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PER UN DIWAN DELLA PORTATRICE D'ACQUA (diwãn: canzoniere)

"Addormentata, io sono l'addormentata e mi portano via, chi mi porta via?"

corpo pesante steso in orizzontale dentro il furgone che fischia e traccia la propria scia attraverso la
città bassa. Sibilo del respiro che cerca di partire dal ventre...
L'ombelico come un occhio riaperto, il palmo delle mani rivolto al cielo, la destra inturbantata di
bianco, ancora più enorme di una pala da fornaio; la sinistra rimpicciolita dalle nervature, dalle
rughe che hanno il colore della henna vecchia, mano designata ora sostituta massaggiatrice delle
bagnanti che gemono sotto le volte umide.
Stillicidio delle parole evaporate - miasma dopo miasma, sotto quelle stesse pietre d'ombra - che
fluttua nei corridoi liquidi. Parole liberate che seguono il mio corpo di vecchia scultrice,
trasformandomi in un solco all'interno dell'ambulanza che affonda. Parole come accordi elettrici,
come urli provenienti dall'harem, parole trasparenti di echi, di vapori...

"Addormentata, io sono l'addormentata e il mio corpo viene portato via... "

... Ogni invocazione al Profeta o alle sue vedove si fa di piombo...


Le parole sole, parole preistoriche, parole informi di un bianco abbagliante, le parole non
opprimono più, mentre queste mani, quella bianca e l'altra arrossata, scivolano ritmicamente
assecondando gli sforzi delle bagnanti fedeli; l'evanescenza delle parole potrebbe illuminare il
fischio continuo dell'ambulanza, cammella regale, che affonda per me, senza curarsi delle
arterie cittadine in salita fra le falesie delle scalinate che ancora ieri scendevo, velata di lana
logora...
Da ora in poi così, nuda, andrò librandomi in cerchio e non sarò mummia, ma sovrana, imperatrice
orizzontale dal gesto che rischia di essere mozzato, gesto di offerta, per adesso. Così la mia sola
navigazione si svolgerà nel mare del trionfo: le navi laggiù nella rada sono i miei testimoni
immobili, perché io, donna, circolo liberamente.
Tutte le voci del passato mi seguono con la musica di un canto dissonante, di urla rotte.
Sono parole comunque estranee, dette da un coro di voci diverse che attraversa la città durante la
sua metamorfosi di mezzogiorno...

"Io sono -sono? -sono la svelata... "

Nel profondo; geologia di parole perdute; parole-feto inghiottite per sempre, elitre nere che si
apriranno in volo, che si sveglieranno per scheggiarmi nel momento in cui non porterò, mai più, una
maschera sul viso all'esterno, né bidoni sulla testa all'interno; è finita!
quelle parole sono annegate, sprofondate negli strati del dolore, divenute una seconda voce senza
tonalità né vibrato:

"Io sono -sono? -sono l'Esclusa... "

Le parole formicolano dagli abissi, riemergendo nel corpo orizzontale che viene avanti, mentre
l'ambulanza si apre la strada: meandri di viuzze s'incurvano fra i balconi dove bambini pietrificati
spalancano gli occhi... Barche da acquerello, mare che sbarra eternamente il passo e adesso le alture
della città sulle quali avanza in silenzio l'ombra color malva: l'ospedale è ancora lontano? la
chirurga si prepara finalmente, da sola, a tapparsi la bocca di tessuto bianco?...
Il fascio di mormorii si annoda, il cumulo di borborigmi si forma fra il ventre e il petto scavato... Le
strofe sfilacciate si raggruppano.
Dove segnare i contorni della lingua esalata dalle donne arabe, i singhiozzi lunghi, ininterrotti,
interni, che colano come un accompagnamento triste, come perdite sanguinolente di un rinnovato

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ciclo mestruale, come ricordi spalancati di un harem i cui giannizzeri sono stati decapitati, le cui
mura di calce oscillano sotto la spinta di suoni nuovi, di parole lacerate tutt'intorno a me, portatrice
d'acqua che creo il mio spazio nuovo...
Voce incerta che soffre e soffia per la rabbia di doversi cercare:

