiarazione FAO), oltre al diritto ad un “cibo sano” per prevenire
malattie legate allo stile di vita, in particolare patologie cardiovascolari, infar-
to e ipertensione fra le altre.
È ancora difficile definire chiaramente quali alimenti possano essere con-
siderati funzionali, perché ci troviamo di fronte ad una diffusa disinformazio-
ne, presente in particolare nelle reti sociali che cercano di promuovere il mar-
keting, danno un risalto eccessivo alle reali funzionalità dei cibi e cercano di
convertirli in farmaci.
Il mercato del cibo funzionale è molto dinamico ed in continuo aumento,
poiché al giorno d’oggi il consumatore preferisce diete bilanciate nelle quali
può essere incluso il cibo funzionale. Questo mercato è stato pari a circa 150
miliardi di $ nel 2018 e si pensa che possa crescere fino a raggiungere i 260
miliardi di dollari nel 2025, con un tasso di crescita annuale composto (CAGR,
Compound Annual Growth Rate) del 6,85% durante il periodo 2019-2025.
I polifenoli sono ubiquitari nelle piante e giocano un ruolo significativo fra
gli ingredienti che promuovono la salute. La loro attività biologica è stata og-
getto di moltissimi studi negli ultimi 20 anni così come le interazioni con i
microbiota intestinali e la loro biodisponibilità e metabolismo.
Vi è una correlazione diretta fra il consumo di cibi ricchi in polifenoli e la
riduzione di malattie cardiovascolari (CVDs, CardioVascular Diseases), in
corrispondenza con i loro effetti anti-infiammatori, antitrombotici e vasodila-
tatori.
Le proantocianidine (PA) o tannini condensati sono strutture fenoliche po-
limeriche che si trovano comunemente nei frutti e negli acheni; hanno attività
antitumorali e citotossiche sulle cellule cancerose, così come effetti protettivi
contro CVDs e diabete di tipo 2.
Un esempio è quello del melograno (o melagrana), un frutto noto per esse-
re ricco in ellagitannini e antocianine. Uno studio recente, ha dimostrato che il
melograno contiene una quantità significativa di PA, sotto forma di una misce-
la complessa di diversi flavan-3-oli monomeri, incluse catechina, epicatechi-
na, epigallocatechina. Queste ultime sono state identificate nelle parti comme-
stibili del frutto solo recentemente, grazie alla messa a punto di tecniche
analitiche ad alta sensibilità e specificità. Lo studio ha mostrato che le PA del
melograno comprendono soprattutto monomeri e dimeri, che potrebbero avere
una più alta biodisponibilità e quindi un maggiore potenziale per le loro pro-
prietà funzionali (46).
Nutrienti antiossidanti come i polifenoli, presenti nel succo di melograno,
possono prevenire il danno neuronale causato dai radicali liberi prodotti du-
rante il normale metabolismo. Questo studio è stato condotto per 12 mesi su

28
Capitolo 1 I principi delle diete

soggetti adulti ed anziani, a cui sono stati somministrati ogni giorno 236 ml di
succo. L’assunzione quotidiana ha stabilizzato la capacità di mantenere l’in-
formazione visiva e potrebbe correggere la perdita di memoria legata all’in-
vecchiamento (47). I fattori critici che possono garantirne una funzionalità
biologica ottimale sono due: a) il tipo di metaboliti, b) il loro assorbimento nel
tratto gastrointestinale.
Ad esempio, per quanto riguarda i sali biliari, che giocano un ruolo nella
digestione dei lipidi, è stato suggerito che il loro corretto funzionamento venga
modulato dal contenuto delle fibre della dieta (Diet Fibers, DF) e dagli effetti
dei microbiota intestinali. Infatti, DF legano gli acidi biliari nel tratto gastroin-
testinale, aiutando in questo modo a ridurre il riassorbimento del colesterolo
nel sangue.
E noto che acidi fenolici, flavonoidi ed altri polifenoli coniugati hanno un
ruolo nel prevenire l’ossidazione di lipoproteine a bassa densità (LDL) legan-
dosi alle proteine di trasporto ed evitando in questo modo la formazione di
placche che protrudono nel lume delle arterie, il primo stadio dell’aterosclero-
si.
Tra i polifenoli, l’acido ellagico e la quercetina hanno una spiccata capaci-
tà di legare (“binding”) le LDL e l’albumina.
Per quanto riguarda l’invecchiamento, l’acido cicorico, uno degli acidi
idrossicinnamici, un dicaffeoilestere presente in molte piante e soprattutto nel-
la famiglia delle Asteraceae (cicoria, basilico), è ben conosciuto per le sue
proprietà antinfiammatorie e immunostimolanti. Inoltre è stato anche dimo-
strato che le sue proprietà bi-funzionali favoriscono l’allungamento di vita
della Caenorhabditis elegans, un piccolo verme nematode che vive nel suolo;
tale effetto è associato ad una maggiore resistenza allo stress, come risultato
della riduzione “in vivo” di specie reattive dell’ossigeno (Reactive Oxygen
Species, ROS) (48).
Studi sperimentali, condotti nei roditori (topo), hanno messo in evidenza
che una dieta arricchita con polpa di fragole intere, ha un effetto protettivo
contro la colite indotta. La polvere essiccata a freddo è ricca in antocianine,
flavonoli, flavan-3-oli e ellagitannini che hanno attività antinfiammatoria e
mucoprotettiva. Tali effetti si associano altresì ad una ridotta alterazione del
microbiota intestinale nel topo, aumentando la quota di batteri benefici (Bifi-
dobacterium e Lactobacillus) e diminuendo quelli dannosi (49).

1.20 Sulforafano

La dieta è la fonte più abbondante di metaboliti, derivati dalle piante, in


grado di influenzare il nostro benessere. Oltre a fornire fibre e micronutrienti,
le piante alimentari, inclusi frutti e vegetali più comunemente utilizzati, con-
tengono metaboliti secondari responsabili di significativi effetti farmacologici.

29
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Microbi commensali presenti nell’intestino (microbiota), come abbiamo viso


in più occasioni, producono molte di queste molecole bioattive. Verdure come
broccoli, cavoli ed altre piante della famiglia delle Brassicaceae (o Crucifere),
producono molecole di piccole dimensioni, derivate dalla dieta, che influenza-
no l’organismo ospitante. Studi epidemiologici hanno correlato diete ricche in
crucifere con un minor rischio di neoplasie a carico del tratto gastrointestinale
e si pensa che questi effetti “chemio-preventivi” siano dovuti alla presenza di
isotiocianati (IsoThioCyanates, ITCs). Questi composti non si accumulano
nelle crucifere, ma sono prodotti che derivano per degradazione enzimatica
dovuta all’azione della mirosinasi. Tale enzima è una idrolasi specifica per i
glucosinolati (GlucoSinolates, GSs), tioglucosidi, che sono abbondanti nel
tessuto delle piante. Fra questi vi è il sulforafano (1-isotiocianato-4-(metilsol-
finil)butano), derivato dall’idrolisi della glucofanina, un composto organico
solforato naturale che include un gruppo isocianato (50).
La conversione enzimatica dei GSs a ITCs è un passaggio fondamentale
perchè il sulforafano possa manifestare i suoi effetti benefici per la salute. Tali
effetti sono complessi e ad ampio spettro; spaziano infatti dalla prevenzione
delle malattie cardiovascolari, all’attività antinfiammatoria, dalla prevenzione
di disfunzioni della memoria al miglioramento delle funzioni cognitive.
Il sulforano riduce inoltre i valori di glicemia a digiuno in pazienti affetti
da diabete di tipo 2. Recentemente questo composto è stato oggetto di partico-
lare attenzione da parte dei ricercatori, poiché è in grado di inibire la prolife-
razione cellulare nel tumore della vescica (51).

1.21 Vitamina D

Non c’è dubbio circa il ruolo della vitamina D nello sviluppo e nel mante-
nimento di una struttura ossea in salute. Sulla base di studi osservazionali è
ipotizzabile che tale vitamina possa avere un ruolo ad ampio spettro e non li-
mitato alla prevenzione del rachitismo (52). Una elevata assunzione di vitami-
na D, l’esposizione al sole ed alte concentrazioni nel siero di 25-idrossivitami-
na D (25(OH)D), il “marker” della vitamina D, sono tutti parametri associati
ad un buono stato di salute. Al contrario basse concentrazioni di 25(OH)D
sono associate con la presenza di fattori di rischio, tra cui l’ipertensione e pa-
tologie cardiovascolari, diabete, neoplasie e perfino morte. Questo non prova,
necessariamente, l’esistenza di un rapporto causa-effetto e quando la vitamina
D è stata integrata nella dieta per migliorare lo stato di salute, sperimentata in
studi controllati e randomizzati (Randomized Controlled Trials, RCTs), i risul-
tati sono stati in genere negativi.
A questo proposito possiamo sottolineare come la depressione e la valuta-
zione della robustezza fisica siano buoni esempi in questo senso. Studi osser-
vazionali (53) mostrano l’esistenza di un’associazione molto significativa tra

30
Capitolo 1 I principi delle diete

una bassa concentrazione di 25(OH)D nel siero e sintomi depressivi, così


come una ridotta forza muscolare. In questo studio sono stati reclutati 155
partecipanti con basse concentrazioni di 25(OH)D; tutti avevano sintomi de-
pressivi ed una scarsa prestanza fisica. Sono state somministrate ogni giorno
dosi supplementari pari a 1200 IU di vitamina D, che hanno quasi raddoppiato
le concentrazioni nel siero di 25(OH)D per 12 mesi. Tuttavia questo intervento
farmacologico non ha avuto effetti significativi né sui sintomi depressivi né
sulla “perfomance” fisica.
Sono stati recentemente pubblicati due RCTs molto estesi sulla vitamina
D. Lo studio VITAL ha valutato l’impatto della somministrazione di tale vita-
mina su 25871 soggetti affetti da: a) neoplasie maligne con metastasi; b) im-
portanti eventi cardiovascolari (54). Un secondo studio si è invece focalizzato
sulla prevenzione del diabete di tipo 2 ed ha coinvolto 2423 partecipanti (55).
In entrambi gli studi, l’effetto dell’integrazione di vitamina D non era superio-
re all’effetto placebo rispetto agli end-point primari. Anche per quanto riguar-
da la depressione essi hanno dato risultati negativi.

1.22 Il ruolo della carne rossa nella nostra alimentazione:


nutrizione e benefici per la salute

Si pensa che la carne rossa sia entrata a far parte della dieta dei nostri an-
tenati almeno 6,2 milioni di anni fa. Essa continua a giocare un ruolo impor-
tante, essendo una buona fonte di acidi grassi essenziali e proteine di alta qua-
lità, oltre ad una varietà di micronutrienti utili per la salute. La carne rossa
include manzo, maiale, agnello e selvaggina, quella conservata previa salatura,
affumicatura e conservanti comprende salcicce, pancetta, salami o prosciutto.
Il Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) definisce carne ros-
sa come “…ogni tessuto muscolare, di origine animale e dal colore rosso”; la
fonte del pigmento rosso è la proteina mioglobina che fornisce ossigeno al
tessuto.
La valutazione fisica e chimica della carne è effettuata di “routine” con
metodi fisici e molecolari per garantirne l’autenticità e qualità ed evitare frodi
alimentari che valgono 10-15 miliardi di dollari all’anno.
La maggior parte della carne rossa conserva un poco di questo colore dopo
la cottura, ma anche se il colore delle carni cotte è più tenue esse sono ancora
considerate come carne rossa (56). Il pollame, i volatili selvatici ed i pesci non
sono considerati carni rosse a causa della minore concentrazione di mioglobi-
na. USDA definisce carne conservata ogni carne che sia stata trasformata, at-
traverso salatura, conservazione, fermentazione, affumicatura o altri processi,
per aumentarne il sapore o migliorarne la conservazione. La carne conservata
comprende sia carne rossa che carne bianca in prodotti come salcicce, pancet-
te, tagli freddi. Tutte le diete più importanti, tra cui Alternative Eating Index,

31
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Mediterranean Diet e Dietary Approach to Stop Hypertension (DASH) se da


una parte raccomandano un basso consumo di carne rossa o conservata,
dall’altra riconoscono che la carne fornisce proteine, ferro, zinco ed altri nu-
trienti essenziali. In termini pratici, la DGAC (Dietary Guidelines Advisory
Committee) del 2015 raccomanda una assunzione pari a non più di 350g alla
settimana o 50g al giorno per una dieta di 2000 kcal al giorno. Nel 2015 il
gruppo di esperti della International Agency for Reserch on Cancer (IARC) ha
classificato la carne rossa come probabile cancerogeno (Gruppo 2 A) e la carne
conservata come cancerogeno (Gruppo 1).
Analogamente, nel suo Third Expert Report del 2018, il World Cancer
Research Fund ha messo chiaramente in evidenza che esistono fondati motivi
per considerare il consumo di carne conservata una causa del cancro colon-ret-
tale e che il consumo di carne rossa è considerato una causa probabile di que-
sta forma di cancro.
La discussione sul consumo della carne rossa e di quella conservata è un
argomento controverso e, per certi versi, confuso; ultimamente, nell’ottobre
del 2019, un gruppo di autori, citati da M. L. Neuhouser (56), ha pubblicato
una serie di articoli in cui vengono passate in rassegna le più attuali acquisizio-
ni della letteratura scientifica che richiamano una serie di raccomandazioni
dietetiche opposte. Questo gruppo di autori ha suggerito che gli adulti continu-
ino l’attuale consumo di carne rossa e conservata. Essi inoltre sostengono che
diete ristrette in carne possono avere uno scarso effetto o nessun effetto sulle
più importanti malattie cardiometaboliche e sulla mortalità per tumore o mor-
bilità o mortalità per tutte le cause. Secondo L. Neuhouser (56) queste conclu-
sioni, che differiscono in modo significativo dalle numerose linee guida che
basano le loro indicazioni su prove di efficacia (evidence-based), derivano da
studi privi di controlli rigorosi e condotti per tempi troppo brevi per avere dei
risultati credibili.
La carne rossa contiene proteine con tutti gli otto amino acidi essenziali ri-
chiesti per gli adulti e tutti i nove necessari per i bambini. Essa ha in media 20-24
g di proteine per 100 g di alimento grezzo; il profilo degli acidi grassi varia a
seconda delle relative proporzioni di carne magra e carne grassa presenti.
La carne magra è relativamente più ricca in acidi grassi poli-insaturi
(Poly-Unsaturated Fatty Acids, PUFA), rispetto a quella in cui il grasso visibi-
le non è stato scartato. In totale la carne magra ha proporzioni simili di MUFA
(Mono-Unsaturated FattyAcids) e acidi grassi saturi (Saturated Fatty Acids,
SFA); manzo, agnello ed altre carni di ruminanti hanno in genere più SFA ri-
spetto al maiale, perché in esse fino al 90% degli acidi grassi insaturi sono
idrogenati a SFA nel rumen durante la digestione. Il principale SFA presente
nella carne rossa è l’acido palmitico, circa il 50%, seguito dallo stearico, circa
un terzo. Mentre il primo aumenta il livello di colesterolo nel sangue, il secon-
do ha un effetto neutro. La carne rossa contiene livelli relativamente bassi di
PUFA.

32
Capitolo 1 I principi delle diete

La maggior parte del ferro è sotto forma di ferro-eme, che viene meglio
assorbito nella dieta (20-30%) rispetto al ferro non- eme (5-15%). Il ferro-eme
aumenta anche l’assorbimento del ferro non-eme da cereali, vegetali e legumi.
La carne ed i suoi prodotti contribuiscono (circa il 20%) all’assunzione di
ferro negli adulti con età compresa fra 19-64 anni. L’assunzione di vitamina D
è pari al 35% negli adolescenti ed al 30% negli adulti.
L’invecchiamento porta ad una perdita di massa muscolare (sarcopenia), che
può essere contrastata consumando proteine di alta qualità. Gli aminoacidi rami-
ficati (leucina, isoleucina e valina) sono gli amino acidi essenziali per la sintesi
delle proteine e questi sono in genere presenti in misura maggiore nelle proteine
animali rispetto a quelle vegetali, con i livelli più alti nella carne rossa.
Vi sono prove ben documentate che diete, con un periodo di durata bre-
ve-medio e contenuto di proteine “ad libitum”, aumentano il senso di sazietà e
la perdita di peso, in confronto con diete ricche in carboidrati. L’effetto può
perdurare per periodi prolungati, fino a dodici mesi.
La composizione della carne conservata può variare molto; in ogni caso, il
contenuto di sale è maggiore rispetto a quella non trattata. La carne ed i suoi
prodotti contribuiscono fino al 27% all’assunzione di sodio negli adulti, un
dato appena inferiore rispetto ai cereali (31%) (57).

1.23 Analoghi della carne come cibo del futuro

Se consideriamo l’esplosione globale della natalità e la connessa urbaniz-


zazione, si prevede che la produzione globale di carne per il 2030 possa au-
mentare da 228 a 465 milioni di tonnellate. Per soddisfare tale richiesta, circa
70 miliardi di animali dovranno essere allevati e macellati ogni anno. L’alleva-
mento e la macellazione di animali su larga scala pone seri problemi ambien-
tali, etici e di salute (58). Infatti, il bestiame viene nutrito con alimenti vegeta-
li fibrosi arricchiti in cellulosa e con residui di raccolti. La fermentazione
microbica della biomassa vegetale, che ha luogo nel rumine, emette circa 3
miliardi di tonnellate di gas serra (GreenHouse Gas, GHGs) all’anno, un am-
montare che è superiore rispetto all’emissione di GHG attribuibile a tutto il
settore dei trasporti. L’emissione di metano dalle paludi e di altri gas naturali
è trascurabile, mentre quella ascrivibile agli allevamenti di bestiame è cresciu-
ta costantemente ed ha raggiunto, nel 2017, 227 milioni di tonnellate. A questo
si aggiungano le grandi quantità di CO2 che provengono dalle coltivazioni
necessarie per allevare il bestiame e di ossido nitroso NO2 derivante dal con-
cime e dai fertilizzanti. In aggiunta, l’allevamento degli animali per la produ-
zione di carne consuma circa l’8% delle acque sorgive ed il 30% del suolo,
soltanto per il pascolo. Inoltre la produzione tradizionale di carne è associata
all’evoluzione di superbatteri e ad infezioni zoonotiche. Una pietra miliare,
nell’alternativa alla carne convenzionale, è stata l’applicazione pratica dell’i-

33
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

dea-teoria di prodotti a base di carne preparata “in vitro”. Per carne “in vitro”
si intende carne commestibile, ottenuta prelevando cellule da animali, in uno
stato di salute controllato e garantito, che vengono fatte proliferare mediante
metodiche di ingegneria cellulare.
Il processo di produzione parte da piccoli frammenti di tessuto ottenute
mediante una biopsia sotto anestesia. La coltura di cellule di muscolo schele-
trico avviene grazie alla capacità di ricostituire il tessuto di alcune cellule di
tipo staminale, dette cellule satelliti. Le fasi di differenziazione e proliferazio-
ne completano la neo-formazione del tessuto muscolare.
In genere le cellule staminali hanno di per sé la capacità di rinnovarsi per
creare nuovo tessuto, finchè sono disponibili sufficienti fattori di crescita. A que-
sto scopo, sono coltivate in “medium” appropriati contenenti alcuni specifici
nutrienti, che forniscono le condizioni necessarie per la crescita del tessuto.
Il processo di proliferazione può durare 7-8 settimane e consente di ottene-
re un numero molto elevato di nuove cellule. Si calcola che 10000 fibre mu-
scolari consentano di preparare 85 g di hamburger (59). Mark Post, un ricerca-
tore dell’Università di Eindhoven (Olanda) è stato il primo a produrre carne in
vitro, facendo crescere cellule staminali utilizzando “medium” di coltura spe-
cifici (60).
La carne preparata in vitro non solo riduce il numero di animali sacrificati,
ma è anche una fonte di proteine animali più salutare, pulita ed esente da po-
tenziali patologie. Presenta indiscutibili vantaggi, ad es. 1) produzione indi-
pendente da allevamenti animali, 2) riduzione fino al 50% dell’energia consu-
mata, 3) minore utilizzo del suolo, 4) minore emissione di gas-serra, 5)
risparmio (80-95%) dell’acqua.
Accanto alla carne derivata da cellule staminali animali, sta acquistando
popolarità, tra i ricercatori e le industrie alimentari, la produzione di carne da
fonti vegetali. Quest’ultime sono ricche di costituenti chiave, come proteine
vegetali purificate (e.g. proteine dei piselli o della soia) mentre olio di cocco,
di girasole o di canola sono usati come fonte di grassi; le ghemiogolbin (un
pigmento rosso estratto dalle leguminosi e simile alla emoglobina animale) ed
estratti di bietola, impatiscono colore ed aroma.
Questa carne di origine vegetale riproduce sorprendentemente la consi-
stenza, il gusto e le sensazioni della carne vera. Su scala commerciale, due
gruppi alimentari, la Impossible Foods e Beyond Meat offrono burger di carne
basati su piante. Per quanto riguarda il valore nutrizionale, questi “burger”
hanno contenuto calorico e proteico simili a quelli della carne animale, ma un
minore contenuto di grassi saturi e sono privi di colesterolo; sono anche una
ricca fonte di minerali come Na (61).
Inoltre, l’aggiunta di componenti derivati da sintesi chimica o estratti da
fonti naturali comporta molti passaggi intermedi e questo potrebbe non rap-
presentare un approccio ottimale per la tutela della salute dei consumatori. In
effetti l’assunzione di alimenti eccessivamente lavorati (o ultra processati) è

34
Capitolo 1 I principi delle diete

più alta tra vegetariani e vegani rispetto a chi consuma carne. Non tutte le
diete vegetariane comportano perciò, automaticamente, benefici per la salute,
a causa dei potenziali effetti negativi di questi prodotti (62). Come rivelato da
una indagine on line realizzata negli Stati Uniti, il consumatore ha opinioni
diverse sul consumo della carne prodotta “in vitro”; su un totale di 653 parte-
cipanti, con età compresa fra 18 e 70 anni, circa 2/3 si sono dichiarati disposti
ad accettare in futuro questo tipo di carne, 1/5 si sono dichiarati contrari e 1/3
disposto a consumarla regolarmente.

Carne derivata da cellule staminali


Il Governo di Singapore ha dato il via libera alla start-up statunitense Eat
Just per la vendita della sua carne di pollo prodotta in laboratorio; secondo l’a-
zienda, costituisce la prima approvazione normativa al mondo per la cosiddet-
ta “carne pulita”, un prodotto che non proviene da animali macellati. Potrebbe
quindi rappresentare una soluzione in grado di soddisfare la domanda, sem-
pre maggiore, di forme alternative di carne, a causa delle preoccupazioni dei
consumatori per la salute, il benessere degli animali e le ripercussioni sull’am-
biente. Le opzioni di carne a base vegetale, rese popolari da società come
“Beyond Meat Inc.” e “Impossible Foods”, sono sempre più presenti nella grande
distribuzione e nei menu dei ristoranti. Ma la cosiddetta “carne pulita” o “colti-
vata” (proviene da colture di cellule muscolari animali, fatte crescere in labora-
torio), è ancora in una fase iniziale dati gli alti costi di produzione: come accen-
nato precedentemente, la tecnica consiste nel prelevare cellule staminali del
grasso o del muscolo di un animale e riprodurle in un mezzo di coltura adegua-
to, facilitando la crescita del tessuto. Una volta che il processo di crescita-ripro-
duzione cellulare è iniziato, teoricamente è possibile continuare a produrre
carne all’infinito senza aggiungere nuove cellule prelevate da un organismo
vivente. Secondo alcuni studi, due mesi di produzione di carne “in vitro” potreb-
bero generare 50.000 tonnellate di carne, a partire da dieci cellule muscolari
di maiale. Secondo la società “Eat Just”, si tratta della “… prima approvazione
normativa al mondo per produrre carne di alta qualità, creata direttamente da
cellule animali, per un consumo umano sicuro…”, aprendo la strada ad un im-
minente lancio commerciale, su piccola scala, a Singapore. Secondo l’’azienda
“…il costo sarà competitivo con quello della carne di pollo di alta qualità (pollo
premium) e verrà lanciata per la prima volta nel circuito dell’alta ristorazione a
Singapore”. Nel febbraio 2013, la “Eat Just” ha messo in commercio il suo primo
prodotto, “Beyond Eggs”, un sostituto delle uova realizzato con ingredienti di
origine vegetale come piselli, lecitina di girasole, olio di colza e gomme natura-

35
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

li. È stato commercializzato e pubblicizzato come ”privo di prodotti di origine


animale, glutine e colesterolo…”, per essere utilizzato per la produzione di biscot-
ti. A questo preparato sono successivamente seguiti altri prodotti come “Just
Mayo”, una maionese totalmente vegetale e realizzata con una varietà di pisello
giallo canadese, e “Just Cookies” una linea di biscotti con gocce di cioccolato, zuc-
chero, uva passa, farina d’avena e burro di arachidi ma privi di burro e uova.

1.24 Alternative nutrizionali alla carne

La sostenibilità ambientale e la salute sono, come abbiamo già detto più


volte, legate alle diete globali. In questo contesto, la transizione da alimenti di
origine animali a diete basate sulle piante è maggiormente sostenibile ed è
associata ad un minor rischio di malattie non trasmissibili. Il tema centrale
della discussione riguarda le fonti delle proteine alternative alle proteine ani-
mali (63). Benché vi sia un lungo elenco di proteine vegetali ben conosciute e
largamente impiegate a questo scopo, esse sono generalmente di minor qualità
rispetto a quelle di origine animale. Questo riguarda il profilo di amino acidi
sia delle proteine di cereali, sia di quelle presenti nei legumi; nel primo caso vi
è ad esempio una scarsa quantità di lisina, di triptofano (nel mais), mentre nei
legumi vi sono limitazioni trascurabili di amino acidi solforati. Per quanto ri-
guarda altre fonti di proteine di origine vegetale, come le foglie verdi (ad
esempio spinaci), piante acquatiche (lenti palustri), microalghe marine (clorel-
la), ciano batteri (alghe blu-verdi), spirulina e micopreteine (Mycos), il profilo
di amino acidi è molto più bilanciato. Inoltre esse sono abbondanti; le lenti
palustri hanno fama di essere le piante del pianeta, che crescono più in fretta.
Le controindicazioni di alcune di queste piante sono: a) la bassa digeribilità, b)
la presenza di fattori antinutrizionali che possono avere effetti negativi sulla
salute. Le proteine vegetali hanno una digeribilità del 75-80%, se confrontata
alle proteine animali, come carne, uova, pollame e latte (89-95%). Inoltre,
spesso, esse hanno uno scarso valore nutrizionale; ad esempio una porzione di
proteine di 25 g richiederebbe più di 1 kg di spinaci e più di 300 g di funghi.
Le proteine vegetali presentano una minore accessibilità agli enzimi, a causa
delle pareti rigide delle cellule e dei gusci dei semi.
L’utilità delle piante come fonte di proteine, è limitata dalla presenza di
alcuni composti che hanno effetti fisiologici negativi che ne limitano il valore
nutrizionale. Gli esempi più comuni sono gli inibitori di proteasi, i fitati, le
lectine ed i polisaccaridi non amidacei (64).
La quinoa, lo pseudo cereale utilizzato dalla NASA per i voli spaziali, è più
densa in energia, 150 g di essa forniscono 25 g di proteine con un profilo bi-
lanciato di amino acidi e 650 Kcal.

36
Capitolo 1 I principi delle diete

In ogni caso, una dieta vegana interamente basata su cereali, legumi e ve-
getali misti, integrata da micronutrienti, può fornire un profilo bilanciato di
aminoacidi, utile per la crescita anche di bambini di un anno (vedi oltre).
Alla ricerca di sostituti della carne soddisfacenti dal punto di vista organo-
lettico e nutrizionale, un ruolo chiave è quello del latte (calcio, iodio, vitamina
B12, riboflavina e proteine). Inoltre, le proteine del latte sono considerate im-
portanti nella stimolazione postprandiale della neo-sintesi di proteine specifi-
che per le fibre muscolari (MPS).
L’alto contenuto di leucina, soprattutto della proteina del siero, che è rapi-
damente digerita e assorbita, ne fanno la proteina standard della dieta, per la
sua capacità di stimolare MPS in vivo.
Un altro potenziale sostituto della carne è un fungo a cellula singola, com-
mercialmente disponibile, il Myco, in grado di stimolare MPS in misura supe-
riore alle proteine del latte, in soggetti giovani ed in buono stato di salute.
Il microfungo filamentoso Fusarium venenatum è attraente come sostituto
della carne perché può crescere in colture continue per produrre un prodotto
denso in proteine, ricco di fibre (beta-glucano e chitina), con un profilo favo-
revole di acidi grassi (soprattutto PUFA). Esso ha inoltre un’alta concentrazio-
ne di zinco, selenio, e ferro, ma privo di vitamina B12 e può essere utilizzato
per fare molti sostituti della carne.
Tuttavia, il metodo di produzione (un substrato di glucosio con la necessi-
tà di ridurre l’alto contenuto di RNA per renderlo accettabile in termini di
concentrazione) lo rende attualmente più costoso della carne (65).
Il Myco è la sola micoproteina in vendita in Europa e Nord America con il
nome di Quorn. È un valido sostituto della carne; la composizione degli amino
acidi è simile alle proteine animali in termini di amino acidi essenziali (46%),
lisina (anche se quantità inferiore al latte), aminoacidi solforati e triptofano. È
stato introdotto in Gran Bretagna nel 1985 e utilizzato per preparare hambur-
ger; prodotto (bioreattori) in condizioni strettamente controllate, richiede una
manipolazione appropriata per modellarne la struttura filamentosa e disordina-
ta e trasformarla nell’alimento.

1.25 Alimenti ricchi in proteine animali e vegetali e stato di


salute cardiovascolare: un enigma complesso

I dati più completi a nostra disposizione riguardano gli USA; la maggior


parte degli Americani tende ad alimentarsi con cibi contenenti eccessi di gras-
si saturi (più del 10%) e sodio (66), disattendendo le raccomandazioni e le li-
nee-guida della dieta per Americani 2015-2020 (Dietary Guidelines for Ame-
ricans - DGA) (67).
Le quantità di grassi, presenti nelle carni consumate da un cittadino ameri-
cano medio, variano secondo un ampio intervallo, aumentando progressiva-

37
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

mente da carne magra a prodotti lavorati (es. salsiccia di maiale 39 g di grassi


saturi e 775 mg di sodio per una porzione di 85 g).
Un Americano adulto consuma più proteine da fonte animale (46% del
totale di proteine assunte), rispetto a quelle vegetali (30%) ed ai latticini
(16%). Le proteine animali hanno il vantaggio di un maggior potere nutriente
e migliore qualità, ma un più alto contenuto di grassi saturi e sodio.
Per quanto riguarda lo stato di salute cardiovascolare, le DGA per il 2015-
2020 si basano sui risultati ottenuti nella maggior parte degli studi prospettici
di coorte, i quali mostrano chiaramente che diete che includono minori quan-
tità di carni rosse fresche e di pollo (conservate), sono associate ad un minor
rischio di patologie cardiovascolari.
Il consumo di carne rossa è associato ad un aumento significativo di con-
centrazione plasmatica di trimetilammina-N-ossido, un composto derivato dal
metabolismo batterico intestinale della carnitina, che è correlato all’incidenza
di eventi cardiovascolari (CVD) (68). Inoltre, recenti studi di meta-analisi, che
riassumono i dati provenienti da diversi studi prospettici di coorte, hanno ri-
portato incidenza di CVD associata con carne rossa conservata, suggerendo
che conservanti come sodio, nitrati ed i loro sottoprodotti, possano contribuire
all’associazione tra consumo complessivo di carne rossa e rischi CV. L’assun-
zione di ferro eme, abbondante nelle carni rosse, è stata associata ad un mag-
gior rischio CVD, probabilmente attraverso un meccanismo che coinvolge la
perossidazione dei lipidi e l’infiammazione. In contrasto con l’opinione cor-
rente, Bergeron ha prospettato una nuova ipotesi per spiegare gli effetti del
consumo di carne rossa, carne bianca e proteine vegetali sulle lipoproteine
aterogene. I suoi risultati sono in linea con le raccomandazioni che promuovo-
no le diete più ricche in proteine vegetali, ma non forniscono prove che l’uti-
lizzo di carne bianca, rispetto a quella rossa, possa ridurre il rischio di CVD.
Lo studio è durato quattro settimane ed ha riguardato carne non conservata,
carne rossa magra ed alimenti vegetali (legumi, frutta secca, cereali e prodotti
di soia privi di isoflavoni).
Le DGA non forniscono esplicite raccomandazioni sulle quantità relative
di proteine animali specifiche e vegetali, ma raccomanda di consumare in
modo responsabile alimenti con meno calorie e ridotto apporto di nutrienti.

1.26 Alimenti di origine vegetale e microbioma nella tutela


della salute e nella prevenzione della malattia

I dati epidemiologici ricavati da studi sulle diete e studi sperimentali


nell’animale hanno dimostrato che diete basate su alti contenuti di fibre vege-
tali possono prevenire molte malattie, comuni alle società industrializzate
(69). Si ritiene che questo sia dovuto agli effetti che esse hanno sulla compo-
sizione e sull’ attività metabolica dei microbiota del colon. La fermentazione

38
Capitolo 1 I principi delle diete

microbica dei residui di piante da parte del colon, promuove la salute e genera
cataboliti che possono contribuire alla prevenzione di neoplasie. La maggior
parte degli studi di coorte, condotti su soggetti di età media, di ambo i sessi,
dimostra che un’alta assunzione di fibre alimentari, specialmente da frutti e
vegetali, riduce fra l’altro il rischio di diverticoli e di ospedalizzazione da di-
verticolosi (70). In generale, frutta e verdura contengono un più alto livello di
cellulosa rispetto ai cereali; trattandosi di una fibra insolubile, la cellulosa rap-
presenta in media il 30% nella frutta ed il 50% nei vegetali.
Nello studio sopra citato, il consumo medio di fibra nei soggetti (donne)
esaminati era di 8,5 g/die, con una “forbice” max-min pari a 12,6-4,1 g/die.
Per gli uomini, il consumo medio corrispondente era di 7,4 g. Nelle conclusio-
ni si sottolinea che una alta assunzione di fibre può ridurre il rischio di malattie
dei diverticoli e che individui che consumano 30 g di fibra al giorno hanno una
riduzione del rischio pari al 41% rispetto a persone che ne assumono una bas-
sa quantità.
Le fibre della dieta comprendono un ampio insieme di molecole comples-
se, molte delle quali sono presenti nelle cellule delle piante; fra queste vi sono
i glicani, carboidrati resistenti alla digestione da parte degli enzimi del nostro
organismo. Inoltre, come sappiamo dalla fisiologia umana, alcune fibre ingeri-
te sono escrete inalterate nelle feci, mentre la maggior parte sono metabolizza-
te dalla ricca flora batterica intestinale. Questi microbi hanno capacità metabo-
liche diverse ed estremamente complesse; batteri che esprimono enzimi
diversi per metabolizzare le fibre, possono sopravvivere e proliferare usando
svariati alimenti.
Alcune specie batteriche possono competere fra loro per lo stesso nutri-
mento e questo potrebbe rappresentare un importante fattore di autoregolazio-
ne delle diverse specie e costituire un meccanismo alla base della sopravviven-
za del batterio nell’ospite. È quindi lecito chiedersi se è possibile manipolare i
microbi intestinali attraverso interventi dietetici. A questo riguardo è stato
proposto l’uso di prebiotici, cioè composti presenti nel cibo che influenzano i
microbi intestinali e stimolano selettivamente la crescita di uno o di un nume-
ro limitato di batteri benefici.
Tuttavia, determinare se una fibra alimentare, presente nella dieta, sia in
grado di promuovere lo stato di salute, influenzando il microbioma-microbio-
ta, richiede la piena conoscenza delle interazioni che avvengono allorché co-
munità complesse di microbi intestinali incontrano una fonte di fibre.
Patnode e colleghi hanno ora chiarito quali particolari tipi di glicani posso-
no influenzare la competizione fra differenti specie di Bacteriodes residenti
nell’intestino umano (71).
Le fibre sono metabolizzate dando acidi grassi saturi a corta catena (Short-
Chain Fatty Acids SCFAs), che hanno interessanti proprietà antinfiammatorie,
antiproliferative e antineoplastiche. Colonie specializzate di microbi possono
essere responsabili della lisi delle pareti delle cellule vegetali, rilasciando fito-

39
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

chimici come polifenoli, antocianine, fenoli e flavine, che hanno le stesse pro-
prietà. Queste azioni amplificano quelle di SFCAs sull’epitelio del colon e sul
conseguente assorbimento sistemico. Diversi studi hanno mostrato che i resi-
dui fecali sono più potenti nel sopprimere la proliferazione di cellule cancero-
gene rispetto a miscele che contengono solo SCFAs.
Lampe e collaboratori hanno analizzato con accuratezza queste interessan-
ti implicazioni, che mettono in correlazione il metabolismo dei nutrienti con il
microbioma. In uno studio su 42 volontari sani, gli autori hanno esaminato
l’effetto di un supplemento di 50 mg di fitochimici sul microbioma fecale (72).
Il supplemento scelto è stato un lignano (un polimero fenolico) di semi di lino,
con un ingrediente attivo costituito dal secoisolariciresolo diglicoside (SDG).
Questo composto è rilasciato dai residui delle piante nel colon e convertito, da
parte di batteri intestinali specializzati, in enterolignani biologicamente più at-
tivi, enterodiolo e enterolattone (ENL). I lignani sono fitoestrogeni con attività
estrogeniche e antiestrogeniche nell’uomo. È stato dimostrato che riducono il
rischio di molte malattie, incluso il cancro al seno, CVD e diabete di tipo 2.
L’attività biologica degli integratori nutrizionali rappresenta un campo
molto controverso; non sempre la loro attività è correlabile con la dose (attivi-
tà dose-risposta), come dimostrato dall’esperienza con la vitamina A, la glu-
tammina e da studi su antiossidanti, nei quali l’aggiunta, non fisiologica, di
integratori peggiora il risultato finale.
La situazione è tuttavia diversa se prendiamo in considerazione le fibre, per-
ché in questo caso si ripristina la presenza di qualcosa che è andato perduto nel
processo di trasformazione agroalimentare e commercializzazione dell’alimento.
Tutti gli studi concordano sulla necessità fisiologica di una assunzione
quantizzabile in 50 g di fibra al giorno, la quantità contenuta nella tradizionale
dieta Africana, associata con la prevenzione delle malattie tipiche del mondo
occidentale. Questa quantità è circa il doppio dell’assunzione raccomandata
dall’USDA (United States Dept. of Agriculture), che è pari a 25 g al giorno per
le donne e 38 g per gli uomini; tali indicazioni sono basate sulla quantità rite-
nuta necessaria per prevenire CVDs e circa il triplo della quantità media assun-
ta nei paesi occidentali. Mentre sono stati pubblicati diversi studi di coorte
sull’importanza delle fibre della dieta nei paesi europei ed in USA, non si può
dire lo stesso per quanto riguarda i paesi orientali. Degno di nota è l’articolo di
R. Katagiri, uno dei pochi ricercatori a prendere in considerazione l’associa-
zione fra assunzione di fibre della dieta e mortalità (73).
Questo studio di coorte, basato su una popolazione particolarmente nume-
rosa (92924 partecipanti) di soggetti adulti, giapponesi, di età compresa tra
45-75 anni, ha mostrato una riduzione per tutti i rischi di mortalità pari al 23%
negli uomini ed al 18% per le donne. Uno degli aspetti più importanti di questo
studio è il coinvolgimento di soggetti le cui diete sono molto diverse da quelle
dei paesi Occidentali, anche se il tipo di occupazione e le caratteristiche
dell’attività fisica sono simili.

40
Capitolo 1 I principi delle diete

Infatti, la fonte di fibre della dieta che è stata presa in considerazione in


questo studio contiene solo il 15% di fibre derivanti da cereali, contro il 44,8%
degli Stati Uniti.
Inoltre lo studio giapponese dimostra come una elevata assunzione di fibre
presenti in legumi, frutta e vegetali (ma non quella di fibre presenti nei cereali)
sia associato ad un minore rischio di mortalità per tutte le cause. Questo risul-
tato è in contrasto con quanto osservato nei paesi Occidentali, dove l’assunzio-
ne di fibre da cereali integrali è correlata ad una minore incidenza di malattie
cardiovascolari e mortalità per tutte le cause. Le fonti principali delle fibre che
provengono da legumi, erano miso e natto (o nattou) proveniente dalla fermen-
tazione dei fagioli di soia; per quanto riguarda i vegetali, carote e cavoli, per la
frutta, le mele (ma solo per le donne).
Legumi, frutta e vegetali contengono fibre vischiose (e.g. polisaccaridi
della soia, pectine); questi tipi di fibre riducono l’aumento della glicemia po-
stprandiale e la lipidemia a digiuno, soprattutto colesterolo LDL.
Rispetto alla dieta occidentale, il miso ed il natto sono alimenti fermentati
non comuni, che potrebbero avere effetti probiotici. La dieta giapponese inclu-
de anche tofu e latte di soia, mentre la modesta quantità di fibra cereale provie-
ne da riso bianco, pane bianco, soba, tagliatelle cinesi e dolci di riso bianco.
Questi studi sono una ulteriore prova a favore delle linee-guida che consiglia-
no di aumentare l’assunzione di legumi, frutta e vegetali, con vantaggi per la
salute e la sostenibilità dell’ambiente.

1.27 Ruolo delle fibre dei cereali nei processi digestivi

Le fibre della dieta (DF, Diet Fibers) sono una parte essenziale dell’ali-
mentazione umana. La maggior parte di DF deriva da alimenti di origine
vegetale, in particolare da carboidrati non digeribili che formano le pareti
delle cellule delle piante. La definizione più largamente accettata di DF è
quella proposta dalla Comunità Europea: polimeri di carboidrati, con tre o
più unità monomeriche (per escludere mono e disaccaridi, zuccheri semplici
di una o due molecole) che non sono né digeriti, né assorbiti nel piccolo in-
testino (74,75). La ricerca, negli ultimi anni, ha messo in luce molti benefici
salutari delle DF quali un rischio ridotto di obesità e di malattie croniche,
e.g. patologie cardiovascolari, diabete del tipo 2 e neoplasie del tratto co-
lon-rettale. In particolare, forme solubili delle fibre, che conferiscono alta
viscosità alle soluzioni acquose, sono state associate ad un controllo ottima-
le della glicemia e ad una ridotta colesterolemia, a prolungato svuotamento
gastrico e ridotta digestione di amido, oltre ad un ridotto assorbimento di
glucosio nel piccolo intestino. Nonostante questi benefici incontrovertibili,
l’assunzione delle fibre alimentari in Europa e nel Nord America resta al di
sotto dei livelli raccomandati.

41
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

I cereali sono la maggiore fonte di fibre e si valuta (dati relativi al Regno


Unito) che fino al 20% dell’assunzione quotidiana di fibre derivi dal consumo
del solo pane. Per questa ragione un aumento di fibre alimentari nel pane, co-
stituisce un obiettivo strategico per ottenere benefici salutari. Il pane è un ali-
mento di ampio consumo; la National Diet and Nutrition Survey (NDNS) sti-
ma che gli adulti nel Regno Unito consumino in media 90 g di pane al giorno,
che corrisponde al 10-13% della loro assunzione di energia totale, mentre in
altre aree geografiche, come l’Asia Centrale, l’energia fornita con il pane arri-
va al 60%. Gli alimenti integrali hanno un più alto contenuto di fibre rispetto a
quelli prodotti utilizzando farina bianca, tuttavia il loro gusto e la loro consi-
stenza (una caratteristica organolettica dell’alimento) possono non incontrare
appieno il gusto dei consumatori.
La National Association of British and Irish Flour Millers (NABIM) stima
che la produzione di farina integrale rappresenti solo il 7% della produzione
totale di farina. L’identificazione di coltivazioni, che esprimono, nella farina
bianca, elevati livelli di arabinoxilano (AX, una fibra cereale), ha consentito di
produrre pane, da due varietà di grano, con alto contenuto di fibra. Esso è ca-
ratterizzato da una ridotta (30%) velocità di digestione dell’amido e costitui-
sce un pane bianco salutare, con alto contenuto di fibra.
Il grano integrale contiene la crusca ed il germe, che sono considerati i suoi
componenti salutari base. Con il termine germe si definisce l’asse embrionico
e lo scutello del seme. Il germe è ricco in composti bioattivi, come l’acido al-
fa-linolenico, oligosaccaridi, flavonoidi, fitosteroli e vitamine (tiamina, toco-
feroli, tocotrienoli, e fillochinone).
L’effetto fisiologico che la crusca (lo strato esterno del chicco) esercita
sulla funzionalità gastrointestinale è ben dimostrato ed il valore nutrizionale
esercitato dalla fibra della crusca è stato riconosciuto ed approvato dall’Unio-
ne Europea.
Le fibre della dieta presenti principalmente nella crusca, riducono il tempo
del transito intestinale e aumentano la massa fecale e la ritenzione dell’acqua
nel colon, cambiando le caratteristiche delle feci e la frequenza delle defeca-
zioni. Alla luce delle attuali conoscenze è chiaro che le fibre della dieta confe-
riscono la maggior parte dei loro benefici salutari indirettamente attraverso i
prodotti metabolici derivanti dalla fermentazione della fibra da parte dei mi-
crobiota intestinali.
Per quanto riguarda il germe, uno studio “in vitro” (su un modello ga-
strointestinale sperimentale) ha confrontato diversi prodotti prebiotici com-
merciali ed ha messo in luce che preparazioni con germi di grano aumentano
la proporzione di bifido batteri nelle feci dal 15 al 24%. Allo stesso modo, uno
studio clinico randomizzato, che ha coinvolto 32 soggetti in buono stato di
salute, ha dimostrato che l’ingestione giornaliera di germi di grano come inte-
gratore dietetico aumenta il numero di bifido batteri e lattobacilli intestinali,
ma solo in individui con bassi livelli basali.

42
Capitolo 1 I principi delle diete

L’aggiunta di germi di grano al pane sembra in grado di attivare il microbio-


ta batterico intestinale, con ricadute potenzialmente benefiche per la salute in-
testinale. Il germe di grano è in grado di superare la resilienza del microbiota
intestinale e promuovere la crescita di microrganismi benefici, esercitando al
contempo un ruolo protettivo contro specie batteriche nocive come E. coli (76).
La diverticolite è stata considerata la malattia della civiltà occidentale, poi-
ché l’incidenza e la prevalenza di questa patologia sono da 20-40 volte mag-
giori in popolazioni con elevato tenore di vita rispetto a popolazioni con un
tenore di vita più basso. Una dieta povera in calorie e ricca in carne rossa è
stata associata ad un aumentato rischio di questa affezione, così come ad altre
malattie del colon inclusi l’adenoma colon-rettali, il cancro colon-rettale e la
malattia di Crohn.
Uno studio di coorte su 865829 partecipanti ha chiarito che un’alta assun-
zione di fibre di cereali e frutta, fino a 40 g al giorno, riduce il rischio della
diverticolite. L’assunzione di 30 g al giorno di fibre provoca una riduzione del
rischio pari al 41% rispetto a chi ne assume in quantità minore (77).
Psyllium è il nome comune dei semi di una pianta annuale del genus Plan-
tago, che comprende circa 200 specie diverse. È comunemente usata nella
medicina tradizionale Indiana (Ayurveda) per prevenire l’irritazione della pel-
le, le emorroidi, la costipazione e la diarrea. La principale area geografica per
la produzione e commercializzazione è il sub-continente indiano (78).
I semi di psyllium (psyllium plantago o plantago ovata) sono una fonte di
fibre viscose, solubili in acqua e sono considerati uno degli integratori di fibre
più usato al mondo. È una fibra solubile che forma un gel, un integratore non
fermentato, che per questo presenta il vantaggio, rispetto ad altre fibre, di dare
una scarsa flatulenza ed un limitato gonfiore intestinale. L’effetto lassativo è
dovuto alla sua capacità di trattenere grandi quantità di acqua, pari a circa 80
volte rispetto al suo peso.
Il consumo dello psyllium riduce l’assorbimento intestinale dei grassi e le
risposte insuliniche. Inoltre, la presenza negli alimenti di questa fibra solubile
può ritardare lo svuotamento gastrico e l’assorbimento dei carboidrati.
Esso non ha un effetto significativo sul peso corporeo né sull’indice di
massa corporea o circonferenza della vita (79). Riduce il colesterolo LDL e
può perciò contribuire ad un controllo delle patologie cardiovascolari. Una
recente meta-analisi ne ha messo in luce il potenziale come fattore di controllo
della colesterolemia e del rischio aterogeno. In particolare lo psyllium miglio-
ra in modo sostanziale il quadro dei markers lipidici convenzionali (e.g trigli-
ceridi, lipoproteine) ed alternativi (lp-PLA2, Lipoprotein-associated Phospho-
lipase A2) e ritarda, potenzialmente, l’aterosclerosi in soggetti con o senza
ipercolesterolemia (80).
Il consumo di vegetali e frutta nella età giovanile è associata con migliori
funzioni cognitive nell’età più adulta. Poiché non ci sono trattamenti efficaci
per la demenza, il ritardare o prevenire il declino cognitivo attraverso fattori di

43
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

rischio modificabili, come la dieta, ha una grande importanza per la salute


pubblica e richiede interventi tempestivi (81).
Benché diversi studi abbiano messo in luce un ritardato declino cognitivo,
collegato all’assunzione di una maggiore quantità di frutta e vegetali, gli studi
per verificare l’esistenza di una simile correlazione, in soggetti giovani ed
adulti sono ancora poco numerosi. Inoltre, è stato suggerito che diversi tipi di
fibre alimentari possono influenzare diversamente le funzioni cognitive, presu-
mibilmente a causa dei vari contenuti in nutrienti presenti in vegetali diversi.
Per esempio, i pomodori ed altri tipi di vegetali gialli sono ricchi in licopene e
beta-carotene, con proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, che possono
concorrere alla prevenzione di processi flogistici a carico del sistema nervoso
e di deficit cognitivi. In contrasto, le patate hanno poche fibre in grado di in-
fluenzare positivamente le funzioni cognitive.
Il consumo di pomodori è associato principalmente ad attività fisiche che
richiedono velocità psicomotoria, mentre vegetali giallo intensi sono associati
con l’apprendimento verbale e la memoria. Come già sottolineato, questi sot-
togruppi sono ricchi in licopene e beta-carotene; il primo è efficace come
“spazzino” (scavenger) dell’ossigeno singoletto e nella prevenzione della pe-
rossidazione, mentre il secondo complessa, verosimilmente, il superossido.
Questi risultati sono il frutto di un lungo lavoro di Mao e coll. (81), in uno
studio che ha seguito per venticinque anni 3231 uomini e donne di età compre-
sa fra 18 e 30 anni.
In conclusione una maggiore assunzione, nell’età giovanile, di alimenti
ricchi in fibra è associata a risultati cognitivi migliori in età più avanzata.

1.28 Il vegetarianismo (o vegetarismo) è salutare per gli


adulti ed i bambini?

La dieta vegetariana (o latto-ovo-vegetariana) non include carne, caccia-


gione o pesci ed alimenti marini, ma include latte, formaggio e uova. I vegani,
a loro volta, non includono alcun alimento di origine animale e perfino il mie-
le. In India il vegetarismo è praticato da circa il 50% della popolazione, mentre
negli Stati Uniti circa il 3,3 % degli adulti sono vegani, tra questi il 5,3 % sono
di età compresa fra18-34 anni.
Secondo la Academy of Nutrition and Dietetics (AND), la maggior asso-
ciazione di nutrizionisti degli USA, il vegetarismo e nel complesso, le diete
vegetariane, incluse le vegane, se pianificate accuratamente, sono appropriate
per tutte le età, incluso lo stato di gravidanza e di allattamento, l’infanzia e
l’adolescenza; possono infatti garantire benefìci sia per il nostro stato di salute,
in generale, che nella prevenzione e nel trattamento di certe malattie (82).
A sua volta la German Nutrition Society (Deutschen Gesellschaft fur die
Ernährung, DGE) ha una diversa presa di posizione al riguardo, in quanto ri-

44
Capitolo 1 I principi delle diete

tiene che sia difficile ottenere un apporto sufficiente di nutrienti con una dieta
vegetariana/vegana. Per la DGE una dieta vegana non dovrebbe essere racco-
mandata durante la gravidanza e l’allattamento, nell’infanzia ed adolescenza.
Il Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) considera il vege-
tarismo ed il veganismo come alternative salutari. Sia AND che USDA racco-
mandano che i vegetariani sostituiscano la carne ed i prodotti ittici, in primo
luogo, con soia (e altri legumi), latticini e uova. Secondo USDA i vegani pos-
sono sostituire le uova ed i latticini con soia fortificata con aggiunta di vitami-
na B12.
Sulla base delle nostre attuali conoscenze, possiamo affermare in via defi-
nitiva che una dieta vegetariana o vegana, che aderisce alle raccomandazioni
USDA, è salutare per tutte le età.
Secondo Cofnas (82) vi sono poche prove riguardanti gli effetti di diete
prive di carne sulla salute dei bambini. Questo Autore non si spinge fino a so-
stenere che il vegetarismo ed il veganismo siano nocivi per i bambini; ritiene,
infatti, che il problema vada considerato sotto una diversa prospettiva. Il que-
sito che si pone è, di conseguenza, il seguente: esistono oggi sufficienti eviden-
ze per giustificare l’affermazione generica, secondo la quale le diete vegetaria-
ne e vegane possono essere altrettanto salutari delle diete onnivore?
Una recente meta-analisi sulle neo-mamme, asiatiche, vegetariane, indica
un aumentato rischio di neonati con un basso peso corporeo (83).
La AND ignora o sottovaluta l’evidenza che: a) il vegetarismo possa essere
dannoso durante la gravidanza; b) la considerazione che latte, soia, legumi e
uova non siano in grado di sostituire la carne; c) diete vegetariane rigorose
possano mettere i bambini a rischio di gravi carenze con conseguenze negative.
Le uova ad esempio sono una fonte di proteine di alta qualità e hanno un alto
contenuto di ferro e zinco. Un uovo intero contiene circa 1 mg di ferro non-eme
ed 1 mg di zinco, corrispondenti a circa il 10% della quantità raccomandata
(RDA, Recommended Daily Allowance) per ciascuno di questi minerali, per
bambini di 9-12 anni. Un uovo contiene 6 g di proteine, corrispondenti all’11%
della RDA, per soggetti di 14 anni di età. I bambini dovrebbero mangiare perciò
molte uova al giorno per soddisfare le raccomandazioni della AND.
La carenza di vitamina B12 (livelli nel siero inferiori a 156 pmol/L), colpi-
sce il 26% di vegetariani adulti, il 52% di vegani e l’1% di onnivori (84).
La AND sostiene che i vegani debbano consumare regolarmente alimenti
fortificati con B12, ma anche in questo caso vi sono dei rischi correlati all’as-
sunzione di quantità inadeguate. Le conseguenze della deficienza di vitamina
B12 nei bambini, per quanto riguarda lo sviluppo cerebrale e corporeo, posso-
no essere gravi e perfino irreversibili.
In conclusione le diete vegetariane e vegane possono essere associate a seri
rischi per il feto ed i bambini in fase di sviluppo e non è scontato che le diete
pianificate per sostituire, nei bambini, latte, soia, legumi o uova, siano altret-
tanto appropriate di quelle onnivore.

45
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

1.29 Il microbiota e la malnutrizione: impatto dello stato


nutrizionale nelle prime fasi della vita

In accordo con le nostre attuali conoscenze sullo sviluppo del nostro stato
di salute e le evidenze eziopatologiche delle malattie, la nostra salute è condi-
zionata dall’ambiente-ecosistema dell’utero e da quello che caratterizza la pri-
ma infanzia (85).
In effetti, le condizioni di nutrizione pre-natale e post-natale hanno un im-
patto sull’”architettura” iniziale del nostro organismo e sull’attività del micro-
biota. Recenti studi hanno sottolineato come la composizione del microbiota
sia di grande importanza nelle fasi iniziali della vita-sviluppo; la malnutrizio-
ne, sia nel caso di sottonutrizione che in quello di sovranutrizione, può condur-
re a sotto-sviluppo o a condizioni di sovrappeso.
La nostra percezione del concetto di nutrizione è in continua evoluzione. Il
ruolo fondamentale di una dieta personalizzata è quello di fornire i nutrienti
necessari per garantire l’energia al nostro organismo e soddisfare le necessità
metaboliche, come anche di assicurare la crescita e lo sviluppo dei bambini.
Poiché la dieta ha la capacità di regolare, a volte con grande specificità,
funzioni e meccanismi del nostro organismo, il suo utilizzo per migliorare il
benessere e la salute, riducendo il rischio di malattie, è diventato sempre più
importante.
Il dogma, riguardante lo sviluppo del feto in condizioni sterili, viene oggi
messo in discussione alla luce delle nostre attuali conoscenze. Nuove eviden-
ze, infatti, suggeriscono che la madre possa fornire l’inoculo della colonizza-
zione batterica nell’utero, poiché dei batteri sono stati scoperti nel meconio e
nel fluido amniotico, così come nella placenta ed in altri tessuti biologici coin-
volti nell’ interfaccia madre-feto. Durante la gravidanza si ha un drastico mu-
tamento dei microbiota intestinali, come messo in evidenza, nel terzo trimestre
di gravidanza, dalla presenza di un quadro clinico tipico di una infiammazione
sistemica e dall’aumento di peso che è associato.
La gravidanza influenza anche la composizione del microbiota orale,
orientandolo verso un profilo pro infiammatorio. Tradizionalmente, il processo
di colonizzazione nei neonati è influenzato in modo significativo dalle moda-
lità del parto e dall’allattamento al seno.
Alcuni fattori sono importanti, in relazione al rischio di patologie non tra-
smissibili (NCDs, Non Communicable Diseases): a) il tempo del contatto mi-
crobico iniziale; b) la composizione del microbiota. I periodi di gestazione e
prenatale sono considerati gli stadi più critici in termini di possibilità di svilup-
pare NCDs. La disbiosi (o disbacteriosi, squilibrio microbico dell’organismo)
del microbiota della madre può essere trasferita al feto-neonato, per esempio
durante la gravidanza, la nascita e l’allattamento al seno.
Questi fattori possono anche avere un impatto sulla composizione del
latte materno, che è la più importante fonte di nutrienti, e.g. gli oligosacca-

46
Capitolo 1 I principi delle diete

ridi del latte umano (Human Milk Oligosaccharides, HMOs) e dei microrga-
nismi necessari per la colonizzazione microbica durante la prima infanzia.
L’esposizione ai microbi inizia ancora prima di quanto generalmente si pos-
sa pensare. Infatti, il processo di fecondazione stesso può essere influenzato
dai microbiota vaginale e seminale. È noto che il liquido amniotico ha un
microbiota la cui composizione è relativamente diversificata, benché il nu-
mero assoluto di batteri sia contenuto. Quando il liquido amniotico è ingeri-
to, esso fornisce l’inoculazione iniziale per la colonizzazione primaria del
tratto gastrointestinale da parte dei batteri in esso presenti. L’esposizione a
batteri specifici durante il periodo neonatale è facilitato dalle modalità del
parto, poiché i neonati partoriti per via vaginale sono esposti ai microbi del-
la vagina stessa.
L’intestino della madre rappresenta una fonte importante di batteri, e si cal-
cola che possa fornire circa il 70% di batteri intestinali nei bambini partoriti per
via vaginale, in confronto con il 40% di quelli partoriti per taglio cesareo.
Riassumendo, la nutrizione materna, le modalità del parto e l’esposizio-
ne ambientale perinatale hanno un impatto sul microbiota intestinale del ne-
onato, influenzando in questo modo il suo stato nutrizionale nelle fasi suc-
cessive della vita.
Una colonizzazione microbica adeguata durante i primi 1000 giorni di vita
è critica per la maturazione appropriata del sistema immunitario, le attività
metaboliche e lo sviluppo del cervello. Le anomalie nei percorsi fisiologici di
colonizzazione intestinale possono indirizzare il microbiota verso la supernu-
trizione o la sottonutrizione.

1.30 I microbi aiutano a controllare (“monitorare”) il


tempo

Con ritmo circadiano si intende un ritmo fisiologico-biologico dell’organi-


smo, con periodo attorno alle 24 ore, che consente all’organismo di adattarsi e
seguire le varie fasi del giorno e della notte. Sofisticati “orologi molecolari”
sono presenti in quasi tutte le cellule, per anticipare ed adattarsi ai cambiamen-
ti che avvengono nell’arco delle 24 ore. Essi possono essere prevedibili, come
ad es. la disponibilità ritmica dei nutrienti, sincronizzando, di conseguenza, le
funzioni cellulari. Un orologio biologico-fisiologico (principale) è posto nel
nucleo suprachiasmatico dell’ipotalamo ed è composto da oscillatori circadia-
ni multipli. Esiste inoltre un “orologio periferico”, collocato principalmente
nel cuore, fegato, tessuti adiposi e tessuti muscolari ed è strettamente legato
allo stress ossidativo (86).
L’attività di enzimi antiossidanti, antiossidanti a basso peso molecolare e
specie reattive all’ossigeno (ROS) contribuiscono ad una oscillazione circa-
diana fisiologica. Rappresenta, a tutti gli effetti, una sorta di orologio del cor-

47
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

po, che si è conservato come tale attraverso l’evoluzione, mediando l’intera-


zione fra l’ambiente e l’ospite. In un ritmo regolare luce-buio, i ritmi
circadiani mantengono normale la funzionalità cellulare e permettono una at-
tività regolare. Tuttavia non è solo la luce, che ha la capacità di guidare i ritmi
circadiani del nostro organismo; anche il cibo può influenzare i cambiamenti
ciclici quotidiani sia a livello intestinale che epatico (87).
Recenti acquisizioni nella ricerca e sviluppo di nutrizione, salute e benes-
sere, hanno permesso di ipotizzare che l’ora del giorno in cui il cibo è ingerito
possa influenzare il peso corporeo, la sua composizione, la regolazione della
glicemia, l’omeostasi dei lipidi, il microbioma intestinale, la funzione cardia-
ca, il sonno e la salute in generale.
Un ritmo biologico circadiano ideale, per un soggetto adulto medio do-
vrebbe comportare:
1) 8 ore di sonno;
2) attesa di almeno 1 ora dopo essersi svegliati, prima della prima assunzione
calorica;
3) esposizione per almeno 1 ora alla luce viva (1000-10000 lux) nella prima
metà del giorno, per abituare l’orologio ipotalamico alla luce ambientale e
per sopprimere la melatonina;
4) esposizione alla luce debole per 2-3 ore prima di coricarsi e creare le con-
dizioni ottimali perchè insorga il bisogno di dormire ed il progressivo au-
mento della profondità del sonno;
5) nessuna ingestione calorica per 2-3 ore prima di coricarsi (88).
Ogni alterazione dei periodi di veglia o dei ritmi alimentari (e.g. frequenza
dei pasti) rispetto ai cicli luce-buio, come avviene nei soggetti che lavorano di
notte o nei viaggiatori esposti al jet lag (che sono forme di disallineamento
circadiano) possono alterare i sistemi circadiani e disarticolare seriamente al-
cune risposte biologiche, includendo funzioni metaboliche.
Una disarticolazione cronica del ritmo circadiano (Circadian Rhythm Di-
sruption, CRD) può aumentare il rischio di affezioni croniche non infettive,
inclusa l’intolleranza al glucosio, l’aumento di peso, l’accumulo di grasso-o-
besità, patologie epatiche, varie forme di neoplasie, depressione e CVD.
I fitochimici hanno il potenziale per regolare i livelli di stress ossidativo,
risposte infiammatorie e patologie associate a disordini metabolici. Una
molteplicità di fitochimici (ad esempio polifenoli, flavonoidi, alcaloidi e me-
latonina) possono regolare l’espressione ed il ritmo circadiano e stabilizzare
l’equilibrio interno dell’organismo. Gli studi volti a comprendere l’impor-
tanza della sequenza temporale della dieta e l’impatto dei ritmi alimentari
sul nostro stato di salute, in relazione agli orologi circadiani, hanno una sto-
ria relativamente lunga.
Da più di 30 anni è ben noto che in risposta ad un pasto standard, la glice-
mia postprandiale rimane relativamente più alta durante le ore serali o notturne
(fase di buio), rispetto al giorno (fase di luce).

