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Il museo nella storia Maria

Teresa Fiorio
Arte
Università degli Studi di Firenze
71 pag.

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M.T. FIORIO: IL MUSEO NELLA STORIA. DALLO STUDIOLO ALLA RACCOLTA
PUBBLICA

Museografia: termine che compare per la prima volta nel 1727 nel titolo del volume di Caspar
Friedrich Neickel, mercante di Amburgo che si propone di censire le principali raccolte europee
d’arte e di “rarità”; era l’inizio dell’Età dei Lumi, quando si veniva affermando l’idea che le grandi
collezioni avessero finalità di pubblica educazione, ma ancora non si era compiuto il passo verso
l’istituzione di musei accessibili a tutti. Neickel distingue le varie tipologie di raccolta ed individua
le classi di Naturalia ed Artificialia; nel suo trattato si possono intravedere concezioni del museo che
sono tuttora attuali, come il ruolo didattico del museo, la necessità di un catalogo, di pareti chiare,
di luce diffusa in modo uniforme. La museologia ancora non è stata definita precisamente ma si può
dire che ha a che fare con il logos e privilegia gli aspetti teorici del museo e della sua storia, delle
sue finalità, del suo ruolo; la museografia invece riguarda l’aspetto pratico, quindi le tecniche
espositive, le soluzioni illuminotecniche, il sistema di comunicazione, i problemi di sicurezza (tutto
ciò che riguarda il corretto funzionamento del museo). La museologia dà un ordine concettuale agli
oggetti mentre la museografia aiuta il museologo a tradurre fisicamente l’ordinamento, collocando
gli oggetti nello spazio. È una disciplina recente che viene insegnata nelle università a partire dagli
anni ’70 e si sviluppa in seguito alla nascita del museo moderno/pubblico, che nasce nel ‘700 grazie
al pensiero illuminista come luogo in cui le opere acquistano un nuovo significato: divengono
strumento di conoscenza. Dal ‘700 nasce una riflessione sul significato del museo per la società. Il
museologo sceglie il percorso di visita, seleziona le opere e sceglie come accostarle, che contenuti
comunicare; il museografo realizza poi concretamente questi progetti. L’esposizione museale
avviene tramite l’ordinamento degli oggetti. Il museo parla tramite l’esposizione (l’ordinamento
non è mai casuale).
La parola musaeum deriva dal termine greco mouseion (tempietto, sacrario, luogo delle Muse: figlie
di Mnemosine, divinità preposta alla memoria di un popolo); nella cultura greca indicava santuari
dedicati alle Muse, dove si cominciava a sviluppare il legame tra luogo sacro e cultura, e venne
utilizzato da Strabone per definire un ambiente porticato nella Biblioteca d’Alessandria d’Egitto
(creata da Tolomeo I nel IV sec) dove si riuniva una comunità di dotti e di filosofi a replica del
modello di cultura ateniese, ma dove non venivano esposte opere d’arte: al di là del nome quindi
non ci sono affinità con il museo moderno. Vi venivano probabilmente esposti oggetti, mentre
nell’antica Roma l’arte veniva perlopiù esposta all’interno dei templi. La parola museo viene
recuperata nell’Italia rinascimentale, dove si assiste al recupero di modelli collezionistici del mondo
antico; il termine veniva usato per indicare ambienti dove si svolgeva un’attività intellettuale, sotto
l’egida di Apollo e delle Muse.
Vasari nelle sue Vite usa questa parola per descrivere una fondamentale collezione: la villa di Paolo
Giovio sul lago di Como. Giovio aveva costruito una villa sul modello delle antiche ville romane e
aveva creato un museo con le immagini dei viri illustri, una raccolta di ritratti molto imitata (anche
Cosimo la prese a modello per la Gioviana, i ritratti nella fascia sotto alle volte degli Uffizi).
L’ICOM, organismo fondato nel 1946 con lo scopo di coordinare i musei di tutto il mondo, da varie
definizioni di museo:
1948: La “parola” museo comprende tutte le collezioni aperte al pubblico di oggetti artistici, tecnici,
scientifici, storici o archeologici, ivi compresi gli zoo o gli orti botanici, ma ad esclusione delle
biblioteche, eccetto quelle dotate di sale dedicate ad esposizioni permanenti.
Statuto Icom 1951, articolo 2: La parola museo designa tutte le istituzioni permanenti, amministrate
nell’interesse generale allo scopo di conservare, studiare, valorizzare attraverso diverse modalità ed
essenzialmente esporre per il diletto e l’educazione del pubblico un insieme di elementi di valore
culturale: collezioni di oggetti artistici, storici, scientifici e tecnici, giardini botanici e zoologici,
acquari…
Anche Franco Russoli, uno dei più importanti museologi italiani, cerca di dare una spiegazione di
museo (1956): Il museo non può essere unico e uguale ovunque, secondo generali principi
standardizzati, ma, nel rispetto di regole tecniche riconosciute le migliori dallo studio scientifico dei

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problemi di conservazione degli oggetti, deve assumere di volta in volta il carattere che il suo
patrimonio e che la sua storia esigono. Come un dipinto può richiedere un restauro pittorico anche
integrativo (non si tratterà mai però di rifacimenti), ed un altro invece un restauro soltanto
conservativo delle parti assolutamente integre, così un museo potrà essere del tutto ispirato a criteri
di presentazione ambientale nuda e funzionale, ed un altro avrà invece bisogno di rispettare un
tradizionale ambiente.
L’ICOM diede una definizione definitiva di museo nel 1975: “Il museo è un’istituzione permanente,
senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che compie
ricerche sulle testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le
comunica e soprattutto le espone a fini di studio, di educazione e di diletto”. Si parla di istituzione,
ossia di un organismo cui si riconosce carattere di ufficialità; tale organismo è permanente e non
persegue il profitto, il suo scopo è contribuire alla crescita culturale della collettività. Le sue
funzioni sono l’acquisizione (incremento e arricchimento delle collezioni), l’esposizione delle
raccolte, la loro conservazione, nonché la comunicazione dei loro contenuti.
Le collezioni sono dette “testimonianze materiali dell’umanità e dell’ambiente”, punto allargato
dall’assemblea generale dell’ICOM del 2004, quando si è proposto di affiancare alle testimonianze
materiali quelle immateriali (danze, canti popolari, dialetti...).
L’ecomuseo, così chiamato dai museologi Hugues de Varine e Georges Henri Rivière, ha come
centro d’interesse il rapporto uomo-natura, si pone come luogo dei saperi delle comunità locali e
come testimonianza dei valori ambientali, secondo un’idea nata in Francia negli anni ’60 al fine di
salvaguardare la cultura rurale, fortemente minacciata dai radicali cambiamenti sociali ed
economici.
La museologie selon Georges Henri Rivière, anni ’80: primo testo sulla museologia. Rivière fu il
primo direttore dell’ICOM nonché il primo teorico della forma museale dell’ecomuseo. Era un
etnografo. Tenne le prime lezioni di museologia all’école du Louvre.
Rivière risistemò l’ordinamento del Trocadero e creò il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, uno
dei modelli della museologia contemporanea: museo che recupera gli oggetti della civiltà contadina
per salvarli, in quanto la civiltà contadina sta scomparendo. Adotta percorsi differenziati: uno per gli
studiosi ed uno per il grande pubblico.
Per la prima volta si dedica un museo ad oggetti senza valore estetico-artistico; oggetti comuni che,
attraverso la musealizzazione, perdono il contesto originale ed acquistano nuovo valore e nuovi
significati: diventano semiofori.
Coniuga museologia etica, in quanto espone gli oggetti dei ceti più bassi, con museologia estetica,
in quanto espone in maniera gradevole gli oggetti.

La locuzione “beni culturali” risale alla convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di
conflitto armato, firmata nel ’54 a l’Aia; abbraccia un ambito molto vasto, che include “i beni
mobili e immobili di grande importanza, le località archeologiche, le opere d’arte, i libri, le
collezioni scientifiche”; uno spettro molto più ampio rispetto alle “cose di interesse storico-artistico-
archeologico”, oggetto della prima legge italiana di tutela emanata nel ’39, la cosiddetta legge
Bottai, rimasta in vigore fino alla formulazione del decreto legislativo n. 490 del ’99. È un termine
molto ampio, che abbraccia tutto ciò che ha valore di civiltà.
1975: istituzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (nel 1998 trasformato in Ministero
per i Beni e le Attività Culturali).
La Commissione di studio Franceschini, istituita dal Parlamento italiano nel ’64 e presieduta da
Francesco Franceschini con lo scopo di verificare lo stato dei beni culturali italiani e allo scopo di
censire il patrimonio archeologico, artistico e paesistico(viene denunciato il degrado e dichiarata la
necessità di interventi urgenti) ha indicato il bene culturale come “testimonianza materiale avente
valore di civiltà”. Tale commissione produsse quattro volumi, dedicati a tutto il patrimonio, ma con
una sezione dedicata al museo.

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1. Dallo studiolo alle grandi collezioni principesche

Il gusto della collezione è di origine antica, ma ci sono vari tipi di raccolta, e vari atteggiamenti nei
loro confronti es. le offerte votive nei templi avevano valore sacrale, mentre i bottini di guerra
esaltavano la potenza del vincitore. È il riconoscimento del valore estetico degli oggetti raccolti,
svincolato da motivi di culto e da dimostrazioni di potenza, l’elemento distintivo del collezionismo
che si pone alla base del museo moderno. In un collezionismo consapevole, anche in antichità, non
era mai casuale la disposizione e la sequenza degli oggetti. Anche se la storia del collezionismo
classico e medievale presenta grandi lacune si possono citare alcuni esempi:
-Suger: abate cistercense al quale si deve la ricostruzione dell’abbazia di S. Denis, sepolcro dei re di
Francia e depositaria di un ricchissimo tesoro. Suger esaltava nei suoi scritti il possesso di oggetti
preziosi, in contrasto alla condanna per l’attaccamento ai beni terrieri portata avanti dalla Chiesa;
per Suger nella bellezza delle opere d’arte risplendeva la grandezza divina. La posizione di Suger
risalta come un unicum nel panorama del collezionismo medievale, in quando la Chiesa avocava a
sé ogni iniziative e le raccolte di arte sacra (ma anche di animali imbalsamati, pietre rare ecc. in una
commistione di naturalia e artificialia anticipatrice delle Wunderkammern) dovevano essere
ammirate per i loro poteri miracolosi e non per il loro valore artistico. Era raro l’apprezzamento
dell'antichità al di là di finalità strumentali; se ne vedono rari esempi con la renovatio carolingia
(VIII-IX sec) e alla corte di Federico II, che si sentiva erede dell’Impero romano e vedeva la
classicità come valore da riscoprire (seppur con valenza fortemente politica). -1335: il notaio
trevigiano Oliviero Forzetta stila un promemoria (uno dei primi documenti relativi ad una
collezione italiana,) informandoci sulla sua biblioteca e sul commercio di opere d’arte a Venezia,
con tanto di nomi di mercanti, intermediari ed artisti.
Tra il Tre e Quattrocento comincia a diffondersi l’idea di un luogo concepito per gli studi e per
l’attività intellettuale ma anche per la conservazione delle opere d’arte: l’esempio su cui modellare
la propria vita è il mondo classico. Si tratta di un luogo concepito per la riflessione, dove vengono
collocati strumenti di studio e materiali che, in quanto testimonianza dell’antichità, favoriscono il
dialogo con il passato: nasce lo studiolo, dove bronzetti, gemme, monete, piccole sculture servono a
creare un ponte con il passato. Questi oggetti diventano semiofori, portatori di significato.
Tra i primi a possedere gli studioli vi sono quindi gli umanisti.
Anche gli artisti collezionano, ma non per motivi evocativo-filologici come gli umanisti, bensì gli
oggetti antichi sono fonte d’ispirazione e stimolo alla creatività.
Uno dei primissimi studioli di cui siamo a conoscenza è quello di un importante umanista:
-Studiolo di Petrarca, Arquà: dalle testimonianze sappiamo che raccoglieva in primis libri, ma
anche medaglie, monete, oggetti con le effigi degli antichi; avevano valore in quanto testimonianze
dell’antichità.
Una fonte importante per capire come erano organizzati ed esposti gli oggetti-semiofori negli
studioli è il quadro di Carpaccio, “visione di Sant’Agostino”: su uno scaffale si vedono delle figure
in bronzo; era normale per gli umanisti ospitare oggetti, oltre ai libri. Rappresenta un perfetto
esempio di studiolo.
Con l’Umanesimo, ma in particolare nel Rinascimento, lo studiolo viene pensato ufficialmente per
ospitare le collezioni. Viene considerato quindi il primo ambiente collezionistico: gli oggetti non
venivano collocati a caso ma vi era un allestimento pensato e studiato che si basava su criteri
estetici.
Ben presto infatti lo studiolo si trasferisce nelle corti data la vicinanza degli umanisti ai signori delle
corti: gli umanisti diventano figure importanti a corte, sempre al fianco dei signori, con i quali
instaurano un rapporto importante e collaboreranno insieme alla creazione e all’allestimento degli
studioli. Era quasi sempre posto in collegamento con le camere da letto dei signori e con le cappelle
private. Gli oggetti raccolti hanno per il collezionista, così come lo era stato per umanisti, un valore
importante in quanto portatori di significati e messaggi.
Negli studioli dialogavano le diverse arti e le diverse tecniche artistiche. Erano piccoli, caratteristica
che permarrà nel ‘400, ‘500, e non avevano finestre; erano concepiti come camere del tesoro in cui

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venivano esposti piccoli oggetti, una sorta di “microcosmo” in cui vi era un forte legame tra
contenente e contenuto. Nel corso del ‘500 poi il collezionismo comincerà ad arricchirsi: non solo
monete o medaglie ma anche curiosità naturali e piccoli dipinti, anche se allo stesso tempo vedremo
come gli studioli cominceranno a perdere la loro importanza.
Gli studioli delle grandi dinastie nobiliari sono funzionali ad esaltare la personalità del committente
tramite un programma iconografico affidato ad artisti di prima grandezza. Es:

1) Lionello d’Este: studiolo nella residenza estiva di Belfiore a Ferrara (distrutto nel Seicento)
iniziato attorno al 1447 e poi portato avanti da Borso d’Este. L’educatore di Lionello fu Guarino da
Verona, che consigliò Lionello su cosa mettere nel suo studiolo: tipica unione tra committente e
umanista-iconografo. In una lettera Guarino consiglia a Lionello di decorare lo studiolo con la
rappresentazione delle Muse; Guarino crea in quest’ambiente un Museion, nuovo tempio delle
muse: i quadri delle nove Muse che decoravano le pareti (probabilmente posti sulla fascia mediana
delle pareti) si identificavano con le virtù e il buon governo del marchese; alcune delle Muse
avevano un legame con il mondo dell’agricoltura (es. simboli della vendemmia, del grano):
indicavano il fatto che Lionello dava al suo popolo abbondanza e prosperità, inoltre
simboleggiavano la coltivazione di arte e cultura. Nella fascia bassa delle pareti c’erano tarsie
lignee.
2) Federico da Montefeltro: nel Palazzo Ducale di Urbino (1473-1476) si trova uno studiolo
decorato con una doppia fascia di ritratti di uomini illustri antichi e contemporanei (tema che godrà
di larga fortuna nel corso del Rinascimento), dipinti da Giusto di Gand e da Pedro Berruguete,
mentre nelle tarsie di Giuliano da Maiano e Baccio Pontelli su disegno di F.D.Martini vengono
raffigurati libri ed armature, strumenti scientifici e musicali, a completare l’immagine del
committente come uomo di studi e valoroso condottiero (divenne ricco grazie alle sue azioni di
condottiero). È caratterizzato da una decorazione preziosa, situato accanto alla camera del Duca,
alla cappella e al tempietto delle muse. Urbino, con Federico, diventa un luogo culturalmente
rilevante (era un grande mecenate). Lavorarono nello studiolo artisti toscani e fiamminghi.
Questo non era l’unico studiolo che Federico da Montefeltro possedeva: ne era presente uno anche
nella sua residenza a Gubbio (risale al 1479-82): non esiste più in loco, ma le tarsie di Giuliano da
Maiano sono arrivate al Metropolitan Museum di New York, ricreando l’ambiente originale. I
dipinti raffiguravano le Muse, sedute in trono (come a Ferrara).
3) Medici: raccolta iniziata da Cosimo, incrementata da Piero “il Gottoso” ma soprattutto da
Lorenzo. Nel Palazzo Medici esistevano più studioli, ma solo uno di essi aveva funzioni
collezionistiche. Lo scrittoio (a Firenze si usa il termine scrittoio piuttosto che studiolo),
probabilmente creato da Piero, era di forma rettangolare, voltato a botte (spesso lo studiolo
riproduceva la forma di uno scrigno). Non esiste più ma grazie all’inventario del 1492 sappiamo che
lo studiolo era collocato nella zona più appartata del palazzo di via Larga e la volta era decorata con
dodici tondi di Luca della Robbia raffiguranti i Mesi (quando i Riccardi comprarono il Palazzo le
terracotte vennero staccate ed utilizzate per decorare una fontana. Oggi si trovano al Victoria and
Albert Museum). Tra i vari dipinti religiosi ed oggetti sacri si trovavano materiali profani tra i quali
una raccolta di gemme, cammei, pietre incise (provenienti in gran parte dalla raccolta di papa Paolo
II), oltre a bronzetti, monete, carte geografiche, codici miniati (gusto collezionistico molto aperto),
messi su scaffali posti sulle pareti decorate con probabile rivestimento di tarsie prospettiche. La
collezione si distribuiva anche all’esterno: nei cortili, dove le sculture antiche si confrontavano con
quelle moderne, nel giardino (rapporto arte-natura) e nel giardino di San Marco, dove (come
racconta il Vasari) Lorenzo il Magnifico aveva formato una scuola per giovani artisti cui in cui le
sculture dovevano servire come materiale di studio: comincia a profilarsi il ruolo didattico della
collezione, che troverà una prima conferma nella creazione dell’Accademia delle Arti e del Disegno
istituita dal granduca Cosimo I.
4) Isabella d’Este, palazzo ducale a Mantova(unica donna rinascimentale a possedere uno
studiolo): l’avvio della collezione avviene alla fine del Quattrocento (1479), quando Isabella invia i
suoi agenti in tutta Italia alla ricerca di “cose antique”. I suoi consiglieri furono gli umanisti di corte

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Mario Equicola e Paride da Cesarea. Nel suo studiolo sono presenti pitture allegoriche (il cui
soggetto è attribuito ad Isabella stessa): il Parnaso e la Minerva che scaccia i vizi dal giardino della
virtù del Mantegna, Lotta tra amore e castità del Perugino e la Favola del dio Como di Lorenzo
Costa. La tela con il Parnaso (del Mantegna) rimandava al sapere letterario, mentre agli altri dipinti
era affidato un messaggio morale (allusione alle doti della marchesa e al buon governo dei
Gonzaga). Oggi le tele si trovano al Louvre, a causa della dispersione della collezione nel 1627. Lo
studiolo era collegato alla “grotta”, novità di questo studiolo: un ambiente sottostante derivato
dall’antichità classica che accoglieva parte della collezione (nel Rinascimento per grotta si indica a
volte un ambiente interno dedicato alla raccolta di opere d’arte). Quando le raccolte divennero
troppo ampie Isabella le trasferì nella “corte vecchia” del Palazzo Ducale (1522) : erano presenti un
loggiato, la “camara granda” affrescata da Lorenzo Leonbruno, il giardino segreto, lo studiolo, i
camerini e la grotta. Ogni ambiente aveva una sua funzione (i camerini e lo studiolo ospitavano
oggetti di piccole dimensioni, nel giardino segreto e nella loggia si trovavano le sculture più grandi
in nicchie, nella camera granda, detta anche Scalcheria, opere e oggetti più grandi e nella grotta il
nucleo più consistente della raccolta) e in questo proposito di disposizione razionale (allestimento)
si riconosce nello studiolo di Isabella un antecedente del museo moderno. Come già a Firenze,
inoltre, la collezione usciva dallo studiolo per esibirsi ad un maggior numero di illustri visitatori.
5) Francesco de’ Medici, Palazzo Vecchio: è uno degli ultimi studioli, che risale al 1570-1573
(quando in Francia, Roma, Mantova comincia già a farsi strada la galleria); Francesco I è noto come
“il principe dello studiolo”: lo studiolo è stato riallestito nei primi anni del ‘900; il sovrintendente di
Firenze si rese conto che l’ambiente, rimasto privo di decorazioni, era lo studiolo di Francesco I e i
dipinti vennero ritrovati e rimontati. Nella parte inferiore delle pareti ci sono dei dipinti, che in
realtà fungono da sportelli di armadi. Dalle raffigurazioni dei dipinti si può capire cosa si trovasse
all’interno degli armadi corrispondenti. Nella fascia superiore si ha una decorazione ad affresco e
stucco. Fu Vasari il regista dell’operazione artistica nello studiolo. Francesco I si interessava di
alchimia: nello studiolo viene rappresentato in una scena in una vetreria (Giovanni Stradano, La
Vetreria); aveva a corte dei lavoratori con i quali sperimentava la lavorazione dei vari materiali.

Le collezioni dinastiche in questi anni si stanno ingrandendo: i principi hanno bisogno di ambienti
più grandi per ospitare le collezioni, non più destinate alla visione di pochi eletti ma ad un pubblico
più ampio in quanto sono l’espressione del prestigio e della ricchezza del collezionista: arriverà
dalla Francia il modello della galleria, che prenderà il posto dello studiolo.

A Roma il collezionismo era orientato verso l’antichità; collezionavano i papi, i cardinali, l’alta
aristocrazia. Fu a Roma che, davanti allo spoglio dei monumenti antichi e agli scavi anche
clandestini, si fece strada una nuova coscienza della necessità di tutelare il patrimonio archeologico.
Nel 1516 Raffaello viene nominato da papa Leone X ispettore generale delle belle arti (si
comprende la necessità di un personaggio dalle competenze specifiche per esercitare un’azione di
tutela): deve rilevare gli edifici classici ed eseguire una pianta di Roma. Pochi anni dopo, in una
lettera al papa, Raffaello denuncia gli scempi perpetrati ai danni della città, nonostante il tentativo
di limitarli tramite la legislazione.
Ci furono delle prime leggi volte alla salvaguardia dei resti classici e al loro restauro es. Martino V
Colonna: bolla Etsi de cunctarum (1425): si parla di sacrilegio per chi avesse offeso le antichità e
si istituisce la commissione dei magistri viarum con l’incarico di tutelare gli edifici classici. Nel
1526 papa Pio II Piccolomini emana la bolla Cum alman nostra urbem, che imponeva il divieto
di manomettere resti antichi. Nel 1574 invece Gregorio XIII emana la bolla Quae pubblice utilia,
he istituiva il vincolo sui beni privati. Queste leggi non furono sempre efficaci ma saranno alla base
della storia che porta alla formulazione della più moderna legge di tutela dell’Italia preunitaria
(1820: Editto del cardinale Pacca).
1471: Sisto IV dona al popolo romano quattro sculture in bronzo (la Lupa, lo Spinario, il Camillo e
la testa di Costantino con la mano e il globo), fino ad allora situate davanti a San Giovanni in
Laterano: riconosce il popolo come legittimo depositario delle opere; nella lapide si parla di

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“restituzione” e non di dono. Voleva rendere i cittadini più consapevoli della loro storia antica. Si
afferma il principio della pubblica fruizione delle opere d’arte, che in questo caso vengono
collocate all'esterno del Palazzo dei Conservatori, alla vista di tutti; la restituzione di Sisto IV
costituisce l’atto di nascita delle collezioni capitoline, anche se i Musei Capitolini vengono
inaugurati solo nel 1734.

Collezioni romane (fonte importante: Delle Statue antiche, che per tutta Roma, in diversi luoghi, e
case si veggono, 1550, del naturalista bolognese Ulisse Aldovrandi):
1) Giuliano Cesarini: nel 1500 il prelato con un’epigrafe dedica la propria dieta statuaria
(collezione di sculture) ai suoi coincittadini. Il termine dieta è mutuato da Plinio ed indica una
raccolta che probabilmente si collocava all’esterno, nel giardino della villa del cardinale. È nuovo il
concetto di partecipazione condivisa al godimento estetico, nonché l’idea di superare i limiti dello
studio per portare la collezione in un ambiente esterno (via seguita dai grandi collezionisti romani).
2) Giulio II: nel 1505 affida al Bramante il progetto di collegare i palazzi vaticani e il Casino del
Belvedere, inglobando la villa fatta edificare da Innocenzo VIII nel 1485 (si realizza il cosiddetto
cortile del Belvedere). A ridosso della villa, in una piccola corte (“cortile delle statue”) vengono
ospitati i pezzi più rilevanti delle collezioni papali, tra alberi di arancio (evocando il giardino delle
Esperidi), riproponendo il confronto arte-natura sperimentato nel giardino si San Marco. Erano
pochi a poter ammirare il cortile.
3) Andrea della Valle: era uno dei più rinomati collezionisti romani. Il Vasari ci informa
dell’intervento del Lorenzetto nell’allestimento della collezione del cardinale, che voleva disporre le
sue antichità in tutto il palazzo, e necessitava di uno specialista per realizzare al meglio la
presentazione delle opere (così come accade per l’allestimento nel rapporto tra museologo e
museografo). Le “anticaglie”, nell’hortus pensilis del cardinale, erano scalate su più ordini (statuaria
monumentale, clipei e bassorilievi, sculture a tuttotondo), e un’iscrizione dichiarava che erano
aperte al godimento dei concittadini.
4) Collezione Cesi, villa del Prelato (possediamo anche diverse testimonianze iconografiche): la
“passeggiata archeologica” si snoda lungo viali fiancheggiati da sculture monumentali che
scandiscono le varie partizioni del giardino, suddiviso in varie zone cui si accede passando
attraverso archi trionfali (come sale di un museo all’aperto). Culmine della visita era l’Antiquarium,
costruzione a croce greca dove si trovava il nucleo più pregiato della statuaria antica. Innovazione:
alcune sculture erano appoggiate su basi girevoli in modo da poterle contemplare da ogni punto di
vista. Risulta importate la concentrazione dei capolavori della raccolta in un luogo distinto (si
sottolinea attraverso l’allestimento una gerarchia). La collezione proseguiva all’interno della
residenza nello studio, nella loggia e nella postcamera.
5) Ferdinando dei Medici: aveva messo insieme un’ingente raccolta di marmi antichi ma anche di
dipinti moderni, bronzetti, oggetti scientifici... Tramite un inventario del 1588 possiamo ricostruire
la disposizione delle opere nella residenza di Villa Medici a Trinità dei Monti: sul prospetto della
villa verso il giardino erano incastonati fregi e bassorilievi (era comune utilizzare cortili e facciata
come piani espositivi). La grande novità di Villa Medici era la galleria (completata nel 1584) che si
protendeva nel giardino, collegata alla residenza ma riservata esclusivamente alla statuaria antica.

La Galleria:

La galleria viene considerata un grande protomuseo. Le radici della galleria sitrovano nel mondo
antico, nei Propilei dell’antica Atene (fonte: Pausania); nell’acropoli si avevano dei loggiati dalla
forma allungata nei quali venivano esposte pitture, che già avevano acquisito un valore estetico:
primo esempio di esposizione artistica.Quindi inizialmente la galleria era un loggiato con una parte
aperta verso l’esterno ed un muro sul quale venivano esposti I quadri. Questo modo di esporre i
quadri si ritroverà a Roma.

Fonti: Filostrato Maggiore: parla di una casa con un portico risplendente di marmi e di quadri.

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Vitruvio: ci parla delle Ambulationes, lunghi portici coperti e luoghi ideali per esporre grandi
pitture (gli spazi allungati permettono di passeggiare osservando e discutendo). La galleria è un
luogo ideale dal punto di vista fisico ma anche per la sua funzionalità, in quanto permette un
ordinamento ottimale, grazie alla possibilità di inserire molte opere in successione.
C’è anche un rapporto con il paesaggio: camminare per le gallerie permetteva spesso di poter
ammirare il paesaggio.
Lo studioso tedesco Prinz illustra l’origine della galleria, recuperando le fonti cinquecentesce, dalle
quali si apprende che nel ‘500 si pensava che la galleria avesse avuto origine in Francia. Pare
dunque che la galleria si riaffermi in Francia (ma anche a Bruxelles) a fine ‘400-inizi ‘500. Anche
le prime gallerie francesi (come gli studioli) erano spesso collegate alle cappelle.
Sono presenti diversi dipinti fiamminghi nei quali sono raffigurate gallerie, come quelli dei fratelli
Francken.
Bruges, Borgogna: corte di Filippo il Buono: “galleria del Prinsenhof”, 1446-49. Era una galleria
ad L e aveva come scopo quello di collegare i vari corpi del palazzo e forse anche funzione
espositiva, dato che la corte d Borgogna era tra le più ricche e sfarzose in Europa.
Gaillon, 1510: un diplomatico italiano ci menziona una galleria nel castello con statue
Galleria di Francesco I a Fontainebleau: 1528-30: è considerata il massimo punto di arrivo della
galleria francese. Fonte importante: Benvenuto Cellini, la Vita (1530-40): l’oratore e scultore fu al
servizio di Francesco I e ci menziona la galleria (è il primo a utilizzare questo termine, cercando di
dare una spiegazione al lettore, anche se non sa darci una spiegazione precisa “questo si era una
loggia, o si veramente un androne”). Importante per la galleria fu l’apporto italiano: vi lavorarono il
Primaticcio e Rosso Fiorentino che porteranno il linguaggio manieristico italiano in tutta Europa.
Non è decorata a quadri, sono finti quadri; vi sono affreschi arricchiti dalle cornici in stucco del
Primaticcio.
La galleria aveva una funzione espositiva; al suo interno furono esposte statue di bronzo dai calchi
realizzati dal Primaticcio sulle sculture del giardino del Belvedere in Vaticano. La potenza di un
sovrano si manifestava anche tramite la ricchezza delle collezioni. Le collezioni erano soprattutto di
antichità classica: avere sculture antiche significava porsi come nuovi imperatori romani. E’ una
delle prime grandi rappresentazioni di gallerie.
Italia:
In Italia nel ‘400 e nel ‘500 il modella della galleria coincide inizialmente con la loggia, derivante
dagli esempi antichi, che avevano un lato aperto.
Quando la tradizione italiana delle logge incontra quella francese della galleria chiusa nasce la
galleria moderna: l’Italia apporta la concezione della galleria come luogo espositivo (poggia
sull’eredità del pensiero antico e delle antiche logge). Le gallerie italiane, diversamente da quelle
francesi, si pongono fin dall’inizio come luoghi espositivi, con specifica funzione espositiva. Questo
anche perché in Italia si aveva un’architettura di residenza a pianta centrale, a blocco unico mentre
nella tradizione fiamminga e francese i corpi di fabbrica erano separati e quindi le gallerie avevano
inizialmente funzione di raccordo. In Italia esistevano semplicemente delle logge, concepite come
luogo dove esporre le antichità.
Logge vaticane, palazzo apostolico: affrescate da Raffaello e dalla sua scuola, nascono come luogo
dove esporre le antichità. Francesco Albertino: in un opuscolo delle meraviglie nuove ed antiche di
Roma (in latino) parla delle Logge come di luoghi ornati di pittura e di scultura.
Marcantonio Michiel (1519): ci informa che il papa pose nella loggia molte statue che teneva
segrete. Nella seconda loggia del Vaticano infatti il papa fece esporre le sculture antiche che
custodiva nella guardaroba (luogo di conservazione di tutto ciò che serviva all’arredamento di
palazzo); inizia un’esposizione più pubblica delle opere d’arte. La seconda loggia vaticana è la
prima galleria di statue in Italia.
Galleria di Palazzo Farnese: presenza di affreschi, stucchi e nicchie con statue antiche; più
importante collezione di arte antica dopo quella papale, all’epoca.
Gonzaga: erano grandissimi creatori di gallerie. Con la signoria dei Gonzaga vengono anticipate le
soluzioni ambientali che verrano riprese dia Medici: chiudere la loggia con vetrate per trasformarla

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in una galleria.
-Galleria dei Mesi, poi dei Marmi, 1572: è la prima galleria mantovana, voluta da Guglielmo
Gonzaga i quanto era arrivato in Italia il modello francese e i signori volevano aggiornarsi: avere
una galleria significava essere moderno. Il progetto fu affidato all’architetto Giovanni Battista
Bertani. Si rifaceva ai modelli francesi ma era molto più corta, in quanto fece chiudere la loggia con
delle vetrate, non è una costruzione ex novo. Vi erano le raffigurazioni dei mesi e le costellazioni,
ma quando vi farà esporre l’arte antica cambierà il nome in galleria dei Marmi.
-Galleria della Mostra (o galleria grande): prima vera e propria galleria. Siamo a fine anni 70.
Voluta anche questa da Guglielmo, si affacciava sul cortile dove venivano mostrati i cavalli
gonzaghesci, ed era più grande rispetto alla prima galleria dei marmi. Vincenzo I, figlio di
Guglielmo e grande collezionista, continuerà l’opera paterna sulla galleria (1592-95), affidando i
lavori a Giuseppe Dattari e Antn Maria Viani e mutando un po l’aspetto originario (che
comprendeva un ambiente di forma poligonale chiamato Zoìlera, con oggetti di piccole dimensioni,
simile a uno studiolo): diventerà molto più lunga e più simile a quelle francesi (assume le
dimensioni pressoché di Fontainebleau). Ora le due gallerie, dei Marmi e della Mostra, andavano a
formare un unico complesso. Erano esposte pitture e sculture antiche e armadi a muro con piccole
antichità.
-Galleria degli antichi, Sabbioneta (1583-84): voluta da Vespasiano Gonzaga, da un ramo
collaterale della dinastia. Vespasiano possedeva a Sabbioneta (città fortificata idealizzata) due
palazzi: palazzo ducale e palazzo del giardino, destinato all’ozio, edificato nel 78. Fece costruire la
galleria all’esterno del palazzo ed era molto influenzata dal modello francese. Era libera su tre lati e
sul quarto si addossava a palazzo ducale. Abbiamo tre livelli di allestimento: ritratti di uomini
illustri, corna di cervi, sculture antiche.
Firenze:
Uno dei passaggi più importanti per la storia dei musei nasce a Firenze, quando Francesco I decide
di trasferire negli spazi degli Uffizi le collezioni che Cosimo aveva riunito nella Sala delle Carte
Geografiche di Palazzo Vecchio: nel 1581 Francesco scrive una lettera al fratello Ferdinando
(cardinale a Roma), scrivendogli che ha deciso di chiudere la parte superiore degli Uffizi (una
loggia) e di farne una galleria, perché vuole collocarvi le opere d’arte antica che non trovavano più
una collocazione ordinata. Gli Uffizi segnano il passaggio dallo studiolo alla galleria. Quindi
Francesco I allestisce con opere d’arte la Galleria degli Uffizi contemporaneamente alla
realizzazione della galleria di Villa Medici da parte di Ferdinando I. Nel 1540 Cosimo aveva
abbandonato Palazzo Medici-Riccardi e si era stabilito a Palazzo Vecchio (forte operazione
propagandistica), facendo poi realizzare dal Vasari un edificio altamente funzionale: un ambiente
dove poter staccare gli uffici (svolti fino ad allora a Palazzo Vecchio). L’area tra Palazzo Vecchio e
l’Arno era in quel momento degradata, povera.
Vasari progettò anche la galleria vasariana, che collega gli Uffizi con Palazzo Pitti.
Gli uffici si trasformano in un organismo dedicato all'esposizione delle collezioni dinastiche, al fine
di celebrare l’assolutismo mediceo. Fa chiudere con dei vetri il “primo corridore” e vi fa trasportare
statue antiche, ma anche contemporanee. Vengono messi a confronto l’antico e il moderno. Vi fa
portare la gioviana: la serie di uomini illustri fatti collocare da Cosimo I nella Sala del
Mappamondo, mentre al di sotto si trovano i ritratti della famiglia medicea, la serie aulica. La
Galleria diviene il luogo più rappresentativo della dinastia medicea (luogo di ricevimento ufficiale).
Si tratta di un ambiente interamente decorato, ampio e luminoso (diversamente dallo studiolo).
Il culmine del progetto fu la Tribuna ottagonale aperta dal Buontalenti ed inaugurata nel 1584,
dove si dispiegava il meglio della collezione. Mentre le gallerie erano riservate alle statue e nelle
sale adiacenti si trovavano nuclei collezionisti omogenei, nella Tribuna si trovavano statue, dipinti,
oggetti naturalistici, bronzetti ed oggetti d’arte, posti su palchetti d’ebano e su piedistalli, accessibili
al pubblico (ci si comincia a porre la questione del pubblico). Era una sorta di studiolo allargato,
che diversamente dallo studiolo ha tuttavia finestre e luce, dove vennero trasportati gli oggetti dallo
studiolo. Johann Zoffany, La Tribuna degli Uffizi (1776): per secoli la Tribuna divenne uno dei
luoghi più artisticamente importante dell’intera Europa; era il punto più importante della collezione,

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con gli oggetti ritenuti più importanti; Zoffany introduce nella sua raffigurazione anche opere d’arte
non presenti (rappresentazione di un museo ideale). La Tribuna era composta in basso da uno
zoccolo, che rappresentava l’acqua, mentre in alto si trovava una scaffalatura con piccoli oggetti
(probabilmente prelevati dallo studiolo). Nella fascia mediana si trovano i quadri, su una
tappezzeria rossa, a raffigurazione del fuoco. La lanterna che corona la cupola raffigura l’aria.
L’esistenza di un museo stimolava una maggiore attenzione alla salvaguardia del patrimonio
artistico: nel 1602 una deliberazione di Ferdinando I proibiva il commercio delle opere dei pittori
fiorentini più celebri.
Galleria dell’Antiquarium di Alberto V di Baviera a Monaco (1569-1571): fu consulente l’orefice
e mercante veneziano Jacopo Strada (collezionista egli stesso), mentre il curatore della collezione fu
il medico belga Samuel Quiccheberg, che scrisse il primo trattato di museografia (1565:
Inscriptiones vel tituli teathri amplissimi); il trattato suggerisce una metodologia per la costituzione
di una raccolta “universale” (comprensiva di tutto lo scibile) tramite un sistema di classificazione
ripartito in cinque classi (storia sacra, oggetti d’arte, naturalia, strumenti musicali e oggetti esotici,
dipinti e incisioni) che rispondono al fine didattico di rendere la collezione più comprensibile.
La galleria si difffonde in tutta europa e avrà molta fortuna nelle Fiandre. In area fiamminga si
aveva la produzione di dipinti con raffigurazioni di gallerie di quadri che mescolavano il reale e
l’ideale.
Via via che ci si inoltra nel ‘600 la galleria subisce un’ulteriore trasformazione.
Inizia l’allestimento ad incrostazione: i dipinti arrivano a coprire ogni superficie della parete. Uno
degli ambienti in cui nasce questo tipo di allestimento è la Tribuna degli Uffizi. Si tratta delle
cosiddette “quadrerie barocche”, che avranno grande successo anche per tutto il ‘700, soprattutto in
Italia e in Germania, dove nascono ambienti fastosi, la cui visita era concessa a persone qualificate.
Il criterio era soprattutto di tipo estetico, scelto dal collezionista. Intorno a quadri più grandi
venivano collocati quelli più piccoli per creare una simmetria di misure. Bisognava rappresentare
tutti i generi della pittura (inizi ‘600: rivalutazione dei generi).
I quadri non avevano un ordine razionale, che invece verrà introdotto nel ‘700 con la creazione del
museo pubblico, che comincia ad adottare un criterio (es. Cronologico, per Scuole) a scopo
istruttivo.
Il mercato artistico a metà ‘700 aveva enorme sviluppo: nasce il fenomeno del Grand Tour; viaggio
di istruzione e di collezionismo.
Galleria Colonna, Roma: galleria barocca, che rappresenta la sintesi finale: galleria lunga ma
larga, decorata sul soffitto con grandi finestre, con presenza di quadri, di statuaria antica e
mescolamento di elementi francesi (specchi, lampadari).

