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STRATEGIA E VALORE

- Definire il concetto di creazione di valore e i legami con la strategia (Che cosa significa creare valore? Per
chi? In quale momento l’impresa si predispone rispetto alla creazione di valore?)
- Analizzare il concetto di creazione di valore con riferimento al cliente, agli shareholders e agli
stakeholders (azionisti): l’impresa nasce per creare un prodotto o un servizio che vende perché sul
mercato è percepito come un prodotto che crea valore per chi lo acquista;
- Identificare le possibili strategie attraverso cui l’impresa può creare valore;
- Individuare una serie di strumenti manageriali atti a supportare e monitorare i processi di creazione del
valore nelle sue diverse accezioni.

Cosa significa creare valore?


La creazione di valore in condizioni di economicità consiste nella progettazione e nella realizzazione di
risposte utili ai bisogni espressi dal mercato attraverso un uso appropriato e conveniente delle risorse. ->
Un’impresa per creare valore deve almeno rispettare le condizioni di economicità, cioè significa avere un
corretto rapporto tra costi e ricavi; deve rispondere a qualche bisogno presente sul mercato, cioè tenuta
ferma l’economicità significa che l’impresa è in grado di dare risposte utili al mercato.

Il principio del valore può essere inteso come valore per il cliente (in termini di marketing), per l’azionista i(n
termini economico-finanziari), per gli stakeholders (in termini di valore sociale). E’ istanza che manifestano
nei confronti dell’azienda tutti gli interlocutori (tutti i suoi stakeholders: clienti, azionisti, dipendenti,
fornitori, comunità sociale).
Il concetto di creazione di valore vale per ogni tipologia di impresa, a prescindere dalla natura della proprietà
(pubblica o privata), dalla dimensione (grande o piccola), dall’attività (industria o di servizi).

La finalità dell’impresa è la creazione di profitto nel lungo termine, altri studiosi invece affermano che sia la
crescita. L’impresa ha come obiettivo quello di sopravvivere e perdurare nel tempo ma il requisito è la
capacità di creare valore (un’impresa che non riesca a creare valore in modo da soddisfare il capitale investito
dagli azionisti non riesce a sopravvivere). Rappresenta una cultura di governo dell’impresa e si ricollega al
concetto di strategia dell’impresa.

Il concetto di strategia
E’ un modello decisionale la cui caratteristica è quella di coordinare tra loro tre diversi elementi: 1) Obiettivi;
2) Risorse e competenze; 3) Linee d’azione.
La strategia è la mediazione tra i punti di forza e di debolezza dell’ambiente interno e le opportunità e le
minacce che si verificano nell’ambiente esterno. (I punti di forza e di debolezza ad esempio possono essere
capacità innovativa o dipendenza da un fornitore; le opportunità e le minacce ad esempio possono riguardare
un aumento dei prezzi, un cambiamento dei gusti del cliente.)
I fattori comuni alla base di una strategia di successo sono: a. L’identificazione di obiettivi a lungo termine,
semplici, coerenti e condivisi; b. La profonda comprensione dell’ambiente competitivo; c. La valutazione
obiettiva delle risorse; d. L’implementazione efficace della strategia.

La creazione di valore è un modo per definire sinteticamente gli obiettivi strategici dell’impresa che risulta:
- razionale, in quanto ispira la sopravvivenza e lo sviluppo equilibrato dell’impresa a lungo termine;
- largamente condivisibile da tutti coloro che hanno un interesse alla vitalità dell’impresa;
- stimolante per la professionalità di imprenditori e di manager;
- misurabile, e quindi efficace per verificare se gli obiettivi sono stati raggiunti.
La strategia è una mediazione tra l’analisi
dell’ambiente esterno (punti di forza e di
debolezza) e l’analisi dell’ambiente interno
(opportunità e minacce). La strategia è volta alla
definizione e alla realizzazione degli obiettivi e dei
comportamenti finalizzati alla creazione di un
vantaggio competitivo, che nasce dalla capacità di
creare valore per il cliente. Il prodotto permette la
creazione di valore se offre vantaggi equivalenti ma
a prezzi più bassi oppure se offre caratteristiche di
esclusività e unicità riconosciute dal cliente; il
cliente paga il maggiore valore che riceve e
l’impresa riceve una remunerazione che investe nei
suoi processi produttivi. La strategia riguarda la creazione di valore anche per altre due categorie di soggetti:
stakeholders e shareholders. Il buon governo di un’impresa deve, inoltre, avere la capacità e le risorse per
creare valore per i clienti e per remunerare adeguatamente tutti gli stakeholders che hanno partecipato al
processo produttivo, ma bisogna assicurare valore anche per chi ha investito nell’impresa (altrimenti non
viene assicurata la sopravvivenza dell’azienda). Il fatto che si generi una maggiore redditività permette la
creazione di valore per gli azionisti: i dividendi possono essere distribuiti solo se c’è un utile che viene
distribuito ed erogato; se non si riesce a produrre un utile non c’è valore per gli azionisti. Può essere chiamato
valore residuale perché residua dopo i pagamenti degli altri soggetti, necessari per i processi produttivi
aziendali. Il valore per gli azionisti dipende non solo dal dividendo ma anche dal capital gain, cioè dalla
differenza tra il prezzo di acquisto di un pacchetto di azioni e il prezzo di vendita; un’impresa ben gestita è
un’impresa che è in grado di aumentare il suo valore aziendale.
La strategia è anche il momento in cui si definiscono i collegamenti tra i tre “subsistemi”: cliente,
shareholders, stakeholders. Nel processo di creazione del valore, il valore per il cliente finale assume un ruolo
centrale: l’impresa infatti può creare valore per gli shareholders e più genericamente per gli stakeholders
soltanto se sviluppa un sistema di offerta che genera per i clienti un valore d’uso percepito positivo e
superiore al valore atteso. Allo stesso tempo la creazione di valore per gli stakeholders consente di attrarre
risorse, contributi e consensi che, se destinati al miglioramento del sistema di offerta possono contribuire
alla creazione di nuovo valore per il cliente.

Creazione di valore per il cliente


Per capire la centralità del concetto di valore per il cliente, all’interno del processo di creazione del valore in
senso lato, occorre: Definire e comprendere il concetto di creazione di valore per il cliente; Analizzare il
rapporto che sussiste tra strategia e valore per il cliente, ponendo particolare enfasi sul concetto di vantaggio
competitivo; Identificare una serie di strumenti (catena del valore e sistema del valore) atti a individuare le
determinanti del vantaggio competitivo; Individuare i principali vantaggi derivanti dalla soddisfazione del
cliente e le possibili leve per conseguirla.
L’impresa crea valore per il cliente solo se questi riconosce al sistema di offerta proposto dall’impresa un
valore d’uso percepito (valore sperimentato o che il cliente percepisce di ricevere effettivamente, grazie
all’utilizzo del sistema di offerta) maggiore o uguale al valore atteso (valore che il cliente percepisce di dover
ricevere). Massimizzare il valore per i clienti dell’impresa, significa formulare e realizzare strategie volte ad
ottenere il più ampio gap positivo possibile tra benefici e costi percepiti dal cliente durante il processo di
acquisto ed uso dei prodotti/servizi offerti (aumentando il valore percepito o diminuendo quello atteso).

Strategia e valore per il cliente: il vantaggio competitivo


La strategia è finalizzata alla creazione di valore che deve essere tesa alla creazione di un vantaggio
competitivo duraturo e difendibile. Il vantaggio competitivo nasce dal maggior valore che un’azienda è in
grado di creare per i suoi clienti rispetto ai concorrenti (e deve essere tale da fornire risultati superiori ai costi
sostenuti dall’impresa per crearlo). Il valore rappresenta quanto i consumatori sono disposti a pagare l’output
dell’azienda.
“Se i clienti sono serviti con eccellenza, il vantaggio competitivo viene da sé ” (Abell, 1994, tra le altre cose
studioso dell’ASA).

Un valore superiore può derivare:


A. dall’offrire prezzi più bassi della concorrenza per vantaggi equivalenti (vantaggio di costo);
B. dal fornire vantaggi unici che controbilancino abbondantemente un prezzo più alto (vantaggio di
differenziazione).
Le due fonti di vantaggio competitivo definiscono due approcci fondamentali e differenti alla strategia di
business (implicando sostanziali differenze in termini di posizionamento sul mercato, di risorse e competenze
richieste, di caratteristiche organizzative).

Il vantaggio di costo si basa sulla riduzione dei costi unitari dell’impresa, che devono risultare inferiori a quelli
dei propri concorrenti. Per fare ciò l’impresa deve sfruttare la curva di esperienza che combina le seguenti
fonti di riduzione di costo: Economie di scala; Economie di apprendimento; Tecnologia e la progettazione di
processo; Progettazione di prodotto; Utilizzazione della capacità produttiva; Costi di approvvigionamento;
Efficienza residuale (che dipende dalla capacità dell’impresa di eliminare le risorse in eccesso o l’inefficienza
dovuta ai costi superflui).

Il vantaggio di differenziazione si realizza quando un’impresa riesce a conseguire, grazie alla differenziazione,
un premio sul prezzo che eccede il costo sostenuto per realizzarla. La possibilità di differenziare un prodotto
o un servizio è in parte determinata dalle sue caratteristiche fisiche. I prodotti/servizi complessi (come una
vacanza, la visita di un museo, ecc.), soddisfacendo bisogni complessi, offrono maggiori possibilità di
differenziazione. La strategia di differenziazione va oltre le caratteristiche fisiche del prodotto/servizio,
prendendo in considerazione ogni elemento del prodotto servizio che influenza il valore per il consumatore.
La differenziazione può riguardare ogni aspetto della relazione impresa/cliente. La differenziazione non è
un’attività limitata al design di prodotto o al marketing, ma è estesa a tutte le funzioni ed è incorporata
nell’identità e nella cultura di un’impresa (cfr. l’importanza dell’immagine aziendale complessiva per le
imprese produttrici di alimenti biologici). Le opportunità di differenziazione possono essere distinte in
tangibili e intangibili. Le opportunità di differenziazione intangibili nascono perché il valore che i clienti
percepiscono di un prodotto/servizio dipende da anche da considerazioni sociali, emotive, psicologiche ed
estetiche.
Strumenti per l’analisi del vantaggio competitivo: la catena del valore
La catena del valore costituisce uno strumento fondamentale per analizzare le fonti del vantaggio
competitivo e il valore creato per il cliente. Il sistema del valore afferma che ogni impresa è una catena del
valore, così come i suoi clienti, i suoi fornitori, i suoi concorrenti. Permette di scomporre l’impresa nelle
diverse funzioni aziendali e nelle attività di rilevanza strategica, ciascuna delle quali atta a creare valore. Tale
strumento supporta il management nel monitorare e comprendere il comportamento dei costi e
nell’identificare le possibilità di differenziazione. La catena del valore rappresenta: un insieme di risorse, un
insieme di attività, un insieme di processi, un insieme di interdipendenze tra attività e processi. Per creare
valore, tutti questi elementi devono essere legati tra di loro in un’ottica sistemica e coerente rispetto alla
strategia.

Catena del valore e analisi dei costi


La catena del valore di un’impresa è costituita da attività che possiedono ciascuna una struttura di costo
distinta e definita da determinanti di costo differenti. L’analisi dei costi comporta la disaggregazione della
catena dell’impresa al fine di identificare: L’importanza relativa di ciascuna attività in rapporto al costo totale;
Le determinanti di costo di ciascuna attività e l’efficienza relativa con cui l’impresa la esegue; L’influenza dei
costi di un’attività sui costi di un’altra; Le attività da svolgere internamente e quelle che dovrebbero essere
svolte all’esterno.
L’analisi della struttura dei costi dell’impresa attraverso la catena del valore è composta dalle seguenti fasi:
Disaggregare l’impresa in attività separate (considerando l’importanza e la diversità delle stesse, le differenze
in termini di determinanti di costo); Stabilire l’importanza relativa delle diverse attività in termini di costo
totale del prodotto (utilizzo del metodo ABC – Activity Based Costing, identificazione delle attività critiche,
identificazione delle attività efficienti e non); Confrontare i costi per ciascuna attività con quelli dei propri
concorrenti; Identificare le determinanti di costo; Identificare i legami tra le attività; Identificare le
opportunità di riduzione dei costi.

Catena del valore e differenziazione


Strumenti per l’analisi del vantaggio competitivo: il sistema del valore
Per comprendere le determinanti del vantaggio competitivo dell’impresa occorre considerare che la catena
del valore dell’impresa si inserisce in una sequenza comprendente le catene dei fornitori, degli operatori
coinvolti nelle attività distributive, dei clienti finali -> Sistema del valore
Ogni impresa è inserita in uno specifico sistema del valore che dipende dalle proprie scelte strategiche e
organizzative. Le relazioni attivate dall’impresa con gli altri attori del sistema del valore risultano di
particolare importanza ai fini della costruzione del valore per il cliente finale.

Perché creare valore per il cliente: i vantaggi della soddisfazione del cliente
Creare valore per il cliente, in misura sistematicamente superiore rispetto ai competitors, in ultima analisi
implica il conseguimento di un elevato livello di soddisfazione del cliente. Dalla customer satisfaction
derivano una serie di vantaggi in quanto il cliente soddisfatto: ha una maggiore fedeltà nei confronti
dell’impresa (un cliente soddisfatto è fedele ma non è detto che un cliente fedele sia soddisfatto); un cliente
soddisfatto può accettare di pagare un premium price, ossia un prezzo superiore per avere quel prodotto per
il fatto di attribuire un valore al rapporto soddisfacente con l’impresa; rappresenta una barriera all’entrata
per i concorrenti; svolge un’azione promozionale per l’impresa; costituisce una difesa contro il naturale
declino cui è destinato ogni prodotto/servizio; presenta minori costi di gestione e di servizio, rispetto a clienti
nuovi e sconosciuti, per il fatto che le sue esigenze e le sue preferenze sono già note; sarà disposto a provare
un prodotto/servizio nuovo dell’impresa (cross selling).

I costi della non soddisfazione


Possono essere classificati in costi diretti, come gestione reclami, garanzie, assicurazioni, assistenza al cliente,
e in costi indiretti, dati dalla perdita del cliente e dalla diffusione di un’opinione negativa sull’azienda a causa
di un passaparola.

Dal valore per il cliente al valore per gli shareholders


Il valore creato per il cliente costituisce la base per la formazione di «valore» creato dall’impresa e
nell’impresa. Dalle modalità con cui vengono gestite le attività della catena del valore discende inoltre la
capacità dell’impresa di creare valore per gli azionisti.

Creazione di valore per gli shareholders


Il valore creato dall’impresa - espresso come valore azionario/economico - rappresenta la grandezza che
soddisfa le esigenze degli shareholders, intesi sia come azionisti, sia come soci. Il valore risulta essere la
variabile attorno a cui ruotano le scelte di investimento e di gestione dell’impresa. I mercati finanziari (se
efficienti) assicurano le risorse per gli investimenti e si pongono come giudici dell’efficacia dell’azione del
management.
Gli shareholders sono coloro che investono nell’impresa e, a seconda della forma che assume l’impresa,
possono essere azionisti o semplici soci. L’azionista partecipa al valore creato (in termini di reddito o profitto),
attraverso una quota residuale, l’utile (ovvero dopo aver remunerato tutti i fattori produttivi impiegati). Per
l’azionista è importante che il valore si traduca in un dividendo elevato o in un apprezzamento del valore del
titolo in borsa (capital gain), se il titolo è quotato. Nel caso in cui l’impresa non sia quotata meno immediata
è la valorizzazione dell’aumento del valore del capitale investito ma può essere realizzata sempre dalla
differenza tra il prezzo di acquisto e di vendita.
Il valore per gli azionisti (shareholders) risulta collegato alla redditività dell’impresa e quindi al vantaggio
competitivo che consente di conseguire determinati livelli di profitto. La capacità di far accrescere il valore
della partecipazione dipende dalle scelte strategiche, che devono essere tali per cui l’impresa abbia la
capacità di remunerare chi ha investito. Se l’impresa svolge attività strategiche che sono ritenute dai mercati
finanziari appropriate, si ha un riflesso sul valore della singola azione; nel caso in cui l’impresa abbia avuto
un comportamento strategico non efficiente si ha il deprezzamento del valore dell’azienda. Soprattutto per
le aziende quotate, si ha un passaggio automatico tra i risultati delle strategie e il valore dell’impresa stessa.
Adottando tale approccio, per valutare la capacità dell’impresa di creare valore, è possibile ricorrere ad
indicatori di redditività (come il ROE) o ad altre metodologie (quali il discounted cash flow).

I passi tipici di un buon management che voglia far rendere l’investimento di uno shareholder sono:
- Attrattività dell’ambiente competitivo: essere presenti in un ambiente competitivo positivo comporta un
maggiore valore;
- Posizionamento dell’impresa;
- Identificazione del vantaggio competitivo (costo/differenziazione);
- Individuazione dei value drivers (che a loro volta dipendono dal vantaggio competitivo)

1. Attrattività dell’ambiente competitivo: il modello delle 5 forze competitive di Porter

L’attrattività di un business dipende dal potenziale di redditività. La struttura competitiva di un settore ne


determina la redditività. Lo schema delle forze competitive di Porter individua le variabili strutturali che
influenzano la concorrenza e quindi la redditività.

- La concorrenza attuale: La natura e l’intensità della concorrenza tra le imprese presenti nel settore è
influenzata dalle seguenti variabili: concentrazione, quando il mercato è dominato da un ristretto gruppo
di imprese, la concorrenza di prezzo può essere limitata da un’aperta collusione o da un parallelismo
delle decisioni di prezzo; differenziazione del prodotto, se i prodotti/servizi delle imprese rivali sono
virtualmente indistinguibili il prodotto/servizio è una commodity ed il prezzo è l’unica base per la
differenziazione.
- I prodotti sostitutivi: Il prezzo che i consumatori sono disposti a pagare per un prodotto/servizio (e quindi
la redditività del business) dipende in parte dalla disponibilità di prodotti sostitutivi. Se la domanda di un
prodotto/servizio è elastica al prezzo, l’esistenza di prodotti sostitutivi comporta uno spostamento delle
preferenze del consumatore in risposta a un incremento del prezzo del prodotto/servizio.
- La minaccia di nuovi entranti: Quando un settore ottiene un rendimento del capitale superiore al costo
del capitale, esso esercita un effetto di attrazione su imprese esterne al settore e, a meno del sussistere
di barriere all’entrata, il tasso di profitto scenderà verso il suo livello competitivo. Le principali fonti di
barriere all’entrata sono: Fabbisogno di capitale, Vantaggi assoluti di costo, Differenziazione di prodotto,
Accesso ai canali di distribuzione, Barriere istituzionali e legali, Reazione attesa.
- Il potere contrattuale dei clienti: Maggiore è il potere contrattuale dei clienti, minore è la redditività che
l’impresa può conseguire. Il potere d’acquisto dei clienti dipende da due ordini di fattori: I) Sensibilità al
prezzo, ossia quanto meno differenziati sono i prodotti/servizi dell’impresa fornitrice, tanto maggiori è
la predisposizione dell’acquirente a cambiare fornitore, più intensa è la concorrenza tra gli acquirenti,
maggiori sono le pressioni ad una riduzione dei prezzi da parte dei fornitori, gli acquirenti sono tanto
meno sensibili ai prezzi quanto maggiore è l’importanza del prodotto o servizio; II) Potere contrattuale
relativo (dipende dalla dimensione e concentrazione degli acquirenti rispetto ai fornitori, dalle
informazioni degli acquirenti, dalla capacità di integrazione verticale).
- Potere contrattuale dei fornitori: Per i fornitori valgono considerazioni analoghe a quanto visto per il
potere contrattuale dei clienti. Nella relazione tra impresa e propri fornitori i due punti chiave sono
costituiti da: la facilità con cui l’impresa può cambiare fornitore; il potere contrattuale relativo di ciascuna
parte.
2) Il posizionamento

Sempre meno sono i business caratterizzati da elevata attrattività. E’ importante il comportamento strategico
dell’impresa, cioè la capacità di selezionare dei segmenti in cui andare a produrre un prodotto o un servizio
che sia coerente con un’ottica di differenziazione o di vantaggio di costo. Le scelte strategiche di
posizionamento, compiute dall’impresa, impattano sulla redditività del business e pertanto sulla creazione
di valore per gli azionisti. Per poter compiere le proprie scelte di posizionamento l’impresa deve effettuare
un processo di segmentazione (ovvero di disaggregazione dei settori in specifici mercati o segmenti di
mercato che presentano caratteristiche omogenee). L’analisi di segmentazione ha lo scopo di individuare i
segmenti più attraenti, scegliere in quali segmenti operare, stabilire le strategie per i differenti segmenti).
La scelta di segmentazione è efficace se il segmento presenta delle caratteristiche specifiche: attrattività,
minore concorrenza, capacità dell’impresa di utilizzare le proprie competenze, capacità per il cliente di
recepire il valore. Il processo di segmentazione può essere scomposto in cinque fasi: Identificare le variabili
chiave di segmentazione; Costruire una matrice di segmentazione; Analizzare l’attrattività di un segmento;
Identificare i fattori critici di successo del segmento; Selezionare il segmento obiettivo

3) Vantaggio competitivo e creazione di valore per gli shareholders

All’interno del segmento dobbiamo investire in un vantaggio competitivo legato alla strategia
differenziazione o di costo. Questo vantaggio competitivo deve essere sostenibile, duraturo, difendibile: solo
nel vantaggio competitivo sostenibile nel tempo troviamo il presupposto nella creazione di valore per
l’azionista, data appunto dal fatto di poter realizzare un investimento nel lungo termine che abbia un
rendimento superiore al costo del capitale. Sostenibile nel tempo significa che quell’investimento deve
rendere nel tempo.
Nell’analizzare l’attrattività dell’ambiente competitivo e la sostenibilità del vantaggio competitivo non
occorre solo identificare come i rapporti tra le forze possono apportare il vantaggio competitivo, ma anche
stimare il loro livello di stabilità e di rischio. Variabilità della domanda, Variabilità del prezzo di vendita,
Possibilità di modificare il prezzo dell’output sulla base dei cambiamenti nel prezzo dell’input, Rapporto costi
fissi/variabili.
Un buon manager deve cercare di individuare quei fattori prevalentemente legati all’ambiente esterno, non
sempre governabili, che possono minare la capacità di sostenere un vantaggio competitivo. Ad esempio un
fattore che può minare la sostenibilità del vantaggio è la variabilità della domanda; i prezzi di vendita possono
ridursi a causa del potere negoziale degli acquirenti; la possibilità di modificare l’output sulla base dell’elevata
variabilità dei prezzi degli input; leva operativa (rapporto tra costi fissi e variabili).

4) Value drivers e creazione di valore per gli shareholders

Il processo di creazione di valore per gli shareholders è connesso alla determinazione dei value drivers.
Un’impresa si trova nella necessità di tradurre i suoi comportamenti in termini economico-finanziari poiché
il valore per l’azionista non dipende solo dalla redditività ma può essere calcolato anche mediante altri
metodi (che ci aiuta a capire l’andamento dell’impresa).
Una metodologia di misurazione del valore creato per l’azionista nel lungo periodo è data dall’attualizzazione
dei cash flows futuri (ovvero i flussi di cassa generati dalla gestione dell’impresa, ricavi monetari – costi
monetari). I principali drivers che impattano sulla creazione di free cash flow sono: Volume delle vendite (e
andamento del fatturato); Costi operativi, frutto della gestione che devono essere controllati e monitorati;
Costi non monetari: non hanno una contropartita in termini di uscite monetarie ma provocano l’aumento del
flusso di cassa (ammortamento, fondi rischi e oneri, che non implicano uscite monetarie); Variazione dei
crediti e dei debiti: un credito diminuisce la cassa e un debito la aumenta; Variazioni delle rimanenze di
magazzino, il magazzino diminuisce la cassa, la aumenta quando viene venduto (rappresentano delle forme
di immobilizzazione del capitale).

Il processo di creazione di valore dipende dall’influenza che esercita la dinamica competitiva sulla previsione
dei drivers di valore. Al tempo stesso l’impresa può realizzare azioni specifiche volte a supportare la propria
strategia.
Per effettuare una strategia devo prevedere anno per anno una valutazione di questi indicatori sulla base
della valutazione delle attività della catena del valore, che determinano il flusso di cassa (e poi i cash flow
futuri previsti). Se vogliamo valutare la strategia aziendale in termini di capacità di generare valore per
l’azionista, dobbiamo trattare la strategia come un investimento; da un punto di vista economico-finanziario
la bontà di un investimento si valuta attraverso il processo di attualizzazione dei flussi di cassa generati
dall’investimento stesso. Si identificano anno per anno i flussi di cassa positivi che derivano dalla gestione.
Ogni anno nel periodo coperto dalla strategia dovrei effettuare una previsione relativa alle diverse
determinanti che si generano di anno in anno nelle attività dell’impresa e la determinazione di queste azioni
è funzionale alla determinazione dei value drivers che aiutano a determinare il flusso di cassa disponibile. Il
fatto che la strategia generi flussi positivi significa che permette di creare valore per l’azionista e allo stesso
tempo nella definizione di questo processo di attualizzazione c’è implicitamente la capacità di creare valore
per il nostro cliente (uno dei value drivers è il volume di vendita, cioè la capacità di offrire valore ai nostri
clienti). Se invece alla fine del processo valutativo identifico un delta di valore pari a zero, significa che la
strategia è indifferente, l’impresa potrebbe decidere di attivare questa strategia se la strategia stessa è
effettuata per ottenere opzioni di futura crescita (ad esempio come esplorazione su nuovi mercati).
Rappresenta inoltre la capacità di creare valore per gli stakeholder, in quanto i costi operativi sono presenti
all’interno dei value drivers.

La strategia a sua volta è un insieme di investimenti per cui l’impresa deve essere in grado di remunerare chi
ha investito nell’impresa stessa, ciò significa che l’impresa deve creare un delta di valore per i soci e per
l’impresa. Per poter arrivare ad una strategia di successo, si passa attraverso alcuni passaggi.
1. Scegliere un business attrattivo;
2. Posizionamento: sul segmento l’impresa opera il suo vantaggio competitivo (costo o differenziazione)
che deve essere sostenibile, allo stesso tempo questa sostenibilità è minata da alcuni elementi
ambientali. Il vantaggio competitivo ha riflessi in termini di creazione di valore per l’azionista perché
permette di generare flussi di cassa.
Così come il vantaggio competitivo viene minato, così anche i drivers di valore. La strategia per il vantaggio
competitivo è finalizzata a migliorare i parametri, cioè i value drivers. Questi value drivers possono essere
influenzati e a loro volta influenzano azioni specifiche collegate alle strategie. L’impresa nell’ambito delle sue
decisioni strategiche può definire una serie di comportamenti volti a migliorare tutti i value drivers con
riflesso positivo sulla valutazione dei cash flow.

Dal valore per gli shareholders al valore per gli stakeholders


Il perseguimento del valore per gli shareholders: tende a garantire la sopravvivenza dell’impresa (interesse
per tutti gli stakeholders); assicura che siano stati soddisfatti tutti gli stakeholders in quanto il diritto di
proprietà degli azionisti ha natura residuale; presuppone che l’impresa attui comportamenti volti a creare
valore verso tutti gli interlocutori: “un forte codice etico e la promozione degli interessi di fornitori e
dipendenti sono compatibili con la ricerca di una redditività elevata nel lungo periodo” (Grant, 1994, 1998).

L’impresa è un sistema economico e sociale che si interfaccia con soggetti diversi; si trova quindi al centro di
un reticolo di rapporti e relazioni con una pluralità di gruppi sociali, rispetto ai quali attiva relazioni di
scambio, di informazione e di rappresentanza. Tali gruppi diventano degli interlocutori dell’impresa o
portatori di interesse (stakeholders) che influenzano e sono influenzati dall’attività dell’impresa.

Le frecce della figura identificano una biunivocità della relazione, poiché si influenzano a vicenda. Dobbiamo
vedere l’impresa come una comunità di interessi che crea un soddisfacimento dei vari attori. Gli stakeholders
risultano essere per l’impresa un elemento dell’ambiente esterno attraverso cui si possono leggere l’insieme
delle opportunità e delle minacce del macro o del microambiente (ad esempio per un’impresa fortemente
inquinante i gruppi di opinione sono una minaccia e rientrano fortemente nell’analisi dell’ambiente esterno),
quindi la valutazione degli stakeholder deve essere presa in considerazione dalla strategia aziendale.

Strategia e valore per gli stakeholders


La rilevanza sociale dell’impresa è legata alle ricadute esercitate sul contesto in cui opera (ricadute
occupazionali, d’investimento, di mercato, di effetti sull’ambiente, di impatto sociale sulla vita delle
comunità), mentre quella economica cresce in relazione alla ricchezza creata attraverso le proprie attività.
L’attività d’impresa crea valore per più attori, nel senso che soddisfa, secondo modalità differenti, le esigenze
degli stakeholders (lavoratori, manager, banche istituti di credito, istituzioni, movimenti di opinione, ecc.)
che a vario titolo apportano risorse e che sono coinvolti nell’attività dell’impresa. La conoscenza dei processi
che sottostanno alla creazione di valore per le diverse tipologie di stakeholders diviene un punto essenziale
nella definizione della strategia aziendale.
Nel formulare la propria strategia l’impresa deve rispondere ai seguenti quesiti: Quali sono i principali gruppi
di interesse con cui l’impresa deve misurarsi? Che interessi persegue ciascun gruppo rilevante? Quali
opportunità o minacce ciascun gruppo d’interesse crea per l’impresa? Quali responsabilità l’impresa ha verso
i suoi stakeholders? Quali strategie o politiche l’impresa deve attuare per rispondere alle sfide e alle
opportunità legate agli stakeholders?
Gli stakeholders, sulla base dell’analisi di tre variabili fondamentali (potere, legittimazione, attualità
dell’interesse difeso) possono essere distinti in: Stakeholders primari, destinati ad esercitare una pressione
più diretta e immediata sulla gestione aziendale senza la loro presenza l’impresa non può sopravvivere
(Esempio: Banche ed istituzioni finanziarie per una grande catena alberghiera che finanzia a debito la
realizzazione delle infrastrutture); Stakeholders secondari: in grado di influenzare i comportamenti di lungo
termine, potendo incidere sul clima sociale delle relazioni individuali (Esempio: Associazioni di categoria
possono rappresentare un’opportunità per un operatore sul settore tour Incoming, contribuendo a
rafforzarne l’immagine o facilitando l’individuazione di potenziali clienti).