"Sono io - io? - che hanno esclusa, colei sulla quale è stato posto il divieto Sono io -io? - colei che
hanno umiliata Io colei che hanno ingabbiata Io colei che hanno cercato di piegare ponendomi le
mani sulla testa, per farmi sprofondare giù fino allo strato del male dalla faccia di scimmia, io fra i
marmi della disgrazia sorda, io fra le rocce del silenzio velato di bianco..."

e l'acqua a getti inesauribili, l'acqua ha continuato per tutto questo tempo a sfrenarsi in cascate, seta
di fremiti brucianti, secchi neri sulla spalla che traboccano fuori dal buco fumante.

"Io, sono io colei che hanno voluto soffocare e ghermire fin dal buco di fuoco, colei che hanno
creduto di marchiare, lasciandole sulla pelle cicatrici spalancate, io, sono io?... "

Con uno stridore di freni appena accennato, l'autista infermiere fa scivolare l'ambulanza all'interno
dell'edificio dell'ospedale costruito nella parte alta della città. Il fischio, interrotto per un momento,
riprende nella stanza della tortura attorno al mio corpo addormentato che viene sottoposto ad
anestesia totale: lamine, punzoni, coltelli si urtano... Momenti che precedono l'operazione.
La salmodia dell'intervallo si sviluppa infine seguendo il ritmo dei preparativi, sotto gli occhi dalle
ciglia lunghe ed annerite dall'antimonio della chirurga, che ha un velo sulla parte inferiore del viso.

"Io ero colei che pretendevano di dare in sposa nell'aurora del mondo... "

* Oltre il limite si stendeva il mio Sahara. I miei genitori ricordavano di essere stati nomadi e io
potevo correre scalza sulla duna... Le stanze sapevano di letame, la mia capra - avevo una capra
bianca - tendeva il collo verso l'azzurro... Questa era la fattoria paterna che
credevo opulenta.
Mio padre vestito da legionario; ricordo la sua uniforme, il panno rosso del suo vestito contro il
quale strofinavo le guance, quando lui mi stringeva fra le ginocchia...
Tremavo... Veniva di quando in quando... Mia madre era morta dandomi alla luce; le mie zie, l'una
stretta all'altra come chicchi d'uva, soffocavano zampilli di risa quando mio padre arrivava e gli
venivo presentata con addosso abiti da donna; allora abbassavo gli occhi e andavo a nascondermi
contro il pantalone scarlatto a sbuffo...
In occasione di una licenza, mio padre venne con un altro soldato: le zie tacevano. Stavano per
portarmi via, come una sposa al principio del mondo... per essere data al figlio di quell'estraneo,
dicevano. Il padre l'aveva deciso. Le zie piangevano, dicevano che il padre non avrebbe mai osato,
se la nonna fosse stata viva...
A tredici anni fui truccata, mi depilarono le sopracciglia, le ascelle e il pube, mi attaccarono delle
pagliuzze lucenti sulla fronte e mi comprarono un paio di babbucce ricamate. Il mio cuore batteva
per il mio primo viaggio; io, la sposa dell'inizio...
Il calesse andava verso nord,

"Addormentata, io ero l'addormentata e mi portano via, chi..."

il calesse correva: sconosciute cariche di veli neri mi tastavano con le loro dita arrossate
dall'eccesso di henna, mi palpavano i seni, le spalle, il ventre. Poi, ululando di gioia, lanciavano le
loro grida cristalline, mentre salivo verso gli altipiani del Nord. Grida gutturali emesse in serie
intermittenti ora da una, ora da un'altra (quattro, erano quattro sorelle), quel grido mi raggelava,
faceva sprofondare dentro di me l'infanzia, le corse sulla duna, le cascate di risa...