Anche a Venezia come a Firenze nasce, a fine secolo, una sorta di primo museo pubblico, grazie al
collezionismo dei Grimani:

-Domenico Grimani: inizia la sua collezione a Roma, con alcuni pezzi rinvenuti sul Quirinale nel
corso degli scavi condotti nella vigna dove il cardinale stava edificando il proprio palazzo. Alla
collezione di antichità si affiancava una raccolta di dipinti moderni, di cammei, medaglie e pietre
incise ed una delle maggiori biblioteche del tempo (vi spiccava l'intera libreria di Pico della
Mirandola e il Breviario Grimani, capolavoro della miniature fiamminga di inizi Quattrocento). Con
un testamento del 16 agosto 1523, Domenico Grimani destina alla Repubblica di Venezia vari
dipinti, il Breviario e i marmi della sua collezione, con l’esplicito proposito di costituire un museo
pubblico. Inizialmente le sculture vennero collocata in Palazzo Ducale, nella Sala delle teste.

-Giovanni Grimani: patriarca di Aquileia e protettore di artisti come Palladio, continua l’opera
dello zio e dona la sua collezione di marmi alla Repubblica, nel 1587. Come si usava all’epoca,
molte sculture (in gran parte greche, del periodo classico) erano state integrate nelle parti mancanti.
Le due raccolte, riunite, vennero denominate Statuario Pubblico e collocate nell’antisala della
Libreria di San Marco, con un allestimento affidato a Vincenzo Scamozzi ma seguito da Giovanni

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Grimani (collaborazione collezionista-architetto), del quale abbiamo testimonianza grazie ad un
inventario redatto da Anton Maria Zanetti nel 1736. Lo Statuario Pubblico apre ufficialmente il 19
agosto nel 1596 (Grimani era morto nel 1593), smantellato nel 1812, fu trasferito in Palazzo Ducale
e infine riallestito nel 1920 come nucleo centrale del Museo Archeologico nelle Procuratie Nuove.

Paolo Giovio realizza invece una collezione esclusivamente accessibile ad illustri visitatori. Tra il
1536 e il 1543 nella sua villa di Borgonico (sulle rive del lago di Como) rievoca la Comoedia (villa
che Plinio il Giovane possedeva negli stessi luoghi). La costruzione aveva come centro un cortile
nei cui portici si distribuivano gli oggetti d’arte posseduti dal Giovio; ad esso si affiancava un
salone decorato con le figure di Apollo e delle Muse che ospitava il nucleo caratterizzante della
raccolta; per questo ambiente Giovio usa il termine Museo, che viene utilizzato quindi per la prima
volta per designare un luogo deputato all’esposizione di opere d’arte. La principale collezione del
museo era costituita da alcune centinaia di ritratti di uomini illustri, ciascuno dei quali illustrato da
un elogium compilato dallo stesso Giovio; alla base della raccolta c’era il modello delle Vite di
Plutarco (la storia vista come l’insieme delle vite di personaggi eccezionali): idea che incontrò
grandissimo successo e venne più volte emulata.

Non meno diffusi delle raccolte artistiche erano i cabinets scientifici e le raccolte naturalistiche,
come quella che Ulisse Aldovrandi destina nel 1603 al Senato dell’Università di Bologna,
specificando nel testamento che lo scopo del dono era “che le mie fatiche vengano continuate dopo
la mia morte, per l’onore e l’utile della mia città”: si comincia a delineare il concetto della pubblica
utilità (principio fondante del museo illuminista).
L’Ashmolean Museum di Oxford è considerato il primo museo pubblico europeo. Il suo primo
nucleo fu la raccolta naturalistica che Elias Ashmole aveva ereditato dal botanico John Tradescant e
che venne donato alla sua morte (con altri oggetti da lui raccolti) all’Università di Oxford, con la
precisa clausola che venisse aperta al pubblico.

Nel 1609 Federico Borromeo inaugura a Milano la Biblioteca Ambrosiana, una delle prime
raccolte librarie aperte al pubblico e non riservate esclusivamente ad un’élite privilegiata. La sua
fondazione prevedeva anche l’istituzione della prima accademia milanese e di una pinacoteca,
grazie alla donazione del cardinale, nel 1618, della sua raccolta di dipinti, stampe, disegni e
sculture, descritta dal cardinale stesso nel libro Musaeum (1625). La Pinacoteca, alla quale fu
dedicata una costruzione apposita (completata nel 1631), aveva come scopo quello di offrirsi come
pubblica esposizione ma anche di fornire uno strumento didattico agli allievi dell’Accademia del
Disegno (aperta nel 1620).

In Italia, per proteggere le raccolte nobiliari dalla dispersione, esisteva fin dal Seicento il vincolo del
fedecommesso (l’obbligo di trasmettere intatto il patrimonio secondo la linea successoria del
maggiorasco), che sarà poi soppresso definitivamente solo con il Codice Civile dell’Italia
postunitaria, nel 1865. In realtà nel XVIII secolo avvenivano massicce trasmigrazioni di opere
italiane nelle collezioni di molti principi stranieri, e spesso costituiranno il nucleo fondante di
importanti musei europei.

2. I musei dell’Illuminismo

A partire dai primi anni del ‘700 entra per la prima volta a far parte della vita museale il problema
del pubblico. Come portato del pensiero illuminista nasce l’idea del museo come luogo utile alla
società per apprendere e per migliorare se stessi; comincia ad affermarsi la visione didattica del
museo e questo porta a rivedere le strategie espositive: l’esposizione dev’essere chiara e deve
servire a comprendere meglio i contenuti del museo. I musei del ‘700 si pongono il problema di
come mostrare le opere affinché servano anche come oggetti di studio.
Le novità museali si sviluppano soprattutto nei musei d’antichità e si troveranno in seguito in

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Germania anche nei musei artistici.
Diderot nell’Encyclopédie sancisce il ruolo del museo: “le collezioni divengono per le arti e per la
nazione delle scuole, nelle quali gli amatori possono apprendere nozioni, gli artisti fare utili
osservazioni ed il pubblico ricevere alcune prime idee giuste”.
Per la prima volta si usa la parola scuola per le collezioni: il museo assume un valore didattico,
dev’essere uno strumento di insegnamento.
Ci sono diverse tipologie di pubblico: gli amatori, gli artisti (stretto legame tra accademia e museo)
ed un pubblico più generale.
Christian Von Hagendorn (1762): “Un museo completo dovrebbe essere una storia dell’arte
parlante”. Le opere nei musei non devono essere mute/incomprensibili. Devono parlare al pubblico.
In Europa-Italia esisteva una comunità di eruditi, la Repubblica delle Lettere, una repubblica ideale
che leggeva gli stessi libri, le stesse riviste (spesso in francese). Si ha una grande circolazione di
idee.

Italia
Musei capitolini: Il primo Museo Capitolino nasce dal nucleo di una donazione di bronzi antichi da
parte di Sisto IV, che nel 1471 li prelevò dal Laterano, dove si trovavano e vennero poste fuori dal
Palazzo dei Conservatori alla vista di tutti. Il papa si pone per la prima volta il problema di rendere
a Roma dei pezzi fondativi della città, dato che vuole rendere i cittadini più consapevole della loro
storia antica. La donazione di Sisto IV costituisce quindi l’atto di nascita dei musei capitolini, anche
se verrano istituiti e resi pubblici quasi tre secoli dopo, grazie a Clemente XII.
Clemente XII vuole mettere le quattro opere donate da Sisto IV (1° nucleo della collezione) nel
palazzo nuovo sede del primo museo capitolino per manifestare lo splendore di Roma appresso le
nazioni straniere, dato che Roma era diventata un gran terreno da cava di opere di arte antica, si
facevano scavi clandestini, si rubavano opere d’arte. Questa emorragia spinse il papa ad impedire
l’esportazione delle statue antiche con l’Editto del cardinale Annibale Albani (1733), inoltre lo
stesso pontefice acquistò parte della collezione che il cardinale Alessandro Albani, il più grande
collezionista di antichità a Roma che si era indebitato a forza di comprare opere d’arte, intendeva
alienare (2° nucleo della collezione): si fa strada la coscienza dell’importanza del patrimonio per la
cultura di un popolo. Il papa vuole rendere queste opere pubbliche per coltivare gli studiosi delle
arti liberali (il museo sarà strettamente collegato all’Accademia).

1733: con il chirografo di Clemente XII palazzo Nuovi, davanti al primo Museo Capitolino, viene
adibito ad ospitare questo nucleo di 400 sculture, donato alle collezioni capitoline: nasceva la prima
raccolta pubblica di antichità, inaugurata nel 1734. Il papa incaricò un fiorentino funzionario in
Vaticano, Alessandro Gregorio Capponi, di allestire ed ordinare i Musei Capitolini (nel modo in cui
si vede oggi). La raccolta è ordinata secondo nuclei tematici (Sala degli Imperatori, Sala dei
Filosofi...) e attorno ai capolavori (Sala del Fauno, Sala del Gladiatore...). La disposizione originaria
delle opere è tutt’oggi sostanzialmente rispettata (come si può vedere anche dai cataloghi del
museo, i primi dei quali emersero tra 1741 e 1745). Il museo ha un allestimento al contempo
moderno e tradizionale.
Elemento di grande importanza: luminosità e chiarezza delle pareti; assume grande importanza la
luce, che illumina le opere affinché possano essere viste e studiate nel miglior modo possibile. C’è
un alleggerimento delle pareti.
Innovativo per l’esposizione in serie: si costruiscono dei grandi banconi (idea della vicinanza con
l’occhio dello spettatore).
Con l’Editto Albani spunta il principio della pubblica utilità, principio che nell’Età dei Lumi
coincide con la presa di coscienza del valore sociale del patrimonio artistico. In Italia, prima che
altrove, le opere d’arte vengono considerate come bene di Stato, e quindi bene dei cittadini.
Lo studio della statuaria antica era un elemento fondante della formazione degli artisti; per questo
sempre nel 1734 fu istituita l’Accademia Capitolina, e nel 1749 Benedetto XIV istituì la
Pinacoteca Capitolina, grazie all’acquisto delle collezioni di dipinti del marchese Sacchetti e del

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principe Pio da Carpi. Si affermava il nesso tra museo e accademia, poi rinsaldato nei musei
ottocenteschi.

Verona: nasce un museo di chiara matrice illuminista, ossia non più accostamento delle cose più
disparate (come nella Kunsterkammer) ma bensì divisione dei materiali ed esposizione specialistica.
Già nel 1704 Leonhard Cristoph Sturm (teorico dell’architettura) pubblica la pianta di un museo
ideale, dove i vari ambienti sono dedicati ciascuno ad una particolare tipologia di oggetti (antichità,
oggetti artistici, oggetti di storia naturale).
Il Museo Lapidario di Verona (aperto nel 1746) risponde a questo concetto: è un museo
specialistico interamente dedicato all’esposizione di epigrafi (museo di genere). L’artefice fu il
marchese Scipione Maffei che nella Notizia del nuovo Museo d’iscrizioni in Verona (1720) indica i
principi teorici alla base del progetto: numismatica ed epigrafia (“antichità parlanti”) sono un
prezioso supporto della ricerca storica quindi non ci si può accontentare delle trascrizioni (spesso
infarcite di errori); vanno istituiti musei pubblici dove le epigrafi possano essere messe a
disposizione della comunità scientifica. Nasce quindi con ruolo didattico. Si pone il problema del
falso: solo se si studiano direttamente gli oggetti si può capire quali siano quelli autentici e quelli
falsi; il museo permette di fare tali confronti. Il museo concepito da Maffei, progettato da
Alessandro Pompei, è costituito da un porticato con colonne ioniche che circonda su tre lati un
cortile (ambiente di gusto classicheggiante, che si accordava con l’antichità delle epigrafi). Per
favorire la leggibilità, il porticato è basso e le lapidi sono addossate al muro di fondo, ad altezza di
sguardo, dato che devono essere lette e studiate da chi visita il museo, disposte in ordine
cronologico e divise a seconda del tipo di iscrizione (greche, latine, miste, false). Molte lapidi sono
state trasportate all’interno durante una risistemazione del cortile negli anni ’50-’60.
Viene data più importanza alla funzionalità piuttosto che all’aspetto decorativo. Dato che le epigrafi
sono quasi tutte dell’ambiente veronese questo radicamento nel territorio anticipa i musei civici.
Per la prima volta Maffei dà un ordine ben preciso alle opere; le lapidi precedentemente venivano
esposte ma erano collocate in cornici architettoniche es. Palazzo Medici Riccardi: cornici mistilinee
con epigrafi della famiglia Riccardi. Si seguiva un sistema simmetrico-decorativo che non
comunicava un messaggio (es. Villa Medici, Roma, oggi sede dell’Accademia di Francia: facciata
coperta di bassorilievi ed iscrizioni, usate come decorazioni), Maffei invece ordina le lapidi,
dividendole a seconda del tipo di iscrizione (greche, latine, miste, false). Il museo ebbe grande
successo dato che per la prima volta si aveva questo tipo di chiarezza espositiva.
Lettera di Maffei ad Anton Francesco Gori (lavorava per una rivista fiorentina):, 1724: “se vorrà far
menzione delli due musei di lapidi romane e greche e bassirilievi che sono i primi di tal genere e
dove siano situati i marmi con qualche ordine”.
Per i Savoia, Maffei si occupò di allestire un museo nel cortile dell’università di Verona con lapidi
antiche e bassorilievi; utilizza nuovamente un portico e fa un’opera di scelta e classificazione: salva
lapidi che erano murate ovunque.
È un vero museologo: studia, recupera, acquisisce e conserva (operazioni che fanno parte della
moderna definizione di museo).
Lodoli: abate e teorico dell’architettura che dovette influenzare Maffei. È di Lodoli l’idea della
Galleria Progressiva, che adotta l’ordine cronologico come criterio razionale per la disposizione
delle opere, in quanto consente di “mostrar passo passo la progressione dell’arte del disegno”.

-Dresda: Augusto I da avvio alla costruzione di un complesso architettonico: lo Zwinger, di


Matthaus Poppelman (1711), allo scopo di ospitarvi parte delle collezioni reali e renderle pubbliche:
questo rappresenta una novità (in Italia ancora non è successo). Per la prima volta in Europa
assistiamo all’apertura delle collezioni reali al pubblico: primo passo verso un museo pubblico vero
e proprio: la Gemaldagalerie, per la quale bisognerà attendere il secolo successivo. Federico
Augusto I acquisterà importanti nuclei collezionistici: la raccolta di antichità Odescalchi, le
antichità un tempo appartenute a Cristina di Svezia, alcune sculture antiche dal cardinal Alessandro
Albani. Federico Augusto II, prosegue in questa opera di arricchimento delle collezioni reali di

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Dresda acquistando numerosi dipinti italiani e, nel 1746, la collezione di dipinti di Francesco III
d’Este di Modena. Successivamente entrarono nel museo le opere fiamminghe appartenute alla
collezione Wallenstein e nel 1754 la Madonna Sistina di Raffaello.

Francesco Algarotti: nobile veneziano, agente d’arte al servizio di Augusto III di Sassonia, per il
quale elaborò nel 1742 il progetto per il riordino del museo a Dresda con nuovo edificio ispirato alla
semplicità palladiana e alle idee di Lodoli. Algarotti descrive il museo in un testo del 1759 come un
edificio a forma di tempio, autonomo dalla residenza del principe, con pianta quadrata ed ampio
cortile (tema della rotonda al centro), una galleria su ogni lato conduceva in sale d’angolo coperte a
cupola, con illuminazione zenitale (modello: la Tribuna), mentre al centro di ogni galleria un portico
conduceva in una sala più vasta (sormontata a cupola).
Si trovano qui i principali temi architettonici della museografia settecentesca: il portico da cui si
accede a una sala a pianta centrale coperta a cupola (derivazione dal Pantheon che godrà di grande
fortuna), la galleria come ambiente privilegiato per esporre la statuaria. Dà consigli museologici:
propone che la collezione di Dresda venga suddivisa per scuole.
Il progetto non venne realizzato.

Nella seconda metà del Settecento in tutta Europa le raccolte principesche cominciano dunque ad
aprirsi al pubblico (processo di liberalizzazione delle raccolte) e a diventare musei rivolti alla
“Pubblica utilità”. In nuovo museo sono presenti i concetti di istruzione, di organizzazione del
percorso di visita, di classificazione scientifica delle raccolte.

-British Museum: nasce nel 1753, per volontà del Parlamento inglese, che acquista con fondi
pubblici la collezione dello scienziato Sir Hans Sloane, formata per la maggior parte da reperti
naturalistici. Le prima sede del museo fu un palazzo tardobarocco acquistato dallo Stato: Montagu
House; dove si collocarono diverse collezioni:
-La raccolta Sloane.
-Le collezioni di libri e manoscritti dell’archeologo Sir Robert Cotton e dei conti di Oxford.
-1757: la Royal Library dona i libri acquisiti dai monarchi britannici.
Nel 1759 viene inaugurata la sala di lettura per gli studenti e si ha l’apertura ufficiale delle raccolte:
si ha il primo museo pubblico nazionale (ossia non ecclesiastico o del re), con aspirazione
enciclopedica (si rivolge a tutti gli aspetti dello scibile). Nel corso del tempo si ebbe un maggiore
orientamento sul versante archeologico, culminato nel 1816 con l’acquisto da Lord Elgin dei marmi
del Partenone, in seguito al quale il museo verrà trasferito in un edificio apposito di William
Wilkins, totalmente dedicato all'archeologia, inaugurato nel 1832.

-Düsseldorf, 1756: il duca del Palatinato Jan Wellem (marito di Maria Luisa de’ Medici) fa allestire
la sua collezione secondo l’esposizione “a quadreria”, affidando l’ordinamento a Christian Von
Mechel che la raggruppa per nuclei artistici omogenei: per scuole regionali. E’ considerato il
precedente della galleria di Vienna nonché prototipo delle gallerie tedesche.

-Vienna, 1776-1778: l’imperatore Giuseppe II (fratello del granduca di Toscana) trasferisce la


quadreria nella galleria del palazzo del Belvedere (edificio comprato appositamente per ospitare le
collezioni principesche) per aprirla al pubblico; l’allestimento viene affidato a Von Mechel: le
opere, come a Dusseldorf, vengono distribuite in sequenza cronologica e per scuola (influenzerà la
sistemazione moderna degli Uffizi). Le collezioni verranno poi spostate al Kunschistorisches
Museum nel 1891. Prima della risistemazione da parte di Von Mechel le collezioni viennesi erano
allestite a quadreria barocca, con un allestimento a incrostazione.
L’ordinamento per ‘scuole’ deciso da Christian von Mechel per il Belvedere di Vienna aveva come
scopo quello di presentare una “storia visibile dell’arte” al sevizio di coloro che volevano istruirsi e
comprendere lo sviluppo delle varie correnti e periodi artistici.
Nel 1784 von Mechel pubblicò il Catalogue des tableaux de la Galerie de Vienne , indispensabile

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strumento per un moderno museo. Anche il catalogo, come il museo, rispondeva ad una concezione
nuova, poiché per ogni opera, secondo l’insegnamento di Winckelmann, e secondo un metodo
rigorosamente scientifico, si esaminavano fonti e documenti al fine di giustificarne l’attribuzione.

Mentre i primi musei sono frutto di una trasformazione di edifici preesistenti, nasce l’idea che il
museo debba avere una struttura pensata appositamente per finalità espositive.
Uno dei primi edifici con specifica destinazione museale fu costruito a Kassel tra 1769 e 1777 per
volontà del langravio Federico II, che ne diede incarico all’architetto Simon Louis du Ry: il Museo
Federiciano è un edificio scandito da un ordine gigante di colonne ioniche, fiancheggiato da due ali
laterali, al centro delle quali spunta un pronao di gusto palladiano (viene introdotto il tema del
tempio classico come connotazione della progettazione museale). Trattandosi di una collezione
enciclopedica (riuniva opere d’arte, strumenti scientifici, reperti naturalistici...) viene adottata
un’esposizione per tipologie e nuclei tematici. Viene inaugurato nel 79.

Nei musei degli stati tedeschi le idee illuministe quindi spingono i principi ad aprire completamente
le loro collezioni al pubblico. Queste collezioni, in anticipo sul resto d’Europa, comprendono
l’utilità pubblica delle collezioni. I principi non solo aprono le loro raccolte, ma le ampliano anche
(per un maggior richiamo del Grand Tour, di artisti, di turisti).

In Germania nasce un nuovo tipo di ordinamento, per quanto riguarda la pittura, quello per scuole,
con un progressivo abbandono del sistema delle quadrerie barocche. Proprio perché il museo sta
diventando pubblico c’è bisogno di una nuova chiarezza espositiva.
1769: apre al pubblico la Galleria degli Uffizi. Pietro Leopoldo di Lorena rinuncia alla gestione
delle collezioni come bene personale e ne demanda invece la cura allo Stato; si perde l’aspetto dato
dal collezionismo mediceo e Pietro Leopoldo si attiva in prima persona. Alla base della creazione
dei nuovi Uffizi c’è il patto di famiglia voluto da Maria Luisa de’ Medici, ultima Medici, con il
quale si legavano e collezioni medicee alla città di Firenze. Quando arrivarono i Lorena negli anni
’40 del ‘700 essi dovettero fronteggiare una disastrosa situazione economica ma grazie al patto non
poterono vendere le collezioni d’arte.
I Lorena avevano una tradizione di governo illuminato; rividero l’amministrazione del governo
introducendo molta modernità. Si preoccuparono di avere un’amministrazione efficiente composta
da impiegati efficienti. Ci fu una revisione degli Uffizi (anni 70-80): cambiò completamente
l’aspetto del museo, che dal ‘500 non era stato quasi per niente alterato. Il museo con i Lorena
diventa pubblico, ordinato. Le collezioni erano sì accessibili ad un pubblico selezionato già dal
Cinquecento, ma si trattava di un’iniziativa propagandistica, ora invece il museo si pone scopi
didattici e di educazione, e riorganizza la presentazione delle raccolte (il fine era quello di mostrare
lo sviluppo, la storia dell’arte, e far meglio comprendere la collezione al pubblico). Può essere
considerato il punto di arrivo dell’elaborazione museale tedesca, ma anche romana.
Pietro Leopoldo istituisce degli orari di apertura del museo, nomina un direttore per sovrintendere;
lo rende un vero e proprio museo. Cambia anche l’ingresso, posto sulla parte opposta e sormontato
dal busto di Pietro Leopoldo in marmo. Le gallerie e la Tribuna rimangono invariate mentre Zanobi
del Rosso viene incaricato di realizzare alcuni interventi di rinnovamento strutturale come la
realizzazione del Gabinetto delle Gemme e il nuovo accesso dallo scalone (progettato dal Vasari).
Soprattutto, si ebbe la separazione delle collezioni eterogenee da quelle di pittura e scultura: le
raccolte di armature (nei musei legati alle grandi dinastie erano molto importanti le sezioni dedicate
all’armeria e i Medici avevano la più ricca armeria d’Europa), strumenti scientifici e musicali,
oggetti naturalistici lasciarono il Museo e diedero in seguito vita a musei separati come quello del
Bargello e quello di Storia naturale. Rimase agli Uffizi la Medusa del Caravaggio, scudo da parata
che nell’Armeria era montato su un finto cavaliere in legno. Nel ‘700 infatti si va incontro ad una
sempre maggiore specializzazione delle discipline: ci si allontana dall'erudizione seicentesca, dove
tutto era mescolato, e questo si riflette anche nel museo.
Si ha un’enorme opera di riordinamento (si è in anticipo su quello che verrà fatto per il Louvre).

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Il primo direttore della Galleria fu Giuseppe Pelli Bencivenni (1775-1793), che si occupò del
riordino delle collezioni con il supporto dell’abate Luigi Lanzi (erudito e studioso di arte etrusca), in
particolare per la sistemazione del settore delle antichità e per l’allestimento della Sala della Niobe,
realizzata nel 1781 in stile neoclassico da Gaspare Maria Paoletti e restaurata nel 2006 secondo il
progetto originario di Lanzi: fulcro della sala è il gruppo della Niobe; nove sculture (copie romane
di originali ellenistici) scoperte a Roma in una vigna nel 1583 e all’interno della collezione di
Ferdinando I a Villa Medici fino al 1775. I Lorena infatti smantellarono le collezioni di Villa Medici
a Roma e le spostarono a Firenze. La Sala della Niobe (considerata la Tribuna del ‘700) espone
Niobe uccisa con i figli da Apollo e Diana perché Niobe si era vantata della bellezza della sua
progenie, sfidando la divinità. Era uno dei gruppi scultorei più famosi dell’antichità. Fu molto
discussa la sistemazione delle statue prima di scegliere l’allestimenti definitivo. Una prima proposta
fu quella di Spinazzi e Zanobi del Rosso, che volevano sistemare le statue come lo erano già a villa
Medici a Roma: tutte insieme e su un alto basamento, volendo quindi valorizzare la storia del
gruppo scultoreo (1771); nel 1773 Bernardo Fallani propose di porre il gruppo in un tempio a
Boboli: fu scartata l’idea da Paoletti e del Rosso perché era un allestimento poco didattico. La
proposta più interessante fu quella di Luigi Lanzi, che si basava sulle idee del Winckelmann:
avrebbe esposto le statue singolarmente, non come gruppo. L’abate privilegiava infatti la chiarezza
espositiva e la razionalità, e pensava che ogni opera d’arte andasse valorizzata singolarmente. La
sua proposta fu quella vincente (1780). Le pareti della sala della Niobe furono decorate dai fratelli
Albertolli (1778-80). Adesso sullo sfondo delle sculture non ci sono arazzi ma dipinti.
Lanzi con i suoi scritti (Guida alla Real Galleria degli Uffizi, 1782) indica in vari passi ciò che i
Lorena e Lanzi stesso avevano intenzione di fare. Il modello degli Uffizi rinnovati, nella
testimonianza di Lanzi, è la Imperial Quadreria di Vienna.
Secondo Lanzi (gesuita illuminista) gli Uffizi medicei non potevano essere definiti museo (era
ancora un museo wunderkammer, dove convivevano scultura, pittura, collezioni scientifiche):
mancava la razionalità, mancava un ordinamento. Lanzi al posto di 8 ambienti ne costituisce 20, le
sale si specializzano: ogni sala è dedicata ad un tipo particolare di opere. Si cambia l’ingresso, si
cerca di portare equilibrio: il secondo corridoio diventa importante quando il primo: si avevano
infatti 10 sale a levante e 10 sale ponente. Si crea un ambiente molto simmetrico. Una fonte
importante, oltre alla Real Galleria del Lanzi, per capire com’era il museo nel 700 è l’inventario di
De Greyss (che fa anche una pianta del museo).
In questi anni da parte del collezionismo toscano (ma fin dal ‘700) si aveva un grande interesse per
l’arte etrusca (nobilitava la Toscana e i Medici), a scopo propagandistico. Nella prima metà del ‘700
nasce l’etruscologia. Lanzi comprende che è importante che ci sia una sezione dedicata agli
etruschi.
Espone opere degli artisti “primitivi”: opere del ‘200, ‘300, arte all’epoca disprezzata. Ritiene
importante un recupero dell’arte dei Primitivi; non c’è una valenza estetica ma bensì documentaria,
sono utili per vedere lo sviluppo dell’arte.
L’ordinamento delle raccolte seguì criteri basati sulla Storia pittorica dell’Italia (1789) del Lanzi,
articolata per scuole regionali; tale criterio venne adottato anche in altri musei del tempo.

Le guide antiche degli Uffizi:


1591: Le bellezze della città di Firenze (informazioni sugli Uffizi si trovano spesso nelle guide
generali di Firenze), Francesco Bocchi: descrive la Tribuna degli Uffizi.
1677: aggiornamento realizzato da Giovanni Cinelli: Le bellezze della città di Firenze.
Stampa di Benedetto de Greyss: ci fa vedere qual era il criterio di esposizione delle opere: sculture
antiche poste su piedistalli, serie della gioviana al di sotto del soffitto, serie aulica di personaggi
della famiglia medicea. Il vestibolo era caratterizzato dalla presenza di scultura antica, lapidi,
iscrizioni, bassorilievi (contro a questo metodo si scaglia Scipione Maffei, dato che i reperti antichi
erano usati come pezzi decorativi).
Firenze era già da molto metà di viaggi, di visite. Le guide a stampa indicavano ai visitatori i luoghi
degni di visita. Quando si studia museologia gli strumenti fondamentali sono le fonti (cataloghi,

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guide, antiche piante dei musei).
In questi anni cominciarono gli scambi con la Galleria Palatina, con la quale si ha un altro tipo di
operazione museologica, sempre da parte dei Lorena. Gli ambienti del primo piano non vollero
essere usati come sale di rappresentanza (come lo erano stati per i Medici): I Lorena prendono i
quadri dagli appartamenti privati dei Medici e li spostano nelle sale di rappresentanza (sale in
successione che formano una galleria) per creare una collezione di quadreria barocca.
Con la Galleria degli Uffizi si ha un museo di stampo razionale illuminista mentre a Pitti si vuole
lasciare memoria delle collezioni medicee barocche (consapevolezza di dover mantenere qualcosa
delle vecchie collezioni). Da una parte si ha un museo moderno (per uno Stato moderno), dall’altra
viene conservata la memoria dei Medici.

In Francia si ha una situazione particolare: le collezioni reali (concentrate a Versailles) sono


inaccessibili, e il sistema dell'arte è affidato all’Académie Royale de Peinture e de Sculpture, che
ogni anno organizza il Salon, esposizione che presenta gli artisti protetti da re e si impone come
guida del gusto.
Non mancano appelli ad un’accessibilità delle raccolte reali (più che un interesse verso il popolo era
per far sì che la Francia non restasse indietro rispetto agli altri paesi europei): Etienne La Font de
Saint- Yenne nelle Réflections sur quelque causes de l’état de la peinture en France et sur les beaux-
arts (1747) chiedeva l’apertura della galleria del Louvre come sede per l’esposizione pubblica delle
opere del Cabinet du Roi, esprimendo la preoccupazione per lo stato di conservazione della
raccolta, chiusa ermeticamente nella residenza del re e priva di manutenzione.
Il marchese di Marigny (fratello della Pompadour), responsabile dei Batiments du Roi, nel 1749
mise a disposizione una serie di sale nel Palais du Luxembourg, esponendovi un centinaio di
dipinti tra i migliori delle collezioni reali, assieme alle preesistenti tele commissionate a Rubens nel
1622 per celebrare la vita di Maria de’ Medici. Il museo aprì nel 1750, ed era aperto a tutti per tre
ore il mercoledì ed il sabato, tuttavia nel 1779 venne chiuso in seguito alle insistenze del fratello del
re, che rivendicava l’uso del palazzo.
Il successore di Marigny, il conte Charles d’Angivillier, dal 1775 si fece promotore della
trasformazione del Louvre in palazzo delle arti (iniziativa salutata dal plauso di Diderot), e si fecero
persino progetti di ristrutturazione della Grande Galerie (in particolare per migliorare
l’illuminazione aprendo lucernari), tuttavia il progetto non andò in porto. Il museo progettato da
Angivillier doveva anche dare un impulso alla produzione di arte contemporanea.

Regno di Napoli: Carlo di Borbone eredita dalla madre Elisabetta Farnese la collezione di famiglia
(i dipinti si trovavano a Parma mentre la raccolta archeologica era nel palazzo farnesiano di Roma).
Quando divenne re, Carlo (divenuto Carlo III) fece trasportare le collezioni nel Palazzo Reale di
Napoli, dando vita nel 1738 al Museo Farnesiano; sarà però la nuova reggia di Capodimonte ad
aprire al pubblico nel 1759, inglobando oggetti attinenti alle scienze naturali. La collezione di
dipinti era allestita a quadreria ma ordinata per generi, autori e scuole pittoriche nazionali.
Carlo III si occupò anche della tutela delle antichità di Ercolano e Pompei, emanando nel 1755 dei
decreti che proibivano la circolazione degli affreschi antichi fuori dai confini del regno.
Gli scavi di Ercolano erano iniziati nel 1709, forse in seguito ad una scoperta casuale di resti da
parte di un contadino che stava scavando un pozzo. I primi scavi, per imperizia degli scavatori,
danneggiarono molto i resti. Prima dei Borbone già il principe di Elbeuf finanziò gli scavi e fece
costruire un palazzo per ospitare i resti, proprio come faranno i Borbone.
I Borbone finanziarono infatti gli scavi e costruirono la Villa di Portici, adibita ad ospitare i resti e
concepita per ospitare l’Hercolanense Museum, ma diversamente da ciò che avveniva all’epoca in
Germania (si aprivano le collezioni al pubblico) il museo poteva essere visitato da piccoli gruppi,
con permessi, senza poter pubblicare riproduzioni dei pezzi. La Reggia di Portici ebbe una vita
museale ridotta (circa 30 anni) ma divenne una delle destinazioni privilegiate per il Grand Tour. I
Borbone redigevano cataloghi delle collezioni (“Le antichità di Ercolano esposte”, 1757), ma solo
in occasioni speciali es. donazioni a delegazioni diplomatiche.

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La Villa di Portici è ora proprietà dell’Università di Napoli ed all’interno è stata creata una
ricostruzione virtuale dell’esposizione: le pitture venivano staccate dalle loro sedi, dotate di cornici
e situate come quadri alla maniera barocca seicentesca. Novità all’interno della Reggia; venivano
recuperati gli oggetti della vita quotidiana. Ci si immergeva nella vita quotidiana degli antichi
(venne ricostruita un’intera cucina) con la creazione una sorta di sala di ambientazione. Un
ecclesiastico a servizio dei Borbone escogitò anche un marchingegno per srotolare i papiri.
Fu appunto nel 1777 che Ferdinando IV trasferì i due nuclei del Museo Farnesiano e del Museo
Hercolanense nel Palazzo dei regi Studi (ospitava precedentemente l’Università), dove venne
istituito il Real Museo Borbonico e confluirono, tra 1786 e 1788, le raccolte archeologiche
farnesiane.

Villa Albani
Alessandro Albani: esponente di punta del collezionismo privato, era un maniaco del collezionismo
(anche oggi è una collezione privata). Si fece costruire una villa suburbana (o Casino, termine
utilizzato per indicare ville di non grandi dimensioni o situate in zone periferiche o dotate di grandi
giardini e di ampie zone dedicate all’otium) sulla via Salaria, dove collocò le sue raccolte di
antichità. Si trattava di un edificio deputato soltanto all’esposizione, concepito come un museo
nell’organizzazione del percorso ma non vero e proprio museo in quanto escludeva la presenza del
pubblico. È una costruzione punto d’arrivo della lunga tradizione romana delle ville: dal ‘500 la
passione per l’antichità fa sì che i papi ecc. si facciano costruire delle ville su esempio delle
narrazioni di Plinio, Catone... È una tradizione che il cardinale segue: si fa costruire una villa dove
gli ambienti destinati ad abitazione sono ridotti, usa la villa per raccogliere le antichità ed ospitare
coloro che volessero ammirare la sua collezione. Albani aveva scavato la Villa di Adriano e
probabilmente la sua villa si rifà a quella adrianea. E’ una villa-museo.
La costruzione, posta su un sito archeologico, fu lunga (1746-1763), su progetto dell’architetto
Carlo Marchionni (probabilmente diretto dallo stesso Albani); prevedeva due corpi di fabbrica
affrontati: un casino con portico (di gusto tardobarocco) per l’esposizione delle opere d’arte,
affiancato da due ali, e un parco con fontane, giardini all’italiana, tempietti e giochi d’acqua. Sul
fondo si trovava un’esedra, usata per ospitare antichità.
Opera totale: unione di architettura, decorazione d’interni, collezione e gradini. Così come gli
ambienti interni erano stati concepiti come un museo, così avvenne per il giardino.
Nel salone centrale si trovava il Parnaso di Mengs (1761), manifesto dell’arte neoclassica, omaggio
a Raffaello ed all’arte antica; il suggerimento di Mengs va attribuito a Winckelmann, bibliotecario
del cardinale e probabile ispiratore del programma iconografico (il Parnaso di Mengs traduce in
forma pittorica le idee del bello teorizzate da Winckelmann).
Albani ospita e dà lavoro a Roma a Winckelmann, fondatore del metodo di studio basato sul
riconoscimento di fasi evolutive diverse e fondatore del pensiero del bello ideale. Nato a Stendhal,
arriva a Roma nel 1775; formatosi sulle antichità nella collezione del principe di Dresda,
quest’ultimo finanzia il suo viaggio in Italia affinché possa completare la sua educazione. Morirà
ucciso da un suo amante.
Le sue idee del bello ideale, dell’arte greca sono ravvisabili in tutta Villa Albani, in particolare nel
giardino.
La collezione era organizzata per nuclei tematici: imperatori, dei, poeti, condottieri... Inoltre alcune
sale erano incentrate attorno a pezzi di maggiore pregio es.Sala dell’Antinoo. Quello che ne fa un
modello di riferimento è il rapporto tra gli oggetti e lo spazio, che si piega alle esigenze della
collezione.
Per la prima volta viene tralasciato l’aspetto decorativo a favore di una migliore leggibilità delle
opere, inoltre si rinuncia a collocare le sculture all’aperto, e per di più si promuovono degli
interventi di restauro non più soggettivi ma bensì condotti sulla base della ricerca archeologica,
grazie a Bartolomeo Cavaceppi (più celebre restauratore del tempo), che teorizzò i suoi metodi nel
trattato Dell’arte di ben restaurare le antiche sculture.
Winckelmann fa capire agli spettatori quali siano gli interventi di restauro di un’opera scultorea: il

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pezzo va datato e vanno riconosciute successive modifiche.
La Villa è diversa dal Museo Capitolino, dotato di sale chiare e di un senso di leggerezza, si nota
qui invece un senso di horror vacui: ogni superficie disponibile è decorata. Si è lontani da una
visione “pulita”: il gusto di Albani è tardo barocco, legato alle collezioni nobiliari, principesche.
Elementi di modernità: apre la Villa a tutti coloro che ne facevano richiesta e Villa Albani divenne
uno dei luoghi di maggiore attrazione, a Roma. Si sviluppa una ritrattistica dei personaggi del
Grand Tour con i pezzi della collezione.
Nel giardino di Villa Albani inizia la rappresentazione di false rovine (“rovinismo”), si ha nostalgia
nei confronti di un’epoca antica, che si cerca di far rivivere. Anche i pittori rappresenteranno Roma
con finte rovine per dare l’idea di un mondo ormai perduto. Il giardino nel tempo è stato fortemente
alterato e depauperato.
Dopo la pubblicazione dell’opera di Winckelmann, Storia delle arti e del disegno presso gli antichi
(1764), si sarebbero imposti come principi guida nell’ordinamento delle collezioni di antichità
l’analisi stilistica delle opere e la loro cronologia (già utilizzati per ordinare i dipinti). Nel 1763
Winckelmann era stato nominato commissario delle antichità di Roma.