Nella formulazione della strategia è necessario trovare un punto di equilibrio tra le esigenze e i bisogni dei
diversi operatori economici e soggetti sociali che gravitano intorno all’impresa.
Uno strumento di management utile a conseguire tale risultato è costituito dalla realizzazione di una matrice
che, per ciascuno degli interlocutori critici dell’impresa, identifichi i contributi richiesti e gli incentivi
(prospettive) offerti.

Quello che è importante nella valutazione con gli stakeholder


è la valutazione dei contributi richiesti e degli incentivi. Gli
stakeholder sono portatori di interessi perché trovano
nell’impresa un loro interesse e l’impresa, al fine di poter
attirare questi soggetti nell’ambiente esterno. utilizza degli
incentivi. Questo avviene per tutti gli stakeholders aziendali
che possono essere letti con una duplice valenza: incentivi e
contributi.
INQUADRAMENTO STRATEGICO

L’impresa assume delle decisioni che hanno una diversa natura, che vengono prese al vertice e che hanno un
impatto aziendale. Anche nell’ambito delle decisioni strategiche possono esistere dei livelli decisionali diversi.
La strategia corporate è la strategia più importante che viene presa a livello di capogruppo: la strategia madre
(complessiva) che mira ad identificare l’articolazione del portafoglio strategico dell’impresa e che quindi
sceglie il business in cui andare ad operare e a competere; riguarda la gestione delle interrelazioni tra i
business in modo da creare un valore addizionale dato dalla gestione complessiva e dalle sinergie e la
ripartizione delle risorse tra i business. Riguarda inoltre la scelta del posizionamento competitivo, ossia il
segmento in cui operare. Lo sviluppo di competenze, infine, significa sviluppare competenze che siano al
servizio del portafoglio di business. La nascita della corporate strategy nasce permette la possibilità di poter
gestire diverse attività insieme creando un valore addizionale rispetto alla gestione separata dei business;
alcuni vantaggi possono riguardare le sinergie, altri la riduzione dei costi medi, ancora l’aumento del
fatturato.
Una volta che ho definito il mio portafoglio, definisco il modo in cui competo a livello di business: la strategia
di business riguarda l’identificazione delle leve (value drivers) per poter conseguire il vantaggio competitivo
e come competere all’interno del business.
▪ Le strategie di business sono:
- Strategie per il vantaggio competitivo: differenziazione, leadership di costo, focalizzazione
(posizionamento su una piccola porzione del mercato).

- Strategie di crescita intensiva attraverso linee esistenti (prodotto/mercato): penetrazione del mercato,
sviluppo del prodotto, sviluppo del mercato. La matrice di Hansoff individua le strategie sulla base di due
dimensioni, ossia prodotto e mercato. Se l’impresa vuole crescere nell’attuale business utilizzando lo
stesso prodotto e rivolgendosi alla stessa categoria di consumatori, può effettuare una penetrazione di
mercato, o forzando le vendite o facendo una guerra spietata ai competitor, sottraendogli la quota di
mercato; in tutti i business maturi la penetrazione di mercato non può che avvenire con l’aumento della
quota di mercato. Lo sviluppo del mercato viene effettuato senza modificare il prodotto verso nuovi
mercati oppure ricercando segmenti diversi di soggetti. Lo sviluppo del prodotto può essere effettuato
approfondendo una linea già esistente o modernizzandola.
- Strategia “Oceano Blu” (di W. Chan Kim e Renée Mauborgne): questa strategia è stata identificata per
poter interpretare alcuni fenomeni di imprese che avevano avuto successo modificando i parametri della
competizione, creando un business model del tutto nuovo. Le imprese generalmente vivono nei
cosiddetti oceani rossi, dove c’è elevata competizione. Altre imprese sono invece riuscite a realizzare
strategie nell’oceano blu spostandosi dalla competizione. Classico esempio è Netflix: non solo offre
servizi streaming ma offre anche nuovi contenuti.

▪ Strategie per la crisi aziendale


▪ Strategie di corporate
- Strategie di crescita di tipo estensivo (con nuove linee): l’obiettivo di gestire diverse attività è creare
valore a livello corporate, cioè creare un portafoglio di business solo se questo portafoglio, gestito
unitariamente, ha un valore superiore rispetto alla gestione separata dei business stessi. Quali sono i
fattori che un’impresa a livello corporate deve guardare e gestire? Deve definire la visione e gli obiettivi
strategici, come vision e mission, che identificano uno scopo aziendale. Poi deve gestire a livello
corporate il portafoglio di aree strategiche d’affari, quindi della combinazione bisogni-clienti-tecnologie,
il quale deve creare effetti sinergici: la sinergia può essere basata su elementi tangibili (condivisione
magazzino, impianti, ecc.) o su elementi intangibili (condivisione di un marchio, di una tecnologia). Deve
inoltre gestire le risorse e le competenze necessarie e fungibili/sinergiche tra i business. Un altro aspetto
da considerare è il ruolo organizzativo per la gestione tra i diversi business per valorizzare questo tipo di
interrelazioni.
LA STRATEGIA DI INTEGRAZIONE VERTICALE
-> Espansione dell’impresa in altri stadi della filiera tecnico-produttiva.
E’ una strategia di crescita e di corporate che riguarda un portafoglio di attività, ma con una particolarità: a
crescita dell’impresa si realizza aggiungendo alla linea o alle linee esistenti, nuove attività produttive nel suo
portafoglio strettamente legate a quelle esistenti poiché precedentemente svolte da fornitori (integrazione
verticale a monte o ascendente) o da clienti distributori (integrazione verticale a valle o discendente).
E’ una strategia di corporate perché aumenta il raggio di azione dell’impresa, andando ad occuparsi di attività
in ambiti nuovi collocati a monte o a valle rispetto al business principale e che prima erano svolte dai propri
fornitori o clienti. E’ una strategia di crescita perché l’impresa amplia la propria dimensione aziendale, in
termini di numero di dipendenti, unità produttive e soprattutto di valore aggiunto. E’ la strategia corporate
più legata alla strategia di business perché in genere non viene realizzata per creare sinergie ma per rafforzare
e aumentare il valore del core business. E’ una strategia che spinge verso la diversificazione.
Le decisioni riguardo all’ampiezza verticale della dimensione aziendale devono individuare:
- Quali sono le fasi della filiera economico-produttiva che l’impresa ha deciso di svolgere all’interno e quali
sono quelle che svolge all’esterno?
- Come coordinarle tra di loro?
- Quanta parte del fabbisogno deve essere sodisfatta con un’attività integrata? (Spesso le imprese non
effettuano un processo di integrazione verticale 1 a 1, ma effettuano delle strategie parziali, cioè in parte
si approvvigionano internamente e in parte ricorrono al mercato.)
- Quante risorse finanziare destinare alla scelta?

La filiera tecnico-produttiva
E’ l’insieme delle attività che devono essere effettuate per passare da una natura prima ad un prodotto o un
servizio finale. Considerando il prodotto/il servizio finito è possibile individuare a ritroso tutte le attività
necessarie (tecnologiche, produttive, commerciali) che hanno via via generato il valore incorporato nel
prodotto/servizio finito, fino a giungere alla materia prima.
Il concetto di filiera è stato elaborato ed utilizzato dagli economisti industriali (delle attività produttive), il cui
fine è quello di capire quali sono gli impatti in termini di performance dell’impresa. A questo concetto si
collegano i processi di divisione del lavoro che originano i settori industriali (ad esempio la logistica un tempo
veniva svolta internamente, col passare del tempo si è creato il settore della logistica distributiva, attuata da
operatori esterni). La filiera è inoltre considerata uno strumento per la conoscenza dei meccanismi
concorrenziali specifici del settore indagato, in relazione ai quali è possibile definire azioni di intervento per
il conseguimento di appropriati obiettivi di politica-industriale. Viene anche utilizzata per lo studio delle
relazioni intersettoriali che si instaurano ai diversi stadi della filiera stessa (per es. matrici input-output).
Infine serve come schema per l’individuazione di fattori e condizioni atte a definire strategie di
integrazione/disintegrazione verticale (ossia quanta parte della produzione svolgere internamente e quanta
parte acquistare esternamente). Con il concetto di filiera tecnologico-produttiva, si ha una lettura verticale
delle attività economiche, si tratta di una logica “perpendicolare” a quella di settore.
Come interpretare le connessioni tra settore/filiera? Stigler nel 1951 riprende la teoria sulla divisione del
lavoro (di A. Smith): secondo l’autore, a parità di condizioni, le imprese che operano nei primi stadi di sviluppo
di un mercato assumono strutture più integrate; quando, poi, il mercato è diventato maggiormente
sviluppato, molte fasi diventano sufficientemente significative per essere trasferite a terzi, che diventano
specialisti. Quindi a motivo dei processi di specializzazione e di divisione del lavoro, alcune fasi della filiera
assumono la struttura di settore.

E’ possibile individuare delle filiere di processo e delle filiere di montaggio. Le filiere di processo sono un
insieme di attività che comportano una trasformazione chimico-fisica di una materia prima verso il proprio
prodotto finale, ad esempio il petrolio (slide 20). La filiera di montaggio è una filiera che deriva dal montaggio
di parti e componenti diverse, che provengono da tante sottofiliere; tutte le filiere di montaggio hanno un
centro di gravità che aiuta a connotare la natura della filiera stessa. Ad esempio la filiera della nautica ha
come centro il cantiere, che principalmente si occupa di assemblaggio (slide 21); un altro esempio è la filiera
automobilistica.

Una filiera può essere definita in senso stretto, facendo quindi riferimento alla sequenza delle attività legate
tra di loro lungo le fasi di trasformazione dei prodotti. Sempre più spesso il concetto di filiera viene
interpretato anche considerando le attività collaterali. La filiera allargata comprende, oltre alle fasi
strettamente connesse alla realizzazione del prodotto, anche fasi di supporto di tipo primario, industriale e
terziario che concorrono indirettamente alla realizzazione del prodotto stesso; per esempio, nella filiera di
produzione vitivinicola rientrano anche le fasi di realizzazione dei macchinari industriali, della produzione di
fertilizzanti per le coltivazioni di vite, ecc. Nella filiera ampliata, invece, sono inserite tutte le attività che
possono ricondursi ad un sistema produttivo più esteso; la filiera di produzione di vino, per esempio, si
inserisce nella filiera estesa, ovvero nel sistema agroalimentare nel suo complesso, che comprende diverse
filiere relative a prodotti alimentari (pasta, olio, latte), le relazioni tra di esse per la produzione di prodotti
più complessi, nonché le fasi del consumo dei prodotti stessi (per esempio la ristorazione). (Slide 23, 24)
Il sistema del valore mostra le catene del valore dei fornitori, delle imprese, dei clienti in una logica di
connessione. Nel caso in cui le imprese siano monofasiche non c’è differenza tra il sistema del valore e la
filiera tecnico-produttiva perché ogni impresa corrisponde ad una fase e i due sistemi sono articolati nello
stesso modo. Se nell’ambito delle strategie aziendali un’impresa del sistema del valore decide di estendersi
verticalmente, allora non c’è più una coincidenza.
La misura dell’integrazione verticale
Una possibilità per misurare l’integrazione verticale è quella di contare il numero di stadi di produzione in cui
l’impresa è direttamente coinvolta, allora l’impresa risulta essere integrata se possono essere identificati più
stadi. Sorgono due problemi: definizione della scomposizione in stadi aleatoria; non si può paragonare ai
settori. Una seconda possibilità utilizza come misura il rapporto tra il Prodotto Netto e le Vendite;
inizialmente Adelman (1955) definisce il prodotto netto come salari e stipendi + interessi su capitale +
profitto; se PN/V aumenta, allora l’integrazione verticale aumenta. Sorge un problema: il PN così definito è
influenzato dal grado d’intensità di capitale nella singola fase di produzione. Conviene quindi tener conto nel
calcolo anche dell’ammortamento e quindi dei profitti lordi.
La misura che consideriamo noi misura l’integrazione verticale come rapporto tra il valore aggiunto e il
fatturato: l’indice di Adelman misura il grado di integrazione verticale di un’impresa o di un settore. Ha il
vantaggio di non necessitare dell’identificazione degli stadi di produzione. Maggiore è il valore aggiunto
maggiore dovrebbe essere l’impegno dell’impresa a creare più attività internamente e quindi a ridurre gli
acquisti esterni. L’indice si riduce man mano che si passa da fasi a monte a fasi a valle, perché il fatturato
cresce più velocemente del valore aggiunto. Si considera il bilancio consolidato di un’impresa, si calcola il
valore aggiunto e lo si riporta al fatturato in una serie storica di 10 anni. Se l’impresa opera allo stadio iniziale
della produzione e non ha acquisti esterni, l’indice sarà pari ad 1; se l’impresa opera in tutti le altre fasi, avrà
l’indice si avvicina meno ad 1. Secondo l’indice l’integrazione verticale della prima è maggiore di quella della
seconda (problema). Questo indicatore considera il valore aggiunto, ossia un dato contabile, ma se l’impresa
facesse un processo di integrazione verticale ad esempio attraverso contratti di franchising, emergerebbe da
questo indicatore? L’indice si basa su dati contabili e nel consolidato entrano tutte le forme equity, diventerà
difficile identificare quei processi di integrazione verticale attraverso operazioni non equity di tipo
collaborativo.

Tipologie di integrazione verticale


▪ L’integrazione a monte si verifica quando l’impresa svolge l’attività del suo fornitore. Perché un’impresa
dovrebbe effettuare un’integrazione verticale a monte? L’integrazione verticale risulta economicamente
conveniente quando: il costo della produzione interna risulta inferiore al costo di approvvigionamento
sul mercato (con costo si intendono i costi non solo legati al prezzo di vendita e di acquisto ma anche di
ricerca dei fornitori, di contenzioso, ecc.); se il fabbisogno interno dell’input è compatibile con la capacità
ottima minima dell’attività che vado ad integrare (dell’impianto); considerando il valore di corporate
strategy, l’incremento dei profitti non sia inferiore a quello ottenibile allocando le risorse in altri
investimenti, ossia se integrando le attività è possibile ottenere un incremento del valore relativo alle
sinergie tra le attività presenti e quelle integrate.
▪ L’integrazione a valle (si cambia il mercato): l’impresa va a svolgere attività che precedentemente erano
realizzate dal proprio cliente o dai propri distributori. L’integrazione a valle si realizza: estendendo la
propria attività ai processi svolti dalle aziende clienti, in questo modo l’impresa si appropria di un
contatto diretto con il suo mercato; per la necessità di collocare tutta la produzione aziendale che non
trova un sufficiente assorbimento nel mercato di appartenenza (esempio tipico può essere quello di
un’impresa di filati che decide di integrarsi a valle intraprendendo la attività di produzione dei tessuti per
utilizzare l’intero volume di filati producibile).
▪ Rispetto al numero delle fasi della filiera in cui l’impresa è presente: l’integrazione è completa se si
sviluppa in senso verticale fino ad occupare tutte le fasi della filiera; è incompleta se l’impresa è presente
solo in alcuni stadi collegati verticalmente.
▪ Rispetto alla copertura dei fabbisogni: la strategia può essere realizzata con ricorso al mercato, ossia
l’impresa, pur presente in tutti gli stadi della catena verticale, ricorre anche ad imprese esterne per
l’approvvigionamento, la trasformazione o la distribuzione dei beni o servizi (non coprendo l’intero
fabbisogno ma solo una parte e ricorre al mercato per la parte residuale). L’integrazione con ricorso al
mercato dà all’impresa la possibilità di scaricare sui fornitori l’eventuale fluttuazione della domanda; se
un’impresa fosse totalmente integrata e avesse una crisi sul suo business core, avrebbe anche una crisi
su tutte le attività integrate. La strategia può essere realizzata con eccedenze: l’impresa si assicura una
capacità produttiva dei processi a monte o a valle sovradimensionata rispetto alle sue esigenze di input
o output.

I vantaggi dell’integrazione verticale con ricorso al mercato: Si riducono in rischi, in particolare di fronte ad
una crisi un’impresa totalmente integrata dovrebbe affrontare questa situazione da sola; in questo modo
l’impresa si lascia aperte delle finestre tecnologiche e di mercato, infatti un’impresa che non ha rapporti con
l’esterno rischia di diventare autoreferenziale rispetto allo sviluppo e alla conoscenza delle tecnologie,
facendo ricorso al mercato ha la possibilità di trasferire conoscenze dal mercato ai propri centri di sviluppo
interni; l’impresa può mantenere un elevato potere contrattuale, effettuando pressioni sui suoi distributori
minacciando un’integrazione verticale totale.

Le diverse forme di integrazione verticale


Questo schema ci fa capire come l’integrazione
verticale possa essere realizzata attraverso forme
diverse. L’integrazione verticale è vista come una
strategia complessa perché l’impresa deve avere nuove
competenze. Lo schema identifica due dimensioni: il
livello di formalizzazione, cioè la traduzione in termini
contrattuali, e il livello di coinvolgimento. Più elevato è
il livello di coinvolgimento, più ci si avvicina
all’integrazione completa, mentre la formalizzazione è
bassa perché il contratto regola la produzione interna.

Le modalità per realizzare l’integrazione verticale


possono riguardare forme equity, come la creazione di un’unità produttiva che svolge la stessa attività
precedentemente svolta da un cliente o da un fornitore oppure attraverso delle operazioni di M&A (fusione
e acquisizione). L’integrazione verticale che viene rilevata dall’indicatore di Adelman riguarda queste due
forme. Esistono altre modalità come i contratti occasionali, forma attraverso il quale l’impresa regola le
transazioni con i clienti fornitori, il livello di coinvolgimento è nullo e il livello di formalizzazione è basso
perché in genere è un contratto spot. I contratti a lungo termine sono dei contratti che prevedono un livello
di formalizzazione alto, in quanto le clausole previste sono più complesse. Un’altra attività è la relazione
informale: esistono delle situazioni per cui anche in assenza di contratti formali si crea una relazione molto
forte con il cliente o con il fornitore. Un altro strumento è il franchising: presenta un buon livello di
formalizzazione e coinvolgimento., viene utilizzato soprattutto nella distribuzione commerciale; spesso la
letteratura definisce il franchising come una forma di quasi integrazione perché presuppone l’esclusiva.
Un’altra forma è la joint venture: entità autonoma che viene creata da due o più soggetti per realizzare un
progetto; in termini di integrazione verticale può essere realizzata una joint venture tra due soggetti che sono
presenti nella filiera produttiva per creare un servizio o un’attività di fornitura. Le joint venture possono
essere equity: si crea una società in cui i due soggetti hanno una partecipazione al 50% (joint venture
paritarie) o diverse partecipazioni, ma esistono anche joint venture non equity.
Possiamo dire che l’integrazione verticale può essere effettuata tramite diverse forme:
- Equity: si ha un controllo del capitale delle aziende posizionate a monte o a valle della filiera. In questa
modalità rientra anche la creazione ex novo di una società che si occupa della distribuzione o della
fornitura di qualche servizio.
- Contrattuale: l’impresa stipula contratti a lungo termine. L’integrazione verticale viene realizzata per
sfuggire ai rischi dell’occasionalità dei contratti.
- Quasi integrazione: l’impresa non accresce la propria dimensione in termini equity ma realizza una serie
di contratti che le assicurano gli input per la produzione e l’assorbimento del suo output assumendo il
controllo di fatto delle imprese a monte o a valle della filiera
▪ Nell’integrazione contrattuale, il fornitore/cliente non si trova in una situazione di subordinazione
rispetto all’impresa che ha adottato la strategia. Non esiste nessun accordo di esclusiva.
▪ Nella quasi integrazione, si realizza una forte dipendenza del cliente/fornitore integrato.

Esempio di una strategia di quasi integrazione: BENETTON


L’impresa non accresce la sua dimensione, ma tende ad assicurarsi stabilità di approvvigionamenti per
qualità, tempi di consegna, quantità prezzi e sicurezza degli sbocchi sul mercato. Modalità di realizzazione:
istituzione di rapporti stabili con un numero limitato di fornitori efficienti e specializzati; un numero elevato
di imprese commerciali al dettaglio sulle quali la Benetton svolge un ruolo di supervisore e consulenza
(controllo sul canale senza impegno di risorse).
Esempio integrazione contrattuale
Industria petrolifera: le imprese di raffineria stipulano contratti a lungo termine con imprese estrattrici, ma
che non prevedono vincoli di esclusiva
Turismo: i tour operator si assicurano la capacità di trasporto o di alloggio stipulando contratti a lungo
termine con altri operatori della filiera, ma che non prevedono vincoli di esclusiva.
Esempio di integrazione (quasi) completa: il gruppo Zara
L’insegna spagnola utilizza una forte integrazione verticale, con tutti i prodotti disegnati dal centro design
situato a La Coruna e con un’organizzazione produttiva che le consente tempi di reazione alle domande ed
evoluzioni del mercato per ora non uguagliati da nessuna altra azienda del settore abbigliamento.
Esempio di integrazione (quasi) completa: Luxottica
Luxottica è una delle poche aziende del comparto ad avere una filiera integrata verticalmente: dalla
progettazione alla produzione sino alla distribuzione, nelle due formule del dettaglio e dell'ingrosso.
Luxottica dispone oggi di una rete di oltre 5.500 punti vendita distribuiti sui quattro continenti, di cui oltre
4.600 negli Usa, ove è attivo tramite le reti Lens Crafters (grandi superfici, accurato servizio e alto contenuto
di moda), Pearle Vision (dimensione contenuta e marchio storico dell'ottica Usa su cui è in atto un importante
piano di rilancio che dovrebbe valorizzare anche la componente franchising) e Sunglass Hut (catena attiva
solo negli occhiali da sole con focus verso il segmento ad alto contenuto di moda e quindi con margini più
elevati). Ancora più significativa l'evoluzione dell'attività all'ingrosso, ove si commercializzano solo gli occhiali
prodotti da Luxottica. Un business che può fare leva sulla presenza capillare in oltre 120 Paesi, di cui 28 con
presenza diretta di società controllate, su importanti economie di scala e servizi d'eccellenza, oltreché costi
di produzione contenuti. Con l'integrazione di Cole National Managed Vision Care, EyeMed è ora il secondo
operatore nei programmi di convenzione nel campo dell'ottica negli Stati Uniti.

Le tendenze recenti nei processi di integrazione delle imprese


La capacità delle relazioni contrattuali di offrire la flessibilità tipica dei rapporti di mercato e, allo stesso
tempo, di evitare la maggior parte dei costi di transazione si è risolta in una spinta alla disintegrazione
verticale.

Perché integrarsi?
Il paradigma per capire il motivo per cui l’impresa si integra è ricondurre le scelte di integrazione verticale
alle scelte di make or buy; si tratta di un problema che è sempre esistito e che è stato risolto facendo
riferimento ad un confronto di convenienza economica, tra la scelta di acquistare sul mercato o di produrre
autonomamente. Questo paradigma è quello dei costi di transazione, cioè la strategia di integrazione
verticale è una soluzione volta alla riduzione dei costi di transazione derivanti dall’utilizzo del mercato (oltre
al prezzo di acquisto). Questi costi che non hanno una manifestazione diretta monetaria nell’immediato. Per
il ricorso al mercato occorre sostenere dei costi di transazione che possono essere distinti in: costi precedenti
allo scambio, legati alla raccolta di informazioni sul fornitore (si valutano sulla base della solidità, dei tempi
di consegna, ecc.) e legati alla negoziazione e alla stipula del contratto; i costi successivi allo scambio sono
legati alla predisposizione della transazione stessa e alle possibili dispute tra i contraenti (ad esempio ritardi
nei pagamenti, nelle consegne, prodotto non corrispondente alle specifiche, ecc.).
La produzione interna viene definita con il termine di controllo o gerarchia, da cui derivano dei costi. Sono
dati dai costi di pianificazione dell’impiego dell’input, dai costi di controllo e monitoraggio degli input stessi,
dalla raccolta e dalla trasmissione delle informazioni nell’ambito del gruppo/dell’impresa.

Confronto gerarchia/mercato
Se i costi di transazione meno i costi di controllo (Ct – Cc) risultano essere minori o uguali a zero è conveniente
effettuare un acquisto esterno sul mercato, cioè una scelta di buy. Al contrario l’impresa opta per una
produzione interna che porta all’integrazione verticale, cioè per una scelta di make, se i costi di transazione
meno i costi di controllo (Ct – Cc) risultano essere superiori a zero. Questo paradigma è stato utilizzato per
spiegare alcune forme organizzative aziendali e perché siano nati dei gruppi di impresa. Si tratta di una
prospettiva che riduce le scelte di integrazione verticale a scelte di make or buy guidate dal principio della
convenienza economica.
Esistono altre motivazioni di natura strategica che inducono le imprese ad integrarsi verticalmente.

Motivazioni strategiche
- Aumento del potere di mercato
- Miglior controllo dell’approvvigionamento e della domanda
- Aumento del potere contrattuale a monte e/o a valle: generalmente l’integrazione verticale viene
realizzata proprio per aumentare il potere negoziale, soprattutto quando l’impresa è in parte integrata e
in parte no.
- Creazione barriere all'entrata: la strategia di integrazione verticale non è infatti sempre ben vista dalle
autorità garanti per la concorrenza perché le imprese che si integrano verticalmente possono creare
effetti distorsivi sulla concorrenza.
- Miglioramento dell'efficienza tecnica ed organizzativa poiché aumentano i flussi informativi col mercato
attraverso il controllo della rete commerciale, vi sono spinte a garantire una qualità elevata e a
mantenere l'innovazione all'interno dell'impresa, ad esempio quando non è sufficiente il brevetto.
- Accumulazione di competenze provenienti da ambiti tecnologici diversi
- Innovazione del prodotto, grazie all’interiorizzazione di conoscenze tecnologiche provenienti da diversi
ambiti;
- Differenziazione del prodotto (qualità degli input e dei canali di distribuzione)
- Investimento in ambiti di attività attrattivi

Criticità della strategia di integrazione verticale


- Incremento della leva operativa: nell’ambito della struttura dei costi pesano di più i costi fissi rispetto a
quelli variabili, questo aspetto incide sull’elasticità (attitudine di un’impresa a variare la quantità prodotta
senza grandi costi aggiuntivi) dell’impresa.
- Incremento del fabbisogno di capitali e rigidità degli investimenti: per poter effettuare un’integrazione
verticale l’impresa deve avere dei grandi capitali, gli investimenti sono spesso rigidi perché investe in
attività connesse a quelle di partenza e che difficilmente possono essere modificate.
- Aumento delle barriere all’uscita: le barriere all’uscita legate ai sunk costs, alle normative dei sindacati,
ecc.
- Bilanciamento del volume: l’impresa ha il problema di integrarsi in attività che abbiano un volume
corrispondente al suo fabbisogno, e se l’impianto ha una dimensione ottima superiore al fabbisogno
bisogna collocare quelle eccedenze sul mercato oppure attraverso strategie di diversificazione.
- Perdita di flessibilità: la flessibilità riguarda la capacità dell’impresa di cambiare le caratteristiche
qualitative dei prodotti senza aggravi elevati. Investendo in una struttura monolitica, il livello di flessibilità
risulta essere inferiore rispetto ad un’impresa che attinge la varietà sul mercato.
- Perdita di specializzazione: un’impresa integrata è presente in diversi stadi della filiera produttiva e avrà
un livello di specializzazione inferiore rispetto ad un’impresa monofasica.

Integrazione e settori
Seppure l’integrazione verticale sia un fenomeno tipico dei settori industriali caratterizzati da processi
continui (l’integrazione verticale consente di ridurre i costi di produzione), queste motivazioni di ordine
strategico possono indurre le imprese operanti nei settori di montaggio ad integrarsi verticalmente.
Esistono dei settori che hanno una maggiore attitudine all’integrazione verticale: sono i settori basati su
prodotti derivanti da un processo produttivo continuo. Le filiere di processo sono filiere che presentano un
livello di integrazione verticale peggiore perché esistono dei problemi tecnici che non permettono di creare
momenti di discontinuità nel processo produttivo. Ad esempio il settore del vino dà frutto ad un prodotto
derivante da una filiera integrata.

Integrazione verticale e ciclo di vita del business


Nelle prime fasi del ciclo di vita di un prodotto (fase di introduzione) l’impresa non trova sul mercato dei
fornitori o dei distributori appropriati e quindi tende ad autoprodurre quei servizi. Nella fase di sviluppo, si
crea una tendenza verso una maggiore divisione del lavoro, quindi nascono dei soggetti che hanno
competenze adeguate che permettono di poter fornire quei servizi. Si parla infatti di una progressiva
disintegrazione verticale. Nella fase di maturità possono esserci due situazioni: l’impresa può realizzare
un’integrazione verticale per poter recuperare aree di mercato caratterizzate da più alta profittabilità oppure
effettuare una disintegrazione verticale volta a recuperare dei costi.

Esempio: il gruppo Loro Piana – integrazione a monte


Loro Piana attualmente è il maggior trasformatore di cashmere al mondo. Per assicurarsi la materia prima
migliore, in Mongolia a Ulaan Baatar Loro Piana ha inoltre acquisito un impianto di tosatura per eseguire
sotto diretto controllo la prima e delicatissima fase di lavorazione di questa preziosa fibra. Motivazione:
Controllo della qualità delle materie prime.