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"Io ero, ero colei che viene data in sposa nell'aurora del mondo... Portatrice, portatrice d'acqua,
alla fine, dentro buchi fumanti di vapori... "

A tredici anni ero grande per la mia età, avevo splendidi capelli neri lunghi fino alle reni, gli occhi
scuriti dall'antimonio, le palme delle mani rosse di henna. A tredici anni avevo i seni grandi già da
un anno o due, il mio cuore batteva per il mio primo viaggio: speranza, poi timore, poi... Tutt'a un
tratto nero - e oggi cinquanta, sessanta anni, non so più la mia età - il nero del tempo: sulle mie
spalle di tredicenne un bidone di acqua troppo calda messo dal destino. Da quel momento ho
sempre avuto cinquanta, sessant'anni che importa? -e sempre le bagnanti che entrano ed escono,
sempre i bambini che gridano nella foschia della stufa; l'acqua non cessa di gocciolare sulla pietra,
l'acqua che pesa come bronzo nero sulle mie spalle e poi i massaggi e...

"Portatrice, voglio l'acqua... acqua bollente!... Portatrice, portatrice d'acqua..."

Dietro di me, il nero e il fumo del buco... Quanta miseria in quella fattoria al termine del mio primo
viaggio! I bambini per terra con il ventre gonfio, con le mosche negli occhi; neppure una lampada
nelle stanze con il pavimento in terra battuta, solo qualche anfora fissata al suolo a ingombrare il
passaggio... Le donne avevano espressioni da vecchie, i seni fuori per allattare i figli che
succhiavano con ostinazione le mammelle vuote; i pochi uomini se ne stavano seduti tutto il giorno,
lo sguardo febbrile: intorno alla fattoria, distese di pietre e, più in basso, una pianura verde e ricca di
cui si erano impadroniti i Francesi, tempo addietro, dopo essersi presentati con gli uomini di legge e
i gendarmi...
Scesa dal calesse, mi aveva accolta il padrone di casa: portava lo stesso cinturone di mio padre e mi
osservava con occhi lucidi, come se venissi per lui... Quella stessa notte incontrai lo sposo, un
adolescente che con le mani tastava il mio corpo freddo. L'indomani, l'astio delle altre donne:
«Lavora! Facci vedere quello che sai fare, principessa!»... e, poco dopo: «Tu, venduta da tuo padre
per due bottiglie di birra in una città di presidio!». Finita, da quell'insulto seppi che era finita!
Ancora due o tre mesi di miseria.
La seconda voce si rimette a cantare, dissonante, spezzata, con un singulto:

"Io - sono davvero io? - mi hanno voluto fare sprofondare, hanno preteso di tuffarmi a testa in giù
dentro la crosta nerastra del male dalla faccia di scimmia... "

Alla fine, la corsa. Una notte scappai, senza velo, con una veste rossa; dentro di me queste parole:
"Correre avanti, sempre avanti!". Non esisteva più né sud né nord, ma solo uno spazio e la notte,
lunga notte della mia vita che cominciava. Non più bambini nudi dal ventre gonfio, non più cognate
a tastarmi ogni mattina: «Quando si deciderà a restare incinta questa?».
Io sola nella notte opaca, abitata da queste semplici parole: "Andarsene... correre adesso... avanti...
davanti a me!". Talvolta le parole, come lische, vi si fermano in gola, vi dilaniano il petto... Le
parole lacerano, è vero, le parole lacerano...
Correre; corro di notte. Nero. Correre lungo la strada, fare in fretta, più in fretta, ancora più in fretta,
più veloce dell'antilope del mio deserto perduto!
All'alba apparve una piccola città. In un mercato i vecchi stavano chiacchierando in un angolo, con
il tè fumante e il suo odore di menta... «Se solo mi fossi messa un burnus per sembrare unragazzo!...
Gironzolare per le strade, essere gli altri... gente, vera gente...»
Un bisbiglio di donna, i suoi occhi soli nel viso mascherato: «Che ci fai lì, figlia mia?». Un'ora dopo
avevo un rifugio, no, un posto di lavoro: due anni passati a tessere tappeti di giorno e a servire una
signora di notte... Per finire, ancora la strada, la fuga, ma non a piedi stavolta, non di notte. Fui
consegnata a un altro uomo al termine del viaggio, nella capitale. Mi trovo in una casa, con un
certificato. Ho dei clienti. Cinque anni, dieci anni, il tempo passa...