Musei Pontifici: anche nei palazzi vaticani ci si cominciò ad orientare verso l’apertura di musei
dedicati ai diversi settori dell’immenso patrimonio che da secoli si era stratificato nelle collezioni
papali.
Clemente XI viene considerato l’ideatore dei musei pontifici, anche se vennero poi realizzati dai
suoi successori
Prima iniziativa: spetta a Benedetto XIV, che fonda l’Accademia Romana di Antichità e il
Museo di Antichità Cristiane (1757, poi Museo Sacro), con lo scopo di contribuire allo studio
della tradizione figurativa del cristianesimo.
Seconda iniziativa: nel 1761, con il contributo di Winckelmann, Clemente XIII fonda il Museo
Profano, dedicato ai reperti etruschi e romani; la novità del museo è che estende l’interesse a
suppellettili, oggetti d’uso, urne, lapidi...
Clemente XIV affronta l’impresa più ambiziosa, destinata a imporsi come modello imprescindibile
della successiva museografia: fonda il Museo Pio-Cementino grazie al chirografo del 12 settembre
1770, con il quale autorizza la vendita della antichità della collezione Mattei (con una deroga al
fidecommesso testamentario), acquistandole. Dopo l’acquisto di questa collezione vi era la necessità
di trovare in Vaticano uno spazio dove esporre le opere. Venne scelta come sede il Belvedere
(palazzina di Innocenzo VIII), insieme al Cortile delle Statue del Bramante. Il cortile era rimasto
inalterato per secoli, fino alla realizzazione del Museo, quando verrà trasformato. Si trattava di
riadattare a una diversa funzione un edificio nato con altri scopi. I lavori iniziarono nel 1770 su
progetto di Alessandro Dori, e dureranno diversi anni.
-Primo intervento: riguardava il palazzo. La loggia del palazzo (divisa in vari ambienti) venne
trasformata in un’unica vasta galleria destinata ad accogliere statue e sculture (galleria delle
statue), e i muri divisori vennero sostituiti con serliane costituite da materiale di spoglio, con
sculture esposte su entrambi i lati. Entro nicchie alle estremità della galleria si trovavano due statue
monumentali. La decorazione era ricchissima di stucchi e di dettagli ornamentali: si ha un grandioso
effetto scenografico di gusto tardo-barocco. Il museo ha forme architettoniche legate alla tradizione.
-Secondo intervento: riguardò il cortile delle statue del Bramante: alla morte di Dori (1772) il
progetto venne affidato a Michelangelo Simonetti: la nuova Galleria delle Statue andava collegata al
cortile, includendo alcuni fabbricati preesistenti ricavandone ambienti funzionali al museo, con lo
scopo di creare un organismo unitario introducendo un nuovo elemento: un porticato ionico nel
cortile. L’accesso al museo veniva posto sul lato orientale, dove entro una sequenza di ambienti si
trovava il Vestibolo Rotondo (voltato a cupola), per creare un ingresso indipendente per il pubblico
che non passasse dagli Appartamenti Vaticani, da cui si accedeva al cortile e infine alla galleria.
Quindi sotto Clemente XIV fulcro del museo era il cortile ottagono del Bramante, dove vi si
trovavano sculture come il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere. Ma non sarà così a lungo, dato che
sotto Pio VI il museo si amplierà ancora di più.

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Il museo si poneva all’insegna del riuso, sia dei materiali (capitelli e colonne 500esche soprattutto)
che delle costruzioni esistenti.
Alla morte di Clemente XIV (1774), Pio VI riprende i lavori; era un papa ambizioso, che voleva
tramite il museo riaffermare il prestigio del papato e lasciare il segno.
Abbiamo tre fasi di intervento (l’architetto è ancora Simonetti):
1)prolungamento della la Galleria delle Statue (1776-78): si aggiungono alla galleria 5 campate,
cosa che comportò la distruzione della cappella del Mantegna che Clemente XIV aveva rispettato
2)sequenza delle Sale Romane, o sale voltate (1778-84): sono il vero contributo di Pio VI, si
trovano sul lato occidentale del cortile e si tratta di ambienti monumentali di ispirazione
neoclassica, che si ricollegano idealmente alle fabbriche dell’architettura romana antica (la basilica,
il tempio di Minerva Medica, le terme, il Pantheon), rievocando i luoghi per i quali erano state
realizzate le opere delle collezioni archeologiche. Nei vari ambienti sono messi in opera pavimenti
musivi provenienti da ville romane, oltre a colonne e capitelli di spoglio: grande lusso
(contrariamente dai Capitolini) e grande importanza dell’estetica dell’arte (influsso delle idee di
Winckelmann, che introduce l’idea dell’importanza estetica dei pezzi antichi). Le opere
dell’antichità devono avere in questa concezione una cornice all’antica; si tenta di ricreare il
contesto perduto, la grandezza dell’arte antica viene esaltata dalla grandezza dell’architettura.
Le sale sono: la Sala degli Animali, che riprende il tema della galleria e corre parallela al lato
occidentale del cortile; la Sala delle Muse, ottagonale con volta a spicchi; la Sala Rotonda, con
nicchie per statue su fondo rosso e cupola cassettonata; la Sala a Croce Greca, che sbocca nel
superbo scalone, vero capolavoro del Simonetti (che costruì prima di morire anche il gabinetto
delle maschere e la sala dei candelabri)
3)sala della Biga e l’Atrio dei Quattro Cancelli, ad opera di Giuseppe Camporese (Simonetti era
morto nell’81)
Il Cortile delle Statue perde la sua centralità e la Rotonda diventa il fulcro del museo; è la sala più
grande, dove vengono collocate le statue delle divinità; ispirata al Pantheon nella pianta circolare,
nella volta cassettonata e nell’oculo centrale (sarà il modello della nuova museografia
ottocentesca).
Giovanni Battista Visconti, succeduto a Winckelmann come commissario delle antichità, diresse gli
architetti nelle scelte stilistiche, nella disposizione delle sculture, nella selezione delle opere e nel
loro ordinamento, basato su raggruppamenti tematici (già sperimentati nei Musei Capitolini e a
Villa Albani). È lui a pubblicare il catalogo delle collezioni nel 1782.
Il Museo Pio-Clementino è anomalo in quanto è il frutto di un riuso, infatti ha un andamento
irregolare, non ha una facciata ma è un’architettura basata sugli interni. Tuttavia ebbe enorme
influenza, amplificata dai diari di viaggio, che lo fecero diventare una meta obbligata. Il primo
fenomeno di turismo di massa avviene nel Museo Pio-Clementino.

A Roma, intorno a Piranesi, si forma un nuovo linguaggio neoclassico, che darà vita ad importanti
esperimenti museali es. Galleria privata di William Weddel, realizzata da Robert Adam nel 1767
come edificio indipendente collegato alla residenza di Newby Hall, nella campagna dello Yorkshire:
sono tre sale destinate all’esposizione di sculture antiche, in un ambiente rigorosamente improntato
all’estetica neoclassica (Adam era stato a Roma).

In Francia viene spesso scelto come tema del concorso indetto dall’Académie d’Architecture per il
Prix de Rome quello del museo; si può vedere come si ha un grande ricorso all’architettura classica,
es:
-1753: il tema d’esame era una galleria collegata ad un palazzo e vinse un progetto che prevedeva
una rotonda con cupola, fiancheggiata da gallerie voltate a botte.
-1778: il tema era un museo articolato in varie sezioni, e vinse il progetto di un museo a pianta
quadrata con quattro cortili formati da due bracci a croce greca coperti a botte. Era una soluzione
che teneva conto degli insegnamenti di Etienne-Luois Boullée, membro dell’Académie, che
progetta nel 1783 un museo ideale costituito da un recinto quadrato con croce greca all’interno,

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esedre semicircolari e rotonda centrale; era la forma che maggiormente rispondeva alle esigenze
espositive, e venne ripresa dall’allievo di Boullée, Jean-Nicolas-Louis Durand, nel manuale Précis
des lecons d’architecture che, pubblicato tra 1802 e 1809, ebbe ampissima diffusione.

In realtà il museo illuminista non era proprio un museo “pubblico”, nel senso che era molto più
facile entrare se si era studiosi o artisti. Gli orari e le modalità di apertura variavano, per esempio
nel British Museum l’ingresso era limitato e a pagamento, nei Musei Capitolini l’ingresso era libero
da mattino a sera, il Pio-Clementino non era aperto al pubblico ma era facilmente accessibile per chi
avesse voluto visitarlo. Sarà solo con la Rivoluzione Francese che verrà riconosciuto a tutti il diritto
di frequentare i musei.

3. Le spoliazioni napoleoniche: lo Stato come collezionista

Il Louvre trae origine, sulla spinta della rivoluzione francese, dalla statalizzazione delle raccolte
reali e dalla confisca di beni sia di proprietà ecclesiastica che appartenuti agli aristocratici che
avevano dovuto lasciare il paese.
1791: l’Assemblea Nazionale Costituente decreta l’esproprio dei beni della corona. Si sancisce che
il patrimonio artistico dev’essere pubblico, a disposizione del popolo, francese e non solo. Si
abbandona progressivamente l’idea del museo come luogo elitario. Il Louvre è il primo museo
veramente pubblico d’Europa, in quanto concepito fin dalla sua nascita come tale. Viene istituita
una Commissione (1794) per le opere d’arte formata da Jacques-Louis David, Jean-Honorè
Fragonard, Jean-Baptiste Wicar.
21 maggio: viene deliberata l’istituzione nei palazzi del Louvre (già sede delle accademie reali) del
Musée Révolutionnaire, inaugurato il 10 agosto 1793 (anniversario della deposizione di Luigi
XVI), prenderà poi il nome di Musée Francais e ribattezzato nel 1797 Musée Central des Arts.
Dal 1803 al 1815 sarà il Musée Napoleon. All’indomani della caduta di Napoleone acquista il suo
nome attuale). Per la prima volta si riconosce ad un museo il carattere di istituzione di interesse
nazionale, e si afferma l'appartenenza alla comunità del patrimonio storico-artistico, della quale
amministrazione si fa carico lo Stato.
Diventa a pochi anni dalla Rivoluzione francese l’espressione delle idee rivoluzionarie.
Viene formata una classe di funzionari adibiti alla cura del patrimonio artistico, a cui vengono
adibiti degli artisti e non degli storici dell’arte.
Nell’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert, Louis de Jaucourt (1704-1779),uno dei principali
estensori dell’Enciclopedia, scrive, alla voce Louvre, dell’auspicio di fare del Louvre (già sede delle
Accademie Reali), un grande centro del sapere che accogliesse un gran numero di collezioni ed
unisse artisti e studiosi diventando una moderna versione del Museion di Alessandria. Con il Louvre
si apre una nuova fase della storia museale. Il ruolo educativo del museo includeva ora nuove
categorie di fruitori, aprendosi a quegli strati sociali che il museo illuminista aveva di fatto escluso.
Inizialmente il museo conserva il carattere di residenza reale, con arredi e mobili preziosi, tanto che
Jacques-Louis David (che aveva istituito la Commission temporaire des Arts a tutela dei monumenti
e delle opere d’arte) esprime le sue riserve riguardo ad un museo più lussuoso che non didattico.
Era un ambiente scarsamente illuminato, con dipinti allineati in doppio ordine e suddivisi in tre
scuole principali (francese, italiana, fiammingo-olandese), ma non ordinati cronologicamente;
alcune opere (ritenute di maggior pregio) erano poste su cavalletti in prossimità delle finestre.
Una proposta di allestimento: grandi lucernari (grande ruolo dell’illuminazione nella museografia e
nella museologia). L’illuminazione zenitale era ideale anche negli studi dei pittori, è un modo di
illuminare che deriva dagli ambienti accademici. In realtà la Galleria non fu dotata di lucernari
(come si vede da un quadro di Hubert Robert del 1795), verranno aperti tra 1805 e 1810. L’ingresso
era gratuito, con apertura sabato e domenica dalle 9 alle 16, mentre gli altri giorni era riservato agli
artisti. Ogni opera aveva una didascalia esplicativa, erano previste visite guidate e dal 1793 si aveva
un catalogo, tuttavia la Galerie si presentava con tono dimesso. Fonti importanti per capire come era
il museo in questa prima fase sono i quadri di Hubert Robert.

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La svolta avvenne con le campagne napoleoniche: inizia lo sradicamento delle opere d’arte dal loro
luogo originario, perdendo così il loro valore e diventavano trofei di guerra.
La prima offensiva investì i Paesi Bassi; assieme alle armate partirono due membri della
commissione per le arti (il pittore Wicar e il mercante Charles le Brun), che ebbero l’incarico di
selezionare le opere da requisire, aiutandosi con guide e manuali (prima di partire venivano stilate
delle liste di opere da requisire). Si concentrarono soprattutto sui patrimoni ecclesiastici: è da qui
che provengono la maggior parte delle opere. Napoleone vedeva gli enti religiosi come luoghi
medievali da sopprimere (a meno che non avessero fini di assistenza o didattici), come già aveva
fatto Pietro Leopoldo.

Nel 1796 fu la volta dell’Italia; i commissari ebbero sempre il sostegno di guide, ma anche di
incisioni e dei resoconti dei viaggiatori del Grand Tour. Tra i beni requisiti, dodici manoscritti di
Leonardo e il tesoro della regina Teodolinda. Da una lettera di Napoleone dell’estate del 1796
risulta che 110 quadri erano in partenza per Parigi. Passarono per Milano, Monza (requisizioni alla
cattedrale), Mantova (tele del Mantegna), Verona (pala di San Zeno), Parma (capolavori del
Correggio), Bologna (capolavori dei Carracci, del Domenichino, di Raffaello..) ecc. Roma era la
meta più ambita. Papa Pio VI fu fatto prigioniero ed inviato in Francia, mentre si proclamava la
Repubblica nello Stato pontificio e le opere d’arte cominciavano a essere razziate, soprattutto dal
Pio-Clementino, dai Capitolini e da Villa Albani. Al ritorno in Francia fece sfilare un corteo con le
opere requisite. Le opere più piccole erano dentro casse di legno (quasi 500) sulle quali vi era il
nome delle opere, mentre le statue più grandi e più importanti venivano fatte sfilare per essere
osservate dal popolo parigino (era il cosiddetto “bottino romano”), mentre i commissari francesi si
davano al commercio, svendendo quadri e sculture considerati di minore pregio.
Per dare una parvenza di legittimità alle razzie Napoleone include le requisizioni nelle clausole
degli armistizi e trattati di pace, per poter espropriare i paesi sconfitti del loro patrimonio senza
“problemi”, es:
-Trattato di Tolentino (febbraio 1797): dopo i saccheggi compiuti in Emilia, Umbria e Marche si
istituisce il principio che la Francia diviene proprietaria delle opere requisite; la giustificazione del
Direttorio è che le opere d’arte dovevano essere portate nella patria della libertà, dove sarebbero
anche state conservate meglio, si giustifica sostenendo che le opere d’arte dell’Ancien Régime
erano conservate malissimo, specie nelle chiese. Le antiche monarchie non sapevano conservare le
opere d’arte e non le rendevano patrimonio comune. Solo la Francia aveva questa capacità grazie
alla presenza del Louvre: il saccheggio venne spacciato come una volontà di conservare e rendere le
opere fruibili al pubblico. Strategia programmata già prima della Campagna d’Italia: vennero stilate
liste di opere da portar via. Gli storici d’arte si basavano sulle guide, su Vasari, sulla letteratura
artistica italiana.
-Trattato di Campoformio (ottobre 1797): Venezia perde opere quali i Cavalli di San Marco,
dipinti di Tiziano, Tintoretto, Veronese...
I paesi perdevano così il loro patrimonio artistico e poterono rendersi conto dell’importanza del suo
valore.
Napoleone, intanto, era partito per l’Egitto, ed assieme a lui Dominique Vivant-Denon, il cui
compito era quello di rilevare e disegnare i monumenti archeologici dell’Egitto (pubblicati poi nel
1802 in un volume di incisioni e nel 1809 nella Description de l’Egypte, che influenzò il gusto
europeo, con la diffusione di motivi egizi).
Vivant-Denon si legò molto a Napoleone, che nel 1802 lo nominò direttore generale del Louvre
(ribattezzato nel 1803 Musée Napoleon). Dovette riordinare i materiali affluiti con gli espropri
napoleonici, ed adottò il criterio della suddivisione per scuole (il museo doveva avere ruolo
didattico), inoltre ottenne finanziamenti per il museo, anche grazie alla vendita di stampe tratte dalle
opere esposte e dei cataloghi. Si recupera l’idea di un grande circolo culturale, polifunzionale, sul
modello del Museion. Idea del Louvre come grande museo universale e polifunzionale(ha le sue
radici nel pensiero illuminista).
1805-1810: gli architetti Percier e Fontaine realizzarono nella Grande Galerie aperture laterali nella

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volta, che fu decorata con lacunari, e divisero la Galerie in sei sale grandi e tre più piccole,
realizzando inoltre uno scalone monumentale sull’esempio del Museo Pio-Clementino, così come
sul modello del Pio- Clementino era la sala del Laocoonte nonché l’idea delle visite notturne.
Vivant-Denon agisce come ordinatore delle opere d’arte (che in gran parte provenivano dall’Italia).
Ordinamento proposto da Vivant-Denon: pareti chiare, assenza di horror vacui.
L’ordine rimanda al concetto delle Vite del Vasari: triade di Michelangelo, Leonardo, Raffaello
(grande importanza della fama dei pittori). Si vuole far vedere la distanza di Raffaello da ciò che
l’ha preceduto, ovvero il maestro Perugino.
Vivant-Denon vuole far vedere lo sviluppo dell’arte, esplicare una storia dell’arte parlante, basata
sulla rappresentazione delle scuole anche tramite i confronti tra le opere; il museo è l’unico luogo
che permette di fare dei confronti tra artisti e tra scuole.
Nel 1806 Napoleone riprende la sua politica espansionistica, puntando sul Regno di Prussia, sulla
Spagna e sull’Austria: continua il saccheggio di opere d’arte, con protagonista Vivant-Denon.
Nel 1811 Vivant-Denon compie l’ultima missione in Italia, e scopre i primitivi italiani (Cimabue,
Giotto, Gentile da Fabriano, Beato Angelico...), trascurati nelle precedenti requisizioni: si inaugura
la stagione di ricerca dei primitivi italiani, caratteristica del collezionismo ottocentesco.
1812: le nuove acquisizioni italiane vengono presentate con un catalogo curato da Denon completo
di biografie degli artisti e notizie bibliografiche, oltre alle consuete informazioni su autore, soggetto
e provenienza. Fa anche un’opera di comunicazione museale: inserisce didascalie accanto alle
opere; dato che il Louvre si poneva come museo aperto a tutti la trasmissione dei messaggi doveva
essere chiara. L’aspetto fondamentale è quindi l’inventariazione e la catalogazione.
Il museo assume l’aspetto di glorificazione del potere napoleonico es. corteo nuziale per Napoleone
e Maria Luisa d’Austria nella Galerie du Louvre: si vede l’importanza della Galleria in quanto il
corteo è in primo piano ma in realtà ha più importanza l’esposizione dei quadri sullo sfondo: arte
come esposizione del potere. Il Musée Napoleon ordinato da Denon rappresentava la supremazia
politica e culturale della Francia attraverso le opere più rappresentative degli altri paesi europei.
Strappate ai loro contesti e e quindi private della risonanza che avevano nei luoghi d’origine, le
opere d’arte, umiliate nel ruolo di trofei di guerra, si riscattano nel museo dove trovano una
giustificazione culturale, estetica e didattica. Fonti importanti per il Musée Napoleon: quadri di
Benjamin Zix.
Con Napoleone si svilupperanno diversi concetti:
-Solo un grande museo può conservare e rendere fruibili le opere d’arte (museo a vocazione
universalista).
-Idea dell’esistenza del contesto originale dell’opera d’arte (contesto fisico ma anche concettuale).
Alcuni musei tenteranno di ricostruire attorno alle opere d’arte il contesto perduto, mentre altri
tenderanno ancora di più ad isolare l’opera d’arte dal suo contesto originario.
Anche dopo la caduta dell'Impero, Denon continua il suo operato, inaugurando nel 1814 una nuova
mostra, che include gli italiani, i primitivi fiammingo-olandesi, i tedeschi e gli spagnoli.
Luigi XVIII affermò in Parlamento che le opere d’arte appartenevano alla Francia, tuttavia nel
corso del Congresso di Vienna le restituzioni furono oggetto di negoziati e fu impossibile recuperare
gli oltre 800 quadri confiscati distribuiti nelle province francesi, così come quelli disseminati nelle
chiese parigine in seguito ad un concordato con il Vaticano.
L’Inghilterra si schierò a favore delle restituzioni, e fu rappresentata dal ministro degli Esteri
visconte di Castlereagh e dal duca di Wellington (vincitore di Napoleone a Waterloo), che si posero
a difesa dei diritti delle nazioni meno difese (come Paesi Bassi e Stato Pontificio). Wellington
mandò le proprie truppe al Louvre ordinando di staccare dalle pareti i quadri fiamminghi ed
olandesi.
Per il papa trattava Antonio Canova, nominato nel 1802 ispettore generale delle antichità e delle
arti; grazie al prestigio di cui godeva poté avere qualche successo, tuttavia il recupero fu parziale, a
causa delle dimensioni di alcuni pezzi e della volontà di non esacerbare le tensioni, Canova inoltre
ignorò molte opere che non corrispondevano al suo gusto classicista.
Della cinquecento opere registrate negli inventari ne restarono in Francia circa la metà, oltre alle

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opere della collezione Borghese, formalmente vendute (seppur forzatamente) al Louvre dal principe
Camillo (marito di Paolina Bonaparte).
Il governo austriaco si occupò di quanto era stato sottratto in Lombardia e Veneto (anche in questo
caso la politica conciliante fece tralasciare opere importanti). Ci furono anche operazioni delicate,
come il recupero dei cavalli di San Marco, che erano stati issati sull’Arc de Triomphe nella piazza
del Carrousel: la rimozione fu eseguita di notte, impedendo l’accesso alla piazza per evitare
disordini.
Con la riappropriazione dei beni requisiti si fece strada la coscienza dell’appartenenza ad un popolo
del patrimonio artistico come fondamento dell’identità culturale; si comprese la responsabilità dello
Stato nella tutela del patrimonio artistico es.
-1802: Pio VII redige il Chirografo, a cui fa seguito l’Editto del cardinale camerlengo Doria
Pamphilj, che estende la tutela al patrimonio mobile (sia pubblico che privato), elenca nel dettaglio
le opere inalienabili e stabilisce la compilazione di inventari per avere un quadro della consistenza
del patrimonio.
Non furono molti gli intellettuali francesi a condannare le razzie napoleoniche, ma una voce ci fu,
quella di Antoine Quatremère de Quincy, che nelle Lettres à Miranda (opera uscita in forma
clandestina mentre l’autore si trovava il carcere) si leva a difesa dei vinti, rivolgendosi al generale
venezuelano Francisco de Miranda, che aveva partecipato alla Rivoluzione. Roma, per esempio,
viene vista da de Quincy come un insieme di oggetti, ma anche di luoghi e di atmosfere, nella quale
gli uni sono inseparabili dagli altri: concetto che l’intera Italia sia un museo (nasce in questi anni,
all’inizio delle requisizioni napoleoniche) nel quale hanno stessa importanza il reperto (obelischi,
colonne, archi trionfali) e il luogo (paesaggi, montagne, strade): de Quincy si oppone alla
requisizione di opere, che avrebbe fatto loro perdere di significato.
Anche il Musée des Monuments Francais fu vittima delle restituzioni. Era un museo che aprì a
Parigi, nel convento dei Petites-Agustins, su iniziativa del pittore Alexandre Lenoir, che voleva
mettere in salvo i monumenti dal fanatismo rivoluzionario, che aveva decretato l’abbattimento di
tutti i monumenti dedicati ai re di Francia a Parigi, nonché la distruzione delle tombe dinastiche e
aristocratiche e l’abbattimento delle sculture sulle facciate delle chiese che facessero riferimento ai
reali.
Lenoir aveva riunito quindi un consistente deposito, con l’ambizione di trasformarlo in un museo
che raccontasse la storia della Francia per mezzo della scultura. Era importante conservare memoria
della monarchia proprio per potersi opporre ad essa.
Tentò nel suo museo di ricostruire il contesto perduto.
Il percorso era cronologico, legato all’idea del progresso delle arti, che l’allestimento sottolineava
variando l’intensità della luce (sale medievali oscure, viva illuminazione nelle sale finali).
Venne inaugurato nel 1795, provvisto di catalogo, ed inaugurò l’interesse per l’arte medievale. Ebbe
un enorme successo (sia tra i francesi che tra i turisti) per la ricreazione degli ambienti dai quali le
opere provenivano.
Questo esercitò una grande suggestione: ci si trovava immersi nel passato: comincia a nascere in
questi anni il sentimento romantico, che trova nuova ispirazione nella nostalgia per il passato.
Il museo fu smantellato nel 1816 e le opere ricollocate nei luoghi di provenienza.

Musei legati alla presenza napoleonica in Italia:


1) Pinacoteca di Brera: inaugurata ufficialmente il 15 agosto 1809, giorno del quarantesimo
compleanno dell’imperatore. Prime iniziative: grazie al governo austriaco, infatti Maria Teresa
aveva trasformato il palazzo di Brera, con il fine di dare un’impronta laica all’istruzione pubblica
(viene liberato dai gesuiti), in un complesso di istituzioni che rispondevano a diversi orientamenti,
con le cattedre di Economia Politica (tenuta da Beccaria), di Eloquenza, con l’Osservatorio
astronomico, l’Orto botanico, l’Accademia di Belle Arti ecc.
Nel 1778 divenne segretario dell’Accademia Carlo Bianconi, e le diede un’impostazione
essenzialmente didattica, privilegiando la dotazione di strumenti utili all’insegnamento (disegni
architettonici, incisioni, calchi di sculture).

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L’Accademia ricevette un nuovo impulso con la nomina a segretario di Giuseppe Bossi, nel 1801
(Bianconi era stato rimpiazzato in quanto troppo legato al governo austriaco), filofrancese (si era
ora nella Repubblica Cisalpina e Milano era capitale). Bossi decise di ampliare il museo, che fino al
1799 contava solo alcune pale d’altare settecentesche, recuperate dalla soppressa chiesa milanese
dei Santi Cosma e Damiano alla Scala. Vennero stesi gli Statuti (estesi anche all’Accademia di
Bologna), che consentirono nel 1803 l’apertura ufficiale dell’Accademia come Accademia
nazionale.
Nel 1805 nacque il Regno d’Italia, con capitale Milano; il viceré Eugenio di Beauharnais ambiva a
potenziare il museo annesso all’Accademia, conferendogli la dignità di grande collezione nazionale.
Per ampliare la pinacoteca vennero effettuate spoliazioni (favorite dalle soppressioni di enti
ecclesiastici). Andrea Appiani era già dal 1796 commissario superiore (doveva selezionare le opere
lombarde e venete da spedire al Louvre); grazie a lui affluirono a Brera centinaia di dipinti, requisiti
in Lombardia, Veneto, e nei territori dello Stato Pontificio.
Nel 1806 furono presentate al pubblico alcune sale, e nell’opuscolo che accompagnava l'esposizione
Bossi asseriva che gli obiettivi principali de museo erano l’istruzione pubblica e la diffusione del
“buon gusto”. Il museo iniziava con una sala dedicata ai ritratti ed autoritratti degli artisti,
seguivano tre sale dedicate alla pittura e una serie di ambienti che ospitavano gessi (molti dei quali
acquisiti a Parigi da Bossi su incarico di Napoleone).
Dopo le dimissioni del Bossi, nel 1807 (dovute a tensioni con il ministro degli Interni) divenne
direttore Appiani, e il museo divenne sempre più nazionale, rappresentando tutte le scuole pittoriche
italiane. Con Brera si afferma un nuovo tipo di museo, caratterizzato dal legame tra collezione
artistica ed accademia, formula applicata anche alle altre due istituzioni napoleoniche che nacquero
in quegli anni.
2) Bologna: i Carracci nel 1582 avevano fondato l’Accademia dei Desiderosi, che con Clemente XI
aveva preso il nome di Accademia Clementina. Con l’arrivo dei francesi l’Accademia fu soppressa,
e poi rifondata nel 1802 come Accademia nazionale, trasferita nell’ex noviziato gesuita di
Sant’Ignazio, dove trovò spazio anche la raccolta d’arte collegata all’Accademia (incrementata
grazie alle spoliazioni di enti ecclesiastici).
3) Venezia, Gallerie dell’Accademia: nascono nel 1807 con le stesse modalità. Nel 1771 Pietro
Edwards viene nominato direttore del restauro delle pubbliche pitture, e nel contratto stipulato al
momento della nomina pubblica una sorta di “decalogo” che anticipa di due secoli la Carta del
Restauro (1972). Fissava le norme per l’intervento sulle opere pubbliche, sottolineando l’obbligo di
rispettare le materia originale e di documentare la metodologia dell'intervento, inoltre imponeva di
utilizzare prodotti di cui fossero note le modalità di rimozione, prefigurando il principio della
reversibilità del restauro.
I musei napoleonici del Regno d’Italia sono contraddistinti da orientamenti diversi: rassegna di
respiro enciclopedico a Brera e pinacoteche rappresentative della tradizione regionale a Venezia e
Bologna. Si è parlato di “collezionismo di Stato” per queste collezioni, in quanto si basano sulle
requisizioni e sono sostenute da aspirazioni democratiche.

Oggi ci si chiede come agire nei confronti di delle opere sottratte illegittimamente al loro contesto
originario es:
-Restituzione dei marmi del Partenone: Quatremère de Quincy, in questo caso, si dichiarava
favorevole alla loro acquisizione da parte del British, in quando nella loro sede originaria non erano
sufficientemente protetti.
-Rivendicazioni della Grecia dei marmi di Fidia, mentre l’Egitto dal 2001 tenta di recuperare le
opere emigrate in musei stranieri, riuscendo ad ottenere la Mummia di Ramses I dagli Stati Uniti e
richiedendo la restituzione della Stele di Rosetta all’Inghilterra e del Busto di Nefertiti alla
Germania; in seguito a queste azioni nel 2002 i direttori dei maggiori musei del mondo hanno
sottoscritto la Dichiarazione sull’importanza e il valore dei musei universali, a sostegno del loro
assetto ormai storicizzato e dell’azione da loro svolta nella diffusione della cultura.
-L’Italia sta lottando per ottenere opere uscite illegalmente e incautamente acquistate da musei

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stranieri, come alcuni affreschi e vasi che sono stati restituiti dal Paul Getty Museum; ma a sua
volta l’Italia ha partecipato a risarcimenti, restituendo alla Libia la Venere di Cirene e all’Etiopia la
Stele di Axum, trafugate nella prima metà del ‘900.

4. La storia dell’arte come scienza e i grandi musei dell’Ottocento

800: nuova stagione museale, nuova fase di progettazione museale. Dopo il Louvre i musei
diventano veramente pubblici e nascono i grandi musei nazionali. Fu in Germania che le teorie
espresse in Francia trovarono uno sbocco concreto nella realizzazione di edifici di chiara ispirazione
classica; le protagoniste di questa fase della progettazione museale sono Monaco e Berlino (progetti
di riqualificazione della città), dove il museo diventa occasione per ridisegnare il centro urbano e
conquista il ruolo di edificio simbolico della città. Edifici:

Glyptothek, Monaco: museo archeologico dell’architetto Leo von Klenze (nutriva il culto della
Grecia, della classicità), il cui prospetto inaugura la lunga sequenza di edifici della tipologia
“museo-tempio”. Si inaugura un nuovo nome: Gliptoteca (contenitore della glittica, pietre incise):
per estensione il nome si allarga ai musei di antichità. Viene chiamato glipteteca per rimandare
all’idea di uno scrigno, lo scrigno della scultura antica. Il principe ereditario Ludwig (sovrano molto
interessato alle arti) voleva fare di Monaco un centro importante per l’arte e per la cultura ed inserì
il museo nel quadro di una riqualificazione della città che, con l’istituzione del Regno di Baviera
(ottenuta con l’appoggio di Napoleone nel 1806), era assurta al rango di capitale. Ludwig voleva
creare un’Atene con edifici maestosi in cui rivivesse la classicità, del cui progetto fu incaricato Karl
von Fischer. Nella piazza principale dovevano fronteggiarsi il Walhalla (paradiso della mitologia
germanica, costruito per celebrare i personaggi tedeschi illustri), in forma di tempio
commemorativo degli eroi, ed il museo (in realtà poi il Walhalla venne realizzato a Regensburg
nelle forme di un tempio su alto podio che domina la città, con una raccolta di busti e statue). Von
Klenze realizza edifici che vogliono fare di Monaco una nuova Grecia: presenta i popoli tedeschi
come eredi della Grecia e quindi superiori ad ogni altro popolo europeo, come voleva Ludwig I.
Voleva agire come aveva fatto Palladio in Italia: si voleva porre come un architetto rinascimentale
italiano, ricollegandosi a modelli antichi. Nel 1812 Ludwig aveva arricchito la sua collezione
archeologica delle sculture dei frontoni del tempio di Afaia, scavate nell’isola greca di Egina
dall'archeologo inglese Charles Robert Cockerell. Nel 1814 l’Accademia indisse il concorso per la
realizzazione del museo, e vi parteciparono tre architetti: Haller (il cui progetto sfruttava il tema
della rotonda), von Fischer (il cui progetto prevedeva una sala a pianta centrale ispirata al Pantheon)
e von Klenze (propose tre soluzioni che si ispiravano all’architettura greca, romana e
rinascimentale, manifestando l’affermarsi delle tendenze storiciste tipiche dell’Ottocento). Ciascuno
dei tre progetti presentava sul prospetto un motto “in stile” (una frase di Platone, un verso di Orazio
e uno del Tasso). Ludwig, filoellenico, preferì il piano di von Klenze ispirato al tempio greco: i
lavori iniziarono nel 1816 e si conclusero nel 1830. La Glyptothek ha pianta quadrata con cortile
centrale e sul prospetto senza finestre sporge un pronao con colonne ioniche e frontone scolpito; ai
lati del pronao le pareti sono scandite da nicchie con statue. Le sale si sviluppano attorno ad un
cortile centrale: quelle angolari sono a pianta centrale e le altre sono rettangolari ma di dimensioni
diverse; una delle più ampie è quella dedicata ai marmi di Egina, mentre le altre prendono il nome
della scultura più importante in essa ospitata (come nei musei di Roma). Nella sala con i marmi di
Egina in alto si trovavano le sculture del frontone del tempio di Egina, pesantemente restaurate (ora
si presentano senza reintegri in quanto è stata fatta negli anni ’80 un’operazione di derestauro). Si
avevano anche una rappresentazione ed un modellino del tempio di Egina. Le opere erano ordinate
cronologicamente, partendo dalle antichità egiziane, proseguendo per quelle greche e romane e
terminando con una sala dedicata agli artisti neoclassici contemporanei (vengono recepite le idee di
Winckelmann). Von Klenze si trovò in conflitto con Johann Martin Wagner, pittore ed agente di
Ludwig incaricato di procurargli pezzi per la collezione; l’idea di museo di Wagner era che le opere
vanno ammirate per se stesse, senza elementi di distrazione, quindi le pareti devono essere neutre, i

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dettagli ornamentali vanno eliminati e, mentre alla collezione di Egina avrebbe voluto dedicare una
grande sala, il resto della collezione doveva essere ordinato per piccole sale e per serie
iconografiche. Al contrario, von Klenze (influenzato da Villa Albani, dal Museo Pio-Clementino)
era convinto che le sculture antiche dovessero essere accompagnate da decorazioni evocative delle
situazioni in cui le opere erano collocate in origine (con intarsi marmorei, stucchi, decorazioni con
fregi a palmette...). La Glyptothek era un museo elitario (con presenza di sale per ricevimenti e
banchetti, legate al cerimoniale di corte), estraneo ad una vocazione educativa (non c’erano neanche
le didascalie). Oggi il museo ha un allestimento moderno, dove le sculture sono isolate e viene dato
rilievo ai singoli pezzi; ha subito grandi danni durante la II guerra mondiale quindi non si è potuta
recuperare l’antica decorazione interna.
Alte Pinakothek, Monaco: commissionata da Ludwig I (divenuto re di Baviera nel 1825) a Von
Klenze per ospitare le collezioni di pittura. Progettata nel 1824 e conclusa nel 1836, rinuncia alla
tipologia neogreca ed offre un’interpretazione del palazzo rinascimentale italiano (coerentemente
alle collezioni da esporre), incentrata sul tema della galleria, con quattro brevi ali alle estremità
(assume una forma ad H). L’assetto originario è stato alterato dai restauri eseguiti per riparare i
danni della guerra. Lo spazio al piano superiore era ispirato ai palazzi italiani, con la divisione in tre
fasce parallele di sale comunicanti: al centro una galleria per i dipinti di grande formato, illuminata
con luce zenitale, da un lato una serie di cabinets per dipinti di piccole dimensioni, dall’altro una
loggia affrescata da Cornelius con episodi della vita degli artisti di cui si esponevano le opere. I
dipinti erano ordinati cronologicamente e diradati, mentre a pianoterra era collocata una collezione
di vasi antichi ed erano previsti uffici, depositi e la biblioteca. L’Alte Pinakothek fu largamente
imitata es: Ermitage, su progetto di von Klenze, venne realizzato da Vasily Stasov, che lo terminò
nel 1852; riprendeva l’idea di una sontuosa decorazione delle sale che rievocasse il contesto
originario delle opere ed era presente anche un sistema di pareti mobili per ottenere una migliore
illuminazione delle opere.
Neue Pinakothek, Monaco: di August von Voi, voluta da Ludwig I di fronte alla Glyptothek ma
ispirata all’Alte Piankothek. Primo museo in Europa votato alla modernità, era destinato ad ospitare
le collezioni di arte tedesca contemporanea. La pianta, a due ordini, riprendeva lo schema allungato
e l’illuminazione zenitale dell’edificio di von Klenze, ma era divisa in tre zone: alta zoccolatura in
pietra, fascia centrale con strette finestre e zona superiore con decorazione pittorica (prospetto meno
armonioso). Fu rasa in seguito ai danni dei bombardamenti del 1944 e ricostruita negli anni ’80 in
maniera del tutto indipendente.
Altes Museum, Berlino: di Friedrich Schinkel. Già dalla fine del ‘700 l’archeologo Aloys Hirt
aveva proposto a Federico Guglielmo II di costruire un museo nella capitale del Regno di Prussia,
ma il progetto partì solo con Federico Guglielmo III. Hirt sosteneva la necessità di rendere
pubbliche le collezioni reali affinché potessero essere studiate e contribuire al progresso della
società (istruzione pubblica unita al piacere della contemplazione; i principi base del museo
illuminista). Il progetto fu interrotto a causa della situazione politica, ma caduto Napoleone e
recuperate le opere predate ripartì. Schinkel, responsabile degli edifici del regno, propose un museo
che coincidesse con un ripensamento del centro cittadino, partito con la costruzione da parte dello
stesso Schinkel della Neue Wache, il Palazzo della Guardia (corpo a pianta quadrata preceduto da
un portico di ordine dorico e rischiarato da un oculo ispirato al Pantheon), che aveva inaugurato una
serie di edifici pubblici caratterizzati dall’utilizzo del linguaggio classico. Il museo chiudeva il
quarto lato del Lustgarden (giardino dei piaceri), circondato sugli altri lati dal Castello Reale, dal
duomo e dall’arsenale. L’Altes si trovava così a riscontro con i palazzi urbani più antichi, di alto
valore simbolico. Eretto tra 1825 e 1830 è una struttura a pianta rettangolare, con due cortili interni
e un portico frontale di colonne ioniche che ripropone il tema della stoà greca (galleria coperta ad
uso pubblico che sorgeva nei pressi dell’agorà). Nucleo centrale era la rotonda. Ad ispirare Schinkel
furono sicuramente i viaggi a Parigi, in Italia ed in Inghilterra. Il museo ha fortissimi richiami
all’architettura classica; prende a modello i grandi musei di antichità romana, in particolare il
Museo Pio-Clementino. Era un architetto, ma decise anche (assieme a storici dell’arte) cosa esporre
e come esporre. Schinkel raccolse opere dal territorio es. opere dell’antichità, frutto degli scavi della