Integrazione verticale nella distribuzione e della distribuzione


La tendenza dei produttori ad integrarsi a valle non è spinta da ragioni di costo, quanto piuttosto dalla ricerca
di maggiore efficienza nella gestione delle attività di vendita e di marketing. Il produttore che vuole
“spingere” il suo prodotto di marca nell’assortimento del dettagliante deve quindi integrarsi a valle per
svolgere attività di marketing. Il grossista indipendente ha una funzione di consulente imparziale nei confronti
del distributore al dettaglio, quindi non può promuovere una particolare marca.
La tendenza delle imprese della Grande distribuzione ad integrarsi a monte consente di realizzazione
economie di costo senza l’utilizzo degli intermediari attraverso un rapporto diretto con la produzione.
L’attività di intermediazione svolta dalla Grande distribuzione si caratterizza per una riduzione dei servizi,
rispetto a quelli tipicamente offerti dal distributore-grossista indipendente. Il dettagliante disintermedia il
canale di distribuzione ma dall’altro lato svolge delle attività di immagazzinaggio e logistiche che un tempo
svolgeva il grossista.
Non sempre è conveniente integrarsi per le economie realizzate dai distributori. Il produttore che si integra
a valle e scavalca la funzione di ingrosso deve evidentemente fornire direttamente un maggiore numero di
depositi. Una tipica fonte di economie che i distributori realizzano si deve alla riduzione del numero dei
contatti e delle relazioni dirette, infatti, senza l’impiego di intermediari sono necessari 9 contatti. Mediante
l’impiego di intermediari il numero di contatti si riduce da 9 a 6. Questa è una tipica fonte delle economie
che si realizzano mediante l’utilizzo di intermediari
PROCESSI DI DEVERTICALIZZAZIONE O DISINTEGRAZIONE VERTICALE
Talvolta esistono fattori ambientali che spingono ad un concetto di riduzione del livello di integrazione
verticale o del numero di business in cui è articolata l’attività dell’impresa. Queste strategie sono considerate
all’interno delle strategie di corporate perché corrispondono all’obiettivo di generare maggiore valore. Il
processo di disintegrazione verticale è il processo opposto all’integrazione verticale, secondo cui l’impresa
utilizza gli input e colloca gli output senza trasferimenti interni, utilizzando prevalentemente i contratti.

I motivi che spingono verso questa operazione:


- L’integrazione verticale porta ad una perdita di flessibilità e di specializzazione. Nel momento in cui ci si
rende conto che il vantaggio dell’integrazione verticale è inferiore rispetto ai problemi che ne derivano,
questo è un fattore che porta l’impresa ad alienare le attività precedentemente integrate per una
maggiore flessibilità produttiva e un più efficiente sfruttamento delle economie di specializzazione.
- Decentramento produttivo per esternalizzare fasi di lavorazione e per ridurre il costo del lavoro della
grande impresa (Italia)
- Maggiore efficienza mediante diverse scale ottimali di capacità produttiva
- N.B.: La disintegrazione verticale può essere realizzata anche in caso di strategie di sopravvivenza, volte
al superamento della crisi e al ritorno al valore.

Fattori ambientali che agevolano la deverticalizzazione


- Crescita ridotta della domanda maggiore differenziazione della domanda, che è sempre più variegata,
avere fornitori diversi dà la possibilità di andare incontro ad esigenze diverse dei clienti; riduzione del
ciclo di vita dei prodotti che impone all’impresa di dover affrontare il problema dell’elasticità e della
flessibilità.
- Emersione di una domanda maggiormente differenziata (varietà della domanda), sotto il profilo della
qualità dei prodotti, delle varianti e dei servizi connessi alla vendita del prodotto, e instabile nel tempo
(variabilità)
- Riduzione del ciclo di vita dei prodotti, a causa di processi di innovazione sempre più frequenti e a
mutamenti repentini della domanda che provocano quindi tassi di obsolescenza più accelerati
- Intensificazione della concorrenza, anche a seguito all’emergere di nuovi competitors provenienti da PVS.

Tendenze recenti nei processi di integrazione/deverticalizzazione delle imprese


A partire dagli anni '80 si è avuto in tutte le economie
un processo di "disintegrazione verticale delle grandi
imprese“, evidenziato da un progressivo abbattimento
del rapporto valore aggiunto/fatturato.
Il grafico mostra un’analisi effettuata dagli anni 70 agli
anni 90, periodo in cui si è costituito l’assetto
dell’industria dei vari Paesi: il valore aggiunto sul
fatturato dell’Italia è molto più basso rispetto agli altri
paesi europei, così come anche il suo livello di
integrazione verticale. Il motivo deriva dalla presenza
rilevante di industrie piccole e medie (95%) e dalla
specializzazione nei settori a limitate economie di scala,
a elevata scomponibilità dei processi produttivi e a
bassa intensità di ricerca. La struttura italiana non brilla
per tecnologia ma è più orientata ai settori tradizionali, i cui livelli dimensionali risultano inferiori. In senso
dinamico, c’è stata comunque una riduzione del rapporto valore aggiunto/fatturato, ciò accade soprattutto
nei momenti di crisi.

Le motivazioni strategiche della deverticalizzazione


L'integrazione si è dimostrata inadeguata di fronte alla crescita dell'incertezza: crescita ridotta; domanda
differenziata; riduzione del ciclo di vita dei prodotti; intensificazione della concorrenza. In questo scenario,
le imprese scelgono allora di concentrarsi sulle proprie competenze distintive che rappresentano il
differenziale competitivo rispetto ai concorrenti. La strategia della disintegrazione verticale e della
focalizzazione sulle core competencies può arrivare all'estremo della cosiddetta impresa "virtuale", quella
che si concentra solo sulle attività ad alto valore aggiunto, soprattutto progettazione e marketing, tagliandosi
fuori da quelle manifatturiere, esternalizzando quelle attività che hanno un valore inferiore o non sono
strettamente fonte del vantaggio competitivo (è questo il caso, ad esempio, della Nike).

Il processo di disintegrazione verticale è stato spesso definito (seppure in modo impreciso), negli ultimi anni,
con la denominazione di outsourcing. Con il termine OUTSOURCING si indica, modo generale: “il processo
attraverso il quale le aziende assegnano stabilmente a fornitori esterni la gestione operativa di una o più
funzioni, catena di attività o servizio di supporto in precedenza svolto all’interno”.
Le attività maggiormente interessate al processo di outsourcing riguardano:
Servizi di supporto: sistemi informativi, servizi legali, information technology (gestione degli elaboratori
centrali, delle reti di telecomunicazione, dei servizi informativi di corporate…) paghe e stipendi, servizi
generali (mensa, pulizia, ecc.), servizi di edificio, amministrazione contabilità, servizi commerciali, marketing,
ricerca e formazione del personale.
Funzioni manufatturiere: produzione di parti, logistica (magazzinaggio, trasporto, distribuzione), gestione
rifiuti, riciclaggio, manutenzione impianti di produzione.

Questo ricorso al mercato non sempre coincide con una strategia di DEVERTICALIZZAZIONE che invece ha
come riferimento le fasi della filiera tecnico produttiva. Possiamo dire che un processo di disintegrazione
verticale sia un outsourcing ma non tutte le operazioni di outsourcing sono di disintegrazione verticale. Per
esempio la gestione in outsourcing dei sistemi informativi non è una deverticalizzazione oppure se do ad
un’impresa il compito di selezionare i talenti migliori non è un’attività di disintegrazione verticale ma di
outsourcing contando su soggetti più competenti.

Esempi:
Basic Net, il gruppo che possiede i marchi Kappa e Robe di Kappa, non svolge più attività diretta di produzione,
che è affidata a 40 licenziatari che gestiscono anche il marketing locale.
Electrolux sta predisponendo lo scorporo e la cessione delle attività nei componenti per elettrodomestici.
Fila, società controllata del gruppo Hdp, ha affidato a Saima la gestione dei propri centri di distribuzione in
Europa. La decisione risponde all'esigenza di razionalizzare e riorganizzare la struttura, migliorando
sensibilmente il servizio e ottenendo, al tempo stesso, una sensibile riduzione dei costi delle operazioni di
magazzinaggio

Gli effetti della deverticalizzazione


I processi di deverticalizzazione e la concentrazione sulle core competences hanno avuto alcune conseguenze
di rilievo:
1. La struttura della fornitura cambia: si riduce il numero dei fornitori, coinvolti tuttavia con contratti e
relazioni a lungo termine;
2. Il prodotto stesso viene sempre più ripensato in termini di standardizzazione e modularizzazione.
N.B. La deverticalizzazione può comportare un impoverimento delle competenze possedute dalle imprese,
rendendo l’impresa un mero assemblatore.
Quando i componenti sono critici e incorporano quote importanti di conoscenza, l’impresa può
deverticalizzare le mere operazioni manifatturiere (le lavorazioni), continuando a svolgere le attività di ricerca
e progettazione.

Quale è la condizione che ha agevolato i processi di deverticalizzazione?


Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Le nuove tecnologie dell’informazione da
un lato hanno reso il trasferimento delle conoscenze dall’impresa verso l’esterno e dall’esterno all’impresa
più facile e meno costoso; dall’altro consentono processi decisionali fortemente decentrati.
Si tratta di un problema che è apparso controverso:
L’ICT rafforza la spinta all’integrazione verticale?
L’ICT conduce ad una deverticalizzazione?
I ricercatori che hanno analizzato la relazione tra ICT e confini verticali dell’impresa sono oggi abbastanza
concordi nel sostenere che le ICT sono una condizione alla base della deverticalizzazione.
In realtà, cambiano le forme di governo delle relazioni verticali, passando così da strutture monolitiche a
forme intermedie (per esempio contratti a lungo periodo, franchising, reti).
LA STRATEGIA DI DIVERSIFICAZIONE
Strategia di crescita basata sull’introduzione di una o più linee di prodotto che affiancano quelle esistenti e
danno avvio all’entrata in nuovi business. Riguarda la gestione di sistemi prodotto/mercato diversi e quindi
di aree strategiche d’affari diverse.

Alcune definizioni:
Penrose: processo che porta a produrre nuovi beni e a sviluppare nuove competenze;
Ansoff: la strategia di diversificazione è una strategia che costringe l’impresa ad operare in diverse
combinazioni prodotto/mercato (matrice prodotto/mercato);
Hax-Majluf: l’impresa che si diversifica va ad operare in nuove aree strategiche d’affari (ASA). Per gestire la
complessità di questo portafoglio strategico si trova a dover creare delle strategic business unit, cioè delle
unità organizzative preposte alla gestione delle aree strategiche d’affari.

Nell’esempio l’impresa effettua una strategia di diversificazione in


business che presentano elementi di similarità, ad esempio alcune
conoscenze tecnologiche possono essere condivise.

Un’interpretazione basata sulle competenze e sulle risorse


La diversificazione risulta essere legata allo sviluppo di fattori interni (=core factor, cioè risorse e
competenze). Questo sviluppo avviene:
- In modo discontinuo, per distinguere la diversificazione dai processi di espansione delle attività di
impresa all’interno degli ambiti competitivi ad essa famigliari, che, invece, comportano una crescita
tendenziale delle competenze distintive. L’impresa va ad operare in ambiti nuovi e non familiari. Nel
momento in cui l’impresa affianca un nuovo business acquisisce nuove competenze.
- A somma positiva, per distinguere la diversificazione dalle strategie di riconversione produttiva e di
ristrutturazione dei mercati, che, invece, portano ad uno sviluppo a somma zero o negativa del
patrimonio complessivo di risorse immateriali.
Evoluzione della diversificazione nel tempo
La diversificazione è una strategia studiata nello scorso secolo, in
particolare nel secondo dopoguerra. Si verificò una spinta alla
crescita determinata da mercati in espansione: in una fase
espansiva l’impresa probabilmente avrà nel suo business dei
flussi di cassa positivi e potrebbe decidere di investirli in altri
business diversi da quelli esistenti. Inoltre la diversificazione dà
un vantaggio, cioè permette di diversificare il rischio. In quegli
anni ci fu lo sviluppo delle tecniche manageriali orientate alla
gestione di portafoglio.

Negli anni 70/80 la diversificazione registrò un rallentamento a causa della congiuntura, per cui le
opportunità di mercato si riducono. Con le crisi petrolifere, le spirali inflazionistiche e le impennate dei tassi
di interesse, le imprese trovarono meno facilità nell’ottenimento di rendimenti sul capitale investito superiori
al costo. La turbolenza ambientale, destinata a crescere, penalizzava maggiormente le imprese multi-
business rispetto alle imprese specializzate. L’attenzione si sposta allora sulla focalizzazione sulle risorse
interne e sui punti di forza o su strategie di diversificazione che basate su un nucleo di competenze core.
I mercati finanziari guardano con sospetto alle imprese di elevata diversificazione perché si pensava avessero
una dispersione delle loro competenze in business diversi che spesso non erano più attrattivi come un tempo.
A partire dagli anni 80/90, l’attenzione si sposta sulle risorse umane e sui punti di forza basate su un nucleo
di business core (focalizzazione). E’ una strategia corporate perché anche in questo caso l’obiettivo è
organizzare il portafoglio di business. La tendenza alla rifocalizzazione ha riguardato: la creazione di valore
per gli azionisti; la turbolenza ambientale che rende le opportunità di mercato più basse; teorie di gestione
aziendale basate sulla valorizzazione dell’ambiente interno, quindi sulle competenze aziendali.

La misura della diversificazione


La metodologia di Rumelt (1974) misura la diversificazione aziendale sulla base del fatturato generato dalle
singole business units rispetto al fatturato generale, ossia quanto ciascuna area strategica d’affari prende in
termini di fatturato. L’indice di specializzazione (SR) è calcolato come rapporto tra il fatturato del business
principale e il fatturato totale; consente di definire l’impresa in base ai diversi risultati:
• Monobusiness: se il fatturato è superiore al 95% in un solo business;
• Dominant business: se il fatturato del business più importante è compreso tra il 70% e il 95%, ossia
l’impresa concentra le proprie risorse su un business specifico;
• Imprese diversificate, related o unrelated: se il fatturato del business principale è inferiore al 70%.

Un’altra misura consente di capire come i business sono legati tra di loro, in termini di similarità tecnologica,
mercato, stile di marketing. In questo modo è possibile capire se l’impresa ha realizzato una strategia di
diversificazione correlata o senza omogeneità. Potrebbe accadere che tutti i business siano correlati tra di
loro oppure si creino dei grappoli di business.
Rumelt distingue le imprese che hanno attivato percorsi di diversificazione correlata o non correlata, sulla
base dell’indice RR (Relation Ratio). L’indice viene calcolato mediante il rapporto tra il fatturato generato da
gruppi di business in qualche modo connessi tra di loro (in termini di affinità tecnologica e/o di mercato) e il
fatturato totale. Se l’indice RR è superiore al 70%, allora l’impresa è Related, ovvero ha attuato una strategia
di diversificazione concentrica. Oltre a queste indicazioni che presentano una base di calcolo, Rumelt
distingue anche gruppi di business related contrastained e related linked, laddove nel primo caso tutti i
business siano tutti correlati tra di loro; nel secondo esistono dei rapporti solo bilaterali, tra business e
business.
Il calcolo mediante Herfindhal, considerato un settore caratterizzato da n imprese, ciascuna avente una quota
di mercato pari a Si, l'indice di Herfindahl può essere calcolato con la seguente formula: la sommatoria del
quadrato della quota che ciascun business ricopre nel portafoglio aziendale. L’indicatore può essere
compreso tra 0 e 1, se tende a 0 il portafoglio è molto disperso, se tende a 1 è molto concentrato.

Le determinanti della diversificazione


Dal punto di vista degli studi tradizionali, Chandler ha individuato come la diversificazione sia quasi un
percorso obbligato a causa della continua crescita dell’impresa. Inoltre, secondo la logica finanziaria, la
diversificazione viene vista come investimento proficuo dei cashflow che si sono ottenuti dai business in
partenza. La diversificazione può essere vista anche come modo di diversificazione del rischio.

Alcune motivazioni strategiche possono essere riconducibili all’ambiente ESTERNO: l’impresa può effettuare
la ricerca di nuove opportunità di mercato in un’ottica quasi di azione preventiva rispetto ai suoi competitor.
• L’impresa, dopo aver effettuato un’analisi strategica, individua dei business caratterizzati da una
struttura per cui l’attrattività è elevata;
• Quando il business dell’impresa è arrivato ad una fase di maturità ed è fortemente concorrenziale;
• Le imprese cercano di esplorare nuovi ambiti di mercato in modo anticipato rispetto ai competitors al
fine di avere un vantaggio da first mover.
• La strategia porta ad un aumento del potere di mercato. La diversificazione viene vista dalle autorità
garanti per la tutela della concorrenza come una strategia che incrementa il potere di mercato
realizzando degli effetti distorsivi sulla concorrenza e sulla tutela del consumatore finale. Articolo il mio
portafoglio in diversi business e faccio sì che i flussi di cassa che si generano in un business vengano
investiti per supportare un altro business al fine di creare abbassamenti dei prezzi considerevoli; si riesce
ad avere una situazione per cui il fatto di essere una corporation diversificata dà la forza per effettuare il
dumping predatorio. Nel caso dell’acquisto reciproco, l’impresa si diversifica in due aree di business che
sono collocati nell’ambito della stessa filiera produttiva ma non si verifica un’integrazione verticale
perché i business non sono strettamente correlati; i due business sono contemporaneamente fornitori e
clienti dello stesso soggetto. C’è un’impresa F che entra in un business A (fornitore del cliente B) e nel
business C (cliente del fornitore B). Perché può aumentare il potere di mercato? L’impresa F potrebbe
utilizzare questa doppia posizione per effettuare ricatti e ritorsioni. Il mutuo supporto è una situazione
che si genera perché le grandi corporation tendono ad avere percorsi di diversificazione in business simili.
Le imprese tendono a non fare nessuna guerra di prezzo perché temono ritorsioni negli altri business.
Altre motivazioni sono determinanti INTERNE che derivano da alcune esigenze manageriali:
• Crescita: come obiettivo e finalità dell’impresa. Le finalità dell’impresa, ovvero quali sono gli obiettivi più
ampi, trovano nelle teorie economiche il concetto di crescita; risulta essere importante come naturale
sviluppo dell’impresa. I manager sono soggetti molto orientati alla crescita, soprattutto quando si parla
delle grandi imprese manageriali; questo perché? Perché la sua remunerazione dipende da questo.
Laddove è impossibile crescere nel business esistente, si ricerca una nuova opportunità di mercato in
altri business.
• Ripartizione del rischio: le tecniche manageriali vedono nella diversificazione un modo per creare un
portafoglio equilibrato e per ripartire il rischio. Il rapporto tra diversificazione, rischio e profittabilità non
è sempre stato testato in modo statistico, cioè alcune imprese che sono operative in business diversi non
sempre sono state in grado di incrementare il valore dell’azionista.
• Volontà dell’impresa di sfruttare delle risorse inutilizzate: l’impresa può essere considerata come un
insieme di risorse e competenze, alcune risultano essere indivisibili e specializzate e questo spinge
l’impresa ad utilizzarle appieno. Le risorse fungibili sono i soldi e le risorse manageriali, che possono
trovare una giusta saturazione mettendosi al servizio di business diversi.
• Valorizzazione sinergie: alcuni autori hanno identificato l’impresa come un albero, le cui radici sono
costituite dai prodotti chiave, i quali portano nutrimento, costituito dalle competenze chiave, ai prodotti
finali. Una motivazione della diversificazione è quella di far fruttare delle competenze di base su cui
l’impresa poggia il suo vantaggio competitivo mettendole al servizio di business diversi, in un’ottica di
valorizzazione delle stesse.

Ostacoli alla crescita per Diversificazione


Da un punto di vista esterno esiste la preoccupazione da parte dei concorrenti già presenti nel business che
potrebbero effettuare minacce di ritorsione. L’impresa che vuole entrare nel nuovo business deve superare
una serie di costi legate alle barriere all’entrata di tipo strutturale e istituzionale. Le barriere strategiche
dipendono dalle imprese incumbents che possono realizzare azioni (diminuzione del prezzo, aumento degli
investimenti di marketing) per rendere più oneroso l’ingresso delle imprese nel business. Entrare in un nuovo
business costa in termini finanziari e in termini di competenza; si può ovviare attraverso la modalità di scelta
attraverso cui si realizza la strategia. Dal punto di vista interno una carena di risorse e competenze specifiche
per operare in quel business. La ripartizione del rischio è una motivazione ma andare ad operare in un
business completamente nuovo comporta un rischio del “nuovo” molto elevato.

La scelta dei business in cui operare e creazione di valore per gli azionisti
La scelta dei business in cui l’impresa opera deve essere guidata da un principio: la creazione del valore. La
diversificazione crea valore per gli azionisti quando i business scelti siano tali da creare maggior valore
quando vengono gestiti sotto un’unica impresa-ombrello piuttosto che in diverse imprese indipendenti.

Porter ha identificato tre test essenziali per verificare se la diversificazione è in grado di creare valore per gli
azionisti:
• Test di attrattività: mira a verificare se sono presenti i requisiti minimi di attrattività (cioè se le ASA-
obiettivo sono attrattive).
• Test costo di entrata: il costo di entrata non è superiore all’attualizzazione di tutti i futuri profitti. Il mio
investimento deve generare un ritorno del capitale investito che sia superiore al suo costo. Il costo di
entrata è misurato in due modi diversi a seconda delle modalità attraverso cui si svolge la strategia di
diversificazione: l’impresa potrebbe comprare (opzione buy) un’attività già esistente, quindi si valuta il
prezzo d’acquisto, oppure potrebbe investire internamente (opzione make).
• Better off test: mira ad identificare l’esistenza di sinergie tra il nuovo business e quelli esistenti.

I vantaggi della diversificazione sotto il profilo competitivo sono numerosi e di grande rilievo; tra gli altri si
ricordano: il conseguimento di economie di scala e di condivisione poiché accresce la dimensione
dell’impresa, che diventa più efficiente. Aumenta anche il potere contrattuale nei confronti di determinati
fornitori e clienti perché l’impresa aumenta il suo potere negoziale. Aumenta la differenziazione dell’offerta
perché un’impresa che opera in business diversi, legati tra di loro, può incrementare il valore differenziale
del suo brand o dei suoi prodotti. Il principale di questi benefici è costituito dall’esistenza di economie di
scopo sulle risorse comuni. In pratica, se per la produzione di due o più prodotti l’impresa utilizza input
comuni, e se tali input sono disponibili solo in lotti di una certa dimensione minima, allora una singola impresa
che produce entrambi i prodotti sarà in grado di ripartire i costi di tali input su un maggior volume produttivo
e di ridurre in questo modo i costi unitari di entrambi i prodotti. Le economie di scopo possono derivare da
risorse, mercati, tecnologie, capacità gestionali, sistemi di corporate governance, ecc. In generale, è possibile
classificare le economie di scopo in due diverse tipologie a seconda se siano legate ad attività tangibili (questa
tipologia deriva dalla capacità di eliminare la duplicazione di alcune attività grazie alla produzione di un certo
numero di prodotti o servizi); intangibili (che possono essere impiegate a basso costo su più attività).

La gestione delle interrelazioni


Creare delle interrelazioni tra risorse crea dei problemi in termini di costi. I costi di coordinamento derivano
dal problema della coordinazione tra i diversi business. I costi di compromesso sono legati alla necessità di
cambiare la gestione dell’attività, condotta in modo congiunto. I costi di rigidità sono legati alla difficoltà
potenziale, per una business unit, di rispondere a mosse della concorrenza e/o all’impossibilità di
abbandonare una produzione, perché si possono danneggiare le altre unità che condividono un’attività con
essa.

La direzione della diversificazione


La strategia di diversificazione è spinta dalla logica finanziaria verso business profittevoli, ma anche
dall’esigenza di andare ad operare in business correlati con le risorse disponibili (risorse manageriali, tangibili,
intangibili).

Le tipologie di strategie di diversificazione


A seconda del grado di “vicinanza” delle nuove linee a
quelle esistenti, degli effetti sinergici di ricerca, di
produzione, di distribuzione, di comunicazione e di
immagine aziendale, le strategie di diversificazione
possono essere distinte in: Diversificazione
conglomerale e Diversificazione concentrica.

Diversificazione conglomerale
E’ una diversificazione non correlata che prevede l’introduzione di una o più linee di produzione non
strettamente collegate a quelle esistenti, che non permettono la condivisione di attività o competenze
impiegate. I business non presentano nessun tipo di sinergia con le core competencies preesistenti, se non
quella finanziaria e di ripartizione del rischio. La rilevanza delle connessioni di tipo tecnologico e/o di mercato
è nulla. La logica di questa strategia porta l’impresa ad essere presente in quei mercati che assicurano il
miglior rendimento del capitale investito, anche solo nel breve-medio periodo (logica di portafoglio).

I vantaggi sono legati alla riduzione del rischio grazie all’ingresso in business che presentano differenti
caratteristiche di rischiosità e soggette a differenti cicli economici; alla possibilità di investire risorse
finanziarie in business valutati sulla base della redditività; ad una maggiore stabilità dei profitti, giacché un
ciclo negativo in un business può essere parzialmente compensato da uno positivo in un altro.
Gli svantaggi sono legati ad una eccessiva dispersione delle attività aziendali in business tra cui non esiste
alcuna similarità.

Diversificazione concentrica
E’ una diversificazione omogenea o correlata basata sulla volontà di sfruttare le economie di scopo, quindi
andare ad operare in business che presentano similarità sotto un profilo strategico. Dal lato dell’offerta
l’impresa ricerca delle economie di scopo, disponendo di risorse in eccesso che possono essere utilizzate per
produrre altri beni anche in settori diversi. Si può parlare di diversificazione correlata sulla base della
tecnologia che può essere utilizzata per produrre più beni (ad esempio la Piaggio che dalla produzione della
Vespa passa a quella dell’Ape. Un’altra leva sono le attività di marketing, quando le competenze in eccesso
possono essere utilizzate anche per altre produzioni dirette allo stesso target di consumatori (ad esempio
l’Oreal). Infine anche sulla base di investimenti in ricerca e sviluppo, che permettono di accumulare
competenze scientifiche applicabili in più settori (ad esempio Johnson). Dal lato della domanda la
diversificazione si basa qui sull'esistenza di un segmento di consumatori con un elevato grado di fedeltà di
acquisto nei confronti dei prodotti realizzati da un'impresa. L'impresa viene stimolata a produrre una gamma
completa di prodotti per rafforzare le relazioni commerciali con i propri clienti. I beni richiesti possono essere
diversi da quelli normalmente prodotti, ma poiché il loro consumo congiunto può aumentare la soddisfazione
del cliente, l'impresa è incentivata a perseguire strategie di diversificazione per soddisfare la domanda.

Alcuni criteri per individuare ASA correlate


- Tipologia di prodotto/diversità dei processi produttivi: ad esempio la suddivisione tra ramo danni e ramo
vita tipica delle compagnie assicurative;
- Funzione d’uso del prodotto: ad esempio il portafoglio strategico di Fiat e la netta distinzione tra Fiat e
Ferrari;
- Tipologia di cliente: ad esempio la suddivisione tra clientela “famiglie” e clientela “business” tipica di
molte aziende di servizi (banche, compagnie telefoniche ed utilities in genere);
- Area geografica;
- Canale distributivo.

Le motivazioni per la diversificazione concentrica: lo sfruttamento di sinergie


Il concetto di sinergia è stato teorizzato da Ansoff nel 1985 secondo cui gestire insieme elementi diversi crea
un valore dell’integrazione superiore a quello della loro somma (2+2=5). La corporate strategy deve creare
sinergie, deve far sì che lo svolgimento di queste attività crei un valore superiore rispetto alla gestione
separata. Ancora prima Andrews nel 1951 parlava di risorse manageriali come fonte di crescita delle imprese;
Penrose nel 1959 affermava che la diversificazione era legata all’utilizzo di risorse inutilizzate. Il concetto di
sinergie è stato studiato anche nell’ambito dell’analisi della catena del valore. Da qui nasce la divisione tra
interrelazioni tangibili e intangibili.

Le interrelazioni tangibili e intangibili


Le interrelazioni tangibili prevedono la condivisione di attività primarie messe al servizio di due o più business,
con l’obiettivo di ottenere economie di scopo. Le interrelazioni di tipo intangibile sono legate alla
condivisione di aspetti come conoscenze e capacità, aventi autonome catene del valore. In particolare,
secondo Porter è possibile trasferire il know-how maturato in un business ad un altro quando esistono alcune
similarità di base: stessa strategia di base; stessa tipologia di cliente; configurazione simile della catena del
valore; importanti attività generatrici di valore simili. Tipici esempi di interrelazioni intangibili riguardano la
marca e l’immagine aziendale, la conoscenza tecnologia, le capacità gestionali (sia a livello funzionale sia con
riguardo al governo dell’impresa), la cultura aziendale.

Anche in questo caso esistono dei problemi derivanti dalla strategia, quali: Costi di coordinamento ; Costi di
compromesso; Costi di rigidità.

Le sinergie nell’ambito della Competence Based


Le competenze diventano un particolare caso di sinergia, che crea valore sviluppando ed estendendo capacità
e conoscenze in un portafoglio di business diversi. Il portafoglio aziendale non viene valutato come un
portafoglio di business ma come un portafoglio di competenze (che a loro volta alimentano/generano
business diversi).
Secondo l’analisi di Hamel e Prahalad (1994): l’impresa diversificata viene rappresentata come un albero le
cui radici sono costituite dai prodotti chiave, i quali portano nutrimento, costituito dalle competenze chiave,
ai prodotti finali. La costruzione del vantaggio competitivo di lungo periodo deve allora iniziare dalla linfa di
nutrimento, cioè dalle competenze chiave. Le competenze chiave sono al servizio di più business (es:
miniaturizzazione, competenze ottiche).
Rispetto agli approcci precedenti, si rovescia la prospettiva, cioè la sinergia non deriva dal mettere insieme
per saturare meglio una capacità produttiva ma dallo sfruttamento di un nucleo di competenze a favore
business diversi. Le competenze si accrescono e si valorizzano con il loro utilizzo e creano circoli virtuosi.
Le sinergie “Dominant Logic and Management Style”
Le sinergie derivano dalla possibilità di applicare il medesimo stile manageriale, medesimi stili di
pianificazione e controllo in business diversi ma simili. Esiste uno stile dominante di management che può
essere applicato efficacemente a tutti i business del portafoglio, gestiti in un’ottica corporate. Si tratta di
SINERGIE MANAGERIALI (diversa impostazione rispetto a Drucker, Andrews e Penrose): il problema non è
saturare una risorsa non utilizzata, ma far fruttare e valorizzare competenze.