48
Capitolo 1 I principi delle diete

Questo è in accordo con l’effetto esercitato dai ritmi circadiani sul rilascio
di insulina e sull’effetto della melatonina che, agendo sull’ipotalamo e rego-
lando il ciclo sonno-veglia, può inibire il rilascio di insulina.
Nell’uomo, i livelli di melatonina nel plasma o nella saliva incominciano a
crescere 2-3 ore prima di coricarsi; l’ormone si lega successivamente ai suoi
recettori, rallentando la secrezione di insulina stimolata dal glucosio. Queste
osservazioni, nel loro insieme, suggeriscono che sia preferibile consumare un
pranzo più abbondante, rispetto ad una cena, per una migliore regolazione
della glicemia e del controllo del peso corporeo.
Come i ritmi circadiani, anche i microbiota intestinali aiutano a mantenere
l’integrità dell’intestino in risposta ad antigeni ambientali e microorganismi
patogeni. Di conseguenza, si amplia la diversità biochimica (biodiversità)
dell’ospitante, garantendone l’acquisizione di uno spettro più diversificato di
nutrienti.
Vi è un ritmo circadiano che regola la fame, che è verosimilmente un prodot-
to dell’attività veglia-sonno. Abitualmente, nell’uomo, lo stimolo della fame
tende a crescere nel pomeriggio e raggiunge un picco la sera (intorno alle 20).
Nel nostro organismo esiste un ritmo circadiano nella secrezione di saliva,
enzimi gastrici digestivi, sali biliari, la cui produzione diminuisce nella tarda
notte. In linea con la secrezione di questi fattori digestivi, la peristalsi intesti-
nale ha anch’essa un ritmo circadiano, con contrazioni ridotte durante la notte.
Infine, la peristalsi del colon aumenta di primo mattino, guidando il ritmo
quotidiano della propulsione e della eliminazione fecale. In accordo con que-
sto, la composizione e la funzione del microbiota intestinale può anch’esso
variare durante il giorno.
I microbiota intestinali possono anche influenzare il metabolismo e l’ome-
ostasi dell’organismo ospitante. Per esempio, il microbiota fecale trapiantato
da un topo obeso, può fare diventare obeso il ricevente stesso. Inoltre, la com-
posizione della flora batterica intestinale nei soggetti obesi, è spesso ricca in
batteri che predispongono alla conservazione di energia. Modificare la compo-
sizione del microbiota, indirizzandola verso batteri meno efficienti dal punto
di vista energetico, come accade nella chirurgia bariatrica, può aiutare la per-
dita di peso.
Come accade in risposta alla disarticolazione del ritmo circadiano, le alte-
razioni nei batteri intestinali sono associate con malattie non trasmissibili,
come obesità e tumori.
L’intestino umano è l’interfaccia più estesa tra l’ospitante e l’ambiente
esterno e la sua funzionalità rispetta, generalmente, frequenze circadiane. Una
fase diurna di assorbimento intestinale-picco di assorbimento, è stata scoperta
negli anni settanta e coincide con i tempi standard di biodisponibilità degli
alimenti. È stato infatti identificato un fattore di trascrizione, CLOCK, che
regola l’espressione dei trasportatori di nutrienti durante le fasi dell’alimenta-
zione. È stato inoltre suggerito che le oscillazioni del gene responsabile della

49
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

espressione di CLOCK nell’epitelio intestinale, che sincronizzano la funzione


intestinale con cicli di veglia-nutrizione, potrebbero dipendere dai microbiota.
Anche l’attività dei microbiota mostra un comportamento che varia conse-
guentemente al ritmo circadiano, causando una fluttuazione diurna nell’espo-
sizione dell’epitelio intestinale alle specie batteriche ed ai loro metaboliti.
L’adattamento diurno è regolato dalle interazioni temporali fra le cellule
ospitanti e le comunità microbiche. Quando i ritmi circadiani sono interrotti,
cambia anche la composizione dei microbiota intestinali. Questa composizio-
ne aumenta, a sua volta, la suscettibilità dell’ospitante che può sviluppare: a)
un quadro flogistico potenzialmente patologico; b) conseguenze metaboliche
tipiche di un cattivo stile di vita (e.g. dieta ricca in grassi, assunzione di alcol).
La cooperazione fra microbiota e ritmo circadiano nel metabolismo inte-
stinale, potrebbe avere aumentato l’apporto di energia dal cibo, rispetto a
quanto si verificava nell’organismo dei nostri antenati. Questa “evoluzione”
potrebbe aver rappresentato un vantaggio per superare condizionamenti quali
carenza di cibo e diete ricche in vegetali e povere in energia.
Tuttavia, nel contesto attuale, l’interruzione del “dialogo” orologio circa-
diano-microbiota potrebbe incentivare condizioni di disfunzione metabolica e
obesità.
L’utilizzo di un modello sperimentale di studio dei meccanismi correlati
all’orologio circadiano, ha dimostrato che la capsaicina, il principale capsaici-
noide presente nel peperoncino, migliora lo squilibrio redox ed i disturbi me-
tabolici (89).

1.31 Sindrome metabolica

La sindrome metabolica è una condizione clinica caratterizzata dalla pre-


senza di almeno tre dei seguenti fattori di rischio cardiometabolico: ipertensio-
ne (sistolica uguale o maggiore di 139mmHg e/o diastolica uguale o maggiore
di 85 mmHg), iperglicemia (uguale o maggiore di 159mg/dL), aumentata cir-
conferenza del bacino (caratterizza alcune aree geografiche, (Americhe) e et-
nie o gruppi di comune identità storica-sociale (ispanici)) e bassi livelli pla-
smatici delle lipoproteine ad alta densità (HDL) colesterolo HDL (minore di
40mg/dL per l’uomo e di 50mg/dL per la donna).
La prevalenza della sindrome metabolica è cresciuta in proporzioni epide-
miche negli USA (fascia di età 18 anni o più), con un aumento fin quasi al 35%
nel periodo 2007-2012 (90). Essa contribuisce in modo significativo alla mor-
bilità e mortalità, poiché i pazienti in queste condizioni hanno una probabilità
3 volte maggiore di morire per eventi cardiovascolari o infarto.
In anni recenti numerose ricerche hanno dimostrato che i microbiota inte-
stinali giocano un ruolo nella patogenesi di disordini intestinali, inclusa obesi-

50
Capitolo 1 I principi delle diete

tà, diabete mellito di tipo 2 e steatosi epatica (Non-Alcoolic Fat Liver Disease,
NAFLD).
Mutamenti nella composizione della microflora intestinale, e.g. alterazioni
del rapporto fra Firmicutes/Bacteriodetes, ottenuti grazie all’utilizzo di com-
posti bioattivi della dieta Mediterranea (polisaccaridi dietetici e pre- e probio-
tici) possono essere usati come cibi funzionali per migliorare la compromis-
sione dei markers cardiometabolici correlata con la sindrome metabolica

1.32 I microbi intestinali metabolizzano i farmaci utilizzati


nel trattamento farmacologico del morbo di
Parkinson

Il microbiota intestinale è di grande importanza per il corretto funziona-


mento metabolico del nostro organismo ed ha, in generale, effetti benefici; va
comunque tenuto presente che alcuni ceppi batterici possono modificare la
biodisponibilità e l’efficacia dei farmaci.
La levodopa (L-dopa) è il farmaco più efficace nel trattamento del morbo
di Parkinson; questa amina biogena mostra, peraltro, una variabilità individua-
le nelle risposte farmacologiche ed una ridotta efficacia col passare del tempo
(91).
È stato chiarito che la L-dopa rappresenta il substrato di un meccanismo
enzimatico intestinale a due stadi, in cascata; nel primo passaggio degrada la
L-dopa a dopamina e successivamente a m-tiramina, limitando in questo modo
la biodisponibilità del farmaco (92). L’associazione della L-dopa con la carbi-
dopa, una piccola molecola che blocca l’enzima (dopa-decarbossilasi) che me-
tabolizza la L-dopa, ne aumenta la biodisponibilità nei pazienti.
Globalmente 10 milioni di persone sono affette da questa patologia (230
mila in Italia) e la L-dopa è da 50 anni il trattamento primario. La dopamina
è progressivamente carente nel cervello dei pazienti affetti da Parkinsonismo,
causando instabilità posturale, tremori, rigidità e rallentamento dei movimen-
ti (bradicinesia).
Il farmaco, L-dopa, che come abbiamo visto è il precursore della dopami-
na, è attivo per via orale, è assorbito nel piccolo intestino e a differenza della
dopamina, attraversa la barriera ematoencefalica ed è convertito, per decarbos-
silazione in dopamina. La L-dopa allevia i sintomi della malattia, ma non ne
arresta la progressione. Se la L-dopa, prima di raggiungere il cervello, è pre-
maturamente decarbossilata a dopamina, in particolare nell’intestino, ne viene
limitata la biodisponibilità e questo causa problemi intestinali. Per contrastare
questo effetto il farmaco deve essere assunto assieme a inibitori dell’enzima
decarbossilasi.
Le disfunzioni gastrointestinali, inclusa la costipazione, rallentano lo
svuotamento gastrico, causano la proliferazione eccessiva dei batteri intestina-

51
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

li, impedendo l’assorbimento intestinale e le risposte farmacologiche della


L-dopa.
La specie Enterococcus faecalis è il ceppo più efficace nella decarbossila-
zione della L-dopa. Gli enzimi che la degradano sono stati identificati nel mi-
crobiota presente in campioni di feci umane e la degradazione avviene con
variabilità considerevole in persone affette o non affette dalla malattia di Par-
kinson.
Un’altra piccola molecola che inibisce la dopa-decarbossilasi è l’alfa-fluo-
rometiltirosina (AFMT); essa inibisce specificatamente la decarbossilazione
microbica di L-dopa, anche nel microbiota dei pazienti affetti dal morbo di
Parkinson.
AFMT è in grado di bloccare, in un modello sperimentale nel topo, la de-
gradazione di L-dopa da parte di E. faecalis. Se utilizzata nei pazienti affetti da
Parkinson essa potrebbe migliorare la terapia a base di L-dopa.
Dopo la somministrazione, le molecole dei farmaci subiscono delle modi-
ficazioni chimiche; i metaboliti risultanti possono avere attività funzionali e
tossicologiche diverse da quelle del farmaco originale (93).
I farmaci vengono somministrati, preferibilmente, per via orale e possono
diventare substrati di microrganismi commensali nel piccolo intestino. Le loro
modificazioni da parte di questi ultimi, possono portare alla formazione di
composti attivi, inattivi o dare metaboliti tossici.
Le correlazioni tra il profilo genetico (microbioma) e le attività metaboli-
che del microbiota, legano la variabilità interpersonale dei singoli microbiomi
alle differenze dei rispettivi soggetti nel metabolismo del farmaco. Questo ha
implicazioni per la terapia medica e lo sviluppo di farmaci personalizzati.

1.33 Integratori alimentari

Gli integratori alimentari sono definiti come nutrienti (e.g. vitamine, mine-
rali) o altri composti bioattivi (e.g. prodotti di origine vegetale, altri prodotti
naturali, fitoestrogeni, etc.), sia monocomposti che pluricomposti, in forme
predosate, sotto forma di tavolette, pillole, fiale. Anche senza raggiungere la
diffusione che si riscontra negli Stati Uniti, dove sono usati regolarmente da
più del 50% della popolazione, anche in Europa la loro popolarità è cresciuta
negli ultimi decenni. In Francia, così come in altri paesi europei, gli utilizzato-
ri degli integratori alimentari ne fanno un largo uso.
Studi osservazionali suggeriscono che antiossidanti come vitamina C, E e
selenio, presenti in frutta e vegetali, possano avere effetti protettivi contro la
mortalità per tutte le cause o specifica da tumori.
L’assunzione di potassio e/o magnesio da frutta e vegetali ha un ruolo po-
tenziale nella prevenzione dell’osteoporosi. Anche calcio e vitamina D sono
composti di grande importanza per lo stato di salute delle ossa e gli integratori

52
Capitolo 1 I principi delle diete

che li contengono sono largamente prescritti (94). L’osteoporosi è associata ad


una bassa densità minerale nelle ossa (Bone Mineral Density, BMD) ed è pre-
valente nel 5% degli uomini ed il 25% delle donne, con età superiore a 65 anni.
Essa è responsabile di circa 9 milioni di fratture nel mondo e di una aumentata
mortalità, con pesanti conseguenze dal punto di vista sociale ed economico. I
risultati di diversi studi di meta-analisi riportati in letteratura indicano che ve-
getariani e vegani hanno BMD più bassi, ma non hanno tuttavia un maggiore
rischio di fratture rispetto agli onnivori (95).
Un consumo eccessivo di integratori può avere effetti negativi sulla salute.
Ad esempio, una alta assunzione da parte di fumatori, di integratori a base di
beta-carotene, aumenta il rischio di neoplasie polmonari e gastriche.
Un uso eccessivo e cronico di integratori a base di magnesio è associato a
fenomeni, reversibili, di media gravità, come nausea, accelerazione del transi-
to intestinale e crampi addominali.
Una eccessiva assunzione di integratori a base di ferro può avere alcuni
effetti collaterali reversibili, come disturbi gastrici, costipazione, nausea, dolo-
ri addominali, ma anche effetti collaterali di una certa gravità, come un accu-
mulo di ferro nelle cellule parenchimali con conseguenti danni d’organo (fega-
to, pancreas, cuore) ed un aumentato stress ossidativo.
Analogamente, un eccesso di vitamina A può dare cefalea, vomito, diplo-
pia, alopecia, essicazione delle mucose, dolori alle ossa ed alle articolazioni,
fratture delle ossa e difetti alla nascita (96). Anche l’uso di integratori a base di
antiossidanti durante la chemioterapia o la radioterapia è da sconsigliare (97).

1.34 Capacità antiossidante totale e aspettativa di vita

È oramai assodato che un aumentato stress ossidativo è implicato, come


fattore eziologico, nello sviluppo e nella evoluzione di molte malattie croniche
come l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari (CVDs) ed alcune forme
di neoplasie. Il consumo di alimenti antiossidanti può avere effetti protettivi
contro lo stress ossidativo (98). Dati recenti, frutto di studi sperimentali e cli-
nici, indicano che un alto consumo di alimenti ricchi in antiossidanti, quali
frutta e verdura, riduce i “markers” dello stress ossidativo e diminuisce, conse-
guentemente, il rischio di eventi fatali. Tuttavia, frutta e verdura non sono la
sola fonte di antiossidanti nella dieta; cioccolata, caffè, tè, vino, birra sono altri
alimenti ricchi in antiossidanti, che contribuiscono a definire la capacità an-
tiossidante totale della dieta (Dietary Total Antioxidant Capacity, DTAC).
Quest’ultima è associata ad un minor rischio di morte per tutte le cause, neo-
plasie e malattie cardiovascolari, come documentato da una revisione sistema-
tica (meta-analisi) di diversi studi, per un totale di 226297 soggetti, condotti
per periodi variabili fra 4,3-16,5 anni, dove si sono contati 38449 decessi per
tutte le cause, 4470 decessi da neoplasie e 2841 decessi da CVDs (98).

53
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

La qualità della dieta è stata usata da Langstrom e collaboratori per predire


l’aspettativa di vita, in assenza di malattie cardiometaboliche (99). In uno stu-
dio di coorte, condotto su 8000 soggetti, questi ricercatori hanno dimostrato
che una alimentazione equilibrata e salutare è associata, dopo i 50 anni, ad una
più lunga aspettativa di vita, esente da patologie cardiometaboliche. I soggetti
che rispettavano rigorosamente le linee guida della dieta potevano vantare una
maggior aspettativa di vita (2,5 anni) in assenza di coronaropatie, infarto o
diabete di tipo 2.
Queste correlazioni rispettano i criteri di una interdipendenza dose-rispo-
sta e sono indipendenti dalle condizioni socio-economiche, una chiara dimo-
strazione che il beneficio di uno stile di vita salutare può estendersi a tutte le
fasce sociali (100).
Una dieta di qualità è caratterizzata da un elevato consumo di vegetali,
frutta, cereali integrali, frutta secca (acheni) e legumi, acidi grassi PUFA tota-
li e omega-3 a lunga catena, da una moderata quantità di alcol, basse quantità
di bevande zuccherate, di succhi di frutta, di carni rosse o insaccati, acidi gras-
si trans e sodio.
I benefici di certe componenti alimentari di origine vegetale (acheni e pro-
teine di soia, fibre viscose e steroli) sono riconosciuti dalla FDA, come impor-
tante fattore di cardioprotezione, legati essenzialmente alla loro capacità di
ridurre il colesterolo. Le proteine di soia diminuiscono i livelli di LDL circo-
lanti e del colesterolo totale negli adulti
Un recente studio di meta-analisi che prende in considerazione 46 proto-
colli riguardanti soggetti in età adulta (uomini e donne), ha studiato gli effetti
delle proteine di soia (dose media di 25 g al giorno per 6 settimane) sulle
concentrazioni delle LDL circolanti e del colesterolo totale (101). I risultati
ottenuti documentano una riduzione del colesterolo LDL in misura del 3-4%.
Questo conferma la raccomandazione data al pubblico-consumatore di au-
mentare l’assunzione di proteine vegetali.

1.35 Insetti nella dieta, una fonte di proteine

In genere le proteine di origine animale (carne, latticini, uova, pesce ed


altri animali acquatici) contengono proteine di alta qualità in termini di amino
acidi indispensabili e di digeribilità. La carne ed il latte ci forniscono anche
energia e micronutrienti come ferro, zinco, calcio, vitamine B e acidi grassi
essenziali. Anche gli insetti sono ora allevati per farne un uso alimentare-com-
merciale, onde essere impiegati come fonte di proteine; sono largamente uti-
lizzati per l’alimentazione umana.
L’uso degli insetti come fonte alimentare è stato praticato dai tempi anti-
chi. Diete ricche in insetti, come quelle dell’Australopithecus, sono documen-
tate dalla presenza di alti valori 13C/12C e Sr/Ca nello smalto dentale di que-

54
Capitolo 1 I principi delle diete

sto ominide, le cui tracce sono state scoperte in Africa nel 1924. I primi casi
documentati di entomofagia sono datati da 30000 a 9000 anni a.C. nelle pittu-
re murali scoperte ad Altamira (nord della Spagna), che rappresentano diversi
alveari o nidi di api.
La pratica di nutrirsi di insetti è citata nella letteratura Cristiana, Ebrea e
Islamica. Nel libro il Levitico del Vecchio Testamento vengono menzionate
locuste, scarafaggi e cavallette fra i cibi permessi. Lo stesso apostolo Giovanni
(Il Battista) è sopravvissuto per mesi nel deserto, nutrendosi di alveari e locu-
ste. Gli antichi Greci e Romani utilizzavano larve di scarafaggi e locuste. Gli
aborigeni Australiani si nutrivano di falene, decapitate e cotte nella sabbia.
Al giorno d’oggi, l’uso di insetti come ingredienti alimentari riguarda
2300 specie di insetti ed è praticata da circa 3000 gruppi etnici in più di 100
paesi, localizzati soprattutto in Africa ed Asia, ma anche nell’America Latina.
In Sardegna va ricordato il Casu frazigu, un formaggio pecorino colonizzato
da larve della mosca del formaggio, meglio conosciuta come mosca casearia
(102).
Gli insetti più utilizzati sono, in ordine decrescente: scarafaggi (Coleopte-
ra 31%), bruchi (Lepidoptera 18%), api, vespe e formiche (Hymenoptera
14%), cavallette, locuste e grilli (Orthoptera 13%).
Vi è una ampia gamma di specie commestibili che sono comunemente
utilizzate in Messico, India e generalmente nel Sudest dell’Asia, in contrasto
con percentuali molto basse censite in Europa e Nord America. Il consumo di
insetti è parte della dieta tradizionale di 2 miliardi di persone. Se allevati in
condizioni ambientali appropriate, essi necessitano di una minore quantità di
alimenti organici, di acqua e di superficie utilizzata, rispetto ad altri animali.
Contribuiscono in misura minore alle emissioni di gas serra rispetto al be-
stiame, sono più efficienti nel produrre proteine animali trasformate, hanno un
ciclo di riproduzione breve e possono utilizzare scarti di cibo come nutrimen-
to. Gli insetti hanno un alto valore nutritivo oltre a quello già sottolineato in
proteine di alta qualità e rispetto alla carne animale hanno un miglior contenu-
to in lipidi, vitamine (vitamina B1, B2, B6, C, D, E e K) e minerali (sodio,
potassio, calcio, rame, ferro, zinco, manganese e fosforo). In aggiunta, gli in-
setti commestibili contengono carotene, una provitamina.
Il contenuto di amino acidi essenziali è pari al 10%-30%. Ad esempio il
verme della farina (Tenebrio molitor), uno degli insetti più comuni come infe-
stanti delle derrate alimentari, ha un contenuto elevato in isoleucina, leucina,
valina, tirosina, alanina.
Il contenuto di acidi grassi commestibili è normalmente fra il 10-50%; gli
acidi grassi essenziali sono presenti in quantità maggiori rispetto a quelli ani-
mali, soprattutto per quanto riguarda quelli a lunga catena come gli omega-3,
che giocano un ruolo importante per lo sviluppo dei tessuti cerebrali. I carboi-
drati degli insetti (6,6%-16%) sono presenti soprattutto nella chitina, il secon-
do polisaccaride in ordine quantitativo dopo la cellulosa.

55
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Numerosi studi hanno messo in luce la rilevanza che gli insetti possono
avere come fonte bilanciata di nutrienti, con benefici per il microbiota intesti-
nale (103). Tuttavia, almeno nei paesi occidentali, essi rappresentano un mer-
cato di nicchia e sono costosi. Nel momento in cui dovessero entrare diretta-
mente nella catena alimentare umana, dovrebbero soddisfare esigenze di
sicurezza particolarmente rigorose, e.g. l’allergenicità e la capacità di accumu-
lare tossine e biopatogeni ospiti (104). Molto lavoro di ricerca è necessario per
verificarne il rispetto degli standard internazionali di sicurezza alimentare,
secondo le normative del Codex Alimentarius.
Sostituire prodotti animali con nuove fonti di proteine nella nostra alimen-
tazione è certamente un tema di crescente interesse, per le ragioni ambientali
di cui abbiamo già accennato. Tuttavia è importante tenere in considerazione
la qualità di queste proteine, sia in termini di composizione di amino acidi che
di digeribilità. Le proteine degli insetti sono più ricche in amino acidi essen-
ziali di molte proteine di origine vegetale, ma resta da approfondire: a) l’even-
tuale presenza di fattori antinutrizionali (o antinutrienti, cioè sostanze naturali
che interferiscono con l’assorbimento dei nutrienti), b) la digeribilità.

1.36 Le alghe negli alimenti

Le alghe sono alcuni dei più comuni organismi conosciuti e sono in grado di
crescere anche in condizioni estreme. Sono presenti in ambienti terrestri ed ac-
quatici e possono crescere e riprodursi in acque dolci o salate. Si valuta che le
specie di alghe possano variare da 30000 a un milione ed il database AlgaeBase
descrive più di 150000 specie. La loro morfologia e dimensioni sono molto va-
riabili. Vi sono specie unicellulari che misurano 3-10 millimicron e grandi alghe
acquose che raggiungono 70 metri di lunghezza e crescono di 50 cm al giorno.
Le alghe sono tipiche Eucaryotes, con un nucleo ben sviluppato, una parete
cellulare, un cloroplasto contenente clorofilla ed altri pigmenti ed un flagello.
Le microalghe sono in grado di produrre sostanze organiche attraverso il
processo della fotosintesi, che permette loro di trasformare energia solare in
energia chimica, con assorbimento di anidride carbonica. Sono tradizional-
mente classificate in base ai loro aspetti citologici e morfologici, tipo di riserva
di metaboliti, componenti della parete cellulare e pigmenti.
Le microalghe sono classificate sulla base delle loro caratteristiche chimi-
che e morfologiche, in particolare la presenza di pigmenti specifici. Le diato-
mee sono color oro-scuro a causa del loro contenuto in pigmenti xantofille,
quelle blu-verde contengono clorofilla a, mentre quelle di colore blu contengo-
no ficocianine. Esse sono divise in alghe brune (Phaeophyceae), con colore
giallo-bruno dovuto alla presenza di fucoxantina, alghe rosse (Rhodophyceae)
con dominante ficoeritina e ficocianina e alghe verdi (Chlorophyceae) conte-
nenti clorofilla a e clorofilla b.

56
Capitolo 1 I principi delle diete

Le alghe sono in grado di sintetizzare un’ampia gamma di metaboliti se-


condari ed importanti sostanze bioattive, incluse proteine, carboidrati, lipidi,
acidi grassi polinsaturi (PUFA), compresi acidi grassi omega-3, polisaccaridi,
polifenoli, steroli e pigmenti (clorofilla, carotenoidi, ficobiline). La quantità di
polisaccaridi varia tra il 4 ed il 76%, a secondo della specie. I carboidrati sono
presenti sotto forma di polisaccaridi solfatati o non-solfatati.
Le loro attività funzionali sono state ampiamente descritte in letteratura.
Per esempio, i fucoindani, isolati da alghe brune mediterranee, hanno attività
antinfiammatoria e gastroprotettiva (105). La qualità delle loro proteine è su-
periore a quella di altre piante, incluso grano, riso, fagioli, ma si tratta comun-
que di proteine meno nobili rispetto a quelle presenti nel latte o carne. Inoltre
le alghe rappresentano una buona fonte di fibre e contengono vitamine: A, B1,
B12, C, D e E, riboflavina, niacina, acido pantotenico e folico. Sono ricche di
elementi come calcio, sodio, magnesio, fosforo, potassio, ferro, zinco e iodio.
Sono anche in grado di chelare metalli pesanti come cadmio, zinco, piombo,
nichel e rame. Posseggono molteplici attività biologiche; sono infatti antiossi-
danti, hanno proprietà antibatteriche, antivirali e antifungine. Sono stati inoltre
dimostrati effetti probiotici, neuro protettivi ed antinfiammatori, immunomo-
dulanti, antidiabetici, anticoagulanti e antitumorali.
Una dieta arricchita con fibre dalle alghe favorisce la crescita ed il mante-
nimento della flora intestinale, aumenta in modo significativo il volume delle
feci e riduce il rischio di cancro colon-rettale. Il regolare consumo di alghe
marine è associato ad una minor incidenza di tumore del seno, a causa di
un’alta disponibilità di iodio della dieta.
Le loro qualità come addensanti, gelificanti e stabilizzanti hanno portato
allo sviluppo di prodotti come agar, alginati e carragenina. Inoltre le alghe
sono utilizzate nell’industria alimentare come additivi ed associate ad alimen-
ti funzionali. Vengono aggiunte a prodotti a base di carne, pesce ed oli vari per
migliorare le loro qualità. Prodotti a base di cereali, come pasta, farina e pane
sono un altro gruppo di alimenti che possono essere arricchiti con alghe.
La carne ed i prodotti che ne derivano, sono, a volte, percepiti da parte dei
consumatori, come alimenti non salutari. Per evitare questi aspetti considerati
negativi, la riformulazione rappresenta un approccio praticabile, che consente
di ottenere prodotti basati sulla filiera della carne, incorporando composti be-
nefici per la salute. In questa ottica le alghe commestibili hanno un interessan-
te potenziale nel settore delle carni, per sviluppare alimenti funzionali, dato
che esse costituiscono una eccellente fonte naturale di nutrienti e biocomposti,
con una miriade di attività funzionali (106). Inoltre, possono essere usate per
produrre cibi funzionali fermentati, soprattutto latticini come formaggi, cre-
me, yogurt. La combinazione di prodotti fermentati, ad alto contenuto di bat-
teri lattici, con metaboliti delle alghe biologicamente attivi, consente non solo
di ottenere alimenti con un alto contenuto di nutrienti, ma anche di creare una
nuova categoria di cibi fermentati (107).

57
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

1.37 Spirulina

Alla luce delle nostre attuali conoscenze, uova, carne, pesce, soia, grano,
latte ed i loro derivati, sono particolarmente ricchi in peptidi bioattivi. A loro
volta le microalghe hanno attirato l’attenzione dei ricercatori poiché crescono
facilmente e sono ricche di proteine. Le microalghe rappresentano un gruppo
di organismi semplici, di solito di dimensioni tra 3 e 20 millimicron, preva-
lentemente autotrofici (cioè capaci di convertire, per fotosintesi, CO2 e mine-
rali in biomasse). Il consumo di microalghe nell’alimentazione risale a tempi
molto antichi, ad esempio la l’Arthospira platensis (spirulina), usata come
alimento da migliaia di anni (108). Questo organismo è caratterizzato da ca-
tene a spirale di cellule chiuse in sottili guaine. Contiene molti potenti antios-
sidanti naturali ed agenti chelanti di radicali liberi. È una microalga verde
azzurra lunga meno di mezzo millimetro appartenente alla classe Cyano-
bacteria; la Spirulina platensis é commercialmente disponibile per consumo
alimentare. Come riportato dalla FAO, la produzione mondiale di spirulina
nel 2014 ha raggiunto le 86000 tonnellate. È spesso pubblicizzata come un
“superfood”, benché questa definizione non sia riconosciuta legalmente. Vie-
ne utilizzata soprattutto come integratore, sotto forma di polvere o compres-
se. La dose raccomandata è di 3-9 g al giorno. Si può anche trovare come
additivo colorante in chewing gum, gelatine, gelati, yogurt ed in molti altri
prodotti. È uno delle fonti vegetali più ricche di proteine (60-70%) con livelli
moderati di carboidrati (20%) e lipidi (7%). Sono anche presenti vitamine,
pigmenti e microelementi.
È considerata una fonte importante di vitamina B12, soprattutto per vegani
e vegetariani dato che, all’analisi chimica, i livelli di vitamina variano fra 127-
244 microgrammi per 100g di sostanza secca. In altri termini, si calcola che il
consumo giornaliero di 1,6-3.2 g di spirulina consenta di soddisfare l’apporto
adeguato di cobalamina (4 microgrammi/die), come stabilito dall’EFSA. I
produttori di spirulina raccomandano una dose giornaliera di 3-9 g per soddi-
sfare la necessità di vitamina B12.
La spirulina è generalmente riconosciuta come sicura (Generally Recogni-
zed As Safe, GRAS) dalla U.S. Food and Drug Administration (FDA). Una
delle particolari precauzioni nella sua coltivazione è quella di evitare contami-
nazioni da metalli, poiché essendo localizzata al fondo della catena alimentare
acquatica, può facilmente accumulare metalli pesanti (mercurio, cadmio e ar-
senico), pestici, idrocarburi aromatici policiclici (109).
Ha un alto contenuto di polisaccaridi, lipidi, amino acidi essenziali, grassi,
minerali e vitamine. La spirulina ha un profilo farmacologico molto diversifi-
cato, caratterizzato da diverse attività, e.g. antimicrobica, antitumorale, antios-
sidante. È particolarmente indicata per la prevenzione di malattie cardiovasco-
lari, quali ipertensione, dislipidemie e diabete, che sono i principali fattori di
rischio di patologie coronariche correlate a disfunzioni endoteliali, ateroscle-

58
Capitolo 1 I principi delle diete

rosi ed obesità; questo contesto patologico è, a sua volta, strettamente collega-


te allo stress ossidativo ed ai processi infiammatori. La spirulina è particolar-
mente utile per la presenza di composti specifici biologicamente attivi ed
elementi nutrizionali, in particolari minerali, in grado di essere accumulati in
una forma biodisponibile (110). Una recente modalità d’uso è costituita dalla
incorporazione in biscotti, arricchiti con l’1,5-2 % di spirulina o Chlorella (una
microalga verde), per aumentare la biodisponibilità-assorbimento di minerali
quali P, K, Ca, Mg, Fe, Zn (111).

1.38 Le alghe marine ed il rischio di patologie cardiovascolari

Le alghe marine, se escludiamo le produzioni dell’industria alimentare,


non fanno parte della dieta quotidiana, tradizionale, dei paesi occidentali, a
differenza di quanto accade nei paesi dell’estremo oriente. Esse contengono
componenti salutari come un’alta quantità di potassio, carotenoidi e fibre ali-
mentari. Quelle maggiormente utilizzate per preparare alimenti sono: alghe
marine marroni (Undaria pinnatifida, Wakame in giapponese), Laminaria
(Konbu), alghe rosse e verdi (Laver, Nori in giapponese).
Le macroalghe contengono diversi tipi di poli- ed oligosaccaridi, che posso-
no essere usati per produrre alimenti ed additivi che in molti casi hanno proprietà
salutari. Sono già usate come cibo in Asia, dove ha luogo la maggior parte della
produzione mondiale (28,3 milioni di tonnellate nel 2014, FAO: Rome, Italy
2016), ma, come anticipato, sono utilizzate in quantità limitate in Europa e negli
Stati Uniti. Sono organismi acquatici con alta capacità fotosintetica ed elevata
produttività rispetto alle biomasse terrestri come cereali ed erbe.
Molte loro proprietà nel promuovere lo stato di salute, e.g. attività prebio-
tiche, antibatteriche, antiossidanti ed antinfiammatorie, sono state collegate
alla presenza di poli- ed oligosaccaridi. Nel mondo sono almeno 145 le specie
di alghe usate come alimenti. La produzione mondiale di Kombu (Laminaria
sp.) è pari a 68000 tonnellate, quella di Nori (Porhyra sp) di 130000 tonnellate,
quella di Walkame (Undaria sp) di 102000 e infine quella di Ogo–Nori (Graci-
laria sp) di 50000 tonnellate.
Vi sono quattro gruppi di alghe marine: le alghe verdi (Cloroficee), le al-
ghe rosse (Rodoficee), le alghe blu–verdi (Cianoficee) e le alghe brune (Feofi-
cee). Nel loro insieme costituiscono una fonte di composti ad attività antivira-
le, antibiotica, antitrombotica, antinfiammatoria, ipolipemizzante ed
antitumorale. Sono una ricca fonte di composti polifenolici simili a quelli tro-
vati nei vegetali terrestri; nelle alghe brune troviamo i florotannini, oligomeri
e polimeri di unità di fluoroglucinolo, che arrivano a costituire il 15% del peso
della pianta secca.
Le alghe brune hanno, in proporzione, un maggior contenuto di antiossi-
danti (e caratterizzati da una maggior attività), rispetto alle alghe rosse ed alle

59
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

verdi. I composti presenti sono polisaccaridi, acidi poliinsaturi, carotenoidi, il


più abbondante dei quali è la fucoxantina che contribuisce a circa il 10% della
produzione totale di carotenoidi naturali.
La laminaria (Laminaria Japonica) è un’alga bruna commestibile, ampia-
mente coltivata e consumata come importante fonte alimentare in Cina, Giap-
pone e Corea. Contiene carotenoidi, peptidi e fibre che possono contribuire a
regolare colesterolemia e glicemia, ad un miglior controllo della pressione si-
stemica e del peso corporeo, sia in modelli sperimentali che nell’uomo.
Uno studio di coorte, condotto in Giappone e comprendente 40707 sogget-
ti di sesso maschile e 45406 di sesso femminile, ha messo in evidenza che
l’assunzione di alghe marine è associata in modo statisticamente significativo
ad un minore rischio di ischemia cardiaca. È quindi lecito concludere che die-
te particolarmente ricche in alghe marine possono avere significativi effetti
cardioprotettivi in soggetti ambosèssi, di età media (112).

1.39 Consumo di uova e rischio di patologie croniche

Le uova sono una fonte ricca di nutrienti essenziali, ma sono anche una
fonte alimentare di colesterolo. Perciò alcune linee guida raccomandano di li-
mitarne il consumo. Sono ricche di proteine di alta qualità e di componenti
bioattivi come la luteina e la zeaxantina. Sono largamente disponibili e la loro
produzione ha un basso impatto ambientale rispetto ad altre fonti di proteine
animali. Sono anche ricche in minerali, folati, vitamine B, vitamine liposolu-
bili ed acidi grassi monoinsaturi (Mono Unsaturated Fatty Acids, MUFA), tut-
te sostanze che possono migliorare la salute e garantire cardioprotezione.
Il tuorlo d’uovo è l’alimento più ricco in lecitina, un fosfolipide; ne contie-
ne il 17% del suo peso secco. Le lecitine sono degli emulsionanti naturali che,
ad esempio, tengono in sospensione i globuli di grasso nel latte e nella panna.
Sono anche utilizzate (0,2-0,4%) nella produzione del cioccolato (emulsio-
nante E322 nella legislazione Europea) e nei prodotti da forno, dove migliora-
no la lievitazione, rendendo il glutine più estensibile, ritardando la retrograda-
zione dell’amido.
Nell’edizione 2015-2020 delle Linee Guida Dietetiche per gli Americani
(Dietary Guidelines for Americans, DGA), una prima raccomandazione di li-
mitare il consumo di uova nella dieta (e conseguentemente quello di colestero-
lo a 300 mg al giorno), è stata in seguito ritirata per mancanza di evidenze
scientifiche adeguate.
Dehghan e collaboratori hanno recentemente pubblicato i risultati dei loro
studi in cui, il consumo di uova, è correlato con il quadro lipidico, l’insorgenza
di CVD e la mortalità (113). Questi autori hanno analizzato i dati tratti dallo
studio Prospective Urban Rural Epidemiology (PURE) condotto su 146011
soggetti di diversi paesi ed appartenenti a diverse fasce sociali.

60
Capitolo 1 I principi delle diete

Confrontando le categorie con il più alto consumo di uova (7 o più uova


alla settimana) con quelle caratterizzate da basso consumo (meno di un uovo
alla settimana), gli autori non hanno trovato alcuna correlazione con la morta-
lità totale, il manifestarsi di CVD ed infarto nè di anomalie del quadro lipidico
ma piuttosto un miglior controllo della pressione sistemica. Inoltre i valori
della colesterolemia non hanno mostrato alcuna associazione con il diverso
consumo di uova. Gli autori hanno quindi concluso che il consumo moderato
di uova (1 al giorno) non è associato ad un maggiore rischio di CVD o morte
per qualsiasi causa.
Le uova sono un veicolo eccellente per incorporare numerose compo-
nenti che promuovono la salute, poiché il loro contenuto può essere modifi-
cato attraverso la manipolazione dei mangimi somministrati alle galline.
Numerosi studi sono stati condotti con lo scopo di produrre uova fortificate
con diversi nutrienti, quali acido folico, zinco, selenio ed acidi grassi polin-
saturi n-3 PUFA. Utilizzando queste uova “funzionali”, è possibile l’assun-
zione di importanti componenti alimentari senza modificare sostanzialmen-
te le normali abitudini dietetiche. In questa ottica semi oleosi ricchi in acido
alfa-linoleico (semi di lino, semi di ravizzone), olio di pesce e microalghe,
rappresentano le fonti più usate per aumentare il livello di n-3 PUFA nelle
uova (114).

1.40 Nutrizione e vaccini

La pandemia da Covid-19 ha messo in evidenza l’importanza fondamenta-


le della vaccinazione; questo strumento farmacologico garantisce un livello di
protezione eccellente, la cui efficacia può essere compromesso da carenze nu-
trizionali, in particolare in soggetti di età avanzata. Questi ultimi hanno un si-
stema immunitario più debole, rispondono meno ai vaccini e sono considerati
“fragili”, con carenze di vitamine e minerali, i “micronutrienti”.
Spesso le persone anziane vivono in condizioni di relativa “malnutrizione”
ed è perciò fondamentale che l’apporto di vitamine e minerali sia ottimale per
garantire loro una buona risposta immunitaria post-vaccinazione.
Le vitamine A, quelle del gruppo B, C, D ed E, così come minerali quali
zinco, ferro, selenio, sono fattori importanti per una buona risposta immunita-
ria ed un ridotto rischio di infezioni. Ad es. è stato dimostrato da studi di me-
ta-analisi che una carenza di vitamina D può compromettere la risposta alla
vaccinazione antinfluenzale (115). Al contrario, una assunzione ottimale di
micronutrienti (e.g. vitamina B6, C, selenio, zinco) rinforza il sistema immu-
nitario (116).
Le persone di età avanzata che assumono almeno cinque porzioni/die di
frutta e verdure-legumi rispondono meglio alla vaccinazione (antipneumococ-
co) ed hanno un elevato tasso di anticorpi dopo essere stati immunizzati con il

61
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

vaccino anti-epatite B (117). Inoltre, è stato dimostrato che un’assunzione sup-


plementata di selenio è associata ad una risposta vaccinale ottimale e ad una
minore incidenza di varianti virali (118). Le varianti, che sono apparse global-
mente anche nel caso del Covid-19, potrebbero colpire-infettare più facilmen-
te individui soggetti ad un marcato “stress ossidativo”, a causa di una carente
assunzione di nutrienti antiossidanti.
Il rischio di soffrire di carenze nutrizionali è molto concreto (anziani, sog-
getti denutriti, specifiche comunità etniche) ed è quindi ragionevole suggerire
massima attenzione ed eventualmente completare la dieta con integratori o
complementi dietetici. Per mantenere il sistema immunitario in condizioni ef-
ficienti ed in grado di assicurare una risposta pronta ed efficace contro i micro-
organismi patogeni, in particolare grazie all’uso dei vaccini, è fondamentale
una alimentazione basata su una buona idratazione ed un apporto equilibrato e
regolare di proteine (25%), glucidi (25%) e frutta e vegetali (50%).

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70
Capitolo 2 Il gusto

Il gusto 2

Leggiamo la voce gusto gout) scritta da Voltaire per l’En-


ciclopédie di Diderot e d’Alambert:
Il gusto, questo senso, questa capacità di distinguere i nostri alimenti, ha dato
origine in tutte le lingue conosciute all’uso metaforico del termine gusto, per
designare la capacità di avvertire le bellezze e la imperfezioni di tutte le arti….
Ci sono grandi paesi in cui questo gusto è sconosciuto: sono quelli in cui la so-
cietà non si è perfezionata, ove gli uomini e le donne non si riuniscono insieme,
dove certe arti come la scultura e la pittura di esseri viventi sono vietate dalla
religione. Dove la vita di società langue, lo spirito si isterilisce e le sue finezze si
smussano, non vi é modo di educare il gusto.

2.1 Umami

Le proprietà organolettiche (gusto) del sale di sodio dell’aminoacido


L-glutammico (umami) sono state descritte per la prima volta dal Giappone-
se Kikunae Ikeda, dopo averlo isolato da un’alga marina nel 1908. Egli sug-
gerì che questo gusto era diverso rispetto ai gusti base generalmente ricono-
sciuti (dolce, acido, salato, amaro) e che perciò “umami” potesse essere
considerato, a tutti gli effetti, come il quinto gusto base. Nei 100 anni suc-
cessivi a questa scoperta, la ricerca si è focalizzata sullo studio dell’aroma
(umami) del glutammato monosodico (Mono Sodium Glutamate, MSG) e dei
ribonucleotidi che interagiscono con MSG con effetto sinergico, e.g. inosina
monofosfato (IMP) e guanosina monofosfato (GMP) (1). Uno dei primi arti-
coli scientifici riguardante MSG, pubblicato su una rivista inglese nel 1929,
descrive l’acido glutammico come un raro composto chimico che impartisce
un gusto “simile alla carne” benché, a basse concentrazioni, possa preferibil-
mente ricordare un gusto dolce. Due importanti pubblicazioni sul gusto del
glutammato sono apparse in seguito sui “proceedings” di due Simposi, tenu-
tisi rispettivamente nel 1948 e del 1955, con l’appoggio dell’US Army Quar-

71
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

termaster Food and Container Institute, che prendevano in considerazione:


a) le problematiche relative al gusto; b) la gradevolezza (appetibilità, palata-
bilità) dell’aroma MSG. L’esercito era interessato a migliorare la qualità del
cibo preparato per le truppe.
Come accennato sopra, una delle caratteristiche più interessanti del gu-
sto umami è il sinergismo fra MSG e IMP e GMP. È ancora controverso se
IMP e GMP, da soli, abbiano di per sé un gusto umami. Quando uno di
questi due nucleotidi è presente nel cavo orale, questo gusto è molto eviden-
te, anche se non è da escludersi che sia provocato dal sinergismo con la
quantità molto piccola di glutammato libero presente nella saliva. Vi è co-
mune accordo sul fatto che l’aggiunta di MSG a molti alimenti (ma non
tutti) sia in grado di aumentare la loro appetibilità. Già nel 1948 era emerso
con chiarezza come questa caratteristica fosse particolarmente evidente in
preparati alimentari come le zuppe, ma fosse anche presente in altri alimen-
ti non dolci. Si era inoltre osservato che MSG non aumentava l’appetibilità
di frutta, succhi di frutta e di certi latticini. È comunque curioso che il gusto
di MSG, allo stato puro, sia generalmente giudicato sgradevole. Dal punto
di vista sensoriale il glutammato si trova naturalmente in molti cibi, come
carne, formaggi, brodi e pomodori. È l’amino acido libero più abbondante
nel latte umano, la sua concentrazione è molto più alta nel latte umano ri-
spetto al plasma (ed al latte bovino) e costituisce più del 50% del contenuto
totale di amino acidi (2).
Molte culture e tradizioni attribuiscono una grande importanza a quali per-
corsi di orientamento adottare, per indirizzare le abitudini alimentari nei primi
anni di vita. Il tipo di cibo (ed i relativi aromi) consumati dalle madri, durante
la gravidanza e l’allattamento, così come successivamente durante la transizio-
ne dalla dieta “tutto latte” a quella con cibi consumati in tavola, sono parte
della tradizione di molte culture. Le prime esperienze con gli aromi dei cibi
avvengono antecedentemente alla prima esposizione al gusto degli alimenti
solidi, poiché gli aromi volatili così come il gusto e plausibilmente, anche il
tatto e l’olfatto delle sostanze della dieta materna, sono trasmessi al fluido
amniotico ed al latte umano.
Studi sul latte umano ed i suoi componenti, ne hanno messo in luce un
ruolo importante nello sviluppo psicofisico dei neonati che, allattati al seno,
bevono un latte che ha un predominante gusto dolce e con odori volatili, che
variano da madre a madre. In contrasto, i neonati allattati artificialmente sono
di solito esposti ad aromi costanti poiché, nella maggior parte dei casi, le ma-
dri nutrono i figli con un solo tipo di latte, caratterizzato da una composizione
chimica standard. Queste formulazioni contengono nutrienti proteici in una
forma predigerita di amino acidi e piccoli peptidi. Come detto in precedenza,
il latte umano è molto ricco in glutammato libero, in contrasto con il latte vac-
cino ed è possibile che l’esposizione al glutammato nella fase iniziale della
vita influenzi la successiva appetibilità.

72
Capitolo 2 Il gusto

2.2 Umami e funghi commestibili

I funghi commestibili sono considerati una prelibatezza non solo per il loro
valore nutritivo, ma anche per il loro aroma unico. I funghi sono ampiamente
distribuiti in natura, con approssimativamente 20000 specie, di cui 3000 com-
mestibili. Molte di queste sono coltivate per motivi commerciali, ad esempio
l’Agaricus bisprus, il Pleurotus ostreatus, il Pleurotus geesteranus e Lentinus
edodes. La loro caratteristica più rilevante è il loro gusto di umami (vedi so-
pra). Ad esempio nell’Agaricus bisporus si trovano molti peptidi umami, due
tripeptidi e tre dipeptidi.
Vi sono molti fattori che influenzano il gusto e l’aroma di umami, come le
modalità di coltivazione, lo stato di maturazione della specie, le parti dei fun-
ghi, i metodi di conservazione. Essi sono legati strettamente al metabolismo di
nucleotidi, amino acidi ed acidi grassi.
Gli odori caratteristici dei funghi sono principalmente causati dai com-
posti volatili. Benché siano numerosi, solo circa il 3% contribuisce all’aro-
ma totale. Fra questi i composti C8, tra cui l’1-otten-3-olo; in particolare,
l’enantiomero (-) ha odore di fungo, mentre la forma (+) è più assimilabile
all’erba ammuffita.
Nel Boletus edulis, il composto più attivo, dal punto di vista dell’odore, è
invece l’1-otten-3-one. La loro qualità si deteriora rapidamente dopo la raccolta
e la perdita della fragranza è l’aspetto più significativo di questo deterioramento.
Il gusto di umami è maggiore nelle varietà selvatiche rispetto a quelle col-
tivate. Fra dieci funghi commestibili reperibili in natura (in Croazia), il più alto
contenuto di monosodio glutammato e dei 5’ nucleotidi è presente nel Cantha-
rellus cornucopiodes (3).

2.3 Funghi Shiitake

Il mercato globale di funghi commestibili è di circa 13 milioni di tonnella-


te (2018) e la quota maggiore è a carico dei funghi champignon (Agaricus bi-
sporus), cui seguono i funghi shiitake (Lentinula edodes). La domanda cre-
scente di alimenti sostitutivi della carne, in particolare nei paesi Occidentali, il
basso contenuto di grassi e colesterolo nei tessuti dei funghi, la presenza di una
grande quantità di micronutrienti e l’aroma unico sono le ragioni principali del
recente aumento di produzione e consumo di funghi. I funghi Shiitake sono
usati, nella cucina Asiatica, principalmente per il loro aroma, ma cominciano
ad essere apprezzati anche nei paesi Europei.
Molte sostanze odoranti caratterizzano l’aroma shiitake; in particolare la
presenza di 1,2,3,5,6-pentatiepano suggerisce che i composti solforati siano
quelli di maggiore impatto. Sono stati identificati 18 composti solforati nei

73
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

funghi selvatici, oltre a 1-octen-3-olo ed altri composti a otto atomi di carbo-


nio e componenti volatili.
A seguito del processo di riscaldamento dei funghi shiitake, durante la
cottura, sono stati identificati altri 42 composti odorosi; tra di essi i composti
solforati sono presenti in concentrazioni maggiori nei funghi secchi re-idratati
rispetto a quelli freschi e cotti mediante frittura (4).

2.4 Sciroppi con alto contenuto di fruttosio

L’idrolisi del saccarosio (zucchero da tavola) produce una miscela 50:50 di


fruttosio e glucosio. Lo sviluppo di sciroppi dolci, poco costosi, derivati dal
mais ha reso vantaggioso sostituire il saccarosio ed altri zuccheri semplici con
sciroppi arricchiti in fruttosio (HFCS, High Fructose Corn Syrup) che, a
tutt’oggi, rappresentano il 40% di tutti i dolcificanti aggiunti. Il fruttosio è più
dolce del saccarosio; in uno studio comparativo in cui la dolcezza dello zuc-
chero era valutata 100, il fruttosio aveva una dolcezza di 173 ed il glucosio di
73. HFCS si è imposto come il sostituto favorito del saccarosio nelle bevande
gassate, e.g. “sprite” e“coca-cola”, nei dolci da forno, in marmellate e gelatine,
in frutta in scatola e nei latticini (5).
L’aumentato consumo di bevande derivate dal mais ed addolcite con frut-
tosio (HFCS), è stato accompagnato, a partire degli anni ottanta, da una epide-
mia di obesità (6). Durante lo stesso periodo, l’incidenza di tumori colon-retto
(CRC, ColoRectal Cancer) è aumentata fra i giovani, suggerendo l’esistenza di
un legame causa-effetto tra eccessivo consumo di bevande zuccherate, obesità
e sviluppo di CRC. In effetti, molteplici studi hanno mostrato che un elevato
consumo di tali bevande è associato ad obesità e maggior rischio di CRC, so-
prattutto fra gli uomini. Glucosio e fruttosio hanno lo stesso valore calorico e
strutture chimiche simili, ma vengono metabolizzati diversamente nel fegato e
nelle cellule epiteliali intestinali.
Studi condotti su modelli sperimentali animali (topi mutanti), in grado di
riprodurre condizioni associate a patologie di particolare rilevanza sociale
(e.g. tumori intestinali), hanno messo in luce che HFCS determina un sostan-
ziale aumento nella dimensione e gravità dei tumori, pur in assenza di obesità
e di sindrome metabolica. È stato dimostrato infatti che le cellule tumorali
convertono il fruttosio a fruttosio-1-fosfato con attivazione della glicolisi ed
aumentata sintesi di acidi grassi che contribuiscono alla crescita del tumore.
Questi studi sperimentali, condotti su modelli animali, confermano l’ipotesi
che la combinazione di glucosio e fruttosio della dieta, anche a dosi moderate,
possa contribuire alla cancerogenesi.
Il fruttosio della dieta può anche aumentare la sintesi di acidi grassi (lipo-
genesi) epatica e portare alla steatosi epatica non alcolica o malattia del fegato
grasso (7).

74
Capitolo 2 Il gusto

2.5 Consumo di zuccheri, alimenti, bevande zuccherate e


rischio di neoplasie

Un’elevata assunzione di zucchero può predisporre al rischio di tumori,


disarticolando il lavoro coordinato insulina-glucosio, promuovendo l’accop-
piata stress ossidativo-infiammazione, così come l’accumulo di tessuto adipo-
so, ma l’evidenza epidemiologica non è chiara. I dati più completi, disponibili
a tutt’oggi, fotografano la situazione negli USA; le abitudini alimentari degli
Americani sono caratterizzate dalla assunzione di elevati livelli di zuccheri,
con una media di più di 126 g di zucchero al giorno, corrispondente a tre latti-
ne di bibita zuccherata (8).Gli zuccheri presenti apportano, in media, circa 270
calorie al giorno, corrispondenti a più del 13% di apporto energetico. Le Die-
tary Guidelines for Americans del 2015-2020 pongono limiti precisi a tale as-
sunzione che deve essere inferiore al 10%. Evidenze epidemiologiche sul ruo-
lo degli zuccheri della dieta e delle loro fonti negli alimenti e nelle bevande
sono state oggetto di studi accurati, da cui è emersa la relazione con obesità,
sindrome metabolica, diabete e disturbi cardiovascolari.
Studi di meta-analisi riportati negli ultimi dieci anni non hanno messo in
luce evidenze convincenti e tali da sostenere l’esistenza di una relazione diret-
ta tra zuccheri della dieta e la maggior parte di neoplasie, con l’eccezione di
uno studio del 2012 sul tumore pancreatico (9).
I risultati più recenti di N. Makarem et al., (8) che analizzano ben 37 studi
prospettici condotti fra il 1990 ed il 2017, sembrano confermare i dati di Aune
et al. (9) sulla mancanza di un chiaro rapporto causa/effetto fra consumo di
zuccheri (totali, saccarosio, fruttosio) e tumori.
L’analisi critica di alcuni studi (10,11) suggerisce che l’aggiunta di zuc-
cheri, quali il fruttosio e le bevande zuccherate, possa rappresentare un fattore
potenzialmente pericoloso ed a rischio di neoplasie. Tuttavia le evidenze attua-
li che riguardano l’impatto di zuccheri, presenti in alimenti e bevande dolci,
sulla genesi di neoplasie organo-specifiche, non permettono di trarre conclu-
sioni univoche.

2.6 Dolcificanti con poche calorie: più complicati dei


dolcificanti senza calorie

Se l’effetto che i dolcificanti con poche calorie (LCSs, Low Calorie Swee-
teners) esercitano sul peso corporeo, fosse semplicemente quello di essere
edulcoranti a basso contenuto (o assenza) di valore calorico, allora tutti gli
LCSs dovrebbero avere lo stesso effetto…..ma non è così.
Recenti ricerche mostrano che i loro effetti, a lungo termine, sono variabili
e si può avere sia aumento che diminuzione di peso corporeo (12). In uno stu-
dio su individui obesi, della durata di dodici settimane, Higginns e Mattes han-

75
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

no osservato diversi comportamenti fra quattro LCSs: saccarina, aspartame,


Rebaudia-A e sucralosio (13). I risultati indicano che saccarosio e saccarina
causano un significativo aumento di peso, un aumento minore è stato osservato
con aspartame e Rebaudia-A e con il sucralosio si è avuta, addirittura, una
perdita di peso. Questo dimostra che vi sono differenze tra i diversi LCSs e che
essi non possono essere considerati come una classe di sostanze omogenee.
Le bibite zuccherate contribuiscono in modo determinante al consumo di
zuccheri calorici e sono associate ad una dieta di bassa qualità, cibi ipercalori-
ci ed obesità. La sostituzione con dolcificanti ipocalorici può essere una stra-
tegia efficace, in grado teoricamente di ridurre l’energia totale, conservando al
contempo la gradevolezza.
I glicosidi della stevia sono dolcificanti di origine vegetale, privi di calorie,
che non influenzano la glicemia postprandiale o gli ormoni peptidici intestinali.
Uno studio condotto in doppio cieco su 20 soggetti giovani, ambosessi,
utilizzando bevande contenenti stevia, somministrate prima del pasto, ha mo-
strato effetti benefici riducendo l’appetito a breve termine e l’assunzione di
alimenti ad alta densità energetica, senza influenzare la glicemia (14).

2.7 Riduzione dello zucchero senza compromettere la


percezione sensoriale: un sogno impossibile?

Lo zucchero (saccarosio) è una fonte fondamentale di energia per tutti gli


animali e per questo, la maggior parte delle specie, hanno specifici circuiti
cerebrali per cercare, riconoscere e motivarne il consumo. Nell’uomo, l’attiva-
zione di questi circuiti per ricompensa e piacere, piuttosto che per necessità
nutrizionali, è una delle principali ragioni alla base del consumo eccessivo di
zucchero e del concomitante aumento dell’obesità. Nel 1800 un Americano
medio consumava meno di 4,5 kg di zucchero all’anno, oggi il consumo medio
è superiore a 45 kg all’anno!.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) ha raccomandato un con-
sumo di zucchero inferiore al 10% dell’energia totale assunta. Per questa ra-
gione l’industria alimentare (ed i consumatori stessi) sono alla ricerca di alter-
native per poterlo ridurre.
Gli approcci più studiati per garantire la dolcezza e ridurne il contenuto, si
basano sull’uso di sostituti non nutritivi (NNS, Non Nutritive Sweeteners), al-
coli e fibre. Tuttavia gli NNS hanno un gusto amaro e la loro capacità di garan-
tire la percezione del dolce è variabile nel tempo (15).
La capacità individuale di scoprire o percepire il dolce nella cavità orale
potrebbe essere uno dei tanti fattori che influenzano l’accettazione del cibo.
Inoltre la ricerca ha mostrato che i meccanismi alla base della percezione di
questo gusto nella cavità orale sono presenti anche a livello del tratto gastroin-
testinale. La percezione di un gusto particolare si attiva quando la concentra-

76
Capitolo 2 Il gusto

zione di un composto specifico raggiunge la soglia di attivazione del suo recet-


tore; nel caso del saccarosio tale concentrazione è pari a 1 milliMolare (1
mM), in soluzione acquosa. La concentrazione più bassa di zucchero (o di una
qualsivoglia sostanza dolcificante) alla quale si associa la percezione della dol-
cezza è definita soglia di identificazione (DT, Detection Threshold). Se si ag-
giunge ulteriore zucchero la sua concentrazione aumenta, la dolcezza percepi-
ta passa da debole a forte, finché si raggiunge la soglia massima (“plateau”) di
percezione dell’individuo. Oltre questa soglia, ogni altro aumento della con-
centrazione non cambia la percezione della dolcezza.
Le strutture delle molecole dolcificanti sono note; esse si legano selettiva-
mente a specifici recettori presenti su ben determinate cellule del gusto, loca-
lizzate sulla lingua e sull’epitelio del palato. L’attivazione cellulare che ne
consegue, stimola fibre nervose che mandano segnali al cervello provocando il
riconoscimento dei composti che hanno un gusto dolce. Inoltre, benché i dol-
cificanti artificiali attivino gli stessi recettori dello zucchero (saccarosio) e lo
facciano con maggiore affinità, essi non sono in grado di trasmettere la stessa
sensazione di piacere. Nell’insieme, questi risultati suggeriscono l’esistenza di
percorsi specifici per il saccarosio (piuttosto che percorsi specifici per il gusto
dolce), che operano indipendentemente dal senso del gusto (dolce), creando
una preferenza per il saccarosio e motivandone il consumo.
Studi sperimentali condotti sui roditori (topo) che esprimono il fenotipo
naturale (non mutato, “wild”), hanno dimostrato che quando l’animale ha la
possibilità di scegliere tra acqua naturale e acqua zuccherata, esso beve quasi
esclusivamente la soluzione zuccherata. Se tuttavia, può scegliere tra una solu-
zione acquosa contenente un dolcificante artificiale (per esempio acesulfame
K) ed una soluzione contenente zucchero, a concentrazioni tali da garantire
una analoga percezione del gusto dolce, il topo inizialmente beve dalle due
bottiglie con la medesima velocità. Tuttavia, dopo 24 ore di esposizione alle
due diverse soluzioni, la sua preferenza cambia drasticamente, tanto che dopo
48 ore esso beve quasi esclusivamente dalla bottiglia che contiene la soluzione
di zucchero (16).
In effetti, sono state dimostrate molteplici analogie tra le cellule (ed i rela-
tivi recettori) del gusto dolce, presenti nel cavo orale (TRC, Taste Receptor
Cells) e quelle del tratto gastrointestinale (GI). L’esistenza di meccanismi qua-
si identici nella cavità orale e nel GI è comprensibile poiché entrambi sono
parte del canale alimentare e sono responsabili dell’identificazione di nutrien-
ti (e di non-nutrienti) negli alimenti. I composti percepiti come dolci si legano
ai TRC e questo causa l’attivazione di segnali ben definiti; questa informazio-
ne viene quindi trasmessa, attraverso fibre sensoriali afferenti (e.g. nervo vago)
alle aree del cervello coinvolte con la percezione del gusto dolce.
Le TRC responsabili della percezione del dolce possono legarsi a moleco-
le con strutture variabili, inclusi zuccheri calorici e NNS; il destino metabolico
di questi ultimi nel tratto GI dipende dalla struttura chimica di ciascuno di essi.

77
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Come abbiamo detto in precedenza, lo zucchero agisce nell’intestino per


attivare un circuito neuronale che comunica al cervello la sua presenza. L’as-
sociazione fra l’attivazione di questo circuito intestino-cervello, unita al rico-
noscimento dello zucchero da parte del sistema gusto, fornisce all’animale la
capacità fondamentale di identificare, sviluppare e rafforzare una preferenza
ben definita e duratura nel tempo, per gli alimenti ricchi in zuccheri. L’approc-
cio più comune seguito dall’industria alimentare per ridurre il contenuto di
zucchero, tentando di limitarne i cambiamenti nella percezione sensoriale, si
basa sull’uso di NNS, spesso combinati con zuccheri alcoli, una particolare
categoria di zuccheri (es. sorbitolo) o fibre, per sostituire la maggior parte
dello zucchero, conservandone la sensazione orale. Mentre gli NNS riducono
o eliminano il contenuto calorico degli alimenti, resta il problema del loro re-
trogusto amaro e del profilo sensoriale variabile nel tempo.
I dolcificanti artificiali sono stati introdotti sul mercato da più di 40 anni,
ma non sono riusciti a modificare in modo significativo le consuetudini ali-
mentari ed il loro impatto sul consumo di zucchero e sulla sua appetibilità è
stato trascurabile.
Questo può ora essere compreso a livello di fisiologia dei “circuiti” nervo-
si perché, in contrasto con lo zucchero, essi non attivano il circuito responsa-
bile della appetibilità. Forse sarà possibile sviluppare una nuova classe di dol-
cificanti che attivino sia il recettore del dolce, presente nelle cellule del cavo
orale (lingua), che l’asse intestino-cervello (brain-gut axis) e che, di conse-
guenza, aiuti a moderare il desiderio compulsivo di consumare zucchero (16).
Un’altra strategia consiste nel diminuire gradualmente nel tempo il livello
di zucchero, modificando ed adattando il desiderio-richiesta del consumatore,
in modo simile a quanto è stato fatto per la riduzione del sale. Tuttavia una ri-
duzione significativa dello zucchero nei prodotti industriali, senza compromet-
terne le proprietà sensoriali, rimane un sogno.

Quanto è amaro lo zucchero


La canna da zucchero appartiene alla famiglia delle Poaceae, genus Saccha-
rum. È una pianta perenne ricca in saccarosio ed è originaria della Nuova Gui-
nea, la cui introduzione in Europa e la moda come prodotto di lusso, si può far
risalire al XVI° - XVII° secolo; viene sfoggiato dalle classi più agiate e dalla nobil-
tà, come indice di ricchezza, facendone un uso smodato. Il popolo non poteva
permetterselo e ciò è evidente dai reperti archeologici dell’epoca che ne mo-
strano la perfetta dentatura mentre gli aristocratici “sdentati” vivevano nel
lusso di regge e palazzi. Per qual motivo un prodotto, che ha apportato (ed
apporta) tanti danni alle popolazioni del continente Africano, all’ambiente ed
al nostro stato di salute, abbia un grande successo, richiede una analisi com-

78
Capitolo 2 Il gusto

plessa. Lo zucchero è dolce, come il miele e per analogia, ne ha sfruttato le pro-


prietà/profilo salutistico. Con la diffusione della canna da zucchero, anche le
classi medio-borghesi hanno avuto accesso a questo disaccaride che è diven-
tato parte integrante della dieta. La fetta di pane con “burro e zucchero”, (ap-
porto energatico e piacere) era nata.
La richiesta, via-via più pressante, ha fatto nascere un vero e proprio “sistema
economico” basato su: a) coltivatori di canna, b) necessità di trovare grandi
aree pedoclimatiche ottimali, c) industrie di raffinazione, d) vendite al detta-
glio, e) società di trasporto marittimo, f) compagnie di assicurazione collegate.
A partire dalle isole Canarie, dove gli Spagnoli impiantano le prime coltivazioni
nel XV° secolo, il “sistema economico” dello zucchero si allarga alle Antille ed al
Brasile, trovando una manodopera, abbondante ed a basso costo, in Africa. Lo
zucchero si identifica con la schiavitù; aumenta la richiesta in Europa, aumen-
ta il numero di schiavi; le necessità delle piantagioni nel nuovo continente, de-
vono essere soddisfatte. Le coltivazioni di canna da zucchero nell’area caraibi-
ca si estendono progressivamente, a danno dell’habitat e della vegetazione
tropicale, che è vittima della deforestazione. A volte, ampie aree residue vengo-
no utilizzate per “cultivar” importati, causando un vero e proprio stravolgimen-
to ecologico.
Fino alla seconda guerra mondiale, la cultura dello zucchero regna incontra-
stata; l’alimentazione, la pasticceria, la cultura del “fast food”, la diffusione del-
le bevande gassate, rappresentano settori di grande consumo di glucosio. A
questo punto, la medicina e la scienza biomedica si rendono conto che il con-
sumo incontrollato di zucchero è alla base di una serie di gravi disfunzioni, ad
es. l’obesità, il diabete, le patologie cardiovascolari. I suoi danni sono parago-
nabili ai danni del tabacco.
Oggi, una maggior attenzione e sensibilità ci spingono verso soluzioni alimen-
tari alternative al glucosio, ma la nostra dipendenza “culturale” è ancora forte
e la soluzione del problema impone grande impegno nella ricerca e presumibil-
mente, tempi non brevi.

