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Il brand della memoria trentina

ISBN 978-88-255-3253-1
DOI 10.4399/97888255325317
pag. 93–106 (agosto 2020)

Il patrimonio alimentare
e la valorizzazione del territorio
Il casework del fungo dalla tradizione della valle dei mòcheni
alla figura di Giacomo Bresadola
M V∗

Sono i giorni più belli dell’anno.


Vendemmiare, sfogliare, torchiare non so-
no neanche lavori;
caldo non fa più, freddo non ancora; c’è
qualche nuvola chiara,
si mangia il coniglio con la polenta e si va
per funghi.
C. P, La luna e i falò

. Quando il cibo connette: il patrimonio tra ExpoMilano e


ExpoDubai

Parlare di cibo è l’equivalente di parlare del mondo, della so-


cietà, delle sue abitudini, della cultura pratica e teorica di un
popolo: sembra oggi quasi un discorso banale, forse a causa
della estrema diffusione di questo oggetto di studio soprattutto
dopo Expo , tuttavia l’alimentarsi seguendo determina-
ti procedimenti resta la caratteristica unica e primigenia che
distingue l’essere umano dalle bestie .

Docente a contratto Università degli Studi di Trento. Presidente Club per
l’UNESCO Trento.
. A questo proposito risulta utile ricordare i seguenti testi che trattano ampia-
mente questo aspetto: M. J, Il pranzo della festa. Una storia dell’alimentazione in
undici banchetti, Garzanti, Milano ; J. S, A cena con Darwin. Cibo, bevan-


 Marta Villa

Il passato infatti ci ha insegnato che ogni qual volta l’uomo ha


voluto celebrare se stesso e il suo ingegno lo ha fatto attraverso
una tavola imbandita; per la gastronomia e l’arte culinaria l’essere
umano ha ideato già in epoche remote artifici che avevano il po-
tere di meravigliare e strabiliare: l’ars, che sottende la mescolanza
degli ingredienti, è stata percepita da subito come una magia.
Attraverso il cibo possiamo incontrare l’altro e forse proprio
questo medium, più potente di altri, permette che discorsi di
odio, negazione e razzismo possano in qualche modo scema-
re: quando si assaggia un piatto di una tradizione alloctona si
rimane affascinati, intrigati, sorpresi e molto spesso conquistati.
La razionalità, che lascia il posto alla prima impressione dei
sensi, quindi porta alla conseguente deduzione che in quella
pietanza ci sia la cultura, ossia la manifestazione di quanto di
più prezioso venga offerto. Il cibo infatti è sempre la sintesi
vivida di una tradizione e, assieme alla lingua madre, è il veicolo
principe con il quale comunichiamo con il mondo .
Un progetto dunque sull’alimentazione letta in chiave di
patrimonio, specchio di un territorio, è significativo per il se-
gno che traccia, inaugurando un discorso culturale che la-
scia poco spazio alla retorica e invece permette un intenso
approfondimento.
Il cibo diventa una rappresentazione del luogo e viene perce-
pito come autentico e legato alla dimensione intima identitaria
della comunità; il sapore diviene un sapere culturalmente tra-

de e evoluzione, Bollati Boringhieri, Torino ; T. S, Una storia commestibile


dell’umanità, Codice Edizioni, Torino .
. In particolare la cucina rinascimentale e della prima età moderna era evocativa e
strabiliante: i trionfi permettevano ai cuochi di esibire la propria arte. In tavola venivano
presentate delle opere scultoree che venivano prima di tutto ammirate e poi assaggiate.
. Mi richiamo ad esempio all’importante lavoro di ricerca del Centre de
Documentation sur les Migrations Humaines, Luxembourg che ha affrontato
il legame tra gli emigrati italiani e il cibo. Si veda ad esempio l’articolo: M.L.
C, N. G, Tradizioni alimentari degli emigrati italiani in Lussembur-
go, tra l’esigenza di fedeltà al passato e le nuove sfide scaricabile a questo indirizzo:
http://aemi.eu/wp-content/uploads///caldognetto.pdf (verificato  aprile
).
Il patrimonio alimentare e la valorizzazione del territorio 