La direzione delle strategie di diversificazione e la composizione del portafoglio


Lo sfruttamento delle sinergie delinea anche il grado di dispersione del portafoglio strategico rispetto al
business core. Quando la logica di crescita si basa solo su determinanti di tipo finanziario, la diversificazione
è di tipo conglomerale (LOGICA BOSTON CONSULTING GROUP).
La ricerca di altre sinergie, legate alle conoscenze e alle competenze, invece circoscrive il raggio di azione
aziendale. Da ciò deriva l’importanza della strategia di diversificazione concentrica.

La logica delle adiacenze


Zook (2004) evidenzia l’efficacia di un processo di diversificazione in business adiacenti, al fine di sfruttare in
modo incrementale le conoscenze maturate nei business core. L’incrementalismo si vede nel fatto che
l’impresa tende a crescere in business molto vicini al business core, ad esempio verso nuove aree geografiche
(internazionalizzazione) o altri step della filiera (integrazione verticale).
Le altre quattro dimensione rappresentano invece una precisazione del combinazione prodotto-mercato e
riguardano il tipo di business, il tipo di prodotto, i segmenti della clientela e i canali distributivi; e ciò riguarda
più propriamente la strategia di diversificazione.

Il tasso di successo della strategia diminuisce a mano a mano che ci si allontana dal business core (Zook,
2004), perché meno si sfruttano e si valorizzano conoscenze e risorse maturate nel business core. Ciò sembra
confermare gli studi in tema di relazione diversificazione e performance che la letteratura ha portato avanti
secondo cui la profittabilità aziendale è correlata a modesti livelli di diversificazione (inverted U model).

Relazione lineare tra Diversificazione e performance


La diversificazione è stata perseguita per far crescere l’impresa e
per farle avere alti tassi di profittabilità. Sulla base di questo
assunto, molti studi hanno identificato una relazione positiva tra
il concetto di performance e il concetto di diversificazione. La
performance può essere misurata attraverso diversi indicatori,
sull’asse delle x abbiamo tre livelli: impresa monobusiness,
impresa con diversificazione concentrica, impresa conglomerale.
Più l’impresa aumenta la dispersione del fatturato in un
portafoglio, maggiore risulta essere la sua performance, cioè
l’impresa ha creato un portafoglio con rischio diversificato e ha
saputo identificare business ad alta profittabilità. Altri studi
vedono l’esistenza di una relazione negativa, ossia l’impresa
conglomerale avrà una performance negativa in quanto
maggiormente diversificate in business diversi. Questi studi
erano nati per confutare la teoria precedente secondo cui non
c’era nessuna relazione positiva, anzi si distruggeva il valore.
Diversificazione e relazione curvilinea
La maggior parte degli studi si focalizza sull’Inverted-U-shaped
model: un’impresa monobusiness risulta essere meno performante
rispetto ad un’impresa diversificata, ma quando la diversificazione
diventa dispersiva e si avvicina all’impresa unrelated, allora si
distrugge valore. Nel caso dell’ l’inverted-U model viene affermato
che la diversificazione concentrica ha effetti positivi sulla
performance in quanto permette di sfruttare: le economie di scopo
che derivano dalla condivisione di attività e risorse tra le unità di
business; i benefici generati dalla curva di esperienza, dalla
diffusione di tecnologie di prodotto/processo e dall’accesso a fattori produttivi; competenze comuni. A
questi benefici, si affiancano anche costi che tendono a crescere sempre di più (diseconomie). Ad un certo
punto questi costi superano i benefici, per cui esiste un livello ottimale di diversificazione, tale per cui la
performance decresce. Ne consegue una relazione che ha la forma di una U rovesciata.

La relazione è coerente con gli studi sulla creazione del valore che vedono nella riduzione del portafoglio
aziendale un modo per poter incrementare il valore dell’azionista, con i concetti di interrelazioni tangibili e
intangibili, con la teoria delle competenze distintive, con la logica delle adiacenze. Le evidenze empiriche
mostrano che la diversificazione porta a performance comparativamente più elevate se le ASA presentano
attività correlate tra loro in termini di: destinazione a mercati simili; impiego di tecnologie o sviluppo di
analoghe attività di ricerca; attività strategiche (applicazione delle stesse competenze gestionali alle diverse
attività).

Le sinergie legate alla convergenza


La convergenza può essere definita come un processo evolutivo attraverso il quale si genera una fusione
progressiva tra settori. La convergenza è stata particolarmente evidente e rapida nei settori legati
all’Information & Comunication Tecnology i quali, convergendo, hanno dato origine al metamercato digitale.
La convergenza tecnologica, resa possibile da fattori tecnologici, alimenta il processo di espansione
dell’impresa in business nuovi. Le sinergie sono legate allo sfruttamento di una/poche competenze al servizio
di business diversi. La condivisione delle risorse e competenze attiva un circolo virtuoso di innovazione e di
sviluppo. Le risorse e le competenze, infatti, si valorizzano e si sviluppano con il loro uso.

LA STRATEGIA DI RICENTRAGGIO
Anche nel caso della diversificazione, esiste una strategia inversa: il ricentraggio è una rifocalizzazione sul
business core. L’impresa decide di liquidare le attività non strettamente correlate alle attività centrali. Questo
per un motivo di crescita: la concentrazione del sapere dell’impresa su specifiche attività di business accelera
il processo di crescita dell’apprendimento e del sapere cumulato. Nel momento in cui alieno attività estranee
e mi concentro su un gruppo di business su cui posso far valere economie di scopo e sinergie, in questo caso
posso vedere il ricentraggio come una strategia per la crescita. Il ricentraggio può anche far riferimento ad
una possibile strategia di sopravvivenza (taglio dei rami secchi per crisi di domanda o per crisi da inefficienza).

INTERNAZIONALIZZAZIONE
Le cause dell’internazionalizzazione
Una causa è quella derivante dalla crescita del commercio estero, più rilevante rispetto al PIL; ciò significa
che parte della produzione tende a viaggiare in un mondo sempre più interconnesso. In particolare i flussi
hanno riguardato anche gli investimenti diretti esteri, ossia gli investimenti da parte di un’impresa di un Paese
verso le imprese presenti in un altro Paese estero. Le motivazioni che hanno spinto agli IDE sono state
soprattutto le variabili politico-istituzionali (ossia il contesto geopolitico), ad esempio l’apertura agli scambi
esteri e l’emergenza di nuovi paesi nel contesto mondiale. Un’altra causa degli IDE è stato il comportamento
strategico delle imprese.

Evoluzione degli scambi internazionali


Dal dopoguerra si è assistito ad una tendenza di fondo alla crescita del commercio in misura più accelerata
rispetto alla produzione. Il commercio internazionale, a partire dagli anni ‘50, ha dimostrato, rispetto alla
produzione mondiale, un’elasticità con valori superiori all’unità e questa tendenza è destinata a consolidarsi
anche in prospettiva futura. Si è verificato un effetto moltiplicativo del fenomeno accennato che ha portato
all’apertura della “forbice”, con un rapporto di 1:4 tra PIL e commercio internazionale.

Il quadro macro ha agevolato gli scambi internazionali. Sono le imprese, tuttavia, che con le loro strategie
perseguono l’internazionalizzazione. Quali sono le motivazioni?

Motivazioni all’internazionalizzazione connesse ai costi


Una motivazione potrebbe essere quella di controllare fonti di approvvigionamento non presenti nel mercato
domestico; alcune imprese si internazionalizzano per poter sfruttare i divari di costo tra i diversi paesi (ad
esempio legati al lavoro stesso); un’altra motivazione potrebbe essere la presenza di norme ambientali meno
severe in alcuni paesi stranieri; la diversità dei sistemi di trasporti, cioè alcuni paesi assicurano linee di
trasporto più efficaci ed efficienti che possono essere oggetto di investimenti; la possibilità di accedere a
nuove tecnologie per poter sfruttare gli spill-over informativi.

Motivazioni all’internazionalizzazione connesse con i mercati


Il mercato interno potrebbe essere troppo piccolo per la propria offerta; potrebbe essere caratterizzato da
domanda stagionale per cui l’impresa ricerca mercati con stagionalità opposta; la domanda potrebbe essere
sensibile alla congiuntura; il mercato è eccessivamente concorrenziale. Dal punto di vista del mercato estero,
potrebbe essere in fase di crescita, avere volumi di domanda ampi, politiche governative favorevoli.

Strategie internazionali e globalizzazione


Le strategie internazionali delle imprese devono essere esaminate alla luce della variabile Globalizzazione,
vale a dire il processo di espansione ed integrazione dell’economia a livello planetario. Definizione: fenomeno
per cui l’orizzonte dell’attività economica tende a farsi sempre più vasto e integrato. Le più importanti cause
della globalizzazione sono: crescente interdipendenza tra i paesi, evoluzione dei mezzi di comunicazione,
sviluppo di nuove tecnologie, tendenza allo sviluppo dimensionale delle imprese, omogeneizzazione degli
stili di vita.

I fattori di accelerazione del fenomeno globalizzazione sono: la crescita del numero di nuovi paesi che
partecipano attivamente al commercio su scala globale; il comportamento di molti grandi gruppi industriali
e finanziari i quali operano come veri e propri global player; la tecnologia che comporta maggiore facilità con
la quale prodotti, persone e informazioni vengono trasferiti su scala mondiale.

Caratteristiche della concorrenza di tipo globale


➢ Interdipendenza dei mercati geografici: quanto accade nei singoli mercati geografici ha effetto anche
sugli altri;
➢ Ubiquità del vantaggio competitivo: le merci sono acquistate laddove sono più convenienti, la produzione
di componenti avviene nei paesi ove è più efficiente, e così via.
→Da ciò deriva la necessità di considerare il mercato come un tutt’uno.
Concorrenza internazionale e analisi di settore
L’internazionalizzazione influenza la struttura e la concorrenza dei settori. E’ possibile individuare quattro
modelli di concorrenza.

Gli estremi identificano l’import/export e gli investimenti


diretti all’estero, attraverso unità proprietarie o
l’acquisizione di imprese già esistenti. Sotto questo
profilo possiamo mappare questi diversi modelli di
concorrenza a livello internazionale. Esistono attività
riconducibili a settori protetti, perché le imprese hanno
una dimensione domestica, le opportunità della
globalizzazione e dell’internazionalizzazione non toccano
in maniera proficua i business. Ad esempio l’edilizia è una classica attività che risulta essere caratterizzata da
mercati domestici, deve essere vicina al client ed opera attraverso contatti diretti. Per quanto riguarda i
settori multidomestici le imprese considerano il mondo come un insieme di paesi country specific perché i
prodotti o i servizi sono caratterizzati da una certa specificità quindi devono essere effettuati adattamenti
locali oppure il costo di trasporto di determinati prodotti sarebbe troppo elevato in una logica globale. Le più
grandi multinazionali hanno delle proprie fabbriche e dei propri uffici commerciali per presidiare i singoli
mercati e per svolgere attività produttive. I settori globali sono caratterizzati da un livello di investimenti
diretti all’estero elevati e al contempo da flussi import/export molto elevati. I prodotti tipici sono quelli
dell’elettronica e dell’automobile (esistono stabilimenti di produzione spesso regionali da cui partono dei
flussi di export contigui). Infine i settori internazionali sono caratterizzati da flussi elevati ma da ide bassi. Ad
esempio i cantieri navali hanno il mondo come mercato di riferimento ma la produzione tende ad essere
concentrata, le imprese regolano i flussi attraverso l’export, non vengono create delle filiali o una
suddivisione dislocata del processo produttivo nei diversi paesi.

Qual è l’impatto sull’attrattività e sulla concorrenza? I riflessi sul business sono elevati: si abbassano le
barriere all’entrata; anche la concorrenza cambia perché cambia il livello di concentrazione; il potere dei
fornitori e dei clienti tende ad aumentare. L’internazionalizzazione diventa non solo una minaccia da
combattere ma diventa una sfida importante per le imprese che sono state in grado di sfruttare le
interdipendenze tra i diversi mercati. L’aumento della concorrenza tra le imprese spesso compromette
l’attrattività del settore.

Il diamante porteriano
Porter negli anni ‘90 identificò un modello per interpretare il ruolo delle imprese che collocano il loro
prodotto anche sui mercati internazionali. Il diamante porteriano identifica il ruolo dei fattori nazionali sui
fattori competitivi di un’impresa. La capacità del contesto economico nazionale di un’impresa di conferire
vantaggi in ambito internazionale dipende dal ruolo esercitato dal contesto economico nazionale
nell’alimentare e nello stimolare l’innovazione e il miglioramento dei prodotti. I fattori che promuovono il
vantaggio competitivo a livello internazionale sono:
- Condizioni dei fattori (ad esempio fattori caratterizzati da qualità intrinseca o risorse umane qualificate
e artigianali);
- Condizioni della domanda (ad esempio la domanda interna può essere sofisticata);
- Strategia-struttura-rivalità (le imprese potrebbero aver adottato armi competitive);
- Settori industriali correlati e di supporto.

Esempio Produzione di conserve di pomodoro:


- Condizioni dei fattori: caratteristiche climatiche dell’Italia meridionale favorevoli, condizioni di costo,
disponibilità, buona qualità della materia prima;
- Condizioni della domanda: tradizione della dieta mediterranea e gusti sofisticati dei consumatori;
- Strategia-struttura-rivalità: struttura molto concorrenziale del settore;
- Settori industriali correlati e di sostegno: presenza di una forte industria della meccanica per l’industria
alimentare.
Esempio Industria alimentare:
- Condizioni dei fattori: qualità del prodotto agricolo, infrastrutture di ricerca applicata, maestranze
qualificate, specializzazione degli imprenditori;
- Condizioni della domanda: domanda interna sofisticata e anticipatrice;
- Strategia-struttura-rivalità (ambiente operativo);
- Settori collegati e di supporto: meccanica di processo.

La strategia di internazionalizzazione
La strategia di internazionalizzazione fa riferimento al coinvolgimento esplicito e riconosciuto dell’impresa
nella gestione strategica dei mercati esteri. Lo sviluppo e l’affermazione di un’economia mondiale -
caratterizzata da una espansione senza precedenti di trasferimenti di prodotti, tecnologie capitali tra paesi
diversi - impone ad ogni impresa di esaminare il problema della sua proiezione su mercati esteri.

Il processo di sviluppo internazionale


▪ Dove competere: L’impresa deve identificare i mercati obiettivo, effettuando un’analisi strategica
dell’ambiente esterno. In questo caso sono utili i fattori del micro e del macroambiente. Le imprese
identificano una serie di Paesi e poi procedono alla selezione (di attrattività e di accessibilità).
▪ Tempi di entrata: l’impresa può effettuare una scelta incrementale, internazionalizzandosi in un solo
Paese, e successivamente estendersi ad altri Paesi; oppure può decidere di competere sui mercati
internazionali in modo simultaneo e contemporaneamente in diversi Paesi esteri. L’entrata può essere
concentrata, ad esempio l’impresa si internazionalizza in pochi Paesi e contigui, soprattutto dal punto di
vista culturale; oppure può prevedere di andare su Paesi molto diversi l’uno dall’altro (diversificata).
Alcune volte possono valere motivazioni simili alle scelte di diversificazione concentrata o conglomerale.
▪ Modalità di accesso: un’impresa può essere presente sui mercati esteri con un continuum di modalità
diverse. La modalità più semplice è quella mercantile: l’impresa compra e vende all’estero (o una delle
due). L’internazionalizzazione mercantile è diretta quando l’impresa ha dei rapporti diretti con i mercati
esteri, senza intermediari; è indiretta se l’impresa ha dei rapporti veicolati da intermediari. Gli
intermediari sono grossisti internazionali, traders, case di import/export, cioè soggetti che comprano a
livello internazionale e rivendono su mercati esteri. Sono le forme più semplici, talvolta sono le prime
forme utilizzate anche per testare un mercato estero. L’internazionalizzazione produttiva avviene
mediante un investimento diretto all’estero, non fa riferimento solo alla parte di produzione ma
all’internazionalizzazione che crea delle strutture fisiche, che possono essere stabilimenti produttivi o
edifici commerciali. Queste modalità avvengono attraverso la leva degli IDE. L’impresa può investire
nell’apertura di nuove unità investendo ex novo, oppure acquisendo capacità già esistenti (operazioni di
M&A a livello internazionale). Esistono altre forme di internazionalizzazione intermedie, ossia
acquisizioni o cessioni di brevetti o licenze all’estero; accordi tecnico produttivi e/o commerciali con
imprese estere (contratti di franchising internazionali), accordi di penetrazione commerciale, ecc.
▪ Come competere: riguarda il binomio tra standardizzazione e adattamento. Standardizzazione significa
standardizzare il prodotto, realizzando solo adattamenti di carattere marginale che possono riguardare
il packaging, gli standard tecnici, ecc. Adattamento significa privilegiare le specificità dei mercati di
sbocco, differenziando in termini adeguati le caratteristiche dei prodotti ad essi destinati.
Strategia multidomestica
Attraverso la strategia multidomestica l’impresa cerca di evidenziare le differenze e le specificità di ogni
mercato per avere un maggiore valore. L’obiettivo è quello di vedere i paesi come elementi di un unico
portafoglio. Le unità operanti nei vari paesi sono dotate di un elevato grado di autonomia poiché le unità
locali dell’impresa multidomestica hanno un orientamento basato sui singoli mercati. Il driver non è dato dal
prodotto ma prevalentemente dai mercati geografici (orientamento country centred).

Obiettivi: Sfruttare le attività specifiche e le competenze distintive; Sfruttare le risorse di altri paesi; Seguire
l'andamento del ciclo di vita del prodotto; Ripartire i rischi.

Strategia globale
La strategia globale considera il mondo come il proprio mercato e punta all’integrazione transnazionale delle
attività. L’impresa vede il mercato come globale dal punto di vista dell’approvvigionamento e del mercato di
sbocco e integra attraverso flussi di import/export i diversi paesi per poi collocare il prodotto globale nei
paesi esteri. In questo caso è la globalizzazione che diventa un driver della differenziazione.

Obiettivi: Sfruttare i vantaggi comparativi; Sfruttare le economie di scala o le curve di esperienza (grazie a
volumi di produzione maggiori); Differenziazione del prodotto (immagine e fama mondiale); Disponibilità di
informazioni su tecnologie e mercati.

LA CRISI AZIENDALE E LE STRATEGIE PER IL RILANCIO


La crisi dell’impresa
La crisi è una situazione che più volte si può verificare nell’ambito della vita dell’impresa. Non è detto però
che si traduca in un dissesto aziendale, se la crisi viene risolta, infatti, può diventare un trampolino di lancio
per un nuovo successo. Con il termine crisi si indica un particolare momento della vita dell’impresa in cui “si
crea uno squilibrio economico-finanziario, destinato a perdurare e a portare all’insolvenza e al dissesto in
assenza di opportuni interventi di risanamento”. E’ un momento di distruzione del valore che può essere
risolto intervenendo. L’obiettivo degli interventi è di creare un nuovo equilibrio e di far sì che l’impresa venga
orientata alla creazione di nuovo valore.

Il processo di crisi
In questo approccio la crisi viene vista come un processo, in quanto frutto di elementi diversi.
- La predisposizione alla crisi dell’impresa: la crisi può iniziare da alcuni elementi di debolezza. Esistono dei
fattori che riguardano l’ambiente competitivo, ad esempio un business caratterizzato da elevata
concorrenza; altri fattori che riguardano l’ambiente interno che rendono l’impresa più vulnerabile, ad
esempio una struttura basata sui costi fissi più rigida.
- La fase di declino dell’impresa: il declino può essere collegato ad una performance negativa in termini di
valore creato. E’ caratterizzata dalla riduzione della capacità di creare valore, cioè l’impresa è sempre
meno performante.
- La fase di crisi dell’impresa: la crisi è uno sviluppo ulteriore del declino. Essa si concreta di solito, a seguito
di perdite economiche, in ripercussioni gravi e crescenti sul piano dei flussi finanziari. Le ripercussioni
dirette sono: carenze di cassa, perdite di credito e di fiducia per gli stakeholders (= capacità di credito).
L’impresa ha una perdita su tutti gli indicatori economico-finanziari più importanti. La fase di crisi
porterebbe al dissesto senza interventi importanti, i quali partono dal presupposto di cambiamento della
leadership, del vertice, del management, per dare un segnale agli stakeholder.
Gli studiosi assimilano la crisi alla malattia. Il sintomo identifica un problema, scatenato da cause diverse, per
cui dobbiamo comprendere le cause e i sintomi.

Le cause della crisi


E’ importante capire le cause di una crisi per poter definire la “cura”. La ricerca e la comprensione delle cause
che generano la crisi rappresenta un momento di fondamentale importanza, in quanto funzionale alla
comprensione del fenomeno; propedeutico alla successiva fase di risanamento e superamento della crisi
stessa. Si identificano cause esterne, che fanno riferimento all’ambiente di tipo macro e micro, e cause
interne, che fanno riferimento a variabili di tipo organizzativo o a risorse e competenze.

I fattori causali esterni riguardano:


• Fattori macro-ambientali come: l’aumento del costo del lavoro, del costo delle materie prime,
l’oscillazione dei tassi di cambio, la limitazione del mercato dei capitali, gli interventi dello stato.
• Fattori micro-ambientali divisi in: settoriali, riconducibili al business stesso, come la rigidità (difficoltà di
riconversione di alcuni impianti), l’esposizione alla ciclicità della domanda, la concorrenza (la concorrenza
internazionale peggiora la concorrenza del business), la tecnologia (la tecnologia obsoleta); congiunturali,
legati alle variazioni temporali, come la domanda, il sovradimensionamento della capacità produttiva,
l’evoluzione tecnologica. Possono essere cause della crisi perché se l’impresa non riesce a fronteggiarli
può avere un peggioramento degli indicatori e della possibilità di creare valore.
I fattori causali interni riguardano:
• Elementi strutturali come: inefficienza, struttura rigida, prodotti decaduti, carenze nella programmazione
e nell’innovazione;
• Fattori umani come: l’inadeguatezza del management, uno stile di direzione non adatto. La leadership è
stata infatti causa di molte crisi aziendali.
L’aspetto economico-finanziario rappresenta un sintomo della crisi piuttosto che una causa della crisi stessa.
Talvolta la crisi viene attribuita a squilibri di tipo finanziario (prevalenza di debiti a breve, difficoltà nei
pagamenti, inesistenza di riserve di liquidità, ecc.) e patrimoniale (scarsità mezzi vincolati a titolo di capitale
e riserve). Lo squilibrio finanziario-patrimoniale è certamente fonte di perdite economiche gravi. Ma lo
squilibrio finanziario è sempre generato da altri profondi fattori di crisi.

Tipologie di crisi
Sulla base dei fattori causali identifichiamo tre macro-tipologie di crisi.
➢ Crisi da domanda: è legata essenzialmente alle fasi di maturità e di declino del ciclo di vita dell’ASA, vale
a dire alle fasi di stagnazione o contrazione del mercato, dovute all’evoluzione del progresso tecnico e
all’obsolescenza dei prodotti, all’evoluzione dei gusti del consumatore. Una crisi di questo tipo è legata
al processo naturale di decadimento del prodotto dovuto al fatto che ormai il settore è maturo, l’area
strategica d’affari è in declino, il mercato è in contrazione. In questo caso la crisi si manifesta con una
contrazione del fatturato. L’impresa dovrà attuare strategie di riposizionamento, di innovazione del
prodotto, di cambiamento del business.
➢ Crisi da inefficacia manageriale: dipende da un cambio generazionale degli imprenditori manager o da
conflitti tra management e proprietà che portano all’abbandono dell’azienda da parte del management
esistente. Le imprese italiane sono quasi tutte imprese familiari, in cui è ancora presente un imprenditore
legato alla propria famiglia di origine; spesso tra chi ha il governo sulla base della proprietà stessa e i
manager sorge un conflitto perché gli obiettivi sono divergenti (il manager tende alla crescita, la famiglia
tende alla sopravvivenza in termini di valore creato).
➢ Crisi da inefficienza: attiene al modo di competere dell’impresa nel suo ambito concorrenziale e si
manifesta quando l’impresa non riesce ad offrire un output a prezzi remunerativi, quando un’impresa è
inefficiente se non riesce a mantenere un equilibrio costi ricavi. L’inefficienza si ha quando l’impresa non
è in grado di garantire un prodotto che le dia la possibilità di avere dei prezzi remunerativi.

Le tre tipologie sono crisi che possono coesistere però è possibile identificare un rapporto causale più forte:
se c’è una crisi da domanda legata al fatto che vi è stato un declino di un prodotto è possibile che sia dipesa
da un’inefficacia manageriale di non aver identificato per tempo l’insostenibilità della tecnologia; è anche
possibile che una crisi da inefficienza si verifichi insieme ad una crisi da domanda, cioè da un lato l’impresa è
inefficiente e dall’altro decresce.
Come individuare uno stato di crisi?
La crisi, nel momento in cui non viene identificata correttamente, porta al dissesto. Un’analisi dei sintomi
precoce aiuta l’identificazione della causa e l’attuazione di azioni correttive.
I sintomi sono delle manifestazioni di difficoltà; possono essere:
- Di tipo quali-quantitativo: perdita della quota di mercato che identifica una perdita di competitività (ad
esempio l’impresa non è stata in grado di adeguare il prodotto); elevato turnover tra i manager (che può
essere sintomo di inefficacia manageriale, ossia l’incapacità di tenere i manager a causa di conflitti con
la proprietà); peggioramento dei rapporti con gli stakeholder (ad esempio l’impresa ritarda i pagamenti
o non paga gli straordinari); carenza di capacità strategiche; discesa del valore di mercato.
- Di tipo economico-finanziario: l’analisi economica riguarda l’andamento degli indicatori di tipo
economico (grandezze economiche come MOL, Ro e indici di redditività come ROI, ROE); l’analisi
patrimoniale riguarda gli indici di composizione e correlazione (rapporto tra attivo fisso e capitale
investito e fonti-impieghi); l’analisi finanziaria riguarda la dinamica dei flussi (CCN, liquidità).

Le strategie per la crisi


Possono essere divise in tre gruppi, il primo riguarda le classiche strategie per combattere la crisi, ossia
ristrutturazione, riconversione, ricentraggio.
Con la strategia di RISTRUTTURAZIONE, l’impresa continua ad operare nelle attuali ASA ma ha l’obiettivo di
migliorare l’equilibrio costi/ricavi e quindi aumentare l’efficienza globale dell’impresa.
I motivi per cui si può verificare una ristrutturazione sono legati alle tipologie di crisi identificate: l’impresa
può trovarsi ad affrontare un ciclo di vita dell’ASA non promettente; potrebbe avere una situazione di
inferiorità rispetto ai suoi concorrenti; potrebbe avere una limitata disponibilità di risorse.
I risultati di questa strategia dovrebbero essere: miglioramento della produttività degli input, aumento
dell’efficienza e razionalizzazione della gestione delle scorte; razionalizzazione dell’uso della forza lavoro e
aumento della sua produttività; ridimensionamento attraverso l’eliminazione di linee di prodotti; aumento
della capacità concorrenziale con la riduzione dei costi; contenimento della spesa promozionale.
Il pericolo è il clima sociale dell’impresa perché è possibile che i manager non accettino di portare avanti
azioni di ristrutturazione e i dipendenti siano restii; un altro rischio riguarda il marketing, in quanto il
contenimento della spesa promozionale può riguardare una perdita di concorrenzialità.

La RICONVERSIONE riguarda l’abbandono della linea produttiva esistente e, con sviluppo interno, la sua
sostituzione con una nuova linea produttiva possibilmente vicina, almeno da un punto di vista tecnologico.
Riguarda il cambiamento delle competenze interne in ragione del fatto che l’impresa voglia modificare il
proprio business e sostituirlo con un altro. Spesso viene realizzata cercando di evidenziare delle affinità
tecnologiche o di mercato tra il business abbandonato e il nuovo business (ad esempio la riconversione di
imprese produttrici di mezzi cingolati nei periodi bellici).
I motivi di questa strategia sono: la crisi strutturale dell’ASA; alcuni interventi della pubblica amministrazione
che vogliono limitare la capacità produttiva di un determinato business; l’incapacità dell’impresa che è
inadeguata a sostenere la competizione in un determinato business; l’impossibilità di superare difficoltà degli
approvvigionamenti con una strategia di integrazione verticale
Il risultato è la progettazione di una nuova linea che però presenta delle connessioni di mercato o
tecnologiche con la precedente.
L’ostacolo è la resistenza alle modificazioni interne all’impresa (di tipo organizzativo) da parte dei dipendenti
ai diversi livelli.
Esempio: gli zuccherifici. Causa: con il dimezzamento della quota produttiva dello zucchero prevista dalla
Riforma UE, in Italia ci sarà spazio solo per sei impianti dei 19 esistenti (due di Eridania Sadam e uno ciascuno
per Italia zuccheri, Sfir, Coprob e Zuccherificio del Molise). Per rendere meno traumatico l'impatto della
rottamazione degli zuccherifici, la nuova legge prevede un piano di riconversione in: produzione di
bioenergie, produzione di bioetanolo, produzione di energia elettrica da biomassa.
Il RICENTRAGGIO o rifocalizzazione porta a centrare il campo d’azione sul core portando a liquidare l’insieme
di attività non produttive di valore o da cui derivano le condizioni di criticità dell’impresa (i cosiddetti rami
secchi); in questa logica si configura proprio come strategia di crisi. In sintesi si tratta di rimettere al centro
della visione strategica d’impresa la propria attività core. In una fase successiva il ricentraggio diventa vera
strategia di sviluppo e di crescita. Riportare l’attività sul core liquidando e dismettendo i business meno
profittevoli consente al management di concentrare le risorse nelle attività effettivamente profittevoli, ciò
vuol dire accelerare il processo di crescita dell’apprendimento e del sapere accumulato permettendo
all’impresa di crescere in un’ottica di specializzazione.
Esempio: Diadora Invicta. L'azienda torinese Seven (leader nella produzione di zaini) ha acquistato dalla
Diadora (abbigliamento sportivo) il ramo di azienda Invicta. Strategia: "Diadora si concentrerà sul core
business con nuovi e importanti progetti dal calcio al ciclismo, dal running al tennis". Per quanto riguarda
Seven, l'operazione "aggiunge un tassello importante al suo piano strategico mirato a consolidare il ruolo di
leader sul mercato europeo". Per l'AD Aldo Di Stasio "il posizionamento del brand Invicta consentirà un
innalzamento del target attraverso una gamma di prodotti più ampi, anche per questo è stato stipulato un
accordo di licenza con Diadora nel settore abbigliamento per diffondere un'immagine completa dello stile di
vita Invicta".
Esempio: La Perla. La Perla è stata costituita a Bologna da Ada Masotti nel 1954 con un laboratorio per
confezionamento busti. Sintomi: Secondo il bilancio 2004, la società ha archiviato un fatturato per circa 167
milioni di euro, con perdite per 27,7 milioni. Strategia: «La politica della famiglia azionista - continua Masotti
- è stata quella di non distribuire gli utili negli ultimi anni per investirli nella crescita della società. Certo la
crisi del tessile è stata dura. Ci stiamo difendendo eliminando i prodotti senza contenuto creativo e puntando
soltanto sull'alta gamma». Il 2005 dovrebbe essere tuttavia migliore in un contesto internazionale per il
settore tessile sempre molto negativo.