2.8 Le api usano tracce visive e odorose per trovare i fiori


del melo

Gli insetti impollinatori usano segnali visivi ed olfattivi per trovare le pian-
te con cui stabiliscono rapporti esclusivi e l’importanza relativa di questi se-
gnali varia fra i sistemi di impollinazione (17).
In alcuni eco-sistemi, che regolano le interazioni fra le piante e alcune
farfalle diurne e sfingidi (lepidotteri) notturne, i più importanti sono i segnali

79
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

visivi. In altri sistemi, come quelli fra piante ed api specializzate e sfingidi
notturne, i segnali più importanti sono quelli olfattivi; ambedue, in combina-
zione, sono necessari per suscitare risposte attrattive e nutrizionali in altre api
specializzate e sfingidi, rispettivamente.
L’impollinazione e l’attrazione degli impollinatori sono importanti in si-
stemi d’impollinazione che coinvolgono piante coltivate, le quali per questa
ragione hanno rilevanza economica. L’impollinazione da parte di insetti è in-
fatti di importanza vitale per gli eco-sistemi terrestri e la produzione agricola
globale. Le statistiche più accreditate indicano che il 75% delle specie da noi
coltivate traggono beneficio dagli insetti impollinatori, il cui “servizio” vale
all’incirca 215 miliardi di dollari in alimenti (18). Questo è vero, ad esempio,
per i meli domestici, Malus domestica (Rosaceae); la maggior parte delle va-
rietà di meli non sono auto-compatibili (o autofertili) e richiedono impollina-
zione incrociata con altre varietà, mediata dal vento (impollinazione anemofi-
la) o da vettori animali, soprattutto api.
Quando si ha bassa densità di impollinatori, la raccolta di frutti non è otti-
male da un punto di vista economico; il ricorso a tracce particolarmente “se-
ducenti” potrebbe aumentare l’attrattiva dei fiori (per esempio spruzzando
miscele di odori attraenti). In contrasto, quando la densità degli impollinatori
è troppo alta, si hanno molti frutti, ma di scarsa qualità e sarebbe necessario
rendere le piante meno attraenti. I meli domestici sono fra le più importanti
piante fruttifere del mondo, con una produzione annuale mondiale di circa 83
mila tonnellate.
Gli alberi hanno fiori organizzati in infiorescenze, tipicamente costituite da
cinque fiori. Ciascuna infiorescenza è caratterizzata da un fiore centrale (detto
fiore re) e fiori laterali. Il fiore re si apre per primo e potenzialmente produce
frutti migliori. Il fiore re e quelli laterali differiscono nella tempistica della ri-
cettività. I fiori re sono fortemente ricettivi durante i primi due giorni che fan-
no seguito all’apertura del fiore, mentre i fiori laterali raggiungono lo stadio
delle ricettività al terzo giorno dopo l’apertura. Queste “performances” dello
stigma costituiscono una strategia per fronteggiare la variabilità ambientale
dell’impollinazione, assicurando un minimo di produzione di frutti per infio-
rescenza.
Le api (Apis mellifera) giocano un ruolo importante nell’impollinazione
dei meli. Il colore dei fiori varia da bianco a rosato ed hanno un odore dolcia-
stro, chiaramente percepibile al nostro odorato.
Le analisi chimiche dei componenti volatili che sono rilasciati dai fiori dei
meli rivelano che l’odore floreale è dominato da composti aromatici, soprattut-
to alcol benzilico. L’approccio chimico-analitico e quello elettrofisiologico,
sono stati usati dai ricercatori (17) per studiare le risposte delle antenne delle
api agli odori emanati dai ramoscelli fioriti.
I biosaggi (o saggi biologici, usati dagli entomologi) hanno mostrato che
le tracce visive e odorose sono ugualmente importanti per l’attrazione delle api

80
Capitolo 2 Il gusto

da parte dei fiori del melo. Gli odori floreali, costituiti in particolare da com-
posti aromatici, principalmente alcol benzilico, sono percepiti dalle antenne
delle api mellifere che rispondono ad un vasto spettro di componenti; tra que-
sti vale la pena di ricordare, oltre al già citato alcol benzilico, linalolo e indolo.
Il fiore re e quelli laterali rilasciano lo stesso segnale olfattivo; perciò i loro
profili floreali non sono responsabili delle diverse velocità di impollinazione
fra questi fiori. Tuttavia, lo spettro di composti cambia durante l’apertura dei
fiori laterali (antesi), ma non dei fiori re. Indipendentemente dal tipo e dall’età
del fiore, l’alcol benzilico è sempre il componente predominante che caratte-
rizza l’odore dei fiori del melo. Questa osservazione si basa su studi condotti
sulle mele Red Delicious. Altre varietà tuttavia rilasciano odori con un profilo
diverso; accanto all’‘alcol benzilico sono presenti benzaldeide, nerale, gera-
niale e linalolo.
Questa variazione nell’odore nelle diverse varietà, potrebbe essere molto
importante per la riuscita dell’impollinazione, poiché la maggior parte delle
coltivazioni dipendono dal polline di altre varietà; perciò gli impollinatori de-
vono trasferire il polline fra diverse varietà. Gli impollinatori, specialmente le
api, possono essere definiti, in un certo qual modo, “abitudinari”; il loro rap-
porto verso i fiori è poco variabile, cioè essi visitano fiori che trasmettono gli
stessi segnali.

2.9 Miele maturo

Il miele è un prodotto miracoloso che arriva all’uomo da decine di miglia-


ia di anni ed è il frutto della coevoluzione tra piante ed api mellifere (Apis
mellifera, fam. Apidae). È un dolcificante naturale che si origina dal nettare dei
fiori e dalla melata derivata da insetti che succhiano la linfa degli alberi, rac-
colto dalle api e successivamente maturato nell’alveare. I mutamenti del pae-
saggio-habitat naturale e quindi la disponibilità ambientale e temporale delle
risorse floreali possono influenzare le loro colonie ed è noto da molto tempo
che la carenza di cibo, in particolare di polline, contribuisce al loro impoveri-
mento. Soprattutto, i nutrienti del polline (proteine, lipidi, vitamine e minerali)
sono essenziali per lo sviluppo e sopravvivenza della colonia.
Le risorse floreali del paesaggio che circonda gli alveari determinano la
composizione del polline e del nettare, che sono alla base della dieta delle api
e del miele da esse prodotto (19).
Il miele contiene carboidrati (principalmente fruttosio e glucosio), protei-
ne, enzimi antiossidanti, amino acidi, minerali, vitamine e fitochimici come
composti fenolici e flavonoidi.
Esso ha effetti benefici nel migliorare la resistenza insulinica, lo stress os-
sidativo e l’infiammazione. Inoltre esso è in grado di catturare le specie reatti-
ve dell’ossigeno.

81
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Molti studi sperimentali e clinici hanno documentato l’effetto ipoglicemiz-


zante del miele in modelli animali di diabete ed in pazienti diabetici. Recente-
mente, in uno studio condotto su 18281 pazienti è stato dimostrato che il suo
consumo è inversamente associato col prediabete (20).
In Cina il miele è largamente utilizzato non solo per il suo gusto unico, ma
anche per le qualità salutari; si ritiene che possa proteggere contro l’insorgenza
della sindrome metabolica grazie alla sua attività anti-obesità, antidiabetica, ipo-
lipidemica e ipotensiva. Vi sono inoltre numerose evidenze secondo cui il suo
utilizzo può contribuire alla prevenzione della steatosi epatica non alcolica (21).
Le api sono insetti sociali e mostrano una complessa organizzazione colo-
niale basata sulla divisione del lavoro tra le api operaie dell’alveare, in partico-
lare per l’acquisizione e l’immagazzinamento del cibo. Le api costruiscono un
favo sopra le celle dell’alveare per immagazzinare miele e polline. Il miele
maturo (Mature Honey, MH) è coperto con cera bianca per la conservazione a
lungo termine. Il surplus di polline, il nettare e la melassa sono conservati
nelle celle del favo di cera costruite dalle api operaie. Essi consentono alle api
mellifere di superare i periodi “morti”, quando non è possibile il foraggiamen-
to. I carboidrati che vengono riportati all’alveare dalle api bottinatrici (specia-
lizzate nella raccolta di polline, nettare o acqua), sono ceduti alle api imma-
gazzinatrici, che li distribuiscono fra le compagne affamate o li trasformano
per produrre il miele. Le api immagazzinatrici normalmente aggiungono an-
che le sostanze da loro prodotte, come enzimi secreti dalle ghiandole ipofarin-
gee, per convertire il saccarosio in glucosio e fruttosio. In quasi tutti i tipi di
miele predomina il fruttosio e l’insieme di fruttosio e glucosio costituisce l’85-
90% dei carboidrati presenti. Vi sono anche tracce di polisaccaridi e di sostan-
ze volatili responsabili dell’aroma caratteristico. Gli acidi prodotti dallo sto-
maco di queste api abbassano il pH del miele immaturo ed allo stesso tempo
eliminano l’acqua, per aumentare la concentrazione dello zucchero.
Questo processo è guidato sia dal comportamento attivo delle api che
dall’evaporazione passiva del contenuto delle celle e dipende dalle specifiche
condizioni dell’alveare. Utilizzando in modo mirabile la loro lingua, le api
operarie concentrano, con i movimenti della loro bocca, le gocce del nettare
rigurgitato e questo porta ad un aumento della concentrazione dello zucchero
dal 10 al 25%, in poche ore.
Le dinamiche della maturazione del miele sono influenzate da vari para-
metri, come la dimensione della colonia, i movimenti e l’umidità dell’aria
all’interno dell’alveare, le prevalenti condizioni climatiche e l’origine botani-
ca che determina i rapporti di zuccheri e acqua contenuti nel nettare (22). La
durata della maturazione del miele varia da 1 a 11 giorni. Quando il miele è
maturo, le api lo coprono con un coperchio di cera come protezione e per im-
pedirne una fermentazione indesiderata ed il deterioramento.
Visto il grande valore del miele, esso è soggetto a frodi fin dai tempi anti-
chi. Frodi tipiche riguardano la diluizione del miele con una varietà di scirop-

82
Capitolo 2 Il gusto

pi, lo schiarimento del miele con resine a scambio ionico, l’etichettatura del
miele con origini geografiche o botaniche fraudolente, il nutrimento artificiale
delle api durante il flusso del nettare (indice della velocità con cui il nettare è
secreto dal fiore) e la raccolta del miele immaturo (non coperto). Questo ulti-
mo tipo di frode è quello prevalente poichè comporta un aumento della resa
della raccolta del miele (aumenta la % di acqua). Dati statistici relativi agli
ultimi 5 anni collocano il miele fra i tre alimenti più adulterati, preceduto
nell’ordine da latte e olio d’oliva.
I metodi analitici possono identificare gli zuccheri adulteranti con una
composizione caratteristica. Il metodo ufficiale 13C/12C –IRMS (spettrome-
tria di massa di rapporto isotopico) può identificare in modo sicuro sciroppi
adulteranti vegetali, come sciroppi di mais e canna da zucchero, ma non pos-
sono identificare sciroppi di piante C3 come riso, grano e sciroppi di barbabie-
tola, a causa del loro rapporto isotopico simile a quello del miele. Recente-
mente sono state utilizzate metodologie basate sulla risonanza magnetica
nucleare e cromatografia liquida ad alta risoluzione (23). I risultati ottenuti
hanno permesso di identificare alcune frequenti adulterazioni (30%) fra diver-
se tipologie di miele commercialmente disponibili, in particolare acacia e ti-
glio (costosi) e colza (economico).
Durante la trasformazione naturale del nettare in miele, le api possono
aggiungere sostanze specifiche. La composizione chimica del miele è com-
plessa, dato che consiste non solo di zuccheri e acqua, ma anche di altri costi-
tuenti, inclusi amino acidi, vitamine, minerali ed acidi polifenolici delle pian-
te. Queste componenti, nel loro complesso, conferiscono al miele un distinto
aroma ed un ampio spettro di attività biologiche.
Il miele maturo ha un minore contenuto di acqua, una minore acidità ed
un maggiore contenuto di fruttosio rispetto al miele immaturo, meno pregia-
to perché ricco di acqua e con minor fragranza floreale. L’analisi cromato-
grafica, utilizzando una metodica di tipo HPLC (High Performance Liquid
Chromatography), combinata con la spettrometria di massa, consente di in-
dividuare la specifica composizione dei metaboliti presenti in un miele ma-
turo (MH) ed immaturo (IMH) In complesso il miele maturo ha una migliore
qualità rispetto a quello immaturo non solo perché è più ricco nella compo-
sizione polifenolica, ma anche perché ha una attività biologica più importan-
te e variegata (24).

2.10 Propoli

Il propoli, anche noto come la “colla delle api”, è una sostanza naturale
usata da secoli, come integratore alimentare, nella medicina tradizionale di
vari paesi, e.g. Cina, Egitto, Australia, Brasile, Africa e India. È prodotto dalle
api (Apis mellifera) attraverso un processo complesso. Le api raccolgono

83
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

frammenti di foglie, fiori, germogli, polline, resine delle piante. Mentre le tra-
sportano all’alveare esse mescolano a tutto questo, le loro secrezioni, come
cera e saliva, dando luogo a una complessa serie di reazioni, che producono il
propoli. Trattandosi di una sostanza resinosa essa è usata nell’alveare come
isolante contro fattori esterni o avverse condizioni climatiche.
Dal punto di vista chimico è una miscela estremamente complessa, di cui
sono stati individuati finora più di 300 componenti. Tra questi vi sono artepil-
lina C, acido clorogenico, derivati dell’acido caffeico, derivati dell’acido chi-
nico, pinocembrina, quercetina, galangina e agliconi flavonoidi. L’esatta com-
posizione dipende dalla zona geografica e dall’”habitat” botanico in cui volano
le api. Per esempio nei climi temperati della Cina centrale e dell’est, le api ri-
cavano il propoli soprattutto dai pioppi, mentre in Brasile preferiscono arbusti
della specie Baccharis.
A causa dell’alto contenuto di composti fenolici ed altri antiossidanti, può
essere usato per prevenire una vasta gamma di malattie cronico-degenerative,
quali patologie respiratorie, tumori, diabete, steatosi (fegato grasso), come an-
tinfiammatorio ed antimicrobico (25).

2.11 Una strategia per aumentare la percezione del gusto


salato negli alimenti, mantenendo un basso
contenuto di sale

Il consumo quotidiano di sale, a livello mondiale, è attualmente superiore


ai livelli massimi (5 g/die) raccomandati dalla OMS (Organizzazione Mondia-
le Sanità, WHO) malgrado sia ben documentato che una eccessiva assunzione
di sodio possa avere effetti negativi sulla salute (e.g. ipertensione, infarto,
ictus) e contribuire ad altre malattie come cancro e osteoporosi. L’ipertensione
colpisce più di 100 milioni di americani adulti, circa metà della popolazione.
Le malattie cardiovascolari riguardano quasi 122 milioni di adulti e questa è la
principale causa di morte non solo negli Stati Uniti ma globalmente. L’infarto
colpisce annualmente 142000 di cittadini USA adulti e questa è la principale
causa di disabilità. Le conseguenze negative associate a un eccessivo consumo
di sodio hanno ricadute particolarmente gravi sulle minoranze etniche, spe-
cialmente Ispaniche e Afro-Americane. È stato valutato che la riduzione del
sodio a 2,3 g al giorno nella dieta Americana potrebbe risparmiare fino a 92000
decessi, con un risparmio annuo pari a 24 miliardi di dollari in spese sanitarie
(26). D’altro lato, si ritiene che circa 3 milioni di morti siano causati da un
consumo eccessivo e dall’obesità che ne deriva, di cui un milione direttamente
collegato all’assunzione di sale.
Per almeno quarant’anni, sono stati condotti studi epidemiologici su larga
scala (costosi e molto complessi) per meglio comprendere l’impatto di una
eccessiva assunzione di sodio sul nostro stato di salute. Vi è accordo sul fatto

84
Capitolo 2 Il gusto

che il sodio della dieta sia dannoso, ma si ignorano le basi anatomo-fisiologi-


che della sua appetibilità.
L’appetibilità del sale incomincia alla nascita, vacilla nell’infanzia e du-
rante l’adolescenza segue percorsi diversi, per uomini e donne; con l’invec-
chiamento varia da soggetto a soggetto.
L’origine della vita sul nostro pianeta è legata, indissolubilmente, alla pre-
senza di ossigeno nell’atmosfera e nei mari. La vita comparve sulla terraferma
solo nel momento in cui gli animali emersero sulla terra stessa e questo è
successo solo quando riuscirono a portare con se lo 0,9 % di acqua salata (la
soluzione “fisiologica” !), che imitava il mare primordiale che essi avevano
lasciato. Per questo motivo, per gli animali terrestri il sodio (Na), la parte co-
stituente del sale comune, è un catione indispensabile, insostituibile, che so-
stiene la vita.
Esso contraddistingue due forme di vita, essendo essenziale per gli anima-
li, ma non per le piante. Per quanto riguarda gli uomini, il suo consumo è ini-
ziato con il commercio e l’urbanizzazione, in prossimità delle miniere di sale.
È servito per le cerimonie religiose ed a partire dal ventesimo secolo, viene
utilizzato per conservare il cibo, rappresentando, in tal modo, uno strumento
fondamentale per prevenire la fame sia nei climi freddi che in quelli caldi.
Comprendere nei dettagli l’eziologia della predilezione per questa sostanza,
potrebbe consentire una riduzione del suo consumo basata su solide evidenze
scientifiche (27).
Nei paesi industrializzati, il 75% del sale ordinario (NaCl) proviene da
alimenti trasformati o trattati; il 12% è già presente negli alimenti o derrate
alimentari e l’11% proviene da quello aggiunto quando si cucina o si consu-
mano gli alimenti.
Il sale è aggiunto all’alimento non solo per ragioni sensoriali, ma anche per
necessità pratiche, come ad esempio nella fermentazione di vegetali e per pre-
venire rischi microbiologici legati in particolare alla conservazione.
Le attuali raccomandazioni del WHO per il consumo di sodio (Na) da par-
te degli adulti sono di 2 g al giorno (5 g di sale (NaCl). In Europa la quantità
di sodio assunta varia fra 2,7 e 7,1 g al giorno (da 7 a 18 g di sale (NaCl), negli
Stati Uniti nel 2008 era stata di 3,5 g (8,9 g). Tuttavia, il cloruro di sodio è un
ingrediente multifunzionale. Non solo garantisce la sicurezza microbiologica,
ma influenza anche la consistenza e le proprietà sensoriali del cibo.
Nel caso degli alimenti soggetti a fermentazione o maturazione durante le
fasi della preparazione, esso può influenzare lo sviluppo di microrganismi e
quindi la qualità complessiva del prodotto finale. Il cloruro di sodio gioca in-
fatti un ruolo importante nella regolazione della crescita microbica e della re-
attività biochimica ed enzimatica, poiché riduce l’attività dell’acqua da cui
queste dipendono.
L’attività dell’acqua (Activity of Water, AW) in un alimento è definito dalla
FDA come il rapporto fra la pressione di vapore dell’alimento stesso e la pres-

85
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

sione di vapore dell’acqua distillata sotto identiche condizioni. Rappresenta un


indice termodinamico della disponibilità d’acqua in una matrice, dove è pre-
sente in uno stato libero da legami con altri elementi. In tal modo può essere
utilizzata per reazioni chimiche e biologiche.
I microrganismi si moltiplicano grazie ad idonee condizioni di temperatu-
ra, pH, presenza o assenza di ossigeno e nutrienti e così via ed hanno assoluta-
mente bisogno di acqua. La proliferazione microbica rappresenta a tutti gli
effetti, una delle più importanti cause di alterazione degli alimenti.
Per esempio, nella preparazione dei formaggi, il cloruro di sodio agisce sul
drenaggio della fase liquida (passaggio necessario per eliminare l’acqua in
eccesso) e consente la formazione della crosta; esso influenza anche l’equili-
brio minerale e le caratteristiche sensoriali del formaggio stesso. Nei prodotti
fermentati a base di carne, in combinazione con il contenuto di grassi, NaCl ha
un importante impatto biochimico su una molteplicità di parametri quali acidi-
tà, perdita di peso, attività dell’acqua, proteolisi, lipolisi e ossidazione. Inoltre,
il diverso contenuto di cloruro di sodio modifica la matrice dell’alimento, che
a sua volta influenza la cinetica del rilascio delle componenti aromatiche del
cibo. Vengono quindi influenzate le interazioni chimico-fisiche tra componen-
ti volatili e non volatili della matrice stessa e la loro percettibilità. Da un punto
di vista più generale, la ritenzione ed il rilascio del sodio e dei composti aro-
matici dipende dalla composizione dell’alimento.
Una nuova strategia per migliorare la percezione della salinità e mantenere
un basso contenuto di sale, si basa sulla possibilità di indurre cambiamenti
nella percezione del gusto.
La percezione dell’aroma è un’esperienza multisensoriale originata da se-
gnali del gusto (cavo orale, sistema somatosensoriale) e dell’olfatto (localizza-
zione retro nasale). Questi segnali hanno origine nella bocca quando vengono
rilasciati stimoli e conferiscono identità a un dato alimento. Inoltre, altre sen-
sazioni come la consistenza, il colore ed il suono contribuiscono all’esperienza
multisensoriale del cibo. Alla luce delle conoscenze attuali, l’origine cognitiva
delle interazioni odore-gusto è ben definita, poiché è guidata dall’associazione
tra ambedue gli stimoli. Le proprietà gustative, specifiche degli odori possono
spiegare perché l’aggiunta di certi odoranti può modulare l’intensità di un par-
ticolare gusto.
L’aumento della percezione della salinità, indotto dall’odore (Odor-Indu-
ced Saltiness Enhancement, OISE), dipende dalla concentrazione del sale.
OISE è particolarmente apprezzabile nel formaggio vaccino a pasta semidura,
il Comté, prodotto nel Jura francese; in tal caso si può ridurre il cloruro di so-
dio fino al 25% senza perdita di appetibilità. La reciproca dipendenza fra odo-
re e mutamento del gusto salato è stata osservata anche in sardine ed in creme,
consentendo una riduzione effettiva del sale fino al 35% (28).
In media, gli aromi che caratterizzano e.g. le sardine ed il formaggio Com-
té, inducono un aumento significativo della percezione del loro gusto salato.

86
Capitolo 2 Il gusto

Questo dimostra che la reciproca dipendenza fra aromi e gusto del sale può
essere utilizzata in matrici complesse per ridurre la quantità di cloruro di so-
dio, mantenendo le caratteristiche organolettiche dell’alimento.
La necessità di ridurre NaCl ha giustificato il ricorso a soluzioni alternati-
ve, mediante l’utilizzo di composti che sono molto simili al prodotto originale
o che sono in grado di mascherarne l’assenza. In tal modo, l’aggiunta di altri
ingredienti rende l’alimento appetibile per il consumatore.
Il sodio ed il litio sono i soli ioni noti, in grado di provocare la sensazione
di salato. Tuttavia quest’ultimo non può essere utilizzato a causa della sua
tossicità. Vi sono prodotti come cloruro e lattato di potassio, miscele di cloruro
di sodio con altri sali, che conferiscono un retrogusto amaro o metallico.
Per favorire diete povere in sodio sono state proposte erbe o spezie come
aglio (allicina), zenzero (gingerolo), peperoncino (capsaicina), pepe nero (pi-
perina, isopiperina, isoclavicina, peperamina), che attivano i recettori vanilloi-
di (Transient Receptor Potential Vanilloid 1, TRPV1), mascherando l’assenza
o la riduzione del cloruro di sodio ma garantendone l’aroma.
L’aglio è usato in tutto il mondo come un ingrediente versatile per gli ali-
menti, in forme diverse, come tale, in polvere ed anche come salsa oleosa. È
ricco in quercetina e composti solforati come l’allicina e la gamma-glutammil-
cisteina, che proteggono contro le malattie cardiovascolari e respiratorie e con-
corrono al controllo dell’ipertensione (29,30). L’aglio rappresenta quindi una
buona alternativa per ridurre o sostituire il sale in alcuni alimenti.
Come sostituti del sale sono state proposte anche spezie come origano e
rosmarino. Queste piante sono ricche in flavonoidi ed acidi fenolici, derivati
dell’acido cinnammico. Vi sono anche miscele di erbe usate per esempio nei
curry (curcuma, coriandolo o cumino fra le altre) che possono essere utilizzate
per ridurre l’uso del sale fino al 50-60%.
Spezie piccanti come il peperoncino, il pepe nero, la senape o il wasabi
(ravanello giapponese) sono spesso presenti in piatti Asiatici o nella cucina
Messicana o Giamaicana e possono alterare la percezione dei gusti-base e far
diminuire il desiderio del sale. Oltre a dare sensazioni sensoriali particolari,
esse contribuiscono a ridurre la pressione sistemica (31).

2.12 Aromi essenziali negli alimenti; l’importanza delle


aldeidi alifatiche come sostanze volatili olfattive.

Hofmannn e collaboratori stimano che vi siano circa 10000 sostanze chi-


miche odorose, volatili, nella nostra alimentazione quotidiana (32). Prendendo
in esame 400 diverse proteine recettrici di odori, questi Autori hanno scelto un
totale di 226 sostanze volatili presenti in 227 campioni di alimenti e le hanno
definite come odoranti alimentari fondamentali (Key Food Odorants, KFOs).
Alcuni di questi (“generalisti”, n=16) sono genericamente diffusi tra gli aromi

87
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

essenziali, ad esempio il 3- metiltiopropanale, nelle patate cotte ovvero l’odo-


re del malto e contribuiscono all’aroma di più del 50% dei campioni esamina-
ti. I KFOs “intermedi” (n=57) contribuiscono all’aroma del 5-25% dei cam-
pioni di cibo esaminati, mentre i KF0s “individualisti”, i.e. caratteristici di un
solo alimento, sono presenti in meno del 5%. Fra questi si possono citare il
diallilsolfuro dell’aglio, il diisopropilsolfuro della cipolla verde, l’1-p-men-
ten-8-tiolo del pompelmo ed il trans- ovvero cis-lattone del Whisky.
I KFOs generalisti traggono origine da precursori ubiquitari, amino acidi,
carboidrati, acidi grassi insaturi.
I KFOs individualisti a loro volta derivano da precursori molto particolari,
polifenoli, isoprenoidi ed altri metaboliti biosintetici largamente ignoti.
Il numero limitato di KF0s suggerisce, secondo Hofmann, che le specie
alimentari e l’uomo siano evoluti insieme, con una naturale selezione che
orientava i recettori dell’odore (Odorant ovvero Olfactory Receptors, OR) a
distinguere il buono dal cattivo.
La classificazione dei KFOs mette a fuoco l’importanza delle aldeidi alifa-
tiche come odoranti presenti nei nostri alimenti (33). Nella tabella esemplifi-
cativa, ne sono riportate sei. Sono considerati odoranti chiave in alimenti e
bevande.

Aldeidi Qualità dell’odore Esempi alimentari


Esanale Verde Succo di mela, pomodori, galli-
na bollita
Z-3-esanale Verde Succo di mela, pomodori, sal-
mone e baccalà
Ottanale Cedro Succo di arancia, gallina bollita
E-2 nonenale Grasso Pane tostato, carne bovina/suina
cotta
E,Z,6,nonadienale Tipo cetriolo Cetriolo, salmone e baccalà
E, E-2,4 decadienale Grasso Foglie di prezzemolo, bue e ma-
iale cotti

2.13 Il senso del gusto negli animali

Il senso del gusto fornisce agli animali importanti informazioni sulla natu-
ra e qualità del cibo. I mammiferi possono riconoscere e rispondere a un diver-
so repertorio di entità chimiche, inclusi zuccheri, sali, acidi e una grande quan-
tità di sostanze tossiche. Molti amino acidi hanno un gusto dolce e delizioso
(umami) per gli uomini e sono attraenti per roditori e altri animali (34). Questo
è importante poiché gli L-amino acidi sono i building blocks delle proteine e

88
Capitolo 2 Il gusto

precursori biosintetici di molte piccole molecole biologicamente rilevanti e


carburanti metabolici. Per questo motivo, avere un percorso del gusto dedicato
alla loro scoperta, probabilmente ha implicazioni significative sulla evoluzio-
ne.
Gli autori sopra indicati hanno identificato e caratterizzato un recettore del
gusto degli amino acidi nei mammiferi. Questo recettore, TIR1 + 3, è un ete-
rodimero dei recettori specifici del gusto accoppiati alle proteine G, TIR1 e
TIR3. Essi hanno dimostrato che TIR1 e TUr3 si combinano per funzionare
come sensore largamente sintonizzato sugli L-amino acidi, ma non sui loro
enantiomeri, gli aminoacidi D o altri composti. Il recettore degli amino acidi è
collocato sulla superficie delle cellule del gusto ed è accoppiato ai ben noti
interruttori molecolari chiamati proteine G. I sistemi sensoriali si evolvono e si
adattano, consentendo agli animali di percepite tracce specie-specifiche rile-
vanti per la sopravvivenza (35). Il mistero di come diversi amino acidi attivano
un unico recettore, dando luogo a un intero spettro di sensazioni del gusto,
deve essere ancora risolto. Modifiche del recettore sensoriale possono avere
conseguenze ecologiche profonde, influenzando comportamenti come il pro-
curarsi il cibo, la scelta del partner e persino la speciazione. L’evoluzione di un
nuovo adattamento sensoriale consente agli organismi di utilizzare ambienti
estremi e nuove nicchie. Il gusto è un senso importante per discriminare tra
alimenti nutrienti e tossici. La maggiore parte delle categorie base, come ama-
ro (che causa avversione) e umami (il gusto appetitoso degli amino acidi) sono
conservati nei mammiferi e nei pesci.
Un gusto appetitoso per gli zuccheri (conferito dal recettore eterodimero
Tir2-TiR3) è largamente diffuso nei mammiferi, ma TiR2 si è perso presto
nell’evoluzione degli uccelli. Ma, nonostante questa perdita, un lignaggio
divergente di uccelli (includendo i colibrì, i pappagalli) consumano nettari
ricchi in zuccheri e frutta. I colibrì hanno acquisito l’abilità di scoprire gli
zuccheri attraverso modificazioni dell’eterodimero ancestrale del sapore
(TIR1-TIR3).
Il recettore umami è formato dall’accoppiamento di TIR3 con un altro par-
tner molecolare TIR1, che è ancora presente nel genoma degli uccelli.

2.14 Recettori del gusto amaro

Negli uomini il gusto amaro è mediato da 25 recettori del gusto amaro


(TAS2Rs) appartenenti alla superfamiglia di recettori accoppiati alla proteina
G (36). Il gusto amaro è generalmente considerato come una reazione avversa
che protegge gli uomini dall’ingerire sostanze tossiche. Tuttavia non tutti i
composti amari sono tossicie non tutte le tossine sono amare. Molte sostanze
come i polifenoli, i glucosinolati e i terpeni hanno effetti benefici sulla salute
e diete che includono maggiori quantità di alimenti amari sono spesso associa-

89
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

te con una salute migliore. I neonati hanno una preferenza innata per gusti
dolci, saporiti, mentre rigettano anche bassi livelli di gusto amaro e acido. In-
fatti, l’apprezzamento di alimenti dal gusto amaro è un comportamento appre-
so e studi hanno mostrato che l’apprendimento gioca un ruolo importante su
ciò che viene identificato come alimento e come l’educazione dei neonati (spe-
cialmente l’accettazione del gusto amaro) potrebbe avere un ruolo nella salute
degli adulti in futuro. È interessante osservare come l’intensità dell’amaro ab-
bia un ruolo speciale nel continuum della medicina alimentare: una amarezza
media è associata a piante usate come alimenti, mentre le piante percepite
come molto amare sono considerate solo come medicinali.
Si ritiene che i recettori del gusto amaro nel tessuto gastrointestinale (GI)
giochino un ruolo o almeno contribuiscano a mantenere un bilancio salutare
tra un micro bioma salutare, dieta e peso. I composti con gusto amaro cono-
sciuti sono più di 1000.

2.15 Kokumi

In aggiunta ai cinque gusti base cioè il salato, il dolce, l’aspro, l’amaro e


l’umami ve n’è un altro il kokumi, che in Giapponese significa gusto ricco. Le
sostanze con gusto di kokumi di solito non hanno gusto o n gusto sottile, ma
possono accentuare gusti base con un senso di ricchezza, corpo e complessità.
Esso aumenta l’effetto di dolce, salato, e umami coinvolgendo recettori sensi-
bili al calcio (37). Il kokumi è costituito da una serie di gamma-glutammil
peptidi ottenuti su larga scala da enzimi specifici in presenza di glutammica e
amino acidi. Risalendo al 1990, componenti solforate estratte da acqua con-
tente aglio furono per la prima volta identificate come kokumi. Da allora sono
stati trovati molti composti kokumi, presenti naturalmente in alimenti e classi-
ficati come aminoacidi e non aminoacidi.
I gamma -glutammilpeptidi sono ampiamente diffusi in batteri, piante, e
mammiferi, poiché sono prodotti o sottoprodotti dal ciclo del glutatione (GSH)
negli organismi (38).
Gamma-glutammil peptidi sono stati trovati in molti alimenti, che includo-
no legumi udibili, agliacei (aglio e cipolla) e cibi fermentati come formaggi,
salsa di soia, pesce fermentato e estratti di lieviti.
Come detto sopra, ingammaglutammil peptidi di per se non sviluppano il
gusto di kokumi e manifestano solo astinenza in acqua. Solo quando vengono
aggiunte sostanze-kokumi attive a una soluzione contenente due o tre sostanze
con gusto base, si può percepire il gusto di kokumi.
Inoltre, la miscela di sostanze con gusto base non possono provocare il
gusto di kokumi in assenza di sostanze kokumi-attive. A causa della comples-
sità delle caratteristiche sensoriali, il meccanismo del giusto kokumi dei gam-
ma-glutammil peptidi è difficile da spiegare.

90
Capitolo 2 Il gusto

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La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Fermentazione 3
3.1 Cenni storici

La fermentazione rappresenta il procedimento più antico ed economico


per produrre e conservare il cibo; si tratta, inoltre, di un “modus operandi”
naturale per aumentare il valore nutrizionale e la digeribilità degli alimenti. La
fermentazione elimina i gusti sgradevoli, riduce l’energia richiesta per cucina-
re e distrugge le componenti antinutrizionali come acido fitico e tannini. È
stata utilizzata per secoli, senza ben comprendere i processi che ne sono alla
base. Le tecniche di analisi chimica disponibili al giorno d’oggi, rendono pos-
sibile risalire alla composizione delle più antiche bevande, datate intorno al
7000 prima di Cristo (a.C.), nella provincia di Henan in Cina, dove incominciò
ad essere prodotta una bevanda fermentata di riso, miele e frutta. Basandosi
sulla decifrazione di documenti antichi, risalenti all’ultima dinastia Ahang
(1200-1046 a.C.), si è compreso che bevande fermentate da riso o miglio erano
preparate per essere offerte, come doni votivi, agli antenati reali.
In Cina, nel periodo della dinastia Zhou (1121-256 a.C.), orzo, riso e grano
erano usati per preparare il Qū (ovvero chu), un innesco (“starter”) ammuffito
preparato a partire da semi di soia (1). Secondo il Book of Documents Shu-
Ching compilato da Confucio (551-479 a.C.) il chu era essenziale per prepara-
re bevande alcoliche.
Vi sono anche alcuni documenti da cui si deduce che la fermentazione del
vino e della birra era una tecnica già collaudata nel 5000 a.C., in Iran ed Egit-
to. Anche il processo di preparazione del pane sembra avere origine nello stes-
so periodo, presumibilmente in Egitto. Tuttavia le basi chimiche-biochimiche
di tale processo non sono state chiarite se non intorno al 1850, da Louis Pa-
steur e dalla sua Scuola; grazie alle loro ricerche si è sviluppata una nuova
disciplina, la moderna microbiologia, che ha fornito le basi per comprendere il
fenomeno della fermentazione. Nell’America Centrale (Mesoamerica), molte
specie di agave sono state usate per produrre bevande alcoliche, utilizzate in
particolare dalle classi più colte e socialmente elevate; gli archeologi hanno
documentato la produzione di bevande alcoliche, derivate dalla fermentazione
dell’agave, a partire dal 400-600 dopo Cristo (a.D.). Nell’antico Teotihuacan
(da 150 a.C. a 650 a.D.) l’analisi dei residui presenti in vasi di ceramica sug-
gerisce che la produzione di fermentati del succo di agave (pulque) fosse co-
munemente praticata in questa regione del Messico (2).

94
Capitolo 3 Fermentazione

3.2 
Fermentazione e microbiota intestinale umano

Il microbiota umano è costituito da miliardi di cellule microbiche, che,


complessivamente, esercitano una influenza significativa sulla fisiologia e la
salute umana. Il termine microbiota, come abbiamo visto, si riferisce alla po-
polazione microbica (composizione), mentre il termine microbioma indica
l’insieme di elementi genetici di una popolazione microbica. Ad es. i probioti-
ci sono microbi vivi, che una volta ingeriti in quantità adeguata, conferiscono
benefici salutari per l’ospitante. Perché un microbo possa essere considerato
un probiotico, esso deve aderire alla mucosa intestinale, poiché questo è cru-
ciale per la colonizzazione microbica dell’intestino. Il consumo di probiotici o
altri prodotti fermentati attraverso veicoli dietetici può modificare la composi-
zione dei microbiota intestinali verso uno stato più bilanciato e contrastare gli
effetti dei fattori che promuovono la disbiosi (disequilibrio microbico dell’in-
testino) (3). Alimenti fermentati come yougurt, crauti, kimchi e kefir, conten-
gono ecosistemi relativamente stabili costituiti soprattutto da batteri acidi lat-
tici (LAB) e metaboliti da essi derivati. Alcuni LAB sono considerati
probiotici (eg Lactobacillus spp.).
La fermentazione è, come detto, un processo collaudato per la conserva-
zione del cibo, nel quale un ecosistema microbico resiliente impedisce la co-
lonizzazione da parte di microbi invadenti che ne possono provocarne un dete-
rioramento (Erwinia spp, Pseudomonas spp), mantenendo l’integrità del­
l’alimento per un lungo periodo.
La popolazione microbica iniziale è scelta in modo preferenziale da una
flora microbica molto variegata, basandosi su particolari componenti nutrienti
e condizioni di pH dell’alimento. Con il passare del tempo, questi microbi
iniziali contribuiscono a cambiare il pH dell’alimento ed al prevalere di alcune
specie microbiche. Per esempio, benché la fermentazione di cavoli come
kimchi e crauti sia tipicamente colonizzata da LAB, le particolari specie e
ceppi di LAB variano a seconda dell’acidità del prodotto alimentare; Leucono-
stoc mesenteriodes è predominante nel primo stadio della colonizzazione
dell’alimento ad un pH 5,6-4,3, mentre Lactobacillus sakei subentra ad un pH
di 4,1. Cibi fermentati come kimchi, crauti, caffè, sottaceti e olive, sono sog-
getti a un processo di fermentazione spontanea e subiscono una colonizzazio-
ne che è influenzata dall’ambiente circostante.
Yogurt, formaggio, prodotti di soia, kefir, kombucha, tè fermentati e vini
sono tipicamente fermentati da colture “starter” multispecie, composte da lie-
viti e batteri ad es. Kombucha SCOBY (coltura simbiotica di batteri e lieviti).
La fermentazione microbica può anche modificare le proprietà bioattive
dell’alimento stesso. Attraverso il processo di fermentazione, molti microbi
concorrono alla conversione di carboidrati complessi e composti fenolici in
metaboliti bioattivi. Metaboliti bioattivi come acidi grassi saturi a catena
corta (SCFA) sono fonti energetiche essenziali per le cellule ospiti ed hanno

95
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

un impatto significativo sulle funzioni immunitarie, neuronali e metaboliche


dell’organismo ospitante. Questi particolari metaboliti modulano anche la
funzione immunitaria dell’intestino e la produzione di energia da parte delle
cellule del colon, influenzando le interazioni ospite-microbiota. Alla luce di
quanto detto, il consumo di cibo fermentato può introdurre nel nostro orga-
nismo microbi probiotici ed i loro sottoprodotti benefici, innescando un
meccanismo attraverso il quale questi prodotti “virtuosi” aiutano il nostro
stato di salute.

3.3 Aceto

Gli aceti sono prodotti nel mondo da diverse fonti di carboidrati, inclusa
canna da zucchero, mele, riso, uva, datteri, prugne, cocco e altri succhi di
frutta L’ aceto non costituisce solo un condimento tradizionale, ma è anche
un salutare alimento funzionale. Viene prodotto a seguito di un processo di
fermentazione a due stadi, grazie ad un lievito (Saccharomyces) che conver-
te i carboidrati in etanolo e batteri (Acetobacteraceae), che lo convertono
successivamente ad acido acetico. I due aceti più tipici e rappresentativi del-
la cucina europea ed asiatica, rispettivamente, sono l’aceto balsamico tradi-
zionale di Modena prodotto a partire dal succo d’uva e quello di Sichuan,
prodotto principalmente da Sichuan Baoning Vinegar Co., nella provincia di
Sichuan.
L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena (ABTM, insignito della DOP)
è ottenuto da mosti cotti di uve diverse, provenienti da cultivar locali (e.g.
Lambrusco, Trebbiano, Sauvignon, Berzemino, Occhio di Gatta, Spergola). Il
mosto cotto, viene innestato con aceto vecchio (innesto madre) e sottoposto a
fermentazione, acetificazione e invecchiamento (12-25 anni), che avviene se-
condo il metodo “solera”, utilizzando botticelle di legni diversi. L’aceto di
Sichuan è prodotto dalla crusca di grano ed è anche noto come aceto d’erba
perché usa il Qū, uno “starter” erbaceo che è preparato da 60 erbe tradizionali
cinesi (4).
In Cina è considerato il solo aceto medicinale, fra le erbe vi sono la liqui-
rizia e la radice di Eucommia, che favoriscono la crescita di Rhizopus spp, (il
fungo principale) durante il processo di fermentazione, dando un contributo
significativo al profilo aromatico tipico dell’aceto di Sichuan. Contiene il
5-7% di acido acetico ed è prodotto grazie ad una fermentazione allo stato
solido mediante tre passaggi consecutivi che includono saccarificazione, fer-
mentazione alcolica ed acetificazione. Durante questo processo, nella fase del-
la saccarificazione, i microrganismi crescono rapidamente sul substrato solido
anche con scarsa umidità.
Nell’aceto del Sichuan sono stati individuati 77 composti volatili, i più si-
gnificativi dei quali sono il 2-idrossi-3-butanone, il butirro lattone, la fu-

96
Capitolo 3 Fermentazione

ran-2-carbaldiede, alcoli, acidi ed esteri (5). Trattandosi di una complessa ma-


trice alimentare, l’aceto contiene un’alta quantità di acidi organici, special-
mente acido acetico, polifenoli, flavonoidi, vitamine e minerali. Utilizzato
come integratore esso aiuta a ridurre lo stress ossidativo, il grasso corporeo, la
glicemia e attenua l’iperlipidemia.
Studi sperimentali, condotti nei criceti, hanno messo in luce che l’aceto
riduce sia il colesterolo totale che quello LDL, a differenza di quanto accade
con l’acido acetico (6).
Al giorno d’oggi, un aceto che incontra il gusto del consumatore ed è di
facile reperibilità, è l’aceto di mela. È prodotto da succo di mela fermentato;
batteri e lieviti trasformano gli zuccheri del frutto in sidro e poi, grazie ad una
seconda fermentazione, in acido acetico. I polifenoli e diversi acidi sono i suoi
ingredienti principali, ragion per cui gli vengono attribuite proprietà salutari,
inclusa perdita di peso, proprietà lassative, ridotta glicemia in individui affetti
da diabete di tipo 2 e protezione nei confronti di CVD; sono peraltro necessari
studi clinici su larga scala per comprovare tutte queste proprietà, come sottoli-
neato in una recente pubblicazione (7).

3.4 Fermentazione e cioccolato

Il cioccolato è uno degli alimenti più popolari ed è consumato in tutto il


mondo da persone di tutte le età. Un elevato consumo di cioccolato sembra
essere associato a proprietà antiossidanti particolarmente pronunciate, che
hanno un benefico impatto sul nostro stato di salute. Le sensazioni uniche che
ci vengono trasmesse dal cioccolato, sono legate al profilo di fusione nella
cavità orale ed alla presenza di specifici odori e aromi. I fattori specifici da cui
questi sono determinati dipendono da: a) coltivazione del cacao (origine gene-
tica, condizioni climatiche), b) trattamento dopo il raccolto (inclusa la fermen-
tazione e gli stadi di essiccamento), c) processo di produzione (arrostimento e
concaggio).
L’aroma può essere definito come l’insieme delle proprietà odorose che si
formano durante la trasformazione del cacao e dall’intervento di reazioni en-
zimatiche che hanno luogo soprattutto durante il processo di fermentazione.
Questo processo è una trasformazione che si basa su un complesso insieme di
reazioni chimiche che comprendono:
1) formazione di acidi organici
2) degradazione di proteine
3) formazione di composti insolubili
4) idrolisi di glicosidi.
La fermentazione è un passaggio critico perchè permette di definire i pre-
cursori che sono necessari per “orientare” lo specifico aroma del cioccolato.
Nello stadio iniziale di fermentazione, i semi di cacao sono raccolti e distribu-

97
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

iti uniformemente su superfici areate o in grandi scatole di legno (le cosiddette


“scatole di fermentazione”) ed ivi lasciate per 5-6 giorni. La fermentazione
spontanea dei chicchi di cacao procede attraverso stadi successivi dell’attività
microbica di tre tipi di microrganismi, che includono lieviti, batteri dell’acido
acetico e batteri dell’acido lattico. Nei primi stadi di fermentazione, noti come
fase idrolitica anaerobica, intervengono lieviti anaerobici. Nelle condizioni
anaerobiche si ha una fermentazione alcolica generata dai lieviti e gli zuccheri
della polpa sono convertiti in alcol ed anidride carbonica. I lieviti dominano le
prime 24-36 ore della fermentazione, aumenta il pH e questo diventa un fatto-
re limitante per l’ulteriore proliferazione dei lieviti.
La seconda fase è nota come fase di condensazione ossidativa; ha luogo in
condizioni aerobiche ed è regolata dai batteri dell’acido lattico. Si ha un au-
mento di temperatura della massa dei chicchi (45 °C), in condizioni più appro-
priate per la crescita dei batteri dell’acido acetico. È la fermentazione che de-
termina l’aumento della temperatura, mentre il pH orienta la formazione delle
diverse specie batteriche predominanti; questi batteri sono responsabili
dell’ossidazione dell’etanolo ad acido acetico. Come accennato precedente-
mente, la fermentazione è un processo cruciale per la formazione dei precur-
sori degli aromi, per l’acquisizione del colore ed anche per una notevole ridu-
zione del gusto amaro.
Durante i primi stadi della fermentazione, la temperatura aumenta e ven-
gono rilasciati degli enzimi che causano la lisi delle sostanze presenti nei chic-
chi di cacao, dando luogo a composti strutturalmente più semplici. Come risul-
tato, si formano zuccheri semplici, peptidi ed amino acidi.
Metodi di fermentazione diversi determinano la formazione di aromi di-
versi. Per esempio, nelle scatole di fermentazione, grazie al mescolamento dei
semi ed alla conseguente areazione, i batteri aerobici (Acetobacter) producono
l’acido acetico. Gli acidi carbossilici, invece, danno note di burro rancido.
In condizioni ottimali di fermentazione (pH 5,29) si ottengono amino acidi
liberi (idrofobici) e peptidi. In aggiunta, gli esteri generati dal metabolismo dei
lieviti, conferiscono un aroma fruttato.
Durante la fase di fermentazione, le proteine sono degradate dalle proteasi.
Il profilo dei peptidi può essere usato come indicatore affidabile del grado di
fermentazione. Durante la proteolisi (processo di degradazione delle proteine)
si formano amino acidi liberi e peptidi idrofobici, che sono precursori impor-
tanti dell’aroma e che danno luogo a specifici aromi durante la fase successiva
di tostatura-torrefazione dei semi di cacao (reazione di Maillard).
I chicchi di cacao di differenti origini geografiche e genetiche, danno dina-
miche di fermentazione diverse, che permettono di ottenere cioccolati con
qualità diverse. Per attivare il processo della fermentazione vengono comune-
mente utilizzate delle “colture starter”; si tratta di colture microbiche, vive e
vitali, che innescano tale processo. L’utilizzo di “colture starter” diverse, dà
origine a profili di aromi diversi (8).

98
Capitolo 3 Fermentazione

3.5 Principi della fermentazione halal

Le credenze religiose e le filosofie di vita possono condizionare marcata-


mente i consumi alimentari. In particolare, l’appartenenza ad una determinata
confessione religiosa può rappresentare uno dei fattori decisivi dei comporta-
menti dei consumatori. I mussulmani sono uno dei più grandi gruppi religiosi
e hanno una serie di regole dietetiche. Nell’Islam, il Corano (Il Libro Sacro
dell’Islam) e le Hadiths (Le Parole del Profeta Maometto), sono i due testi
religiosi fondamentali da prendere in considerazione per determinare le prefe-
renze alimentari. Il consumo della carne di maiale, delle carogne di animali
morti, di tutti i derivati del sangue, l’alcol ed in generale di alimenti conside-
rati nocivi per la salute (insetti, crostacei) sono proibiti e identificati come
“haram” (illeciti) nella terminologia Islamica. Gli alimenti la cui consumazio-
ne è lecita sono invece definiti “halal”. La valutazione delle sostanze ammesse
e dei metodi di produzione che rispettano le regole dietetiche Islamiche è de-
finita “principi halal “o “certificazione halal”. Se si considera che le comunità
Islamiche costituiscono circa il 25% della popolazione mondiale, gli alimenti
che soddisfano questi principi hanno un importante impatto economico nel
mercato globale. Se si includono altri prodotti halal, come farmaceutici e pro-
dotti per la cura personale (cosmetici), si possono raggiungono 2,6 miliardi di
consumatori (9). Gli ingredienti usati normalmente nella fabbricazione di pro-
dotti halal, non possono appartenere ad una delle fonti proibite sopra elencate.
Per esempio, nel cibo di uso comune (halal) una parte della gelatina totale non
può derivare dai maiali, nè altre componenti alimentari possono, a loro volta,
provenire da bestiame che non sia stato macellato nel rispetto delle regole
islamiche della certificazione halal. Per promuovere la crescita microbica, al-
cune sostanze contenenti elementi non-halal (haram) sono comunemente usati
come mezzi di crescita Per esempio, terreni di coltura tipo agar cuore-cervello
vengono utilizzati dall’industria alimentare (e farmaceutica) a questo scopo.
Essi possono contenere gelatina di maiale, cervello di maiale e tessuti da esso
derivati. Perciò i cibi (ed i farmaci) prodotti con questi ingredienti sono consi-
derati haram.
I seguenti fattori devono essere considerati con attenzione nella produzio-
ne di bio-prodotti halal: a) la fonte dei microrganismi, b) il medium di crescita
dei microrganismi, c) i processi di fermentazione, d) i successivi processi di
trattamento degli alimenti), v) il confezionamento e l’etichettatura.
La tecnologia del DNA ricombinante rappresenta una delle applicazioni
più importanti per la produzione di ingredienti microbici. Le applicazioni bio-
tecnologiche possono contribuire all’industria alimentare halal a condizione
che non siano violate le regole halal nella produzione microbica, in particolare
l’uso di additivi alimentari ed il rispetto dei metodi di preparazione.

99
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

3.6 Salsa di soia

La soia ed i prodotti da essa derivati contengono grandi quantità di isofla-


voni, quali la genisteina e la daidzeina. Gli isoflavoni, assunti “per os” sono
parzialmente metabolizzati ad altri isoflavoni nell’intestino da parte del micro-
biota intestinale. I livelli plasmatici di questi isoflavoni e dei loro metaboliti
aumentano dopo l’assunzione orale dei prodotti della soia. Diversi prodotti
della soia, quali il latte di soia, il tofu, il natto, il miso e yuba, fanno parte
della dieta tradizionale dalla popolazione Giapponese da molto tempo. È inte-
ressante osservare che i livelli ematici di isoflavoni e loro metaboliti, nella
popolazione Giapponese, sono almeno 10 volte più alti rispetto ai livelli pla-
smatici documentati nella popolazione inglese. Il consumo di soia e derivati è
strettamente associato ad un minor rischio di cancro al seno. I prodotti di soia
sono ricchi in fitoestrogeni, principalmente sotto forma appunto di isoflavoni;
questi ultimi sono modulatori dei recettori degli estrogeni naturali, e possiedo-
no sia proprietà estrogeno-simili che antiestrogeni. I costituenti della soia sono
stati associati, in modo significativo, ad un minor rischio di morte o di recidiva
in soggetti con diagnosi di cancro al seno (10). La salsa di soia, un condimen-
to popolare in Asia, è largamente consumata in tutto il mondo per il suo gusto
di umami e l’aroma caratteristico. In essa sono stati identificati più di 400
composti aromatici; i principali composti volatili sono alcoli, esteri, aldeidi,
pirazine, che sono miscelati in opportune proporzioni.
L’aroma unico della salsa di soia è strettamente correlato al particolare
ambiente (milieu) della fermentazione, che regola la secrezione di vari enzimi.
Durante le diverse fasi della produzione, la salsa di soia è infatti caratterizzata
dalla presenza di una complessa comunità microbica (e.g. associazioni di di-
verse popolazioni microbiche nel medesimo habitat di funghi, lieviti e batteri.
Benchè essa vari a seconda dei diversi paesi, pur tuttavia condivide in ogni
caso un processo di fermentazione in due fasi, chiamate rispettivamente koji
(fermentazione allo stato solido) e moromi (fermentazione in salamoia).
Il koji è una fermentazione allo stato solido di semi di soia e grano con
l’uso di spore di muffa, di solito Aspergillus orizae o Aspergillus sojae. A sua
volta la fase moromi comporta l’immersione del koji in una soluzione di sala-
moia, lasciandolo fermentare per molti mesi fino a 4 anni. L’Aspergillus ory-
zae è essenziale per la formazione dell’aroma in condizioni osmotiche, cioè
bassa temperatura ed alta concentrazione salina.
Gli alcoli prodotti dai lieviti contribuiscono in modo determinante alla for-
mazione degli aromi della soia. I processi chimici che stanno alla base della
salsa sono molteplici e particolarmente dinamici; ad es. alcoli ed acidi carbos-
silici possono formarsi a partire da esteri. Inoltre alcoli e aldeidi possono esse-
re trasformati gli uni negli altri per azione degli enzimi alcol/aldeide deidroge-
nasi. Le aldeidi sono responsabili del gusto di malto e noci della salsa.

100
Capitolo 3 Fermentazione

Le pirazine provengono dalla degradazione degli alfa amino acidi, i 20


amminoacidi da cui si originano le proteine. I furani, a loro volta, sono proba-
bilmente originati dalla degradazione del glucosio, derivante dalla degradazio-
ne termica della cellulosa.
La manipolazione dell’ambiente di fermentazione è favorevole per la for-
mazione dell’aroma. Per esempio un alto contenuto salino è necessario per la
fermentazione in salamoia per prevenire la contaminazione microbica e in-
fluenzare simultaneamente il gusto.
Inoltre, la temperatura a cui gli enzimi lavorano (35-37°C) favorisce l’atti-
vità enzimatica. L’ambiente della fermentazione può avere, inoltre, importanti
ricadute sulle composizioni microbiche che contribuiscono alla formazione
dell’aroma durante la fermentazione della salsa di soia. La temperatura relati-
vamente bassa e l’alta concentrazione salina stimolano l’Aspergillus oryzae a
produrre composti come esteri, pirazine e furani, che garantiscono un profilo
aromatico unico.
Tuttavia, l’impiego di altre tecniche, come un trattamento con ultrasuoni a
bassa intensità, sono anch’esse in grado di accentuare il gusto della salsa di
soia. A questo proposito, è importante ricordare il contributo di una disciplina
scientifica molto attuale, la proteomica, grazie alla quale si possono identifica-
re le proteine espresse con queste tecniche, fornendo importanti informazione
metaboliche sui microrganismi coinvolti.
La salsa di soia è composta da quattro ingredienti base, semi di soia, grano,
sale e acqua. A seconda della quantità di grano, la salsa di soia può essere di-
stinta in due tipi: il tipo Cinese prodotto usando in misura predominante la soia
ed il tipo Giapponese preparato usando uguali quantità di soia e grano. La
differenza nelle quantità di grano si traduce in diverse quantità di zucchero
disponibile durante la fermentazione e perciò influenza la composizione mi-
crobica in ciascun tipo di salsa di soia. Durante la fermentazione spontanea
koji, il pH è 4,5-5; questo valore favorisce la crescita del fungo e ne impedisce
il deterioramento.
Il secondo stadio della fermentazione è moromi, durante il quale il koji è
immerso in una salamoia contenente 18-22% di NaCl. L’alta concentrazione
salina inibisce la crescita di microrganismi patogeni e favorisce la crescita di
specie alotolleranti (batteri che tollerano alte concentrazioni saline) che gioca-
no un ruolo importante nella formazione dell’aroma. La fermentazione moro-
mi è guidata principalmente dai batteri lattici alotolleranti (LAB, Lactic Acid
Bacteria) e dai lieviti. LAB si propagano rapidamente all’inizio della fermen-
tazione moromi ed il pH lentamente diminuisce a causa della fermentazione
dell’acido lattico e di altri processi metabolici.
Quando il pH raggiunge valori intorno a 4-5 la popolazione batterica co-
mincia a calare mentre aumentano i lieviti. Nei moderni sistemi produttivi,
colture miste di LAB (e.g. T halophilus) e lieviti (e.g. Z. rouxii) e specie Can-
dida sono utilizzate per garantire qualità e riproducibilità ottimale del prodotto.

101
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Dopo 3-6 mesi di fermentazione moromi, il prodotto è soggetto a un pro-


cesso di raffinazione che include filtrazione sotto pressione, pastorizzazione a
70°-80° C e confezionamento, per separare la salsa di soia liquida dai solidi.
Durante il riscaldamento vengono inattivati gli enzimi residui e si formano un
certo numero di composti aromatici. Fra i principali, ricordiamo il 4-idros-
si-2.5-dimetil-3(2H) furanone ed il 4-idrossi-2-etil-5-metilfuranone, prove-
nienti dai pentosi attraverso la reazione di Maillard. L’ultimo aggiustamento
della salsa di soia, prima della commercializzazione, prevede l’aggiunta di
ingredienti come il caramello per aggiustare il colore. Una volta confezionata
essa può essere conservata per 1,5-3 anni.

3.7 Jets supersonici di CO2 quando si stappa una bottiglia


di champagne

Champagne e vini frizzanti, prodotti secondo gli stessi metodi tradizionali,


si caratterizzano per la presenza di un’alta pressione di anidride carbonica
(CO2). Questa fase gassosa si forma, assieme all’etanolo, durante un secondo
processo di fermentazione in bottiglia (rifermentazione, “presa di spuma”),
innescato dall’aggiunta di lieviti ed una certa quantità di zucchero, in bottiglie
ermeticamente chiuse con un tappo a corona o di sughero (11). Durante il
processo di stappatura, una schiuma composta principalmente di CO2 in fase
gassosa (con tracce di vapor d’acqua) è libera di espandersi esternamente al
collo della bottiglia, attraverso l’aria dell’ambiente.
Recentemente, i vari passaggi che hanno luogo durante la stappatura di
bottiglie di champagne, trasparenti e conservate a diverse temperature (20°C,
30°C), sono stati filmati attraverso “videoimaging” ad alta velocità ed è stato
possibile confrontare i fenomeni di condensazione che accompagnano l’aper-
tura della bottiglia. Nei primi milli-secondi che fanno seguito all’apertura
della bottiglia, il rapporto che si instaura fra la pressione esistente nello spa-
zio di testa (i.e. collo della bottiglia) e la pressione ambientale supera di mol-
to il rapporto critico necessario ad un gas per raggiungere Mach 1 (1225 Km/
ora, velocità del suono). In questo modo, vengono espulse, attraverso il collo
della bottiglia, correnti gassose che si raffreddano rapidamente per espansio-
ne della CO2.

3.8 Vini rossi Italiani

Secondo l’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV), il


consumo globale di vino è ammontato nel 2016 a 242 milioni di ettolitri. Quel-
lo del vino è un mondo affascinante non solo dal punto di vista della valenza
edonistica della percezione gustativa, ma anche da quello culturale.

102
Capitolo 3 Fermentazione

L’Italia è uno dei paesi più importanti al mondo per quanto riguarda la vi-
ticultura e l’enologia, con 705000 ettari di vigne (quarto posto), produzione di
8,6 milioni di tonnellate d’uva (secondo posto), produzione di 54,8 milioni di
ettolitri di vino (primo posto) e consumo di 22,4 milioni di ettolitri (12).
L’Italia è anche uno dei paesi più ricchi in termini di numero di cultivar,
poiché secondo il Catalogo Nazionale Italiano di varietà di uva, più di 500 culti-
var costituiscono la Piattaforma Ampelografica Italiana (ampelos. vite in greco).
Il vino ha una diretta e stretta relazione con la cultura italiana, poiché, al-
meno dal secondo secolo a.C., ogni regione produce il proprio vino usando
cultivar locali, in relazione alle caratteristiche del territorio ed alle proprie tra-
dizioni culinarie.
La produzione di ciascuna regione si è evoluta, con proprie caratteristiche,
nei secoli, fino a portare alla moderna cultura multi-enologica, caratterizzata
dalla presenza di 525 vini di Origine Protetta DOP (espressione comunità eco-
nomica europea), che comprende le denominazioni tradizionali italiane come
Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG; n-74), Denomina-
zione di Origine Controllata (DOC; n-333) o Indicazione Geografica Tipica
(IGT; n-118) (13).
Il Sangiovese è il principale cultivar italiano, con una estensione di 54000
ettari (inclusa Toscane e Romagna) ed è usato per produrre famosi vini Italiani
come il Brunello di Montalcino ed il Chianti classico. Il Nebbiolo è coltivato
principalmente in Piemonte (ed in Valtellina, Chiavennasca), copre una esten-
sione di quasi 7000 ettari per la produzione di vini celeberrimi come, come
Barolo e Barbaresco. Le uve di Corvina (6695 ettari) sono usate per la produ-
zione di Amarone e Valpolicella in Veneto.
Nell’Italia centrale e meridionale il Montepulciano (27000 ettari) rappre-
senta il cultivar più diffuso in Abruzzo; il Primitivo (16000 ettari) in Puglia,
l’Aglianico (9900 ettari) in Campania, il Cannonau (6200 ettari) in Sardegna,
il Nero d’Avola (12000 ettari) in Sicilia.
Teroldego (627 ettari), Raboso (circa 500 ettari), Sagrantino (930 ettari)
sono cultivar minori in termini di volumi di produzione (ma non certo di qua-
lità !) e sono coltivati principalmente in aree particolarmente vocate del Tren-
tino, Veneto, Umbria. Nel 2015 i cultivar menzionati rendevano conto di 445
delle aree coltivate a vino rosso DOP in Italia.
Lo studio analitico di Arapitsas e coll., basato sul metaboloma di 11 culti-
var individuali, ha fornito interessanti indicazioni sui presunti biomarkers (e.g.
antocianine, flavanoli, amino acidi etc) presenti nei vini di origine (putati-
ve Biomarkers of Origin Wines, pBOWs). I pBOWs caratterizzano un vino sia
dal punto di vista del cultivar che da quello del “terroir”.
Primitivo, Teroldego e Nebbiolo hanno avuto i pBOWs più alti. Il Primiti-
vo è risultato il cultivar con il metaboloma più significativo, essendo caratte-
rizzato dal più alto contenuto di molti amino acidi (tirosina, fenilalanina, argi-
nina, valina, leucina, isoleucina) ed il più basso contenuto di prolina.

103
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Se consideriamo vini rossi prodotti da cultivar tradizionali della specie


Vitis vinifera (Merlot e Cabernet Sauvignon), si è trovato che una famiglia di
composti era, almeno in parte, responsabile dello specifico aroma fruttato di
questi vini. Questo tipico carattere fruttato dei vini rossi è dovuto alla presenza
di un gruppo di 13 etil esteri e acetati, soprattutto sostituiti (14).

3.9 Un Riesling vecchio di 10 anni

La varietà di Riesling è una dei vini bianchi più popolare al mondo ed è


favorita dal suo aroma fruttato e floreale. L’uva è originaria della regione del
Reno ed è ora coltivata nei climi freddi dall’Europa all’ Australia e agli Stati
Uniti. Le caratteristiche aromatiche del vino dipendono da quanto tempo è ri-
masto in bottiglia. Il carattere fruttato e floreale è mantenuto per i primi anni e
per questo esso in genere è consumato giovane. Tuttavia, il vino Riesling si
presta ad essere invecchiato in cantina a causa della sua relativamente alta
acidità e del contenuto in zuccheri (15). Un confronto sensoriale del vino gio-
vane (0,5-1,5 anni) rivela una tendenza verso un gusto tostato, di miele, ma
con minori attributi esterei, floreali e fruttati. Nel Riesling vecchio di dieci
anni sono stati identificati 36 odoranti, 126 dei quali in via quantitativa. Questi
risultati illustrano l’influenza dell’invecchiamento sulla chimica dell’aroma
del Riesling e possono anche essere applicati ad altri vini bianchi invecchiati.

3.10 I tappi

L’utilizzo dei tappi di sughero per chiudere le bottiglie dei vini, in partico-
lare i grandi vini destinati all’invecchiamento, è considerato sinonimo di raffi-
natezza; i consumatori, quasi all’unanimità, collegano l’utilizzo di un materia-
le vivo come il sughero al concetto di “vino di qualità”, anche se le basi
chimico-biologiche non sono ancora comprese del tutto. Il passaggio di ossi-
geno attraverso il tappo, anche se è un importante parametro che influenza le
proprietà organolettiche del vino imbottigliato, da solo non può spiegare l’evo-
luzione dei vini, in considerazione della limitata quantità trasferita. Alcuni
componenti del tappo, come polifenoli a basso peso molecolare (LMW) e tan-
nini idrolizzabili, possono “migrare” nel vino dopo l’imbottigliamento e con-
ferire proprietà sensoriali, come odore, aroma e astringenza. Polifenoli a basso
peso molecolare e aldeidi, che passano dal sughero al vino, sono: acido ellagi-
co, acido gallico, acido protocatecuico, vanillina ed acido caffeico. I tannini
sono legati all’astringenza ed al gusto amaro dei vini; è noto che essa è dovuta
alla capacità dei tannini di legarsi alle proteine della saliva, formando com-
plessi tannino-proteine che tendono a formare aggregati e/o precipitati. La for-
mazione di questi complessi dipende da molti fattori, quali il tipo di tannini, la

104
Capitolo 3 Fermentazione

loro concentrazione, il loro grado di polimerizzazione, la loro distribuzione e


la presenza di polisaccaridi (16).