smesso da generazione in generazione e si stratifica: alcuni cibi


che pensiamo di origine tradizionalmente lontana nel tempo
sono invece di scoperta recente, altri invece che sembrano assai
moderni affondano le radici nella storia più antica .
Gli alimenti e la loro alchemica combinazione sono un con-
tinuo addomesticamento di se stessi e dei palati, trasmettono
dei valori culturali presentandosi in modo semplice, immedia-
to, ma nel contempo possedendo l’antichità dei millenni. La
maggior parte delle tradizioni alimentari mondiali costruisce
la propria originalità proprio sulle sovrapposizioni, sulla ca-
pacità di adattare nel tempo e nello spazio abitudini nuove e
vecchie: il territorio in tale modo racconta il proprio sviluppo, i
legami con i vicini e i lontani, la capacità di essere impermea-
bili o permeabili, le invasioni, le conservazioni, le innovazioni
tecnologiche: tutto in un unico piatto!
Sono proprio gli ingredienti, da quello più umile a quello
più pregiato, a creare questa narrazione che prima ci attraversa
grazie alla vista, alla sonorità, ai profumi, alla predilezione delle
nostre papille gustative e poi ci conquista con le parole.
Il cibo allora è davvero uno degli elementi che permette la
connessione, e non è un caso che Expo  a Dubai, dopo quello
italiano “Nutrire il pianeta”, sia dedicato alla comunicazione.
Il fungo può essere sia ingrediente sia piatto in sé, raccoglie
una storia millenaria, è proiettato nel futuro, è stato quindi esca,
simbolo, protagonista di un progetto ideato dal prof.ssa Casi-
mira Grandi del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
dell’Università degli Studi di Trento che ha mosso i primi passi
proprio contemporaneamente all’esperienza di Expo .
Grazie ad un approccio trans–disciplinare ha trovato nel
Club per l’UNESCO di Trento e nella Federazione Italiana dei

. Si rimanda ad esempio al caso dello strudel, che oggi identifica una certa
tradizione dolciaria alpina e che viene narrato come identitario. Se si ricerca la
sua origine si scopre che arriva da lontano, attraversa i territori, muta in qualche
ingrediente ed è tutto fuorché nordico, come lo si percepisce. Simile ad altri dolci
della cucina turca e greca, passando nei Balcani e giungendo a Vienna si arricchisce
di sapori, dimenticandone altri.
 Marta Villa

Club e Centri per l’UNESCO con la partecipazione della sua


presidente prof.ssa Maria Paola Azzario Chiesa, un partner sen-
sibile che ha seguito tutto il suo sviluppo fino al convegno finale
del  dedicato alla proposta di costruire la candidatura del
micologo Giacomo Bresadola a patrimonio dell’umanità, un
patrimonio diverso dagli altri e per molti versi altamente inno-
vativo, un possibile protagonista per le sue connessioni globali
del prossimo Expo universale. La storia di Bresadola apparen-
temente è una “storia comune”, ma se indagata in profondità
rivela caratteristiche uniche: un sacerdote originario di una val-
le montana, quella di Sole nel Trentino occidentale, in un epoca
di grande fermento intellettuale e scientifico, la sua esistenza
infatti si è posta a cavaliere tra il XIX e il XX secolo. Tale uomo,
dotato di grandi capacità e intelligenza, ha saputo coniugare la
vita spirituale e l’interesse per la scienza: era noto fin nelle lande
più remote del pianeta come micologo e profondo conoscitore
del mondo naturale, era ricercato per pareri, vagliava campioni
che giungevano da ogni dove, contraccambiava con altrettanti
suggerimenti, riconosceva, classificava, indagava senza posa.
La documentazione che parla di lui o prodotta da lui stesso è
sparsa in diversi continenti: la bellezza del suo archivio forse
sta proprio in questa diffusione. Risulta evidente una rinnovata
attenzione nei suoi confronti e una riappropriazione cultura-
le di tutto il suo operato sia in chiave scientifica sia in chiave
umanistica.