Il RIDIMENSIONAMENTO significa riduzione della dimensione aziendale per renderla compatibile alla
dimensione della sua domanda specifica, attuando disinvestimenti che riguardano una o più unità
organizzative (ad esempio una linea, un reparto, una divisione). Il ridimensionamento potrebbe essere
funzionale alla ristrutturazione, alla riconversione, al ricentraggio. L’obiettivo è quella di adattare l’impresa
alle condizioni richieste dal mercato.
I motivi sono: crisi strutturali di uno dei settori derivanti dal bilanciamento tra l’offerta dell’impresa e la
domanda del business; mutamenti tecnologici in cui l’impresa non è in grado di rispondere in tempi
opportuni; interventi della PA che rendono più onerose particolari produzioni; carenza di risorse rispetto ai
migliori concorrenti.
I risultati sono: cessione di una parte dell’impresa con contropartita; smantellamento di una parte
dell’impresa; migliore specializzazione; nuovo equilibrio dimensionale e dinamico.
Gli ostacoli sono legati al concetto delle barriere all’uscita, ossia ci sono dei costi fissi che non possono essere
recuperati; alla perdita di sinergia; all’esiguità del valore di liquidazione; all’atteggiamento dei manager; alla
reazione delle parti sociali.

La strategia di ABBANDONO DELL’AUTONOMIA prevede la rinuncia al controllo effettivo sull’attività


dell’impresa e, entro certi limiti, sul suo futuro, facendo divenire l’impresa economicamente dipendente da
un’altra di solito operante a valle nella catena economico-commerciale. Significa che l’impresa aliena parti di
se stessa ad un’altra proprietà, trovando un acquirente che subentri nella proprietà.
I motivi sono: la perdita progressiva della quota di mercato in un’ASA matura o riduzione del saggio di crescita
dell’impresa in un’ASA in espansione; l’incapacità dell’impresa di rafforzare la propria azione di marketing e
di apportare miglioramenti ai nuovi prodotti.
I risultati: acquisizione della sicurezza dello sbocco della produzione; perdita di autonomia nel campo della
progettazione, del controllo di qualità, della produzione, degli approvvigionamenti; realizzazione di margini
di guadagno sicuri, ma assai limitati.
Un ostacolo potrebbe essere la non adattabilità del gruppo dirigente a questa strategia.
La strategia di TURNAROUND vede la crisi come un momento di rilancio dell’impresa e come un’opportunità
per rendere l’impresa più competitiva. E’ il processo capace di porre in discussione tutte le scelte adottate
nel passato per poter approfittare della crisi così da produrre un cambiamento generale nella strategia, nella
formula imprenditoriale e nella struttura aziendale: non ci si limita al ripristino dell’efficienza; si punta ad una
ridiscussione ed una ridefinizione degli obiettivi e delle caratteristiche di attuazione della gestione; con il
turnaround si attiva un mutamento della mission, la riorganizzazione dei valori e della cultura oltre che il
ripensamento dei meccanismi operativi. Il turnaround è un mix di strategie per la crisi, che parte dalla
ristrutturazione (insieme a ridimensionamento e ricentraggio), ma l’obiettivo è quello di effettuare una
crescita futura, con lo sviluppo e il rilancio dell’impresa.
Il turnaround inizia da un cambiamento della leadership aziendale, in quanto l’azione propedeutica alla
definizione e all’implementazione del piano di turnaround è il ricambio del vertice aziendale. Comprende una
modifica nella gestione con gli stakeholders, coinvolgendo la comunità proprio per la specifica finalità che lo
contraddistingue: puntare allo sviluppo e alla crescita futura dell’impresa.
Le strategie per la crisi mirano a risolvere il problema contingente, nel turnaround invece sono previste tre
fasi in cui dall’identificazione delle cause della crisi si passa attraverso una strategia di ristrutturazione per
poi definire delle strategie di rilancio. Il turnaround è una strategia che identifica un processo evolutivo in cui
possono essere identificate delle fasi a cui corrispondono piani diversi.
- Fase di avvio: finalizzata alla risoluzione degli interventi urgenti e all’approfondimento delle cause della
crisi, delle caratteristiche dell’organizzazione e delle risorse dell’azienda;
- Fase di ristrutturazione: focalizzata sul processo di cambiamento e mirata ad apportare le modifiche alla
combinazione produttiva e alla formula imprenditoriale in linea con i nuovi obiettivi gestionali;
- Fase di sviluppo: destinata a far riprendere con maggiore intensità il processo di investimento e far
crescere l’impresa.

Date le diverse fasi, l’impresa cerca di progettare degli


interventi strategico-gestionali diversi inseriti in un piano
unitario di turnaround. Il primo piano riguarda
l’emergenza: l’impresa deve essere portata alla
sopravvivenza. Nel piano di stabilizzazione l’impresa
viene portata a raggiungere l’equilibrio economico
attraverso alcuni interventi relativi all’efficienza
(riprogettare processi produttivi o applicare nuove
tecnologie), disinvestire, effettuare un nuovo
posizionamento. Nel piano di rilancio l’impresa punta alla
nuova creazione di valore, ad esempio entra in nuovi mercati, effettua penetrazione in mercati esistenti
aumentando la propria quota di mercato.

I contenuti del piano di turnaround sono riferiti ai diversi momenti di emergenza, di stabilizzazione, di
rilancio. Riguardano innanzitutto lo stato di analisi della crisi (sintomi e cause) come strumento per i manager
ma anche per comunicare agli stakeholder. Successivamente trattano gli interventi: a) Interventi strategico-
gestionali (ad esempio concentrazione sul core business, massimizzazione utilizzo capacità produttiva, nuove
linee di produzione, razionalizzazione delle strutture di vendita, razionalizzazione dell’attività R&S); b)
Dismissioni (per aree di attività o per beni non necessari); c) Ristrutturazione del debito. Infine definiscono
un piano, dei budget annuali e dei sistemi di controllo.
Gli interventi in una strategia di turnaround possono essere diversi. Possono riguardare il riposizionamento
strategico, quindi nuovi orientamenti strategici, riduzione aree di attività, concentrazione sul core business,
nuovi prodotti, nuovi mercati. Possono essere interventi sulla funzione Produzione: riduzione personale,
riduzione tempi di lavorazione, concentrazione della produzione, esternalizzazione, ammodernamento
impianti. O sulla funzione Marketing: rafforzamento marchio, campagne pubblicitarie, controllo punti di
vendita, interventi sui prezzi. O sulla funzione Finanza: aumenti di capitale, qualità indebitamento, riduzione
capitale circolante. Oppure sull’Organizzazione: miglioramento controlli, nuove strutture organizzative,
revisione poteri e deleghe. Infine sull’Amministrazione e Controllo: riduzione burocrazia, interventi budget e
programmazione.
Esempio: Il turnaround della FIAT. Effetto dei risultati ottenuti dal lancio dei nuovi prodotti, dalla risalita della
qualità percepita e dai risparmi gestionali. Il fatto che la Grande Punto sia stata a gennaio la vettura più
venduta in Europa occidentale e che la quota dei marchi Fiat sia salita rispetto al gennaio 2005 dal 7,28%
all'8,36% è un chiaro esempio del programmato turnaround, un risultato significativo per l'attivazione
dell'economia italiana e, più importante, per il rilancio della fiducia del Paese nelle proprie capacità di
reazione alla perdita.
Leadership: La parte più importante del merito va riconosciuta a tutta la struttura aziendale, tanto al nuovo
top management - riuscito con grande determinazione e impegno personale a far percepire a tutti gli
stakeholder che era possibile una brusca sterzata verso la ripresa - quanto ai dipendenti, ai quali è stato
chiesto di lavorare di più e meglio e dai quali è arrivata una pronta risposta.
Gestione degli stakeholder: coinvolgimento della filiera: fornitori e distributori.
Piano per il rilancio: davanti alla crescente presenza in tutti i segmenti dei marchi premium (Bmw, Audi,
DaimlerChrysler) e all'altrettanto decisa espansione dei marchi coreani oggi, di quelli cinesi e indiani in futuro,
Fiat Auto deve necessariamente riposizionarsi verso l'alto, sia della gamma complessiva, sia nei singoli
segmenti, premendo decisamente sull'innovazione per produrre valore aggiunto.

I soggetti esterni per la risoluzione della crisi


La crisi, molto spesso, per avere un esito positivo, richiede l’intervento di soggetti esterni all’impresa che
possano, da un lato, affiancare il management, portando competenze e professionalità specifiche, dall’altro
sostenere l’attività di risanamento fornendo risorse finanziarie o rinunciando all’esercizio di specifici diritti.

Lo Stato può intervenire attraverso forme di durante le difficoltà d’impresa. Può essere un sostegno
finanziario che consta di interventi di concessione di credito agevolato e riduzioni o esenzioni fiscali specifici
per ogni impresa e che quindi possono essere variamente adattati alle diverse realtà aziendali di crisi. Ogni
forma di intervento finanziario di sostegno è comunque subordinata alla presenza di garanzie da parte
dell’impresa di intervento sui fattori distorsivi degli squilibri e delle disfunzioni. Può essere un sostegno a
processi di mobilità ossia tramite specifici interventi legislativi che consenta all’impresa di ridimensionare la
propria attività lasciando alle strutture pubbliche preposte l’onere dei lavoratori eccedenti. Oppure può
essere un sostegno diretto dove lo Stato interviene in modo specifico al fine di risolvere le criticità. In questo
quadro si può avere un duplice intervento: tramite procedure pubbliche appositamente strutturate per
affondare le crisi o tramite l’acquisizione diretta dell’azienda in crisi.

L’intervento delle banche, quale attore primario, si svolge su un duplice piano: Le azioni delle banche possono
giocare un ruolo di rappresentazione all’esterno della crisi aziendale; Le banche svolgono interventi diretti
per il buon esito del piano di ristrutturazione.

I vulture investor sono investitori specializzati nel campo del risanamento (considerati avvoltoi). Spesso
forniscono competenze professionali e specializzate, influenzando in modo diretto le scelte strategiche ed il
processo di risanamento dell’impresa. Hanno un ruolo importante soprattutto nel caso di active vulture, che
entrano direttamente nella proprietà dell’impresa per poterla gestire. I passive vulture sono soggetti che
acquistano titoli da imprese che risultano essere in uno stato di difficoltà, che presentano dei titoli di debito
il cui valore è sottovalutato; questi operatori operano in un’ottica di profitto. I bondmailers vulture comprano
titoli sottovalutati che sperano di ricollocare dopo un piano di turnaround ad un prezzo più elevato. Il primo
tipo si limita ad acquistare delle obbligazioni, nel secondo caso si entra nel capitale dell’impresa.

Nel Leverage buy out abbiamo un’operazione di ingegneria finanziaria con tre soggetti: l’impresa in crisi, una
new company creata per acquisire l’impresa, un pool di istituzioni finanziarie per finanziare. Permette
l’acquisizione del controllo di una società di capitali utilizzando capitale di terzi (di solito banche finanziatrici).
Da qui deriva il significato etimologico del termine: acquisizione tramite la leva finanziaria.
Si individua una società target da acquisire e, con un esiguo capitale di rischio, viene costituita una newco
(new company). La società così costituita contrae un prestito con un pool di enti finanziatori garantito dal
pegno delle azioni della società da acquisire: con le risorse ricevute la newco procede a perfezionare
l’acquisto della società target che successivamente verrà fusa, per incorporazione, nella stessa new company.
Il patrimonio della società acquisita diventa così la garanzia per il finanziamento ottenuto dalla newco e lo
stesso patrimonio tramite alcune dismissioni insieme alla capacità reddituale della società target produrrà le
risorse necessarie per estinguere il finanziamento stesso.
Nel contesto della crisi d’impresa questa particolare tecnica di ingegneria societaria è un valido mezzo
utilizzabile per la ristrutturazione e il rilancio di aziende patrimonialmente sane ma che presentino squilibri
a livello economico e/o finanziario.
Nel caso del Management-buy-out sono gli stessi manager che, non condividendo le scelte e gli obiettivi di
indirizzo del soggetto economico o per evitare takeover ostili, intervengono subentrando a questo o avviando
loro stessi l’azione dei LBO, per poter poi in seguito avviare un processo di turnaround. L’intervento così
configurato consente di intervenire su una serie di cause generatrici del declino: inefficienza manageriale,
squilibri della struttura dei costi, criticità del livello di indebitamento, eccessiva rigidità patrimoniale rispetto
agli obiettivi raggiungibili.

MODALITA’ DI ATTUAZIONE DELLE STRATEGIE


Una medesima strategia può essere realizzata seguendo modalità di attuazione (di implementazione o di
realizzazione) diverse.
La modalità di attuazione riguarda tre macroaree di strategie:
➢ La non crescita riguarda il mantenimento dello status quo. Si tratta di accordi che però non hanno una
valenza strategica, ma sono tattici e operativi, e mirano a rendere l’impresa più efficiente ed efficace.
➢ Quando parliamo di strategie di riduzione dimensionale troviamo la cessione di unità organizzative, aree
di business o asset.
➢ Crescita dimensionale: può essere interna, esterna o effettuata tramite accordi interaziendali.
Modalità di attuazione delle strategie di crescita

❖ Crescita interna: l’impresa cresce ad esempio ampliando uno stabilimento produttivo che ha già al fine
di incrementare il volume oppure può creare nuove unità aziendali.
❖ Crescita esterna: possiamo passare da una fusione in senso stretto o per incorporazione, cioè da due
unità distinte si arriva ad una sola, fino ad una acquisizione di asset e di strutture produttive.
❖ Crescita mediante forme collaborative (accordi): accordi di tipo equity o non equity. Questa tassonomia
può essere applicata a tutte le strategie viste finora.

Le modalità di crescita per via interna


E’ una crescita complessa perché significa sviluppare una serie di competenze e risorse interne funzionali allo
svolgimento dell’impresa.
L’impresa può creare nuove strutture produttive (impianti, stabilimenti, magazzini, negozi) e formare nuova
forza lavoro nell’ambito delle attuali unità organizzative. Oppure può istituire ex novo delle unità aziendali
autonome.
Queste modalità consentono di fruttare e sviluppare il know-how accumulato dall’impresa. Sono modalità
appropriate per strategie di crescita con linee di prodotti esistenti o in caso di modifica della gamma, quando
c’è continuità con le attività esistenti. Non adatte per diversificazione conglomerate.

Vantaggi: Raggiungimento di economie di scala e di esperienza; Sfruttamento di eventuali eccedenze di


risorse; Sviluppo incrementale (sia in termini temporali che di risorse finanziarie); Compatibilità con la cultura
aziendale; Maggiore protezione del v.c.; Incentivazione all’imprenditorialità interna (l’attitudine
imprenditoriale si diffonde anche tra i dipendenti che seguono il processo di crescita interna).
Svantaggi: Lentezza di implementazione (rilevanza dimensione «tempo»); Necessità di sviluppare
competenze/risorse nuove; Rischi connessi al non raggiungimento della scala efficiente minima; Sunk costs e
difficoltà di recuperare investimenti specifici; Incremento della capacità produttiva nel settore con rischio di
aumento livello concorrenza (l’entrata dell’impresa nel settore potrebbe generare un eccesso di offerta e
quindi minacce da parte della concorrenza attuale).
Limiti interni: Sono connessi alla disponibilità di risorse e capacità adeguate al raggiungimento dei target
previsti nei piani di sviluppo. Mancanza di risorse tecnologico-produttive e finanziarie adeguate; Mancanza
di risorse manageriali e organizzative sufficienti (time compression diseconomies e absorptive capacities).
Limiti esterni (esogeni): originano dall’ambiente esterno e possono variare in relazione all’ambito di attività
dell’impresa. Rigidità nel mercato dei capitali e condizioni di investimento non convenienti (tassi di interesse);
Presenza di barriere all’ingresso (istituzionali, normative, o «fisiche»); Condizioni competitive del settore di
attività.

Le modalità di crescita per via esterna


Sono strategie che utilizzano le risorse finanziarie che ottengono attraverso capitale proprio o l’accesso ad
intermediari finanziari per acquisire risorse e competenze già esistenti.
Le modalità attuative più importanti risultano essere la fusione in senso stretto, per cui due o più società
perdono la loro identità per crearne una nuova; la fusione per incorporazione per cui un’impresa
incorporante assolve delle società già esistenti (quindi le società incorporate perdono l’identità);
l’acquisizione dell’intero capitale sociale dell’impresa, in cui solitamente si mantiene la separazione giuridica
delle due imprese e si raggiunge il massimo livello di controllo (e integrazione) economico-gestionale. Altre
modalità riguardano l’acquisizione di una quota di maggioranza nel capitale di un’impresa o di un pacchetto
azionario e acquisizione di un ramo o di specifici assets.
E’ uno strumento di concentrazione dell’offerta (aspetti evolutivi connessi al settore), adeguato alle strategie
di integrazione verticale (specie quando le fasi a monte o a valle richiedono competenze, risorse e conoscenze
difficilmente imitabili o non imitabili), ma adottabile anche per strategie di diversificazione concentrica e
conglomerale.

La fusione è l’operazione mediante società distinte vengono unite in un’unica società preesistente alla
fusione (fusione per incorporazione) o in una nuova società (fusione in senso stretto). Lo scopo è quello di
concentrare o di riorganizzare la struttura del gruppo, ricercare sinergie, crescere dimensionalmente.
Effettuando una fusione ha come risultato una sola società, deve integrare i processi, mettere a fattor
comune le strutture produttive, effettuare una riorganizzazione del personale.
Il processo di fusione è costituito da tre fasi:
1) Prima fase: redazione da parte degli amministratori delle società partecipanti alla fusione di alcuni
documenti, quali Progetto di fusione (informazioni, atto costitutivo e rapporto di cambio), Situazione
patrimoniale (norme bilancio di esercizio), Relazione degli amministratori (giustificazione giuridico-
economica);
2) Seconda fase: approvazione del progetto di fusione da parte delle società partecipanti (Quorum previsti
e facoltà di recesso, Iscrizione della delibera nel registro delle imprese);
3) Terza fase: stipula dell’atto di fusione (60 giorni dopo iscrizione nel registro delle imprese).

L’acquisizione

-
1) Nella fase di preacquisizione vengono definite le motivazioni della strategia. Una motivazione è legata al
consolidamento o all’aumento del potere di mercato; un’altra motivazione è legata al superamento delle
barriere all’ingresso; l’innovazione dello speed to market fa riferimento al fatto che nell’alta tecnologia i
processi di acquisizione sono molto utilizzati per accedere a competenze diverse, complementari o
supplementari (nel momento in cui voglio innovare potrei aver bisogno di un insieme di risorse e
competenze maggiori, più ampie e quindi una risorsa aggiuntiva può essere trovata attraverso
l’acquisizione di altre realtà aziendali che sono impegnate nelle medesime competenze); per l’attuazione
di strategie di diversificazione. Sulla base delle motivazioni strategiche si può identificare uno schema
che contribuisce a classificare le motivazioni: Acquisizione verticale (a monte o a valle); Acquisizione
orizzontale (concorrenti; obiettivi: aumento potere e economie); Acquisizione per estensione del
prodotto (produzioni complementari); Acquisizione per estensione del mercato (geografica o nuovi
segmenti); Acquisizione conglomerale (legami solo finanziari). Le motivazioni possono essere classificate
anche in base alla funzione dell’acquisizione rispetto ai business attuali dell’impresa: Rafforzamento del
dominio (business attuali); Estensione del dominio (business collegati); Esplorazione di nuovi domini
(nuovi mercati, nuove tecnologie).
2) Nella fase di valutazione e fissazione del prezzo vengono utilizzati diversi metodi a supporto della
valutazione del valore dell’azienda. La fissazione del prezzo può avvenire mediante: Negoziazione a
trattativa privata, Contrattazione in borsa, Contrattazione fuori borsa («ai blocchi»). Il prezzo di scambio
(di concambio nel caso di fusioni) dipende da: valore attuale dell’impresa (valutazione dell’azienda) e
potere di mercato del venditore (condizione economico/finanziaria; tempo, ecc.)
La valutazione dell’impresa volta alla definizione del prezzo può essere effettuata impiegato
differenti metodi: Metodi patrimoniali (vedi slide Dott. Donato), Metodi reddituali (slide Dott. Donato),
Metodi multipli (slide Dott. Donato), Metodi finanziari (Discounted Free cash flow DFC), Metodi misti
patrimoniali-reddituali (Economic Value Added EVA).
Esistono alcune motivazioni che potrebbero portare all’abbandono della trattativa. Le motivazioni
strategiche riguardano l’assenza sinergie attese, lo scarso potenziale di sviluppo, l’assenza di «strategic
fit» e incoerenza con gli obiettivi dell’acquisizione, le scarse possibilità di integrazione. Quelle economico-
finanziarie sono il prezzo troppo elevato, la bassa profittabilità dell’impresa target, le problematiche
connesse alla modalità e alla tempistica di pagamento del prezzo, la scarsa affidabilità delle proiezioni
economico-finanziarie. Infine quelle manageriali potrebbero essere il basso livello del management,
l’assenza di fiducia nel management locale, l’assenza di un accordo sulle questioni connesse alla
governance. Potrebbero essere delle motivazioni connesse al rischio, come l’assenza garanzie reali o
coperture da rischi materiali, le incertezze in merito agli aspetti legali e di tassazione. I motivi legali sono
la scoperta di frodi o illegalità; l’identificazione di passività «undisclosed», le problematiche potenziali
connesse alle leggi antitrust. Quelle socio-ambientali potrebbero essere problematiche connesse
all’environment, motivazioni etiche, vincoli sociali connessi al personale(licenziamenti).
3) Per la fase di pianificazione esistono diversi modi per organizzare nella pratica i rapporti tra impresa
buyer e impresa target. La buyer potrebbe limitarsi a fare un controllo solo di tipo finanziario oppure
potrebbe attuare un’integrazione molto forte dell’impresa target fino ad arrivare ad una fase di fusione.
Anche nell’ambito della medesima acquisizione, gli stili per poterla poi gestire sono molto diversi.
4) Nella fase di comunicazione, l’acquisizione deve essere comunicata ai diversi soggetti con cui l’impresa
entra in contatto. Possono essere azionisti (shareholders) a cui vengono comunicate le motivazioni e gli
obiettivi e i possibili impatti sulle quotazioni. Si comunica alla comunità finanziaria (obbligazionisti,
analysts, ecc.) i possibili stress sulle condizioni di credito, i rischi connessi alla leva finanziaria, ecc. Si
comunica al governo e ai policy makers, all’antitrust, ai competitors, al personale. Infine ai clienti gli
effetti sull’immagine, le problematiche connesse al mantenimento della quota di mercato, ecc., ai
fornitori i rischi connessi a cambiamenti nelle clausole contrattuali, modifiche nel parco fornitori, ecc.
5) Nella fase di implementazione esistono problematiche di tipo strategico e di tipo organizzativo. Quelle
strategiche e gestionali sono l’identificazione di obiettivi comuni a livello «multinazionale», l’integrazione
delle attività di implementazione ed esecuzione, l’implementazione di procedure e tecniche operative
comuni e sofisticate. Quelle organizzative sono la gestione delle differenze culturali, l’integrazione di
differenti strutture organizzative, i rapporti con i sindacati, il mantenimento del personale (chiave) nel
proprio posto di lavoro, la remunerazione del management (stock-option), un’acquisizione ben fatta ha
dei fattori di successo legati a come è stato effettuato il processo.
Possono essere effettuate delle azioni correttive per superare queste problematiche. Innanzitutto
selezionare un team per l’integrazione, motivare il personale, controllare e misurare la strategia
(nominando dei «business unit controllers» per il monitoraggio dell’integrazione, definire dei KPI per
l’integrazione.

Vantaggi della crescita per via esterna: Sfruttamento risorse e competenze tecnologico-produttive
dell’impresa acquisita; Sfruttamento conoscenze di mercato dell’impresa target, base clienti, immagine del
brand e reputazione; Superamento di ostacoli di natura politico, normativa e istituzionale; Crescita senza
aumento della capacità complessiva del settore; Minor rischio di reazioni violente dai competitors; Maggiore
rapidità di attuazione della strategia.
Svantaggi: Vincoli esterni connessi alla disponibilità di aziende adeguate; Rischio di pagamento di un prezzo
troppo elevato; Difficoltà nella valutazione degli assets da acquisire; Possibili difficoltà di coordinamento e
integrazione; Difficoltà derivanti da diversità culturali (specie nel caso di operazioni cross-border); Possibile
allungamento non previsto nei tempi di implementazione della strategia.

Il successo/l’insuccesso delle modalità di crescita esterna può essere misurato attraverso alcuni indicatori.
Se gli indicatori economico-finanziari (valore creato per gli azionisti) prevedono un miglioramento allora si ha
una misura del successo. Un altro aspetto è dato dalla valutazione dei disinvestimenti successivi all’M&A
(Porter): se negli anni successivi all’acquisizione l’impresa disinveste, allora l’acquisizione non è stata
pertinente. Può essere preso come riferimento anche l’andamento borsistico.
Per poter capire se un’operazione di
M&A è destinata al successo si può
andare a vedere come è stato svolto
il processo. I fattori di processo sono
legati al modo in cui si è condotta
l’operazione, cioè le fasi di
negoziazione e implementazione.

Nella coerenza strategica e


organizzativa deve essere valutato il
livello di compatibilità tra i due soggetti
in termini di dimensioni strategiche
(settore di appartenenza,
diversificazione, estensione verticale,
vicinanza tecnologica, di segmento di
mercato, ecc.) e inoltre devono essere
valutate le problematiche connesse alla
convivenza tra organizzazioni diverse.
Le modalità di crescita di tipo collaborativo
Sono forme attraverso cui l’impresa può crescere e che si sostanziano in partnership con altre imprese: sono
basate sulle realizzazione di contratti collaborativi o alleanze. Si configurano come rapporti di collaborazione
che possono prevedere differenti orizzonti temporali, livelli di commitment ed esposizione al rischio.
Permettono di accedere a risorse, competenze e tecnologie non presenti internamente. Consentono di
ampliare l’ambito competitivo attraverso l’ingresso in nuovi business, nuove aree geografiche, nuovi
segmenti di mercato.
Le modalità attuative si differenziano in accordi equity o non equity. Quelli equity prevedono la
partecipazione al capitale di rischio (joint ventures, consorzi, cooperative, partecipazioni di minoranza in altre
imprese, acquisizioni educative, ecc. Quelli non equity sono accordi che non prevedono la compartecipazione
al capitale di una società e si basano invece su clausole contrattuali modificabili dalle parti (collaborazione
sistematica o plurifunzionale, collaborazione occasionale e monofunzionale, franchising, management
contract, associazione a catena, accordi collusivi, ecc.). Possono essere unidirezionali (licensing) o
bidirezionali (scambio di tecnologia).
Questa modalità è una forma efficiente di espansione in attività complementari aventi scarse affinità e di
transazione intermedia rispetto al mercato e alla gerarchia. Si può definire di «quasi integrazione» volta alla
flessibilità produttiva.
Vantaggi: Accesso a risorse e competenze complementari (produttive, tecnologiche, di mercato); Riduzione
del rischio finanziario; Possibilità di dilazionare commitment e investimenti (cfr. opzioni reali); Rapidità
dell’operazione; Possibilità di sfruttare «finestre» di opportunità (cfr. «strategic windows» di Abell).
Svantaggi: Mancanza di controllo (gerarchico); Rischi connessi a comportamenti opportunistici dei partners;
Rischi connessi a spill-over tecnologici (a vantaggio dei partners); Scarse garanzie di durata; Problematiche
connesse all’apprendimento.

I consorzi sono associazioni di imprese, che giuridicamente ed economicamente restano autonome, create
per il compimento di un’opera, la prestazione di un servizio, o la regolamentazione dei rapporti reciproci dei
consorziati. Secondo l’Art. 2602 c.c., comma 1: è un contratto con cui «più imprenditori istituiscono un
organizzazione comune per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese». E’ una forma di
collaborazione volta alla creazione di una struttura comune per lo svolgimento di servizi specifici o per la
realizzazione di singole attività del ciclo produttivo (ricerca tecnologie, manutenzione impianti, creazione
marchi, ecc.).
I consorzi possono svolgere solo attività interna, possono avere un’attività esterna o possono essere consorzi
società.

La joint venture (societaria in particolare) prevede la costituzione di un soggetto giuridico autonomo da parte
di più imprese associate, che ha il ruolo di realizzare l’azione comune. L’accordo prevede (solitamente) la
nascita di una nuova impresa, avente veste giuridica di società di capitali, al fine di perseguire politiche di
alleanze stabili e durature per lo sviluppo di progetti complessi (joint target).
In base al grado di autonomia decisionale riservato all’impresa congiunta è possibile distinguere in: Joint
venture indipendente, Joint venture a gestione comune, Joint venture dominata.