Le lacrime del vino


La degustazione di un vino è un’esperienza sensoriale complessa, che vede
coinvolti tutti i nostri sensi, dalla vista all’olfatto, dal tatto al gusto. Per effet-
tuarla ed apprezzarla correttamente, è necessario concentrare l’attenzione sul-
le differenti percezioni ed analizzarle. Un classico esempio è rappresentato dal
misterioso fenomeno chiamato “le lacrime del vino”, che si verifica a causa di
una complessa sequenza di eventi termodinamici e chimico fisici all’interno del
film di vino che riveste la faccia interna di un bicchiere. Dopo che il vino è stato
versato nel bicchiere ed agitato con movimento rotatorio, uno strato sottile
(film) di liquido si distribuisce e “si arrampica” lungo la parete. L’alcol presente
nel vino evapora più velocemente dell’acqua e la risultante differenza di tensio-
ne superficiale spinge il vino (una soluzione idro-alcolica) verso l’alto. D’altro
canto, l’evaporazione della fase alcolica si traduce in un aumento progressivo
della densità del liquido (aumenta la componente H2O) nello strato sottile. La
forza di gravità ha quindi il sopravvento sulle forze di adesione e presto trasci-
na il vino in basso, in un flusso di gocce a forma di lacrime. Maggiore è il conte-
nuto alcolico, maggiore è la “lacrimazione”
Andrea Bertozzi ed i sui colleghi dell’Università di Los Angeles, California, han-
no identificato delle specifiche “onde di shock” che potrebbero essere la tessera
mancante del “puzzle” delle lacrime. Quando la tensione superficiale e la forza
di gravità competono, esse creano “onde di shock instabili” nel sottile film del
vino. Le onde di shock si propagano verso l’alto, spingendo il fronte del liquido
in una forma sinusoidale, che culmina in larghe gocce che colano verso il bas-
so, come lacrime.
Per generare queste gocce in modo convincente: a) versare vini con una elevata
alcolicità, come porto o whisky, in un bicchiere conico, b) coprire immediata-
mente il bicchiere per bloccare l’evaporazione, c) fate girare lentamente il liqui-
do per rivestire la faccia interna del bicchiere e d) rimuovere la copertura dopo
pochi secondi (17).

3.11 Astringenza del vino

L’ astringenza è una delle principali caratteristiche sensoriali del vino ros-


so. Può essere definita come una sensazione allappante nel cavo orale e gioca

105
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

un ruolo importante nella valutazione complessiva delle caratteristiche orga-


nolettiche di un vino. Essa è dovuta alla presenza dei tannini, che sono una
componente naturale e vengono considerati un parametro di qualità che, se
opportunamente bilanciato, definisce un vino. I tannini condensati, chiamati
anche proantocianidine, sono considerati come i principali responsabili dell’a-
stringenza. Le proantocianidine sono polimeri composti da unità monomeri-
che di (epi)catechina e di (epi)gallocatechina, pigmenti naturali presenti nella
buccia degli acini.
Le antocianine, predominanti nei vini rossi, sono strutturalmente derivate
dai malvidinglucosidi; a causa della loro reattività, questi composti fenolici
subiscono numerosi rimodellamenti, che iniziano non appena essi sono estrat-
ti dall’uva e continuano durante i processi di fermentazione e di invecchiamen-
to. Questi cambiamenti danno luogo ai cosiddetti pigmenti derivati e tannini,
le cui strutture e proprietà differiscono da quelle delle antocianine e proanto-
cianine di partenza.
Oltre alla loro reattività chimica, la loro composizione nei vini rossi può
anche essere modulata da interazioni fisico chimiche con: a) altre macromole-
cole presenti in soluzione, b) interfacce solide come le pareti cellulari dell’uva
o dei lieviti.
I tannini sono estratti sia dai vinaccioli, presenti nell’acino, che dalla buc-
cia durante la vinificazione. Inoltre, essi sono disponibili in commercio come
estratti di vinaccioli, che vengono aggiunti al vino durante la produzione per
migliorarne il gusto, la struttura e la stabilità
È ben nota la capacità dei tannini alimentari di interagire con alcune speci-
fiche proteine salivari, in particolare con le proteine ricche nell’amino acido
prolina. Questa interazione porta alla formazione di aggregati proteina-tanni-
ni, insolubili, che possono precipitare nella cavità orale; questo è uno dei mec-
canismi principali per spiegare il fenomeno dell’astringenza provocato dal le-
garsi dei polifenoli con le proteine salivari. Analogamente, è anche possibile
spiegare in modo razionale l’effetto di alcuni additivi alimentari nel modular-
ne la percezione (18).

Impatto dei lipidi della dieta sulle percezioni sensoriali


dei tannini
I tannini sono composti polifenolici responsabili del gusto amaro e dell’astrin-
genza dei vini rossi. Il gusto amaro deriva dalle interazioni fra i tannini ed i re-
cettori del gusto collocati nella cavità orale, mentre l’astringenza è una sensa-
zione tattile attribuita principalmente all’interazione fra i tannini e le proteine
della saliva. In gastronomia, il corretto abbinamento fra cibo e vino ha lo scopo

106
Capitolo 3 Fermentazione

di renderne più armonica e piacevole la “degustazione” e di identificarne le


“complicità”, basandosi soprattutto su considerazioni empiriche. L’impatto del-
la composizione dei tannini del vino, così come della loro concentrazione e
struttura, sull’astringenza e la percezione del gusto amaro, sono stabiliti in
modo assolutamente chiaro.
Tuttavia, l’implicazione degli alimenti e più specificamente dei lipidi, una com-
ponente essenziale del cibo che si accompagna al vino, non è ancora chiarita
dal punto di vista molecolare ed enologico. Recentemente, Géant e collabora-
tori hanno studiato le interazioni tannini-lipidi, combinando tecniche biofisi-
che e sensoriali (19). Essi hanno mostrato che la componente lipidica presente
negli alimenti contribuisce a ridurre la percezione dell’astringenza di soluzioni
di tannini dell’uva. Questi risultati confermano la mutua affinità fra tannini e
lipidi e questo deve essere tenuto in considerazione per trovare il miglior acco-
stamento fra vini (rossi, spesso troppo astringenti) e alimenti grassi, come for-
maggi, salumi e dessert.

3.12 Resveratrolo e salute umana

Una dieta bilanciata deve fornire il giusto apporto di energia e nutrienti, in


modo da mantenere il peso corporeo ottimale e la omeostasi dell’organismo.
Nelle ultime decenni, accanto al bilancio nutrizionale, è stato introdotto un
concetto relativamente nuovo, che riguarda l’assunzione di una quantità ap-
propriata di composti funzionali (per esempio polifenoli come antiossidanti).
Questi, anche se non forniscono energia, possono contribuire in modo essen-
ziale allo stato complessivo di salute del consumatore (20). Data la vasta gam-
ma di benefìci per la salute attribuiti ai polifenoli presenti in molti alimenti, c’è
una richiesta pressante, da parte dei consumatori, di diete ricche in questi com-
posti. Fra queste figurano l’uva ed i suoi derivati, fra tutti il vino, i semi e l’olio
da essi estratti (21). Gli estratti di vinaccioli sono generalmente considerati
sicuri ed il loro mercato globale è stato valutato, nel 2015, pari a circa 400
milioni di dollari, corrispondente a più della metà dell’intero mercato dei po-
lifenoli. I polifenoli totali estraibili dagli acini sono contenuti in misura del
60%-70% nei vinaccioli, del 20%-30% nella buccia e del 10% nella polpa. I
vinaccioli funzionano come loro riserva (circa il 5%-8% per peso secco). A
sua volta la buccia ha una concentrazione di polifenoli relativamente più bassa
ed accumula antocianine, flavan-3-oli, flavonoli e acidi fenolici.
Il resveratrolo (3,5,4’-triidrossistilbene), una fitoalessina prodotta in rispo-
sta a stress biologici o abiologici, è un polifenolo non flavonoide presente in
più di settanta specie di piante. Solo poche di queste sono commestibili e le più

107
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

importanti sono: Vitis vinifera (uva), Arachis hypogaea (noccioline), Theobro-


ma cacao (cacao) e piante che producono bacche (Vaccinium myrtillus, Riibes
nigrum etc.).
Nell’uva esso è localizzato nella buccia e la sua concentrazione nel vino
serve come indicatore della maturità del frutto. Nonostante il basso contenuto
nell’uva (circa 2mg/Kg di prodotto fresco), corrispondente allo 0,1% dei com-
posti fenolici totali, il resveratrolo è un prodotto di grande interesse.
Nel 1992 ne venne ipotizzato un ruolo nella nutrizione ed in medicina-te-
rapia, quando fu identificato come fattore potenzialmente responsabile degli
effetti cardio-protettivi associati al consumo di vino rosso, il cosiddetto “Para-
dosso Francese”.
Al resveratrolo sono stati attribuiti anche potenziali effetti protettivi antitu-
morali, come antinfiammatorio ed antinvecciamento (22) Una ricerca biblio-
grafica su Pubmed, ha fornito come risultato un elenco di più di 9000 pubbli-
cazioni.
Nell’uomo, singole dosi di resveratrolo, somministrate per os, migliorano
la funzionalità del letto vascolare cerebrale e l’ossigenazione tissutale. (23). A
questo proposito è importante sottolineare che, in confronto ai farmaci utilizza-
ti nel trattamento clinico dei disordini neurovegetativi, questa sostanza ha effet-
ti collaterali trascurabili. Numerose ricerche hanno provato a chiarire il suo
meccanismo d’azione, senza arrivare a conclusioni definitive. Le maggiori li-
mitazioni ed i dubbi riguardano la difficoltà ad estrapolare alla salute umana i
risultati della ricerca sperimentale di base, condotta utilizzando modelli “in
vitro” o “in vivo”, in modelli animali. Per esempio, la ricerca di base, spesso ha
preso in considerazione diete caratterizzate da dosi, ovvero concentrazioni, re-
lativamente alte di resveratrolo, rispetto alla biodisponibilità che si potrebbe
ipotizzare a seguito di un consumo moderato di vino. L’assunzione quotidiana
totale nel vino rosso, che ne è la principale fonte, è dell’ordine di pochi mg
I risultati contraddittori di molti studi suggeriscono la necessità di identifi-
care la dose effettiva necessaria per avere effetti benefici sulla salute; la soglia
più bassa, per migliorare la funzione endoteliale in individui sani, è stata di 30
mg al giorno.
Nel vino il resveratrolo esiste nella forma cis- ed in quella trans-; quest’ul-
tima è predominante. La sua concentrazione totale media è di 7 mg/L per il
vino rosso, 2 mg/L per il rosé e 0,5 mg/L per il bianco ed è maggiore nei vini
prodotti nelle regioni con clima più freddo e più umido, come nello stato cana-
dese dell’Ontario, a Bordeaux e nella valle del Rodano. Esso è infatti una fito-
alessina prodotta dalla buccia degli acini d’uva (e dalle foglie), in risposta a
Botyris cinerea, Plasmopara viticola ed altre infezioni fungine ed alla luce UV.
La varietà Pinot nero è quella più suscettibile alle infezioni fungine e quindi
quella che ne accumula una concentrazione maggiore. In ogni caso la sua as-
sunzione media nel vino è di pochi mg al giorno, non sufficiente per giustifi-
care effetti benefici.

108
Capitolo 3 Fermentazione

Data la limitata biodisponibilità dei polifenoli dell’uva, si stanno studiando


applicazioni sinergiche di tecniche d’incapsulazione (la protezione fisico-chimi-
ca serve per superare il metabolismo xenobiotico) ed utilizzo di diete in grado di:
a) modulare il microbiota intestinale, b) aumentare la bioefficacia dei polifenoli.

3.13 L’affinamento del vino in legno: impatto sulla stabilità


antiossidante

La qualità di un grande vino, accanto alle sue qualità organolettiche, si


basa sulla sua capacità di migliorare col tempo. Poiché il prevalere dei mecca-
nismi di ossidazione può determinarne una accentuata instabilità, particolare
attenzione è dedicata a come evitare un invecchiamento prematuro.
Le botti di quercia-rovere (e.g. barrique-tonneau-grandi botti) sono state
usate fin dai tempi dei Romani per la conservazione, la maturazione e l’affina-
mento del vino. I vantaggi qualitativi sono molteplici, ben documentati ed in-
cludono: a) una aumentata intensità e stabilità del colore, b) una chiarificazio-
ne spontanea, c) un’aumentata complessità dell’aroma e del gusto. Costitui-
scono una parte importante ed imprescindibile della produzione dei vini, spe-
cialmente per quelli di alta qualità, dove vengono utilizzate “a tutto campo”,
dalla fase della fermentazione all’invecchiamento (24).
In origine, le botti di quercia erano usate per il trasporto (sono relativamen-
te leggere e robuste) e l’invecchiamento, in quanto consentivano una micro-os-
sigenazione ed un arricchimento di fenoli e composti volatili che aumentavano
la complessità della percezione sensoriale e la stabilità antiossidante. Il legno
di rovere ha una capacità antiossidante che influenza il potenziale di ossidori-
duzione dei vini e perciò la loro stabilità ossidativa. La capacità antiossidante
nel vino è dovuta sia alle proprietà chimico fisiche che alla struttura dei tanni-
ni. Essi sono composti da molti anelli aromatici benzilici con gruppi ossidrili-
ci, che conferiscono loro la capacità di cedere atomi di idrogeno. Il contatto
con il legno migliora le qualità organolettiche, grazie all’estrazione di e.g. el-
lagitannini (ET) complessi e quercotriterpenosidi, così come di costituenti vo-
latili provenienti dalla etanolisi e termolisi della lignina e delle emicellulose.
Inoltre rende più complessa la composizione del vino, dato che composti non
volatili e volatili sono estratti dal legno. Questo dipende da molti fattori, inclu-
sa l’origine botanica e geografica del legno, la sua porosità, il tempo di contat-
to vino-legno e molti altri parametri. La fabbricazione delle botti comporta,
infatti, diversi processi che influenzano le caratteristiche del vino. Per esem-
pio, la tostatura delle botti (bousinage, esposizione controllata al fuoco vivo)
degrada la lignina e produce fenoli volatili, mentre la degradazione della cel-
lulosa produce composti furanici.
Durante l’invecchiamento, la composizione del vino è modificata attraver-
so diversi meccanismi, tra cui la liberazione di fenoli (e.g. ET della quercia) e

109
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

questo modifica l’astringenza ed il colore (2 ). Nel complesso, gestire accura-


tamente i profili di tostatura delle botti (intensità da leggera a forte, tempi di
esposizione alla fiamma) può essere uno strumento molto importante per in-
fluenzare ad es. l’espressione fruttata dei vini rossi.
Mentre sono ben noti i composti aromatici essenziali rilasciati dal legno
nei vini e nei liquori, i cambiamenti nelle proprietà gustative sono stati spiega-
ti solo in parte. Un aumento della dolcezza è frequentemente riscontrabile du-
rante l’invecchiamento e questo può essere spiegato dal rilascio di triterpenoi-
di del legno. D’ altra parte, l’invecchiamento in botte può in alcuni casi
aumentare la percezione di gusto amaro ed avere un impatto negativo sul risul-
tato complessivo finale. Oltre agli ellagitannini sono stati studiati altri polife-
noli presenti nel legno di quercia-rovere; in particolare vari lignani con pro-
prietà gustative. Per esempio il (+) lioresinolo è quello che ha la maggiore
amarezza. Il legno di quercia contiene anche cumarine, che sono dei metabo-
liti secondari, che si originano da un fenil propanoide via acido trans-cinnami-
co (26). Nel caso di tre vitigni a bacca bianca (Sauvignon, Sémillon e Char-
donnay) è stato dimostrato che l’estrazione di ellagitannini raggiunge il suo
massimo dopo sei-otto mesi di affinamento in botte (27).

3.14 Birra e salute

La birra è una bevanda naturale ottenuta per fermentazione alcolica di un


estratto di orzo. In accordo con la German Beer Purity Law è composta da solo
quattro ingredienti tradizionali: orzo, luppolo (Humulus lupulus), lieviti ed
acqua. La prima fase per la preparazione della birra è costituita dal processo di
maltaggio o maltazione (malting), dove l’orzo è immerso nell’acqua per cau-
sarne la germinazione. Successivamente l’orzo viene arrostito, generando il
caratteristico colore e aroma della birra. Il cereale è macinato e miscelato con
acqua alla temperatura adatta per estrarne lo zucchero e ottenere un mosto
dolce. Il mosto viene bollito e si aggiunge il luppolo. Gli ingredienti del lup-
polo formano complessi insolubili con le proteine, che danno stabilità colloi-
dale (colloidal stability) alla birra, decontaminano la soluzione del mosto di
malto ed evitano la crescita di batteri. A questo punto inizia la fermentazione
grazie all’aggiunta di due tipi di lieviti: Saccharomyces cerevisiae, un lievito
fermentante “top” che produce birre della tipologia ale, porter e stout oppure
Saccharomyces uvarum, un lievito “bottom” che tende a sedimentare sul fon-
do del recipiente e produce birre di tipo lager.
Sulla base delle analisi chimiche effettuate sui reperti archeologici più an-
tichi, si ritiene che la birra sia nata nel quarto millennio a.C. ed era considera-
ta una componente predominante nell’alimentazione degli antichi Egizi.
La birra ha un elevato valore calorico e nutrizionale; 350 ml di birra con-
tengono circa 8 g di carboidrati, più del vino e degli alcolici, che coprono il

110
Capitolo 3 Fermentazione

2,4% dell’assunzione giornaliera (in una dieta di 2000 kcal),. Inoltre la birra è
ricca di minerali come calcio, ferro, magnesio, fosforo, potassio, sodio, zinco,
manganese, rame, selenio e silicio. Il contenuto alcolico è raramente superiore
al 10% (v/v) e la maggior parte delle birre variano fra 3-6 % (v/v). Il consumo
della birra è stato associato ad una aumentata circonferenza addominale (gi-
ro-vita), soprattutto negli uomini, un fenomeno comunemente chiamato “pan-
cia della birra”; è curioso che nelle donne, che bevono birra, la circonferenza
addominale sia minore di quella delle donne che non ne bevono (28). Notoria-
mente, la birra aumenta l’assunzione del cibo perché fa aumentare l’appetito.
In essa sono stati identificati molte centinaia di composti, tra cui più di
cinquanta composti polifenolici, che derivano per il 75-85% dal malto e per il
15%-25% dal luppolo. Tra questi vanno ricordati kaemferolo, quercetina, tiro-
solo e acidi fenolici. Sono anche presenti flavononi ed acidi amari (sostanze
amaricanti) come umoloni e lupuloni (29).
Studi epidemiologici e clinici hanno analizzato in dettaglio il potenziale
nutrizionale della birra, poiché componenti salutari di questa bevanda alcolica
potrebbero avere effetti positivi sull’apparato cardiovascolare (ed in certe for-
me di neoplasia) riducendone l’impatto socioeconomico globale. Per esempio,
a livelli moderati, la birra può proteggere contro la trombosi venosa, grazie
alla presenza di componenti quali amino acidi, vitamine, carboidrati, acidi
amari e vari flavonoidi (29).
Uno dei più importanti componenti usati nella produzione della birra è il
luppolo (Humulus lupulus), che serve come fonte primaria dietetica di acidi
amari e xantumolo.
Dal punto di vista botanico, Humulus lupulus è una pianta rampicante pe-
renne che genera fiori maschio e femmina. Le piante femminili sono caratte-
rizzate dalla presenza di infiorescenze lunghe 2,5-5 cm contenenti ghiandole
che secernono la lupulina e producono composti interessanti per l’industria
della birra e prodotti per la salute.
Evidenze storiche ed archeologiche suggeriscono che H. lupulus fosse
usato nel passato ed almeno fino all’ottavo secolo a.D., per fini medici, piutto-
sto che per la produzione della birra. La sua infiorescenza a forma di cono
venne aggiunta, nel Medio Evo, durante la fermentazione della birra, come
agente aromatizzante ed antisettico naturale.
Nella moderna fitoterapia, il luppolo e le sue infiorescenze trovano un uso
medico, in particolare per le proprietà antisettiche, afrodisiache, antidiureti-
che, antinfiammatorie e ipnotiche. Per esempio, H. lupulus, sottoposto ad un
particolare processo estrattivo usando CO2 supercritica, possiede proprietà
antiaggreganti, non solo riducendo l’aggregazione piastrinica, ma migliorando
l’attività antiaggregante delle cellule endoteliali che rivestono l’intima vasco-
lare. Questo suggerisce che esso possa prevenire patologie trombo-vascolari.
L’aroma ed il gusto amaro della birra sono dovuti agli iso-alfa- acidi ed
agli altri acidi presenti nel luppolo. Questi hanno un effetto positivo su diversi

111
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

aspetti cognitivi (e.g. attenzione, memoria), migliorano la fatica mentale e l’u-


more, come dimostrato da un recente studio su soggetti adulti di età compresa
fra 45-65 anni (30). Studi fitochimici hanno dimostrato la presenza di molti
componenti come amino acidi, cellulosa, oli essenziali, lipidi, pectine, protei-
ne, polifenoli, resine e cere. Il luppolo secco contiene il 4%-14% di polifenoli,
15%-30% di resine, 5%-3% di oli essenziali che comprendono una straordina-
ria gamma (circa 1000) di diversi componenti (31).

3.15 Birra non alcolica

Il consumo di birra priva di alcol ha conosciuto una grande crescita negli


ultimi anni; in Europa è aumentato del 50%. La Spagna è ora al primo posto
con il 9,5% di tutta la birra venduta nel 2010.
Questo orientamento è associato soprattutto alle restrizioni nel consumo di
alcol, che derivano da: a) consigli medici (durante la gravidanza, per chi soffre
di malattie cardiovascolari o epatiche, per i professionisti dello sport), b) la
legislazione e le normative che regolano la guida di veicoli, c) motivi religiosi,
d) consapevolezza salutistica.
Nella maggior parte delle nazioni Europee le birre con un basso contenuto
di alcol sono divise in due categorie
1) birre prive di alcol (Alcol Free Beers, AFBs), con un contenuto di alcol
inferiore allo 0,5% in volume
2) birre con basso contenuto di alcol (Low Alcol Beer, LABs) con non più
del’1,2%.
Negli Stati Uniti la birra priva di alcol stà ad indicare birra senza alcol
(birra analcolica), mentre la cosiddetta birra non alcolica non ne contiene più
dello 0,5%.
Ci sono molti metodi per produrre AFBs, che vengono classificate in due
categorie: metodi fisici e metodi biologici (32).
I metodi fisici, come la distillazione sotto vuoto o la separazione con mem-
brane, sono basati sulla eliminazione dell’alcol da birre alcoliche standard.
Dopo la rimozione dell’alcol, queste birre sono in generale gradevoli dal pun-
to di vista sensoriale, ma sono necessari investimenti considerevoli ed appa-
recchiature speciali per consentire una graduale rimozione dell’alcol fino a li-
velli trascurabili.
D’altra parte, i metodi biologici modificano il processo di fermentazione,
allo scopo di limitare la formazione di etanolo.
Questo risultato può essere raggiunto sia usando lieviti non tradizionali o
microrganismi geneticamente modificati, ovvero adattando le condizioni del
processo di fermentazione, come la temperatura e la tempistica. I metodi bio-
logici presentano il vantaggio di non richiedere apparecchiature particolari,
riducendo in questo modo l’investimento iniziale dei produttori di birra.

112
Capitolo 3 Fermentazione

Lo sviluppo di nuovi ceppi di micro-organismi da utilizzare nell’industria


della birra potrebbe non incontrare il favore del consumatore, perciò si privile-
giano tempi brevi di fermentazione a bassa temperatura, poco sopra 0°C, per
limitare il metabolismo dei lieviti e quindi la formazione di etanolo.
Sfortunatamente, questo limita anche la formazione di composti con aromi
caratteristici che incontrano il favore dei consumatori, come gli esteri ed alco-
li superiori e la riduzione di composti carbonilici (33).

3.16 Uso di isotopi del carbonio come strumento per


combattere le sofisticazioni del whisky

Il whisky è prodotto utilizzando il lievito Saccharomyces cerevisiae per


fermentare una miscela di grani di cereali ed acqua. Lo stadio della fermen-
tazione dura circa 5-7 giorni e fornisce la cosiddetta “distiller’s beer”, che
contiene di solito il 7-10% di etanolo. Successivamente questa viene distil-
lata ad un tenore alcolico molto elevato (max 80%), dando un distillato lim-
pido e incolore, chiamato comunemente “new make” o “white dog whisky”;
questo viene poi diluito con acqua ad un max 62,5 % di etanolo e trasferito
in botti di quercia per l’invecchiamento. Le botti possono essere nuove o già
utilizzate (per lo sherry od il porto) per arricchirne l’aromaticità. Durante la
fermentazione e l’invecchiamento viene estratto, nella matrice alcolica, un
composto volatile, il cosiddetto whisky lattone, il beta-metil-gamma-octalat-
tone. Il whisky lattone presenta due diastereoisomeri, il cis e il trans. Dato
che la molecola ha due centri chirali, vi sono quattro possibili stereoisomeri,
ma in natura se ne trovano solo due, il (4S,5S) cis con tenue nota di cocco, e
il (4S, 5 S) trans con nota intensa di cocco (34). A secondo del cereale im-
piegato, il prodotto finale potrà essere whisky scozzese (malto), bourbon
(grano), o rye (avena). La filtrazione su carbone è un passaggio comune per
la produzione di bevande distillate, e.g. vodka, rhum e whisky (35). Le bot-
tiglie pregiate di Scotch whisky di malto singolo (single malt) sono diventa-
te un prodotto prezioso, inizialmente per appassionati e collezionisti ed oggi
come bene d’investimento alternativo. L’anno scorso in Gran Bretagna sono
state vendute 265 bottiglie del valore, ciascuna, di almeno 10000 sterline
(12000 euro). Attualmente l’esportazione dello Scotch whisky vale più di 4
miliardi di sterline (4,9 miliardi di euro), con un mercato negli Stati Uniti
(2017) di 1,3 miliardi di euro (36).
Lo Scotch whisky è disponibile in due classificazioni di base:
1) Single Malt Scotch Whisky: è definito per legge, un whisky ottenuto me-
diante distillazione in un alambicco di rame, di una miscela costituita da
100% orzo maltato (pianta C3) e acqua. Deve provenire da un’unica distil-
leria ed invecchiato per non meno di tre anni in botti di rovere di capacità
non superiore a 700 litri (barrique, tonneaux).

113
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

2) Single Grain Whisky: si usa orzo maltato o altro cereale maltato o


non-maltato, spesso mais (pianta C4), ma più recentemente viene utilizza-
to il grano. La distillazione è effettuata in un’unica distilleria, mediante
colonna di rame. Anche in questo caso il distillato deve essere conservato
per almeno tre anni in botti di rovere di capacità non superiore a 700 litri.
3) Blended Scotch Whisky: si intende invece una combinazione di uno o
più Singe Malt Scotch Whiskies con uno o più Single Grain Scotch Whi-
skies (37).
La bottiglia di whisky più costosa venduta nel 2018 è stata un Maccallan
Valerio Adami del 1926, che ha raggiunto 848750 sterline (circa 1 milione di
euro). Uno dei maggiori rischi per l’industria dello Scotch Whisky è dato dal-
la produzione e commercializzazione di distillati che sono frutto di sofistica-
zioni, ma vengono spacciati per liquori di lungo invecchiamento (100 anni e
più) ovvero bottiglie da collezione. Cook e collaboratori hanno messo a punto
una curva di calibrazione di C14, derivata da whisky di malto singolo di età
nota, per il periodo 1950-2015; questa tecnica permette di risalire all’anno di
distillazione dal 1955 in avanti con periodi certi di 1-3 anni (38), consentendo
di smascherare queste frodi e garantire la fiducia dei consumatori.

3.17 Cognac

Il cognac appartiene alla tradizionale famiglia francese degli alcolici di-


stillati dal vino, in zone dell‘ovest della Francia incluse la Charente Mariti-
me, la Charente e alcune città vicine. La varietà di uva più usata per produr-
lo è Ugni bianca (UB), cioè Trebbiano. Dopo la fermentazione alcolica i
lieviti morti e altri sedimenti formano la feccia. Il vino è distillato con o
senza feccia attraverso un doppio processo di distillazione in un alambicco
di rame Chatentais. Nell’ultimo stadio, il distillato bianco di vino è fatto in-
vecchiare in barili di quercia per anni o decadi e il volume alcolico cala dal
70 al 55% in volume in seguito all’evaporazione dell’etanolo attraverso il
barile. Infine il maestro vinaio decide di fermare la maturazione dei distilla-
ti e li miscela per creare il Cognac. Gli aromi del Cognac fruttati e floreali
sono dovuti alla presenza di molti composti volatili appartenenti a famiglie
di esteri, acidi carbossilici, terpeni e aldeidi. Tuttavia, la sua qualità è ap-
prezzata dopo anni d’invecchiamento. È ben noto che la maturazione con-
sente lo sviluppo di aromi di frutti secchi, balsamici, legnosi e speziati. L’in-
vecchiamento e il contatto con il legno di quercia inducono considerevoli
modifiche nella composizione del Cognac.
Ad esempio il tipo di quercia (origine botanica e geografica), e il livello di
tostatura delle assi dei barili influenzano la formazione di lattoni, come gli
stereoisomeri del beta-metl-gamma-octalattone. Questi composti contribui-
scono in modo sostanziale all’aroma del Cognac invecchiato (39).

114
Capitolo 3 Fermentazione

3.18 Il Liquore d’orzo Qingke dal Tibet

L’altopiano tibetano Quinghai è noto come il “tetto del mondo” con una
altezza media di 4000 metri. Le dure condizioni climatiche a questa altitudine
sono una sfida per tutti gli organismi viventi, piante o animali. Va comunque
sottolineato che, nonostante condizioni climatiche avverse, e.g. intense radia-
zioni UV, siccità stagionale, carenza di ossigeno e coltivazioni con rese partico-
larmente basse, viene favorito l’accumulo di nutrienti e metaboliti secondari.
Il Qingke, un orzo privo di baccello, è la sola pianta che può essere colti-
vata nel plateau himalayano e rappresenta il 98% di tutto l’orzo tibetano. I ti-
betani lo considerano un “dono di Dio” ed esso gioca un ruolo molto impor-
tante nella medicina Tibetana, nella sua cultura e nelle attività religiose. Il
Qingke ha una rinomanza mondiale per la ricchezza dei suoi nutrienti, quali
proteine, beta-glucani, flavonoidi, amino acidi, varie vitamine, elementi in
tracce (Zn e Se), e fibre alimentari (40). È un liquore che deriva dalla fermen-
tazione dell’orzo, con un contenuto di alcol fra il 42% ed il 55%, v/v.
I tibetani lo bevono in occasioni speciali, come matrimoni, festival, attività
religiose o per onorare ospiti importanti. Questo liquore è unico e differisce
dall’altro liquore cinese, chiamato Baijiu, che è invece distillato da sorgo fer-
mentato o da una miscela di sorgo, frumento, mais e riso.
Il Qingke è ottenuto da tre materie prime grezze molto speciali, l’orzo, lo
starter della fermentazione basato su una miscela di piselli e orzo, l’acqua di
origine glaciale delle montagne dell’Himalaya (con altezze maggiori di 3000
metri). La fermentazione avviene allo stato solido (e.g. microorganismi cre-
sciuti su un substrato solido) e la distillazione è ripetuta quattro volte. Per la
prima fermentazione i chicchi d’orzo vengono macinati, miscelati con acqua e
riscaldati a vapore per 50 minuti. Il liquore distillato è fatto invecchiare da 3 a
50 anni in recipienti di ceramica chiamati Jiu-Hai e infine imbottigliato. I com-
posti attivi, che caratterizzano la gamma di odori, sono più di 70, soprattutto
esteri, acetali e acidi grassi a corta catena. L’aroma predominante è il 3-meti-
butanale.

3.19 Baijiu

Il baijiu è un liquore Cinese, uno dei liquori distillato più vecchi de mondo
e quello più bevuto (più di 7,4 miliardi di litri nel 2020, per un valore di circa
90,57 miliardi di dollari (41). Esso costituisce circa il 70% dell’industria
dell’alcol Cinese e può essere facilmente differenziato da altri liquori, per il
suo aroma caratteristico.
Il Baijiu può essere classificato in 12 tipi; in esso sono stati trovati più di
1870 composti volatili, inclusi calcoli, esteri, acidi, chetoni, aldeidi, composti

115
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

azotati e composti solforati. È molto popolare nella’Asia dell’Est, benché sia


poco conosciuto in Occidente (42).
Se confrontato con altri liquori distillati (whisky e brandy) la fermentazio-
ne del liquore Cinese è un processo complesso con saccarificazione e fermen-
tazione, che avvengono simultaneamente.
I grani, principalmente sorgo (e/o frumento, mais e riso appiccicoso) ven-
gono immersi in acqua calda(95°C), miscelati con grani fermentati da una
preparazione presente e gusci di riso precedentemente trattati con vapore. Si
aggiunge jiuq (una specie di Koji) come starter, si lascia fermentare e si distil-
la in condizioni di stato solido.
La miscela è distillata con Zeng (un alambicco speciale); il liquore appena
preparato è conservato e fatto invecchiare in giare chiuse per far maturare aro-
ma e gusto.
Il contenuto in etanolo (38-65% v/v) è più alto di altre bevande alcoliche,
a causa della fermentazione spontanea e della distillazione in condizioni allo
stato-solido.
Questa speciale procedura fa si che il liquore Cinese abbia un ricco aroma
e un forte gusto. Confrontato al whisky con circa 20 composti aromatici chiave
e al brandy con circa 30 composti aromatici chiave, il liquore Cinese ne ha
circa 60. Ogni regione della Cina ha il suo speciale liquore locale. Esso è un
importante aspetto della cultura Cinese e consumato puro in occasioni specia-
li come matrimoni, celebrazioni e feste.

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La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

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119
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Latte e Latticini 4
4.1 Latte dei mammiferi (ruminanti) per neonati in
bottiglie preistoriche

I primi recipienti pervenutici, usati probabilmente per nutrire neonati, ap-


paiono in Europa nel Neolitico e diventano più comuni nell’età del bronzo e
del ferro (1). Questi reperti archeologici, in particolare 3 vasetti dell’età del
bronzo e del ferro rinvenuti in tombe di neonati in Baviera, ci hanno permesso
di fare luce su quali alimenti vi fossero contenuti, basandosi sull’analisi del-
le impronte di lipidi e dei delta 13 C dei principali acidi grassi. I vasetti di ce-
ramica hanno una forma particolare, con la presenza di un beccuccio attraver-
so il quale un liquido può essere versato o succhiato. Un vero e proprio
antenato del biberon!
Tutti gli estratti erano caratterizzati dalla presenza predominante di acido
palmitico e stearico, che sono tipici grassi animali degradati. Erano presenti
acidi a catena più corta, C12, C14 che raramente si trovano nei reperti archeo-
logici. Queste scoperte ci offrono la possibilità, insolita, di gettare uno sguardo
sul modo in cui le famiglie preistoriche cercavano di destreggiarsi con gli ac-
cessori alimentari disponibili e la pratica dello svezzamento.

4.2 Composizione chimica del latte vaccino

Nel giugno del 2017 la Corte Europea di Giustizia ha stabilito che il termi-
ne latte deve riferirsi esclusivamente alla normale secrezione mammaria, otte-
nuta da una o più mungiture, senza alcuna aggiunta o estrazione. Pertanto, per
prodotti del latte, si devono intendere prodotti derivati esclusivamente dal lat-
te, come siero, panna, burro, formaggi, yogurt.
Prodotti di origine vegetale non devono contenere il termine latte, formag-
gio o yogurt. Alcune eccezioni sono permesse, come ad esempio latte di coc-
co, poiché questi liquidi sono così definiti da lungo tempo (2).
Il latte è spesso considerato come alimento perfetto. Prodotto dalle ghian-
dole mammarie di tutti i mammiferi, femmine, postpartum. È ricco in nutrien-
ti essenziali quali carboidrati, proteine, grassi, minerali e vitamine, che
sono adeguati ed equilibrati per soddisfare le specifiche necessità di sviluppo
dei neonati (3). Contiene, infatti, circa 40-50 nutrienti indispensabili per il so-
stentamento e la crescita.

120
Capitolo 4 Latte e Latticini

Studi recenti hanno confermato che il consumo di latte e latticini è associa-


to ad un minor rischio di malattie croniche, come obesità infantile, diabete di
tipo 2, patologie cardiovascolari (in particolare infarto), neoplasie (e.g. vesci-
ca, tratto gastrointestinale), mentre non ci sono evidenze per quanto riguarda
il tumore alla prostata (4).
Inoltre vanno messi in evidenza gli effetti benefici che latte e latticini eser-
citano sulla densità delle ossa. Nelle diete vegane si può avere un disequilibrio
ed una carenza di nutrienti necessari, in particolare iodio, ferro, vitamine A,
B2 e vitamina B12. Il latte non solo gioca un ruolo chiave nella nutrizione e
nell’idratazione, ma ha anche un ruolo essenziale nel regolare il microbio-
ta intestinale ed orientare lo sviluppo del sistema immunitario di tutti i mam-
miferi neonati.
Normalmente il latte può essere definito come un biofluido specie-specifi-
co, utilizzato da giovani mammiferi appartenenti alla stessa specie. Solo gli
uomini consumano regolarmente latte prodotto da altre specie e continuano a
farlo per tutta la vita.
La produzione mondiale di latte è incentrata su cinque specie animali, con
l’83% della produzione totale di latte vaccino, seguita da bufale con il 13%,
capre 2%, pecore 1% e cammelle 0,4%.
La possibilità di avere abbondante disponibilità di latte vaccino e di poter-
lo usare con facilità, è stata fondamentale per garantire la salute, lo sviluppo e
le migrazioni delle diverse popolazioni, negli ultimi diecimila anni. Ancora
oggi esso è una delle bevande più consumate nel mondo, pari a 811 milioni di
tonnellate prodotte nel 2017 (3).
Per quanto concerne i macronutrienti, il latte vaccino è tipicamente composto
di acqua (85-87%), grassi (3,8-5,5%), proteine (2,9-3,5%), e carboidrati (5%).
A livello di micronutrienti il latte contiene molti composti bioattivi, inclu-
se vitamine, minerali, ammine biogene, acidi organici, nucleotidi, oligosacca-
ridi ed immunoglobuline (Ig).
L’esatto profilo di questi composti e la relativa abbondanza naturale dipen-
dono da fattori interni ed esterni. Essi comprendono: a) l’attività metabolica
all’interno dei tessuti mammari, b) le condizioni di salute ed il tipo di foraggio,
c) l’abbondanza di certi micro-organismi presenti nel fluido ruminante della
mucca, d) la loro attività microbica e le reazioni enzimatiche che avvengono
nel latte.
Attraverso le moderne tecniche utilizzate per l’analisi quantitativa di so-
stanze organiche (e.g. tecniche metabolomiche), abbinate alla spettroscopia
NMR e cromatografia liquida-spettrometria di massa, è stato possibile indi-
viduare e quantificare circa 300 componenti presenti nel latte vaccino, for-
nendo uno strumento molto affidabile per distinguerlo da quello di altre spe-
cie animali (5). Come già accennato, il latte è un alimento di largo consumo
a livello mondiale; tuttavia, una ampia fascia di popolazione (con una inci-
denza negli USA ed Europa di almeno il 20%) non può consumarlo a cau-

121
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

sa di sintomi allergici a proteine specifiche del latte (e.g. caseina). L’inciden-


za di forme allergiche, che si manifestano nel primo anno di vita, è
valutata intorno al 2-7%.
A sua volta l’intolleranza al lattosio (una reazione non allergica) può varia-
re in modo significativo tra diverse aree geografiche, dal 2 al 5% nel Nord
Europa, ma, sorprendentemente, è intorno al 17% in Finlandia, 50% in Sud
America ed Africa e più del 90% nel SudEst asiatico (2).
L’allergia al latte è classificata come allergia alimentare di tipo 1 ed è defi-
nita come una reazione di ipersensibilità al latte di mucca, mediata da Ig di
classe E (IgE). Si manifesta rapidamente, entro 2 ore dall’ingestione e presen-
ta una serie di sintomi, come orticaria, dispnea, tosse, nausea, vomito, diarrea.
Il latte vaccino è composto da due frazioni principali: la caseina (80%) e le
proteine del siero. La caseina è costituita da una famiglia di fosfoproteine con un
peso molecolare variabile fra 5,7- 37,5 kDa., responsabili della reazione allergi-
ca.
Il metodo più comunemente usato per correggerla e produrre un latte ipo-
allergenico, adatto per l’alimentazione dei lattanti, si basa su una idrolisi enzi-
matica. Tuttavia, l’alto costo, il gusto amaro e la bassa emulsionabilità dei li-
pidi degli idrolisati ne riducono l’applicazione (6).
Per quanto riguarda i sostituti del latte, la composizione dipende dalla ca-
tegoria dell’alimento di partenza e dalla concentrazione nella bevanda. I con-
tenuti di proteine di bevande vegetali sono alti (per bevande basate su legumi),
medie (per bevande basate su cereali) o molto basse (per bevande basate su
mandorle o riso). La bevanda più simile al latte di mucca è il “latte” di soia,
che contiene il 3-4% di proteine, mentre il contenuto di carboidrati e grassi è
molto più basso.
La quantità di proteine presente nei legumi è più alta di quella dei cerea-
li e quasi analoga a quella della carne, ma è inferiore a quella del latte vaccino.
Latte e latticini sono ricchi in vitamina B12 che è di importanza vitale per
la salute delle ossa e del sistema nervoso; è presente in alimenti come il fegato,
la carne, il pesce, le uova.
L’uso di bevande di origine vegetale, in sostituzione del latte vaccino, ri-
chiede particolare attenzione da parte della popolazione considerata “vulnera-
bile” come bambini ed anziani; questi ultimi, infatti, devono ricorrere a bevan-
de fortificate o integratori in quanto i nutrienti essenziali come calcio, ferro,
iodio, selenio, zinco, vitamina A, D, B2, e B12 sono presenti solo in alimenti
di origine animale.
Tradizionalmente il mercato al dettaglio nei paesi occidentali è coperto da
latte prodotto in modo convenzionale. Vi è tuttavia un crescente interesse per
il cosiddetto “latte funzionale” (e di conseguenza, latticini funzionali) per mi-
gliorare la salute e prevenire le malattie.
Per esempio, il latte prodotto in modo biologico (“BIO”, organic, in ingl.) è
sempre più richiesto dai consumatori, se consideriamo gli ultimi vent’anni.

122
Capitolo 4 Latte e Latticini

Infatti, gli Stati Uniti sono il mercato mondiale di riferimento con un fatturato
nel 2017 pari a 1,17 miliardi di dollari.
Il latte “BIO” si propone come prodotto con una migliore qualità nutrizio-
nale rispetto al latte convenzionale e come tale è percepito dal consumatore.
La produzione del latte biologico è basata, sostanzialmente, su bestiame
che pascola nei prati, nutrendosi il più possibile di foraggio fresco; sono proi-
biti cereali o foraggi basati su cereali e questo determina la presenza di mag-
giori concentrazioni di acidi grassi di qualità, come quelli n-3.
Un altro mercato di nicchia è costituito dal latte fortificato con acidi grassi
n-3, prodotto mediante integrazione con olio di pesce o olio di alga per aumen-
tare il contenuto di acidi grassi a lunga catena n-3 (7).
Oltre al latte, anche l’industria dei latticini rappresenta un settore alimen-
tare significativo e trainante per la filiera agricola; nei soli Stati Uniti essa ha
generato nel 2020 un ricavo di 40 miliardi di dollari, che corrisponde al 9% del
totale delle vendite di prodotti agricoli (8).
I latticini si differenziano per tipi e contengono vari nutrienti che possono
essere benefici o dannosi per la salute. Le attuali evidenze epidemiologiche, ri-
cavate da diversi studi di meta-analisi (9), ci permettono di concludere che il
loro consumo ha un impatto trascurabile o moderatamente favorevole sulle
malattie cardiometaboliche.
Per esempio, i risultati di metanalisi di studi di coorte (9,10) indicano che
un più elevato consumo di yogurt, rispetto ad uno più contenuto, è inversamen-
te associato allo sviluppo di diabete di tipo 2.
Analogamente, un maggior consumo di latte e formaggio magro è inversa-
mente associato con il rischio di infarto (10,11).
Lo studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nu-
trition) è senza dubbio uno dei più ambiziosi studi prospettici di grandi dimen-
sioni; condotto sulla popolazione adulta (35-70 anni) europea, ha lo scopo di
verificare l’esistenza di una eventuale correlazione tra tumori ed alimentazio-
ne. Il “braccio” Norfolk di questo studio (condotto nel Regno Unito) ha mo-
strato che un maggiore consumo di latticini fermentati (includendo yogurt
naturale intero o con pochi grassi e formaggi magri) è associato con un minore
aumento del peso corporeo e dell’indice di massa corporea (Body Mass Index,
BMI) (12). Il fatto che un maggior consumo di yogurt e latticini poveri in
grassi sia associato, nel tempo, ad un minor accumulo di grasso corporeo (un
parametro determinante per sviluppare un diabete di tipo 2), è in linea con le
evidenze scientifiche a favore di una associazione inversa tra yogurt e latticini
magri ed il rischio di diabete di tipo 2.
In contrasto, un maggior consumo di latte intero e formaggi grassi è asso-
ciato con un aumento del peso corporeo e di BMI.
Inoltre, il consumo preferenziale di latticini con pochi grassi e latte magro
è associato ad una più bassa colesterolemia (e livelli di LDL); in controten-
denza, il consumo di latticini grassi (soprattutto burro e formaggi grassi) è

123
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

associato con un peggioramento del quadro lipidico, sia pure in misura con-
tenuta (12).

4.3 Autenticazione del latte organico

Il latte biologico, prodotto senza l’uso di pesticidi, fertilizzanti sintetici,


ormoni bovini della crescita e antibiotici è più costoso (50%) di quello conven-
zionale.
L’autenticazione può essere ottenuta grazie all’analisi dei rapporti degli
isotopi stabili delta 13C:12C di acidi grassi ed amino acidi; in tal modo si
possono smascherare eventuali frodi (13).

4.4 Latte di asina

Il latte di asina è più ricco, rispetto al latte di altri animali, in certi nu-
trienti, come le proteine del siero, acidi grassi essenziali, calcio, selenio e vi-
tamine; tuttavia il contenuto in grassi è minore. Può quindi servire come un
sostituto per anziani e più in generale, consumatori di alimenti con pochi
grassi. Inoltre, il contenuto di lattosio e proteine, così come il rapporto fra
proteine del siero e caseina, sono più simili a quelli del latte umano rispetto
al latte di altri animali.
A parte questo, il latte di asina ha meno caseina del latte vaccino ed è un
importante sostituto per chi è allergico a questo latte e per bambini che soffro-
no di intolleranze alimentari multiple.
Alcuni studi hanno mostrato che esso ha effetti antibatterici e antiossidan-
ti e regola la funzione immunitaria. Questo suggerisce che il latte di asina
possa essere usato come potenziale cibo funzionale per ritardare la progressio-
ne di alcune malattie (14).

4.5 Latte di capra

Il latte di capra è un alimento sempre più diffuso ed apprezzato; le previ-


sioni del fatturato globale per il 2024 si aggirano intorno a 15 miliardi di dol-
lari, con una crescita annuale di più del 7%.
È ben noto che esso costituisce un attraente sostituto del latte vaccino, a
causa della sua maggiore digeribilità e della minore propensione a dare reazio-
ni di intolleranza ovvero allergiche. Inoltre è importante considerare il fatto
che il latte di capra possa migliorare diverse funzioni fisiologiche sia nei neo-

124
Capitolo 4 Latte e Latticini

nati che negli adulti. È indicato per trattare disordini metabolici, in presenza di
bassa densità ossea ed anemia.
Questi benefici per la salute sono strettamente correlati ai suoi componen-
ti strutturali, e.g. il quadro lipidico. I componenti principali dei suoi grassi
(circa il 97%), i triacilgliceroli, sono il cuore dei globuli del latte. Inoltre il
latte di capra è preferibile al latte di mucca per la sua maggiore concentrazione
di acidi grassi con catena corta e media.

4.6 Acidi grassi nei latticini e nella carne

La relazione esistente fra acidi grassi totali, saturi, mono-insaturi e poli-in-


saturi (SFA, MUFA, PUFA) e patologie coronariche (CHD) è un tema larga-
mente dibattuto.
Vissers e collaboratori hanno ipotizzato che l’associazione fra acidi grassi
(SFA), derivati dai latticini e CHD sia diversa dall’associazione fra SFA, deri-
vati dalla carne e CHD (15).
In uno studio di coorte condotto su 35767 partecipanti, nell’ambito del Eu-
ropean Prospective Investigation into Cancer and Nutrition-braccio Olande-
se-Netherlands (EPIC-NL), si è dimostrato che sostituendo SFA da latticini
con SFA da carne, il rischio di CHD aumenta, mentre sostituendo MUFA o
PUFA dei latticini con quelli della carne non aumenta.
Poiché, nella comune alimentazione, l’assunzione media di SFA eccede
quella normalmente raccomandata (16), identificare i grassi salutari con-
frontandone la fonte alimentare, può contribuire a migliorare la scelta nutri-
zionale.

4.7 Kefir

Il kefir è un tradizionale latte fermentato contenente più di 50 specie di


microrganismi probiotici, consistenti in batteri acidi lattici, lieviti e batteri
acidi acetici.
È preparato da un’unico inoculo, noto come grani di kefir, che contiene
batteri acidi lattici come Lactobacillus kefiri, altri batteri grampositivi dei
generi Leuconostoc e Lactococcus e lieviti che fermentano o non fermentano
il lattosio.
Molti effetti benefici sono stati documentati sia per il kefir, che per questi
microrganismi presi individualmente; essi includono, controllo della cole-
sterolemia, regolazione della pressione sistemica, attività antitumorale, ef-
fetti lenitivi delle ferite, immunomodulatori e antiallergici, un miglioramen-
to della funzionalità epatica, effetti antidiabetici e antiobesità (17).

125
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

4.8 Yogurt

Il consumo di yogurt in Europa è pari a circa il 32% dell’assunzione glo-


bale di lattici. Esso è una fonte di proteine, minerali, inclusi calcio e magnesio
e di vitamine B.
Una letteratura scientifica sempre più vasta suggerisce che il consumo di
yogurt e probiotci possa esercitare molteplici effetti benefici per il nostro stato
di salute, includendo osteoporosi, obesità, disturbi metabolici, CVD, patologie
renali croniche, disturbi neurologici, oltre ai ben noti benefìci gastrointestinali.
Alla fine dell’800, Metchnikoff fu il primo a proporre che i batteri che
producono acido lattico, potessero proteggere contro il cancro del colon, inat-
tivando le tossine prodotte da batteri patogeni.
Uno studio sui Polipi Colon-Rettali condotto in Tennessee (Tennessee Colo-
rectal Polyp Study, TCPS), comprendente 5446 partecipanti, ha preso in consi-
derazione l’impatto che l’assunzione di yogurt e probiotci, esercita sulla diagno-
si di polipi colorettali. I risultati hanno chiarito che l’assunzione regolare, quoti-
diana, di yogurt è associata ad una diminuzione di polipi iperplastici (piccoli
noduli benigni), mentre un’assunzione a scadenza settimanale era associata,
nelle donne, ad una diminuzione di polipi adenomatosi [una comune patologia
del colon che può evolvere (5% dei casi) in neoplasia colorettale](18).

4.9 Formaggi

Il formaggio è un prodotto del latte fermentato, caratterizzato dalla presenza


di diverse specie microbiche. L’insieme di questi microorganismi è noto come
microbiota del formaggio; queste comunità microbiche originano da inoculi
(colture “starter”), latte (specialmente nei formaggi tradizionali e non pastoriz-
zati, a latte crudo) e microrganismi la cui presenza è casuale e trae origine dalle
attrezzature utilizzate o dall’ambiente in cui si produce il formaggio.
Questi microrganismi giocano un ruolo cruciale nel determinare l’aroma,
la qualità e la sicurezza del prodotto finale. Il loro contributo per lo sviluppo
dell’aroma e della qualità del formaggio è critico, poiché molte caratteristiche
finali sono dovute a dinamiche complesse ed interazioni tra microrganismi del
formaggio e le proteine del latte, crescita dei substrati e dall’ambiente in cui
esso è preparato.
Tuttavia, lo stadio meno controllabile dell’intero processo è rappresentato
dallo sviluppo e dalle interazioni tra microrganismi, durante la sua produzione
e maturazione.
In molti casi, si possono osservare variazioni nelle caratteristiche del pro-
dotto finale anche all’interno della stessa tipologia di formaggio, prodotto nel-
lo stesso caseificio o in caseifici diversi che seguono gli stessi protocolli.

126
Capitolo 4 Latte e Latticini

Recentemente nuovi strumenti di bioinformatica hanno consentito una di-


samina più accurata della composizione e della funzionalità potenziale dei
microbiota del formaggio, ben oltre le informazioni fornite dai disciplinari e
dai metodi con cui esso è stato preparato (19).

4.10 Effetto del latte aggiunto al tè

Dopo l’acqua, il tè è la bevanda più utilizzata al mondo. Il suo regolare


consumo è associato a minori rischi cardiovascolari. Non sono chiari i compo-
sti responsabili di questi effetti benefici, ma molti studi li hanno attribuito aila
presenza di flavonoidi, una classe di polifenoli. Ne esistono sei classi principa-
li: flavonoli, flavanoli, flavoni, flavanoni, antocianine e isoflavoni. Il tè nero è
ricco di flavanoli ossidati, quali le teaflavine e tearubigine.
Questi composti possono migliorare la biodisponibilità e l’attività biologi-
ca dell’ossido nitrico endoteliale (NO) e perciò migliorare la funzionalità va-
scolare; la disfunzione endoteliale è una delle prime cause dello sviluppo di
patologie cardiovascolari.
Il regolare consumo di tè contribuisce al controllo della pressione sistemi-
ca; uno studio dei suoi effetti a lungo termine (sei mesi), ha mostrato una di-
minuzione della pressione sistolica e diastolica di 2-3 mm Hg.
In molti paesi l’aggiunta di latte al tè nero è una pratica comune. È noto
che le proteine del latte si legano ai flavonoidi, ma questo può avere un impat-
to sul loro assorbimento. È possibile che l’aggiunta del latte ritardi l’assorbi-
mento dei flavonoidi vasoattivi che si legano alle proteine. La ridotta biodispo-
nibilità potrebbe ripercuotersi sulla funzione endoteliale (riducendola),
portando ad un modesto, ma significativo aumento della pressione sistemi-
ca (20).

4.11 Latte di mandorle

Le mandorle sono un alimento denso-nutriente, costituiscono una buona


fonte di proteine, hanno un’alta concentrazione di acidi grassi insaturi, alta
quantità di proteine e sono prive di colesterolo.
A causa del loro favorevole profilo fitochimico e lipidico, il loro consumo
ha effetti positivi sulla salute, riducendo il rischio di contrarre patologie car-
diovascolari, il diabete di tipo 2 e l’obesità (21). Il latte di mandorle è costitu-
ito da una dispersione colloidale prodotta dalla disgregazione fisica dei semi di
mandorla in acqua, la cui preparazione è un processo semplice; le mandorle
(e.g. 500 g) vengono tenute in ammollo (e.g. 2 litri di acqua) per una notte e
successivamente frullate onde ottenere una crema omogenea che deve essere
filtrata per rimuovere le particelle residue.

127
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Il latte di mandorla è considerato una alternativa appropriata al latte vacci-


no per le persone che hanno intolleranza al lattosio o allergia al latte, perché
non contiene lattosio. La principale proteina è l’amandina, che costituisce cir-
ca il 70% del totale delle proteine solubili. I lipidi delle mandorle sono orga-
nizzati in organelli intracellulari, chiamati “corpi di olio”, nei quali le gocce di
olio sono ricoperte da un monostrato di fosfolipidi e oleoresine. Il latte di
mandorle, costituito da circa il 3% di proteine ed il 7% di lipidi, è molto dige-
ribile, poiché i corpi oleosi vengono rilasciati dalle strutture cellulari del frutto
e disperse in fase acquosa.

4.12 Latte di soia

La soia ed i suoi prodotti sono molto popolari fra i vegetariani per il loro
alto contenuto di proteine (840 mg/100g) secondo lo USDA (Dipartimento
dell’Agricoltura degli USA). Il latte di soia ha un contenuto proteico che è
paragonabile al latte vaccino.
Sono presenti livelli elevati di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi, che
possono contribuire a ridurre il rischio cardiovascolare.
Il latte di soia è una bevanda economica, rinfrescante e ricca di diversi
componenti attive dal punto di vista nutrizionale, come ad esempio gli isofla-
voni, riconosciuti per l’effetto protettivo contro le malattie cardiovascolari
(e.g. riduzione dei livelli di colesterolo) e gli effetti collaterali della menopau-
sa (e.g. l’osteoporosi). In aggiunta contiene una buona dose di fibre, minerali
(soprattutto ferro, calcio e zinco), vitamine B.
La fermentazione contribuisce a ridurre le componenti anti-nutrizionali
(inibitori di proteinasi, acido fitico, acido ossalico) e aumenta la biodisponibi-
lità dei componenti bioattivi, poiché i microrganismi sono responsabili della
lisi delle sostanze organiche complesse per dare molecole più semplici, au-
mentando la quota di isoflavoni e peptidi liberi. Circa il 14% dei consumatori
di latte vaccino sono allergici anche al latte di soia (22).

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Capitolo 4 Latte e Latticini

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130
Capitolo 5 Bevande

Bevande 5
5.1 Tè, la civiltà cinese in tavola

Il tè è un infuso che si prepara utilizzando i germogli teneri o le foglie


della “Camellia sinensis” e rappresenta la seconda bevanda più popolare al
mondo, dopo l’acqua. È un antiossidante naturale; le catechine, in quanto
componenti principali dei polifenoli del tè, sono i costituenti responsabili del-
le sue attività biologiche. Nel processo di preparazione del tè nero, le foglie
appassite ovvero i germogli vengono arrotolati e macinati; questo passaggio
rompe la compartimentalizzazione cellulare e pone i composti fenolici in con-
tatto con la polifenolossidasi, una famiglia di enzimi responsabile della forma-
zione di teaflavine e tearubicine.
La composizione chimica del tè nero è stata studiata da molto tempo ed è
stata identificata una ampia gamma di prodotti, cioè flavonoidi, teaflavine, te-
aflagalline, flavoalcaloidi fra gli altri. Tra i tè neri della C. sinensis, var. assa-
mica, particolarmente prezioso è il tè nero Yunnan, prodotto solo dai germogli
della pianta del tè che crescono nell’area Fengquing; è molto apprezzato per il
suo aroma piacevole e il gusto elegante (1).
Il tè nero è più ossidato di quello verde, bianco o oolong. Mentre il tè ver-
de perde il suo aroma entro tempi relativamente brevi (un anno), quello nero,
che ha un aroma più deciso, lo mantiene per periodi più prolungati.
Durante le varie fasi della sua preparazione, le foglie macinate subiscono
una fermentazione ossidativa che porta alla formazione di oligomeri, come le
teaflavine (e loro derivati) e di polimeri come le tearubigine. Le prime mostra-
no un’eccellente attività contro il carcinoma del colon e lo studio della loro
stereochimica potrebbe fornire utili informazioni “struttura-attività” per un
disegno razionale di farmaci chemioterapici naturali (2).

5.2 Tè Pu-Erh

È un tè verde cinese, unico nel suo genere, che deriva dal màochà o tè
grezzo, una varietà di Camellia sinensis Linn, var. Assamica, a foglia larga,
diffusa nelle montagne dello Yunnan del sud. La fermentazione allo stato soli-
do, che viene attivata dalla presenza di colture batteriche e fungine, converte i
polifenoli delle foglie nei loro prodotti d’ossidazione, che costituiscono le
principali sostanze funzionali.

131
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Questo tipo di tè ha acquisito una crescente popolarità per il suo aroma


caratteristico e per una serie di proprietà fitoterapiche, quali la capacità di ri-
durre l’iperuricemia, l’iperglicemia e la degenerazione neuronale (3).
Il processo di post-fermentazione, durante il quale le foglie fermentano
dopo essere state essicate, ci permette di classificare il tè pu-erh in due catego-
rie: il tè pu-erh grezzo (RAw Pu-erh Tea, RAPT) ed il tè pu-erh maturo (RIpe-
ned Pu-erh Tea, RIPT), classificato a volte erroneamente come tè nero a causa
del colore rosso scuro delle sue foglie.
Il RAPT è tradizionalmente prodotto mediante fermentazione naturale, du-
rante la quale le foglie del tè, non ossidate, vengono compresse e successiva-
mente fermentate grazie alla presenza di inoculi spontanei, in condizioni di
conservazione naturale.
A sua volta il RIPT è prodotto usando un metodo specifico di post-fermen-
tazione, noto come fermentazione accatastata, in condizioni controllate di alta
temperatura e umidità, un processo simile al compostaggio.
Le colture batteriche sono costituite da più ceppi di Aspergillus niger e
Blastobotrys adeninivorans. La fase di fermentazione, mediante formazione di
cataste (accatastatura), costituisce la differenza caratterizzante tra la produzio-
ne di RIPT e RAPT.
Le infusioni che utilizzano i due diversi tipi di tè, si diversificano per quan-
to riguarda l’aroma, l’odore e l’intensità. RAPT contiene una complessa gam-
ma di composti chimicamente diversi e di moderata intensità odorosa, mentre
RIPT è caratterizzato dalla presenza di composti con maggior intensità. Più
specificatamente, metossibenzeni (ammuffiti e stantii) contribuiscono preva-
lentemente al RIPT, mentre alcoli terpenici dolci, floreali, con profumo di le-
gno, assieme a chetoni e composti fenolici, sono predominanti in RAPT. I due
diversi profili di aroma sono il risultato delle due diverse modalità di post-fer-
mentazione, a cui contribuiscono in maniera determinante i funghi ed il grado
di post-fermentazione.
Negli ultimi decenni, la ricerca sperimentale ha messo in luce che il tè
può esercitare numerosi effetti benefici nei confronti di numerose malattie,
fra cui ricordiamo le patologie cardiovascolari, il diabete mellito e le neo-
plasie.
I polifenoli, che sono suoi importanti costituenti, possono contribuire al
controllo dell’aterosclerosi, hanno proprietà antinfiammatorie, migliorano la
funzione endoteliale e contribuiscono alla protezione contro l’infarto.
Un recente studio di coorte su 500000 adulti uomini e donne, condotto in
Cina, una nazione che ha uno dei più alti consumi di questa bevanda, ha messo
in luce che un elevato consumo quotidiano di tè, specialmente tè verde, è in-
versamente correlato al rischio totale di infarti, includendo sia l’infarto ische-
mico che emorragico (4).

132
Capitolo 5 Bevande

5.3 Modificazioni della normale vita vegetativa della


pianta: lo stress per migliorare l’aroma del tè
Come accennato precedentemente e se le paragoniamo con molte altre pian-
te, le piante del tè posseggono una grande varietà di metaboliti secondari che
contribuiscono alla qualità della bevanda, come il colore, aroma e gusto (5).
Questi metaboliti possono essere divisi in tre classi: composti fenolici,
amino acidi e composti aromatici (volatili). I composti fenolici e gli amino
acidi influenzano il gusto del tè, mentre i composti fenolici possono anche
contribuire al suo colore. A loro volta i composti aromatici sono responsabili
del suo aroma. In generale, composti fenolici ed amino acidi costituiscono ri-
spettivamente il 18%-36% ed il 1%-4%, mentre quelli aromatici sono meno
dello 0,03%.
Attraverso tecniche di gas-cromatografia (GC), GC-spettrometria di massa
(GC-MS) e risonanza magnetica nucleare (NMR) sono stati identificati più di
700 composti aromatici. Fra questi, pochi superano la soglia di percezione
degli odori (o soglia olfattoria) e contribuiscono all’aroma. Aromi diversi pos-
seggono diverse soglie olfattorie; in alcuni casi le concentrazioni di soglia ol-
fattoria di due aromi diversi possono differenziarsi di migliaia di volte. Per
esempio, il composto con aroma di rosa, il 2-fenil-etanolo può essere percepi-
to a concentrazioni di 100 microgrammi/L in acqua, mentre il damascenone
può esserlo a soli 4 nanogrammi/L.
Se consideriamo i diversi meccanismi di reazione, i processi chimici, ele-
mentari, responsabili della formazione dell’aroma, possono essere classificati
in tre tipi: a) reazioni enzimatiche, quando la cellula della foglia è viva. Queste
reazioni avvengono principalmente durante lo sviluppo della pianta, prima
della raccolta e parzialmente negli stadi susseguenti, grazie all’attivazione di
geni legati all’aroma del tè e le reazioni tra substrati ed enzimi; b) reazioni
enzimatiche, quando la cellula della foglia è danneggiata; c) reazioni termo
fisiche e chimiche che hanno luogo durante la lavorazione e negli stadi susse-
guenti al raccolto.
Analogamente a quanto si verifica per i componenti volatili presenti in al-
tre piante, quelli del tè possono essere classificati in quattro classi principali, a
seconda della loro origine metabolica: a) terpeni volatili (Volatile Terpenes,
VTs); b) fenilpropanoidi-benzenoidi (Volatile Phenylpropanoid Benzenoids,
VPBs); c) derivati di acidi grassi volatili (Volatile Fatty Acid Derivatives,
VFADs); d) derivati volatili di carotenoidi. In condizioni normali ed in assenza
di stress, la maggior parte dei composti volatili (inclusi gli aromi) sono presen-
ti nelle piante come liquidi.
Le piante, specialmente le parti vegetative, sintetizzano e liberano alcuni
composti volatili quando sono esposte a stress ambientali, con lo scopo di ri-
durne gli effetti negativi.
In contrasto con gli stress abiotici (impatto di fattori non-derivati da orga-
nismi viventi, e.g. temperatura, carenza di acqua, salinità), gli effetti degli

133
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

stress biotici (e.g. virus, batteri, parassiti) ed in particolare l’azione di erbivori


sulle parti aeree della pianta, sono stati molto studiati. Analogamente a quanto
si verifica con le altre piante, durante la crescita molti insetti erbivori, inclusa
la cicadella verde del tè ed afidi, attaccano le foglie e ne influenzano resa,
aspetto e qualità.
Gli attacchi ed i traumi connessi, inducono le foglie a produrre e liberare
numerosi composti volatili come VFADs (includendo (Z) -3-exen-3-olo e de-
rivati), VPBs (e.g. benzilnitrile, benzaldeide e indolo) e VTs (e.g. geraniolo,
farnesene, ocimene,linaloolo e nerolidono), influenzandone l’aroma. Nella
pratica di coltivazione, un esempio classico è rappresentato dalle foglie infe-
state dalla cicadella verde (Empoasca onukii Matsuda). Tali foglie vengono
usate per preparare il famoso tè oolong (Oriental Beauty), che ha un aroma
unico che ricorda un frutto maturo ed il miele, attribuibile a monoterpeni vola-
tili quali il 2,6-dimetil-3,7-octadiene-2,6-diolo.
I traumi del tessuto delle foglie ed altri attacchi di insetti erbivori rappre-
sentano uno stress e possono causare un aumento dei livelli di acido iasmonico
nelle foglie. Una volta colte, le foglie possono subire altri stress durante le fasi
della produzione del tè, come l’esposizione a basse temperature o la perdita
d’acqua. Questi stress hanno ripercussioni sulla formazione dei composti vo-
latili nelle foglie dopo la raccolta ed aumenta, ad esempio, l’accumulo di indo-
lo. Nel tè verde (non fermentato) l’impatto dello stress delle foglie, dopo l’es-
siccamento, è quasi assente, analogamente a quanto si verifica nel tè giallo
(post-fermentato) e nel tè scuro (post-fermentato). Nel tè bianco (leggermente
fermentato) e nel tè nero (fermentato) l’intensità dello stress è minore, mentre
nel tè oolong (semi-fermentato) l’impatto dello stress è maggiore. Le reazioni
enzimatiche hanno luogo sia quando le cellule delle foglie sono vive, che
quando le cellule sono danneggiate e contribuiscono alla formazione dell’aro-
ma. Queste reazioni avvengono principalmente durante le diverse fasi di pro-
duzione del tè nero, specialmente durante la fase di arrotolamento.