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nascente scuola archeologica tedesca: era un museo misto (ora dedicato all’esposizione dei reperti
egiziani). Nell’ordinamento delle collezioni Schinkel fu sostenuto da uno storico dell’arte, Gustav
Friedrich Wageen (futuro direttore del museo), che lo sostenne nei contrasti che sorsero con Aloys
Hirt, che concepiva il museo come luogo votato esclusivamente allo studio. Schinkel pensava
invece ad un museo capace di elevare lo spirito attraverso la contemplazione della bellezza, che
doveva investire anche l’architettura; era un’idea influenzata da Hegel, docente di Estetica e
maestro di Waagen. Di fronte alle molte voci discordanti, Hirt dovette dimettersi dalla
commissione. Schinkel crea una nuova tipologia di museo: il museo tempio, per le sue forme ma
anche perché è il tempio dell’arte e del sapere; riprende le idee di Winckelmann riguardo alla
superiorità dell’arte antica, che rappresenta la bellezza: culto dedicato a quest’arte nel museo (a
stampo idealistico). Vige il sentimento preromantico della nostalgia. Nel museo, le sculture antiche
erano collocate al piano inferiore, mentre al piano superiore era riservato alla pinacoteca e nella
rotonda (doppio significato, sacro perché circolare e perché centrale) si trovavano le opere di grandi
dimensioni raffiguranti divinità (come nel Pio-Clementino), poste tra le colonne che sostenevano il
ballatoio. La pianta è regolare e funzionale, con stanze più piccole destinate al restauro. L’interno
del museo vede un grande uso del colore, con l’idea di far risaltare la candida statuaria classica. I
dipinti erano divisi in categorie a seconda della loro qualità: le opere ritenute inferiori erano esposte
in salette secondarie. Venivano privilegiati (come spesso avveniva all’epoca) i protagonisti del
Rinascimento italiano e del Seicento, in successione cronologica e per scuole. Con la presenza dello
storico dell’arte in qualità di responsabile della raccolta nasce una nuova scienza che ha al centro il
museo: si affacciava una nuova generazione di studiosi per la quale era fondamentale l’esame
diretto delle opere. Schinkel lavora con due storici dell’arte molto importanti, che fanno capire al
kaiser l’importanza che ad occuparsi dei musei non più artisti ma figure specializzate. Si assiste alla
nascita in parallelo del museo come luogo di istruzione (mostrare lo sviluppo dell’arte) e delle
prime figure di storici dell’arte professionisti. L’Altes è il primo edificio realizzato nella
Museuminsel (Isola dei Musei); infatti ad esso si aggiunsero nuovi edifici, resi necessari
dall’incremento delle collezioni.
Neues Museum, Museuminsel: destinato alle collezioni egizie ed all’archeologia greco-romana.
Schinkel era stato colto da paralisi nel 1840, quindi l’edificio venne realizzato tra 1843 e 1855 dal
suo allievo August Stüler; recuperava dall’Altes il motivo del portico frontale, sormontato però da
una maestosa costruzione a due ordini. L’interno era improntato al classicismo, con sale colonnate,
scalinate monumentali, decorazioni pittoriche e fregi scolpiti. Distrutto in parte nella seconda guerra
mondiale, è stato oggetto di un restauro conclusosi nel 2010.
Nationalgalerie (1866-76), Museuminsel: voluto da Federico Guglielmo IV (mecenate) per
accogliere le collezioni di arte tedesca, in seguito alla donazione di una raccolta di 260 dipinti di
artisti tedeschi da parte del banchiere Wagener. Stüler utilizzò un lessico architettonico classico
(ormai era la tipologia che connotava in maniera inconfondibile il museo), realizzando un tempio
corinzio su scalinata al vertice della quale è collocata la statua del re; la tipologia è sempre quella
del museo tempio, ma all’interno si trovano opere contemporanee. La forma classica è ciò che si
aspettavano anche all’interno la committenza e il pubblico. Hugo Von Tschudi, storico dell’arte,
decise di esporre nella galleria i quadri dell’Impressionismo francese, considerata poi come arte
degenerata (prima volta in Germania). La realizzazione di questo museo coincide con la creazione
dell’Impero tedesco nel 1871(unificazione degli stati tedeschi); i musei acquistano un’importanza
politica, diventano musei nazionali. Nel timpano in facciata troviamo la personificazione della
Germania come patrona delle arti. Inaugurato nel 1776, il museo è stato restaurato dai danni della
guerra nel 2001.
Kaiser Friedrich Museum (1904), Museuminsel: realizzato da Ernst von Ihne, che gli diede la
forma di palazzo neobarocco. Il primo direttore fu Wilhelm von Bode, esponente della scuola di
storia dell’arte di Berlino (sulle orme del suo maestro Wageen), ed il museo gli venne dedicato nel
1956, cambiando il nome in Bode Museum. Bode, orientato verso gli aspetti didattici, era convinto
che le opere d’arte risultassero più comprensibili se “ambientate”, ossia inserite in sale che
riproponessero il contesto dei luoghi di provenienza: i dipinti medievali e rinascimentali vengono

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inseriti in ambienti ispirati alla chiesa gotica, al palazzo rinascimentale toscano, alla residenza
cinquecentesca (linea adottata dalle period rooms di area anglosassone); crea delle sale d’epoca
(period rooms), che influenzarono molto il museo novecentesco americano. Tenta di farvi
convogliare opere autentiche, perlopiù acquistate in Italia. Il museo venne dedicato alla grandezza
del Rinascimento italiano (oggi ci sono anche opere di altre epoche e di altri contesti).
Pergamonmuseum (1930), Museuminsel: nato per ospitare i pezzi archeologici acquisiti nelle
campagna di scavo tedesche degli anni ’20-’30 (via sacra di Babilonia, prospetto del mercato di
Mileto, porta Ishtar)

Roma: nuovi museo vaticani

1)Museo Chiaramonti: papa Pio VII Chiaramonti affidò al Canova l’allestimento di una nuova
sezione destinata a contenere quasi mille sculture antiche, utilizzando la parte finale del corridoio
orientale del Bramante che si collega al Pio-Clementino. Inaugurato nel 1807, il Museo
Chiaramonti ha mantenuto pressoché intatto l’ordinamento, sottolineato dalla decorazione delle
lunette che celebra il ruolo del pontificato nella promozione delle arti.
2) Braccio Nuovo: Canova sollecitò il papa per realizzare un museo che raccogliesse le sculture
restituite alla Francia dopo la caduta di Napoleone. L’architetto Raffaele Stern completò il progetto
nel 1822: il Braccio Nuovo attraversa il Cortile della Pigna e corre parallelo alla Biblioteca voluta
da Sisto V. È una galleria con volta a cassettoni interrotta da lucernari, sui fianchi della quale sono
collocate in 28 nicchie sculture di grandi dimensioni alternate a busti su rocchi di granito rosso,
mentre sulla parete alta si trova una serie di bassorilievi ispirati ai più celebri monumenti romani. Al
centro abbiamo una sala absidata con il “Nilo”. Vi è un uso raffinato di materiali antichi: il
pavimento, ad esempio, è costituito da mosaici romani originali. Si tratta del capolavoro
dell’architettura neoclassica. E’ un ambiente elegantissimo con luce zenitale.
3) Pinacoteca Vaticana: la collezione di dipinti papale era collocata dal 1816 nell’appartamento
Borgia e dal 1821 in quello di Gregorio XIII. Il primo nucleo della quadreria era stato formato da
Pio VI riunendo i dipinti sparsi nei vari palazzi pontifici, che però dopo il Trattato di Tolentino
vennero confiscati da Napoleone. Recuperate nel 1816, le opere vennero riunite a quelle razziate
negli Stati Pontifici. Nel 1932 la pinacoteca trova una sede definitiva in un palazzo al di là del
Cortile della Pigna, voluto da Pio XI e costruito da Luca Beltrami.

Parigi:
Musée de Cluny: museo interamente dedicato all’arte medievale e situato in un edificio gotico
costruito a fine ‘400. Accoglie la collezione di Alexandre du Sommerard, precocemente interessato
alle antichità medievali. Aperto nel 1834, il museo fu allestito da Albert Lenoir (figlio di Alexandre)
ed inaugura il tipo di museo “romantico”, dal quale discenderanno molti musei ottocenteschi
dedicati alla storia ed alla cultura nazionale (nasceranno molto musei votati alla celebrazione del
patrimonio nazionale).

Spagna:
Il Prado: inaugurato nel 1819 per accogliere le collezioni reali. In origine era un museo dedicato
alle scienze naturali, voluto da Carlo III nell’ambito di un disegno di revisione urbanistica del
centro cittadino che aveva come fulcro l’Accademia delle Scienze con l’annesso Giardino Botanico
(voleva dar vita ad una cittadella del sapere scientifico). L’architetto di corte, Juan de Villanueva,
realizzò un edificio neoclassico, ricostruito dopo i danni dell’occupazione francese sempre su
disegno di Villanueva. Un porticato ionico in facciata introduce al nucleo centrale coperto a cupola
e fiancheggiato da gallerie. E’ caratterizzato da un perfetto equilibrio delle strutture, con una
armoniosa varietà di sale ellittiche a pianta centrale, voltate. È uno dei più alti esempi di
museografia neoclassica, tanto che verrà ripreso a modello dalla National Gallery of Art di
Washington.

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Inghilterra: prosegue l’impegno nella fondazione di musei realizzati con finanziamenti pubblici,
secondo la tradizione iniziata con il British Museum.
1) Il British venne ricostruito in altra sede in seguito all’acquisto da parte del Parlamento britannico
dei marmi del Partenone ottenuti (o sottratti?) dall’ambasciatore inglese Lord Elgin ad Atene.
Robert Smirke completò il nuovo edificio nel 1847 (era stato iniziato da William Wilkins),
adottando la tipologia del tempio ionico in corpo centrale arretrato, concluso da due ali laterali
colonnate. L’intervento più recente (concluso nel 2000) ha profondamente modificato l’assetto
interno del museo, aggiungendo inoltre una volta vetrata sul cortile.
2) Dulwich Picture Gallery (1811-1813): opera di John Soane ed uno dei primi edifici destinati
all’esposizione di dipinti. All’esterno presenta un sobrio prospetto rivestito in mattoni, con assenza
degli elementi tipici del lessico classico. All’interno si hanno sei sale con ampi lucernari, con pochi
arredi che alludono all’origine del museo come collezione privata.
3) Sir John Soane’s Museum: prototipo della casa-museo in quanto abitazione di Soane, ma
pensato a beneficio di dilettanti e studenti. Il museo raggiunge effetti spettacolari grazia all'uso di
specchi convessi che dilatano i ridotti spazi, e vengono introdotte soluzioni come i piani mobili
della Picture Room che si aprono a libro consentendo l’esposizione di un gran numero di dipinti.
4) National Gallery: istituita dal Parlamento britannico nel 1824; inizialmente ospitata a Pall Mall
nella residenza del banchiere Angerstein (donatore di un primo nucleo di dipinti); tuttavia con
l'espandersi della raccolta venne costruito un nuovo edificio in Trafalgar Square, concepito da
William Wilkins in forme neoclassiche e realizzato tra 1832 e 1838. Una nuova ala ha affiancato
l’edificio nel 1991, ma l’allestimento ottocentesco è rimasto pressoché inalterato.
Tema museografico dibattuto: andrebbero ripristinati gli allestimenti storici? Es. In Gran Bretagna
sono stati ripristinati nel corso di restauri sia la National Gallery of Scotland ad Edimburgo (1988);
citazione di tempio greco con interni rivestiti in velluto rosso, che la Manchester City Art Gallery,
dove sono state recuperate le originarie decorazioni di gusto romantico.

Nel corso dell’Ottocento nonostante il dominio della tipologia classica, molti edifici adottano uno
stile monumentale ispirato all’architettura civile del Rinascimento e del Barocco. Es:
-Dresda: Gottfried Semper, architetto brillante della museografia ottocentesca) applica lo schema
del palazzo barocco alla Gemaldegalerie (1847-1855), con un prospetto a doppio ordine con
portico colonnato e cupole che emergono ai lati del corpo centrale. Distrutta nei bombardamenti del
1945, è stata ricostruita dieci anni dopo e in un restauro del 1988-1992 sono state rifatte anche le
decorazioni originali, sulla base di foto d’epoca.
-Vienna: qui l’adozione della tipologia neobarocca trova la sua forma più completa e grandiosa.
Nel quadro della nuova sistemazione della piazza centrale della città, G.Semper progettò con
l’architetto Karl von Hasenauer due monumenti gemelli dedicati all’arte (Kunshistorisches
Museum) e alle scienze naturali (Naturhistorisches Museum), realizzati tra 1872 e 1891; a pianta
rettangolare, si fronteggiano con prospetti dal corpo centrale aggettante con cupola su tiburio
ottagonale (ispirazione rinascimentale).

5. Musei d’arte applicata e musei per la scienza

A partire dalla seconda metà dell‘800 nacquero in Europa delle grandi esposizioni: gli articoli
esposti erano il frutto dell'industrializzazione (oggetti in serie di arti minori) e, dato che il
rinnovamento aveva come epicentro l’Inghilterra, la prima esposizione a carattere universale si
tenne a Londra: la Great Exhibition of Industry of All Nations si inaugurò a Hyde Park il primo
maggio 1851, con espositori provenienti da ogni parte del mondo industrializzato. In sei mesi di
apertura, affluirono oltre sei milioni di visitatori. I fautori dell’esposizione furono Gottfried Semper
e Henry Cole: fu una delle prime occasioni in cui una grande massa di pubblico visitò un museo
temporaneo. Gli oggetti esposti erano oltre centomila, suddivisi in quattro categorie: Materie prime,
Macchinari e Invenzioni meccaniche, Manufatti, Sculture e Arte Plastica. Le opere erano divise in
Departments dedicati alle diverse tipologie di prodotti (ceramiche, vetri, gioielli...), e una guida

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venne messa a disposizione del pubblico per orientare la visita. Era esposta sia la produzione
industriale che opere d’arte di diverse provenienze e diversi periodi. Gli oggetti erano posti in
grandi stand; si rese necessario un modo di esposizione il più possibile utile e facile da comprendere
per l’enorme pubblico, vennero escogitati del percorsi, l’evento venne intensamente pubblicizzato.
Per l’occasione Joseph Paxton, già progettista delle serre del duca di Devonshire, costruì in Hyde
Park un edificio estremamente moderno in ferro e vetro (il Crystal Palace) con pezzi che
permettevano il montaggio e smontaggio di ogni sua parte. La sua novità stata quindi nella
concezione e nell’uso di nuovi materiali.
Il successo dell’esposizione convinse gli organizzatori a creare una collezione permanente con gli
oggetti che avevano preso parte alla manifestazione, con evidente funzione didattica: gli oggetti
avrebbero testimoniato l’evoluzione della tecnica e delle potenzialità creative e commerciali. Si
pensò utile esporre permanentemente oggetti di altri paesi per migliorare la produttività degli inglesi
e servire da insegnamento agli artigiani, agli artisti, agli industriali, agli studenti.
1852: su iniziativa di Henry Cole fu fondato nella sede di Marlborough House il Museum of
Manufactures, che ebbe come nucleo iniziale gli oggetti acquistati all'esposizione, affiancati nel
tempo da opere d’arte antica. Si rese ben preso necessaria una sede più ampia, realizzata nella zona
di Brompton a partire dal 1855 su un progetto in ferro e vetro sul modello del Crystal Palace a cui
partecipò lo stesso principe Alberto. Fu inaugurato nel 1857 con il nome di South Kensington
Museum. Era costituito da tre corpi paralleli voltati a botte.
Per la prima volta macchinari ed oggetti d’uso erano musealizzati al pari delle opere d’arte.
Vengono per la prima volta rivalutate le “arti minori”, che non avevano trovato grande spazio nei
musei. Venivano offerti ai visitatori una serie di servizi mai prima d’allora concepiti per un museo:
un ristorante, l’illuminazione a gas per consentire le visite serali...
Il museo venne modificato nel 1899 su progetto di Aston Webb e Henry Young Scott e ribattezzato
Victoria and Albert Museum (in onore dei regnanti che posero la prima pietra): rappresenta la
prima rottura con la tradizione ottocentesca di musei ispirati al mondo classico e costituisce un
modello molto imitato (inaugura una nuova tipologia museale), con la sua planimetria articolata in
una serie di hall, corti vetrate e gallerie, quindi in una serie di ambienti luminosi e flessibili.
Vengono introdotti inoltre una serie di servizi al pubblico mai concepiti fino ad ora.
Oggi il museo è votato in particolare alla scultura, specie quella rinascimentale. In Italia una
tipologia simile di museo è quella del Bargello, che ospita collezioni di scultura (in particolare dalle
collezioni medicee) e in più un nucleo di oggetti dalle arti minori (oreficeria, armi, ceramiche):
doppia vocazione del Bargello (anche se nacque con l’intento di essere un museo di arte
donatelliana).
Si diffuse in Europa l’idea che fosse necessario trovare un punto d’incontro tra arte, industria e
società, ed in particolare studiare l’utilità dell’arte applicata all’industria.
Gottfried Semper e Sir Henry Cole, fautori dell’Esposizione Universale del 1851, erano convinti
che fosse necessario spostare l’asse dell’educazione artistica dalle Accademie a scuole dedicate
all’insegnamento delle arti decorative, associate a musei di arte applicata all’industria.
Si assiste, nella seconda metà dell’Ottocento, al susseguirsi di Grandi Esposizioni, alla fondazione
di scuole dedicate all’insegnamento delle arti applicate ed alla creazione di musei di arte decorativa
(ispirati al modello inglese) es.
Parigi (dove nel 1855 si tenne la seconda Esposizione Universale): esisteva già dal 1794 il
Conservatoire des Arts et Métiers, istituzione nata per incentivare lo sviluppo sociale ed
economico. Le collezioni del Conservatoire comprendono strumenti scientifici, macchinari, disegni,
e costituisce un modello per i musei della scienza e della tecnica e per i musei industriali che, nel
corso del XIX secolo, si diffonderanno in tutta Europa.
I musei nati con intento tecnico-scientifico sono meno preoccupati delle valenze estetiche dei
prodotti esposti.
In Italia il processo di industrializzazione si avviò solo negli ultimi decenni dell’Ottocento e
interessò specialmente le aree settentrionali. La tradizione artigianale e la pratica di bottega non
avevano facilitato il confronto con la nuova realtà tecnologica.

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La prima Esposizione Nazionale si tenne a Firenze nel 1861, nella nuova stazione Leopolda;
aveva il carattere enciclopedico ed onnicomprensivo delle manifestazioni che si realizzavano in
quegli anni in Europa, ma rimandò l’immagine di una nazione ancora vincolata ad una produttività
di tipo artigianale: risultò evidente la necessità di applicare l’elevato livello artistico-artigianale ad
una produzione industriale moderna, ed il settore individuato era quello dell’arte applicata
all’industria. Si delineò chiaramente, tuttavia, l’inadeguatezza della formazione tecnica degli
artigiani ed operai italiani.
Secondo alcuni, le numerose accademie artistiche italiane avrebbero dovuto trasformarsi in scuole
professionali rivolte all'acquisizione di competenze utili alla produzione industriale, con il
conseguimento di abilità che trasformassero un oggetto dotato di valore estetico in prodotto
riproducibile in serie. Venne sentita necessaria l’associazione tra musei e scuole, ed il modello
ripreso fu quello di Londra, dove era stata annessa una scuola al South Kensington con l’intento di
formare i nuovi designers.

Musei Industriali italiani:

1) Torino: nel 1862 nacque il primo museo industriale italiano, il Museo Civico di Arte Applicata
all’Industria, affiancato preso da un Istituto tecnico. Erano esposti materiali ritrovati negli scavi
effettuati in occasione della costruzione della linea ferroviaria Torino-Milano, prodotti delle grandi
manifattura di ferro ed acciaio, collezioni di vetri e ceramiche, carrozze... C’era la volontà di far
coesistere diversi ambiti del sapere (archeologico, artistico-artigianale, tecnico-scientifico). Il
progetto si rivelò tuttavia un fallimento.
2) Milano: nel 1871 l’Associazione Industriale Italiana promuove a Milano la prima Esposizione
Industriale ed afferma di voler promuovere un museo che ospiti le collezioni di oggetti antichi e i
prodotti dell’industria nazionale lodevoli per le loro qualità artistiche, annuncia inoltre l’annessione
al museo di scuole professionali finalizzate allo studio dell’arte e all’applicazione del disegno
all’industria. L’Associazione organizzò, nel 1874, l'Esposizione Storica d’Arte Industriale,
rassegna di prodotti industriali dotati di qualità artistiche, che ospitò diecimila oggetti, che
avrebbero dovuto costituire la base del Museo d’Arte Industriale. Nel 1876 il comune acquistò il
Salone dov’era avvenuta la rassegna e le raccolte artistiche municipali si aggregarono a quelle del
costituendo museo; l’Associazione Industriale aveva ceduto le proprie raccolte al Museo Artistico
Municipale, incaricandolo di perseguire scopi educativi tramite l'istituzione di una scuola di disegno
dove addestrare i giovani ad applicare l’arte all’industria. Il Museo Artistico Municipale viene
inaugurato nel 1878 ma solo nel 1882 gli verrà annessa una Scuola d’Arte Applicata all’Industria. Il
museo mantenne i criteri tipologici dei musei d’arte applicata, suddividendo le collezioni di oggetti
d’arte minore in classi (avori, ceramiche, vetri...); tuttavia si configurò più come depositario delle
raccolte artistiche civiche che non come museo di tipo industriale. Era evidente, come a Torino, la
difficoltà di far coesistere collezioni di tipo artistico-artigianale con quelle tecnico-scientifiche.
Nel 1884 nasce a Torino, presso il museo industriale, una sezione con il primo Museo Commerciale
italiano e l’anno dopo nasce un museo dalla stessa denominazione presso la Camera di Commercio
di Milano. Queste istituzioni, sempre a scopo didattico, erano ben lontane dai primi musei
industriali , in quanto si rivolgevano prevalentemente agli operatori del settore industriale e
commerciale, a cui si volevano mostrare le migliori produzioni nazionali e straniere, a fini
dimostrativi e senza implicazioni di carattere estetico.
L’evoluzione di queste esperienze sarà la trasformazione di questi musei in musei della scienza e
della tecnica, tuttavia in Italia si avrà un sostanziale fallimento di tutte le iniziative nate sotto l’egida
di industria e commercio; il primo vero e proprio Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica,
intitolato a Leonardo da Vinci, nasce a Milano solo nel 1953, ed è l’unico museo pubblico di questo
genere in Italia. Nel corso del secondo Ottocento ebbero grande impulso i musei naturalistici,
lontani dal concetto di meraviglia che era stato il criterio ispiratore delle prime raccolte
naturalistiche nate tra fine Cinquecento ed inizi Seicento, accomunate alle Wunderkammern per la
loro caratteristica di suscitare sorpresa. Nelle prime raccolte di reperti naturali convivevano

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botanica, mineralogia, zoologia.
Tra le più antiche raccolte naturalistiche si hanno quella di Ulisse Aldovrandi, naturalista bolognese
(seconda metà del ‘500) e quella dello speziale napoletano Ferrante Imperato, il cui museo,
illustrato nel suo Dell’Historia Naturale Libri XXVIII (1599) costituisce una delle prime
raffigurazioni degli ambienti dedicati alla collezione; erano ambienti caratterizzati da una grande
quantità di reperti, disposti ad incrostazione su pareti, dentro armadi, su scaffali e su soffitto. Tale
allestimento consentiva la suddivisione in gruppi e la visione simultanea dei reperti. Questa
tipologia collezionistica era diventata sempre meno frequente perché via via divenne più netta la
separazione tra l’ambito artistico e quello scientifico con una conseguente specializzazione delle
raccolte: in una sola raccolta non potevano più convivere oggetti di tipo diverso. Quindi nel corso
degli anni le collezioni naturalistiche si definiranno sempre più in direzione scientifica fino a
raggiungere una totale sistemazione nell’età dei lumi (passaggio da raccolte eterogenee a raccolte
omogenee).
Nell’Età dei Lumi la trasformazione delle vecchie raccolte naturalistiche in musei pubblici porrà
diversi problemi di ordinamento, soprattutto perché queste collezioni sono in continuo
accrescimento, quindi è difficile inserirle entro spazi museali limitati (vi è il bisogno di ambienti
flessibili); inoltre la grande difformità delle caratteristiche fisiche dei reperti comporta impegnative
soluzioni di allestimento. Per di più, l’evoluzione del pensiero scientifico impone il costante
aggiornamento del museo. Per quanto riguarda l’allestimento, non si seguivano più criteri estetici
come nelle wunderkammern ma criteri scientifici: gli oggetti erano organizzati in maniera razionale
e in un museo vi erano molte sezioni, ognuna dedicata ad una tipologia di oggetti e ognuna con un
allestimento differente a seconda dell’esigenza.
Con il tempo nascono nuclei dedicati all’approfondimento dei vari aspetti della natura, nascono
quindi musei di storia e scienze naturali, di scienza e tecnica, di astronomia, fisica...
Un importante punto di arrivo è il Naturhistorisches Museum di Vienna, edificato tra 1872 e 1889.
Articolato attorno ad una corte centrale comprende una variatissima gamma di sezioni. Una
soluzione adottata da diversi musei di storia naturale per ospitare reperti di grandi dimensioni (es.
scheletri di animali preistorici) è la corte vetrata, spesso punto nodale del percorso espositivo. Nei
musei naturali il tipo di approccio offerto al pubblico è spesso interattivo e multimediale, tuttavia
tale impostazione rischia talvolta di prevaricare i contenuti del museo a causa di un’eccessiva
spettacolarizzazione, in particolare nel corso della seconda metà del XX secolo i musei della
scienza e della tecnica hanno avuto grandissimo sviluppo, diventando come piccole città di
padiglioni espositivi es. a Valencia il museo naturale è un vasto parco che comprende anche un
teatro ed uno zoo.

6. Un museo per la città: nascita dei musei civici in Italia

Una tipologia di museo caratteristica dell’Italia postunitaria è il museo civico. Sono principalmente
due i “fenomeni” che favoriscono la diffusione di questa tipologia museale:
1)Diversi collezionisti o artisti decidevano di legare le proprie raccolte alla città con l’esplicito
proposito di creare un museo (che poteva anche essere accolto nelle proprie abitazioni, quindi in tal
caso “case-museo”). Molto spesso i musei civici coincidono infatti con i musei di ambientazione,
che avranno grande successo in Italia, soprattutto la tipologia della casa-museo. Es
1830, Venezia: Teodoro Correr designa le sue raccolte alla città purché vengano mantenute nel suo
palazzo ed aperte al pubblico.
1861, Milano: lo scultore Pompeo Marchesi dona tutte le opere presenti nel suo studio, così come
fanno in seguito Antonio Guasconi e il conte Gian Giacomo Attendolo Bolognini. Erano collezioni
inadatte alla Pinacoteca di Brera (la prima era composta di sculture moderne, nelle altre due c’erano
non solo dipinti ma anche ceramiche, mobili, disegni).
2) Un altro elemento che favorì la nascita dei musei civici fu l’affermarsi di una legislazione che
ridimensionava il potere temporale della Chiesa. Già nel 1850 un ministro del Regno di Sardegna,
Giuseppe Siccardi, aveva fatto approvare le “leggi separatiste”, volte a rompere l’alleanza tra Stato

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e Chiesa, abolendo tra i privilegi della Chiesa il foro ecclesiastico (tribunale che sottraeva alla
giustizia laica gli uomini di chiesa), il diritto d’asilo (impunità garantita a chi si rifugiava in chiesa),
e la manomorta (inalienabilità ed esenzione dalle imposte dei possedimenti ecclesiastici).
Questi provvedimenti furono rafforzati dalla legge Rattazzi (1855) che aboliva nel Regno di
Sardegna gli ordini religiosi ritenuti privi di utilità sociale. Su questa linea si ponevano le “leggi
eversive” dell’Italia unita, la prima delle quali (1866) negava il riconoscimento a ordini e
congregazioni religiose e ne espropriava i beni, che venivano incamerati dal demanio dello Stato,
accrescendo enormemente i beni di cui lo Stato doveva provvedere. Di questa situazione
approfittarono le famiglie aristocratiche, cercando di riappropriarsi delle opere offerte dai loro
antenati alla chiesa, nonché il mercato, che godeva di questa situazione confusa. Lo Stato si ritrovò
con un grande patrimonio nelle mani da tutelare ma l’Italia unita non disponeva ancora di un
apparato legislativo atto a proteggere i beni passati al demanio; solo lo Stato Pontificio emanò
apposite leggi di tutela.
Le prime istituzioni investite del problema del ricovero delle opere nazionalizzate furono le
accademie, a cui fu affidata in un primo tempo la cura delle opere, tuttavia era una soluzione
inefficace per l’indisponibilità di spazi adatti e per la mancanza di personale; occorreva creare delle
strutture idonee, quindi si affermarono e si moltiplicarono poi musei civici.
Nel 1861 gli studiosi Giovanni Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli vennero incaricati di
redigere un inventario delle opere d’arte già di pertinenza ecclesiastica in Umbria e nelle Marche,
per assicurare allo Stato la proprietà giuridica dei beni, tuttavia la loro esclusiva attenzione per le
opere di maggior pregio rispecchia una concezione elitaria di bene culturale, che ha influito sui
criteri di salvaguardia adottati nei confronti del patrimonio ecclesiastico da musealizzare.
Nel 1863 Cavalcaselle inviò un rapporto al Ministero della Pubblica Istruzione in cui esponeva i
principi-guida della tutela (catalogazione, nomina di ispettori locali, controllo dei restauri, divieto di
esportazione), già presenti nelle leggi degli stati preunitari.
Spesso, i musei civici sono stati visti come “cimiteri dell’arte”, luoghi di deportazione di opere
sradicate, ma in realtà questi musei sono stati importanti baluardi contro le dispersioni.
Le urbanizzazioni affrontate in molte città d’Italia nel secondo Ottocento hanno contribuito alla
crescita dei musei civici.
Gli ambiti cui si rivolge il museo civico sono ciò che attiene alla storia locale, le memorie cittadine,
vengono quindi raccolti anche molti reperti medievali, generalmente esclusi dai circuiti “alti” delle
grandi raccolte. È qui che trovano anche spazio le raccolte d’arte applicata, secondo la consuetudine
di molti collezionisti di consegnare al museo civico l’intero contenuto della propria dimora.
La varietà degli oggetti raccolti pone i musei civici sulla linea inaugurata dal South Kensington
Museum, che fu assunto come modello dai musei ottocenteschi.
Spesso nei musei civici era compreso un settore dedicato alla storia, che in molti casi è divenuto
autonomo in veste di museo storico; questi musei spesso si focalizzano sull’epopea risorgimentale,
dandone una lettura celebrativa.
In Francia negli anni ’50 il museologo Georger Rivière ha elaborato la nozione di “patrimonio
territoriale”, intendendo con questo l’insieme di storia, archeologia ed etnografia di un territorio; i
musei storici, secondo questa concezione, comprendono oggetti e documenti in dialogo costante,
secondo il concetto di musée discours che troverà ulteriore sviluppo nell’ecomuseo.
In Germania il museo civico italiano trova un corrispondente nel Landesmuseum (museo regionale),
mentre il museo di storia patria è rappresentato dallo Heimatmuseum, che si è nel tempo avvicinato
al modello francese, mettendo al centro dell’interesse gli aspetti socioculturali della comunità.

6.1. I Musei Americani: origini e sviluppo

Prima della nascita dei musei pubblici vi era un gran numero di collezioni private.
L’esperienza museale comincia nel 1786 quando Charles W. Peale istituisce a Philadelphia un
museo scientifico a scopo didattico. Assieme alla collezione naturalistica vi era una collezione di
ritratti di uomini eminenti della società americana (Peale era un ritrattista). Dovette poi chiudere il

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museo per mancanza di fondi.
Tipica della concezione americana dei musei era la vocazione didattica, ottenuta tramite un
approccio che mirava ad attirare il pubblico con l’intrattenimento. Tipici della prima fase mussale
americana erano piccoli musei storici, ma comunque molto visitati e apprezzati, che documentavano
le fasi dell’Indipendenza americana. Erano portatori di valori legati alla formazione di un’identità
nazionale, quindi aveva successo.
Il primo museo dedicato alle arti visive fu la Yale Art Gallery: istituita nel 1831 con la donazione
all’università di 100 opere dall’artista John Trumbull, cui si aggiunsero nel tempo altri lasciti. Sarà
però negli anni 80 dell’800 che nasceranno i più importanti musei americani pubblici. La loro
fondazione nasceva dall’iniziativa privata di personaggi influenti della società: questo segna una
grande differenza rispetto ai musei europei, che si rifletterà anche sulla gestione. Erano musei che
nascevano sul mercato e le collezioni si formavano attraverso l’acquisto di opere d’arte da parte di
mercanti e banchieri con la consulenza di storici dell’arte. queste collezioni erano quindi estranee
alla cultura americana e necessitavano di conseguenza di di spiegazione: motivo per cui veniva
posta in primo piano la missione educativa. La didattica museale si può dire che sia nata negli Stati
Uniti. Il pubblico venne messo in primo piano, non venne mai trascurato. Volevano dare risposte
efficaci a un pubblico sempre più vasto ed esigente.
Per concezione e gestione erano quindi diversi dai musei europei, a differenza del loro prospetto
architettonico. Architettonicamente infatti prendevano direttamente come modello i grandi musei
europei, quelli della tipologia del museo-tempio (stile neoclassico). L’attenzione ai visitatori assume
una posizione centrale. Nel 900 i musei americano verranno presi come esempio dagli europei per
quanto riguarda questo aspetto. Quindi si può dire che si sono influenzati a vicenda.
Principi guida dei musei americani:
-forte vocazione didattica
-rapporto con la produzione industriale
Mettere in pratica le nuove idee museali (idea di museo come servizio) era un compito facilitato dal
fatto che i musei statunitensi sono di nuova fondazione, quindi svincolati dalle limitazioni imposte
dalla collocazione in edifici antichi.
-Metropolitan Museum of Art (MET), 1880: è uno dei primi musei pubblici americani. New York
voleva dotarsi di un grande museo che sia al pari di quelli delle grandi capitali europee.
Joseph H. Choate, discorso inaugurale per l’apertura del Metropolitan Museum: “Pensate, oh voi
milionari di tanti mercati, quale gloria potreste ottenere ascoltando il nostro consiglio: convertite il
porco in porcellana, il grano e altre derrate in ceramiche preziose, le rozze materie prime del
commercio in marmi scolpiti, e le azioni delle ferrovie o delle miniere – roba che sparisce se non
usata e che al prossimo crollo finanziario si accartoccerà come rotoli di pergamena – nelle gloriose
tele dei grandi maestri che adorneranno questi muri per secoli”.
Due provvedimenti legislativi sono alla base dello sviluppo mussale americano:
-Payne Aldrich Tariff, 1909: toglieva le tasse d’importazione sulle opere d’arte più antiche di 20
anni
-Federal Revenue Act, 1917: deduce le tasse ai cittadini che fanno donazioni a musei o
organizzazioni artistiche.
-Casa-museo di Isabella Stewart Gardner Museum, Boston, 1920: museo d’ambientazione.
Isabella (presenza forte delle donne nella museologia americana) aveva subordinato la donazione al
vincolo di non spostare alcun oggetto dalla posizione da lei assegnata. Crea una collezione ed un
monumento a se stessa. È presente anche un cortile realizzato montando pezzi di palazzi veneziani;
si è ancora in un contesto di museo d’ambientazione.
-Cleveland Museum of Art: a dispetto dell’uso di colonne ioniche e della rotonda, è un notevole
esempio di organizzazione moderna e razionale di un’esposizione pubblica, con un piano principale
riservato alle collezioni con al centro la rotonda fiancheggiata da due corti vetrate (una destinata
all’esposizione, l’altra concepita come giardino coperto per la sosta), e un basamento dove collocare
gli uffici amministrativi e i servizi al pubblico (sale di studio, biblioteca, sala per conferenze, spazio
riservato ai bambini). Qui, per la prima volta negli Stati Uniti, compare la period room tipica dei

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musei americani, creata per contestualizzare opere svincolate dalla loro destinazione originaria,
accostando materiali della stessa epoca in modo da ricostruire l’ambiente per il quale erano stati
creati (all'origine di questo modello c’è il Kaiser Friedrich Museum di Wilhelm von Bode, a sua
volta debitore del Germanisches Museum di Norimberga che nel 1888 aveva diviso le raccolte
d’arte applicata tedesca in sei sale “ambientate” e disposte in ordine cronologico). Viene applicata la
differenziazione dei percorsi: gallerie per gli studiosi e period rooms. Vengono smontati interi
complessi, poi ricostruiti nel museo.
H. W. Kent, The why and Wherefore of Museum Planning, 1932: I musei di recente costruzione
negli Stati Uniti mostrano ben poche novità, in pianta e stile architettonico, da quelli che sono stati
edificati dai tempi in cui questo edificio pubblico ha manifestato il proprio carattere. I nuovi musei
continuano ad avere facciate classicheggianti, corti d‟onore e scaloni monumentali, [tuttavia] essi
mostrano nei loro impianti un‟esemplificazione dei cambiamenti che ci sono stati nei principi
fondamentali che governano una moderna organizzazione di questa istituzione pubblica.
-Philadelphia Museum of Art: l’edificio si deve all’architetto H.Trumbauer, che sceglie la formula
del museo tempio, mentre l’ordinamento è di Sidney F. Kimball (19-20). Viene introdotta una
novità propriamente americana: quella del doppio percorso (uno destinato al grande pubblico uno
agli studiosi). Vi è un allestimento composito per via della ricostruzione di diversi modelli museali:
è una via di mezzo tra una galleria e una sala d’epoca. Vi sono varie sale d’ambientazione, period
room (una cucina olandese, la ricostruzione del salone della Lansdowne House di Londra..). Non
mancavano ovviamente servizi vari per il pubblico e servizi educativi e venivano organizzate
esposizioni temporanee.
S. F. Kimball,The Modern Museum of Art, 1929: “Nella pratica progettuale degli architetti i musei
d‟arte stanno occupando il posto occupato in precedenza dalle biblioteche. E‟ però necessario che i
nuovi edifici museali incorporino le migliori e più avanzate riflessioni in campo museografico.
Troppo spesso in America si è condotti a “scoprire” pratiche che in Europa sono già state
sperimentate e abbandonate ...“L‟autorevolezza dei grandi esempi museali del diciannovesimo
secolo ha fatto sì che il tipo convenzionale sia sopravvissuto fino ad oggi con solo poche varianti
anche nei progetti dei musei americani.”. “I principali elementi funzionali che fanno parte di un
museo sono: collezioni per il pubblico, collezioni per gli studiosi, esposizioni speciali temporanee,
servizi educativi, servizi amministrativi e impianti meccanici”.
-Newark Museum (1909): il suo creatore, John Cotton Dana, riteneva che l’istituzione dovesse
servire al miglioramento del design tramite la collaborazione con grandi magazzini, scuole, centri di
produzione. Il compito del museo è di intrattenere e, così facendo, contribuire alla crescita
intellettuale della collettività; si elaborava un’idea di museo come servizio al pubblico, con un
rimando all’esperienza del South Kensington Museum, che aveva avuto come scopo quello di
utilizzare l’educazione all’arte per migliorare la qualità dei prodotti industriali.
-National Gallery di Washington: terminato nel 1941, ad opera di John Russel Pope, tipologia del
museo tempio.
Iniziativa importante: 1ª grande novità e distacco totale dall’Europa. Creazione del MoMa: museo
pensato per l’arte contemporanea. Non nasce dal nulla ma da una serie di esposizioni e mostre
temporanee dedicate all’arte contemporanea.