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Festeggiamenti per l'Indipendenza: case aperte, strade invase dalla gioia, esco, mi credo libera, poi
il mio viso riflesso da una vetrina... "Vecchia, sono vecchia e ho fame!".
Uno o due anni prima, viene a nascondersi nella Casbah in rivolta un contadino.
Parla: è del mio duar e conosce la tale tribù abitante la tale frazione... Mi si gela il cuore:
«Conosci Amar, il legionario? Aveva una grande fattoria... è passato molto tempo... E stato messo a
riposo dopo avere... Ho lavorato da loro», mentii, «... facevo la serva».
«È stato uno dei primi collaborazionisti che hanno ammazzato, proprio all'inizio della guerra...
L'hanno trovato sgozzato in un fosso... Dopo la vendita della fattoria, i suoi si sono dati al
vagabondaggio...»
«Grazie, fratello», dissi e rifiutai di andare a letto con lui; un'altra mi sostituì per amicizia...
Poi la padrona dell'hammam, il calore della stanza calda, la stufa, i bidoni... Un bidone, un cliente...
a che serve contarli? Di nuovo la solita solfa, fuori del bordello, fuori dell'hammam... Ieri per strada
cantava la speranza e a me veniva soltanto da piangere:

"Io sono - chi sono? - sono l'esclusa..."


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Concentrata davanti al corpo disteso di Fatma, la chirurga è in piena azione; Anne è immobile in
sala di attesa. Nello stesso momento, Sarah si trova davanti al letto di Leila che delira. La cantante
ebrea del microsolco ha smesso di modulare il suo lamento degli anni Trenta...

PER UN DIWÀN DELLE PORTATRICI DI FUOCO

«L'hanno proclamato ai quattro venti che ero stata torturata... Lo sai anche tu che cos'è l'elettricità!»
Leila proseguì e Sarah, con le dita strette convulsamente sulla sponda metallica del letto, Sarah
nello stesso tempo ricordava.
«Dove siete voi che portavate le bombe? Hanno formato un corteo e nelle mani hanno le granate
che si schiudono in fiamme, illuminando i loro volti di bagliori verdastri...
Dove siete voi che portavate il fuoco, sorelle mie, voi che avreste dovuto liberare la città... I fili
spinati non ostruiscono più i vicoli, ma decorano le finestre, i balconi, tutte le uscite verso lo spazio
aperto...
«Nelle strade fotografavano i vostri corpi svestiti, le vostre braccia vendicatrici tese davanti ai carri
armati... Si soffriva per le vostre gambe squartate dagli stupri dei militari. Così vi evocavano nei
loro diwãn lirici i poeti consacrati: i vostri occhi stralunati, i vostri corpi sfruttati a piccoli,
piccolissimi pezzi...
«Le patronesse sono tornate alle loro collezioni di gioielli... I turchi e i berberi. Collane e pendenti
per le vostre teste recise, cinture di castità, argento e corallo incastonato per coloro che sono state
isolate dentro le prigioni. In ogni giornata trionfante della donna bisognerebbe girare un film fatto
solo di primissimi piani: ecco vediamo delle dita tinte di henna, delle mani che in genere
appartengono a madri tenute al sicuro (il viso in fiamme, bruciato cuocendo il pane); poi vediamo le
stesse dita senza henna, ma con le unghie smaltate, mentre portano bombe come fossero arance.
Tutti i corpi che sono stati considerati "altrui", esplodono; le carni nemiche si lacerano. E quelle che
poi sono rimaste, per così dire, vive, superando le prigioni di ferro e poi le sbarre della memoria e
poi...» (Leila piange) «e poi superando, come me, i deliri febbrili (perché ho la febbre, Sarah, lo
sai? avrò sempre la febbre), sono davvero rimaste vive?
Le bombe esplodono ancora... ma quando abbiamo vent'anni circa e contro i nostri stessi occhi: noi,
infatti, non possiamo più vedere fuori; tutto quello che possiamo vedere sono gli sguardi osceni che
esplodono come bombe contro il nostro ventre e io sono», urlò, «io sono il ventre di tutte le donne
sterili!»

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