5.4 Torrefazione del caffè

La pratica della torrefazione del caffè data da più di 2000 anni. Tuttavia,
l’esatta comprensione dei complessi meccanismi che sono alla base della for-
mazione dell’aroma è recente. Lo studio della cinetica del processo di torrefa-
zione ha consentito importanti approfondimenti. Sappiamo infatti che vi è una
legge cinetica complessa che descrive le modalità di formazione dell’aroma
durante il processo di torrefazione.
Nella fase preliminare sono prodotti molti derivati volatili, provenienti dalla
degradazione di carboidrati ed amino acidi liberi. Questi raggiungono un picco
massimo e poi diminuiscono. Tale cinetica è caratteristica degli alfa-dichetoni e
del 4-idrossi-2,5-dimetil-3(2H)-furanone. Le aldeidi di Strecker e le alchilpira-

134
Capitolo 5 Bevande

zine, prodotte entrambe dalla degradazione di amino acidi, si formano rapida-


mente nel primo stadio e poi rimangono costanti. Un terzo gruppo di sostanze è
caratterizzato dalla presenza di fenoli, furani e 2-furfuriltioli. Infine i metaboliti
secondari della pianta, già presenti nei chicchi verdi di caffè, come le metossipi-
razine o gli esteri, restano stabili o diminuiscono costantemente (6).
Le proprietà organolettiche del caffè ne definiscono la qualità e costitui-
scono il parametro più importante dal punto di vista commerciale. I fattori
determinanti sono rappresentati dall’aroma e dalla eventuale presenza di difet-
ti; tutto ciò è, a sua volta, influenzato da fattori genetici e ambientali (suolo e
clima), così come dalle modalità con cui si effettuano raccolta, susseguente
essicazione e conservazione del materiale grezzo.
È ben noto che la presenza di chicchi di caffè difettosi toglie valore alla
qualità della bevanda, in quanto emergono aromi sgradevoli e contaminazioni,
che ne danneggiano l’accettabilità da parte del consumatore e la commercia-
lizzazione.
Tra i vari difetti, un aroma sgradevole, chiamato “gusto di patata”, può al-
terare i cicchi di caffè coltivati nei paesi dell’Africa orientale, principalmente
Burundi e Rwanda, la cui produzione è molto elevata, con importanti ricadute
sull’economia di questi paesi.
Il cosiddetto “gusto di patata” è dovuto alla presenza di 3-isopropil-2-me-
tossipirazina ed in misura minore 3-isobutil-2- metossipirazina, la cui forma-
zione è indipendente dalla tostatura. Questi composti che, peraltro, si trovano
naturalmente nei chicchi di caffè normali, sono presenti in elevate concentra-
zioni nei chicchi difettosi. Essi si ritrovano solo in campioni di caffè macinato
e questo suggerisce che siano presenti all’interno del chicco stesso e non solo
sulla sua superficie (7). Le condizioni geografiche ed ambientali di quest’area
dell’Africa, unite ad un clima adeguato, consentono la produzione di caffè di
alta qualità, caratterizzato da tipiche note floreali ed ottima acidità, proprietà
molto apprezzate dai consumatori in tutto il mondo.

5.5 Caffè e salute

Il caffè è una delle fonti maggiori di caffeina, uno degli stimolanti mag-
giormente usati nel mondo. Si calcola che 3 miliardi di tazze vengano bevute
ogni giorno. I benefici ed i rischi connessi al consumo del caffè sono stati og-
getto di studi e dibattiti, con risultati diversi. Benché l’assunzione di caffeina,
il componente bioattivo più importante del caffè porti, in casi sporadici, ad un
aumento della pressione sistemica, i dati che emergono dagli studi sistematici
riguardanti i consumi abituali di caffè, non sembrano indicare alcun aumento
del rischio cardiovascolare (CVD).
Un recente studio di meta-analisi, che riassume le conclusioni di 36 studi,
su un totale di 1279804 partecipanti e 36352 casi di CVD, suggerisce l’esi-

135
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

stenza di una associazione non lineare tra consumo abituale di caffè e rischio
CVD (8). Le conclusioni indicano che il consumo di 3-5 tazze/die ha un im-
patto positivo sulla salute mentre un consumo più elevato non è associato ad
un maggior rischio.
Il possibile effetto cardioprotettivo potrebbe essere attribuibile ai molteplici
componenti del caffè che hanno una azione antiossidante ed antinfiammatoria,
quali i composti fenolici, i diterpeni, la trigonellina e le melanoidine. È probabi-
le che ciò sia dovuto a modificazioni epigenetiche, cioè modificazioni ereditabi-
li che non alterano la sequenza del DNA ma l’espressione dei geni (9).
Sono stati usati diversi biomarkers (e.g. proteina C reattiva, estradiolo,
testosterone) per studiare i meccanismi responsabili degli effetti protettivi
del caffè. I risultati indicano che il consumo del caffè è in grado di esercitare
una azione di controllo su molti biomarkers che regolano vie (pathways)
metaboliche ed infiammatorie, tra cui alcune specifiche per le malattie car-
diovascolari.
Molti degli effetti osservati sono analoghi sia per caffè normale (con caf-
feina) che decaffeinato, suggerendo che gli effetti non siano riconducibili alla
caffeina (10).
Come già accennato, il caffè ed il tè sono tra le bevande più consumate al
mondo e la maggior fonte di caffeina nella dieta. Cornelis et al., hanno recen-
temente esaminato l’effetto di caffè e tè con caffeina sulla funzione cognitiva,
e.g. memoria, concentrazione, tempi di reazione (11). Questi autori hanno ana-
lizzato nello studio più di 500000 partecipanti, di età compresa fra 37-73 anni,
della UK Biobank e hanno messo in luce che il consumo abituale, regolare, di
queste bevande e della caffeina è irrilevante nel migliorare la funzione cogni-
tiva ma potrebbe causare un calo nella “performance”, intesa come capacità
complessiva di espletare prestazioni ed ottenere risultati nei test. I dati, non
sono di facile interpretazione e la conclusione più significativa dello studio
documenta l’esistenza di una associazione inversa tra consumo del tè (nero o
verde) e la “performance” complessiva su tutti i test cognitivi.

5.6 Caffè di cicoria

La cicoria (Cichorius intybus) è un’erba perenne della famiglia delle


Asteraceae. Storicamente era coltivata dagli antichi Egizi con intenti medi-
cinali. Oggi è coltivata in tutto il mondo incluso Nord Africa, Europa e parti
dell’Asia.
Le radici e le foglie sono multifunzionali. Le radici sono una fonte eccel-
lente di inulina, un tipo di gomma usata nell’industria alimentare. Quelle ma-
ture sono spesso seccate ed arrostite per preparare un surrogato del caffè, men-
tre le radici appena spuntate e tenere, sono bollite e mangiate, così come le
foglie, come vegetale.

136
Capitolo 5 Bevande

Il caffè di cicoria è una bevanda con un gusto amaro e con note di spezie,
pepe e caramello. Non contiene caffeina e questo significa che è naturalmente
decaffeinato.
La data del suo utilizzo come surrogato del caffè non è sicura; di certo
esso divenne popolare nel periodo Napoleonico (circa 1808) a causa della
mancanza di caffè. Negli Stati Uniti la pratica di consumare caffè di cicoria
ebbe origine in Luisiana quando un blocco navale impedì gli approvvigiona-
menti al porto di New Orleans con conseguente carenza di materia prima.
Attraverso l’analisi di isotopi stabili (Stable Isotope Dilution Analysis)
sono stati individuati 46 composti; tra di essi il rotundone conferisce un aroma
speziato dal caratteristico impatto sensoriale. Sono anche presenti, fra gli altri,
sotolone, diidromaltolo, maltolo e pirazine. Il rotundone ha un caratteristico
aroma aromatico con note di legno, pepe dolce e caramello (12).

5.7 Anidride carbonica nelle bottiglie di acque minerali


frizzanti

Nella maggior parte dei paesi occidentali il consumo di acqua minerale in


bottiglia rappresenta un aspetto importante nella vita di tutti i giorni, con con-
sumi in costante aumento. Nel 2014 il mercato globale e’ stato pari a circa 290
miliardi di litri e si ritiene che nel 2020 possa raggiungere un valore di merca-
to pari a 280 miliardi di dollari (13).
Al giorno d’oggi il segmento delle acque minerali gassate (carbonatate), in
bottiglia, copre il 10% dell’intero settore; l’Europa ne è il maggiore produtto-
re-utilizzatore (75%), seguito dagli Stati Uniti (20%).
In un contesto in cui i rapporti dell’ONU e del WHO indicano chiara-
mente che il tasso di obesità sta crescendo, l’acqua gassata viene percepita
come un sostituto delle bevande dolci. Come indicato nella direttiva 54/CE
del Parlamento Europeo, del 18 Giugno 2009, le acque minerali carbonatate,
commercialmente disponibili in bottiglia, possono essere suddivise in tre
categorie:
1) acqua minerale naturale gassata (alla sorgente),
2) addizionata con gas, quando il contenuto di CO2 è presente alla sorgente,
ma il contenuto in bottiglia è maggiore di quello della sorgente
3) acqua minerale naturale carbonatata, quando la CO2 viene da una fonte
diversa da quella dell’acqua alla sorgente.
La presenza di CO2 sciolta nell’acqua gassata conferisce varie proprietà
sensoriali quali: presenza di bollicine nel bicchiere, sensazione di effervescen-
za, “perlage” ovvero velocità con cui le bollicine salgono nel bicchiere, perce-
zione della CO2 disciolta ed in fase gassosa che agisce sia sui recettori trige-
minali che su quelli gustativi. È stato recentemente chiarito che la soglia di
percezione della CO2 disciolta, è pari alla concentrazione di 1,2 g/L.

137
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

5.8 Succhi di frutta: il colore scuro

La presenza di un colore scuro durante la conservazione dei succhi di frut-


ta, come il succo d’arancia, di limone, di fragola etc, è uno degli indici di un
rapido deterioramento della qualità del prodotto e rappresenta un problema
importante per l’industria alimentare.
Le reazioni chimiche, che rendono il colore più scuro, possono aver luo-
go per via enzimatica e/o non enzimatica. Tuttavia, nel caso di succhi di
frutta (e.g. succo d’arancia) pastorizzati, nei quali la maggior parte degli
enzimi sono inattivati, l’inscurimento è dovuto soprattutto a reazioni non
enzimatiche.
Tra i possibili meccanismi responsabili di questo processo sono stati pro-
posti: a) la degradazione dell’acido ascorbico, b) la degradazione degli zuc-
cheri catalizzata dagli acidi, c) la reazione di Maillard.
I composti più importanti, che possiamo considerare come precursori
dell’inscurimento, sono l’acido ascorbico e composti correlati che, dopo de-
gradazione, danno composti carbonilici reattivi (furfurale e 5-idrossimetilfur-
furale); questi ultimi possono polimerizzare e/o reagire con amino acidi for-
mando composti scuri.
Inoltre, considerato il pH acido dei succhi, zuccheri riducenti (fruttosio e
glucosio) possono degradarsi per formare composti carbonilici reattivi, che
contribuiscono al processo di inscurimento, come accennato in precedenza.
Le condizioni acide del succo (pH minore di 4), possono ostacolare la rea-
zione di Maillard, cioè la reazione tra zuccheri riducenti ed il gruppo ammini-
co libero di amino acidi e/o proteine; questa catena di reazioni chimiche è
quindi meno importante nel processo di inscurimento (14).

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Capitolo 5 Bevande

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139
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Frutta 6
6.1 Classificazione e caratteristiche dei frutti

L’aroma è considerato un componente fondamentale della qualità della frut-


ta. L’esposizione ad un aroma è interpretata dal nostro cervello come il risultato
della combinazione tra i sensi del gusto e dell’olfatto retro nasale. Mentre la
percezione di dolce, salato, acido, amaro e umami da parte della lingua è il risul-
tato del senso del gusto (si veda sopra) la sensazione dell’aroma è il risultato dei
particolari composti organici volatili (VOCs) identificati dal bulbo olfattivo del-
la cavità nasale. Una volta combinata con i dati sensoriali della lingua, la perce-
zione olfattiva dei diversi tipi di VOCs, presenti in diversi rapporti, consente di
sperimentare una serie quasi infinita di aromi diversi. I consumatori sono dispo-
sti a pagare un prezzo più alto per la frutta con aromi di alta qualità ed è seguen-
do questa logica che si è giunti alla produzione dei pomodori (Tasti-Lee) con
aroma più intenso ed a nuovi frutti coltivati che emanano aromi particolari. Per
esempio, VOCs specifici che aumentano la percezione del dolce nel pomodoro
sono il geraniale, il 6-metil-5-epten-2-on ed il beta-ionone, mentre il linaloolo, il
butanoato di etile ed il furaneolo sono presenti nelle fragole. Altri VOCs aumen-
tano a loro volta l’acidità percepita in entrambi questi frutti.
A titolo esemplificativo, possiamo considerare l’impatto economico di
bacche del genus Vaccinium, in considerazione del fatto che il mercato mon-
diale dei soli mirtilli è in crescita costante (e rapida !). La sua produzione nel
2018 è stata pari a 914000 tonnellate e continua a aumentare secondo l’Inter-
national Blueberry Organisation (1).
I frutti sono comunemente classificati come pomacee, frutti con nocciolo,
bacche, frutti tropicali e subtropicali, frutti secchi con guscio duro e frutti sel-
vatici. Un frutto è un organo distinto che si sviluppa dal fiore, in particolare dal
suo tessuto femminile, l’ovario. Di solito presenta tre distinti strati, uno strato
esterno protettivo, la buccia che circonda la massa centrale ricca di aromi ed i
semi localizzati all’interno. Il contenuto di materia secca varia in genere fra il
10% ed il 20%. I maggiori costituenti sono zuccheri, polisaccaridi ed acidi
organici, mentre proteine e grassi sono presenti in percentuali minori. Le per-
centuali dei composti azotati sono nell’ordine di 0,1%–1,0% (il 75% proteine),
mentre i lipidi rappresentano lo 0.1%–0,5%.
La frutta fresca può essere divisa in due categorie, la climaterica e la non
climaterica, in base alla produzione di etilene ed alla respirazione cellulare
durante il suo stadio di maturazione.

140
Capitolo 6 Frutta

La maggior parte dei processi chimici che avvengono durante la matura-


zione della frutta è provocata da enzimi ospiti, che rompono le molecole com-
plesse, trasformandole in molecole più semplici. In alcuni casi lo stimolo può
essere esogeno, ad es. ricorrendo all’etilene, un gas che si produce spontanea-
mente anche all’interno (stimolo endogeno) del frutto.
Nei frutti climaterici, che includono mele, banane, meloni, albicocche, po-
modori e così via, la produzione di etilene e la respirazione cellulare aumenta-
no durante lo stadio di maturazione. In pratica, un frutto climaterico può con-
tinuare a maturare, anche se staccato dalla pianta, degradando amido accumu-
lato nelle fasi antecedenti la maturazione.
La causa principale del deterioramento è costituita dai cambiamenti causa-
ti dall’etilene, un composto chiave associato al processo di maturazione; per
aumentare la vita del frutto, dopo che è stato raccolto, è importante controllare
la presenza-attività di questo gas.
Nella letteratura scientifica sono descritte molte tecnologie di controllo
dell’etilene, tra cui: la soppressione della sintesi con temperatura-atmosfera
controllata, trattamento con argento o rimozione con radiazione ultravioletta
sotto vuoto/ozono, KMnO4 o nano–TiO 2.
A loro volta, i frutti non climaterici staccati dalla pianta non giungono a
maturazione se non sono trattati con etilene. Uva, ciliegia, fragola, fico, agru-
mi, ananas, lampone non presentano infatti il picco climaterico.
Studi epidemiologici hanno mostrato che le diete ricche di frutta riduco-
no l’incidenza di disturbi cronici, inclusi i disordini gastrointestinali. Si ri-
tiene che questi effetti benefici siano dovuti alla presenza di componenti
dotati di attività antinfiammatoria e antiossidante. Per questa ragione, la
maggior parte delle ricerche si è concentrata sui metaboliti secondari di bas-
so peso molecolare (i fitochimici) quali carotenoidi, tocoferoli, acido ascor-
bico e flavonoidi. Fra i polisaccaridi vanno ricordate le pectine, fibre che
costituiscono la porzione del frutto che resiste alla digestione nello stomaco
e nel piccolo intestino. Negli ultimi 30 anni, la possibilità che la frutta e le
verdure possano ridurre il rischio di tumori è stata oggetto di molti studi;
tuttavia i loro effetti protettivi non sono ancora stati provati in modo inequi-
vocabile.

6.2 Frutti tropicali

La superfice delle terre emerse, comprese fra i tropici, occupa circa il 36%
della superfice terrestre globale, vi abita un terzo della popolazione mondiale
ed il clima tropicale è tipico delle aree più calde (hotspots) della terra, influen-
zando la biodiversità delle piante (2,3).
Gli alimenti che crescono nelle aree tropicali, come riso, frutta e alghe
marine sono componenti importanti delle diete tradizionali e rappresentano

141
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

una quota molto importante dei mercati mondiali (4). I più noti alimenti tropi-
cali sono i frutti, come ad es. il mango, l’ananas, la papaia, la banana rossa e
l'avocado.

6.3 Banana

La banana (Musa spp.) è il secondo frutto maggiormente prodotto nel


mondo, con più di 145 milioni di tonnellate nel 2017 (5). La pianta viene col-
tivata in più di 130 paesi su una superficie che occupa almeno 5,5 milioni di
ettari e serve come principale fonte di carboidrati per milioni di persone.
Il banano si riproduce attraverso i polloni che crescono durante tutto l’an-
no e per questo rappresenta una coltivazione particolarmente redditizia (6).
La maggior parte delle banane commestibili appartengono alla sezione Eu-
musa, genus Musa. Quelle da dessert sono mangiate tal quali quando sono
mature, mentre quelle contenenti amido sono consumate dopo essere state cot-
te. Entrambi i tipi di banane possono essere utilizzati per dare succhi, purè o
farine. Sono largamente consumate in tutti i paesi del mondo e costituiscono,
ad esempio, il terzo frutto più consumato in Europa, negli Stati Uniti ed in
Canada, con valori medi di assunzione pari, rispettivamente, a 20, 34 e 43
grammi al giorno (7). La polpa può essere bianca, color crema, avorio e aran-
cio. Hanno un potere nutrizionale relativamente elevato essendo ricche di fibre
alimentari, carboidrati, vitamine A e C e minerali.
Contengono alte concentrazioni di potassio, magnesio, folati ed un insieme
di composti biologicamente attivi che comprendono ammine biogene, polifeno-
li, fitosteroli e beta-carotene. Questi composti hanno un impatto favorevole sulla
salute, contribuiscono a regolare il profilo dei lipidi plasmatici ed a prevenire la
carenza di vitamina A. Questo rende questi frutti un alimento pressochè insosti-
tuibile in Africa e nel sud Est Asiatico, dove il tasso di malnutrizione è elevato
con particolare carenza di questa vitamina. A differenza delle banane mature,
quelle acerbe verdi contengono una bassa quantità di zuccheri come il glucosio,
ma una maggiore quantità di amido resistente (RS, Resistant Starch),
Le banane verdi possono essere seccate e macinate per dare una farina che
può essere utilizzata per ridurre l’incidenza della sindrome metabolica e dei
sintomi gastrointestinali, controllare il metabolismo glicemico/insulina, il
peso corporeo e le complicazioni renali ed epatiche associate al diabete. Que-
sta farina ricca in RS riduce il senso di fame, aumenta il senso di sazietà e la
sensibilità insulinica in soggetti sani (8).
Recentemente, attraverso diverse tecniche di coltivazione tradizionale o
grazie a coltivazioni di piante transgeniche, è stato possibile ottenere banane
con un maggior contenuto (fortificate) di beta-carotene, il più potente carote-
noide pVAC (proVitamina A Carotenoide). I carotenoidi sono precursori della
vitamina A, di cui rappresentano una fonte importante. Vi è una correlazione

142
Capitolo 6 Frutta

significativa tra il loro contenuto ed il colore della polpa; la maggiore quantità


è presente nella polpa del frutto comunemente denominato banana rossa (Red
Banana).

6.4 Avocado

L’avocado (Persea americana) è un frutto ricco in acidi grassi mono-insa-


turi (MUFA), con un ottimo profilo nutrizionale in quanto fonte di antiossidan-
ti e polifenoli.
Il consumo di un avocado/die, come componente di una dieta moderata in
grassi, è in grado di controllare la colesterolemia, riducendo le LDL, come
dimostrato in adulti sovrappeso o obesi. Questi effetti favorevoli sono proba-
bilmente dovuti alle sinergie che si instaurano fra i composti biologicamente
attivi in esso presenti e gli acidi grassi.
L’avocado possiede un caratteristico profilo-corredo nutrizionale, che
sembra giocare un ruolo importante nel ridurre l’ossidazione delle LDL e
quindi la loro aterogenicità (9).

6.5 Mango

Il Mango (Mangifera indica) è un frutto tropicale che contiene molti mi-


cronutrienti essenziali, solubili sia in acqua che nei lipidi, assieme a fitochimi-
ci come gallotannnini e mangiferina. Il mango ed i suoi sottoprodotti riducono
il rischio di malattie metaboliche e patologie associate ad un quadro infiamma-
torio; è stata documentata una ridotta glicemia in adulti obesi, senza alterare il
peso corporeo e la composizione corporea

6.6 Papaia

La Papaia (Carica papaya L.) è un altro frutto tropicale, il cui utilizzo sem-
bra essere interessante nella prevenzione e trattamento dell’obesità e dei disor-
dini metabolici ad essa associati. La sua polpa contiene infatti le vitamine A,
C, E, B, acido pantotenico, folati e minerali come magnesio e potassio, così
come fibre alimentari.

6.7 Kiwi

È un frutto originario della Cina, che ne è il maggior produttore mondiale


con circa un milione di tonnellate all’anno (38%), seguita da Italia, Nuova

143
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Zelanda, Cile e Grecia. Si contano più di 70 specie, di cui Actinidia deliciosa


e Actidinia chinensis sono quelle commercialmente più importanti.
Il frutto verde del Kiwi (Actinidia deliciosa var. Hayward) è uno dei più
nutrienti, con alto contenuto di vitamina C (92,7 mg per 100 g di frutto fre-
sco) e vitamina E (1,49 mg per 100 g di frutto fresco). Un altro gruppo di
importanti composti biologicamente attivi è costituito dai polifenoli con le
loro proprietà antiossidanti, a cui si aggiungono minerali come Fe, Zn, Cu,
Se e Cr. Grazie all’alto contenuto di acqua e fibre, il kiwi ha un basso conte-
nuto calorico. Anche il profilo degli zuccheri è compatibile con la dieta; esso
consiste in quantità analoghe di glucosio e fruttosio e livelli modesti di sac-
carosio.
Il contenuto di fibra (3 g/100 g di frutto fresco) è paragonabile a quello di
altri frutti ed è ripartito in: fibra insolubile (2/3) e fibra solubile di (1/3). La
prima è costituita da emicellulose, cellulosa e pectina, mentre la seconda so-
prattutto da polisaccaridi della pectina. La fibra del kiwi ha alcune proprietà
peculiari, in quanto la sua capacità di rigonfiarsi è superiore (almeno x 6) ri-
spetto alla fibra della mela e x 1.5 rispetto a quella dello psillio. La fibra può
contribuire alla formazione di feci di grosse dimensioni ed inoltre, essendo
completamente fermentata dalla microflora, può regolarne lo sviluppo.
Questo frutto non è una fonte significativa di proteine, quella predominan-
te è l’actinidina, una proteasi della cisteina, con attività proteolitica e struttura
simile a quella della papaina.
Il consumo di kiwi è raccomandato per migliorare il confort addomina-
le-intestinale in soggetti che soffrono di costipazione e della sindrome dell’in-
testino irritabile (circa l’11% di adulti nel mondo). È chiaro che questi effetti
benefici non sono solo dovuti alla fibra, ma anche ad una corretta digestione
gastrica e intestinale (ileale), così come ad un transito intestinale regolare e
facilitato (10).
Altri effetti benefici per la salute includono attività antidiabetiche, car-
dio-protettive, antimicrobiche ed antinfiammatorie (11).

6.8 Melagrana

La melagrana (Punica granum L), è un’antica pianta perenne della fami-


glia delle Punicaceae, è citata nel Corano come frutto del Paradiso per il suo
gusto piacevole e le sue proprietà salutari. È considerata un “superfrutto” ricco
in antiossidanti e fitochimici.
Gli arili, la parte commestibile, sono usati per la produzione del succo, che
è ricco in acidi organici e fenoli, con un colore che varia dal rosa al rosso.
Contengono acqua (85%), zuccheri totali (glucosio, saccarosio e fruttosio),
acidi organici (acido ascorbico, citrico e malico), amino acidi (prolina, valina
e metionina) e composti fenolici. Questi ultimi includono tannini idrolizzabili

144
Capitolo 6 Frutta

(ellagitannini), gallotannini e tannini condensati. L’intenso colore rosso è do-


vuto alla presenza di antocianine.
La presenza di questi fitochimici è correlata agli effetti benefici per lo stato
di salute, in particolare per il trattamento di obesità e diabete e per le proprietà
antinfiammatorie.

6.9 Le nocciole tostate, proprietà ed effetti

La Turchia è il maggiore produttore mondiale di nocciole (Corylus avella-


na L), con 600000 tonnellate nel 2017, pari a circa il 70% della produzione
complessiva. La grande maggioranza, circa il 95%, è consumata, dopo la tosta-
tura; questo procedimento ne assicura l’aroma ottimale per la produzione di
specifiche tipologie di cioccolata, confetture, dolciumi e prodotti da forno. La
tostatura è di solito effettuata a temperature varianti fra 100-160°C per 10-60
minuti; tale processo contribuisce non solo alla formazione dell’aroma, ma
migliora anche la consistenza ed il colore, aumenta l’attività antiossidante,
inibisce l’attività enzimatica, la proliferazione di microrganismi e riduce il
potenziale allergenico.
Le nocciole hanno un alto contenuto di lipidi (più del 50%), specialmente
acidi grassi monoinsaturi (MUFA), sono ricche in proteine (circa il 15%) e
contengono amino acidi essenziali così come zuccheri riducenti. Durante la
tostatura ha luogo, inevitabilmente, la reazione di Maillard e la degradazione
degli zuccheri, in particolare fruttosio e glucosio. Essi contribuiscono non solo
alla formazione di composti alfa dicarbonilici reattivi, ma anche del 5-idrossi-
metilfurfurale (12).

6.10 Mandorle

Vi sono più di 30 varietà di mandorle coltivate nel mondo; negli Stati Uni-
ti i mandorli crescono principalmente in California, la cui produzione è pari a
circa l’80% della produzione mondiale.
Sono considerate un alimento ricco di nutrienti (Nutrient-dense food), es-
sendo ricco in proteine, acidi grassi insaturi, fibre della dieta e micronutrienti.
Avendo un basso carico glicemico, il loro consumo può ridurre i rischi di ma-
lattie cardiometaboliche, abbassa la colesterolemia LDL, la glicemia ed alcuni
markers infiammatori. Il loro consumo abituale dovrebbe essere incoraggiato
come parte di una dieta salutare.
Nell’industria esse vengono classificate in base a criteri quali l’aspetto del
guscio, del frutto e l’aroma. I fenotipi di quest’ultimo sono diversi: dolce,
leggermente amaro, amaro. L’intensità del gusto amaro è legato alla presenza
di un composto naturale, l’amigdalina (vitamina B17). Le mandorle amare ne

145
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

sono particolarmente ricche, mentre è presente solo in tracce nelle mandorle


dolci. L’amigdalina è un glicoside cianogenetico che viene idrolizzato a livello
intestinale, rilasciando acido cianidrico e benzaldeide; un elevato consumo di
mandorle amare può provocare avvelenamento. È opportuno ricordare che la
benzaldeide, uno dei prodotti dell’idrolisi, non è tossica ed è responsabile
dell’aroma di mandorle presente negli estratti di oli sintetici ed essenze.
Le analisi chimiche e sensoriali hanno legato l’amigdalina e la benzaldeide
al gusto del marzapane, un dolce caratteristico della tradizione siciliana pro-
dotto con pasta di mandorle dolci. Le molteplici varietà di mandorle dolci
differiscono nei rispettivi profili di metaboliti volatili e non volatili (piranosidi,
peptidi, amino acidi) e nel contenuto di tocoferolo ed acidi grassi. Variano
anche i contenuti di fibre, ceneri, minerali (K e Zn), di riboflavina, niacina,
beta-sitosterolo e stigmasterolo.
Generalmente le mandorle sono utilizzate e consumate previa tostatura.
Questo processo aumenta le concentrazioni di pirazine, furani e pirroli, attra-
verso una reazione di Maillard non enzimatica; inoltre, contribuisce a ridurne le
concentrazioni di benzaldeide e di alcuni alcoli. Esso produce inoltre aromi,
come le note di bruciato e ne modifica la consistenza che diviene più croccante.
Le mandorle sono anche sensibili alle diverse modalità di conservazione e
si possono deteriorare a causa di umidità e/o ossidazione dei lipidi, con svilup-
po di gusto rancido (13).

6.11 Ribes nero

Il ribes nero (Ribes nigrum), appartenente alla famiglia delle Glossularia-


ceae, come il ribes rosso e quello bianco; rappresenta un settore di grande
importanza per l’agricoltura, che garantisce prodotti caratteristici e di qualità
per l’industria alimentare. È ampiamente coltivato in Europa, Asia e Nord
America.
La quasi totalità della produzione mondiale ha luogo in Europa. Nel 2017
la produzione di gelsi (Morus) è stata di circa 600000 tonnellate di bacche
fresche, fra cui il gelso nero (Morus Nigra) è stata la varietà dominante (14).
La maggior parte di gelso nero è trasformata in succhi ed il resto è consu-
mato come bacche fresche o congelate, così come gli estratti, utilizzati come
integratori alimentari e nell’industria dei profumi. È anche alla base della
“crème de cassis” (noto con questo nome in Francia), un liquore alcolico (20%
v/v), da cui si prepara il kir con l’aggiunta di vino bianco.
Il gelso nero può esercitare effetti benefici per la salute poiché contiene
composti biologicamente attivi, come la vitamina C, antocianine, proantocia-
nidine ed acidi grassi polinsaturi. Essi includono effetti antinfiammatori, an-
tiossidanti e antibatterici, così come un potenziale terapeutico per patologie
cardiovascolari o del sistema nervoso.

146
Capitolo 6 Frutta

6.12 Uva

L’uva (Vitis vinifera L.) è una componente essenziale della dieta Mediter-
ranea e la fonte di una molteplicità di elementi bioattivi con proprietà antiossi-
danti, come resveratrolo, flavonoidi e quercetina (15).
Molti studi epidemiologici hanno messo in luce che il regolare consumo
dell’uva (uva da tavola) o di prodotti, come succo e vino, è associato ad una
minore incidenza di malattie cardiovascolari.
Dai primi anni novanta è emerso che un uso moderato di vino rosso,
con alti livelli di fitochimici ed antiossidanti, riduce il rischio di malattie
coronariche, anche in paesi (e.g. Francia) le cui tradizioni alimentari sono
ricche in grassi saturi. A questo proposito è stato coniato il termine di “pa-
radosso francese”. Tuttavia, la scarsa biodisponibilità di resveratrolo, il po-
lifenolo più rappresentativo e le sue basse concentrazioni nei prodotti
dell’uva suggeriscono che altri prodotti sconosciuti siano alla base della
cardioprotezione.
Il succo d’uva, una bevanda non alcolica, ha effetti cardioprotettivi, nono-
stante esso contenga meno resveratrolo del vino rosso. Perciò è plausibile che,
anche in questo caso, altri composti siano responsabili dei benefici cardiaci.
Gli autori sopra indicati hanno valutato l’impatto dell’assunzione di succo di
uva rossa (da cultivar Sangiovese Toscano, una delle varietà d’uva più coltiva-
te in Italia) in un modello sperimentale (topo) di infarto del miocardio confer-
mandone la cardioprotezione. Questi risultati aprono nuove prospettive allo
sviluppo di alimenti funzionali che possano assicurare una cardioprotezione
farmacologica.

6.13 Agrumi

Arancia è l’antico nome del frutto in sanscrito (naranga); limone e lime


sono di origine persiana e fanno riferimento al percorso di questi agrumi
dall’Asia all’Occidente; cedro deriva dal greco kedros.
Gli agrumi sono i frutti sempreverdi della famiglia delle Rutacee, caratte-
rizzati da una buccia verde–arancio, il cui strato interno aderisce alla polpa
costituita da vescicole che contengono cellule microscopiche. La buccia è co-
stituita da una parte esterna, il flavedo e da una parte interna bianca e di sapore
amaro, l’albedo. La prima, che viene in genere eliminata, è molto ricca di ter-
peni ed antiossidanti fenolici, che costituiscono dei validi fitochimici.
La famiglia del cedro (limoni, arance, pompelmi e affini) è fra le più im-
portanti fra gli alberi da frutto. Dai luoghi d’origine nel sud della Cina, India
del nord e sud est dell’Asia, gli agrumi si sono diffusi nelle zone sub–tropicali
ed in quelle temperate.

147
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Si ritiene che questo “viaggio” abbia avuto inizio intorno al 500 a.C. e le
arance amare avevano raggiunto il medio Oriente e l’Europa già all’epoca del-
le crociate. Quelle dolci furono portate dai mercanti Portoghesi attorno al 1500
e introdotte nelle Americhe dagli esploratori Spagnoli. Brasile e Stati Uniti
sono i maggiori produttori mondiali.
Si pensa che tutti i frutti del cedro, addomesticati, derivino da tre soli pro-
genitori: il cedro (Citrus medica), il mandarino (Citrus reticolata) ed il pomelo
(Citrus grandis).
Da questi capostipiti discendono l’arancia amara (Citrus aurantium), quel-
la dolce (Citrus sinensis, probabilmente da pomelo e mandarino), pompelmo
(Citrus paradisi, da pomelo e arancia dolce), lime aspra (Citrus aurantifolia),
limone (Citrus limonum), chinotto (Citrus myrtifolia). Il mandarancio o cle-
mentina è secondo alcuni un ibrido dell’arancio e del mandarino, secondo altri
un incrocio fra il mandarino ed il chinotto. Il mapo è a sua volta un incrocio
ibrido di mandarino e pompelmo.
Le piante del genere Citrus rappresentano la famiglia più importante al mon-
do fra gli alberi da frutto. Circa i tre quarti di tutti i frutti sono arance; la varietà
più diffusa è la Navel, una varietà Brasiliana arrivata negli Stati Uniti nel 1870.
A sua volta la produzione annua di mandarini è dell’ordine di 24 milioni di ton-
nellate. Essi si suddividono in vari sottogruppi, che includono il mandarino co-
mune (Citrus reticolata Blanco) e la clementina (Citrus clementina).
I frutti Citrus devono il loro colore giallo-arancio ad una complessa misce-
la di carotenoidi; durante la maturazione, la clorofilla scompare dalla pelle e le
colorazioni diventano più evidenti. Il rosso porpora delle arance rosse deriva
dalle antocianine, mentre i pompelmi rosa sono colorati dal licopene. L’aroma
è prodotto da esteri fruttati, aldeidi, chetoni, acidi ed una miscela di terpeni
come il limonene, (presente nell’arancia in misura del 90%, nel limone 54%–
80%, nel bergamotto 25%–32%) ed il beta–mircene. Questi oli essenziali sono
largamente usati nelle industrie alimentari e farmaceutiche per la loro attività
antifungina (16).
Il gusto degli agrumi è legato all’acido citrico, agli zuccheri ed a composti
fenolici che sono concentrati nell’albedo. Sono presenti quantità significative
di glutammati. Nell’arancia, vitamina C e vitamina A arrivano fino a 75 mg per
100 g di frutto.
La principale classe di polifenoli è costituita da flavonoidi, i più abbondan-
ti antiossidanti naturali presenti nella nostra dieta. Quelli dei Citrus apparten-
gono a tre sottogruppi principali: flavanoni (soprattutto di e tri–O glicosidi e
C–glicosidi), flavone (forma glicosidica) e polimetossiflavoni.
Gli O–glicosidi in arance, mandarini e limoni sono presenti soprattutto
sotto forma di rutinosidi (fra cui esperidina, naritunina, eriocitrina). I limoni si
differenziano dagli altri agrumi perché sono i soli a contenere flavonoli (17).
Tra i flavonoidi, quelli del Citrus esercitano una moderata attività “scaven-
ger” nei confronti di specie radicaliche dell’ossigeno. Le loro attività biologi-

148
Capitolo 6 Frutta

che comprendono: azione antiossidante, riduzione della colesterolemia e gli-


cemia, attività antinfiammatoria. Essi posseggono anche proprietà di chemio-
prevenzione sulla cancerogenesi della vescica, colon, polmone, prostata, seno
e del cavo orale.
Sono stati documentati effetti neuroprotettivi nei confronti del danno ossi-
dativo e nel mantenimento della memoria. La caduta spontanea-fisiologica di
frutti del cedro, quando sono ancora verdi, fa si che questi abbiano un conte-
nuto di fitochimici bioattivi superiore a quello dei frutti maturi ed una maggio-
re attività antiossidante (18). Tra i flavonoidi, l’esperidina si trova soprattutto
nei mandarini e nelle arance dolci, mentre la naringina è presente principal-
mente nelle arance amare e nei pompelmi. I principali acidi fenolici sono gli
acidi idrossicinnamici, con prevalenza dell’acido ferulico e del caffeico. I frut-
ti sono apprezzati in tutto il mondo per la fragranza della loro buccia e le loro
proprietà organolettiche e salutari. I flavonoidi (principalmente flavanoni, fla-
voni e polimetossiflavoni) sono caratterizzati da una spiccata attività biologi-
ca, e.g. antiossidanti, antitumorali ed antinfiammatori. I metaboliti più rappre-
sentativi per la loro attività antiossidante sono l’isperidina, la neoisperidina e
l’esperetina, che possono attraversare la barriera emato-encefalica e protegge-
re da processi neurodegenerativi favorendo le funzioni cerebrali (19).
La produzione mondiale di arance (Citrus sinensis) nel 2017 è stata pari a 73
milioni di tonnelate e questi frutti rappresentano una ricca fonte di minerali, vita-
mina C, flavanoni e carotenoidi. Le arance hanno importanti proprietà salutari ed
il loro consumo aiuta a prevenire patologie cardiovascolari e controllare la pres-
sione arteriosa in fase di diastole (pressione diastolica o, comunemente “la mini-
ma”). Inoltre il consumo regolare abbassa i livelli plasmatici di acido urico (uri-
cemia), contribuendo, potenzialmente, alla prevenzione della gotta (20).

6.14 Fragole

Le fragole (Fragaria x ananassa Duch.ex Rozier) sono coltivate in tutto il


mondo e hanno una importanza economica che è stata valutata nel 2017 più di
10 miliardi di dollari (21).
Il maggiore produttore mondiale è la Cina (40%), seguita dagli Stati Uniti
(16%). La qualità dell’aroma, il gusto e la testura sono i fattori più importanti
per il loro acquisto e consumo. Circa il 70% è consumato fresco.
Il loro gusto dipende dalla composizione degli zuccheri (saccarosio, gluco-
sio e fruttosio) e dagli acidi organici (acido citrico e acido malico).
Molto complesso è invece il profilo volatile; sono stati identificati più di
360 composti volatili, che appartengono a 15 classi di sostanze, inclusi esteri,
furanoni, terpeni, alcoli, lattoni, altri chetoni, aldeidi e composti solforati. L’a-
roma delle fragole è largamente determinato a fattori endogeni (fenotipo) e
esogeni (ambiente, geografia, tempo e giacenza dopo il raccolto).

149
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

6.15 Fruttosio della dieta e obesità

Sono emerse evidenze che il piccolo intestino agisce come un portiere


per il corpo di un mammifero per impedire gli effetti dannosi del fruttosio, il
più importante dei quali è l’accumulo aberrante di grasso (detto steatosi) nel
fegato.
Una quantità moderata di fruttosio, per esempio quella ingerita quando si
consuma un frutto, viene presa e rotta dalle cellule intestinali. Quantità ecces-
sive, come quelle ingerite dopo aver bevuto una bevanda zuccherata, oltrepas-
sano la capacità di assorbimento dell’intestino e il fruttosio o cola nel flusso
sanguigno raggiungendo intatto il fegato o trabocca dal piccolo intestino e
raggiunge il colon.
Qui esso è rotto da batteri residenti per produrre molecole che possono
allora alimentare la sintesi di lipidi nel fegato.
Inoltre il fruttosio aumenta la fuoriuscita intestinale, una condizione in cui
le connessioni allentate fra le cellule dell’intestino consentono ai nutrienti in-
geriti e alle tossine dai batteri nel colon, di scappare nel fegato, dove essi atti-
vano segnali infiammatori che scatenano la steatosi.
Perciò, l’eccesso di fruttosio danneggia il fegato sia direttamente che indi-
rettamente attraverso i cambiamenti nell’intestino (22).

6.16 Biomarker per valutare la quantità totale di frutta e


verdura

Nonostante l’enorme sviluppo nella scienza e nella tecnologia nelle ultime


decadi, bisogna notare che una valutazione accurata delle assunzioni dieteti-
che degli individui resta un traguardo scientifico non risolto. Questo rappre-
senta un ostacolo formidabile per la comprensione del ruolo della dieta sulla
salute e spinge alla ricerca di tecniche complementari che possano fornire una
riflessione più oggettiva sulle assunzioni con la dieta. Biomarker di assunzioni
alimentari specifiche potrebbero servire a questo scopo.
Owen e collaboratori hanno trovato che l’inclusione di sette frutti e vege-
tali (pomodori, mele, carote, banane, pere, fragole e cipolle) consentono un
modello predittivo che consente un accordo eccellente fra l’assunzione totale
predetta e osservata di tutti i frutti e vegetali assunti (23).
Le attuali raccomandazioni di assunzione giornaliera di frutta e verdura
variano dalle 5 porzioni (400 g) per WHO e Public Health England, a 7,5 por-
zioni (600 g) del Ministero Danese.
Il progresso nella identificazione e validazione di biomarker fornisce
un’opportunità favorevole per ottenere un valore oggettivo dell’assunzione to-
tale di FV.

150
Capitolo 6 Frutta

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152
Capitolo 7 Verdure e spezie

Verdure e spezie 7
7.1 Diete vegetariane

Le diete vegetariane sono state adottate fin dal diciottesimo secolo a.C. in
cerca di salute fisica e spirituale. Non a caso l’etimologia del termine dieta
deriva dal greco daita = regola di vita; già Pitagora riteneva che essa dovesse
far parte di uno stile di vita ascetico.
Si basano su un’ampia varietà di alimenti che include praticamente ogni
parte delle piante, quali frutti, semi, foglie, radici e tuberi. Studi recenti hanno
messo in luce che i Nativi Americani (popolazioni che abitavano il continente
americano prima della colonizzazione europea) utilizzavano più di 130 specie.
I componenti principali dei vegetali a foglia e di radici e tuberi sono riassunti
in Tabella.

Tabella. g/100g di materia commestibile. Elaborata da 1.


Vegetali a foglia Radici e tuberi
Acqua 84,3–94,7 62,3–94,6
Proteine 0,2–3,9 0,1–4,9
Grassi 0,2–1,4 0,1–0,4
Zucchero 1,5–4,9 0,5–9,5
Amido 0,1–0,8 11,8–31,4
Fibre della dieta 1,2–4,0 1,1–9,5
Energia kcal 65–177 297–525

Come abbiamo già visto nella parte generale, numerosi studi epidemiolo-
gici degli ultimi vent’anni hanno dimostrato che vi è una stretta associazione
fra una dieta ricca di vegetali e frutta (e relativamente povera di carne) ed un
buono stato di salute.
I vegetali e la frutta, onnipresenti in una dieta standard nei paesi occidentali,
comprendono più di quaranta diverse famiglie botaniche, in cui sono stati
identificati numerosi nutrienti come vitamine, minerali, fibre. Particolarmente
interessanti sono i composti definibili come fitochimici o fitonutrienti, che
sono composti specifici e biologicamente attivi. Ne sono stati individuati più
di 5000 ma è molto probabile che un gran numero resti ancora sconosciuto. A
questo proposito, è opportuno porsi la seguente domanda: i fitochimici purifi-

153
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

cati hanno lo stesso effetto salutare rispetto a quelli che ritroviamo presenti nel
cibo completo? La risposta è negativa!. Un composto isolato ed in forma chi-
micamente pura non è più bioattivo o lo è molto meno.
Questo è stato verificato, ad esempio, per il beta-carotene presente in molti
vegetali; esso è molto attivo nel prevenire il cancro del polmone, se assunto con
i vegetali interi, mentre può essere addirittura controproducente allo stato puro.
Gli alimenti colorati (dal giallo zafferano, al blu viola della melanzana)
hanno proprietà antiossidanti, hanno cioè la capacità di difendere il nostro or-
ganismo dai danni causati dai radicali liberi dell’ossigeno; questi ultimi sono
una specie molto instabile dal punto di vista chimico che, a causa di un elettrone
spaiato, reagisce immediatamente con tutto ciò che si trova nel microambiente
circostante.
L’importanza dei radicali liberi può essere facilmente compresa se si
considera che essi attaccano molto facilmente le macromolecole organiche
(carboidrati, lipidi, proteine, acidi nucleici), i “mattoni” di molti sistemi biolo-
gici, dando luogo allo stress ossidativo.
Ogni colore è indicativo della presenza di uno o più fitochimici dotati di
meccanismi antiossidanti ed azioni protettive diverse. Uno dei consigli più
semplici e di facile attuazione quando si vuole arricchire la propria dieta con
frutta e vegetali, è quello di combinare alimenti di colore diverso.
L’azione dei fitochimici è coadiuvata da quella di oligoelementi e di vita-
mine. Queste possono derivare dai cibi vegetali, ad eccezione della vitamina
B12, presente solo nei cibi di origine animale e delle vitamine A e D presenti
nei vegetali solo sotto forma di pro–vitamine. Le vitamine o pro–vitamine con
attività anti-ossidante sono le vitamine C, E ed i betacaroteni.
Per quanto riguarda gli oligoelementi, frutta e verdura sono ricche di
metalli come il manganese, mentre la patata, se coltivata in condizioni oppor-
tune, può diventare fonte di selenio.
Le pectine contenute in grandi quantità nella frutta e le fibre in generale,
favoriscono un’azione ipocolesterolemizzante. L’alto contenuto di fibre e di
minerali, quali potassio e magnesio, contribuisce a controllare i valori pressori
in soggetti ipertesi.
Le liliacee (aglio, scalogno, cipolla) e le crucifere (cavolini di Bruxelles,
broccoli, cavoli e crescione) sono ricche di isotiocianati, importanti attivatori
di enzimi impegnati nella detossificazione epatica.
La combinazione di frutta e verdure può avere sia un effetto sinergico che
additivo; questo probabilmente spiega, almeno in parte, perché un singolo
antiossidante non può sostituire i fitochimici (fino ad 8000) presenti nel frutto
intero. Le pillole o le tavolette non possono imitare la combinazione bilanciata
di fitochimici presenti nella frutta e nella verdura.
Le verdure hanno in comune un valore di pH acido (dati FDA). Nei crauti
esso è 3,4-3,6; nelle olive verdi 3,4-3.8, negli asparagi 4,0-6,0; nei pomodori
4.2-4,8; nelle melanzane 4,5-4,9; nei fagiolini 4,6; nelle carote 4,9-5,2; nel

154
Capitolo 7 Verdure e spezie

cavolo 5,2-6,0; nelle cipolle 5,3-5,8; negli spinaci 5,5-6,8; nei carciofi 5,6; nei
cavolfiori 5,6; nei fagioli 5,7-6,2; nella lattuga 5,8-6,0, nelle patate 6,1.
Lo stesso accade per la frutta: il pH dei limoni 2,2-2,4; prugne 2,8-4,6;
melagrane 3,0; fragole 3,0-3,5; mele 3,4-3,5; uva 3,4-4,5; banane 4,5-5,2.
Tra le quasi 3000 specie di spezie approvate come sicure dalla Flavor and
Extract Manufacturer Association degli Stati Uniti (FEMA) più di un decimo
contengono composti solforati (2). Esse di solito provocano una risposta a
piccole dosi e svolgono un ruolo importante per quanto riguarda i condimenti
di carni, alimenti marini, caffè, cipolle, aglio, porri e frutti tropicali. Le spezie
contenenti zolfo hanno molte proprietà biologiche e funzionali per cui sono
spesso usate dall’industria alimentare e farmaceutica.
In anni recenti, molti studi ha messo in luce le loro molteplici attività, e.g.
antiossidante, antinfiammatoria, antiobesità, antitumorale, insetticida e nema-
ticida. In aggiunta, le spezie contenenti zolfo hanno la capacità di eliminare le
sostanze cancerogene durante la preparazione dei cibi e di proteggere i metal-
li da sostanze corrosive.

7.2 Spinaci

Le Dietary Guidelines for Americans (DGA) pubblicate nel 2015 incorag-


giano il consumo di alimenti ricchi di nutrienti per soddisfare il normale
fabbisogno alimentare e fornire l’apporto essenziale per prevenire patologie
croniche.
Gli spinaci (Spinacia oleracea L.) sono un vegetale di comune uso alimen-
tare, ricco in nutrienti e fonte di vitamine (K, C, A, E e B6), oltre a minerali
essenziali quali ferro, potassio e magnesio.
Negli spinaci la frazione lipidica (0,4%) è composta principalmente da
acidi grassi mono e polinsaturi. Essi sono anche fonte di fibre, principalmente
insolubili, con un contenuto medio di 2-3 g per 100 g; inoltre contengono
composti fenolici e carotenoidi, appartenenti a varie classi e clorofilla.
I carotenoidi non-provitamina A e la clorofilla hanno un valore dietetico
modesto; pur tuttavia, essi sono stati associati ad un ridotto rischio di patologie
croniche, che includono tumori, affezioni cardio-vascolari, malattie neurode-
generative e disturbi oculari.
Il beta-carotene, un carotenoide di primaria importanza negli spinaci, è ben
noto per la sua attività di provitamina A (3). Il contenuto totale di carotenoidi
è di 7-17 mg per 100 g, soprattutto luteina, beta-carotene e zeaxantina. Tra i
composti fenolici vi è una vasta gamma di flavonoidi (100-300 mg per 100 g).
Gli acidi fenolici predominanti (40-125 mg per 100 g), sono o-cumarico,
p-cumarico, ferulico.
Gli spinaci esercitano effetti benefici sul microbiota intestinale, miglioran-
do la risposta insulinica e regolando l’appetito. Il loro consumo contribuisce

155
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

all’equilibrio della flora intestinale e previene la displipidemia, come dimo-


strato da studi condotti in modelli sperimentali di fegato grasso non alcolico
(4). Essi aumentano in particolare i Lactobacillus, riducono l’iperglicemia a
digiuno e l’accumulo di colesterolo nel fegato.

7.3 Patate

La patata (Solanum tuberosum) fa parte della famiglia delle Solanaceae, i


cui maggiori produttori mondiali sono la Cina e l’india. È originaria delle
Ande, dove è presente in più di 150 specie ed è stata domesticata attorno al
lago Titicaca, fra Bolivia e Perù; chiamata “papa” dagli Spagnoli, arriva in
Europa verso il 1570.
Diffusasi rapidamente ed in grado di dare un rendimento maggiore rispetto
ai cereali, è diventata un caposaldo dell’utilizzo alimentare e culinario. Contie-
ne poche proteine, ma di ottima qualità, per la presenza di tutti gli amino acidi
essenziali, che invece mancano in molti cereali e legumi. Per questa ragione
sono stati i primi vegetali a crescere nello spazio, a bordo della navicella Co-
lumbia nel 1995.
Vanno conservate fuori dal frigorifero, a temperatura ambiente ed al buio
per evitare la formazione di solanine, glicoalcalodi tossici, che per legge devo-
no essere presenti al massimo in misura di 200 mg, per kg di patate crude.
Vi sono più di 200 specie di patate (Solanacee), la stessa famiglia di pomo-
dori, peperoni e tabacco, il cui nome deriverebbe dalla parola haitiana batata.
La varietà (Solanum tuberosum) è originaria delle Ande (Perù e Cile), dove era
coltivata 8000 anni fa; fu portata in Europa nel 1536 e coltivata all’inizio solo
come pianta ornamentale.
È una pianta perenne, che muore ogni anno ed il tubero ne rappresenta
l’organo d’immagazzinamento. Esso contiene i cosiddetti occhi, che generano
lo stelo e le radici di una nuova pianta. I tuberi delle patate non germogliano
immediatamente dopo la raccolta, ma richiedono un periodo di dormienza in-
vernale prima che compaiano i germogli.
Le varietà gialle devono il loro colore ai carotenoidi (luteina, zeaxantina),
quelle blu alle antocianine. Analogamente ai cereali, sono una buona fonte di
amido (circa il 16%), a cui si associa una piccola quantità di zuccheri semplici
(circa il 2%) sotto forma di disaccaridi come saccarosio e di monosaccaridi
(glucosio, fruttosio).
Nelle patate commestibili l’amido ha un rapporto amilosio:amilopectina di
1:4, mentre nella patata Amflora R, geneticamente modificata per usi indu-
striali e non commestibile, il contenuto di amilopectina si avvicina al 100%.
Il contenuto di grassi e di proteine nei tuberi è molto basso (inferiore
all’1% e pari al 2%, rispettivamente). Sono presenti anche quantità apprezza-
bili di vitamine quali la B1, la niacina, la vitamina C (da 84 a 145 mg per 100 g

156
Capitolo 7 Verdure e spezie

di peso secco), l’acido folico, l’acido pantotenico e minerali quali fosforo,


calcio e soprattutto potassio. Questi minerali tendono a passare nell’acqua di
cottura se non si ha l’accortezza di cuocerle con tutta la buccia. Il contenuto di
proteine nel tubero fresco è pari solo a 1–1,5%; fra queste va ricordata la pata-
tina, che può dare reazioni allergiche.
Le fibre sono presenti soprattutto nel periderma e rappresentano 1–2% del
tubero. Una patata tipica pesa 100–150 g, di cui il 75% è acqua ed il resto so-
prattutto amido (15 g). Benché la maggior parte di quest’ultimo sia degradato
a glucosio, nello stomaco, da cui l’alto indice glicemico della patata, circa il
13% resiste alla degradazione dopo la cottura, entra nell’intestino grasso e può
comportarsi come una fibra.
Sono presenti polifenoli, il più importante dei quali è l’acido clorogenico
(circa il 90% del totale). Quando il tubero è avariato, la polifenolossidasi li
converte in polimeri, che, essendo tossici, agiscono da agenti protettivi nei
confronti di patogeni. L’ossidazione dei polifenoli da parte di questo enzima è
anche responsabile del suo inscurimento.
L’acido clorogenico può avere effetti benefici sulla salute come antiossi-
dante; è solubile in acqua e questa proprietà rappresenta un motivo ulteriore
per cuocere le patate con la buccia.
Le patate sono note per contenere quantità significative di due alcaloidi
tossici, la solanina e la caconina, che contribuiscono al loro gusto amaro. La
maggior parte delle varietà commerciali (calcolando 100 g di peso) contiene
da 2 a 15 mg di solanina. La concentrazione dell’alcaloide è massima nelle
parti più esposte all’attacco degli insetti e si accumula, dove la pelle diventa
verde ed esposta alla luce, fino a tre volte oltre i livelli normali. Tutte le patate
che presentano chiazze verdi devono essere eliminate poiché possono dare
effetti emolitici ed in alcuni casi anche teratogeni.
Secondo alcuni autori la patata può indurre allergie ed avere un tenore di
nitrati e nitriti pari a 120 e 0,44 microgrammi/g, rispettivamente; contiene
inoltre 20–140 mg di acido ossalico per 100 g di prodotto (nel pomodoro ve ne
sono 5–35 mg/100 g).
È buona norma conservarle al buio, dove resistono per mesi, a una tempe-
ratura ideale di -10°C. L’aroma delle patate bollite è dovuto alla presenza di
3-isobutil-2-metossi-pirazina e 2,3–dietil–5-metilpirazina. È adatta nelle diete
ipocaloriche; la concentrazione dei principali nutrienti e l’apporto energetico
sono 1/3–1/4 rispetto al pane. Va tuttavia tenuto presente che essa ha un eleva-
to indice glicemico, che può favorire la formazione di tessuto adiposo.
Dal 2000 è stata immessa sul mercato, con il nome di Selenella, una pa-
tata contenente selenio con un contenuto minimo garantito di 9 microgram-
mi per 100 g. Una porzione di 200 g fornisce il 33% del fabbisogno giorna-
liero di questo elemento. La patata Selenella rientra fra i cibi fortificati, ar-
ricchiti in selenio e si calcola che sia utilizzata da almeno un miliardo di
persone (5).

157
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Il selenio è un micronutriente essenziale per il funzionamento di molte


seleno-proteine. La sua mancanza o quantità sub ottimale è associata a disfun-
zioni dello stato di salute ed a condizioni collegate allo stress ossidativo, quali
malattie cardiovascolari, sindromi infiammatorie, malfunzionamento tiroideo,
problemi di fertilità e rischio di neoplasie (6).
Altri tuberi che condividono il nome patata, come la patata dolce (Ipomea
batatis) e la patata di Livingstone (Pletranthus esculentus), sono specie molto
diverse ed hanno un profilo chimico a sè stante. In particolare la patata dolce è
una pianta dicotiledone della famiglia delle Convolvulacee, che cresce dal li-
vello del mare fino a 2500 m e comprende varietà con buccia e polpa dal
bianco, all’arancio, al rosso porpora. In totale la patata dolce è la sesta coltiva-
zione in ordine d’importanza, dopo riso, frumento, patate, mais e cassava. La
produzione globale annuale è superiore ai 105 milioni di tonnellate.
Vi sono molti benefici nutrizionali dovuti alla presenza di vari componenti
funzionali quali fibre, carotenoidi, acidi fenolici, antocianine e minerali. Le
patate potrebbero contribuire a prevenire le malattie cardiovascolari, il diabete
di tipo-2 e disturbi della prostata (7).
Le patate devono essere trattate cotte prima dell’utilizzo; questi processi
hanno impatti diversi sui micronutrienti, quali minerali, vitamina C e composti
biologicamente attivi, quali i carotenoidi ed i composti fenolici. Sono ampia-
mente presenti acidi fenolici, in particolare gli acidi caffeoilchinici, fino a 71
mg per 100 g di prodotto fresco. Questo rende le patate una delle più ricche
fonti di composti fenolici. In confronto il caffè, riconosciuto come principale
sorgente di composti fenolici nella dieta occidentale, contiene circa 145 mg
per porzione.
I processi industriali, che comprendono, ad es. la preparazione delle patate
fritte, il congelamento e l’utilizzo delle microonde, hanno solo un modesto im-
patto sulle concentrazioni fenoliche delle patate, dopo che esse sono state pelate.
A dispetto di un indice glicemico generalmente considerato moderato-alto
uno studio recente ha messo in luce l’esistenza di una correlazione inversa
tra il contenuto di polifenoli e indice glicemico, in particolate nelle patate
colorate, ricche in antocianine. Anche le patate gialle e bianche hanno un
comportamento analogo, come evidente dai risultati di studi preclinici (8). È
probabile che la formazione di amido resistente (Resistant Starch, RS), in
seguito alla complessazione con composti fenolici, possa spiegare questi ef-
fetti antiglicemici.
Le concentrazioni degli acidi caffeoilchinici sono più elevate nelle patate
fresche rispetto a quelle trattate, ma queste ultime hanno maggior concentra-
zione di amido resistente e nel rapporto RS/amido totale. Questi risultati sug-
geriscono che i composti fenolici abbiano solo un effetto modesto sulla rispo-
sta glicemica nell’arco delle 24 ore.
Le patate sono una ricca fonte di potassio (circa 580 mg per una patata di
medie dimensioni). Attualmente si valuta che il consumo nell’adulto (dati di-

158
Capitolo 7 Verdure e spezie

sponibili negli Stati Uniti) sia di 2277 mg/die, ben al di sotto del livello ade-
guato, che è considerato pari a 2600 mg/die per le donne e 3400 mg/die per gli
uomini. In aggiunta, l’assunzione di cereali raffinati supera le quantità racco-
mandate, perciò la loro sostituzione con una quantità giornaliera, isoenergeti-
ca, di patate cotte a vapore o al forno può esere parte di una dieta salutare, nel
rispetto delle raccomandazioni dietetiche secondo i parametri del Healthy Ea-
ting Index (HEI)-2015 (9).
Un recente studio di meta-analisi ha preso in considerazione le patate ed il
rischio di mortalità per tutte le cause ed in particolare patologie coronariche
(CHD), infarto e diabete dl tipo 2 (Type 2 Diabetes, T2D) (10). Il loro consu-
mo, in generale, non è correlato ad un aumentato rischio di molte patologie
croniche, se si esclude un modesto aumento del rischio per T2D, se consumate
bollite. Una correlazione positiva, significativa, è invece evidente tra il consu-
mo di patate fritte ed il rischio di T2D ed ipertensione.

7.4 Asparagi

Gli asparagi (Aspagus officinalis), di cui si conoscono 150 specie, appar-


tengono alla famiglia delle Liliceae, come le cipolle, i porri ed i tulipani. Si
pensa che essi siano stati domesticati tra Caucaso e Siberia, prima di diffon-
dersi nel Mediterraneo. Apprezzati da Marco Porcio Catone, come appare nel
suo trattato “de agricultura”, dopo un oblio durato per secoli, furono riscoper-
ti da Luigi XIV, il Re Sole.
La produzione mondiale (2018) di asparagi bianchi è stata di 9 milioni di
tonnellate e la Germania è stata il primo produttore europeo (cui fanno seguito
Spagna ed Italia), dopo Cina, Perù e Messico (11). In Italia l’area di produzio-
ne di asparagi è stimata pari a 6.500 ettari.
Contengono fibre, potassio, vitamine A e C e folati (vitamina B9). L’assun-
zione raccomandata di folati è di 0,4 mg al giorno, 0,6 per le donne in gravi-
danza. Una carenza di questa vitamina può portare a complicanze neuronali o
cardiovascolari. 100 grammi di asparagi crudi ne contengono 175 microgram-
mi, i fagioli 394, le lenticchie 479, gli spinaci 194.
Nel 40% dei casi, le urine delle persone che li hanno consumati, presenta-
no un odore caratteristico, dovuto probabilmente al metil-mercaptano (CH-
3SH) ed altri metaboliti dell’acido asparagiusico, un disolfuro che si trova nel
rizoma e nella parte commestibile delle piante.
La legislazione Europea ha introdotto alcune certificazioni (Regolazione
(EU) No. 1151/2012) per gli alimenti con speciali caratteristiche geografiche,
quali Denominazioni di Origine Protette (DOP) e Indicazioni Geografiche
Protette (PGI). La differenza di prezzo fra l’asparago legalmente protetto, ri-
spetto a quello prodotto all’estero può arrivare a 10 euro/kg (dati disponibili in
Germania).

159
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Attualmente, la sua origine geografica può essere convalidata grazie all’a-


nalisi dei rapporti isotopici (C13/C12), (O18/O16), (N15/N14) e (S34/S32).
Fattori esterni come il clima, le piogge o la composizione del suolo influenza-
no il metabolismo della pianta di asparago e questo contribuisce alla “compo-
sizione” di un metaboloma caratteristico, che si riferisce all’insieme di tutti i
metaboliti che ne compongono la struttura. Questo consente la esatta determi-
nazione della sua origine geografica (11). In alternativa, l’autenticazione può
essere effettuata attraverso analisi metabolomiche, per mezzo di cromatografia
liquida ad alta prestazione (HPLC), abbinata a spettrometria di massa (12).