. L’antropologia culturale e l’alimentazione: esperienze,


narrazioni e nostalgia

Solo da pochi decenni l’antropologia culturale si occupa di cibo:


ai primordi della disciplina questo momento topico della vita
umana venne considerato marginale e i primi studiosi nella
seconda metà del XIX secolo avvicinando le popolazioni non
occidentali documentarono rituali, religiosità, legami familiari,
forme politiche di gestione del gruppo. . . Ma sul cibo quasi
Il patrimonio alimentare e la valorizzazione del territorio 

nessuno si impegnò ad osservare le tradizioni diverse da quella


europea. La storia dell’alimentazione era ancora appannag-
gio di altre discipline e sembrava che gli ingredienti fossero
solo interesse per gastronomi, storici dell’alimentazione ed
economisti.

La letteratura ha celebrato il cibo e le preparazioni inseren-


do sensazioni, odori, gusti, colori nelle opere narrative: uno dei
cibi più famosi nel mondo intellettuale occidentale è certamen-
te la madaleine di Proust. Questi si occupa di cibo come farebbe
un antropologo, ossia nella sua descrizione raggiunge il cuore
del problema e lega indissolubilmente il cibo alla memoria. La
madeleine può essere definita come cibo del ricordo e permette
 Marta Villa

a chi la assaggia di vivere un momento straordinario, ossia


fuori dall’ordinario procedere delle cose.
Non è assolutamente un caso che tale processo venga
celebrato anche da una delle case produttrici di film per l’in-
fanzia più importanti del mondo: i disegnatori e ideatori della
Pixar, che dal  sono parte della Walt Disney Company,
hanno infatti inserito nella pellicola d’animazione Ratatouille,
che per molti versi è un interessante esperimento cultura-
le, la relazione prepotente che lega il cibo con la nostalgia.
Il lungometraggio mette in discussione alcuni dei canoni
estetici della nostra modernità: un topo, forse la creatura
che per gli umani è stata per secoli l’essere più ripugnante
esistente, vittima, come altre specie (si pensi ai serpenti, ai
ragni, alle civette), di pregiudizi e allontanato solo perché
“cattivo da pensare”, è un appassionato di cucina e durante il
corso della narrazione favolistica arriva ad essere uno chef,
cucinando per gli uomini. Nel momento clou della storia gli
autori rievocano, con grande capacità artistica tanto che la
scena è costruita seguendo una climax emozionale potente,
l’espediente proustiano: non abbiamo una focaccina dolce, in
questo caso, ma un piatto povero, semplice, quasi essenziale
e che certamente tutti i francesi conoscono e possiedono
nella loro memoria familiare. Non stupisce, poi, che con altri
nomi e con variazioni sia presente nella tradizione gastro-
nomica di molti dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
La ratatouille preparata dal topo Rémy scatena nei due an-
tagonisti della storia, il critico gastronomico Ego e lo chef
Skinner, qualcosa di sovra–ordinario che solo il cibo può
permettere che accada: in particolare il critico, uomo triste
e cinico, assaggiando il primo boccone si blocca e ritorna
con prepotenza alla sua infanzia quando la madre nella po-
vera cucina di casa gli preparava il medesimo piatto, unico
capace di consolarlo dalle rudezze della vita. Il cibo quindi,
secondo gli autori dell’opera di animazione premiata con gli
Oscar, permette alle persone di cambiare, di recuperare una
dimensione, quella dell’infanzia e degli affetti più intimi e
Il patrimonio alimentare e la valorizzazione del territorio 