1913: Armory Show: International Exhibition of Modern Art:

Mostra enorme: vennero esposte moltissime opere tra pittura e scultura. Ebbe un grande effetto. Si
svolse in una caserma. Alcune opere suscitarono scandalo: erano viste come il segno della
decadenza dell’arte. Vennero usati pannelli mobili, l’illuminazione naturale e artificiale, fu
prediletta la linearità e la semplicità e furono messe panche per sedersi.
Manifesto della mostra: Nu Descendant l’escalier, Duchamp 1912: suscitò scandalo.
Protagonista importante nel mondo dell’arte contemporanea: Katerine Dreyer: insieme a Duchamp
fonda la Societè Anonyme: organizzavano mostre di arte contemporanea (ad es “Modern Art”,

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Brooklyn Museum, 1926). Katerine aveva una collezione importante di arte contemporanea, che poi
donerà alla Yale Art Gallery. Altro collezionista importante: Albert Gallatin. Fonda il Museum of
Living Art per rendere pubblica la sua collezione (oggi il museo non esiste più, collezione al
Philadelphia Museum). Si arriva così all’evento più importante per la musicologia americana: la
fondazione del MoMa, che rappresentò una grande novità. Il pubblico era ormai sensibilizzato
all’arte contemporanea grazie a ciò che era avvenuto prima e a tutte le mostre che erano state
organizzate. Venne fondato grazie al contributo della famiglia Rockefeller, soprattutto grazie alle
“three ladies”.
1937-1939 Architetti: P.L. Goodwin e E. D. Stone, vi fu la totale rottura con le forme classiche.
2004: ampliamento Yoshio Tamiguchi.
Facciata: rettangolare e composta da pannelli di vetro.
Museologo: Alfred Barr: dette un’importanza forte al museo. La sua operazione più importante fu
di dare pari dignità all’arte contemporanea come a quella antica. Organizzava visite delle scuole e
visite guidate. Prima della sede definitiva, il museo era ospitato in un appartamento sulla 5th
Avenue ed inizialmente era solo sede di mostre temporanee. L’idea era quella di essere totalmente
contemporanei e non avere niente a che fare col museo tradizionale. Volevano essere allestite solo
opere dall’anno d’apertura in poi (non fu così, la raccolta si ampliò con opere anche precedenti.
Quando ebbe una sede definitiva diventò un vero e proprio museo pubblico.
Edificio del tutto contemporaneo: molti servizi al pubblico: bookshop, ristorante, luoghi di sosta,
giardino. Sarà un modello. Barr vedeva il museo come luogo didattico: molte mostre, anche
itinerante: si fa uscire la collezione dal museo. Produzione di cataloghi a basso costo.
Il museo accolse anche stampe, foto, oggetti di design.

6.2 Italia: Musei d’ambientazione 800/900

Contemporaneamente alla nascita dei grandi musei nazionali assistiamo ancora al fenomeno del
collezionismo privato: i collezionisti lasceranno poi alla loro morte la collezione allo stato, dando
vita a musei pubblici (spesso coincidono con musei civici).
Seguiranno la tipologia del Museo d’Ambientazione, con sale che rievocano l’ambiente originale:
sale d’epoca. Si cerca di far immergere nel passato il pubblico.
Il collezionismo era una forma di identità: si diffonde idea che gli uomini sono le loro collezioni: si
rispecchiano in esse, esprimono loro stessi. Parola chiave del collezionismo privato: Eclettismo.
Collezionavano oggetti di ogni tipo. Inoltre si afferma l’ “orientalismo”: si sviluppa un grande
mercato di cineserie e di oggetti indiani.
Quindi se nei secoli passati il collezionismo provato era concepito per restare privato, ora i
collezionisti concepivano sin da subito la loro raccolta e la loro abitazione come futuro museo
pubblico, quindi erano attenti alla conservazione e all’allestimento. Entra nella nella mentalità dei
collezionisti la tendenza al “mostrare”. Lo sviluppo del collezionismo avviene anche a causa della
decadenza delle grandi famiglie nobiliari (dalla prima metà dell’800) e quindi della dispersione del
loro patrimonio artistico, e a causa della soppressione degli enti ecclesiastici: tutte queste opere
d’arte prendevano la strada del mercato e venivano acquistate dai collezionisti.
Anche in Inghilterra era molto sviluppato il collezionismo privato (alimentato dal Grand Tour)
Milano: città in cui si sviluppa di più il collezionismo privato destinato a diventare museo pubblico.

-Museo Poldi-Pezzoli: casa museo 1881


Giacomo Poldi Pezzoli era un nobiluomo milanese che si dedicò all’ampliamento della raccolta di
famiglia iniziata dalla madre. Prima di morire individuò nell’amico e pittore Giuseppe Bertini (già
direttore dell’Accademia di Brera) il direttore del museo che avrebbe dovuto nascere dalla sua
abitazione nel cuore di Milano. Inizialmente si concentrò sull’acquisto di armi e armatura.
1846: iniziò dei lavori nell’appartamento, concepito sin da subito come luogo dove accogliere
quadri arredi e oggetti: non ideato come appartamento privato.
Eclettismo degli stili: barocco, rinascimentale, 300esco, neogotico.

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Interesse per la pittura dei primitiva: apprezzati da un punto di vista estetico.
Gusto per l’Orientalismo: oggetti indiani, cinesi, giapponesi
Da importanza alle arti minori. Troviamo pittura e scultura, armeria, vetri, ceramiche, tessuti,
orificerie, arti applicate. Allestimento di tipo ambientativo: oggetti esposti in sale che rievocavano il
luogo d’origine.
Il Poldi-Pezzoli sarà un importante modello per i collezionisti che seguiranno il suo esempio. Verrà
danneggiato durante la guerra e soggetto a restauro da parte di Ferdinando Reggiori.
-Museo Bagatti-Valsecchi: casa museo, tra le più importanti e meglio conservate d’Europa
(amministrata da una fondazione privata, voluta dai fratelli nel 74)
Fausto e Giuseppe vollero una dimora ispirata ai palazzi signorili 4/500eschi in cui abitare ed
esporre oggetti d’arte.
Fine 800: ampliano il palazzo di famiglia in via Montenapoleone. Volevano creare un ambiente
armonico: voleva essere un museo rinascimentale: sia nell’architettura che negli arredi e nella
collezione. Maggiore specializzazione. Ambiente molto decorato e suggestivo, ovviamente museo
di ambientazione. 1975: acquistato dalla regione Lombardia. 1994: apre al pubblico.
-Museo Stibbert, 1906 : Frederick Stibbert, di padre inglese, morì nel 1906, e già alla sua dimora
era stato affiancato un museo da lui creato nell’ultimo quarto del secolo, rispecchiante la sua
passione per armi, costumi, dipinti ed arredi, ed il suo particolare interesse per lo stile neogotico.
Era in possesso di una grande disponibilità economica: l’attività predominante della sua vita fu
l’accrescere della sua collezione, lasciata allo stato inglese ma poi comprata da Firenze. Fin
dall’inizio Stibbert concepisce la collezione come un museo, e si caratterizza per l’impronta
particolare della sua collezione: era interessato alla storia del costume, alle fogge militari.
Colleziona opere che servano ad illustrare la storia del costume (europeo ed extraeuropeo), anche
allo scopo di scrivere un grande libro (mai compiuto) sulla storia del costume. Comprava costumi o
originali (difficili da trovare) o stoffe per poi farli ricreare. Intorno a Stibbert circolava una gran
quantità di artigiani, che realizzavano armature, bordature da cavallo, abiti... Grande fascino aveva
il giardino, anch’esso eclettico es. vi si trovava un tempietto egizio. All’esterno del museo, di forme
neogotiche, si ha un senso di horror vacui, con stemmi, lapidi, iscrizioni murate all’esterno del
museo. Sala più nota: il cuore della collezione è la sala della cavalcata, dove agisce la suggestione
delle grandi esposizioni universali (con sezioni in cui le armi erano esposte su manichini, in questo
caso di legni, su cui erano montate bardature ed armature). L’interesse per le armi si rivolse non
solo ad armi europee ma anche ad armi giapponesi (più oggetti ed abiti che vanno a formare
un’intera sezione del museo). Ala della malachite (per i mobili in questo materiale): raccolta di
dipinti, in gran parte ritratti es. famiglia Medici, capitani (del ‘500-‘700). I personaggi sono
caratterizzati dai loro vestiti o dalle loro armature.-Museo Bardini, 1922
Bardini era un mercante e collezionista che crea un museo eclettico con tutti gli oggetti che non era
riesci a vendere e che non aveva voluto vendere. Bode si riforniva spesso dai Bardini.
1922: acquistato dal comune: modificò le sale e l’allestimento accolto nel palazzo acquistato dal
Bardini nel 1880.
Collezione: eclettico insieme di opere d’arte e oggetti di vario tipo.
Sale d’ambientazione. Predilezione delle tinte blu delle parte, ispirerà di Jacquemart - Andrè
“Blubardini”

Questo tipo di museo verrà criticato: luogo d’elite, luogo d’accumulo, non persegue lo scopo
educativo, lontananza dal pubblico.
Avrà comunque molto successo e il numero dei musei cresce enormemente. I futuristi di Marinetti
volevano abolire i musei: erano visti come luoghi vecchi.
“Noi vogliamo demolire i musei, le biblioteche... noi vogliamo sbarazzare l’Italia dei musei
innumerevoli che la coprono di innumerevoli cimiteri, musei, cimiteri.”

-Musee Jacquemart - Andrè, 1912, Parigi

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Abitazione dei coniugi Nèlie Jacquemart e Edouard André, esibiva la cultura dei due collezionisti,
tuttavia perse nel tempo la sua fisionomia originaria, a causa di danni bellici e di interventi
museografici. Hanno una collezione eclettica in cui si alternano ambienti neorinascimentali,
orientali, settecenteschi (si rifornivano soprattutto sul mercato fiorentino). Nel 1996 ha riaperto al
pubblico con la riambientazione delle raccolte in stanze che riflettono il gusto dei coniugi.
Ha perso la fisionomia originaria a causa dei danni bellici. Sontuoso palazzo. Nel 1996 ha riaperto
al pubblico con la riambientazione delle raccolte secondo il gusto dei coniugi. Pareti azzurre.
-Galleria Franchetti, Ca’ D’Oro, 1927
Acquista la Ca’ D’Oro per esporvi la collezione per poi diventare museo pubblico.
Sale ambientative in cui ricrea il contesto originario. Ambienta infatti il S. Sebastiano del Mantegna
in una cappella neocinquecentesca.
1916: dona allo stato la collezione.
1927: inaugurazione del museo, allestimento: 1928
-Museo Davia Bargellini, Bologna
Museo d’ambientazione più famoso degli anni ’20. La famiglia aveva lasciato il museo alla città.
1924: Malaguzzi Valeri lo allestisce: voleva rievocare il passato. Nostalgia per un passato non
tecnologico, nega il progresso. Collezione eterogenea. Quadri di Giacomo Favretto.
F. Malaguzzi Valeri, Sull’allestimento del museo Davia Bargellini 1924
“Quando le sale si animano , con la presenza dei visitatori e gli ori corruschi dei ricchi mobili del
fastoso Settecento, nel più grande salone si accendono e brillano, è meno difficile rievocare
l’andirivieni antico delle dame agghindate, dei gentiluomini in spadino, in attesa del Cardinal
legato…” “nel secolo dell’elettricità e degli areoplani, fa sempre un effetto riposante vedere
commiste, su un morbido fondo di broccato di una vetrina, fialette e vetri sfaccettati per le essenze”.

La tipica caratteristica dei Musei d’ambientazione di ricreare ambienti fittizi (illusione della casa
abitata) era molto criticato: secondo i critici del 900 quelli riambientativi erano allestimenti
imbarazzanti, privi di logica, di autenticità in cui viene esaltato il contesto e non l’opera d’arte che,
anzi, è danneggiata. Roberto Longhi, il più importante critico italiano di inizio 900 sosteneva che
andasse valorizzata la singola opera d’arte, per essere letta nella sua qualità stilistica. Non c’era
bisogno di arredi perché questi invece che esaltare distolgono lo sguardo dall’opera d’arte.
Roberto Longhi, recensione in “L’Arte”, 1914: “che la storia dell’arte essendo storia del puro
sviluppo stilistico non può basarsi che sulle opere stesse, poiché i documenti ricordano fatti intorno
all’arte ma solo l’arte ricorda sé stessa e perciò i materiali d’ambiente, di costume, di cultura non
possono avere un valore positivo per la costruzione storico-artistica.”
Anni ’20 del 900: nonostante le critiche in questi anni godranno di molto successo: l’allestimento
conosce segni di modernizzazione, anche se si cerca ovviamente di ricreare il contesto.
-Palazzo di Venezia, Roma.
Il palazzo fu sede papale e poi ambasciata veneziana. Allestimento della raccolta: Federico
Hermanin, 1929. Il palazzo viene dotato di arredi il più possibile filologici (attraverso lo studio di
dipinti classici)
Voleva che diventasse un museo civico, ma non verrà mai aperto al pubblico. Accosta il reale al
fittizio, come fa Bode a Berlino. Voleva ricreare l’Italia del Medioevo. Diventerà sede del Fascismo
e le sale diventeranno la cornice dei ricevimenti di Mussolini, magnificando il regime fascista.
Ci saranno dei restauri integrativi (sala del pappagallo, delle armi, del mappamondo).
Criticato da Guido Ojetti: si scaglia contro il museo d’ambientazione e criticava il sovraffollamento
delle opere d’arte, la non autenticità dell’allestimento. Erano musei falsi, fittizi, che facevano solo
un grande effetto sulle persone ma tralasciavano il valore della singola opera, che veniva
danneggiata. Fece una visita al duce a Palazzo Venezia e la sua critica al museo diventa una critica
al regime: così come il museo è falso e fa un grande effetto sulle persone, così fa il duce.
-Museo Civico di Castelvecchio, Verona
Tipico museo di ambientazione. Castello 300esco dei Della Scala che aveva rivestito diverse
funzioni. Si volle ricostruire l’aspetto neomedioevale del castello.

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Restauro: Antonio Avena e Ferdinando Forlati, 1926. Esterno: medioevo. Interno: rinascimento.
Vengono ricreati ambienti rinascimentali, quindi vi è il mescolamento di due epoche. Accolse le
opere dai conventi soppressi. Avena: architetto e allestimento. Il museo si viene ad inserire in un
processo di recupero del passato della città: processo di valorizzazione dei luoghi storici di Verona
(anche allo scopo di attrarre i visitatori). Avena allestisce in senso neomedievale e
neorinascimentale non solo il museo ma interi luoghi della città.
-Palazzo Vecchio, Firenze, 1921: Gli interni del palazzo erano stati modificati quando Firenze fu
capitale. Viene ritoccato ora secondo la tipologia dell’ambientazione: riassestamento della Sala
degli elementi e Sala di Opi. Opera di recupero degli ambienti originali, cercando mobili
provenienti dal palazzo o commissionando mobili in stile rinascimentale
1910: più importante operazione museologica fiorentina del primo 900: era stato riscoperto lo
studiolo di Francesco I da parte di Poggio Lenzi. Grazie allo studio delle fonti riuscì a capire che
quello era il vecchio studiolo di Francesco per via delle nicchie per armadi.

7. Il dibattito sul museo nel Novecento: la Conferenza di Madrid del 1934

All’inizio del Novecento l’articolata varietà di modelli messa a punto nel corso del XIX secolo non
rispondeva più alle esigenze di una società che aveva conosciuto profondi rivolgimenti: entra in
crisi l’impianto classicista del museo ottocentesco, viene messo in discussione il suo ruolo sociale
perché non dava risposte consone alle richieste di una società moderna Il South Kensington Museum
aveva per primo incrinato la sacralità del museo e si introduceva l’idea secondo cui i principi che
regolano i luoghi del commercio possano essere applicati anche al museo. L’influenza delle Grandi
Esposizioni si fa sentire nell’uso di corti vetrate, nell'impiego di materiali nuovi come il cemento
armato, nella presenza di ballatoi e gallerie che si affacciano su vasti spazi d’accoglienza. Nasce una
nuova concezione di museo: più dinamico e propositivo, più moderno quindi.
Es: nel 1913 Otto Wagner in occasione del concorso per il Kaiser Franz Joseph- Stadtmuseum
(non realizzato) realizza un progetto in cui tre ordini di gallerie illuminate da lampioni circondano
un grande vestibolo centrale, con l’intento di trovare un accordo tra monumentalità e funzionalità.
La hall a pianta quadrata è una rilettura in chiave moderna del tema della rotonda, spogliata dei suoi
rimandi classici.
L’Europa si rende conto che deve apporta delle innovazioni nel museo: arrivano infatti le novità
dall’America, che era ormai più avanti di noi. Il museo deve tener conto di un nuovo pubblico,
desideroso di essere guidato come nei musei americani, dove l’attenzione ai visitatori assume una
posizione centrale e porta a rivedere l’impostazione elitaria dei musei europei. I principi-guida dei
musei americani sono la forte vocazione didattica ed il rapporto con la produzione industriale.
Mettere in pratica le nuove idee era un compito facilitato dal fatto che i musei statunitensi sono di
nuova fondazione, quindi svincolati dalle limitazioni imposte dalla collocazione in edifici antichi. In
Europa dunque la concezione americana del museo “come servizio” aveva stentato ad affermarsi. A
partire dagli anni 20 del 900 si cerca quindi di tenere il passo e recuperare una posizione di primo
piano in ambito museale.
L’attenzione per il museo si intensifica nel periodo delle due guerre grazie alla creazione di nuovi
organismi.
-1922: all’interno della Società delle Nazioni (organismo fondato per la salvaguardia della pace e
della sicurezza mondiale), viene istituita Commission Internationale de Coopération
Intellectuelle (CICI), nata allo scopo di promuovere scambi culturali tra gli stati membti.
Da questo nucleo discendono altri organismi:
-l’OCI (Organisation de Coopération Intellectuelle), che abbracciava tutti i campi del sapere e si
articolava in numerose sottocommissioni, tra le quali quella per le Lettere e le Arti, di cui era
membro Henri Focillon, docente di Archeologia e Storia dell’arte medievale alla Sorbona, al quale
si deve l’impegno per la creazione di un altro organismo importante:
-l’OIM (Office International des Musées), fondato nel 1926, con ambito d’indagine la
museografia (preparazione all’Icom: tenta di creare un contatto tra i vari musei europei ed

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extraeuropei): Focillon voleva un centro che si occupasse di musei e dei problemi che questi
dovevano affrontare in seguito ai grandi cambiamenti della società. Nel 1913 Focillon era stato
nominato direttore del Musée des Beaux-Arts a Lione, e si era consolidato il suo interesse per i
musei, da lui visti come laboratori per lo studio comparativo delle testimonianze di una civiltà e
come luogo dove conciliare le domande dello studioso con le curiosità del nuovo pubblico.
-1926: sempre in Francia promossa dalla rivista di storia dell’arte “Gazette des Beaux-Arts”, viene
condotta la Enquête internationale sur la rèforme des galeries publiques, un’indagine sui
problemi e sullo stato dei musei e sulle soluzioni da proporre per renderli più moderni ed utili alla
società.
-1927: presso l’Ècole Supèrieure des Beaux Arts viene introdotto l’insegnamento della Storia delle
collezioni e dei musei d’arte.
Nel corso dell’XI Congresso Internazionale di Storia dell’Arte tenutosi a Parigi nel 1921,
Focillon aveva presentato una comunicazione in materia di museografia dal titolo “la conception
moderne des Musées", dove afferma che la tradizione ottocentesca aveva contrapposto due tipi di
musei (quello che vede la storia dell’arte come successione di capolavori isolati e quello per gli
storici dell’arte, che la vede come serie di opere concatenate), che però non tenevano conto delle
esigenze di un pubblico diverso, afferma quindi la necessità di svecchiare gli allestimenti.
“... i musei sono fatti per il pubblico..aiutiamolo dunque non solo con cartellini e pannelli
esplicativi, ma cercando di comprenderne le giuste esigenze. A poco a poco vedremo sparire
l’antico sistema del sovraffollamento e dell’accumulazione: le vecchie pareti ricoperte di tele le cui
cornici si toccavano erano come le mura di una necropoli. La vita dell’opera d’arte in un museo
dipende dall’aria che la circonda e dal modo in cui la sua qualità e le sue proporzioni si
armonizzano con le proporzioni e le qualità delle opere che le sono vicine. Comunque, disporre su
una parete più di due file di quadri è un delitto. Lo spazio intorno a un quadro è come silenzio
intorno alla musica.”
Focillon indica poi le principali attività che avrebbero impegnato l’Office International des Musées:
la redazione di cataloghi, l’avvio di attività didattiche nei musei ispirate all’esperienza americana, la
fondazione di una rivista trimestrale in cui discutere di problemi di museografia (riconosciuta come
scienza nuova): nasce “MOUSEION: Bulletin de l’Office International des Musées”, la prima
rivista internazionale di museografia, diretta soprattutto a direttori di museo, conservatori e storici
dell’arte e pubblicata dal 1927 al 1946.
La creazione di questa rivista e dell’Office dimostra come la museografia (ancora non è stato
adottato il termine di museologia e non è stata introdotta la distinzione tra le due discipline) abbia
iniziato ad essere considerata una scienza autonoma e come l’istituzione museale sia diventata una
componente importante della cultura occidentale.
La rivista MUSEION si occupò soprattutto di:
Architettura museale
Storia dell’arte
Gestione del museo
Riorganizzazione degli allestimenti ed ordinamenti museali
“Mouseion” divenne sede di un acceso dibattito museografico, con denominatore comune la volontà
di trasformare gli spazi espositivi in luoghi che il pubblico avrebbe frequentato con curiosità e
piacere. Viene utilizzato il termine antico, per recuperare l’idea del Museion di Alessandria, luogo
di incontro di culture diverse; ancora non viene utilizzata la parola museologia, si usa la parola di
origine settecentesca museografia.
Questo dibattito preparò il terreno alla Conferenza di Madrid (1934), momento fondamentale della
discussione documentato da due volumi che raccolgono gli interventi dei relatori e restano una
pietra miliare nella bibliografia museografica.
Alcuni argomenti dibattuti su “Mouseion” sono: la necessità di fare una selezione delle opere da
esporre, l’esclusione di elementi decorativi per lasciare libera la parete come campo neutro della
visione, la creazione di percorsi più flessibili, i problemi tecnici (illuminazione, climatizzazione).
Nel 1930, in un intervento su “Mouseion”, Richard f. Bach (curatore della sezione d’arte industriale

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del Metropolitan) enumera i servizi necessari al buon funzionamento di una struttura museale: spazi
per gli uffici, per i depositi, gabinetti fotografici e di restauro, guardaroba per il personale e per i
visitatori, sale di studio, luoghi di sosta...
Nello stesso anno, nelle pagine della rivista “The Architectural Forum”, l’architetto Clarence S.
Stein constata il fatto che il pubblico si divide in studiosi e visitatori comuni; occorre quindi
distinguere due percorsi, uno dedicato ai ricercatori (the student’s museum for investigation), l’altro
per il grande pubblico (the public’s museum for appreciation); anche le opere dovranno essere
suddivise per interesse e qualità, a seconda che si tratti di capolavori (exhibition series), da
collocare nelle sale principali, oppure di opere di documentazione (study series), da collocare in un
percorso secondario.
Il museo immaginato da Stein, il “museo d’arte di domani” (1933)è un grattacielo con una pianta
ottagonale suddivisa in otto raggi che si dipartono dal centro e sfociano nell’anello perimetrale. Le
otto gallerie convergenti nella rotonda centrale costituiscono la parte riservata al pubblico, dove si
concentrano le opere più importanti organizzate in period rooms, mentre la galleria ottagonale più
esterna è pensata per gli studiosi e avrà l’aspetto di un deposito visitabile con oggetti esposti in
maniera sistematica. Non mancheranno servizi di accoglienza come sale studio, biblioteca e
laboratori; inoltre sarà necessario organizzare almeno una parte del museo con pareti mobili in
modo da poter consentire una sua estensione e in modo da plasmare lo spazio secondo le esigenze
diverse che si possono via via presentare (è necessaria una certa flessibilità). Il progetto
museografico di Stein è indubbiamente sostenuto da una concezione moderna del museo, soprattutto
per via della flessibilità, che diventa un aspetto fondamentale: deve esserci la possibilità per il
museo di crescere e di adattarsi a interpretazioni nuove delle collezioni. L’obbiettivo degli architetti
moderni è quello di dar vita a percorsi che possano essere modificati nel tempo.

1927: la Società delle Nazioni bandisce un concorso per la costruzione, a Ginevra, di un centro
culturale internazionale, il Mundaneum, che doveva includere un museo dedicato al sapere
universale. Sebbene non vincitore, il progetto più interessante è quello di Le Corbusier (1939), che
prevedeva una pianta a tre navate che, partendo dall’alto, si sviluppano lungo una spirale che si
ingrandisce scendendo, in modo da dare all’edificio una forma piramidale; da quel progetto
l’architetto trasse l’idea del “Museo a crescita illimitata”, una struttura poco costosa, senza
facciata, costruita con materiali semplici e, soprattutto, flessibile, in quando basata sulla
combinazione di moduli quadrati e di pareti costituite da leggeri pannelli mobili, in grado di essere
smontati. Il museo viene visto come una “macchina per esporre”. Doveva essere estremamente
essenziale e funzionale, e non doveva avere una posizione privilegiata in città (motivi per il quale in
realtà verrà criticato: Paul Philippe Cret critica la riduzione del museo alla nudità di un magazzino
costruito in economia. Sentiva la necessità di armonizzare l’architettura alla qualità delle opere.

Sulle pagine di “Mouseion”, nel 1929, l’architetto Auguste Perret contrappone al progetto di Le
Corbusier un museo capace di conciliare gli aspetti monumentali con le risorse tecniche
dell’attualità: “Museo Moderno”. In cemento armato, è un doppio percorso con i capolavori
concentrati in una rotonda da cui partono gallerie disposte a raggiera che sboccano in sale circolari e
quadrate; davanti alla rotonda si apre una vasta corte rettangolare porticata su cui si affacciano sale
che conducono alle gallerie “di studio”. Ci sono elemento del lessico tradizionale (rotonda, portici,
gallerie), ma accompagnati ad elementi della modernità (flessibilità, percorso libero, cemento
armato). Concilia tradizione e modernità.
Altri temi verso cui convergeva l’interesse dell’Office International des Musées erano il restauro
architettonico e quello dei dipinti; al secondo fu dedicata nel 1930 una conferenza tenutasi a Roma
sui nuovi criteri di intervento e su più efficaci metodologie di conservazione. Nel 1931 fu
organizzata ad Atene la prima Conferenza Internazionale sulla Conservazione dei Monumenti
Storici, dove venne elaborato il decalogo la Carta d’Atene, nel quale si stabilivano dei principi
analoghi a quelli di Roma, quali il rifiuto delle integrazioni e dei rifacimenti in stile che avevano
caratterizzato le metodologie ottocentesche. Un codice normativo di conservazione e di recupero

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dei monumenti storici fu poi fissato con la Carta Internazionale del Restauro pubblicata a Venezia
nel 1964.
1934: Conferenza di Madrid: convegno internazionale di museografia. Venne scelta Madrid in
occasione del riordino del Prado, che metteva in atto molti moderni criteri allestitivi, come il doppio
percorso, la selezione delle opere, le sale di studio con dipinti “secondari”, l’illuminazione
naturale...), con protagonista lo storico dell’arte Louis Hautecoeur, conservatore del Louvre e
docente all’Ecole Supérieure des Beaux Arts (dove tra le discipline d’insegnamento era entrata la
museografia, nel 1927, seppur con il nome di Storia delle collezioni e dei musei d’arte), che aveva
esposto le sue riflessioni in una conferenza all’Ecole du Louvre, diventata l’intervento d’apertura
della Conferenza di Madrid, voluta dallo stesso Hautecoeur. Affrontava temi quali le trasformazioni
dell’architettura dei musei, la loro pianta, la distribuzione delle opere, la decorazione..
Gli atti della Conferenza raccolgono gli interventi di diciannove relatori, di cui un solo architetto,
Clarence Stein.
Sono due volumi: uno che verte sull’edificio (architettura ed allestimento, illuminotecnica e
conservazione delle opere), l’altro sui problemi allestitivi di sei diverse tipologie di raccolte. C’è
anche un ricco corredo fotografico che documenta l’aspetto di diversi spazi espositivi di quegli anni.
Gli atti sono visti come un primo manuale di museologia.
Temi principali:
-Allestimento: concetto del diradamento dell’opera d’arte, ovvero fare una selezione per evitare
l’effetto di disordine e sovraffollamento = isolamento dell’opera d’arte; andava privilegiato
l’adottamento del doppio percorso
-Illuminazione e climatizzazione: Stein illustrò le diverse esperienze di illuminazione artificiale
realizzate nei musei americani (siamo negli anni in cui la luce elettrica faceva le sue prime
apparizioni nei musei europei).
-Flessibilità: investe anche il criterio espositivo della collezione, mai fissa, aperta a nuove letture
(critica alle ricostruzioni d’ambiente, dall’allestimento rigido).
-Servizi al pubblico
Si negavano quindi le ricostruzioni d’ambiente: all’oggetto esposto doveva essere restituita la sua
qualità di frammento decontestualizzato e perciò suscettibile di essere presentato nei modi più vari,
ma sempre in rapporto armonico con lo spazio circostante.

Riallestimento del Louvre: 1935. Le opere vennero riallestite e vennero creati dei depositi dove
porre le opere che venivano “scartate”; c’erano sempre stati ma serviva un deposito accessibile a chi
ne facesse richiesta, soprattutto studiosi o storici. Il Louvre voleva porsi come una guida nei
confronti della museografia europea: vengono eliminate le decorazioni riambientative (es. La Nike
di Samotracia si trovava su uno sfondo rosso pompeiano). Non si pensa più che la scultura, per
essere esaltata, debba essere affiancata da pareti colorate. Vengono riallestiti i vari dipartimenti del
del museo con parola d’ordine “diradamento”. Simbolo di questo riallestimento è la Nike di
Samotracia, che viene estremamente isolata, posta su un alto basamento e su fondo bianco alla fine
di una larga scalinata. La Francia si pone come luogo di nascita della musicologia moderna.

Henri Verne (direttore dei musei statali francesi e dell’Ecole du Louvre, in “Museion”1930:
“La mia intenzione è di assicurare a ciascuna delle arti la propria autonomia. Lo spettacolo che
dovranno offrire le sale sarà il costante divenire e rinnovarsi delle scuole. In questo senso il Louvre
è un museo universale. Vi è una triplice ragione, scientifica, artistica ed educativa per conservargli
questo carattere, per cui si trovano accostate nello stesso ambiente opere che appartengono a paesi,
epoche, generi diversi e lontani tra loro. Sarebbe un pericoloso errore imporre alla straordinaria
varietà delle collezioni un ordinamento uniforme che rischierebbe di distruggerne il valore ... in
sintesi: una riforma deve rafforzare la personalità del museo, non deve metterne a repentaglio
l‟originalità”.
Riallestimento della National Gallery, anni ‘30: vengono seguiti i criteri stabiliti al congresso di
Madrid. Si dà molta importanza alla luce. Viene scelta l’illuminazione artificiale.

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La delegazione italiana alla Conferenza era composta dagli alti funzionari del Ministero
dell’Educazione Nazionale, che avevano scelto di portare il tema degli edifici storici riadattati come
sede di musei, tema già trattato da Gustavo Giovannoni, direttore della Scuola superiore
d’Architettura di Roma, sul primo numero di “Mouseion”, con chiara visione della difficoltà di
superare l’antitesi “entre le caractère de l’edifice et les exigences des collections”. Non gli sfuggiva
inoltre l’esigenza di alleggerire le collezioni esposte creando sale di studio per ricercatori; le due
sezioni dovevano essere collegate e disporre di servizi comuni (magazzini, laboratori di restauro,
sale conferenza), ma con diversi orari di apertura e sorveglianza.
A Madrid intervenne anche l’archeologo Roberto Paribeni, che sosteneva la necessità di creare una
corrispondenza armonica tra collezione ed edificio; a suo avviso le opere d’arte erano chiamate a
completare la decorazione dell’edificio (ci si mantiene ancorati al museo d’ambientazione).
Ugo Ojetti, figura di primo piano della politica culturale fascista e ideatore di importanti mostre di
arte antica, trattò il tema delle mostre temporanee considerate in rapporto al museo, riconoscendone
il ruolo come primo anello di contatto tra arte e pubblico e come momento di sperimentazione
espositiva in grado di saggiare nuove soluzioni.
La museografia italiana appariva sospesa tra tradizione ed aggiornamento es. La Pinacoteca
Vaticana, progettata da Luca Beltrami su incarico di Pio XI (1929-1932), è un edificio
neorinascimentale ma presenta attrezzature all’avanguardia (soprattutto per quanto concerne i
laboratori di restauro).
Il fatto che l’Italia era ancora troppo ancorata alla tradizione era dovuto al fatto che i grandi musei
erano ospitati in vecchi edifici storici, quindi era difficile apportare alcuni degli elementi moderni
della museografia.
Bruno Maria Apollonj, “recenti criteri di organizzazione dei musei”, in “Architettura”, 1935:
“lo studio dei musei in Italia, è stato ed è ancor oggi trascurato, indubbiamente perché , salvo
pochissimi casi, le nostre raccolte d‟arte sono ospitate in antichi edifici aventi interessi storico -
artistici, nell‟ambito dei quali riuscirebbe difficile o superfluo tener conto dei più moderni criteri
che si vanno affermando specialmente all‟estero, sulla disposizione delle opere d‟arte.”
Eccezione: nel 1932, centenario della Galleria Sabauda di Torino, il direttore Guglielmo
Pacchioni ne riorganizza il percorso con criteri moderni ed ordinamento selettivo (come fece poi
anche nel museo delle ceramiche di Pesaro).
Pacchioni (1935) così motiva la sua selezione dei dipinti della Galleria sabauda di Torino:“pur
tenendo conto di tutti i dati storico-critici che consentono di procedere a una classificazione
rigorosa, [vorrei] lasciare all‟opera d‟arte il suo puro valore di creazione, di favorire intorno ad essa
l‟atmosfera di raccoglimento e d‟emozione che permette di contemplarla in piena libertà.”

Di lì a pochi anni la guerra avrebbe imposto un radicale ripensamento in Italia, con la ricostruzione
dei musei distrutti.

8. L’epoca d’oro della museografia italiana: i musei del secondo dopoguerra

Caratteristiche generali di questo periodo:


-Grande voglia di ricominciare
-Grande spinta degli storici dell’arte
-Voglia di far rivivere il patrimonio artistico, pesantemente offeso dalla guerra
-Riaggiornarsi su ciò che nel frattempo era successo.
Figure specializzate si occuparono del salvataggio delle opere d’arte da bombardamenti e dalla
requisizione tedesca: le opere furono portate in luoghi sicuri, quali ville di campagna o chiese. Vi fu
quindi l’esigenza di mostrare subito I capolavori salvati.
Con le distruzioni che aveva provocato la guerra si colse l’occasione per mettere in pratica le novità
affermatesi in Europa e in America. Le caratteristiche di questa museologia rinnovata sono:
diradamento delle collezioni, isolamento, climatizzazione (importante per evitare eccessivi

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interventi di restauro), illuminazione: anche in Italia si da avvio al processo di modernizzazione dei
musei.
Gli architetti furono importanti in questi anni perché dettero un apporto prezioso per la ricostruzione
dei musei.
1953: Guglielmo De Angelis d’Ossat, direttore generale delle Antichità e Belle Arti, pubblica un
rapporto sul ripristino dei musei italiani iniziato a partire dalla fine della guerra, tracciando i principi
generali ai quali ci si era attenuti (si rifanno ai principi affermati a Madrid): organizzare depositi
funzionali, sostituire le vecchie tappezzerie e le decorazioni con pareti tinteggiate in tonalità chiare,
realizzare un percorso logico, studiare le condizioni di luce preferendo l’illuminazione naturale
proveniente dall’alto, istituire laboratori di restauro, sale di studio, sale per esposizioni temporanee,
organizzare mostre didattiche.