7.5 Tartufi

I tartufi Europei appartengono alla famiglia delle Tuberaceae e si distin-


guono in tartufo nero (Tuber melanosporum) e tartufo bianco (Tuber magna-
tum). Sono tuberi ipogei e crescono in simbiosi con le radici degli alberi. Sono
fra gli alimenti più costosi a causa della grande richiesta nella “haute cuisine”
in Francia ed in altre nazioni Europee e crescono in alcune aree specifiche del
Mediterraneo, in Italia, Francia e Spagna.
Il tartufo di Alba (Tuber pignatum pico) è quello più nobile poiché libera
l’aroma più intenso e piacevole, mentre quello di Borgogna (Tuber uncina-
tum), meno costoso, è quello più diffuso ed utilizzato più frequentemente.
Sono presenti più di trecento componenti volatili, soprattutto composti sol-
forati. Il più importante nel tartufo Alba è il bis–metiltio–metano CH3 SCH-
2SCH3, isolato per la prima volta da Fiecchi (13), assente nell’aroma del tar-
tufo di Borgogna. Esso può essere facilmente preparato per sintesi chimica ed
è spesso aggiunto a oli vegetali per riprodurre l’aroma del tartufo. All’aroma,
contribuiscono inoltre in ordine di importanza il 3metil–tiopropanale (tipo pa-
tata), seguito da 2– e 3–metil–butanale (tipo malto), il 2,3–butandione, acido
fenila-cetico (tipo miele) e vanillina (tipo vaniglia).
A causa del loro intenso aroma i tartufi sono normalmente gustati crudi,
analogamente ad una spezie aggiunta a un piatto per accentuarne il profumo.
A loro volta i tartufi del deserto sono Ascomiceti commestibili, soprattutto
dei genera Tirmania e Terfezia. Formano associazioni micorizzate con le pian-
te ospitanti che abitano le zone aride e semiaride del deserto del Negev. Essi
forniscono alla pianta ospitante minerali (soprattutto fosforo) e acqua e ricevo-
no a loro volta da questa prodotti fotoassimilati ed altri nutrienti.
Iscrizioni cuneiformi su tavolette d’argilla, datate più di 4000 anni orsono,
indicano che questi tartufi venivano consumati dalle popolazioni indigene fin
dai tempi antichi. I più noti appartengono alla famiglia delle Pezizaceae; han-
no un aroma meno intenso ed in generale vengono consumati cotti.
Le componenti volatili contengono 2–metilbutanale, 3–metilbutanale,
benzaldeide, fenilacetaldeide, dimetildisolfuro e 1–octen–3–olo.

160
Capitolo 7 Verdure e spezie

7.6 Basilico (Ocimum basilicum)

È una pianta aromatica, annuale, della famiglia delle Lameaceae, coltivata


in tutto il mondo, in diverse condizioni ambientali.
L’aroma è caratterizzato dalla presenza di cineolo e linalolo (nota fresca–
fruttata), metil eugenolo (nota dolce–calda) ed eugenolo (nota penetrante). Le
foglie del basilico a gambo corto sono ricche in metileugenolo, mentre in quel-
le a gambo lungo, è presente unicamente eugenolo. Al crescere della pianta, si
inattiva l’enzima S–adenosilmetionina–O–metiltransferasi, responsabile della
metilazione.
È molto conosciuto per il suo uso in cucina ed è anche apprezzato per le
sue proprietà nella medicina tradizionale; è uno stimolante digestivo con atti-
vità antimicrobica, antibatterica, anticonvulsiva e antitumorale.
Le foglie di basilico sono molto ricche di acidi fenolici e flavonoidi, che con-
tribuiscono al suo profilo antiossidante; la presenza di acido rosmarinico in con-
centrazioni piuttosto elevate viene associata alle sue proprietà medicinali. L’acido
rosmarinico è il derivato fenolico prevalente, ma sono presenti (in alte concentra-
zioni) anche altri derivati dell’acido caffeico, come l’acido cicorico (14,15).
Il componente più attivo del basilico è l’acido ursolico, un triterpenoide
presente anche nel rosmarino, di cui è stata recentemente studiata l’attività
antitumorale. I suoi estratti hanno effetto antidiabetico e possono alleviare l’i-
perglicemia associata al diabete. Inoltre possiede un’attività antinfiammatoria
e può contribuire al controllo della pressione sistemica.
La quantità totale di composti fenolici è più alta di quella delle altre Lami-
naceee come Thymus vulgaris, Mentha piperita, Melissa officinalis e Rosma-
rinus officinalis.
Il basilico è noto per la sua spiccata varietà genetica, 150 specie con diver-
se caratteristiche morfologiche quali dimensioni, colore delle foglie, forma e
composizione aromatica.
Uno studio recente ha mostrato che il diverso profilo degli oli essenziali
corrisponde a differenze significative nelle proprietà antibatteriche e antimi-
crobiche. Il basilico viene usato nel trattamento di molte affezioni, come tosse,
mal di testa, problemi renali, trattamento dell’acne, dolori addominali, patolo-
gie a base infiammatoria, diabete, patologie oculari; ha effetto stimolante, an-
ti-spastico, carminativo, digestivo a cui si associano attività antifungine, anti-
batteriche e insetticide (16).

7.7 Timo (Thymus)

Il timo è un arbusto perenne, con profumo gradevole, che appartiene alla


famiglia delle Lamiaceae con oltre 350 varietà. Gli oli essenziali ed i prodotti

161
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

da esso derivati hanno riscosso un grande interesse in campo farmaceutico,


alimentare e nell’industria cosmetica. Inoltre, l’incorporazione delle foglie in
prodotti alimentari aumenta il tempo di conservazione, ritardando i processi di
ossidazione e conservando il colore. È questo il caso della carne macinata, dei
filetti di pescespada e di alcuni tipi di insaccati (e.g. salsiccia).
La pianta è conosciuta da molti secoli; per esempio il timo è menzionato
nelle poesie che cantano il fascino dei giardini Persiani, XIV° sec. (17).
La produzione mondiale è stimata pari a 14000 tonnellate all’anno, con la
Turchia maggiore produttore, che ne esporta annualmente 10000 tonnellate,
con un surplus commerciale nell’ordine di decine di milioni di dollari.
Il timo contiene tra 1-2,5% in peso di oli essenziali, che sono i principali
responsabili del suo aroma. Fra questi sono predominanti il timolo ed il suo
isomero carvacrolo, che ammontano al 30-50% del totale. Sono anche presen-
ti il p-cimene, il gamma-terpinene, il linaloolo ed il limonene. Tra gli acidi
fenolici vanno ricordati l’acido rosmarinico, l’acido caffeico, il p-cumarico ed
il ferulico, oltre a flavonoidi e composti bifenilici.
L’utilizzo in cucina-erboristeria è considerato sicuro e gli è stata ricono-
sciuta la qualifica di GRAS (Generally Recognized As Safe) da parte della
FDA. Ha proprietà antinfiammatorie, antiossidanti, antimicrobiche e antiset-
tiche; in particolare il timolo trova impiego come antiossidante data la sua
capacità di chelare i radicali liberi. Esso ha anche un ruolo nel modulare il
metabolismo dei lipidi e come potenziale additivo-integratore per prevenire
l’obesità.

7.8 Aglio

L’aglio (Allium sativum L. Famiglia Alliaceae) è noto da lungo tempo


come pianta di uso terapeutico ed era utilizzato ampiamente già nel mondo
egizio e greco-romano. La Cina, con 21 milioni di tonnellate (dati del 2014),
assicura l’80% della produzione mondiale. È di uso comune come agente aro-
matizzante, alimento funzionale e nella moderna fitoterapia ed i suoi parenti
prossimi sono le cipolle, lo scalogno, i porri e l’erba cipollina. Storicamente,
l’aglio è stato usato per alleviare le disfunzioni del tratto digerente; ad esem-
pio, come riportato nel Bower manuscript, che costituisce uno dei più antichi
trattati sulla medicina Ayurvedica Indiana, lo si raccomanda per il trattamento
dei parassiti e per problemi digestivi. In antichi testi indiani appaiono, inoltre,
indicazioni sui suoi effetti cardioprotettivi, che sono stati recentemente confer-
mati da approfonditi studi di meta-analisi. La regolare assunzione di aglio ri-
duce la pressione sistemica di 7–16 mm Hg (sistolica) e di 5–9 mm Hg (dia-
stolica) ed i maggiori benefici si ottengono con estratti di aglio vecchio. Oltre
al controllo dell’ipertensione, esso abbassa il colesterolo totale ed i marker di
aterosclerosi.

162
Capitolo 7 Verdure e spezie

Il suo consumo (10 g al giorno) è associato ad una riduzione del 50% del
tumore alla prostata e studi epidemiologici hanno suggerito l’esistenza di una
relazione inversa fra assunzione di aglio e neoplasie allo stomaco, colon-retto
e pancreas.
Diversi studi hanno messo in evidenza gli effetti benefici che l’aglio grez-
zo esercita in modelli sperimentali (ratto) di colite indotta dall’acido acetico;
in molti paesi è commercializzato come integratore della dieta per alleviare
disordini a base infiammatoria.
Contiene centinaia di ingredienti, compresi composti solforati, come il
diallisolfuro, l’alliina, l’ajoene e l’allicina che forniscono il caratteristico aro-
ma ed odore. Inoltre, oltre ad aminoacidi e minerali come il selenio, è presen-
te un ricco corredo enzimatico.
Gli spicchi di aglio intatto contengono un precursore dell’aroma, l’alliina (S–
allilcisteina S–ossido) ed un enzima, l’allinasi. L’alliina è inodore e quando lo
spicchio è triturato si libera l’alliinasi che, tramite la formazione di un intermedio
instabile, la trasforma in allicina (dialliltiosolfinato). Quest’ultima è molto volati-
le e interagisce con i recettori olfattivi, producendo il caratteristico odore (18).
L’alliina ha interessanti attività biologiche; è antiossidante, inibisce l’ag-
gregazione piastrinica, è un antimicrobico, modifica la fluidità delle membra-
ne delle cellule tumorali e la loro proliferazione.
I composti volatili tipici dell’aglio triturato ed i suoi oli essenziali (diallil-
solfuro - DAS) e diallilidisolfuro (DADS), agiscono come fonte di idrogeno
solforato; questo gas ha effetti gastroprotettivi.
Inoltre DAS e DADS esercitano un’azione antiossidante importante, poi-
ché i radicali liberi giocano un ruolo strategico nella patogenesi delle flogosi
intestinali (Intestinal Bowel Diseases, IBD), patologie molto diffuse. Inoltre,
studi sperimentali hanno messo in luce che DAS e DADS esercitano un effetto
terapeutico sulla colite.
Come accennato in precedenza, molti studi sperimentali “in vitro” ed “in
vivo”, hanno messo in evidenza un potenziale effetto protettivo di vegetali
appartenenti al genere alllium in diverse forme di neoplasie, in particolare a
livello intestinale. L’ipotesi che le piante del genere allium possano contribui-
re alla prevenzione dei tumori, si basa sulle loro numerose proprietà fisiologi-
che e sui loro costituenti chimici, in particolare i composti organosolforati, in
grado di inibire la cancerogenesi in molti modelli animali.
Tuttavia, come vedremo di seguito, i molti studi epidemiologici sull’asso-
ciazione fra vegetali del genere allium e rischio di tumori (in diversi organi),
non hanno portato ad una conclusione univoca.
L’American Institute for Cancer Research, nel suo secondo rapporto del
2007, sostiene che un loro consumo, elevato e regolare, può ridurre il rischio
di cancro allo stomaco; tale effetto protettivo si manifesta secondo una relazio-
ne dose–dipendente e sono stati riportati effetti favorevoli anche sul cancro
colon–rettale.

163
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

In uno studio su più di 40000 donne in postmenopausa, il consumo di ve-


getali del genere allium è stato associato ad una riduzione di quasi il 50% del
rischio di cancro del colon.
Almeno 20 studi epidemiologici hanno confermato questi effetti; in con-
trotendenza, va riportato che lo Shanghai Men’s Health Study del 2013, con-
dotto su 4000 soggetti, non ha mostrato alcuna relazione fra l’assunzione di
allium e rischio di neoplasia del colon–retto.
A sua volta, the American Cancer Society CPS–II del 2012, in uno studio
di coorte comprendente più di 1000 casi, ha messo in luce l’esistenza di una
associazione inversa tra consumo di allium ed il rischio di cancro colon–retta-
le per le donne ed un possibile rischio maggiore per gli uomini.
Secondo la rassegna sistematica di dati epidemiologici di Turati e collabo-
ratori, un elevato consumo di aglio è associato ad una riduzione del 15% di
cancro colon–rettale e dei polipi suoi precursori (19).
In Europa, soprattutto nell’Europa meridionale, aglio e cipolla sono spesso
cotti ed utilizzati in alimenti contenenti anche pomodori ed olio d’oliva; è
quindi plausibile che possano avere un’azione sinergica nella prevenzione del
tumore.
Il consumo dell’aglio riduce il rischio di CVD; studi sperimentali e clinici
hanno mostrato il suo effetto benefico sulla resistenza insulinica e obesità. In
uno studio clinico particolarmente rigoroso, condotto in modalità a doppio
cieco, l’uso quotidiano di 4 pillole, contenti 400 mg di aglio polverizzato, ha
ridotto in modo significativo la steatosi epatica in pazienti con steatosi epatica
non alcolica (NAFLD – Non Alcoholic Fatty Liver Disease) (20).

7.9 Aglio nero

L’aglio nero è un nuovo alimento, che viene ottenuto facendo invecchiare


l’aglio fresco per un intervallo di tempo controllato, alla temperatura di 80°–
90° C, in ambiente con umidità controllata (80%–90%). Grazie a questo pro-
cedimento, acquista un gusto dolce, perde l’odore sgradevole e l’allicina (re-
sponsabile della nota pungente), si arricchisce in composti antiossidanti. Si
modificano anche le caratteristiche organolettiche e la consistenza diventa
gelatinosa.
L’aglio nero non è una varietà disponibile in natura ma tramite il procedi-
mento di fermentazione, aumenta il contenuto di zuccheri riducenti ed il pH
diminuisce da 6,33 a 3,74. Anche le componenti antiossidanti, e.g. polifenoli e
flavonoidi totali, aumentano in modo significativo, raggiungendo il massimo
dopo 21 giorni. A questo punto l’aglio nero acquista le proprietà antiossidanti
ottimali (21).
A differenza dell’aglio fresco, quando viene tagliato o schiacciato, non
emana odori che possano risultare sgradevoli ed ha un gusto dolce. Ciò è do-

164
Capitolo 7 Verdure e spezie

vuto alla trasformazione dell’allicina, responsabile dell’odore pungente, in


composti antiossidanti solubili in acqua quali: la S-allilcisteina, le tetrai-
dro-beta-carboline, alcaloidi biologicamente attivi e composti tipo flavonoidi.
I suoi estratti hanno proprietà antiossidanti, antiallergiche, antidiabetiche,
antinfiammatorie, ipocolesterolemizzanti, ipolipemizzanti ed antineoplasti-
che. L’utilizzo di aglio nero è collegato ad un rischio ridotto di patologie car-
diovascolari, previene la formazione di trombi ed il danno delle cellule endo-
teliali dipendente dalla formazione di perossidi (22).
La sua commercializzazione è stata recentemente approvata, sul mercato
Sud-Coreano, come prodotto naturale, benefico per la salute.

7.10 Cipolla

La cipolla (Allium cepa L.) è un’erba perenne (genere Allium) della fami-
glia delle Liliaceae, tra i vegetali di maggior diffusione e consumo e gode
della reputazione di “Regina dei vegetali”; è nativa del sud est dell’Asia ed è
coltivata in tutto il mondo. In base al suo colore può essere divisa in cipolla
rossa, bianca o gialla e la varietà rossa è quella più comunemente utilizzata.
La cipolla è ricca in nutrienti e contiene molti carboidrati, proteine, vitami-
ne idrosolubili, calcio, ferro ed altri composti che possono avere effetti benefi-
ci sul nostro stato di salute.
I fitochimici naturali, appartenenti alla classe dei flavonoidi, sono i suoi
principali costituenti biologicamente attivi (bioflavonoidi); fra di essi il princi-
pale è la quercetina. La loro struttura è caratterizzata dalla presenza di molti
gruppi ossidrili, che conferisce una significativa capacità antiossidante; questa
proprietà gioca un ruolo importante nella prevenzione delle affezioni corona-
riche e dei tumori. A questo proposito va ricordato che il danno ossidativo del
DNA può essere alla base di alcune forme di neoplasie
Tra i costituenti vi sono anche composti contenenti zolfo, che ne caratte-
rizzano l’odore irritante e che possono inibire in modo selettivo i batteri del
tratto gastrointestinale. Tali composti possono fungere da gastroprotettori e
contribuire alle difese contro alcune neoplasie come il tumore esofageo e ga-
strico. Il tiopropanal-S-ossido è il “gas lacrimogeno” responsabile delle lacri-
me, che si sviluppa quando essa viene tagliata.
La cipolla ha un elevato valore nutrizionale ed il suo utilizzo può contribu-
ire a regolare il bilancio fisiologico di fluidi ed elettroliti del nostro organismo,
così come il metabolismo, a prevenire e trattare lo scorbuto e l’avvelenamento
da metalli pesanti.
Lo stress ossidativo, come sappiamo, contribuisce a sviluppare tutta una se-
rie di affezioni, incluse patologie neurodegenerative (e.g. malattia di Alzheimer
e morbo di Parkinson), cardiovascolari ed il diabete. Studi clinici hanno mostra-
to che il consumo di cipolle e aglio contribuisce ad una riduzione significativa

165
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

della glicemia, specialmente in pazienti diabetici. Queste proprietà sono correla-


te con la particolare efficacia antiossidante dei flavonoidi e con la loro capacità
di fungere da “scavenger” di specie radicaliche reattive dell’ossigeno (ROS). Il
consumo di vegetali ricchi in flavonoidi e di pronta disponibilità sul mercato,
può contribuire ad impostare con facilità diete sane e variegate (23).

7.11 Ginseng

Il ginseng (Panax Ginseng, dal latino Panax, derivato dal greco pan (tutto),
akeia (rimedio), deve l’utilizzo della denominazione Panax al botanico Meyer
nel 1843. È una specie della famiglia delle Araliacee, si sviluppa nell’emisfero
settentrionale ed è utilizzato da 2000 anni in Asia per i suoi effetti terapeutici.
Le prime specie Nord-Americane furono scoperte dai nativi Americani; le due
aree di coltivazioni più importanti sono localizzate in Asia e negli Stati Uniti,
mentre altre specie sono diffuse in Giappone, Nepal, Vietnam e Siberia.
I principali componenti del ginseng, biologicamente attivi, sono i ginseno-
sidi, caratterizzati da una vasta gamma di effetti farmacologici, quali proprietà
antidiabetiche, antinfiammatorie, epato- e cardio-protettive. I ginsenosidi sono
derivati del triterpenoide dammarano, che ha 4 anelli idrofobici e struttura
analoga agli steroidi, cui sono legati zuccheri, che possono essere suddivisi in
due categorie: saponine tipo protopanassadiolo e protopanassatriolo. Le pro-
prietà biologiche dei ginsenosidi dipendono dalle diverse componenti zucche-
rine, dal loro numero e dalla loro collocazione (24).
I risultati di analisi cliniche e di studi di meta-analisi, condotti in pazienti
diabetici, indicano che l’uso del ginseng Americano può essere di notevole
interesse nel trattamento del diabete ed in particolare nel controllo della glice-
mia a digiuno (25). Va comunque ricordato che il ginseng non è privo di con-
troindicazioni; può influenzare in modo negativo il citocromo p450, inducen-
done l’attività e ridurre l’attività anticoagulante della warfarina.

7.12 Liquirizia

La liquirizia (Glycyrrhiza glabra L.) è una delle piante più antiche, di uso
medicinale; il primo riferimento al suo utilizzo si trova nel Codice di Hammu-
rabi del 2100 a.C.; Dioscoride, botanico e farmacologo del I sec. a.D., la
chiamò glukurrhiza, che significa radice dolce.
Le parti della pianta maggiormente utilizzate sono le radici e gli stoloni, co-
munemente chiamati liquirizia grezza. Oltre all’utilizzo in medicina, per esempio
come farmaco antinfiammatorio ed antiulcera, viene usata nell’industria del ta-
bacco come umettante e agente aromatizzante. È largamente utilizzata in cosme-
tica per schiarire la pelle e per le sue proprietà lenitive e desensibilizzanti.

166
Capitolo 7 Verdure e spezie

A causa del suo aroma piacevole, la liquirizia grezza è anche un ingredien-


te molto apprezzato nelle infusioni di tè.
Sono stati identificati almeno 50 composti che ne caratterizzano l’aroma;
quelli più significativi sono l’(E,Z)-2,6-nonadienale, il 5-isopropil-2-me-
tiòfenolo, l’esanale e il linaloolo (26).

7.13 Popoli, migrazioni ed il commercio delle spezie

Nel 2016 è stata scoperta a Megiddo, una delle più importanti città dei
Cananei, gli antichi abitanti dell’attuale Israele e Libano, una tomba datata
circa 1600 anni avanti Cristo (27). La sorpresa che ha maggiormente colpito
gli archeologi, è venuta dalla identificazione dei residui di tre piccoli boccali,
il cui contenuto, analizzato mediante metodiche di cromatografia-spettrome-
tria di massa, ha individuato la presenza dei componenti chimici della vani-
glia, tra cui 4-idrossibenzaldeide e acido vanillico.
Questa scoperta pone il quesito su quale possa essere l’origine di questo
tipo di spezie. La vaniglia (Vanilla planifolia) è una pianta della famiglia delle
orchidee ed è diffusa in tutte le regioni tropicali, in tutti i continenti, esclusa
l’Antartide e l’Australia. Tuttavia solo in America centro-meridionale ed in
Messico, in particolare, vi sono evidenze del suo primo addomesticamento; si
pensa che in Europa sia stata introdotta dagli Spagnoli che ve la portarono dal
Messico. È verosimile che l’origine dei residui rinvenuti a Megiddo sia stata
l’India, con cui la Mesopotamia aveva commerci fin dai tempi dell’età del
bronzo. Questa scoperta, qualora venisse convalidata da analoghi ritrovamenti
archeologici, confermerebbe l’esistenza di commerci estesi e diffusi nell’anti-
co Medio Oriente.
Una prova ulteriore potrebbe venire dal ritrovamento di grani di pepe, ve-
rosimilmente provenienti dallo Sri Lanka, contenuti nelle cavità nasali del fa-
raone Ramsete II, mummificato in Egitto nel 1213 avanti Cristo. Inoltre, can-
nella proveniente dallo Sri Lanka e dall’ India meridionale, è stata rinvenuta in
tombe egizie risalenti al 1000 a.C.

7.14 Le spezie nella nostra alimentazione

Come abbiamo più volte documentato nelle pagine precedenti, esiste una
ricca letteratura scientifica sul ruolo degli alimenti e delle bevande ricchi in
composti bioattivi (e.g. i polifenoli nel cacao o cioccolato, frutta, tè) nel mi-
gliorare lo stress metabolico postprandiale.
Le spezie utilizzate in cucina aumentano le qualità sensoriali di un pasto ed
arricchiscono gli alimenti con una varietà di composti bioattivi (e.g. antiossi-
danti ed antinfiammatori).

167
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Tuttavia vi è una carenza di dati sul ruolo delle spezie nel controllo dello stress
metabolico postprandiale, con una aumentata produzione di radicali liberi nel con-
testo di un quadro infiammatorio. Uno studio clinico recente (28) ha affrontato
questo problema, reclutando soggetti non fumatori in sovrappeso o obesi. I parte-
cipanti consumavano un pasto ricco in acidi grassi saturi e carboidrati (circa 1000
kcal), sia come tale, che arricchito con 2 diverse dosi di spezie, a giorni alterni,
secondo una modalità “cross-over” (lo stesso soggetto consuma 3 pasti diversi).
La miscela di spezie (2 g e 6 g cad.) era basata sulla combinazione di spe-
cie botaniche comunemente utilizzate, come basilico, foglie di lauro, pepe,
nero, cannella, coriandolo, cumino, zenzero, origano, prezzemolo, pepe rosso,
rosmarino, timo e curcuma.
Nell’insieme i risultati hanno mostrato un effetto significativo delle spezie
(solo alla dose di 6 g) nel diminuire il quadro infiammatorio ed i livelli plasma-
tici di specifiche citochine postprandiali.
Alcuni componenti della miscela di spezie usata nello studio sopracitato,
sono sensibili alla cottura ed al calore, che possono ridurne in modo significa-
tivo il contenuto di polifenoli ed i relativi effetti antiossidanti. Per esempio,
l’ebollizione ed il vapore diminuiscono in modo sostanziale il contenuto di
polifenoli del pepe rosso, rispetto al trattamento con calore secco, come
nell’arrostimento.
Un altro studio clinico, condotto con modalità analoghe al precedente, ha ri-
guardato una miscela di spezie aggiunta a carne macinata per “hamburger”; sono
stati reclutati soggetti volontari in buona salute, focalizzandosi sul ruolo delle spe-
zie nello stress ossidativo postprandiale (29). In questo secondo studio è stata uti-
lizzata una miscela di spezie a dose elevata (circa 11 g), che includeva chiodi di
garofano, cannella, origano, rosmarino, zenzero, pepe nero, paprika e aglio.
Sono stati presi in considerazione i livelli plasmatici, postprandiali, di ma-
londialdeide (MDA), un biomarker della perossidazione lipidica, in grado di
provocare l’ossidazione LDL e danni del DNA; i risultati indicano chiaramen-
te che il consumo di hamburger con spezie è associato a livelli più bassi di
MDA rispetto agli hamburger privi di spezie.
Altri studi sugli effetti postprandiali di una miscela di spezie su volontari
sani hanno messo in luce un miglioramento della glicemia postprandiale ed un
ridotto stress ossidativo (30).

7.15 Sesamo

Il sesamo (Sesamum indicum L.) è una importante fonte di semi comme-


stibili che risale a più di 6000 anni orsono ed è coltivato in Asia, Africa, India,
Cina, Sudan, Nigeria e Myanmar. La produzione totale, nel 2016, è stata pari
a 6 milioni di tonnellate, di cui circa il 65% è stato utilizzato per la produzione
dell’olio. I semi di sesamo possono anche essere usati per prodotti da forno,

168
Capitolo 7 Verdure e spezie

per produrre la crema tahini (o burro di sesamo) e margarina. È una buona


fonte energetica (fino al 50% di olio) ed ha un elevato valore nutrizionale a
causa dell’alto contenuto di proteine (20%).
Inoltre i semi sono resistenti al deterioramento ossidativo, essendo ricchi
in composti biologicamente attivi. Benché l’olio contenga alti livelli di acidi
grassi insaturi (80%-85%), esso è molto più stabile di altri oli vegetali. Questa
stabilità è dovuta alla presenza di lignani, tocoferoli ed ai prodotti che si for-
mano durante la tostatura dei semi.
La tostatura (o arrostimento) è lo stadio chiave per mettere in risalto l’aro-
ma tipico del sesamo e per aumentarne il colore e la consistenza. Inoltre, il
calore è responsabile di alcune reazioni chimiche, come la reazione di Mail-
lard, la degradazione degli zuccheri, la denaturazione e degradazione delle
proteine, l’ossidazione dei lipidi.
In particolare la reazione di Maillard induce la formazione di 5-idrossime-
tilfurfurale, acrilamide e composti carbonilici, soprattutto metilgliossale (31).

7.16 Olio di sesamo

L’olio di sesamo, prodotto dai semi di Sesamum indicum, è considerato un


olio commestibile nutriente e stabile, nonostante l’alto livello di acidi grassi
insaturi. La maggiore stabilità contro il deterioramento, rispetto ad altri oli
della dieta, è attribuita alla presenza ed alle sinergie fra componenti minori,
inclusi lignani, loro derivati e tocoferoli (32).
I lignani sono importanti composti fenolici caratterizzati da dimeri fenilpro-
panoidi, presenti in molte piante. Nell’olio di sesamo ve ne sono sedici tipi. La
sesamina e la sesaminolina sono i loro principali agliconi, mentre il sesamolo ed
il sesamolinolo sono presenti in minori quantità (33). La sesamina gioca un ruolo
importante nel metabolismo dei lipidi, nella cattura di radicali liberi dell’ossigeno
(ruolo “scavenger”) e nel controllo della risposta infiammatoria. Il sesamolo, a
sua volta, ha una attività antiossidante superiore alla sesamina ed alla sesamolina.
Sesamina e sesaminolo hanno diverse attività biologiche; sono infatti com-
posti antiossidanti, ipocolesterolemizzanti, epatoprotettori, anti-ipertensivi e
neuro protettivi.

7.17 Peperoncino

Le specie di pepe domesticato, appartenenti alla famiglia botanica delle


Solanaceae, sono cinque: il Capsicum annuum, il C. baccatum, il C. chinense,
il C. frutescens ed il C. pubescens. Esse sono coltivate da più di 9000 anni e le
prime coltivazioni sono state documentate nell’America Centrale e nell’Ame-
rica del Sud.

169
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Il Messico è stato probabilmente il centro ove ha avuto origine la domesti-


cazione del Capsicum annuum in senso stretto, sulla base di dati archeologici,
paleoclimatici (periodo medio Olocene), linguistici e genetici; il C. chinense è
probabilmente originario della regione Amazzonica ed il C. frutescens della
regione costiera della parte meridionale del Sud America. Il C. pubescens è
invece originario di Perù e Bolivia.
Dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, Spagnoli e
Portoghesi portarono in Europa il pepe Capsicum, dolce o piccante e quest’ul-
timo si distribuì in tutte le aree tropicali e subtropicali del globo. Alla fine del
diciassettesimo secolo il pepe fu coltivato come sostanza aromatica di origine
vegetale ovunque nei tropici (34).
I frutti del Capsicum sono consumati freschi, essiccati o dopo trattamento.
Quelli non pungenti (con indice di pungenza che va da zero a pungenza mini-
ma) sono di solito chiamati pepe dolce e sono mangiati tal quale in insalata,
cotti, fritti o con altri alimenti.
Le qualità più piccanti, incluso il peperoncino, sono consumati in piccole
quantità, essendo considerati come condimento o spezie per stimolare l’appetito.
Le varie qualità di pepe (piccante o dolce) sono ricchissime in nutrienti,
che possono contribuire alla prevenzione delle malattie e promuovono lo stato
di salute. Il pepe piccante contiene fra gli altri piccole quantità dell’alcaloide
capsaicina (vedi oltre), mentre quello dolce contiene capsinoidi, un suo analo-
go non pungente. Le diverse qualità di pepe dolce, fresco, rosso o verde, sono
ricche di vitamina C, vitamine del complesso B, vitamina A, flavonoidi antios-
sidanti come luteolina, quercetina, esperidina, carotenoidi (alfa e beta carote-
ne, licopene, luteina) e acidi idrossicinnamici. Hanno anche un contenuto ade-
guato di minerali essenziali, come ferro, rame, zinco, potassio, manganese,
magnesio e selenio. Il pepe dolce verde allo stato naturale è composto (per
100g di porzione commestibile) da 93,9 g di acqua, 0,86 di proteine, 0,17 di
lipidi e 0,43 di ceneri.
Il peperoncino (Capsicum spp.) è coltivato in tutto il mondo ed usato come
alimento, come spezia o ingrediente multifunzionale. La sua piccantezza è una
delle sue principali caratteristiche e dipende dalla presenza di capsaicinoidi
(soprattutto capsaicina e diidrocapsaicina).
La specie C. chinense è considerata una delle più piccanti al mondo, in
particolare il pepe Habanero. Fra le spezie piccanti va ricordato lo zenzero
(Zingiber officinale), ma la sua piccantezza non è dovuta alla presenza di cap-
saicina, ma alle piccole quantità di gingeroli, molto piccanti. La capsaicina ha
molteplici attività biologiche e farmacologiche, quali: effetti protettivi cardio-
vascolari, antilitogenici (previene la formazione di calcoli), antinfiammatori,
analgesici, termogenici (genera calore attraverso meccanismi fisiologici) ed
effetti benefici sul sistema gastrointestinale. In particolare gli effetti termoge-
nici della capsaicina possono facilitare la perdita di peso e perciò possono es-
sere utili nel trattare l’obesità.

170
Capitolo 7 Verdure e spezie

La capsaicina può inoltre indurre l’apoptosi (morte cellulare controllata) in


diverse cellule tumorali ed inibire la cancerogenesi in vari organi, e.g. prostata,
cute, colon, polmone e vescica urinaria. Tuttavia va tenuto presente che un ecces-
sivo utilizzo di capsaicina può essere tossico e causare irritazione locale, problemi
respiratori ed una potenziale cancerogenicità (stomaco). Infine essa può essere
utilizzata per trattare disfunzioni del sistema nervoso, artriti, cistiti ed il dolore
neuropatico da HIV. Inoltre possiede spiccate proprietà antimicrobiche, che posso-
no essere utilizzate per inibire microrganismi patogeni presenti negli alimenti (35).
I capsaicinoidi sono delle vanillilammidi contenenti 9-11 atomi di carbo-
nio; sono caratterizzati da molteplici attività biologiche di potenziale interesse
clinico, come analgesici, antitumorali, antidiabetici e dimagranti (36).
Nel peperoncino sono presenti anche composti strutturalmente analoghi ai
precedenti, chiamati capsinoidi (soprattutto capsiati e diidrocapsiati), che dif-
feriscono per il tipo di legame centrale; nei capsaicinoidi vi è un legame am-
midico, mentre nei capsinoidi è presente un legame estereo. Questi ultimi sono
privi della piccantezza che caratterizza i capsaicinoidi e ne condividono le
proprietà salutari (37).
La differenza strutturale fra capsaicinoidi e capsinoidi, seppur apparente-
mente modesta, sembra essere la responsabile della minore piccantezza (fino a
1000 volte) di questi ultimi, rendendoli composti meno irritanti e perciò più
interessanti per lo sviluppo di alimenti funzionali.
Il contenuto in capsaicinoidi dipende dalla varietà, dallo stato di sviluppo
del frutto e dalle condizioni di crescita. Nel complesso, la loro biosintesi ha
luogo nelle cellule epidermiche della placenta e del pericarpo; iniziano ad ac-
cumularsi tra 10 e 20 giorni dopo l’antesi (completamento della fioritura) e
raggiungono il massimo dopo 40 giorni, per poi decrescere in seguito all’au-
mentata attività delle perossidasi.

7.18 Paprika e autenticazione

La paprika è una spezia ottenuta dopo essiccamento e macinatura dei frut-


ti del genere Capsicum, che appartiene alla famiglia delle Solanaceae; conta
39 specie, includendo quelle selvatiche, le semi-domestiche e le domestiche,
native delle zone tropicali e temperate dell’America centrale e Sud America,
Messico e Caraibi. Esse si dividono in varietà dolci e piccanti, molto utilizzate
fin dai tempi antichi e di grande interesse commerciale non solo per il gusto ed
il colore dei loro frutti, ma anche per i loro oli essenziali e la presenza della
capsaicina. Quest’ultima è il principio attivo caratteristico delle molte varietà
di pepe piccante, che sono comunemente usate come spezie ovvero farmaci,
soprattutto per alleviare nevralgie e stiramenti.
Le principali specie di Capsicum coltivate e di interesse commerciale sono
C. annuum, C. chinense Jacq. (von Jacquin, botanico olandese), C. frutescens,

171
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

(ora largamente coltivato in Europa e nel sud degli Stati Uniti, Africa, India e
Cina), C. baccatum e C. pubescens Ruiz and Pav (L. Ruiz, J. Pavòn, botanici
peruviani) coltivati soprattutto in sud America (38). La specie C. annuum è
quella più comune.
Il C. annuum L. è uno dei vegetali con il più alto contenuto di antiossidan-
ti ed una fonte eccellente di vitamina C, superiore anche a quella di arance e
limoni. Il migliore metodo di cottura per ridurne la perdita si basa sull’uso
delle microonde, per assicurare la massima ritenzione di antiossidanti. Inoltre
è ricco in polifenoli, in particolare di flavonoidi, quecetina e luteolina. I caro-
tenoidi predominanti sono la protovitamina A (alfa e beta-carotene) e xantofil-
le, i carotenoidi ossigenati. Questi ultimi composti hanno un’azione potenziale
contro alcune neoplasie, prevengono l’ulcera gastrica, stimolano il sistema
immunitario, proteggono dalle malattie cardiovascolari, dalla degenerazione
maculare e dalla cataratta. L’aroma del peperone verde è dovuto alla 2-metos-
si-3-isobutilpirazina (39).
La paprika è usata normalmente per aggiungere aroma e colore a molti
alimenti come prodotti da forno, bevande, carne, zuppe, gelati e come condi-
mento; trova anche impiego in medicina ed in cosmetica. È una sostanza aro-
matica molto ricca in composti biologicamente attivi e dotati di proprietà salu-
tari, come carotenoidi (provitamina A), acido ascorbico (vitamina C), tocofe-
roli (vitamina E), capsaicinoidi e composti fenolici. Tra questi sono di partico-
lare importanza l’acido vanillico (usato soprattutto per intensificare l’aroma),
caffeico, ferulico (ha spiccate proprietà antiradicali), para-cumarico, e para-i-
drossibenzoico; sono metaboliti secondari essenziali che contribuiscono alle
proprietà sensoriali degli alimenti come colore e aroma.
I derivati della quercetina estratti dai frutti del Capsicum inibiscono la pro-
liferazione di molte cellule tumorali sia “in vitro” che “in vivo”. Questi com-
posti fenolici e polifenolici, come abbiamo visto in più occasioni, hanno una
elevata attività antiossidante ed un potenziale salutistico, come ad es. effetti
vasoprotettivi, attività epato-protettrice, anti-infiammatoria, antitumorale, an-
tidiabetica e antiobesità.
La paprika è soggetta ad adulterazioni di vario genere, a scopo di lucro,
come: sostituzione di ingredienti, aggiunta di sostanze illecite e false dichiara-
zioni di origine.
A questo proposito la legislazione Europea (ECC No.510/ 2006) definisce:
a) Denominazione di Origine Protetta (DOP), un marchio di tutela che certifi-
ca l’origine; b) Indicazione Geografica Protetta (IGP), un marchio che vincola
i prodotti ad aree geografiche ben definite dove è avvenuto almeno uno stadio
di produzione. Inoltre, il riconoscimento di Specialità Tradizionali Garantite
(STG) protegge metodi di produzione tradizionali.
Attraverso la determinazione dei composti fenolici, mediante cromatogra-
fia liquida ad alta prestazione (High Performance Liquid Chromatography,
HPLC), abbinata a spettrometria di massa con ionizzazione elettrospray

172
Capitolo 7 Verdure e spezie

(ElectroSpray Ionization - ESI—Mass Spectrometry-MS) è possibile classifi-


care ed autenticare i prodotti della paprika, prevenendone le adulterazioni e
consentendone il corretto riconoscimento delle DOP (40).

7.19 Pepe nero e frodi alimentari

La pianta del pepe nero (Piper nigrum L.) è una pianta rampicante perenne,
che appartiene alla famiglia delle Piperaceae. È nativa delle foreste sempreverdi
delle colline nel sudovest dell’India. Le varietà coltivate sono molteplici, ciascu-
na con livelli di resa e piccantezza diversi. I grani di pepe vengono raccolti quan-
do sono ancora acerbi e separati dagli steli con una trebbiatrice. Dopo la raccol-
ta vengono seccati, di solito per esposizione al sole, durante la quale ha luogo
una reazione enzimatica che contribuisce al colore scuro dei grani.
Il pepe nero non è solo la più consumata fra le spezie, ma anche quella con
maggiori sbocchi commerciali. Nel 2017 i paesi produttori più importanti sono
stati nell’ordine Vietnam, Brasile, India, Indonesia, Sri Lanka, Cambogia e
Malesia, con il 96% della produzione globale di pepe nero.
Il pepe nero ha proprietà antimicrobiche, antinfiammatorie ed antitumora-
li; sono state messe in evidenza anche proprietà antidiabetiche (25); l’attività
antiossidante è attribuibile alla piperina, un alcaloide che contribuisce ad ac-
centuarne l’aroma.
Il pepe nero o il trattamento con piperina inibiscono i radicali liberi e le
specie reattive dell’ossigeno, riducono la perossidazione lipidica e stimolano
l’attività degli enzimi antiossidanti. Inoltre la piperina interagisce con la strut-
tura di farmaci di uso terapeutico e di fitochimici, aumentandone la biodispo-
nibilità (25).
L’ adulterazione del pepe è una pratica ben consolidata e antica. Circa
duemila anni fa, Galeno di Pergamo, medico e botanico greco, aveva messo in
guardia contro la sua adulterazione. Le frodi, spesso grossolane, si basano
sulla sostituzione dei grani del pepe nero con frutti o chicchi di altre specie
(e.g. semi di papaia o di lantana), che un occhio esperto può identificare. Il
pepe macinato è anche chiamato pepe grigio, perché il colore risulta dal misce-
lamento e dalla macinazione di grani di pepe bianco e di pepe nero.
Molti adulteranti, riportati in letteratura, hanno una colorazione analoga a
quella del pepe bianco-pepe nero; alcuni di questi sono presenti in altre spezie,
come il caffè, la cannella e la noce moscata, mentre altre sono ad esempio
l’amido di tapioca.
L’analisi mediante spettroscopia infrarossa (IR) è spesso usata come meto-
do semplice e veloce per controllare l’eventuale adulterazione delle spezie.
Una tecnica recente, basata su una combinazione di microscopia e spettrosco-
pia infrarossa, consente di identificare il composto adulterante del pepe nero e
di rilevare le frodi (41).

173
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

7.20 Zafferano

Il genere Crocus comprende circa 85 specie di piante appartenenti alla fa-


miglia delle Iridaceae. Fra queste il Crocus sativus Lè una delle più studiate,
considerando la produzione dello zafferano dai suoi stigmi.
Nei paesi dell’Asia questa erba perenne è nota come Zaafran, che significa
fiori gialli. Lo zafferano è anche noto come oro rosso, poiché è la più costosa fra
le spezie, con un prezzo di 40-60 euro per grammo. L’alto prezzo è principal-
mente dovuto alle operazioni di raccolta manuale dei fiori durante la stagione,
che dura 2-3 settimane. In secondo luogo, la coltivazione del Crocus sativus ri-
chiede tempo e molto personale, in quanto sono necessari circa 80 Kg di fiori per
produrre 1 kg di zafferano secco; almeno 220000 stigmi sono necessari per pro-
durre circa 500 g di pistilli, la cui delicata raccolta manuale consente di preser-
varne i composti aromatici. L’Iran è il maggiore produttore mondiale con 220000
kg, che corrispondono all’80% della produzione globale (42).
L’analisi chimica dello zafferano rivela la presenza di circa 150 componenti
volatili e non volatili. I componenti volatili sono principalmente terpenoidi e
alcoli terpenici, fra i quali il safranale è quello più utilizzato in campo terapeuti-
co. A loro volta i composti non volatili comprendono crocina, picrocrocina, cro-
cetina e crocine. In particolare crocine, picrocrocina e safranale sono responsa-
bili rispettivamente del colore caratteristico, del gusto amaro e dell’aroma.
Le proprietà salutari dello zafferano si ritrovano già descritte nelle antiche
ricette delle pratiche di medicina Unani (medicina tradizionale islamica),
Ayurveda e Omeopatica. Le sue applicazioni terapeutiche riguardano diverse
malattie, come le neoplasie, la patologia di Alzheimer, disfunzioni erettili, dia-
bete e malattie cardiovascolari. Lo zafferano aumenta le difese antiossidanti
dell’organismo, protegge il danno neuronale inibendo le molecole di radicali
reattivi dell’ossigeno, stimolando le proteine antinfiammatorie, aumentando la
quantità di serotonina (42).

7.21 Fieno greco

Il fieno greco (Trigonella foenum-graecum) è un’erba, le cui foglie e semi


sono usati come spezie. In particolare i semi sono ampiamente usati in medi-
cina per i loro effetti ipoglicemizzanti. L’analisi dei loro componenti attivi e
solubili rivela la presenza di 4-idrossi-isoleucina, un amino acido inconsueto
con un interessante potenziale terapeutico.
L’utilizzo di questa spezie non è comunque privo di controindicazioni; par-
ticolare attenzione va prestata sia alla quantità usata che alle interazioni con
farmaci. L’associazione con farmaci anticoagulanti ed antiaggreganti piastrini-
ci è particolarmente critica e può portare ad effetti emorragici (25).

174
Capitolo 7 Verdure e spezie

7.22 Spezie ed erbe a dosi relativamente alte migliorano la


pressione sanguigna in adulti

Kristina Petersen e collaboratori hanno studiato l’effetto di una dieta Ame-


ricana contente erba e spezie a 0,5, 3,3 e 6,6 grammi al giorno, 2100 Kcal fra
lipidi e proteine su 71 partecipanti (43).
Ricerche precedenti avevano mostrato che l’incorporazione di erbe e
spezie in un singolo pasto attenuano la lipemia postprandiale l’iperglice-
mia e migliorato lo stress ossidativo. Le linee guida in molti paesi, inclusi
Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, raccomandano di aromatizzare gli
alimenti con erbe e spezie come strategia per ridurre l’assunzione di sale.
Erbe e spezie possono anche essere un sostituto accettabile degli zuccheri
aggiunti.
Lo studio di Petersen e collaboratori per un periodo di 4 settimane con 24
erbe diverse ha mostrato che l’incorporazione di queste a dosi relativamente
alte (6,6 g al giorno) tende a migliorare la pressione sanguigna nelle 24 ore
rispetto all’assunzione di basse quantità (0,5 g al giorno).
Questi effetti sono risultati più pronunciati per le donne. D’altra parte non
sono stati osservati effetti della dieta per il colesterolo LDL.

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178
Cereali 8
8.1 Golden Rice

Il golden rice è una varietà di riso sviluppata alla fine degli anni ’90 dai
botanici tedeschi I. Potrykus e P. Beyer per risolvere la carenza di vitamina A,
che causa cecità nei bambini. Bassi livelli di vitamina A possono anche rappre-
sentare una delle concause che portano alla morte da malattie infettive come il
morbillo (1).
Spinaci, patate dolci e altre verdure forniscono sufficienti quantità di que-
sta vitamina, ma in alcuni paesi, in particolare quelli in cui il riso è il maggio-
re componente della dieta, la carenza di vitamina A è ancora diffusa.
Per creare il golden rice Potrykus e Beyer hanno collaborato con il co-
losso dell’agrochimica Syngenta per inserire nella pianta i geni responsabi-
li della produzione ed accumulo del beta-carotene nei chicchi. I ricercatori
hanno donato le loro piante transgeniche (OGM) a istituti di agricoltura del
settore pubblico, dando la possibilità ad altri studiosi di introdurre i geni del
golden rice in varietà che soddisfano il gusto locale e le condizioni di cre-
scita.
Recentemente esso è stato approvato per il consumo in Stati Uniti, Canada,
Nuova Zelanda ed Australia, anche se ne è impedita la coltivazione. Quello
messo a punto per soddisfare le necessità del Bangladesh, è stato creato all’In-
ternational Rice Research Institute (IRRI) in Los Banos, Filippine. I ricercato-
ri hanno introdotto i geni del beta-carotene in una varietà di riso chiamata dhan
29, che cresce facilmente durante la stagione secca in Bangladesh e contribui-
sce a circa il 14% del raccolto nazionale.
In Bangladesh è stata adottata un varietà di melanzane OGM, creata nel
2014 per resistere ad alcune malattie trasmesse da insetti. Queste coltivazio-
ne hanno dato riscontri positivi immediati (e.g. necessità di meno insettici-
da), mentre i benefici del golden rice sullo stato di salute avranno bisogno di
tempi più lunghi per essere pienamente apprezzati. Per quanto riguarda
quest’ultimo, i consumatori dovranno abituarsi al diverso colore dell’ali-
mento; d’altra parte, una volta cotto, esso assomiglia al khichuri, un piatto
popolare di riso e lenticchie, insaporito con curcuma, che può aumentarne la
appetibilità.

179
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

8.2 Olio di crusca di riso

È un sottoprodotto della lavorazione del riso ed è ricco di composti nutri-


zionali, quali il gamma-orizanolo. L’olio è largamente consumato in Cina,
Giappone e paesi del sud est asiatico ed è considerato un cibo salutare. In ge-
nere la crusca di riso contiene l’11%-13 % di proteine, 11%-12 % di fibra,
15%-20% di grassi, 40%-45% di carboidrati. L’olio è ricco in grassi insaturi ed
è un inibitore della iperlipidemia indotta e dello stress ossidativo; inoltre, la
buona stabilità contro l’ossidazione e l’irrancidimento, ne favorisce la conser-
vazione.

8.3 Crusca

I chicchi dei cereali come il mais, l’avena, il frumento e il riso contengo-


no principalmente amido, proteine, e polisaccaridi non amidacei (NSPs).
Essi consistono tipicamente di crusca, germe, e endosperma amidaceo. Al-
cuni cereali hanno anche un guscio, che in generale è rimosso prima che essi
vengano trattati per la dieta umana (2). A causa della crescente domanda di
alimenti salutari, la crusca ha attratto una forte attenzione come importante
fonte di fibre dietetiche naturali (DF). L’Efsa (European Food Safery Autho-
rity) definisce DF come carboidrati non digeribili. I tipi principali di DF
includono amido resistente, cellulosa, emicellulosa, (inclusi xilani, pectine,
e beta-glucani) e oligosaccaridi. Gli arabinoxilani (AX), una tipica DF cere-
ale, giocano un ruolo chiave nel mantenere l’integrità strutturale delle pareti
cellulari del cereale.
Essi sono stati associati a proprietà funzionali e bioattive, come proprietà
reologiche, capacita di formare film, capacità antiossidanti, modulazione dei
microbiota intestinali e regolazione del metabolismo.

8.4 Avena e suoi aromi

L’interesse per la chimica degli aromi dell’avena (Avena sativa L) deriva


dalla consapevolezza dei consumatori riguardo ai suoi effetti benefici sul no-
stro stato di salute (3).
L’avena viene largamente utilizzata come ingrediente nel porridge, nel
pane, nei biscotti, nelle barrette di snack ed è gradita per il suo gusto. È anche
associata ad una percezione generale di buona salute, giustificata del ricco
contenuto di beta-glucani, sia come fibra solubile che per il loro ruolo nella
riduzione della colesterolemia. Queste caratteristiche sono state riconosciute
dalla U.S. Food and Drug Administration (FDA) nel 1997 ed è consentito ai

180
Capitolo 8 Cereali

produttori di questo cereale di indicare nelle informazioni-profilo del prodotto


che il consumo giornaliero di 3 grammi della sua fibra solubile, nella dieta,
diminuisce i livelli plasmatici di grassi insaturi e colesterolo.
L’avena contiene una quantità di proteine di alta qualità (17%) considere-
volmente più elevata rispetto agli altri cereali (frumento 13%, orzo 12%, e riso
8%). Essa ha inoltre il più alto livello di grassi in confronto ad altri cereali, 5
volte maggiore di quello del grano ed un rapporto favorevole di acidi grassi
saturi e mono- e poliinsaturi.
Gli antiossidanti fenolici sono uniformemente distribuiti tra i lipidi localiz-
zati nell’endosperma e questo rende l’avena unica per la sua stabilità ossidati-
va. Questo cereale rappresenta una matrice molto complessa di proteine, car-
boidrati complessi, grassi e composti volatili. Nella frazione volatile dei chic-
chi privi di guscio sono stati individuati più di 110 composti, incluse aldeidi
insature e chetoni C8-C9.
L’avena come tale non ha aroma e deve essere scaldata per avere l’aroma
che richiama quello delle noci. Il calore determina la formazione di una serie
di composti derivati dalla reazione di Maillard, inclusi furanoni, tiazoli, pira-
zine sostituite.

8.5 Grano

Il grano (Tricum aestivum L), con una produzione mondiale di 763 milioni
di tonnellate nel 2019, è il cereale più coltivato al mondo; se si considera che
la popolazione mondiale continua a crescere, ci si aspetta che la sua produzio-
ne aumenti di circa il 60% nel 2050.
Esso è anche la coltivazione più importante in termini di apporto nutrizio-
nale globale, poiché fornisce circa il 55% dei carboidrati e più del 20% delle
calorie alimentari (4)). Complessivamente, vi sono miliardi di persone che si
alimentano con il grano. Può essere macinato e la farina utilizzata per alimen-
ti come pane, pasta e così via, rappresentando una componente importante
nella alimentazione attuale.
Questo cereale non è solo una fonte di energia e di nutrienti essenziali, ma
contiene anche numerose sostanze bioattive, che sono benefiche per la nostra
salute.
I principali ingredienti del grano integrale includono, fibre, flavonoidi, aci-
di fenolici, alchenil resorcinoli, fitosteroidi, tocoli, carotenoidi e altri compo-
nenti minori. La biodisponibilità di questi componenti è influenzata da molti
fattori che comprendono: a) la loro concentrazione nel cereale originale, b) il
genotipo, c) l’habitat di crescita e d) le metodologie utilizzate per produrre gli
alimenti.
Un chicco di grano consiste principalmente di germe, endosperma ed un
guscio esterno. Generalmente le sostanze sono distribuite in modo non unifor-

181
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

me tra questi costituenti e sono presenti soprattutto nella crusca. Per questa
ragione esse non sono presenti nei prodotti raffinati in quanto le frazioni del
germe e della crusca vengono eliminate.
Diversi studi epidemiologici hanno messo in luce che il consumo a lungo
termine di alimenti raffinati è strettamente correlato al rischio di alcune pato-
logie croniche come l’obesità, il diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e
tumori, mentre il consumo di grano integrale ha un effetto protettivo. Tuttavia
l’esatto meccanismo alla base di questo effetto non è chiaro poiché i benefici
fisiologici complessivi possono essere la risultante delle molteplici interazioni
(con effetti additivi o sinergici) tra i numerosi composti bioattivi.

8.6 Grano Saraceno

Il grano saraceno (Fagopyrum esculentum) è largamente consumato in


Asia e sta diventando popolare negli Stati Uniti, Canada e Europa. Cresce
preferibilmente nell’emisfero nord e può essere coltivato in condizioni più
avverse del riso. Esistono due varietà principali il Fagopyrum esculentum e il
Fagopyrum tataricum.
I più comuni allergeni sono latte, uova, arachidi, soia e sesamo, seguiti da
grano saraceno. L’allergia associata a questo ultimo in Italia è stata del 3,6 %
(5). Finora sono stati identificati cinque allergeni che causano varie reazioni
allergeniche, quali l’asma e lo shock anafilattico.

La Pasta
Parlare della pastasciutta, un vero e proprio simbolo dell’italianità nel mondo,
è impossibile senza ricordare il Boccaccio ed il suo Decamerone (1351)…“ Et
eravi una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la qua-
le stavan genti, che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni e ravioli e
cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava,
più se n’aveva”.
È un piatto ormai globale, fantasioso e diversificato, che spazia dalla pasta fre-
sca (ripiena o meno), per la quale Bologna si è sempre distinta come punto di
riferimento, alle pastine in brodo addizionate di glutine, tanto decantate nella
prima metà del Novecento come ‘rinforzo’ per la crescita dei bambini e la gua-
rigione dei malati. A questo proposito forse non tutti sanno che lo “scopritore”
del glutine è un bolognese, Jacopo Bartolomeo Beccari, insigne medico e fisico
docente dell’Alma Mater, che nel 1728 illustrò le proprietà della sostanza in una

182
Capitolo 8 Cereali

comunicazione orale all’Accademia delle Scienze di Bologna (curiosamente


pubblicata solamente nel 1745).
Un posto d’onore se lo ritaglia sua maestà il tortellino, di cui è stata celebrata
la nascita nel poemetto di Giuseppe Ceri, “L’origine del tortellino”, datato
1883. Egli parodiando la Secchia Rapita (il poema eroicomico scritto dal Tas-
soni nel 1614), completò la storia immaginando che Marte, Bacco e Venere
fossero giunti in una locanda di Castelfranco, per dar manforte ai modenesi.
Marte e Bacco di buonora si alzarono mentre Venere rimase a letto. Sveglia-
tasi e trovandosi sola si attaccò al campanello per chiamare l’oste, che giun-
to, trafelato, trovò la dea tutta discinta. Colpito dalla bellezza del divino om-
belico, scese in cucina, prese una sfoglia fresca e “…l’arte di fare il tortellino
apprese”.
Di certo c’è solo che le sue origini risalgono sicuramente al Medioevo: in una
pergamena datata 1112 si legge infatti “Tertia pars turtellorum monachorum
est” (la terza parte dei tortelli spetta ai monaci), mentre da una bolla di Papa
Alessandro III del 1169 apprendiamo che una chiesa doveva assegnare “duas
partes turtellorum”.
Dopo questi primi due riferimenti, i “tortelli” vengono citati più volte in docu-
menti dal 1200 in poi, tanto che nel Trecento e nel Quattrocento i “torteletti”, i
diretti antenati del tortellino, erano abbastanza diffusi, almeno tra la fascia più
ricca della popolazione, seppure la loro ricetta fosse ancora lontana da quella
attuale.
Per trovare nei documenti il vero e proprio termine “tortellini” arriviamo al
1708, quando il menù del pranzo natalizio dei monaci di San Michele in Bosco
riporta una “minestra di tortellini”. Proprio al ‘700 risale inoltre l’inserimento,
tra gli ingredienti del ripieno del tortellino, del midollo di bue. Questa ricetta
di Alberto Alvisi, cuoco del vescovo di Imola, ebbe talmente fortuna che nel tor-
tellino, fino alla prima metà del ‘900, il midollo era quasi d’obbligo. Per l’inseri-
mento nel ripieno della mortadella dobbiamo invece aspettare il 1800.
La ricetta del ripieno che nel 1891 Pellegrino Artusi propone nel suo manuale
“La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” è composta da 30 grammi di
prosciutto crudo, 20 grammi di mortadella, 60 grammi di midollo di bue, 60
grammi di parmigiano, un uovo e odore di noce moscata.
Pochi sono al giorno d’oggi quelli che usano il midollo di bue nel ripieno, a ri-
prova del fatto che la cucina segue i gusti della sua epoca, oltre al fatto che
ogni famiglia ha la propria variante della ricetta, che custodisce e tramanda di
generazione in generazione.
Va anche segnalata l’invenzione” delle tagliatelle da parte del celebre cuoco
Mastro Zafirano nel 1487. Ma l’origine delle tagliatelle è controversa, se è vero

183
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

che nel 1931 si organizza una cena per festeggiare il “Quinto anniversario della
tagliatella” celebrato in Bologna dalla “Famèja bulgnèisa”.
Filippo Tommaso Marinetti solo pochi mesi prima, nel Manifesto della cucina
futurista, aveva tuonato contro le malsane abitudini alimentari italiche nel fa-
moso proclama Contro la pastasciutta, a cui i bolognesi rispondono con il po-
emetto dialettale In difèisa dla pasta sòtta.
Proprio alla storia della pastasciutta sono stati dedicati i testi di cucina cinque-
centeschi, compilati da , Bartolomeo Scappi, Cristoforo Messisbugo ed altri; la
pasta è un piatto riservato alle mense dei nobili e richiede lavorazioni comples-
se e sofisticate, nonché sorprendenti per le nostre abitudini alimentari. Ma nel
secolo XVIII la pasta diventa il piatto del popolo, soprattutto a Napoli, dove i
maccheroni vengono mangiati per strada direttamente con le mani e conditi
solo da un’abbondante nevicata di formaggio.
Ma pensare alla storia della pastasciutta significa anche ripercorrere le innova-
zioni tecnologiche che ne hanno permesso la produzione e la commercializza-
zione, dalla lavorazione artigianale – che prende le mosse proprio a Napoli e a
Genova nel XVIII secolo – fino alla piena meccanizzazione raggiunta a fine Ot-
tocento.
Vanno anche ricordati gli alimenti vegetali che nei secoli hanno arricchito i
piatti di pasta: i ripieni, i condimenti e gli elementi utilizzati per “colorare” l’im-
pasto – l’ortica, lo zafferano – di cui gli erbari antichi offrono magnifiche illu-
strazioni.

8.7 Quinoa

La quinoa (Chenopodium quinoa Willd.) è una coltivazione analoga al gra-


no che ha fornito il nutrimento delle popolazioni autoctone delle Ande per
migliaia di anni. Gli Inca la consideravano la pianta madre, un dono degli dei.
La pianta può raggiungere i tre metri di altezza, i suoi semi possono essere
bianchi, gialli, rossi, viola o neri. È considerata normalmente come uno pseu-
docereale ed i semi possono essere macinati per dare farina, con proprietà
tecnologiche (e.g. estensibilità, elasticità, capacità di assorbire acqua) che as-
somigliano a quelle della famiglia delle Graminacee (grano).
Le Proteine (14%-17% del totale) contengono tutti gli amino acidi essen-
ziali, specialmente lisina e metionina e sono presenti in misura superiore a
quelle del riso, ma inferiori rispetto alla soia. Contengono un’alta quantità di
carboidrati (67%-74%); i grassi rappresentano il 6%-14%, soprattutto l’acido
linoleico, un acido omega-6.

184
Capitolo 8 Cereali

Vi sono anche fibre e metalli come Ca, Mg. Sono presenti anche acido fiti-
co e saponine (0,1%-5%), che vengono eliminate durante il processo di am-
morbidimento in un bagno d’acqua, in quanto hanno un gusto molto amaro.
Oltre all’eccellente valore nutrizionale, la quinoa ha un alto contenuto di fito-
chimici, come fitosteroli, fitoecdisteroidi, composti fenolici e peptidi bioattivi,
che possono contribuire al benessere metabolico, cardiovascolare e gastrointe-
stinale.
Essa è stata classificata dalla FAO “future smart food”, cioè un alimento
completo che può essere alla base di una dieta ben diversificata e migliorare
l’apporto di micronutrienti. Inoltre garantisce un miglior stato di salute del
suolo, richiede poco fertilizzante e resiste a cambiamenti climatici ed a condi-
zioni agricole avverse.
Questo pseudocereale ha la potenzialità di aumentare la sicurezza alimen-
tare globale per una popolazione mondiale in crescita costante, fornendo cibo
molto nutriente e coltivabile in terreni non adatti per altre coltivazioni.
Il 2013 è stato dichiarato Anno Internazionale della Quinoa, che è ora col-
tivata in più di 70 paesi; i maggiori produttori globali restano le nazioni della
catena Andina, Perù, Bolivia ed Ecuador.
Quella brasiliana è una varietà con un alto contenuto di proteine e basso
contenuto di grassi, composti per l’86% di acidi grassi insaturi, prevalente-
mente polinsaturi. L’acido organico prevalente è l’acido chinico, e sono pre-
senti tocoferoli, e glicosidi della quercetina e kaemferolo (6).

Dieta andina per millenni vicino al lago Titicaca


I sistemi alimentari giocano un ruolo integrale nelle società umane e la rico-
struzione delle pratiche di sostentamento è una componente chiave per com-
prendere l’evoluzione umana e il cambiamento culturale. Le vie del cibo posso-
no essere particolarmente ricche di informazioni sulla vulnerabilità o resilienza
nella risposta della società a forze intrinseche o estrinseche, come l’aumento
della popolazione o il cambiamento climatico. La certezza di una adeguata
quantità di scorte alimentari (food security), incluso un accesso sufficiente e
stabile a risorse nutritive, è fondamentale per sostenere la crescita demografi-
ca e sistemi sociali sempre più complessi (7). Studi archeologici su antiche pra-
tiche alimentari gettano luce su come gruppi umani hanno utilizzato varie ri-
sorse e conoscenze per trasformare il mondo attorno ad essi attraverso la
diversità di procacciamento del cibo e strategie di produzione, specialmente in
tempi di cambiamenti politici.
La quinoa, (Chenopodium quinoa Willd.) celebrata come superfood, ha acqui-
stato grande popolarità nell’ultima decade. Ma questo pseudocerele era già
apprezzato 3000 anni fa.

185
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

Miller e collaboratori hanno trovato che essa ha alimentato il sorgere di un’an-


tica civiltà Andina in una terra inospitale dal punto di vista climatico attraverso
secoli di sollevamento politico.
Essi hanno ricostruito le diete della popolazione che vivevano sull’altopiano
Andino a 3000 metri sul livello del mare, tra il 1400 prima di Cristo e il 100 dopo
Cristo.
In questo periodo, la regione crebbe da una società basata sull’agricoltura a un
potente impero il cui centro politico era Tiwanaku, situato in quella che ora è la
Bolivia.
Il gruppo di ricercatori ha trovato che per millenni la quinoa, le patate (Sola-
num tuberosum L.), l’ossalide tuberosa (Oxalis tuberosa Molina), un tubero
commestibile coltivato nella zona Andina fra i 200 e 3800 metri e i lama erano
gli alimenti principali per gli abitanti della regione.
Essi mangiavano anche poco pesce, nonostante vivessero vicino al lago e usa-
vano il mais per preparare bevande alcoliche in speciali occasioni.
Le evidenze per questa dieta sono state basate sull’analisi degli isotopi stabili di
scheletri umani su un periodo di due millenni, assieme a materiali della fauna
e della flora, accoppiata con l’analisi di amino acidi specifici.
La selezione e la produzione di quinoa, assieme ai tuberi e all’allevamento dei
lama crebbe nel tempo, favorendo il fiorire della cultura Tiwanaku, facilitando
la food security alimentare, la complessità e la resilienza attraverso episodi di
variazioni climatiche significative.