cari, capace di armonizzare il nostro essere adulti. Un certo


sapore o una sapiente loro mescolanza, come diceva Proust,
rende le vicissitudini della vita indifferenti, colma il tempo,
avvicina gli spazi, riempie come l’amore, impreziosendo la
nostra esistenza .
Non è quindi banale che l’alimentarsi sia in simbiosi con la
dimensione rituale e che preparazioni ed ingredienti assuma-
no valori simbolici: Mauss , Lévi–Strauss e Douglas hanno
osservato, descritto ed analizzato questa specificità cercando di
comprendere come le diverse culture umane abbiano instaurato
una relazione con il cibo.
« Quando un sapore si affaccia agli organi sensoriali umani
(olfatto e papille gustative) e fa riemergere il profondo, ciascun
individuo compie un viaggio emotivo a ritroso: un viaggio della
memoria. Per l’antropologia questa associazione di sapore e
memoria è molto importante perché è una operazione solo e
squisitamente culturale » .
Quando un cibo diviene simbolo della nostalgia e permette
a questa sensazione di essere replicata più volte, allora il piacere
che viene a scatenarsi in noi è incommensurabile. Il ricordo è
appagante, se dolce e affettivo, il sapore con tutto il corollario di
profumi, colori, suoni, percezioni tattili si imprime nella nostra
memoria più profonda e non ci abbandona facilmente, anzi di-
viene un momento consolatorio al quale possiamo ricorrere se
angustiati: ecco perché molti cibi sono ricercati per modificare
i nostri stati d’animo.
Spiega lo storico Montanari: « le identità alimentari e di
qualsiasi natura non sono scritte nei geni di un popolo o nella

. M. P, La Ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino , pp. –.
. M. M, Manuale di etnografia, Jaka Book, Milano .
. C. L–S, Mitologica: il crudo e il cotto, Il saggiatore, Milano .
. M. D, Questioni di gusto: stili di pensiero tra volgarità e raffinatezza, il
Mulino, Bologna .
. M. V, Cibo, viaggio, memoria, appartenenze e nostalgie: uno sguardo antropo-
logico, in Pozzoni I. (a cura di), Frammenti di filosofia XII, Limina Mentis, Villasanta,
, p. .
 Marta Villa

storia arcaica delle sue origini, ma si costruiscono storicamente


nella dinamica quotidiana del colloquio fra uomini, esperienze,
culture diverse » .
L’uomo ha costruito di fatto la Storia anche attraverso le
tradizioni alimentari e non solo grazie agli eventi: i passaggi
chiave sono avvenuti per il primordiale istinto della soprav-
vivenza legato alla nutrizione. Se si osserva con attenzione la
presenza dell’umanità sulla Terra si possono individuare due
grandi modalità di procacciamento del cibo: il nomadismo e la
sedentarietà. La rivoluzione neolitica infatti ha permesso una
nuova relazione con l’ambiente, drasticamente diversa rispetto
a prima dove la caccia e la raccolta avevano un altro tipo di
impatto con gli altri elementi del pianeta . Ancora oggi siamo
figli, tecnologicamente parlando, di questa decisione che ha
definito anche una gerarchia di importanza: le religioni raccon-
tano sotto forma di mito questo passaggio epocale, che non
poteva infatti risultare trascurato.
L’uomo si ciba di certi alimenti, ha addomesticato alcuni
ingredienti, ha selezionato le specie, in un certo qual modo
divenendo esso stesso demiurgo del proprio ambiente: il cibo
infatti è uno dei problemi principali con il quale si è confrontato,
la ricerca di soluzioni per sospendere la sua corruzione ha
occupato molto l’intelligenza degli esseri umani. Gli alimenti
hanno infatti viaggiato, sono stati sottoposti a modificazioni,
hanno seguito rotte che altrimenti non sarebbero state percorse,
sono stati motivo di scatenamento di conflitti.
C’è un cibo che segue ciascun essere umano come un’om-
bra o addirittura lo precede: è indispensabile come la lin-
gua madre e diviene in tal modo simbolo identitario privi-
legiato. Divide ed unisce, allontana e avvicina: tutto questo
accade proprio per la sua essenza fondamentalmente neu-

. M. M, L’identità italiana in cucina, Laterza, Bari–Roma , p. .


. Si ricordino i lavori di: J. D, Guns, Germs and Steel: A short history of
everybody for the last , years, W.W. Norton, ; Y.N. H, Da animali a Dei.
Breve storia dell’umanità, Bompiani, Milano .
Il patrimonio alimentare e la valorizzazione del territorio 