L’Icom in Italia da subito organizzò delle conferenze: 1953, la conferenza generale dell’Icom fu
organizzata in due città: Milano e Genova. Temi trattati: esposizioni temporanee e permanenti,
percorso, illuminazione, allestimento, comunicazione (elemento nuovo: come comunicare il museo
all’esterno).
1957: Mostra di museologia alla XI Triennale di Milano (in questi anni Milano è leader
nell’organizzazione museale): la mostra era dedicata al processo di rinnovamento del museo
italiano. Venne così articolata:
• Prima parte: di taglio storico, per illustrare lo sviluppo del museo dalle origini alla
contemporaneità.
• Seconda parte: offriva la visione di 4 soluzioni espositive con l’allestimento di altrettanti ambienti
dedicati a: pittura, scultura, arte applicata e oggetti eterogenei.
Il percorso era così concepito:
1) Storia dei musei
2) Soluzioni espositive
3) Il rinnovamento: con foto dei principali musei rinnovati.
Giulio Carlo Argan già dal 1949 parlò del “museo come scuola” (usa solo la parola museografia); in
questi anni si fa strada l’idea che nei musei occorre personale specializzato e qualificato.
“Se arte è educazione, il Museo deve essere scuola. Che lo sia non è dubbio, perché si sa che i
Musei non sono inerti depositi di opere d‟arte, ma hanno una loro interna vita di ricerca e di
studio ...Se gli artisti non studiano più nei musei, perché cercarne la causa nel mutato orientamento
dell’arte invece che nell’immutato orientamento dei musei. A Parigi gli artisti frequentano più
volentieri il Musée de l’Homme che il Louvre. Segno che gli artisti chiedono al museo un
insegnamento formale attivo, che il museo, ponendosi ora come sacrario ora come repertorio ora
come archivio non è in grado di fornire”
G.C. Argan, “Problemi di museografia”, 1955: affronta il tema delle mostre, considerate come un
momento di sviluppo per nuove idee. “Perchè le mostre attraggono il pubblico molto più dei musei?
Evidentemente perché, nella mostra, la presentazione degli oggetti è più vivace e stimolante, gli
accostamenti più persuasivi, i confronti più stringenti, i problemi più chiaramente delineati.
Naturalmente non siamo entusiasti di questa pletora di mostre, che di certo non giova alla
conservazione delle opere; né crediamo che i modi di presentazione, suggestivi e talvolta
spettacolari, cui non di rado ricorrono gli allestitori, possano essere trapiantati pari pari nei musei.
Ma l’esperienza delle mostre può far progredire di molto le nostre vedute in fatto di museografia,
indurci a studiare ordinamenti che mettano a fuoco taluni problemi critici, a muovere continuamente
il materiale del museo per suggerire nuovi accostamenti e confronti”.
L’opera di ricostruzione aveva coinvolto oltre 150 musei, proponendosi di migliorare le condizioni
preesistenti. Le collezioni erano rimaste pressoché indenni (grazie al lavoro compiuto dalle
soprintendenze e dalle amministrazioni locali per ricoverare le opere) ma occorreva agire
restaurando le sedi ed assicurando le condizioni richiese dalla tecnica museografica moderna. Il
primo museo della ricostruzione è il Museo di san Matteo a Pisa, ad opera di G.Vigni e P.
Sanpaolesi, 1945-46.

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Il simbolo della museologia rinnovata è la statua di Cangrande della Scala nel museo di
Castelvecchio a Verona.
Le proposte più innovative si concentrano a Milano, Genova e Venezia:

1)Pinacoteca di Brera: riapre nel 1950, e dimostra l’incertezza tra tradizione e modernità che
investì le scelte italiane dopo il 1945. Venne effettuato un prudente ammodernamento sotto la
direzione di Ettore Modigliani, che affidò l’incarico di riallestimento a Piero Portaluppi (intervenuto
nel riordino della Pinacoteca intrapreso sempre da Modigliani negli anni ’20). Dal 1903 era esposto
lo Sposalizio della Vergine di Raffaello: nel 1925 Piero Portaluppi semplifica l’ambientazione. Lo
stesso Portaluppi, nel 1950, cambierà tutto e creerà una sorta di cappella rinascimentale molto
semplice. “Brera antica e nuova”: antica nell’uso di marmi dall’Opificio delle Pietre Dure di
Firenze, nuova nella presentazione dei dipinti su un solo registro su pareti dalle tonalità chiare, e
nella trasformazione dei sistemi di illuminazione. Non mancò un forte segno di rinnovamento nella
progettazione delle salette attigue alle sale napoleoniche, che Guglielmo Pacchioni (soprintendente
alle Gallerie) assegnò a Franco Albini. Albini aveva già utilizzato le sale di Brera, nei primi anni
della guerra, per organizzare alcune mostre d’arte contemporanea, la prima delle quali (1941) fu
dedicata al pittore Scipione; in questa occasione, per la prima volta, vennero introdotti negli storici
ambienti di Brera strutture leggere mutuate dalle attrezzature industriali, come quelle utilizzate
dallo stesso Albini negli anni trenta nei padiglioni fieristici ed in interventi espositivi alla Triennale
(la Mostra dell’antica oreficeria italiana prelude alle soluzioni che Albini utilizzerà molto in seguito,
presentando gli oggetti in vetrine sostenute da aste metalliche bianche ancorate al soffitto, con
effetto di sospensione nel vuoto). Anche nella mostra di Scipione, Albini si era avvalso di montanti
fissati al soffitto su cui si agganciavano i supporti per i quadri e per le lampade, mentre alcune
esedre in mattoni sottolineavano per contrasto le opere maggiori (tramite le mostre Albini fissò i
canoni cui si sarebbe poi attenuto). Nel “corridoio Albini” della Pinacoteca (oggi radicalmente
modificato) l’architetto unificava la salette adiacenti alle sale napoleoniche in una galleria continua
con pannelli dalle tonalità chiare, staccati sia dal pavimento sia dalla parete e disposti
perpendicolarmente all’asse maggiore, creando una serie di vani per ospitare le pitture venete di
formato minore. La luce naturale proveniva da finestre schermate da doppie tende avvolgibili
mentre la luce artificiale era nascosta da una soffittatura a due livelli.
2) Museo Poldi Pezzoli:. Il Museo Poldi Pezzoli venne riaperto, in seguito al restauro dai danni
bellici, nel 1951, grazie all’operato del suo direttore Franco Russoli, direttore anche della
Pinacoteca di Brera dal 1952 al 1977. Russoli è il primo museologo italiano moderno, animatore di
uno dei più ampi progetti museali italiani, quello milanese, che ha appunto inizio con il restauro e la
riapertura del Museo Poldi Pezzoli, inoltre è uno dei primi direttori museali, in Italia, ad aderire alle
iniziative dell’Icom. Si trattava di una collezione dai caratteri particolari, una dimora improntata al
gusto tardo ottocentesco, con una decorazione estesa. C’era il timore che, nella luce di un rinnovato
rigore razionalista, in Italia, al grido di “L’ornamento è delitto”, il museo sarebbe stato smembrato,
tuttavia Russoli dichiara: “Certo è molto lontano da noi questo eclettismo ridondante, ma riusciamo
a far prevalere l’obiettività del giudizio storico sulle ragioni della nostra sensibilità”. L’allestimento
fu affidato a Ferdinando Reggiori (esponente dell’architettura tradizionalista); intervento in bilico
tra ricostruzione in stile ed aggiornamento (impossibilità di un recupero filologico data la vastità
delle distruzioni subite dall’edificio)
Il progetto di base della museologia italiana, fino ad un decennio fa, era che alla base di un progetto
museologico di cambiamento dovesse esserci un’analisi storica; la museologia ha come fondamento
la storia del museo.
Si rifiuta l’idea del museo come camera del tesoro, unicamente riservato ad una ricerca specialistica,
come pareva il museo ottocentesco, così ingombrante nei confronti della creazione artistica .
Russoli nella sua opera, Il museo nella società, lancia delle idee esemplari per una corretta
museologia: “Il museo non deve essere unico e uguale ovunque, secondo generali principi
standardizzati, ma deve assumere di volta in volta il carattere che il suo patrimonio e la sua storia

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esigono”. Per la museologia, è fondamentale il riconoscimento della diversità, in quanto si pone al
centro di un processo conoscitivo e di una spinta progettuale.

3) Palazzo Bianco, Genova: era stato quasi svuotato durante i bombardamenti; venne riallestito da
Albini in sintonia con Caterina Marcenaro (responsabile dei musei civici). Architettura settecentesca
semidistrutta dai bombardamenti che ospita una collezione di scultura, pittura ed arte decorativa
prevalentemente genovesi comprese tra XIII e XVIII secolo. Viene condotto un restauro secondo i
moderni criteri di rispetto e recupero degli elementi autentici sopravvissuti ai bombardamenti,
mentre all’interno l’intento di Albini fu quello di creare “un’atmosfera moderna... In rapporto con la
sensibilità del visitatore, con la sua cultura”, usando strutture semplici ed elementi d’arredamento
familiari. La Marcenaro fece una rigorosa selezione delle opere in base alla qualità dei dipinti, e
vennero esclusi tutti gli elementi d’arredo che potessero rievocare l’originario carattere dell’edificio
come palazzo aristocratico; vennero eliminate anche le cornici non originali: mentalità del togliere
tutto ciò che non apparteneva all’epoca di creazione del dipinto. La sua operazione fu molto
criticata, anche all’opera. Le cornici stesse in realtà sono un tassello importante nella storia del
collezionismo es. Galleria palatina, nel momento in cui i quadri venivano immessi nella collezione
venivano dotati di una nuova cornice, così veniva data uniformità alle opere d’arte, un segno di
appartenenza alla collezione. Furono rigorose anche le scelte cromatiche: pavimenti in lastre
d’ardesia con piccoli riquadri in marmi bianco (secondo la tradizione genovese), pareti chiare,
supporti neri o grigi, mentre le tripoline (poltrone pieghevoli elaborate da Albini) erano un’unica
eccezione cromatica dato l’uso del cuoio biondo. L’illuminazione miscela luce naturale (graduata
attraverso tende in listelli metallici orientabili) e luce artificiale, diffusa da lampade fosforescenti.
L’isolamento concede al visitatore di concentrarsi sulle singole opere. Fulcro dell'allestimento era il
frammento di Giovanni Pisano con l’Elevatio animae di Margherita di Brabante, sullo sfondo di una
parete in ardesia ed illuminato dalla luce delle finestre, schermate con tende. Il gruppo scultoreo
venne fissato su due mensole (asimmetriche per accompagnare l’irregolarità del frammento),
innestate su un sostegno in acciaio mosso da un meccanismo che ne consentiva l’innalzamento e la
rotazione: il visitatore diveniva soggetto attivo, scegliendo il punto di vista da cui osservare la
scultura, che si stacca dalle pareti ed acquista il centro della sala. L’opera è poi stata spostata nel
Museo lapideo di Sant’Agostino, terminato nel 1979. Nel Palazzo vennero organizzati nel piano
intermedio e nel sottotetto dei depositi visitabili con dipinti disposti su pareti mobili o scorrevoli su
guide a soffitto.
G. C. Argan, La Galleria di Palazzo Bianco a Genova, 1951: “Per alcune opere di maggiore
importanza sono state studiate sistemazioni particolari. Tra queste, ha fatto scandalo il collocamento
del famoso frammento della tomba di Margherita di Brabante su un sostegno cilindrico di acciaio a
cannocchiale, girevole ed elevabile per mezzo di comandi elettrici. È questa invece, a nostro avviso,
una interessantissima ed eccellente innovazione nei sistemi di presentazione dei frammenti di
scultura; essa infatti permette di studiare l‟opera d‟arte da infiniti punti di vista e in diverse altezze,
nell‟assoluto isolamento da ogni condizione ambientale e quindi nella miglior condizione per
apprezzare le qualità specifiche della forma”.
4) Palazzo Rosso, Genova (1953-1961): venne mantenuto il carattere di dimora patrizia (è un
palazzo barocco decorato dai maggiori pittori genovesi del tardo Seicento e pesantemente
danneggiato dai bombardamenti del ’42) eliminando le sovrapposizioni non pertinenti (come le
aggiunte neoclassiche). Albini eliminò i tramezzi che occludevano le logge e i porticati,
sostituendoli con lastre di cristallo impostate all’interno delle arcate. Operò una netta distinzione tra
i due piani nobili: uno, privo di affreschi, fu riservato ai dipinti più antichi, mentre nell’altro
vennero collocate opere più tarde, mobili e sculture, in armonia con le decorazioni barocche. Come
a Palazzo Bianco, vennero utilizzati tondini d’acciaio scorrevoli per i quadri a parete, oppure
supporti tubulari che il visitatore poteva far ruotare scegliendo il punto di vista migliore da cui
osservare i dipinti. Vennero introdotte inedite note di colore, come il feltro rosso dei pavimento e il

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rivestimento in panno di lana grigio per le sale prive di affreschi. Per gli oggetti d’arte applicata
vennero predisposte vetrine a croce, mentre ogni piano disponeva di un deposito con griglie
scorrevoli.
5) Museo del Tesoro di San Lorenzo, Genova (1952-1956): Albini si ritrovò a creare un museo ex
novo (nella museologia italiana spesso i musei sono invece collocati in edifici storici), formato
soprattutto da oggetti di oreficeria (tra le forme protomuseali ci sono i tesori delle chiese medievali,
che spesso ospitavano oggetti “strani”, che non avevano un significato religioso ma che erano
meravigliosi e quindi reputati degni di essere tesaurizzati). È un ambiente ipogeo situato nel
sottosuolo del cortile dell’Arcivescovado e costituito da tre camere principali a pianta circolare,
traduzione in linguaggio moderno della tholos micenea. Collegati da brevi passaggi, i tre ambienti
presentano nelle volte una trama di travetti a vista in cemento, disposti a raggiera intorno ad un
oculo da cui filtra luce zenitale; al centro il pavimento si abbassa ed accoglie in un incavo circolare
le opere più significative. La struttura del museo di Albini rievocava quella di luogo del tesoro; dà al
museo l’aspetto di una cripta, di una catacomba. Non si ha un ricorso alla luce naturale, si ha una
teatralizzazione nella disposizione degli oggetti, che vengono isolati. Il carattere chiuso della
collezione non poneva problemi di flessibilità, consentendo di collocare gli oggetti in una
dimensione definitiva. Nell’allestimento l’opera viene esaltata nelle sue qualità formali ma priva di
qualsiasi corredo che ne spieghi la funzionalità e l’uso; si tende a presentare l’oggetto liturgico
come opera d’arte, e ciò non aiuta a comprendere gli oggetti: dibattito sulla musealizzazione degli
oggetti che un tempo avevano una precisa funzione all’interno delle chiese: si perde sempre di più
la conoscenza della storia della chiesa, della religione; in questi ani si tenta di capire come esporre
questi oggetti.
6) Musei del Castello Sforzesco: 1954-56, riordinati dal direttore Costantino Baroni secondo un
progetto museografico affidato al gruppo BBPR (Antonio Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso,
Enrico Peresutti, Ernesto Nathan Rogers) , che aderiva al contestualismo architettonico (necessità
da parte dell'architettura di tener conto delle preesistenze ambientali). Il Castello, con le sue torri,
scalette, passaggi, forniva gli ingredienti per un’orchestrazione romantica, e si puntò alla
realizzazione di un “museo popolare”, che comportasse un coinvolgimento emotivo del pubblico,
anche tramite soluzioni spettacolari che suscitarono molti dispareri. Il restauro comportò delle scelte
nei confronti dei rifacimenti in stile realizzati cinquant’anni prima da Luca Beltrami. Vennero
rispettate le aggiunte tardo-ottocentesche, alleggerendo però le decorazioni interne, solo in minima
parte autentiche.
Corte ducale: vennero abbattuti i muri divisori delle prime sale, in quanto vi erano stati individuati
tre pilastri esagonali, corrispondenti alla cappella di San Domenico e risalenti al periodo visconteo.
Essi costituivano l’appoggio centrale di tre arcate che Beltrami era stato costretto a chiudere per
ragioni statiche ma che, disponendo di più moderne tecnologie, fu possibile riportare alla luce
demolendo i muri di riempimento ed ottenendo una continuità di spazi, esaltata dalla collocazione
all’inizio del percorso della trecentesca Posterla dei Fabbri (una delle porte minori della città). Fu
ritrovato, inoltre nella Sala delle asse, un monocromo di Leonardo occultato dai rivestimenti lignei
di Beltrami; la sala venne quindi lasciata libera ed attrezzata con pannelli rimovibili per dotare il
museo di uno spazio per mostre temporanee.
Al pianterreno della Corte Ducale la maggior parte delle sale conserva la decorazione antica e la
scultura lombarda viene presentata in modo da coinvolgere il pubblico, con superfici e spazi chiari,
ogni opera collocata in una propria situazione (leggii, pareti, nicchie), e l’isolamento dei pezzi più
importanti. La flessibilità era garantita dalla presenza di spinotti alle pareti predisposti per
accogliere i sostegni di eventuali acquisizioni, oppure da tagli nel pavimento dove poter inserire
nuovi supporti (in realtà quando effettivamente la raccolta è stata allargata con venti sculture del
monumento funebre a Gaston de Foix il ritmo armonioso della Sala degli Scarlioni è venuto meno).
La Pietà di Michelangelo viene collocata al termine di un’ampia scalinata e protetta da una nicchia
esagonale in pietra serena che la isola dal resto della collezione, mentre l’enorme monumento di
Bernabò Visconti fu trasportato da una piccola sala al salone più grade, riacquistando importanza e
imponenza (ricerca di scenografizzazione dell'opera). Sala Verde: collezione di armature e armeria

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con tre portali rinascimentali: erano adatti per accogliere i cimeli dei cavalieri antichi.
Al piano superiore si trovano le raccolte di mobili e la pinacoteca, senza decorazioni antiche; nel
settore dei mobili si evitò il ricorso a ricostruzioni ambientali staccandoli dal pavimento e
presentandoli su ripiani di diverse altezze, mentre nella pinacoteca i dipinti erano disposti su
pannelli articolati e componibili rivestiti in tela di colore neutro. Nella sala della torre d’angolo,
dove la volta ad ombrello non consentiva la creazione di un lucernario, venne dosata la luce
naturale degli ampi finestroni tramite un velario in tavole di pino. Oggi il progetto BBPR
sopravvive solo nel settore della scultura.
7) Galleria d’Arte Moderna, Villa Belgiojoso, Milano: erano state totalmente rase al suolo le
antiche scuderie. Il riordino fu compiuto dal direttore Costantino Baroni, che decise di riservare
l’edificio principale alle raccolte ottocentesche, ricavando uno spazio distinto dedicato all’arte
contemporanea, che nel progetto di Ignazio Gardella (1949) avrebbe ricalcato il perimetro delle
scuderie. Il Padiglione d’Arte Contemporanea venne inaugurato nel 1953, con il mantenimento
delle preesistenze (la villa e il giardino all’inglese), nonché del trattato delle murature antiche. Lo
spazio interno è concepito come un unico ambiente articolato in sale esagonali le cui pareti si
interrompono per affacciarsi su uno spazio comune di raccordo; si crea un ambiente flessibile, nel
quale gli spazi interni possano essere modulati e cambiati. Sulle pareti esterne si ha un sistema di
grate mobili che consente di modulare la quantità di luce che arriva all’interno.

Carlo Scarpa: protagonista del rinnovamento museale italiano. I suoi allestimenti saranno
considerati intoccabili.
8) Gallerie dell’Accademia di Venezia (1946-1949): Carlo Scarpa, veneziano, aveva avuto le
prime esperienze allestitive in una serie di mostre a Venezia. In collaborazione con il direttore del
museo Vittorio Moschini, vennero diradate le opere (liberate dalle cornici non pertinenti), stesi
intonaci finemente lavorati sulle pareti, trattati in modo da differenziare le varie sale. Isolamento:
valorizzazione della singola opera d’arte (poste su pannelli). Progettò anche delle bacheche.
Caratteristica di Scarpa è la predilezione per la luce naturale, che nella sala dei primitivi lo portò a
riaprire le finestre chiuse nell’Ottocento. Uso di materiali raffinati: ovunque si trovava usava
materiali locali.
Nel 1953, a palazzo Abatellis, organizza la grande mostra su Antonello da Messina e Scuola
Siciliana. Fu una delle prima mostre di massa ed ebbe grandissimo successo. Ebbe qui l’occasione
di sperimentare nuove soluzioni espositive. Il tema dell’isolamento venne portato all’esasperazione:
crea dei cannocchiali visivi, ovvero lunghi corridoi che portavano a singole opere d’arte, in maniera
tale che il pubblico si concentrasse solo su quella.
-uso della luce naturale: schermata da appositi pannelli che erano belli anche dal punto di vista
estetico
-sale quasi spoglie: semplicità per la valorizzazione delle opere d’arte
-caratteristico rivestimento delle pareti: tele di calcio bianco pieghettato (vertice dell’esposizione
scarpiana).
9)Galleria nazionale della Sicilia, palazzo Abatellis, 1954: restauro e riordino ad opera di Scarpa e
Vigni. L’obbiettivo era quello di riportare all’aspetto originale il palazzo (di Matteo Carnelivari), si
voleva una fusione tra architettura e museo (gotico e rinascimento). per quanto riguarda
l’allestimento si seguirono sempre i soliti criteri.
-Trionfo della Morte, anonimo: Scarpa lo pone in una cappella ricostruita.
-Busto di Eleonora d’Aragona: esasperatamente isolato su un piedistallo su sfondo verde, per
esaltare il bianco del marmo.
-L’Annunciata di Antonello da Messina: posta su un pannello bianco e isolata da altre opere.
Sala delle croci trecentesche: rappresenta una novità perché Scarpa le pone su un piedistallo e non
addiossate al muro come nelle chiese, mentre il soffitto e le mura rievocavano proprio una chiesa.
10) Museo Correr (1953): riallestimento delle sezioni storiche, in parallelo con la realizzazione, a
Messina, della mostra Antonello da Messina e la pittura del Quattrocento in Sicilia (uno dei vertici
dell’esperienza scarpiana per l’eleganza delle sale foderate in calicot bianco pieghettato, per lo

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studio di ogni singola opera in rapporto alle fonti luminose). Il Correr ospitava oggetti molto vari
(costumi, armi, mobili...) quindi Scarpa dovette escogitare soluzioni varie; i costumi vennero
presentato entro vetrine in cristallo e ferro e abbinati a bandiere e vessilli, questi ultimi applicati su
teli di stoffa appesi in modo da rievocare il loro ruolo. Nella stessa stanza ritratti di dogi, dignitari e
condottieri richiamavano nei costumi dipinti la funzione di quelli veri. La quadreria era costituita da
dipinti databili tra XIII e XIV secolo nonché da un piccolo nucleo di sculture; venne sottoposta ad
una decisa selezione mentre i materiali non esposti furono collocati in depositi visitabili. La luce era
filtrata da tende di seta e ad ogni opera veniva assegnato un suo spazio, sottolineandone l’unicità
piuttosto che l'appartenenza ad una corrente o scuola. L’opera più illustre della collezione, la Pietà
di Antonello da Messina, viene differenziata dalle altre, impostata diagonalmente contro una quinta
in travertino che fascia l’angolo della sala. Gli elementi fondanti della museografia di Scarpa sono
quindi: le innumerevoli soluzioni studiate appositamente per ogni singola opera, la sensibilità per la
luce naturale (che però ha bisogno di essere schermata), la cura artigianale nella realizzazione dei
supporti rapportati alle caratteristiche di ogni oggetto, isolamento dell’opera d’arte, valorizzazione
delle singole opere (anche attraverso l’uso di vetrine create appositamente per l’opera), utilizzo di
materiali e tecniche locali con l’operato di artigiani locali. Molte delle sue realizzazioni sono
diventate “intoccabili”.
11) Reggia di Castelvecchio, Verona: civico, legato alla tradizione di Verona.Viene tolta ogni
traccia dell’allestimento di Antonio Avena; si compie un derestauro (Avena aveva attuato un
restauro integrativo di gusto neomedievale). Il primo intervento di Scarpa in queste sale, su incarico
del direttore Licisco Magagnato, fu la mostra Da Altichiero a Pisanello (1958). L’allestimento
museografico delle collezioni della reggia impegnò Scarpa tra 1957 e 1964. Ci furono delle scoperte
importanti, come il ritrovamento dell’antica porta del Morbio (varco nelle mura comunali), che
portarono alla demolizione della caserma napoleonica che aveva occultato le antiche tracce.
All’interno le sculture antiche furono diradate e presentate su basi calibrate su ciascuna opera. Le
caratteristiche sono: isolamento, diradamento delle opere, ricerca di punti focali, uso di pannelli
mobili. La statua equestre di Cangrande della Scala, opera emblematica del museo, venne posta in
corrispondenza della porta del Morbio ed issata su un alto basamento in calcestruzzo, visibile sia a
distanza ravvicinata che dal basso. Scenografizzazione delle opere più importanti ed eccessivo
isolamento, che in realtà verrà criticato. Importanza per la prima volta (come già al Louvre dagli
anni ’30) data alla scultura (che ha conosciuto grande fortuna soltanto in anni recenti).
L. Magagnato, Esperienza storica e architettura moderna, 1958: “Nelle esperienze museografiche
italiane il tentativo sempre rinnovato di creare per ogni opera il suo “luogo”, e di restaurare gli
ambienti storici salvando ad un tempo tutto il salvabile e demolendo il minimo delle tracce storiche
residue, il nostro sforzo di completare senza “rifare in stile” ha stimolato la nostra capacità storica
di vivere le lingue morte. Il pubblico visitando questi musei finirà per educarsi ad un nuovo
rapporto dialettico tra il moderno e l‟antico …”

Gli Uffizi e Capodimonte negli anni ’50

Uffizi: Direttore: Roberto Salvini


Decide di cambiare l’ordinamento con un po più di didattico e razionale. Non più per scuole ma
per ordine cronologico. 53 - 55
Chiama un trio di architetti: Michelucci, Scarpa e Gardella: realizzano il nuovo ordinamento delle
prime 5 sale (pittura del 2/300). Abbiamo poche testimonianze scritte dei progetti.
Le opere non appartenevano alla collezione medicea, ma erano state acquisite dai Lorena in seguito
alla soppressione degli anti ecclesiastici: le grandi pale e crocifissi dei Primitivi.
Sala Dei Primitivi: soffitto a capriate per rievocare le chiese. Evocare ma non ricreare il contesto
storico. Si usano i materiali tradizionali dell’architettura toscana (pietra serena, cotto). Si aprono dei
passaggi tra sala e sala: sono ora collegate: consentono il dialogo tra le opere.
Innovazione nel modo di collocare le grandi croci dipinte (Scarpa, Palazzo Abatellis): non appese in
alto come nelle chiese ma su dei bassi supporti posti sul pavimento: per favorirne le leggibilità ed

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essere visibili in ogni loro parte.
-Roberto Salvini, Il nuovo ordinamento della Galleria, in “Casabella”, 1957
“quando si passa alla raccolta saletta del Trecento senese col suo lucernario aperto in un soffitto a
capanna lievemente sospeso sul cubico spazio della stanza, si avverte una cesura che ben
corrisponde al diverso linguaggio delle opere, là monumentale e solenne, qui intimo e prezioso. E
nella doppia sala del Gotico internazionale la presenza del lucernario nella prima parte e quella del
finestrone nella seconda non servono soltanto ad assicurare ai dipinti l‟illuminazione più
conveniente, ma anche a sottolineare la distinzione fra il tardo gotico toscano culminante nel
patetico fervore religioso di Lorenzo Monaco e quello settentrionale che qui trionfa nella favola
festosa e cortese di Gentile da Fabriano”.
-L. Venturi, La rinascita degli Uffizi, in “Il Mondo”, 24 maggio 1952: “Se in un ordinamento di
galleria si segue una scuola dal Trecento al Seicento, salvo poi a ricominciare da capo per la scuola
vicina, s‟ingenera confusione nel visitatore ingenuo e si costringe lo studioso a fare salti mentali per
ritornare dalla scuola moderna a quella medievale. Oltre il valore artistico che i quadri migliori
rivelano per se stessi, al di fuori delle loro vicinanze, un ordinamento cronologico permette di
vedere lo sviluppo della civiltà espresso dalle opere d’arte in modo meravigliosamente chiaro.
Appunto ora agli Uffizi alla civiltà di Dante succede quella dell’umanesimo e poi del Rinascimento
e infine del Barocco e dell’Illuminismo, come se si fosse trasportati dalla corrente del tempo a
traverso i progressi, i regressi, le riprese, i trionfi della civiltà”.
Scarpa: si occupa anche del gabinetto dei disegni e delle stampe.
L’allestimento di questi anni è rimasto identico. Per la prima volta venne toccata la Tribuna (54-56)
per essere rinnovata: era rimasta identica al 500, considerata intoccabile, luogo simbolo: perse le
sue caratteristiche originarie: opere, isolate. Viene tolto il rivestimento rosso: impoverimento.
L’operazione fu fortemente criticata perché rispetto all’impianto originario vi erano troppi pochi
quadri e statue.
Infatti nel 1970 il direttore Luciano Berti la fa riallestire cercando di riportarla alla sua originalità
facendo esporre più statue e più dipinti su pareti rosse. Non sarà più affollata come prima
ovviamente.

Napoli, Reggia di Capodimonte 1957


Collezione barbone-farnese: statue e dipinti. Simbolo della museologia rinnovata degli anni 50.
Riunisce al suo interno tutte le migliori caratteristiche della museologia rinnovata. La reggia era
molto degradata: vennero rifatti i tetti e venne creato un nuovo sistema di lucernari.
Allestimento: Bruno Molajoli (storico) ed Ezio de Felice (architetto): fecero un viaggio negli USA
per visitare alcuni nuovi musei. Portarono in Italia la novità del bar nel museo, le biblioteche per
studiosi, laboratori di restauro.
La parte più importante del rinnovamento fu il deposito ordinato: le operazioni di diradamento
creavano di solito affollati depositi. Ora è un luogo pensato per gli studi e i confronti con griglie di
scorrimento: visione facile delle opere. Rappresenta quindi un’importante novità. Altre
caratteristiche del nuovo museo era la presa in considerazione della conservazione preventiva,
furono introdotti vari servizi per il pubblico e servizi per gli studiosi. De Felice: lucernari in vetro
per consentire il passaggio della luce naturale dal sottotetto.
Viene considerato il passato collezionistico: sezione per la collezione farnese e sezione per la
collezione Borbone: colori diversi delle pareti. Cura particolare nell’allestimento: deve essere
didattica: si deve capire l’originaria appartenenza delle due collezioni.
-B. Molajoli, Notizie su Capodimonte, 1957: “Questo imponente complesso di collezioni artistiche
non poteva avere un nuovo ordinamento che non rispecchiasse il moderno progresso della
museografia, val quanto dire quell’insieme di accorgimenti e di provvidenze, sia tecniche sia di
gusto, che appare indispensabile così per la migliore conservazione e presentazione degli oggetti
d‟arte come per la maggiore efficacia culturale e la più attraente e dilettevole sosta dei visitatori
delle sale del museo.”

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Anche Roberto Longhi su “L’europeo” pubblica un articolo dedicato alla riapertura del museo di
capodimonte e su come è stato salvato: “I capolavori nell’immondezzaio”.
B. Molajoli, Notizie da Capodimonte, 1957: “Presupposto dell‟attività di restauro che, il nuovo
istituto è chiamato a svolgere nell‟interesse della conservazione del patrimonio artistico regionale, è
stato, fin dal primo progetto, l‟istituzione di un Laboratorio convenientemente attrezzato per tutte
quelle attività tecniche e scientifiche che ormai si collegano indissolubilmente nella moderna
concezione del restauro delle opere d‟arte: non più basata su pratiche empiriche, ma rigorosamente
guidata da esperienza tecnica, da accertamenti razionali e metodici, da controlli e sussidi scientifici,
che possono dare garanzia di risultati non effimeri nella delicata e responsabile opere di salvezza e
di conservazione delle opere d‟arte”.
1º Piano, Sala 2, galleria Farnese, sale verdi: ritratti e busti della famiglia farnese: diradamento, tinte
chiare.
Sala della pittura lombarda, sala 16: stessi criteri.
Galleria delle Rarità: non si seguono i criteri dell’isolamento ma si cerca di ricreare uno studiolo,
ovviamente in senso moderno: le opere infatti sono ordinate e seguono un criterio e gli oggetti sono
esposti nelle vetrine.
Didascalie: i cartellini avevano precisi colori in base alla provenienza.
2º Piano, Gallerie della Pittura Napoletana, collezione Borbone: susseguirsi di sale (in fondo
abbiamo l’opera più importante), colore azzurro/grigio.
Appartamenti reali: salottino di porcellane, sale riambientative, fastose, decorazioni e lampadari.
Salottino pompeiano: ordinamento del 95.
Altri interventi di allestimento oltre a quello del 57-59:
1995: galleria delle rarità, sala della pittura lombarda, sala della galleria farnese.
1999: salottino pompeiano.
Roberto Longhi: 1957, scrive un articolo dedicato all’apertura del museo: Come è stata salvata la
galleria d’arte di Capodimonte.

Musei di Arte Contemporanea


Comincia anche in Italia la realizzazione di edifici dedicati esclusivamente all’arte contemporanea:
influenze dalle esperienze statunitensi del MoMa.

Padiglione di arte contemporanea, GAM, Villa Belgiojoso, Milano, Ignazio Gardella, 51-53. La
Gam aveva fatto parte del rinnovamento museale degli anni 50 sotto Costantino Baroni (direttore):
venne riedificato l’edificio che era stato raso al suolo per accogliere le raccolte 800esce, in più si
ricavò uno spazio da dedicare all'arte contemporanea dalle vecchie scuderie, progettato da I.
Gardella che mantenne le preesistenze (la villa e il giardino). Ma l’edificio fu concepito in maniera
del tutto moderna: spazio totalmente rinnovato. Si ispira al MoMa. Si tratta di un unico ambiente
articolato in sale esagonali che si affacciano su uno spazio comune di raccordo. Le pareti sono
bianche, e ovviamente l’allestimento è basato sull’isolamento delle opere. E’ un ambiente
estremamente flessibile: gli spazi interni possono essere modulati e cambiati. Fu concepito un
sistema di grate mobili sulle pareti esterne con le quali si può modulare la quantità di luce. Ampio
giardino: prolungamento dello spazio espositivo (galleria delle sculture): per Argan sarà sempre una
struttura esemplare: flessibile e luminoso.
G.C. Argan, in “Casabella - Continuità, n. 207, 1955: “… l’ordinamento ideale è quello che si presta
a essere continuamente scomposto e ricomposto, e la struttura architettonica ideale è quella che si
presta a flettersi secondo le necessità di ogni tipo di ordinamento ... poiché le determinanti di tutte le
condizioni di spazio, luce e colore sono, esclusivamente le opere d’arte: in nessun caso, più che nel
museo, l’architettura deve sapersi subordinare e, persino, dissimulare per mettere in valore, cioè in
una dimensione e in una luce conformi l’opera d’arte”.

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GAM- Galleria Civica di arte Moderna e Contemporanea di Torino, 50-59, ex-novo, Bassi e
Boschetti. Direttore: Vittorio Viale, protagonista della museologia torinese che aveva indetto il
concorso per l’edificio del nuovo museo di arte contemporanea e vincono Bassi e Boschetti. (1º
concorso pubblico italiano per un museo). Viale voleva un museo come luogo di studio. Il museo in
realtà esisteva dal 1863, accolto in altre sedi. Torino: prima città italiana a promuovere una raccolta
pubblica di arte moderna (lo sottolinea Viale in una lettere, dato che si credeva che fosse Milano la
prima città).
Lettera di Vittorio Viale a Guido Perocco del 2 agosto 1954: “Ho letto in Emporium la tua nota sulla
Galleria d’Arte Moderna di Milano, e pur dando applausi e meriti a Milano, a Baroni, non è esatto
dire che Milano ha rotto la barriera della “timidezza” e che anche Torino si è messa su quella strada.
Quello di Milano più che una galleria è un padiglione attraente, bellissimo, moderno, che ha avuto
la fortuna di poter essere realizzato per primo, appunto per le sue modeste proporzioni ed il suo
costo e perché si è ricorsi al sistema dell’incarico di un architetto invece che ad un pubblico
concorso nazionale. Ma Torino è partita un bel po’ prima (1948) di Milano …”

Galleria Nazionale di Arte Moderna, Roma, GNAM. Contiene la più ampia collezione di arte
contemporanea italiana. Era l’unico museo nazionale dedicato interamente all’arte moderna. Vi
furono varie sedi prima di quella definitiva fino a quando verrà ospitato nel Palazzo delle Belle Arti
di Cesare Bazzani, che nel 1933 lo amplierà raddoppiando lo spazio espositivo. Sovrintendente dal
1991: Palma Buccarelli. Favorisce lo sviluppo dell’arte contemporanea in Italia. Dà avvio ad
un’importante opera di svecchiamento della cultura italiana e di apertura verso le più moderne
sperimentazioni. Si adoperò per dotare la galleria di tutte quelle strutture indispensabili per servizi
al pubblico: biblioteche, bar, libreria… Prende spunto dal MoMa. Intende il museo come museo-
scuola: luogo di educazione. Allestisce mostre mostre: doveva esserci qualcosa di diverso da
vedere. Es:
Mostra di Mondrian, 1956, allestimento: Scarpa.
Mostra di Bauhaus, 1961.
Mostra di Lionello Venturi dagli impressionisti a Chagall.
-Pietro Dorazio, La fantasia dell’arte nella vita moderna, 1955: “Nel 1946 Lionello Venturi tornò in
Italia e presentò alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna una mostra di riproduzioni a colori delle
opere più rappresentative del secolo, dagli impressionisti a Chagall. Questa mostra fu la mano santa
per l’arte moderna in Italia perché fu visitata e discussa da tutti gli artisti, da Palermo a Milano e
presentò opere e problemi plastici di cui nessuno aveva mai supposto l’esistenza. Mi ricordo che
passammo tutto l’inverno a discutere, a cercare di imitare Picasso, Juan Gris, Matisse e Vlaminck”.
Molte mostre anche itineranti e a volte esponeva fotografie di grandi capolavori al posto di opere
d’arte stesse.
Organizza attività didattiche. Ebbe sempre al suo fianco Argan e Brandi. Nel corso degli anni la
collezione permanente si ampliò.