Il franchising è un contratto con cui un’impresa principale aggrega una rete di imprese satelliti,
giuridicamente autonome, concedendo la possibilità di commercializzare i propri prodotti e servizi. Secondo
l’affiliazione commerciale ex lege 129/04:è un rapporto tra due soggetti, ossia un produttore o rivenditore di
beni e servizi («franchisor» o «affiliante»), e un distributore («franchisee» o «affiliato»). L’affiliata si avvale
del patrimonio di conoscenze e competenze, dei marchi, del nome, dell’insegna commerciale, dei ritrovati
tecnici, amministrativi e organizzativi messi a disposizione dall’affiliante. L’affiliante trae vantaggio
dall’esperienza e dall’eventuale avviamento dell’affiliata; penetra i mercati su scala locale e ottiene il
pagamento di un corrispettivo. Il corrispettivo è composto da una quota fissa (diritto d’entrata o entry fee)
per l’uso della formula commerciale, la formazione, l’affiancamento, il know-how, ecc. e una quota variabile
(royalties) proporzionale al fatturato generato.

Esistono diverse tipologie di franchising: nel franchising di distribuzione l’affiliante cede all’affiliata il know-
how commerciale, l’uso del marchio, servizi vari a fronte del pagamento dell’entry fee e/o delle royalties
(catene di supermercati, abbigliamento, scarpe, gioielleria, ecc.). Nel franchising di servizi l’affiliante
trasferisce il know-how relativo alla prestazione di servizi efficacemente organizzati e sperimentati. Richiede
la replicabilità della formula imprenditoriali (ristorazione, turismo, autonoleggio, ecc.). Nel franchising
industriale i partner sono due imprese industriali, l’affiliante concede all’affiliata la licenza dei brevetti di
fabbricazione e i marchi; trasferisce la tecnologia e assicura assistenza tecnica. L’affiliante fabbrica e
commercializza i prodotti producendoli nei propri stabilimenti usando il know-how e le tecniche di vendita
dell’affiliante.

Il management contract è un contratto di gestione mediante il quale il proprietario di un immobile o di


un’infrastruttura affida la direzione dello/a stesso/a ad uno staff di esperti (o ad un’impresa) che si occupa di
renderlo redditizio. La società che prende in gestione l’immobile/infrastruttura, ecc. utilizza, nella maggior
parte dei casi, il proprio marchio. Il pagamento per il soggetto che gestisce il bene può essere costituito da
un fisso o dalla compartecipazione agli utili.
Il contratto è impiegato nell’ambito di servizi in cui rileva la competenza gestionale: alberghi, terminal
portuali, ecc.

Le alleanze

Il processo di formazione

Obiettivi e motivazioni strategiche


In base agli obiettivi le forme collaborative possono essere distinte in (Contractor e Lorange, 1990):
strategiche e tattiche. Le alleanze strategiche hanno come finalità: costruire/migliorare il VC dell’impresa nel
medio/lungo termine con valenza globale; lancio, sviluppo e sfruttamento economico di innovazioni o
prodotti con potenzialità inespresse; controllare la dinamica delle traiettorie di sviluppo di risorse
complementari. Hanno un elevato grado di complementarietà tra i soggetti partecipanti. Le alleanze tattiche
prevedono lo sfruttamento di vantaggi già posseduti, hanno un orizzonte temporale tendenzialmente di
breve periodo, i rapporti inter-organizzativi sono gestiti secondo una logica di «transazioni ripetute».
Le motivazioni strategiche sono le seguenti: 1) Riduzione tempi e rischi (connessi all’avvio di un nuovo
business o l’ingresso in un nuovo mercato); 2) Accesso rapido ai progressi tecnologici (problematiche
connesse alle attività di R&D); 3) Accesso e apprendimento alle conoscenze e competenze dei partner; 4)
Creazione/sfruttamento nuova conoscenza e nuove competenze (iterazione tra i partner); 5) Conseguimento
economie di scala (massa critica, ampliamento confini); 6) Modifica ambiente competitivo (comportamento
dei concorrenti); 7) Effetti analoghi all’incremento del grado di concentrazione del settore (riduzione spazi di
mercato per concorrenti; innalzamento barriere per nuovi entranti; aumento potere di mercato vs. fornitori
o clienti).

La tipologia di partner definisce la «direzione» della collaborazione: Accordi verticali nella stessa filiera (a
monte o a valle); Accordi orizzontali, effettuati con i concorrenti (facilità di identificazione obiettivi comuni);
Accordi di diversificazione, che può essere correlata (produttori di beni/servizi complementari o sostitutivi)
o prospettica (business interessati da fenomeni di «convergenza tecnologica); Accordi trasversali, ad esempio
con Università, enti di ricerca, ecc. (donors e recipient; spin-off; trasferimento tecnologico).

Negoziazione delle condizioni


La soluzione negoziale prevede la scelta di un accordo equity o non equity (societarie/contrattuali); la scelta
del grado di controllo (degree of control); la definizione dei compiti, delle funzioni, delle specifiche risorse
apportate.
E’ possibile distinguere le alleanze in ragione delle attività della catena del valore cui afferisce la
collaborazione. Le alleanze tecnologiche prevedono: il trasferimento di tecnologia tra partner con diverse
dotazioni; la complementarietà tecnologica (leveraging delle diverse competenze e conoscenze
complementari nell’ambito dell’innovazione tecnologica); la compartecipazione al rischio (partner industriale
operativo + partner finanziari per sfruttamento economico di brevetti o nuove tecnologie).
Le alleanze per la produzione e le funzioni logistiche prevedono una produzione su scala più elevata. E il
raggiungimento i sinergie nell’ambito delle attività logistiche.
Le alleanze per marketing, distribuzione e assistenza prevedono lo sfruttamento delle conoscenze di mercati,
segmenti, o aree geografiche (Case study Fiat – Tata Motors), la ricerca di sinergie nell’ambito del marketing
e della distribuzione (Case study Erg – Total), l’ingresso in nuovi mercati e superamento di eventuali barriere
(Caso Lukoil – Erg; Caso Fiat – Guangzhou Automobile Group Co.).

BUSINESS IDEA E BUSINESS MODEL


La business idea dell’impresa
E’ l’dea che ha scatenato la nascita dell’impresa stessa. La business idea (o idea imprenditiva) rappresenta la
formula di successo di un’impresa; descrive “il modo di far denaro” dell’impresa. Essa rappresenta una
conoscenza o un’abilità superiore e questa abilità dovrebbe essere trasfusa nella struttura organizzativa
dell’impresa. Una business idea, nella sua essenza, è qualcosa di estremamente semplice e lineare, ma consta
di una pluralità di elementi reciprocamente coerenti.
Questa idea deve essere trasfusa nella struttura organizzativa dell’impresa. (Se l’impresa è diversificata, ogni
area strategica d’affari è nata da una diversa business idea, non è detto che sia solo una.)

Gli elementi costitutivi della business idea sono rappresentati da:


▪ Il segmento di mercato;
▪ Informazioni sul prodotto/servizio offerto;
▪ L’organizzazione interna dell’impresa e il sistema di controllo.
Una chiara individuazione della business idea implica quindi descrizioni su:
• l’ambito competitivo dell’impresa;
• i prodotti, o il sistema che vengono forniti al contesto competitivo;
• le risorse e le condizioni interne attraverso cui è acquisita la dominanza rispetto alle altre imprese.
Tra i tre elementi costitutivi della business idea ed i loro sotto elementi, deve esistere un certo grado di
consonanza. Dissonanze fra qualsiasi dei tre elementi principali, o livelli della business idea, possono portare,
infatti, al deterioramento della business idea. Al fine di evitare ciò, occorre operare attraverso un successivo
affinamento della business idea, attraverso continui miglioramenti marginali nei prodotti e nelle strutture
interne e una accurata pianificazione delle proprie attività.

Esempi di consonanza: I primi ipermercati svedesi si basarono sull’idea che la vendita dei beni di consumo si
sarebbe potuta effettuare in modo diverso. SEGMENTO DI MERCATO: con l’aumentare del traffico
automobilistico non era più indispensabile localizzarsi nei centri urbani, ma divenne possibile situare grandi
magazzini fuori città. I nuovi supermercati puntavano quindi su un ampio segmento di consumatori, aiutati
da un livellamento generalizzato del reddito e dalla diffusione delle automobili. PRODOTTO/SERVIZIO
OFFERTO: l’obiettivo di abbassare i prezzi fu raggiunto non abbassando la qualità dei prodotti offerti. La
maggior parte delle merci era venduta per contanti prima che il fornitore fosse pagato, non si avevano scorte,
se non la merce sugli scaffali, e si evitavano immobilizzazioni pesanti. ORGANIZZAZIONE INTERNA: il
personale “al piano” era responsabile per i propri ordini, ciò aveva il vantaggio di accrescere l’impegno e il
senso di responsabilità del personale periferico. Il sistema di assunzione e formazione era semplice e poco
costoso.
Esempi di consonanza: “Divani&Divani”. SEGMENTO DI MERCATO: mercato globale (50% della produzione
viene esportata negli USA, 40% in Europa, 10% nel resto del mondo). Essa è riuscita a “democratizzare il
divano in pelle”, rendendolo accessibile alla classe media, attraverso nuovi metodi produttivi che abbassano
i costi, pur mantenendo una buona qualità. PRODOTTO/SERVIZIO OFFERTO: salotti in pelle con design
innovativo e con un’ampia gamma di offerte. Essi si caratterizzano per l’ottima qualità a prezzi contenuti.
ORGANIZZAZIONE INTERNA: il personale viene addestrato in una scuola di formazione creata ad hoc. Il loro
senso di appartenenza all’impresa è molto alto e ciò lo si riscontra nel rendimento delle persone, le quali
hanno una produttività molto elevata.

Esempi di dissonanza: Europharma tentò di entrare in un nuovo mercato: quello degli psicofarmaci di
avanguardia. L’impresa riuscì a costituire un gruppo di ricerca e a sviluppare un paio di preparati che diedero
buoni risultati. L’impresa in questione, però, non aveva compreso che per questo tipo di prodotti non era
sufficiente la fornitura del prodotto in sé, ma era indispensabile offrire anche un completo sistema di
sperimentazioni chimiche, contatti con opinion leader, etc. Il prodotto, quindi, era stato definito in modo
troppo ristretto rispetto al segmento di mercato.

Il ciclo di crescita della business idea


Il risultato di un ciclo di crescita di successo è la dominanza dell’impresa su un abito competitivo. Esso è
articolato in cinque stadi:
1) “del sensore”: è necessaria una visione, una direzione che orienti il creatore;
2) dello sviluppo: ulteriore approfondimento della conoscenza circa la business idea prescelta;
3) della predisposizione delle risorse: ricerca delle risorse e creazione di un’organizzazione coerente con
l’ambito competitivo;
4) dello sfruttamento e stabilizzazione: l’impresa dovrebbe dominare sul proprio ambiente esterno e
raccogliere i frutti del proprio lavoro;
5) terminale o successiva ridefinizione.

Il Business Model e la creazione di valore


E’ la concretizzazione dell’idea imprenditoriale. E’ l'insieme delle soluzioni organizzative e strategiche
attraverso le quali l'impresa acquisisce un vantaggio competitivo. In altri termini, ovvero con le parole di
Alexander Osterwalder, ideatore del Business Model: descrive la logica con la quale un'organizzazione crea,
distribuisce e cattura valore. E’ diverso dalla strategia in quanto nel business model non si fa riferimento alla
competizione; inoltre la strategia, a differenza di business model, non è oggetto di imitazione.
Cosa significa creare valori per i clienti?
Un’azienda crea valore per i propri clienti quando li aiuta a:
➢ SVOLGERE UN “COMPITO” IMPORTANTE
➢ SODDISFARE UN DESIDERIO
➢ RISOLVERE UN PROBLEMA
Il successo o l'insuccesso di qualunque business dipende dalla capacità dell'azienda di creare questo valore
per i propri clienti.
La prima attività da svolgere per ripensare, rafforzare o migliorare un'azienda, per lanciare un nuovo
prodotto/servizio, o per avviare una startup ad alto valore, è quella di creare il proprio modello di business.
Così potrai stabilire con precisione cosa bisogna fare, come bisogna farlo e per quali precisi clienti l'azienda
vuole creare valore.

Il valore
Dato che un concetto chiave di ogni Business Model è il valore offerto, è bene chiarire come si misura il
valore, utilizzando una definizione che aiuta a semplificare il concetto:
Il VALORE PERCEPITO dal cliente è dato dalla differenza tra BENEFICI ricevuti e COSTI sostenuti.
Il Business Model diventa quindi il modo in cui l’azienda organizza se stessa e la sua offerta per creare il
massimo valore possibile per i suoi clienti!

Nella progettazione di un business model è quindi fondamentale utilizzare un approccio customer oriented,
ovvero orientato all'offerta di soluzioni che offrano il massimo valore possibile ai futuri clienti. Mantenere
uno standard di qualità elevato e praticare allo stesso tempo un prezzo finale accessibile (grazie all'utilizzo di
un'innovazione tecnologica che migliora i processi) è, per esempio, uno dei migliori modi per accrescere il
valore percepito.

La value proposition
- Apportando un’innovazione: creando cioè un nuovo valore e dando ai clienti qualcosa che prima non
c’era (es: lo smartphone è stata un'innovazione nel settore delle telecomunicazioni);
- Rendendo accessibile un prodotto/servizio: permettendo cioè a Segmenti di Clientela che prima non
potevano usufruire di un prodotto/servizio, di accedervi (si pensi ai voli low-cost, come Netjet e Ryanair);
- Migliorando un servizio esistente;
- Risolvendo un problema specifico (buoni pasto);
- Utilizzando la marca/status per trasmettere un’identità (come fanno aziende quali Rolex, Gucci,
Ferrari...);
- Migliorando il design di un prodotto (es: la Apple ha creato prodotti tecnologici ad alto contenuto di
design);
- Migliorando la performance di un prodotto;
- Rendendo i prodotti più facili da utilizzare;
- Riducendo i rischi relativi ad un prodotto/servizio (l’assicurazione sul furto diminuisce i rischi nel
comprare una macchina).

Il Business Model CANVAS


Il Business Model Canvas è un potente framework all’interno del quale sono rappresentati sotto forma di
blocchi i 9 elementi costitutivi di un’azienda. Ecco una breve descrizione di ognuno:
✓ Customer Segments (CS): i segmenti di clientela ai quali l'azienda si rivolge
✓ Value Proposition (VP): la proposta di valore contenente i prodotti / servizi che l’azienda vuole offrire
✓ Channels (Ch): i canali di distribuzione e contatto con i clienti
✓ Customer Relationships (CR): il tipo di relazioni che si instaurano con i clienti
✓ Revenue Streams (R$): il flusso di ricavi generato dalla vendita di prodotti/servizi
✓ Key Resources (KR): le risorse chiave necessarie perché l'azienda funzioni
✓ Key Activities (KA): le attività chiave che servono per rendere funzionante il modello di business
aziendale
✓ Key Partners (KP) : i partner chiave con cui l'impresa può stringere alleanze
✓ Cost Structure (C$): la struttura dei costi che l'azienda dovrà sostenere
[Vedi slide 17, 18, 19, 20]

Il Business Model Canvas può essere stampato in grandi dimensioni con l'obiettivo di facilitare il lavoro di
gruppo. Le persone infatti possono iniziare a disegnare e discutere gli elementi del modello di business con
post-it e pennarelli. In questo modo lo strumento favorisce la comprensione, la discussione e l'analisi del
business ma allo stesso tempo anche la creatività e la condivisione.

Quali sono i contributi maggiori che il Canvas dà a chi lo utilizza?


- Migliora le pianificazioni strategiche
- Crea un linguaggio condiviso
- Migliora le idee da implementare e il brainstorming
- Migliora il lavoro di squadra
- Produce risultati pratici e strutturati da implementare velocemente
- Facilità lo scambio tra aree differenti della stessa azienda
- Utile soprattutto nella fase di start up o nella creazione di nuovi business da parte di imprese già
consolidate, utile prima di redigere il BP.

Esempio: Nespresso. Dopo aver creato nel 1986 Nespresso SA, una società deputata a promuovere il sistema
Nespresso presso gli uffici, Nestlé si accorse che a un anno di distanza le cose andavano davvero male.
Le vendite erano deprimenti. Argomentando un poco di più: la società veniva tenuta in vita solo perché erano
rimaste enormi scorte di costose macchine per caffè.
Che fare? Nel 1988 Nestlé nomina Jean-Paul Gaillard come AD. E il gioco cambia radicalmente. Nespresso,
che fino ad allora era un marchio pensato per gli uffici, si sposta verso le famiglie ad alto reddito e comincia
a vendere direttamente per posta le capsule di caffè: una strategia innovativa per la Nestlé, abituata al
mercato di massa e alla distribuzione al dettaglio. Tasso di crescita annuale: +35%.
Cos'è successo? In una frase: è stato ripensato il modello di business.
E non dell'intera Nestlé, ma di un suo spin-off, di una costola, che ha portato all'intera azienda vendite per
2,9 miliardi di euro nel 2011.

Esempio: Nintendo. Prima della Wii era sull'orlo del fallimento, poiché incapace di stare al passo con i
concorrenti. Poi cosa fa? Ripensa il modello di business.
La Wii ha sfruttato una tecnologia già esistente, ma di fatto la potenza e la complessità della console erano
molto inferiori alle avversarie sul mercato: basta vedere la grafica dei suoi videogiochi, imparagonabile a
quella di PlayStation e Xbox dell'epoca.
La Wii è stata la prima a generare ricavi diretti dalla vendita della console. Tutte le console precedenti erano
talmente costose che dovevano essere messe sul mercato a prezzo ribassato. Le case produttrici, quindi,
partivano in perdita e si rifacevano solamente dopo, con le vendite dei videogiochi.
Con estrema semplicità (addirittura con un "downgrade") Nintendo è riuscita per prima a guadagnare già
dalle vendite delle console.
Qual è stata la strategia? L'azione sul modello di business ha coinvolto un elemento fondamentale: i clienti.
Non più videogiochi per smanettoni, ma "videogiocare" come momento per stare insieme, in famiglia, con
amici di ogni genere (non solo i "fissati" di videogame). La consolle acquista un nuovo significato.

LA FORMULAZIONE DELLA STRATEGIA


Il processo strategico
1. Formazione della strategia
2. Valutazione della strategia (ex ante)
3. Implementazione della strategia
4. Valutazione della strategia (ex post) e controllo

Il processo di formazione ed esecuzione della strategia


Sviluppo vision e mission
La vision rappresenta la prospettiva di un futuro realistico, credibile e desiderabile per l’organizzazione. Con
la vision il manager fornisce un ponte tra il presente e il futuro dell’organizzazione. Deve spiegare come il
management vuole che diventi l’impresa. Deve spiegare all’organizzazione dove vuole arrivare l’impresa.
Nel definire la propria vision, il management definisce, in generale: il ruolo sociale che l’impresa intende
svolgere; i confini entro cui intende muoversi; i principi etici a cui intende ispirare le sue scelte di governo e i
suoi comportamenti.

La mission rappresenta “la ragion d’essere dell’impresa”: enunciazione dello scopo fondamentale
dell’impresa che si distingue dagli altri obiettivi in termini di ampiezza del prodotto, ampiezza del mercato,
ed estensione geografica. La definizione della missione rappresenta il primo passo per la definizione del
comportamento strategico e della strategia d’impresa.

Definizione degli obiettivi


Significa definire un chiaro insieme di obiettivi a lungo termine verso cui la strategia è diretta. Tali obiettivi si
riferiscono generalmente alla posizione sul mercato o allo status che l’impresa spera di raggiungere
attraverso la strategia. Gli obiettivi devono essere più specifici della generica definizione “massimizzare i
profitti”: questo obiettivo è troppo ampio per avere un contenuto strategico. Possono essere visti come il
“dove” della strategia: dove i managers vogliono posizionare l’impresa?

La formulazione della strategia vera e propria (obiettivi + risorse + azioni)


La strategia rappresenta lo schema o il modello decisionale atto a coordinare gli obiettivi, le linee di
comportamento e l’allocazione delle risorse dell’impresa, in una visione unitaria e coerente.
Chi prende parte alla formulazione della strategia aziendale? Imprenditore, CEO o Amministratore delegato,
CEO + CFO + MANAGER DI DIVISIONE O DI FUNZIONE.

L’approccio razionalistico
Il problema decisionale può essere scomposto in quattro passaggi:
1) individuazione della necessità di prendere una decisione;
2) formulazione di diverse alternative;
3) valutazione delle alternative;
4) scelta e attuazione di una o più alternative individuate.

La pianificazione strategica si dedica alla comprensione dei principali fattori di cambiamento delle variabili
ambientali relativi a ciascun business dell’azienda (ottica anticipativa). Viene sviluppato il concetto di
Strategic Business Unit, unità organizzative che operano autonomamente come imprese nell’impresa.
A livello corporate, viene ricercata una visione complessiva dell’impresa al fine di analizzare le condivisioni di
risorse, impianti di produzione, reti di distribuzione. Per l’elaborazione di una strategia complessiva, si
rendono necessarie la definizione di compiti da assegnare ai diversi livelli e la predisposizione della sequenza
delle azioni da intraprendere con l’assegnazione delle responsabilità per l’esecuzione di tali compiti (top
down).
Implementazione della strategia scelta
Le imprese più complesse tendono a fare un piano. Le imprese necessitano di sistemi di pianificazione nuovi,
basati sui seguenti principi, tra i quali (Taylor B., 1997): la strategia deve essere continua e non elaborata
periodicamente; la discussione sulla strategia deve essere focalizzata non su piani operativi ma su alcuni
specifici principi; le decisioni strategiche sono assunte dal top management a livello corporate, in
connessione con i manager di line (Personale specifico e competenze specifiche possono essere reperiti
mediante il ricorso a società di consulenza); aumenta l’attenzione per la fase di implementazione.

Un sistema di pianificazione strategica può supportare le imprese nel risolvere quattro importanti dilemma
che devono affrontare:
Il primo dilemma riguarda la tensione tra le risorse attuali e i progetti futuri, e quindi tra di ottica di breve e
quella di lungo periodo;
Un ulteriore dilemma concerne la ricerca di nuove opportunità, giacché spesso le imprese tendono ad
estendere il business presente o ad estrapolare comportamenti passati piuttosto che ricercare nuovi ambiti
o nuove modalità di competizione;
Un terzo dilemma è connesso con la mancanza di partecipazione e commitment e di condivisione da parte
dell’organizzazione alle scelte aziendali; problema che può essere risolto mediante l’adozione di un processo
di formulazione della strategia assai partecipativo;
Un ulteriore dilemma concerne la capacità dell’impresa di acquisire una conoscenza incrementale su come
la strategia sta lavorando. Il processo di pianificazione consente quindi di agevolare il controllo.

Il processo “reale”
Il processo di pianificazione si svolge attraverso i tre livelli gerarchici in modo tipicamente top down:
➢ Dapprima il corporate definisce le strategie generali d’impresa
➢ Successivamente i responsabili delle unità di business stabiliscono le strategie di business, concordandole
con il management del corporate
➢ Quindi i responsabili di funzione individuano le strategie funzionali, contrattandole con i responsabili
delle unità di business
➢ Da ultimo le informazioni risalgono al livello corporate, ove si ha una verifica e approvazione delle
decisioni prese ai livelli inferiori
➢ Il processo si articola in modo del tutto analogo anche nelle fasi successive di definizione degli obiettivi e
di definizione dei piani operativi.

I destinatari sono principalmente: “Proprietà”; Finanziatori; Clienti/fornitori; Soci di minoranza; Pubbliche


istituzioni e organismi di controllo; Altri soggetti (associazioni consumatori, gruppi di opinione).
GUIDA AL PIANO INDUSTRIALE
Tecnica utilizzata nella maggior parte delle imprese che racchiude competenze trasversali. Non c’è una legge
che specifica una tipologia di costruzione imposta dal legislatore.
E’ un documento organico che racchiude all’interno gli elementi inerenti all’impresa in un’ottica che parte
dal passato, analizzando gli elementi distintivi e prevedendo il futuro. Serve per capire le scelte compiute e
per permettere al management di decidere dove l’impresa vuole andare.

I requisiti fondamentali del Piano sono:


▪ La Sostenibilità Finanziaria, ovvero l’assenza di gravi squilibri nella struttura finanziaria.
Qualità e quantità delle fonti di finanziamento che il management intende utilizzare per far fronte ai
fabbisogni correlati alla realizzazione della strategia. Per esempio: Durante l’arco temporale di piano è
opportuno che i cash flows (intesi come utile netto + ammortamenti) coprano gli assorbimenti di Capitale
Circolante Netto e gli Investimenti netti di sostituzione/mantenimento: Cash flow > = ΔCCN + Investimenti di
sostituzione/mantenimento.

▪ La Coerenza dei piani predisposti, ovvero l’assenza di fattori di “incoerenza”.


E’ un requisito “interno” del piano che si manifesta se esistono i nessi causali tra: Strategia realizzata;
Situazione aziendale di partenza e opportunità di cambiamento; Intenzioni strategiche; Action Plan; Ipotesi
e previsioni economico-finanziarie.
Altro aspetto della COERENZA riguarda la realizzabilità dell’Action Plan e più precisamente la compatibilità
tra: Azioni Pianificate; Tempistica proposta; Risorse attuali e prospettiche (umane, organizzative e
tecnologiche) di cui l’azienda dispone e si doterà. => IL PIANO DEVE ESSERE REALIZZABILE.

▪ L’Attendibilità che fa riferimento alla fondatezza degli elementi di riscontro delle ipotesi contenute nel
piano medesimo.
Un piano industriale è attendibile se le ipotesi sono realistiche. I contenuti del piano industriale devono
essere realistici in particolare rispetto a: Andamento della domanda e quota di mercato; Tendenze in atto nei
bisogni dei consumatori (trend); Comportamento dei competitors (benchmark); Struttura e cambiamenti dei
canali distributivi e dei rapporti di fornitura; Contesto normativo, tecnologico, sociale e ambientale.

Noi analizziamo il modello di Borsa Italiana. Si sintetizza in 5 punti:


1. Executive Summary: diviso in progetto strategico proposto (cosa si propone), principali azioni realizzate
(in che modo si realizza), sintesi dei principali dati finanziari attesi (risultati ottenuti). E’ una sezione
introduttiva che serve per guidare il lettore.
2. Strategia realizzata: parte dall’analisi della strategia realizzata, attuata da un punto di vista corporate e
da un livello di dettaglio delle strategic business unit, infine evoluzione dei dati finanziari storici. Pone la
base delle ipotesi per la mia strategia prospettica, compiendo un’analisi dei dati passati.
Esempio: La società Gamma ha avviato un processo di turnaround che ha portato ad un miglioramento della
redditività operativa e del valore creato attraverso: sviluppo di poli turistici di elevate dimensioni (Polo Alfa
e Polo Beta) e con alta redditività; chiusura di strutture alberghiere piccole, non specializzate e non
profittevoli (ad es. Hotel Omicron e Villaggio Lambda); gestione di nuove strutture di medie dimensioni (ad
es. Villaggio Sigma, Hotel Omega e Hotel Delta).
3. Intenzioni strategiche: intenzioni del management del cambiamento che vuole approntare all’impresa,
partendo dalle opportunità di un rinnovamento.

Esempio: La società proseguirà nel processo di accrescimento della creazione di valore attraverso:
incremento del numero di poli turistici gestiti e miglioramento dei tassi di occupazione grazie all’esclusività
delle location delle nuove aperture; crescita delle vendite su tutte le strutture grazie ai positivi effetti
dell’accordo che verrà stipulato con un primario tour operator nazionale; progressiva diminuzione delle
strutture alberghiere piccole, non specializzate e non profittevoli; crescita del prezzo medio giornaliero grazie
all’apertura dei nuovi poli turistici che verranno venduti a prezzi elevati vista l’esclusività delle location e l’alto
livello di servizio offerto.
Esempio: Riduzione organico produttivo di 40 unità Giugno 2019 1.000; Sostituzione e riduzione del n. di
fornitori Marzo 2019 3.000; Razionalizzazione flusso logistico Ottobre 2019 2.000; Internalizzazione
manutenzione impianti e assunzione risorse specializzate Giugno 2019 1.000.
4. Action plan: le azioni che devono essere fatte per concretizzare in una realtà una strategia.
5. Ipotesi e dati finanziari prospettici: ogni obiettivo deve essere misurato.

L’indice di aderenza totale indica quanto il piano è costruito secondo una logica organica coerente con quello
di borsa italiana. In genere i piani pubblicati dalle imprese non seguono una struttura così rigida.

Quali piani prevalgono?


L’instabilità ambientale sospinge, diversamente da quanto preconizzato da Mintzberg, verso una maggiore
pianificazione. In particolare, modelli di pianificazione di tipo transattivo e generativo sono associati con
ambienti esterni turbolenti. Si è invece verificato che pianificazioni di tipo simboliche e razionali sono
correlati più alla dimensione aziendale (grande!) che al tipo di ambiente.

Obiettivi: performance strategica e performance eco-fin


Una migliore performance strategica favorisce una migliore performance finanziaria. Il 36% (per alcuni il 40%)
delle imprese globali adottano la Balance Scorecard per definire (e controllare) gli obiettivi. [Vedi slide 39]

Perché è utile? Aiuta a rimuovere alcuni ostacoli alla concreta realizzazione degli obiettivi strategici.
Ostacoli: la strategia non è condivisa e/o il suo grado di attuazione non misurabile; le risorse non sono allocate
in funzione delle strategie; i processi non sono progettati in linea con le priorità strategiche; l'organizzazione,
la formazione e i sistemi di incentivazione non sono allineati alla strategia.