tra, che quindi può essere piegata al desiderio della volontà


individuale e collettiva.
« Fin da piccoli siamo abituati a mangiare quello che ci cuci-
na la mamma; il nostro gusto, come lo stesso galateo a tavola,
sono appresi tramite un insegnamento agito, più che teorico.
Vediamo e imitiamo comportamenti e abitudini dei nostri ge-
nitori e le incorporiamo come nostre » . Anche l’antropologo
Muller si sofferma a considerare la cucina domestica, intima
e speciale (ogni casa ha infatti la propria preparazione di un
dato piatto: stesso nome, medesima ricetta, ma ingredienti che
variano nelle quantità da permettere la realizzazione di un uni-
cum, irripetibile da altri). Le mamme o le nonne protagoniste
della maggior parte dei nostri ricordi culinari sono figure chiave
per comprendere cosa sia la cucina casalinga e come questa
abbia costruito il gusto di ciascun essere umano. In questo caso
probabilmente nasciamo come una tabula rasa, sono proprio le
esperienze primissime (la scienza concorda che sia importante
anche quello che le madri mangiano mentre sono in attesa),
l’allattamento, lo svezzamento, l’infanzia che plasmano il gusto
e le predilezioni di ogni individuo: se davvero ci fosse una piena
consapevolezza di questo, nella società consumistica attuale si
farebbe maggior attenzione nella scelta di cosa inserire e cosa
evitare nella dieta quotidiana dei bambini. Popolazioni, che
ancora mantengono un legame con la tradizione alimentare
collettiva, cercano di alimentare i propri figli permettendo loro
di conoscere i piatti chiave della propria cultura: anche questo
è un patrimonio che viene salvaguardato e tramandato come
appunto la lingua.
Nella mia decennale esperienza di antropologa culturale
dell’alimentazione ho osservato bambini rifiutare completa-

. M. V, op. cit.,p. .


. E.K. M, Piccola etnologia del mangiare del bere, Il Mulino, Bologna .
. Il lavoro di ricerca sul campo si è svolto dal  al  in diversi contesti
sociali (scuole primarie, scuole secondarie di I e II grado, contesti famigliari protetti,
ospedali pediatrici, esperienze pedagogiche estive residenziali e semi–residenziali).
Sono state raccolte interviste semi-strutturate, in profondità, storie di vita.
 Marta Villa

mente determinati cibi, essere altamente selettivi, scegliere cosa


mangiare guardando prima il volto delle madri o dei padri: da
una indagine più approfondita, come vuole la metodologia
della ricerca antropologica, ho poi scoperto determinati pas-
saggi cruciali nello svezzamento, mancati coinvolgimenti nella
scelta quotidiana dei cibi, preparazioni monotone e, ancora più
importante, traumi nella condivisione familiare del desco.
Anche lo studioso francese Ariés ricorda l’importanza del
desinare insieme secondo una struttura e ad ore fisse: il pasto
tradizionale aveva delle caratteristiche che accomunavano le di-
verse famiglie, qualsiasi condizione sociale avessero. « L’uomo
moderno mangia sempre più spesso qualunque cosa, in qua-
lunque momento e in modo qualunque; il pasto, quindi, così
destrutturato, induce a nutrirsi con un piatto unico o a stuzzi-
care passando indifferentemente da un cibo ad un altro, con
sempre maggiore apatia, soprattutto nelle metropoli, dove non
si ha più tempo di mangiare » .
Il cibo raggiunge poi la dimensione del sacro quando gli
ingredienti vengono associati a cerimonie religiose, a momenti
fondativi della cultura di un popolo come ad esempio il riso
nel Sudest asiatico, il mais presso gli indiani pueblo, il pane e
il vino, cibi altamente simbolici per il cristianesimo, o l’olio
d’oliva, da sempre usato per le unzioni.

. Il fungo tra il simbolismo e realtà

Il cibo è lo specchio di un territorio e attraverso questo il terri-


torio parla di sé, comprendendo al proprio interno sia il valore
economico, ma anche quello sociale e culturale. Possiamo chie-
derci dunque cosa sia allora un cibo autentico. David Grazian
spiega che l’autenticità è una rappresentazione idealizzata della
. P. A, I figli di McDonald’s. La globalizzazione dell’hamburger, Edizioni
Dedalo, Bari , p. .
. D. G, Blue Chicago: The Search for Authenticity in Urban Blues Clubs,
University of Chicago Press, Chicago .
Il patrimonio alimentare e la valorizzazione del territorio 