Italia tra anni 60-70: altri anni di rinnovamento che seguono quello degli anni 50.
1964: viene istituita la commissione Franceschini. Era una commissione di indagine per la tutela e
la valorizzazione del patrimonio storico e artistico del paesaggio, voluta fortemente da un insieme
di storici dell’arte che volevano risolvere alcuni problemi legati al mondo artistico/museale. In
realtà non ebbe molto successo. Vi fu la formulazione del nuovo termine “bene culturale”: ogni
testimonianza materiale avente valore di civiltà.
1967: Esce il rapporto della commisione: tre volumi dal titolo “Per la salvezza del beni culturali
in Italia. Atti e documentale commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione del
patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio”.
F. Franceschini, Prolusione del presidente della commissione, in Per la salvezza dei beni culturali ...
1967: “Sta qui il divenire delle nazioni, sta qui il destino dell’Umanità: nell’educazione intesa come
fatto sociale plurimo – vorrei dire nella quantificazione personale dell’essere e dei suoi valori –
affinché coi singoli e per i singoli accrescano i popoli a dignità di un‟illusoria democrazia.”

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Introduzione, in Per la salvezza dei beni culturali ... 1967: “Le generali perduranti carenze di
sicurezza e di custodia, che comportano una costante progressiva sottrazione delle raccolte
pubbliche allo studio e al godimento dei visitatori; l‟insufficiente conoscenza degli stessi materiali
conservati, a causa dello stato embrionale e caotico degli inventari e dei cataloghi; la deficienza di
adeguati depositi e delle attrezzature scientifiche, e lo scarso sviluppo dei servizi per gli studiosi e
per il pubblico, soprattutto in confronto alla situazione dei grandi e piccoli musei stranieri; i metodi
di esposizione o ancora assai arretrati (fatta eccezione per alcune recenti sistemazioni altamente
apprezzabili) o tendenti a far prevalere interessi di estetica espositiva su quelli scientifici e
divulgativi; uno stato di difetto particolarmente acuto, sotto tutti gli aspetti già rilevati per ciò che
concerne la più gran parte dei musei di enti pubblici non statali”

Roma, Galleria Borghese


Accoglieva la collezione di Scipione Borghese in sale lussuose.
Paola della Pergola: storica dell’arte importante (1963-65) fece un esperimento: costituisce un
gruppo di ricerca interdisciplinare per un analisi del pubblico e per poter poi attuare nuove forme di
didattica museale. Un gruppo di giovani dovevano organizzare visite guidate, lezioni e recarsi nel
centro urbano della città per valutare la conoscenza museale e artistica dei cittadini attraverso dei
questionari. Venivano apportate poi delle modifiche al museo e si cercava di attirare di più il
pubblico. Paola della Pergola partecipava a tutte le conferenze dell’ICOM, ed era una delle poche a
mettere in pratica quello che veniva discusso.

9. Il museo verso il XXI secolo: grandi architetti, il museo landmark, la competizione con le
mostre.

“L’ordinamento ideale è quello che si presta a essere continuamente scomposto e ricomposto, e la


struttura architettonica ideale è quella che si presta a flettersi secondo le necessità di ogni tipo di
ordinamento”. Argan richiama come struttura esemplare quella del Padiglione di Gardella per la sua
grande duttilità e sottolinea l’obbligo dell’architettura a non prevaricare sull'opera d’arte.

Museo contemporaneo di fine 900: si seguono due linee fondamentali:

1) Creazione di musei spettacolari con protagonista l’architettura, che soverchia l’opera d’arte. Si
tratta del cosiddetto “museo di se stesso”, in cui l’architettura è essa stessa il museo e la cosa
principale da mostrare, a scapito della collezione che viene oscurata dalla grandiosità
dell’architettura (= musei landmark). Gli edifici museali si vogliono staccare da ciò che era venuto
prima, dalla tradizione. L’architetto torna protagonista e per la prima volta si abbandona tutto ciò
che faceva parte del museo tradizionale. L’aspetto più nuovo è la competizione che si instaura tra
struttura architettonica ed opere d’arte, dove la prima finisce per prevalere. Ai musei landmark si
criticava il fatto che la spettacolarizzazione dell’architettura tradiva la missione che da sempre
sperava al museo, cioè quella di conservare, esporre e valorizzare le opere d’arte facendole
comprendere al pubblico. Si credeva che il successo di questi musei si dovesse alla nuova mentalità
della civiltà del consumo. Vi era la mancanza di funzionalità interna perché l’architettura era anche
fin troppo innovativa.

Salomon Guggenheim Museum: di Frank Lloyd Wright, aperto nel 1959 e dedicato alla collezione
di Non-Objective Painting del magnate americano Guggenheim. Nel 1937 Salomon Guggenheim
fonda un’associazione con il compito di istruire e diffondere la conoscenza dell’arte
contemporanea. Il suo museo doveva rappresentare fin dalla sua forma architettonica il concetto di
divenire dell’arte e il suo sviluppo inarrestabile; Wright concepisce allora un edificio che si stacca
completamente da ciò che lo precede, si stacca dai classici edifici newyorkesi ed assume forma
circolare; dopo il MoMA gli USA vogliono mostrarsi in grado di staccarsi dalla museografia

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europea, quindi l’edificio ha una doppia valenza: idea di movimento dell’edificio che riprende il
movimento dell’arte. Il museo sconvolgeva i canoni tradizionali (ancora attuali negli Stati Uniti) e
rappresenta un punto di non ritorno per l’arte; il cuore del Guggenheim è un invaso vuoto, cinto da
una rampa a spirale di sette piani che costituisce il percorso del museo, da cui si parte dall’alto. Le
opere esposte sono collocate su muri curvi e in relazione col piano inclinato del pavimento,
sembrano quindi fluttuare prive di appoggio. L’idea della spirale sembra riprendere Le Corbusier,
che però prevedeva una costruzione minimalista, mentre Wright crea un edificio spettacolare, poco
adatto alle esigenze di funzionalità di un museo (confermato dalla sua attuale destinazione a spazio
per mostre temporanee).
Il Guggenheim è il prototipo delle esperienze museografiche che hanno assegnato al museo il ruolo
di landmark, a svantaggio della funzionalità ed a vantaggio della forza espressiva del segno
architettonico.

-Judisches Museum (1989-98), Berlino: Daniel Libeskind crea un’architettura lacerata da continui
tagli diagonali che ne tormentano le superfici esterne rivestite di zinco, ad esprimere la tragedia
dell’Olocausto; ha una pianta ispirata alla stella di Davide, ma deformata, con interni oppressivi e
feritoie minacciose.

-Getty Center, Los Angeles (1986-97): Richard Meier (discusso magnate) crea una struttura che
domina sulla città, affacciata sull’Oceano Pacifico e costituita da un insieme di vari edifici dedicati a
ricerca, conservazione documentazione: è una cittadella. Nel J. Paul Getty Museum venne collocata
la collezione del magnate, spostata dalla sua villa di Malibu (celebre per la riproduzione della Villa
dei Papiri di Ercolano). Il Getty ha uno spirito “mediterraneo”, con largo impiego di travertino e
marmo, a suggerire l’aspetto di un’acropoli, sottolineato dalla presenza di portici, di giochi d’acqua,
di giardini: l’idea di Meier è di recuperare il concetto del Museion di Alessandria, ma anche la villa
di Adriano a Tivoli. Il museo occupa la parte più panoramica della collina ed è costituito da cinque
edifici autonomi ma collegati da passerelle. La rotonda accoglie il visitatore e vi sono collocati punti
informativi, guardaroba, bookshop, mentre nelle sale superiori dedicate alla pittura i lucernari
consentono di illuminare le opere ed ammirare il cielo. Il giardino è concepito come un
prolungamento dell’esposizione. Si ritrova ancora tuttavia nelle sale dedicate alle arti applicate
l’allestimento a period room.

-MuseumsQuartier, Vienna (MQW): inaugurato nel 2001, fa da sfondo alla Maria Theresien Platz
dove si fronteggiano il Kunsthistorishces e il Naturwissenschaftliches. L’edificio principale è
costituito dalle antiche stalle costruite per l’imperatrice d’Austria, e gli architetti Ortner und Otrner
ne conservano l’architettura barocca realizzando però, nella corte interna, due edifici di colore
contrastante disposti in diagonale: in pietra bianca il Leopold Museum (collezione di opere di artisti
austriaci), in basalto nero un museo di arte moderna e contemporanea. Si ha la convivenze di stile
barocco e d’avanguardia, con più di venti istituzioni culturali (spazi per mostre temporanee, per il
teatro, la musica, la danza). La realizzazione del MuseumsQuartier risponde alla strategia di rilancio
del distretto di Naubau.

-Guggenheim Bilbao Museoa (1991-97): risolleva le sorti del capoluogo basco, da tempo avviato
alla decadenza. Si è puntato al rinnovamento della città affidando ai più famosi architetti una serie
di importanti edifici (le stazioni della metropolitana, le stazioni ferroviarie, il grattacielo Torre
Iberdrola). In sintonia con il programma di espansione internazionale della Guggenheim Foundation
lanciato dal suo direttore Thomas Krens venne commissionato a Frank O. Gehry un museo per
l’arte contemporanea. La superficie del museo è rivestita di sottili lastre di titanio che si offrono alla
luce mutevole del giorno, offrendo prospettive sempre diverse che si specchiano anche nell’acqua.
All’interno gli spazi si regolarizzano, in una sequenza di sale quadrate e rettangolari, mentre la
galleria principale riprende l’aspetto flessuoso della costruzione. Ultima rappresentazione di questa
tipologia di musei ed addirittura non contiene opere permanenti, ma solo esposizioni temporanee.

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2)Creazione di musei meno scenografici, meno appariscenti e più lineari. L’architettura recupera un
rapporto più intimo con l’opera e non è in competizione con essa. Ci si rifà alla museografia italiana
del secondo dopoguerra e a Scarpa. La protagonista di questa linea è soprattutto la Germania, con
architetti Mies Van Der Rohe e Hans Hollein, che creano nei musei un atmosfera in funzione dello
spettatoree e dell’opera, che viene valorizzata al meglio. I musei non dovevano essere visti per
l’architettura ma per il contenuto. Si incoraggia il rapporto opera-pubblico.

-Neue Nationalgalerie, Berlino: realizzata da Mies van der Rohe nel 1968, sviluppa l’idea di un
edificio ad un solo piano caratterizzato da una grande vetrata che crea un dialogo con il paesaggio
(già nel ’39 il piano inferiore del Museum of Modern Art di New York era stato concepito dagli
architetti Goodwin e Stone come la vetrina di un grande magazzino alla portata dello sguardo dei
passanti). Si ha la totale eliminazione di pareti esterne in muratura. Collocato su un podio in granito
e sormontato da un’ampia falda, il museo è un’aula dalle pareti in vetro, uno spazio continuo e
senza interruzioni, dove le pareti sono inutilizzabili e l’assenza di strutture interne non risolve i
problemi allestitivi, tanto che la collezione permanente è esposta in sale ricavate nel basamento, del
tutto tradizionali. Mies Van Der Rohe realizza edifici meno particolari, ma comunque con un certo
distacco dai classici edifici (la Germania torna protagonista).

-Monchengladbach, Stadtisches Abteiberg Museum, Hans Hollein, 1982. Contrasta con gli
edifici legati al museo forum, l’edificio è infatti concepito al servizio dell’opera d’arte. Si ricorre
all’isolamento dell’opera e si creano delle atmosfere per ambientare ed esaltare l’opera d’arte più
importante della collezione. Si incoraggia il rapporto opera-pubblico.

- Kolumba Museum, Colonia, Peter Zumthor: nasce sul suolo della vecchia chiesta di Santa
Colomba: le struttura pre esistenti furono inglobate nella nuova architettura. Si nota un riferimento
molto forte alla musicologia degli anni 50: offre un tipo di ordinamento legato all’esaltazione delle
singole opere e alla loro valorizzazione. Ma la maggiore particolarità dell’ordinamento è un’altra: la
collezione di arte antica e di arte contemporanea non sono esposte entrambe permanentemente ma
alternativamente, a rotazione, e soprattutto si rinuncia a qualsiasi tipo di criterio tradizionale. Si
sceglie un ordinamento astorico: si rinuncia alla cronologia e a qualunque forma di comunicazione
scritta, quindi non vi erano didascalie: lo spettatore deve trovare da solo il significato dell’opera.
Questo serviva per favorire il dialogo con l’opera d’arte. Ci sono aule con tavoli e libri riguardo alle
opere esposte. Illuminazione: alternarsi di luce naturale e artificiale.

Altra novità di questi anni: riutilizzazione di vecchi edifici, trasformati in nuovi spazi museali
(mercati, stazioni, industrie, centrali elettriche..)

-Centre Pompidou (1977): detto Pompidou dal nome del presidente che ne promosse l’istituzione
ma chiamato anche Beaubourg dal nome della piazza in cui sorge. Operazione che porta alla
cancellazione degli antichi mercati generali (operazione molto criticata). Alla base del museo c’è la
volontà di rilanciare Parigi sulla scena dell’arte contemporanea strappando il ruolo di capitale a
New York (aspirazione a caratterizzare un quartiere urbano con un segno architettonico di forme
richiamo). Già dalla definizione di centro e non di museo è chiara la volontà di distinguersi dalle
istituzioni tradizionali; è un luogo di attività, dove le arti visive si accompagnano al cinema, alla
fotografia, alla musica, al design, dove si promuove la ricerca tramite un centro di documentazione.
Si teorizza attorno alla nascita del Centre Pompidou un’altra tipologia di museo, il Museo Forum
(opposto del Museo Tempio). Il Museo Forum è un luogo di partecipazione e di discussione, dov’è
fondamentale la partecipazione attiva della popolazione. Il progetto si inserisce nel quadro del
movimento sociale e politico che trova il suo apice nelle rivolte del Sessantotto, con la negazione
della cultura ufficiale, del principio d’autorità; deve tener conto di una società portatrice di nuovi
valori e nuove richieste, diventa uno strumento di comunicazione sociale. L’architettura di Renzo
Piano e Richard Rogers è un parallelepipedo vetrato sostenuto da strutture in acciaio, attraversato

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diagonalmente in facciata dal nastro delle scale mobili, con tubature a vista sul retro, variamente
colorate a seconda delle funzioni (impianti idrici, scale mobili, condutture elettriche...).
L’architettura del Centre Pompidou non ha niente che ricordi un museo; si ricorre ad una struttura
che ha l’aspetto di un edificio industriale (si collega al concetto di museo come “fabbrica” di
cultura). Il museo si oppone all’aura di sacralità che l’aveva da sempre connotato: ciò che si svolge
nel museo è ben visibile dalla spianata antistante e la trasparenza dissolve i tradizionali confini tra
interno ed esterno (annullamento del limen, incuriosendo chi è fuori ed inducendolo ad entrare. Gli
spazi interni sono articolati in vaste zone d’accoglienza (biglietteria, bookshop, punti di
informazioni, caffè, terrazze), alternati alle zone dedicate alle mostre temporanee. All’esposizione
permanente (arte del XX secolo, che si riallaccia cronologicamente alle collezioni del Musée
d’Orsay), sono riservati terzo e quarto piano, tuttavia dato che il percorso era troppo libero e
disorientante negli anni ottanta Gae Aulenti ha riplasmato lo spazio dividendolo in sale più raccolte.
Insieme all’enorme successo non sono mancate le critiche di chi pensa che ci si trovi davanti ad una
contaminazione tra museo e cultura del consumo e dello spettacolo; tuttavia bisogna ricordare che
l’offerta culturale è alta e che c’è stata una ricaduta positiva sull’intero quartiere: la consapevolezza
della forza dell’architettura determina la fondazione di nuovi musei in aree degradate da
rivitalizzare o città da rilanciare.

-Musée d’Orsay, 1978: è situato in una ex stazione, costruita da Victor Laloux a partire dal 1898.
Nel 1900 ospitò un’esposizione universale e dagli anni 30 lo stabile ebbe varie funzioni. Nel 1961
fu decisa la demolizione dal presidente Pompidou (che aveva in mente un progetto di rinnovamento
della capitale francese e avrebbe voluto trasformare la stazione in un parallelepipedo di cristallo).
Questa sua iniziativa fu molto criticata e grazie ad alcuni cittadini illustri che si opposero la stazione
non venne demolita. Nel 1978 fu decisa la trasformazione in museo sotto Giscard D’Estaing. Il
restauro dell’edificio fu affidato al gruppo CT-Architecture, il curatore capo fu Michel Laclotte
mentre l’allestimento fu affidato a Gae Aulenti, che si occupò della disposizione degli spazi interni e
della progettazione dei percorsi espositivi. Come materiale venne privilegiato la pietra calcarea
chiara, per dare più luminosità all’ambiente. Il percorso si articolava su tre livelli, utilizzando la
navata centrale come tronco principale da cui si dipartono passaggi e terrazze.
1986: apre al pubblico.
La direzione del museo scelse di esporre opere che si collocano tra due limiti: dal 1848 (inizio della
2° repubblica) al 1914 (inizio della prima guerra mondiale), andando cos’ a colmare la lacuna
esistente tra la collezione del Louvre e quella del Centre Pompidou. Le opere derivavano infatti
principalmente dal deposito di questi due musei, mentre la ricchissima collezione impressionista
derivava dall’ex museo Jeu De Paume. Quindi il museo fu concepito non per l’arte contemporanea
per l’arte dell’800 francese. Si cercò un dialogo tra le diverse arti (soprattutto pittura e scultura).
“Entrarono così in gioco i grandi temi su cui si è esercitato il dibattito storiografico del periodo: da
una parte il modernismo tradizionale, teso a sottolineare l’importanza delle avanguardie e
l’autonomia dell’arte; dall’altra i revisionismi di tutte le obbedienze, in cui si riconoscevano coloro
che volevano collocare l’arte in un contesto non solo estetico ma anche storico, e quanti volevano
semplicemente promuovere gli artisti esclusi dal canone modernista” (Patricia Mainardi, Storia
postmoderna al Musée d’Orsay, 2005). Allestimento: venne privilegiata la spettacolarità, il
dinamismo, la molteplicità dei punti di vista e il mescolamento delle arti: verrà molto criticato e
messo in discussione varie volte perché considerato troppo caotico. Fu un museo che sin dalla sua
apertura fece discutere molto e aprì diversi dibattiti. I curatori furono accusati di aver dato troppa
importanza ai dipinti di quell’arte considerata accademica e di aver invece relegato l’arte
impressionista in sale meno ampie e meno visibili, che per i francesi costituiva “l’arte nuova”. Si
dette quindi più importanza ad un’arte superata piuttosto che alla portata rivoluzionaria degli
impressionisti.
Il dibattito nato intorno all’atteggiamento revisionista del Musée d’Orsay ha fatto si che nel 2010 si
decidesse un nuovo allestimento per la sezione degli impressionisti, per dare loro maggiore
importanza e visibilità.

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Il centre Pompidou e il Musée d’Orsay sono musei che contraddicono il modello tradizionale di
museo.
Dopo il Centre Pompidou la progettazione architettonica si è sempre più svincolata dalla tipologia
tradizionale, con la sperimentazione di forme nuove e mai ripetitive. Anche il Louvre si è dotato
della Pyramide di Ieoh Ming Pei (1989), che diventa il logo del museo, che risponde alla necessità
di regolare l’afflusso di visitatori ed è al contempo diventata il segno della modernità del museo.

Invenzione dell’installazione: si afferma negli anni 60 del 900 anche se ha in realtà una lunga storia
es. Sala di James A. Whistler, Harmony in Blue and Gold: the Peacock Room (1876-77, oggi alla
National Gallery di Washington), dove l’opera d’arte è costituita dall’intero ambiente in cui sono
inseriti i dipinti: concetto di Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale), usato per la prima volta da
Richard Wagner nel 1849 in riferimento al teatro lirico (unione di testo, musica, scenografia, attori).
L’idea di arte totale torna in auge con il surrealismo e la pop art, tramite le installazioni e gli
happening (installazione accompagnata dall’azione). Si trattava quindi di unire in un solo progetto
opera d’arte e architettura, ed era concepito per un luogo ben preciso: site specific. A seguito di
queste nuove esperienze non poteva non corrispondere una diversa concezione del museo.

1967: Documenta, rassegna internazionale d’arte contemporanea a Kassel. Un parco ed un castello


in parte bombardato furono messi a disposizione degli artisti, invitandoli ad inventare un’opera in
relazione con il sito (site specific). In questa IV rassegna l’opera più significativa fu “package” di
Christo e Jeanne-Claude (opera site-specific).
Nel 1966 Pierre Gaudibert crea l’ARC (Animation-Recherche-Confrontation): afferma
“l’animazione consiste allora non soltanto nel far circolare la vita in un museo, nel suscitare
confronti e dibattiti, ma anche nel rendere attive le opere, nel liberare il loro potenziale esplosivo,
nel fare qualcosa di più di un semplice piacere per l’occhio, affinché agiscano sull’immaginario e la
sensibilità dei visitatori, li esaltino o li turbino, li inquietino o li ossessionino; li facciano insomma,
reagire mettendone in discussione abitudini e certezze”.
Negli ultimi decenni del ‘900 il museo è stato uno dei temi centrali della progettazione
architettonica, si è sempre più imposto come opera d’arte in sé.

L’Italia partecipa a questa fase in maniera minore. Sono rarissime le costruzioni nuove: i musei
continuano ad essere ospitati in edifici rifunzionalizzati:
-Museo di arte contemporanea, Rivoli: struttura tardo barocca che accoglie al suo interno
collezioni di arte contemporanea e installazioni. Ha rappresentato uno dei centri principale di arte
contemporanea e si ha un grande contrasto tra installazioni contemporanee e le strutture tardo
barocche in cui sono accolte.

A volte si utilizzano le fabbriche:


-Museo di Alberto Burri, Citta di Castello: Museo d’artista, allestito e curato dallo stesso Burri

Gli unici edifici ex-novo sono il MART di Rovereto e il MAXXI di Roma.


-MART, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto: architetti: Mario Botta e
Giulio Andreolli, 1987. La prima sede fu a Trento, nel 1991 venne ampliato e nel 2002 si trasferisce
a Rovereto. Il museo nasce con tre scopi fondamentali: l’esposizione, la conversazione e la ricerca.
Si pone come museo relazionale, si apre ancora di più al pubblico e ad altre istituzioni del territorio:
si assiste ad un espandersi sempre più vasto della struttura museale. La collezione accoglie opere
dal futurismo ad oggi e si incoraggia il deposito di nuove opere d’arte senza però tradire la funzione
principale. Si da avvio ad un intensa attività di mostre temporanee. Aspetti che il MART mette il
primo posto: conservazione, tutela e restauro preventivo che sono gli scopi primari del museo. Si
pone al servizio dello spettatore e dell’opera d’arte. L’architettura è molto moderna. Abbiamo
l’agorà, una piazza prima dell’ingresso con fontana, per accogliere il pubblico coperta con cupola
radiale in vetro e plexiglass (ricorda il Pantheon, gli architetti si sono ispirati ai modelli classici per

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le forme e hanno dedicato una particolare attenzione a soluzioni tecniche d’avanguardia). E’ stato
uno dei primi musei ad applicare l’atto d’indirizzo (2001): decreto legislativo con il quale si sono
stabiliti standard massimi e minimi per otto ambiti per garantire il miglior funzionamento del museo
e migliorare le attività museali. Il MART nasce per essere fedeli ai compiti che si è prefissato: il
museo non deve dimenticarsi chi è e per quali motivi è nato. Per questo si distinse dagli altri musei
e sarà un importante modello.
“La nostra missione è di trasformare lo straordinario patrimonio artistico e architettonico di cui
disponiamo e che intendiamo continuare ad arricchire in uno strumento capace di valorizzare
l'intera comunità, promuovendone le risorse di creatività e di iniziativa, stimolando l'interesse dei
visitatori, cercando la partecipazione, condividendo, interpretando e custodendo una collezione
straordinaria.” “Penso che la più bella e insuperata definizione di museo sia ancora quella data da
David Thorp nel 2001: “Mi aspetto da un‟istituzione artistica del XXI secolo che sia flessibile,
sincera, democratica, multiculturale, contraddittoria e audace. Splendida quando è ricca, eroica
quando non ha denaro. Deve avere la testa fra le nuvole, funzionare in maniera esemplare, avere lo
spirito di squadra, i piedi per terra e un cuore grande così. Mi aspetto che ami gli artisti, si prenda
cura del pubblico, tolleri il fumo e rimanga aperta sino a tardi”.

-MAXXI, Roma, 2010, Zaha Hadid: nel 1999 viene bandito il concorso dalla sovrintendenza
speciale di arte contemporanea e viene vinto da lei. Si tratta di un campus urbano multifunzionale
che compone e integra diversi spazi articolati e complessi: spazi museali, laboratori di ricerca, spazi
d’accoglienza e servizi di supporto al museo, funzioni commerciali e spazi per eventi, tutto unito da
percorsi di collegamento interno e strade pedonali che s’intrecciano su più livelli in un sistema
dinamico e continuo. Vi è quindi una grande creatività della soluzione architettonica e capacità
d’integrarsi nel tessuto urbano circostante. Gli edifici principale sono i due musei: maxxiArte e
maxxiArchitettura, che ruotano intorno alla grande hall attraverso la quale si accede ai servizi
d’accoglienza (caffetteria, libreria, laboratori didattici, auditorium, sale per eventi dal vivo e
convegni, gallerie per esposizioni temporanee).Si tratta quindi di una trama spaziale di grande
complessità, costituita dal variare e dall’intrecciarsi delle quote e dalla complessità delle forme. Il
percorso quindi non è lineare e offre una gamma di scelte alternative per far si che il visitatore non
torni sui suoi passi.

-Altro esempio di riutilizzo: Museo della Centrale Elettrica di Monte Martini: museo nato
casualmente. Durante i restauri del museo capitolino (1995) nacque il problema di dove porre le
opere che non si volevano più esporre: vennero qui accolte le sculture che sono state scartate
(2005).

10. Particolari tipologie di musei: case-museo, studi d’artista, musei diocesani, musei
etnografici, ecomusei, musei aziendali

Casa-museo: istituzione nata dalla trasformazione di un’abitazione privata in museo aperto al


pubblico, con il persistere di una raccolta artistica all’interno dell’ambiente domestico, ricco di
oggetti appartenuti al collezionista.
A partire dalla metà del XIX secolo furono diversi i lasciti testamentari che destinarono ad uso e
beneficio pubblico raccolte eterogenee; infatti nel corso dell’Ottocento anche i nuovi ricchi, grazie
al mercato antiquario e alle esposizioni, possono arredare la propria residenza con oggetti preziosi e
opere d’arte. La musealizzazione di una dimora privata comporta una serie di modifiche legate alle
esigenze di conservazione e fruizione; in particolare la tutela delle opere obbligherebbe ad una loro
messa in sicurezza attraverso vetrine, distanziatori e strumenti, che interferiscono però con l’aura
della dimora. È necessario inoltre rendere agevole e comprensibile la lettura delle opere, ma in un
ambiente pieno di didascalie si comprometterebbe la dimensione domestica. Nella maggior parte
dei casi le istituzioni che ereditano sono libere di intervenire nella scelta del percorso espositivo e si
può modificare la disposizione delle opere e degli arredi. In altri casi, i donatori pongono nel

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testamento la condizione di non modificare la conformazione della casa donata. Ci sono poi i
collezionisti che impongono la costituzione di una fondazione che gestisca il patrimonio donato,
indicando persone a loro note quali responsabili delle scelte culturali del futuro museo.
Sotto la definizione di casa-museo si fanno solitamente cadere anche le case e gli studi d’artista,
che racchiudono solitamente al loro interno una maggior uniformità di oggetti in quanto frutto del
lavoro dell’artista oppure raccolti da quest’ultimo con la finalità di servire da modello per l’attività
creativa.
Nel secondo Ottocento una parte significativa di collezioni artistiche sono di proprietà ecclesiastica.
La Chiesa ha un’ampia vocazione conservativa, come attestano i molti musei annessi a chiese e
cattedrali, ma solo verso fine Ottocento cominciano a costituirsi in Italia i primi musei diocesani,
allo scopo di salvaguardare moltissimi beni, il cui valore estetico è spesso subordinato al significato
che rivestono quali testimonianze di fede. Nel corso del Novecento si hanno una serie di atti
legislativi e la costituzione di organismi preposti al controllo del patrimonio ecclesiastico,
testimonianza della consapevolezza da parte della Santa Sede dell'importanza di sovrintendere
direttamente alla gestione dei beni. Per i musei diocesani divenne fondamentale il confronto con le
altre istituzioni culturali, in primo luogo musei locali e scuole. Poiché ospitano collezioni aperte,
questi musei necessitano di soluzioni museografiche flessibili. Accanto ai musei diocesani
sussistono musei di più antica fondazione: i Musei del tesoro (in genere allestiti in cripte e sacelli e
formati da oggetti di piccole dimensioni) e i Musei della Fabbrica o dell’opera del Duomo (in
genere espongono pezzi legati alle vicende edilizie della chiesa), mentre i Musei missionari
raccolgono testimonianze dell’opera di evangelizzazione della Chiesa nel mondo, esponendo
materiali riferibili alle diverse culture (sono quindi assimilabili ai musei antropologici-etnografici).
I musei antropologici-etnografici indagano sulle diverse identità etniche e nascono grazie al
collezionismo alimentato dal gusto per il viaggio e dall’interesse per l’esotico. I primi musei
etnografici fondati su basi moderne nacquero a fine Ottocento, e vi hanno un ruolo centrale gli
oggetti (in genere oggetti d’uso che raccontano costumi e tradizioni di un popolo). L'approccio più
scientifico alla materia impone una selezione cauta degli oggetti da esporre e una continua verifica
sulle modalità di presentazione delle opere scelte per rappresentare un popolo e la sua cultura.
Questi musei si dotano sempre più spesso di attrezzature multimediali che riproducono la cultura
intangibile (danze, rituali, suoni...) a complemento delle opere esposte.

I musei etnografici hanno diversi punti in comune con l’ecomuseo, termine coniato in Francia negli
anni settanta dai museologi Hugues de Varine e George Henry Rivière. Le riflessioni sviluppatesi
attorno ai musei etnografici avevano aperto il campo ad un'idea di museo rivolto alla salvaguardia e
comprensione dell’importanza dell’identità culturale, facendo diventare il territorio il bene stesso da
tutelare. Il concetto di ecomuseo sconfina in quello di museo diffuso, il cui spazio di riferimento è
l’ambiente (rurale o urbano) che ospita il patrimonio naturale e culturale. Al concetto di pubblico
viene sostituito quello di comunità, rivolgendosi innanzitutto alla popolazione locale. Priorità
dell’ecomuseo è la conservazione o il recupero di tradizioni ed attività produttive legate ad un
determinato territorio, quindi gli oggetti musealizzati sono strumenti di lavoro, macchinari e
prodotti.

G. H. Rivière, L’écomusée, un modele evolutif


Definizione di Ecomuseo:
Un museo dell‟uomo e della natura, un museo ecologico, che fa riferimento a un dato territorio, nel
quale vive una popolazione
Che partecipa alla concezione ed evoluzione permanente del museo
Laboratorio permanente su campo
Strumento di informazione e presa di coscienza per la popolazione

Già prima della nascita ufficiale dell’ecomuseo con Rivière si può individuare in un museo
americano una forma di museo del territorio: Anacostia Neighbourhood Museum, 1967,

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Washington. Il direttore era John Kinard e il museo venne istituito in un vecchio cinema, che
prevedeva la partecipazione diretta della popolazione, che doveva riscoprire la propria identità. Il
museo inizialmente non aveva collezioni, organizzava solo incontri, eventi, conferenze e mostre. Si
invita la popolazione a lasciare la propria testimonianza, la propria storia. Il museo ha oggi anche
una funzione conservativa perché nel tempo ha accumulato delle collezioni (vi erano soprattutto
molte fotografie riguardanti la comunità). La popolazione veniva coinvolta nelle molte mostre che si
organizzavano (mostra sui ratti, sui costumi tribali africani). John Kinard, 1971, Grenoble, IX
conferenza generale Icom: “Il museo si pone effettivamente al servizio dell’uomo se si adopera in
modo diretto a favore dell’uomo di oggi e di domani. Se vogliamo renderci utili agli esseri umani di
oggi e di domani, dobbiamo impegnarci sui problemi di oggi e dimostrare in questo modo che
esistono possibilità di vita migliori. La popolazione parla e discute, il museo è l’orecchio in
ascolto”.

Primo vero e proprio ecomuseo: Ecomusée de Creusot-Montsceau (1973), accolto in un centro


minerario. Si sperimentò la nuova forma dell’ecomuseo in un contesto altrimenti destinato a sparire.
Ci si pose il problema di conservare gli edifici, le abitazioni degli operai, le strutture utilizzate dalla
popolazione. Quindi la missione era recensire, studiare e valorizzare il patrimonio di un territorio
segnato dallo sviluppo di attività industriali.

Italia: 1978, inaugurazione del museo civico Gianandrea Irico a Trino Vercellese, con direttore
Vittorio Viale. Concepito sin dalla nascita come museo del territorio, quindi molto vicino
all’ecomuseo. Voleva presentare la storia di Trino e del suo territorio (vi era una collezione di
reperti antichi e opere varie). Vittorio Viale è il 1° in Italia a concepire un complesso museale
rivolto a presentare la storia di un territorio.Vittorio Viale in S. Branca, Il museo Civico Andrea
Irico di Trino, in “Musei e gallerie d’Italia”, XXIII, 1978: “di solito si concepisce il museo solo
come luogo di raccolta, di conservazione e di presentazione di collezioni di opere d’arte o di
scienza, ma è mia idea che anche quando collezioni od opere originali manchino o siano poche, un
museo può essere utilmente costituito sviluppando, in forma metodicamente didattica, un
argomento o una storia. È la strada che si è seguita per il museo di Trino, che, sebbene non manchi
di reperti antichi, di opere o di pezzi originali anche di pregio, li ha accolti ed esposti in quanto si
inserivano nel complesso museale rivolto a presentare in forma metodicamente didattica (sarà uno
dei pochi, se non l’unico esempio del genere che io conosca in Italia), la storia di Trino e del suo
territorio …”
In Italia l'esperienza dell’ecomuseo ha come epicentro il Piemonte, dove già nel 1955 è stata
emanata una legge a favore dello sviluppo di una rete ecomuseale.

Di recente formazione sono i musei nati in seno alle aziende, dirette filiazioni delle collezioni che le
imprese costituiscono con i pezzi storici della propria attività. La specificità di questi musei li
iscrive nella tipologia dei musei tematici, istituzioni solitamente di piccole dimensioni dedicate a
singoli temi. Generalmente i motivi per i quali un’azienda può decidere di trasformare la propria
raccolta privata in museo aperto al pubblico sono riconducibili a finalità promozionali. Anche i
musei d’impresa devono possedere uno spazio aperto al pubblico, adeguato alla tutela e alla
fruizione degli oggetti, oltre a personale qualificato. Ciò che differenzia questa tipologia museale da
quelle tradizionali è l’essere musei in progress, istituzioni legate ad un’azienda ancora produttiva; è
quindi necessaria una continua revisione del percorso espositivo che presuppone uno spazio molto
flessibile. Non di rado la singolarità di questi musei consiste anche nell’atipicità della loro
ubicazione, spesso ricavata da ambienti preesistenti limitrofi all’azienda o all’interno dell’azienda
stessa (ciò può comportare soluzioni originali ma anche limiti).

Giardini-museo e musei della città:


Il giardino come museo ha origine antica (Giarxino della villa di Adriano a Tivoli). Il museo
giardino novecentesco si rifà ai giardini rinascimentali.

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Firenze: Giardino di Palazzo Medici-Riccardi e giardino di S. Marco: venivano esposte opere
antiche con vocazione didattica.
Giardino di casa Galli a Roma: molte sculture: Bacco di Michelangelo
Cortile del cardinale Della Valle, Roma: nasce con scopo espositivo. Le statue hanno un ordine
preciso e vengono restaurate dai Lorenzetti.
Ville Medicee, Pratolino. Boboli, Pitti: percorsi molto complessi con esposte sculture. Es.
Appennino del Giambologna.
Bomarzio, Giardino Orsini.

Giardini - Museo Contemporanei, 900, detti anche “parchi museo di scultura”.


Tipologie: Giardino d’artista: realizzato da artisti con le proprie opere
Giardino a tema
Giardini contenenti collezioni di un artista
Giardini d’artista con collezioni di altri amici artisti

A. Massa, I Parchi Museo di scultura contemporanea:

Definizione critica del fenomeno dei parchi museo di scultura in Italia:


Questi devono avere come presupposto: una precisa intenzionalità di integrazione permanente
dell’arte contemporanea nel contesto storico - naturale, considerato come valore diffuso.
Rapporto tra il concetto di museo , e quindi della produzione artistica e quello della salvaguardia
ambientale.
Componente site-specific delle opere.
Uno dei capostipiti: Parco Scultura di Tirgu-jiu, Romania, 1938. E’ uno dei primi parchi musei di
scultura contemporanei, istituito in memoria dei caduti romeni della grande guerra. Contiene opere
che connotano il paesaggio e se ne differenziano: opere “site-specific”, si fondono con la natura.
“La colonna dell’Infinito” e “La tavola del silenzio”, Costantine Brancusi
Toscana, Fattoria di Celle, Pistoia, 1982: “spazi d’arte”. Opere di vari artisti.
“Tema II e Variazioni”, Fausto Melotti
Opere “Site-Specific”.
E. Crispolti, Un incipit toscano per l‟arte ambientale in Italia, 2004.
“Sia chiaro non si ha arte ambientale, ma soltanto spostamento e collocazione di ingombri, quando
manchi una progettazione specifica. La quale si alimenta da un’esperienza di analisi ambientale e
certamente da una disposizione immaginativa al rapporto ambientale; che non si fonda su principi di
dilatazione dimensionale ma di intelligenza di rapporti spaziali, altrettanto che non d’intenzione
puramente di diversa collocazione ma di intrusione dialetticamente attiva entro un contesto
ambientale dato”.
Giardino dei Tarocchi, di Niki De Saint Phalle: iniziato nel 1979, lo spazio, a Capalbio, venne
donato dagli Agnelli all’artista. Niki con delle installazioni ha rappresentato gli arcani delle carte
dei Tarocchi molto colorate e vivaci, dall’impatto forte, ma dialogano con la natura. Utilizzò
materiali e maestranze locali. Mario Botta creerà un muro che chiude il giardino e un ingresso con
la biglietteria.
Giardino di Pinocchio, Collodi, 1956: vi lavorano diversi artisti. Giardino a tema.
Movimento internazionale Art in Nature : relazione tra arte e natura dove il fatto artistico
costituisce un momento di riflessione per la società. Rappresentativo, in Italia di questo movimento
è la manifestazione “Arte Sella a Borgo Valsugana”, nata nel 1986 per iniziativa di Carlotta
Strobele, Emanuele Montibeller, ed Enrico Ferrari. Si trattava di un percorso all’interno di una valle
dove gli artisti sono invitati a creare opere con materiali trovati in loco, che dovranno ovviamente
fondersi con l’ambiente. Un opera fondamentale fu “Cattedrale Vegetale”, di Giuliano Mauri. “Il
progetto è servito per portare a conoscenza il concetto della natura nell’arte contemporanea, dal
punto di vista analitico, critico, scientifico, ecologico estetico, dionisiaco e mistico”(C. Strobele,
Arte Sella... 1986)

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Finlay’s Garden Gallery, Ian Hamilton: si trova in scozia e il giardino è stato concepito come
opera totale sulla quale operare continuamente. Giardino come poetica dell’artista

Museo della città


Il museo della città è una creazione recente. Nel 2005 all’interno dell’ICOM, nasce il comitato
internazionale CAMOC, dedicato a questa tipologia museale.
Da museo d’arte diventa un centro di documentazione.
Istituzione dinamica: dato che le città cambiano il museo deve registrare i cambiamenti.
E’ un’istituzione pluridisciplinare. Si tratta di un museo diffuso, formato da beni, luoghi, edifici,
spazi. Può coincidere con la forma di ecomuseo.