La BS cerca di rendere coerenti le quattro diverse prospettive di valutazione delle performance dell'impresa:
- la prospettiva finanziaria (financial perspective) la domanda chiave è: per avere successo dal punto di
vista finanziario, come dovremmo apparire ai nostri azionisti? Gli obiettivi sono quelli economici
finanziari, misurati dai tradizionali indicatori di performance e redditività;
- la prospettiva del consumatore (customer perspective) – La domanda chiave è: come dovremmo apparire
ai nostri consumatori? L'obiettivo è il miglioramento dell'offerta e del servizio per il cliente;
- la prospettiva interna dell'impresa (business process perspective) – La domanda chiave è: per soddisfare
i consumatori, in cosa dovremmo eccellere? L'obiettivo è il miglioramento dei processi core;
- la prospettiva di innovazione e apprendimento (learning and growth perspective) – La domanda chiave è:
Come manterremo le nostre capacità di apprendimento e miglioramento? L'obiettivo è l'apprendimento
e sviluppo organizzativo.
Interrelazioni possibili tra le diverse prospettive e i relativi obiettivi: un miglioramento del processo di
evasione degli ordini nella business process perspective, inevitabilmente migliora il servizio al cliente
(prospettiva del consumatore) aumentando anche il fatturato (prospettiva finanziaria).

LA CORPORATE GOVERNANCE
Cosa significa governare l’impresa? Le decisioni
Chi assume le decisioni strategiche e quali sono i presupposti che fanno sì che le decisioni vengano assunte
da un determinato gruppo di persone?
Nelle imprese vengono assunte decisioni aventi caratteristiche diverse sotto il profilo dell’importanza della
decisione, dei contenuti e della collocazione della responsabilità a livello organizzativo. L’insieme delle
decisioni aziendali possono essere classificate proprio in ragione dei suddetti profili in tre livello organizzati
gerarchicamente:
▪ Decisioni strategiche: scaturiscono dal tentativo di armonizzare il rapporto dinamico che esiste tra
impresa e ambiente. Sono le decisioni che vengono assunte da un gruppo ristretto di persone; sono
fortemente centralizzate; vengono assunte in condizioni di incertezza; non sono ripetitive e non sono
evidenti, cioè non si impongono all’attenzione del decisore. Sono fortemente gerarchizzate nel senso che
non solo vengono assunta dall’apice della gerarchia ma influenzano tutte le altre decisioni aziendali, e
quindi influenzano la performance aziendale. Queste decisioni strategiche possono condizionare la vita
dell’impresa, cioè una gestione strategica sbagliata può condizionare la sua sopravvivenza. Costituiscono
il vertice delle responsabilità organizzativa a livello organizzativo.
▪ Decisioni amministrativo-organizzative: riguardano il problema della combinazione ottimale delle risorse
a disposizione dell’impresa, al fine di raggiungere il massimo di produttività compatibile con il massimo
grado di economicità. Riguardano il modo in cui reperire le risorse (mezzi finanziari, capitale umano,
conoscenze, ecc.), come finanziare progetti di investimento, il modo attraverso cui vengono organizzate
le risorse in senso materiale.
▪ Decisioni operative: riguardano l’utilizzo ottimale delle risorse nell’ambito di ciascuna area funzionale
(sono le decisioni che vengono prese giorno per giorno). Assorbono la maggior parte delle energie
decisionali dell’impresa e attengono essenzialmente al come produrre.
➔ Dove operare, come operare, in che modo attuare le scelte.

Definizione di corporate governance


Il problema della corporate governance nasce a valle della crisi del ‘29 poiché nei primi decenni del 900 si era
consolidato un nuovo organismo, ossia un’impresa che per la legge poteva raccogliere i capitali dai singoli
azionisti ed essere governata da un soggetto professionista.

Gli assetti di governo delle imprese costituiscono, infatti, una leva fondamentale della competitività delle
imprese, una chiave di cui le imprese hanno bisogno per massimizzare l’efficienza della gestione aziendale.
La corporate governance è un insieme di regole che identifica chi governa l’impresa e i responsabili delle
scelte strategiche; determina l’ampiezza del potere e della responsabilità attribuita ai decisori aziendali e
l’efficacia dei controlli a cui sono sottoposti; determina, in senso più ampio, gli equilibri e i rapporti tra i
diversi stakeholder. Il fondamento del potere ha un’influenza molto importante sulla gestione strategica
aziendale perché a seconda di chi assume il potere, e di conseguenza le decisioni, si generano scelte diverse.

In letteratura si trovano due accezioni: in senso allargato e in senso ristretto.

CONCEZIONE ALLARGATA
I sistemi di corporate governance
Il concetto di corporate governance nell'accezione più ampia presuppone una visione dell’impresa quale
sistema che interagisce con una serie di stakeholders, ciascuno dei quali è portatore di interessi che devono
essere tutelati. In questo ambito, rientrano tutti gli studi che analizzano, a livello di sistema delle imprese, il
rapporto tra governo delle stesse e insieme delle forze esterne con cui esse interagiscono. (La corporate
governance osserva le regole e il sistema giuridico informale per cui si va a creare una posizione di potere
rispetto ad un’altra e per cui si privilegia una posizione rispetto ad altre.)
Definizioni:
- “Corporate governance deals with the ways in which suppliers of finance to corporations assure
themselves of getting a return on their investment”. (Shleifer e Vishny, 1997).
- “The term Corporate Governance includes the structures, processes, cultures and systems that engender
the successful operation of the organisations”. (Keasey, Thompson e Wright, 1997).Aspetto processuale
e organizzativo dell’impresa, cioè tutte le analisi che riguardano il sistema esterno che vanno ad incidere
sul sistema interno.
- La definizione di Draghi vede il sistema di corporate governance come un bilanciamento tra soggetti e
stakeholders diversi
- Sistema giuridico-formale perché dalle regole dipende la titolarità dell’esercizio del potere.
- Si guarda agli stakeholders che hanno un’influenza sugli organi che esercitano il potere nell’ambito
dell’impresa.

Vincoli posti all’attività di governo


Nell’ambito della concezione allargata di Corporate Governance, è utile partire dai vincoli posti dall’attività
di governo (ossia chi condiziona il soggetto economico). Nei paesi in cui si ha maggiore attenzione nei
confronti di una particolare categoria di stakeholders (azionisti) il mercato finanziario è più avanzato.

Stakeholders
Gli stakeholders possono incidere sugli obiettivi dell’impresa; vengono considerati nella concezione allargata
perché l’impresa intrattiene rapporti con l’esterno e gli stakeholders possono influenzare l’impresa stessa.
Potrebbe esserci più o meno compatibilità tra gli obiettivi dell’impresa e quelli del portatore di interessi.
È possibile suddividere gli stakeholders sulla base di due classificazioni. La prima riguarda il tipo di
coinvolgimento nella vita dell’impresa (diretto o indiretto). Si parla quindi di stakeholders interni o esterni.
Gli stakeholders interni possono essere azionisti (di minoranza o maggioranza), con interessi finanziari o
industriali; dipendenti, management. Gli stakeholders esterni possono essere: imprese implicate in attività
produttive (fornitori di beni o servizi), clienti, imprese concorrenti, soggetti erogatori di capitale di credito
istituzioni (enti locali, Stato, comunità internazionale), associazioni di tutela di interessi specifici.
La seconda classificazione riguarda il grado di influenza sulla gestione aziendale: si parla di stakeholders
primari o stakeholders secondari. Gli stakeholders primari sono soggetti che esercitano una pressione più
diretta ed immediata sulla gestione aziendale: proprietari, management, dipendenti, clienti, fornitori. Gli
stakeholders secondari sono soggetti in grado di influenzare i comportamenti di lungo termine dell’impresa,
potendo incidere, in particolare, sul clima sociale delle relazioni aziendali. Hanno un legame meno rilevante
con l’impresa, nonostante abbiano influenza sull’attività aziendale: società civile, comunità locale, media,
sindacati, gruppi ambientalisti.

Il sistema giuridico-formale è dato dall’insieme di regole che disciplinano l’attività dell’impresa nei diversi
contesti nazionali. In tutte le nazioni viene regolata l’attività economica. Le legislazioni delle varie nazioni
prevedono, infatti, assetti precisi e dettagliate regole che influenzano il governo e il potere delle imprese. Il
governo delle imprese si muove, così, nell’ambito di quadri normativi specifici per ogni sistema Paese.
Esistono però delle differenze tra i diversi paesi: esistono Paesi in cui le regole sono scritte – paesi della Civil
Law – e paesi in cui vi sono delle regole generali ma poi la disciplina dipende dalla giurisprudenza – paesi
della Common Law. Le regole risultano essere diverse così come le sanzioni applicate in caso di errori. Il
sistema delle regole che limita l’esercizio del potere dell’impresa e la tutela di determinate categorie di
stakeholders costituisce un vincolo all’attività. Il soggetto economico deve quindi tenere in considerazione le
regole formali che devono essere applicate e la tutela delle relazioni con gli stakeholders.

La protezione legale dei finanziatori comprende per i creditori una serie di diritti che li proteggono in sede
di fallimento e di procedure di riorganizzazione aziendale; per gli azionisti una serie di norme legate al diritto
societario e fallimentare, leggi sulla regolazione dei mercati, quale quella antitrust, regolamenti interni delle
borse, principi contabili, ecc. Non tutti i Paesi sono dotati della stessa attenzione nei confronti di una
categoria o dell’altra, di conseguenza il livello di protezione legale può variare da paese a paese.
Il livello di protezione legale garantito agli azionisti-risparmiatori e, più in generale, agli investitori influenza
gli equilibri che vengono a formarsi relativamente a diversi profili quali: l’ampiezza e lo sviluppo del mercato
dei capitali; l’accesso alle diverse fonti di finanziamento esterne e le opportunità di investimento; la
concentrazione proprietaria; le politiche dei dividendi; la valutazione delle imprese.

L’impresa nella sua forma societaria è nata per raccogliere capitale, la difesa degli azionisti costituisce quindi
un vincolo giuridico formale all’esercizio dell’attività del soggetto economico. Nella tabella (pagina 23) sono
presenti degli indici che permettono di evidenziare l’attenzione delle imprese nei confronti degli
stakeholders. Una maggiore attenzione agli azionisti significa che il capitale dell’impresa è maggiormente
aperto verso il mercato finanziario.

Modelli di corporate governance


Possiamo identificare dei sistemi nazionali o regionali
che hanno un diverso orientamento rispetto agli
stakeholders rilevanti e sono condizionati da un diverso
sistema giuridico formale. Sulla base dell’intensità del
rapporto con il mercato finanziario e della conseguente
articolazione della struttura proprietaria (aperta o chiusa
su pochi azionisti), sono riconducibili a due modelli
fondamentali. Il modello anglo-americano viene definito
outsider system perché basato su un’attenzione centrale
nei confronti di soggetti, azionisti, mercati finanziari che
risultano essere esterni. I modelli giapponesi, renani,
latini sono definiti insider system, e fanno riferimento alle relazioni come fiducia. Il sistema delle regole tende
a uniformarsi, quindi anche i sistemi insider stanno assumendo dei connotati che li fanno assomigliare di più
al sistema americano, di conseguenza anche nel sistema americano assumono maggiore importanza alcuni
stakeholders (come le banche).

Outsider system
E’ un sistema basato sul mercato, tipico delle culture anglosassoni, come Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda,
Canada. Hanno in comune il fatto di avere un sistema giuridico-formale caratterizzato dalla Common Law;
l’intervento dello Stato e il livello di regolamentazione sono minimi e si limitano a fissare le “regole del gioco”.
Sono dei sistemi basati sul mercato (gli operatori sono quindi orientati ai mercati finanziari); l’orientamento
al mercato è così forte che diventa lo strumento di valutazione dell’operato dei manager. Questi paesi sono
inoltre caratterizzati da una grande importanza dei mercati finanziari, ciò significa che l’impresa si finanzia
prevalentemente dalla raccolta di capitale. Dal punto di vista storico la motivazione deriva dal periodo di
sviluppo industriale degli Stati Uniti, nel quale vennero emanate leggi che prevedevano la raccolta di capitale
sui mercati finanziari. Questi sistemi di governance sono quindi caratterizzati dalla centralità del mercato
finanziario e dalla netta separazione tra proprietà e controllo.

La centralità del mercato finanziario


Nei sistemi outsider i mercati finanziari sono molto sviluppati, essendo dotati di un buon livello di efficienza
e liquidità. Su tali mercati i titoli vengono scambiati con facilità e ad un prezzo che è espressione del loro
valore effettivo (legato alle performance dell’impresa), cioè pari al valore attuale dei cash flow futuri. Il
mercato finanziario costituisce la principale fonte di finanziamento per lo sviluppo delle imprese.
Il mercato finanziario è spinto dai governi in quanto visto come la prioritaria forma di finanziamento allo
sviluppo nazionale. Sono mercati trasparenti per cui l’azione dovrebbe riflettere l’effettiva strategia
dell’impresa; la comunicazione con gli investitori è diretta, non solo nella parte investor relator ma anche con
gli analisti finanziari. Il mercato finanziario agisce anche come meccanismo di controllo esterno sull’operato
del management -> Market for corporate control (Mercato per il controllo societario). Tale mercato può
influire sul comportamento del management in due diversi modi: ex ante (la minaccia di scalata, con
conseguente rimozione del management, porta questi ultimi ad allineare i propri interessi a quelli degli
azionisti); ex post (il management, dopo la scalata, viene sostituito con un team più efficiente). Le imprese
vengono, quindi, monitorate dai mercati in base alla loro capacità di creare valore per gli azionisti attraverso
i prezzi delle azioni e quelle che non raggiungono performance ottimali sono più soggette a tentativi di scalate
(shareholder view).

La separazione tra proprietà e controllo


In questo tipo di sistemi c’è una demarcazione netta tra la proprietà e la direzione, i piccoli azionisti non
hanno nessun tipo di possibilità di incidere sull’operato dei manager. La struttura proprietaria delle imprese
appartenenti ai sistemi outsider risulta poco concentrata, senza soci di riferimento che non intervengono
nella gestione aziendale, la quale è affidata al management (il manager ha in linea teorica la possibilità di
ignorare gli azionisti, ma nella realtà non è così perché il mercato finanziario è molto evoluto).
In questo sistema, infatti, il modello prevalente di grande impresa è rappresentato dalla grande corporation
con azionariato diffuso: la public company. Le public companies sono imprese caratterizzate da una proprietà
frammentata con un elevatissimo numero di azionisti (risparmiatori), che non hanno una quota tale da
esercitare il controllo. Quando la proprietà è inesistente, il controllo è esercitato da un manager
professionista.

Nei mercati dei contesti outsider è presente un gran numero di investitori istituzionali indipendenti (fondi di
investimento, fondi pensione, gestori di portafogli, ecc.), dotati di ampie disponibilità finanziarie, che
conferisce stabilità ai mercati stessi. Essi non sono interessati ad alcun coinvolgimento diretto nella gestione
delle imprese, ma badano esclusivamente al ritorno finanziario dell’investimento in un’ottica di breve
periodo. Le aziende quotate sui mercati di borsa dipendono quindi più da un azionariato itinerante di
investitori istituzionali, che da singoli investitori.

Implicazioni della separazione tra proprietà e controllo


La separazione implica che i manager capaci abbiano la possibilità di gestire l’azienda con efficienza e, nel
momento in cui siano dotati di grande autonomia, possono supportare gli eredi meno capaci. Il manager
governa l’intero capitale dell’impresa e ha maggiore discrezionalità, ma deve stare attento a non esercitare
comportamenti contro chi ha concesso il capitale di credito in quanto la sua autonomia potrebbe essere
ridotta facendo ricorso all’indebitamento. Il manager ha il problema di rendere la propria reputazione
migliore salvaguardando l‘interesse degli investitori; la cattiva attenzione ai mercati finanziari può incentivare
comportamenti diretti al breve termine. C’è un’informazione parziale e incompleta a disposizione dei
finanziatori (asimmetrie informative). Problema dello short termism, derivante da un’esasperata
concentrazione sulle performance a breve, che ostacola i progetti di ampio respiro.

Questa conflittualità di ruoli viene analizzata attraverso una serie di teorie: teoria dell’agenzia, teoria della
stewardship, teoria della dipendenza delle risorse, teoria dei diritti proprietari. Quella più utilizzata è la teoria
dell’agenza, elaborata da Jensen e Meckling nel 1976. Nasce dalla volontà di risolvere il conflitto tra due
parti: si applica alle relazioni in cui un soggetto, denominato “principale” (l’azionista), delega l’utilizzo di
alcune risorse ad un altro soggetto, denominato “agente” (il management), il quale, legato da un accordo di
tipo formale o informale, opera rappresentando gli interessi del principale. Discende dall’applicare i
presupposti di un contratto (il contratto di agenzia) ai rapporti tra proprietà e manager. Il manager viene
visto come un agente, cioè la proprietà dà un contratto di lavoro che presuppone secondo cui l’agente deve
essere in grado di portare avanti gli interessi della proprietà. L’agente ha il dovere fiduciario di agire
nell’interesse del principale: il manager dovrebbe svolgere l’attività di gestione strategica dell’impresa in
nome e per conto dei proprietari. Spesso questi interessi sono confliggenti, i problemi che ne discendono
sono essenzialmente legati all’asimmetria informativa: il manager (agente) conosce tutto, il piccolo azionista
(principale) non ha la capacità di leggere i fattori tecnici, premettendo che la comunicazione sia veritiera. Il
problema di regolare l’asimmetria tra principali (azionisti) e agenti (management) genera dei costi di agenzia.
Si tratta di costi (sopportati dai principali) relativi alla messa a punto e all’applicazione di sistemi di controllo,
monitoraggio e incentivo sull’operato del management, nel tentativo di ridurne il comportamento
opportunistico ed allineare gli interessi di questi a quelli degli azionisti.
Nel governo delle imprese si possono identificare degli strumenti – esterni o interni - atti a ridurre questi
costi.
Strumenti interni: nell’ambito del consiglio di amministrazione possono esserci degli amministratori che non
sono esecutivi e sono indipendenti, non sono azionisti e non hanno un contratto di lavoro con l’azienda. La
presenza di questi amministratori aiuta il controllo interno sull’operato di chi è esecutivo, il cda viene visto
come uno strumento di monitoraggio. E’ stato notato che quando il cda è formato da tante persone, la
capacità di influenza di tutti gli amministratori indipendenti e non esecutivi aumenta (massa critica nel senso
che l’unione di questa categoria fa la forza). Il sistema di incentivazione del management significa ancorare
la retribuzione alle performance aziendali, anche se è meno efficace rispetto a dare ai manager la possibilità
di avere una attuale o futura partecipazione azionaria. Se il manager come premio riceve delle stock options
o delle azioni stesse, i suoi obiettivi arrivano ad allinearsi a quelli degli azionisti, diventando anch’egli
azionista. Grazie al capitale di debito: nel momento in cui l’impresa si fa finanziare da istituti creditizi, deve
dimostrare di avere un buon piano strategico e il manager diventa responsabile di ciò.
Strumenti esterni: il mercato finanziario (market for corporate and control) comporta il rischio di scalata, non
sempre si può verificare, è efficace ex ante come timore. Il mercato reale è il mercato in cui l’impresa esplica
la propria attività aziendale, in cui cerca di ottenere un vantaggio competitivo. Il manager deve tenere dei
comportamenti che siano industrialmente validi dal punto di vista di tenere una quota di mercato, un
vantaggio competitivo, ecc. I manager riescono a spostarsi da una parte all’altra, per cui il manager tiene a
far comprendere di essere un buon manager per avere una quotazione sui mercati per il lavoro, ciò ha a che
fare con reputazione e remunerazione.

Insider systems
Sono sistemi tipici dell’Europa continentale, dei sistemi scandinavi e del Giappone. In tali contesti si persegue
la massimizzazione del valore dell’impresa, piuttosto che la massimizzazione del valore per i soli azionisti. Il
ruolo di chi governa l’impresa è quello di bilanciare i contributi e gli interessi dei vari gruppi di individui che
hanno interesse per l’azienda. E’ un sistema legislativo basato sulla civil law.
Queste imprese presentano un radicamento territoriale e del lavoro (per fattori culturali) più elevato e quindi
chi governa l’impresa deve contemperare una pluralità di interessi. Si ha l’obiettivo di tenere in piedi il lavoro
dell’impresa e di avere un buon management che tenga conto degli stakeholders.
I mercati finanziari sono meno efficienti rispetto ai sistemi outsider, in quanto si presentano meno liquidi e
sviluppati. Le imprese sono tendenzialmente chiuse, hanno generalmente una proprietà concentrata e
stabile nel senso che esistono dei soggetti che detengono una quota di azioni grande che consente di
governare. Gli azionisti di maggioranza, al fine di “chiudere” l’impresa utilizzano una serie di strumenti: azioni
con voto limitato, gruppi di imprese, sindacati di voto o di blocco, incroci azionari, board interlocking.
Le banche assumono un ruolo fondamentale nel finanziamento delle imprese.

Il sistema di tipo renano (germanico) fa riferimento ai sistemi dell’Europa continentale del nord: Germania,
Austria, Paesi Scandinavi. La centralità del mercato finanziario e l’importanza degli stakeholders sono i drivers
principali: le banche e i lavoratori sono attori cruciali nel sistema impresa. Vedono la presenza di pochi grandi
azionisti che hanno una forte influenza sulla gestione aziendale; il ruolo del mercato azionario è meno
rilevante rispetto ai sistemi angloamericani.
Il sistema di tipo renano è caratterizzato da un’importanza elevata delle banche: la banca è stata considerata
come il promotore dello sviluppo industriale. Esso è focalizzato sul modello di banca universale che, oltre alle
funzioni della banca commerciale, può investire in partecipazioni e azioni di imprese industriali. La detenzione
di pacchetti azionari, di cui hanno la possibilità di esercitare il diritto di voto, costituisce proprio la fonte del
potere delle banche. Il rapporto con le imprese è assimilabile ad una partnership, piuttosto che ad una mera
fornitura di capitale di credito. Il rapporto che si instaura tra banca e impresa risulta nella maggioranza dei
casi esclusivo, vengono cioè forniti da una stessa banca tutti i servizi finanziari necessari (“Hausbank”).
Le società per azioni tedesche si caratterizzano per la presenza di tre organi:
- la netta separazione tra le funzioni gestionali svolte dal Vorstand (Consiglio di Amministrazione) e quelle
di controllo affidate all’Aufsichtsrat (Consiglio di Sorveglianza);
- l’assemblea, quale organo degli azionisti, nomina i membri dell’organo di controllo, i quali nominano,
controllano e consigliano il Vorstand;
- la legislazione tedesca presuppone il principio collegiale nei processi decisionali dell’organo
amministrativo;
- l’amministratore delegato è quindi primus inter pares e può dare ordini agli altri membri del Consiglio di
Amministrazione, come avviene per il CEO americano;
- i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di rappresentanza nell’organo di controllo (co-
determinazione). A seconda della dimensione dell’impresa, i dipendenti nominano un terzo (nel caso di
imprese con dipendenti compresi tra 500 e 2.000 unità) o metà dei membri dell’Aufsichtsrat (più di 2.000
dipendenti);
- anche se i finanziatori non hanno diritto ad essere rappresentati nell’organo di controllo, i rappresentanti
delle grandi banche hanno un peso notevole.

Il sistema giapponese è un sistema basato sulle relazioni e sulla rilevanza degli stakeholders (e per alcuni
tratti è simile a quello renano). Nella cultura giapponese, il legame tra azienda e lavoratore non è basato sulla
conflittualità ma sulla collaborazione perché il lavoratore tende a svolgere tutta la propria carriera in una
stessa azienda (poca mobilità), per questo motivo il rapporto è basato sulla fedeltà e il sistema premiante e
la carriera sono legati alle competenze sviluppate. I sindacati sono di tipo aziendale e hanno un ruolo
collaborativo, cioè di suggerimento e di miglioramento delle condizioni di lavoro.
Nonostante il grande sviluppo della Borsa di Tokyo, le banche sono il soggetto prioritario attraverso cui si
accompagna lo sviluppo aziendale; il sistema delle imprese è ancora poco orientato ad essere un sistema
outsider. L’impresa è ancorata ad una main bank, che si occupa di tutti i servizi finanziari, dà direttive per lo
sviluppo aziendale e interviene direttamente in caso di crisi aziendale, arrivando anche a negoziare
direttamente un’operazione straordinaria. Questo sistema appare per alcuni tratti simile a quello renano ma
in quest’ultimo c’è una netta separazione tra il consiglio di gestione e il consiglio di sorveglianza, nel sistema
duale di tipo giapponese invece possono esserci dei soggetti che svolgono entrambi i ruoli.
L’economia giapponese è fondata su dei gruppi, nati dallo smantellamento di colossi industriali diversificati,
che detenevano una quota rilevante dell’economia, chiamati zaibatsu; si sono quindi creati gruppi meno
concentrati ma che ancora detengono quote importanti. Sono organizzati secondo due modalità: da una
parte i keiretsu, costituiti da una coalizione di imprese, cioè società che hanno incroci azionari basati su
partecipazioni di minoranza di imprese facenti parte della coalizione e il cui cuore è rappresentato da una
banca commerciale; dall’altra parte i gruppi gerarchici costituiti da una o più società principali e da una serie
di imprese minori, la società principale è spesso azionista di maggioranza delle imprese sussidiarie.

Il sistema di tipo latino è tipico di Paesi quali Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia (anche il Belgio,
caratterizzato da questo tipo di sistema e che per certi versi è influenzato da questo tipo di orientamento).
Si caratterizza per: la presenza di imprese familiari; la grande frammentazione in cui il 95% delle imprese è
costituito da PMI; questa presenza di azionisti di riferimento legati ad una famiglia (o imprenditore) è un
fattore che va a limitare l’autonomia dei manager (di conseguenza il manager sa di poter essere rimosso); il
sistema legislativo è basato sulla civil law; i mercati borsistici sono meno sviluppati ai sistemi outsider systems
e ciò è legato anche ad un livello inferiore di protezione degli investitori; le banche sono un soggetto
importante perché rappresentato (proprio a fronte di un minore sviluppo di mercati finanziari) una fonte di
finanziamento, non c’è un rapporto con una main bank ma soprattutto le PMI tendono ad avere un gruppo
ristretto di banche; i lavoratori sono soggetti che non entrano nella gestione aziendale e hanno spesso un
rapporto di conflittualità con l’impresa; forte presenza storica dello Stato perché dà le regole ed è ancora
presente nell’ambito di alcune imprese strategiche.

Considerazioni introduttive
• L’attività di governo di un’impresa si esplica prendendo decisioni di varia natura ed importanza, ma le
decisioni che contano ai nostri fini sono le decisioni strategiche;
• Non a caso il tema viene affrontato in un corso di Management Strategico che è appunto focalizzato sul
significato generale delle strategie come scelte volte alla creazione di valore, cui è connesso lo sviluppo
e la sopravvivenza dell’impresa nel lungo termine;
• Esiste quindi un nesso essenziale e imprescindibile tra strategia e assetti di governo dell’impresa; un
nesso che, intuitivamente e sommariamente, ha come implicazione la coerenza tra scelte strategiche e
assetti di governo.
• Senza voler anticipare i contenuti di una problematica assai complessa e a carattere multidisciplinare,
alcuni collegamenti si possono cogliere ricordando che: in sede di formulazione della strategia, la
definizione degli obiettivi deve darsi carico dei rapporti e degli equilibri con gli stakeholders, con scelte
atte a soddisfare le loro aspettative; un profilo che richiama dalla nostra attuale prospettiva di analisi il
ruolo di condizionamento che le forze dell’ambiente esterno (nell’accezione più ampia) sono in grado di
esercitare sulle scelte e sugli assetti di governo dell’impresa
Rimane comunque aperta la domanda circa il soggetto che compie le scelte strategiche; e questa è una
questione centrale della nostra impostazione in quanto introduce il concetto di potere di governo, ovvero
l’individuazione del soggetto cui competono effettivamente le scelte di governo, le fonti e gli strumenti che
legittimano l’esercizio del potere di governo, le logiche le finalità che ispirano l’esercizio di tale potere.

Le problematiche sinteticamente evocate in precedenza forniscono una prospettiva di analisi che riconduce
le questioni degli assetti di governo a due approcci fondamentali:
➢ la C.G. nella concezione allargata, in cui l’attenzione è rivolta in particolare all’incidenza che le forze
dell’ambiente esterno hanno sugli assetti di governo delle imprese.
➢ la C.G. nella concezione ristretta, in cui la questione centrale è il potere di governo e i suoi presupposti,
la natura e il ruolo dei soggetti che esercitano tale potere. La concezione ristretta cerca di analizzare chi
è il soggetto che detiene il potere di governo dell’impresa.

CONCEZIONE RISTRETTA
La concezione ristretta di corporate governance consente di meglio approfondire l’analisi su chi detiene il
potere di governo dell’impresa, passando attraverso il rapporto tra soggetto economico, soggetto giuridico
e forme giuridiche di impresa. Che rapporto esiste, quindi, tra proprietà del capitale apportato nell’impresa
e titolarità del potere di governo, ovvero tra soggetto legittimato dalla forma giuridica dell’impresa e potere
di governo dell’impresa stessa?
Per studiare meglio questo rapporto tra la proprietà del capitale apportato e il potere di governo, dobbiamo
studiare due figure: il soggetto giuridico e il soggetto economico.

Soggetto giuridico
Il soggetto giuridico è rappresentato da persone fisiche o giuridiche che sono formalmente investite dalla
legge del potere di decidere. Il soggetto giuridico è composto da chi, in relazione alla forma giuridica che
regola la vita dell’impresa, costituisce gli organi formalmente investiti dalla legge del potere di decisione.
A tale soggetto viene, infatti, affidato il potere formale di governo di un’impresa attraverso l’attribuzione di
ruoli e responsabilità negli organi direttivi previsti dallo statuto della società (ad esempio, il ruolo di
presidente, amministratore delegato, ecc.). Il soggetto giuridico tende ad essere identificato in relazione agli
obblighi che si assumono in relazione al fatto che nello svolgimento della sua attività mette in atto dei
rapporti contrattuali.