realtà e tuttavia essa è un fatto sociale proprio: siffatta rappresen-


tazione è racchiusa in simboli di autenticità che molto spesso
sono frutto di stereotipi.
Il fungo allora appare come un cibo dall’altissimo valore sim-
bolico perché attorno ad esso sono cresciuti molti riferimenti
idealizzati che riconducono a quel significato di autenticità che
Grazian ha esemplificato. Innanzitutto il fungo vive nel regno
dell’ambiguità per eccellenza: la scienza lo ha classificato in
un regno a sé stante, non è un vegetale, non fa parte infatti
della grande famiglia delle piante, è un parassita, vive infatti a
spese degli altri esseri viventi in qualunque facies si manifesti.
Viene poi associato sia al bene sia al male: come alimento è
assai ricercato perché dal buon sapore, ma nasconde sempre il
suo volto misterioso e negativo, quello correlato con il veleno.
Necessita infatti di un sapere molto specialistico, quasi magico,
per il suo riconoscimento e in particolare per l’individuazione
di tutti i suoi poteri di vita e di morte: spesso questa sapien-
za era appannaggio delle donne che diventavano bersaglio di
maldicenze o ancora peggio vittime dell’accusa di stregoneria.
Se percorriamo la storia umana, troviamo i funghi e il loro
uso terapeutico legati ad un personaggio molto noto: Oetzi, la
Mummia dei Ghiacci. L’Uomo del Similaun possedeva anche
un equipaggiamento medicinale, infatti tra i vari manufatti
riesumati insieme al suo corpo ci sono due oggetti dalla forma
rotonda infilati in due strisce di pelle: le analisi di laboratorio
hanno rilevato che questi dischi sono costituiti da poliporo di
betulla, un fungo degli alberi che veniva usato per scopi curativi
addirittura fino al XIX secolo. Questo particolare medicinale
era indicato per trattare le ferite, ha infatti un potente potere
emostatico ed antibiotico: gli olii contenuti nel fungo erano
indicati per curare i parassiti intestinali.
Ma i funghi risultano ambigui e spettacolari anche se os-
servati in natura: i famosi cerchi, quasi perfetti, disegnati nei
prati sono detti a volte delle fate a volte delle streghe, rivelan-
do ancora una volta la percezione ambigua di questi esseri
viventi.
 Marta Villa

Infine non dobbiamo dimenticare l’uso di funghi nella tra-


dizione sciamanica per indurre lo stato di trance. Il popolo
Mazateco delle montagne Oaxaca in Messico ha ad esempio
una pratica millenaria nell’utilizzo di funghi detti psilocibinici
come parte fondamentale delle cerimonie sacre di guarigione
e di ricerca delle visioni. Anche nel nord Europa questo tipo
di fungo è noto ed è infatti chiamato fungo magico o cappuc-
cio di libertà. I mazatechi assumono questi funghi in assoluta
oscurità e nascosti durante cerimonie notturne, poiché sono
convinti che mangiati alla luce del sole portino alla follia; se ne
cibano all’interno del gruppo familiare per rinsaldare i legami
di appartenenza e ne usano sempre due per volta: questa coppia
rappresenta l’unione di maschio e femmina, ossia gli opposti in
equilibrio. I curanderos li utilizzano con frequenza e sono capaci
di lavorare entrando in contatto con lo spirito intimo del fungo:
solo sapendo percepire ed ascoltare la saggezza dei funghi è pos-
sibile per un uomo diventare un guaritore, poiché per ottenere
gli effetti più potenti è necessario saper gestire il dialogo con il
fungo stesso tramite di comunicazione superiore. Nella nostra
cultura occidentale i funghi possono rappresentare la sapienza,
come nel caso di Alice nel paese delle meraviglie e del personag-
gio del Bruco turchino, che, sedendo su di un grosso fungo,
esprime parole concise, ma dense di significato simbolico, alla
bambina in cerca di se stessa. Abbiamo poi nell’immaginario
collettivo due altre tipologie fungine: da un lato le buffe case
dei puffi, nate nel  dalla penna di Pierre Culliford detto
Peyo, e dall’altro, di origine più profonda e lontana, gli ingre-
dienti delle pozioni magiche e malefiche delle streghe. In tal
caso ritroviamo i funghi disegnati in molte acqueforti e dipinti
che rappresentano i sabba o il momento in cui queste maghe
cucinano i loro intrugli. Il fungo infine è associato molto spesso
alla salubrità e naturalità di un territorio: un bosco risulta più
salubre e incontaminato nella nostra percezione se troviamo
dei funghi ai piedi degli alberi, un luogo ci appare più selvatico
se sentiamo il loro tipico odore.
Il patrimonio alimentare e la valorizzazione del territorio 