8.8 Chia

Salvia hispanica L, comunemente chiamata chia, è una pianta annuale del-


la famiglia delle Laminaceae, che cresce nei climi aridi o semiaridi. La pianta
è nativa del Mesoamerica e presenta la più grande diversità genetica sui pendii
della cordigliera che corre parallelamente all’Oceano Pacifico, dal Messico
centrale al nord del Guatemala. La chia è una delle colture principali delle
popolazioni pre-Colombiane; i Maia e gli Atzechi la usavano come medicina e
integratore alimentare per assicurare l’energia e la forza necessarie in condi-
zioni estreme. È coltivata in Messico da migliaia di anni ed è stata di recente
rivalutata per il suo alto potenziale nutrizionale.
I semi di chia sono considerati come uno pseudocereale ed hanno un alto
contenuto di olio, come mais e amaranto; sono una buona fonte di proteine,
con un’ alta quantità di antiossidanti naturali come i composti fenolici, inclusi
gli acidi clorogenico e caffeico, quercetina, kaemferolo ed un alto contenuto in

186
Capitolo 8 Cereali

fibre (più del 30% del peso totale. I semi sono ricchi in acidi grassi insaturi e
quasi il 60% è acido alfa-linolenico (omega-3).
Nel complesso essa è ricca in componenti di grande interesse nutrizionale
ed è potenzialmente efficace nel contrastare le malattie cardiovascolari e l’o-
besità, nella regolazione del transito intestinale, della colesterolemia e triglice-
ridemia, così come nella prevenzione del diabete di tipo 2 ed in certe forme di
neoplasie.
D’altra parte il suo contenuto di proteine nei semi è più alto rispetto alla
maggior parte dei semi di comune utilizzo; essi ne contengono circa il 19%-
23%, frumento (14%), mais (14%), riso (8%), avena (15,5%) e orzo (9,2%).
I semi possono anche essere usati come addensante e la loro mucillagine è
stata utilizzata per preparare film commestibili.
Essi hanno acquistato crescente popolarità negli Stati Uniti, nell’America
Latina ed in Australia come ingrediente nutrizionale, così come nella prepara-
zione di cereali per colazione e biscotti (8).
Il consumo di chia è aumentato anche in Europa a causa delle sue proprietà
funzionali e nutrizionali. Nell’Unione Europea, l’EFSA ha consentito l’uso
dei suoi semi interi o macinati nel 2005, come nuovo ingrediente nel pane e nei
suoi prodotti; comunque permangono alcuni dubbi sulla potenziale allergeni-
cità delle determinanti antigeniche (epitopi) delle globuline dei semi di chia e
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La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

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188
L’intossicazione 9
botulinica
Il botulismo è una delle più note e temute intossicazioni alimentari; è infat-
ti diffusa la consapevolezza che certi alimenti, preparati in condizioni non ap-
propriate, possono esserne la causa. Sebbene raro, si tratta di un evento grave,
i cui esiti possono essere fatali. Accanto a questa generica presa di coscienza,
esistono gravi carenze tra i consumatori sulle reali cause della malattia e sulle
misure di prevenzione onde evitare il rischio di intossicazione. Ogni anno, in
Italia, si registrano mediamente 20-30 casi, nella stragrande maggioranza do-
vuti al consumo di conserve prodotte in ambito domestico. Le linee guida at-
tuali sono realizzate dal Centro Nazionale di Riferimento per il Botulismo
(CNRB), istituito nel 1988 dal Ministero della Salute presso il Dipartimento di
Sanità Pubblica Veterinaria e Sicurezza Alimentare dell’Istituto Superiore di
Sanità, in collaborazione con il Ministero della Salute, la Facoltà di Bioscienze
e Tecnologia Agro-alimentari e Ambientali dell’Università degli Studi di Tera-
mo e con il Centro Antiveleni di Pavia.
L’intossicazione botulinica è una patologia rara, la cui diagnosi clinica
precoce è difficile. La maggior parte dei casi diagnosticati nel nostro Paese è
di origine alimentare: le conserve preparate in casa ne sono la causa principale,
anche se, praticamente ogni anno, vi sono motivi di allarme per preparazioni
dell’industria agro-alimentare. Talvolta possono risultare intossicate più per-
sone, indipendentemente dall’età e con sintomatologia di diversa gravità: la
concentrazione di tossina presente nell’alimento e la quantità di alimento inge-
rito determinano la gravità dell’intossicazione.
Tra i batteri patogeni, i più noti e importanti sono: Clostridium botulinum,
Salmonella spp., Listeria monocytogenes, Campylobacter spp., Escherichia
coli patogeni, Yersinia enterocolitica, Staphylococcus aureus, Bacillus cereus,
Clostridium perfringens, Shigella spp., Vibrio spp. Oltre ai batteri, vanno ri-
cordati tra i patogeni alimentari anche alcune specie di muffe e virus. Il Clo-
stridium botulinum e gli altri clostridi produttori di tossine botuliniche, sono i
microrganismi maggiormente implicati nelle malattie trasmesse da conserve
alimentari. Sono microrganismi sporigeni, anaerobi, molto diversi tra loro,
accomunati dalla capacità di produrre la sostanza più tossica per l’uomo fino
ad oggi conosciuta: la tossina botulinica.
Alla luce delle conoscenze attuali, oltre al noto Clostridium botulinum,
capace di produrre 8 tipi di tossine (denominate con le lettere dell’alfabeto
dalla A alla H), sono stati caratterizzati come produttori di tossine botuliniche,
anche altri microrganismi che solitamente non sono pericolosi e che si trovano

189
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

naturalmente nell’ambiente, nel suolo, nei sedimenti, nell’acqua, nei vegetali


e negli animali, sotto forma di spore. Possono facilmente venire a contatto con
gli alimenti e contaminarli. Le spore sono forme di resistenza che i microrga-
nismi utilizzano per sopravvivere in condizioni ambientali sfavorevoli. Quan-
do i clostridi produttori di tossine botuliniche sono sotto forma di spora non
sono pericolosi, ma possono diventarlo se si trasformano in cellule vegetative
che producono e rilasciano la tossina.
Bloccando la germinazione delle spore è quindi possibile rendere sicure
quelle conserve alimentari che altrimenti sarebbero pericolose. Le modalità di
controllo del rischio botulismo sono molteplici, ma non tutte possono essere
adottate facilmente.
A livello domestico è possibile bloccare la germinazione delle spore me-
diante acidificazione o aggiunta di sale o zucchero, oppure mediante congela-
mento. Tutte le conserve devono essere sterilizzate e quindi è necessario pre-
stare molta attenzione per prepararle in modo sicuro a livello domestico. Basti
pensare che le spore di Clostridium botulinum tipo A possono resistere a trat-
tamenti di bollitura a 100 °C anche per 5-6 ore.
Una nuova strategia per combattere questo, che è il più potente veleno al
mondo, è stata verificata, con successo, in modelli sperimentali animali. Due
diversi gruppi di ricercatori hanno sviluppato forme sterilizzate della tossina bo-
tulinica, grazie all’uso di anticorpi neutralizzanti che modificano la forma della
tossina stessa e la inattivano. In tal modo, la tossina inattivata resta in circolo, non
è in grado di legarsi ai motoneuroni e la funzionalità muscolare è garantita. Que-
sto trattamento, se fosse confermato nell’uomo, sarebbe il primo in grado di ri-
solvere gli effetti paralizzanti della tossina a carico delle cellule nervose e rispar-
miare ai pazienti lunghe degenze in condizioni di ventilazione meccanica (1).
Vale la pena di ribadire che le tossine botuliniche sono le sostanze più
tossiche per l’uomo, finora conosciute. Basti pensare che un grammo di tossi-
na pura può provocare la morte di 14.000 persone se assunta per via orale,
1.250.000 persone per inalazione e 83.000.000 per iniezione. Il consumo di
quantità anche minime di alimenti contaminati può provocare una sintomato-
logia grave e addirittura può essere fatale. In Italia, è stato riportato il caso di
un ragazzo che ha richiesto un trattamento in terapia intensiva, soltanto per
avere assaggiato un’oliva contaminata.
Nonostante la loro elevatissima tossicità, queste tossine trovano ampio im-
piego in medicina per il trattamento di innumerevoli patologie a carico del si-
stema nervoso ed in cosmesi.
La sindrome più tipica dell’intossicazione è caratterizzata da paralisi flac-
cida discendente, in paziente cosciente e senza febbre. Nel botulismo alimen-
tare, assorbita a livello intestinale, la tossina raggiunge per via vascolare e/o
linfatica le terminazioni del sistema nervoso.
L’intossicazione alimentare si manifesta in media 12-48 ore dopo l’inge-
stione del cibo contaminato, ma il periodo di incubazione può variare da qual-

190
Capitolo 9 L’intossicazione botulinica

che ora fino a due settimane. La gravità della malattia dipende dalla quantità di
tossina ingerita; è discriminante anche il tipo di tossina, in quanto quella di
tipo A sembra essere responsabile delle forme più gravi. I sintomi sono essen-
zialmente costituiti da paralisi flaccida e disturbi secretori, in assenza di feb-
bre, spesso preceduti da spossatezza, bocca asciutta, nausea, vomito e diarrea.
L’analisi tramite elettromiografia (studio dei potenziali d’azione delle fibre
motrici) può mettere in luce alterazioni caratteristiche che consentono di diffe-
renziare il botulismo da altre patologie. Nei casi ad esito favorevole si osserva
un lento e progressivo recupero funzionale.
Tra le cause della carente sterilizzazione che permettono la germinazione
delle spore e la conseguente produzione di tossine, possiamo ricordare l’assen-
za di ossigeno all’interno dei contenitori, la temperatura ambiente ed il lungo
periodo di conservazione. Come sistema di controllo della sterilizzazione del-
le conserve poco acide (pH >4,6), viene applicato il criterio del “minimum
botulinum cook” che corrisponde al riscaldamento a 121°C per 3 minuti o
trattamento equivalente.
A livello domestico questo processo non è applicabile in quanto, per effet-
tuare trattamenti con vapore surriscaldato, è necessario utilizzare strumenta-
zioni in grado di reggere pressioni elevate. La pentola a pressione non è in
grado di garantire il raggiungimento delle pressioni richieste e quindi delle
temperature idonee alla distruzione delle spore resistenti al calore.
Secondo la definizione della Food and Drug Administration (FDA), la ste-
rilizzazione è un processo capace di distruggere tutte le forme vitali dei mi-
crorganismi, incluse le spore batteriche. La sterilizzazione avviene mediante
l’azione del vapore surriscaldato a temperature maggiori di 100 °C, in apposi-
te apparecchiature dette autoclavi ed è applicata quando sussiste il rischio che
si verifichino condizioni favorevoli allo sviluppo di Clostridium botulinum
come: a) conservazione a temperatura ambiente, b) confezionamento in scato-
le, vasi o buste sotto vuoto, c) bassa acidità (pH >4,6), d) valori elevati di atti-
vità dell’acqua (>95).
È curioso ricordare che anche il miele, essendo un prodotto naturale, può
contenere le spore di clostridi produttori di tossine, le quali però, date le carat-
teristiche chimico-fisiche del prodotto, restano quiescenti e non sono in grado
di germinare, crescere e produrre tossine. Pur tuttavia, l’ingestione di miele
contaminato può costituire un veicolo per l’introduzione delle spore nell’inte-
stino del neonato ed è consigliabile evitarne l’impiego.
Per quanto riguarda i prodotti confezionati sottovuoto in ambiente dome-
stico, l’estrazione dell’aria e quindi dell’ossigeno, se da un lato impedisce lo
sviluppo dei microrganismi aerobi, dall’altro può comunque permettere la ger-
minazione delle spore dei clostridi. Pertanto si suggerisce di evitare di conser-
vare gli alimenti sotto vuoto per lunghi periodi.
La conservazione domestica sottovuoto non costituisce un rischio se appli-
cata a carni trattate ed ai prodotti destinati al congelamento: infatti i primi,

191
La chimica nel piatto: fatti e misfatti delle diete

generalmente si conservano in frigorifero per pochi giorni, gli altri vengono


immediatamente congelati dopo il sottovuoto. In entrambi i casi le eventuali
spore non avrebbero il tempo di germinare e produrre tossine.
I prodotti macrobiotici come per esempio tofu e seitan sono stati più volte
correlati a casi di botulismo alimentare. Tali prodotti infatti, date le loro carat-
teristiche chimico-fisiche, permettono la formazione e lo sviluppo (tossinoge-
nesi) dei clostridi.
In generale, per quanto riguarda il rischio botulismo, i prodotti sono sicuri
se il loro pH è minore di 4,6. Questo valore, difficilmente può essere determi-
nato in maniera precisa, in ambiente domestico, senza l’uso di un pH-metro,
ma per l’uso corrente è sufficiente usare una cartina di tornasole facilmente
reperibile in commercio e mantenere un pH a valore 4.

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192
Glossario

Acheni. Un piccolo frutto secco che non si apre per rilasciare il seme.
Acidi. Sono specie chimiche che cedono protoni (specie H+) a un mezzo acquoso.
Acidi grassi. Acidi carbossilici di formula generale R–COOH in cui R è una lunga ca-
tena di atomi di carbonio, legati fra di loro e con atomi di idrogeno mediante legami
semplici.
Acido docosaesaenoico (DHA). Un acido grasso omega–3 a 22 atomi di carbonio. Pro-
tegge dalle patologie cardiovascolari e contribuisce al mantenimento di una funzio-
nalità cerebrale ottimale. È presente in elevate quantità nei pesci grassi, aringhe,
sardine, salmone, tonno, sgombro.
Acido eicosapentaenoico (EPA). Un acido grasso omega–3 a 20 atomi di carbonio. È un
precursore della sintesi di DHA e può essere metabolizzato a prostaglandine con
scarsa attività pro–infiammatoria. È presente negli stessi pesci che contengono
DHA.
Acidi grassi essenziali (EFA). Acidi grassi omega–3 ed omega–6 che non sono sintetiz-
zati dal nostro organismo, ma vanno assunti con la dieta (pesce, noci, oli vegetali,
vegetali a foglia verde scuro).
Acidi grassi monoinsaturi (MUFA). Acidi grassi contenenti un doppio legame, ad esem-
pio olio d’oliva.
Acidi grassi polinsaturi (PUFA). Termine usato per descrivere la struttura molecolare di
acidi carbossilici a lunga catena contenenti doppi legami carbonio–carbonio. Sono
presenti soprattutto in oli vegetali.
Acidi grassi n–3 PUFA. Acidi carbossilici polinsaturi con il primo doppio legame
sull’atomo di carbonio 3 a partire dal metile teminale.
Acidi n–6 PUFA. Acidi grassi polinsaturi con il primo doppio legame sull’atomo di
carbonio 6 a partire dal metile terminale. Includono olio di soia, di mais e di gira-
sole.
Acidi grassi saturi. Acidi grassi privi di insaturazioni. Includono oli tropicali come l’o-
lio di palma e di cocco.
Additivi alimentari. Nome generico che indica le sostanze aggiunte agli alimenti per
conferire loro particolari proprietà antiossidanti, stabilizzanti, aromatiche, ecc.
Aglicone. La porzione non zuccherina di un glicoside.
Alcaloidi. Un largo gruppo di prodotti naturali basici strutturalmente diversi contenenti
azoto.
Alcoli. Composti organici di formula generale R–OH, che possono essere formalmente
considerati come derivati da un idrocarburo RH per sostituzione di un atomo di
idrogeno con un gruppo OH (ossidrile).
Alcol etilico o etanolo. È il più importante membro della famiglia degli alcoli, prodotto
dalla fermentazione enzimatica degli zuccheri monosaccaridi.
Alga. Semplice pianta fotosintetica, che non è divisa in radici, steli e foglie.
Alimenti biologici. Alimenti fatti crescere e raccolti senza l’uso di fertilizzanti chimici,
pesticidi, erbicidi e fungicidi.
Amido. Polisaccaride di origine naturale presente soprattutto nelle patate e nei cereali,
costituito da amilosio e amilopectina.

193
Glossario

Amilasi. Enzima che catalizza l’idrolisi di polisaccaridi come l’amido.


Amilosio. Costituente dell’amido con struttura lineare e solubile in acqua calda.
Amino acidi. Composti organici di formula generale RCH(NH2)COOH, che presentano
un gruppo amminico (NH2) e un gruppo carbossilico COOH sullo stesso atomo di
carbonio. Sono i monomeri da cui si formano i polimeri chiamati peptidi e proteine.
Antibiotici. Composti chimici, originariamente prodotti da batteri a scopo difensivo,
usati per combattere le infezioni batteriche.
Antiossidanti. Sono sostanze in grado di diminuire la velocità d’ossidazione degli ali-
menti. Vedi la voce ossidazione.
Antociani o antocianine. Pigmenti colorati presenti in vegetali, frutta, vino rosso. Ap-
partengono alla classe dei flavonoidi.
Aterosclerosi. Una degenerazione vascolare caratterizzata da perdita di elasticità, ed
ispessimento delle arterie che possono essere ostruite da depositi di grasso, la plac-
ca ateromasica.
Autossidazione. Fenomeno di ossidazione spontanea di sostanze organiche provocato
dalla presenza di ossigeno atmosferico.
Basi. Secondo la definizione classica sono specie in grado di cedere ioni OH–(ossidrili)
a una soluzione acquosa. Vedi anche pH.
Batteri. Organismi microscopici unicellulari ubiquitari, che hanno un ruolo importante
nel decadimento della materia organica e nella fissazione dell’azoto.
Benzene. Sostanza tossica con la formula C6H6, caratterizzata dall’alternanza di tre
legami semplici e tre legami doppi carbonio–carbonio.
Bevande light. Compensano la mancanza del naturale effetto antibatterico dello zucche-
ro mediante l’aggiunta di conservanti chimici.
Bifidobatteri. Sottotipo di batteri, solitamente probiotici, contenuti in latticini, yogurt e
latte materno.
Butirrato. Acido grasso a catena corta con effetti salutari, prodotto dai batteri del colon
durante la digestione di cibi contenenti fibre e carboidrati. Ha azione antiossidante
e antinfiammatoria e regola l’azione del sistema immunitario.
Caloria. Una unità comunemente usata per misurare il contenuto energetico di alimen-
ti e bevande, così come l’energia spesa dal corpo.
Carboidrati o idrati di carbonio. Termine desueto per designare glucidi e polisaccaridi.
Include zuccheri, amidi e fibre.
Carico glicemico (GL). Indice dell’ammontare di zuccheri assimilabili presenti in un
alimento.
Carotenoidi. Pigmenti naturali liposolubili con colorazioni dal rosso all’arancio, carat-
terizzati dall’alternanza di legami semplici e legami doppi carbonio carbonio.
Catalisi. Aumento della velocità di reazione di processi chimici e biochimici, dovuto
all’intervento di specie chimiche, chiamate catalizzatori, che non vengono consu-
mate nel corso della reazione. Gli enzimi, vedi sotto, sono dei catalizzatori biologi-
ci.
Cellulosa. Un polisaccaride composto di unità di glucosio e che forma le pareti cellula-
ri delle piante.
Cibo industriale. L’80% è costituito da soli 4 ingredienti (mais,grano, soia, carne).
Clorofilla. Pigmento delle piante verdi, contenente un gruppo eme legato a ioni Mg 2+,
che rende possibile la fotosintesi, cioè la reazione fra anidride carbonica ed acqua
per dare zuccheri.
Clostidrium difficile. Batterio patogeno, non di rado resistente agli antibiotici, che può
produrre tossine che provocano gravi danni intestinali.
Colesterolo. Alcol tetraciclico appartenente alla famiglia degli steroidi,presente in tutti
i tessuti. È precursore di acidi biliari e di ormonisteroidei. Include HDL–colestero-
lo, lipoproteine a alta densità eLDL–colesterolo, lipoproteine a bassa densità.

194
Glossario

Colon. Parte inferiore dell’intestino, dove vivono la maggior parte dei batteri e dei mi-
crobi che digeriscono il cibo ricco di fibre non assorbito dall’intestino tenue.
Coloranti. Sostanze capaci di impartire colore ai materiali con cui danno interazioni
molecolari.
Denaturazione. Se riferita a proteine indica una modificazione della loro struttura tridi-
mensionale a causa di fattori fisici come il calore o chimici.
Dna. Acido desossiribonucleico, mattone fondamentale del nostro patrimonio genetico.
Emicellulose. Gruppi di polisaccaridi di varia natura, presenti in grande quantità nelle
pareti delle cellule vegetali e come materiale di riserva delle piante.
Enzima. Proteina dotata di proprietà catalitiche, in grado di accelerare di milioni di
volte le reazioni di tipo biologico.
Epidemiologia. Studio di ampi gruppi o popolazioni al fine di scoprire le cause di una
malattia.
Epigenetica. Descrive i meccanismi per cui i segnali chimici attivano o disattivano i
geni senza alterare la struttura del Dna.
Essenze od oli essenziali. Sostanze naturali complesse del mondo vegetale o animale, di
profumo intenso, spesso miscele di composti chimici, quali glucosidi, aldeidi e
chetoni, esteri, acidi, terpeni e fenoli.
Estrazione. Operazione chimica che consente la separazione di un componente liquido
o solido facente parte di una miscela dagli altri componenti, attraverso l’uso di un
opportuno solvente.
Fenoli. Derivati del benzene per sostituzione di un atomo di idrogeno dell’anello benze-
nico con un gruppo OH.
Fermentazione. Trasformazione operata su sostanze organiche da microrganismi (muf-
fe, lieviti, batteri).
Fibre. Componenti di piante, frutta, vegetali, noci, cereali integrali che non sono dige-
riti–assimilati dall’organismo. Esistono in forma solubile ed insolubile. Le fibre
solubili possono contribuire a regolarizzare i livelli ematici di zucchero e colestero-
lo LDL.
Flavonoidi. Sostanze di natura polifenolica presenti in frutta, fiori, noci, cacao; sono dei
fitochimici.
Fitoalessine. Composti prodotti da una pianta in risposta ad un attacco microbico.
Fitotossine. Metabolita microbico, che è tossico per la pianta.
Folato. Vitamina B9 presente in particolare in germogli di broccoli.
Fotosintesi. Processo che avviene nelle piante verdi per azione della clorofilla, che con-
sente la trasformazione di energia luminosa in energia chimica e la trasformazione
di anidride carbonica ed acqua in zuccheri.
Fruttosio. Monosaccaride naturale a sei atomi di carbonio, che si trova in molti frutti e
nel miele.
Funghi. Microrganismi eucariotici, che non sono fotosintetici e che ottengono i loro
nutrienti per degradazione o assorbimento dal loro intorno.
Geni. Sostanze chimiche presenti sul Dna che contengono le istruzioni per sintetizzare
una particolare proteina.
Glicosidi. Molecole composite che contengono uno o più zuccheri attaccati a un aglico-
ne.
Glucidi. Idrossialdeidi o idrossichetoni, che comprendono le classi di monosaccaridi,
disaccaridi e polisaccaridi.
Glucosio. Monosaccaride a sei atomi di carbonio, estremamente abbondante in natura,
noto anche come destrosio.
Glutammato di sodio. Sale monosodico dell’acido glutammico. È largamente presente
nel glutine, da cui proviene il nome. Viene usato nell’industria alimentare, per il suo
gusto di carne, per intensificare i sapori.

195
Glossario

Glutine. Massa elastica formata dalle proteine del grano in seguito alla miscelazione
della farina con l’acqua.
Gomasio. Un condimento fatto con semi di sesamo arrostiti, macinati e miscelati con
sale marino.
Grassi. Uno dei macronutrienti e una fonte di energia, si veda acidi grassi e oli.
Gusto. Sistema sensoriale capace di individuare cinque diverse modalità corrispondenti
ai gusti fondamentali: il salato, il dolce, l’acido, l’amaro e l’umami.
HDL. Lipoproteina ad alta densità; combinazione di un lipide e di una proteina che
permette di trasportare i grassi nel corpo in modo sicuro. Il livello di HDL nel san-
gue viene rapportato con la versione dannosa, le lipoproteine a bassa densità LDL.
Idrofilicità. Proprietà delle sostanze che mostrano affinità per l’acqua a causa dei grup-
pi polari presenti.
Idrofobicità. Proprietà delle sostanze con scarsa affinità per l’acqua e alta affinità per
sostanze organiche poco polari.
Indice di massa corporea (BMI). È un dato biomimetico, espresso come rapporto tra
peso e quadrato dell’altezza in metri di un individuo, un indicatore affidabile del
grasso corporeo totale.
Indice glicemico (GI). Indice degli zuccheri presenti negli alimenti e prontamente as-
sorbibili. GI è direttamente correlato alla rapidità di assorbimento degli zuccheri.
Infiammazione. Complesso di reazioni, che si verificano localmente in risposta ad agen-
te lesivo.
Insulina. Ormone che risponde al glucosio nel sangue, regolando la quantità di zucche-
ro immagazzinato come glicogeno nel fegato e come grasso nelle cellule adipose.
Insulino–resistenza. Innalzamento ridotto dell’insulina dopo l’ingestione di glucosio.
Comporta una maggiore produzione di insulina da parte del pancreas per tenere
sotto controllo il livello di glucosio; porta al diabete.
Inulina. Sostanza a forte azione prebiotica che favorisce il moltiplicarsi di batteri. Pre-
sente in concentrazioni elevate in topinambur, cicoria, aglio, cipolle e in piccola
quantità nel pane.
Irrancidimento. Fenomeno di degradazione dei grassi. Si manifesta con odori o sapori
sgradevoli dovuti all’autossidazione dei doppi legami presenti.
Kombu. Un’alga verde scuro, che cresce nelle acque profonde dell’oceano, ricca di
minerali essenziali.
Kukumi. Il sesto supposto sapore; significa pienezza al gusto.
Lattobacilli. Batteri che demoliscono il lattosio contenuto nel latte o in altri zuccheri
trasformandolo in acido lattico.
Lieviti. Microrganismi eucariotici simili ai funghi, che si trovano spesso sui frutti e che
possono essere responsabili della fermentazione di zuccheri per formare etanolo.
Lipidi. Famiglia eterogenea di sostanze idrofobe, solubili in solventi organici, compren-
de grassi, fosfolipidi, carotene, vitamina E, colesterolo. Il termine deriva dal greco
lipos, che significa grasso.
Lipoproteine. Complesso proteico che comprende proteine e lipidi e che funge da tra-
sportatore del colesterolo.
Lipoproteine a bassa densità (LDL). Lipoproteine che trasportano il colesterolo ai tes-
suti; alti livelli di LDL sono associati a patologie vascolari. Noto come “colesterolo
cattivo”.
Lipoproteine ad alta densità (HDL). Liporoteine che portano il colesterolo al fegato,
dove ha luogo il metabolismo e l’escrezione. Note come “colesterolo buono”.
Macronutriente. Nutriente presente nelle diete in quantità elevate che ha definiti effetti
nutrizionali, un ruolo metabolico certo ed è fonte di energia per l’organismo uma-
no.

196
Glossario

Meta–analisi. Tecnica che combina i risultati di molti studi di impianto simile e che
hanno esaminato quesiti simili, per aumentare la numerosità del campione di valori
su cui si ragiona e quindi l’affidabilità delle conclusioni. Può essere fuorviante se
tutti gli studi presentano errori sistematici.
Metabolismo. Modo in cui il corpo e le cellule usano e consumano energia.
Metabolomica. Studio dei metaboliti.
Micotossine. Metaboliti microbici prodotti da funghi filamentosi, che sono tossici per
l’uomo e per gli animali.
Microbioma. Comunità di microbi che abitano l’intestino umano, la bocca o il suolo.
Micronutrienti. Sostanze quali vitamine, sali minerali o elementi in traccia che sono
indispensabili per la crescita e lo sviluppo.
Monoinsaturi. Acidi carbossilici di formula generale R–COOH con un doppio legame.
Neurotrasmettitore. Sostanza chimica che permette alle cellule nervose (neuroni) di
comunicare e controllare l’umore.
Nutraceutico. Un cibo o una bevanda che fornisce vantaggi per la salute del consuma-
tore, al di là del semplice aspetto nutrizionale.
Nutriente denso. Alimento o bevanda che fornisce vitamine, minerali e altre sostanze,
senza aggiunta di calorie provenienti da grassi, zuccheri o amidi raffinati.
Olio. Tipo di grasso liquido a temperatura ambiente.
Omega–3. Sono acidi polinsaturi con doppio legame sul terzo atomo di carbonio a par-
tire dal metile terminale e composti essenziali che l’organismo non è in grado di
produrre da solo.
Omega–6. Sono acidi grassi polinsaturi con doppio legame sul sesto atomo di carbonio
a partite dal metile terminalecontenuti in molti alimenti quali soia, olio di palma,
frutta secca e semi.
Ossidazione. Con questo termine si indicava in origine la reazione di un elemento o un
composto con ossigeno che spesso veniva in essi incorporato. Il processo inverso,
la perdita di ossigeno, veniva a sua volta chiamato riduzione. In senso più generale
vengono ora chiamate ossidazioni quei processi che comportano perdita di elettroni
da parte di un elemento o un composto, e riduzioni i processi in cui vengono acqui-
siti elettroni.
Patologie coronariche. Degenerazioni aterosclerotiche delle arterie coronariche che
possono causare angina pectoris, infarto del miocardio e morte improvvisa.
Peptidi. Composti organici costituiti da due o più alpha–amino acidi, uniti fra di loro da
un legame peptico, detto anche ammidico (–CONH–).
Pericarpo. La parete di un frutto che circonda i semi.
pH. È la misura standard dell’attività dei protoni ed è compresa fra 0 e 14. Una soluzio-
ne acquosa è detta neutra se ha un pH eguale a 7, acida se ha un pH minore di 7 e
infine basica se ha un pH maggiore di 7.
Pigmenti. Sostanze che impartiscono colorazione ai supporti in cui sono incorporati.
Polifenoli. Vasto gruppo di sostanze chimiche, che comprende flavonoidi con proprietà
antiossidanti. Sono contenuti in frutta, verdura, frutta secca, tè, caffè, birra e vino.
Polimeri. Macromolecole di elevate dimensioni, formate dalla ripetizione di unità strut-
turali, dette monomeri, legate fra di loro da legami in genere covalenti. Compren-
dono fra gli altri proteine e polissaccaridi.
Polinsaturi. Acidi carbossilici di formula generale R–COOH con due o più doppi lega-
mi.
Prebiotici. Carboidrati complessi che contribuiscono alla crescita di batteri salutari nel
colon.
Precursore. Sostanza dalla quale nell’organismo se ne forma un’altra più complessa e
in genere più attiva attraverso il metabolismo.

197
Glossario

Probiotici. Supplementi alimentari ricchi di batteri in grado di migliorare la funzionali-


tà intestinale.
Proteine. Composti organici costituiti da lunghe catene di alfa–amino acidi (tra 100 e
100), unite assieme da un legame peptidico.
PUFA. Acidi grassi polinsaturi, costituiti da acidi grassi a lunga catena con diversi dop-
pi legami.
Radicali liberi. Intermedi di reazione altamente reattivi, contenenti un elettrone spaiato.
Sono coinvolti in molte reazioni, quali la polimerizzazione e l’ossidazione dei gras-
si.
Reazione di Maillard. Reazione alquanto complessa che avviene fra gruppi amminici
liberi di amino acidi, peptidi e proteine con carboidrati.
Resveratrolo. Polifenolo naturalmente presente nel vino e in alcuni alimenti come ara-
chidi e frutti di bosco.
Saccarosio o zucchero da tavola. Disaccaride formato dalla condensazione di una mo-
lecola di glucosio con una molecola di fruttosio. Solubilissimo in acqua, cristallizza
a dare cristalli dal sapore dolce.
Tannini. Gruppo di sostanze di origine vegetale, molto diffuse in natura e in gran parte
riconducibili all’acido gallico, un fenolo sostituito contenente una funzione carbos-
silica.
Testura. Consistenza–struttura del cibo. La sua percezione è un monitor sensoriale dei
cambiamenti fatti dal cibo in seguito ai processi che avvengono nella bocca.
Terpeni. Gruppo vasto ed eterogeneo di composti altamente volatili, costituiti in gran
parte da multipli di una unità strutturale di base di cinque atomi di carbonio, detta
unità isoprenica.
Trans. Acidi grassi insaturi con almeno un doppio legame in configurazione trans.
Trigliceridi. Molecole formate da una molecola di glicerolo cui sono legati tre acidi
grassi. Rappresentano la più comune forma di molecole di grassi negli alimenti e
nell’organismo. I trigliceridi circolano nel sangue trasportati dalle lipoproteine; alti
livelli sono considerati un fattore di rischio per patologie cardiovascolari.
Umami. Gusto fondamentale, presente in alimenti ricchi in alfa– amino acidi. Il compo-
sto umami per eccellenza è il glutammato di sodio. È un termine giapponese che
significa saporito, carnoso.
Virus. Microbi che si nutrono in genere di batteri.
Vitamine. Famiglia largamente eterogenea di composti con strutture e solubilità molto
diverse, coinvolti in molti processi metabolici e in funzioni di regolazione negli
organismi viventi. Sono così chiamate per il loro ruolo biologico e per la presenza
del gruppo amminico NH2. Sono molecole essenziali per il funzionamento delle
reazioni chimiche corporee. Si ricavano dal cibo, dalla luce solare (vitamina D) e
dai microbi intestinali.
Zuccheri. Altro nome dei glucidi.
Zuccheri aggiunti. Sciroppi e altri dolcificanti calorici usati come dolcificanti in altri
alimenti.

198
Appendice
Il parere del nutrizionista
Schede di approfondimento a cura di Paolo Buonaiuto

A1. La piramide alimentare moderna e sua interpretazione

Con l’avvento delle super-tecnologie, della globalizzazione in senso gene-


rale, la nascita e la diffusione dei social-network e di figure professionali (in-
fluencer, youtuber, instagrammer) ad essi correlati, si è sempre più diffuso un
modello dietetico di tipo occidentale, molto distante da quello mediterraneo
originato da popolazioni rurali povere e basato principalmente sul consumo di
cereali, verdure, frutta, semi e con l’olio di oliva come fonte primaria di grassi.
La dieta occidentale è totalmente in antitesi con il modello mediterraneo,
in quanto prevede il consumo di cibi già pronti, industriali, ricchi in grassi
saturi e zuccheri raffinati e, quindi poveri di micronutrienti essenziali quali
vitamine, minerali e fibre, denaturati dai trattamenti eccessivi di lavorazione e
trasformazione. Il modello grafico piramidale, noto come “piramide alimenta-
re” si è diffuso a livello mondiale intorno agli anni ’90, mediante la rappresen-
tazione grafica di tutti i gruppi alimentari, la loro importanza e la frequenza di
assunzione e la disposizione lungo i gradini di una piramide.
Nel 2009, a seguito di una proposta condivisa tra Fondazione Dieta Medi-
terranea e Forum culture alimentari in base delle nuove evidenze scientifiche
sui reali benefici della dieta mediterranea e il suo ruolo sulla prevenzione di
molte malattie croniche legate a dieta e stili di vita scorretti, nasce la nuova rap-
presentazione grafica della dieta mediterranea (DM) che nel 2010 viene rico-
nosciuta come patrimonio immateriale dell’umanità da parte dell’UNESCO.
La nuova iconografia della piramide alimentare è, in realtà, un modello di
dieta sostenibile che rispetta l’ambiente, promuove la biodiversità, l’attività
fisica, i patrimoni culturali locali, l’interazione sociale e gli aspetti economici
e la sostenibilità per il pianeta rispetto al modello precedente che prevedeva
solo una scala graduata dei vari gruppi alimentari e frequenza di consumo.
In particolare, il nuovo modello DM fornisce elementi chiave per la sele-
zione degli alimenti, sia a livello quantitativo che qualitativo, indicando le pro-
porzioni relative e la frequenza di consumo delle porzioni dei principali grup-
pi alimentari che rappresentano il modello di DM. Il modello include tutti i
gruppi alimentari e l’ampia varietà riduce il rischio di carenze di un particola-
re nutriente. Gli alimenti di origine vegetale sono collocati alla base della pi-
ramide; essi forniscono importanti nutrienti, come fibre, vitamine, minerali e
antiossidanti che hanno un elevato potere protettivo verso la cellula, inducono

199
Appendice – Il parere del nutrizionista

un maggiore senso di sazietà per il mantenimento di una dieta equilibrata e


favoriscono una migliore aderenza al modello dietetico favorendo il controllo
del peso, importante fattore per la prevenzione di molte malattie. Salendo lun-
go la piramide, troviamo i cereali, soprattutto non raffinati, i legumi che sono
la principale fonte energetica; poi, i grassi “buoni” dell’olio di oliva, pesce e
frutti di mare; salendo ancora, troviamo le carni magre, i formaggi e i latticini
da consumare con moderazione per il contenuto in grassi; vi è, però, da dire
che vi sono alcuni cibi derivati da questa categoria, come lo yogurt ma anche i
cibi fermentati che meritano una citazione a parte. Infatti, le evidenze scienti-
fiche sottolineano il ruolo importante di questi cibi per la salute del “microbio-
ta intestinale” che sembrerebbe avere un ruolo determinante per la normale
funzione di molti organi ma soprattutto giocherebbe un ruolo importante sulla
salute immunitaria. Infine, man mano che ci avviciniamo all’apice, ritroviamo
alimenti cosiddetti “occasionali come dolci e carni rosse, da consumare con
molta parsimonia. Riassumendo, ricordiamo l’importanza dei pasti frequenti
durante la giornata, la loro composizione, la varietà, le quantità e la qualità,
sulla base del seguente schema:
• consumo giornaliero: cereali, preferibilmente integrali, verdure, frutta, lat-
ticini (latte, yogurt), olio di oliva, noci, semi, spezie e aromi (valida e salu-
tare alternativa al sale da cucina, il cui contenuto in sodio è un fattore di
rischio per la salute);
• consumo settimanale: pesce, carni bianche, uova, formaggi e legumi, patate;
• consumo occasionale: carni rosse e carni trasformate, dolci, succhi di frut-
ta, bibite.
Il modello DM raccomanda inoltre di bere acqua, tutti i giorni, in quantità
adeguate perché l’idratazione è essenziale per mantenere l’equilibrio idrico
corporeo; nel rispetto di credenze religiose e sociali, è consentito un consumo
moderato di vino.
Le novità assolute, per questo nuovo modello di piramide, includono:
• Frugalità e moderazione, per ben adattare la dieta agli stili di vita moderni
e tener conto del fabbisogno energetico in un contesto frenetico e iper-ac-
celerato che contraddistingue le società contemporanee, sempre più di cor-
sa, sempre più distratti, al limite dell’esaurimento nervoso;
• socializzazione, l’aspetto conviviale, la condivisione del cibo, rappresenta-
no un sostegno sociale e un senso di comunità;
• attività culinarie, dedicare del tempo all’organizzazione, alla preparazio-
ne, sono importanti per la riproduzione sociale dell’identità di ogni popo-
lo;
• attività fisica, praticata regolarmente, almeno trenta minuti al giorno, è un
importante complemento alla dieta bilanciando l’apporto energetico, man-
tenendo un peso normale e fornendo altri benefici alla salute;
• riposo/sonno adeguato, il riposo durante il giorno (pisolino) e un sonno
notturno adeguato fanno parte di uno stile di vita sano ed equilibrato. A tal

200
Appendice – Il parere del nutrizionista

proposito, vi sono evidenze scientifiche che dimostrano che un breve ripo-


so dopo aver mangiato e un sonno di sette/otto ore a notte rappresentano
un’abitudine mediterranea sana e tradizionale che aiuta a promuovere uno
stile di vita equilibrato;
• stagionalità, preferire alimenti di stagione, freschi, può nella maggior par-
te dei casi ottimizzare il contenuto di nutrienti e sostanze protettive per la
salute. Inoltre, può avere un “impatto 0” sull’ambiente.

Insomma, un modello di dieta sostenibile per le generazioni attuali e futu-


re perché basato su un regime alimentare prevalentemente vegetariano, che
privilegia prodotti freschi e poco processati, di stagione e a Km zero.

Riferimenti bibliografici

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immateriale. https://ich.unesco.org/en/convention
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• Public Health Nutr, 2011 Dec;14(12A):2274-84. Mediterranean diet pyramid to-
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201
Appendice – Il parere del nutrizionista

A2 Principali modelli dietetici

Dieta mediterranea

Questa dieta è definita “Mediterranea” perché racchiude lo stile alimentare


dei paesi del bacino del Mediterraneo, accomunati dall’uso dell’olio di oliva.
In quei paesi, l’olio di oliva rappresenta la principale fonte di grassi della dieta.
Tuttavia, le connotazioni sono differenti nei diversi paesi per motivi legati alla
cultura, alla religione, alle tradizioni locali ma anche a vicende storiche. La
dieta mediterranea è uno dei modelli dietetici più studiati e valutati in ambito
scientifico. Oltre all’uso dell’olio di oliva, è prevista un’elevata assunzione di
verdure, ortaggi, legumi, frutta, cereali in genere, frutta a guscio e pesce; una
moderata assunzione di alcol, in particolare vino rosso; basse quantità di latti-
cini, nonché di carni rosse e carni lavorate e trasformate. Vediamo più nei
dettagli questi alimenti, ritenuti i veri “attori” principali di questo modello
dietetico.
OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA (EVO): rappresenta la principale
fonte di grassi della dieta, sono grassi “buoni” che possono avere un effetto
protettivo contro le malattie del cuore. In esso, è presente una molecola,
l’acido oleico, che gli conferisce particolari proprietà, è ben digeribile, ini-
bisce la secrezione acida nello stomaco, stimola la secrezione pancreatica,
contribuisce all’assorbimento del calcio e all’accrescimento delle ossa lun-
ghe. Infine, contiene composti detti “polifenoli” che hanno funzione di an-
tiossidanti, cioè combattono lo stress ossidativo e proteggono le cellule.

202
Appendice – Il parere del nutrizionista

CEREALI (PANE, PASTA, RISO): il consumo quotidiano di cereali è fon-


damentale per la loro composizione in carboidrati, fonte importante dell’ener-
gia necessaria per svolgere le normali attività quotidiane. I cereali integrali
sono anche fonte di nutrienti quali fibre, minerali e vitamine.
VERDURE: rigorosamente di stagione. Includono: insalata, lattuga, po-
modori, melanzane, peperoni, cetrioli, broccoli, cavoli, rucola, cicoria, aglio,
cipolla, ecc.; sono fonti di importanti composti fenolici (flavonoidi), fibre, po-
tassio, magnesio, rame, ferro, vitamine A, C, K, E, B6, B9 (acido folico).
FRUTTA E ORTAGGI: occupano un ruolo predominante all’interno della
dieta mediterranea; come le verdure, anch’essi devono essere di stagione, se-
condo i tempi e i periodi di crescita naturale. Sono ricchi di acqua e fibre.
FRUTTA A GUSCIO O FRUTTA SECCA: includono mandorle, noci, pi-
stacchi, arachidi e nocciole. Sono una fonte di acidi grassi monoinsaturi
(MUFA) e polinsaturi (PUFA). Particolare attenzione meritano le mandorle,
originarie dell’Asia Minore, contengono proteine che completano l’apporto di
aminoacidi con la dieta.
LEGUMI: ceci, lenticchie e fagioli. Rappresentano una valida alternativa
alle proteine di origine animale; inoltre, contengono fibre, fitosteroli, vitamina
B6, vitamina B9 o acido folico e alcuni minerali.
PESCE E FRUTTI DI MARE: anch’essi hanno un ruolo importante all’in-
terno di un sano e corretto regime alimentare quale è la dieta mediterranea. Bi-
sognerebbe consumarne almeno due porzioni a settimana, in linea con i parame-
tri del modello dietetico mediterraneo, per poter assicurare tutti i benefeci
derivanti da un’assunzione regolare. I prodotti ittici rappresentano fonti di pre-
ziosi nutrienti tra cui proteine ad alto valore biologico, acidi grassi della serie
omega-3 (soprattutto il pesce azzurro) e acidi grassi a catena lunga; inoltre, ritro-
viamo vitamine, quali la vitamina B12, la vitamina D ma anche minerali, come
lo iodio, importante per la normale funzione tiroidea, il selenio, fonte di antios-
sidanti che contrastano l’effetto dei radicali liberi, e calcio che contribuisce al
normale sviluppo delle ossa e combatte l’osteoporosi, soprattutto nelle donne in
menopausa.
VINO: è la bevanda storica dei Paesi del Mediterraneo; veniva consiglia-
to già da Ippocrate nel IV secolo a. C. per curare le ferite e come bevanda
nutriente, antipiretica, purgante e diuretica. La scienza, attualmente, ne rico-
nosce alcune proprietà benefiche sulla salute umana, grazie alla presenza di
alcuni composti polifenolici, come il resveratrolo, che riducono l’ossidazio-
ne delle lipoproteine, responsabili dell’evoluzione dell’aterosclerosi. Ma è
necessario fare attenzione alle quantità, perché un consumo eccessivo può
comportare un aumento dei trigliceridi aumentando, di conseguenza, il ri-
schio vascolare.

203
Appendice – Il parere del nutrizionista

Potenziali effetti sulla salute umana

Numerose prove osservazionali e sperimentali suggeriscono che mangiare


secondo il modello “dieta mediterranea” può contribuire a ridurre il rischio di
mortalità, di malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, ipertensione arteriosa,
sindrome metabolica e ridurre il rischio di tumori sito-specifici e anche disturbi
cognitivi. I meccanismi alla base degli effetti benefici prevedono la riduzione dei
lipidi nel sangue, miglioramento dei marcatori dello stress infiammatorio e ossi-
dativo, il miglioramento della sensibilità all’ insulina, il miglioramento delle
funzioni endoteliale e antitrombotica. Verosimilmente, questi effetti sarebbero
ascrivibili alla presenza di composti bioattivi come polifenoli, acidi grassi mo-
noinsaturi e polinsaturi e fibre. Pur tuttavia, non è ancora del tutto chiaro come
agisca il meccanismo alla base di questi effetti benefici.

Riferimenti bibliografici
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Active ingredients and pharmacological mechanisms. Br J Pharmacol. 2020
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al updates. Public Health Nutr. 2011 Dec;14(12A):2274-84. doi: 10.1017/
S1368980011002515.

Dieta chetogenica

L’obesità, negli ultimi anni, sta raggiungendo proporzioni epidemiche e


rappresenta un importante fattore di rischio per una serie di condizioni pato-
logiche quali ipertensione, diabete di tipo 2, dislipidemia, aterosclerosi e
anche alcuni tipi di cancro. Nonostante le continue raccomandazioni dell’Or-
ganizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sull’importanza del controllo
del peso, sembra siamo molto distanti dall’obiettivo. La predisposizione ge-
netica combinata con stili di vita scorretti e un elevato introito calorico por-
tano ad un continuo e costante aumento di peso. Anche se può esserci con-
senso sul fatto che i cambiamenti nello stile di vita (soprattutto dieta sana e
aumento dei livelli di attività fisica) siano essenziali per favorire la perdita di
peso e il controllo del peso, di contro la quantità, il tipo ideale di esercizio
fisico e la tipologia di dieta ideale (qualora esistesse) sono ancora oggetto di
discussione. Da tempo, studi di intervento nutrizionale si sono concentrati
sulla riduzione del grasso alimentare e sulla riduzione delle calorie con la
dieta, con scarsi risultati positivi a lungo termine a causa della perdita degli

204
Appendice – Il parere del nutrizionista

stimoli, sfiducia e conseguente aumento di peso. Una delle strategie più


studiate negli ultimi anni per dimagrire è la dieta chetogenica. Numerosi
studi hanno dimostrato che questo tipo di approccio nutrizionale ha solide
basi fisiologiche e biochimiche ed è in grado di indurre un’efficace perdita di
peso insieme al miglioramento di diversi parametri di rischio cardiovascola-
re. In dettaglio, in questo paragrafo abbiamo cercato di riassumere i principi
alla base del metodo e fare chiarezza su potenziali benefici al netto dei rischi
che questo tipo di approccio dietetico può comportare nei pazienti sovrappe-
so e/o obesi. Se da un lato la dieta chetogenica ha indubbiamente dimostrato
di essere efficace, almeno a breve e medio termine, per trattare l’obesità, le
dislipidemie e controllare alcuni fattori di rischio cardiovascolare, dall’altro
lato solleva diversi dubbi tra scienziati, nutrizionisti e medici. Queste preoc-
cupazioni sono da attribuire, soprattutto, alla scarsità di prove sui meccani-
smi fisiologici di base e i reali benefici nel lungo termine. La dieta chetoge-
nica induce una condizione metabolica ribattezzata “chetosi fisiologica”, per
distinguerla dalla chetosi diabetica patologica.

Fisiologia della chetosi

Non esiste una dieta chetogenica “standard” con un rapporto specifico di


macronutrienti (carboidrati, proteine, grassi). La dieta chetogenica, general-
mente, riduce l’assunzione totale di carboidrati a meno di 50 grammi al
giorno e può arrivare a 20 grammi al giorno. I rapporti tra i macronutrienti
sono i seguenti: intake lipidico pari al 70-80% delle calorie giornaliere tota-
li, intake glucidico pari al 5-10% e intake proteico pari al 10-20% delle ca-
lorie totali. Per una dieta standard da 2000 calorie, questo si traduce in circa
165 grammi di grassi, 40 grammi di carboidrati e 75 grammi di proteine. La
quantità di proteine nella dieta chetogenica è mantenuta moderata rispetto
ad altre diete a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenuto proteico.
Dopo alcuni giorni di digiuno o di una dieta a ridottissimo tenore di carboi-
drati (circa 20 g o meno al giorno), le riserve di glucosio dell’organismo
diventano insufficienti per soddisfare il fabbisogno energetico e per garanti-
re l’apporto di glucosio al sistema nervoso centrale. Quindi, è necessaria
una fonte alternativa d’energia che deriva dalla sovrapproduzione di ace-
til-CoA che, a sua volta, porta alla produzione dei cosiddetti “corpi chetoni-
ci”. Questo processo è detto chetogenesi e si svolge in larga parte nel fegato.
Va sottolineato che la glicemia, anche se ridotta, rimane entro i livelli fisio-
logici.

205
Appendice – Il parere del nutrizionista

Tabella. Livelli ematici durante una dieta normale, dieta chetogenica e che-
toacidosi diabetica
Dieta Chetoacidosi
Livelli ematici Dieta normale
chetogenica diabetica
Glucosio (mg/dl) 80–120 65–80 >300
Insulina (µU/L) 6–23 6.6–9.4 ≈0
KB conc (mmol/l) 0.1 7/8 >25
pH 7.4 7.4 <7.3

Indubbiamente, ci sono evidenze a sostegno dell’efficacia dell’uso della


dieta chetogenica come trattamento per dimagrire, tuttavia i meccanismi alla
base degli effetti del modello dietetico chetogenico sulla perdita di peso non
sono ancora del tutto chiari. Secondo Atkins, uno dei pionieri del modello a
ridotto tenore di carboidrati, il calo di peso sarebbe indotto dalla perdita di
energia attraverso l’escrezione di corpi chetonici, ma di recente sono state
avanzate nuove ipotesi: ad esempio, una delle ipotesi è che l’uso dell’energia
dalle proteine nella dieta chetogenica sia un processo “costoso” per il corpo e
quindi può portare ad uno “spreco di calorie” e quindi ad un aumento del di-
magrimento rispetto ad altre diete “meno dispendiose”. Alcuni autori sosten-
gono invece che i risultati ottenuti con le diete chetogeniche potrebbero essere
attribuiti a una riduzione dell’appetito dovuta al maggiore effetto di sazietà
delle proteine o ad alcuni effetti sugli ormoni di controllo dell’appetito. Altri
autori suggeriscono una possibile azione diretta di soppressione dell’appetito
dei corpi chetonici. A lungo termine, il miglioramento dell’ossidazione dei
grassi potrebbe spiegare l’effetto di perdita di grasso di questo tipo di dieta.

Altri effetti benefici del trattamento con la dieta chetogenica

Alcuni ricercatori hanno recentemente prospettato che i chetoni possono


proteggere dal deterioramento cognitivo causato dall’aumento di peso e dall’o-
besità. Inoltre ci sono alcune prove che le diete chetogeniche possono avere
effetti positivi sull’umore nei soggetti in sovrappeso; miglioramento di alcuni
parametri nel fenomeno dell’insulino-resistenza, come, miglioramento del
controllo glicemico, dell’emoglobina e dei marcatori lipidici, nonché, in molti
casi, dell’uso ridotto o della sospensione dell’insulina e di altri farmaci. Dubbi
restano circa un effetto yo-yo, anche se, almeno a breve termine, si traduce in
una maggiore perdita di peso rispetto alle diete povere di grassi. Da questo
punto di vista, sono disponibili meno evidenze, in particolare per quanto ri-
guarda il cosiddetto weight cycling o effetto yo-yo. Alcuni studiosi ritengono
che qualsiasi effetto benefico sia solo transitorio. Non esiste una definizione
universalmente accettata di “mantenimento della perdita di peso di successo”
a seguito di una dieta, ma un candidato ragionevole sarebbe quello proposto da

206
Appendice – Il parere del nutrizionista

Wing e Hill nel 2001, che lo definisce come “individui che hanno intenzional-
mente perso almeno il 10% del loro peso corporeo e mantenuto almeno per un
anno”. Il criterio del 10% è scelto per i suoi effetti ben documentati nel miglio-
ramento dei fattori di rischio per il diabete e le malattie cardiovascolari.
Un periodo di dieta chetogenica a basso contenuto di carboidrati può aiutare
a controllare la fame e può migliorare il metabolismo ossidativo dei grassi e
quindi ridurre il peso corporeo. Inoltre, nuovi tipi di diete chetogeniche che uti-
lizzano pasti che imitano cibi ricchi di carboidrati potrebbero migliorare la com-
pliance alla dieta. Occorre fare attenzione alla funzionalità renale del paziente e
alla fase di transizione dalla dieta chetogenica a una dieta normale che dovrebbe
essere graduale, controllata e sotto la supervisione di specialisti. La durata della
dieta chetogenica può variare da un minimo (per indurre la chetosi fisiologica)
di 2–3 settimane a un massimo (seguendo un principio di precauzione generale)
di molti mesi (6–12 mesi). Eseguita correttamente la dieta chetogenica può esse-
re uno strumento utile per curare l’obesità sotto la supervisione di specialisti.

Riferimenti bibliografici

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nutritionsource/healthy-weight/diet-reviews/ ketogenic-diet/

Dieta DASH

La dieta DASH, acronimo di Dietary Approaches to Stop Hypertension, è


un tipo di dieta impiegato per contrastare una patologia nota come ipertensio-
ne arteriosa. La pressione sanguigna è la forza espressa contro le pareti delle
arterie per spingere il sangue lungo i vasi; essa varia durante il giorno, ma se
rimane al di sopra di valori soglia, si parla di pressione alta o ipertensione ar-
teriosa. Una pressione alta, se non trattata per tempi prolungati, può aumenta-
re il rischio di malattie cardiache, ictus, insufficienza cardiaca congestizia,
malattie renali e cecità. Il modello dietetico DASH, è stato presentato per la

207
Appendice – Il parere del nutrizionista

prima volta dall’American Heart Association nel 1996, dopo uno studio mul-
ticentrico randomizzato sull’alimentazione che ha valutato gli effetti di diversi
modelli dietetici sull’abbassamento della pressione sanguigna. Gli studiosi
hanno concluso che una dieta con molti cibi diversi, ricchi di nutrienti, è risul-
tata più efficace e funzionale sulla pressione arteriosa rispetto a diete che pre-
vedevano l’impiego di singoli nutrienti o l’impiego di integratori. La dieta
DASH prevede l’impiego dei seguenti alimenti: frutta, verdure, latte magro,
cereali integrali, pesce, carni bianche, legumi (fagioli), noci; il consumo limi-
tato di: sodio (sale da cucina), cibi e bevande con zuccheri aggiunti, carni
rosse. Questa dieta è, inoltre, un toccasana per il cuore in quanto limita i gras-
si saturi e trans, mentre aumenta l’assunzione di potassio, magnesio, calcio,
proteine e fibre, tutti nutrienti che si ritiene giovino al mantenimento di una
pressione sanguigna normale. Anche mangiare meno carboidrati a favore di un
introito maggiore di proteine o grassi insaturi può apportare benefici alla salu-
te del cuore. Lo studio clinico noto come OmniHeart (Optimal Macronutrient
Intake Trial to Prevent Heart Disease) ha evidenziato che, scambiando circa il
10% delle calorie provenienti da carboidrati con quelle di origine proteica (so-
prattutto proteine vegetali come legumi, noci, semi) o con grassi monoinsaturi
(olio di oliva, olio di canola, noci, semi) si abbassano i valori di pressione
sanguigna, colesterolo LDL, trigliceridi nei casi di ipertensione arteriosa pre-
coce. Diversi studi dimostrano i benefici per la salute di questa dieta che, oltre
a ridurre i livelli di pressione arteriosa, ridurrebbe anche i livelli sierici di aci-
do urico nelle persone affette da iperuricemia, condizione per la quale è alto il
rischio di una patologia infiammatoria detta gotta. I soggetti con gotta, molto
spesso, soffrono anche di ipertensione arteriosa e malattie cardiovascolari.
L’adesione al modello dietetico DASH, può contribuire a prevenire lo sviluppo
del diabete e delle malattie renali come riportato nello studio di coorte Athero-
sclerosis Risk in Communities (ARIC). In conclusione, sembrerebbe che l’a-
desione ad una dieta ricca di frutta, verdure, cereali, cereali non raffinati, pro-
teine per lo più di origine vegetale, pochi grassi migliorerebbe l’outcome in
soggetti ipertesi sottoposti a trattamento nutrizionale tipo DASH. Fa discutere
l’assenza di alcuni alimenti, come l’avocado. Una condizione da rivedere è
l’elevato contenuto di fibre, dovuto all’assunzione di molti vegetali come frut-
ta, verdure e cereali integrali, che potrebbe scatenare gonfiore per la presenza
notevole di gas in tutti i soggetti particolarmente sensibili a questa condizione.

Riferimenti bibliografici
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Dieta flexariana

Alimenti diversi possono avere impatti diversi sulla salute umana, ma an-
che impatti diversi sull’ambiente. La transizione verso una “dieta salutare per
il pianeta” può nutrire sia le persone che il pianeta. Salute umana e sostenibi-
lità ambientale è un binomio indissolubile che non può prescindere da una
dieta adatta a sostenere entrambe. L’aumento della produzione alimentare ne-
gli ultimi 50 anni ha contribuito a migliorare le aspettative di vita e a ridurre la
fame, i tassi di mortalità infantile e la povertà globale. Tuttavia, tali benefici
sono ora vanificati da spostamenti verso diete malsane. L’attuale modello die-
tetico in stile occidentale è caratterizzato da un elevato introito calorico, con-
sumo di cibi altamente trasformati (carboidrati raffinati, zuccheri aggiunti,
sale e grassi saturi) e quantità elevate di prodotti animali. È un modello inso-
stenibile per la salute umana (aumenta notevolmente il rischio di malattie,
quali diabete, ipertensione arteriosa, obesità, sindrome metabolica, malattie
cardiache e alcuni tipi di cancro) e anche per il pianeta, a causa dell’impatto
sui cambiamenti climatici, sulla perdita della biodiversità, sull’inquinamento e
sui drastici cambiamenti sull’uso dei campi e dell’acqua.
L’impatto che ha la produzione di cibo:
• contribuisce a circa il 30% delle emissioni globali di gas serra e il settore
zootecnico da solo rappresenta quasi la metà (14,5%) di queste emissioni;
• occupa circa il 40% del territorio mondiale;
• utilizza il 70% di acqua dolce;
• è il più grande fattore che minaccia l’estinzione delle specie;
• provoca eutrofizzazione (sovraccarico di nutrienti) e zone morte nei laghi
e nelle zone costiere;

209
Appendice – Il parere del nutrizionista

• ha portato la maggior parte (~60%) degli stock ittici mondiali a essere


completamente sfruttata o sovra sfruttata (33%) – solo il 7% è sotto sfrut-
tato.
Tale cambiamento ambientale globale aumenta il rischio di cambiamen-
ti irreversibili e catastrofici nel sistema Terra, segnati dall’aumento della
mortalità umana, della morbilità, dei conflitti e dell’insicurezza alimentare.
In poche parole: i sistemi alimentari globali attuali non sono più sostenibili.
Dobbiamo ripensare a come mangiamo e al modo in cui produciamo il cibo
nel processo. L’accordo di Parigi del 2015 ha affrontato queste sfide eviden-
ziando la necessità improrogabile di diete sostenibili che contribuiscano a
garantire la salute della popolazione mondiale e del nostro pianeta. I quattro
pilastri alla base delle diete sostenibili sono: “nutrizione e salute”, “econo-
micità e accessibilità”, “accettabilità culturale” e “impatto ambientale”. Di-
verse organizzazioni tra cui EAT Lancet, OMS, World Wide Fund for Natu-
re (WWFN) e World Resources Institute (WRI) hanno analizzato vari
modelli dietetici. Le più praticabili e sostenibili sembrano essere: la dieta
TDDs o diete territoriali diversificate, la dieta mediterranea e la dieta nordi-
ca. Sebbene i diversi tipi di diete non siano stati definiti universalmente, il
termine flexitaria è sempre più utilizzato per descrivere diete onnivore che
includono elevate quantità di cibi di origine vegetale, quantità moderate di
pollame, latticini e pesce, quantità ridotte di carne rossa, carni trasformate,
alimenti processati e zuccheri aggiunti. In dettaglio, il flexitarianismo è vi-
sto come un modello dietetico adatto a contrastare gli effetti negativi deri-
vanti da un consumo eccessivo di carne con conseguenze devastanti sulla
salute dell’uomo e del pianeta. Il consumo di carne è associato al benessere
e alla ricchezza ed è culturalmente radicato nella società dei paesi più svi-
luppati. Sebbene i prodotti a base di carne forniscano diverse sostanze nutri-
tive, come proteine, grassi e vitamine, studi recenti suggeriscono che le die-
te ad alto contenuto di verdura, frutta, cereali integrali e a basso contenuto
di carne (rossa) e carni trasformate, hanno i risultati più incoraggianti per la
salute. In effetti, per i flexitariani l’idea di ridurre la carne, piuttosto che
astenersi completamente, è un compromesso pratico che potrebbe avere im-
plicazioni significative per la sostenibilità ambientale e la salute personale.
Questo modello dietetico, caratterizzato da un’ampia scelta di alimenti di
origine vegetale di alta qualità e minime quantità di alimenti di origine ani-
male, cereali raffinati, zuccheri aggiunti e grassi malsani, è progettato per
essere flessibile per adattarsi a situazioni, tradizioni locali e individuali e
preferenze dietetiche. Oltre a drastiche riduzioni degli sprechi alimentari,
alla salvaguardia dell’ambiente e a importanti miglioramenti nelle pratiche
di produzione alimentare, è previsto “un impegno internazionale e naziona-
le” attraverso una serie di misure politiche e azioni necessarie per migliora-
re la disponibilità di alimenti sani, sostenibili, accessibili e convenienti. La
dieta flexitariana o dieta sostenibile prevede un maggiore consumo di frutta

210
Appendice – Il parere del nutrizionista

e verdure, cereali integrali, alimenti proteici di origine vegetale (legumi,


noci), oli di origine vegetale (olio di oliva, olio di colza) e modeste quantità
di alimenti proteici di origine animale.

Riferimenti bibliografici

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Dieta Nordica

La dieta nordica (DN) è un modello di dieta che non si discosta molto dalla
tradizionale dieta mediterranea con la quale ha molte cose in comune; rievoca
il modo di mangiare dei paesi nordici: Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlan-
dia, Groenlandia e Islanda. I principi della DN sono legati alla valorizzazione
di alimenti tipici e più sostenibili della tradizione locale. La quasi totalità
delle calorie da assumere deriva da prodotti di origine vegetale e meno da
fonti animali, prediligendo legumi, tuberi e cereali integrali, avena, segale e
latte fermentato. I grassi derivano principalmente da frutta secca, semi e olio
di canola o colza, ma anche da pesce di lago e mare, utilizzato anche come
fonte proteica. La fonte più comune di grassi è l’olio di colza che viene rica-
vato dalla pianta di colza (Brassica napus), un membro della famiglia delle
Crucifere. Ciò è probabilmente da attribuire alla posizione geografica dei pa-
esi poiché la pianta di colza è prevalentemente coltivata a basse temperature
durante la stagione invernale. La carne rossa è consumata molto raramente.
Alla base della dieta, ci sono alimenti autoctoni e selvatici: frutti di bosco,
erbe selvatiche e funghi. È sconsigliato il consumo di alimenti processati,
quali carni conservate, salumi, prodotti confezionati ricchi di zuccheri ag-
giunti e conservanti. In definitiva, la DN è basata sul consumo di prodotti
biologici, a km zero e, possibilmente a basso impatto ambientale, con effetti
salutari per l’Uomo e per la Terra. La dieta nordica è simile alla dieta medi-
terranea (DM) per il forte legame dei suoi prodotti con il territorio, ma questo
è anche il motivo di alcune differenze tra i due modelli dietetici. La principa-
le fonte di grassi nella dieta mediterranea è l’olio extravergine di oliva, che

211
Appendice – Il parere del nutrizionista

nei paesi nordici non è reperibile a livello locale ed è sostituito dall’olio di


colza o canola. Inoltre, tra le due diete ci sono differenze su tutti i prodotti
agricolo in generale, molto differenziati in base alle diverse aree climatiche.
Per gli effetti sulla salute, lo studio EPIC-Postdam ha evidenziato che la DN
mostrerebbe degli effetti benefici sulla salute cardiovascolare ma non così
netti e impattanti come avviene per la DM.

La dieta degli eschimesi (inuit)

Il termine “Eschimese” è quasi in estensione; gli abitanti di Alaska, Sibe-


ria, Groenlandia e Canada preferiscono farsi chiamare con il termine “Inuit”
che significa persone. Il termine eschimese significa mangiatori di carne cru-
da, ed è più visto come un dispregiativo. Gli Inuit hanno sempre vissuto in
condizioni ambientali estreme, quali quelle del clima artico; sono quasi
completamente carnivori e gli unici vegetali che introducono sono erbe e
bacche. Un’attività che caratterizza la loro cultura è la caccia, con consumo
elevato di proteine di origine animale, come carne di foca, balena, merluzzo
essiccato, pesce in genere ricco di acidi grassi della serie omega-3. Questo
modello di dieta, quasi “pescetariana”, differisce alquanto dalla classica die-
ta mediterranea, sebbene gli Inuit hanno una bassissima incidenza di malat-
tie cardiovascolari, diabete e patologie neurologiche, quali la depressione, il
morbo di Alzheimer e la schizofrenia. Il motivo della bassa incidenza di
malattie cardiovascolari è da ascrivere quasi sicuramente all’elevato consu-
mo di pesce, ricco di acidi grassi polinsaturi della serie omega-3. Recenti
studi sul genoma delle popolazioni Inuit, hanno evidenziato la presenza di
mutazioni in alcuni geni che hanno consentito un adattamento ad una dieta
ricca di acidi grassi omega-3. La bassa incidenza di diabete sembrerebbe
essere correlata alla localizzazione del grasso corporeo: infatti, per garantire
un’elevata protezione dal freddo glaciale, il grasso corporeo degli Inuit è
presente maggiormente a livello sottocutaneo e non viscerale come accade in
altre popolazioni non sottoposte a climi rigidi. Riguardo alla “neuro-prote-
zione”, molto probabilmente l’effetto degli omega-3 favorisce la vitalità dei
neuroni, prevenendo la neurodegenerazione e avendo effetti positivi anche
sull’umore.