Daniele Jalla: museologo torinese. Museo di Torino, 2012: non è un luogo fisico, ha una sua sede
con esposizioni permanenti, ma è un museo diffuso: comprende i luoghi significati di Torino.
Questi musei devono continuamente aggiornarsi, raccogliere la documentazione riguardante la città
e società per conservarla e tutelarla. Spesso venivano istituiti quando vi era un cambiamento in atto.
Vienna, Museo della città, 1888: il più antico, raccoglie oggetti e testimonianze, foto di persone
illustri.
Museo di Londra, ottocentesco: Period Rooms, ricostruzione di interi contesti (passeggiata
vittoriana); moltissimi oggetti: costumi, carrozze, quadri.
Museo Carnevalet, Parigi: storia della città, Modellini e dipinti con scorci perduti della città.
Firenze, Museo Topografico di Firenze, 1909, Cortile delle Oblate: oggetti, modellini, opere,
modellini delle ville medicee. Sala dedicata alla Firenze romana (scoperta dopo i bombardamenti).
Oggi il museo non esiste più.

1º Museo della città contemporaneo: Museo di S. Giulia, Brescia: luogo dove vedere tutte le fasi
di sviluppo della città.
“Brescia romana. Materiali per un museo”, 1979/80, Andrea Emiliani: mostra sull’epoca romana di
Brescia. Da qui venne l’idea di dar vita a un museo. Vennero esposti anche reperti celti, mosaici
romani..
Venezia, Museo Archeologico Nazionale della città e della Laguna: ha varie sedi. Una è nel
Lazzaretto Vecchio.
Roma, Museo Nazionale romani, Crypta Balbi: riguarda solo una parte della città. Modellini,
resti rinvenuti con gli scavi.
Bologna, Museo della città, Palazzo Pepoli: molti percorsi mostrano i luoghi della città. Ricerca
di spettacolarizzazione. Molto cinematografico. Effetto Disneyland: molte critiche. Sezioni e
percorsi in base al tema e ai periodi storici. Il progetto fu chiamato “ Genus Boloniae”.
L’allestimento di Mario Bellini, 2012. Il racconto era strutturato in diverse sezioni, distribuite in
successione cronologica e per grandi temi e vi è anche un teatro virtuale con la ricostruzione di
bologna nel Medioevo e la ricostruzione della battaglia di fossalta.

Ordinamento e allestimento

Il primo linguaggio attraverso il quale il museo parla al pubblico è quello dell’ordinamento e


dell’allestimento; la riflessione su queste fasi nasce con lo sviluppo della museologia. Si riflette su
come il museo espone i suoi oggetti. E’ il problema più affrontato e studiato dalla disciplina:
ordinamento e allestimento ci fanno capire la natura e la storia di un’opera e di una collezione.
Esporre è uno dei compiti primari del museo: ogni esposizione comporta un progetto di
ordinamento. Non esiste esposizione senza interpretazione.
Sono tre gli elementi coinvolti nell’operazione di “esporre”:
1) La cultura da cui provengono gli oggetti da esporre (con i suoi valori, idee, obiettivi)
2) La cultura dei curatori dell’esposizione
3) Gli osservatori (il pubblico) dell’esposizione

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Principali criteri di ordinamento:
• Tematico (si collega ad antiche tipologie di ordinamento es. nel trattato di Giulio Mancini, 1620
ca. Le considerazioni della pittura, si dedica un capitolo ai modi di esporre i dipinti all’interno di
una collezione, legati soprattutto ai temi). Nelle galleria seicentesca prevaleva un ordinamento di
gusto estetico.
• Cronologico, comincia ad essere adottato a partire dal 700, con l’illuminismo, quando si comincia
a prediligere un ordinamento razionale a scopo didattico. Acquista sempre maggior forza e si
troverà applicato nelle grandi quadrerie settecentesche a fianco della suddivisione per scuole. Musei
di tipo scientifico: adottano ordinamenti razionali in cui si presentano tipologia al fine di operare
maggiori confronti.
• Iconografico
• Tassonomico
• Per materiali e tecniche di esecuzione, perlopiù legato agli oggetti di arte minore es. Studiolo di
Francesco I in Palazzo Vecchio.
Tipologie di base dell’allestimento:
• Isolamento
• Relazione articolata e precisa tra gli oggetti esposti
• Accumulo, raggruppamento non articolato tra gli oggetti

Stephen Greenblatt: storico della letteratura. Ha proposto due categorie all’interno delle quali
inserire gli ordinamenti e gli allestimenti museali: la risonanza e la meraviglia. Queste categorie ci
stimolano ad interrogarci sulle categorie alle quali appartengono i musei.
Le categorie fanno leva sull’aspetto emotivo da una parte e sul senso estetico dall’altra.
1)Museo della risonanza: evoca il ricordo di epoche lontane grazie agli oggetti esposti o al luogo in
cui si trova. es. Museo ebraico di Praga, Musée d’Orsay (l’ambiente della stazione evoca il passato
ottocentesco).
2)Museo della meraviglia: potere dell’oggetto di stupire, meravigliare lo spettatore, suscitare
qualcosa.
può essere di due tipi:
-Antico: es. Wunderkammern; lo spettatore è spinto a provare stupore dalla varietà di oggetti
proposti.
-Le quadrerie barocche di formazione settecentesca, con ambienti fastosi e pareti con quadri ad
incrostazione, come l’Ermitage di S. Pietroburgo, la Galleria Palatina. Anche l’isolamento delle
opere d’arte, con l’esaltazione delle qualità formali degli oggetti, può suscitare meraviglia, grazie
all’esaltazione delle qualità formali.

Giovanni Pinna: museologo, paleontologo di formazione, prende le tipologie di Greenblatt


aggiungendo una terza categoria, quella della museologia razionale: museo in cui gli oggetti sono
ordinati per serie e per categorie (soprattutto musei scientifici).

Caso di studio interessante: Musée d’Orsay


Le polemiche verso il museo erano legate al fatto che si dava troppa importanza all’arte accademica
dell‘800, mentre gli impressionisti erano relegati nelle soffitte. Si diede più importanza ad un’arte
superata piuttosto che alla portata rivoluzionaria degli impressionisti. Inoltre venne criticato
l’allestimento in se: troppo caotico, basato sulla spettacolarità, sul dinamismo, sulla molteplicità dei
punti di vista e sul mescolamento di varie arti.
Stephen Greenblatt, Risonanza e meraviglia, 1991
“Ma ciò che è stato sacrificato sull’altare della risonanza culturale è la meraviglia visiva che ruota
attorno a capolavori che sono tali dal punto di vista estetico. L’attenzione si disperde lungo una
vasta gamma di oggetti minori che nel loro insieme restituiscono l’impressione dello straordinario
esito creativo della cultura francese del tardo ottocento, ma l’esperienza del vecchio Jeu de Paume –
dove si potevano guardare attentamente i Manet, i Monet, i Cézanne – è stata fortemente

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penalizzata”.
Il dibattito intorno all’atteggiamento revisionista del Musée d’Orsay ha fatto sì che nel 2010 si
decidesse un nuovo allestimento degli Impressionisti, per dare loro maggiore importanza (le opere
furono poste in fila su pareti dai colori tenui, suddivise per artisti e in ordine cronologico).
Anni ’80: l’atteggiamento di revisione per quanto riguarda periodi storico-artistici superati dalle
avanguardie si verifica anche in altri musei europei ed americani con il recupero dai depositi di arte
ritenuta superata.
André Meyer Gallery (met): vengono riportati fuori dai depositi opere d’arte accademiche.
Dagli anni ’80 all’interno dei musei si iniziano nuovamente a mettere in discussione le tradizionali
tipologie di ordinamento (ciclicamente si presentano nuovi metodi di ordinamento).
Dagli anni ’80 nascono gli ordinamenti astorici, nei quali si rinuncia ad ogni tipo di cronologia.
Museum Boiymans, mostra “Suoni astorici", Rotterdam: 1988, allestimento di Harald
Szeemann. Vengono mescolate opere appartenenti ad epoche diverse (opere contemporanee
associate ad opere di altre epoche). Apre la strada ad una serie di mostre ed allestimenti che mettono
da parte la cronologia; anche alla Tate Modern si opta per questo tipo di ordinamento.
“La Tate fin dall’inizio (2000) non poté aspirare ad offrire una visione esaustiva dell’arte moderna
cronologicamente disposta. In un certo senso fu dunque costretta a prescindere dallo stabilire una
narrazione canonica ... I curatori dovettero ricorrere ad altri criteri , affidandosi a stanze tematiche
che avrebbero esplicato differenti contesti e aspetti dell’arte moderna e contemporanea”.
L’affermazione degli allestimenti astorici si propone con forza al MoMA, con la mostra Modern
Starts (1880-1920), divisa in tre sezioni: People, Places, Things: le opere venivano ordinate
mostrando opere incentrate sulle cose, sulla figura umana e sulle rappresentazioni di luoghi. Altre
mostre al MoMA: Making Choices (1920-1960); Open Ends (1960-2000).

Comunicazione museale
La storia del museo moderno è una continua e sempre maggiore apertura nei confronti del pubblico.
Le radici della comunicazione museale risiedono nel museo settecentesco con un apporto
importante della pedagogia americana di fine ‘800. A partire dal 900 uno degli scopi primari del
museo è la comunicazione con il pubblico.
La comunicazione museale è composta tradizionalmente (a partire dal Louvre) dalla comunicazione
scritta, che può essere paratestauale o peritestuale (didascalie, pannelli esplicativi).
Le didascalie cominciano ad essere applicate solo con il Louvre settecentesco.
Altro mezzo di comunicazione scritta: il catalogo, che approfondisce e riporta sinteticamente le
notizie principali dell’opera.
La scheda di catalogo deve riportare:
-Paternità dell’opera (ricavata dallo studio della bibliografia dell’opera o dallo studio dell’opera
stessa) o ambito di riferimento (scuola, contesto).
-Aspetti fisici (misure, materia, tecnica, stato di conservazione).
-Provenienza (eventuali passaggi dell’opera). Si devono studiare i vari documenti riguardanti
l’opera, in ordine cronologico, e si può applicare un proprio contributo.
-Indicazione di inedito o tutta la bibliografia riguardante l’opera (strumento principale dello
storici dell’arte).
Inventario: strumento conoscitivo (non comunicativo); indica non solo cosa c’è e cosa c’era nel
museo ma anche gli spostamenti delle opere. Il luogo in cui è esposta un'opera può svelare anche
cambiamenti di gusto.
Comunicazione verbale: l’esistenza delle guide è antica ma conosce grande sviluppo nel ‘700 con il
Grand Tour; si afferma la figura del Cicerone che spiega i vari aspetti della città/del museo. La
comunicazione verbale resta una delle più apprezzate dal pubblico. Strumenti elettronici: audio-
guide.
In Italia ci si comincia a porre la questione della comunicazione negli anni ’50 e quindi quella della
didattica.
Andrea Emiliani, Dal museo al territorio 1967-1974, Bologna 1974, pp. 55-56.

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“Il museo abbisogna di strumenti di corredo, di interpretazione e di lettura: Fino ad oggi si è pensato
quasi sempre che ripulire una sala, darvi di bianco, appendervi a distanze regolari i dipinti fosse il
massimo che il conservatore poteva fare in soccorso del pubblico ma non ha risolto il vero
problema, che è quello di “far parlare il museo”, che per sua condizione, è un’opera muta. Eccoci al
punto: tutte le indagini informative, tutti i saggi di opinione accennano chiaramente alla volontà che
il pubblico esprime di ottenere per la visita al museo un’assistenza costante, ma anche discreta.”
Greenhill: museologa che ha elaborato la nuova espressione di museo relazionale, che si apre anche
ad altre istituzioni e strutture presenti sul territorio. Il primo scopo è quello della comunicazione. Ci
sarebbe la necessità di figure che si occupano esclusivamente della comunicazione e della didattica.
Modello semplice di comunicazione:
• Curatore:decide il tema, sceglie e studia gli oggetti, scrive i testi illustrativi e scientifici.
• Museografo: sviluppa un allestimento visivamente attraente e riduce i testi ove possibile.
• Educatore: sviluppa i programmi didattici in modo da aiutare i visitatori a comprendere la mostra
in base al loro livello di conoscenza.
La comunicazione ha avuto uno sviluppo tale che dagli anni ’60 si è assistito alla messa in
discussione di una comunicazione di tipo tradizionale (persona che spiega al pubblico che ascolta
passivamente) .
Si è sviluppata l’idea che quando si pensa una strategia comunicativa si deve tener conto di tre
aspetti (sviluppati dal filosofo ermeneutico Gadamer):
-Conoscenze pregresse dello spettatore.
-Oggetto (frutto di un processo stratificato).
-Conservatore/museologo/museografo: colui che deve interpretare l’oggetto con/per il pubblico.
Il circolo ermeneutico di Georg Gadamer: “la comprensione di un testo storico [quindi anche di
un oggetto musealizzato] è condizionata da una pre-comprensione (una serie di conoscenze
stratificate che caratterizzano la comprensione di uno stato presente), le quali sono determinate
dall'insieme dei rapporti di comprensione e pre-comprensione provenienti dal passato. La
comprensione di un momento storico, quindi, è il frutto di questa incessante stratificazione circolare
di nozioni, le quali si formano costantemente su se stesse, partendo dalle nozioni precedenti. La
comprensione del passato (e quindi del pensiero e dei testi filosofici) è dunque un fatto storico
determinato dalla pre- comprensione del presente, la quale è il frutto a sua volta di un processo che
la determina storicamente.”

Nel 1998 nasce il Centro servizi educativi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

George Brown Goode, naturalista e storico delle scienze e responsabile del National Museum dello
Smithsonian Institution di Washington, teorizza, nel suo libro The Museum of the Future del 1899,
la nascita dell’ educational museum: “Il museo del futuro si troverà con le biblioteche e i
laboratori ad essere parte della struttura d’insegnamento della scuola e dell’università, e nelle grandi
città, cooperando con le biblioteche pubbliche, contribuì all’ampliamento della cultura popolare”.

John Cotton Dana, direttore del Newark Museum, presidente dell’American Library Association,
pubblica nel 1917 The new Museum, che si inserisce nel Modern Museum Movement. Promuove
un’idea di museo come servizio alla comunità, scopo dell’istituzione è anche l’entertainment,
sollecitare la curiosità dei visitatori per incrementarne la cultura. Il museo deve organizzare
esposizioni temporanee su argomenti di interesse comune utili a comprendere i cambiamenti della
società contemporanea. Le collezioni non sono più composte da opere d’arte o rarità ma da oggetti
di uso comune facenti parte della realtà produttiva o sociale della comunità.

-New York, Brooklyn Children’s Museum


-Filadelfia, Please Touch Museum
-Itinerari per famiglie al Wadsworth Atheneum, Hartford (Connecticut)
Programmi per bambini del Wadsworth Atheneum di Hartford (Connecticut)

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Sette idee gioco:
• Il colore del giorno
• Gioco dell’osservazione
• Tempo di storie
• Detectives d’arte
• Posa congelata

Assemblea generale Icom, Parigi, 1951: “l’apprezzamento delle collezioni dovrà essere reso
comprensibile a tutti con una presentazione chiara, con l’apposizione sistematica di cartellini o
etichette dalle notizie brevi, con l’edizione di guide e di depliants che diano ai visitatori le
spiegazioni necessarie e con l’organizzazione regolare di visite guidate e commentate, adattate alle
differenti categorie di visitatori e affidate a personale qualificato”

1954 – Nascita della: International Society for education through art (INSEA), sotto il
patrocinio dell’UNESCO.

Nel 1951 l’ICOM precisava che l’esposizione ha come scopo l’educazione e il diletto, mentre in
una successiva definizione (1974) si ha un’ulteriore apertura verso la società: il museo “comunica e
presenta, con il fine di accrescere la conoscenza, la salvaguardia e lo sviluppo del patrimonio,
dell’educazione e della cultura, le testimonianza della natura e dell’uomo”. Una delle funzioni
basilari del museo è quindi comunicare.
In Italia la funzione didattica del museo fu riconosciuta solo negli anni ’50

Tra gli anni Cinquanta e Settanta alcuni musei italiani si dotano di sezioni didattiche: a Milano i
Musei di Brera e Poldi Pezzoli; a Roma la Galleria Nazionale di Arte Moderna e la Galleria
Borghese; a Firenze gli Uffizi.

-L’attività didattica della GNAM iniziò nel 1945 nella prospettiva di rendere il museo un centro
produttore di cultura in funzione soprattutto educativa, come “parte costitutiva ed integrante del
sistema dell’informazione e della cultura di massa”, una specie di università popolare secondo le
parole di Palma Buccarelli. Innovatrici le metodologie adottate per aprire il museo a tutti i cittadini
con un programma dedicato a tutti i tipi possibili di mostre didattiche, formate in gran parte da
materiale documentario, didascalico.

Pinacoteca di Brera: la prima sezione didattica fu istituita da Fernanda Wittgens, che nel 1955
diede avvio ad una serie di nuove attività rivolte alle scuole, agli insegnanti, ai circoli ricreativi.
Brera veniva aperta anche la sera e le visite del museo erano guidate da assistenti universitari o
dalla stessa direttrice
Tra le numerose iniziative della Wittgens, che non si limitò a restare “dentro al museo”, si
annoverano:
-Indagini per verificare le modalità di apprendimento dei bambini davanti alle opere d’arte.
-Visite guidate gratuite la domenica mattina destinate a tutti
-Corsi di educazione artistica presso centri culturali, circoli di lavoratori e biblioteche rionali

Mentre le scolaresche e i turisti sono una presenza fissa nel museo, è più difficile fidelizzare il
pubblico locale. La strategia messa in atto da molti musei è quella di organizzare mostre che
presentano nuove acquisizioni, opere conservati nei depositi, importanti restauri.

La Sezione Didattica degli Uffizi nacque nel 1970 e venne voluta e diretta dalla storica dell’arte
Maria Fossi Todorow. All’inizio si elaborò una metodologia estetica e graduale per gli alunni delle
scuole elementari e medie.
-Organizzazione di visite guidate per tutte le scuole statali dell’obbligo
-Venne elaborato un modello di metodologia per le scuole fornito alle guide didattiche che si basava

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su: conoscenze storico-artistiche essenziali su ogni argomento, principi e tecniche di natura
pedagogico - didattica per sostenere un dialogo con le scolaresche, dialogo basato sul principio
della “libertà guidata”.
-Si cercava però di evitare ogni appesantimento nozionistico per poter soddisfare le curiosità dei
ragazzi, stimolate dalla visita.

Galleria Borghese, Roma: negli anni Sessanta la direttrice della Galleria Paola della Pergola
costituisce un gruppo di ricerca interdisciplinare per studiare i modi più opportuni per avvicinare il
grande pubblico all’arte (da questa indagine nacque l’importante convegno “Il museo come
esperienza sociale”). Furono quindi promosse visite guidate e corsi di alfabetizzazione per adulti.
Gli operatori museali si recavano nelle scuole e nelle borgate romane per conoscere direttamente gli
interessi e i bisogni di cultura. Venne elaborata una metodologia di visita alla Galleria basata su:
conoscenza dell’esistenza del museo,
libertà assoluta nell’accostamento all’opera d’arte (interesse spontaneo),
osservazioni in gruppo,
inquadramento dell’opera nel suo contesto storico - culturale originario,
rapporti dell’opera con l’ambiente attuale, la vita quotidiana.

Museo Poldi-Pezzoli: La Sezione Didattica fu istituita nel 1973 dalla direttrice Anna Mottola
Molfino. Scopo della Sezione era quello di studiare i problemi dell’approccio al museo da parte
degli alunni delle scuole dell’obbligo di Milano e provincia (dalla quarta elementare alla terza
media). Gli itinerari di visita proposti per “temi”, sulla base delle raccolte contenute nel museo
erano i seguenti: il ritratto, il paesaggio, le immagini sacre, le armi, le oreficerie, l’arredamento, gli
orologi, le tecniche artistiche. Dopo la proiezione di diapositive i ragazzi percorrevano gli itinerari
scelti, accompagnati dalle guide che li sollecitavano al dialogo e alla riflessione sulle opere esposte,
sulle tecniche di realizzazione ecc.

Franco Russoli nel 1974 chiuse la Pinacoteca di Brera per denunciare le gravi carenze che ne
impedivano il corretto funzionamento, proponendo di utilizzare il museo come luogo di formazione
degli addetti. Nello stesso anno Russoli realizza una mostra intitolata Processo per il museo in cui
le diverse sezioni intendevano mostrare come un'opera potesse essere letta in modo diverso a
seconda delle condizioni culturali e sociali dei committenti, volendo dimostrare attraverso
l'osservazione delle schede esposte come alla base dell'opera sita nel museo vi sia il suo contesto
ambientale; i musei sono in questo modo legati al territorio e vivificati dal territorio stesso. La
considerazione del contesto geografico e storico è indispensabile per la comprensione.

Pinacoteca di Brera, Laboratorio “del Loggiato”, istituito da Bruno Munari nel 1977: il principio
del Laboratorio del Loggiato consiste nel far ruotare esercizi pratici e teorici intorno ad un solo
tema: la luce nei quadri, la tecnica dell’affresco ecc.. per non disperdere l’attenzione.

Faenza, Museo Internazionale della ceramica, laboratorio “giocare con l‟arte”, secondo il metodo
Bruno Munari

Museo dei ragazzi, Palazzo Vecchio: offre una comunicazione basata sulla messa in scena della
storia, sulla teatralizzazione (personaggi in costume che spiegano e raccontano). Pericolo di questo
tipo di operazioni: banalizzazione e semplificazione eccessiva dei contenuti (effetto Disneyland).

Ancona, museo tattile statale “omero”: primo importante museo dedicato al tatto (creato per i non
vedenti), nato nel 1993: nella missione del museo si rivolge a tutti coloro che vogliono fare
un’esperienza museale diversa, legata alla sensorialità tattile.

Nascono musei che fanno dell'approccio sensoriale una delle loro principali caratteristiche es.
Museo delle arti monastiche: fatto degli oggetti di un convento femminile (destinato alla chiusura

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per l’assenza di monache). Si propone al pubblico l’esperienza della vita che si svolgeva in questo
luogo con strategie tese a stimolare i sensi: ascoltare registrazioni delle monache, sentire i profumi
dei cibi confezionati dalle monache...

La tutela in Italia: lineamenti di legislazione

Il concetto di bene pubblico (inalienabile e fruibile a tutti) viene enunciato da Plinio, ed è


confermato dall’istituzione, presso i romani, del Comes nitentium rerum (“custode delle cose che
splendono”), responsabile della salvaguardia delle opere d’arte pubbliche.
Il Medioevo avversa le testimonianze classiche in quanto portatrici dell’ideologia pagana ed utilizza
i monumenti antichi come cava di materiale, tuttavia una nuova coscienza dell’importanza del
passato si manifesta nel corso del Trecento e si rafforza con l’umanesimo.
La necessità di un controllo per rendere efficace l’azione di tutela fu avvertita da Sisto IV, che
reintrodusse i magistri viarum (già istituiti da Martino V) ed estese la vigilanza alle opere d’arte
nelle chiese, vietandone la vendita.
Leone X affidò a Raffaello il ruolo di prefetto della fabbrica di San Pietro, poi ampliato in quello di
ispettore generale delle Belle Arti, nella consapevolezza che fossero necessarie precise competenze
tecniche per svolgere quel compito.
Paolo III creò il Commissariato alle antichità, figura responsabile della salvaguardia dei monumenti
della città.
Gregorio XIII con la bolla Quae publice utilia (1574) ribadisce il principio del vincolo sui beni
privati di interesse storico-artistico e la necessità della loro manutenzione in quanto parte del
patrimonio collettivo.
È soprattutto nel Settecento, sotto la spinta del Grand Tour, che si intensificano gli interventi per la
tutela del patrimonio archeologico es. Editti del cardinale Annibale Albani: 1726: contro gli scavi
clandestini, 1733: si afferma il principio del pubblico decoro della città e dell’interesse collettivo
alla conservazione del pubblico e privato bene.
7 aprile 1820, Editto del cardinal Pacca: interviene con disposizioni in materia di scavi,
inventariazione (come strumento di conoscenza del patrimonio), esportazione, inoltre crea rigorosi
strumenti applicativi e una struttura di controllo (la Commissione permanente di vigilanza)
articolata in diverse competenze tecniche (archeologi, esperti di pittura e di scultura) e ramificata
negli Stati Pontifici. L’Editto Pacca sarà il modello per la normativa dell’Italia postunitaria.
Le prime disposizioni che l’Italia unita dovette formulare riguardarono il patrimonio ecclesiastico,
di cui, con la soppressione di molte congregazioni religiose, si era avviato l’esproprio con una legge
del 1865.
1866, “leggi eversive”: viene affidata ai comuni la gestione dei beni espropriati, tuttavia molti
comuni approfittarono della disponibilità di tale ingente patrimonio e misero sul mercato i beni
confiscati.
L’Italia unita confermò inizialmente il corpus legislativo degli Stati preunitari, mantenendo
commissioni decentrate (civiche e regionali), fino all'istituzione all’interno del Ministero della
Pubblica Istruzione di una Giunta di Belle Arti. I musei erano gestiti dalle Accademie.
1875: fondazione da parte del ministro Ruggero Bonghi della Direzione generale degli scavi e del
musei, struttura centrale dipendente dal Ministero. Viene inoltre introdotta la “tassa
d’ingresso” (sostituita dal “biglietto” d’ingresso solo nel ’97) ai musei con l’intento di svincolarli
dalla gestione delle accademie.
1902, legge n.185: segna l’avvio di un’articolata azione legislativa in materia di tutela (seppur poco
convincente a tratti, specie per quanto riguarda il controllo sulle esportazioni di opere d’arte, vietate
solo in casi particolari).
1909, legge Rosadi: stabilisce l’inalienabilità dei beni pubblici ma anche di quelli privati di alto
valore storico e culturale, che non possono essere manomessi o alterati; vengono soggetti a notifica
quindi spetta allo Stato la tutela e ogni intervento a loro relativo (la notifica sussiste ancora nella
formula “divieto di libera circolazione”). Viene creata inoltre una struttura organizzativa centrale

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con una rete di organismi periferici distribuiti sul territorio e divisi a seconda delle competenze (le
soprintendenze).
1939: vengono promulgate due leggi che per sessant’anni sono state la base della legislazione
italiana in materia di tutela, per iniziativa del ministro Giuseppe Bottai con il contributo di Roberto
Loghi e Giulio Carlo Argan. Ampliano la legislazione fino ad allora vigente rendendola più
organica. Lo spirito delle leggi è improntato ad una visione protezionistica, dove l’idea
dell’interesse collettivo giustifica l’azione di tutela da parte dello Stato anche su beni di proprietà
privata. L’oggetto della tutela è esteso a ciò che presenta interesse etnografico, alle diverse
testimonianze di civiltà (monete, libri, stampe), a ville e giardini storicamente rilevanti. Viene
inoltre stabilita la proprietà statale di tutti i ritrovamenti archeologici.
L’attenzione al patrimonio culturale si fece più intensa negli anni sessanta, con una maggiore
consapevolezza dello stato di abbandono in cui versava.
Relazione Franceschini: elaborata dalla Commissione parlamentare per la tutela e la valorizzazione
del patrimonio, istituita nel 1963 e presieduta da Francesco Franceschini con lo scopo di verificare
lo stato dei beni culturali italiani (viene denunciato il degrado e dichiarata la necessità di interventi
urgenti). Tale commissione produsse quattro volumi, dedicati a tutto il patrimonio, ma con una
sezione dedicata al museo.
1968, Commissione Papaldo: istituita con il compito di predisporre un progetto di legge per la
riforma delle strutture amministrative; viene inserito il concetto di promozione (e non solo
conservazione) dei beni culturali.
1975: istituzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (nel 1998 trasformato in Ministero
per i Beni e le Attività Culturali).
Negli anni ottanta il ministro Gianni de Michelis conia la definizione di “giacimenti culturali”,
manifestando il proposito di catalogare il patrimonio con l’impiego nell’impresa di giovani laureati,
con ricaduta sugli aspetti occupazionali. Al concetto di giacimento non è estranea l’idea di
sfruttamento (con mostre, eventi...).
1985, legge Galasso: primo quadro normativo dettagliato nei confronti dei beni paesaggistici ed
ambientali. Classifica le bellezze naturali per classi morfologiche, disciplinando l’attività edilizia ed
imponendo alle Regioni la stesura di un Piano Paesistico di tutela.
1993, legge Ronchey: dimostra la volontà di rinnovare la gestione dei musei italiani allineandola a
quella dei musei stranieri, sancendo la possibilità di affidare a privati i servizi aggiuntivi (visite
guidate, gestione di librerie e ristoranti interni) che il personale interno non era in grado di fornire.
1995, legge Paolucci: estende la possibilità di “esternalizzare” anche servizi quali la coproduzione
di mostre, cataloghi ed attività analoghe.
1998, riforma del Titolo V della Costituzione: viene delegato agli enti locali il compito della
valorizzazione e gestione dei beni culturali, mentre la loro tutela viene riservata allo Stato; in realtà
però questi aspetti sono inscindibili es. un restauro è un azione di tutela (quindi spetta allo Stato) ma
al contempo valorizza un’opera (quindi spetta alla Regione).
1998, decreto legislativo 112: prevede la definizione da parte del Ministero dei criteri tecnico-
scientifici e degli standard minimi che un museo deve osservare per essere riconosciuto come tale e
garantire un adeguato livello di fruizione dei beni.
1999, Testo unico per i beni culturali: raccoglie ed attualizza tutta la precedente legislazione in
materia di tutela. Gli fa seguito, nel 2004, il Codice dei beni culturali (Codice Urbani), che
moltiplica il numero delle direzioni generali, appesantendo l’apparato burocratico statale. Al Codice
Urbani sono state contestate diverse norme, in particolare quella relativa alla “cartolarizzazione” del
patrimonio pubblico (possibilità di vendere ai privati immobili di proprietà pubblica) secondo la
formula del silenzio-assenso (se entro 120 giorni la soprintendenza competente non esprime parere
negativo si realizza la cessione); nel 2006 la legge viene corretta eliminando il silenzio-assenso.

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Funzioni del museo

1951: nella proposizione dell’ICOM le finalità del museo sono individuate in: acquisizione,
conservazione, ricerca, comunicazione ed esposizione.
Il primo compito della tutela è la conoscenza del patrimonio su cui si esercita: ogni museo ha
l’obbligo di censire gli oggetti che possiede tramite la compilazione di elenchi dei beni (pratica
secolare del collezionismo es. conosciamo l’inventario delle collezioni medicee compilato nel 1492
e molti altri, spesso allegati ai testamenti). Fu a
Venezia che il problema del censimento venne affrontato per la prima volta in maniera sistematica,
quando il Consiglio dei Dieci affidò al pittore Antonio Maria Zanetti la stesura di un elenco dei
dipinti custoditi nelle chiese di Venezia e delle isole (1773).
La necessità di censire i beni è costantemente avvertita nella legislazione postunitaria.
La schedatura di un’opera avviene su due livelli:
-Inventariale: dati essenziali per il riconoscimento. Voci essenziali: numero d’inventario, autore o
ambito stilistico e cronologico, eventuali firme o iscrizioni, soggetto, supporto e tecnica (se si tratta
di un dipinto) o materiale (se si tratta di una scultura/oggetto), misure, collocazione, provenienza,
bibliografia essenziale, numero del negativo fotografico e fotografia dell’opera. Vengono escluse le
informazioni su stato di conservazione, dibattito critico, risultati di restauri (approfondimenti che
pertengono all’ambito catalografico).
-Catalografico: approfondimento; ripercorre nel dettagli gli aspetti critici, conservatici, bibliografici.
L’Italia dimostrò attenzione al problema della catalogazione del patrimonio ancor prima che la
dimostrasse l’UNESCO (1964: sollecita i singoli stati a dotarsi di un catalogo nazionale). In Italia,
fin dal 1902 si era provveduto alla compilazione di un Elenco degli edifici Monumentali e negli anni
trenta si era avviata la pubblicazione di guide e cataloghi di musei e gallerie d'Italia.
1969: viene creato l’Ufficio Centrale del Catalogo (nel ’75 diventa ICCD: Istituto Centrale per il
Catalogo e la Documentazione), in stretto rapporto con le soprintendenze. La catalogazione avviene
sulla base di una scheda-tipo, diversa a seconda della tipologia di beni da schedare. La schedatura
non riguarda i musei, che hanno propri inventari e cataloghi, bensì riguarda i beni che non sono
tutelati direttamente, come le opere nelle chiese o sparse sul territorio.
La scheda catalografica necessita costanti aggiornamenti ed un’attività di ricerca scientifica.
La conservazione riguarda tutte le operazioni volte a preservare il patrimonio in particolare attorno
al controllo climatico (i dipinti sono estremamente sensibili agli sbalzi climatici) ed al controllo
della luce. La conservazione preventiva consente di rimandare il più a lungo possibile il restauro,
che anche quando è “solo” una pulitura è estremamente delicato e può causare danni irreversibili.
Mentre un tempo il restauro era svolto da pittori che spesso intervenivano con integrazioni e
rifacimenti oggi è visto come un’operazione critica, affidata a professionisti con preparazione
scientifica.
Si deve a Cesare Brandi la svolta in senso moderno del restauro, grazie alla sua Teoria del restauro
(1963), nella quale viene sintetizzata l’esperienza di attività presso l’ICR (Istituto Centrale del
Restauro, oggi ISCR, Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro), cui Brandi diede vita
assieme ad Argan. L’aspetto più nuovo nella concezione del restauro era il ruolo della scienza
(chimica, fisica, ricognizioni radiografiche), che allora suscitò l’avversione di molto storici dell’arte.
Principi ai quali un corretto restauro si deve attenere (secondo le teorie di Brandi): obbligo di non
cancellare le traccie del passaggio dell’opera nel tempo (rispetto della “patina”), le lacune (cadute di
colore, mutilazioni di una scultura) non vanno cancellate ma solo trattate in modo da non
compromettere la lettura complessiva del testo, il restauro dev’essere riconoscibile (distinguibile
dalle parti autentiche) e reversibile., inoltre ogni operazione effettuata dev'essere documentata. Oltre
all’ISCR ci sono due centri italiani dedicati al restauro e alla formazione di restauratori: l’Opificio
delle Pietre Dure di Firenze, fondato nel 1588 da Ferdinando I come manifattura di opere in pietre
dure, e il Centro del Restauro di Venaria Reale, istituito nel 2005.
I restauri delle opere pubbliche e di quelle private sottoposte a vincolo vanno autorizzati e
controllati dalle soprintendenze, solitamente però vengono effettuati da restauratori privati in quanto

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le soprintendenze spesso non dispongono di attrezzati laboratori di restauro.
Mentre nei musei ottocenteschi il criterio era quello di mostrare tutto, già negli anni ’30 si diffonde
l’idea di una selezione delle opere, con un duplice percorso per pubblico generico e studiosi.
Le antiche collezioni di dipinti erano esposte ad incrostazione (tappezzando l’intera parete senza
spazi tra un'opera e l’altra, senza suggerire una gerarchia), mentre nei primi musei archeologici le
collezioni erano organizzate per nuclei tematici (raggruppando ritratti, statue di divinità...), criterio
recentemente adottato nell’ordinamento della Tate Modern di Londra, dove erano stati individuati
quattro temi-guida che guidavano il percorso (ordinamento modificato poi nel 2006).
Le linee più frequentemente seguite nell’ordinare una collezione sono successione cronologica e
raggruppamenti per scuole o ambiti stilistici, in quanto meglio comprensibili da parte del pubblico.
Nei musei nei quali convivono diverse collezioni si ha in genere una divisione per settori (mobili,
ceramiche, avori... dettata anche dalle diverse esigenze conservative degli oggetti) mentre nelle
period rooms si ha il dialogo tra materiali diversi.
Un ruolo importante è quello svolto dai depositi, luoghi deputati alla conservazione di opere meno
note o di attribuzione incerta. In genere sono visitabili in giorni particolari ma facilmente accessibili
agli studiosi che ne facciano richiesta.
Nel 1951 l’ICOM precisava che l’esposizione ha come scopo l’educazione e il diletto, mentre in
una successiva definizione (1974) si ha un’ulteriore apertura verso la società: il museo “comunica e
presenta, con il fine di accrescere la conoscenza, la salvaguardia e lo sviluppo del patrimonio,
dell’educazione e della cultura, le testimonianza della natura e dell’uomo”. Una delle funzioni
basilari del museo è quindi comunicare.
In Italia la funzione didattica del museo fu riconosciuta solo negli anni ’50 quando, all’indomani
della riapertura di Brera, la soprintendente Fernanda Wittgens diede avvio ad una serie di nuove
attività rivolte alle scuole, agli insegnanti, ai circoli ricreativi. Brera veniva aperta anche la sera e le
visite del museo erano guidate da assistenti universitari o dalla stessa direttrice; tali iniziative
inedite furono presto imitate da altri musei, ma fu in particolare con la legge Ronchey che i musei
furono messi nelle condizioni di offrire costantemente al pubblico il supporto delle visite guidate,
inserite tra i servizi aggiuntivi.
Mentre le scolaresche e i turisti sono una presenza fissa nel museo, è più difficile fidelizzare il
pubblico locale. La strategia messa in atto da molti musei è quella di organizzare mostre che
presentano nuove acquisizioni, opere conservati nei depositi, importanti restauri...
La frequenza con la quale i musei sono sollecitati a prestare le proprie opere e l’organizzazione
delle stesse mostre ha reso necessaria la figura professionale del registrar, che affianca i curatori
scientifici e i responsabili della conservazione nelle procedure che regolano la concessione di un
prestito. La figura del registrar ha ispirato i Principi di Londra, linee guida fissate nel ’95 ed
aggiornate nel 2001 che disciplinano I prestiti di opere d’arte tra istituzioni, standardizzando le
procedure che riguardano i diritti del prestatore (es. ritirare le opere se non sono rispettate le
condizioni pattuite), gli obblighi dell’organizzatore (es. garantire idonee condizioni di
conservazione e di sicurezza, stipulare una polizza assicurativa) e i documenti necessari per ottenere
l'autorizzazione al prestito, concessa dal Ministero. Per autorizzare uno spostamento vanno
considerati lo stato di conservazione dell’opera e anche l’effetto di una sua temporanea assenza dal
museo.

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