. Il patrimonio alimentare culturale della Valle dei Mòche-


ni: il fungo come possibile alimento identitario?

In Trentino e in particolare in Valle dei Mòcheni la conoscenza


dei funghi, delle loro qualità e soprattutto delle loro virtù è assai
antica. Abbiamo indagato diversi ricettari e abbiamo ascoltato
numerosi informatori che hanno testimoniato questo legame .
Uno dei piatti più comuni che vede il fungo come protagoni-
sta, sia secco, sia fresco è il risotto con le brise o i finferli, di cui
ogni casa custodisce la preparazione segreta. Stesso discorso è
possibile anche per il gulasch che viene composto di soli funghi
con l’aggiunta di caffè, farina con cipolla, doppio concentrato di
pomodoro. Nei ricordi di diversi informatori abbiamo il fungo
compagno prediletto della polenta o selezionato, alcune varietà
specifiche, per la conservazione sotto olio.
Nel resto del Trentino troviamo esperienze simili, come ad
esempio la testimonianza di una persona della Val di Sole che
raccoglieva i funghi detti “della saetta” (che si trovavano dove
cadevano le folgori) per la preparazione sotto olio consumata
come antipasto solo nelle occasioni più importanti.
Spesso i funghi venivano serbati per i pranzi delle feste
annuali significative, come il Natale, in altre famiglie invece
venivano cucinati quando erano disponibili.
In alcuni ricordi è emerso il valore economico e sociale
di questo bene: il fungo veniva raccolto da chi ne conosceva
le caratteristiche e all’interno della gerarchia familiare era un
compito specifico adatto ai bambini, che venivano istruiti meti-
colosamente nel riconoscimento, o alle donne. Per quest’ultima
categoria è interessante riportare le parole di alcune informatri-
ci che hanno dichiarato quanto questa pratica potesse aiutare le
donne ad ottenere una certa indipendenza economica: i soldi
della vendita dei funghi non venivano condivisi con la famiglia,
. Si ringraziano per le preziose testimonianze: L. Toller del Bersntoler Kultu-
rinstitut, gli abitanti della Valle dei Mòcheni, la signora Valeria, la signora Agnese di
Dimaro, il signor Gentili, le ASUC di Sant’Orsola e di Mala. Interviste raccolte dal
 al .
 Marta Villa

ma servivano alle mogli e madri per potersi concedere alcuni


piccoli lussi tipicamente femminili.
I bambini raccoglievano i funghi quando portavano al pa-
scolo gli armenti e in questo modo si guadagnavano qualche
moneta che poi portavano a casa per contribuire all’economia
della famiglia; gli adolescenti e i giovani serbavano questi sem-
plici guadagni per potersi permettere di acquistare dei beni
preziosi: è il caso di un informatore che ricorda la sua prima
bicicletta comperata grazie al guadagno della vendita di questi
prodotti del bosco.
Ricordiamo infine che la Valle non viveva solo di questa
raccolta: importanti nell’economia domestica erano anche i
piccoli frutti, soprattutto i mirtilli selvatici, anch’essi venduti
per cercare di aggiungere piccoli guadagni. Questi prodotti
sono presenti nella tradizione gastronomica orale e ancora
oggi vengono utilizzati nelle ricette che sono in continua tra-
sformazione. La cucina si presenta come un laboratorio dove
tradizione e innovazione si compenetrano e si rinnovano testi-
moniando il valore poliedrico dell’identità che è ovunque mai
statica, ma sempre in dinamica costruzione.

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