Omega-3

Gli acidi grassi Omega-3, costituenti delle membrane cellulari, suscitano


continuamente interesse da parte degli scienziati per i loro potenziali effetti
benefici sulla salute dell’uomo. Sono considerati essenziali perché l’organi-
smo umano non è in grado di sintetizzarli e, quindi, devono essere necessa-
riamente assunti con la dieta. Vengono definiti anche “Vitamina F”, analoga-
mente alle altre vitamine che non possono essere prodotte dall’organismo. Il

212
Appendice – Il parere del nutrizionista

vero precursore degli acidi grassi omega-3 è l’acido alfa-linolenico (ALA)


dal quale l’organismo sintetizza l’acido eicosapentaneoico (EPA) e l’acido
docosaesaenoico (DHA) ma è sempre necessaria un’assunzione adeguata
con la dieta. L’acido alfa-linolenico (ALA) è l’omega-3 più abbondante nei
prodotti di origine vegetale, lo ritroviamo in modo particolare in semi oleosi,
quali soia, lino, canapa, noci, mandorle e nocciole. L’EPA si trova in grandi
quantità nell’aringa, nella sardina selvatica e nelle uova di pollock (merluzzo
d’Alaska); invece, il DHA si trova maggiormente in aringa, merluzzo bianco
e uova di salmone. Anche le alghe marine sono ricche di EPA e DHA. I primi
studi risalgono agli anni ’70 del secolo scorso, quando alcuni ricercatori no-
tarono che le popolazioni della Groenlandia (Eschimesi Inuit) avevano un
basso rischio di aterosclerosi, condizione legata probabilmente alle abitudini
alimentari di quei popoli che si nutrivano di molto pesce. I ricercatori attri-
buirono l’effetto all’elevata presenza di acidi grassi polinsaturi nel pesce.
L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) si è espressa sui po-
tenziali benefici derivanti dall’assunzione degli omega-3, approvando i se-
guenti claims (definizioni testuali, regolamento UE 1924/2006 e 432/2012
della Commissione):
• DHA ed EPA contribuiscono alla normale funzione del cuore (0,25 g al
giorno).
• DHA ed EPA contribuiscono al mantenimento della normale pressione
sanguigna (3 g al giorno).
• DHA ed EPA contribuiscono al mantenimento dei normali livelli di trigli-
ceridi nel sangue (2 g al giorno).
• Il DHA contribuisce al mantenimento dei normali livelli di trigliceridi nel
sangue (2 g al giorno in combinazione con EPA).
• Il DHA contribuisce al mantenimento della normale funzione cerebrale
(0,25 g al giorno).
• Il DHA contribuisce al mantenimento della vista normale (0,25 g al gior-
no).
• L’assunzione materna di DHA contribuisce al normale sviluppo cerebrale
del feto e dei bambini allattati al seno (0,2 g di DHA più l’assunzione
giornaliera raccomandata di acidi grassi omega-3; (EPA+DHA per gli
adulti che è di 0,25 g al giorno).

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Dieta paleo

La dieta “paleo” o dieta paleolitica è, senza dubbio, la dieta più antica al


mondo; essa risale a più di due milioni di anni fa, coincide con l’”età della
pietra antica”, ovvero il periodo della preistoria in cui iniziò a svilupparsi l’in-
gegno umano con la costruzione dei primi strumenti in pietra per cacciare,
pescare e raccogliere. Gli studiosi della dieta paleo sostengono che, poiché a
livello genetico ed anatomico si sono avuti piccoli cambiamenti, sarebbe op-
portuno rivedere e considerare oggi i cibi disponibili in quell’epoca per soste-
nere e promuovere una buona salute. I nostri antenati avevano pochi mezzi a
disposizione, non erano in grado di coltivare ma riuscivano a catturare anima-
li, a pescare e a raccogliere erbe selvatiche e bacche. Questo modello di dieta
è divenuto popolare quando il consumatore ha iniziato ad essere più consape-
vole sulla conoscenza e provenienza dei cibi e, soprattutto, sulla relazione tra
cibo e salute. La dieta paleo è una dieta ricca di vegetali, bacche, noci, semi,
carni magre, pesce e priva di alimenti trasformati e conservati; rappresenta un
modello dietetico sostenibile per l’uomo e per il pianeta, è a basso indice gli-
cemico per la presenza di cereali integrali e non raffinati. Rimane il dubbio,
però, sulle differenze di cibi tra le aree geografiche tropicali e quelle artiche.
Nel complesso, la dieta paleo è ricca di proteine, soprattutto vegetali, povera
di grassi, principalmente grassi monoinsaturi, povera di carboidrati, ricca di
fibre (semi, bacche, frutta, verdure) e a ridotto tenore di sodio. I grassi “buoni”
provengono da pesce, avocado, olio di oliva, noci e semi. Diversi studi hanno
evidenziato potenziali benefici a breve termine rispetto ad altri modelli diete-
tici, tra cui perdita di peso, riduzione della circonferenza della vita, riduzione
pressione arteriosa, maggiore sensibilità all’insulina e miglioramento profilo

214
Appendice – Il parere del nutrizionista

lipidico (riduzione livelli di colesterolo e trigliceridi). Pur tuttavia, vi possono


essere alcuni dubbi legati a carenze nutrizionali per l’eliminazione totale di
alcune categorie alimentari, come, ad esempio i latticini, e quindi carenza di
calcio o altri minerali; altresì la presenza di carni rosse, oggi tanto dibattute
perché aumenterebbero il rischio di alcune patologie, tra cui cancro colon-ret-
to. In definitiva, la presenza di alcuni alimenti non ritenuti troppo salutari (car-
ni rosse) e l’esclusione di interi gruppi alimentari, richiedono particolare atten-
zione e conoscenze da parte di chi si occupa di divulgazione e propagazione.
Tuttavia, i commenti su questa dieta sono piuttosto postivi, si tratta di una
dieta sostenibile, che include cibi freschi, non trattati, non trasformati, povera
di sodio, di zuccheri raffinati e di grassi malsani. Sono necessari ulteriori studi
randomizzati e controllati magari con follow-up superiore ad un anno per con-
fermare i benefici già citati e renderla una dieta fruibile e adatta a tutti.

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Dieta e microbiota

Il microbiota intestinale è un complesso ecosistema che risiede nel tratto


gastrointestinale, una comunità microbica diversificata che vive in simbiosi
con l’uomo. Un microbiota diversificato è considerato un importante regolato-
re positivo della funzione metabolica e immunitaria interdipendente dell’ospi-
te. Le principali funzioni a cui partecipa il microbiota includono la maturazio-
ne e la regolazione del sistema immunitario, metabolismo energetico,
equilibrio ormonale, regolazione delle barriere della mucosa intestinale, fer-
mentazione dei nutrienti non digeriti, sintesi degli acidi grassi a catena corta
(SCFA). Inoltre, il microbiota sintetizza alcune vitamine (vitamine del gruppo
B e la vitamina K), enzimi chiave per la sintesi della vitamina B12 e altre mo-
lecole, come i metaboliti del triptofano (precursore della serotonina, ormone
che agisce come neurotrasmettitore, controlla l’umore a livello cerebrale e

215
Appendice – Il parere del nutrizionista

provoca il restringimento dei vasi sanguigni). La dieta è un substrato condiviso


tra l’ospite e il microbiota intestinale e la qualità della dieta influisce sulla sa-
lute dell’ospite sia direttamente che indirettamente, influenzando l’abbondan-
za e la composizione della comunità microbica. Sembra che una dieta a base
di prodotti poco o non raffinati avvantaggi il microbiota consentendo uno svi-
luppo sano. Il microbiota sano sintetizza SCFA, antiossidanti e vitamine per
l’ospite; al contrario, alimenti raffinati causano un assorbimento della maggior
parte dei nutrienti da parte dell’ospite senza alimentare il microbiota, con il
rischio che il glucosio viene assorbito rapidamente provocando iperglicemia
con associati effetti pro-infiammatori. Il saccarosio (zucchero da tavola) e il
lattosio (zucchero del latte) vengono rapidamente assorbiti nell’intestino te-
nue, ma i carboidrati più complessi come gli amidi e le fibre non sono facil-
mente digeribili e scorrono fino all’intestino crasso, dove avviene la fermenta-
zione ad opera degli enzimi digestivi del microbiota con produzione di SCFA
che possono essere sfruttati dall’organismo a scopo energetico ma possono
avere anche un ruolo nella funzione muscolare e nella prevenzione di malattie
croniche, inclusi alcuni tumori e disturbi intestinali. Gli SCFA, sintetizzati dal
microbiota, possono essere utili nel trattamento della colite ulcerosa, del mor-
bo di Crohn e della diarrea associata all’uso di antibiotici; recenti studi confer-
mano anche la stimolazione dell’attività delle cellule immunitarie e il ruolo sul
mantenimento di livelli normali di glucosio e colesterolo. In definitiva, la dieta
ideale per sostenere la salute del microbiota intestinale è una dieta ricca di fi-
bre indigeribili, quali inulina, amidi resistenti, gomme, pectine e fruttoligosac-
caridi. Queste fibre hanno un effetto cosiddetto “prebiotico” perché alimenta-
no il microbiota sano. Ci sono molti alimenti con effetto prebiotico,
soprattutto crudi: aglio, cipolla, porri, asparagi, topinanbur, tarassaco, banana
e alghe. In generale, frutta, verdure, fagioli, cereali integrali (grano, avena,
orzo) sono fonti di fibre prebiotiche.

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216
Appendice – Il parere del nutrizionista

A3. Nutraceutici e integratori: ruolo e interazioni con la


dieta

Non esiste una definizione riconosciuta a livello internazionale di nutra-


ceutico. Un nutraceutico è definito nell’ OED (Oxford English Dictionary)
come “un alimento, additivo alimentare o integratore alimentare che ha effetti
fisiologici benefici ma non è essenziale per la dieta”. Una prima definizione di
nutraceutico, risalente al 1989, è stata data dal dottor Stephen De felice, fon-
datore della Foundation for Innovation in Medicine: “un alimento o parte di un
alimento, come un integratore alimentare, che ha un beneficio medico o per la
salute, compresi la prevenzione e il trattamento delle malattie”. La vitamina E,
il selenio, la vitamina D, il tè verde, la soia, il licopene, la curcuma, il resvera-
trolo, sono esempi di nutraceutici/alimenti funzionali ampiamente studiati per
i potenziali benefici che possono apportare alla salute umana. Sebbene molti
di questi composti “naturali” abbiano un elevato potenziale terapeutico, sono
necessari ulteriori studi che provino i reali benefici che possono apportare que-
ste sostanze. I nutraceutici, oggi, vengono classificati come integratori alimen-
tari e vengono associati ai cosiddetti alimenti funzionali (functional food):
“alimenti contenenti additivi chimici o biologici destinati ad avere effetti fisio-
logici benefici sul consumatore”, secondo la definizione dell’OED. L’assun-
zione di nutraceutici deve avvenire sempre contestualmente ad un regime die-
tetico bilanciato ed equilibrato e ad una moderata attività fisica, secondo
quanto stabiliscono le principali linee guida internazionali per mantenere uno
stile di vita sano e prevenire l’insorgenza precoce di malattie legate a stili di
vita scorretti e diete malsane. La dieta mediterranea è considerata come un
pool nutrizionale, comprendente vari nutraceutici, componenti bioattivi pre-
senti negli alimenti, in grado di influenzare positivamente la salute, sia diretta-
mente che attraverso i propri meccanismi epigenetici. In una definizione più
moderna, i nutraceutici rappresentano un mix di sostanze in grado di interagi-
re con la struttura genotipica individuale in relazione con l’ambiente, (fenoti-
po). I nutraceutici assumono, quindi, il ruolo di modulatori cellulari e funzio-
nali, in grado di ottimizzare i processi fisiologici.
Il ruolo dei nutraceutici è ascrivibile a diverse funzioni per l’organismo, in
particolare:
• sostenere le difese immunitarie;
• detossificazione epatica;
• meccanismi di riparazione del DNA;
• contribuire alla regolarità del transito intestinale;
• integrare vitamine e minerali dopo l’attività fisica;
• regolare il metabolismo lipidico e ridurre il rischio di insorgenza di malat-
tie cardiovascolari;
• sostenere la funzione cerebrale;

217
Appendice – Il parere del nutrizionista

• antiaging;
• controllare i sintomi legati a malattie croniche;
• coadiuvare il metabolismo glucidico;
• mantenere una vista normale;
• favorire un sonno regolare;
• mantenere la salute di ossa e articolazioni;
• favorire un microbiota sano;
• contrastare gli effetti negativi dovuti a troppo stress e vita frenetica;
• regolare i ritmi circadiani del corpo;
• contrastare lo stress ossidativo;
• depurare e purificare l’organismo.

Tra i principali nutraceutici ritroviamo: acidi grassi polinsaturi essenziali


(Omega 3 e Omega 6), acido folico, bioflavonoidi, vitamina C, vitamina D,
licopene, maltodestrine, probiotici, sali minerali, melatonina, carotenoidi e po-
lifenoli.

Vitamina D

La vitamina D3 o colecalciferolo viene sintetizzata negli strati basali


dell’epidermide a partire dal colesterolo, dopo esposizione ai raggi ultraviolet-
ti della luce solare, quindi metabolizzata nel fegato e nei reni nella forma me-
tabolicamente attiva detta 25-diidrossivitamina D. La vitamina D nella sua
forma attiva può regolare l’espressione di molti geni coinvolti in svariate fun-
zioni. La sintesi cutanea rappresenta la principale fonte di approvvigionamen-
to ma dipende dall’esposizione al sole; inoltre, la vitamina D la ritroviamo in
alimenti di origine animale e di origine vegetale (ergocalciferolo o vitamina
D2). Le principali sedi di deposito sono il tessuto adiposo (sotto forma di vita-
mina D3) ed i muscoli (sotto forma di 25-OH-vitamina D3). Gli alimenti più
ricchi di vitamina D sono: olio di fegato di merluzzo, pesci grassi (sardine,
tonno, salmone, pesce spada), tuorlo d’uovo e frattaglie (fegato). La vitamina
D gioca un ruolo chiave per il mantenimento della mineralizzazione ossea at-
traverso la regolazione dell’omeostasi del calcio e del fosforo; una grave ca-
renza di vitamina D provoca rachitismo nei bambini e osteomalacia negli adul-
ti. L’ iperparatiroidismo secondario, dovuto all’insufficienza di vitamina D,
può aumentare il rischio di decalcificazione ossea e causare l’osteoporosi. La
vitamina D può regolare la differenziazione e la crescita cellulare legandosi al
recettore della vitamina D presente nella maggior parte delle cellule del corpo.
Studi osservazionali hanno riportato associazioni tra bassa esposizione al sole,
livelli insufficienti di vitamina D e aumento del rischio di sviluppare cancro al
colon-retto e alla mammella. Vari studi osservazionali hanno riportato associa-
zioni inverse tra carenze di vitamina D e suscettibilità a malattie autoimmuni,
tra cui il diabete mellito di tipo 1, la sclerosi multipla, l’artrite reumatoide e il

218
Appendice – Il parere del nutrizionista

lupus eritematoso sistemico. Altri studi osservazionali hanno rilevato una rela-
zione inversa tra le concentrazioni di vitamina D e il rischio di diabete mellito
di tipo 2. Sono in corso studi clinici randomizzati per verificare eventuali be-
nefici, dovuti all’integrazione con la vitamina D, nel declino cognitivo da lieve
a moderato e nelle patologie neurodegenerative. L’insufficienza di vitamina D
nelle donne in gravidanza può essere associata a diversi effetti negativi sia per
la gestante sia per il feto, tuttavia sono necessari ulteriori studi per confermare
i risultati. Studi osservazionali hanno documentato un’associazione tra caren-
za di vitamina D e aumento dell’incidenza e della gravità della malattia da
coronavirus, COVID-19. Studi preliminari hanno dimostrato risultati promet-
tenti nell’associazione tra assunzione di vitamina D e gestione della dermatite
atopica (eczema) e del morbo di Crohn. Riassumendo, la vitamina D:
• facilita l’assorbimento di calcio e fosforo;
• contribuisce a mantenere ossa sane e forti (gravi carenze possono provoca-
re rachitismo nei bambini e osteomalacia negli adulti);
• promuove un sistema immunitario efficiente;
• interviene nella differenziazione e crescita cellulare.

Probiotici, psicobiotici e postbiotici

Il microbioma è costituito dall’insieme di microrganismi (batteri, archeo-


batteri, virus, protisti e funghi), presenti nel tratto gastro-intestinale, nella mu-
cosa orale, nei sistemi uro-genitali e respiratorio e sulla pelle, e del loro mate-
riale genetico. I batteri sono in numero maggiore rispetto agli altri
microrganismi, si stima che il loro numero nell’intero corpo umano sia dello
stesso ordine del numero di cellule umane; la maggior parte di essi risiede
nell’intestino. A causa del numero enorme e della varietà, possono condizio-
nare in modo significativo la fisiologia e modificare la suscettibilità dell’ospite
(uomo) alle malattie. I batteri presenti nell’intestino partecipano a funzioni,
quali digestione, produzione di acidi grassi a catena corta (SCFA), sintesi di
vitamine, mantenimento del sistema immunitario e regolazione permeabilità
mucosa intestinale. Inoltre, la somministrazione di probiotici può apportare
benefici alla salute dell’ospite. Il termine “probiotico” ha origine etimologica
dalle parole pro e bios, che letteralmente significano “per la vita”; sin dall’
antichità è riconosciuto l’effetto benefico dei prodotti della fermentazione
dell’acido lattico (fermenti lattici) sulla salute umana. Attualmente, i probioti-
ci, secondo FAO (Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura delle
Nazioni Unite) e OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), sono definiti
come “microrganismi vivi che, somministrati in quantità adeguate, conferisco-
no un beneficio alla salute dell’ospite”. Questi includono, in particolare, ceppi
di Lactobacillus e di Bifidobacterium e alcuni ceppi di Streptococcus ed Ente-
rococcus. Gli effetti che si ascrivono all’azione dei probiotici, includono: mi-
glioramento della risposta immunitaria nelle allergie, benessere intestinale

219
Appendice – Il parere del nutrizionista

(eubiosi), normale crescita e arricchimento flora batterica intestinale, rafforza-


mento difese immunitarie in generale, inibizione dell’intolleranza al lattosio
(effetto protettivo in assenza dell’enzima lattasi per la scissione del lattosio),
prevenzione di alcune forme di cancro, probabile impatto positivo sulla salute
mentale.

Psicobiotici

Rappresentano una classe di probiotici che possono regolare alcuni me-


taboliti neuroattivi, come l’acido gamma-aminobutirrico (GABA), la
5-idrossitriptamina (5-HT) e le catecolamine, tutti composti legati alla salute
mentale. Riduzioni significative dei livelli di alcune sostanze funzionali,
come il GABA possono compromettere il normale tono dell’umore, con ri-
schi di disturbo d’ansia e depressione. Tra i ceppi batterici che regolano i
livelli di GABA, vi sono, ad esempio, Lactobacillus plantarum, Lactobacil-
lus paracasei, Lactobacillus rhamnosus e Lactobacillus brevis. Alcuni ceppi
batterici (Lactobacillus lactis subsp. Cremoris, Lactobacillus plantarum,
Streptococcus thermophilus, Morganella morganii) possono influenzare an-
che i livelli di serotonina, un neurotrasmettitore sintetizzato a partire dal
triptofano (5-HT), la maggior parte del quale viene prodotto nel tratto ga-
stro-intestinale. La serotonina partecipa alla regolazione dell’umore, della
cognizione e di diversi processi fisiologici.

Postbiotici

Questo termine è apparentemente nuovo, ma è presente in letteratura da


diversi anni. Negli ultimi tempi sta suscitando notevole interesse da parte delle
comunità scientifiche; secondo l’ ISAPP (Associazione Scientifica Internazio-
nale per Probiotici e Prebiotici), si definisce postbiotico: “un preparato di
microrganismi inanimati e/o loro componenti che conferisce un beneficio per
la salute dell’ospite”, è questa con ogni probabilità la definizione più adatta
del termine “postbiotico” (che significa “dopo la vita” e non “dalla vita”) e
abbraccia ulteriormente l’innovazione in un concetto scientifico in crescita e in
evoluzione che comprende i potenziali benefici per la salute delle cellule mor-
te e/o inattivate. Si ipotizzano cinque meccanismi d’azione dei postbiotici:
modulazione del microbiota residente, potenziamento delle funzioni di barrie-
ra epiteliale, modulazione delle risposte immunitarie locali e sistemiche, mo-
dulazione delle risposte metaboliche sistemiche, segnalazione sistemica trami-
te il sistema nervoso. Alcuni studi suggeriscono che i microrganismi possono
produrre vari composti neuroattivi, che possono agire sia sul sistema nervoso
centrale che enterico con il potenziale di modulare il comportamento e la fun-
zione cognitiva, tra i quali ritroviamo diversi neurotrasmettitori come seroto-
nina, dopamina, acetilcolina e GABA e vari composti che possono legarsi ai

220
Appendice – Il parere del nutrizionista

recettori espressi nel cervello. Gli enzimi microbici possono anche metaboliz-
zare i precursori alimentari per la sintesi del neurotrasmettitore dell’ospite (ad
esempio, triptofano per la serotonina e tirosina per la dopamina) riducendone
la biodisponibilità. Inoltre, i metaboliti microbici, come gli SCFA, se presenti
in quantità sufficiente nella preparazione postbiotica, potrebbero stimolare le
cellule enteriche a produrre serotonina, che può successivamente entrare nel
circolo sanguigno. Inoltre, negli studi di intervento sull’uomo è stato dimostra-
to che gli SCFA sono in grado di modificare i comportamenti alimentari attra-
verso la promozione della sazietà stimolando il rilascio di ormoni anoressiz-
zanti, come il peptide 1 simile al glucagone e il peptide YY; le vitamine
sintetizzate dai batteri, come le vitamine del gruppo B (riboflavina, folato e
cobalamina), possono essere presenti anche nei probiotici e, probabilmente
conservate anche nei postbiotici. Le vitamine del gruppo B hanno importanti
ruoli benefici nella funzione del sistema nervoso centrale. Tuttavia, sono ne-
cessari ulteriori studi per confermare la loro sicurezza d’utilizzo e i potenziali
benefici per l’ospite.

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222
Appendice – Il parere del nutrizionista

A4. Nutrigenomica e nutrigenetica, verso la nutrizione di


precisione - fact o myth ?

Grazie all’avvento delle “omics”, un vasto campo di studio nelle scienze


biologiche (genomica, trascrittomica, proteomica, metagenomica, prevento-
mica), sono notevolmente migliorate le tecniche di sequenziamento del DNA
e dell’RNA, due molecole “giganti” che racchiudono il segreto della vita e
che, con ogni probabilità, ci permetteranno di arrivare in futuro, si spera non
troppo lontano, a personalizzare terapie farmacologiche e a stilare diete su
misura o di precisione. La nutrigenomica studia come dieta e nutrienti possono
influenzare i geni, mentre la nutrigenetica si occupa dell’effetto di mutazioni/
variazioni genetiche sul metabolismo, ovvero di come le persone reagiscono in
maniera diversa a nutrienti identici. Le “omics” stanno concentrando gli sforzi
per arrivare alla nutrizione personalizzata, volta a migliorare lo stato di salute
e la qualità della vita delle persone perché entrambe dipendono in gran parte
dal metabolismo. Pertanto, conoscendo i geni e le loro mutazioni, si potrà co-
struire una dieta fatta di alimenti che tengano conto dell’affinità e dell’effetto
su di essi.

 eni coinvolti nella digestione e nell’assorbimento di


G
carboidrati e grassi
I geni più studiati, responsabili della digestione e dell’assorbimento di car-
boidrati e grassi, sono nove: ADRB2, TCF7L2, FABP2, PPARG, CETP,
ADRB3, APOA5, LEPR, ApoE:
ADRB2. Per la presenza di alcuni polimorfismi nel gene, può aumentare il
rischio di sviluppare il diabete mellito di tipo2, l’obesità e la sindrome meta-
bolica.
TCF7L2. Codifica per una proteina che agisce come fattore di trascrizione
e partecipa alla formazione delle cellule beta del pancreas che producono l’in-
sulina, un ormone necessario per ridurre i livelli di zuccheri nel sangue; alcuni
polimorfismi interferendo con la normale produzione di insulina, possono pro-
vocare un aumento del rischio di diabete mellito di tipo2.
FABP2. Codifica per una proteina che lega gli acidi grassi nell’intestino e
favorisce il trasporto attivo attraverso la membrana della parete intestinale; un
polimorfismo, che determina un cattivo funzionamento del gene, può provoca-
re un aumento dell’indice di massa corporea, una maggiore predisposizione
all’obesità e al diabete di tipo2.
PPARG. Un gene molto studiato, per la presenza di un polimorfismo, può
indurre una maggiore sensibilità all’insulina, al colesterolo totale, al colestero-
lo HDL, cosiddetto “buono”, e ad un maggiore utilizzo di glucosio per scopi
energetici, determinando fattori cosiddetti “protettivi” verso il diabete e l’obe-
sità.

223
Appendice – Il parere del nutrizionista

CETP. Gene coinvolto nel metabolismo dei grassi, a causa di un polimor-


fismo, può provocare una riduzione del colesterolo “buono” HDL e conse-
guente aumento del colesterolo “cattivo” LDL, e rischio di aterosclerosi, ma-
lattie ischemiche a carico di cuore e vasi.
ADRB3. Codifica per una proteina coinvolta nella regolazione della lipoli-
si (processo metabolico che porta alla scissione dei trigliceridi); la presenza di
un polimorfismo, può provocare un rischio di aumento dell’accumulo di gras-
so, causando obesità.
APOA5. Gene importante nella regolazione dei livelli di trigliceridi nel
sangue; variazioni dei livelli di trigliceridi, associate a polimorfismi, possono
causare un aumento del rischio di aterosclerosi e malattie cardiovascolari.
LEPR.Codifica per la proteina (recettore della leptina) sensibile all’insuli-
na, partecipa alla regolazione del peso corporeo e al metabolismo energetico;
difetti nella produzione di recettori, per la presenza di polimorfismi, possono
indurre resistenza alla leptina e, di conseguenza, aumentare la presenza di
grassi nelle cellule, con rischio sovrappeso/obesità. Inoltre, la carenza di lepti-
na può provocare un aumento del senso di fame. Esistono forme di obesità
monogeniche provocate da una mutazione presente in questo gene;
ApoE. Gene che favorisce l’assorbimento del colesterolo e delle VLDLP
(lipoproteine a densità molto bassa) ad opera del fegato; alcune mutazioni in-
fluiscono sul metabolismo del colesterolo, causando un rallentamento del pro-
cesso di rimozione del colesterolo e un maggiore rischio di aterosclerosi.

Geni e intolleranze alimentari

I geni HLA-DQ e MCM6 possono essere la causa di malattie monogeni-


che.
HLA: geni coinvolti nei meccanismi di risposta immunitaria, aiutano il si-
stema immunitario a distinguere le proteine proprie da quelle estranee, come
quelle di virus e batteri. I geni HLA-DQ sono responsabili del riconoscimento
immunologico delle cellule: questi geni possono essere i responsabili di una
malattia autoimmune, nota come celiachia o morbo celiaco che può causa una
grave infiammazione a livello intestinale. La predisposizione alla malattia è
osservabile in presenza dei geni HLA-DQ2 e HLA-DQ8.
MCM6: controlla l’espressione del gene adiacente LCT, che codifica per la
proteina del lattosio (enzima lattasi) in grado di digerire il lattosio contenuto nel
latte e nei latticini, capacità questa che si perde alla nascita. La presenza di un po-
limorfismo nei due geni in questione permette di digerire il lattosio in età adulta.

Geni e vitamine

I geni responsabili del metabolismo delle vitamine sono: BCMO1, ALPL,


NBPF3, MTNFR, FUT2, VDR, GC, FADS1.

224
Appendice – Il parere del nutrizionista

BCMO1: codifica per un enzima responsabile della conversione del be-


ta-carotene in vitamina A. La presenza di alcuni polimorfismi porta ad una ri-
duzione della sintesi enzimatica e conseguente carenza di vitamina A.
ALPL e NBPF3: geni che codificano per enzimi implicati nella sintesi dei
neurotrasmettitori nel sistema nervoso centrale, uno dei quali è l’acido gam-
ma-aminobutirrico (GABA); la vitamina B6 influisce sulla sua sintesi e la pre-
senza di polimorfismi riduce la sua sintesi, con possibili effetti negativi sullo
sviluppo e funzionamento del cervello.
MTNFR: codifica per una proteina che partecipa al metabolismo dell’acido
folico, essenziale per la conversione dell’omocisteina in metionina e poi in
S-adenosilmetionina, molecola importante nel processo di metilazione del
DNA (importante processo di regolazione dell’espressione genica); un poli-
morfismo ostacola la via metabolica che porta alla conversione, di conseguen-
za aumentano i livelli di omocisteina in circolo, con possibilità di tossicità e
rischio di aterosclerosi, trombosi e diabete mellito tipo2.
FUT2: gene legato all’assorbimento della vitamina B12, una sua carenza è
associata ad anemia, malattie cardiovascolari, cancro e disturbi neurovegetati-
vi. Un polimorfismo, che abbassa il rischio di un ridotto assorbimento, ha un
effetto protettivo con conseguente aumento di vitamina B12 nel sangue.
VDR e GC: geni responsabili del metabolismo della vitamina D; la presen-
za di polimorfismi riduce la sensibilità dei recettori per la vitamina, di conse-
guenza il calcio non si fissa bene nell’ossa e si rischia una diminuzione della
densità ossea minerale e aumenta il rischio di osteoporosi. Ricordiamo, la for-
ma attiva della vitamina D, riduce il rischio di sviluppo di cancro al seno, al
colon e alla prostata, ha un effetto positivo sul sistema cardiovascolare e aiuta
a prevenire le malattie autoimmuni.
FADS1: codifica per una proteina che interviene nella sintesi di impor-
tanti acidi grassi polinsaturi (omega-3 e omega-6); un polimorfismo è asso-
ciato ad una diminuzione del livello di omega-3, un aumento relativo di aci-
di grassi omega-6, con conseguente probabilità di sviluppare malattie
coronariche.

Geni responsabili delle sensazioni gustative

Il gusto gioca un ruolo importante nella valutazione della scelta di determi-


nati alimenti rispetto ad altri. Vediamo alcuni esempi.
GLUT2 è responsabile della sensibilità al dolce; il polimorfismo associato
determina una diminuzione della sensibilità allo zucchero e, quindi, porta ad
un suo consumo eccessivo con aumentato rischio di diabete tipo2;
TAS2R38 è responsabile del gusto amaro, codifica pe runa proteina delle
cellule della lingua, che controlla la capacità di sentire i glucosinolati, una fa-
miglia di composti amari; il polimorfismo diminuisce la suscettibilità per il
gusto amaro e, quindi, le persone con questa mutazione possono consumare

225
Appendice – Il parere del nutrizionista

cibi amari, ricchi di antiossidanti. È da evidenziare che questo polimorfismo


può determinare le preferenze di gusto e la regolazione ormonale metabolica;
CD36 è associato alla preferenza per i cibi grassi, codifica per una proteina
adibita al riconoscimento dei grassi negli alimenti e al loro assorbimento
nell’intestino; un polimorfismo ad esso associato causa una variazione nella
percezione dei grassi con conseguente aumento del loro consumo e rischio di
sviluppare diabete mellito e sindrome metabolica;
ADD1 e CYP11B2 sono associati alla sensibilità al sale; alcuni polimorfi-
smi, interferendo con la normale regolazione di alcuni elettroliti nel corpo,
possono aumentare il rischio di ipertensione arteriosa, edema e malattie car-
diovascolari. In particolare, il gene CYP11B2 codifica per una proteina coin-
volta nella sintesi dell’ormone aldosterone, che ha un ruolo sull’aumento della
pressione sanguigna, mantiene i livelli normali dei liquidi all’interno e all’e-
sterno delle cellule: la presenza di un polimorfismo aumenta la velocità di
sintesi dell’aldosterone, con rischio di ritenzione dei liquidi, gonfiore ed iper-
tensione.

Geni e metabolismo degli xenobiotici

MnSOD, GSTP1 e CYP1A2 intervengono nell’ossidazione degli xenobio-


tici (una qualunque sostanza, di origine naturale o sintetica, estranea ad un
organismo, che può esplicare sia la funzione di farmaco sia di veleno tossico)
che entrano nel corpo con il cibo; i polimorfismi ad essi associati riducono o
rallentano le attività enzimatiche delle proteine codificate da questi geni, cau-
sando una maggiore sensibilità agli agenti cancerogeni, accumulo di tossine,
danno cellulare e un aumentato rischio di malattie associate ad un danno al
DNA, quali malattie cardiovascolari e tumori maligni. Particolare attenzione
merita il gene CYP1A2: esso codifica per un enzima della famiglia del citocro-
mo P450, che svolge un ruolo chiave nell’ossidazione dei composti endogeni
ed esogeni; questo gene è coinvolto nel metabolismo della caffeina, dei muta-
geni alimentari e dei farmaci: più il metabolismo è rallentato, più a lungo gli
xenobiotici circolano nel sangue provocando danni all’organismo.

Geni responsabili delle preferenze alimentari

FTO, MC4R e DRD2 possono influenzare le preferenze alimentari, in par-


ticolare il senso di fame e il senso di sazietà.
FTO è il più noto dei tre, detto anche “gene grasso”, partecipa al metabo-
lismo energetico, alle reazioni di ossidazione e al metabolismo degli acidi
grassi. La sovraespressione del gene, a causa di un polimorfismo, è associata
ad un maggiore introito di cibo e conseguenti aumenti di peso corporeo, massa
grassa e indice di massa corporea (BMI), supponendo che il livello di dispen-
dio energetico e di attività fisica rimangano invariati.

226
Appendice – Il parere del nutrizionista

MC4R è responsabile dell’obesità autosomica dominante, poiché il gene è


associato all’IMC, alle preferenze alimentari e alla regolazione del consumo di
cibo.
DRD2 codifica per il recettore della dopamina, un neurotrasmettitore che
interviene in vari processi a livello del sistema nervoso centrale, quali alimen-
tazione, dipendenze da alcool, fumo e droghe; un polimorfismo di un gene
adiacente influenza l’attività del gene in questione, provocando la riduzione
della sintesi di dopamina e, come conseguenza, l’organismo cerca modi alter-
nativi per compensare la carenza dell’ormone della “gioia” attraverso le dipen-
denze.

Geni responsabili delle dipendenze da cibo

ADH1B e ALDH2 sono responsabili della sensibilità all’alcol.


ADH1B: un polimorfismo, responsabile della rapida conversione dell’eta-
nolo in acetaldeide, può provocare una grave sindrome da sbornia, perché l’a-
cetaldeide circola nel sangue per un tempo prolungato, provocando sintomi
spiacevoli; in questi casi, è altamente improbabile che si verifichi alcolismo.
ALDH2: codifica per l’enzima aldeide deidrogenasi, che partecipa all’ossi-
dazione dell’acetaldeide in acetato; a causa di un polimorfismo, l’enzima al-
deide deidrogenasi perde la sua attività che può causare intolleranza all’alcol.
CHRNA5 e CHRNA3 codificano per le proteine che sono subunità del re-
cettore della nicotina, l’acetilcolina; alcuni polimorfismi sono associati ad
un’aumentata dipendenza dalla nicotina e al rischio di cancro ai polmoni.

Ruolo della nutrigenetica e della nutrigenomica

Le tecniche di biologia molecolare, attualmente disponibili, sequenzia-


mento genetico di nuova generazione (Next generation sequencing, NGS) per-
mettono di sequenziare, in parallelo, milioni di frammenti di DNA. Queste
tecnologie di ultima generazione hanno segnato una svolta rivoluzionaria nella
possibilità di caratterizzare genomi di grandi dimensioni rispetto al metodo di
sequenziamento del DNA di prima generazione (sequenziamento Sanger),
grazie alla potenzialità di produrre una quantità di informazioni genetiche mi-
lioni di volte più grande e di individuare velocemente diverse centinaia di mi-
gliaia di polimorfismi. Tutto questo ha permesso di creare un enorme banca
dati d’informazioni, utili a stilare piani nutrizionali personalizzati, includendo
cibi con elevata affinità per le caratteristiche genetiche individuali, controllan-
do l’apporto di carboidrati e grassi in base alle sensibilità, escludendo determi-
nati gruppi alimentari se intolleranti, fino alla creazione di una dieta “su misu-
ra”. Tuttavia, esistono ancora delle limitazioni perché, oltre ai geni indagati e
relativi polimorfismi, non vengono considerate tante altre sostanze irritanti o
“allergeni”, quali albumina, ammine biogene (istamina, tiramina), solfiti, glu-

227
Appendice – Il parere del nutrizionista

tammato di sodio, coloranti alimentari, conservanti, additivi, dolcificanti per le


quali vi sono ancora tanti studi in corso, in attesa di risultati coerenti e affida-
bili. Pertanto, resta valido l’approccio innovativo alla dieta con l’aiuto della
nutrigenetica, quale strumento per migliorare e ottimizzare una sana e corretta
alimentazione, quale volano per un cambiamento dello stile di vita ottimale a
lungo termine. Tutto questo, certamente, rappresenta l’inizio di una nuova
alba nel campo della scienza della nutrizione con l’auspicio che tutti gli sforzi
di scienziati e ricercati si potranno presto tradurre in certezze e concretezze.

Riferimenti bibliografici
• Liu PJ, Liu YP, Qin HK, Xing T, Li SS, Bao YY. Effects of polymorphism in
FABP2 Ala54Thr on serum lipids and glycemic control in low glycemic index
diets are associated with gender among Han Chinese with type 2 diabetes melli-
tus. Diabetes Metab Syndr Obes. 2019 Mar 27;12:413-421. doi: 10.2147/DMSO.
S196738..
• Kovtun O. Ustyuzhanina M.A. The relationship of the carrier of polymorphism of
the PPARG gene with the early debut of childhood obesity. Bull. Ural Med. Acad.
Sci. 2018;1:42–47.
• Bush CL, Blumberg JB, El-Sohemy A, Minich DM, Ordovás JM, Reed DG,
Behm VAY. Toward the Definition of Personalized Nutrition: A Proposal by The
American Nutrition Association. J Am Coll Nutr. 2020 Jan;39(1):5-15. doi:
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• Loohuis LM, Albersen M, de Jong S, Wu T, Luykx JJ, Jans JJM, Verhoeven-Duif
NM, Ophoff RA. The Alkaline Phosphatase (ALPL) Locus Is Associated with B6
Vitamer Levels in CSF and Plasma. Genes (Basel). 2018 Dec 22;10(1):8. doi:
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• Pogozheva A.V. et al. A study of the relationship of the rs1801133 polymorphism
of the MTHFR gene with folic acid deficiency in obese patients. Alman. Clin.
Med. 2018;3:254–257.
• Luo Z, Lu Z, Muhammad I, Chen Y, Chen Q, Zhang J, Song Y. Associations of the
MTHFR rs1801133 polymorphism with coronary artery disease and lipid levels:
a systematic review and updated meta-analysis. Lipids Health Dis. 2018 Aug
17;17(1):191. doi: 10.1186/s12944-018-0837-y.

A5. Ormesi e capacità ormetiche

L’ormesi si definisce come un fenomeno dose-risposta caratterizzato da


stimolazione a basse dosi e inibizione ad alte dosi, come può essere, ad es-
empio, il tipo di attività fisica praticata, la quantità di tempo dedicata ad essa
e la qualità oppure la somministrazione di un nutraceutico, come vitamine o
omega-3, per cui conosciamo gli Upper level, oltre i quali può aumentare il
rischio di infortuni, affaticamento o il rischio di malattie e, poi, vi sono le
Low dose sotto le quali potrebbe instaurarsi la malnutrizione per difetto. Gli
effetti benefici di un lieve stress sull’invecchiamento e sulla longevità sono
stati indagati per diverso tempo. La scienza osserva che, modificando lieve-

228
Appendice – Il parere del nutrizionista

mente lo stile di vita nella fase diurna, si può prevenire l’insorgenza precoce
di svariate malattie. Con ogni probabilità, l’uomo, ha “ereditato” ritmi bio-
logici circadiani, riferiti alle attività fisiche e cognitive, che devono essere
rispettati attraverso lievi modifiche comportamentali, tali da ridurre il rischio
di malattia. Negli animali da esperimento, un lieve stress alimentare (res-
trizione dietetica, DR) ritarda la maggior parte dei cambiamenti fisiologici
legati all’età e prolunga la durata massima e media della vita. Studi sugli
animali hanno anche dimostrato che la DR può prevenire o rendere meno
gravi le conseguenze di eventi quali cancro, ictus, malattie coronariche,
malattie autoimmuni, allergie, morbo di Parkinson e morbo di Alzheimer. Si
pensa che gli effetti della DR siano condizionati da meccanismi ormetici. La
DR include: la restrizione calorica, la restrizione dei nutrienti totali, il digi-
uno a giorni alterni e il digiuno a breve termine. Un “lieve stress alimentare”,
inclusa la limitazione della quantità o della frequenza di assunzione degli
alimenti, è la base della DR. Per gran parte della loro storia, gli esseri umani
hanno vissuto come cacciatori-raccoglitori e si sono adattati alle restrizioni
nella loro ricerca-approvvigionamento di cibo. D’altra parte, l’eccesso di
cibo per molti oggi ha portato all’attuale epidemia globale di obesità e
malattie annesse. Il DR può essere utilizzato, quindi, come un nuovo approc-
cio per l’intervento terapeutico in diverse malattie, quando si ottengono in-
formazioni dettagliate sugli effetti di un lieve stress alimentare sulla salute
umana documentati da studi clinici. È difficile conoscere il fabbisogno indi-
viduale nutrizionale, sappiamo solo che ci sono livelli di nutrienti prestabil-
iti e raccomandati per fisiologia e per età (LARN). Quindi, l’approccio
ormetico potrebbe rappresentare la chiave per un “invecchiamento di succes-
so”, tenendo conto delle capacità ormetiche e della dose ormetica, dove per
capacità ormetiche s’intende stile di vita attivo nella fase diurna adattato alle
capacità di performance che potrebbero essere pre-determinate genetica-
mente, mentre la dose ormetica è la risposta bifasica delle cellule alla dose
di un fattore esogeno o endogeno, che può essere: stimolante (effetti benefi-
ci a basse dosi) o inibitore (effetti avversi ad alte dosi). In conclusione,
l’ormesi può rappresentare un valido approccio per ridurre il rischio di molte
patologie, in rapido aumento come obesità, sindrome metabolica e malattie
cardiovascolari, oltre a preservare la salute e a ridurre l’incidenza di malattie
croniche degenerative legate a stili di vita scorretti e diete malsane.

Riferimenti bibliografici
• Suresh I. The Science of Hormesis in Health and Longevity. 1st Edition
- October 23, 2018
• Kouda K, Iki M. Beneficial effects of mild stress (hormetic effects): di-
etary restriction and health. J Physiol Anthropol. 2010;29(4):127-32
• Costantini D. Hormesis Promotes Evolutionary Change. Dose Response.
2019;17(2)

229
Appendice – Il parere del nutrizionista

A6. Mindful eating

La mindfulness, pratica di meditazione (basata sul Buddismo Zen) avente


come obiettivo l’autoregolazione e la consapevolezza, è diventata popolare
come strumento per calmarsi e ritrovare se stessi. La pratica della consape-
volezza cosciente come metodo per cambiare i propri comportamenti, svilup-
pare le abilità necessarie a gestire il disagio. Questa pratica, oggi, viene appli-
cata anche per aiutare a “spegnere” quella voglia irrefrenabile e inconsapevole
di cibo che, a lungo termine, può avere effetti devastanti sulla salute di corpo
e mente (mindful eating).
Mindfulness è diventato un metodo per incoraggiare qualcuno a prender-
si cura di sé stesso. Il termine “mindfulness” è stato definito da Jon Ka-
bat-Zinn come “prestare attenzione in un modo particolare, di proposito, nel
momento presente e senza giudicare”; allo stesso modo, il “mangiare cons-
apevolmente” ci incoraggia ad acquisire consapevolezza delle nostre espe-
rienze alimentari. Mangiare consapevolmente permette un’esperienza unica
che coinvolge mente e corpo, coinvolgendo tutti i sensi. Un’alimentazione
consapevole promuove scelte gratificanti e nutrienti per il corpo. È incred-
ibile come la mindful eating consente di guidare la scelta dei cibi attraverso
quattro aspetti: cosa mangiare, perché mangiamo quello che mangiamo,
quanto mangiare e come mangiare. I punti salienti della mindful eating in-
cludono:
• visione ampia del pasto:
• provenienza del cibo, come è stato preparato, chi lo ha preparato;
• segnali interni ed esterni che influiscono su quanto mangiamo;
• risalto per aspetto, sapore, odore e sensazione del cibo nel nostro corpo
mentre mangiamo;
• cosa prova il corpo dopo aver mangiato;
• esprimere gratitudine per il pasto;
• usare la respirazione consapevole o la meditazione prima o dopo il pasto;
• riflessione su come le scelte alimentari influenzano il nostro ambiente.
L’interesse per il consumo consapevole è cresciuto come strategia per
mangiare con meno distrazioni e per migliorare i comportamenti alimentari.
Studi d’intervento hanno dimostrato che l’approccio alla consapevolezza
può essere uno strumento efficace nel trattamento di comportamenti sfavore-
voli come il mangiare emotivo e il binge eating (disturbo da alimentazione
incontrollata) che possono portare all’aumento di peso e all’obesità. Un’ali-
mentazione consapevole è, talvolta, associata ad una qualità della dieta più
elevata, come, ad esempio, scegliere la frutta invece dei dolci agli spuntini o
optare per porzioni più piccole di cibi densi di calorie. In alcuni studi osser-
vazionali, si è visto che, mangiare più lentamente è associato a mangiare
meno cibo, a non ingozzarsi, a mangiare più lentamente, a masticare di più i

230
Appendice – Il parere del nutrizionista

cibi, di conseguenza a raggiungere più velocemente il senso di sazietà, a non


sentirsi gonfi e appesantiti dopo il pasto. Risultati incoraggianti nel ridurre il
binge eating e il mangiare emotivo si sono avuti applicando insieme min-
dfulness e mindful eating. Tuttavia, attualmente, non esiste un protocollo
standard riconosciuto per ciò che definisce il “mangiare consapevole”. Il
consumo consapevole di cibo è un approccio al mangiare che può integrare
qualsiasi modello alimentare. La ricerca ha dimostrato che un’alimentazione
consapevole può portare ad un maggiore benessere psicologico, un piacere
maggiore quando si mangia e la soddisfazione del corpo. Combinare strate-
gie comportamentali quali l’allenamento costante alla consapevolezza insie-
me alle conoscenze nutrizionali può portare a scelte alimentari salutari che,
senza dubbio, riducono il rischio di malattie croniche, esaltano esperienze di
pasti più piacevoli e supportano un’immagine sana del corpo, come dire
“mens sano in corpore sano”.

Riferimenti bibliografici
• Nelson JB. Mindful Eating: The Art of Presence While You Eat. Diabetes
Spectr. 2017 Aug;30(3):171-174. doi: 10.2337/ds17-0015.
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Mindful Eating for Health Promotion and Sustainability: Issues and
Challenges for Dietetics Practice. J Acad Nutr Diet. 2016 Jul;116(7):1081-
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tion through mindfulness? Mixed method results of a controlled interven-
tion study. Appetite. 2019 Oct 1;141:104325. doi: 10.1016/j.ap-
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• Omiwole M, Richardson C, Huniewicz P, Dettmer E, Paslakis G. Review
of Mindfulness-Related Interventions to Modify Eating Behaviors in Ad-
olescents. Nutrients. 2019 Dec 2;11(12):2917. doi: 10.3390/nu11122917.

A7. Il China study: la grande opera o la bufala del secolo?

Il cosiddetto China study è la raccolta di dati epidemiologici di uno studio


svoltosi in Cina negli anni ’80, ad opera del nutrizionista T. Colin Campbell. I
dati sono stati raccolti in un libro che prende il nome dall’omonimo studio,
caratterizzato a detta della comunità scientifica da dubbia qualità, scarsa atten-
dibilità e mancanza di rigore scientifico. L’autore dello studio voleva dimostra-
re la correlazione tra dieta malsana e insorgenza di alcune malattie, quali obe-
sità, cancro, malattie cardiovascolari, osteoporosi, diabete, ipertensione,
infarto, ictus, solo per citarne alcune. I risultati dello studio non sono stati mai
sottoposti a valutazione mediante il metodo del peer-review né pubblicati su
riviste scientifiche. Un’osservazione interessante ma non confermata riguarda-

231
Appendice – Il parere del nutrizionista

va il nesso tra l’eccessivo consumo di carne, latticini e grassi animali e lo svi-


luppo puberale precoce nei ragazzi e una più prolungata esposizione agli or-
moni endogeni prodotti dall’organismo. Alcuni dati trovano conferma in altri
studi, quale ad esempio l’Oxford Vegetarian Study, sul legame tra alimentazio-
ne vegetariana e salute. Tra le varie citazioni del libro, troviamo quella sulla
caseina, una proteina contenuta nel latte, ritenuta dall’autore un potente nu-
triente per il cancro. La caseina è stata associata al rischio di contrarre tumori
perché Campbell osservò che in Cina, per effetto dello scarso consumo di latte
e proteine animali, il tasso d’ incidenza tumori era piuttosto basso rispetto agli
occidentali. La sua teoria, per quanto valida, è tuttavia analoga a quella fra il
cancro e altre proteine, anche di origine vegetale. In pratica, non importa l’o-
rigine della proteina, ma qual è il suo effetto sull’organismo. Campbell ritene-
va che l’abolizione totale di qualsiasi proteina e dei grassi animali nella dieta,
fosse indispensabile per la prevenzione dei tumori, ma non ci sono state mai
prove scientifiche che lo dimostrassero. Il China study mescola indicazioni e
dati corretti (ad esempio, la relazione tra consumo frequente di carne rossa e
lo sviluppo di alcuni tumori) con altri non suffragati da osservazioni scientifi-
che adeguate. Scopo dello studio era stabilire il nesso tra alimentazione e salu-
te, discriminando fra cibi salutari e nocivi. Lo studio ha riguardato gli abitanti
di 128 villaggi cinesi e 65 contee, raccogliendo ben 367 diversi tipi di dati,
includendo gli esiti di alcuni test su sangue e urina. La scelta della Cina come
laboratorio, per così dire, di osservazione è dipesa dalla disponibilità di infor-
mazioni, legata anche al livello di controllo sociale tipico del Paese, difficil-
mente eguagliabile in un altro paese. Il libro è diventato famoso In Italia in
seguito alla citazione fatta durante una nota trasmissione televisiva, dove veni-
va data enfasi alla nutrizione vegetariana per prevenire o curare il cancro, fa-
cendo riferimenti proprio al libro, ovviamente tutto questo senza alcuna con-
ferma da parte della comunità scientifica. Al di là della notorietà e del
successo riscontrati nel tempo, probabilmente dovuto all’effetto mediatico, è
bene precisare che, oggi, esistono linee guida internazionali su stile di vita
corretto e una sana alimentazione. L’American Institute of Cancer Research
(AICR) e il World Cancer Research Fund (WRF), due autorevolissime società
scientifiche americane, hanno stilato un decalogo di raccomandazioni per la
prevenzione del cancro a tavola, dove si sottolineano le regole di una corretta
alimentazione e la pratica quotidiana di almeno trenta minuti di attività fisica.

Riferimenti bibliografici
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• https://www.wcrf.org/diet-activity-and-cancer/
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china-study
• T. Colin Campbell, Thomas M. Campbell II, The China Study.
• T. Colin Campbell, Whole - Vegetale e Integrale, Macroedizioni, 2014.

232
Indice analitico

1-isotiocianato-4-(metilsolfinil) butano Acido cicorico 29,161


30 Acido malico 149
2,6-dimetil-3,7-octadiene-2,6-diolo 134 Acido palmitico 32
3-metibutanale 115 Acido pantotenico 57,143
3- metiltiopropanale 88 Acido urico 149,208
3-isobutil-2-metossi-pirazina e 2,3–die- Aglio 162
til–5-metilpirazina 157 Agrumi147
4-idrossi-2-etil-5-metilfuranone 102 Alcaloidi 157
5-isopropil-2-metiofenolo 167 Aldeidi alifatiche 88
Aldeide-deidrogenasi 100,227
Aldeidi di Strecker 134
A Alghe 56,59
Academy of Nutrition and Dietetics Alimento funzionale 27
(AND) 44 Alimentazione nello spazio 9
Aceto 96 Allattamento 44-46
Accelerator Mass Spectrometry (AMS) 2 Allergeni 182
Acheni 19,28,54 di origine animale 22
Acidi grassi insaturi 127,145,169 di origine ittica 23
monoinsaturi 60,145 dell’uovo 23
acido oleico 202 Allergie alimentari 19
polinsaturi 57,203 allergia al latte 23
acidi grassi linoleico 17 Amaro 89
acido arachidonico 17 American Heart Association 208
alfa-linolenico (ALA) 17 Amido 7,41,60
alfa-fluorometiltirosina (AFMT)52 Amido resistente 142
DHA (acido docosaesaenoico) 213 Amigdalina 146
Acidi grassi omega-3 57,212 Amilopectina 156
Acidi grassi saturi 32,39 Amminoacidi 101
Acido acetico 96 Analisi del carbonio-14 (14 C) 2
Acido citrico 148 Anidride carbonica 56,102
Acido clorogenico 157 Antibiotici 124,216
Acido docosaesaenoico (DHA) 213 Antiossidanti 124,143,147-149
Acido eicosapentaenoico (EPA) 213 Antocianine 28,106,156
Acido folico 218,225 Api 70
Acido gamma-aminobutirrico (GABA) Apporto calorico 3
220,228 Aromatizzante 111,162
Acido glutammico 71 Aromi 2,72,87

233
Indice analitico

Arsenico 58 Carvacrolo 162


Aspartame 76 Caseina 122, 124
Astringenza 104-107 Catechine 131
Attività biologica 18,28 127,149, Cedro 147-149
Attivita dell’acqua (activity of water, Cellule staminali 16,34
AW) 85 Cellulosa 29,55,101,109,112,144
Cereali integrali 41,54,203
Cereali raffinati 159,210
B Cervello 16
Beta-carotene 142,154,155 Champagne 102
Baijiu 115 Chetosi 205
Bambini 16,21,32,37,44-47,122 Chia 186
Banana 142 China study 231
Basilico 161 Chiodi di garofano 168
Batteri 165,189 Cibi fermentati 57,90,95
Batteri lattici (LAB) 101 Cibi funzionali 51,57
Bevande zuccherate 75 Cibo biologico 11
Bifidobacterium 29,219 Cioccolato 97
Biomarkers nutrizionali 1 Cipolla 165
Bioflavonoidi 165 CLOCK 49
Birra 110-112 Clorofilla 18,56,148
Body Mass Index (BMI) 123 Cloruro di sodio (NaCl) 85-87
Bone Mineral Density (BMD) 53 Clostridium botulinum 189
Bradicinesia 51 Clustered Regularly Interspaced Short
Butirrato di etile 3 Palindromic Repeats (CRISPR-Cas9)
Burro 22,36,98,120 15
Colesterolo 4,29,32,34,41
Colture starter 98
C Coloranti alimentari 20,228
Caffe 134 Composti organici volatili 140
Caffeina 135,136 Cognac 114
Calcio 157,165,202 Conservanti 31,38
Calorie 75 Consumo di carne 210
Cannella 168,173 Coriandolo 87,168
Capacità antiossidante totale 53 Corpi chetonici 205,206
Capsaicina 50,87,170,171 COVID-19 61
Carboidrati 6,7 Crescione 154
Carico glicemico 145 Crocetina 174
Carne rossa 31 Crostacei 19,21,99
Carne in vitro 34 Crucifere 30,154,211
Carote 41 Crusca 42
Carotene 11 Cumino 12,87
Carotenoidi 57,59,60 Curcuma 87,168
Carragenina 57 Curry 87

234
Indice analitico

D European Prospective Investigation into


Denominazione di origine protetta (DOP) Cancer and Nutrition (EPIC) 123
172
Dermatite atopica 21,219
Detection Threshold (DT) 77 F
Deterioramento cognitivo 206 Fabbisogno energetico 200,205
Diallilsolfuro (DAS) 163 Fast-Mimicking Diet(FMD)3
Diallilidisolfuro (DADS)163 Fenotipo 77,149,217
Dieta Dash 207 Fermentazione alcolica 96,98,110
Dieta chetogenica 204 Fermentazione allo stato solido 131
Dieta flexariana 209 Fermentazione halal 99
Dieta mediterranea 199,202 Ferro 16,32,33
Dieta nordica 211 Fertilizzanti 33,124
Dieta paleo 214 Fibre alimentari 39,41,42,44
Dieta vegana 37,45 beta-glucani 115,180
Dietary Guidelines for Americans (DGA) agar 57
60,75,155 alginati 57
Dietary Total Antioxidant Capacity cellulosa 33,39,55
(DTAC) 53 gomme 35,216
Digiuno intermittente 4 inulina 136
Dipartimento di Agricoltura degli Stati lignina 3
Uniti (USDA) 45 pectine 154
DNA 15 Fibre della dieta 29,39,41
Disbiosi 46,95 Fibre dei cereali 41
Diverticolite 43 Fieno greco 174
Dolce 71,76 Fiori commestibili 10
Dolcificanti 75 Fitochimici 17
Drug-Nutrient Interactions (DNI) 13 Fitosteroli 42,142,185
Flavanoli 11,103,127
Flavonoidi 29,42,48
E Flora batterica 39,49,220
Ellagitannini 28,109 Folati 60,142
Enterococcus faecalis 52 Food and Drug Administration (FDA)
Enzimi antiossidanti16,47,81 180,191
Equilibrio idrico 200 Food-associated exercise-induced ana-
Erbe 59,87 phylaxis 21
Eschimese 212 Formaggi57,72,86
Esperidina 148-170 Fosfolipidi 128
Estradiolo 136 Fosforo 55,57,111
Estrogeni 100 Fotosintesi 18,56,58
Etanolo 3,96,98 Frodi alimentari 173
Etilene 141 Frutta 41
European Food Safery Authority (EFSA) Frutti climaterici 141
180 Frutti di mare 200,203

235
Indice analitico

Fruttosio 74,150 Indicazione geografica protetta (IGP) 172


Funghi commestibili 73 Indice glicemico 157,158
Furani101 Inosina monofosfato (IMP) 71
Furanoni 149,181 Insetti 54
Future smart food 185 Insulina 5,49,75
Integratori52,217
Interazioni farmaci 12
G Inuit 212
Gas serra 12,33,34,55 Invecchiamento 29,33,85
Genetically Modified 14 Iodio 16,37,57
Genisteina 100 Ipertensione arteriosa 204,207,208
Genoma editing 14-16 Iperuricemia 208
Genotipo 181 Isoflavoni 38,100
Geofiti 7 Isotopi stabili del carbonio 1,2
Germe 42 Isperidina 149
Gigli 11 Istamina 227
Ginseng 166 Jet lag 48
Gingerolo 87 Just Cookies 36
Gliadine 22 Kaemferolo 111,185
Glicemia 30,41,48,60 Kefir 125
Glucofanina 30 Key food odorants (KFO) 87
Glucosinolati 30,89,225 Ketchup 19
Glucosio 4,6,10,16 Kiwi 143
Glutammato monosodico (MSG) 71 Kokumi 90
Glutatione 90 Kombu 59
Glutine 19,60
Golden rice 179
Graminacee 184 L
Grano 180 LAB (Lactic Acid Bacteria) 101
Grassi 4,6 Lactobacillus 125,156,219
Gravidanza 44-46,72 Laminaria 59
Guaiacolo 3 LARN 229
Guanosina monofosfato (GMP) 71 Latte biologico 123,124
Gusto di patata 135 Latte materno 46
Lattosio 122,124
Lecitina 20,35,70
H-I-J-K Leptina 224
Healthy Eating Index (HEI) 159 Leucotrieni 21
High Fructose Corn Syrup (HFCS) 74 Legumi 33,36
High Performance Liquid Chromatogra- Levodopa (L-dopa) 51
phy (HPLC) 83,172 Licopene 18,19,44
Idrocarburi aromatici policiclici 58 Lieviti 90,95,97,98
Idrogeno 109,163 Lignina 3,109
Idrolisi 30 Liliacee 154
Impollinatori 79 Limonene 148,162

236
Indice analitico

Lipidi 5,10,17 Noce moscata 173,183


Lipoproteine a bassa densita (LDL) 29 Nocciole 145
Lipoproteine ad alta densita (HDL) 50 Non Alcoholic Fatty Liver Disease
Liquirizia 166 (NAFLD) 164
Low Calorie Sweeteners (LCSs) 75 Non Nutritive Sweeteners(NNS) 76
Luppolo 110,111 Nutraceutici 10,11,217,218
Luteina 11,18,60 Nutrigenetica 223
Nutrigenomica 223

M
Macronutrienti 17,121 O
Mais 14-16 Obesità 19,41,48-50
Magnesio 52 Oleoresine 128
Malnutrizione 61,142 Oli essenziali 2,148
Malondialdeide (MDA)168 Olio 14
Maltaggio 110 di canola 208,211
Mango 143 di cocco 34
Maturazione 18,47,73 di colza 211
MCM6 224 di crusca di riso 180
Mele 14,41,81 di girasole 34
Mercurio 58 di oliva extra vergine 202
Meta-analisi 61,75,123 di sesamo 169
Metabolismo 4,13 di soia 14
Metformina 13 Omega-3 17, 54, 55
Microbiota 28-30 Omics 223
Micronutrienti 54,61 Organizzazione Mondiale della Sanità
Micro-ossigenazione 109 (OMS)16,26,76
Miele 81 Origano 87,168
Mindful eating 230 Ormesi 228
Minerali9,10,16,34,45,52 Ormoni di controllo dell’appetito 206
Mioglobina 16,31 Ortaggi 202,203
Mirosinasi 30 Orticaria 20,21,122
Monossido di azoto 23 Orzo 20,94,110
Myco 37 Ossidazione 18
Ossigeno 29,31,44
Osteoporosi 52,53
N Ossido nitrico 23
National Association of British and Irish
Flour Millers (NABIM) 42
Naringina 149 P
Nettare 10,81,82 Palatabilità 9,72
Next generation sequencing (NGS) 227 Pane 41,42
Niacina 57,146,156 Papaina 144
Nitrati 23 Parkinson, morbo 165,229
Nitrosammine 25,27 Parvalbumina 23

237
Indice analitico

Pasta 57, 86,146,181,182 Riesling 104


Patate 156 Ribes 146
Pectine 41,112,141 Rinite 21
Pepe 173 Riso 179
Peperoncino 169 Ritmo biologico 48
Pesce 19,21,25 Ritmo circadiano 47
Pesticidi 11,12,14 Rizomi 7
Picco climaterico 141 RNA 37
Picrocrocina 174 Rosmarino 87,161,168
Piombo 9,57
Piperina 87,173
Piramide alimentare 199
S
Pirroli 146
Saccarina 76
Polifenoli 148,157
Saccarosio 76
Polimorfismi 223,224
Safranale 174
Polipi adenomatosi 126
Salamoia 100,101
Polline 10
Salato 86
Pomodoro Flavr Savr 14
Saliva 26,27
Potassio 52,55,57
Salvia 186
Postbiotici 219
Sarcopenia 33
Prebiotici 39
Scavengers 18
Prezzemolo 88,168
Secoisolariciresolo diglicoside (SDG) 40
Proantocianidine 28
Sedano 19
Probiotici 219
Selenio 16,17,37
Propoli 83
Serotonina 215
Proteomica 101
Shock anafilattico 21
Pseudocereale 184-186
Sindrome metabolica 50
Psyllium 43
Sindrome orale allergica (SOA) 21
Sistema immunitario 20,47,61
Q-R Sistemi sensoriali 89
Quadro lipidico 60,61,124,125 Sodio 33,37,38
Quercetina 11,29,84 Soffritto 19
Quercia 109 Soia 22
Qingke 115 Solanina 157
Quinoa 184 Solfuro di carbonio 12
Radicali liberi 16,18,28 Specie reattive dell’ossigeno (ROS) 29
Rame 55 Spinaci 155
Randomized Controlled trials (RCTs) 30 Spirulina 58
Recettori 77 Spuntini 6
Reazioni allergiche 20 Steatosi 150
Reazione di Maillard 98,102,138,145 Streptococcus 219,220
Restrizione dietetica 6,229 Stress ossidativo 19
Resveratrolo 107 Sucralosio 76
Retrogradazione dell’amido 60 Synaptic pruning 16

238
Indice analitico

T Vanillina 3
Tannini 28,104 Vasodilatazione 24
Tarassaco 10,216 Vegetali rossi 18
Tartrazina (E102) 20 Vino 102
Tartufo 160 Viola tricolor 10
Taste Receptor Cells (TRC) 77 Vitamina A 10,17
Te nero 127,131 Vitamina B9 17
Te verde 131 Vitamina B12 (cobalamina) 17
Terpeni 10,89,114 Vitamina C (acido ascorbico) 52,144,148
Tiamina 9,42 Vitamina D (calciferolo) 218
Time-Restricted Feeding (TRF) 3 Vitamina E (tocoferolo) 172
Timo 12 Vitamina K 215
Timolo 162 Vitamine idrosolubili 165
Tiopropanal-S-ossido 165 Vitamine liposolubili 60
Tocoferoli 169 Vomito 20,21,53
Tocotrienoli 42
Torrefazione 134
Tossicita acuta 25 W-X-Y-Z
Tostatura 145 Wakame 59
Trasmissione sociale 12 Warfarina 166
Trasportatori di soluti 13 Wasabi 87
Trigliceridi 43,203,208 Weight cycling 206
Trimetilammina-N-ossido 38 Whisky 113
Triptofano 215 Wild 77
Trombosi111 World Wide Fund for Nature(WWFN) 210
Tuberi 7,153 Xantofille 56,172
Tuorlo d’uovo 60 Xantumolo 111
Xenobiotici 226
Xenotrapianto 6
U-V Yersinia enterocolitica 189
Umami 71 Yogurt 126
United States Dept. of Agriculture Z-3-esanale 88
(USDA)40 Zafferano 174
Uovo 45 Zeng 116
Uva 147 Zenzero 170
Vaccini 61 Zeaxantina 60,155
Valina 33 Zinco 16,17,32,37
Valore nutrizionale 2,34,36,42 Zolfo 18,155
Vaniglia 167 Zucchero 16,74-78

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