Soggetto economico
Chi è in possesso del potere di determinare l’indirizzo delle politiche di gestione e le strategie di sviluppo di
un’impresa. Il soggetto economico rappresenta il soggetto che possiede l’effettivo potere di governare
un’impresa, cioè di decidere le scelte strategiche.
Esso rappresenta, quindi, la persona (o il gruppo di persone) fisica o giuridica che possiede l’effettivo potere
di governare un’impresa, di decidere cioè le scelte strategiche.
Storicamente, il concetto di soggetto economico, proprio della cultura aziendalistica italiana, viene collegato
alla proprietà del capitale di rischio investito nell’impresa, da cui deriva il potere di controllare il voto delle
assemblee sociali.(Oggi alla figura dell’imprenditore/proprietario si fronteggiano situazioni di grande
frammentazione del capitale di rischio il controllo del quale è possibile senza la maggioranza).
Il potere di governo sostanziale discende anche dal fatto che, specie nel caso della S.p.A., è il soggetto
economico:
-a definire la costituzione, l’articolazione e i compiti degli organi di governo;
-a far nominare nell’assemblea degli azionisti i membri degli organi amministrativi dell’impresa.
Le persone elette, detenendo un potere formale di governo, non hanno tra i compiti effettivi quello di
riformare decisioni che sono già state prese dal SE (nel caso del CdA), né quelle riguardanti il controllo delle
scelte di governo, atteso che il SE predispone procedure di controllo interno (nel caso del Collegio Sindacale).
Attraverso l’instaurazione di rapporti duraturi, questi soggetti svolgono ruoli di rappresentanza, di difesa
degli azionisti, di collegamento con l’ambiente esterno.(In questi casi si coinvolgono persone autorevoli del
mondo finanziario e industriale, della scienza, delle professioni, membri di altri consigli di amministrazione,
rappresentanti di minoranze, che possono fornire informazioni, consulenze, e così via).

Il soggetto economico e il soggetto giuridico possono coincidere a seconda della forma giuridica. Ciò avviene
quando il primo occupa posizioni di potere «formale» (Ad es. amministratore unico, amministratore
delegato). La coincidenza è più o meno elevata in funzione della forma giuridica dell’impresa e in particolare
della tipologia societaria (società di persone-di capitale).
Considerando un’impresa individuale o di piccole dimensioni, c’è una figura (imprenditore) che è sia soggetto
economico che giuridico. Considerando la società per azioni, è essa stessa una forma giuridica che è titolare
di obblighi e diritti nei confronti di terzi, i soggetti economici vanno ricercati tra gli azionisti. In generale
potremmo dire che dove ci sono società di capitali le due figure sono distinte, nelle società di persone le due
figure tendono a coincidere.

Soggetto economico e composizione del capitale aziendale


Nel capitale aziendale dobbiamo distinguere due quote:
- il capitale di comando, costituito dalla quota conferita dal soggetto economico;
- il capitale controllato, che è rappresentato dalla quota conferita dai terzi che non partecipano alla
gestione aziendale. Esso può essere distinto in: partecipazioni di minoranza; altri soci risparmiatori. Per
capire come funziona il meccanismo di governo richiamiamo i rapporti che esistono tra soggetto
economico e giuridico. Nel capitale di rischio dobbiamo distinguere due quote: il capitale di comando,
conferito dal soggetto economico, il resto è capitale controllato apportato da un numero di azionisti ma
che non essendo soggetto economico non partecipano al soggetto dell’impresa. I soci di minoranza sono
soggetti che, pur non detenendo quote di partecipazione tali da garantire il potere di governo
dell’impresa, sono in grado di far valere la propria “voce” nell’ambito degli organi di governo. Essi sono
in grado di stabilire particolari rapporti con il soggetto economico e possono, quindi, influenzare le sue
principali decisioni. La partecipazione di tali soggetti al governo delle imprese si manifesta, in particolare,
in occasione di: aumenti di capitale sociale (assenso preventivo ai fini della collocazione dell’emissione,
modalità di emissione, ecc.); richieste di interventi, attraverso l’acquisto di azioni proprie sul mercato
azionario per contrastare movimenti al ribasso delle quotazioni; operazioni straordinarie o accordi di
mercato; altre forme di collaborazione (scambi di informazioni ed esperienze, consigli, ecc.). I soci
risparmiatori, più facilmente rintracciabili nelle imprese di grandi dimensioni organizzate in forma di
società per azioni, investono, invece, nell’impresa con un’ottica meramente speculativa, come forma di
impiego di risorse finanziarie. In questo caso, le partecipazioni appaiono di dimensioni modeste anche
per permettere un facile smobilizzo in caso di decisioni aziendali che possano far diminuire il valore
dell’impresa. Tali soci finanziatori sanno già al momento dell’acquisto della partecipazione che non
gestiranno la società, ma ciò non rappresenta il loro obiettivo: l’investimento è reso conveniente proprio
dal fatto che altri gestiranno il patrimonio aziendale. Gli investitori istituzionali sono soggetti che
assumono partecipazioni nelle imprese per conto di altri soggetti dei quali gestiscono il portafoglio, senza
prendere posizioni a proprio rischio nelle società di cui sono azionisti. Tali soggetti raccolgono, quindi,
fondi dai sottoscrittori e li investono per conto di questi ultimi. Appartengono a tale categoria: i fondi
pensione, i fondi comuni di investimento, le imprese di assicurazione e altri organismi di investimento
collettivo e di gestione del risparmio.

Nel capitale complessivo di un’impresa si deve, inoltre, distinguere tra:


- capitale proprio, cioè il capitale conferito nell’impresa dal titolare o dai soci;
- capitale di credito, cioè il capitale ottenuto con operazioni di prestito.
Il soggetto economico ha il potere di decidere sull’impiego di tutto il capitale aziendale, sia proprio che di
credito.

Proprietà e governo dell’impresa


Un’altra questione importante che affronta la concezione ristretta di corporate governance riguarda la
posizione che assume la proprietà nei confronti del controllo di un’impresa e nei rapporti con il management.
Secondo il C.C., (art. 832) “il proprietario ha il diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed
esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.
La titolarità del capitale di rischio sembrerebbe, quindi, in prima approssimazione, legittimare la proprietà
all’esercizio del controllo dell’impresa, inteso, in generale, come capacità di indirizzo strategico e di
determinazione delle vie gestionali più idonee al conseguimento dei correlati obiettivi (funzioni del soggetto
economico). La proprietà, però, risulta essere in primo luogo una posizione finanziaria, che dà diritto ad un
reddito in funzione di un investimento a rischio, e solo in secondo luogo una posizione imprenditoriale, che
garantisce un potere sulle attività aziendali.

Dal punto di vista del governo, il proprietario può assumere diversi ruoli all’interno della compagine
aziendale:
•quello dell’imprenditore o dell’azionista di comando che è anche soggetto economico dell’impresa;
•quello dell’azionista di minoranza che può assumere un qualche ruolo all’interno degli organi di governo,
ma non si occupa della gestione;
•quello del piccolo risparmiatore o dell’investitore che opera con un’ottica speculativa, il quale è interessato
all’impresa come mero investimento e non ha interesse né potere a partecipare in alcun modo alla gestione
aziendale.

Tipologie di strutture proprietarie a confronto

La posizione della proprietà è, quindi, differente dal governo


dell’impresa. Essa deve essere distinta dalla funzione
imprenditoriale che è invece propria del soggetto economico,
sia esso proprietario o meno.
La proprietà può però esercitare due tipi di controllo, a seconda della partecipazione o meno al governo
dell’impresa:
- attivo, o ex-ante (la proprietà decide di porsi all’interno dell’organo di governo e influenzare ex ante le
decisioni da questo assunte, in modo da orientare le scelte verso il conseguimento dei propri interessi);
- passivo, o ex-post ( la proprietà decide di non partecipare all’organo di governo, prospettando particolari
relazioni con l’organo stesso, in modo tale da assicurare comunque un controllo ex ante e una verifica ex
post del grado di soddisfacimento dei propri interessi. Il controllo, in questo caso, è esercitato
indirettamente).

Nel caso in cui si ponga al di fuori dell’organo di governo, il ruolo della proprietà può assumere:
- carattere partecipativo, attraverso l’espressione di voto nell’assemblea dei soci;
- carattere correttivo, attraverso l’impugnazione degli atti sociali.
In particolare, nel caso in cui le decisioni prese dal soggetto economico non soddisfino la proprietà, questa
può avere diversi atteggiamenti: passivo, ossia non fare nulla; cedere la propria partecipazione (opzione
“exit”); intervenire nell’assemblea, esercitando il diritto di voto (opzione “voice”).

Tipologie controllo proprietario


Sulla base del controllo proprietario, si possono individuare le seguenti tipologie di imprese:
• imprese a controllo proprietario forte, caratterizzata dalla presenza di una proprietà stabile, coesa e
intenzionata a svolgere un ruolo significativo nel governo dell’impresa;
• imprese a controllo proprietario debole; qui è possibile individuare due fattispecie: una prima
contraddistinta dall’assenza del capitale di comando per l’estremo frazionamento del capitale; una
seconda, caratterizzata dalla presenza nella compagine proprietaria degli investitori istituzionali, in grado
di esercitare una certa influenza sui decisori aziendali.

Management
I manager sono soggetti controllati dal soggetto economico, nel senso che sono da questo scelti e legati
all’impresa da un rapporto di lavoro, con caratteristiche fiduciarie, che prevede ricompense e premi. In
condizioni fisiologiche, tali individui risultano controllati dal soggetto economico.
Esistono diversi gradi o livelli di collaborazione:
top management (funzione direttive di coordinamento e indirizzo. Dal punto di vista della funzione svolta, è
assimilabile e quella del soggetto economico);
middle management (responsabili di un’area funzionale, nella quale hanno il potere di allocare le risorse
necessarie);
esecutivo (rende esecutive le decisioni prese ai livelli superiori).

L’attività del soggetto economico si colloca a livello di top management. I due termini coincidono quanto a
contenuto, ma possono differire nella composizione:
- soggetto economico è tale in quanto detentore del capitale di comando;
- soggetto economico, in quanto vertice del processo di decisione aziendale, può essere costituito anche
da persone legate all’impresa da un rapporto di lavoro.

Configurazioni estreme del top management


I cambiamenti organizzativi che intervengono nel corso della vita di un’azienda possono portare alla
formazione di un vertice decisionale in cui il detentore del capitale di comando non svolge alcuna funzione
direttiva; così come nei managers viene talvolta a concretizzarsi la figura dell’imprenditore (colui che assume
il compito di organizzare nell’impresa tutti i fattori della produzione).
▪ Imprenditore proprietario: gestione diretta dei propri beni organizzati in impresa; ripercussione diretta
ed integrale delle vicende della gestione aziendale sul patrimonio personale; coincidenza tra profitto
aziendale e reddito individuale.
▪ Manager funzionario: separazione tra proprietà e direzione; separazione tra rischio d’impresa e
direzione; le vicende aziendali si ripercuotono sul capitale posseduto dagli azionisti; non coincidenza, ma
qualche correlazione tra profitto d’impresa e remunerazione del manager funzionario.

Forme giuridiche di impresa


L’esercizio del potere di governo nell’impresa è strettamente collegato alla scelta della forma giuridica.
Nell’ordinamento giuridico italiano le principali forme di imprese sono:
✓ Impresa individuale
✓ Società semplice
✓ Società in nome collettivo
✓ Società in accomandita (semplice e per azioni)
✓ Società cooperativa
✓ Società a responsabilità limitata
✓ Società per azioni

La forma giuridica in cui l’impresa è costituita non risponde ad esigenze di tipo organizzativo, ovvero non
rappresenta un modo particolare di strutturare il processo di decisione e quindi il potere dell’impresa, ma è
il risultato di uno dei molti calcoli di convenienza economica che effettua il soggetto economico sulle forme
di finanziamento e sulle modalità di delimitazione del rischio.
Elementi che hanno un’influenza rilevante sulla scelta della forma giuridica: il rischio che il soggetto
economico intende assumere; le modalità di finanziamento (es. le obbligazioni possono essere emesse solo
da società di capitali); motivazioni di ordine fiscale (es. le società di persone prevedono procedure fiscali e
tributarie semplificate. Le società cooperative presentano agevolazioni tributarie); diversi tipi di controllo
pubblico; riservatezza sulle persone che hanno il controllo e nel passaggio di controllo da un soggetto ad un
altro.

Impresa individuale
Esiste un soggetto economico che conferisce il capitale e si assume tutti i rischi: il titolare dell’impresa. Esiste
perfetta identità tra soggetto economico e soggetto giuridico. Se il titolare dell’impresa ha, però, delegato i
propri poteri ad altre persone o non è in grado di esercitarli, tale identità viene a mancare.

Società semplice, in modo collettivo, in accomandita


Più persone conferiscono il capitale e sono disponibili ad assumere illimitatamente e solidalmente il rischio
di impresa. Nella società in accomandita un gruppo di soci che assume una responsabilità illimitata si affianca
a soci la cui responsabilità è limitata al capitale sottoscritto.

Società cooperativa
Il nuovo diritto societario ha distinto le cooperative in due tipologie: a mutualità prevalente (presentano
agevolazioni fiscali, ma devono avere alcuni requisiti: es. attività svolta in prevalenza per i soci, o si avvalgono
prevalentemente dell’attività lavorativa dei soci, ecc.); diverse.
Entrambe le forme cooperative prevedono: la responsabilità limitata (S.p.A., o s.r.l. per le piccole
cooperative); capitale sociale variabile (è sempre possibile far entrare un nuovo socio senza modificare l’atto
costitutivo); ciascun socio può possedere una partecipazione non superiore a 100 mila euro; il principio “una
testa un voto”; non esiste più l’obbligo che tutti gli amministratori siano soci (lo deve essere solo la
maggioranza); l’amministrazione e il controllo seguono le regole delle S.p.A. o s.r.l.

Società per azioni


Forma giuridica in cui i rischi corrispondono all’entità del capitale conferito e il soggetto giuridico è la società
come tale, distinta dai soci. Il capitale conferito dai soci costituisce, quindi, la sola garanzia delle obbligazioni
sociali dell’impresa. Possibile distinzione tra capitale di comando e capitale controllato.
La società per azioni è posta in atto per conseguire due finalità: limitare a un ammontare predeterminato il
capitale su cui cade il rischio dell’impresa; disporre, con l’emissione di azioni e obbligazioni, di una forma di
finanziamento dell’impresa che le altre forma giuridiche non consentono.

Il capitale delle società per azioni è diviso in diverse categorie di azioni, che si differenziano in funzione dei
diritti che attribuiscono ai possessori. Assumendo come criterio distintivo l’attribuzione o meno del diritto di
voto nelle assemblee sociali, le azioni sono riconducibili a due categorie principali: azioni ordinarie o azioni
senza diritto di voto o con diritto di voto limitato nelle assemblee sociali.
Le azioni ordinarie attribuiscono il diritto di: votare nelle assemblee sociali, cioè nella sede in cui, tra l’altro,
si nominano gli amministratori; partecipare alla ripartizione degli utili; concorrere al riparto del capitale
residuo all’atto della liquidazione della società.
Le azioni senza diritto di voto o con diritto di voto limitato nelle assemblee sociali:
-azioni privilegiate. Il privilegio consiste nel dare la precedenza nella ripartizione degli utili e nel rimborso del
capitale all’atto dello scioglimento della società. Al privilegio si contrappone la preclusione nel diritto di voto
nell’assembla ordinaria.
-azioni di risparmio. Conferiscono privilegi in sede di distribuzione dei dividendi, espressi in una percentuale
predefinita rispetto al valore nominale dell’azione. Sono state create nell’ottica di incentivare i risparmiatori
che investono in azioni per motivi di ordine finanziario, e quindi non prevedono il diritto di voto.
-azioni correlate. Attribuiscono dividendi in rapporto agli utili realizzati in specifici settori della società
(autonomia di rendicontazione rispetto all’andamento generale della società).
-azioni postergate. Subiscono una perdita dopo che la stessa abbia inciso sulle altre azioni. (Senza diritto di
voto).
-azioni con diritto di voto limitato a particolari argomenti o al verificarsi di determinate condizioni.
-azioni a favore di prestatori di lavoro. Si tratta di azioni da assegnare individualmente ai dipendenti secondo
modalità definite all’atto dell’emissione (possono essere anche azioni ordinarie).
-azioni di godimento attribuite ai possessori di azioni ordinarie rimborsate (al valore nominale) in occasione
di una riduzione del capitale sociale. Il presupposto è che il valore alla data dell’operazione sia superiore al
valore nominale (senza diritto di voto).
Regole per queste emissioni: emissioni non superiori al 50% del C.S.; divieto di emissioni di azioni a voto
plurimo.

Il controllo di una S.p.A.


Il controllo di una società per azioni è garantito con il possesso della maggioranza assoluta (50% +1) delle
azioni che costituiscono il capitale sociale, ovvero della maggioranza assoluta dell’Assemblea dei Soci che
provvede alla nomina degli amministratori. Nella realtà, però, si osserva che non sempre il capitale di
comando è costituito dal 50% + 1, ma talvolta raggiunge valori di molto inferiori alla maggioranza assoluta.
Esistono delle tecniche attraverso le quali è possibile pervenire al controllo di una S.p.A. con un capitale
inferiore alla maggioranza assoluta:
- emissione di azioni prive del diritto di voto o a voto limitato. L’ordinamento giuridico italiano prevede
diverse tipologie di azioni a voto limitato. La restrizione di voto può riguardare solo l’assemblea ordinaria
o anche quella straordinaria. Esse risultano particolarmente appetibili per quei risparmiatori guidati da
logiche speculativo-finanziarie e quindi poco interessati all’esercizio del potere di governo aziendale.
Nella legislazione italiana si ammettono azioni privilegiate nella ripartizione degli utili e del capitale sino
al 50% del capitale sociale. In tal caso, sfruttando al massimo l’utilizzo di queste tipologie di azioni, il
controllo di una S.p.A. si può ottenere con il 25% del capitale sociale.
- frazionamento del capitale sociale. Laddove il capitale sociale risulti disperso o particolarmente
frazionato (come accade ad esempio nel caso della public company), il controllo di un’impresa può di
fatto essere esercitato attraverso quote di capitale a volte anche irrisorie. In tali tipologie di imprese, la
maggior parte degli azionisti sono azionisti risparmiatori, disinteressati alla gestione della società e,
quindi, al diritto di voto. Il grado di assenteismo nelle assemblee sociali è pertanto molto elevato e tali
organi deliberano solitamente con maggioranze di molto inferiori alla maggioranza assoluta.
- sindacato di voto o di blocco. Accordi, in qualunque forma stipulati, con cui due o più azionisti vincolano
la gestione dell’impresa o il trasferimento delle proprie partecipazioni alle direttive e orientamenti
stabiliti dalla direzione del sindacato. Questi accordi vengono solitamente sottoscritti da azionisti
rilevanti, che non detengono però singolarmente le quote di partecipazione necessarie per diventare il
soggetto economico dell’impresa, al fine di pervenire al controllo dell’impresa. In questo caso, il soggetto
economico della società si identifica con la direzione del sindacato. Nella pratica si possono riscontrare
numerosi tipi di patti parasociali, riconducibili, però, a due tipologie principali: i patti che hanno per
oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle S.p.A. o nelle società che le controllano (sindacati di voto); i
patti che pongono anche limiti al trasferimento delle azioni delle S.p.A. o delle partecipazioni in società
che le controllano (sindacati di blocco). Esiste, però, un problema di dialettica interna al sindacato per
conseguire il controllo della S.p.A.
- costituzione di società finanziarie. Creazione di una società finanziaria a cui vengono cedute le azioni
della società di cui si vuole mantenere il controllo. Questa finanzia l’acquisto della partecipazione di
comando collocando sul mercato la quota delle azioni che non servono per mantenere il controllo.
L’abbassamento della quota di capitale necessaria per controllare una società si definisce “effetto leva
azionaria”. L’investimento da parte della società finanziaria nella società di cui si vuole acquisire il
controllo può essere finanziato anche con capitale di credito. Ciò determina una “leva creditizia” che
abbassa il fabbisogno di capitale necessario per detenere il controllo.
Il meccanismo con cui opera la società finanziaria segue sostanzialmente questi passaggi: il soggetto
economico, che controlla una società X, cede la propria quota di comando in X ad una società finanziaria
F, la quale finanzia l’acquisto di tale pacchetto attraverso il collocamento sul mercato della quota di azioni
non necessaria a mantenere il controllo. Il soggetto economico, quindi, controllando solo il capitale di
comando di F può di fatto controllare anche la società X. Tale meccanismo può essere replicato
costituendo altre società finanziarie, le quali collocano a loro volta sul mercato le partecipazioni che non
servono al controllo delle imprese. [Guardare slide 55, 56, 57, 58]

Conflitti di interesse nelle S.p.A.


Se soggetto economico e azionisti di minoranza hanno diverse finalità possono crearsi conflitti di interessi. I
profitti rappresentano una fonte indispensabile di finanziamento della crescita aziendale e, quindi, la loro
formazione è rilevante per entrambi i soggetti. Capitale di comando e capitale controllato, però, possono
entrare in conflitto quando giunge il momento di stabilire i criteri con cui il reddito viene determinato e la
sua spartizione.
In una società per azioni, la diversità delle motivazioni presenti nel soggetto economico e nei restanti azionisti
può dar luogo alla formazione di conflitti di interesse:

- in sede di determinazione del reddito. Presso gli azionisti di minoranza vi è una tendenza a chiedere che,
nelle fasi in cui prezzi e volume delle vendite sono elevati, vengano corrisposti redditi conseguentemente
elevati. Il gruppo di comando, invece, è più durevolmente interessato nell’azienda ed è orientato a
rilevare utili al saggio medio risultante da un alternarsi di esercizi favorevoli e sfavorevoli. Fra i motivi di
divergenza tra interessi del capitale di comando e del capitale controllato vi è certamente una non
coerente considerazione dei costi dell’impianto e di altri importanti costi non monetari come gli
accantonamenti a fondi rischi su titoli, crediti, ecc.
- in sede di ripartizione (distribuzione) del reddito. Il conflitto nasce in sede di determinazione della quota
da attribuirsi a riserva e di quella da versarsi agli aventi diritto. Il gruppo di comando potrebbe, infatti,
ritenere preferibile limitare la distribuzione dei profitti e dar largo sviluppo all’autofinanziamento
mediante ampie attribuzioni a riserva. Un’azionista di minoranza, invece, potrebbe ritenere preferibile
ripartire la totalità dell’utile conseguito.
Struttura e funzionamento degli organi societari
La concezione ristretta di corporate governance presuppone anche un’attenta definizione della struttura,
del ruolo e del funzionamento degli organi societari di un’impresa. Gli organi di governo riconosciuti dal
diritto societario italiano fino al dicembre 2003 (nel caso di una Società per Azioni) sono costituiti da:
- assemblea degli azionisti. Nella prospettiva giuridico formale, il momento più importante del governo di
un’impresa è costituito dall’assemblea degli azionisti o dei soci. L’assemblea può essere ordinaria o
straordinaria. Nell’assemblea ordinaria si delibera su: approvazione del bilancio; nomina e revoca degli
amministratori; nomina dei sindaci e, se previsto, del soggetto al quale è demandato il controllo
contabile; determinazione del compenso di amministratori e sindaci, se non stabilito dallo statuto;
materie attinenti alla gestione della società previste dall’atto costitutivo o proposte all’esame dal C.d.A.
Nell’assemblea straordinaria si delibera su: modificazioni dello statuto; nomina, sostituzione e poteri dei
liquidatori. Tale assemblea è regolarmente costituita con l’intervento di tanti soci che rappresentino
almeno la metà del capitale sociale, escluse le azioni senza diritto di voto e delibera a maggioranza
assoluta, salvo che lo statuto richieda una maggioranza più elevata. L’assemblea è convocata dagli
amministratori o dai sindaci in loro vece.
- consiglio di amministrazione. Agli amministratori è affidata la gestione dell’impresa: essi hanno potere
decisionale su tutte le materie connesse all’amministrazione della società e hanno il compito di
organizzare, pianificare e programmare l’attività di impresa; hanno, inoltre, potere di rappresentanza nei
confronti di terzi; il CdA opera collegialmente ed i membri sono responsabili solidalmente. Se lo statuto
o l’assemblea lo consentono, il CdA può delegare proprie funzioni ad un comitato esecutivo composto
da alcuni dei suoi membri.
- collegio sindacale. Il collegio sindacale si compone di tre o cinque membri, soci o non soci. Esso svolge la
funzione di controllo nell’interesse della società, dei soci e dei terzi. In sintesi, esso deve: controllare
l’amministrazione della società (in particolare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e
contabile); vigilare sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo; accertare la regolare tenuta della
contabilità sociale (dopo la riforma del diritto societario, questo compito è stato attribuito ad una società
di revisione o ad un revisore iscritto all’albo); procedere alla convocazione dell’assemblea quando gli
amministratori siano impossibilitati; riferire all’assemblea annuale sui risultati dell’esercizio.
i quali costituiscono il modello tradizionale nel nuovo diritto societario.

Dopo aver individuato il ruolo formale, trattiamo il ruolo sostanziale di questi organi.
- L’assemblea degli azionisti, nella maggioranza dei casi è un organo poco attivo, che viene utilizzato solo
per una serie di compiti formali, quali l’approvazione del bilancio. Nelle imprese con una elevata
frammentazione del capitale sociale, questo organo delibera con maggioranze irrisorie.
- Il CdA detiene nella maggioranza dei casi una funzione di ratifica delle decisioni già assunte dagli
esponenti del gruppo di controllo e dalla direzione generale; il Comitato Esecutivo in numerosi casi
assorbe le funzioni fondamentali del CdA; il CdA rappresenta quasi esclusivamente gli azionisti di
maggioranza; è sostanzialmente assente l’attivazione di organi del CdA dedicati a specifiche funzioni (es.
Comitato per il controllo interno, comitato per la remunerazione, Comitato per le nomine); la presenza
di Consiglieri effettivamente indipendenti è molto limitata.
- Collegio sindacale: Esiste, nella maggioranza dei casi, sovrapposizione di ruolo tra collegio sindacale e
società di revisione; spesso le informazioni che occorrono al fine di operare un’azione di controllo
efficace, non rientrano tra quelle a disposizione del Collegio sindacale; scarsa indipendenza dei sindaci.

Gli organi di governo e il nuovo diritto societario


La riforma del diritto societario ha introdotto la possibilità, per le S.p.A., di scegliere tra tre diversi modelli di
governo societario:
-sistema tradizionale, con un organo amministrativo monocratico o collegiale (consiglio di amministrazione)
e un collegio sindacale.
-sistema dualistico, di derivazione franco-tedesca, che prevede la presenza di un consiglio di gestione e un
consiglio di sorveglianza. Tale modello prevede la presenza di: un consiglio di gestione; un consiglio di
sorveglianza. Il consiglio di gestione ha il compito di amministrare la società e deve essere composto da un
numero di componenti non inferiore a due. Il consiglio di sorveglianza, che viene nominato dall’assemblea
dei soci, è, invece, l’organo deputato al controllo sull’amministrazione e si compone di un numero di
componenti non inferiore a tre. Ad esso vengono attribuiti i compiti propri del collegio sindacale tradizionale,
a cui si aggiungono alcune funzioni proprie dell’assemblea dei soci, quali l’approvazione del bilancio, la
nomina e la revoca dei consiglieri di gestione, l’azione di responsabilità sociale nei loro confronti. Il controllo
contabile è esercitato da una società di revisione o da un revisore, a seconda che la società faccia ricorso o
meno al mercato del capitale di rischio. In questo modello, l’assemblea ordinaria dei soci ha il compito di:
nominare e revocare i consiglieri di sorveglianza; determinare il loro compenso; deliberare sulla
responsabilità dei consiglieri di sorveglianza; deliberare sulla distribuzione degli utili; nominare il revisore o
la società di revisione.
-sistema monistico, di derivazione anglosassone, che prevede un consiglio di amministrazione che, al suo
interno, istituisce un comitato per il controllo sulla gestione. Tale modello prevede: un consiglio di
amministrazione; un comitato per il controllo sulla gestione, costituito al suo interno. Al consiglio di
amministrazione spetta la gestione societaria. Almeno un terzo dei componenti deve essere in possesso dei
requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci. Il comitato per il controllo ha, invece, gli stessi compiti affidati
al collegio sindacale. Esso dovrebbe essere composto in maggioranza da consiglieri indipendenti. La legge
indica che il comitato sia composto da amministratori che hanno il requisito di onorabilità e professionalità
stabiliti dallo statuto, a cui sono state attribuite deleghe o particolari cariche e comunque non svolgano
funzioni attinenti alla gestione della società. Il controllo contabile spetta ad una società di revisione o ad un
revisore.

Le imprese possono scegliere alternativamente uno dei modelli previsti nell’ambito dello statuto.
Il modello tradizionale rimane comunque centrale, in quanto in mancanza di una specifica deroga statutaria
a favore di uno degli altri due modelli, questo è direttamente applicabile.

Critiche alla riforma societaria


Il nostro sistema è sempre stato fondato su una netta separazione tra funzione di gestione e funzione di
controllo. Con la previsione dei due nuovi modelli, si assiste, invece, ad un annacquamento e possibile
commistione dei ruoli e delle funzioni:
-nel modello dualistico, i sorveglianti assumono anche alcuni non secondari compiti di amministrazione in
precedenza spettanti all’assemblea. Il dualistico fa riferimento al caso franco-tedesco, che prevede all’interno
del consiglio di sorveglianza una partecipazione dei dipendenti e assegna a tale organo alcune funzioni di
amministrazione. Il nuovo ordinamento, invece, non prevede alcuna partecipazione dei dipendenti, né
tantomeno degli azionisti di minoranza e non assegna a tale organo alcuna funzione di alta direzione o
amministrazione.
-nel modello monistico, gli amministratori assumono anche le vesti di controllanti. Il sistema monistico fa
riferimento al board statunitense, ma quest’ultimo non è propriamente un organo di gestione, quanto
piuttosto di consulenza e controllo sull’operato del management. Il comitato per il controllo sulla gestione,
invece, dovrebbe essere composto esclusivamente da consiglieri indipendenti. Il nuovo ordinamento
assegna, invece, a quest’organo le funzioni di gestione e non assegna, almeno direttamente, compiti
particolari agli amministratori indipendenti.

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